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Anno accademico: _______ BIOCHIMICA

Dispensa Corso di Biotecnologie

Proprietario/a: _____________________________
UNIVERSITÀ DI FERRARA
Biochimica
Introduzione:
La biochimica descrivere in termini molecolari le strutture, i meccanismi, i processi chimici
che sono alla base della vita di ogni singola cellula e che determinano le funzioni dei
tessuti e degli organi dei sistemi viventi. Descrive cioè la logica molecolare della vita.

I sistemi viventi sono costituiti da Biomolecole.

Unità vivente più semplice à Cellula (unità strutturale e funzionale di tutti gli organismi
viventi).

Tutto quello che vediamo in Biochimica (proteine, etc.) deriva dall’informazione genetica
contenuta nel DNA. Quando noi parliamo di Biotecnologie parliamo di proteine prodotte da
DNA modificato che vengono fatte produrre in procarioti (se semplici) o in eucarioti (se più
complesse). Perciò un biochimico non sintetizza artificialmente una proteina.

Importante à Contesto in cui ci si trova: una macromolecola presa singolarmente sarà


diversa da quando si trova in circolo, in ambiente acido, basico, etc.

Importante à Relazione tra struttura e funzione di una biomolecola (se cambia anche solo
un amminoacido possono insorgere diverse patologie). Ci possono essere proteine
disfunzionali o proteine con cambiamenti in amminoacidi importanti per la conformazione,
quest’ultimi vengono degradati all’interno della cellula.

Domanda: Perché consumiamo ossigeno? Perché per produrre energia (ATP) dobbiamo
ossidare i combustibili (molecole organiche quali zuccheri, lipidi, proteine).
Noi quindi consumiamo l’ossigeno perché esso è l’accettore finale degli elettroni che
vengono estratti durante le vie cataboliche grazie all’ossidazione degli acidi grassi, del
glucosio, etc.

Ci occuperemo principalmente di eucarioti, quindi è importante il concetto di


compartimentalizzazione, perché molti meccanismi di regolazione si basano sulla
compartimentalizzazione. Avere compartimenti separati per le varie vie di sintesi anaboliche o di
degradazione cataboliche ci permette di regolarle in maniera fine.
Nella Cellula: piccole molecole, macromolecole e complessi macromolecolari sono continuamente
sintetizzati e demoliti in reazioni chimiche in modo da mantenere un equilibrio dinamico.

Le proteine sono gli “attori principali” della biochimica.

Ci sono tanti modi per regolare le reazioni e tanti modi per regolare i processi; uno di
questi è quello di confinare processi diversi in compartimenti diversi:
compartimentalizzazione dei processi.

La biochimica usa fondamentalmente solo quattro tipi di elementi: C, N, O e H


(99% del numero totale di atomi delle macromolecole che considereremo).
Altri elementi abbondanti: Na, K e Ca (i sali sono importantissimi a livello extracellulare
per mantenere la differenza di potenziale di membrana), P, S, Cl.
Ci sono però anche molti altri elementi presenti in tracce: Mg (presente nel sito attivo
della DNA-pol), V, Cr, Mn, Fe (presente nell’emoglobina o nella mioglobina per legare
l’ossigeno e legarlo in maniera reversibile), Co, Ni, Cu, Zn, Se, Mo, I.

La chimica degli esseri viventi è incentrata sul carbonio, C, perché è


estremamente flessibile: può dare origine a legami singoli, doppi o anche tripli e quindi
può dare origine a molecole organiche molto diverse ed estremamente flessibili (ad
esempio: le proteine possono cambiare la loro conformazione ruotando sul piano dei
legami singoli):
• Carbonio può avere fino a 4 sostituenti distinti (tetraedrici)
• Carbonio legato ad altro carbonio attraverso legame singolo (può ruotare) o
attraverso doppio legame (non può ruotare)
• La differente disposizione dei sostituenti attorno al doppio (ma anche al singolo)
legame ha delle ripercussioni importanti sulla struttura della molecola e sulle
interazioni che si producono per dare origine alle strutture tridimensionali di
queste molecole.

Nelle biomolecole sono i diversi gruppi funzionali che ne conferiscono le


caratteristiche ed il ruolo funzionale.

Forza dei legami: è un elemento importantissimo e dipende dalla lunghezza del


legame (inversamente proporzionale)
• Legami covalenti: forti e stabili e difficilmente si rompono spontaneamente
(bisogno di enzimi) (circa 200 KJ di forza)
• Legami non-covalenti: Stragrande maggioranza di legami con cui avremo a
che fare. Possono rompersi e formarsi in condizioni fisiologiche.
§ Mediano le interazioni tra macromolecole (proteina-proteina, proteina-
DNA, enzima-substrato, etc…)
§ Mediano interazioni all’interno della stessa molecola determinandone
struttura tridimensionale e la funzione
§ Legame idrogeno (12-30KJ/mol 10 volte più debole), ma importante
perché in ambiente acquoso (sono numerosissimi) (H con F,N,O)
§Interazioni di van der Waals (0,4-4 KJ/mol) (tra atomi non polari), più
deboli dei legami idrogeno e danno stabilità
§ Legame idrofobico (1-40 KJ/mol) (gli amminoacidi idrofobici staranno
nella parte interna delle proteine nella loro struttura terziaria, nell’
“hydrophobic core”, mentre gli amminoacidi idrofilici staranno all’esterno)
§ Legami a idrogeno, idrofobici e di Wan der Waals sono tanto più forti e
stabili, quanti più legami sono presenti (Concetto di cooperatività: il
singolo legame è debole, ma più legami deboli creano legami forti nella
totalità)
• Legame ionico (20 KJ/mol)

Le biomolecole hanno una direzionalità o “senso”.


Hanno una struttura specifica (denaturazione: perdita della struttura)
La complementarità strutturale determina le interazioni tra biomolecole.

Importanza della stereochimica: La stereochimica è molto importante nella


biochimica, soprattutto dal punto di vista degli enzimi che sono molto specifici e
interagiscono con specifici enantiomeri. Le interazioni tra molecole sono
stereospecifiche!
Differenza tra configurazione e conformazione:
• Configurazione: strutture in cui non si può ruotare liberamente intorno al
legame (doppio) se non attraverso la rottura del legame stesso (configurazione
cis-trans à isomeri)
§ Conversione che necessita di rottura di legame covalente
§ Spesso sono gli enzimi a convertire le configurazioni
• Conformazione: strutture che possono cambiare conformazione senza
cambiamenti sostanziali di energia (presenza di legami singoli)
§ Conversione che non necessita di rottura del legame covalente
§ Due conformeri possono mutare l’uno nell’altro anche solo per
cambiamento minimo di “calore termico”, non sono mai fermi e
cristallizzati nella stessa conformazione
§ A prevalere sarà quello più stabile (di solito la struttura in trans per
minimizzare ingombro sterico o repulsione cariche elettriche) ! Esempio:
acido maleico (cis) e acido fumarico (trans) hanno formula bruta identica,
ma sono diversi, a seconda che siano in cis o in trans hanno
caratteristiche diverse.
Gli enzimi spesso possono catalizzare reazioni che coinvolgono uno stereoisomero. Gli
enzimi sono stereospecifici.

Ambiente acquoso:
Tutto quello che deriva dai ragionamenti della biochimica non può prescindere dal fatto
che ci troviamo in ambiente acquoso (nella cellula).

L’ambiente acquoso si porta dietro 3 concetti:


1) Idrofilicità delle molecole che consideriamo e capacità di formare legami
idrogeno o meno
2) Osmosi
3) Concetto pH (acidità/basicità)
1) L’H2O come solvente polare:
Il ripiegamento delle proteine deriva proprio da questo ragionamento (collasso
idrofobico della proteina):
• Si ripiegano per esporre all’esterno i gruppi polari, tenendo all’interno quelli
idrofobici
L’acqua tende a formare legami a idrogeno e a solvatare la molecola. Ecco perché si
sono generate le micelle e le membrane delle cellule (doppio strato di fosfolipidi)!
Ogni biomolecola è perciò sempre circondata da H2O che poi verrà spostata quando si
lega con un substrato (un’altra proteina, etc.):
• Un esempio è l’emoglobina che non è “nuda” ma è sempre ricoperta da
molecole d’acqua.

2) L’importanza dell’acqua è anche per il principio di osmolarità, che influenza le


interazioni fra le molecole all’interno della cellula e fuori di essa.
• La cellula ha acqua sia fuori che dentro, la membrana è semipermeabile !
l’acqua può passare da dentro a fuori (viceversa) grazie a dei canali, le
acquaporine, a seconda dell"osmosi (da soluzione meno concentrata a più
concentrata)
• Osmosi è importante perché un aumento, in maniera spropositata, della
concentrazione di soluti all’interno della cellula rispetto all’esterno, porta l"acqua
a entrare, a gonfiare la cellula e a farla scoppiare ! EMOLISI.
• Perciò la cellula e i suoi meccanismi sono fatti in maniera tale da ridurre al
minimo lo stress osmotico per le nostre cellule.

3) Infine, è importante il pH (-log [H+]) che varia a seconda dei compartimenti in base
alla loro funzione (importanza delle soluzioni tampone). Ad esempio gli enzimi
funzionano solo con determinati pH.

Quindi, dentro e fuori dalla cellula, ci devono essere dei meccanismi tampone che
neutralizzino le sostanze acide o basiche prodotte durante il metabolismo
• Soluzione tampone: combinazione di un acido debole e la sua base coniugata
o viceversa. Le soluzioni tampone hanno un range tamponante entro il quale
funzionano (pKa).

Sistemi tampone fisiologici:


Dentro la cellula il sistema tampone fisiologico ha pKa intorno a 6.86, è presente
H3PO4, un acido triprotico, che ha funzione di tampone (specificatamente H2PO4- che
dà origine a HPO4(2-) e quindi ad una soluzione tampone che si avvicina al pH
fisiologico).
A livello del sangue, invece, abbiamo una grande concentrazione di bicarbonato che si
forma a seguito del metabolismo della CO2 in H2CO3 che si dissocia in HCO3- (ione
bicarbonato) e poi abbiamo un’ulteriore dissociazione di HCO3- che diventa CO3(2-),
ma nessuno dei due tampona a 7, perché allora questo sistema dovrebbe tamponare?
Perché, a differenza del tampone fosfato all’interno della cellula che ha una quantità più
o meno fissa, il tampone bicarbonato non ha una quantità fissa ma cambia a seconda
della respirazione, per evitare situazioni di alcalosi (aumento OH-) e di acidosi
(aumento H+) nell’organismo (equilibrio dinamico che spiega l’apparente
disallineamento tra il confronto tra il tampone fosfato e quello carbonato).
• Nei tessuti, grazie al catabolismo, la CO2 viene messa in circolo
• Una parte si lega all’emoglobina
• Un’altra parte diventa H2CO3, la quale si dissocia in H+ e HCO3-
• A livello polmonare succede l’inverso
• Perciò il pH sarà intorno a 7,4.
Amminoacidi, peptidi e proteine
Le proteine permeano tutte le funzioni dentro la cellula → tutti i processi di modificazione
delle macromolecole vengono svolte da catalizzatori che sono le proteine, infatti il genoma
contiene geni che codificano per delle proteine, le quali si preoccuperanno di prendere
altre componenti organiche (da noi ingerite) e processarle per costruire membrane,
nucleotidi, etc. Non c’è nessun gene che codifica per uno zucchero o un lipide.

Funzioni delle proteine: - enzimi, - di trasporto (in generale à Esempio:


trasporto Ossigeno (proteina globina nell’emoglobina degli eritrociti e nella
mioglobina nel muscolo) (ma anche quelle proteine che compongono alcune
lipoproteine)), - di riserva, - contrattili (miosina, actina), - di difesa (anticorpi),
- regolatrici (regolano funzione degli enzimi), - strutturali (collagene).

Amminoacidi à sono le unità monomeriche che costituiscono le proteine, sono 20


(aminoacidi proteici), in quanto 20 sono quelli codificati dal codice genetico, hanno tutti
una struttura comune e sono asimmetrici (tema degli stereoisomeri).
Gli aminoacidi hanno una ionizzazione che dipende dal pH a cui si trovano e questo fa sì
che essi siano protonati, deprotonati o zwitterioni, ovvero nella loro forma neutra. A pH
fisiologico gli amminoacidi si trovano, normalmente, sotto forma di zwitterioni.
Si trovano perciò comunemente sotto forma di Zwitterione, ovvero di sale neutro, anche
se può variare a seconda della catena laterale e del pH in cui si trova.
• “Amminoacido”: si chiama così perché c’è un gruppo amminico (NH3+), il quale a
pH fisiologico è sempre protonato, e un gruppo acido (gruppo carbossilico, di solito
deprotonato, COO-)
o È una molecola che ha due componenti con carica opposta
La dicotomia tra carica e non carica, ovvero
l’essere NH2 (invece di NH3+) o COOH (invece di
COO-), sarà importante perché il bilancio tra
cariche positive e negative renderà conto della
carica complessiva della molecola, della proteina
specifica:
• Dipenderà dalla composizione degli
amminoacidi e dal pH in cui la proteina è
collocata
o Variazioni di pH rendono conto di
differenti stati di ionizzazione degli
amminoacidi, la quale influenza i
legami all’interno della proteina.

Quando il pH cala aumenta la concentrazione


degli ioni H+, quindi i gruppi tendono a protonarsi,
in particolare il gruppo carbossilico, e si ottiene
una carica complessiva positiva.
Al contrario con l’aumento del pH si ha una
diminuzione degli ioni H+, quindi i gruppi tendono
a deprotonarsi, in particolare il gruppo NH3+ per
arrivare ad avere una carica complessiva
dell’amminoacido negativa.
Questo però non considera la catena
laterale, la quale, in alcuni specifici
amminoacidi, può contribuire alla
ionizzazione e alla sua carica complessiva
(COOH si deprotona sempre per primo).

Punto isoelettrico di un amminoacido: è il pH al quale la carica complessiva è neutra


(somma delle cariche uguale a zero)

Struttura generale degli amminoacidi:


Gli amminoacidi hanno, in linea generale, un
centro chirale (il carbonio alfa) da cui si
dipartono 4 legami:
• Uno è sempre il gruppo carbossilico
• L’altro è un gruppo N-amminico
• Il terzo è un idrogeno
• Mentre il quarto viene chiamato R, o
side chain (catena laterale)
o Può avere delle caratteristiche
diverse, le quali distinguono un
amminoacido da un altro e
rendono conto della sua
struttura biochimica (es:
potremmo avere una catena
laterale idrocarburica, polare, aromatica, cariche positivamente o
negativamente).

Un aminoacido preso da solo si comporta in un modo, quando quello stesso aminoacido lo


ritroviamo in una proteina questo interagisce con altri aminoacidi e quindi ha un
comportamento diverso (relazione tra struttura e funzione delle molecole).

Quando due amminoacidi sono all’interno di una proteina,


essi sono uniti dal legame peptidico, legame che avviene
tra il gruppo amminico di un amminoacido con il gruppo
carbossilico dell’altro → a questo punto i due gruppi non
contribuiscono più alla ionizzazione della molecola
complessiva
• In una proteina complessiva, a contribuire alla carica
non sono più i gruppi amminici e carbossilici, che col
legame peptidico perdono la loro caratteristica di
essere ionizzati, ma le catene laterali.

Gli amminoacidi possono avere due tipi di configurazioni che non sono intercambiabili tra
loro, a meno che non si rompa un legame covalente e se ne riformi un altro (in altre
molecole ci sono enzimi che possono farlo).
Gli amminoacidi, avendo un centro chirale, possono polarizzare la luce in due modi.
Gli amminoacidi vengono classificati secondo Fischer in due stereoisomeri (in biochimica
sono importanti gli aminoacidi di classe L sia nell’uomo che negli animali).
• Amminoacidi che hanno il gruppo amminico a destra sono detti stereoisomeri della
classe D; quando invece il gruppo è a sinistra sono della classe L
• 99.9% degli amminoacidi in natura appartengono alla classe L
o Eccezione: nella parete di alcuni batteri.
Classificazione degli amminoacidi
La catena laterale (R) differenzia i 20 aminoacidi e li distingue fra loro. Abbiamo quindi
una classificazione degli aminoacidi che si basa sulla struttura e sulle caratteristiche di
polarità o di carica della catena laterale:
1) Amminoacidi con catena laterale semplice,
idrocarburica e quindi alifatica e idrofobica / non
polare, in quanto non presentano cariche e non sono
polari (es.: glicina, molto piccola e chiave della
struttura del collagene perché può stare in spazi
molto piccoli, ha come catena laterale un solo
idrogeno e perciò non è chirale; alanina, anch’essa
molto semplice; valina; leucina; isoleucina;
metionina). Di questa categoria è importante la prolina, che non
ha una catena laterale libera, ma presenta una catena ciclica
che conferisce rigidità alla struttura in quanto non ha più la
possibilità di ruotare intorno ai legami. Questo determina due
diversi orientamenti della prolina in cis o in trans che non sono
interconvertibili se non mediante rottura di legami. Questo
aspetto è così importante che all’interno del nostro organismo
sono presenti enzimi in grado di interconvertire un isomero della
prolina nell’altro, chiamati PPI (Peptidil-Prolin-Isomerasi) →
famiglia delle isomerasi (famiglia grande di proteine in grado di
convertire un isomero configurazionale in un altro).

2) Amminoacidi aromatici con catena laterale aromatica. Esempi sono la fenilalanina


(con gruppo feline), la tirosina e il triptofano. Presentano un grande ingombro sterico e
sono fondamentalmente idrofobici, per questo li troviamo all’interno nel core delle
proteine e non all’esterno. Una caratteristica importante dei gruppi aromatici è che
delocalizzano gli elettroni, formando strutture di risonanza, e quindi riescono ad
assorbire la luce ultravioletta (specialmente il triptofano) (hanno un picco di
assorbimento a circa 280nm), il che ci permette di poter misurare la concentrazione di
una proteina pura attraverso la relazione di Lambert-Beer. Da qui deriva la tecnica
della SPETTROGRAFIA (epsilon è il coefficiente di estinzione molare, che è specifico
per ogni proteina).
o Spettrofotometro è uno strumento dotato di lampada che può emettere luce
ad una precisa lunghezza d’onda, e va a
misurare l’intensità della luce che incide
sulla cuvetta; in mezzo tra luce e cuvetta
c’è la soluzione acquosa con la sostanza
di cui si vogliono misurare le proprietà →
lo spettrometro bombarda, con fasci di
luce, la soluzione (cuvette sono di quarzo
per evitare un’interferenza della parete) e
va a misurare l’intensità della luce che
passa dall’altra parte, va a misurare
l’ASSORBANZA (quanto ha assorbito la
luce).
Legge di Lambert-Beer:
Questa legge afferma che l’assorbanza è uguale a:
𝐴 = 𝜀 ∙ 𝑏 ∙ 𝑐, dove
• B è il cammino ottico, ovvero tanto più larga è la
regione che la luce deve attraversare, tanto più
l’assorbimento sarà elevato
• C è la concentrazione della proteina che si sta
misurando (è la variabile)
• 𝜀 è il coefficiente di estinzione molare, quindi
dice quanto una proteina assorbe ad una certa
concentrazione (molarità) → è un valore fisso.

3) Amminoacidi polari con gruppo -OH, con una catena laterale non carica ma polare e
quindi capace di formare legami idrogeno con l’ambiente acquoso e che quindi si trovano
all’esterno della proteina. L’ossigeno può, inoltre, andare incontro a fosforilazione e a
reazioni di attacchi nucleofili. Esempi sono la serina
e la treonina.
• La serina può andare incontro a fosforilazione
(ad opera delle chinasi, le quali aggiungono) e
defosforilazione (ad opera delle fosfatasi, le
quali tolgono)
• La serina fosforilata ha un gruppo fosfato

4) Amminoacidi polari con gruppo -SH (es.: cisteina), con catena laterale non carica ma
polare. Negli eucarioti, in ambienti riducenti (citosol) la cisteina rimane nella sua forma
libera con il gruppo SH capace di formare legami idrogeno; in ambienti ossidanti (ER,
Golgi, organelli e ambiente extracellulare), invece, la cisteina genera ponti disolfuro,
legami covalenti (quindi legami forti!) che la rendono più stabile. Nella maggioranza dei
procarioti le cisteine in genere non
ingaggiano ponti disulfuro. Questi
ponti possono essere intramolecolari
(nella stessa proteina) o
intermolecolari (tra proteine diverse).
Non a caso le proteine presentano
un numero pari di cisteine, poiché
queste si appaiano in ambiente
ossidante! Esiste una famiglia di
isomerasi che sono capaci di
riarrangiare i ponti disolfuro, chiamate
PDI (“Protein disulphyte isomerase”),
per evitare che si generino legami
covalenti tra cisteine che intaccano
nel folding finale della proteina →
PDI rompe i ponti di solfuro illegittimi.
Ponti disolfuro à fondamentali per il “folding” delle proteine.

5) Amminoacidi acidi e loro ammidi, con catene cariche:


- negativamente (acidi): acido aspartico, acido glutammico à generano reazioni di
tipo elettrostatico (ionico)
- non cariche (ammidi): asparagina e glutammina, varianti non cariche ma polari
(come amminoacidi polari) dell’acido aspartico e glutammico, capaci di formare
legami idrogeno.
NB: il biochimico, per gli amminoacidi non usa i nomi interi, ma usa dei codici:
aspartico è asp, glutammico è glu. I biochimici esperti utilizzano persino la “one letter
code” (chiaramente questo vale per ogni amminoacido, non solo quelli acidi).

6) Amminoacidi basici, che sono carichi positivamente (il gruppo amminico NH3+),
hanno catena laterale che può essere protonata. Esempi sono la lisina, l’arginina e
l’istidina. Importante è l’istidina, che presenta nella catena laterale un anello
eterociclico chiamato “imidazolico” (la catena laterale si chiama gruppo
imidazolico), che ha la possibilità di
protonarsi o deprotonarsi in maniera
reversibile (lo vedremo nel sito attivo
degli enzimi, perché l’istidina sarà
cruciale per le catalisi acido-base in cui
c’è scambio di protoni). Perciò non è
carico positivamente ma è estremamente
flessibile come atteggiamento di acido-
base e può accogliere un protone e
diventare carico positivamente oppure,
una volta accolto un H+, può ricederlo al
substrato (importante comportamento
nelle catalisi).

Ricapitolando:

Modificazioni post-traduzionali
Gli amminoacidi sono 20, tuttavia nelle proteine
troveremo questi amminoacidi che verranno
modificati post-traduzione.
Nel ribosoma, la proteina sintetizzata si
conforma → gli amminoacidi possono andare
incontro, dopo la traduzione (a livello del RE ma
anche extra cellulare), a modificazioni post-
traduzionali, dove possono essere modificati
covalentemente e quindi acquisire proprietà che
non avevano originariamente.
Ci possono essere delle acetilazioni reversibili (una acetil transferasi che acetila e una
deacetilasi che tira via), o metilazioni (una metil transferasi che aggiunge e una
deametilasi che tira via)

Chaperoni à assistono il “folding” (ripiegamento) delle proteine e all’interno di queste ci


sono enzimi chiamati peptidil-prolil-isomerasi (isomerasi delle proline)
• In grado di convertire le proline dalla conformazione in cis- alla conformazione in trans-
Altra famiglia è quella delle isomerasi dei ponti di sulfuro (PDI)
• Si preoccupa di riarrangiare i ponti di solfuro
A determinare la formazione del ponte di solfuro è l’ambiente ossidante
• Se proteina entra in ambiente ossidante forma ponte di solfuro
• Se risiede in un compartimento con membrane che regolano il passaggio di sostanze,
se è una proteina citosolica, l’ambiente è riducente e quindi non può formarsi il ponte
di solfuro

Tra gli aminoacidi si forma il LEGAME PEPTIDICO à reazione di condensazione (con perdità
di una molecola d’acqua) tra il -COOH di un amminoacido e il gruppo -NH2 dell’amminoacido
seguente.

Il legame peptidico, dal punto di vista termodinamico, tende a idrolizzarsi, ma è talmente lenta
questa reazione che non ha importanza dal punto di vista biologico.
L’idrolisi, in natura, è catalizzata da una famiglia di enzimi (specifici per i vari legami) chiamati
proteasi (portano alla rottura del legame peptidico).

La reazione di formazione del legame peptidico in natura non si genera chimicamente, in


maniera spontanea, quindi come fa ad avvenire la sintesi proteica? Questo perché la sintesi
peptidica non avviene tra due aminoacidi
semplici, ma tra aminoacidi legati al t-RNA
(amminoacido legato con il gruppo carbossilico)
nei ribosomi.
La reazione di attacco nucleofilo avviene perché,
a seguito del legame, si rompe il legame con il t-
RNA il che genera l’energia necessaria perché
avvenga la reazione, rendendo il gruppo uscente
un buon gruppo uscente a seguito della
destabilizzazione della molecola. Questo avviene all’interno di un “sito peptidil-
transferasico” del ribosoma.

Il legame peptidico ha una lunghezza di 1,32 Angstrom, molto più simile al doppio legame
tra C e O (1,24 Angstrom) che a un legame covalente singolo (circa 1,51 Angstrom).
Questo perché il legame peptidico ha le
caratteristiche di un parziale doppio
legame, in quanto è un ibrido di risonanza in
cui gli elettroni sono delocalizzati. Questo fa
sì che il legame peptidico non può ruotare,
quindi la disposizione degli atomi intorno al
legame peptidico è fissa e planare (il legame peptidico è planare) e l’ossigeno e
l’idrogeno sono disposti, rispetto al legame peptidico, in posizione trans.
Questo si riflette sulla conformazione della
proteina, che nella maggior parte delle
volte è globulare, ma quindi quali legami
ruotano? I legami covalenti Cα1-C e N-Cα2
(chiamati rispettivamente psi e fi) che
permettono al peptide di assumere la
configurazione tridimensionale della
proteina.
Quindi la proteina può avere infiniti
conformeri grazie alla libera rotazione di
psi e fi? No, perché c’è un limite al numero
di conformazioni permesso a causa
dell’ingombro sterico dato dalle catene
laterali. Altro motivo sono le cariche, se ci
sono catene laterali di amminoacidi con la
stessa carica sarà quasi impossibile metterli vicini perché si respingono à Perciò
l’interazione tra gruppi funzionali e le catene laterali limita di gran lunga il numero di
conformazioni permesse.
Quindi ci saranno sequenze amminoacidiche che tendono ad assumere una
conformazione di un tipo e altre sequenze, con posizioni diverse degli amminoacidi e, in
virtù delle loro caratteristiche biochimiche, tenderanno ad assumere conformazioni
diverse. Ecco perché, se per esempio vengono prodotte 100 o 1000 proteine identiche
(es: l’albumina nel fegato) tutte vengono sintetizzate con la stessa sequenza
amminoacidica e alla fine del percorso, con qualche insidia, raggiungeranno un’unica
conformazione nativa identica e avranno la medesima funzione.

Ramachandran (famoso biochimico) à ha studiato come, a seconda degli amminoacidi


che sono vicini, in virtù di quelle costrizioni dettate dall’ingombro sterico o dalle repulsioni
o attrazioni elettrostatiche, quelli amminoacidi non potevano avere infinite possibili
conformazioni, ma avevano la maniera di disporsi in una maniera “predicibile”.

Una proteina non si trova sempre nella


stessa conformazione, ma, in base a vari
cambi di condizioni, come il pH, la
temperatura, etc, andrà incontro a cambi di
conformazione. Inoltre, alla sua formazione
nei ribosomi, una proteina subirà il processo
di “folding” e si ripiegherà nella sua
conformazione nativa (la conformazione che
troviamo in natura e che spiega la funzione di
quella particolare molecola).
In genere, tutte le reazioni o cambi
conformazionali, vanno verso una
diminuzione dell’energia libera e quindi
verso un aumento della stabilità. Ogni
volta che ΔG è negativo, significa che si va
verso uno stato di maggiore stabilità dei
prodotti. Invece le reazioni con aumento
dell’energia libera non avvengono
spontaneamente, ma avremo bisogno di
“escamotage”, di reazioni intermedie per
bypassare questo problema. Qui stiamo
parlando di termodinamica e spontaneità,
che non ha nulla a che vedere con la
velocità del processo.

Alle estremità di una catena di amminoacidi, il primo amminoacido, o l’ultimo, presenta il


gruppo amminico, mentre l’altro il gruppo carbossilico libero.
Quando si scrive una proteina bisogna capire quale amminoacido è quello che ha il
gruppo N-terminale libero, da quello che ha il C-terminale libero:
• Per convenzione, il biochimico legge sempre le sequenze amminoacidiche
partendo dall’ N-terminale (da Sx verso Dx, quindi da N-terminale a C-terminale)
o Questo perché, andando a vedere la sintesi proteica catalizzata dal
ribosoma, mentre legge la sequenza nucleotidica, nel canale di uscita il
primo amminoacido ad uscire è quello che ha N-terminale e quando la
sintesi finisce esce il C-terminale à Giusta direzionalità della sintesi
proteica.

Struttura tridimensionale delle proteine:


(per capire meglio si può usare il programma di modellistica proteica “RASMOL”)

1) struttura primaria à definita da una sequenza genica e consiste nella sequenza


amminoacidica di cui è composta la proteina. La sequenza della proteina viene letta
a partire dall’estremità ammino-terminale all’estremità carbossi-terminale

2) struttura secondaria à è l’organizzazione che la proteina assume a livello locale, è


costituita dall’orientamento di corte regioni proteiche che possono essere ad alfa-elica
o beta-foglietto, ci sono delle regioni che formano delle anse (loop di superficie),
inoltre ci sono regioni apparentemente “non classificabili” chiamate random coil

3) struttura terziaria à è la struttura tridimensionale complessiva, costituita dalle


interazioni delle strutture secondarie

4) struttura quaternaria à si ha quando più


proteine formano un complesso. Tipica delle
proteine complesse formate da più subunità
unite tra loro (non è presente nelle proteine
monomeriche). Una proteina a struttura
quaternaria, perciò, è formata da due o più
subunità (una singola molecola proteica che
si assembla con altre molecole proteiche con
interazioni più o meno forti per formare una
proteina multimerica o oligomerica).
Le proteine sono molecole molto grandi costituite da una o più catene polipeptidiche.
Ogni catena ha una caratteristica composizione di amminoacidi.
Possono contenere gruppi chimici diversi dagli amminoacidi (gruppo prostetico):
lipoproteine, glicoproteine, metalloproteine.

Struttura primaria
La struttura primaria è definita geneticamente e consiste nella sequenza
amminoacidica (dall’estremità ammino-terminale a quella carbossi-terminale).

Struttura secondaria
La struttura secondaria è costituita dall’orientamento di corte regioni proteiche che possono
essere classificate in alfa-elica o beta-foglietto (organizzazione locale della proteina).
La struttura terziaria deriva dalle interazioni tra le strutture secondarie presenti nella
proteina.

Caratteristiche fondamentali delle strutture secondarie:

α-elica: regione della proteina che si dispone con i suoi


amminoacidi con un andamento elicoidale attorno ad un asse
immaginario. Ha delle caratteristiche costanti in ogni tipo di
proteina (es: dimensioni numeriche), in caso contrario
parleremmo di un altro tipo di elica.

Tutte le alfa-eliche hanno un andamento destrorso (regola


della mano destra).

I legami che rendono stabile la struttura ad alfa-elica


sono i tanti legami a idrogeno che si formano tra l’H
legato all’N del legame peptidico e l’O carbonilico
quattro amminoacidi più a valle à è perciò una
conformazione tenuta assieme da legami deboli ma
che, in grandi quantità, rendono conto della sua
grande stabilità a pH e temperatura fisiologici.

Tornando perciò al concetto di caratteristiche periodiche dell’alfa elica, essa ha una determinata
dimensione costante. Questo determina il cosiddetto “passo dell’elica” à ovvero la distanza che c’è
tra un atomo di carbonio e il prossimo che, dopo un giro completo, si trova nella stessa posizione
(circa 5,4 Angstrom o 3,6 residui), ovvero tutte le alfa-eliche instaurano legami a idrogeno nello
stesso modo.

Tutte le alfa-eliche hanno le catene laterali degli amminoacidi rivolte all’esterno.

