1. Ordine e comunità sociale L'ordine è una funzione biologica della specie umana attraverso la quale sono stati avviati processi evolutivi che hanno determinato la dimensione esistenziale ed i livelli di vita e di benessere. L'ordine ha un ruolo determinante nella formazione dell'Io e del Noi. L'ordine rappresenta un insieme di vari elementi della vita che presentano nessi di collegamento in ragione di una funzione unitaria: nel concetto di ordine una pluralità di elementi può essere collegata in relazione ad una funzione comune. La nozione di ordine esprime, quindi, un concetto relazionale. I fattori costitutivi della nozione di ordine sono: - la pluralità di elementi della vita; - la funzione comune; - i nessi di collegamento tra i vari elementi. La definizione di un ordine vale a stabilire un criterio ripartitorio di una pluralità di elementi. Il nesso di collegamento della pluralità di elementi della vita rispetto alla funzione può consentire una diversa collocazione nello spazio e/o nel tempo. Esiste un ordine orizzontale (o ordine simultaneo) nel quale gli elementi si distribuiscono su un medesimo piano secondo una logica di simultaneità e un ordine verticale (o ordine sequenziale) in cui gli elementi vengono ripartiti su più piani, anche di diverso valore o grado, assumendo pertanto un differente rilievo di importanza e venendo considerati in successione logica. La formazione dell'ordine è nella disponibilità del soggetto in quanto l'individuazione del criterio ordinatore dipende da scelte individuali. Sono rimessi a valutazioni soggettive tutti i fattori costitutivi della nozione di ordine, ad es. la selezione degli elementi della vita da ricomprendere nell'insieme «ordinato», la fissazione della funzione perseguita, la determinazione dei nessi di collegamento e la metodologia di relazione (induttiva, deduttiva, analogica, ecc.) tra i vari elementi «ordinati». L'ordine, quindi, non è un dato di fatto, ma è il risultato di un giudizio soggettivo, in ragione della valutazione specifica e personale formulata dall'individuo (o dall’istituzione) chiamato a stabilire il criterio ordinatore. La soggettività che connota l'individuazione del criterio ordinatore vale a qualificare l'ordine come una categoria «a numero infinito», la cui concreta determinazione è rimessa alle scelte formulate da ciascun individuo. La scelta del criterio ordinatore da parte del medesimo individuo (o istituzione) può variare di momento in momento, dipendendo da ragioni che possono anche essere estemporanee e non stabili nel corso del tempo: si tratta di un giudizio definito nella sua storicità, e quindi da contestualizzare ad un dato momento. L'ordine costituisce un modello di riferimento per i gesti, il pensiero e gli atti del soggetto: l’ordine può essere definito come il paradigma della vita, in quanto parametro di formazione dei comportamenti dei soggetti, individuali e collettivi, quali risultanti dell'insieme di gesti, funzioni cognitive e azioni. L'individuazione di un ordine persegue innanzitutto una funzione cognitiva, in quanto pone in condizione l'individuo di classificare gli elementi della vita. L'attribuzione di una qualità («è buono», «è cattivo») e la valutazione di funzionalità («è utile», «serve allo scopo») dipendono essenzialmente dalla definizione del nesso con cui il singolo elemento della vita viene collegato ad altri elementi e posto in relazione con la funzione dell'ordine. Anche il giudizio descrittivo dell'elemento della vita (es. colore, dimensioni, durata nel tempo, ecc.) presuppone l'adozione di simboli il cui fondamento è costituito dalla fissazione di un ordine attraverso il quale gli stessi simboli sono riconoscibili e utilizzabili. La cognizione presuppone un ordine logico attraverso il quale si forma il pensiero e si può veicolare il pensiero all'esterno, consentendo il confronto intersoggettivo. Il confronto intersoggettivo consente di sviluppare il pensiero e, in definitiva, affinare e arricchire la cognizione: l’ordine consente la rappresentazione e a formazione della cognizione, in quanto si pone alla base dei principali processi cognitivi. La fissazione di un ordine serve ad orientare le azioni individuali, laddove fissa le relazioni di base che vengono assunte per la determinazione dei comportamenti: le azioni rispondono usualmente al criterio del «mezzo allo scopo» e dunque si rapportano alla funzione perseguita. La cognizione degli elementi della vita e l'idea della trasformazione degli stessi attraverso l'azione individuale assumono consistenza all'interno di un ordine determinato. Senza un ordine le azioni individuali verrebbero considerate quali semplici impulsi indirizzati verso trasformazioni casuali degli elementi della vita. Nella tradizione filosofica sono identificate due tipologie di ordine: - Cosmos o ordine spontaneo, ovvero un tipo di ordine che si forma spontaneamente all'interno di una comunità, in modo «endogeno», e viene recepito dall'individuo come un dato naturale e primordiale; - Taxis o ordine costruito, ovvero un tipo di ordine che viene costituito dalla società e si forma sulla base di giudizi e valutazioni sviluppati in un dato contesto storico. Si tratta di un ordine etero-diretto, che è generato dall'alto, perlopiù attraverso un processo deduttivo e rappresenta un ordine di carattere esogeno o artificiale che segna una perimetrazione del flusso naturale degli eventi. Spesso viene rappresentato come «ordine del tempo» nel senso di «limite al fluire del Tempo». Le due tipologie di ordine convivono e coesistono, secondo relazioni variabili: spesso vi è la riduzione proporzionale dello spazio riservato all'una categoria in ragione della crescita dell'altra categoria (trade off). L'ordine viene elaborato nell'ambito di una comunità di individui assumendo i caratteri di un ordine sociale: si tratta di un ordine di gruppo, in quanto viene formato attraverso un processo di valutazione e decisione collettiva. L’ordine sociale è l'insieme di elementi della vita che la comunità assume (dal Cosmos) e definisce (attraverso la Taxis) in ragione delle finalità comuni e degli interessi collettivi perseguiti. L'ordine della comunità interagisce con l’ordine individuale: la formazione dell’ordine individuale è determinata in base all’accettazione dei valori del gruppo di appartenenza. Dunque, la varietà di ordini produce la coesistenza di una pluralità di ordini. L'ordine può essere determinato dal soggetto secondo due metodi: - Il Logos, ovvero l'assunzione di un assetto lineare e stabile dei criteri ordinatori, nel quale sia fissata la gerarchia di un ordine prevalente rispetto al numero infinito di ordini astrattamente possibili; - Il Chaos, ovvero l'apertura verso un numero indefinito di ordini, nel quale manchi un criterio ordinatore prevalente e sia ammessa senza preclusioni la sostituzione di un ordine dato con un ordine nuovo. Sul