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CAPITOLO 6.

L’AGGRESSIVITA’ E L’ALTRUISMO

La convivenza civile rende necessario sviluppare delle aspettative reciproche di cooperazione, eppure
accanto a frequenti esempi di altruismo si manifestano esempi di comportamenti aggressivi e violenti.

Hobbes e Rousseau hanno espresso le loro concezioni riguardo la natura umana. Per Hobbes, le persone
sarebbero inclini all’aggressività verso i propri simili, quindi necessitano di istituzioni sociali in grado di
reprimere le tendenze antisociali e assoggettarle alle esigenze della convivenza civile. Per Rousseau, la
natura è fondamentalmente buona, corrotta proprio dalle esigenze della civiltà. Il primo approccio
psicologico parte dal rapporto fra la natura umana e le esigenze della convivenza: Freud affermava che
l’aggressività umana è inevitabile e frutto della tensione fra due istinti primari, quello di autoconservazione
(Eros) e quello di autodistruzione (Thanatos). Mentre il primo ci fornisce l'energia vitale, necessaria per la
sopravvivenza, dal secondo ci deriva un'energia distruttiva che deve essere in qualche modo indirizzata
verso l'esterno per consentire alla prima di prevalere. Il comportamento aggressivo è una strategia di
orientamento di tale energia negativa. Esso sarebbe dunque funzionale all’individuo ma che ne sarebbe
della società se i suoi membri fossero liberi di manifestare la propria aggressività verso gli altri? Nel libro “il
disagio della civiltà”, Freud sostiene che la civiltà pone dei limiti alla manifestazione delle pulsioni
aggressive attraverso le norme, i comandamenti ottenendo tuttavia soltanto di prevenire i peggiori eccessi
dell’aggressività umana. Esiste anche il contrasto fra la libertà individuale e la civiltà: il singolo è costretto a
rinunciare ad una parte della propria libertà in cambio della sicurezza che offre la vita in società. Le pulsioni
individuali devono così essere sublimate cioè convogliate su mete socialmente desiderabili. Freud parla di
frustrazione civile come del sentimento che domina il vasto campo delle relazioni sociali. Il progresso civile
richiede al singolo un prezzo che consiste nella perdita della felicità intesa come soddisfacimento di tutte le
pulsioni. L’approccio etologico condivide con quello freudiano l'idea della naturalità dell’aggressività
umana. In questo quadro gli studiosi ritengono che si debba osservare il comportamento di individui di
specie diverse da quella umana per stabilire se è possibile ritrovare comportamenti di aggressività non
imputabili a fattori sociali o culturali. Lorenz sosteneva l’inevitabilità dei comportamenti aggressivi: in un
ambiente pieno di insidie e dalle risorse limitate, l'individuo deve essere aggressivo per difendere se stesso
e assicurarsi la sopravvivenza e la possibilità di riproduzione. I comportamenti aggressivi sono dunque
funzionali non solo per l'individuo ma soprattutto per la conservazione della specie: l’aggressività farebbe
parte delle strategie di selezione naturale. Anche in questo caso l’aggressività è concepita come un’energia
istintuale che deve essere indirizzata verso qualche bersaglio o stimolo scatenante. I comportamenti
aggressivi rispettano la logica del modello idraulico: l'energia istintuale deve essere indirizzata e
manifestata. In caso contrario si accumula e può scoppiare in modo incontrollato anche in assenza di
stimoli scatenanti proprio come farebbe la pentola a pressione quando non funziona la valvola di scarico
del vapore. La società dovrebbe trarre vantaggio dall’indirizzare le energie negative dei singoli verso forme
di scaricamento socialmente accettabili. Le persone che hanno possibilità di manifestare comportamenti
aggressivi non diminuiscono successivamente la propria carica di aggressività in confronto delle persone
che non hanno precedentemente avuto tale possibilità. Allo stesso modo falliscono i tentativi di sostenere
che l'osservazione dei comportamenti violenti abbia un effetto di catarsi che si compie attraverso la
sublimazione vicariante dell’energia distruttiva. Essere esposti a comportamenti violenti non è sufficiente
ad eliminare l'eventuale pulsione aggressiva anzi aumenta la probabilità che una risposta di tipo aggressivo
venga adottata dall’individuo.

Una persona è motivata ad agire in modo aggressivo, non perché è governata da fattori istintuali ma perché
indotta da una pulsione che deriva da una frustrazione. La frustrazione è una condizione che si verifica
quando degli ostacoli si frappongono fra l'individuo e il raggiungimento dei suoi fini. L'ipotesi viene espressa
in maniera biunivoca: alla frustrazione segue sempre una risposta in termini di aggressività, l’aggressività è
sempre causata da una frustrazione. Tuttavia all’aggressività può anche non essere rivolta alla causa della
frustrazione. Questo avviene perché nel corso dell'esperienza apprendiamo ad associare una determinata
risposta comportamentale ad una conseguenza: è chiaro che le conseguenze della mia aggressività verso il
professore sarebbero più negative di quelle che provoco essendo scortese con i miei amici. Anche se
l'azione aggressiva non è vista come il prodotto di un istinto innato è pur sempre una modalità di scaricare
pulsioni negative prodotte dalla frustrazione. Gli autori tentano di sostenere questa tesi mostrando come si
possa ipotizzare che per una serie di caratteristiche i criminali siano stati sottoposti ad una serie di
frustrazioni superiori alla media della popolazione e che siano anche meno in grado degli altri di prevedere
la pena associata ai loro reati. Il punto più debole della versione originale della teoria è proprio costituito
dalla relazione biunivoca tra frustrazione e aggressività. E’ facile trovare esempi in cui la frustrazione trova
sfogo in forme di risposta non propriamente aggressiva ma anche di comportamenti aggressivi che si
manifestano in assenza di frustrazioni individuali preliminari. Berkowitz propose una rilettura dell’ipotesi
originaria della teoria dell'apprendimento sociale. Egli sosteneva che ogni sentimento negativo può
indurre aggressività. L’aggressività è una delle risposte comprese in un repertorio individuale di possibilità.
Diventa la risposta dominante soltanto quando si verificano determinate condizioni. In particolare quando
nella situazione sono presenti stimoli a cui l'individuo che sperimenta uno stato d'animo negativo ha
associato una connotazione aggressiva nel corso di esperienze precedenti. Per dimostrare questa tesi egli
condusse un esperimento nel quale ai partecipanti veniva indotto in una prima fase un senso di frustrazione
oppure no attraverso la comunicazione di un falso feedback ad un compito. Effettivamente i risultati
mostrano innanzitutto che le persone precedentemente frustrate erano più propense di coloro che non
avevano ricevuto prima un feedback negativo a somministrare le scosse elettriche al complice ma questo
era tanto più vero nelle condizioni di presenza dell'arma. La sola presenza dell'arma nella situazione non
era sufficiente a rendere saliente nei partecipanti la plausibilità di una risposta aggressiva ma se era stato
precedentemente attivato uno stato d'animo negativo, lo stimolo del cibo favoriva anche l'attivazione
dell'associazione fra lo stato d'animo e un comportamento aggressivo rendendo quest'ultimo più probabile.

L'idea che l’espressione dell'aggressività parte dall’imitazione può essere fatta risalire alla psicologia delle
folle dell'inizio del 900. L'avvento della società di massa nell'epoca industriale pose ai sociologi nuovi
interrogativi sulla natura dei fenomeni collettivi. Tarde parlò dell’imitazione come del principio che governa
il comportamento sociale in gruppi di vaste dimensioni e Le Bon chiamò in causa la suggestione ovvero una
sorta di ipnosi collettiva. Secondo entrambi l’individuo nella folla perde tale potere di controllo e attraverso
l'imitazione e la suggestione adotta comportamenti immediati in risposta a stimoli sociali. La situazione
collettiva inibisce le capacità critiche individuali aprendo la via a reazioni socialmente incompatibili. In
queste condizioni le persone sono facilmente manipolabili da un individuo con particolari doti carismatiche
e di prestigio. Questa tematica fu poi ripresa da Freud attraverso il concetto di disagio della civiltà. Ma l'idea
di un ruolo dell’imitazione nell’attivazione dei comportamenti antisociali non è mai stata abbandonata.
Secondo la teoria dell'apprendimento sociale l’aggressività non può essere compresa se non si concepisce
come un comportamento sociale che viene acquisito e mantenuto a determinate condizioni. La prima di
queste condizioni consiste nell’associare il comportamento ai suoi esiti in termini di conseguenze negative o
positive. Questa associazione può essere appresa tramite l'esperienza diretta ma anche attraverso
l'osservazione di qualcuno che attua un comportamento in una data situazione e delle conseguenze che ne
ricava. L'osservazione del comportamento degli altri è una delle principali fonti di informazioni non solo nel
corso della socializzazione ma anche nell'età adulta informa su ciò che è appropriato o meno in una
situazione poco o per nulla familiare. In una serie di esperimenti famosi un adulto maltrattava un pupazzo
davanti ad un gruppo di bambini oppure giocava normalmente con lo stesso pupazzo. Successivamente
usciva dal laboratorio lasciando i bambini liberi di giocare mentre venivano osservati i loro comportamenti.
Da queste osservazioni emerge che i bambini che avevano assistito al maltrattamento del giocattolo da
parte dell'adulto tendevano successivamente a riprodurre tale comportamento mentre i bambini della
condizione di controllo giocavano con lo stesso pupazzo in modo tranquillo. questi risultati stimolano un
interrogativo rilevante sugli effetti potenzialmente imputabili ad una dieta televisiva tanto pervaso dalla
violenza come quella a cui siamo attualmente abituati. Esiste una relazione tra l'esposizione a programmi
televisivi con contenuti violenti e il livello di aggressività manifesto ma non è facile stabilire la direzione
causale di tale relazione. Non sappiamo cioè se le persone aggressive preferiscono programmi violenti o i
programmi in questione causano comportamenti imitativi. Tra l'altro emerge che l'effetto è maggiore
quando la violenza è inclusa in programmi di fiction piuttosto che in quelli realistici. Comunque le due
interpretazioni non si escludono: lo spettatore non può essere concepito come totalmente passivo di fronte
alla tv. Egli interpreta i contenuti e li mette in relazione con le conoscenze che ha organizzato nella
memoria, con i comportamenti che ha già messo in atto nel corso di esperienze precedenti e con un tipo di
conseguenze che ne ha ricavato. È possibile sostenere dei programmi a contenuto violento provocano
un'attivazione emozionale e una conseguente risposta aggressiva più probabilmente nelle persone che
hanno già ottenuto risultati positivi dalla messa in atto di comportamenti dello stesso genere in passato.
Questa associazione tra emozioni e risposta comportamentale risulta più forte in particolari condizioni se lo
spettatore si identifica con il personaggio violento oppure se le conseguenze del comportamento violento
che osserva appaiono trascurabili oppure se la violenza osservata è realistica.

Una delle dimostrazioni circa il ruolo di determinate caratteristiche situazionali nei comportamenti
aggressivi ci proviene da una serie di esperimenti di laboratorio condotti da Milgram. L'obiettivo che si
proponeva di raggiungere era quello di dimostrare che gente normale, che si occupa soltanto del suo lavoro
e che non è motivata da nessuna aggressività può da un momento all'altro rendersi complice di un processo
di istruzione. Il paradigma degli esperimenti prevedeva che un partecipante per volta svolgesse il ruolo di
maestro mentre un altro partecipante assumesse quello di allievo. Il maestro si trovava di fronte ad un
quadro di controllo con 30 leve sotto le quali era indicato il rispettivo livello di scossa elettrica che si
sarebbe inflitto azionandole. Gli interruttori in questione andavano da 15 V a 450 V. L'allievo veniva fatto
accomodare su una sedia e gli veniva collegato un elettrodo al polso. Il maestro doveva leggere coppie di
parole che l'allievo doveva memorizzare. Ad ogni ricordo errato da parte dell'allievo il maestro doveva
infliggergli una scossa elettrica progressivamente maggiore. L'allievo-complice, che naturalmente non
riceveva nella realtà la scossa elettrica, era stato tuttavia istruito a simulare lamenti e grida di dolore via via
crescenti. Ad ogni esitazione del maestro lo sperimentatore lo esortava in modo sempre più pressante a
proseguire. Furono condotte 21 repliche utilizzando lo stesso paradigma sperimentale e introducendo
variazioni che consentirono di precisare le condizioni entro le quali l'obbedienza all'autorità si dimostrava
più probabile. Questa adesione alla richiesta dell'autorità variava notevolmente in relazione a due fattori: la
distanza fra il partecipante alla sua vittima e quella fra il partecipante e lo sperimentatore che impartiva
gli ordini. Nel primo caso i partecipanti si trovavano in una situazione di conflitto tra la norma
dell’obbedienza e quella della responsabilità sociale nei confronti della vittima. In condizioni in cui il
maestro era costretto ad un contatto fisico con l'allievo la quota di obbedienza scendeva fino al 30% dei
casi. Nel secondo caso Milgram osservò che il grado di sottomissione dei partecipanti diminuiva
all'aumentare della distanza fra sè e lo sperimentatore. Interpretò questi risultati affermando che la
situazione in cui egli aveva posto i partecipanti era tale da generare uno stato eteronomico, uno stato in cui
nella percezione dell'individuo prevale la norma dell’obbedienza ad una autorità che si suppone si assuma
la responsabilità del comportamento disumano del partecipante nel momento in cui impartisce l'ordine. A
questo stato concorrono alcune condizioni presenti nella situazione sperimentale appena descritta:

 La percezione di legittimità dell’autorità;


 L’adesione al sistema di autorità;
 Le pressioni sociali.