L’alfa-elica è una delle strutture secondarie più abbondanti nelle proteine (più di ¼
di tutte le strutture)!
Nei testi si trovano spesso dipinte come una struttura a cilindro.
Le alfa-eliche sono molto abbondanti (c’è solo lei praticamente) nelle proteine
fibrose (quelle allungate) à es: Cheratina dei filamenti intermedi, dei capelli, delle
unghie e delle corna.
Ciascuno dei 20 amminoacidi mostra una specifica propensione, o meno, per
assumere conformazione in alfa-elica:
• Ala, Glu, Leu, Met: buoni iniziatori di alfa-eliche
• Gly, Tyr, Ser: deboli iniziatori di alfa-eliche à La glicina: l’idrogeno della
sua semplice catena laterale non è polare, carico, etc; sono fattori che
danno molta flessibilità alla glicina. L’alfa-elica, però, essendo una struttura
ben definita, non accetta la glicina perché la destabilizzerebbe troppo.
• Pro: impossibile la formazione del legame a H con il gruppo CO à la
prolina si adatta bene nel primo giro dell’alfa-elica, mentre, a causa della
sua rigidità, se si trova in qualunque altra posizione nell’elica di solito
produce una significativa distorsione dell’asse dell’elica dalla linearità (circa
25°).
A una estremità dell’alfa elica ci sarà la regione carbossi-terminale (negativa) e
all’altra la regione ammino-terminale (positiva). Ciò porta l’alfa elica ad essere una
specie di dipolo con parziale carica negativa a un’estremità e parziale carica
positiva all’altra.

Tutte le alfa-eliche sono composte dalla stessa sequenza di amminoacidi? NO,


non necessariamente, anzi, molto spesso sono diverse à perciò, sequenze tra di
loro molto diverse, in termini di composizione amminoacidica e di come si
susseguono nella sequenza primaria, possono dare origine ad un’alfa-elica.

β-foglietto: i fogli o “sheets” sono determinati da corte sequenze


amminoacidiche, non necessariamente contigue sulla sequenza
primaria (possono essere molto lontane), di una stessa proteina
che si appaiano insieme con legami a idrogeno che si instaurano
tra il C=O di un legame peptidico e l’NH del legame peptidico della
catena con cui è legato (perciò abbiamo una rete di legami a
idrogeno tra tutti gli atomi del legame peptidico).
Anche in questo caso, perciò, la struttura è tenuta assieme da una
fitta rete di legami a idrogeno.

Le catene laterali si dipartono sopra e sotto il foglietto e possono


ingaggiare interazioni con altre parti della proteina per poi
contribuire alla stabilità della struttura terziaria.
Proteine con solo questo tipo di struttura sono inestensibili (es.: la
seta, se la tiri si stacca).

Se due sequenze del foglietto, quando si legano tramite legami a


idrogeno, mantengono lo stesso orientamento (ammino-terminale
à carbossi-terminale) il foglietto si dice parallelo.
Se, invece, la seconda sequenza è invertita rispetto alla prima, si
dice antiparallelo.

Da ricordare: Il beta-foglietto è formato da più filamenti, ovvero catene peptidiche più o


meno lunghe (può coinvolgere decine di amminoacidi) che, interagiscono con altre corte
sequenze peptidiche della stessa proteina (interazioni intra-molecolari) e sono tenute
assieme da questo network di legami a idrogeno con le catene laterali sopra e sotto.
Ripiegamenti β: Le regioni dove la catena si
inverte possono essere corte o molto lunghe (loop,
etc.). Con ripiegamento intendiamo regioni corte
che invertono il verso della catena. Il ripiegamento
beta, in genere, è un ripiegamento che coinvolge
quattro amminoacidi. In numerosi casi, questi
ripiegamenti beta coinvolgono, proprio per la sua
natura, una prolina, che è molto rigida e determina
l’inversione del ripiegamento.

Random coil (loop): regioni non categorizzabili come alfa-elica, beta-foglietto o


ripiegamento beta, ma sono delle organizzazioni che sono peculiari per questo fattore e
che non ritroviamo in altre proteine. Anche se si chiamano “random”, il ripiegamento NON
È CASUALE! (es: in mille molecole di albumina la regione random coil sarà sempre la
stessa perché è la sua conformazione più stabile) Il ripiegamento è semplicemente non
categorizzabile nelle strutture secondarie analizzate fino ad ora. In ogni caso sono regioni
sempre identiche in proteine uguali (nella loro forma nativa), sennò le stesse proteine
avrebbero funzioni diverse.

Loop di superficie: La struttura della maggior parte delle proteine risulta dalla
combinazione di elementi ad alfa-elica ed elementi a beta-foglietto. Questi elementi sono
collegati da regioni LOOP (a forma di ansa) di
lunghezza variabile e forma irregolare. In queste
anse i gruppi CO e NH non fanno legami
idrogeno.
Sono strutture che sono coinvolte nei
cambiamenti conformazionali quando questa
proteina interagisce con altri partners/proteine.
I loop sono esposti al solvente e presentano residui polari.
I loop rappresentano spesso siti di legame, ad esempio, ENZIMI-SITO ATTIVO
ANTICORPI (6 regioni a loop).

Struttura terziaria (folding delle proteine)


La struttura terziaria è la struttura complessiva della proteina che si conforma nello spazio
(la struttura tridimensionale).
Definisce la disposizione spaziale di tutti gli atomi della proteina.
Amminoacidi localizzati in regioni anche lontane e parte di strutture secondarie diverse
possono interagire e causare avvolgimenti della proteina su sé stessa.
La struttura terziaria non è rigida; gode di una certa flessibilità che permette modificazioni
conformazionali [a temperatura ambiente (attorno ai singoli legami o rotazione delle
catene laterali)]. Queste modificazioni sono spesso associate alla loro funzione biologica
[es: fosforilazione, taglio proteolitico, oppure un ligando può causare un cambio
conformazionale (adattamento indotto)].

La struttura terziaria della proteina è tenuta insieme da interazioni a breve raggio (tra
amminoacidi vicini), medio o a lungo raggio, tra i vari amminoacidi di una proteina.
Le interazioni sono, nella maggior parte dei casi,
interazioni deboli:
1) Possiamo trovare ponti disulfuro (legami
covalenti tra due atomi di S di due
amminoacidi di cisteina) à non sempre li
troviamo (dipende da dov’è stata generata la
proteina):
o in ambiente riducente (citosol cellule
eucariotiche) le cisteine tendono a
stare da sole
o in ambiente ossidante (RE, Golgi o
proteine secrete) troviamo ponti
disulfuro
2) Legami idrogeno
3) Ponti salini
4) Interazioni idrofobiche (interazioni di van der
Waals, importantissime, nel “core” idrofobico
della proteina à determinano una grande stabilità della struttura terziaria tridimensionale)

Come già detto, l’acqua influenza molto il ripiegamento delle proteine:


• fuori le molecole sono solvatate
(ricoperte da molecole di H2O che
ingaggiano legami idrogeno)
• I residui idrofobici sono all’interno
• Residui polari possono essere sia
dentro che fuori (quando sono fuori
ingaggiano l’interazione con H2O)
• All’esterno ci sono tutti gli amminoacidi
idrofilici, che rendono la conformazione
stabile (a basso contenuto di energia
libera G) e fanno in modo che questa
sia la conformazione nativa.

La struttura terziaria può essere di diversa natura à nella maggior parte delle proteine da noi
considerate è globulare (enzimi, trasportatori, immunoglobuline, etc.). Un esempio è la
mioglobina, un trasportatore dell’ossigeno presente a livello dei miociti (cellule muscolari).

Le proteine, molto spesso, possono contenere al loro interno delle strutture non proteiche
chiamate “gruppi prostetici”. Il gruppo prostetico agisce assieme alla proteina stessa in questo
complesso per conferire proprietà che la proteina altrimenti non avrebbe. Ad esempio, sempre
nella mioglobina, è presente il gruppo eme (in rosso nella figura precedente).

All’interno della struttura terziaria possiamo avere delle sottoclassificazioni, possiamo


parlare di:
• Motivi strutturali o strutture supersecondarie à in
molte proteine o famiglie di proteine, se andiamo ad
osservare l’interno, possiamo identificare delle
organizzazioni tra più elementi di struttura secondaria,
che ritroviamo in numerosi membri di quella famiglia o
anche in proteine con caratteristiche molto diverse. Ad
esempio possiamo trovare in una proteina la struttura
“elica-giro-elica”; questa organizzazione locale di più
strutture secondarie viene chiamato motivo strutturale o
struttura supersecondaria (es: fattori trascrizionali à “Zinc
fingers”, etc.). Ci sono strutture supersecondarie semplici (solo 3 strutture secondarie)
o più complesse (es: barile β).
• Domini proteici à nella stessa proteina
(una solo struttura primaria, una secondaria
e una terziaria) sono presenti regioni che
hanno funzioni diverse, derivate
dall’evoluzione per avere nella stessa
proteina funzioni diverse sinergiche tra loro
(es.: attivatori trascrizionali “TF” à da una
parte il dominio di attivazione e dall’altra il
dominio che si lega al DNA). Queste due
unità possono lavorare anche
separatamente se divise.
Un altro esempio: serin-proteasi della
coagulazione (composta da più domini funzionali)

Folding delle proteine:


Assunzione delle proteine della loro conformazione
nativa (minor contenuto di energia libera, più stabile).

Come è possibile?
1) esistono agenti che “aiutano” la proteina?
2) è già scritta nella sequenza primaria?
Questo lo chiarisco mediante un processo chimico chiamato di “denaturazione delle proteine”;
una volta denaturate mi chiedo: ritroveranno il folding nativo o no?
Esponendo una proteina nella sua struttura nativa a particolari agenti chimici o fisici detti
DENATURANTI la struttura terziaria/quaternaria della proteina viene scompaginata con
conseguente perdita della funzione (in laboratorio è spesso presente l’esigenza di denaturare
la proteina mediante la rottura delle interazioni della struttura terziaria e spesso si usa una
combinazione di agenti riducenti):
- agenti fisici denaturanti (calore, congelamento) à sono più intuitivi
- agenti chimici denaturanti [valori estremi di pH (interagiscono con lo stato di ionizzazione),
agenti denaturanti (come l’urea che interferisce con le interazioni idrofobiche), agenti
riducenti come il β-mercaptoetanolo (il ponte di solfuro, che si genera tra due cisteine in un
ambiente ossidante, lo si rompe ponendo la proteina in un ambiente fortemente riducente).
La proteina così assume una struttura random che non ha più alcuna funzione.
La denaturazione della proteina è descritta dalla CURVA
DI DENATURAZIONE, una curva con andamento
“sigmoidale”, questo perché all’inizio la proteina rimane
fortemente foldata fino ad un certo punto quando la
proteina si denatura istantaneamente. Questo ci dice che
c’è un processo COOPERATIVO, ovvero migliaia e
migliaia di legami/interazioni deboli riescono a tenere ben
salda la struttura nonostante l’agente denaturante per un
bel po’ di tempo (es: a piccole temperature). Questo capita
anche quando si cerca di denaturare il DNA.
Ad un certo punto, però, con sufficiente denaturante,
quando diversi legami sono stati rotti, si raggiunge una
soglia e la struttura generale non regge più e si apre
completamente (ecco perché l’andamento non è lineare).
Se l’agente denaturante è il calore, la temperatura alla
quale la specifica proteina si denatura al 50% si chiama
“temperatura di fusione (Tm)” della proteina. Esistono
proteine più stabili o meno stabili (con Tm più alte o
basse). Questo ha molto a che vedere con le nicchie
evolutive (proteine dei batteri ipertermofili sono più
resistenti al calore di proteine umane).
Esperimento di Anfinsen: se metto la proteina foldata in un agente denaturante, questa
si denatura.
Una volta denaturata, se tolgo l’agente denaturante (processo di “rinaturazione”), la
proteina si rifolda o no? Anfinsen denaturò con urea e β-Mercaptoetanolo la Ribonucleasi
(una proteina piccola con poco più di 100 aa) e scoprì che, una volta denaturata e tolti gli
agenti denaturanti, la proteina riusciva a rinaturarsi/rifoldarsi e a riprendere la sua
funzione.
Inoltre, questo esperimento fu condotto in una provetta, quindi non era presente nient’altro
oltre alla proteina.
Questo ci dice che la proteina, nella sua sequenza amminoacidica, possiede le
informazioni che le permettono di rifoldarsi correttamente à è un processo
spontaneo (in acqua). Questa è la teoria di Anfinsen.
Chiaramente le cose diventano più complesse quando si tratta di proteine più
grandi.

Questo folding come avviene?


Immagino che la proteina esplori tutte le possibili conformazioni intorno a fi e psi. È possibile? No,
perché impiegherebbe troppo tempo per assumere il folding nativo corretto.

Il folding, perciò, non può essere un processo casuale, ma


deve essere guidato da una forza. Infatti, esso è guidato da
due principali forze (imbuto di energia libera del folding à
meno energia libera c’è più il numero di conformeri si riduce):

1) COLLASSO IDROFOBICO à interazioni idrofobiche che


portano la proteina denaturata a portare gli amminoacidi
idrofobici all’interno/nel core e quelli idrofilici all’esterno

2) FORMAZIONE DI ABBOZZI DI STRUTTURE


SECONDARIE/“FRAMEWORK”à corte regioni
amminoacidiche, quelle che hanno la propensione a
formare le alfa-eliche, fin dall’inizio producono abbozzi di
strutture secondarie.

Attraverso questi due meccanismi, la proteina riesce a raggiungere la conformazione nativa


in un tempo molto più stretto ed esplorando una serie di conformeri molto minore, che non
sono infiniti.
Quindi il folding non è altro che un meccanismo che comprende il coinvolgimento di due
forze: abbozzi di strutture secondarie (alfa-elica) e il collasso idrofobico (struttura
terziaria).
Esistono proteine dove a guidare di più è il “framework”, altre dove a guidare di più è il
collasso idrofobico, ma in tutti i casi è una commistione di questi due meccanismi. Alla
fine, questi due processi convergono per dare origine alla proteina nativa. Perciò, la
struttura secondaria e terziaria, tendono a formarsi in maniera simultanea in questo
processo sinergico.
Non tutte le proteine (ca. 30-33%), però, in questo processo di folding riescono a
raggiungere la conformazione nativa, ma possono anche prendere la strada per una
conformazione che fa perdere loro la loro funzione (vicoli ciechi).
Una proteina non foldata correttamente ha massicce regioni esterne idrofobiche. Le
proteine non foldate bene, in ambiente acquoso, tendono a formare tra loro dei polimeri
attraverso interazioni idrofobiche [questo causa patologie, soprattutto di tipo
neurodegenerativo (Alzheimer, Parkinson,etc.) (sistema nervoso centrale) –
proteine/fibrille amiloidi a livello neuronale]. Queste proteine perciò dovranno essere
degradate.
Il protein folding, perciò, è un processo molto importante e delicato di “prova e errore”
à di solito funziona correttamente ma ci sono anche casi dove si raggiunge stati di
transizione (vicoli ciechi) che impediscono alla proteina di raggiungere il suo stato
nativo.

L’imbuto di energia libera però presuppone che le proteine comincino a foldarsi quando sono
state completamente formate, ma, poiché la formazione delle proteine nei ribosomi è
sequenziale e lenta, queste cominciano a foldarsi quando una parte deve essere ancora
sintetizzata e questo è un problema per il folding intracellulare:
• Possono formare ponti disulfuro illegittimi, interazioni inopportune, etc.
• le proteine, nell’ambiente intracellullare, non sono da sole (“Macromolecular
crowding”). Mentre esse si stanno foldando possono venire a contatto con altre proteine
con cui possono formare polimeri e che impediscono il raggiungimento dello stato
nativo.
Questo problema viene risolto grazie al fatto che dentro la cellula, in cui il folding è molto più
difficile, intervengono i “chaperoni” (famiglia di macromolecole che sono gli assistenti del
folding e assicurano il controllo di qualità delle proteine) à essi assistono il folding,
prevengono l’accumulo delle proteine non foldate dentro la cellula e guidano le proteine non
foldate (nonostante l’aiuto degli chaperoni) ad essere degradate a livello del proteasoma.
Alcuni chaperoni che già conosciamo sono le “ossido-riduttasi” per i ponti disulfuro oppure le
“isomerasi delle proline”, oltre a tutta una famiglia (es: HSP70, HSP90) che si preoccupa di
prevenire l’aggregazione tra proteine, aiutare il folding delle proteine e fare il “quality control”
(guidare proteine alla degradazione se necessario).

Struttura quaternaria
Riguarda proteine costituite da due subunità o più catene polipeptidiche (subunità).
Le subunità possono essere uguali (omopolimeri, omodimeri, omotrimeri, etc.) o distinte
(eteropolimeri, etc.) e si associano tra loro con legami non-covalenti.
L’associazione di catene polipeptidiche può servire a diversi scopi:
• subunità regolatrici
• subunità con funzioni diverse ma correlate

Esistono due sottotipi:


Ø Proteine globulari
o Le proteine globulari sono proteine costituite da varie e complesse strutture
secondarie, nelle quali le catene polipeptidiche tendono ad avvolgersi su se
stesse. Queste proteine assumono pertanto una forma globulare o sferica, e
sono generalmente solubili in acqua, a differenza delle proteine fibrose e di
membrana. Enzimi, proteine di trasporto, proteine regolatrici, immunoglobuline,
proteine motrici, fattori di trascrizione, gli ormoni e molte altre sono proteine
globulari.
§ Esempio: l’emoglobina, che è un eterotetramero, ovvero è formata da due
dimeri alfa e due beta tenuti insieme da legami non covalenti capaci di
legare quattro molecole di ossigeno.
Ø Proteine fibrose: forma allungata nello spazio, hanno un ruolo strutturale e sono
insolubili in acqua.
o Le proteine fibrose sono proteine costituite da catene polipeptidiche disposte in
fasci o foglietti, costituite per lo più da un solo tipo di struttura secondaria.
Queste proteine hanno funzioni fondamentalmente strutturali e costituiscono
strutture di sostegno e di protezione all'interno o all'esterno della cellula, in
genere resistenti all'attacco di enzimi proteolitici.
§ Alcuni esempi di proteine fibrose sono l'α-cheratina, il collagene, l'elastina
e la fibroina della seta.

PROTEINE FIBROSE:
• CHERATINA
È composta da un’unica proteina che si chiama alfa-cheratina,
la quale è un omopolimero (subunità identiche), in cui le
strutture terziarie di ciascuna subunità hanno una sola
conformazione, una sola struttura, dove struttura terziaria e
secondaria coincidono, ovvero sono due alfa-eliche.
• Alfa-cheratina à monomero è una proteina allungata
tutta alfa-elica e destrorsa
Nella struttura dell’alfa-cheratina, l’unità elementare è
l’omodimero, in cui due alfa-eliche si avvolgono l’una all’altra a
formare un’unica alfa-elica (omodimero) con andamento
sinistrorso.
Più di queste strutture omodimeriche si uniscono a formare i protofilamenti e la protofibrilla (la
struttura del capello, la quale è formata da tantissime di queste strutture).
Tra le alfa-eliche ci sono tantissime interazioni idrofobriche à alle interfacce, tra due alfa-
eliche, ci sono dei residui di amminoacidi idrofobici
• Interazioni idrofobiche sono accompagnate dalla presenza di interazioni ioniche
All’interno di queste strutture ci inoltre sono numerose cisteine che ingaggiano tra loro ponti di
solfuro, i quali danno stabilità e rigidità.
La rigidità differente di capelli, unghie e corno di rinoceronte formate da protofilamenti di alfa-
cheratina è data dalla presenza di più o meno ponti di solfuro (fino a 18% nel corno).
• Esempio: quando si va dal parrucchiere per fare la piega: per cambiare la forma del
capello (da liscio a riccio) il parrucchiere deve modificare l’assetto dei ponti disolfuro, lo
fa utilizzando un riducente, così che questo riduca e rompa i ponti di solfuro, in seguito
si dà la forma e si rimuove il riducente per far formare i nuovi ponti disulfuro tra cisteine
adiacenti (e per un po’ si mantiene la forma data).

• COLLAGENO
È il componente essenziale del tessuto connettivo, insieme a elastina, fibrillina e proteoglicani.
• Tutti prodotti da fibroblasti, condroblasti osteoblasti
• Proteina molto abbondante (fino al 25% del peso in un mammifero)
o è parte integrante dei tendini, dei legamenti, del derma, cartillagine, osso,
matrice extracellulare, membrane basali, cornea e cristallino, etc.
• Filogeneticamente molto antico: già presente nei Poriferi (600 milioni di anni fa)
• Ci sono tanti geni (almeno 18) che codificano per il collagene, per questo possiamo
averne almeno di 10 tipi diversi.
o I quali si distinguono per composizione amminoacidica e per caratteristiche di
resistenza meccanica à dal punto di vista generale hanno tutti struttura simile
(molto complessa à ci sono numerose malattie genetiche che derivano da difetti
di un solo gene)
• Insolita composizione aa: 30% Gly, 20% Pro e OH-Pro (basso valore nutrizionale)
• Un terzo di tutti gli amminoacidi è composto da glicina.
In linea generale, il collagene è un eterotrimero,
ovvero la struttura più elementare del collagene è
composta da tre proteine distinte codificate da tre
geni diversi che, prese singolarmente, hanno un
andamento elicoidale sinistrorso (non sono alfa-
eliche). Queste tre proteine si arrotolano una
attorno all’altra per formare il procollagene (unità
elementare del collagene) in maniera destrorsa.
Queste unità funzionali si uniscono le une alle
altre per formare la fibrilla del collagene.
La glicina è presente sempre ogni tre amminoacidi
nella sequenza amminoacidica (tre residui amminoacidici per passo/giro dell’elica). Questo è
importante perché occorre che le catene si avvicinino
molto e la glicina non occupa spazio e quindi favorisce la
formazione dell’eterotrimero (procollagene).
• Struttura primaria generale di una singola catena
(circa 103 residui): Gly-X-Y (circa 100 residui X
sono Proline/Lisine e 100 residui Y sono
idrossiproline-idrossilisine)
• La sequenza più rappresentata nei collageni è
Glicina-prolina-idrossiprolina

Le fibrille sono tenute insieme da legami non


covalenti/idrofobici ma anche covalenti (chiamati legami
crociati, importanti e particolari, tra lisina e idrossilisina).
L’idrossiprolina è molto importante perché forma legami a
idrogeno (possiede un OH in più della prolina). Questo
non esiste in natura, ma è un esempio di modificazione
post-traduzionale (operato dalla prolina-4-idrossilasi a livello del Golgi, un enzima. Questo
enzima non ce la fa a catalizzare da solo la reazione, ma ha bisogno di uno specifico
cofattore: la vitamina C o acido ascorbico).
• Mancanza di vitamina C porta a una instabilità del collagene che porta allo scorbuto
(malattia dei marinai).

Tutte le volte che le glicine sono mutate geneticamente si incorre in diversi difetti (essere
molto flessibili) o malattie (come l’osteogenesi imperfetta).

• FIBROINA DELLA SETA


È composta solo da beta-foglietti (non elicoidali e perciò già allungati) e per questo non è
estensibile (se tiri la seta, questa si spezza).

Gli anticorpi:
gli anticorpi sono detti anche immunoglobuline, sono dei complessi proteici prodotti dai linfociti
B, plasmacellule, i quali fin dalla nascita producono immunoglobuline. Le immunoglobuline
sono in grado di riconoscere specifici antigeni e riconoscendoli guidano l’agente infettivo ad
essere riconosciuto da altri linfociti, inclusi i macrofagi, i quali riconoscendo il complesso
ricoperto da immunoglobuline, fagocitano e distruggono il complesso.
Ci sono molti tipi di immunoglobuline, le più abbondanti sono le IgG, poi ci sono altri tipi (GE,
GM …)
• Le IgG sono costituite da una struttura terziaria
composta da più catene, due catene pesanti e
due leggere (è un eterotetramero) à si
dispone nello spazio in una struttura
quaternaria che assomiglia ad una Y
o C’è una regione costante che accomuna
le IgG
o C’è una regione variabile che è il sito di
legame con l’antigene
• Quindi un anticorpo può legare, con le due
estremità della Y, due unità
L’antigene è quella molecola, in genere una proteina, che viene riconosciuta da un
determinato anticorpo, tuttavia l’anticorpo riconosce solo specifiche regioni di quella proteina
• Regioni specifiche dell’antigene si chiamano epitopi
L’interazione tra anticorpo ed antigene è tenuta insieme da interazioni deboli, non ci sono
legami covalenti, ma l’interazione è fortissima e specifica (anticorpo disegnato per riconoscere
solo un epitopo e l’affinità con l’antigene è altissima)
• l’affinità di una proteina per un’altra (o di un anticorpo per l’antigene) viene misurata
con un parametro chiamato costante di dissociazione
Costante di dissociazione (Kd): è il rapporto tra il prodotto
delle specie dissociate (al numeratore) e la concentrazione
del complesso
• Tanto più A e B interagiscono in maniera forte (grande
affinità), tanto più tendono ad unirsi, tanto più sarà il
valore di AB e quindi tanti più piccola sarà la frazione in
cui sono dissociati
In altre parole, la Kd è inversamente proporzionale alla affinità
tra i due interattori (più è piccola la Kd, più sono affini A e B)
Nel caso degli anticorpi, questa costante di affinità si aggira intorno a 10-10 M e quindi è uno
dei legami più forti e una delle interazioni più specifiche in natura (questo fatto viene utilizzato
per molte vie sperimentali in biochimica e biologia molecolare).

Differenza tra anticorpi monoclonali e policlonali:


quando si deve comprare un anticorpo, esempio l’anticorpo per l’albumina umana ti dicono la
specie animale in cui è stato prodotto, es. Rabbit, e poi scrivono anti-human albumin, ovvero ti
dicono che l’anticorpo è una IgG diretta contro l’albumina umana ed è stata prodotta nel
coniglio. A questo punto si prende l’albumina
umana, o una parte, si inietta in un organismo
non-umano (es: coniglio), il quale produce
anticorpi contro, che poi vengono isolati.
Se io inietto una proteina, la quale ha più
regioni, in un animale, questo produce anticorpi
diretti contro la proteina à produce una
popolazione di anticorpi eterogenea, ovvero
produce IgG specifiche per ogni regione à
anticorpi policlonali (modo più grezzo ma più
facile)
Se isolo una popolazione di linfociti B, una
popolazione omogenea, un clone di linfociti B, i
quali producono un solo tipo di IgG à anticorpi monoclonali (sistema più pulito).
Le proteine hanno conformazione flessibile, che dipende dallo stato in cui le proteine si
trovano (libere, legate, pH ecc …) à le proteine possono interagire con un partner e adattarsi
all’interazione, avvengono cambi conformazionali che permettono un migliore adattamento à
concetto di adattamento indotto

Funzioni biologiche delle proteine


Proteine di trasporto (emoglobina e mioglobina) à in particolare proteine che
legano l’ossigeno: come?
• L’ossigeno è poco solubile in acqua
• la diffusione attraverso i tessuti è limitata (pochi mm):
o Organismi di piccolissime dimensioni e molto sottili possono sfruttare la
diffusione dell’ossigeno (no sangue e trasporto)
o Negli organismi di maggiore dimensione, al di là dell’epidermide e dei pochi
millimetri esterni in cui l’ossigeno può diffondere, senza il sangue e il trasporto,
tutti i tessuti andrebbero in anossia, quindi sarebbe un problema incompatibile
con la vita
• nessun amminoacido può legare reversibilmente l’ossigeno.

Se il compito di trasportare l’ossigeno fosse affidato al sangue senza l’emoglobina, essendo


l’ossigeno poco solubile in acqua, sarebbe difficilmente trasportabile in soluzione ai tessuti.
Il problema può essere risolto da altre molecole che legano l’ossigeno, ma questo legame
deve essere reversibile, lega l’ossigeno nei polmoni e poi reversibilmente lo cede ai tessuti
(nessun amminoacido può legare reversibilmente l’ossigeno) à Questo ruolo viene svolto da
metalli di transizione (Fe e Cu) à legame transiente, ovvero reversibile

Infatti, all’interno dell’emoglobina e della mioglobina è presente il Fe, legato alla proteina (la
reversibilità del legame dipende proprio dal legame del ferro con la proteina; al di fuori della
proteina esso non lega reversibilmente l’ossigeno).

Il ferro può essere in stato di ossidazione 2+, o 3+:


• Se il ferro fosse libero, allo stato 2+, il legame con l’ossigeno lo porterebbe a diventare
ossidato, e in più questa interazione genererebbe delle specie radicali dannose e
tossiche all’interno della cellula
Il ferro deve essere meno reattivo legandosi con l’ossigeno à bisogna trovare un escamotage
per collocare all’interno di questa struttura il ferro, renderlo meno reattivo e fare in mode che lui
rimanga nello stato di ossidazione Fe2+
Problema risolto dalla presenza di quello che si chiama gruppo prostetico, il quale è una
molecola NON proteica coniugata con le proteine in maniera stabile à all’interno della
mioglobina o emoglobina c’è la proteina globina che incorpora al suo interno un gruppo
prostetico: EME (questo tiene coordinato al suo centro uno ione ferro 2+).
Mioglobina ed Emoglobina:
• La mioglobina è quella molecola che immagazzina l’ossigeno a livello dei miociti, delle
cellule muscolari, e che quindi deve essere in grado di arricchirsi di ossigeno, con
grande affinità e avidità, e cederlo quando la pressione parziale delle cellule muscolari
cala vertiginosamente
• L’emoglobina è circolante e si trova all’interno dei globuli rossi à bisogna muoversi
confrontando similitudini e differenze tra le due, in quanto rispondono a due esigenze
differenti.

Importanza del gruppo prostetico: EME


Questo gruppo è detto porfirinico, in particolare una ferro-proto-porfirina.
Mioglobina (presente nei muscoli): il ferro all’interno della mioglobina non è libero, ma è
all’interno di una struttura non proteica chiamata EME (anello porfirinico).
Il ferro può essere in due stati di ossidazione, in questo caso solo il Fe2+ è in grado di legare
reversibilmente l’ossigeno. Esso può formare sei legami di combinazione: 4 su un piano e 2
sopra e sotto il piano.
L’EME è una porfirina (struttura planare) composta da 4 anelli pirrolici (eterociclici) che
rivolgono verso il centro della mioglobina 4 azoti (N), anelli uniti da dei ponti metilenici
(presenza del doppio legame). Il Fe2 +è presente al centro dell’eme e può coordinarsi con i
4N. Il Ferro può ingaggiare in tutto 6 legami di coordinazione. Quindi il ferro può ora fare
soltanto gli altri due legami, al di sopra e al di sotto del piano.
La globina impedisce la formazione del Fe3+ che non è in grado di legare reversibilmente
l’ossigeno.
Il problema della reattività del ferro all’interno del gruppo EME viene risolto dal fatto che il
gruppo EME non è libero (se fosse libero il ferro sarebbe reattivo e legherebbe con affinità
enorme anche gas tossici ex. CO), ma è all’interno della globina.

L’ossigeno nei polmoni ha/presenta la


pressione al massimo e minore nei tessuti,
dove viene rilasciato.

Il ferro è collocato all’interno dell’EME, in particolare al


centro, dove gli anelli pirrolici sono collegati al ferro
attraverso i 4 legami di coordinazione, rimangono quindi gli
altri 2 legami.
Se EME è libero (non collocato all’interno di nessuna
struttura) legherà l’ossido di carbonio con affinità di 20000
volte superiore all’ossigeno.
In realtà l’EME non è libero ma all’interno della proteina
globina.
L’EME e la globina formano la mioglobina, la
quale presenta una struttura terziaria, ovvero è
un monomero composto da globina al cui centro
è presente l’EME (struttura monomerica) à può
legare un solo ossigeno molecolare.
Al contrario, l’emoglobina ha una struttura
quaternaria, è un eterotetramero, è composto da
due subunità alfa (I e II identiche) e due beta (I e
II identiche) à ciascun monomero presenta al
suo interno il gruppo EME e può legare 4
molecole di ossigeno molecolare.

La globina contiene molte alfa-eliche (8) che circondano l’EME, che può formare due legami,
uno sopra e uno sotto. Uno dei due può coordinarsi con un azoto dell’istidina (istidina
prossimale). Rimane libero un legame. É proprio qui che il Fe2+ è in grado di legare
reversibilmente l’ossigeno (e in modo da non ossidare Fe2+) all’interno della mioglobina.
L’ossigeno non ha perciò grande libertà per accedere al ferro, però questo è un vantaggio
perché limita anche l’accesso di CO e NO.
Vicina al ferro dell’eme è presente l’istidina distale,
che è cruciale! È in una posizione che è l’esatto
compromesso tra il non essere troppo vicina al
ferro per non occupare il sesto legame di
coordinazione, ma da essere abbastanza vicina
per interferire con il legame con altri gas
competitori dell’ossigeno che possono legarsi al
ferro. In più partecipa a stabilizzare, attraverso un
legame idrogeno, il legame tra ferro ed ossigeno.
Il competitor più temibile è il CO, che ha una
affinità che è intorno alle 20.000 volte maggiore a
quella dell’ossigeno, l’istidina diminuisce l’affinità
attraverso l’ingombro sterico. L’orientamento
diverso degli orbitali dell’ossigeno e del CO
permette
all’istidina di
diminuire l’affinità
con il legame del competitor con il ferro. Questo spiega
perché in condizioni normali, noi non ci avveleniamo con la
CO, che ha una pressione parziale minore di quella
dell’ossigeno.
L’EME è collocato all’interno della struttura della globina,
quindi servono movimenti molecolari che durano
nanosecondi (le proteine non sono “cristallizzate”) che
permettono all’ossigeno di accedere.
Come è fatta la curva di saturazione della mioglobina che lega l’ossigeno?

