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Ennio Simeon, Manuale di storia nella Musica nel Cinema, Rugginenti Editore, Milano 1995,

pp. 22-37 (estratti).

Modelli della musica per il cinema.


La funzione oggi più comunemente accordata alla musica per film, quella di
sottolineare le immagini, i personaggi, le situazioni, di creare l'atmosfera emotiva ed
enfatizzare determinati momenti, non appare che verso la fine del primo decennio del
secolo, cioè ad una quindicina d'anni dalla nascita del cinema. Ciò non fa meraviglia se si
considera l'identità degli spettacoli cinematografici fino a quell'epoca. Nonostante un
continuo, progressivo allungamento delle pellicole, nonostante la graduale elaborazione
della capacità narrativa tramite un linguaggio sempre più autonomo, infatti, è solo verso il
1907-8 che il cinema cerca di affrancarsi dalla sua condizione di spettacolo proletario per
mostrare intenti d'arte. Fino a quel momento le musiche usate non erano dissimili dagli
inserti musicali che accompagnavano gli spettacoli di varietà, music hall, vaudeville e
addirittura circo e spettacolo di piazza, contesto entro il quale effettivamente i primi brevi
film venivano proiettati. La completa indifferenza verso il tipo di musica eseguita [...]
comportava che non ci si ponessero problemi stilistici e di repertorio. Ma di fronte a
pellicole lunghe, con uno sviluppo narrativo sempre più complesso, in cui i debiti nei
confronti del teatro, del romanzo, dell'opera sono palesi anche se talora inconfessati, la
questione dei modelli precedenti cui la musica per film si sarebbe dovuta ispirare si fa
reale.
Musiche di scena, teatro musicale nelle sue varie accezioni (dramma musicale
wagneriano, melodramma di stampo italiano, grand opéra, ...), poema sinfonico,
pantomima ed anche altri sono i generi cui si è presto guardato per averne ispirazione e
modelli, e a cui i primi teorici hanno fatto riferimento. È significativo che a proposito delle
prime musiche per l'accompagnamento filmico ricorra spesso il termine incidental music,
che designa di solito quella che in italiano viene chiamata "musica di scena", ovvero gli
inserti musicali in drammi o commedie recitate. [...]
Più delle musiche per il teatro di prosa, è stato però senza dubbio il teatro d'opera,
specie nel senso di dramma wagneriano, che molto presto ha costituito un punto di
riferimento quasi imprescindibile per molti teorici e compositori. Fra i primi è il critico
americano Stephen Bush, nel 1911, a parlare del cinema come Gesamtkunstwerk ['opera
d'arte totale'] e a definire senza mezzi termini i musicisti come discepoli di Wagner. In
effetti alcune caratteristiche della musica per film già degli esordi possono ricordare la
costituzione del dramma musicale wagneriano, a partire dall'uso di motivi musicali
ricorrenti in associazione con personaggi o situazioni particolari [in entrambi i casi, quindi,
con funzione simbolica], nel contesto di un flusso musicale ininterrotto. Nel cinema però si
assiste quasi sempre ad un'applicazione piuttosto semplicistica del principio del motivo
conduttore, non paragonabile con la pregnanza di significato del Leitmotiv e con l'incidere
psicologico del tempo reso dalla scrittura wagneriana. [...] Il film, al contrario del dramma
musicale con il suo lento sviluppo, avanza a salti e balzi, e a causa della breve durata delle
singole scene non permette un chiaro sviluppo di temi. Il Leitmotiv nella musica per film
non può essere altro che il marchio per un'atmosfera predominante, o un sentimento
caratteristico, o la delineazione di una persona, un marchio che assiste lo spettatore a
capire. [...] Non deve mai, come in Wagner, diventare un principio strutturale
fondamentale. [...] Il principio leitmotivico è stato applicato selvaggiamente dal cinema
hollywoodiano degli anni '30 e '40, offrendo ad Adorno/Eisler l'opportunità di criticarne
l'uso indiscriminato e semplicistico con la famosa definizione del motivo conduttore
cinematografico come di "un cameriere musicale che, con aspetto compreso, presenta il
suo signore, mentre tutti sanno chi è".
La congenialità del Leitmotiv nella musica per film è comunque fuori discussione,
anche se usato nella sua accezione più "meccanica". Ecco allora che, come ha proposto
Carlo Piccardi [Carlo Piccardi, Concrezioni mnemoniche nella colonna sonora, in
"Musica/Realtà" n. 21, 1986, p. 150], il riferimento più plausibile potrebbe non essere
affatto il dramma wagneriano, bensì il poema sinfonico:
"Il Leitmotiv cinematografico più che da Wagner, come si usa spesso dare per
scontato, proviene dal poema sinfonico [...], perlomeno per lo svolgimento
narrativo (più che drammatico) a cui risulta sottoposto e che ne determina
l'obbedienza esteriore a un meccanismo di denotazione di oggetti, personaggi,
situazioni, apparentemente ridotto a schematico ed impersonale organismo
sonoro. Senonché, anche al livello delle più vituperose soluzioni rappresentative,
tale tecnica non ha mai mancato di imporsi e di rivelare la propria insostituibile
efficacia"
[...] Con o senza Leitmotiv, la musica a programma ha influenzato in ogni caso i
compositori di musica per il cinema nel fornire un bagaglio di strumenti di efficace pittura
sonora: le situazioni, le atmosfere, i personaggi, le emozioni del film richiedono soluzioni
eloquenti, chiare, dal gesto sonoro inequivocabile e dotate di forte impulso mimetico, per
la resa delle quali la musica aveva sviluppato nei secoli un'ampia serie di procedimenti.
Senza volersi rifare ai madrigalismi del XVI secolo, o alla "Teoria degli affetti" del secolo
successivo, è nell'Ottocento che si trova la genesi dei procedimenti espressivi usati poi nel
cinema medio. [...] Come esempio si veda un "vocabolario musicale" del teorico tedesco
Johann Bernhard Logier, risalente alla prima metà dell'Ottocento [J.B. Logier, Metodo di
musicologia e di composizione pratica, Berlino 1827]; i diversi tratti musicali (qui solo
tempo e ritmo) e i sentimenti e le emozioni che essi dovrebbero esprimere corrispondono
già ad associazioni analoghe a quelle riscontrabili in una colonna sonora hollywoodiana.
Abituali in tutta la musica ottocentesca basata sull'elaborazione tematica, questi
procedimenti vennero adottati pari pari dai compositori cinematografici già negli anni '10.
Edith Lang e George West pubblicarono nel 1920 un manuale per l'accompagnamento
musicale dei film [E. Lang e G. West, Musical accompaniment for Moving Pictures, New
York 1920], destinato ai pianisti e agli organisti, dove si spiega che
"L'essenza dell'illustrazione musicale di un film è il tema principale (main
theme). Questo dovrebbero essere tipico, nell'atmosfera e nel carattere,
dell'eroe e dell'eroina. Dovrebbe avere richiamo emozionale, essere facilmente
riconoscibile [...]. Dovrebbe venire annunciato nell'introduzione, enfatizzato alla
prima apparizione della persona a cui è legato, e ricevere la sua ultima
glorificazione, per mezzo del volume ecc., nel finale del film. In aggiunta a
questo, ci saranno tanti temi sussidiari quanti sono i personaggi secondari nel
film."
[...] Come si vede, la pratica hollywoodiana dell'uso del motivo conduttore, dei cui
limiti (nel caso di un'applicazione meccanicistica ed indiscriminata) ma anche della cui
congenialità si è detto sopra, è già tutta definita nel 1920. Peraltro Lang e West, che hanno
voluto offrire un manuale puramente pratico, non usano mai il termine Leitmotiv.