Questi risultati sono stati utilizzati anche il sostegno dell’ipotesi che eventi storici distruttivi come
l'Olocausto non sono frutto della follia di qualcuno posta in una posizione strategica o dell' insorgere di
momenti di razionalità collettiva ma di processi che rispondono alle stesse logiche funzionali che portano a
esiti desiderabili. L'obbedienza all'autorità è una norma che nella maggior parte dei casi garantisce un certo
ordine sociale. In ogni cultura sono presenti diverse norme sociali che hanno lo scopo di definire qual è il
comportamento appropriato in determinate situazioni e di regolare i comportamenti aggressivi. Nelle
culture pluraliste e complesse come la nostra queste norme sono non solo numerose ma a volte anche in
contrasto tra loro nel senso che non tutte le prescrizioni di questo genere sono orientate alla limitazione
dei comportamenti aggressivi. Al contrario legittimano l'espressione di aggressività come risposta adeguata
a determinati stimoli. Possiamo individuare la norma del machismo che definisce il comportamento che un
vero uomo deve mettere in atto in situazioni di offesa o provocazione. Le aspettative di ruolo nei confronti
delle donne richiamano maggiormente le norme della tolleranza e della sopportazione. Nelle società
individualiste come quelle occidentali le norme sociali che prevedono la necessità di una reazione
aggressiva come autodifesa e ripristino dei diritti individuali a fronte di eventuali violazioni sono
particolarmente salienti. La probabilità di attuare un comportamento aggressivo sarà influenzata
soprattutto dal tipo di norma che l'individuo percepisce come pertinente al contesto in cui si trova. Lo
stesso individuo infatti potrebbe essere propenso a lasciar perdere di fronte ad una provocazione subita a
un incrocio mentre potrebbe rispondere in modo molto violento ad un comportamento percepito come
aggressivo allo stadio.

Questo processo non può che cominciare dall'interpretazione che l'attore dà della situazione in cui si trova
e dell'evento. Ogni situazione che sperimentiamo include un margine più o meno ampio di ambiguità. Una
pacca sulla spalla può essere interpretata come un gesto di sostegno o come una provocazione in base alle
informazioni disponibili nel contesto in cui avviene. Ma la focalizzazione dell'attenzione dei protagonisti su
alcune di queste informazioni e non su altre porta ad interpretazioni differenziate e a volte proprio
contrapposte. Nella fase di definizione dell'evento un ruolo molto importante è giocato dall’attribuzione di
intenzionalità di ciò che sta avvenendo. Su un autobus molto affollato un colpo di gomito può essere
interpretato come accidentale oppure come intenzionale. Nel secondo caso l'attribuzione di intenzionalità
definisce il gesto come provocatorio e attiva la necessità di una risposta fra un ventaglio di possibilità. Colui
che ha ricevuto il colpo può infatti far finta di niente chiedere spiegazioni, lamentarsi o restituire il colpo. La
scelta della risposta che viene attuata è influenzata dalla percezione delle conseguenza, dal livello di
attivazione emotiva negativa che il colpo ha provocato e dalle norme che sembrano pertinenti al contesto.

Secondo Moscovici l'altruismo diventa un problema riguardante anche le scienze sociali in quelle società in
cui l’egoismo è la norma. In un quadro culturale centrato sulla valorizzazione delle norme individualistiche
si pone il problema dell’altruismo in quanto fenomeno altamente costoso e dunque improbabile. Nel 1964
a New York una ragazza di nome Kitty Genovese venne aggredita in strada da uno sconosciuto che finì per
accoltellarla. Le indagini portarono a chiarire che l'episodio aveva avuto una durata di circa mezz'ora e che
molte persone erano state testimoni ma nessuno aveva preso alcuna iniziativa per soccorrere la ragazza. Di
fronte a questo episodio Latanè e Darley si proposero di condurre qualche ricerca a partire dall' ipotesi che
la probabilità di attuazione di comportamenti altruistici sia governata anche da fattori relativi alla situazione
e non soltanto da quelli socialmente patologici come la mancanza di valori, o da fattori individuali come la
tendenza personale all'aiuto o alla violenza. Le ricerche hanno mostrato che la personalità altruista sarebbe
associata ad una costellazione di altri tratti di personalità quali l'elevata stima di sé, elevata competenza
morale, tendenza ad attribuire le cause degli eventi di cui l'individuo è protagonista a fattori interni, scarso
bisogno di approvazione esterna e forte senso di responsabilità sociale. a parità di struttura di personalità il
fattore più predittivo del comportamento di aiuto risulta essere la percezione della propria efficacia, ovvero
la credenza di essere in grado di agire positivamente nelle situazioni. in certe situazioni quasi tutti gli
osservatori intervengono mentre in altre situazioni nessuno è disposto a farlo, le stesse persone sono
disposte ad offrire il proprio aiuto in certe condizioni ma non in altre. E’ evidente dunque che la dimensione
della personalità di per sé non è sufficiente per prevedere la messa in atto di comportamenti altruistici.

Hoffman considera l’empatia come un elemento che precede l'attuazione di una risposta di aiuto. L’empatia
fa riferimento ad una attivazione emotiva fatta di compassione, tenerezza, simpatia da parte di una persona
che osservi un'altra in difficoltà. Tale attivazione emotiva sarebbe associata anche ad un processo cognitivo:
l'osservatore assume la prospettiva della persona in difficoltà e in questo modo riesce a cogliere i connotati
della sua situazione. Se nell’osservare una persona che ha bisogno di aiuto ci mettiamo nei suoi panni
proviamo uno stato emotivo simile al suo. E’ questa capacità a rendere probabile un intervento di aiuto.
Questo spiegherebbe come mai le persone sono più disposte ad aiutare qualcuno che percepiscono come
simile a sè: la percezione di somiglianza di condivisione di una medesima appartenenza di gruppo facilita
l'assunzione della prospettiva altrui favorendo così l'insorgere del sentimento empatico. La sofferenza altrui
può attivare due tipi di emozioni diverse: il disagio personale e la reale preoccupazione per la sorte
dell'altra persona. Entrambe possono motivare l'individuo ad agire per sollevare la vittima delle sue
sofferenze ma lo stato d'animo negativo può essere rimosso anche semplicemente attraverso la fuga o
l’evitamento della situazione. Quando la evitamento non è possibile il comportamento di aiuto può quindi
non essere il frutto di puro altruismo ma essere motivato dalla necessità di rimuovere il disagio personale.

Da un lato, Cialdini, Darby e Vincent sostengono l'ipotesi del sollievo dello stato negativo: le persone che si
trovano in uno stato d'animo negativo mettono in atto risposte altruistiche non tanto per reale interesse
verso la persona in stato di bisogno ma allo scopo di migliorare il proprio umore. Sostengono che i
comportamenti pro sociali derivano da una motivazione fondamentalmente egoistica: il desiderio di
rimuovere l'angoscia che provoca la vista dell'altrui sofferenza. La stessa ipotesi spiega anche perché gli
individui non prestano aiuto quando la situazione permette vie di fuga: se gli osservatori sono numerosi la
percezione di diffusa responsabilità rende la fuga una risposta funzionale alla riduzione del disagio
personale. Dall'altro lato, Batson e colleghi formularono il modello dell’empatia-altruismo: la
preoccupazione per le sofferenze altrui è una motivazione sufficiente per spiegare i comportamenti pro
sociali che non rispondono a ferree regole di bilancio costi-benefici su base individuale. Esiste la concezione
dell'essere umano come fondamentalmente egoista e che il fattore motivante consista nel senso di unità
interpersonale che l'osservatore esperisce nei confronti della vittima. La percezione di somiglianza induce
maggiore empatia ma anche maggior senso di sovrapposizione tra sé e l'altro. In una serie di quattro
esperimenti essi dimostrano che le circostanze entro le quali si sono osservati comportamenti più altruistici
sono le stesse che portano gli individui a percepire una debole separazione tra sé e l'altro. Se il Sè non è
distinto dall'altro aiutare l'altro ha ripercussioni positive per il Sè. La convivenza civile rende necessari il
riconoscimento dell’adesione ad alcune norme sociali che prescrivono aiuto e solidarietà verso chi si trova
in difficoltà. Le norme sociali vengono apprese nel corso del processo di socializzazione, quel processo
attraverso il quale l'individuo impara a riconoscere e a distinguere quali sono i comportamenti socialmente
adeguati agli specifici contesti della sua esperienza. Uno dei principi più importanti da considerare e quello
della reciprocità: le persone devono restituire l'aiuto a chi lo ha offerto loro o potrà farlo in futuro. Gli
antropologi hanno mostrato che la norma della reciprocità a carattere di universalità: essa governa le
relazioni fra le persone in tutte le società umane ed è uno dei criteri fondanti della moralità e della vita
collettiva. La reciprocità è considerata un principio esplicatore nella teoria della equità: in una relazione di
coppia se un membro sente di ricevere più benefici dal partner di quanti ne dispensa sperimenta uno stato
di disagio mentre la situazione contraria porta ad un esperienza di rabbia e frustrazione. Dawkins ha
dimostrato, attraverso la teoria dell’altruismo reciproco, che individui incondizionatamente altruisti sono
destinati a soccombere ben presto a favore di individui incondizionatamente egoisti. Questa teoria porta a
crede all’esistenza dell’altruismo puro come esito di un processo evolutivo che ha permesso nel corso del
tempo di trarre benefici dall’altruismo reciproco. Un’altra norma sociale è quella della responsabilità
sociale, si tratta grazie alla quale ci sentiamo in obbligo di agire in favore di chi dipende da noi. Questo
obbligo vige nella famiglia. Possiamo individuare norme che prescrivono di non intervenire. Ad esempio, la
norma che protegge la privacy familiare. Si tende a pensare che i conflitti familiari debbano essere regolati
dai membri stessi. Allora le condizioni entro le quali una norma sociale influenza il comportamento che
l’individuo intraprende sono le seguenti.

 La norma deve essere stata appresa e interiorizzata dall’individuo nel corso della socializzazione.
 Deve essere percepita come pertinente.
Tre forme di altruismo secondo Moscovici:

 Altruismo partecipativo: si tratta dei comportamenti che favoriscono la vita collettiva dei membri
di una stessa comunità. Gli individui sacrificano il proprio tempo, l’energia e le risorse di cui
dispongono a favore di coloro che condividono un’appartenenza sociale significativa.
 Altruismo fiduciario: consiste nel sacrificio finalizzato a stabilire un legame di fiducia e confidenza
con l’altro, il quale dovrà legittimare tale legame con la riconoscenza.
 Altruismo normativo: come la pensione sociale, cassa integrazione ecc… Questi esempi sono basati
sul principio di solidarietà e responsabilità.