Sull’asse delle ordinate c’è la percentuale, la


frazione di saturazione, ovvero date 100
molecole di mioglobina, tutte hanno legato
l’ossigeno, la frazione di molecole che hanno
legato l’ossigeno è 1 (zero quando nessuna ha
legato ‘l’ossigeno).
• Tanto più una molecola sarà affine
all’ossigeno, tanto più basterà poco ossigeno
perché questa si saturi
• Tanto meno una molecola lega bene
l’ossigeno, tanto più ossigeno serve perché
questa si saturi

Ha un andamento iperbolico massicciamente spostato verso sinistra (raggiunge un momento


di plateau al 100%).
Si può definire un parametro chiamato P50: pressione parziale dell’ossigeno per la quale la
proteina è satura per metà (valore di riferimento). Essa è uguale a 2 Torr.
• Importante perché conoscendo la P50 si sa qual è la frazione della molecola che ha
legato l’ossigeno
• Quando è superiore a 2 torr, questa è verso la massima saturazione
Una curva molto spostata a sinistra significa che quella molecola è molto affine all’ossigeno:
tanto è più bassa la P50, tanto più la proteina è affine.
La mioglobina non è un trasportatore di ossigeno, è relegata nel muscolo ed è una riserva di
ossigeno per il muscolo stesso, quando la pressione parziale dell’ossigeno scende sotto la
P50, ovvero quando si ha uno sforzo prolungato del muscolo che consuma più ossigeno di
quanto gli arriva dal sangue.

Pensiamo se ci fosse la mioglobina all’interno del globulo rosso.


Qui la P50 oscilla tra i 100 Torr a livello del polmone, quindi è completamente satura, e a livello
della periferia è di 20 Torr e in entrambi i casi si è sopra la pressione parziale della
mioglobina, la quale rimane comunque saturata, non cede l’ossigeno (la mioglobina ha una
P50 di 2 Torr). Per questo la mioglobina dentro il globulo rosso non sarebbe capace di
soddisfare il trasporto dell’ossigeno.
• La curva della mioglobina è inadatta a questi scambi, è una curva iperbolica
paurosamente spostata verso sinistra.

Qui interviene l’emoglobina, la quale si trova all’interno del globulo


rosso. Essa è un tetramero, ovvero è costituita da quattro subunità o
monomeri.
L’emoglobina è capace di oscillare dal polmone in cui è praticamente
satura e di cedere circa 1/3 dell’ossigeno a livello dei tessuti a
seconda di qual è la pressione parziale dei gas.
La curva di saturazione dell’emoglobina è sigmoidale (a forma di S).

Ha una P50 di 26 Torr, il che le permette di cedere ossigeno ai tessuti quota pare del suo
ossigeno. A livello dei tessuti e a basse pressioni dell’ossigeno l’emoglobina è solo
parzialmente saturata (cede l’ossigeno) e a livello polmonare è completamente satura
(trattiene l’ossigeno).
Cosa spiega la differenza tra le due curve (i due comportamenti)?
La differenza sta nella relazione tra la struttura e la funzione (grande differenza strutturale tra
le due) à differenza tra le due curve è data dal fatto che l’emoglobina ha 4 subunità che
parlano tra loro, ovvero possono andare incontro a cambiamenti conformazionali trasmessi da
uno all’altro attraverso un processo chiamato allosteria (è una proteina allosterica).
L’allosteria corrisponde alla capacità, all’interno di un complesso proteico (il tetramero), di un
cambiamento conformazionale indotto da qualcuno (in questo caso dall’ossigeno). Se cambia
la conformazione di una subunità, questa determina/trasferisce il cambiamento anche nelle
altre subunità à possibile perché tra le subunità esistono legami ed interazioni che
permettono ciò.
Può assumere una conformazione R (ad alta affinità per l’ossigeno) e una T (a bassa affinità),
l’emoglobina oscilla tra queste due conformazioni limite.

Il tetrametro di emoglobina lega quattro molecole di ossigeno, nel momento in cui una
subunità cambia conformazione da uno stato T a uno stato R, questo cambiamento
conformazionale viene trasmesso a tutte le altre subunità, quindi la proteina diventa altamente
affine all’ossigeno. Avviene il contrario a livello dei tessuti, in cui si ha una conversione dallo
stato R allo stato T, con maggiore capacità di cedere ossigeno (importanza dell’allosteria) à
esiste un equilibrio dinamico tra i due conformeri, equilibrio spostato da vari modulatori, il
primo tra tutti è l’ossigeno (modulatore positivo del legame a
sé stesso delle subunità)

Nei polmoni si satura al 96% e nei tessuti, a seconda se il


muscolo è a riposo (40 Torr) o in attività (sotto 20 Torr), si vede
come viene ceduta una frazione di ossigeno (meno ossigeno se
muscolo è a riposo).

La curva di saturazione sarà quindi l’esatto compromesso tra


l’essere tutto ad alta affinità e tutto a bassa affinità: da qui deriva
la sigmoidale (integrale, ovvero somma, tra le due conformazioni
limite dell’emoglobina).
• Emoglobina tutta allo stato T, dove non c’è cooperatività,
spostata verso destra (curva azzurra)
• Emoglobina tutta allo stato R, curva spostata a sinistra,
sembra la mioglobina (curva verde)

L’integrale tra le due produce, attraverso la cooperatività, una


curva sigmoide.
Cosa fa cambiare conformazione alla subunità? Come si
trasmette il cambiamento conformazionale? perché
l’ossigeno quando si lega converte lo stato T?
Quando l’ossigeno non è legato, il ferro non è
perfettamente allineato con il piano dell’EME, ma è
spostato/curvato verso l’alto. L’istidina prossimale, legata
al ferro, è legata all’alfa elica, questa alfa elica è
all’interno della struttura della globina, quindi se si sposta
l’istidina, si sposta l’alfa elica e di conseguenza, a
cascata, tutta la struttura terziaria può cambiare.

L’unico modo per trasmettere il cambio conformazionale è quello di intervenire a livello


dell’interfaccia, ovvero a livello dei punti in cui le quattro subunità interagiscono tra loro.
L’emoglobina adulta è un tetramero (≠ dall’emoglobina fetale) costituito da due subunità alfa e
due subunità beta.
Tra queste subunità ci sono
decine e decine di zone di
contatto, ci sono interazioni
idrofobiche, ci sono legami
idrogeno e, in particolare, sono
importanti le interazioni ioniche,
che fanno interagire gli
amminoacidi carichi delle catene
polipeptidiche. Attraverso la rottura
di questi legami si può avere un
cambiamento della conformazione
che porta allo stato T o allo stato R
della proteina.
Il pH è importante per la modulazione delle interazioni ioniche: è più acido a livello dei tessuti
rispetto a livello dei polmoni.
Il cambiamento conformazionale dell’emoglobina è molto apprezzabile! La proteina si converte
in una configurazione o in un’altra attraverso la rotazione tra i legami e la rottura e la formazione
dei legami non covalenti.
Alcuni di questi legami ionici stabilizzano lo stato T.
Quando il gruppo eme non è legato all’ossigeno,
l’istidina è curvata verso il gruppo eme. Il legame
dell’ossigeno provoca un piccolo movimento
dell’atomo di ferro tirandolo verso il piano dell’eme
e il gruppo eme diventa planare trascinandosi
l’istidina prossimale, che si trascina l’alfa-elica, che
a sua volta fa sì che vi sia un cambiamento
conformazionale della subunità. Così viene facilitato
il legame dell’ossigeno con una delle subunità. Il
cambiamento conformazionale viene trasmesso alle
subunità adiacenti e queste diventano R e si
saturano (effetto domino di cambiamenti
conformazionali).

Gli altri due importanti modulatori, accanto all’ossigeno, sono gli H+ (quindi il pH) e la CO2,
prodotta dal catabolismo cellulare a livello periferico à emoglobina trasporta anche una quota
parte degli H+ (funziona da tampone in parte) e CO2 (1/5 di quella prodotta a livello periferico
e riversata in circolo).
Da qui si campisce l’importanza della correlazione fra struttura e funzione.
La CO2 dalla respirazione cellulare si riversa in circolo. Poiché questa è un gas ed è poco
solubile in acqua, è importante che questa non rimanga come gas. Reagisce con l’acqua e
diventa H2CO3 per poi scomporsi in HCO3- e H+, che acidifica il sangue. A livello dei polmoni
avviene il contrario, abbiamo l’emissione della CO2 e il pH è più alcalino (aumenta
leggermente). L’emoglobina è capace di risentire di altri principi che ne modificano la
conformazione: effetto Bohr à l’emoglobina cambia la sua curva di saturazione a seconda del
pH e a seconda della pressione parziale della CO2. La CO2 e il pH agiscono perciò in maniera
sinergica/coordinata.
Dove si legano gli idrogeni (H+) e la CO2? Entrambi i ligandi si legano all’emoglobina in punti
diversi e hanno un effetto opposto:
• Né H+, né CO2 si legano al ferro
• Rendono l’emoglobina meno affine all’ossigeno
L’emoglobina, risentendo, a livello delle catene laterali degli amminoacidi posti alle interfacce
delle subunità e che ingaggiano delle interazioni ioniche, delle variazioni di pH diminuisce la
sua affinità per l’ossigeno (sono stabilizzati i legami ionici che
stabilizzano la struttura T, perché il pH è acidulo) o aumenta la sua affinità per l’ossigeno (a
livello dei polmoni dove il pH è più basico), quindi cambia la sua P50. A parità di pH, la
pressione parziale della CO2 è maggiore a livello dei tessuti piuttosto che a livello dei polmoni.
Questo stabilizza maggiormente lo stato T dell’emoglobina a livello dei tessuti, spingendo la
proteina a cedere più ossigeno diminuendo la sua affinità con esso.
La CO2 partecipa ad una reazione reversibile di carbossilazione dell’emoglobina, ovvero le
estremità amminoterminali delle subunità globiniche reagiscono con la CO2 per produrre la
carboamminoemoglobina. Legame spontaneo e non catalizzato che stabilizza lo stato T à la
reazione produce anche H+, i quali spingono il pH verso il basso.

Autoemotrasfusione (doping): 2,3-bisfosfoglicerato (metabolita prodotto a livello dei globuli


rossi), quarto modulatore aggiuntivo importante anche per il trasferimento di ossigeno dal
sangue materno al feto. I due gruppi fosfato sono in posizioni diverse (2 e 3). Questo
intermedio metabolico è un modulatore dell’emoglobina che è capace di legarsi al centro del
legame del tetramero e di stabilizzare lo stato T (riduce l’affinità per l’ossigeno). É essenziale
affinché l’emoglobina riesca a rilasciare l’ossigeno nei tessuti. Questa curva è compatibile con
le pressioni parziali dell’ossigeno a livello del mare dove la frazione di ossigeno ceduta è del
38% del suo carico totale (l’emoglobina è satura al 96%). Se noi andassimo, senza
adattamento, ad una altezza di 4500m dovremmo fare i conti con una pressione parziale
dell’ossigeno minore di quella del mare, pertanto
l’emoglobina si saturerebbe solo parzialmente (80%),
cedendo solo un 30% dell’ossigeno (1/5 in meno). Man
mano ci adattiamo e aumentano i livelli del 2,3-
bisfosfoglicerato che diventa quasi il doppio: aumenta la
P50 (l’emoglobina è meno affine all’ossigeno). Quindi
l’emoglobina si satura di meno, ma cede più ossigeno di
prima, ovvero ne cede il 37%. Una volta adattato all’altura,
se mi sposto repentinamente in pianura, l’emoglobina è
rimasta quella dell’altura che fornisce ai tessuti il 60%
dell’ossigeno (vantaggio nello sforzo aerobico).
Il 2,3-bifosfoglicerato si lega all’interfaccia dell’emoglobina
adulta.
Il 2,3-bifosfoglicerato è importante anche a livello della
placenta nello scambio tra feto e madre. Questo è possibile
perché l’emoglobina non è sempre identica, vi è uno switch
di globine tra feto e adulto. Nel feto non c’è l’espressione
delle proteine beta, ma di quelle gamma. La differenza è
che l’emoglobina fetale non lega il 2,3- bifosfoglicerato e
quindi ha una curva di saturazione più spostata verso
sinistra (è più affine all’ossigeno).
Questo spiega perché l’emoglobina della madre cede
l’ossigeno all’emoglobina del feto.
In alcuni individui l’emoglobina fetale permane per tutta la vita.
Enzimi à Non c’è reazione, nel
nostro metabolismo, che non sia
catalizzata dagli enzimi à Es.: il
glucosio possiamo bruciarlo per produrre
energia che diventa calore poi e
attraverso gli enzimi va incontro a una
serie di reazioni controllate che
producono intermedi utili al nostro
organismo e alla fine si produce sempre,
come se fosse stata una combustione,
CO2 e acqua. Quindi, l’inizio e la fine,
che sia una combustione o una
ossidazione controllata nelle nostre
cellule, sono sempre gli stessi ma,
attraverso l’intervento degli enzimi,
queste reazioni avvengono velocemente, producono intermedi utili per altri processi e siamo
comunque capaci di produrre energia in maniera controllata non producendo calore, ma producendo
ATP (importante “moneta di scambio energetica”).

Tutte le reazioni che vedremo nella seconda parte del corso sono regolate da enzimi.

Perché sono importanti gli enzimi?


Supponiamo di avere un “substrato” (S) e un prodotto (P) e il prodotto è molto più stabile di S (ha
basso contenuto di energia libera), la reazione allora sarà termodinamicamente favorita. Ma che
vantaggio c’è allora ad avere un enzima? Non basterebbe lasciar andare la reazione per il suo
corso? NO, perché anche se spontanea e la velocità della reazione fosse biologicamente
compatibile, essendo incontrollata tutto il substrato si trasformerebbe in prodotto e non avremmo
modo di controllare la reazione. Utilizzando invece un enzima, che catalizza la reazione, noi
possiamo, controllando l’attività dell’enzima (ci sono diversi meccanismi di modulazione degli enzimi),
decidere il corso della reazione (velocità, prodotti, etc.) a seconda delle condizioni. In altri casi, poi,
generando vie alternative di reazione, saranno in grado di far avvenire reazioni che dal punto di vista
termodinamico non avverrebbero direttamente.

Cinetica Enzimatica

Substrato: specie iniziale

Prodotto: specie finale

E + S ⇌ ES ⇌ E + P

La cinetica vede come il substrato interagisce con


l’enzima (per catalizzare la reazione l’enzima deve
reagire con il substrato). La chiave poi sarà tutta nel
complesso ES, il quale si porta dietro due scenari,
possiamo tornare allo stato di partenza oppure la
reazione può proseguire.

L’enzima, dopo aver catalizzato la reazione, torna


ad essere sé stesso (com’era all’inizio), per poi
tornare a catalizzare un’altra reazione in maniera
molto veloce.
Alcuni elementi da tenere d’occhio sono le “K” (K 1,2,3,4), ovvero le costanti cinetiche, che
governano la reazione da destra verso sinistra e viceversa (K1 non necessariamente sarà uguale a
K2). Anche le reazioni più semplici come questa (le “reazioni di primo ordine”), perciò, andando a
vedere la cinetica enzimatica, possono avere elementi di complessità.

Gli enzimi (per il 99.9% sono proteine e prevalentemente proteine globulari) sono
catalizzatori biologici, ovvero accelerano reazioni chimiche che sono, dal punto di vista
termodinamico, favorite. Se il ∆G è negativo, l’enzima velocizza la reazione che
avverrebbe comunque spontaneamente, se il ∆G è positivo l’enzima non compie nessuna
funzione perché la reazione non è spontanea.
• Non possono alterare l’equilibrio della reazione ma solamente accelerare la velocità
di reazione riducendo l’energia di attivazione richiesta per iniziare la reazione
o Se la ΔG di una reazione è negativa (es: ΔG = 30 – 50 = -20), allora la
reazione sarà spontanea dal punto di vista termodinamico perché il prodotto
è più stabile. Questa reazione avverrebbe anche senza enzima. L’enzima,
quindi, interviene non toccando la spontaneità ma solo accelerando la
reazione, ma l’equilibrio e la termodinamica rimangono uguali. Lo stesso
enzima non è capace di far avvenire reazioni non spontanee già di loro.
§ Es.: il saccarosio (zucchero da cucina) è molto stabile in condizioni
normali, ma la sua dissociazione in glucosio e fruttosio è molto
favorita termodinamicamente. L’unica cosa che impedisce la
dissociazione è che questa reazione è molto lenta (molti anni). Un
enzima invece riesce a far avvenire una reazione del genere in una
frazione di secondo, ma non influisce sulla spontaneità.
• Dalla regolazione degli enzimi dipende l’adattabilità metabolica
• Permettono alle reazioni di andare verso condizioni che l’organismo può tollerare (in
tempi biologicamente compatibili)
• Può processare milioni di molecole ogni secondo
• Gli enzimi agiscono in modo molto specifico, solo con pochi tipi di molecole
(substrati): sono molto stereospecifici!
o Es.: nella glicolisi ci sono dieci tappe; per ognuna di queste tappe ci sarà un
enzima diverso stereo-specifico per il suo substrato.
Reazione tipo
S ⇌ P (substrato che diventa un prodotto)
Questa è una reazione di primo ordine (una specie sola che si trasforma in un’altra) ma esistono
anche reazioni di secondo, terzo, etc. ordine che coinvolgono più specie.
Bisogna ricordarsi che esiste sempre anche la possibilità della reazione inversa (P che diventa S).

Tra S e P c’è una differenza di energia libera che rende la reazione spontanea,
ma il percorso non è una retta, poiché prima di andare a formare P, S con i suoi
legami covalenti va incontro a una serie di rotture e formazione di nuovi legami e
durante questo percorso di trasformazione abbiamo una forma effimera,
intermedia, dove alcuni legami si stanno rompendo e altri formando. Questa
specie intermedia, difficile da catturare perché ha una stabilità molto transiente nel
tempo (ha un tempo di permanenza di picosecondi), si chiama “Stato di
transizione”. Questa è una specie altamente instabile, con un alto contenuto di
energia libera.
Per far avvenire la reazione dobbiamo superare questa barriera energetica

La termodinamica della reazione e la sua velocità devono essere considerate


separatamente (esistono reazioni poco spontanee ma molto veloci e viceversa).
Diamoci ora una terminologia:
• la differenza di energia libera tra S e P è la ΔG vista prima. Ci dice la
spontaneità (la termodinamica).
• invece la variazione tra stato di transizione e substrato viene chiamata
“energia di attivazione”, che nulla ha a che fare con la spontaneità, è la
barriera da superare per trasformare S in P. L’energia di attivazione è il
parametro che indica la velocità della reazione: è inversamente
proporzionale alla velocità con cui la reazione avviene (è una barriera!). Più
è bassa, più sarà facile raggiungerla e più veloce sarà la reazione.
La reazione S ⇌ P può essere vista anche come una semplice reazione chimica A + B
⇌ C + D. Perciò, quando si considera la variazione dell’energia libera di una reazione
non si può trascurare le concentrazioni delle specie in campo (se c’è poco P, allora S si
trasformerà più in P che P in S). Tutto questo ragionamento sulle concentrazioni non è
espresso nel ΔG, che tiene conto solo delle caratteristiche biochimiche di P e di S. Per
questa ragione, i biochimici quando calcolano il ΔG, considerando solo le
caratteristiche biochimiche, non lo chiamano solo ΔG, ma variazione di energia libera
(ΔGI°) standard biochimica, ovvero la variazione di energia libera standard che non
tiene conto delle concentrazioni. In altre parole, è la variazione di energia libera quando
le specie sono 1M (la pressione sarà presa come 1atm), la temperatura viene presa
come 25°C (anche la temperatura influenza la dinamica della reazione). Il pH sarà
intorno alla neutralità perché è quello che si trova nella maggior parte delle condizioni
biologiche (la variazione di energia libera standard non tiene conto del pH, ecco perché
si chiama “biochimica”).
In condizioni normali, però, le condizioni sono diverse (variazione di concentrazioni
durante una reazione à es: prima e dopo il pasto le concentrazioni di glucosio saranno
diverse). Perciò il biochimico si avvale di un’equazione che tiene conto delle
caratteristiche biochimiche (spontaneità di una reazione) delle specie ma anche delle
concentrazioni delle specie:

∆G=∆GI°+ RT ln [C]c[D]d/[A]a[B]b
dove ΔGI° (variazione di energia libera standard biochimica) = GCD – GAB

Ci sono alcune condizioni limite:


• ∆GI° è prossimo allo zero (ad esempio -2 KJ/mol) (non so bene se la reazione è
spontanea in un senso o nell’altro). Se però abbiamo un’alta concentrazione dei
reagenti (A e B), allora ∆G diventa molto negativo, quindi la reazione è spontanea
da sinistra a destra.
• Al contrario, pur avendo un ΔGI° sempre di – 2KJ/mol, quando si ha una
abbondanza di prodotti, si avrà un ∆G positivo e la reazione va da destra verso
sinistra. Sarà perciò favorita la reazione inversa.

Perciò le concentrazioni delle specie hanno un impatto enorme sulla reazione, anche
perché il ΔGI° rimane sempre uguale poiché i valori di energia libera di determinate specie
sono sempre quelli.
Es.: tornando alle 10 fasi della glicolisi, se in una delle fasi la variazione di energia sarà
negativa, allora l’enzima catalizzerà la reazione diretta. Se invece la variazione diventa
positiva (a causa di un cambio di concentrazione, etc.) allora l’enzima catalizzerà la
reazione inversa.
La ΔGI° nella maggior parte delle reazioni metaboliche sarà modesta o molto
grande? La maggior parte delle reazioni biochimiche ha ∆GI° che tende a zero, il
che rende la reazione reversibile.
Numerose reazioni delle vie metaboliche del nostro organismo, infatti, hanno ∆GI° finale
prossimo a zero; questo costituisce un vantaggio perché la reazione può essere più
facilmente controllata in un senso o nell’altro, quindi la reazione può essere reversibile a
seconda di come cambiano le condizioni fisiologiche (concentrazioni).

Quando ∆GI° è marcatamente spostato in un senso o in un altro la reazione risulta


irreversibile. Questo di solito succede nelle reazioni che sono quelle tappe (es.: 3 su 10
tappe della glicolisi e queste saranno le tappe “punto di regolazione”) che vengono
regolate attraverso meccanismi molto fini.

Ma se una reazione è spontanea non significa che sia veloce, potrebbe avvenire in
tempi lunghissimi (quindi, in termini biologici, è come se non avvenisse).
Es.: la tendenza dell’ATP di perdere un fosfato e diventare ADP è paurosa, perché
c’è la repulsione delle cariche negative e perdendo un gruppo fosfato diventa più
stabile (ΔGI° = -33KJ/mol). Ma allora come fa a stare dentro le cellule, non dovremmo
nemmeno avere tracce di ATP? La risposta sta nel fatto che questa reazione è lenta
e avremo bisogno di opportuni enzimi.

S⇌P
Velocità = k1 (S) à Molarità/secondi
(inversamente proporzionale all’energia di attivazione)
Velocità reazione inversa = k-1 (P)

• Dove k1 è la costante cinetica della reazione diretta e S è la concentrazione del substrato (M).
• k-1 invece è la costante cinetica della reazione inversa e P la concentrazione del prodotto (M).

Ogni trasformazione, quindi, si porta dietro una costante cinetica (con unità di misura moli/(s)(M)).
La costante cinetica determina la velocità con cui una specie si trasforma in un’altra.
L’energia di attivazione (ΔGI) ci fornisce k. Quanto più k è elevata, tanto più bassa è l’energia di
attivazione e viceversa.
L’unico modo in cui l’enzima può modificare la velocità di una reazione è intervenire
sull’energia di attivazione della reazione stessa.
Quindi, l’enzima fornisce una via alternativa di reazione con una energia di attivazione più
bassa e perciò una k più alta, partecipando/interagendo con il substrato e tutti gli intermedi
che si generano.
Reazione Enzimatica Tipo

E + S ⇌ ES ⇌ EP ⇌ E + P [Reazione catalizzata; si
crea il complesso enzima-substrato, ES]

La reazione avviene in un sito specifico dell’enzima: il


sito attivo, una tasca in cui si genera un ambiente in
cui la reazione deve raggiungere una energia di
attivazione molto più bassa (k molto alta).

N.B.: Il ∆G non varia!

Ricapitolando:

La teoria dello stato di transizione


Questa teoria considera una reazione solo in termini
di:
• Stato fondamentale (reagenti)
• Stato di transizione (specie chimiche con
legami non completamente formati)
• Intermedi (specie chimiche con legami
completamente formati)
• Prodotti

Enzimi: catalizzatori biologici


• Gli enzimi si combinano transientemente con il
substrato e ne abbassano l’energia di
attivazione.
• Non spostano mai l’equilibrio (∆G) della
reazione, ma aumentano la velocità con cui
l’equilibrio viene raggiunto.
• Non subiscono modificazioni permanenti
durante la reazione e sono subito disponibili per
catalizzare un nuovo ciclo di reazione.

Alcuni esempi di quanto gli enzimi aumentino la velocità di reazione:


L’anidrasi carbonica l’abbiamo già vista nella reazione H2O + CO2 à H2CO3
Abbiamo una elevata specificità (elevata stereospecificità degli enzimi):
a) di substrato:
! esocinasi: fosforila glucoso, dannoso e fruttoso
! glucocinasi fosforila solo glucoso
! tripsina: idrolizza solo legami Lys/Arg-X
! trombina: idrolizza solo legami Arg-Gly
! lattico deitrogenasi: ossida solo l’acido L-lattico
b) di prodotto (assenza di prodotti collaterali indesiderati): DNA polimerasi I: un solo errore ogni milione
di basi inserite

Determinanti del potere catalitico (specifici per ogni enzima):


1) formazione di legami covalenti tra enzima e substrato (in alcuni casi)
2) instaurazione di numerose interazioni non covalenti (maggior parte dei legami che si formano)

Tutte queste forze, in ogni caso, che portano a stabilizzare le


specie coinvolte, si producono in energia. Quindi bisogna
tener conto dell’energia di legame (ΔGB), cioè l’energia che
riesce ad abbassare l’energia di attivazione. L’energia di
legame ΔGB non è quindi altro che la differenza tra l’energia
di attivazione non catalizzata e quella catalizzata (ΔGInon cat –
ΔGIcat).

Quando si forma la maggior parte delle interazioni?


Se viene stabilizzato il substrato, la velocità della reazione diminuisce perché esso viene
stabilizzato e l’energia di attivazione aumenta.
Quindi non ci possono essere maggiori interazioni tra enzima e substrato. Quello che
accade in realtà, è che l’enzima reagisce
sì con il substrato per rendere conto
della specificità, ma man mano che la
reazione progredisce (concetto di
ADATTAMENTO INDUTTIVO) il maggior
numero di interazioni è con lo stato di
transizione. Questo fa sì che venga
abbassata l’energia libera dello stato di
transizione perché esso viene
stabilizzato dall’interazione con l’enzima
e di conseguenza si abbassa l’energia di
attivazione e la reazione avviene più
velocemente.
Questo per sottolineare che l’interazione
tra substrato ed enzima non è fisso
poiché si ha adattamento indotto.

SITO ATTIVO à regione specifica delle molecole enzimatiche dove il substrato si lega e
reagisce per formare il prodotto. Esistono due modelli per interpretare l’interazione sito
attivo-substrato:
• Modello chiave-serratura: l’enzima è una serratura in cui può girare solo la chiave
specifica
• Modello adattamento induttivo (quello corretto): la forma assunta dall’enzima è
adatta a far avvenire la reazione solo dopo che questo si è legato al substrato. Tale
fenomeno serve a portare i gruppi funzionali specifici dell’enzima nell’orientamento
corretto necessario per la catalisi della reazione.
Reversibilità delle reazioni enzimatiche:
A. l’enzima favorisce il raggiungimento dell’equilibrio, quindi catalizza anche la
reazione inversa (A ⇌ B)
B. Ma, se B è substrato di una reazione successiva, la prima reazione diventa
praticamente irreversibile (A –> B ⇌ C). Questa è la strategia delle vie
metaboliche concatenate (che possono essere lineari, circolari, etc.)
C. Ciò vale anche per catene molto lunghe di reazioni (catene enzimatiche)

Tipi di catalisi:
L’enzima, per catalizzare, deve avvalersi di strategie. Tre sono quelle principali:
• Catalisi Acido-Base à l’enzima, a livello del sito attivo, ha catene laterali di amminoacidi in grado
di cedere o acquisire protoni.
• Catalisi covalente à l’enzima, a livello del suo sito attivo, forma un legame covalente con un
intermedio della reazione
• Catalisi da ioni metallici (concetto di cofattore) à l’enzima, nel suo sito attivo, ha dei cationi che
favoriscono la reattività di alcuni gruppi.
Esistono enzimi che usano solo una di queste strategie, ma anche enzimi che usano una
combinazione di queste.

Struttura generale degli enzimi


Gli enzimi, spesso, non sono
solo formati dalla componente
proteica (“apoenzima”), ma
anche da una componente non
proteica che aiuta nella catalisi. Il
complesso finale si chiama
“Oloenzima”.

Classificazione internazionale degli enzimi in base alla reazione che catalizzano:


• Ossidoreduttasi: compiono le reazioni di ossidazione o riduzione
• Transferasi: trasferiscono un gruppo da una parte all’altra
• Idrolasi: idrolizzano con l’acqua
• Liasi: rompono i legami senza usare l’acqua
• Isomerasi: convertono un isomero in un altro
• Ligasi: formano dei legami

Cinetica enzimatica
Obiettivo principale: costruire un’equazione che potesse descrivere in generale il
comportamento cinetico degli enzimi e quindi determinare parametri cinetici più importanti
(KM, Vmax, costante di specificità, costante catalitica) che sono la carta d’identità di ogni
enzima, misurando la velocità della reazione catalitica à conoscendo questi parametri
sapremo le condizioni e le concentrazioni del substrato che dobbiamo processare, a cui
dovremo sottoporre l’attività dell’enzima per aspettarci una catalisi efficiente.
Dobbiamo essere in grado di misurare nel tempo
la conversione dei reagenti nei prodotti, in base
alla concentrazione del substrato.
Mantenendo costante la concentrazione
dell’enzima, cosa capita alla velocità della
reazione se aumento la concentrazione del
substrato?
L’andamento di quanto prodotto si genera nel
tempo è: all’aumentare della concentrazione del
substrato, si ha un aumento dell’attività
enzimatica, ma essa non è lineare per sempre
(solo all’inizio), ma raggiunge in seguito una sorta
di plateau. La reazione va verso una velocità che
cala e arriva fino a raggiungere un equilibrio.

Bisogna considerare quindi la velocità iniziale, perché al tempo t0 io ho solo substrato, il


prodotto non esiste. Con l’enzima si genera il complesso enzima-substrato e poi si
produce l’enzima con il prodotto. La possibilità che avvenga la reazione inversa è
pressoché nulla. Ma quando
andiamo al t2min si sono già
formati dei prodotti, ed esiste un
equilibrio tra prodotto che si
forma e prodotto che torna
indietro con una velocità
inferiore. La concentrazione del
substrato qui è difficile da
determinare. Quando si parla di
cinetica enzimatica si parla
perciò di V0 = V iniziale. Questo
ci mette al riparo dalla paura
che parte del prodotto, con
l’accumularsi del prodotto
stesso, torni indietro.
Com’è quindi l’andamento della reazione catalizzata? É iperbolico! (in relazione alla concentrazione
del substrato). La reazione non catalizzata (molto lenta), invece, è lineare. Perché? Perché qui non
c’è l’enzima che si satura!

Quando si usa enzimi, quindi, a piccoli aumenti di concentrazione di substrato ho un


aumento lineare della velocità fino al raggiungimento di un plateau che segna la velocità
massima (Vmax) di un enzima (ovvero moli di prodotto generati nell’unità di tempo). Da
cosa dipende questo effetto plateau? Dal fatto che il nostro enzima è ad una data
concentrazione, perciò, fino a una data concentrazione di unità di substrato, il nostro
enzima sarà capace di catalizzarle tutte; ma a un certo punto la quantità di substrato sarà
talmente elevata che da qui in poi la velocità non aumenta più (l’enzima ha raggiunto la
sua velocità massima), è arrivato a saturazione, anche se aggiungiamo altro substrato la
velocità non aumenterà più. Tutto l’enzima è stato saturato dal substrato.
La saturazione, quindi la capacità catalitica dell’enzima, è determinata dalla
capacità di trasporto tradotta nella velocità massima à Es.: se ho una velocità
massima di 10 palline al secondo anche se ne porto 100 la mia velocità massima
sarà sempre di 10 al secondo (sono perciò arrivato a saturazione).