piano logico, le due metodologie sono egualmente ammissibili, ma la scelta di una o l’altra comporta effetti differenti, in quanto esse esprimono una visione della vita connotata da una idea dei rapporti umani diversa. Ricorrendo al Logos, l'ordine è determinato dal soggetto secondo un sistema lineare che presuppone un criterio di prevalenza o di priorità gerarchica per cui si dispone una lista di preferenze che pone in cima l’ordine primario o ordine dominante. Quindi, il Logos indica la preferibilità gerarchica di un ordine rispetto agli altri e impone un sistema lineare di ricostruzione dei nessi tale per cui si può parlare di metodologia deduttiva, predicibile e conservativa dell’ordine in quanto espressione di una dimensione statica. Con il Chaos, invece, si esprime l’apertura verso processi di trasformazione costante dell’ordine: l’ordine viene determinato di volta in volta andando a sostituire l’ordine «vecchio» con l’ordine «nuovo», per cui si afferma un’idea di sostituibilità di ogni ordine. Dunque, il Chaos indica la coesistenza dinamica di più ordini, non la mancanza dell’ordine, e in tal modo si valorizza l’entropia. Tradizionalmente, si predilige il Logos. I due concetti, infatti, si confrontano in una sorta di antagonismo logico e il Logos viene assunto a punto di arrivo di un percorso evolutivo ella specie umana. L'attitudine dei soggetti a preferire il Logos costituisce un dato primordiale, in quanto il Logos viene avvertito come una forma pura delle relazioni, un dato originario: viene percepito come il principio vivente che si diffonde fra gli individui e ne qualifica gli atti e, quindi, viene qualificato come il paradigma della vita. La determinazione dell'ordine risente del gruppo di appartenenza dell’individuo: l'individuo aderisce ad un modello di ordine in relazione alla appartenenza al gruppo in base alla logica del comando gerarchico e della condivisione di valori e principi. L’ordine è, simultaneamente, la matrice e la derivata di elementi che riportano l'individuo al gruppo. La sequenza costitutiva dell'ordine sociale (ad es. simboli, riti, autorità) è perlopiù una grandezza collettiva stabilita dall'appartenenza di gruppo”, per cui gli elementi della vita (gesti, pensieri, azioni) prodotti dagli individui vengono orientati verso il rispetto dell'ordine dominante. I fattori costitutivi dell’ordine si impongono come meccanismi che favoriscono il collegamento degli elementi della vita rispetto al paradigma assunto dal gruppo. Tali fattori possono definirsi «legature», che si esprimono come vincoli esterni dotati di forza coercitiva sull’individuo. Il Logos si fonda sul riconoscimento di un ordine sociale dominante che viene attuato mediante le legature sociali: si fonda sul riconoscimento del Noi come criterio essenziale di fissazione dell’ordine. Nel Logos, l’ordine sociale si esprime attraverso forme di organizzazione stabile e gli elementi costitutivi dell’organizzazione possono individuarsi nell’adozione di regole per perseguire una finalità comune. L'organizzazione esprime diverse combinazioni di ordine collettivo, ad es. l'ordinamento giuridico che indica i comportamenti ammessi e quelli vietati o l’ordine pubblico che indica le misure che garantiscono la pubblica sicurezza. L'organizzazione, poi, costituisce il nucleo fondante della soggettività collettiva. Ovviamente, il concetto di ordine è multiforme in quanto dipende dalle valutazioni assunte in un dato momento storico. Ed è possibile che le varie anime della società esprimano nozioni diverse di ordine da bilanciare fra loro. L'individuo nella comunità procede a comporre la propria identità. È una ricerca continua che avviene all'interno del Noi convenzionale, cioè della comunità, e che quindi è segnata dall'incombenza dell'ordine sociale sulle prospettive/aspettative dell'Io. L'Io muove verso un'identità costantemente non definita e non fissa, ma valida «fino a nuovo avviso». L'Io prova a prendere le distanze dagli assetti tradizionali di superiorità/inferiorità e dai postulati assiologici della storia che sono erosi. Il mondo non ha perso solo stabilità e certezze, ma soprattutto si sente privato di origine, scopi e ordine. Così l'identità è portata a vagare nella storia: l'lo percorre i tratti della sua storia attraverso le varie comunità a cui appartiene, connesso dalle legature dell'ordine sociale espresso da ciascun gruppo. In tale prospettiva il Logos e il Chaos possono trovare forme di coesistenza dinamica all'interno di una medesima comunità: la coesistenza è affidata ad una dialettica, il dialogos, in cui convivono visioni differenti del vivere insieme e del patto costituzionale”. Il pensiero che si sviluppa attraverso il dialogos è la ragione dialettica che si contrappone al dogma. Il dialogos è apertura verso l'orizzonte del possibile e verso la modificabilità del mondo. L'unicità del pensiero (il Logos) non è più la sostanza originaria del mondo, intorno alla quale si costruisce un'identità definita e ben perimetrata, ma essa è immersa in un mondo mescolato e plurale, contagiata e alterata dal divenire sociale e storico. Il pensiero dialettico diventa il principio di mobilitazione interna che sollecita un divenire continuo dell'individuo, a seguito del quale l'identità non è mai la stessa ed è in stato di continua metamorfosi ed alterazione: con il dialogos l'identità diventa uscire da sé stessi per orientarsi verso il divenire e la trasformazione dell'esistente. L'alterazione e il divenire, quindi, costituiscono i modi esistenziali per la composizione dell'identità. «L’unico nucleo d’identità destinato sicuramente a emergere illeso dal cambiamento continuo è quello dell’homo eligens - l’uomo che sceglie – ma che non ha già scelto, di un Io stabilmente instabile». 2. Ordine e potere L'ordine costituisce il modello di vita a cui si ispira il comportamento del singolo o del gruppo. L'ordine si costituisce attraverso una sequenza di fattori che si collegano mediante nessi variabili ma in funzione della composizione di un paradigma di vita. Il primo fattore costitutivo della nozione di ordine si rinviene nei segni utilizzati per trasferire informazioni. I segni assumono il carattere di «significante» che trasferisce il contenuto informativo, ovvero il «significato». Questi segni hanno, quindi la funzione di trasferire informazioni affinché poi vi sia la fase di elaborazione soggettiva. Anche i segni seguono un ordine in base al quale si collegano, ovvero la sintassi. La conservazione dei segni e della sintassi nel tempo consolida il patrimonio di conoscenze, per cui la semantica (ovvero la capacità dei segni di veicolare informazioni) dipende dalla stabilità dei segni e della loro sintassi. Le regole di impiego dei segni dipendono dalla comune esperienza: segni e sintassi si producono in un contesto necessariamente collettivo. L'attuazione dei comportamenti richiesti dai simboli