L’altruismo avviene attraverso delle fasi precise. La prima fase consiste nella definizione dell'evento. Ogni
evento presenta un margine più o meno ampio di ambiguità che ciascuno di noi risolve elaborando alcune
informazioni che ha a disposizione. Nella definizione dell'evento un ruolo molto importante sembra avere il
modo in cui l'osservatore si rappresenta una persona come bisognosa di aiuto. In particolare la probabilità
di aiutare qualcuno è strettamente connessa con le attribuzioni di causa che l'osservatore fa circa la
situazione di bisogno. Le persone sono più disponibili a rispondervi se attribuiscono la causa della
situazione di bisogno a fattori non controllabili dalla vittima rispetto a fattori controllabili. Le persone
desiderano cioè impegnarsi nell’aiuto di altri che lo meritano. Non si tiene conto delle distorsioni che
intervengono nella formulazione delle attribuzioni causali. Per esempio Ross ha definito errore
fondamentale di attribuzione è una tendenza diffusa a sopravvalutare le cause interne nella spiegazione
dei comportamenti altrui. A questa distorsione si aggiunge la credenza in un mondo giusto: le persone
tendono a rappresentarsi l'ambiente in un modo ordinato e razionale in cui la casualità pura ha un ruolo
limitato. Per questa ragione si tende a pensare che gli eventi negativi succedono a chi in qualche modo se
l'è meritato. Il fatto di ristabilire cognitivamente questa sequenza di causa ed effetto ha una funzione
adattiva: rassicura rispetto al futuro individua un ordine nel caos. Ma attribuire una responsabilità alla
vittima per la propria situazione rende meno probabile l'attuazione di comportamenti di aiuto.
Complementare all’attribuzione causale da parte dell’osservatore si svolge l’attribuzione causale della
persona che riceve aiuto. I risultati di questi due processi spesso non coincidono soprattutto perché
comportano conseguenze differenziate sull’autostima dei protagonisti. Mentre offrire il proprio aiuto
fornisce per lo più un contributo positivo alla stima di sé, riceverlo evoca l'idea di uno scarso controllo della
situazione. Colui che riceve aiuto può tendere a sottostimare l'intervento altrui come causa risolutiva del
proprio stato di bisogno. Se poi la minaccia al Sè indotta dal fatto di ricevere aiuto prende il sopravvento, il
beneficiato può mettere in atto risposte negative verso colui che è intervenuto. Questo effetto non si
osserva quando l'intervento di aiuto si attua in una relazione di scambio e sostegno reciproco nella quale i
ruoli sono percepiti come intercambiabili. Le informazioni utili per definire cosa sta succedendo di fronte ad
un evento insolito e improvviso sono rese disponibili non solo dall'osservazione della presunta vittima ma
anche dal comportamento di eventuali altre persone che stanno assistendo alla stessa scena. Di fronte ad
un evento ambiguo le persone osservano il comportamento degli altri per cercare una direzione corretta di
interpretazione senza considerare che anche gli altri fanno lo stesso. E’ l'effetto denominato ignoranza
pluralistica: ciascuno pensa che gli altri abbiano più informazioni sulla situazione di quante ne possieda lui o
lei. Questo porta ad un'altra probabilità di inazione. Una volta definito un evento come un emergenza
prima di decidere se intervenire o meno c'è una fase di valutazione del costo attribuito all'aiuto. Intervenire
significa anche rischiare di dimostrare la propria inefficacia, perdere tempo o rischiare anche di mettere a
repentaglio la propria vita. A volte i costi associati all’intervento inducono una percezione selettiva delle
caratteristiche della situazione non del tutto consapevole.

CAPITOLO 7. L’INTERAZIONE NEI GRUPPI

Il gruppo è un’entità psicologica diversa dalla somma dei suoi componenti. La diversità è dovuta alle
relazioni dinamiche fra gli stessi componenti, Kurt Lewin diede inizio alla ricerca sperimentale in psicologia
sociale. Appartenere a uno o più gruppi è un fatto ancorato alle nostre abitudini e alle nostre routine
quotidiane da essere considerato naturale e scontato. D’altra parte, anche gli studi antropologici e di
etologia umana confermano l’esistenza in natura di tanti tipi di raggruppamenti che facilitano l’ingresso nel
mondo di ogni nuovo nato. In tal caso è rilevante soprattutto il rapporto con la madre biologica che, oltre a
nutrire sul piano alimentare e affettivo il bambino, lo introduce nel gruppo cui lei stessa appartiene. I
cuccioli umani sono, molto lenti a rendersi autonomi e il loro inserimento nella vita collettiva avviene grazie
a processi sociali complessi che suppliscono al patrimonio istintuale relativamente limitato rispetto a quello
degli altri mammiferi. Nel processo di socializzazione dei piccoli umani entrano in gioco fattori naturali e
fattori culturali. Il rapporto fra natura e cultura è stato considerato in modo conflittuale: la dimensione
naturale positiva del bambino, simile al buon selvaggio, è distorta da fattori culturali che limitano la
creatività e la libertà del soggetto che cresce. Per altri il piccolo selvaggio deve essere educato dal contesto
culturale che gli inculca regole e obblighi morali. Questa concezione dualistica è superata dalle conoscenze
bio-antropologiche acquisite grazie a studi recenti, esse hanno chiarito che nel corredo innato degli esseri
umani è presente una predisposizione costituzionale alla vita sociale che rende necessario e possibile il
rapporto con gli altri esseri umani. L’ingresso progressivo in un ambiente culturale e il dialogo con altri che
ne consegue, permettono di co-costruire regole di vita, condotte adeguate, aspirazione a migliorare. Il
piccolo umano non è un’entità puramente istintuale né una tabula rasa come sosteneva il
comportamentismo: egli dispone già alla nascita di una propria organizzazione biologica che produce, fin
dai primi giorni di vita, condotte dal significato sociale in grado di influenzare gli adulti che si prendono cura
di lui. La predisposizione alla vita sociale non si esaurisce nei primi tempi dell’esistenza individuale ma
procede con processi che si sviluppano lungo tutto l’arco di vita. Ma come si formano e costituiscono i
gruppi? Un autore italiano che ha riflettuto su questo è Eraldo De Grada. Sostiene che i gruppi si
costituiscono per un’associazione spontanea fra attori sociali: un gruppo ristretto tende a nascere
spontaneamente in ogni situazione di stare insieme nella quale siano presenti elementi atti a consentire o
stimolare una auto categorizzazione comune. Secondo Lewin non basta incontrarsi fra simili per costruire
un gruppo, occorre attivare un progetto comune, anche se di portata limitata. Tutti sanno per esperienza
che l’ingresso in un gruppo esistente non avviene in modo semplice, richiede sempre che le regole esistenti
siano conosciute e rispettate, se capita di infrangerle anche involontariamente , il nuovo arrivato deve
accettare una sanzione inflitta da chi rappresenta il gruppo stesso. Molti studi mostrano che in una fase
iniziale di inserimento ha più probabilità di essere accolto chi assume un atteggiamento poco esposto,
rispettoso delle regole. Una volta che si sia socializzato alle regole del gruppo, il nuovo arrivato può
cominciare a far valere le sue idee volte a modificare regole percepite come poco produttive. Moreland e
Levine hanno precisato le tattiche che rendono più facile l’ingresso in un gruppo.

 Prima di tutto è necessario svolgere un’accurata esplorazione ambientale per scegliere il gruppo
giusto;
 Assumere l’atteggiamento del new comer esibendo atteggiamenti per non creare allarme negli
anziani del gruppo;
 Cercare fra i componenti del gruppo coloro che ispirano fiducia e possono agire come tutori per
scoprire come funziona il gruppo;
 Collaborare con altri nuovi arrivati, permette di avere un punto di riferimento nell’ambiente
sconosciuto.

I sociologi distinguono il concetto di gruppo sociale da quelli di aggregato e di categoria sociale.

 GRUPPO SOCIALE è costituito da un certo numero di individui che interagiscono l’uno con l’altro
con regolarità. Questa regolarità di interazione tiene insieme i partecipanti, dando vita a una unità
con una propria identità sociale. I gruppi differiscono quanto a dimensioni: vanno da associazioni
intime come la famiglia a collettività più ampie come un circolo sportivo.
 AGGREGATI sono insiemi di individui che si trovano nello stesso luogo allo stesso momento
senza condividere tra loro un legame. Secondo Goffman, sono assembramenti di individui in
interazione non focalizzata.
 CATEGORIA SOCIALE è un raggruppamento statistico. E’ costituita cioè da individui classificati
nella stessa categoria in base a una particolare caratteristica comune, come il medesimo livello di
reddito.

In sociologia si fa una distinzione tra gruppi primari e secondari. Quelli primari sono insiemi di persone che
interagiscono direttamente e sono legate da vincoli di natura emotiva. Esempio: famiglia, amici. Quelli
secondari sono formati da persone che hanno rapporti più o meno frequenti ma di tipo impersonale perché
determinati esclusivamente da scopi pratici. E’ ovvio che incontri ripetuti di un gruppo secondario possono
creare legami trasformandolo in un gruppo primario. Kurt Lewin ha definito lo statuto sociopsicologico dei
gruppi sociali. Ha preso l’essenziale delle definizioni sociologiche. Ha liberato il campo degli equivoci
generati dal concetto di mente di gruppo introdotto da McDougall per sostenere che esistano entità
collettive che hanno una logica propria diversa da quella individuale. La Gestalt, secondo Lewin, ha
dimostrato come ogni totalità sia diversa dalla somma delle sue parti in quanto possiede proprietà diverse.
Quello che c’è di scientifico nella nozione di gruppo coincide con il concetto gestaltista di totalità dinamica.
Il gruppo è un’entità diversa rispetto all’insieme dei singoli individui che lo compongono, questa concezione
implica una definizione di esso basata sull’interdipendenza dei suoi membri.

Il concetto di status si riferisce alla posizione che una persona occupa in un gruppo sociale e alla valutazione
di questa in una scala di prestigio. Sono considerati centrali due indicatori dello status:

-la tendenza da parte di chi occupa uno status elevato a promuovere iniziative;

-una valutazione consensuale del prestigio connesso ad un certo status.

Levine e Moreland considerano il sistema di status come pattern generale d’influenza sociale fra i membri
del gruppo. Le ricerche mostrano che all’interno dei gruppi esistono differenziazioni di status e che queste
si compongono in una gerarchia. Secondo alcune ricerche lo status può derivare dall’iniziativa dei
componenti volta ad aiutare il gruppo a raggiungere i propri obiettivi oppure a sacrificarsi a favore del
gruppo. Vi sono due principali spiegazioni teoriche.

 I teorici degli stati d’aspettativa sostengono che già nei primi incontri del gruppo le posizioni
vengono attribuite in accordo con le aspettative riguardo al possibile contributo di ognuno al
raggiungimento degli obiettivi di gruppo; tali aspettative si basano sulle caratteristiche personali
che vengono esibite e sono valutate più positivamente quelle che paiono funzionali al
raggiungimento degli obiettivi comuni.
 I teorici della corrente etologica sostengono che fin dai loro primi approcci i membri valutano la
forza di ciascuno a partire dal suo aspetto e dal suo contegno; su questa valutazione iniziale
influiscono diverse caratteristiche personali.

Le differenziazioni di status nei gruppi corrispondono ad un bisogno di prevedibilità e di ordine. La


posizione di status è attribuita in base alle aspettative riguardanti la competenza di ciascuno in ordine al
raggiungimento degli scopi comuni e le aspettative si formano attraverso un serrato confronto sociale, che
permette ai membri del gruppo di valutare le proprie e le altrui capacità rispetto agli obiettivi del gruppo
stesso.

Connesso al problema dello status vi è il ruolo, che può essere definito come un insieme di aspettative
condivise circa il modo in cui deve comportarsi un individuo che occupa una determinata posizione nel
gruppo. Secondo Levine e Moreland in quasi tutti i gruppi non esisterebbero soltanto pochi ruoli, come
quello del leader, nuovo arrivato e capro espiatorio. Esistono vari tipi di conflitto connessi alle
differenziazioni di ruolo nei piccoli gruppi, oltre ai prevedibili conflitti relativi all’assegnazione di un
determinato ruolo ad una certa persona. Le ricerche hanno messo in rilievo varie possibilità d’insorgenza
del conflitto di ruolo sia a livello personale sia a livello di gruppo. L’insorgere di conflitti di ruolo all’interno
di un gruppo di lavoro non comporta solo un aumento della tensione fra i membri ma anche un
decremento della produttività. Uno dei modi per risolvere tali conflitti di ruolo può essere quello del
cambiamento connesso con le transizioni di ruolo.

Nei gruppi esistono delle pressioni che spingono i membri verso una certa uniformità di comportamenti e
atteggiamenti. Ciò è evidente per i gruppi formali, quelli cioè che funzionano sulla base di uno statuto o di
una serie di norme predefinite, in presenza di una gerarchia di gruppo. L’obbligo a rispettare certe regole è
ugualmente osservabile nei gruppi informali, quelli cioè che si costituiscono in basa ad un libero incontro
fra i membri, senza alcuno statuto predefinito. Le norme possono essere definite come aspettative
condivise rispetto a come dovrebbero comportarsi i membri del gruppo, anche se questa definizione rischia
di indurre l’idea che esista una regolazione normativa di tutto ciò che avviene nel gruppo, mentre nella vita
reale dei gruppi esiste lo spazio per l’espressione delle differenze individuali. La dinamica di interazioni
sociali all’interno di ogni gruppo comporta la costruzione di un insieme di norme consensuali. Sebbene tali
norme differiscano a seconda del gruppo preso in considerazione, quando in uno di essi si è costruito
l’insieme di norme consensualmente accettate, proprio queste norme permettono di definire la latitudine
dell’espressione delle differenze individuali, cioè i limiti entro i quali la diversità di opinioni o
comportamenti individuali può essere accettata senza essere giudicata come devianza. La costruzione di
norme di gruppo assolverebbe ad almeno 4 funzioni:

 Avanzamento del gruppole norme servono al gruppo per raggiungere i propri obiettivi;
 Mantenimento del gruppole norme permettono al gruppo di preservarsi per quello che è;
 Costruzione della realtà sociale le nome offrono sostegno alle opinioni dei vari membri per
costruire attraverso il consenso una realtà condivisa, una realtà sociale;
 Definizione dei rapporti con l’ambiente sociale le norme permettono ai membri del gruppo di
definire le proprie relazioni rispetto all’ambiente sociale più vasto, composto di gruppi,
organizzazioni, istituzioni.