Andiamo allora a considerare, per arrivare all’equazione, le specie in campo e le


costanti cinetiche.

Ognuno di questi step


avrà la sua variazione
di energia libera e
un’energia di
attivazione. Perciò
ognuno avrà una K
propria.
Per derivare l’equazione che descrive l’iperbole, i due ricercatori Michaelis e Menten
hanno fatto delle assunzioni:
1) Considerare la velocità iniziale (V0) per togliere il problema del prodotto che si
trasforma in substrato.
2) La K2 sia la K limitante, ovvero la velocità minore.
(es. su velocità: la velocità con cui si forma ES è V = k1 [S][E], mentre la velocità con cui
ES si dissocia è V = K-1 [ES])
Il concetto chiave sta nella formazione del complesso enzima-substrato (ES). Esso è un
intermedio di reazione il cui basso valore di energia di attivazione consente alla reazione
catalizzata dall’enzima di procedere per formare un prodotto

3) La teoria dello stato stazionario: i due


ricercatori assumono che dopo pochissimi
istanti la concentrazione del complesso ES
rimanga costante. Perciò la V con cui si
forma ES è uguale alla V con cui scompare.

Punto di partenza che gemma dalla teoria dello stato stazionario:

Velocità di formazione ES = Velocità con cui ES scompare


ovvero
K1 [E][S] = K-1 [ES] + K2 [ES]

Da qui i due ricercatori arrivarono poi all’equazione di Michaelis-Menten.

Ricapitolando le tre assunzioni teoriche:


1) velocità iniziale (V0), viene valutata solo la velocità catalitica all’inizio della reazione (il
prodotto è così poco che la reazione inversa da P ad ES è trascurabile). Un problema è
costituito dalla variazione di (S) nel tempo. Per questo viene considerata la velocità
iniziale. In condizioni di (S) >> (E), se si misura la velocità iniziale (V0) la variazione di (S)
è trascurabile. Inoltre, la velocità iniziale viene misurata in un periodo di tempo durante
il quale la reazione inversa è fisicamente trascurabile in quanto poco è il prodotto
formatosi: la velocità iniziale che può così essere determinata sarà la massima velocità
ottenibile (c’è molto substrato e la velocità contraria alla direzione della reazione è
bassissima).
2) step limitante è ES –> E + P (detta anche K2) e
perciò determina la velocità di tutto il processo.
Quindi la Vmax si raggiunge quando tutto
l’enzima è complessato in ES e la
concentrazione di E libero diventa
trascurabile.

3) Equilibrio rapido del complesso enzima-


substrato e raggiungimento dello stato stazionario del complesso enzima-substrato
(TEORIA DELLO STATO STAZIONARIO): tanto veloce è la formazione del complesso
enzima-substrato, tanto veloce è la sua dissociazione. Quindi la concentrazione di ES è
pressoché stazionaria.

Da queste tre assunzioni teoriche deriva l’equazione di Michaelis-Menten:


𝑽𝒎𝒂𝒙 [𝑺]
𝑽𝟎 =
𝑲𝑴 + [𝑺]
'!" ( '#
Dove la costante 𝐾& = '"
e, visto che è un rapporto tra costanti, non ha unità di misura, ma è un
numero puro
Perché è importante questa reazione?
• È generale
• Da due grandezze misurabili si ottengono informazioni che riguardano la cinetica dell’enzima
KM (costante di Michaelis-Menten) è la misura della velocità con cui ES scompare rispetto a
quanto ES si forma. K-1 e K2 scompaiono, K1 si forma.
Se ripensiamo alla costante di dissociazione Kd vista in precedenza (anticorpi), allora possiamo
dire che KM può essere vista come una costante di dissociazione apparente che misura il grado
con cui l’enzima è legato al substrato.
Nell’equazione di Michaelis e Menten la K2 è quella limitante. Se per un istante noi trascuriamo K2,
la K-1 ci dice quanto ES scompare e la K1 quanto si forma il complesso.
Perciò, dove ci sono enzimi per cui K2 è lo step limitante, KM ci dà a tutti gli effetti informazioni sulla
affinità tra enzima e substrato. Più KM è elevata, meno affini sono E ed S, e viceversa.

La KM si misura sperimentalmente calcolando in laboratorio qual è l’iperbole:


essa corrisponde numericamente (corrisponde, ma NON E’. Ciò perché, anche se nei testi viene
espressa in molarità quando viene interpolata, essa non ha unità di misura) alla concentrazione del
substrato alla quale la V0 è uguale alla Vmax/2. (Es.: se la mia Vmax è 100, la mia KM posso trovarla
nel mio grafico con un’interpolazione vedendo qual è la mia concentrazione alla Vmax/2).
• Questa concentrazione corrisponde alla costante di Michaelis e Menten, in tutti i testi la
si trova espressa in molarità (M)

Perché la KM è così importante? Facciamo


un esempio à Assumiamo che Ex sia un
enzima della glicolisi (Esochinasi, è la prima
tappa della glicolisi à fosforila il glucosio nella
prima tappa importantissima).
• Condizione 1: Se io avessi nella cellula
una concentrazione molto bassa del
glucosio con che velocità l’enzima
catalizzerà la reazione? Interpoliamo sul
grafico e capiamo che la velocità è
molto bassa, è come se l’enzima non
catalizzasse nulla, perché siamo
talmente sotto la sua KM che è come
non averlo. Perciò nemmeno vedremmo
la reazione avvenire.
• Condizione 2: concentrazione di
glucosio molto più elevata rispetto
alla KM, allora l’enzima sta
catalizzando alla sua massima
potenza.
Sapere la KM di un enzima, perciò, mi
permette di sapere se le condizioni in cui
l’enzima si trova gli permettono di funzionare
a pieno oppure no. E se questo enzima ha
una K2 limitante, allora l’equazione M-M ci
dà una misura dell’affinità dell’enzima con il
substrato.
Quindi, l’equazione di M-M descrive la
cinetica enzimatica.
Inoltre, come si vede dalle immagini, a
basse concentrazioni di substrato abbiamo una linearità. Al contrario, ad alte concentrazioni di
substrato, avremo che V0 = Vmax.
Km corrisponde alla concentrazione del substrato alla
quale V0 è la metà della velocità massima Vmax

Questi due enzimi catalizzano la stessa


reazione, la reazione di Glucosio + ATP
che viene fosforilato e forma glucosio 6
fosfato + ADP. Essi catalizzano la
stessa reazione ma sono diversi, la
catalizzano con cinetiche differenti e si
parla quindi di isozimi. L’esochinasi si
trova in diversi tessuti, tra cui i neuroni,
la glucochinasi è tipica del fegato. Chi ha
più bisogno di Glucosio: i neuroni. Essi
utilizzano obbligatoriamente gli zuccheri.
Attraverso la barriera ematoencefafilica, i
lipidi non passano e non sono un
carburante. Al contrario il fegato è la
centrale metabolica del nostro corpo,
esso accumula e può utilizzare il
glucosio. Attraverso la mobilizzazione del glicogeno mantiene la glicemia. In condizioni
ipoglicemiche il fegato rilascia il glucosio, tutti gli altri tessuti lo usano. L’esochinasi nel neurone
per il glucosio ha una Km di 0.01 mM, basta che ci sia poco glucosio che esso lavora alla sua
velocità massima. Al contrario la Km della glucochinasi epatica a condizioni di glucosio bassa è
bassissima. Ecco perché è importante la KM.
Inoltre, se ci facciamo caso, in generale, gli enzimi si sono evoluti per avere caratteristiche
cinetiche e KM, in particolare,
prossime alle concentrazioni
fisiologiche del substrato.
Es.: Se avessimo un enzima che
avesse queste condizioni
fisiologiche (freccia rossa)
sarebbe sempre al massimo. Se
invece avessimo le condizioni
dello scenario B (freccia blu)
andrebbe sempre pochissimo
l’enzima.

Quindi KM si configura come una misura


indiretta dell’affinità tra enzima e substrato.
Tanto più KM è elevata, tanto più enzima e
substrato non sono affini tra loro. Quindi la
KM è inversamente proporzionale all’affinità
tra enzima e substrato.
Nella maggior parte dei casi, la
concentrazione del substrato nello stato
fisiologico è intorno al valore di KM.
Questo permette una buona regolazione
dell’enzima a seconda delle esigenze della
cellula.
I biochimici spesso lavorano con l’inverso del
grafico M-M, ovvero con il “grafico dei doppi
inversi”:
Così l’iperbole diventa una retta, quindi il calcolo
viene semplificato rispetto all’equazione di M.M.

Come calcolare sperimentalmente la cinetica


di un enzima: il ricercatore prende una serie di
provette con concentrazioni crescenti di substrato.
Siamo al t0. In simultanea aggiungo la stessa
concentrazione di enzima (in genere alcuni ordini
di grandezza sotto quella del substrato) e poi si
misura la velocità con cui si sviluppa il prodotto
nelle varie provette. Sulle ascisse metto quindi la
variabile indipendente e sulle ordinate la velocità.
In questa maniera derivo la curva cinetica
dell’enzima x. L’interpolazione alla Vmax/2 ci dice
poi la KM di quell’enzima.
Significato delle costanti catalitiche

• Kcat (costante catalitica, detta anche numero di turnover): ci dice l’efficienza di un enzima, è il
numero massimo di molecole di substrato convertite in prodotto nell’unità di tempo da una
molecola di enzima (quando l’enzima è saturo).

o A cosa corrisponde? La K2 è la K limitante e determina la velocità, perciò in queste condizioni


Kcat = K2 e quindi VMax = K2 o cat [ES]. La VMax si raggiunge a concentrazioni/condizioni
saturanti di substrato. In queste condizioni l’enzima libero è pressoché assente e tutto
l’enzima (Et) appartiene al complesso ES (perciò la concentrazione dell’enzima, che
sappiamo, corrisponde allo stato stazionario di ES). Perciò VMax = Kcat [Et] e quindi:
Kcat = Vmax/[Et].

o Che unità di misura ha la Kcat? Si misura in Moli/sec=Kcat[M]à Kcat= 1/sec = s-1

o Nel caso di reazioni complesse con molte tappe catalitiche, la costante catalitica è data dal
contributo di tutte le costanti di velocità nei singoli step. Se una di queste velocità è molto più
lenta delle altre, allora Kcat sarà uguale alla K di quello step.

La costante catalitica ci dice l’efficienza catalitica, ma non la sua KM, perciò ci dice come si fa ad
arrivare alla velocità massimale, ma non ci dice se quella velocità è elevata o no.
Al contrario, la KM ci dice qual è la concentrazione a cui si raggiunge la velocità semi-massimale, ma
non l’efficienza catalitica.
Es.:
• Scenario 1: due enzimi con apparente stessa capacità catalitica (stessa Vmax) ma KM differenti
• Scenario 2: due enzimi con Vmax diverse ma stessa KM
Perciò, presi da soli, questi due valori ci dicono solo una parte della storia
I ricercatori, quindi, non usano mai questi due valori da soli ma la costante di specificità.
• Costante di specificità: che è l’esatto integrale tra queste due cose, cioè il rapporto tra
l’efficienza catalitica (Kcat) e l’affinità tra enzima e substrato (KM) à costante di specificità =
Kcat/KM. Perciò la costante di specificità definisce l’efficienza catalitica di un enzima. L’enzima
migliore avrà Kcat alto e KM basso e perciò una costante di specificità elevata. Parametro cinetico
che dipende in maniera diretta dalla frequenza di interazione tra E ed S e dall’efficienza con cui E
ed S si legano all’interno della soluzione.

I valori di Kcat e KM sono legati alle condizioni biologiche in cui l’enzima si trova ad operare
e dipendono dal substrato, dalla sua concentrazione e della chimica delle reazioni da
catalizzare. I valori possono non coincidere.
Qual è il limite massimo alla velocità di una reazione, che non si può superare? Quello della
velocità con cui due molecole si incontrano, ovvero la velocità di diffusione (picosecondi).
Questo vale in condizioni normali, tranne se le due molecole si attirano per motivi elettrostatici
(Effetto Circe).

Costanti catalitiche: riassunto


• KM (mM) = concentrazione di substrato che corrisponde alla metà della velocità
massima. Essa è un indice (quantitativo) di affinità tra l’enzima e il substrato (nel caso
limite in cui K-1 >> K2) ed è una grandezza caratteristica di ciascun enzima. Più basso
sarà il valore di KM e più bassa sarà la concentrazione di substrato che permette di
raggiungere la Vmax/2 (il che indica un’alta affinità enzima-substrato).
• Kcat (s-1) = detto anche numero di turnover, costante cinetica definita dalla K della
reazione limitante; è il numero massimo di molecole di substrato convertite in prodotto
nell’unità di tempo da una molecola di enzima (quando l’enzima è saturo).
• Efficienza catalitica o Costante di specificità, Kcat/KM (M-1s-1) = parametro cinetico
che dipende in maniera diretta dalla frequenza di interazione (di “incontro”) tra E ed S e
dall’efficienza con cui E ed S si legano all’interno della soluzione. Essa è una misura di
quanto efficacemente un enzima è in grado di legare il suo substrato e di catalizzare la
sua trasformazione in prodotto.

Esistono reazioni che possono avere più


substrati e le dinamiche possono essere
diverse. Esistono casi in cui l’enzima
interagisce con due substrati in
contemporanea (si forma un complesso
ternario) o casi in cui un enzima prima
processa il substrato 1 poi il 2
(meccanismo a ping-pong).
Gli enzimi possono essere inibiti
Gli inibitori sono degli attori importanti nella regolazione dell’attività enzimatica fisiologicamente (es.:
coagulazione del sangue à cascata coagulativa che produce il coagulo ma questi enzimi che fanno
produrre il coagulo devono essere spenti prima o poi, perciò intervengono degli inibitori che
spengono la cascata coagulativa). Esistono inibitori a moltissimi livelli all’interno e all’esterno della
cellula.
Gli inibitori sono anche strumenti importanti che il ricercatore usa per studiare enzimi e, soprattutto,
che il ricercatore inventa per inibire enzimi coinvolti in processi patologici (inibitori sono i farmaci
contro il cancro).

Dobbiamo suddividere il concetto di inibizione enzimatica in due grandi categorie:


• Inibizione enzimatica irreversibile: noi avremo che il legame dell’enzima con l’inibitore (E +
I) è così forte (covalente ma possono anche essere interazioni non covalenti molto forti) che
alla fine noi avremo il complesso EI con l’enzima inibito e questo processo è irreversibile. Se
vogliamo vincere la competizione con l’inibitore dobbiamo avere dell’enzima libero non legato
all’inibitore (non c’è un equilibrio tra queste due forme).
𝐸 + 𝐼 → 𝐸𝐼
• Inibizione enzimatica reversibile: qui abbiamo un equilibrio perché l’interazione tra E ed I è
data da legami non covalenti e c’è un equilibrio appunto.
𝐸 + 𝐼 → 𝐸𝐼 𝑚𝑎 𝑎𝑛𝑐ℎ𝑒 𝐸𝐼 → 𝐸 + 𝐼
o Se facciamo l’inibizione reversibile noi distinguiamo tre scenari diversi, che si
distinguono tra di loro per il luogo dell’enzima in cui l’inibitore si lega.
1) Inibizione enzimatica reversibile competitiva: l’inibitore si lega all’enzima
a livello del sito attivo, nel posto dovrebbe legarsi con il substrato à in
questo caso, perciò, c’è una competizione tra l’inibitore e il substrato.
L’inibitore può perciò solo legarsi all’enzima libero.
2) Inibizione non competitiva: in questo caso l’inibitore è una molecola che
non si lega nel sito attivo, ma va a legarsi in una regione lontana dal sito
attivo à non c’è perciò competizione. L’inibitore in questo caso può legarsi
sia all’enzima libero che all’enzima complessato con il substrato. Il suo
meccanismo di inibizione è un meccanismo in cui legandosi l’inibitore fa
cambiare conformazione all’enzima che viene inibito. Sia che si leghi
all’enzima libero che al complesso ci sarà un equilibrio tra le due forme.
3) Inibizione incompetitiva: un inibitore si lega solo al complesso ES,
all’interfaccia. Si forma perciò il complesso ESI che è inibito. È perciò uno
scenario intermedio tra i due precedenti.
Come facciamo ad accorgerci di quale tipo di inibizione sta
avvenendo? Andando a vedere le costanti cinetiche. Mi calcolo
sperimentalmente l’iperbole di Michaelis-Menten. Come si riflette la
presenza dell’inibitore sulla cinetica dell’enzima?
La Vmax si raggiunge lo stesso ma all’aumentare dell’inibitore
aumenta la KM. Queste KM sono quindi frutto dell’inibitore, non
quelle vere dell’enzima. Questi parametri si chiamano “apparenti”.

A seconda del tipo di inibitore, l’impatto sulla KM e sulla Vmax cambia in maniera drasticamente
diversa:
• Inibizione reversibile competitiva: l’enzima o lega il substrato o l’inibitore. Chi vince è in
relazione a due parametri:
o A favore della specie più concentrata (concentrazione maggiore)
o Affinità di enzima per le due specie separate (inibitore e substrato). Se la costante di
affinità è superiore per l’inibitore allora si legherà ad esso.
Perciò: A bassa concentrazione di substrato, con affinità simili, vince l’inibitore.
A parità di concentrazioni di substrato, se non ho l’inibitore, avrò una velocità x, se metto
l’inibitore la velocità (iniziale) cala.
Se la quantità di substrato diventa molto più grande dell’inibitore, vince il substrato. A
elevatissime concentrazioni di substrato, perciò, l’inibizione sarà trascurabile e la Vmax verrà
raggiunta ugualmente, ma più lentamente perché nella prima parte viene inibita. La curva si
sposta verso destra e perciò la KM aumenta, anche se la Vmax rimane invariata.

Ricapitolando, a basse concentrazioni di substrato,


l’enzima sarà inibito, perché tende a prevalere
l’inibizione, quindi la sua velocità è inferiore.
Quando aumenta la concentrazione del substrato,
l’enzima è meno inibito e quindi la velocità
aumenta.
Io mi accorgo di un inibitore competitivo
reversibile perché a grandi concentrazioni di
substrato, l’enzima, seppur inibito, raggiunge
comunque la Vmax.
Inoltre, aumenta la KM apparente, perché bisogna
vincere la competizione con l’inibitore aumentando
la concentrazione del substrato. Quindi abbiamo:
stessa Vmax e aumento di KM. Questo indica che
l’affinità tra substrato ed enzima sta diminuendo
per azione dell’inibitore.

Col metodo dei doppi reciproci la curva diventerebbe così


(non importante).
• Inibizione reversibile non competitiva: l’inibitore può
legarsi all’enzima in un punto diverso rispetto al sito attivo.
Può legarsi all’enzima libero o al complesso ES per
formare ESI che viene inibito, non c’è perciò competizione.
Legandosi lì, fa cambiare conformazione all’enzima
(allosteria), che poi non è più attivo o è meno efficiente
rispetto a prima.
Anche a concentrazioni crescenti di substrato, perciò, non
essendoci competizione (l’enzima, a prescindere dalla
concentrazione del substrato, viene sempre inibito
dall’inibitore) la Vmax non viene mai raggiunta, ma cala,
perché l’enzima rimane sempre inibito. In questo caso la
KM, invece, rimane invariata, perché l’affinità enzima-
substrato rimane invariata (inibitore e substrato non
competono).

• Inibizione reversibile incompetitiva: l’inibitore non si lega


all’enzima da solo, ma si lega al complesso enzima-
substrato. Solo quando il substrato è dentro, si genera una
piattaforma biochimica in cui l’inibitore può interagire
attraverso interazioni deboli facendo cambiare conformazione
all’enzima e, quindi, inibendolo.
La velocità massima (Vmax) non viene mai raggiunta perché
l’enzima viene inibito a seguito della formazione del
complesso enzima-substrato; più si aggiunge S, più il
complesso viene inibito. Apparentemente, perciò, viene
favorita la formazione del complesso enzima-substrato, è
come se stessi tirando la reazione verso destra, è come se E
ed S fossero più affini e quindi la KM apparente diminuisce.

• Inibitori irreversibili (inibitori


“suicidi”):
Si legano covalentemente al sito
attivo dell’enzima al posto del
substrato (mima il substrato, sono
degli “pseudo-substrati”) e lo
rendono permanentemente inibito e
quindi inattivo.
Possiamo raggiungere in questo
caso la Vmax? NO. L’unico modo per
avere un aumento della catalisi è
avere dell’altro enzima libero che
non venga inibito.
La velocità di reazione è influenzata da numerose variabili:
• concentrazione di substrato (più substrato c’è, più favorita sarà la formazione del complesso ES e
tanto più la reazione sarà veloce)
• concentrazione di enzima (più enzima c’è, più efficiente sarà la catalisi enzimatica)
• inibitori
• cofattori/coenzimi (possono coadiuvare gli enzimi)
• attivatori (alcuni enzimi devono essere attivati, come quelli della coagulazione del sangue, che
prima circolano nel sangue sotto forma di precursori inattivi degli enzimi, chiamati “proenzimi” e, in
seguito a interazione con gli attivatori, si attivano)
• pH
• temperatura

Effetti del pH sull’attività enzimatica:


L’attività di molti enzimi varia con il pH nello stesso modo in cui semplici acidi e basi si
ionizzano:
• nel sito catalitico vi sono spesso residui acidi e basici (es.: NH3 può protonarsi
e quindi un enzima può non più funzionare)
• variazioni di pH modificano le interazioni intra- ed inter-catena (folding proteina)

Tutti gli enzimi hanno perciò un loro pH ottimale a cui esercitano la loro funzione in
modo massimale.
Es.:

Effetti della temperatura sulla catalisi:


La temperatura più alta è vantaggiosa dal punto di vista della cinetica enzimatica perché
favorisce la reazione del substrato e quindi aumenta la possibilità della formazione del
complesso enzima-substrato. Se invece calo la temperatura, i moti cinetici saranno più
rallentati e l’incontro tra E ed S sarà sfavorito.
Sperimentalmente, in vitro, si è rilevato che la velocità di gran parte delle reazioni
enzimatiche in media raddoppia per ogni aumento di 10°C di temperatura.
Temperatura ottimale:
• varia da un enzima all’altro
• dipende dal particolare sistema cellulare

L’aumento della temperatura ha comunque un limite, perché a temperature troppo alte la


proteina si denatura, quindi l’enzima non svolge più la sua funzione (ecco perché
all’aumento della temperatura abbiamo un andamento a campana).
A seconda degli enzimi considerati e a
quale organismo appartengono (quindi
considerando la loro evoluzione) la
reazione alla temperatura è differente,
ovvero gli enzimi saranno adattati per
l’ambiente in cui l’organismo si è evoluto.
Nel nostro caso, gli enzimi si sono
evoluti per una temperatura prossima ai
37°C.

Non tutti gli enzimi obbediscono alla cinetica di Michaelis-Menten:


Gli enzimi Allosterici (enzimi regolatori) à Questo perché
risentono di cambi conformazionali allosterici indotti da uno o più
modulatori (come nell’emoglobina).
Invece di avere una curva iperbolica, hanno una curva sigmoide.
Sono dotati di più subunità:
• subunità catalitica
• subunità di regolazione
Il modulatore (enzimi eterotropici o modulazione eterotropica), ma
anche il substrato stesso in qualche caso (enzimi omotropici o
modulazione omotropica), possono dare origine a cambi
conformazionali che rendono l’enzima più o meno attivo (più affine
al substrato).
Questi enzimi li ritroviamo nelle tappe che sono regolate del metabolismo e sono fondamentali.

Altre strategie di regolazione


• Modificazioni covalenti reversibili: enzimi che possono essere modificati covalentemente:
un enzima può essere ad esempio metilato o fosforilato attraverso una chinasi e cambia
conformazione. Questo processo può essere però reversibile.
o Es.: una chinasi tramite uso di ATP può fosforilare un enzima, il quale poi è più attivo.
In un altro momento può poi intervenire l’alter ego della chinasi, la fosfatasi, la quale
porta alla rimozione del gruppo fosfato e l’enzima torna inattivo.
• Taglio proteolitico:
o Es.: abbiamo un precursore inattivo di un enzima a singola catena e grazie a un taglio
proteolitico, da parte di un altro enzima, in un punto, l’enzima viene convertito in due
catene e in questo caso è attivato (taglio proteolitico limitato).

Meccanismi di azione
Tipi di catalisi:
a) catalisi covalente (l’enzima e alcuni intermedi della reazione ingaggiano un
legame covalente, che naturalmente poi si romperà)
b) catalisi acido-base (a livello del sito attivo ci sono catene laterali che cedono o
acquistano protoni per far avvenire la reazione)
c) catalisi da ioni metallici (enzimi che a livello del loro sito attivo hanno dei cationi/ioni metallici
che sono direttamente coinvolti nella catalisi)
Gli enzimi possono usare contemporaneamente più di un tipo di catalisi.

Catalisi da ioni metallici: DNA-POLIMERASI


Prendiamo come esempio la DNA-Polimerasi. La DNA-Polimerasi è in grado di
aggiungere progressivamente alla catena nascente di DNA un nucleotide dopo l’altro.
• Non parte mai generando un nuovo filamento da zero, ma è solo capace di
allungare il filamento da un innesco (ha bisogno di una giunzione innesco-stampo
à una regione/estremità in cui c’è un filamento che deve essere copiato e
attaccato allo stampo c’è una regione a doppio filamento che protrude con un 3’ del
ribosio). Questa regione (giunzione innesco-stampo) è proprio il punto dove la
DNA-pol aggiunge nucleotidi seguendo la complementarità dello stampo.

Nucleotidi à sono costituiti da uno zucchero, ribosio (per DNA deossiribosio) che
presenta in posizione 3’ un OH, in posizione 1 la base azotata e in posizione 5’ CH2
legato a tre fosfati con tutti i suoi ossigeni.
Questo è il nucleotide trifosfato. Quando
parliamo delle posizioni del ribosio usiamo
sempre il suffisso ‘ (primo). I tre fosfati
vengono nominati in base alla distanza dal
5’ con alfa, beta e gamma.
Il legame tra un nucleotide e l’altro è
formato da un legame fosfodiesterico, il
quale si diparte dal 3’ di un nucleotide con
un ossigeno, un fosfato e arriva
all’ossigeno del 5’ del secondo nucleotide.
Abbiamo detto che la DNA-pol ha
bisogno di uno stampo per partire.
Questo innesco è complementare al
filamento stampo.

Nel sito attivo della


polimerasi entra il nucleotide
che è in grado di appaiarsi
col templato della base
aggiuntiva. Ad esempio, si
appaia l’adenina (A) con la
timina (T). Nel momento in
cui si genera l’appaiamento,
quello che capita è l’attacco
nucleofilo dell’ossigeno
dell’OH in 3’, quindi della
catena che sta crescendo,
sul fosfato in α (alfa), ovvero
quello più vicino al ribosio,
del secondo nucleotide.
L’attacco nucleofilo sul fosfato in α porta a perdere il pirofosfato (gli altri due fosfati) e si
genera il nuovo legame fosfodiesterico. Questa è la catalisi della DNA-polimerasi.

Cos’è che rende questa reazione irreversibile che sarebbe, normalmente, reversibile (∆G
leggermente negativo)? É irreversibile perché il pirofosfato che viene generato viene
subito idrolizzato da una fosfatasi (che si chiama pirofosfatasi inorganica) che scinde il
pirofosfato in due fosfati inorganici. Questa reazione di idrolisi del pirofosfato ha un ∆G
marcatamente negativo; pertanto, nel momento in cui il pirofosfato viene “tirato via”, la
reazione inversa non può più avvenire.

La DNA-polimerasi avanza catalizzando questa reazione a circa 1000 nucleotidi al secondo,


con una fedeltà che si aggira intorno a un errore circa ogni 105–106, ne sbaglia quindi 1 ogni
100.000/ogni 1.000.000 circa!
Cos’è che impedisce ad un nucleotide di appaiarsi con il nucleotide sbagliato, ad esempio
un appaiamento tra una timina e una citosina? Niente impedisce al nucleotide sbagliato di
entrare all’interno della DNA-polimerasi, perché le dimensioni dei nucleotidi sono simili, non
c’è nessuna questione sterica, i nucleotidi sono ugualmente rappresentati.
Se tutti possono entrare, come fa la DNA-polimerasi ad avere una fedeltà di 105– 106?
Cosa impedisce l’appaiamento sbagliato? Inoltre, in una cellula, tra i
deossiribonucleotidi (che servono per la sintesi del DNA) e i ribonucleotidi (che
servono per la sintesi dell’RNA), sono più abbondanti i secondi, quindi come fa la
DNA-polimerasi a discriminare l’uno dall’altro?
La risposta si trova nel sito attivo
dell’enzima: la precisione della DNA-
polimerasi non è data dalla sua capacità di
poter regolare il flusso di nucleotidi in
entrata, ma dal fatto che se entra il
nucleotide giusto che forma l’appaiamento
di Watson e Crick, questo si orienta nella
maniera corretta, ovvero l’OH che fa
l’attacco nucleofilo è vicino al fosfato α e
avviene la reazione enzimatica (catalisi per
prossimità). Se entra dentro il nucleotide
sbagliato, non avvengono gli appaiamenti
di Watson e Crick e quindi il nucleotide non
si orienta correttamente. Di conseguenza,
l’OH non è vicino al fosfato in α e la reazione non avviene e il nucleotide se ne va.
Questa è la spiegazione catalitica della fedeltà della DNA-polimerasi, una fedeltà che si
basa sul fatto di far avvenire una reazione solo sul nucleotide giusto perché si appaia
correttamente con il templato e tutte le altre combinazioni non orienteranno mai il
nucleotide trifosfato entrante
nell’orientamento giusto per subire
l’attacco nucleofilo.
Nel caso dell’appaiamento tra C e G, se
entra l’equivalente ribonucleotidico della
C (ovvero l’uracile, U), come fa la DNA-
polimerasi a discriminarli?
La risposta si trova in una tasca presente
nel sito attivo dell’enzima che accoglie
l’OH in 3’ del nucleotide entrante. Il
ribonucleotide presenta un OH anche in
posizione 2’, che non ci sta perché non è
presente nessun’altra tasca per
accoglierlo nel sito attivo. Questo porta
l’equivalente ribonucleotidico a orientarsi
male all’interno della DNA-polimerasi e quindi la catalisi non avviene.

Perché avviene la catalisi?


Il DNA è carico negativamente, dentro il sito attivo deve entrare un deossiribonucleotide tri-fosfato
con tutte queste cariche negative, di conseguenza queste tendono a respingersi, occorre trovare un
modo per migliorare la repulsione tra le cariche negative.
La seconda difficoltà è che un gruppo OH non è un buon nucleofilo in generale, ma in
questo caso stiamo trattando di una catalisi mediata da cationi bivalenti.
Il nucleotide tri-fosfato che entra all’interno della DNA-polimerasi si trova la giunzione
innesco-stampo che è composta dalla catena di DNA. Le catene di DNA all’esterno si
portano lo scheletro fosfato che è pieno di ossigeni negativi. Cos’è che convince un
nucleotide tri-fosfato carico di cariche negative ad andare vicino ad una doppia elica
piena di cariche negative se la repulsione le terrebbe lontane?
La risposta sta in due cationi magnesio (Mg2+) che sono presenti all’interno del sito attivo
della DNA-polimerasi.
A cosa servono?
Questi due cationi bivalenti sono tenuti insieme,
dentro il sito attivo dell’enzima, da interazioni con
amminoacidi del sito attivo (acido Aspartico che
interagisce con i due cationi bivalenti e li mantiene
nella posizione giusta).
Un magnesio scherma le cariche negative del
nucleotide entrante (minimizza le repulsioni in modo
che il nucleotide riesca ad arrivare nel sito attivo),
l’altro catione bivalente interagisce con l’OH della
catena nascente (OH in 3’ che dovrebbe fare
l’attacco nucleofilo) e tende a strappargli il protone e,
facendo così, lo rende nucleofilo per l’attacco.
Senza magnesio, quindi, la DNA-pol non funziona.

Dal punto di vista proteico, la DNA- polimerasi


assomiglia ad una mano destra semi-chiusa e
nel palmo di questa risiede il sito attivo
dell’enzima. Nel palmo del sito attivo viene
collocata la giunzione innesco-stampo.
Come già detto, nel sito attivo entra il nucleotide entrante che
deve appaiarsi secondo appaiamenti Watson e Crick.
Quando entra il nucleotide, lui potrebbe appaiarsi con
qualsiasi nucleotide a lui complementare, ma la polimerasi, con le sue dita figurate, impone una
piegatura nello stampo in maniera tale che nel sito attivo sia esposto solo il nucleotide con cui
dobbiamo appaiare il nucleotide entrante. Se così non fosse, ci potrebbe essere la delezione di un
nucleotide e quindi la morte del gene e della sua funzione.