Che la musica a programma fosse un serbatorio di suggestione per i primi musicisti


cinematografici appare anche dai primi esempi "colti" di partiture cinematografiche
originali, ad esempio quella di Camille Saint-Saëns per L'assassinat du Duc de Guise, oppure
quella di Luigi Mancinelli per Frate Sole [1918, regia di Mario Corsi e Ugo Falena] che il
compositore voleva fosse definito "Poema sinfonico e Corale in quattro canti" [...].

Musica composta e musica adattata.


Le discussioni sulle affinità tra la musica per film e i diversi modelli precedenti,
sull'opportunità e le modalità del Leitmotiv, ecc. non potevano incidere oltre una certa
misura su un mondo nel quale i condizionamenti dell'industria e le costrizioni di carattere
pratico hanno quasi sempre avuto il sopravvento rispetto agli intenti artistici. La
composizione di musiche originali per una certa pellicola, premessa quasi indispensabile
per un'applicazione cosciente di determinati principi teorici ed estetici, è rimasta per tutto
il periodo del muto un'eccezione quantitativamente insignificante rispetto all'abituale uso
di brani di repertorio, cioè alla pratica di adattare al film composizioni più o meno note,
facilmente reperibili da parte del musicista di sala e comprensibili da parte del pubblico. Il
rapporto tra composizione originale e compilazione di musiche già esistenti ha dato origine
a riflessioni talvolta di un interesse notevole e non del tutto circoscritto a quei tempi ormai
lontani.
Ricciotto Canudo [R. Canudo, Musique et Cinéma. Languages universels, in
"Comoedia", n. 26, 1921] si mostra molto critico verso l'accompagnamento abituale in una
sala cinematografica, costituito appunto da compilazioni, e sottolinea come molto spesso
questa prassi fornisse l'occasione per accostamenti casuali ed esteticamente discutibili:
"Senza alcuna transizione, e senza pensare di far male, durante il susseguirsi
delle scene sullo schermo, la Marcia Funebre di Chopin viene interrotta dal
valzer C'est un homme e si sospende il preludio del Parsifal per far posto
all'Ultimo tango. E infine – posso garantire io stesso l'autenticità del fatto che
non è avvenuto tra gli ultimi Pellerossa ma nel pieno fulgore della civiltà dei
boulevards – si può incollare a freddo l'Eroica di Beethoven a una qualsiasi
ignominiosa avventura a episodi."