La comunicazione come scambio di significati è essenziale alla vita del gruppo. Flament afferma che le
comunicazioni sono la trama, la causa e il riflesso della struttura interna del gruppo, collegando e
determinando le relazioni interpersonali, le amicizie o le inimicizie, gli accordi o i disaccordi, la
collaborazione o la competizione.

1. Bales e colleghi hanno studiato le strutture di comunicazione per come emergono spontaneamente
in gruppi di discussione, contando il numero di comunicazioni che ogni individuo riceve ed emette
nei confronti di ciascun altro membro del gruppo. Nella struttura centralizzata il leader riceve e
trasmette più comunicazioni di tutti gli altri, seguito da colui che occupa il secondo posto nella
gerarchia di gruppo e così via. In altre parole la quantità di comunicazioni date e ricevute riproduce
la gerarchia di status rilevabile attraverso i dati sociometrici.
2. Festinger e Schachter hanno analizzato i processi comunicativi in rapporto con altri fenomeni di
gruppo.
3. Bavelas nel ’48 propose un modello matematico per descrivere le strutture di gruppo, incluse
strutture comunicative, riprendendo l’intuizione lewiniana della rappresentazione del campo
psicologico attraverso mappe topologiche.

Fra gli indici per descrivere vari tipi di reti, importanti sono l’indice di distanza e l’indice di centralità. Le
quattro reti comunicative studiate da Bavelas e Leavitt mise in luce delle correlazioni tra l’indice di
centralità di una rete e certe espressioni del lavoro di gruppo: più la rete è centralizzata, meno numerose
sono le comunicazioni e più rapido è lo svolgimento del compito, anche se il morale medio del gruppo
diminuisce con la centralità. Oltre al problema dell’efficienza di una rete di comunicazione nello
svolgimento di un compito, diversi ricercatori si sono posti il problema della soddisfazione dei membri del
gruppo rispetto all’attività svolta.

Il potere nel gruppo

Il potere implica la capacità di influenzare o di controllare altre persone. French e Raven sostengono che il
potere corrisponde a un’influenza potenziale di O su P; il potere di O è misurato dalla sua massima
influenza possibile, per quanto egli possa scegliere di esercitare meno potere di quanto effettivamente
disponga. Per quanto esistano senza dubbio molte possibili fonti di potere, French e Raven ne definiscono
5, considerate particolarmente diffuse e importanti.

1. Il potere di ricompensa, che si basa sull’abilità di O nel dare o promettere a P ricompense, di tipo
materiale o simbolico. L’uso di ricompense fa aumentare l’attrazione di P per O e può trasformare il
potere di ricompensa nel potere di esempi.
2. Il potere coercitivo può essere considerato simile al potere di ricompensa visto nella valenza
negativa, in quanto O può influire su P attraverso sanzioni punitive, effettivamente comminate o
minacciate. Sia il potere di ricompensa, sia quello coercitivo possono indurre comportamenti di
conformismo esteriore, ma non adesione autentica del dominato rispetto al dominatore.
3. Il potere legittimo di O su P è il potere che proviene da norme interiorizzate da P, norme che
stabiliscono che O ha il diritto legittimo di influenzare P e che P è obbligato ad accettare
quest’influenza. Le basi del potere legittimo possono essere nei valori di una certa cultura, che
conferiscono autorità ad alcune persone in base a certe caratteristiche o in base al fatto che nella
struttura sociale O occupa una posizione di leader, o ancora perché è designato in cima ad una
gerarchia da una designazione sociale legittima quale un’elezione.
4. Il potere d’esempio o potere di riferimento, le cui basi sono poste nell’identificazione di P con O,
indifferentemente che O sia una persona o un gruppo. Più grande è l’identificazione di P con O, più
elevato è il potere d’esempio di O su P. I concetti di gruppo di riferimento e di suggestione da
prestigio possono essere considerati come illustrazioni del potere d’esempio.
5. Il potere di competenza si basa sul fatto che P ritiene O particolarmente esperto in un determinato
ambito. Questo tipo di influenza sociale riguarda la struttura cognitiva di P e probabilmente non
altre aree. Perché si realizzi il potere di competenza sono necessarie almeno due condizioni: P deve
pensare che O padroneggi le conoscenze rispetto ad un dato ambito; P deve avere fiducia che O
dica la verità.

La leadership

Hollander ritiene che l’aspetto più consistente in tale pluralità di definizioni sia l’avere rilevato che la
leadership implica un processo d’influenza fra un leader e i seguaci in ordine al raggiungimento degli
obiettivi di un gruppo, di un’organizzazione o di una società. Turner precisa che leader è colui che nel
gruppo gioca un ruolo più importante nel dirigere le attività dei vari membri, nel mantenimento delle regole
e delle tradizioni del gruppo stesso, nell’assicurare il raggiungimento degli obiettivi prescelti. Il leader
mostra più iniziativa degli altri nel gruppo, occupa una posizione elevata nella gerarchia di status e nella
rete di comunicazione del gruppo si trova in posizione centrale. Si deve a Moscovici la distinzione tra
influenza e potere, illustrata principalmente dagli effetti della maggioranza e della minoranza sulle opinioni
dell’individuo. Anche il potere è una fonte di influenza che però viene esercitata non tramite la persuasione
ma tramite la coercizione generando stati di condiscendenza generalmente esteriore. Se l’influenza è
dunque il tratto distintivo del leader, possiamo chiederci quali siano i motivi che rendono alcune persone in
grado di influenzare gli altri più di quanto siano esse stesse influenzate. Uno dei primi tentativi di risposta a
tale quesito è stato quello di reperire le caratteristiche, i tratti di personalità che distinguono i leader dagli
altri. Hollander nella sua rassegna sulla leadership sostiene che ricerche come quelle considerate da Stogdill
non hanno individuato un set veramente originale dei tratti di personalità che distingua il leader dagli altri o
che permette di predire gli diventerà leader poiché i comportamenti delle persone tendono a variare a
seconda delle situazioni e i tratti stessi non sono statici ma dinamici. Questa considerazione inficia l'idea del
grande uomo, del leader naturale, che è tale indipendentemente dalla situazione. Il bisogno di trovare delle
alternative alla teoria del grande uomo porta Hollander a due sviluppi teorici interrelati tra loro: da un lato
lo studio sul comportamento di leader e dall'altra l'emergere dell' approccio situazionista. Per quanto
riguarda il comportamento del leader si può fare riferimento alle ricerche di Bales e Slater. Secondo questi
autori i leader servono essenzialmente ha due tipi di funzioni: ad assicurare che il clima di gruppo sia
armonioso mostrando considerazione nei confronti dei membri, il cosiddetto leader socio emozionale e a
realizzare il compito che il gruppo persegua mostrando le migliori idee e organizzando il lavoro di gruppo,
leader centrato sul compito. anche la ricerca sulla leadership della Ohio state University mise il luce due
principali linee comportamentali dei leader: la considerazione nei riguardi dei membri del gruppo e la
capacità di strutturazione. Un altro esempio di studio basato sul comportamento del leader e il lavoro di
Lewin, Lippitt e White sullo stile della leadership e le sue conseguenze sulla produttività e il morale del
gruppo. L’approccio situazionista si fonda sull’idea che è il leader deve assolvere diverse funzioni in
situazioni che comportano compiti diversi. Il contenuto e il contesto dell'attività determinano differenti
richieste di comportamento. secondo Hollander l approccio situazionista ha esagerato perché ha trascurato
in modo marcato le caratteristiche delle persone che occupano ruoli di leadership. In questo senso questo
approccio non spiega per esempio perché in certe situazioni emerga come leader una persona piuttosto
che un'altra a parità di competenze relative al compito. il modello della contingenza cerca di introdurre
un'idea interazionista della leadership la cui efficienza dipende dalla corrispondenza fra lo stile adottato dal
leader e il controllo che quest'ultimo possiede della situazione. Lo stile della leadership si basa sulla
distinzione fra leader centrato sul compito e leader centrato sulle relazioni e viene misurato con il
punteggio LPC, ottenuto chiedendo alle persone di descrivere su varie scale bipolari il collaboratore con cui
e stato più difficile lavorare. Coloro che esprimono dei punteggi bassi descrivono in termini piuttosto
sfavorevoli il loro collaboratore e sono considerati come essenzialmente centrato sul compito, mentre
coloro che ottengono un elevato punteggio descrivono piuttosto favorevolmente anche il collaboratore
meno preferito e sono considerati come centrati sulle relazioni. Questi orientamenti e del leader possono
essere più o meno efficaci a seconda di tre principali fattori presenti nella situazione: la qualità dei legami
leader-membri, il livello della struttura del compito e il livello di potere del leader. Hollander Definisce
come modelli transazionali quei paradigmi, sviluppatisi parallela menta e anche anteriormente ai modelli
della contingenza, che insistono sulla relazione bidirezionale fra leader e membri del gruppo. in tali modelli
si presuppone che se è vero che il leader può influenzare i membri del gruppo e altrettanto vero che questi
ultimi influenza con le loro aspettative e richieste il leader stesso. Il termine transazione vuole appunto
indicare questo ruolo più attivo dei membri coinvolti in uno scambio bidirezionale con leader. Uno studio
europeo che si può né in tale linea più dinamica e processuale e quello di Merei in cui venne studiato
l'effetto dell' immissione di nuovi membri in un gruppo preesistente di bambini di una scuola materna. Le
osservazioni mostrarono che leader del nuovo gruppo divennero solo quei bambini che furono capaci di
aggiustare il proprio comportamento alle norme , abitudini, tradizioni del gruppo e solo successivamente
introdusse innovazioni di gioco accettate dal gruppo. I bambini che tentarono di far valere da subito la
propria autorità non furono seguiti. Hollander parla di credito idiosincratico che il leader deve conquistarsi
presso il gruppo, questo credito viene guadagnato negli iniziali contatti fra i membri del gruppo e l'aspirante
leader attraverso le prove della sua competenza e della sua lealtà verso le norme di gruppo. La credibilità
che può essere acquistata da un aspirante leader presso il gruppo si basa su almeno quattro fonti di
legittimità: la conformità iniziale alle norme di gruppo; l'essere scelto dal gruppo e non imposto
dall'esterno; dare prove di competenza nel perseguire gli scopi di gruppo; l'identificazione col gruppo. fra i
più recenti contributi allo studio della leadership merita di essere ricordata la teoria trasformazionale che
si ispira a quella transazionale in quanto mette l'accento sullo scambio continuo fra leader e membri del
gruppo enfatizzando però l'interesse del leader per le motivazioni dei membri del gruppo sostenendoli
nell’impegno verso l'obiettivo prescelto.

Le decisioni in gruppo

Quando i componenti di un gruppo si incontrano, dal momento che sono tutti individui razionali e morali,
non fanno altro che soppesare i vantaggi e gli inconvenienti di ogni soluzione: tentando cioè di trovare
quella più conveniente per tutti che non potranno in situarsi nel punto di compromesso più possibile fra le
diverse soluzioni. si parla in proposito di un effetto di normalizzazione nel senso abbonamento etimologico
del termine: il gruppo si dà una norma. L'effetto di normalizzazione ha costituito la credenza del senso
comune secondo cui le scelte di gruppo sia entrano sempre sul giusto mezzo. secondo Stoner le decisioni
prese in gruppo appaiono decisamente più rischiose delle decisioni prese individualmente dai singoli
membri dello stesso gruppo. Stoner sottopose ha degli studenti della stessa scuola 12 problemi che
richiedevano una presa di decisione. I soggetti e una volta che avevano espresso la propria decisione
venivano inseriti in gruppi di sei persone con il compito di discutere su ciascuno degli stessi problemi onde
arrivare ad una decisione collegiale unanime. I soggetti sperimentali erano 78 mentre altri 20 tre soggetti di
controllo, dopò avere espresso la decisione individuale furono invitati a riconsiderare una seconda volta i
problemi sempre da soli dopo un intervallo di poche settimane. Mentre i 20 tre soggetti di controllo non
modificarono per nulla alla seconda prova la loro decisione iniziale, 12 gruppi su 13 ed i soggetti
sperimentali mostrarono un mutamento delle decisioni da quelle prese individualmente a quelle prese in
gruppo. È importante aver chiaro che cosa si intende quando parliamo di una decisione rischiosa. Si tratta
di una decisione cui si mette in gioco qualcosa di acquisito in vista di ottenere qualcosa di molto più
rilevante. Brown parte da una riflessione sul concetto di rischio come valore. Egli argomenta che ci sia
qualcosa che fa si che i soggetti nel corso della discussione di gruppo diano più importanza alle 10:00 a
favore del rischio che a quelli a favore della cautela: questo qualcosa è un valore proprio della cultura
americana e cioè l apprezzamento per chi sa correre dei rischi. La discussione di gruppo serve appunto per
far comprendere agli individuo in che modo esprimere la propria propensione per il rischio di fronte ad un
compito particolare. Il singolo componenti del gruppo poiché si rende conto che gli interlocutori non sono
cauti come pensava si orienta verso una soluzione rischiosa del problema affrontato per essere alla pari con
gli altri ho un po' più avanzato di loro. L'autore preciso che il contesto culturale valorizza il rischio ma lo fa
soltanto in certe circostanze mentre in altre valorizza piuttosto la prudenza. Egli stesso riconobbe la scarsa
specificità della propria tesi.