Catalisi covalente (e catalisi acido-base): Catalisi degli enzimi proteolitici (serina proteasi)
Le proteasi sono enzimi che catalizzano la rottura del legame peptidico (il 2% del genoma umano
codifica per delle proteasi, sono una famiglia enorme). Esse sono fondamentali per i batteri e per
tanti processi fisiologici (sviluppo, digestione e coagulazione del sangue).

Quello che distingue le proteasi, accomunate dalla capacità di scindere ed idrolizzare il


legame peptidico, è l’amminoacido chiave nel catalizzare la reazione. Esistono proteasi
che usano la serina, altre l’aspartico, altre la cisteina. Noi ci dedicheremo alle serin
proteasi.

Il legame peptidico è instabile, quindi dal punto di vista termodinamico tenderebbe ad


idrolizzarsi, tuttavia questa reazione avverrebbe in anni. La reazione deve essere
accelerata, in presenza dell’enzima questa avviene in pochi millisecondi.

Come avviene la reazione catalizzata dalla serina proteasi:


si osserva un andamento bifasico
• Fase esplosiva: molto veloce
• Fase più lenta
Queste due fasi scandiscono le tappe del meccanismo.
Cosa rende la serina un ottimo nucleofilo all’interno del sito attivo?
La famiglia delle serine proteasi è in grado di idrolizzare il legame peptidico.
La serina ha una catena laterale Cα-CH2-OH.
Tutti questi enzimi, all’interno del sito attivo hanno, quindi, una serina la cui reazione
prevede che l’ossigeno della serina faccia l’attacco nucleofilo sul carbonio carbonilico del
legame da rompere.
Perché la serina è così prona a fare l’attacco nucleofilo? (Concetto del contesto)
Dentro la proteina ci sarà la serina del sito attivo, e anche qualche altra persa in giro per la
proteina, ma, al contrario delle altre serine in giro, a livello del sito attivo delle serin-
proteasi, la serina non è in un contesto normale, ma in un contesto che la rende prona
all’attacco, ovvero ha sull’ossigeno gli elettroni del legame con l’idrogeno (contesto
favorisce la deprotonazione della
serina). A livello delle serin-proteasi,
nel sito attivo, si trova la triade
catalitica (3 amminoacidi, uno è la
serina (Ser 195), mentre gli altri due
sono un residuo di istidina (His 57) e un
residuo di acido aspartico (Asp 102)).
L’istidina è in grado di accogliere un
protone, caricandosi positivamente; il
protone può anche essere ceduto (quindi se lo prende si comporta da base, se lo cede da
acido), quindi l’istidina può comportarsi da base strappando il protone alla serina,
lasciando gli elettroni sull’ossigeno, che adesso è
prono a fare l’attacco nucleofilo (la serina, quindi,
ora è prona a fare l’attacco nucleofilo).
L’aspartico, con la sua catena laterale CH2COO-,
interagisce con l’istidina carica positivamente per
stabilizzarla.
ECCO LA FUNZIONE DELLA TRIADE
CATALITICA.

L’alta reattività della serina 195 si spiega quindi


con la struttura del sito attivo stesso (della
chimotripsina)!
A livello del sito attivo c’è una struttura comune a
tutte le serin proteasi, ovvero la triade catalitica.

Le due fasi scandiscono le reazioni che avvengono, tra le due fasi c’è la formazione di un
complesso intermedio con legame covalente tra enzima e intermedio (da qui il nome di
catalisi covalente)

FASE ESPLOSIVA: anche chiamata fase di acilazione


Il substrato, immaginiamo di avere una proteina ormata da una regione N-terminale con la
regione R1, qui c’è il legame peptidico da idrolizzare, e una regione R2 che finisce con il
COO-.
Al tempo T0, a livello del sito attivo
dell’enzima, la triade catalitica funziona
con la istidina che tende a strappare il
protone alla serina, gli elettroni stanno
sull’ossigeno, e l’istidina si carica
positivamente e viene stabilizzata dalla
vicinanza con l’acido aspartico. A questo
punto l’ossigeno va a fare l’attacco
nucleofilo sul carbonio carbonilico (ha
parziale carica positiva), dal momento che
il carbonio non può avere 5 legami, gli
elettroni del doppio legame vanno
sull’ossigeno formando una struttura
altamente instabile, chiamata
OSSIANIONE (è una specie con tempo di
vita medio così basso che lo possiamo quasi immaginare come uno stato di transizione).
Gli elettroni sull’ossigeno, poiché questa è una specie così instabile, tornano a formare il
doppio legame, quindi si deve rompere il legame peptidico.
Si trova così l’enzima legato covalentemente ad una parte del peptide. SI è FORMATO
L’INTERMEDIO TRA L’ENZIMA E UNA PARTE DEL SUBSTRATO INIZIALE (chiamato
Acil-enzima)
Quando l’ossianione collassa, si riforma il doppio legame C=O e si rompe il legame
peptidico.
Dall’altra parte si ha liberato una prima parte del prodotto della proteolisi: R2 con COO-, e
NH, il quale ha bisogno di un protone per essere stabile e lo riceve dall’istidina carica
positivamente (si comporta da acido)

FASE LENTA: anche chiamata fase di deacilazione


La triade è tornata ad essere normale.
Bisogna rompere il legame covalente tra l’acil e l’enzima.
Questa seconda fase coinvolge l’acqua (da
cui idrolisi), la quale non è un buon nucleofilo;
l’istidina, allora, si comporta da base e
strappa un protone all’acqua. Gli elettroni
sono sull’ossigeno, il quale ora è prono a fare
l’attacco nucleofilo sul carbonio carbonilico.
Gli elettroni del doppio legame vanno
sull’ossigeno e ci si trova davanti
all’ossianione, il quale collassa e si riforma il
doppio legame e si rompe il legame tra la
serina, dell’enzima, e l’intermedio.
L’istidina cede poi il protone alla serina e la
triade torna normale.

Questa è la catalisi covalente, mediata anche da una catalisi acido-base (istidina che si
comporta da acido o base).
L’enzima, come sappiamo, accelera le reazioni fornendo una via alternativa allo svolgimento della
reazione e stabilizza lo stato di transizione (così abbassa l’energia di attivazione). L’enzima ha una
tasca che stabilizza l’ossianione, fatto che abbassa l’energia di attivazione.
Quando si genera l’ossianione, quindi, questo è “accolto”
da altri amminoacidi vicino alla triade catalitica che lo
stabilizzano e quindi ne abbassano l’energia libera
abbassando il picco di energia di attivazione. Questa
regione è chiamata buco ossianionico.
Se vi sono mutazioni genetiche che vanno a colpire la
tasca dell’ossianione mentre la triade rimane perfetta, la
serina proteasi non funzionerà.

Perché gli amminoacidi della triade catalitica hanno questi numeri?


Si fa riferimento alla numerazione degli amminoacidi della chimotripsina (che ha la serina
in posizione 195, l’istidina in posizione 57 e l’acido aspartico in posizione
102), per tutte le diverse proteine che possiedono il sito attivo con la triade, che quindi
fanno parte della famiglia delle proteasi.

La serina proteasi, in linea generale, funziona bene a pH


intorno alla neutralità.
A pH acido, le catene laterali degli amminoacidi si protonano,
in particolare in questo caso si protona l’istidina, quindi non
può più comportarsi da base, non può più strappare
l’elettrone alla serina e quindi la serina proteasi non può più
funzionare.
Ci occupiamo ora dell’attivazione degli enzimi (come avviene la conversione da precursore a
enzima attivo) e dell’argomento della specificità usando sempre le serina-proteasi, e facendo
la specificità toccheremo anche l’argomento dei cofattori (importantissimi in molti processi
fisiologici).

Meccanismi alla base dell’attivazione


Qual è il meccanismo che previene l’attività delle proteasi quando
non ce n’è bisogno?
Pensiamo per esempio agli enzimi della digestione, proteasi che
idrolizzano in maniera simile alla serin-proteasi; se questo enzima
proteolitico venisse sintetizzato in maniera completa e quindi dentro
la cellula venisse sintetizzata la proteasi attiva, essa andrebbe a
digerire le proteine della cellula stessa (può dare origine a fenomeni
patologici molto gravi).

Per questa ragione, gli enzimi proteolitici nella maggior parte dei casi
vengono generati sotto forma di precursori inattivi che, d’ora in poi,
chiameremo con il termine di “zimogeno”. Lo zimogeno deve andare
incontro ad attivazione per dare origine all’enzima cataliticamente
competente. Ed è proprio quello che capita nella produzione degli
enzimi digestivi, solo una volta che sono nel lume intestinale questi
possono essere convertiti nell’enzima attivo per la digestione.

La tripsina, ad esempio, che è un enzima


digestivo, viene sintetizzata sotto forma di
zimogeno chiamato tripsinogeno; stessa cosa
per l’elastasi e altri enzimi.

Qual è il meccanismo tra i più comuni di attivazione di questi enzimi?


Il meccanismo di controllo passa attraverso un
taglio proteolitico limitato.
Noi abbiamo l’enzima e la regione chiamata
“regione di attivazione”, questo è lo zimogeno.
Dopo taglio proteolitico limitato (limitato perché
in un punto o al massimo due punti) viene
rimosso un peptide di attivazione e quello che
rimane dopo il taglio proteolitico va incontro a
una conversione che porta l’enzima inattivo ad
assumere la conformazione di enzima attivo.
In effetti è quello che capita nel controllo della cascata coagulativa, che non è altro che una
cascata enzimatica in cui i vari fattori della coagulazione, che sono delle serin proteasi, da
precursori inattivi si trasformano in enzimi attivi grazie a taglio proteolitico da parte dell’enzima
precedente fino ad arrivare alla trombina (enzima competente). Tutti questi enzimi si trovano
inattivi nel nostro plasma sanguigno, inattivi al fine di impedire che si inneschi la cascata
coagulativa che dia origine a dei trombi (trombosi) e si attivano solo quando ce n’è bisogno,
ovvero quando ci tagliamo.
Se noi confrontiamo il sito di attivazione di tutte queste serin-proteasi, scopriamo che il punto
di taglio avviene in un punto preciso; e qual è l’effetto del taglio? Quello di generare un nuovo
amminoterminale à Es: abbiamo uno zimogeno con un sito di attivazione (il quale nelle serin-
proteasi è sempre un sito in cui prima del taglio c’è un residuo di arginina e dopo il taglio un
residuo idrofobico). Se noi leggiamo la proteina dall’amminoterminale al carbossiterminale, noi
abbiamo il punto con il legame peptidico da tagliare del punto di attivazione. Dopo il taglio da
parte dell’attivatore (proteolisi limitata) quello che si genera sarà una regione a sinistra e una
regione a destra; quindi, avremo generato sulla sinistra il nuovo carbossiterminale e sulla
destra il nuovo amminoterminale. Il taglio porta perciò alla generazione di due nuove
estremità, tra cui la più importante è la nuova estremità amminoterminale (“New
Amminoterminus”). Proprio questa nuova estremità ingaggerà un legame ionico all’interno
della proteina con un residuo di aspartico in maniera tale da dare origine a un cambiamento
conformazionale dello zimogeno che diventa enzima cataliticamente competente. L’aspartico
in queste serin-proteasi ha numero 194
(la serina della triade catalitica aveva
numerazione 195), perciò questo nuovo
amminoterminale forma un ponte salino
(“salt bridge”) con un amminoacido
aspartico 194 che è prossimo alla triade,
determina cambiamenti conformazionali
a livello della triade.

Naturalmente le due catene formatisi


dalla proteolisi limitata non si staccano,
ma rimangono unite dai ponti disulfuro,
rimane comunque la struttura globulare
del precursore.

Il ponte salino che si forma con l’aspartico 194 non è un


banale legame ionico, ma si porta dietro cambiamenti
conformazionali di tutta la proteina (di tanti loop di
superficie) nella regione del sito attivo. Ad esempio, tra
chimotripsinogeno e chimotripsina ci sono estese
differenze conformazionali date dal fatto che l’isoleucina
16 del punto di attivazione si sposta per dare origine al
ponte salino con l’asp 194.

Il taglio nel sito di attivazione determina modificazioni conformazionali del dominio catalitico e
la formazione del sito attivo della serin proteasi. Dopo il taglio si portano vicini gli aa della
triade catalitica, si genera il buco dell’ossianione, si genera la tasca che accoglierà
l’amminoacido da tagliare in prossimità e l’enzima diventa cataliticamente competente.
Tutto sta nella formazione del legame salino, senza di esso non si genera l’enzima attivo.
Quindi adesso capiamo l’altra metà della dipendenza delle serin proteasi dal pH à Tripsina,
chimotripsina ed elastina sono serin proteasi digestive che agiscono a livello dell’intestino e si
differenziano per la specificità e agiscono intorno a pH che si aggira intorno alla neutralità. Se
io calo il pH tendo a protonare le catene laterali; se protono le catene laterali chi si può
protonare è l’istidina della triade catalitica, quindi si protona e non è più capace di strappare il
protone alla serina della triade, quindi non abbiamo attività (ecco perché le serin proteasi non
funzionano a pH più basso della neutralità).
Se invece aumento il pH le catene laterali tendono a deprotonarsi. Dopo il taglio proteolitico
dello zimogeno si genera un nuovo amminoterminale che è cruciale per formare un ponte
salino con l’asp 194 in prossimità della triade catalitica, ma se io aumento il pH e questo
amminoterminale si deprotona, il ponte salino non si può più formare e quindi non abbiamo
attività neanche in questo caso, perché l’enzima non riesce a raggiungere la conformazione
necessaria.

La specificità
Partiamo dal livello più basso, dalle serinproteasi della digestione, che a livello intestinale si
preoccupano di idrolizzare il legame peptidico delle proteine ingerite (praticamente
frammentano le proteine in peptidi più piccoli che poi verranno tagliati ulteriormente da altre
peptidasi per produrre gli aa separati). Assumiamo di avere tre proteine da digerire e le serin
proteasi della digestione (tripsina, chimotripsina ed elastasi), possiamo immaginare un enzima
digestivo con una specificità precisa per una determinata proteina? NO, perché non
basterebbe il nostro intero genoma per avere abbastanza proteasi per tutte le diverse
proteine. Infatti, le serin proteasi della digestione digeriscono i legami peptidici non
riconoscendo la proteina ma riconoscendo l’amminoacido che precede il legame da tagliare.
In altre parole:
• La tripsina taglia dopo tutti gli aa che sono carichi positivamente (lisina, arginina).
• Differentemente, la chimotripsina taglia dopo aa idrofobici ed aromatici (triptofano,
fenilalanina, tirosina).
• L’elastasi, invece, taglia dopo aa con piccole catene laterali
Questo metodo è molto più efficace della specificità a una singola proteina, è impossibile che
queste serin proteasi non trovino un punto da tagliare.
Ecco la specificità degli enzimi della digestione, riconoscono la catena laterale dell’aa che
precede il legame da tagliare. Ma come fanno a riconoscerlo? Lo riconoscono perché in
prossimità della triade c’è una regione chiamata “tasca di specificità”, detta anche dai
biochimici “S1 specificity pocket” ed è proprio questa taschina che ha la caratteristica per
accogliere in maniera specifica le catene laterali degli aa che poi saranno quelli che
precedono il legame da tagliare. Quindi, quello che differenzia la tripsina dalla chimotripsina
dall’elastasi è come è fatta la tasca di specificità.
• Se è vero che la tripsina taglia
dopo aa carichi positivamente,
chiaramente nella tasca sarà
presente un aa carico negativo
(un aspartico), in tale maniera si
forma un legame ionico.
• Differentemente la chimotripsina
che accomoda gli aa aromatici e
ha quindi la catena laterale
grande ha una tasca di
specificità grande, capiente,
senza cariche.
• L’elastasi, con aa con catene
laterali piccoline e
idrocarburiche, ha una tasca piccola, occupata da catene laterali che la rendono
piccolina.

Questa però è la versione più semplice della specificità, si può arrivare a specificità molto
maggiore andando a vedere la coagulazione del sangue.
Queste interazioni appena viste non sono infatti sufficienti a garantire la specificità di taglio di
molte serin proteasi in altri processi.
Es: noi abbiamo la trombina (convertita dal suo precursore protrombina), essa ha quattro
diversi substrati, eppure se andiamo a guardare i punti sui substrati sui quali la trombina
taglia, scopriamo che taglia sempre dopo una arginina. Come fa a riconoscere questi substrati
e a tagliare proprio lì? Potrebbe essere perché intorno a quell’arginina c’è una sequenza
peptidica che accomuna i quattro substrati? Se fosse così, io dovrei ritrovare intorno al punto
di taglio delle similitudini nei vari substrati
tagliati dall’unico enzima trombina; quindi,
questa non è la risposta. La verità è che
la trombina (macromolecola da 400+ aa)
taglia il suo substrato (altra
macromolecola di centinaia di aa) in
unico punto perché non riconosce
direttamente il punto di taglio, ma prima
di farlo ingaggia estese interazioni
macromolecolari.
Quello che capita, perciò, è che prima
queste macromolecole interagiscono a
livello di regioni molto lontane dal sito
attivo (chiamate “esositi”); dopo aver
formato il complesso macromolecolare,
quell’arginina specifica del sito di taglio si
troverà vicino al sito attivo.
Perciò questo è un passaggio più
complesso di determinanti di
specificità. Solo se il substrato e
l’enzima sono quelli giusti, si
genererà l’esteso network di
interazioni lontane dal sito attivo che
collocheranno la specifica arginina
nel sito attivo.

In queste numerose interazioni partecipano non solo l’enzima, ma spesso anche i suoi cofattori
Determinanti di specificità a complessità crescente:
• Substrato di piccole dimensioni (es. glucosio) e un enzima con il suo sito attivo à il
substrato piccolino non fa altro che, per ragioni cinetiche e probabilistiche, entrare nel
sito attivo, dove poi si ingaggiano interazioni specifiche che rendono conto della
specificità tra il substrato e l’enzima, e qui avviene la catalisi.
• Serin proteasi della digestione (es. chimotripsina) à enzima con tasca di specificità
dentro alla quale viene accomodata la catena laterale dell’aa che precede il punto di
taglio. Non c’è un riconoscimento specifico della proteina in quanto macromolecola.
• Interazioni tra un enzima macromolecolare con tasca di specificità e un substrato
macromolecolare (prevale nei complessi fisiologici complessi) à prima i due partner
interagiscono attraverso interazioni specifiche in regioni lontane dai siti attivi/di taglio
(esositi), solo dopo le interazioni si forma il complesso e nel sito attivo si andrà a
posizionare il punto da tagliare.
o Tanti farmaci anticoagulanti di nuova generazione vanno a interferire con gli
esositi, in maniera tale che l’enzima della coagulazione non venga a interagire
male con il substrato quindi spegniamo la coagulazione per prevenire eventi
trombotici.
Le altre macromolecole
Carboidrati e glicobiologia
I carboidrati sono le molecole più abbondanti sulla Terra, sono importantissime ed hanno numerose
funzioni:
• energetico/riserva energetica à basti pensare agli zuccheri da cui il nostro organismo trae
una quota parte importante di energia ed alcuni tessuti, come il cervello, utilizzano
principalmente gli zuccheri, il glucosio in particolare. Altri tessuti, invece, per esempio il
muscolo e il fegato, sono sì in grado di utilizzare gli zuccheri ma buona parte della loro energia
viene tratta dai lipidi. I neuroni e il sistema nervoso centrale, invece, non possono utilizzare i
lipidi perché essi non passano la barriera ematoencefalica, ovvero la barriera che divide la
circolazione sistemica normale da quello che è il circolo all’interno del sistema nervoso
centrale. Per questa ragione, quando andiamo in ipoglicemia, chi soffre per primo è il cervello;
infatti, in condizioni ipoglicemiche si può andare incontro a coma proprio per mancanza di
glucosio e di zuccheri sufficienti a livello del sistema nervoso centrale. Gli zuccheri hanno
funzione energetica sia nelle piante/vegetali (basti pensare all’amido) sia a livello dei nostri
muscoli o del fegato (basti pensare al glicogeno).
• strutturale à per esempio è uno zucchero quello che compone la parete (peptidoglicano)
delle cellule vegetali. Anche la cellulosa nelle piante è fondamentalmente uno zucchero (basti
pensare alla carta, cotone). Anche i costituenti della matrice extracellulare sono
zuccheri/carboidrati; anche il liquido sinoviale, che sta dentro le nostre articolazioni, è un
carboidrato. Perciò in questi esempi ci sono componenti di carboidrati che rendono conto di
ruoli strutturali nella ECM o di ruoli di lubrificazione, per esempio dove ci sono i capi articolari
che si muovono all’interno delle articolazioni.
• funzionale à comunicano informazioni. Ad esempio, nel traffico intracellulare delle proteine,
un mannosio-6-fosfato è il marker che porta le proteine in un compartimento o in un altro. Gli
zuccheri sono anche un codice sulla superficie delle proteine che permettono interazioni
specifiche con ligandi.

Monosaccaridi: scheletri carboniosi che vengono definiti come poliidrossi (quindi con
numerosi gruppi OH) aldeidi o poliidrossi chetoni, a seconda del gruppo funzionale (se è
aldeidico o chetonico) e quindi
possiamo distinguere, a livello dei
monosaccaridi, gli aldosi e i chetosi.
Lo scheletro carbonioso può essere
più o meno lungo, oscilla tra i 3 e i 7
atomi di C in natura. Quelli più comuni
sono a 5 (ribosio e deossiribosio) o a
6 (glucosio, fruttosio, ecc.) atomi di C.
Il glucosio, ad esempio, è un
aldoesoso, mentre il fruttosio è un
chetoesoso. La presenza di numerosi
gruppi OH rende i monosaccaridi solubili in acqua, in virtù del fatto che in acqua possono
ingaggiare estese interazioni a legame idrogeno con l’acqua.

Se osserviamo la struttura dei monosaccaridi, ci accorgiamo che in più punti il carbonio ha


quattro sostituenti diversi (centri chirali) e perciò entra in gioco il concetto degli
stereoisomeri. Nel caso del glucosio, solo gli atomi di C 2,3,4 e 5 sono chirali, mentre il
primo e l’ultimo no. Avendo più centri chirali, è difficile categorizzare uno stereoisomero
nello stesso modo degli amminoacidi. I biochimici, perciò, chiamano i monosaccaridi D o L
a seconda di qual è la configurazione del carbonio chirale più lontano rispetto al carbonio
carbonilico. Perciò, se noi torniamo a guardare il glucosio e confrontiamo il carbonio 5 con
la struttura della gliceraldeide (zucchero più piccolo), l’OH a destra ci fa categorizzare il
glucosio come appartenente agli isomeri D.
Tutti i monosaccaridi in natura sono della categoria D, non ci sono esempi della serie L; il
motivo non si sa, l’unica ragione è che tutte le strutture che noi vediamo sono
assolutamente e unicamente compatibili con il fatto che si stia usando lo stesso
stereoisomero della stessa famiglia; probabilmente avremmo potuto avere strutture simili
anche avendo tutti monosaccaridi della classe L, ma così non è stato. Tutti gli enzimi che
insistono e lavorano sugli zuccheri hanno una capacità di riconoscimento di interazione
(una specificità perciò) dedicata alla classe D. Se per sintesi chimica producessimo un L-
Glucosio, esso sarebbe difficilmente utilizzabile dalle nostre cellule. Ricordiamoci inoltre
che il 99.9% degli amminoacidi sono della classe L (anche di questo non si sa il motivo).

I principali monosaccaridi sono il D-Glucosio, il fruttosio e il ribosio (da sapere a memoria).

Esistono dei monosaccaridi che si differenziano per la semplice configurazione attorno a


un unico carbonio, ad esempio il glucosio e il mannosio sono diversi solo al carbonio 2,
nel glucosio l’OH è a destra e nel mannosio a sinistra. Tutte le volte che troviamo due
monosaccaridi che si distinguono per la configurazione attorno a un singolo centro chirale,
si parla di “epimeri”. Ovviamente questi zuccheri non sono identici, ma hanno
caratteristiche stereochimiche differenti ed enzimi dedicati; non sono perciò
interscambiabili e non sono interconvertibili l’uno nell’altro (a meno che non intervenga
una isomerasi).

Questa è la forma lineare degli zuccheri, tuttavia, quando gli zuccheri sono in soluzione
acquosa (ovvero nella norma dentro la cellula), vanno incontro a delle reazioni
intramolecolari non catalizzate/spontanee per assumere delle forme cicliche.
Prendiamo a modello il D-glucosio nella sua
forma lineare, in soluzione acquosa quello che
capita è che avviene una reazione
intramolecolare tra un gruppo ossidrilico OH e il
carbonio carbonilico del gruppo aldeidico o
chetonico (prono a ricevere un attacco
nucleofilo). Perciò, quelle che succede è che
l’OH del carbonio 5 (solo in questa posizione
per questione di stabilità della forma ciclica che
si genera) fa un attacco nucleofilo sul carbonio
carbonilico per dare origine a una struttura
ciclica a sei atomi (eterociclica a sei atomi);
naturalmente quello che rimane fuori dall’anello è il carbonio 6 con il suo CH2OH.
Questa struttura ciclica si chiama struttura emiacetalica, è un emiacetale. Se al posto
del gruppo aldeidico avessimo avuto un gruppo chetonico a ricevere l’attacco nucleofilo,
la struttura ciclica si sarebbe chiamata struttura emichetalica, sarebbe un emichetale.

Il carbonio carbonilico nella struttura lineare non era chirale, tuttavia, nella struttura ciclica
il carbonio 1 diventa un nuovo centro chirale e questo carbonio 1 nella struttura
emiacetalica viene chiamato carbonio anomerico.
Se è vero che questo carbonio è un nuovo centro chirale, significa che l’OH può stare
verso l’alto, come in questa reazione, o verso il basso (dipende da come avviene l’attacco
nucleofilo). Possiamo quindi distinguere due stereoisomeri differenti (due anomeri
differenti), uno con l’OH verso l’alto e l’altro con l’OH verso il basso. Queste due strutture
sono due strutture diverse e non interconvertibili direttamente, l’unico modo è che si riapra
l’anello e che si richiuda nell’altra maniera, perciò dobbiamo passare sempre attraverso
l’apertura dell’anello e quindi la forma lineare. Queste due forme cicliche assumono dei
nomi, se l’OH è verso l’alto si dice che questa è la forma β, se è verso il basso si dice che
questa è la forma α.
In soluzione acquosa, queste tre forme non sono ugualmente rappresentate ma ce n’è
qualcuna più stabile rispetto alle altre. Sicuramente sono più stabili le forme eterocicliche
chiuse rispetto a quella lineare. Se dovessimo dare le proporzioni in soluzione acquosa,
stimiamo che 1/3 sia nella forma α, 2/3 nella forma β e una percentuale bassissima nella
forma lineare, ma TUTTE queste forme sono presenti in un equilibrio.
Il fatto che queste forme siano interconvertibili ci porta al processo della mutua
rotazione. In altre parole, se è vero che l’isomero β ruota la luce polarizzata in un senso e
l’α nel senso opposto, se noi prendessimo solo una delle tre forme, dopo un po’, si
raggiunge un equilibrio con le proporzioni viste sopra.

Quando è un aldoesoso ad andare incontro a questa reazione intramolecolare la struttura


più stabile che si può generare è quella ciclica a sei atomi di C appena vista (gli altri OH
legati a diversi carboni chirali non darebbero la
stessa stabilità, è una questione termodinamica),
questa struttura richiama la struttura eterociclica
del pirano, infatti si dice che queste sono forme
piranosidiche (il glucosio quindi si chiamerà α-D-
Glucopiranosio oppure β-D-Glucopiranosio).
Se prendiamo invece un chetoesoso, come il
fruttosio, anche esso ha 6 atomi di C, tuttavia il
carbonio carbonilico è in posizione 2 e quindi si
genera una struttura a cinque atomi di carbonio,
dove il carbonio 2 diventa quindi il carbonio
anomerico. Quando abbiamo strutture a cinque
atomi di C ci ispiriamo quindi per similitudine
all’anello che è quello del furano, per quello si
dice che il fruttosio assume una forma
furanosidica.
Quando abbiamo gli aldopentosi come il ribosio,
l’attacco nucleofilo è del 4 sull’1 ovviamente.
Anche questa è una forma furanosidica.

(NB: Sui testi, tanto più il segno di legame nella forma ciclica è spesso, tanto più vuol dire
che sta venendo verso di noi; tanto più è sottile, tanto più si sta allontanando da noi
dentro lo schermo)

Queste strutture scritte così possono sembrare planari, ma in realtà, per ragioni di
stabilità, questi anelli non sono mai planari. In realtà vengono assunte due possibili
conformazioni (non configurazioni, quindi sono interconvertibili) chiamate conformazioni
a sedia, tipico degli anelli a 6 atomi di C. In questa conformazione a sedia, i sostituenti
attorno a ogni posizione possono avere un orientamento assiale o equatoriale.
Ora possiamo capire perché la forma β sia più stabile della forma α. I due anomeri si
differenziano per l’OH in posizione 1
che nella forma α è assiale (vicino
all’altro OH in posizione 2) e nella
forma β è equatoriale (forma più stabile
termodinamicamente poiché l’OH in
posizione equatoriale si allontana
dall’anello) e questo spiega perché in
soluzione è maggiormente presente la
forma β.
L’anello a 5 atomi di C, invece, assume
una conformazione a barca.
Una conformazione di un tipo rispetto all’altra ha profonde ripercussioni sulla
macromolecola (in termini di conformazione generale) che contiene queste conformazioni.

La glicobiologia è molto più variegata persino rispetto agli amminoacidi. La sequenza degli zuccheri
non è scritta sui geni come per le proteine, ci sono enzimi che aggiungono monosaccaridi per
generare polisaccaridi e il fine controllo sulla dimensione, per quanto fine sia, non sarà mai blindato
come la trascrizione dei geni e la traduzione nei ribosomi; quindi, c’è molta variabilità nelle strutture
dei glicani.
Non bisogna essere sorpresi, quindi, se nelle strutture degli zuccheri si trovano spesso delle
modificazioni di questi zuccheri, ovvero monosaccaridi che sono stati modificati à ad esempio uno
zucchero modificato molto comune nelle strutture biologiche è la β-D-Glucosammina, ovvero una
molecola di glucosio con un gruppo amminico in posizione 2. Altrettanto comune è avere in posizione
2 un gruppo acetilico legato a un gruppo amminico, questo si chiama acetilglucosammina. Un terzo
esempio lo troveremo nella prima tappa della glicolisi, dove parleremo dello zucchero che entra
dentro la cellula con dei trasportatori e una volta entrato viene fosforilato; questa strategia di
fosforilare il glucosio (glucosio-6-fosfato) appena entrato è una strategia che abbiamo evoluto per
blindare il glucosio dentro la cellula, perché se è vero che esistono dei trasportatori per i
monosaccaridi, è peraltro vero che non sono presenti sulle membrane trasportatori per composti
fosforilati.
Ci sono poi altre varianti in cui il glucosio è ossidato; il glucosio può essere ossidato in due posizioni,
in posizione 6 dove c’è il gruppo aldeidico e l’aldeide ossidata diventa gruppo carbossilico
(glucoronato), oppure può essere ossidato dove c’è il carbonio anomerico (gluconato).
L’aggiunta di questi gruppi conferisce proprietà addizionali a questi monosaccaridi. Tutte queste
varianti le possiamo trovare in numerosi contesti.

I monosaccaridi sono riducenti (il che


significa che possono ossidarsi): il
carbonio anomerico può andare incontro
ad ossidazione, pertanto si può formare
un gruppo COO- (gluconato e in più ci
possono essere altre reazioni successive
che portano alla degradazione del
glucosio) in presenza di ione rameico
(Cu2+) che si riduce e così si ottiene una
reazione che veniva sfruttata nel passato
per misurare la glicemia nell’uomo
(“saggio di feeling”), in cui si misurava la concentrazione di glucosio ematico andando a
vedere quanto zucchero c’era e quanto era capace di ridurre il rame, che da ione
rameico diventava ossido di rame cambiando colore; tanto più colore si generava, tanto
più zucchero c’era.