è affidata ai rituali, ovvero un procedimento che definisce il comportamento di individui e gruppi secondo atti predeterminati da regole comuni. Il nucleo del rituale consiste nel raggiungimento di uno standard. Nei gruppi primordiali, i rituali mostrano una tendenza statica alla conservazione di valori sacralizzati nella mitologia; nei gruppi più evoluti, il rito assume caratteri più complessi in relazione all’esigenza dinamica di trasformazione e sviluppo espressa dalla comunità. L'osservanza del rito è assicurata dall’azione dell’autorità, ovvero istituzioni costituite dalla comunità alle quali gli individui si assoggettano per realizzare scopi comuni e per il governo di attività organizzate. Le autorità vigilano sul rispetto del rituale e se vi è una deviazione non ammessa, l’autorità interviene per riportare il comportamento individuale alla logica del rituale, anche attraverso l’uso della forza. Il tratto qualificante dell’autorità consiste nel tracciare un confine tra uso legittimo della forza e coercizione illegittima. L'ordine collettivo si costituisce attraverso la sequenza «simbolo - rituale - autorità». Il simbolo esprime le regole prescrittive che ispirano le scelte comportamentali della collettività. Il rituale definisce la sequenza predeterminata di atti a cui i singoli ed i gruppi devono adeguarsi per il rispetto dei simboli. Le autorità assicurano che i rituali ed i simboli siano rispettati dai singoli e dai gruppi. Dunque, i comportamenti dei membri della comunità vengono ricollegati funzionalmente all'osservanza delle finalità espresse e perseguite dalla comunità medesima. L'ordine collettivo si manifesta secondo due possibili forme espressive, ovvero: - Il Nomos, l'ordine condizionante espresso da regole precettive (quindi aventi un contenuto vincolante), perlopiù identificabile con l'ordine istituzionale e giuridico della comunità; - L'Ethos, l'ordine programmatico definito da regole di comportamento di generale rilevanza, sostenuto da precetti morali e regole di persuasione (anche identificabile con l'etica o la morale del gruppo). Le due forme sono distinte essenzialmente in ragione del ruolo dell'autorità. Nel Nomos l'autorità è attribuita ad istituzioni ben definite, esternamente riconoscibili e dotate di poteri coercitivi e sanzionatori. Nell'Ethos, invece, l'autorità non è identificabile in istituzioni specifiche, in quanto corrisponde alla coscienza comunitaria ed è dotata di una capacità di controllo e di sanzione che viene esercitata attraverso la valutazione morale dei comportamenti dell'individuo nella società e l'eventuale riprovazione e perdita di stima. Ethos e Nomos concorrono alla formazione della coscienza comune del gruppo e ne esprimono l'identità culturale. Il potere è coessenziale all’ordine, in quanto la sequenza costitutiva dell’ordine presuppone l'esercizio di un potere: la stessa percezione di trovarsi di fronte ad un ordine presuppone il riconoscimento di un sistema di potere. Nell’ordine collettivo il potere si concentra nella fase dell’autorità, laddove viene assicurata la vigilanza e il ripristino dell'ordine costituito. Il potere esprime la capacità di trasformare la realtà, in particolare di indurre comportamenti, anche attraverso l’uso della forza: è uno strumento giuridico che incide sui comportamenti orientandoli al rispetto dell’ordine costituito. Si distinguono potere esercitati nel nome proprio e poteri esercitati in nome di un interesse altrui o oggettivo; questi ultimi sono poteri esercitati in funzione dell’ordine collettivo e quindi vincolato al bene comune e all’interesse pubblico. In questo ambito si pongono i poteri tutelatori indirizzati a conservare i comportamenti individuali in caso di deviazione e i poteri conformativi in cui la trasformazione del rituale costituisce un processo di adattamento. Il potere è uno strumento diretto a garantire l’ordine, a prescindere dal metodo usato (Logos o Chaos), in quanto il potere è neutrale rispetto al concetto di ordine. Il potere, quindi, si collega al Logos per assicurare la conservazione di un ordine stabilizzato in regole di coesistenza. Il potere, in questo caso, si riferisce alle legature sociali, ovvero quelle connessioni fra i soggetti mediante le quali si compone l’ordine sociale. Il potere vuole preservare il Logos e reprimere i comportamenti dissonanti: il potere correlato al Logos garantisce il funzionamento dell’ordine sociale dominante, per cui si garantisce il dominio del Noi rispetto all’Io e la sottomissione dell’Io al Noi. Ma il potere può anche collegarsi al Chaos. In questo caso il potere si esprime come resistenza al potere del Logos e favorisce la trasformazione del paradigma di vita secondo modelli innovativi che si sostituiscono all’ordine costituito. Questo diverso ordine si forma sulla base delle anomalie espresse dal singolo Io o da gruppi che non si indentificano nel Noi convenzionale. Il potere espresso dal Chaos asseconda la liberazione dell’Io e favorisce le peculiarità della sua dimensione esistenziale. 3. La fenomenologia del potere La fenomenologia del potere si esprime mediante alcune forme tipiche, definite forme antropologiche primarie: - Il potere di offendere gli altri organismi viventi esercitando violenza; - Il potere strumentale, ovvero di formulare minacce e promesse, quindi di indurre comportamenti; - Il potere normativo, ovvero il potere di stabilire una norma come regola comportamentale; - Il potere di modificare lo stato delle cose. Le manifestazioni del potere possono avere effetto interno, quindi permanere nella sfera di chi lo esercita, o effetto esterno, quindi riguardare anche soggetti terzi, a seconda che il potere venga esercitato in pubblico o in privato. Il potere può essere inteso come «potenza» o Macht, ovvero come volontà che si impone al destinatario anche contro la sua volontà, o come «dominio» o Herrschaft, ovvero come possibilità di trovare obbedienza rispetto ad un comando. Il potere di offendere è l’elemento fondante della comunità: la paura che l’altro possa colpire fa nascere l’esigenza di forme di organizzazione che garantiscano la tutela della vita anche attraverso la forza. L’ordine sociale, quindi, nasce dell’istanza di protezione dalla violenza esterna. Allo stesso tempo, si deve contenere la violenza interna al gruppo definendo le regole di autolimitazione del potere di offendere: queste regole sono un fattore fondamentale dell’esperienza sociale. Il potere strumentale consiste nel potere di esprimere minacce e promesse: le minacce inducono comportamenti mediante la paura, mentre le promesse promuovono comportamenti tramite la speranza. L'individuo deve compiere una scelta di comportamento fra un’alternativa (aut-aut) e il comportamento conforme all’ordine evita la punizione minacciata o ottiene il premio promesso, quindi comporta un beneficio. Minacce e promesse sono molto efficienti, in