Processo di polarizzazione

Stoner, Moscovici e Zavalloni vollero indagare sugli effetti provocati dalla discussione di gruppo fossero il
rapporto soltanto con i contenuti dei questionari impiegati oppure con un processo socio psicologico di
dimensioni più ampie. Predisposero un esperimento che non utilizzava dei questionari e ma prevedeva
comunque tre fasi. Nella prima fase, detta del pre-consenso, ad ogni individuo sperimentale era richiesto di
esprimere la propria opinione o il proprio giudizio separatamente dagli altri soggetti. Nella seconda fase,
detta del consenso, quattro o 5 individui erano invitati a discutere insieme le loro opinioni e i loro giudizi e a
trovare un accordo su un opinione o un giudizio comune. Nella terza fase, del post consenso, veniva di
nuovo richiesto ad ogni soggetto di esprimere la propria opinione o il proprio giudizio separatamente dagli
altri. Questo per verificare se avesse cambiato la propria posizione iniziale. Un successivo esperimento da
parte di Moscovici e Zavalloni mostrò che gli atteggiamenti del gruppo sono più estremi di quelli dei singoli
individui che ne fanno parte. Oltre a questo dopo aver partecipato alla discussione e le decisioni di gruppo, i
soggetti restano nella prova individuale prevista per la terza fase su posizioni vicine a quelle prese in
precedenza come gruppo. Le prese di posizione espressa dai soggetti dopò le discussioni di gruppo sono più
vicine ad uno dei poli del ventaglio delle opinioni e dei giudizi da loro individualmente espressi in
precedenza. Le estremizzazione non avviene però indifferentemente verso l'uno o l'altro polo del
continuum su cui giudizi opinioni sono distribuiti ma verso il polo a cui già tendeva la media dei giudizi dati
individualmente. I due autori denominarono polarizzazione un tale effetto della dinamica di gruppo per
sottolinearne la specificità e per distinguerlo dai generici fenomeni di estremizzazione non rivolti verso un
polo specifico. Ogni situazione di gruppo che richiede una scelta o presa di decisione fa sì che si produca un
conflitto tra opinione o giudizi diversi. La decisione in una direzione o in quella opposta e presa
all'unanimità. Quel che succederà invece in una situazione di confronto conflittuale di opinioni dipende in
gran parte da come gli attori sociali si pongono di fronte al conflitto. Janis denomina pensiero gruppale quel
processo conclusivo in cui la discussione e il confronto tra i diversi attori sono di fatto ostacolato e ridotti al
minimo. Soltanto affrontando con risolutezza il conflitto tra i diversi punti di vista rappresentati nel gruppo
è possibile evitare silenzio e complicità che possono prendere l'attore responsabile di decisioni
radicalmente in contrasto con le sue idee o aspettative.

Capitolo 8. Le relazioni fra i gruppi sociali

Henry Tajfel ha contribuito alla conoscenza teorica e operativa delle relazioni fra gruppi e fra categorie
sociali. Gli studi sulle relazioni intergruppi hanno così messo a fuoco il modo in cui gli individui agiscono in
quanto componenti di un gruppo.

Prospettive individualiste

Tajfel fa riferimento principalmente all’impostazione di Freud ‘psicologo sociale’ e all’impostazione


comportamentista , dalla scuola di Yale (e in particolare Dollard e Miller). Freud , anche per l’interesse
suscitato in lui dall’opera di Le Bon sulla psicologia delle folle, utilizza molto spesso la nozione di ‘psicologia
collettiva’. In psicologia delle masse e analisi dell’io ammette la specificità di una situazione di folla e la
descrive facendo proprie molte idee di Le Bon: in una folla ogni razionalità individuale scompare e appare
un’omogeneità. In questa omogeneità compare un forte sentimento di potenza , mentre diminuisce ogni
senso di responsabilità. Freud giunge a paragonare il modo di funzionare della folla/massa a quello di un
bambino nevrotico e primitivo. Le forze che sostengono questo stato peculiare di suggestione sono i legami
libidinali che uniscono ogni individuo al capo che conduce la massa e a tutti gli altri membri dell’entità
collettiva. Questi legami si traducono in una vera e propria identificazione con il capo e con altri membri
della folla. I legami libidici sono gli stessi che sostengono il rapporto del bambino con le figure centrali della
famiglia. L’ambivalenza propria (come il complesso edipico) dei rapporti familiari è la stessa che compare
nei legami di gruppo. La coesione del gruppo è così garantita dallo ‘spostamento’ verso l’esterno delle
pulsioni aggressive implicate dallo stesso legami di gruppo. Le pulsioni originarie si attivano nel contesto
sociale della famiglia , il senso di colpa il funzionamento del super-io , si attivano nel quadro di precise
relazioni sociali, lo spostamento dell’aggressività verso un oggetto diverso implica un’articolazione sociale
della realtà tramite il riconoscimento dell’esistenza di un gruppo di appartenenza e di uno o più gruppi
‘altri ‘dal proprio. Dollard e colleghi pensano come Freud che sia possibile trarre da un modello fondato
sulla motivazione individuale delle estrapolazioni da applicare ai fenomeni sociali in genere. Dollard e
Miller ritengono di poter semplificare la teoria Freudiana indicando nella frustrazione la condizione
necessaria per provocare comportamenti aggressivi. Se c’è frustrazione si deve aspettare una risposta
aggressiva. Nel 1941 Miller giunge ad una formulazione più elaborata della teoria: la frustrazione produce
istigazione ad un certo numero di risposte diverse , una delle quali è l’aggressività. L’aggressività diviene
manifesta soltanto se non ci sono risposte alternative abbastanza forti da inibire questo comportamento.
Berkowitz sostiene che la frustrazione può essere costituita anche dal disappunto per certe aspettative che
non sono state soddisfatte. La provocazione provoca il risveglio della collera dalla quale si passa al
comportamento aggressivo aperto soltanto se c’è un bersaglio disponibile nell’ambiente. Tale bersaglio
deve presentare segnali già associati dal soggetto con un comportamento aggressivo. Lo stato di collera
costituisce la variabile che porta all’aggressività. Berkowitz ritiene che tale sequenza: frustrazione ;
risveglio di uno stato di collera; aggressività , sia trasferibile al comportamento intergruppi. L’aggressività
che si manifesta in tali casi , ha obiettivi precisi e si scatena soltanto quando tali obiettivi divengono
disponibili come bersaglio. Tale selettività , argomenta Tafejl ‘è fortemente determinata dal consenso
sociale’. Sembra che la comparsa di un comportamento aggressivo manifesto da parte di soggetti che si
trovano in situazioni sociali simili dipenda dalla percezione , socialmente condivisa, della legittimità della
violenza in quella data situazione.

Un approccio sociopsicologico alle relazioni fra gruppi

Si può parlare di un comportamento assunto dall’individuo in quanto entità unica in un contesto di


relazioni e un comportamento assunto dall’individuo in quanto membro di un gruppo. I due tipi di
comportamento possono essere immaginati come posti su un continuum teorico , ad un estremo c’è il
comportamento genuinamente interpersonale , situazioni sociali , tra due o più persone, all’altro un
comportamento genuinamente intergruppi , situazioni sociali tra due o più persone in cui ogni interazione
reciproca è determinata dalla loro appartenenza a diversi gruppi. Le situazioni ai due estremi sono solo
teoriche , è impossibile un incontro tra due persine senza che entrino in gioco fattori sociali. Tutte le
situazioni sociali si pongono ad un qualche punto tra i due estremi di questo continuum. Quanto più il
comportamento sarà prossimo all’ estremo intergruppi , tanto più tenderà ad essere indipendente dalle
differenze individuali, nel senso che ogni attore coinvolto si sente ‘necessitato’ ad agire come agisce, sa che
gli altri membri del gruppo agirebbero come lui. Quanto più il comportamento sarà prossimo all’estremo
interpersonale , tanto più saranno messe in risalto le differenze e le affinità dei protagonisti. La condizione
essenziale per la comparsa di un comportamento interpersonale tra individui che si considerano membri di
gruppi diversi è la credenza che non vi siano ostacoli tanto grandi da impedire l’eventuale passaggio di un
individuo o di un gruppo dall’altro quando egli voglia modificare la propria condizione. La condizione
essenziale per la comparsa di forme estreme di comportamento intergruppi , sostiene Tafejl , è la credenza
secondo cui i confini fra i due gruppi sono definiti in modo rigido , per cui non è possibile che gli individui
passino da un gruppo all’altro. Nel caso in cui l’attore sociale in gioco giunga a ritenere di non avere altro
modo disponibile per poter cambiare la propria situazione se non quello di operare insieme al proprio
gruppo , per poter giungere ad un nuovo assetto del rapporto tra i gruppi può giungere a perseguire quel
nuovo assetto radicale della società definito cambiamento sociale. Si possono verificare , nell’esperienza
degli attori sociali, alcune situazioni che obbligano la maggior parte degli individui implicati ad agire nei
termini della loro appartenenza di gruppo. La convinzione di appartenere ad un gruppo può essere
incrementata da fattori oggettivi , con cui gli attori entrano in contatto in modo inatteso. Sumner parla di ‘
etnocentrismo’ come la condizione che induce i membri di un gruppo a svalutare i gruppi diversi dal
proprio (outgroup). I problemi di personalità o le frustrazioni individuali non possono essere invocati per
spiegare i fenomeni intergruppi: bisogna considerare sia le proprietà dei gruppi stessi, sia le conseguenze
che ha l’appartenenza di gruppo sugli individui. Sherif e i suoi collaboratori condussero alcuni esperimenti
su diverse fasi. 1) i partecipanti arrivavano al campo ed entravano in contatto tra loro e con le diverse
strutture logistico-organizzative. In questa fase le attività riguardavano tutti i partecipanti. 2) i ragazzi
furono divisi in due gruppi, i rossi e i blu, si fece attenzione a separare gli amici più stretti, le caratteristiche
dei gruppi si definirono e consolidarono. 3) i due gruppi furono messi i competizione l’uno contro l’altro. I
ricercatori rilevarono un rapido e grave deterioramento delle relazioni intergruppi. 4) i due gruppi furono
posti in situazioni tali per cui dovevano combinare i loro sforzi per ottenere dei risultati desiderati da
entrambi. Sherif parla di scopo sovraordinato , scopo che ha un forte potere di richiamo per i membri di
ognuno dei gruppo ma che nessuno dei gruppi può raggiungere senza la partecipazione dell’altro. Due
gruppi con scopi competitivi raggiungeranno un conflitto intergruppi, a causa di un conflitto di interessi.
Rabbie e Horwitz esplorarono l’effetto del destino comune , il condividere la stessa sorte, o negativa o
positiva, suscita una discriminazione valutativa a favore del proprio gruppo bias ingroup-outgroup.

A livello scientifico si delineavano due orientamenti di studio :uno ispirato dalla tradizione della scuola di
Francoforte, l’altro ancorato alla tradizione fenomenologica della filosofia europea e della psicologia della
Gestalt. Tajfel elaborò l’ipotesi secondo la quale non è necessario chiamare in causa , per dar conto delle
discriminazioni intergruppi , né i conflitti oggettivi di interessi né l’interdipendenza del destino. È sufficiente
una categorizzazione in gruppi di un insieme di attori del mondo sociale. Per creare le condizioni minime
per cui un individuo si comporta verso il proprio gruppo in modo diversificato rispetto ad un altro gruppo,
Tajfel e collaboratori si preoccupano di: 1) evitare sia entro i gruppi sia fra i gruppi interazioni faccia a
faccia; 2)garantire l’anonimato di tutti i membri; 3) evitare che ci fosse un legame strumentale o razionale
fra i criteri della categorizzazione intergruppi e la natura delle risposte intra o intergruppi richieste ai
soggetti; 4)evitare che ci fosse qualsiasi legame utilitaristico o strumentale fra le risposte dei soggetti; 5)
creare le condizioni perché le risposte da dare riguardassero argomenti realmente importanti per i
soggetti. I soggetti sperimentali furono messi in condizioni di scegliere , tra un certo numero di strategie
quali erano più razionali o utili, nel discriminare fra i gruppi. A tutti fu proposto un compito di percezione
visiva. I soggetti furono divisi in due gruppi che avevano eseguito lo stesso compito. La suddivisione
avveniva singolarmente in maniera discreta. Il compito che dovevano eseguire consisteva nell’attribuire
piccole somme di denaro ad un membro del proprio gruppo e ad un membro dell’altro gruppo. I risultati
mostrarono che i soggetti tendevano ad attribuire più denaro ai membri del proprio gruppo. Tajfel giunse
alla conclusione che in una situazione in cui si pongono a confronto due gruppi si attiva , nei membri di
ognuno di essi, il bisogno di affermare la specificità positiva del proprio gruppo a scapito dell’altro.