Invece Sebastiano Arturo Luciani [S. A. Luciani, Verso una nuova arte. Il
cinematografo, Roma 1920], non badando evidentemente alla discutibile realtà delle sale
cinematografiche ma considerando la pratica compilativa in sé, si rivela molto più
possibilista sulle potenzialità artistiche di tale tipo di accompagnamento. Il potere
evocativo di un brano conosciuto può essere un valido mezzo per accrescere il valore lirico
di determinate scene:
"In tal caso le musiche sono scelte in modo da rendere, col ricordo delle
parole e delle situazioni per cui sono state originariamente composte, più
evidente il significato di una scena commentatata. Così per una scena
passionale un duo d'amore, per una scena di morte il preludio del 3° atto
della Traviata o il finale della Bohème e così via. Il procedimento sembra poco
artistico, e un musicista che si rispetta non si degnerebbe di fare questo che i
francesi chiamano "pastiche". [...]"
Le implicazioni della pratica compilativa non rivestono solo un interesse storico, in
quanto esistono almeno due aspetti di essa dotati di attualità. Da un lato l'uso di brani di
repertorio è vivo tutt'ora nella produzione cinematografica e televisiva più dozzinale, che
utilizzando una gamma ristretta di situazioni ricorrenti si può servire di un bagaglio limitato
di "musiche d'atmosfera" facilmente inseribili nel film e reperibili in commercio. Dall'altro
l'uso di brani preesistenti, con il potenziale evocativo di cui parla Luciani, si ritrova nelle
colonne sonore volute da registi quali Luchino Visconti (Senso, 1953; Morte a Venezia,
1971), Stanley Kubrick (2001 Odissea nello spazio, 1968; Barry Lindon, 1975), Pier Paolo
Pasolini (Accattone, 1961) ed altri, che se ne sono serviti proprio per innescare meccanismi
di associazioni ed opposizioni in grado di arricchire il senso della pellicola. [...]