quanto garantiscono il rapporto sociale mediante il controllo della paura o della speranza. Il potere normativo definisce lo standard della vita collettiva in grado di orientare il comportamento del singolo. L'adeguamento allo standard esprime la conformità all’ordine del gruppo e, quindi, risponde all’esigenza di essere socialmente riconosciuto come appartenente alla comunità. Il potere normativo è usato per formare il Nomos, ovvero l’ordine giuridico: il potere normativo è lo strumento essenziale per regolare l’agire. Il potere come agire tecnico si presenta come modificare o produrre: è un’attività volta alla trasformazione del reale. L'agire tecnico esprime «un potere di stabilire dati di fatto nuovi rispetto a quelli pre-esistenti». L'agire tecnico produce anche effetti esterni, in quanto non riguarda solo il soggetto che esercita il potere ma anche gli altri soggetti del mondo. Una questione fondamentale è la relazione dialettica fra potere e diritto. Vi sono due visioni contrapposte: - Il potere costituisce e prevale sul diritto. Si tratta di una visione che ha avuto prevalenza dagli Stati dell’antichità fino allo Stato assoluto, per cui la sovranità era intesa come potere assoluto. Il potere è matrice del diritto e si afferma che «il diritto è il potere del più forte»; - Il diritto fonda e regola il potere. Visione che si è affermata a seguito delle rivoluzioni del XVIII sec e dell’affermazione dei diritti fondamentali, per cui il potere sorge nell’ambito di un ordinamento giuridico che stabilisce garanzie e procedure per perseguire il bene comune. Il potere è derivata del diritto. Comunque sia, il potere è uno dei fondamentali meccanismi di dominazione all’interno di un gruppo organizzato. 4. Autorità e potere Il potere è un fattore di coesione sociale del vivere insieme. La sequenza costitutiva dell’ordine (simbolo-rituale-autorità) presuppone l’autorità come elemento costitutivo. All'autorità viene attribuito il potere necessario per garantire l’attuazione del simbolo e del rituale, ovvero le viene attribuito il potere di offendere, il potere strumentale per guidare il comportamento dei membri e il potere normativo per stabilire lo standard della vita collettiva. Il potere deve essere ovviamente distinto dalla violenza che è solo in grado di distruggere e non di creare. L'autorità viene riconosciuta dal gruppo come un’istituzione e il processo di istituzionalizzazione si qualifica per il fatto che il potere è spersonalizzato (è attribuito a prescindere dalla persona che ricopre la funzione), il potere è formalizzato e il potere è coerente con i principi e le regole dell’ordine collettivo. Come istituzione l’autorità si lega alla struttura dell’ordine collettivo prescindendo dall’arbitrio individuale. L'autorità è riconosciuta dai membri del gruppo come istituzione preposta all’esercizio del potere per tutelare l’ordine collettivo e, allo stesso tempo, i membri della collettività vogliono essere riconosciuti come persone che agiscono in modo conforme all’ordine collettivo. Dunque, il rapporto di autorità si basa su un doppio processo di riconoscimento e il potere deriva da questo duplice riconoscimento dell’autorità. L'autorità implica ma non coincide con il potere. L'istituzionalizzazione del potere attraverso l’autorità consente la stabilizzazione della comunità: l’autorità è dotata di potere per perseguire le finalità assegnate dalla comunità. Le distinzioni dell’autorità sono basate sulla dimensione del potere: - L'autorità legale si fonda sul potere giuridico definito nel Nomos; - L'autorità tradizionale si collega al potere di persuasione espresso dalle formule sacralizzate nell’Ethos; - L'autorità carismatica si fonda sul potere di convincimento del singolo individuo che si pone come «guida» di un gruppo. In quanto funzionale alla tutela dell’ordine, il potere dell’autorità si distingue in: - Poteri tutelatori, assicurano il controllo e la vigilanza sul comportamento individuale nel rispetto degli standard. Si assicura una dimensione statica dell’ordine. - Poteri conformativi, esprimono la capacità di modificare e trasformare gli standard in base al processo di evoluzione della mitologia collettiva. Garantisce la dimensione dinamica dell’ordine. L'autorità si fonda sulla forza originaria ritratta all’interno della comunità, è un dato primitivo. Uno dei tratti qualificanti del modo di esercitare il potere da parte dell’autorità è la segretezza dei fini e delle tecniche per raggiungere le stesse, escludendo così il giudizio sui modi di esercizio del potere. Il potere, quindi, si isola rispetto alla comunità diventano auto-referenziale. 5. L'evoluzione del potere nella Storia Ci si deve porre la domanda: quali soggetti, all’interno del gruppo, sono chiamati a formulare decisioni di sistema? Chi compone l’autorità? L'oligarchia dominante assume su di sé la funzione di guida, tanto che «le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti». La superiorità di una ristretta classe dominante sulla grande massa dei dominati è definita dalla concentrazione e accumulazione del potere, il controllo delle autorità e la definizione delle regole dell’ordine sociale. A tal fine le varie «anime» della classe dominante trovano punti d’incontro per negoziare ruoli e le attribuzioni di potere. Nel corso della storia, l’oligarchia dominante ha assunto modi diversi di esprimere la sua relazione con l’ordine e per ogni fase storica si può individuare un modo diverso di manifestarsi della relazione di potere espressa dall’oligarchia sui dominati. Per lungo tempo, la comunità si è incentrata su un corpo di élites, che si possono definire Buone Società, che rivendicavano il monopolio del pensiero. Nelle comunità primordiali, si aveva un assetto di società ternaria articolata su tre classi sociali: - I sacerdoti ricostruivano la mitologia collettiva collegandola al sacro e stabilendo i simboli e rituali; - I guerrieri fissavano i simboli e rituali civili per organizzare la collettività secondo regole di divisione di lavoro; - I lavoratori erano la classe più numerosa e garantivano la sopravvivenza della comunità fornendo i mezzi per l’assolvimento dei bisogni primari. Si sviluppava una mitologia funzionale a consacrare la superiorità naturale delle due classi dominanti. Il potere veniva esercitato dal sovrano e dalla classe dominante attraverso il «diritto di spada», ovvero un potere assoluto di vita e di morte funzionale a mantenere la terra nelle mani dell’oligarchia dominante. Nelle comunità della fase più evoluta, ma ancora antica, si ripropone lo stesso schema di ordine collettivo e le due classi che governano sono la derivazione dei guerrieri e dei sacerdoti: - L'aristocrazia acquisisce la sua forza dall’accumulo del potere militare; - Il clero mantiene il rapporto con le divinità; - Il popolo è la classe più numerosa e svolge il lavoro manuale per garantire la