Disaccaridi: Nella formazione di disaccaridi, oligosaccaridi e polisaccaridi avviene una


reazione analoga a quella che dà origine alla forma ciclica, solo che in questo caso
invece di essere una reazione intramolecolare è una reazione di monosaccaridi
differenti.
Prendiamo ad esempio il disaccaride del glucosio, il maltosio: Abbiamo quindi due
molecole di α-D-Glucosio, la reazione che
avviene è che l’OH in posizione 4 di un
monosaccaride fa l’attacco nucleofilo sul
carbonio anomerico (che è a tutti gli effetti
il carbonio carbonilico) dell’altro
monosaccaride. Quindi se la reazione per
la forma ciclica dava origine a un
emiacetale, questa seconda/successiva
reazione dà origine a un acetale, per dare
origine al legame glicosidico. Alla fine, perciò, si genera un legame covalente chiamato
legame O-glicosidico, che unisce gli zuccheri all’interno delle catene polisaccaridiche.
Ogni volta che definiamo il legame O-
glicosidico, noi dobbiamo però definire tra
quali atomi è avvenuto (molto importante). In
questo caso specifico, noi abbiamo un legame
O-glicosidico tra il glucosio e la sua posizione
1, e il glucosio e la sua posizione 4 dall’altra
parte. Come? Nello stereoisomero α da una
parte, nello stereoisomero α dall’altra (ma
conta solamente la forma del monosaccaride
che ha il carbonio anomerico ingaggiato nel legame). Stiamo parlando di un legame
glicosidico α-1-4.
Vedremo come la differenza tra gli atomi coinvolti nel legame glicosidico farà la
differenza nella struttura dell’oligosaccaride o polisaccaride che troveremo.

Poiché l’unica posizione in cui il monosaccaride può essere ossidato è la posizione


anomerica e per essere ossidata deve essere apribile e interconvertibile nella forma
lineare, per capire se un disaccaride può essere un riducente o meno si deve vedere se
esso ha un carbonio anomerico libero o se sono tutti blindati da un legame glicosidico.
Nel caso del maltosio, la posizione 1 del secondo monosaccaride è libera e può essere
ossidata, il che significa che questo zucchero è un riducente.
Se adesso avessimo un gran numero di molecole di glucosio tutte legate tramite
legame glicosidico 1-4, qual è l’estremità riducente e quale quella non riducente?
L’estremità col carbonio anomerico libero è quella riducente perché può ossidarsi.
L’altra estremità, invece, è quella non
riducente perché il carbonio anomerico è
ingaggiato in un legame glicosidico che
non gli permette di aprirsi.
Perciò, uno zucchero, per essere
riducente, deve avere un carbonio
anomerico libero, in equilibrio con la forma
lineare, che può ossidarsi perché ha il
gruppo aldeidico che diventa COO-.
Esistono casi, come lo zucchero da cucina
(che può essere sintetizzato dalle piante
ma non da noi), composto da fruttosio e
glucosio, dove il legame tra i due è tra i
due carboni anomerici; qui quindi non c’è
un punto in cui l’anello può aprirsi e perciò
lo zucchero da cucina è non riducente.
Le catene possono essere più o meno articolare e possiamo avere:
- oligosaccaridi: se il numero dei monosaccaridi è limitato
- polisaccaridi: se il numero dei monosaccaridi è molto alto. Questi li differenziamo a
loro volta in due grandi categorie:
• omopolisaccaridi (amido, cellulosa, glicogeno): in cui è presente un unico tipo
di monosaccaride. Possono essere non ramificati, se unite da un solo
legame, o ramificati.
• eteropolisaccaridi: la catena saccaridica è composta da zuccheri differenti.
Possiamo avere dei polisaccaridi non ramificati o ramificati.

Polisaccaridi di riserva: Sono quei polisaccaridi che vengono accumulati all’interno


delle nostre cellule per essere utilizzati al bisogno. Questi sono l’amido (nei tuberi, per
esempio, piante) e il glicogeno (animali; immagazzinato nei muscoli o nel fegato) à A
seconda dei tessuti, le regolazioni saranno diverse: abbiamo detto che tra il circolo e il
sistema nervoso centrale c’è la barriera ematoencefalica che non fa passare i lipidi e il
cervello ha bisogno di zuccheri. Se facciamo attività fisica o digiuno, quello che capita
è il comportamento diverso tra muscoli e fegato, il cervello ha solo bisogno di
glucosio. Dentro il fegato, fino al 7% del suo peso, e dentro ai muscoli, c’è il glicogeno
che può essere degradato (glicogenolisi) per dare origine a monomeri di glucosio. Il
glicogeno nei muscoli serve per garantire glucosio da ossidare per ricavare ATP e
attività muscolare, perciò non viene messo in circolo ma usato dalla cellula muscolare
stessa. Al contrario, il fegato è deputato a mantenere la glicemia ed è l’unico
organo/posto in cui il glicogeno viene degradato a glucosio che viene messo in circolo
per alzare la glicemia, in maniera tale che poi il glucosio in circolo può andare al
muscolo, se ne ha bisogno, ma soprattutto al cervello.

Come sono fatti l’amido e il glicogeno?


Hanno una struttura simile. L’amido è
composto da due tipi di polimeri ma
comunque il polimero è fatto
fondamentalmente da α-D-Glucosio.
Ci sono due componenti, una che si
chiama amilosio, che è formata da
tanti monomeri uniti gli uni agli altri da
legami α-1,4; accanto a questa
componente lineare c’è una
componente chiamata amilopectina,
composta da un polisaccaride sempre
di numerosissime unità di α-glucosio,
ma che sono ramificate. Accanto ai
legami α-1,4, tipico della catena
lineare, più catene lineari son unite da
ramificazioni α-1,6. Quindi si ha che nelle ramificazioni l’OH in posizione 6 (libero in ogni
monomero presente nella catena) di un monomero di una catena fa un attacco nucleofilo
sul carbonio in 1 all’estremità riducente di un’altra catena. Questa è la struttura
dell’amilopectina, ma anche del glicogeno, che è estesamente ramificato.
Ma quante estremità riducenti ha una struttura del genere? Se si hanno 3 catene
coinvolte, ad esempio, sarà presente solo un’estremità riducente perché le altre sono
coinvolte nel legame α-1,6. Al contrario, si avranno tante estremità non riducenti. Quindi,
posso avere quante catene voglio, potrò sempre avere solo un’estremità riducente.
Gli enzimi del metabolismo del glicogeno, quando vanno a mobilizzare i vari monomeri
dal polimero, agiscono rimuovendo un’unità alla volta dalle estremità non riducenti o
dall’unica estremità riducente? Sulle estremità non riducenti perché sono tantissime,
quindi nell’unità di tempo più unità enzimatiche agiscono liberando tanto glucosio in fretta.
Quindi gli enzimi agiscono sulle estremità non riducenti, sia ad aggiungere che a
rimuovere.

Il glicogeno è simile all’amilopectina, quello che cambia è il numero di ramificazioni.


Nell’amilopectina, abbiamo una ramificazione ogni 25-30 monomeri, nel glicogeno
abbiamo una ramificazione ogni 8-12 monomeri; quindi, ne abbiamo almeno il doppio e
più siamo ramificati, più estremità non riducenti abbiamo e più facile sarà rimuovere
monomeri dalle suddette estremità.
E’ importante che sia in granuli?
Il monomero del glicogeno ci risolve tanti problemi; è vero che ci costa energia nel
sintetizzare il granulo, ma è peraltro vero che ci risolve due problemi importanti. Il
glicogeno dentro ai granuli, sottoforma di grande polimero, ha un peso molecolare molto
grande; in altre parole, se dividessi i grammi di glucosio lì dentro per il peso molecolare
avrei una molarità bassissima (0,01 micromolare). Se invece avessi tutto il
monosaccaride la molarità sarebbe 400 millimolare, molto maggiore. Quindi mi risparmio
il calcolo della pressione osmotica che questo monomero richiamerebbe dentro la cellula
fino a farla scoppiare.
Altro vantaggio è rappresentato dal problema del trasporto del glucosio. Prendiamo due
scenari:
• nel primo (scenario veritiero) abbiamo glicogeno con 105 unità di glucosio 0,01
micromolare. Abbiamo il trasportatore “Glut” (capace di trasportare il glucosio a
seconda del gradiente, dal gradiente a concentrazione maggiore a quello a
concentrazione minore) e la concentrazione del glucosio in circolo (ematica)
normalmente è 5 millimolare, quindi qui è facile far entrare glucosio nella cellula.
• nel secondo (scenario immaginario) abbiamo 105 unità di glucosio libere 400
millimolare. Anche qui abbiamo “Glut” ma, poiché qui abbiamo una concentrazione di
glucosio più alta che in circolo, il glucosio in circolo non potrà entrare nella cellula, ma
tenderebbe a uscire.
Ecco perché il polimero del glicogeno risolve questi problemi di abnormi differenze di
concentrazione.

Polisaccaridi con ruoli strutturali: un esempio perfetto per capire quanto i legami siano
importanti è la cellulosa. Mentre il glicogeno e l’amido sono composti da α-glucosio, nel
caso della cellulosa abbiamo un polimero sempre di glucosio ma, in questo caso, il
legame è il β-1,4 (la configurazione del glucosio è β). Questo ha profonde ripercussioni
sulla struttura tridimensionale che il polimero assume, perché se abbiamo il legame β-1,4,
la cosa più termodinamicamente sensata è che i
monosaccaridi si distendano e assumono una
configurazione lineare, dove una struttura a
sedia è girata alla rovescia rispetto all’altra.
Perciò tutta questa catena è lineare.

Al contrario, se abbiamo il legame α-1,4, la struttura che la


catena lineare assume è elicoidale e, in effetti, il granulo di
amido, con le catene lineari, assume un andamento
elicoidale con 6 residui per giro.
Ecco la differenza tra il glicogeno e l’amido e dall’altra parte
la cellulosa.
Nella cellulosa abbiamo quindi i legami β-1,4 che fanno
generare delle catene lineari tutte dritte, che si impacchettano
le une alle altre ingaggiando interazioni idrogeno tra di loro.
Per questo il glicogeno è molto idratato e accessibile all’acqua
(grazie alla struttura elicoidale), mentre la cellulosa è poco
idratata (basti pensare alla carta), poiché non c’è spazio per
l’acqua. Ecco perché questa struttura è molto compatta,
deriva tutto dal legame tra i glucosi e dalla conformazione che
questo fa assumere alla struttura nello spazio.

Matrice cellulare: Glicosamminoglicani


Andiamo ora a toccare l’argomento degli eteropolisaccaridi, andando a parlare della
matrice cellulare, ovvero la sostanza che sta tra le cellule nei tessuti. A livello della
matrice cellulare abbiamo dei polisaccaridi chiamati glicosamminoglicani, ovvero
ripetizioni di migliaia e migliaia di unità disaccaridiche sempre uguali. Ad esempio,
nell’acido ialuronico o ialuronato (fino a 100.000 ripetizioni e presente nelle nostre sinovie
e che viene anche iniettato nelle articolazioni per lubrificarle quando ci sono dei problemi
o iniettato sotto la cute per le rughe, per le quali viene anche utilizzato il collagene; in
acqua l’acido ialuronico dà origine a soluzioni trasparenti e viscose), abbiamo una
ripetizione di glucosammina e N-acetil-glucosammina. Questa unità disaccaridica, ripetuta
migliaia di volte, dà origine a una struttura lineare. La stessa cosa vale anche per gli altri
glicosamminoglicani, sono tutti dei lunghissimi eteropolisaccaridi con questa ripetizione di
un’unità disaccaridica. La cosa importante, però, è che questi non sono monosaccaridi
normali, ma modificati; i glicosamminoglicani hanno spesso modificazioni che
impartiscono cariche negative: possiamo ad esempio avere il gruppo COO- nel gluconato,
ovvero glucosio ossidato; in altri casi, abbiamo gruppi solfato con carica negativa.
Perciò, i glicosamminoglicani, variabili e che dipendono dal tipo di monosaccaridi che si
susseguono in queste ripetizioni, hanno delle modificazioni che li rendono a carica
negativa; quindi, la catena non può ripiegarsi ma deve estendersi a conformazione
lineare per far allontanare le varie cariche negative tra di loro, limitando le repulsioni.

Glicoconiugati: molto spesso gli zuccheri sono legati anche alle altre macromolecole e
abbiamo:
• Proteoglicani
• Glicoproteine
• Glicolipidi
Quindi abbiamo uno zucchero che può essere unito covalentemente a proteine o a lipidi
(glicolipidi). L’unione tra zucchero e proteine può dare origine a due classi di
macromolecole, le glicoproteine e i proteoglicani. In entrambi i casi c’è una componente
zuccherina e una proteica. Quello che li distingue è il rapporto di proporzioni in cui si
trovano i due componenti. La glicoproteina è fondamentalmente una proteina con una
piccola componente di zucchero. Il proteoglicano, invece, vede lo zucchero come parte
più grande, con una piccola componente proteica.
Quindi, pensando alla glicoproteina, abbiamo una proteina sulla cui superficie sono legate
corte sequenze oligosaccaridiche. La maggior parte delle proteine circolanti sono delle
glicoproteine, con delle componenti zuccherine all’esterno che possono aiutare il folding
della proteina o partecipare a interazioni specifiche.
Nel caso dei proteoglicani, invece, abbiamo dei
glicosamminoglicani enormi che sono tenuti assieme da
un piccolo “scaffold”/scheletro proteico.

Come potrà essere attaccato uno zucchero a un


amminoacido? Nel caso dei proteoglicani, se io prendo
uno zucchero con la sua estremità con il carbonio
anomerico, per formare un legame devo per forza avere
un amminoacido con un gruppo OH che faccia l’attacco
nucleofilo; perciò, troviamo gli zuccheri spesso legati alla
serina (CH2-OH) o alla treonina. Quindi abbiamo un
legame simile al legame O-glicosidico.

Perciò, nel caso dei proteoglicani, abbiamo sempre uno


scaffold proteico che può essere ancorato alla
membrana o addirittura libero nella matrice
extracellulare.

Nel caso delle glicoproteine, noi distinguiamo


due tipi di legami che ancorano lo zucchero alla
proteina. Il primo riguarda amminoacidi con il
gruppo OH (serina e treonina) che legano con il
gruppo OH lo zucchero o la corta sequenza
oligosaccaridica; questo legame si dice legame
O-glicosidico e si parla di glicosilazione in O o O-
glicosilazione.
Nel secondo caso, invece, la catena
oligosaccaridica è legata con un ponte che
utilizza l’azoto, legato a degli amminoacidi come
l’asparagina. In questo caso si parla di legame
N-glicosidico.
Nucleotidi
Un nucleotide è una struttura caratterizzata da
tre elementi fondamentali: una struttura
centrale che è lo zucchero (ribosio,
deossiribosio, etc.), che è legato da una parte
con una base azotata (purina o pirimidina, ma
anche altre) e dall’altra parte con un gruppo
fosfato.
Ogni volta che abbiamo questa struttura si
parla di nucleotidi.

I nucleotidi hanno anche altre funzioni oltre al famoso ruolo che svolgono nel DNA e RNA:
• Trasportatori di energia chimica
• Cofattori enzimatici
• Molecole regolatrici

Cosa vuol dire trasportatori di energia chimica? L’esempio chiave è l’ATP, ovvero la molecola/
“moneta” di scambio energetico, è il segnale del bilancio energetico positivo di una cellula e viene
sintetizzato nelle reazioni cataboliche (quando andiamo ad ossidare i nutrienti) o nella fotosintesi (se
pensiamo alle piante). L’ATP viene consumato, invece, nelle vie endoergoniche, ovvero quelle
anaboliche (ATP serve per far funzionare le pompe sulle membrane, per il lavoro meccanico, alla
contrazione muscolare, per la biosintesi delle molecole); tutti questi processi richiedono energia e
l’ATP è la fonte principale per far funzionare questi processi. Quindi le reazioni del catabolismo e
dell’anabolismo sono accoppiate a reazioni di sintesi e idrolisi dell’ATP. In alcuni casi avremo bisogno
di sintetizzare ATP e lo faremo fosforilando la sua versione defosforilata, l’ADP. Vedremo come alla
fine di tutto il processo catabolico, a livello della fosforilazione ossidativa, grazie all’attività dell’ATP-
sintasi, a livello del mitocondrio viene sintetizzato ATP.
Quando avremo bisogno, invece, di energia per far avvenire reazioni, l’ATP si convertirà in ADP
perdendo un gruppo fosfato.
Da qui il concetto delle reazioni accoppiate.

Perché l’ATP tende con tanta spontaneità a perdere il gruppo fosfato? Ogni volta che una
molecola si converte in un’altra, dobbiamo ragionare sulla termodinamica. Se andiamo a guardare la
stabilità dell’ATP e dell’ADP, possiamo immaginare una variazione di energia libera molto negativa (-
30,5 kJ/mole), perciò vediamo che l’ATP è molto più instabile dell’ADP + un gruppo fosfato. Vista
così, la tendenza dell’ATP a convertirsi in ADP è estremamente alta, raramente vedremo composti
nelle nostre reazioni metaboliche che hanno dei ΔG così negativi. Tuttavia, la conversione di ATP in
ADP + fosfato (una reazione di idrolisi), è una reazione che avverrebbe in tempi lunghissimi, in virtù
del fatto che l’energia di attivazione è estremamente elevata; perciò, questa reazione avviene solo se
catalizzata da enzimi.
Ma perché l’ATP è meno stabile? La ragione è che l’ATP presenta 3 gruppi fosfato attaccati l’uno
all’altro (α, β e gamma, come nella DNA-pol), questi 3 gruppi fosfato hanno degli ossigeni carichi
negativi e quindi si respingono, ci sono forze repulsive che lo rendono instabile. Quando, grazie
all’idrolisi (ma non sarà l’acqua a intervenire e lo vedremo), viene perso il gruppo fosfato, le due
specie che si producono, ovvero il fosfato inorganico e l’ADP, sono molto più stabili della molecola di
partenza, ecco perché il contenuto di energia libera cala; il fosfato inorganico è stabilizzato per
risonanza, mentre l’ADP, avendo due gruppi fosfato, ha una minore repulsione tra le cariche
elettriche.
A questo aggiungiamo il fatto che, in condizioni
normali, i nucleotidi non sono mai soli ma sono
coordinati con cationi (nella cellula è lo ione magnesio
quello che prevale) che, coordinandosi con le cariche
negative, tendono a minimizzare la repulsione tra le
cariche e quindi rende l’ADP ancora più stabile.

A condizioni fisiologiche, a livello intracellulare, l’ATP è


molto più concentrato dell’ADP, infatti il valore del ΔG
vero, non quello standard, è persino più negativo (-
50kJ/mole).

I nucleotidi sono anche cofattori enzimatici


Le vie cataboliche sono delle vie ossidative (a tappe), ovvero si ricava energia ossidando nutrienti
(zuccheri, lipidi o lo scheletro carbonioso degli amminoacidi). Quindi si parte con un carbonio che è
solo parzialmente ossidato (zucchero, lipidi che hanno una coda idrocarburica ancora più ridotta, da lì
il fatto che, ossidandoli, si ricava ancora più energia) per poi venir ossidato completamente (carbonio
sotto forma di CO2 + acqua). Se in queste varie tappe ci sono delle reazioni di ossidazione dello
scheletro carbonioso, una reazione di ossidazione per forza si produce nel rimuovere elettroni;
vedremo come queste tappe siano sempre catalizzate da una famiglia di enzimi, che catalizzano
reazioni redox, che sono delle deidrogenasi.
E’ vero, quindi, che in una tappa rimuovo degli elettroni, ma non posso permettermi che questi poi
vaghino liberamente all’interno della cellula a formare specie radicaliche; infatti le deidrogenasi
devono ossidare la specie in questione ma, dall’altra parte, ci deve essere un partner ossidoriduttivo
(cofattori enzimatici), che si riduce.
Cosa capita alla fine di tutto il percorso? Tutti questi composti ridotti alla fine convogliano gli elettroni
a livello della matrice mitocondriale interna, dove c’è la catena respiratoria, una catena di trasporto
degli elettroni, dove essi passano da un componente a un altro e alla fine del percorso vanno
sull’ossigeno che viene convertito in acqua (questa è la regione per cui respiriamo). Quindi sono
legami reversibili quelli appena visti con gli elettroni.
Ma se noi avessimo un numero grande di deidrogenasi e ognuna di loro avesse un partner che si
riduce dedicato, sarebbe una complicazione drammatica. In realtà, ci sono pochissimi accettori
universali di elettroni.
Quali sono? Questi cofattori sono fondamentalmente di due tipi. Quelli più abbondanti sono il NAD+,
che quando si riduce diventa NADH; l’altro è il FAD che quando si riduce diventa FADH2. Questi, a
tutti gli effetti, appartengono alla classificazione di nucleotidi.

Il NAD+ può accettare reversibilmente due elettroni e un protone e da NAD+ si converte in NADH.
Il FAD può accettare reversibilmente due protoni e due elettroni e diventa FADH2 nella forma ridotta.
Il NAD+ è un dinucleotide, infatti si chiama “nicotinammide adenina dinucleotide” ed è il principale
trasportatore di elettroni nell’ossidazione di molecole organiche combustibili. Esso ha da una parte
l’adenina, uno zucchero e un gruppo fosfato (il “primo nucleotide”) e dall’altra un gruppo fosfato, uno
zucchero e una base azotata (il “secondo nucleotide”) che non è quella classica dei nucleotidi degli
acidi nucleici ma, in questo caso, il gruppo funzionale deriva da una vitamina, dalla vitamina PP
(detta anche niacina); questo anello si
chiama anello nicotinammidico e in
condizioni ossidate ha una carica positiva
(NAD+), ma può accettare due elettroni e un
protone sul suo anello (NADH) e questa
reazione è reversibile. Il NAD+ lo troviamo
nelle vie cataboliche, mentre nelle vie
anaboliche l’alter-ego del NAD+ è il NADP+
(che ridotto diventa NADPH), che si
distingue per avere un fosfato nella
posizione 2I del ribosio attaccato all’adenina.
Quindi le deidrogenasi, coinvolte nelle vie
cataboliche, utilizzano il NAD+, mentre gli
enzimi delle vie anaboliche, le riduttasi, utilizzano il NADP+.
Accanto a questo possiamo trovare il FAD, anch’esso un dinucleotide, formato da una adenina,
ribosio e gruppo fosfato nel primo nucleotide, da una base azotata più complessa nel secondo
nucleotide, persino più complesso dell’anello nicotinammidico; abbiamo infatti 3 anelli eterociclici con
l’azoto. Anche questa base azotata deriva da una
vitamina, la riboflavina, da cui il nome del
complesso che si chiama “flavin adenin
dinucleotide”. Ed è proprio su questo anello che
possono essere accolti in maniera reversibile due
protoni e due elettroni ed è per questo che
parliamo del passaggio da FAD a FADH2. Anche
il FAD è coinvolto solo nelle reazioni cataboliche
e non in quelle anaboliche.
Esiste una variante del FAD che si chiama FMN,
“flavin mononucleotide”, usato pochissimo dagli
enzimi del metabolismo. Quello che cambia tra i
due è che l’FMN ha solo la parte superiore e
quindi è un mononucleotide.

La terza funzione dei nucleotidi è il fatto che molti di essi sono anche molecole regolatrici
Le vedremo nel metabolismo, quando l’ATP sarà un modulatore di enzimi delle vie metaboliche.
L’ATP extracellulare è anche un messaggero di informazioni che ha degli opportuni recettori e che
regola le funzioni cellulari.
Lipidi
I lipidi sono molecole accumunate dal fatto di avere una pochissima, in alcuni casi nulla,
solubilità in acqua (ex. Oli).
I lipidi sono una classe eterogenea di composti e possono avere varie funzioni:
• Di riserva energetica à a livello degli adipociti, i lipidi lì accumulati sono una riserva che ci
permette di sopravvivere per settimane, se non mesi (riserve di glicogeno, invece, sono
prontamente disponibili in pochissimo tempo, possiamo mobilizzare il glucosio demolendo
il glicogeno, tuttavia le riserve di glicogeno ci permettono di utilizzarlo per al massimo una
giornata). Abbiamo diversi chili di riserve lipidiche accumulati sotto la cute corporea.
• Lipidi strutturali à le membrane
• Vitamine importanti per la visione, per l’assorbimento del calcio (vitamina D)
• Ormoni (ex. Ormoni steroidei) à importanti come molecole che poi regolano l’espressione
genica

LIPIDI DI RISERVA:
si parte dal costituente principale e fondamentale:
gli ACIDI GRASSI.
Gli acidi grassi sono degli acidi carbossilici a lunga
catena idrocarburica (idrofobica), possiedono una
testa polare (il COO-), la quale si sposa bene con
l’ambiente idrofilico.
Cosa distingue gli acidi grassi? La lunghezza della
coda idrocarburica (può variare da 4 a 32 atomi di
C, ma quelli più comuni nelle nostre strutture
oscillano tra 12 e 14) e il grado di saturazione,
ovvero la presenza o meno di doppi legami.
• Saturo vuol dire saturo di idrogeni, se non ci sono doppi legami si parla di acido grasso
saturo
• Insaturo quando presenta dei doppi legami
o Possono avere un doppio legame (monoinsaturo), due, tre… (quelli preferibili nella
dieta sono poli-insaturi).

NOMENCLATURA:
se dovessimo definire con la
nomenclatura questo acido grasso a
destra, dobbiamo utilizzare due numeri: il
primo, assumiamo che abbia nc = 16, per
definire la posizione del carbonio si inizia
a numerare i carboni partendo da quello
carbonilico (COOH). Quindi per definire
questo acido grasso, dobbiamo dire quanti atomi di carbonio ha e quanti doppi legami ha (16
atomi di C e 1 doppio legame). Poi, se si è fini, si indica la posizione del doppio legame
mettendo un delta e il numero dell’atomo di carbonio più piccolo che è coinvolto nel doppio
legame:
16:1 (∆* )
*,,,
Ci fossero stati due doppi legami: 16:2 (∆ )
Un acido grasso saturo sarà 16:0.
Questa è la nomenclatura più normale per definire gli acidi grassi.

In altri casi, come nell’ossidazione degli acidi grassi (avviene nel mitocondrio) i ricercatori
possono usare anche le lettere 𝛼, 𝛽, 𝛾, ecc…
• 𝛼 è il carbonio successivo a quello carbonilico, e così via.
La nomenclatura che invoca il termine ω (omega) è per gli acidi polinsaturi che hanno
numerosi doppi legami. In questi acidi grassi polinsaturi è da considerare ω l’estremità più
lontana dal carbonio carbonilico.
• Gli omega 3 sono acidi grassi poli-insaturi con un doppio legame in posizione 3 a partire
dall’ ω.

Caratteristiche comuni negli acidi grassi:


• nella maggior parte dei casi hanno un numero pari di atomi di C (oscillano tra 12 e 24).
Questo deriva dalla loro biosintesi, in cui vi è l’aggiunta di due unità di carbonio alla volta
(per questo sono pari)
• hanno in genere pochi doppi legami (anche se nei vegetali o altri organismi possono
essere poli-insaturi) e quando questi sono presenti, a eccezione di quelli negli animali
ruminanti, hanno una configurazione sempre in cis (non in trans!), cioè con entrambi gli H
da una parte, perché durante l’ossidazione si formano degli intermedi che formano dei
doppi legami in trans. Il fatto che dopo l’ossidazione si formi un legame in trans e in
qualche altro punto della molecola ci possano essere legami in cis previene il fatto che
l’enzima che riconosce il legame in trans vada a riconoscere un altro punto della catena
idrocarburica (è un modo per prevenire le reazioni a livello del carbonio β di enzimi che,
altrimenti, potrebbero riconoscere altri doppi legami)
• non sono mai presenti doppi legami coniugati, ovvero non c’è mai l’alternanza precisa tra
doppi legami e legami singoli

Chi fa la differenza nelle caratteristiche chimico-fisiche negli acidi grassi è la loro struttura in
termini di lunghezza della coda idrocarburica e in termini della loro saturazione. Questi
parametri sono importanti per determinare il grado di impacchettamento degli acidi grassi
l’uno vicino all’altro e la struttura solida o liquida che hanno a temperatura ambiente.
• In assenza di doppi legami, la tendenza della coda idrocarburica è quella di stare lineare
• La presenza di un doppio legame, ovvero l’impatto nella sua conformazione, porta ad
assumere una piega.

I lipidi, in soluzione acquosa, che hanno un acido grasso con una regione idrofilica (es. testa
polare) e una grande coda idrocarburica apolare, tendono ad impacchettarsi fra loro per dare
origine ad una struttura che tenga tutte le code idrocarburiche vicine tra di loro e le teste
idrofiliche esposte all’acqua in maniera tale che ingaggino interazioni con l’acqua.

Se sono presenti solo lunghe code idrocarburiche lineari (e quindi non sono presenti doppi
legami), come nel grasso animale, quello che si osserva è un impacchettamento molto fine,
ordinato delle code idrocarburiche che possono interagire tra loro attraverso interazioni
idrofobiche; questa rete di interazioni idrofobiche tra le code che si impacchettano
perfettamente a temperatura ambiente spiega come il grasso animale sia solido (vedi burro).

Se invece si prende una miscela in cui prevalgono acidi grassi insaturi con una disposizione
diversa di doppi legami, non c’è la possibilità di impacchettarsi finemente. Quindi si genera
una struttura meno impacchettata saldamente, il che spiega perché, ad esempio, l’olio
vegetale, a temperatura ambiente, sia liquido.
Questo si vede bene se si va ad osservare il punto di fusione, tanto più alto è il punto di
fusione, tanto più tenderà allo stato
solido a temperatura ambiente
• Esempio, un acido grasso saturo a
18C ha punto di fusione a 69°, ma
basta l’inserimento di un doppio
legame 18:1 per far calare
vertiginosamente il punto di fusione
a 13°.
Tanto più è insaturo tanto più il punto di
fusione è basso.

Oppure confrontando la lunghezza: un


acido grasso 16:0 ha punto di fusione
63°, ma aggiungendo due atomi di C,
quindi 18:0, il punto di fusione si alza a
70°. Perciò, tanto più le code idrocarburiche degli acidi grassi sono lunghe, tanto più sarà alto
il punto di fusione.

La vera molecola dei lipidi di riserva sono i


triacilgliceroli, o trigliceridi.
Questi non sono altro che l’unione,
attraverso legame estere, tra acidi grassi e
un alcol (il glicerolo).
La testa polare degli acidi grassi
contribuisce ad una minima solubilità in
ambiente acquoso.
Il glicerolo è una molecola a tre atomi di
carbonio, in cui troviamo 3 gruppi OH.
L’unione tra glicerolo e tre acidi grassi
porta alla formazione del triacilglicerolo:
• Reazione tra l’ossigeno, che fa
l’attacco nucleofilo sul carbonio
carbonilico dell’acido grasso (e di
posizioni per fare l’attacco ce ne sono tre)
Il fatto di avere il glicerolo solubile in acqua e il triacilglicerolo in cui la testa polare non c’è più,
rende i triacilgliceroli assolutamente insolubili in acqua. Non a caso dentro gli adipociti, dentro
le cellule, troviamo delle gocce lipidiche insolubili in acqua che sono pronte ad essere
mobilizzate per utilizzarle a scopo energetico.
• Le tre code idrocarburice possono essere differenti, sia per saturazione che per
lunghezza. Se sono differenti parliamo di triacilgliceroli misti.
Che vantaggio hanno questi triacilgliceroli e soprattutto la loro componente più importante in
termini energetici, ovvero la coda idrocarburica?
• Le code idrocarburiche sono la forma più ridotta di scheletro carbonioso che noi troviamo
nelle nostre cellule: noi ricaviamo energia attraverso la combustione (che è una
ossidazione) e, naturalmente, otteniamo tanta più energia tanto più è ridotta la molecola
da ossidare (non sono ossidate le catene idrocarburiche ridotte, quindi da esse si ricava
maggiore energia, il doppio, rispetto agli zuccheri/proteine che hanno code parzialmente
ossidate).
• Un altro vantaggio è che i triacilgliceroli sono idrofobici e quindi insolubili in acqua (non
aumentano l’osmolarità).
• Inoltre, le code idrocarburiche non hanno gruppi funzionali, quindi sono molto stabili e
inerti e sono perfetti come forma di immagazzinamento.
Il problema lo si ha quando bisogna utilizzarli e farli reagire, processo in cui bisogna in
qualche modo destabilizzarli.
I lipidi sono importantissimi, alcuni organi utilizzano principalmente i lipidi come fonte
energetica à ex. Cuore, utilizza per l’80% della sua attività lipidi, il muscolo per il 50%.

Le gocce lipidiche all’interno degli adipociti sono protette da una proteina (forma di
regolazione). Infatti, noi immagazziniamo negli adipociti i triacilgliceroli e quando ce n’è
bisogno interviene un enzima, la lipasi, che idrolizza il legame estere (attacco nucleofilo sul
carbonio carbonilico con tre molecole di acqua).
• In questo caso c’è la degradazione del triacilglicerolo, la liberazione degli acidi grassi, i
quali vengono messi in circolo per arrivare alle cellule dei vari organi/tessuti
Gli acidi grassi, quando liberi, circolano coniugati in maniera non covalente a una delle
proteine più abbondanti, l’albumina-serica.