Sviluppi e limiti della teoria intergruppi

Tajfer giunse dunque alla conclusione che la categorizzazione sociale cioè la percezione pura e semplice da
parte di un soggetto di far parte di un gruppo in rapporto con un altro , è sufficiente per produrre una
discriminazione intergruppi. Secondo il nuovo modello di Doise , devono essere distinti tre aspetti delle
relazioni tra i gruppi: quello comportamentali, quello dei giudizi di valore , quello delle rappresentazioni. Il
processo di categorizzazione non permette soltanto agli individui di organizzare e semplificare il proprio
mondo sociale , ma ponendosi in rapporto diretto con il contesto dell’interazione sociale , fornisce ad ogni
individuo, uno strumento per differenziare gruppi e categorie sociali. Doise elabora la nozione di processo
di differenziazione categoriale per spiegare in modo articolato come i comportamenti di differenziazione
sociale si svolgano proprio partendo dal processo di categorizzazione. Doise e colleghi evidenziarono un
aumento della differenziazione dell’altro gruppo rispetto al proprio (ingroup) quando venivano
preannunciate (ad un gruppo) interazioni di ordine competitivo con altri gruppi. Ulteriori ricerche hanno
mostrato che l’incrocio delle appartenenze categoriali provoca una diminuzione della differenziazione
categoriale. In un esperimento nel campione d categorizzazione semplice si valutava il target , rispetto ad
una sola appartenenza di gruppo ( maschi femmine) , nella condizione di categorizzazione incrociata era
chiesto di valutare doppie appartenenze categoriali (femmine giovani o maschi adulti)le differenze
percepite tra le categorie di genere ed età erano ridotte rispetto alla categorizzazione semplice. Le teoria
del confronto sociale di Festinger sostiene che per verificare le proprie opinioni o competenze sociali, gli
individui si confrontano con altri del proprio gruppo di appartenenza. Tajfel con la teoria dell’identità
sociale sosteneva che l’identità di un individui è legata alla conoscenza della sua appartenenza a certi
gruppi sociali e al significato emozionale e che l’identità consiste nella concezione di sé come membro di
un gruppo.

La collaborazione di John Turner con Tajfel cominciò sviluppando la nozione di competizione sociale per
dare conto dei processi sottostanti al bias intergruppi attivato al paradigma dei gruppi minimi. La teoria
dell’identità sociale sostiene che un conflitto intergruppi può essere ka conseguenza di una competizione
per assicurarsi prestigio allo stesso modo in cui può essere causato da una competizione per acquisire
risorse materiali. Nella competizione sociale entrano in gioco tre processi fondamentali : categorizzazione
sociale , identificazione sociale confronto sociale. La categorizzazione sociale permette di costruire una
rappresentazione semplificata dell’ambiente sociale. L’identificazione sociale si riferisce al fatto che in
molteplici circostanze gli individui si definiscono come membri di una certe categoria sociale. Il confronto
sociale con altri gruppi serve per determinare quale sia il valore relativo di certe caratteristiche di gruppo.
Chi appartiene ad un gruppo dallo status basso e vuole acquisire un’identità sociale più positiva di quella
attuale si sforzerà di uscire dal proprio gruppo per inserirsi in uno o più prestigioso nel caso in cui la
mobilità sociale sia possibile approvata ; tenderà invece ad allearsi con altri dello stesso status al fine di
cambiare il significato delle caratteristiche del proprio gruppo, se il cambiamento sociale è percepito come
l’unica via che permette di incrementare il proprio prestigio grazie al raggiungimento di uno status più
elevato da parte del gruppo di appartenenza.

Dalla teoria dell’identità sociale (sit) alla teoria della categorizzazione del sé (sct)

La teoria della categorizzazione del sé è stata elaborata da un gruppo di studiosi raccolti attorno a John
Turner. La sct pone l’identità sociale come base socio-cognitiva del comportamento di gruppo ,mentre per
la sit il continuum interpersonale intergruppi è concettualizzato come procedente dell’agire nei termini del
sé all’agire nei termini del gruppo, come se quest’ultimo non fosse espressione del primo. La sct considera
sia il comportamento individuale dia di gruppo come un agire in ‘termini del se’ , ma di un se che opera a
diversi livelli di astrazione. Cerca di chiarire come chi è inserito in un insieme di persone giunga a definire e
sentire se stesso come membro di un gruppo sociale. Suo obiettivo è di mostrare attraverso quali processi
le persone giungano a concettualizzare se stesse come appartenenti a determiniate categorie sociali. Il
processo di base è il processo cognitivo della categorizzazione. Quando le persone categorizzano sé e gli
altri, possono usare diversi livelli di astrazione organizzati tra loro in termini gerarchici di cui il più inclusivo
è il livello sovraordinato del sé come essere umano ( human identity). Troviamo poi il livello intermedio del
se come membro di un gruppo in confronto ai membri di un altro gruppo (social identity) in quelle
situazioni in cui diventano particolarmente salienti le appartenenze sociali. Viene infine individuato il livello
subordinato del sé personale come individuo unico rispetto agli altri membri del gruppo. È questo il livello
che utilizziamo nelle relazioni interpersonali. Il termine omogeneità di gruppo, definito da Turner
‘depersonalizzazione della percezione di sé dell’individuo’ porta l’individuo a percepire se stesso più come
un esemplare intercambiabile di una categoria sociale che come una persona unica definita dalle differenze
individuali dagli altri. Il concetto sociale di sé dipende dal contesto, è l’ambiente sociale ad attivare le
diverse categorizzazioni sociali del sé (social self-categorizations). La concettualizzazione proposta dalla sct
si basa sul modello accessibilità X adeguatezza. Il sistema cognitivo utilizza quella categorizzazione che
massimizza l’interazione tra accessibilità della categoria e il fit o adeguatezza , tra gli stimoli e le
specificazioni categoriali. Il se operante utilizza le diverse categorizzazioni del sé in funzione della loro
accessibilità. La categorizzazione saliente è quella in grado di spiegare nel modo migliore le somiglianze e le
differenze fra gli stimoli.

Principio del metacontrasto: la categoria saliente è quella che allo stesso tempo minimizza le differenze
intracategoriali e massimizza le differenze intercategoriali nell’ambito di uno schema di riferimento sociale.

Interazione sociale e relazioni intergruppi

Il concetto fondante della sct è quello di co-variazione. Secondo Deschamps le dinamiche sociali a livello
interindividuale e intergruppi sono simili e interdipendenti. In certe relazioni fra i gruppi, a un’omogeneità
intragruppo corrisponde un’omogeneità fra gruppi diversi. Questo autore procede riconsiderando una tesi
di Tajfel secondo cui i membri dei gruppi dominanti dedicano uno sforzo costante alla trasformazione di
semplici differenze interpersonali fra i componenti del loro gruppo in ‘distinzioni personali’. Ma nel
contempo aveva riaffermato che mentre l’identità sociale dei membri di un gruppo è in rapporto con le
dinamiche intergruppi , l’identità personale è elaborata indipendentemente dall’appartenenza a un
gruppo. Nella prospettiva di Deschamps in certe condizioni definite dai rapporti sociali processi che
nell’analisi di Turner dovrebbero essere antagonisti appaiono covariare. L’autore ha così messo a fuoco
l’importanza della variabile dominanti-dominati nelle relazioni fra gruppi. I membri dei gruppi dominanti
considerano se stessi come il punto di riferimento in relazione al quale gli altri vengono definiti: si
considerano perciò come individui. I comportamenti dei gruppi dominati si definiscono e sono definiti dagli
altri , nei termini delle categorizzazioni sociali impostegli. L’impegno a differenziarsi dagli altri sarebbe
dunque privilegio dei membri dei gruppi dominanti. Molte teorie sulle relazioni intergruppi sostengono che
la solidarietà intragruppo aumenta quando sono in conflitto intergruppi. Adorno e colleghi hanno costruito
il concetto di personalità autoritaria. Marques ha descritto l’effetto ‘pecora nera’ per illustrare un processo
più generale di differenziazione intragruppo in situazioni di incontro fra i gruppi, al fine di dimostrare la
superiorità del proprio gruppo in rapporto ad altri outgroups significativi , gli attori sociali svalutano i
membri devianti marginali dell’ingroup. La ricerca di Doise e della scuola di Ginevra ha dimostrato che la
sct si applica bene a determinati campi sperimentali ma non a tutti. La categorizzazione sociale multipla ,
applicata sia a contesti sociali reali sia a contesti sperimentali di gruppi minimi può ridurre differenziazioni,
stereotipi e pregiudizi sociali. Così come contrasti e opposizione intergruppi sono alimentati dalla
percezione di una sola appartenenza sociale significativa , la riduzione della discriminazione può essere
facilitata dalla considerazione delle molteplici appartenenze a gruppi che contraddistinguono le persone.
Crisp Hwestone e Rubin hanno confrontato condizioni di categorizzazione semplice e condizioni di
categorizzazione multipla. Il campione era costituito da studenti dell’università di Cardiff ai quali era
chiesto di confrontare il gruppo di appartenenza a quello degli studenti della vicina e rivale università di
Bristol. Il compito sperimentale consisteva nel fornire giudizi sulla rappresentazione categoriale dei due
gruppi considerati. Dai risultati è emerso che considerare categorie sociali molteplici , sia relative a gruppi
di appartenenza (ingroup) sia esterne ad essi (outgroup) , riduce la differenziazione e il bias intergruppi
rispetto alla categorizzazione semplice. All’aumento del carico cognitivo nella valutazione di categorie
sociali molteplici decresce la rilevanza percepita di ognuna di esse determinando l’effetto di
decategorizzazione. Tale processo è stato concettualizzato nel modello di Fiske e Neuberg, sulla
formulazione delle impressioni sociali e segna il ‘passaggio’ da una valutazione categoriale ad una
individuale delle persone, detto decategorizzazione. Spiega la discriminazione verso gli appartenenti a
gruppi diversi attraverso due processi cognitivi: differenziazione e la personalizzazione. La
decategorizzazione è un processo che rappresenta il passaggio dalle dimensione categoriale
all’individuazione del target. Le persone utilizzano più volte il processo di decategorizzazione nella
valutazione di appartenenti a gruppi stigmatizzati , cominciano ad evitare l’utilizzo di stereotipi e a
diminuire la discriminazione.

Individualismo e collettivismo nella dinamica intergruppi

Rupert Brown individua delle contraddizioni nei postulati fondamentali della sit su tre argomenti in
particolare. 1) in diversi esperimenti riguardanti rapporti di status fra gruppi si evidenzia un favoritismo nei
confronti dell’outgroup da parte dei gruppi di status inferiore 2) una seconda contraddizione riguarda i
differenti tipi di comparazione intergruppi. 3) riguarda la relazione tra identificazione con l’ingroup e
processo di differenziazione intergruppi. Hinkle e Brown analizzando i risultati di 14 studi , hanno rilevato
che solo in due di essi la correlazione tra identificazione con il gruppo di appartenenza e favoritismo verso
lo stesso appare consistente e robusta. L’identificazione con il proprio gruppo e il bias favorevole verso
l’ingroup non sono sempre positivamente associati. Hanno introdotto due dimensioni indipendenti , che
possono individuare le diverse tipologie dei gruppi e possono specificare in modo più chiaro dove e quanto
i processi sociopsicologici presupposti dalla sit , entrano in gioco. La prima dimensione viene definita
individualismo-collettivismo , con la nozione di individualismo ci si riferisce a quanto una cultura enfatizza
la competizione , le conquiste individuali , mentre con la nozione di collettivismo ci si riferisce a quanto una
cultura enfatizza la cooperazione tra i membri del gruppo. Il costrutto individualismo-collettivismo trova
eco nelle formulazioni della sit in cui Tajfel fa una distinzione tra cambiamento sociale e mobilità sociale e
sostiene che i processi della sit sono attivi soltanto all’interno di un preesistente framework ideologico. Il
costrutto collettivismo-individualismo permette di collegare lo studio dei rapporto fra i gruppi nel quadro
della sit con un’ampia tradizione di studi crossculturali , subculutrali , individuali. Hinkle e Brown hanno
proposto una second dimensione , definita autonomo-relazionale. I componenti di un gruppo con
orientamento relazionale valuteranno il proprio ingroup e i propri risultati confrontandosi con gli altri
presenti nel contesto , i componenti di un gruppo autonomo non avvertiranno tale esigenza. Secondo
questi autori i processi sociopsicologici descritti dalla sit possono verificarsi soltanto in individui o gruppi
collettivisti con orientamento relazionale. Secondo gli autori i gruppi collettivisti ma con orientamento
autonomo dovrebbero manifestare livelli relativamente alti di identificazione con l’ingroup , anche se non
pari a quelli dei gruppi collettivisti con orientamento relazionale. Per i gruppi individualisti , sia relazionali
sia autonomi , l’identificazione degli individui dovrebbe essere più strumentale , impiegata cioè per
soddisfare bisogni e raggiungere fini individuali.