sopravvivenza e lo sviluppo della comunità. L'ordine collettivo era definito tramite simboli e rituali religiosi e civili e il potere di governo, che ricomprendeva il potere di offendere il potere strumentale e il potere normativo, era affidati a queste due classi. Si trattava di un potere che richiedeva obbedienza assoluta. Nel Medio Evo, l’esigenza primaria era la difesa della vita. Ciò ha portato a chiudere le mura e il gruppo si presentava come un ordo conclusus nel quale ogni individuo aveva un ruolo fissato e non modificabile. La comunità si orientava verso modelli sociali statici. Con la produzione di un surplus di ricchezza emerge, però, il bisogno di uscire dall’ordo conclusus e portare ricchezza al di fuori dello stesso. Il commercio genere una nuova classe sociale che accumula ricchezza. I commercianti e borghesi riescono a stabilire forme di alleanza con i detentori del governo della comunità, clero e aristocrazia, ma non riescono ad intervenire nei processi di formazione dei simboli e dei rituali: ai commercianti si riconosce una posizione collaterale di vantaggio ma non è riconosciuto il potere che fonda l’ordine collettivo. L'assetto della comunità cambia con lo Stato-nazione, in quanto viene superata la distinzione fra classi sociali e il potere di governo viene tolto all’aristocrazia e al clero per essere affidati alle istituzioni dello Stato-nazione. Dunque, simboli e rituali vengono stabiliti dalle istituzioni statali a cui viene attribuita anche la funzione di vigilanza e sanzione dell’autorità. L'ordine collettivo è fissato dallo Stato-nazione come grandezza collettiva autonoma rispetto agli impulsi egoistici di classi sociali prepotenti. Appare una nuova classe sociale: la burocrazia composta da servitori professionali dello Stato-nazione. Il potere di governo si spersonalizza, in quanto viene affidato all’apparato burocratico, impersonale, istituzionalizzato, stabile. Il singolo funzionario non può sottrarsi allo svolgimento dei suoi doveri d’ufficio, per cui il potere di governo si realizza mediante l’esercizio di doveri d’ufficio dell’apparato burocratico. In questo modo si ha il livellamento della massa dei dominati ad esecutori dei doveri di soggezione. L'attribuzione del potere di governo alla burocrazia permette la fondazione di un ordine sociale burocratizzato, per cui i dominati non possono fare a meno dell’apparato di potere. Nei tempi recenti, si assiste all’erosione della sovranità dello Stato-nazione a seguito della globalizzazione e dello sviluppo di un nuovo ordine e di conseguenza il controllo delle risorse economiche è attribuito alle forze che dirigono il mercato globale. I vertici di questi nuovi centri di potere sono i managers, i quali compongono la classe dominante della società moderna e l’accesso a tale classe è solo apparentemente libero. 6. Oligarchia dominante e potere Nella comunità, la piramide sociale è determinata mediante il rapporto con i mezzi di produzione e la proprietà come diritto convenzionale implica il controllo dei fattori della produzione. Nella struttura sociale di una comunità si individua un gruppo di comando che è il titolare dei mezzi di produzione e che controlla il lavoro degli altri membri del gruppo. Si determina la divisione sociale fra i titolari della proprietà e i lavoratori: i pochi titolari della proprietà dei fattori della produzione dettano le condizioni della produzione economica ai molti lavoratori. In proprietari dei fattori della produzione compongono la classe agiata che assume il governo della comunità e diventa oligarchia dominante: ciascun appartenente di tale classe agiata si identifica con il proprio ruolo di soggetto dominante e portatore di Logos. La proprietà privata non garantisce, però il possesso di beni che migliorano la qualità della vita ed elevano l’Io, ma è un fattore che garantisce esclusivamente l’appartenenza alla classe agiata e quindi assicura onore e rispettabilità. Accumulare la proprietà garantisce un ruolo sociale crescente: l’accumulazione serve a distinguere i gradi della forza dei vari soggetti all’interno della classe agiata e consente l’ingresso di nuovi soggetti alla classe agiata. La proprietà diventa, quindi, simbolo della transizione sociale ed emblema di una posizione sociale. Allo stesso tempo, la proprietà produce un confronto antagonistico fra i membri del gruppo. L’astensione dal lavoro diventa segno dell’agiatezza e la vita quotidiana si riempie di funzioni istituzionali connesse alla gestione dell’autorità e di attività del tempo libero. I comportamenti sociali sono caratterizzati dall’appropriazione dall’accumulo della proprietà e dalla conseguente astensione dal lavoro. Si forma un codice delle buone maniere come paradigma dei rapporti sociali ispirato alla dimensione della classe agiata, ma che viene imposto all’intera comunità e le violazioni del codice sono considerate odiose. Le classi inferiori non avvertono mortificazione nell’assegnazione del compito della produzione economica, anzi trovano il senso della loro vita e l’onore sociale nello svolgimento corretto ed efficiente del lavoro assegnato dalla comunità. La classe lavoratrice non può e vitare il lavoro, ma adotta modelli di vita emulatici di quelli della classe agiata in riferimento al tempo libero. Si genera una classe agiata sussidiaria, ovvero la classe media, che produce una rappresentazione parziale e derivata dell’agiatezza dell’oligarchia dominante. La diversità fra le classi sociali, quindi, è da riportare al diverso ruolo che queste assolvono nella comunità. La classe agiata fissa le regole della produzione e di conseguenza l’ordine sociale. La classe agiata definisce la sequenza costitutiva dell’ordine e forma, fra i propri membri, le autorità che fanno rispettare il paradigma del vivere comune: la classe agiata individua l’ordine e assume il potere per far rispettare tale ordine. Il potere garantisce all’oligarchia dominante la capacità di stabilire la direzione verso la quale si muove il gruppo ed è l’attributo necessario per consentire di assumere la responsabilità del destino collettivo. Potere e responsabilità costituiscono il binomio che fonda l’assunzione del ruolo di governo in capo all’oligarchia dominante. L'oligarchia dominante non può assumere un ruolo «a tempo» che si esaurisce in un tempo predeterminato, ma richiede un ruolo stabile e duraturo nel tempo che sia in grado di rinnovarsi in base ai cambiamenti del vivere comune. Occorre assicurare la stabilizzazione del potere attribuito all’oligarchia dominante per assicurare questa continuità della funzione di guida: si necessitano meccanismi idonei a garantire la stabilità dell’assegnazione. In una prima fase, l’oligarchia dominante viene formata su base elettiva o comunque attraverso un processo di selezione meritocratica che fa emergere i migliori individui. Successivamente, l’oligarchia attenua il senso di responsabilità ed enfatizza il potere: la funzione di guida viene presentato come un attributo naturale dell’oligarchia e il potere è un elemento costitutivo della stessa. L'appartenenza all’oligarchia si tramanda di generazione in generazione e l’oligarchia si trasforma in una casta chiamata per vocazione naturale o religiosa al governo del gruppo. La classe agiata tende alla conservazione dello status quo nel quale riveste un ruolo dominante: celebra l’ordine esistente e promuove il Logos come elemento essenziale di rispettabilità ed onore. Il Chaos, come stravolgimento degli assetti consolidati, viene gravemente criticato e presentato come no stadio di pericolo che mette in discussione la sopravvivenza dell’individuo. 