Alcuni esempi di grassi con composizioni diverse:


• Olio d’oliva composto da acidi grassi, 16-18C
insaturi, liquido.
• Al contrario il burro è composto da acidi grassi
insaturi, pochi, ma presenta una buona percentuale di
acidi grassi saturi, che ben si impacchettano, questa
miscela è solida (morbida).
• Nel grasso di bue prevalgono gli acidi grassi a
lunga catena saturi, in questo caso è solido.

La ragione per cui i cibi irrancidiscono è l’acido grasso


che va incontro ad ossidazione. La rottura ossidativa
del carbonio carbonilico porta alla formazione di aldeidi
e chetoni che poi danno l’odore sgradevole al cibo.

Il capidoglio è un cetaceo che ha nella sua testa 36


quintali di un olio, l’olio spermacetico, le cui proprietà fisico chimiche gli permettono di
nuotare in profondità senza dispendere un’eccessiva energia.
• Quando si trova in profondità, la temperatura dell’acqua è molto bassa, a quella
temperatura l’olio diventa molto denso, a tal punto che tale densità è paragonabile a
quella dell’acqua che gli sta vicina; così il capodoglio può stare in profondità
• Quando torna in superficie la temperatura dell’acqua aumenta, quindi l’olio ha una
consistenza più liquida e il capodoglio può stare in superficie.

Le cere:
sono una variante dei triacilgliceroli, sono degli esteri
in cui l’acido grasso (uno solo) è coniugato con un
alcol a lunga catena. Sono composti altamente
idrofobici, idrorepellenti, infatti le cere vengono
prodotte per rendere idrorepellenti le superfici
(renderle isolate).
LIPIDI STRUTTURALI DELLE MEMBRANE: fosfolipidi
Le membrane sono un doppio strato lipidico
di lipidi con differente composizione:
• Fosfolipidi
• Glicolipidi
• Steroli à derivano dal colesterolo
Perché la membrana è fatta così? È fatta così
perché i lipidi in acqua rispondono al fatto che
sono idrofobici, organizzandosi in strutture
che tendono a minimizzare l’esposizione
all’acqua delle code idrocarburiche (come nel
folding delle proteine).

Si possono originare due strutture, la


micella o la vescicola.
Cos’è che spiega la differente
organizzazione dei lipidi in soluzione
acquosa?

Chi fa la differenza è la caratteristica del


lipide che stiamo considerando, la
proporzione relativa tra la coda
idrocarburica idrofobica e la testa polare.
Se prendiamo una singola unità di acido grasso, vediamo che la testa polare prevale come
dimensioni rispetto alla coda idrocarburica; in questo caso una miscela di acidi grassi singoli
tende a formare una micella (una goccia), in cui le code idrocarburiche sono rivolte verso
l’interno con interazioni idrofobiche e all’esterno ci sono le teste polari che interagiscono con
l’acqua.
Al contrario, se la testa polare è di dimensioni comparabili con quelle della parte
idrocarburica (es. un fosfolipide o glicolipide che compone le membrane), quello che si
genera è un doppio strato lipidico. Una struttura del genere non è stabile perché all’esterno le
code idrocarburiche rimarrebbero a contatto con l’ambiente acquoso ai lati della struttura
(sopra e sotto ci son le teste polari invece); questo spiega perché queste strutture tendono a
richiudersi e a formare il liposoma, o vescicola, che presenta una cavità acquosa al suo
centro.

Questo viene sfruttato a livello farmacologico per testare droghe, farmaci, ecc. perché nel
momento in cui si forma il liposoma, questo porta al suo interno droghe e farmaci
(lipofazione).
• Prendendo fosfolipidi e mettendoli in una soluzione acquosa che contiene il DNA, si
genera il liposoma, quando si richiude contiene al suo interno la soluzione acquosa, se
questa conteneva DNA, o un farmaco, dentro la vescicola si trova il farmaco.
o Questa struttura possiamo quindi usarla come veicolazione di una molecola di
nostro interesse.

Le varie membrane cellulari non hanno composizione uguale, dal punto di vista qualitativo ci
sono tutte le componenti, ma dal punto di vista quantitativo, ovvero la percentuale relativa, la
composizione è molto diversa. C’è quindi una grande eterogeneità nella composizione dei
lipidi delle membrane a seconda del distretto in cui si trovano.

I principali lipidi con funzione strutturale sono i fosfolipidi e i glicolipidi.


Sia nei fosfolipidi che nei glicolipidi si possono riconoscere due classi di composti che si
differenziano per lo scheletro che hanno, il quale può essere di due tipi:
• scheletro costituito dal glicerolo: glicerolfosfolipidi
• scheletro costituito dalla sfingosina: sfingolipidi
o amminoalcol che alla fine dei giochi produce una molecola con scheletro simile a
quello del glicerolo.

Glicerolfosfolipidi:
costituiti da una struttura comune, il glicerolo, che in
due posizioni (1 e 2) ha una coda idrocarburica e in
posizione 3 ha un gruppo fosfato. Questa è l’unità
elementare dei glicerolfosfolipidi.
Attaccato al fosfato ci può poi essere un sostituente.
La struttura elementare dei glicerolfosfolipidi, con solo
un H come sostituente, si chiama acido fosfatidico.
Ci sono vari tipi di glicerolfosfolipidi presenti nelle
membrane che si distinguono per il sostituente X.
Ci può essere un’amminoacido, una
etanolammina, una colina, un alcol ecc…
Tutti questi glicerolfosfolipidi possono essere
presenti sulle membrane, con ruoli strutturali e
in alcuni casi hanno anche dei ruoli coinvolti
nella segnalazione intracellulare (es.
fosfatidilinositolo).

A seconda del sostituente può avere cariche complessive o di un tipo o di un altro. L’acido
fosfatidico (non ha niente come sostituente) ha una carica negativa -1.

Sfingolipidi:
La sfingosina è un amminoalcol con una lunga
catena; la sfingosina richiama la struttura di un
monoacilglicerolo (hanno scheletro che si
dispone nello spazio nella stessa maniera).
Però è un amminoalcol, presenta un gruppo
amminico in posizione 2, che può essere
coniugato con un legame ammidico ad un altro
acido grasso.
Quando lo scheletro è a sfingosina, si può
avere, come sostituente, un gruppo fosfato e,
in questo caso, la colina. Questa si chiama
SFINGOMIELINA, abbondante nelle
membrane degli assoni e dei neuroni (carente
nei pazienti con sclerosi multipla).

Quando attaccato dove c’è l’X ci sono degli


zuccheri, si parla di glicolipidi, che possono
essere rappresentati da un monosaccaride,
possono avere poche unità monosaccaridiche
(globosidi), oppure possono avere delle catene oligosaccaride più complesse (gangliosidi).
Ricapitolando:

Quando si parla di glicolipidi nelle cellule animali, si trovano i glicolipidi che appartengono a
quelli con lo scheletro a sfingosina.
Nelle piante, invece, troviamo degli altri glicolipidi, i galattolipidi, i glicolipidi più abbondanti in
natura, costituiti da uno scheletro a glicerolo, due code idrocarburiche e attaccato c’è il
galattosio. In alcune sue varianti possiamo addirittura trovare un gruppo solfato.
• abbondanti nei tilacoidi dei cloroplasti delle piante
I glicolipidi, in particolare quelli con le code saccaridiche della sfingosina, sono talmente
importanti che la loro differente composizione è quella che rende conto dei gruppi sanguigni
AB0.

Steroli:
Accanto ai fosfolipidi e ai lipidi ci sono gli
steroli, ovvero dei lipidi che derivano dal
colesterolo.
Il colesterolo è una molecola planare che ha
4 anelli, tre a 6 C, uno a 5, più una coda
idrocarburica e una piccolissima testa
polare. Si trovano dentro le membrane e in
genere, avendo una struttura planare degli
anelli, conferiscono rigidità a tutta la
struttura.

I lipidi sono anche dei cofattori, dei pigmenti, dei segnali.


Alcuni esempi:
• Il fosfatidilinositolo è coinvolto nella trasduzione del segnale; viene idrolizzato dalla
fosfolipasi e produce dei messaggeri.
• I lipidi sono anche ormoni, come gli ormoni stereoidei che, grazie alla loro lipofilicità,
riescono ad attraversare la membrana e quindi segnalano direttamente all’interno della
cellula l’informazione che stanno portando.
• Sono anche importanti vitamine: A, D, E e K sono vitamine liposolubili:
o La D va incontro a reazione indotta dalla luce, importante per l’assorbimento del
calcio (calcificazione)
o La A è importante perché da questa deriva l’acido retinoico (ormone importante per
lo sviluppo) e il cis-retinale / trans-retinale (molecole coinvolte nella conversione
della luce nella visione)
o Vitamina E è un antiossidante
o Vitamina C è coinvolta nella modificazione dei fattori della coagulazione, quindi la
carenza di questa produce difetti emorragici.
Due esempi di fosfolipidi di membrana: un glicerolfosfolipide e una sfingomielina:

Membrane biologiche e trasporto


Tutte le cellule, dalle più semplici alle più complesse, sono divise dall’ambiente circostante da
una membrana plasmatica (in alcuni casi c’è anche la parete cellulare) e, nella cellula
eucariotica, ci sono tutta una serie di compartimenti, organelli, che hanno membrane con
composizione differente, il che spiega anche le proprietà e la capacità di trasporto differente
nei vari organelli.
Il doppio strato lipidico della membrana ha uno spessore che si aggira intorno ai 3nm o 30
Angstrom.
Le membrane biologiche sono formate da un doppio strato lipidico, che porta al suo interno
code idrocarburiche di lipidi e all’esterno le teste polari (seguendo la logica del folding delle
molecole in ambiente acquoso). Le membrane sono estremamente variegate e la loro
composizione in termini lipidici e proteici cambia a seconda della membrana che stiamo
considerando.

Le membrane biologiche sono:


a) Flessibili
b) auto-sigillanti (capaci di gemmazione e fusione)
c) selettivamente permeabili (sia passive che attive) à in quanto formate da un doppio strato
fosfolipidico (permeabili a piccoli soluti apolari)

Il traffico delle proteine, e delle altre


sostanze, fra i vari organelli avviene
attraverso vescicole rivestite da membrane,
le quali sono in grado di produrre delle
gemme e formare vescicole, queste
vescicole arrivando all’altro organello, sono
in grado di fondersi e riversare il cargo.
Stessa cosa anche per la secrezione delle
proteine, le quali vengono veicolate
attraverso un traffico vescicolare, vescicola
secretoria, una vescicola rivestita da
membrana che si fonde con la membrana
plasmatica e rilascia all’esterno il cargo.
Queste proprietà della membrana sono importanti per numerosi
processi:
• secrezione (portare all’esterno)
• endocitosi
• fusione di membrane che formano vescicole
• infezione virale
• ecc…

Modello a mosaico fluido asimmetrico: le


membrane rispettano questo tipo di modello
• a mosaico perché sono composte da
componenti differenti, quindi sono
eterogenee
o composto da lipidi differenti e da
proteine differenti
§ le proteine possono essere
legate in maniera transiente
(legami non reversibili, quindi
interazioni deboli, tante),
possono essere sul lato
esterno, sul lato interno, possono essere parte integrante della
membrana (proteine integrali)
§ i lipidi: sterolo, fosfolipidi di vario genere o glicolipidi (in particolare nelle
membrane degli animali i glicolipidi sono quelli con scheletro a
sfingosina).
• fluido perché a temperatura fisiologica (37°C), tutte queste componenti possono
muoversi, c’è dinamicità nel movimento dei lipidi che si possono muovere
prevalentemente orizzontalmente sullo stesso strato; e anche le proteine, se non
ancorate ad altre, hanno dei gradi di libertà
• asimmetrico perché la composizione, sia in lipidi che in proteine dello strato esterno,
questo è diverso dalla loro composizione nello strato interno.
Inoltre, il rapporto tra la componente lipidica, indispensabile per le caratteristiche chimico-
fisiche della membrana, e tra le proteine, che conferiscono soprattutto le proprietà, cambia di
molto:
• in alcune membrane è molto ricca di proteine (es. membrana mitocondriale interna,
che ha la catena respiratoria per il trasporto degli elettroni).

Il doppio strato fosfolipidico, come abbiamo già detto, è di 3nm, ma in tutto la membrana si
aggira intorno ai 5-8nm.
Il fatto di avere un doppio strato di code idrocarburiche rende la membrana cellulare
impermeabile alla maggior parte dei soluti. Per questo motivo c’è bisogno di trasportatori.
Le proteine possono essere legate alla membrana in diverse
maniere. Possiamo avere:
• proteine integrali di membrana: ancorate alla
membrana
• proteine periferiche: ancorate allo strato interno o allo
strato esterno con legami deboli ma non covalenti
Qual è la differenza?
Viene definita proteina integrale di membrana quando, per
isolare quella proteina, devo usare dei detergenti che
distruggono il doppio strato fosfolipidico.
L’esempio più chiaro di proteina integrale è la proteina
transmembrana, ovvero la proteina che passa da un lato
all’altro di membrana, con una regione extracellulare idrofilica
in contatto con l’acqua, una regione idrofilica citosolica e una
regione centrale ricca di amminoacidi idrofobici (deve sposarsi
con le code idrocarburiche).

Le proteine periferiche, invece, sono quelle proteine la cui rimozione può essere fatta con dei
semplici detergenti che lasciano intatta la membrana. Queste sono legate in modo differente
(ma a prescindere non sono legate covalentemente con la membrana).

Proteine transmembrana:
Quello che contraddistingue le
proteine transmembrana è il fatto di
avere una o più alfa-eliche che
passano attraverso il doppio strato
fosfolipidico e sono ricche di aa
idrofobici. Ci possono essere perciò
anche molteplici domini
transmembrana che passano
attraverso il doppio strato
fosfolipidico e ancorano la proteina
alla membrana in maniera molto
stabile.

Proteine periferiche:
Es. una proteina con un residuo di cisteina fa un
ponte tioestere con un acido grasso che la ancora
alla membrana

Le membrane sono dinamiche e, a seconda della temperatura in cui si trovano, hanno un tipo
di stato differente:
• stato liquido ordinato a temperature moderate
• con aumento della temperatura, questo stato diventa disordinato, in virtù dei moti termici
indotti dalla temperatura.
Chi influenza la fluidità della membrana sono la natura delle code idrocarburiche, in termine
di lunghezza e saturazione, che compongono i lipidi delle membrane:
• più la membrana è ricca di code idrocarburiche lunghe e sature, tanto più la membrana
sarà compatta e meno fluida
• tanto più la membrana ha una percentuale di code insature, tanto più sarà fluida

Ci sono alcuni organismi, quelli non termo regolati (batteri), che sono in grado di modificare la
saturazione dei loro lipidi (saturasi rimuovono i doppi legami, desaturasi mettono dei doppi
legami).
• Prendendo alcuni batteri e mettendoli a crescere a basse temperature, la membrana
tenderebbe a diventare poco fluida, quindi i batteri attraverso l’azione di desaturasi, sono
in grado di introdurre doppi legami così che la membrana torni fluida.
• Al contrario, mettendoli a crescere ad alte temperature la membrana tenderebbe a
diventare troppo fluida, ma i batteri sono in grado attraverso enzimi, le saturasi, di togliere
i doppi legami e compattare la membrana.

La membrana è dinamica, quindi sono permessi dei movimenti,


ma questi movimenti sono permessi solo lateralmente à
DIFFUSIONE LATERALE NON CATALIZZATA
Quello che non è possibile, se non attraverso un’azione catalitica,
è che il lipide passi dallo strato interno allo strato esterno o
viceversa, perché immaginiamo la coda polare che deve vincere
e passare attraverso lo strato idrocarburico che è tutto apolare e
idrofobico, senza enzimi questo processo di “flip-flop” è
lentissimo, infatti dentro le nostre cellule ci sono degli enzimi
(flippasi, floppasi e scramblasi) che sono capaci, attraverso un
meccanismo attivo (sfrutta l’ATP), di spostare i fosfolipidi da un
lato all’altro:
• Flippasi à spostano dall’esterno all’interno
• Floppasi à dall’interno all’esterno
• Scramblasi à portano la disposizione dei fosfolipidi di una
regione in equilibrio, quindi rendono più o meno simile la
disposizione dei fosfolipidi.

Anche le proteine diffondono nella membrana, ma non tutte, dipende se la proteina è libera o
è parte di complessi più articolati. Alcune proteine, ad esempio, se legate sul versante interno
al citoscheletro, hanno movimento orizzontale limitato, appunto perché legate al
citoscheletro.

La membrana non è omogeneamente composta, regioni della membrana della cellula


possono avere composizioni diverse a seconda del punto in cui sono.
Nella membrana ci sono regioni specifiche, le zattere lipidiche (regioni meno fluide rispetto a
quelle vicine), che sono delle isole funzionali sulla membrana, particolarmente ricche di
steroli e sfingolipidi.

Proteine transmembrana:
giocano numerosi ruoli:
• Adesione (integrine) à interazione tra una cellula ed un’altra, o con una proteina che
deve legarsi alla membrana
• Riconoscimento (lectine, selectine) à proteine che sono dei recettori
• Segnalazione, recettore e biosegnalazione
• Trasporto
Trasporto attraverso la membrana:
esistono diversi meccanismi, il primo modo è la semplice diffusione (per la natura del doppio
strato, passano solo piccoli soluti apolari) e avviene da una regione dove il soluto è più
concentrato ad una dove lo è meno (DIFFUSIONE SECONDO GRADIENTE). Se le molecole
non possono passare per diffusione semplice ci sono altri meccanismi:
• utilizzo di trasportatori (che cambiano
conformazione per far passare la
molecola) à fanno un trasporto secondo
gradiente (DIFFUSIONE FACILITATA)
• proteine canale à in genere sono canali
ionici che si aprono o chiudono e fanno
passare lo ione in maniera selettiva
(sempre secondo gradiente)
• trasporto attivo à riesce a far passare il
soluto contro gradiente usando energia, in
genere sono delle pompe e ne distinguo
due tipi
o primario, in cui si utilizza come
energia l’ATP
o secondario, dove non viene
utilizzato ATP, ma in cui si
trasportano due soluti, uno a favore
di gradiente e uno contro gradiente, quest’ultimo che avviene grazie a un
precedente trasporto attivo primario (accoppiamento tra processo favorito e non-
favorito).

Quando si parla di gradiente non si deve pensare solo alla concentrazione, ma il nostro
pensiero deve andare al
gradiente elettrochimico, perché
tanti soluti sono carichi, quindi
quando si trasporta il soluto
bisogna chiedersi dove è il
gradiente elettrochimico, ovvero
l’integrale tra la concentrazione e
le cariche? Quindi se le specie
sono cariche devo preoccuparmi
anche della carica.

In ogni caso, se il trasporto è


secondo gradiente, mi aspetto
che all’equilibrio la
concentrazione di entrambe le
parti sia identica .
Diffusione facilitata:
Una proteina (carrier) interagisce con il
soluto da trasportare, cambia conformazione
e lo fa passare.
Canali ionici:
I canali ionici mediano il trasporto di ioni tra
l'ambiente extracellulare ed il citoplasma o
tra compartimenti diversi della cellula.
Possono essere ligando-dipendenti (ovvero
si aprono se al dominio recettoriale si lega un
“ligando”, una molecola estranea al processo
di trasporto) oppure voltaggio-dipendenti
(attivati da differenze di voltaggio nel
potenziale di membrana).
La diffusione facilitata e i canali ionici rientrano nel trasporto passivo.

Qual è il problema di trasportare un soluto attraverso la


membrana? Questa non è, innanzitutto, una reazione
catalizzata. Il soluto, in soluzione, è idratato quindi quando
passa attraverso il doppio strato fosfolipidico e quindi,
soprattutto, attraverso le code idrocarburiche deve
deidratarsi, ovvero liberarsi di tutta l’acqua. Deve passare
all’interno dello strato idrocarburico e, una volta fuori, re-
idratarsi. Ma la diffusione semplice di questo soluto, così
come rappresentato, ha una barriera energetica così
elevata che, da un punto di vista della velocità, è
pressoché inesistente. È qui che interviene il trasportatore!
Il trasportatore è capace di interagire con il soluto e di
fornire un’alternativa per attraversare il doppio strato
lipidico.
Il trasportatore è come se fosse un enzima, in quanto
abbassa la barriera energetica, facilitando il passaggio.

Carrier vs canali:
carrier sono monomerici, sono stereospecifici
(devono interagire in maniera molto specifica col
soluto), sono lenti (hanno bisogno di cambiamenti
conformazionali), hanno una loro velocità di
trasporto arrivando ad una velocità massima (sono
saturabili)
• canali sono formati da più subunità, sono meno
specifici, si avvicina alla velocità della
diffusione, è insaturabile (tanto più è il
gradiente, tanto più la velocità con cui passa
aumenta)

Trasportatore del glucosio:


Il trasportatore GLUT è una proteina sulla membrana di tutte le cellule del nostro organismo,
che è in grado di trasportare il glucosio, in maniera stereospecifica, quindi il D-glucosio ed è
capace di trasportarlo secondo gradiente (quindi è un trasportatore passivo che fa la
diffusione facilitata).
Come fa a far passare il glucosio attraverso la membrana? Il trasportatore GLUT è una
proteina transmembrana che presenta 12 domini transmembrana, ha delle alfa-eliche che
passano attraverso la membrana, queste hanno una disposizione degli amminoacidi
particolare, espone su un lato (è asimmetrica) catene laterali idrofobiche e dall’altro lato pone
degli amminoacidi polari (serina, asparagina, treonina; perfetti per l’interazione con il
glucosio).

Modello del trasportatore glut


(immagine più a destra): 4 alfa-
eliche disposte una vicino all’altra
(quasi concentriche), queste
dispongono sul versante centrale
degli amminoacidi idrofilici (punto
in cui passa il glucosio) e all’esterno
quelli idrofobici.

Il trasportatore GLUT oscilla tra due


conformazioni limite, una aperta verso
l’esterno e una aperta verso il basso
quando si lega il glucosio. Chiaramente
se la concentrazione è invertita il
cambiamento conformazionale sarà il
contrario.

Il fatto che ci siano interazioni e cambi conformazionali, a differenza di un canale che fa


passare tutto, si porta dietro un altro concetto: i trasportatori sono saturabili, hanno una
velocità massima di trasporto. A seconda di quanto glucosio
è presente (gradiente che aumenta) fuori dalla cellula rispetto
all’interno, la velocità di trasporto ha un andamento
iperbolico. A piccoli aumenti di gradiente la velocità ha un
andamento lineare, ma a un certo punto, man mano che il
gradiente aumenta, si avvicina alla saturazione del
trasportatore fino al raggiungimento della velocità massima a
livello della quale, anche se aumenta il gradiente, la velocità
rimane uguale. Questo ci dice che i trasportatori sono
saturabili.
Definita la Vmax, è possibile definire per questi trasportatori passivi una costante di
trasporto, KT, che è la concentrazione di soluto alla quale il trasportatore raggiunge la
velocità di trasporto semi massimale (1/2 Vmax). Quindi è simile alla KM.

Come per gli enzimi esistono varianti che hanno differenti velocità di catalisi, così per i
trasportatori del glucosio c’è una famiglia che ha caratteristiche di trasporto e di cinetica
differenti a seconda dei tessuti in cui ci troviamo (espressione genica differente a seconda
dei tessuti).
Esistono 12 isoforme di GLUT codificate da 12 geni diversi, tutti questi sono accumunati dal
fatto che trasportano il glucosio, ma ciò che cambia è la KT.
Esempio:
• fegato (organo che mantiene la glicemia):
GLUT2 ha una KT di 66mM, quindi ha una
bassa affinità per il glucosio in momenti di
glicemia normale (si aggira intorno ai
5mM) e non è mai saturo
• muscolo e neurone (avidi di glucosio):
GLUT4 (muscolo), GLUT3 (neurone). Il
GLUT3 ha una KT di 1,7mM, quindi ha
un’alta affinità per il glucosio ed è saturo
anche a basse concentrazioni del soluto;
quindi, il neurone è saturo anche quando la
glicemia è bassa (il neurone vive di
glucosio). Il GLUT 4, nel muscolo, ha una
KT di 5 mM, quindi pari alla
concentrazione del glucosio in situazioni di glicemia normale, perché il muscolo lavora non
solo con il glucosio, ma anche con gli acidi grassi, quindi ha “possibilità di scelta”.

Attraverso la presenza di isoforme differenti del trasportatore GLUT, nei diversi distretti, noi
siamo in grado di garantire un trasporto differente nei tessuti, rispettando le priorità, il
trasporto di glucosio nel cervello o nel fegato quando la glicemia è molto alta (fegato si
preoccupa di immettere glucosio in circolo per mantenere la glicemia, mentre il neurone o il
muscolo tirano dentro il glucosio).
Nel muscolo, GLUT 4 ha una KT perfettamente tarata sulla glicemia, GLUT 4 è regolato
dall’insulina (ormone prodotto quando la glicemia è alta), la quale ha il compito di stimolare
l’esposizione del trasportatore GLUT 4 sulla membrana del muscolo. Quindi, in una persona
affetta da diabete, la mancanza dell’insulina porta anche le cellule muscolari a non esporre il
GLUT 4 e quindi a non tirar dentro il glucosio, quindi non si abbatte la glicemia e non entra il
glucosio necessario nei muscoli.

Ricapitolando, i GLUT più importanti (da ricordare) sono il GLUT 2 del fegato, il GLUT 3 del
cervello e il GLUT 4 del muscolo e del tessuto adiposo.

Esistono trasportatori che trasportano un solo soluto


(uniporto), che ne portano due nella stessa direzione
(simporto) oppure in direzioni differenti (antiporto).
• Quando se ne trasportano due si parla di cotrasporto
(simporto o antiporto).
Esempio di antiporto (trasportatore passivo) è lo
scambiatore di bicarbonato cloruro à a livello dei tessuti la
CO2 prodotta dal catabolismo va in circolo e dentro ai
globuli rossi l’anidrasi carbonica lo converte in HCO3-, la
quale viene trasportata fuori dal globulo rosso, ma facendo
così, andremo a depolarizzare la membrana, quindi lo
scambiatore mantiene l’elettronegatività (butta fuori la carica
negativa del bicarbonato e butta dentro un cloro).
Trasporto attivo primario: la pompa utilizza ATP. Esempio di
trasporto attivo primario è la pompa sodio-potassio, quella che
contribuisce a mantenere una differenza di potenziale di membrana
intorno ai -50, -70 mV (dentro carico negativo e fuori carico
positivo). La pompa sodio-potassio pompa fuori tre sodi e spinge
dentro due potassi.
La pompa oscilla tra due conformazioni, una fosforilata e una
defosforilata.
• Trasportatore defosforilato, aperto verso l’interno ed è molto
affine al sodio (si legano 3 sodi), il legame con il sodio induce la
fosforilazione della proteina, questa determina un cambiamento
conformazionale che porta la pompa ad aprirsi verso l’esterno.
• La pompa fosforilata è più affine al potassio (sodio rilasciato e
prende 2 ioni potassio), dopo il legame con il potassio la pompa
viene defosforilata, torna nella conformazione normale, si apre
verso l’interno, il potassio viene rilasciato e il ciclo riparte.
In questo caso, quindi, l’ATP non è coinvolto in un’idrolisi, ma in
una fosforilazione. In altre parole, in una regione di questa proteina c’è una parte che ha
l’ATP legato. In questa regione in cui è legato il nucleotide c’è anche un amminoacido, un
aspartico, che ha catena laterale con CH2-C(=O)-O-. Nel momento in cui si lega il sodio,
viene innescata l’attività catalitica della pompa, in cui capita che l’O fa l’attacco nucleofilo sul
fosfato in gamma; ne deriva che la pompa viene fosforilata, l’aspartico avrà un gruppo fosfato
e se ne va ADP.
Quando la pompa avrà cambiato conformazione, quello che si innesca è la defosforilazione
della pompa, in cui interviene l’acqua, che fa l’attacco nucleofilo sul fosfato, che riporta
l’aspartico alla condizione di prima (aspartico libero) e libera fosfato inorganico. Qui è
intervenuta l’acqua, ecco perché si dice che a tutti gli effetti durante questo processo
abbiamo un ATP + H2O à ADP + Pi. Ma non è che da qui si liberi l’energia per far andare la
reazione, era una reazione di fosforilazione e defosforilazione. Quindi, quando sentiamo
parlare dell’energia di legame dell’ATP, bisogna vedere se è proprio l’ATP a essere coinvolto
direttamente nella reazione.
Questo capita per la pompa sodio-potassio, ma anche per la pompa del calcio (che mantiene
le concentrazioni del calcio citosolico molto basse).
Metabolismo: introduzione alla bioenergetica
Metabolismo significa l’insieme delle reazioni, di tutti i processi all’interno delle cellule
degli organismi viventi.
Ci occupiamo degli animali, quindi di quegli organismi definiti chemioeterotrofi che sono in
grado di utilizzare solo il carbonio organico.

Il metabolismo è suddiviso in due parti:


1. catabolismo: vie di degradazione, ovvero la demolizione delle molecole più grandi (nutrienti) per
ricavare energia
2. anabolismo: vie di sintesi di macromolecole necessarie alla sopravvivenza dell’essere vivente (di
riserva, strutturali, etc.) (diverse da quelle che si demoliscono nel catabolismo), usando l’energia.

Gli esseri viventi devono avere delle molecole energetiche, si devono alimentare, infatti gli
alimenti, in particolare zuccheri, lipidi e proteine sono i nostri alimenti energetici. Quindi
siamo in grado di trasformare questa energia, che sta nei legami, si tratta della rottura dei
legami che si trovano negli zuccheri, lipidi e proteine, per produrre energia. L’energia che
usa la cellula è l’ATP, la cellula per produrre ATP deve utilizzare le sostanze nutritive.

La pianta è un individuo autotrofo, riesce ad estrarre energia dai raggi solari per
convertirla in energia chimica, che poi passa da autotrofi ad eterotrofi e quindi è da lì che
noi ricaviamo i nutrienti (mangiando carne di un erbivoro, etc.).

Le reazioni anaboliche sono reazioni di


sintesi, possono anche essere definite
reazione di deidratazione perché c’è la perdita
di una molecola d’acqua (monosaccaride e un
altro monosaccaride formano un legame
glicosidico e rilasciano una molecola d’acqua)
à sono processi che costano energia.
La sintesi per deidratazione è un processo
usato per creare polisaccaridi, trigliceridi e
proteine.
Il catabolismo, invece, segue un’idrolisi,
ovvero una rottura attraverso l’acqua, si ha quindi la rottura di legami di molecole grandi
per farle diventare molecole più piccole. La rottura di questi legami comporta la
produzione di energia.
L’idrolisi viene usata per decomporre carboidrati, lipidi e proteine.
Quindi i polimeri (amminoacidi, glicogeno, acidi grassi, etc.) vengono poi completamente
ossidati per la produzione di energia. Con idrolisi si intende la rottura dei polimeri, poi
chiaramente ci sono dei processi ben precisi che portano all’ossidazione degli zuccheri
attraverso la glicolisi, la β-ossidazione per quanto riguarda i grassi e la demolizione degli
aa e la loro ossidazione con il ciclo di Krebs per produzione di energia nel caso di
mancanza di zuccheri o lipidi (usare le proteine per produrre energia è un caso estremo),
in genere si utilizzano gli scheletri carboniosi degli aa per produrre del nuovo glucosio con
un processo definito gluconeogenesi.

Tutto funziona perché c’è energia, quindi tutte le cellule viventi generano migliaia di
differenti reazioni (il metabolismo è la totalità di queste reazioni chimiche e deriva dalle
interazioni tra molecole). Il metabolismo di un organismo trasforma materia ed energia.
Tutto questo è soggetto alle leggi della termodinamica (le più importanti sono due):
• l’energia non si crea, non si distrugge, ma può cambiare (posso trasformarla da un
tipo ad un altro)
• l’universo va verso il disordine, cioè la spontaneità di un qualsiasi evento va verso il
caos à ENTROPIA
o il disordine avviene “spontaneamente”, mentre l’organizzazione richiede
energia.
o il disordine vuol dire “qualcosa di casuale”, però chiaramente c’è sempre una
probabilità incredibilmente piccola che questo evento casuale mi porti ordine
(es. se lancio vestiti che mi cadano tutti ripiegati perfettamente)
o trasformazioni energetiche procedono spontaneamente per convertire
materia da una forma più ordinata ma meno stabile a una forma meno
ordinata ma più stabile (reazioni spontanee, ad esempio le reazioni
cataboliche, non richiedono energia infatti).
o la conversione di un’energia in un altro tipo mi costa una quota energetica,
che non viene perduta, ma viene convertita in disordine, in questo caso in
calore. La misura del nostro disordine è il calore.
o Quindi io posso convertire l’energia da una forma all’altra, ma non
completamente; ci sono dei sistemi energetici in cui ho un buon recupero
(dispersione di calore bassa), ma vedremo che tutti i processi metabolici atti
a produrre energia non hanno un buon recupero (circa del 40%), quindi una
grossa quantità di energia viene dissipata sotto forma di calore. Perciò,
anche ordinando, io vado comunque sempre verso un aumento dell’entropia
perché genero molto calore.
o Il calore, in genere, non è un’energia che lavora, anche se non è del tutto
vero, nel senso che non è una forma di energia che posso ottenere e usare
quando voglio, ma la posso utilizzare in determinate condizioni (es.
macchina a vapore o il calore usato per generare energia elettrica, etc.)