Gli effetti della discriminazione intergruppi stereotipi sociali e pregiudizi

Poiché i processi intergruppi portano a costruire uno o più stereotipi nei confronti dell’outgroup è
opportuno mantenere chiara la differenza tra stereotipi cognitivi e stereotipi sociali. Gli stereotipi
consistono in una seria di generalizzazioni diventate patrimonio degli individui ; essi sono in gran parte
derivati del processo cognitivo generale della categorizzazione. Possono diventare stereotipi sociali quando
vengono condivisi da grandi masse di persone all’interno del gruppi e istituzioni sociali. Tajfel aggiunge di
concordare alla definizione di stereotipo sociale data da O. Stallybrass: un’immagine mentale semplificata
al massimo , riguardante una categoria di persone, evento .. che viene condivisa nei suoi tratti essenziali da
grandi masse di persone, si accompagnano comunemente al pregiudizio, predisposizione favorevole o non
verso tutti i membri della categoria in questione. Storia sociale , antropologia culturale ed etnologia
convergono nell’affermare che gli stereotipi sociali sono solitamente creati e diffusi in condizioni che
richiedono : 1) spiegazione di eventi sociali complessi ;2) giustificazione di azioni contro certi outgroup ; 3)
la differenziazione positiva dell’ingroup nei confronti di outgroups. Tutti i processi intergruppi possono dar
luogo a stereotipi sociali.

Il potere del linguaggio nel trasmettere e mantenere gli stereotipi sociali

Diversi studi di Mass e colleghi hanno messo in evidenza l’importante ruolo del linguaggio nella
trasmissione e mantenimento degli stereotipi. I comportamenti positivi dei membri dell’ingroup e i
comportamenti negativi dell’outgroup sono associati alle caratteristiche stabili dei protagonisti , hanno più
probabilità di ripetersi nel futuro. I comportamenti negativi dell’ingroup e i comportamenti positivi
dell’outgroup sono rappresentati come eccezione alla regola , con minori probabilità di ripetersi. Rubine
Semin hanno rilevato che i comportamenti che violano le norme e le aspettative dell’ingroup sono descritti
con termini concreti piuttosto che negativi. I comportamenti conformi alle norme dell’ingroup sono invece
descritti con termini positivi e astratti.

La discriminazione linguistica nei gruppi minimi

La forza del bias linguistico interguppi è stato rilevato anche nell’ambito dei gruppi minimi. Rubini e
collaboratori hanno messo in luce che il LIB (linguistic intergroup bias ) è una forma di discriminazione
tanto pervasiva da manifestarsi anche in situazioni di gruppi minimi in cui i ‘normali’ ed epliciti
comportamenti discriminatori intergruppi non emergono.

Il pregiudizio

Strettamente connessi con gli stereotipi sociali sono i pregiudizi. La nozione di pregiudizio ha una
connotazione negativa : giudizio dato prima di conoscere a fondo l’oggetto su cui questo viene espresso. Il
pregiudizio è un’opinione preconcetta , capace di far assumere atteggiamenti ingiusti , specialmente
nell’ambito del giudizio e dei rapporti sociali. Allport : pregiudizio etnico è un sentimento di antipatia
fondato su una generalizzazione falsa e inflessibile. Jones e Nisbett: giudizio negativo a priori mantenuto a
dispetto dei fatti che lo contraddicono. Worchel e Cooper: atteggiamento negativo ingiustificato verso
qualcuno che si fonda unicamente sull’appartenenza del medesimo individuo ad un particolare gruppo. I
pregiudizi non sono altro che atteggiamenti negativi verso persone , gruppi o altri oggetti sociali salienti ,
assunti a priori e mantenuti anche se riscontri empirici ne dimostrano l’infondatezza. I pregiudizi
comprendono una dimensione cognitiva. Tajfel aveva riconosciuto la sovrapposizione fra i significati di
termini quali miti sociali , rappresentazioni sociali e stereotipi sociali : in tale prospettiva , i pregiudizi
possono allora essere considerati come atteggiamenti ancorati ad un sistema di valori espressi attraverso
certi stereotipi sociali in relazione a pratiche messe in atto nei confronti dei gruppi i questione, gli
stereotipi sociali sono vere e proprie rappresentazioni sociali normative. Concetto di esclusione morale
(Opotow 1990 ) riferito ai processi psicologici che giustificano l’esclusione di determinati gruppi e persone
dalla comunità morale  esclusione della comunità morale , che si collega in modo diretto alla definizione
di razzismo elaborata Da Bauman. Bauman esplicita , in polemica con Taguieff , l’esigenza di distinguere il
razzismo da forme diverse di discriminazione intergruppi. La posizione di Taguieff è la seguente: razzismo
ed eterofobia sono equivalenti e si manifestano in tre livelli di crescente complessità. Il razzismo primario è
a parere dell’autore universale, spontaneo, il razzismo primario non ha bisogno di essere fomentato né di
una teoria. Al razzismo secondario si può giungere quando sia disponibile una teoria che fornisca basi
logico-razionali alla discriminazione. Il razzismo terziario che presuppone i due livelli inferiori, sarebbe
caratterizzato dall’uso di argomentazioni che si richiamano alla biologia. Bauman propone una nuova
classificazione che enfatizza come siano : la natura , la funzione e il modo di operare del razzismo a
differenziarlo radicalmente dalla eterofobia , cioè quel diffuso senso di disagio che gli individui
normalmente esperiscono quando si trovano di fronte a ‘presenze umane’ con cui non riescono a
comunicare facilmente e da cui non possono attendersi un comportamento consuetudinario e familiare.
Dall’eterofobia distingue l’inimicizia competitiva , una forma di antagonismo generata dall’esigenza
personale e sociale di costruire una propria identità. È generata dall’esigenza di definire se e il proprio
gruppo distinguendosi dagli altri; l’eterofobia è generata dalla reazione emozionale provocata dalla
presenza di ‘altri’ che mettono in discussione la differenza tra il modo di vita familiare e quello estraneo. Il
razzismo esprime la convinzione che una certa categoria di esseri umani non possa essere incorporata
nell’ordine razionale, determinati difetti di una certa categoria di persona non possono essere eliminati o
corretti. Il razzismo isola una certa categoria di persone che non possono essere raggiunte
dall’argomentazione o da qualsiasi strumento educativo. Il razzismo esige che la categoria dei trasgressori
venga fisicamente sterminata. Il razzismo pretende di disporre di prove positive circa l’inferiorità e le
pericolosità di determinati segmenti della specie umana. Grazie alla teoria delle relazioni intergruppi , ad
ogni modo , fenomeni come l’etnocentrismo , la xenofobia possono già essere in parte compresi e non solo
descritti. Confondere ogni forma di discriminazione verso le minoranze con il razzismo può essere
pericoloso per molteplici ragioni. Perché ci sia razzismo devono essere presenti , insieme con
l’atteggiamento discriminatorio verso altri, anche una teoria sull’impossibilità di modificare in positivo le
loro qualità negative e una giustificazione in chiave biologica di tale irredimibile inferiorità.

Nuove forme di razzismo e pregiudizio

McConahay è stato tra i primi autori a rilevare forme più attuali di pregiudizio che ha definito razzismo
moderno. Le nuove forme di razzismo sono dovute ad emozioni consolidate di antipatia e ostilità verso le
minoranze. Pettigrew e Meertens hanno evidenziato oltre al pregiudizio manifesto , ossia il rifiuto e
l’ostilità aperta e diretta verso gli outgroup , la presenza del pregiudizio sottile che si esprime in maniera
indiretta attraverso la difesa dei valori tradizionali. Gli individui che si esprimono pregiudizi sottili sono
simili a colori che condividono atteggiamenti assimilabili alle forme di razzismo moderno in quanto da una
parte dichiarano di non avere pregiudizi , mentre dall’altra esibiscono comportamenti chiaramente
finalizzati alla svalutazione delle minoranze.

-Il pregiudizio emozionale Mackie , Devos e Smith hanno sostenuto che le emozioni esperite nei confronti
dei gruppi sociali hanno un valore predittivo di carattere comportamentale. Se verso un gruppo sociale
proviamo disgusto tenderemo ad evitare il contatto con i suoi membri. Rabbia e disprezzo generate dai
membri dell’ougroup possono condurre a comportamenti di attacco per ripristinare ingiustizie subite.
Secondo questi autori gli stereotipi verso i gruppi sociali variano attraverso la combinazione di due
dimensioni , ossia competenza (abilità intellettive, capacità di raggiungere scopi) e calorosità ( apertura agli
altri) i gruppi competenti e calorosi suscitano ammirazione , quelli che sono soltanto competenti suscitano
invidia , disprezzo quelli che non hanno nessuna delle due.

-Il sessismo uno dei pregiudizi più diffusi e resistenti al cambiamento riguarda il genere femminile. Gli
aspetti più simbolici che caratterizzano le differenze tra uomini e donne riguardano i contenuti degli
stereotipi di genere, in base a cui le donne vengono considerate calde , emozionali ed espressive , mentre
gli uomini competenti e indipendenti. Negli ultimi anni si assiste ad un graduale cambiamento degli
stereotipi di genere e dei ruoli maschili e femminili. Tuttavia la conquista dell’uguaglianza tra i generi è
ancora lontana dalla piena realizzazione. Uno studio recente di Menegatti, Mariani e Rubini mostra che
anche in ambito di selezione del personale le donne vengono discriminate attraverso descrizioni che
rappresentano le loro caratteristiche positive in modo meno astratto da quelle maschili.

-la deumanizzazione una delle questioni più sorprendenti negli studi sul pregiudizio è l’aspetto pervasivo
delle tendenze alla deumanizzazione , ossia la considerazione degli altri come meno umani di se stessi o dei
membri dei propri gruppi di appartenenza.

CAPITOLO 9. L’INFLUENZA SOCIALE

Per molto tempo gli studiosi hanno considerato i processi di influenza determinato in modo esclusivo
dall'esercizio del potere. In pratica si dava per ascoltato che l'influenza sociale conducesse
necessariamente al conformismo. Studi più recenti hanno mostrato che si deve distinguere fra influenza
esercitata da una maggioranza e quella esercitata da minoranze che adotta uno stile di comportamento
coerenti. Mentre la prima genera conformismo la seconda può innescare processi di innovazione. alcune
ricerche hanno evidenziato come la mera presenza delle persone nel contesto in cui un individuo agisce né
influenti l'azione. il primo vero esperimento di psicologia sociale condotto da Triplett, il quale consisteva
che alcuni ragazzi dovevano far girare un mulinello da pesca da soli oppure con altri ragazzi che compivano
la stessa azione. Lo studioso osservo che la maggior parte dei ragazzi lo facevano più rapidamente quando
erano in compagnia rispetto a quando erano da soli. L'effetto osservato prese il nome di facilitazione
sociale: la presenza di altre persone sia nel ruolo di go attori sia in quello di osservatori migliora la
prestazione individuale.

CONFORMISMO E FORZA DELLA MAGGIORANZA

Consideriamo la corrente di studio che ha affrontato il problema dell'influenza esercitata da una fonte
deliberata. Il primo argomento che ha suscitato interesse negli studiosi e quello riguardante l'influenza che
una maggioranza a su una minoranza e conseguenti esiti di conformismo. Famosi sono i contributi di Sherif
e Asch. Sherif vedeva un' analogia tra una tale situazione sociale e la situazione in cui l'individuo è posta in
una condizione percettiva ambigua. La situazione adatta a produrre effetti auto cinetici è stata considerata
idonea per studiare il comportamento dell'individuo. L'esperimento di Sherif prevedeva che l'individuo
fosse posto in una sala completamente buia e doveva giudicare la pizza del movimento apparenza di un
minuscolo. Luminoso, oggettivamente fisso, proiettato su uno schermo bianco. La persona che guarda la
luce sa perfettamente che essa non si muove. Eppure la luce appare a chi partecipa all’esperimento errante
e irregolare tanto da sembrare contemporaneamente presente in diversi punti della stanza. Al soggetto
viene chiesto di valutare il più esattamente possibile lo spostamento del punto luminoso presentato a più
riprese. Prima sono svolti gli esperimenti con un solo partecipante poi gli esperimenti con due o tre
partecipanti insieme. I risultati ottenuti si possono illustrare in modo sintetico il rapporto a tre situazioni
specifiche.