7. Sovranità, funzione fiscale e diseguaglianze La capacità di realizzare attività pubbliche a vantaggio dei membri della comunità dipende dalla quantità e tempestività delle risorse finanziarie necessarie per svolgere tali attività. Nello Stato, le entrate derivano principalmente dai tributi. La funzione primaria della fiscalità è acquisire un flusso di entrate stabili da mettere al servizio delle varie esigenze di spesa della collettività e individuate dal bilancio pubblico. Questa funzione strutturale della fiscalità vuole garantire l’equilibrio finanziario dei conti pubblici. Una funzione secondaria è la ripartizione del carico fiscale fra i vari consociati secondo una logica di solidarietà sociale e di equità distributiva al fine di correggere la naturale distribuzione delle risorse per favorire la parità di opportunità per tutti i consociati. Vi sono altre funzioni collaterali della fiscalità riconducibili a finalità ulteriori, ad es. funzione disincentivante o di promozione per alcune attività economiche. Le funzioni collaterali, però, assumono un carattere recessivo in quanto l’appartenenza dello Stato ad organismi sopranazionali (UE) limita il potere degli Stati di usare i tributi come fattori di conformazione del sistema economico. La funzione fiscale viene realizzata tramite poteri pubblici, ovvero: - La potestà normativa, riguarda la capacità di introdurre o modificare norme di natura fiscale nell’ordinamento giuridico, quindi è un potere di carattere innovativo. Questa potestà si esercita nel rispetto dei principi fondamentali. La potestà normativa, inoltre, si esercita in modo diverso a seconda dell’ordinamento tributario di riferimento (Stato, enti locali, UE). - La potestà amministrativa, si collega all’esigenza di funzionamento delle norme stabilite in astratto affinché le prestazioni fiscali siano in concreto attuate. È un potere di carattere tutelatorio in quanto funzionale a realizzare e tutelare le condizioni giuridiche esistenti. L'esercizio di tale potere è rimesso agli apparati amministrativi che garantiscono il corretto adempimento degli obblighi fiscali. La potestà amministrativa risponde a un modello unitario conforme alle regole di buona amministrazione, ovvero il principio di trasparenza e di legalità, di conseguenza questa potestà si atteggia in modo uniforme per ciascuna collettività. Il principale potere tributario è la potestà normativa che può essere distinta in tre parti: - I principi generali della funzione fiscale, riguardano sia la fase normogenetica sia la disciplina sostanziale indicando i parametri da assumere nell’esercizio del potere tributario; - Il sistema tributario, fornisce i criteri logici per ricostruire la fattispecie normativa e gli effetti giuridici; - L'attuazione dei tributi, contempla la disciplina della liquidazione, dell’accertamento, della riscossione, delle sanzioni e del contenzioso. La struttura della norma fiscale mantiene caratteri comuni per ogni comunità, ciò che distingue i vari ordinamenti (Stati, enti locali, UE) sono i principi generali in quanto espressione di assetti di interessi diversi. Dunque, la funzione fiscale si esprime con modalità differenziate a seconda dell’ordinamento giuridico di riferimento: - Nel Welfare State, la funzione fiscale risponde ai principi dell’interesse fiscale e della capacità contributiva; - Negli enti locali, la funzione fiscale si rapporta al principio del beneficio; - Nell'UE, prevale la logica liberistica per cui si parla di fiscalità negativa. È nello Stato democratico che la fiscalità ha una portata prevalente in quanto assolve ad un compito essenziale del patto democratico incidendo sui diritti fondamentali dell’individuo. Il potere tributario si collega all’idea di Stato: le regole che disciplinano l’esercizio della funzione fiscale sono destinate a stabilire un’organizzazione dell’attività collettiva idonea a garantire l’acquisizione di flussi finanziari allo Stato. Si tratta di un’espressione del potere collegata al Logos come ordine acquisito da una comunità. La capacità fiscale dello Stato esprime la visione dell’ordine sociale che si vuole promuovere. Il Logos cambia in ragione dell’esercizio del potere tributario assumendo diverse connotazioni istituzionali: in una prima fase, si ha uno Stato minimo che svolge poche funzioni del vivere insieme in quanto la sua capacità fiscale è ridotta; successivamente, si è affermato uno «Stato guardiano notturno» che assume le funzioni di polizia e di ordine interno per garantire la sicurezza del vivere insieme; infine, con il Welfare State si è predisposto un modello di prestazioni fiscali in grado di garantire una piattaforma di servizi pubblici. La fiscalità riflette le ideologie dell’oligarchia dominante, in quanto strumento di realizzazione dei modelli di ordine della società e quindi uno strumento di governo. Fino al periodo pre-industriale, l’esazione dei tributi era vista in chiave protettiva della proprietà fondiaria; con l’affermazione di modelli sociali capitalistici, la funzione fiscale è stata riferita allo sfruttamento dei fattori produttivi. Oggi, la politica fiscale risponde alla visione della classe dominante sui mercati globali, orientata verso la massimizzazione della propria ricchezza. Il generale perseguimento degli obiettivi della comunità viene realizzato tramite la selezione dei bisogni secondo la scala delle preferenze scartando i bisogni non prioritari. Le decisioni assunte in materia fiscale sollevano problemi di giustizia distributiva in quanto definiscono i criteri mediante i quali è ripartito l’onere tributario. La funzione fiscale definita ed attuata secondo gli interessi dell’oligarchia dominante ha comportato la discriminazione fra i lavoratori e i titolari della ricchezza, producendo una società caratterizzata da profonde diseguaglianze. Il tema della diseguaglianza è uno dei tratti qualificanti del potere tributario. Con il Welfare State, il tema dell’eguaglianza sociale ha innervato le ragioni del vivere insieme. Capitolo secondo: Il potere tributario nell’antichità 1. La funzione fiscale La civiltà occidentale si è sviluppata nell’antichità a partire dalla zona