C’è una differenza tra quello che si vede nella cellula e nei laboratori di chimica, dove la
reazione che avviene è all’interno delle provette e può essere veloce, esplosiva, lenta
ecc..; in genere nella provetta si mettono dei reagenti i quali si trasformano in prodotti dato
che la reazione è favorevole, quindi spontanea. Ci sono però delle reazioni che non sono
spontanee, ma hanno bisogno di un input per avvenire. Quello che vediamo in laboratorio
non è quello che avviene in realtà, tanto meno nelle reazioni metaboliche della cellula,
perché la cellula fa delle reazioni accoppiate e non si può parlare di una reazione unica
(conversione di una molecola in un'altra), ma è multi tappa, cioè costituita di più enzimi e
substrati, quindi vengono definite tappe metaboliche o vie sintetiche, che possono
essere di vario tipo, dunque ci sono più tappe, più reazioni in cui un prodotto viene
convertito in un prodotto finale, questo facendo il passaggio attraverso degli intermedi.
Quindi io non passo direttamente da A a D, perché magari è troppo sfavorevole o avviene
in tempi troppo lunghi, ma trasformo con tappe accoppiate A in B, poi B in C e infine C in
D.
Ricapitolando, una sequenza di reazioni chimiche, dove il prodotto di una reazione serve
come substrato per la prossima, viene definita via metabolica o via biosintetica/biochimica.

Le tappe metaboliche sono posizionate in regioni particolari della cellula, ad es. nel
citoplasma per la glicolisi, nella matrice mitocondriale per il ciclo di Krebs. Queste reazioni
sono catalizzate da degli enzimi.

La bioenergetica è la scienza che studia come gli organismi usano le risorse energetiche
mediante le vie metaboliche, quindi sono in grado di far avvenire reazioni che
normalmente non avvengono; ma non vanno contro le leggi della termodinamica,
semplicemente bypassano dei passaggi, usano delle scappatoie, come accoppiare le
reazioni.
Energia
L’energia è la capacità di fare del lavoro o l’abilità di causare dei cambiamenti; ogni
cambiamento nell’universo richiede energia.
Un essere vivente è quindi un essere dinamico, qualcosa che fa un cambiamento, si
muove…
Le forme di vita sono in grado di catturare questa energia, di usarla, di modificarla a
proprio piacimento per poi sopravvivere. I più importanti tipi di energia sono due, quella
potenziale (che viene conservata, cioè l’energia che è statica) e l’energia cinetica (legata
al movimento).
L’energia potenziale comprende anche l’energia chimica presente nelle strutture
molecolari.
• Energia potenziale viene convertita in cinetica (ex. Combustione)
o Gli esseri viventi sono in grado di convertire l’energia potenziale presente
nei legami nei cibi in energia cinetica per tutti i processi della cellula.

I sistemi biologici non vanno contro le leggi della termodinamica, infatti, l’entropia può
ridursi in un organismo, ma quella totale dell’universo aumenta.
I sistemi viventi vivono quindi a spese energetiche, a spese di un’energia chiamata
energia libera (G).
Che cos’è l’energia libera? Entra in gioco il
concetto di spontaneità, ovvero, una reazione è
spontanea quando rilascia energia, quindi se
faccio reagire due molecole, i reagenti avranno
un’energia più elevata e i prodotti una più bassa,
questa reazione si chiama esoergonica; quando
faccio una reazione endoergonica, devo fornire
energia perché i miei reagenti hanno più bassa
energia dei prodotti.
Questo si misura attraverso la variazione di
energia libera (ΔG), quindi la differenza di
energia tra reagenti e prodotti.
• L’energia libera (di Gibbs) in una cellula
è la quantità di energia contenuta nei
legami chimici della molecola a
temperatura e pressione costante
(perché queste due grandezze
influiscono chiaramente sull’energia)
Reazione esoergonica: ogni reazione che
rilascia energia libera (ΔG < 0)
• avviene spontaneamente e ha un
rilascio di energia libera e/o un
incremento dell’entropia
Reazione endoergonica: ogni reazione che
richiede un input di energia (ΔG > 0)
• non avviene spontaneamente e ha un input di energia e/o una riduzione
dell’entropia

Nella reazione esoergonica si può osservare un


passaggio intermedio, uno “stato di transizione”,
in cui per far avvenire la reazione devo superare
uno “scoglio” energetico, quindi la reazione non
avviene perché mi serve un input.
Es. del gas metano per cucinare, dove mi serve
l’input della scintilla per far avvenire la reazione,
sennò non avviene nulla.
Metabolismo ed equilibrio:
Equilibrio vuol dire che non ci sono differenze.
Qui bisogna parlare di sistema aperto e sistema
chiuso
• Sistemi chiusi sono sistemi che si prestano
all’equilibrio, anche se all’inizio c’è una
differenza e quindi riesco a convertire
un’energia potenziale in una cinetica, poi
questo processo si ferma perché
raggiunge un equilibrio e quindi vuol dire
che le forze si controbilanciano e di
conseguenza non c’è nulla che si possa
fare, tutto è fermo
o Questo non può essere una cellula,
che deve essere un sistema dinamico
• Sistema aperto ha un flusso à negli esseri
viventi si ha un continuo flusso di materiali
(mangiando, etc.)
o Il sistema della cellula può essere
rappresentato come una serie di tappe
metaboliche/biochimiche in un sistema
aperto, dove per raggiungere un
obiettivo ho più step.

Gli organismi viventi hanno la capacità e


l’abilità di accoppiare reazioni
esoergoniche ed endoergoniche per far
avvenire delle reazioni e liberare energia.
L’energia rilasciata dalle reazioni
esoergoniche viene catturata per formare
l’energia della cellula, ATP (adenosina-
difosfato + fosfato inorganico). L’ATP è la
moneta di scambio energetico di
eccellenza per la cellula. Con la rottura dei
legami di ATP c’è un rilascio di energia che
fa avvenire le reazioni endoergoniche nella cellula.

L’ATP è altamente instabile, quindi non


viene conservato (non ci sarà mai un
deposito di ATP, solo di glicogeno o
trigliceridi), ma viene prodotto e utilizzato
all’istante. La rottura avviene per idrolisi.

Questi legami sono altamente instabili, si


formano delle forme di risonanza tra gli
elettroni, competizione tra loro, repulsione
carica e carica, quindi la rottura di questi
legami comporta stabilità (ADP è più stabile
dell’ATP), quindi si libera energia.

I legami fosfoanidridici sono legami ad alta energia, mentre il legame fosfoestere no e per
questo non viene scisso e utilizzato per produrre energia. Quindi solo da ATP e ADP si
può ricavare energia.
A cosa serve l’ATP?
• Lavoro meccanico
• Lavoro di trasporto
• Lavoro chimico
Con le reazioni cataboliche, io attraverso i cibi produco/sintetizzo ATP, il quale dopo viene
idrolizzato, rilasciando energia, per bypassare i processi endoergonici.

L’ATP guida le reazioni endoergoniche mediante fosforilazione (trasferimento di un gruppo


fosfato ad un’altra molecola, quindi ATP diventa ADP), questo dà l’energia per lavorare.
Poi c’è la defosforilazione, che riporta la molecola allo stato originale.
Quindi i tre tipi di lavoro cellulare (meccanico, di trasporto, chimico) sono resi possibili
grazie all’idrolisi dell’ATP.
• ATP che diventa ADP che diventa AMP à solo due legami altamente energetici
• Ogni cellula ha circa 1 miliardo di molecole di ATP che durano per meno di un
minuto. Inoltre, almeno il 50% dell’energia rilasciata dall’ATP viene convertita in
calore.

Queste reazioni sono spesso accoppiate, e in particolare sono catalizzate (la catalisi
velocizza la reazione) à ci sono tanti modi,
per esempio:
• abbiamo visto che molte reazioni
esoergoniche devono passare
attraverso uno stadio di transizione, ci
sono allora degli enzimi che
abbassano questo stato di transizione,
facendo avvenire la reazione ad una
velocità maggiore.
o Per esempio, se abbiamo
poche molecole e la probabilità
che si incontrino (magari anche nel punto giusto perché magari solo in un
certo modo possono far avvenire una reazione) è bassa, un enzima può
aiutare a farle incontrare legandole entrambe a sé. In questo modo la
reazione avviene in tempi velocissimi ed è comunque spontanea.
Quindi, la maggior parte delle molecole non ha abbastanza energia cinetica per raggiungere lo stato
di transizione dove collidono.
Perciò, la maggior parte delle collisioni è non-producente e la reazione avviene molto lentamente o
proprio non avviene.
Cosa si può fare per velocizzare queste reazioni?
• Posso aggiungere calore (energia) per far muovere più velocemente le molecole in modo tale
che si incontrino più frequentemente e con forza maggiore
o Questo però non è possibile in un sistema biologico perché l’organismo può morire etc.
o Inoltre, il calore, chiaramente, non è per niente specifico nella sua azione.
• La catalisi è prodotta dagli enzimi, come abbiamo già detto poco fa
o Tutti gli enzimi sono specifici (al contrario del calore) a riconoscere quel tipo
di reagente e trasformarlo in prodotto (OGNI REAZIONE HA IL SUO
ENZIMA).
L’enzima ha un sito attivo, quindi non tutta la proteina fa la reazione, ma solo una piccola
parte, una tasca interna; questo sito attivo è in grado di riconoscere il substrato, l’enzima
con il substrato lo converte nel suo prodotto e lo fa in tempi molto rapidi.

Esistono organismi
autotrofi (piante) che
utilizzano la fotosintesi e
quindi partendo da H2O e
CO2 formano glucosio.
Esistono poi organismi
eterotrofi e, in particolare,
i chemotrofi (animali)
utilizzano composti
organici (carboidrati,
amminoacidi e lipidi) per
produrre ATP.
Gli eterotrofi esistono solamente grazie all’esistenza degli autotrofi.

Il genere di reazioni che facciamo vengono definite


ossido-riduzioni (redox), cioè, rompendo i legami
l’energia di questi legami passa attraverso gli elettroni
(flusso di elettroni), nella cellula gli elettroni passano
attraverso delle molecole, NAD+ (accetta due elettroni e
due H diventando NADH + H+) oppure FAD (accetta 2
elettroni e due H formando FADH2).
Le reazioni di ossido-riduzione servono per distruggere,
decomporre le molecole più grosse, creare il flusso di
elettroni che vengono raccolti dai trasportatori di
elettroni, e questi elettroni vengono poi utilizzati nel
processo di fosforilazione ossidativa per produrre ATP.
Poi le molecole verranno completamente ossidate a CO2 e H2O.
Con il processo di fotosintesi ho invece NADP + H che diventa NADPH.
La Glicolisi
La glicolisi è uno dei passaggi del catabolismo dei carboidrati/zuccheri, in cui si ha
l’ossidazione del glucosio e la produzione del piruvato.

Per poter svolgere tutte le reazioni del


metabolismo cellulare, abbiamo visto che si ha
bisogno di energia, ovvero ATP.
Esso si produce dalla ossidazione dei cibi
(quindi attraverso l’energia presente nei legami
dei vari zuccheri e grassi principalmente). In
presenza di ossigeno, infatti, si ha la
conversione, l’ossidazione/rottura dei legami
degli zuccheri e dei lipidi e la loro completa
ossidazione con formazione di CO2. Questo
comporta la generazione di ATP partendo da
ADP + Pi.
La conversione di un tipo di energia in un altro,
secondo la seconda legge della termodinamica, porta a dissipazione di una parte di
energia sotto forma di calore.

La glicolisi è un processo che vale solo per gli zuccheri, non per i grassi, per i quali invece
si utilizza un altro processo chiamato β-ossidazione.

I nutrienti più usati per la produzione di energia sono soprattutto zuccheri e lipidi, mentre
con le proteine facciamo altre cose (facciamo altre proteine o in caso d’emergenza
possiamo usarle per generare ATP).

Il glucosio può avere destini differenti:


• in presenza di energia, quindi soprattutto
appena mangiato, quando abbiamo assorbito
grosse quantità di glucosio, viene rilasciata
l’insulina e molto di questo glucosio viene
conservato nel muscolo e nel fegato sotto forma
di glicogeno (amido e saccarosio nelle piante)
• può anche essere usato per non generare
energia sotto forma di ATP, ma venir attaccato
a varie componenti, soprattutto proteiche
andando a formare le glicoproteine (di solito
rivolte verso l’esterno della cellula); quindi il
glucosio fa quasi da “involucro” per queste
proteine
• la maggior parte viene utilizzato per la
produzione di energia, che avviene tramite la
glicolisi, che comporta la produzione di piruvato
• ci sono anche altre vie, per esempio la via del pentoso fosfato, che porta alla
produzione di riboso-5-fosfato, che serve per la sintesi di DNA e RNA (il ribosio può
anche essere convertito in deossiribosio). Con questa via si può anche produrre
dell’energia. Vari intermedi di questa via poi servono per entrare nella glicolisi per
produrre ATP.
Glicolisi: una panoramica
• La glicolisi, la via più importante per l’ossidazione del glucosio, avviene nel citosol
di tutte le cellule à gli enzimi della glicolisi sono nel citosol, non in un organello
specializzato o legati alla membrana.
• La glicolisi è unica, nel senso che può avvenire sia in condizioni aerobiche che
anaerobiche, in base alla presenza di ossigeno e mitocondri intatti.
o Questo è importante perché permette ai tessuti di sopravvivere in presenza
o assenza di ossigeno (es. muscoli scheletrici a volte producono ATP in
maniera veloce tramite glicolisi anaerobica e lo consumano altrettanto
velocemente).
o Anche nel sistema nervoso centrale la glicolisi può avvenire in entrambi i
modi, ma soprattutto aerobicamente (Ricorda: il cervello utilizza solo
zuccheri come fonte di energia, non lipidi).
• Le cellule dei globuli rossi, che mancano dei mitocondri, son completamente
dipendenti dal glucosio come carburante metabolico, e lo metabolizza per via di
glicolisi anaerobica.

La glicolisi è costituita da 10 tappe, quindi la conversione e ossidazione del glucosio a


piruvato non avviene con uno step unico, ma c’è bisogno di più tappe metaboliche dove,
come abbiamo visto, il prodotto di una tappa è il substrato per l’enzima della prossima
tappa.
Possiamo separarla in due fasi:
• La prima fase comporta un consumo energetico e ciò è necessario per far avvenire
la seconda fase
• La seconda fase comporta un guadagno energetico

Le 10 tappe:
1. Il glucosio è un’aldeide ed è esoso. La prima tappa è che il glucosio, presente nel
sangue, arriva ai tessuti, viene internalizzato nelle cellule da parte dei suoi
trasportatori e si ha la fosforilazione
del glucosio. Cosa vuol dire? Vuol
dire che c’è un trasferimento dall’ATP
al C6 del glucosio di un fosfato. Chi fa
questo tipo di trasferimento sono le
chinasi, che non fanno altro che
trasferire un gruppo fosfato da una
specie all’altra. Nel nostro caso, quindi,
consumiamo energia perché
utilizziamo l’ATP che diventa ADP e l’enzima che converte l’ATP in ADP e
trasferisce il gruppo fosfato è la esochinasi (il primo enzima della glicolisi) (nel
fegato abbiamo la glucochinasi). La reazione completa è quindi: Glucosio + ATP
à Glucosio-6-P + ADP. Una volta che il glucosio è fosforilato diventa carico
negativamente perché i gruppi fosfato sono negativi, quindi non può più uscire dalla
cellula, non può più attraversare la membrana, in quanto adesso è carico
negativamente e il suo trasportatore non lo riconosce. ATP si lega all’enzima come
un complesso con Mg++. La carica negativa dell’ATP viene bilanciata/attirata dal
magnesio, il quale promuove anche una conformazione favorevole dell’ATP al sito
attivo dell’enzima esochinasi. Quindi l’esochinasi funziona proprio grazie al
magnesio, perché questo enzima ha un sito attivo che accoglie l’ATP attraendolo
tramite il magnesio, quindi fa avvicinare il C6 del glucosio all’ATP e questa reazione
diventa spontanea. Questa reazione è altamente spontanea e quindi esoergonica.
Perciò il glucosio entra nel sito attivo dell’esochinasi, la quale quindi cambia
conformazione/”fitta”, il suo sito attivo blocca e lega in maniera affine il glucosio e
poi si procede alla formazione del Glucosio-6-fosfato.
2. La seconda tappa consiste nella conversione del glucosio-6-P in fruttosio-6-P.
La differenza è che il fruttosio è un
chetoso, mentre il glucosio era un
aldoso; inoltre, il glucosio aveva
forma esamerica/piranosica,
mentre il fruttosio ha forma
furanosica/pentamerica
(naturalmente entrambi son
zuccheri ciclici, non a formula
aperta). Quello che succede è che
la fosfoglucosio isomerasi (le
isomerasi sono quelli enzimi che
convertono una specie nel proprio isomero) catalizza la conversione del glucosio-6-
P in fruttosio-6-P

3. La terza tappa vede all’opera un enzima importantissimo, la fosfofruttochinasi,


importante perché è l’enzima che regola la velocità della glicolisi. Quindi la glicolisi,
come ogni processo metabolico, non funziona sempre nella medesima maniera,
ma andrà più o meno
velocemente in base al
bisogno di ATP. Più c’è
bisogno di energia/ATP, più
andrà velocemente, quindi
questi enzimi avranno una
maggior capacità di
convertire il loro substrato in
prodotto. Quando, invece,
non c’è bisogno di energia,
non si può sprecare ATP e quindi questo tipo di enzimi verrà convertito in una
struttura con meno affinità per il substrato (minor produzione dei prodotti). Questa
reazione altamente spontanea ha un meccanismo simile a quello della esochinasi,
infatti, anche qui l’ATP diventa ADP e il fosfato viene trasferito sul C1 del
fruttosio-6-P che diventa fruttosio-1,6-bifosfato; questo viene catalizzato appunto
dalla fosfofruttochinasi. Anche qui è presente il Mg2+ e la reazione è esoergonica.
Perciò, fino ad ora abbiamo usato due molecole di ATP per fosforilare la nostra
molecola in queste due posizioni.

4. Nella quarta tappa si ha la rottura della molecola, si ha infatti che il fruttosio-1,6-


bifosfato viene aperto (e per comodità la si fa vedere come una struttura lineare).
Succede che l’aldolasi (una
liasi à un enzima che rompe
una specie senza utilizzo di
acqua) catalizza la rottura del
fruttosio-1,6-bifosfato in
diidrossiacetonefosfato e in
gliceraldeide-3-fosfato. La
differenza è che nel
diidrossiacetonefosfato
abbiamo un gruppo
chetonico, mentre nella
gliceraldeide-3-fosfato
abbiamo un gruppo aldeidico. Quindi da una molecola a 6 atomi di C otteniamo due
molecole con 3 atomi di C. Questa reazione si chiama taglio aldolico, il contrario
della condensazione aldolica, che riattacca le due molecole (cosa che avviene nel
processo di gluconeogenesi).
5. Abbiamo detto che per la produzione di
energia bisogna ossidare le molecole,
ovvero, in questo caso, le molecole
derivate dal glucosio. L’ossidazione di
un’aldeide è possibile, quella di un
chetone no; quindi, dobbiamo per forza
convertire il diidrossiacetonefosfato in
gliceraldeide-3-fosfato e quindi alla fine
avremo solo gliceraldeide. L’enzima che
fa questo è la trioso fosfato isomerasi
(TIM), che trasforma una specie nel suo
isomero, ovvero il chetone nell’aldeide in
questo caso. Questa reazione è
leggermente sfavorita, è più facile che la
gliceraldeide passi a diidrossiacetone, che è più stabile, però, il fatto che quando la
gliceraldeide viene prodotta essa viene subito consumata e quindi non ce n’è,
favorisce la conversione di diidrossiacetone in gliceraldeide (sposta la reazione
verso la produzione di gliceraldeide-3-fosfato). Quindi dalla scissione del fruttosio-
1,6-bifosfato alla fine otteniamo due molecole di gliceraldeide-3-fosfato.
• Come fa la trioso fosfato
isomerasi a convertire
un chetone in
un’aldeide? Bisogna
prima convertire il
diidrossiacetone in un
intermedio, l’intermedio
enediolo. Si ha che un H
(rosso) viene estratto e
quindi il C fa un doppio
legame con l’altro C che
prima aveva un doppio
legame con O. Poi un
secondo idrogeno (blu) si va ad attaccare sull’O (questo è l’intermedio
enediolo) e infine si va a rompere il gruppo ossidrilico sul C1 togliendo un H
(viola) e il primo H (rosso) va a legarsi al secondo
C.
• La struttura della trioso fosfato isomerasi ha un
core/una parte centrale costituita da beta-foglietti
rivestita da una struttura attorno di alfa-eliche.
Questo è un altro esempio di proteine in cui
abbiamo dei domini costituiti da alfa-eliche più altri
domini costituiti da beta-foglietti. Chiaramente ci
sono anche proteine costituite solo da uno dei due,
ma la maggior parte presenta entrambi.
6. Questa è l’unica reazione in cui c’è l’ossidazione della gliceraldeide-3-fosfato.
Questa è molto importante perché entra in gioco il NAD+, accettore di elettroni.
Abbiamo detto che, se io voglio creare dell’energia, lo devo fare, almeno negli
esseri viventi, attraverso le
ossido-riduzioni, che
vengono fatte da una classe
di enzimi chiamati
deidrogenasi o ossido-
riduttasi. Ogni volta che ne
sentiamo parlare si ha una
molecola che si ossida e una
che si riduce, quindi le
deidrogenasi estraggono
elettroni e le convogliano in
altre specie. In questo caso
abbiamo che la
gliceraldeide-3-fosfato
deidrogenasi ossida la gliceraldeide che diventa 1,3-bifosfoglicerato, questo
perché il NAD+ si riduce a NADH + H+ e questo trasferimento di elettroni genera
l’energia per poter legare un fosfato inorganico (quindi in questo caso non abbiamo
un trasferimento di un fosfato dall’ATP alla molecola) che viene legato con un
legame ad alta energia sul C1 del glicerato. Quindi, in formula, abbiamo che:
gliceraldeide-3-P + NAD+ + Pi ßà 1,3-bifosfoglicerato + NADH + H+.
• Nel dettaglio vediamo che l’enzima
ha una cisteina con il gruppo
sulfidrilico SH che fa un attacco sulla
gliceraldeide-3-fosfato sul C1 e
rompe il doppio legame C=O, si lega
direttamente alla gliceraldeide
formando l’intermediato
tioemiacetale, dove abbiamo un
gruppo ossidrilico al posto del doppio
legame iniziale. A questo punto
avviene l’ossidazione del gruppo
ossidrilico e gli elettroni tolti perché
va via l’H vengono convogliati sul
NAD+ che diventa NADH ed ecco che
abbiamo di nuovo il doppio legame
C=O (intermediato acil-tioestere). A
questo punto, liberata l’energia per
poter legame il fosfato inorganico,
esso si lega sul C1, si stacca l’enzima che è riutilizzabile (1,3-
bifosfoglicerato).
7. Ora andiamo a recuperare l’energia
spesa all’inizio. Abbiamo di nuovo
delle chinasi, la fosfoglicerato
chinasi, però questa volta facciamo
l’opposto, non prendiamo l’ATP per
fosforilare, ma utilizziamo il gruppo
fosfato che viene convogliato
dall’1,3-bifosfoglicerato,
esattamente dal C1, e andiamo in tal
modo a trasformare ADP in ATP
(questo perché l’1,3-
bisfosfoglicerato ha affinità minore
per il fosfato rispetto all’ADP).
Quindi la reazione è: 1,3-bifosfoglicerato + ADP ßà 3-fosfoglicerato + ATP.
Questo è un primo passaggio con cui si produce energia con la glicolisi.
8. In questo step abbiamo nuovamente
una isomerasi, più precisamente una
mutasi, la fosfoglicerato mutasi, che
sposta il gruppo fosfato dal C3 al C2.
• Come avviene questo? Avviene
tramite spostamenti di gruppi
fosfato con la molecola
intermedia che è il 2,3-
bifosfoglicerato à intermedio
molto importante per
l’emoglobina che quando
arriva nei tessuti lo stato T
dell’emoglobina, che nei
tessuti deve rilasciare
l’ossigeno, viene
stabilizzato dal legame
delle istidine con carica
positiva 143 con la carica
negativa del 2,3-
bifosfoglicerato. Nella
glicolisi il 2,3-
bifosfoglicerato serve
appunto per fare da
donatore e accettore di
gruppi fosfato per spostarli
dal 3-fosfoglicerato al 2-fosfoglicerato.
9. Ora abbiamo l’enolasi che catalizza la
trasformazione del 2-fosfoglicerato in
fosfoenolpiruvato. Quindi, sostanzialmente,
viene eliminata una molecola d’acqua e si
forma un doppio legame C=C tra il C2 e il C3.

10. In questa ultima tappa abbiamo che: fosfoenolpiruvato + ADP à piruvato +


ATP. Abbiamo qui un’altra
chinasi, piruvato chinasi,
l’ultimo enzima della glicolisi.
Questa reazione è altamente
spontanea e abbiamo il
fosfoenolpiruvato in cui il gruppo
fosfato dal C2 viene trasferito
sull’ADP che diventa ATP, poi
passa attraverso un intermedio
di enolpiruvato, il quale si
converte spontaneamente in piruvato (un chetoacido), che è più stabile.
Riassumendo le varie tappe della glicolisi:

A primo impatto sembra che non ci sia stato guadagno energetico, perché ho due ATP
consumati e due ATP prodotti, però questo non è vero perché dobbiamo ricordarci che
abbiamo due molecole di gliceraldeide (GA3P) per glucosio. Quindi abbiamo speso 2
molecole di ATP, abbiamo prodotto 4 legami -P di ATP (considerato che ci sono due
molecole di GA3P per glucosio) e perciò il guadagno netto è 2. Quindi, con la glicolisi, per
ogni molecola di glucosio siamo in grado di produrre 2 ATP. Sono pochi, però è pur
sempre un guadagno energetico di 2 ATP e, naturalmente, di 2 molecole di NADH.
Ovviamente questo vale per ogni molecola di glucosio e nella cellula ci saranno tante
molecole di glucosio, quindi questo processo è molto veloce e produrrà velocemente
anche grosse quantità in totale di ATP.
Chiaro che il guadagno netto per glucosio è basso perché, in realtà, con glicolisi + ciclo di
Krebs e fosforilazione ossidativa noi andiamo a produrre 32 ATP contro i 2 della sola
glicolisi; quindi 30 in più in condizioni aerobiche, mentre in condizioni anaerobiche
funziona solo la glicolisi e abbiamo la produzione di soli 2 ATP.
La reazione completa della glicolisi (omettendo H+) è quindi:
Glucosio + 2 NAD+ + 2 ADP + 2 Pi à 2 Piruvati + 2 NADH + 2 ATP

La fermentazione
In realtà, il piruvato non rimane ad accumularsi nel citoplasma, ma viene immediatamente
portato nel mitocondrio, ma questo solo in condizioni aerobiche (in presenza di ossigeno).
Ovviamente però ci sono casi dove la cellula va in debito di ossigeno (es. durante lo
sport), non c’è abbastanza ossigeno per produrre molto ATP, quindi si va in anaerobiosi.
In questo caso si blocca il ciclo di Krebs, si blocca la fosforilazione ossidativa, rimane solo
la glicolisi e quindi ho l’esigenza di recuperare questo NADH, perché altrimenti non ho più
NAD+ per far procedere la glicolisi. Infatti, nella sesta tappa ho bisogno di NAD+ che si
riduce a NADH; se io sono in assenza di ossigeno ho un accumulo di NADH e non ho più
NAD+ e quindi si ferma anche la glicolisi, che non è possibile perché vorrebbe dire non
produrre nemmeno un po’ di ATP.
Quindi cosa succede? Negli organismi inferiori abbiamo la fermentazione alcolica, mentre
noi abbiamo la produzione di acido lattico.
Il piruvato, in assenza di ossigeno, viene convertito in qualcos’altro.
• Per esempio, in Saccharomyces Cerevisiae, un lievito (quello che poi forma il vino),
trasforma (questo lo fa sempre, non dipende da anaerobiosi o aerobiosi) il piruvato,
tramite una decarbossilazione (viene tolto CO2), catalizzata dall’enzima piruvato
decarbossilasi, in acetaldeide, che poi viene naturalmente ridotta grazie alla alcol
deidrogenasi e al NADH + H+, (prodotti dalla GA3P) che si ossida a NAD+; quindi
l’acetaldeide si riduce
(un’aldeide quando si riduce si
trasforma in un alcol primario) a
etanolo. In questo modo
riusciamo a recuperare il NAD+,
il quale può venir ridotto
nuovamente nello step 6 della
glicolisi e così la reazione
procede anche in condizioni
anaerobiche. Questo succede solo negli eucarioti inferiori.
o Il prodotto di scarto che è la CO2 sono le bollicine del vino e l’etanolo
(anch’esso un prodotto di scarto della fermentazione tecnicamente) è il
grado alcolico del vino; quindi, la conversione di mosto in vino avviene
grazie a questi microrganismi o eucarioti inferiori.
• Negli eucarioti superiori come i vertebrati succede che il piruvato, in assenza di
ossigeno, viene ridotto ad acido lattico. In questo caso il piruvato, che è un
chetoacido, non viene
decarbossilato; quindi, succede
che, a livello del muscolo, quando
non c’è più ossigeno e serve
energia e il NADH deve essere
convertito in NAD+, il piruvato
viene ridotto grazie alla lattato
deidrogenasi a lattato o acido
lattico, che invece ha un gruppo
alcolico. Quando riduco un
chetone si forma un alcol
secondario, non primario. Il NAD+
quindi viene riutilizzato nella
glicolisi, mentre l’acido lattico viene depositato temporaneamente nel muscolo e poi
rimosso, portato al fegato dove viene riconvertito in piruvato, il quale può essere
utilizzato per la gluconeogenesi o venir ossidato nel ciclo di Krebs a produzione di
energia.

Quindi, in condizioni anaerobiche il piruvato viene convertito in lattato, mentre in


condizioni aerobiche il piruvato entra nel ciclo di Krebs come acetil-coenzima A, dove
attraverso la fosforilazione ossidativa il NADH diventa NAD+ che può quindi venir di nuovo
utilizzato nella glicolisi.

Chiaramente la glicolisi ha una variazione di energia favorevole, infatti il piruvato e il


lattato hanno una energia libera molto minore del glucosio. Quindi si libera energia che, in
parte viene convertita in ATP, ma per la maggior parte in calore.

La regolazione della glicolisi


Esistono due tipi di regolazione:
• Allosterica (positiva o negativa) à risponde al metabolita presente al momento (è
veloce)
• Covalente reversibile -> risponde a segnali ormonali (più lenta)
La glicolisi quindi è finemente regolata, ha una regolazione direttamente sull’enzima
(regolazione locale/controllo locale) oppure una regolazione ormonale (controllo
globale, es. insulina quando non serve energia oppure glucagone quando serve energia).
Gli enzimi che più vengono regolati nella glicolisi sono la esochinasi (tappa 1), la
fosfofruttochinasi (tappa 3) e la piruvato chinasi (tappa 10). In particolare, è importante la
fosfofruttochinasi, perché essa regola la velocità della glicolisi.
• L’esochinasi è inibita dal suo prodotto (glucosio-6-fosfato), quindi se c’è tanto del
suo prodotto esso va a ridurre l’attività di questo enzima (inibizione allosterica);
questo perché c’è competizione tra il glucosio-6-fosfato e il glucosio al sito attivo.
o Naturalmente, con la fosforilazione del glucosio esso viene intrappolato nella
cellula; l’inibizione della esochinasi riduce l’entrata e quindi il consumo di
glucosio da parte della cellula (quando non c’è fabbisogno energetico).

• La fosfofruttochinasi è l’enzima principale su


cui avviene la regolazione di questo processo
(rate-limiting step). Quando c’è tanto ATP,
esso è in grado ridurre l’affinità della
fosfofruttochinasi per il suo substrato (il
fruttosio-6-fosfato). Quindi, alte
concentrazioni di ATP fanno slittare l’enzima
in uno stato “teso”, a bassa affinità per il
substrato; mentre a basse concentrazioni di
ATP l’enzima sarà in uno stato rilassato, con
maggiore affinità per il substrato.
(Quando c’è poco substrato l’enzima funziona