1. Situazione individuale L'individuo di fronte allo stimolo fissa un campo di variazione di giudizio e
in esso una norma o un punto di riferimento.
2. Situazione individuale seguita da una situazione di gruppo in questo caso i soggetti sono posti
nella situazione del gruppo dopo che hanno già indicato da soli il proprio campo di variazione del
giudizio la propria norma.
3. situazione del gruppo seguita da situazioni individuali per ogni partecipante gli individui
stabiliscono un campo di variazione del giudizio è una norma specifici per il proprio gruppo. Sei nel
gruppo si verifica un cambiamento delle norme già definita questo avviene per effetto del gruppo.
Quando in seguito i partecipanti sono da soli e le norme di ciascuno mostrano un rendimento nella
direzione di quello realizzato in gruppo.

Secondo Sherif gli esperimenti rappresentano uno studio sulla formazione di norme in situazioni di
laboratorio e indicano il progetto psicologico fondamentale implicito nello stabilirsi delle norme sociali. Il
dato che emerge è che il giudizio degli individui è la norma che ne deriva è diverso dalla norma del gruppo
sida. Nelle situazioni individuali il partecipante struttura una situazione che non era strutturata elaborando
un proprio campo di giudizio e un proprio punto di riferimento. Nella situazione di gruppo i partecipanti
tendono a strutturare il campo convergendo nei loro giudizi verso una norma comune.

Anche Asch ha condotto alcune ricerche per sostenere la tesi secondo cui sono fattori razionali quelli che
fanno elaborare ai membri di un gruppo risposte che tendono a convergere. E per dimostrare meglio
questa tesi ha studiato una situazione sperimentale con due sole scelte possibili una giusta e una sbagliata.
In questo modo la forza del fattore influenza sociale poteva essere messo in risalto più nettamente è
studiato in modo più diretto. Un gruppo di 8 individuo è posto di fronte al compito di giudicare una serie di
relazioni percettive chiaramente strutturate e molto semplice: trovare fra tre linee verticali diverse quello
uguale a un'altra linea denominata linea standard. Ogni membro del gruppo deve esprimere il proprio
giudizio pubblicamente. Nel corso della seduta uno dei membri si trova improvvisamente contraddetto da
tutti gli altri e la contraddizione si ripete nella successiva riproposizione della prova. Il gruppo infatti è e
costituito da complici dello sperimentatore e ha avuto, con l'eccezione di un solo partecipante, istruzione di
rispondere con giudizi sbagliati fra loro uguali e unanimi. il partecipante isolato che rappresenta la
minoranza di uno contro una maggioranza unanime e in realtà l'oggetto dello studio. Egli si trova in una
situazione in cui un gruppo contraddice unanimemente l'evidenza dei suoi sensi. La tecnica impiegata
permette di misurare in modo molto semplice l'influenza sociale sulla base degli errori compiuti dai
partecipanti sperimentali nella direzione delle stime distorte fornite dalla maggioranza. Asch approfondisce
la descrizione dei risultati definendo le categorie principali in cui si distinguono i partecipanti indipendenti e
quelli sottomessi. Sono state predisposte molte variazioni sperimentali della ricerca mettendo a fuoco gli
effetti di maggioranza unanimi, il ruolo della dimensione della maggioranza, il ruolo della chiarezza
percettiva della situazione stimola. In sostanza la sua tesi è che il partecipante sperimentale si trova a dover
fronteggiare un conflitto molto acuto tra le informazioni dategli dalla sua percezione visiva e le informazioni
che gli vengono dalla situazione sociale. In una situazione di questo tipo egli dovrà definire il proprio
comportamento non solo sulla base delle proprie coordinate personali ma tenendo conto anche del gruppo
con cui è in rapporto. la spinta a rendere conforme il proprio giudizio quello degli altri è dovuta a un
processo di ragionamento, un processo del tutto consapevole determinato dalle informazioni che si hanno
sulla realtà, finalizzata a procurare gli individui e ai gruppi una visione oggettiva del mondo. Secondo alcuni
autori in questi esperimenti i partecipanti erano si in presenza di altri ma il loro giudizio percettivo non era
dato in una condizione in cui essi funzionavano come membri di un gruppo, ci sentivano piuttosto individui
fra altro individuo. Tenuto conto di questa precisazione gli autori formularono l'ipotesi di un' influenza
sociale di tipo normativo (la forza che spinge l'individuo in quanto membro di un gruppo a rispondere in
modo conforme alle attese positive di uno o più membri del gruppo stesso) deve essere più rilevante che è
un influenza sociale di tipo informativo (la forza che spinge l'individuo isolato ad accettare le informazioni
provenienti da altri come prova circa la realtà). I risultati dimostra non solo la tendenza al conformismo dei
partecipanti quando questi sperimentano il conflitto cognitivo Ma anche che tale conformismo è maggiore
quando il soggetto esprime i suoi giudizi di fronte agli altri rispetto a quando è isolato. Dimostrano
soprattutto che il conformismo è più grande quando l'individuo agisce in quanto membro di un gruppo che
non quando non è coinvolto normativamente con gli altri. Il modello funzionalista dell'influenza ha delle
caratteristica:

 l'influenza sociale è distribuita in modo diseguale e viene esercitata secondo una modalità
unilaterale;
 la funzione dell’influenza sociale e quella di mantenere e rinforzare il controllo sociale;
 le relazioni di dipendenza determinano la direzione e la rilevanza dell’influenza sociale esercitata in
un gruppo;
 il consenso che l'influenza è tesa a raggiungere è basato sulla norma dell'obiettività;
 tutti i processi di influenza sono visti dalla prospettiva del conformismo, e il conformismo è
considerato sottofondo comune di questi processi.

La teoria funzionalista non permette di cogliere alcuna differenza brava sfera del potere e sfera
dell'influenza anzi fa intendere che l'origine di qualsiasi processo di influenza risiede nel potere. La teoria
funzionalista giunge a sostenere che il potere è a un tempo causa ed effetto dell'influenza. ma ci sono molti
fatti che vanno a ritenere necessario distinguere potere e influenza. E’ anche vero che queste relazioni di
forza e di votare implicano prevalentemente dei cambiamenti superficiali e considerano i cambiamenti
interiori delle persone come processi puramente individuali e non sociali. Esistono situazione in cui non
compaiono distribuzioni disuguali di risorse e di potere in cui però l'interesse e l'ammirazione di molti sono
provocati da un insieme di qualità possedute da un individuo o da un gruppo qualità che si traducono in un
certo stile di esprimersi o di operare. Si parla di prestigio oppure di carisma. L'effetto del prestigio o del
carisma non si fonda sul maggiore potere ed è esclusivamente di ordine interiore in quanto opera
attraverso mezzi ideologici e psicologici.

IL MODELLO GENETICO DELL’INFLUENZA SOCIALE

L'elaborazione di un nuovo modello a proposito dell'influenza sociale si basa sull’esigenza di affrontare


problemi nuovi che con il paradigma del conformismo non potevano essere indagati. Primo fra tutti il
problema dell'influenza esercitata da individui o gruppi minoritari. Secondo il modello genetico, tutti i
membri di un gruppo o di un sistema collettivo devono essere considerati sia fonte sia bersaglio di
influenza. Infatti è corretto dare per scontato che l'influenza proceda necessariamente in modo
asimmetrico dalla fonte verso il bersaglio. Si può benissimo ammettere che scopo dell'influenza può essere
il cambiamento sociale e non il conformismo. Tanto più che se lo scopo di ogni entità sociale maggioritaria
è quello di esercitare un controllo sociale, le minoranze, o la entità sociali minoritaria o marginali hanno
interesse in Novara. c'è una caratteristica rilevante che distingue il processo di influenza minoritaria da
quello maggioritario punta mentre l'influenza maggioritaria può realizzarsi nel quadro di una almeno
apparente collaborazione fra chi riceve influenza e chi la esprime, una minoranza per esercitare influenza
deve definire una propria posizione antagonista e alternativa a quella della maggioranza. Questo
antagonismo provoca un conflitto fra le 2:00 parti in causa che può essere regolato tramite un negoziato
che diviene a quel punto necessario. Questa nazione di negoziato implica a sua volta che ogni partner possa
avere la possibilità di proporre il proprio sistema di riferimento accettando rifiutando quello dell'altro. Per
cui è minoritario un gruppo sociale che propone norme in contrasto con le norme dominanti Mentre è da
considerarsi maggioritario il gruppo che fa proprie e diffonde le norme e le ideologie dominanti. la
diffusione di un' innovazione non è mai riducibile all’esercizio di un potere. un ruolo decisivo in tale
processo è svolto dallo stile di comportamento. questo concetto secondo Moscovici si può reintrodurre nel
fenomeno dell'influenza una dimensione simbolica di natura pienamente psicologica. Un certo stile di
comportamento da un individuo in particolare prestigio che attrae suscita ammirazione. Proprio attraverso
la consistenza cioè coerenza e persistenza del proprio stile di comportamento una minoranza può divenire
influente. Attraverso questa consistenza la minoranza non fornisce soltanto indicazioni dei bersagli
potenziali di influenza circa il proprio modo di vedere una realtà specifica , fornisce indicazioni anche a
proposito di se stessa. La minoranza può inoltre dare valore all’alternativa tramite l'esempio di sacrifici
personali punta la consistenza caratterizza dunque comportamenti difeso con fermezza con costanza
attraverso svariate situazioni e per prolungati periodi di tempo. se si prende in esame un problema come
l'opposizione alla costruzione di un'opera in un dato territorio le opinioni che vi si riferiscono Possono
essere ben diversa nella popolazione fra i semplici cittadini chi detiene il potere e chi si organizza in un vero
e proprio movimento di protesta punta i cittadini comuni di fronte al problema posto dalla costruzione
dell'opera non possono essere considerati né maggioritari ne minoritari semplicemente sulla base delle loro
opinioni punta si può perciò distinguere fra la maggioranza che gestisce il potere e la maggioranza costituita
dalla popolazione che si adegua quanto è deciso dalle istituzioni più di quanto non lo condivida. Diventa
cruciale lo stile di negoziato che una minoranza in conflitto con il potere saprà adottare. Si parla di rigidità
nello stile di negoziato quando la minoranza estende a tutta la popolazione l'atteggiamento di chiusura
intransigenza delle comunicazioni messo in atto nei confronti del potere limitandosi a riaffermare le proprie
posizioni. In altri termini la minoranza è intransigente in modo estremo non ascolta le ragioni degli
interlocutori che incontra nel nella popolazione e rifiuta ogni compromesso. Lo stile minoritario e invece
definito flessibile quando nella minoranza vi è disponibilità a dialogare con la popolazione per trarre
indicazioni su come migliorare la propria proposta pur mantenendo la netta e consistente al fine di non
accentuare il conflitto con essa.

CONDISCENDENZA E CONVERSIONE

Moscovici e Personnaz hanno realizzato un esperimento di estremo interesse. Ai soggetti sperimentali


erano mostrate delle diapositive blu che un collaboratore dei ricercatori denominava in modo consistente
verdi. Invece di usare un test di colore per misurare la modificazione percettiva successiva all’interazione
conflittuale i ricercatori hanno usato l’after-effect cromatico. Se si fissa uno schermo bianco dopo aver
fissato una luce colorata per vari secondi si percepisce il colore complementare di quello in precedenza
fissato. Nel caso specifico dell’esperimento sarebbero stati il giallo arancio per il blu e il rosso porpora per il
verde. Molti studi dimostrano che questi esperimenti derivano da processi periferici dell’apparato visivo ma
i processi in gioco non sono ancora compresi a fondo. L'esperimento si svolgeva in quattro fasi. VEDI SLIDE.

Moscovici e Personnaz sostengono che l’influenza maggioritaria si realizza attraverso un processo di


confronto tra il soggetto sottoposto a influenza e la fonte di questa, mentre l’influenza minoritaria si
realizza attraverso un processo di validazione del punto di vista minoritario, sull’oggetto in discussione, da
parte dei soggetti-bersaglio d’influenza. Perez e Mugny riprendono queste concezioni nella teoria
dell’elaborazione del conflitto, la quale parte dall’idea che i diversi livelli dell’influenza, manifesta e/o
latente, sono l’effetto del modo in cui il soggetto-bersaglio di influenza si rappresenta la situazione.

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