mediterranea, infatti i primi popoli di cui sono documentate le istituzioni comunitarie erano collocati in territori limitrofi al Mar Mediterraneo. In questi popoli la formazione di assetti organizzativi volti alla protezione del bene comune ha determinato forme di gestione delle risorse collettive che rappresentano i preliminari della funzione fiscale dello Stato. In relazione all’antichità si pone il problema delle fonti, ma sull’esercizio della funzione fiscale vi sono numerose e ricorrenti notizie tratte da documenti antichi il che ci consente di comprendere il ruolo rilevante della funzione fiscale anche in questi popoli. Lo schema ricorrente della fiscalità nelle comunità antiche è individuabile nella determinazione dei tributi posti a carico delle popolazioni assoggettate a seguito di guerre. Si trattava, principalmente, di prestazioni in natura prelevate dalle attività economiche svolte nei territori occupati. Sovente, insieme ai tributi si mischiavano oggetti di valore che erano donati dalle autorità locali allo Stato vincitore come forma di ringraziamento o di deferenza. Dunque, la nozione di tributo ricomprendeva non solo prestazioni obbligatorie ma anche liberalità. Non rilevante, invece, il peso dei contributi pagati al sovrano per l’uso di bene, ad es. i terreni, in quanto si trattava di beni di appartenenza del sovrano stesso. Alla logica della finanza propria del sovrano può, però, collegarsi la pratica dei doni che gli oligarchi portavano al monarca (ad es. nelle città elleniche): si trattava di donazioni remuneratorie che compensavano il sovrano degli anni e oneri sostenuti nell’interesse comune. Si trattava di contribuzioni che avevano una natura morale e personale, non giuridica. Ruolo centrale nella finanza pubblica era assunto dal «tesoro del sovrano», frutto della politica di accumulazione di metalli preziosi a seguito del bottino di guerra o dei doni dei popoli sottomessi e, in un momento successivo, dei tributi versati dai sudditi. Fintantoché il tesoro del sovrano rimase integro, il potere dello Stato nei confronti delle varie articolazioni territoriali era consolidato; quando tale potere cominciò a perdere consistenza, i potenti locali persero la dipendenza dal potere sovrano. Il fenomeno tributario nell’antichità era regolato mediante atti di mero esercizio del potere sovrano: l’istituzione e la modificazione del tributo avvenivano in base a una decisione unilaterale del sovrano senza alcuna composizione degli interessi collettivi. Il tributo era l’espressione del potere incondizionato del sovrano ed era collegato al dominio assoluto sui sudditi. 2. La funzione fiscale in Mesopotamia In Mesopotamia, l’economia di carattere agrario richiedeva un’organizzazione di tipo collettivistico per garantire la realizzazione e la manutenzione delle infrastrutture necessarie per l’irrigazione e la tenuta dei campi.: la supremazia del monarca era basata sulla capacità di assicurare soluzioni tecniche ai problemi di sistemazione delle acque. L'esigenza di costruire e mantenere dighe e canali caratterizzò le monarchie di Babilonesi e Assiri, le quali chiedevano tali corvées al popolo e alle popolazioni conquistate. Infatti, l’obbligo di prestare un servizio al sovrano era indissolubilmente legato alla terra: il diritto di proprietà venne qualificato come un diritto relativo tale per cui sorgeva un obbligo di prestare lavoro per i bisogni della collettività. Successivamente, si diffuse il meccanismo dell’appalto delle imposte: per assicurare stabilità alle entrate dello Stato, l’appaltatore assumeva il pagamento del tributo e veniva ripagato dai contribuenti con altri prodotti in misura maggiore (sul piano giuridico questo fenomeno non è adeguatamente conosciuto). Dunque, il fabbisogno dello Stato era garantito da corvées e tributi in natura. Le prestazioni lavorative erano richieste sia ai cittadini sia alle popolazioni conquistate, ma si prevedevano immunità e privilegi per i cittadini. Le principali prestazioni lavorative riguardavano la costruzione e manutenzione di dighe e canali, ma potevano anche estendersi ad opere religiose. Per gli uomini in età adeguata si prevedeva l’obbligo del servizio militare, tutti coloro che non potevano prestare tale servizio, incluse le donne, dovevano pagare un’imposta personale che sostituiva la prestazione del servizio militare. I tributi riguardavano la proprietà dei terreni ed erano pagati in grano direttamente alle casse dello Stato; successivamente, anche i templi, avendo diritti proprietari sui fondi, potevano raccogliere tributi. Vi erano anche tributi sul commercio di alcuni prodotti e sull’allevamento. Il sovrano controllava l’esazione dei tributi prestando attenzione al rispetto degli stessi da parte dei contribuenti nei vari anni. L'organizzazione amministrativa era articolata sul territorio secondo un’articolazione in 20 distretti, ognuno dei quali aveva un proprio governo locale ed era responsabile dell’esazione dei tributi. 3. Il potere tributario in Egitto nell’epoca dei faraoni L'antico Egitto era un paese ad economia agricola e l’organizzazione dello Stato era funzionale alla gestione del territorio: vi era un forte apparato burocratico e la popolazione era reclutata al fine di realizzare e conservare le opere idrauliche. L’individuo si presenza come un servitore dello Stato e del faraone e il suo rapporto con lo Stato si configura secondo una formula fiscale per cui chiunque possiede un terreno o svolge un’attività economica deve effettuare una prestazione a favore delle casse pubbliche (imposte fondiarie o imposte sui prodotti dell’attività); tutti gli altri abitanti devono fornire prestazioni di lavoro per i bisogni collettivi. La ragione fiscale è elemento fondante delle istituzioni e dei rapporti sociali. Per quanto concerne le entrate tributarie, dal Nuovo Regno, la maggior parte delle entrate per lo Stato era rappresentata dalle tasse. Enormi tasse annuali ricadevano su coloro che svolgevano attività economiche: lavoro significava anche tassa. I contribuenti versavano la prestazione in natura alle istituzioni presenti a livello locale, le quali, trattenuta una parte per sé, riversavano tali risorse alle casse dello Stato. La tassa più importante era quella sul raccolto, fissata nella metà del raccolto: ogni anno si misurava la capacità contributiva del terreno su cui commisurare la tassa. Vi era poi la tassa sul bestiame fondata sul censimento delle greggi. Questi tributi erano indicati in appositi registri delle tasse che contenevano i risultati del censimento. Si prevedevano anche tasse sulla produzione e sulla vendita di beni di consumo e tasse sulla caccia, da pagare in selvaggina. Non esistevano immunità per classi sociali: l’onere tributario era generalizzato e l’inadempimento era penalizzato anche con misure personali. Inoltre, sin dall’Antico Regno, si prevedeva in capo ai sudditi l’obbligo di