La consapevolezza che la realtà musicale abituale del cinema nei primi tre decenni
del secolo era legata ad una prassi inevitabilmente precaria dal punto di vista estetico,
induce a qualche riflessione. Il fervore con cui da alcuni anni si è riscoperta la presenza
della musica nel cinema muto ha avuto come oggetto di attenzione prevalentemente il
contributo al cinema di grandi compositori, già presenti nella Storia della musica, che in
virtù della loro statura artistica già assodata garantivano un oggetto di studio degno di un
approccio di carattere storico-musicologico. Ciò è comprensibile, specialmente in una
tradizione storiografica come quella italiana che tende a privilegiare il "grande evento" e la
"grande personalità" come oggetti principali di interesse. Tali contributi, quelli dei grandi
compositori come Pietro Mascagni, Ilbedrando Pizzetti, Camille Saint-Saëns ecc., erano gli
unici citati in parte anche prima della recente renaissance [...]. La ricerca, la riproposta e lo
studio dei lavori di altri compositori più umili e modesti che hanno scritto partiture
originali per il cinema muto rende però coscienti della scissione esistente fra valore
musicale in sé e congenialità cinematografica di una partitura. Per la nascita di un
linguaggio cinematografico-musicale specifico l'operato di tali musicisti minori non è
dunque meno importante di quello dei grandi. Che il lavoro fosse spesso una
contaminazione di pratiche musicali "dotte" e "volgari", spazianti dalla canzonetta,
all'opera di stampo italiano, al wagnerismo più diluito, non deve togliere nulla all'originalità
dell'operazione, consistente nell'elaborare un linguaggio nuovo anche se costituito su
svariati elementi precedenti. Si può dunque distinguere da un lato l'avvicinamento
saltuario al cinema muto di alcuni compositori attivi e significativi di per sé, e dall'altro il
lavoro di una serie di compositori prettamente cinematografici, spesso dalla personalità
meno marcata. Vi è poi, non ultimo per importanza, l'aspetto della realtà effettiva di gran
parte delle sale di proiezione ordinarie, esclusi i grandi teatri (dove, in occasione delle
prime organizzate con gran pompa, alla musica veniva data un'importanza particolare). In
un cinema normale, non necessariamente di provincia o di infima qualità,
l'accompagnamento sfuggiva di norma a qualsiasi categorizzazione, basato com'era sulla
casualità e la povertà tecnica e stilistica delle esecuzioni. Tuttavia anche lo studio di questo
repertorio si presta ad osservazioni non gratuite sullo studio di quello che prima abbiamo
chiamato "linguaggio cinematografico-musicale specifico". Alcune righe dello scritto di
Ernst Bloch [E. Bloch, Über die Melodie im Kino, in "Die Argonauten" 1913] aiutano a
cogliere bene il problema:
"Si sa che bisogna suonare l'armonium in tremolo quando il figlio di casa si è
suicidato o quando Messina sprofonda nel terremoto. Si è imparato anche a
distinguere tra veloce e lento, tra chiaro e scuro, ma la cosa essenziale è che
la maniera con cui i bravi maestri di paese, dopo le fatiche giornaliere,
possono fantasticare sul loro pianoforte, è stata nel cinema legittimata a
forma d'arte."
Si potrebbe forse vedere dell'ironia in quell'"elevare a forma d'arte" lo
strimpellamento del musicista di sala, ma, fosse anche stata questa l'intenzione di Bloch,
l'espressione assume per noi tutt'altro significato, alla luce dello sviluppo successivo della
musica per film. È infatti interessante vedere come il filosofo recepisca già la nascita di una
serie di "situazioni" cinematografiche musicali che stavano diventando normative nel
codice di accompagnamento internazionale.
Si può dunque ragionevolmente affermare che non solo i contributi dei grandi
musicisti, e non solo quelli dei musicisti minori che hanno scritto partiture originali o
musiche di repertorio, ma anche i contributi della massa quasi anonima di musicanti
cinematografici magari dalla dubbia competenza tecnica appartengono ad una storia della
musica per film. Parimenti, va rilevato che livelli diversi di musica sono convissuti e
convivono nel cinema, importanti rispettivamente per il valore artistico in sé (beninteso,
sempre in riferimento all'unione con le immagini), o per il contributo all'elaborazione di un
idioma cinematografico-musicale specifico, o infine per il semplice costume
cinemtografico-musicale e la ricezione media di questa nuova forma di spettacolo.
La convivenza tra espressioni musicali così diverse rispecchia il destino della stessa
musica novecentesca. La nascita o meglio l'acutizzarsi dello iato fra espressioni musicali
"colte" ed espressioni musicali "volgari", nonché la creazione di generi intermedi e di forme
di interpretazione tra generi musicali diversi, è un fenomeno progressivo del secolo scorso
[XIX secolo], che giunge al suo apice proprio nel periodo della nascita e dello sviluppo del
cinema muto, nei primi anni '20. A partire poi dal 1924 circa, cioè in piena affermazione del
maturo linguaggio cinematografico in alcuni paesi, la diffusione della radio, del disco e
successivamente del cinema sonoro cambiano ulteriormente lo status dell'intero
patrimonio musicale, soggetto da allora alla riproducibilità tecnica che porta qualsiasi
genere, indipendentemente da epoca, stile, "facilità" di fruizione ecc., ad una condizione
"altra" da quella per cui era nato, spesso stravolgendone le caratteristiche. [...]
Le avanguardie del primo dopoguerra hanno contribuito d'altronde con il loro
elitarismo a mantenere in vita la dicotomia tra colto e popolare, esasperando i due termini
tanto da far rientrare nella seconda categoria, per assurdo, anche tutta la musica "colta"
antecedente. Tentativi di coniugare dotto e volgare, come quello del francese "Gruppo dei
Sei" (Georges Auric, Louis Durey, Arthur Honneger, Darius Milhaud, Francis Poulenc,
Germaine Tailleferre) rimangono esperienze circoscritte, poco gravide di conseguenze reali
sul corso della musica successiva. La conseguenza di queste riflessioni deve essere la
consapevolezza che la musica "media" per il cinema è il risultato di una compenetrazione di
operazioni diverse, di stili diversi, di livelli di musica diversi; ferma restando quindi
l'importanza ed il valore estetico dei grandi compositori non va dimenticato che la linea
maestra della musica cinematografica è passata fin dall'inizio per strade più modeste ma
più importanti alla luce degli sviluppi successivi e del cinema inteso come grande industria
dello spettacolo. [...]

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