prestare corvées lavorative sia per realizzare e conservare le opere idriche sia per i progetti monumentali del faraone. Si affermarono anche prestazioni obbligatorie di coltivazione del suolo per conto del faraone: il diritto alla terra era il corrispettivo dell’obbligo di prestare lavoro verso il faraone. Queste prestazioni erano distribuite fra i vari membri della comunità dal nomarca, un funzionario statale. Nel Medio Regno, si formarono comunità feudali governate da aristocratici che prelevavano direttamente le corvées al posto del faraone. L'organizzazione amministrativa era parzialmente decentralizzata. Il visir, cancelliere del re, sovrintendeva gli affari politici ed economici del regno e gestiva la ricchezza dello Stato (successivamente, si sono previsti due visir). Il dipartimento governativo più importante era il dipartimento del tesoro, che svolgeva funzioni di controllo contabile. A capo del dipartimento del tesoro vi erano due ispettori che collaboravano con i due visir. Vi erano poi altre strutture amministrative quali l’ufficio centrale dei grani e del bestiame. I nomarchi erano funzionari locali che si occupavano dell’adempimento degli obblighi fiscali ed era prevista una responsabilità solidale dei nomarchi per il gettito atteso da ciascuna unità in base al catasto. Per garantire la reperibilità a fini fiscali ogni abitante del regno doveva iscrivere la propria residenza presso un registro ufficiale e se non si adempieva era prevista una sanzione. 4. La finanza pubblica in Grecia Nella Grecia antica e nell’esperienza delle città-Stato mancava una disciplina della finanza pubblica e mancava anche un’amministrazione finanziaria. Le entrate dipendevano da meccanismi estemporanei di carattere predatorio (bottini di guerra) o da forme di contribuzione liberale. In via episodica erano previste contribuzioni sotto forma di prestazioni di lavoro connesse ad opere straordinarie. Anche l’esercito strutturato e stabile era fondato su corvées a carico della popolazione. Ad Atene, la politica finanziaria della città era rimessa alle decisioni dell’assemblea e regolata dal consiglio. Le entrate confluivano nel tesoro di Athena, un fondo utilizzabile in casi di emergenza. Non si prevedano, stabilmente, imposte dirette sulla popolazione: in via straordinaria, imposte dirette vennero previste per finanziare l’attività bellica durante la Guerra del Peloponneso contro Sparta. In tal caso, venne introdotta una tassa patrimoniale di carattere progressivo, denominata eisphora, che assoggettava a tassazione i cittadini in misura crescente in relazione all’aumentare del patrimonio. Il provvedimento normativo che introdusse tale imposta aveva un carattere di assoluta eccezionalità e si prevedeva una procedura speciale anche solo per la presentazione della proposta di eisphora. Successivamente, il sistema dell’esphora venne modificato con l’introduzione del meccanismo delle simmorie: i contribuenti venneo classificati in base al patrimonio personale in 20 classi omogenee per censo (denominate simmorie) e il capo di ogni simmoria raccoglieva l'importo complessivo per versarlo alle casse statali. Il prelievo rimaneva eccezionale ma veniva ripartito sui cittadini in base alla capacità economica. Un'imposta diretta era, invece, prevista per gli starnieri residenti, ovvero i meteci. Molto utilizzate erano invece le imposte indirette, ad es. i dazi sulle importazioni o esportazioni, le imposte sui mercati. La maggior parte delle entrate pubbliche derivava, però, da fonti non tributarie quali le ammende, i proventi della vendita dei beni sequestrati, i contributi ricevuti dagli alleati. Inoltre, alcune spese di interesse pubblico erano sostenute direttamente da alcune categorie di cittadini, ad es. il gymnasiacha funzionale al sostenimento delle competizioni atletiche. Si trattava di prestazioni, definite liturgie, inizialmente volontarie e libere poi trasformate in meccanismi di finanziamento permanente dei bisogni collettivi richiesti ai cittadini appartenenti a categorie privilegiate. Durante la guerra contro la Persia, si formò una lega di città-Stato che riconoscevano in Atene il ruolo di guida: le città-Stato versavano dei contributi, definiti phoroi, in una cassa comune tenuta, prima presso il tempio di Apollo a Delo e successivamente ad Atene presso il tempio di Atena. Sull'acropoli di Atene erano erette stele di pieta in cui venivano registrati i contributi versati alla cassa comune: erano le liste dei tributi. Si trattava di contributi in natura, navi e forze militari, o di prestazioni in denaro. Inizialmente, si trattava di contributi su base volontaria; successivamente, Atene chiese contribuzioni di carattere obbligatorio sempre maggiori. Questo modello di contributi versati da città- Stato in favore di Atene venne replicato anche per altre esigenze, soprattutto religiose (ad es. si chiedeva un contributo annuale per l’organizzazione di feste in onore di Dionisio). Il pagamento dei contributi dalle città-Stato venne considerato espressione del ruolo dominante di Atene. Per quanto riguarda il pensiero filosofico, questo si è poco interessati della fiscalità. Secondo Platone, la fiscalità deve avere una finalità redistributiva in quanto la diseguaglianza delle condizioni economiche è il principale ostacolo per raggiungere un assetto pacifico. Dunque, colui che accumula un livello di ricchezza che eccede di quattro volte il livello di ricchezza base, ovvero il censo, deve rimettere allo Stato l’eccedenza. Secondo Aristotele, invece, si ispira alla promozione del merito che consente l’accumulazione delle ricchezze. Egli ritiene che tali riserve possono essere usate dallo Stato per sopperire a esigenze finanziarie improvvise, per cui la fiscalità è uno strumento per accrescere il potere dello Stato. Verso la metà del IV sec. a.C., la finanza pubblica venne intesa come un bisogno comune da assolvere costantemente. Ad Atene si istituì una cassa centrale dello Stato in cui confluivano tutte le somme in eccedenza accumulate. Tale cassa era amministrata da un collegio di magistrati eletti dall’assemblea ogni 4 anno. Con la vittoria di Filippo il Macedone e l’espansione di Alessandro il Grande, i modelli ellenistici si svilupparono su tutto il Mediterraneo: la visione centralistica delle monarchie orientali venne sostituita da un assetto istituzionale che guardava alle aggregazioni urbane come centro di sviluppo delle iniziative economiche. I tesori dei re persiani furono distribuiti come donativi all’esercito macedone ed ai suoi seguaci e i tributi corrisposti dalle satrapie persiane vennero dati all’Impero macedone. Alessandro affidò il controllo in materia fiscale a sopraintendenti di sua nomina: i tributi venivano versati direttamente ai soprintendenti. I tributi consistevano sia in prestazioni in natura sia in tributi in denaro. 5. La fiscalità della dinastia Tolemaica e dei Seleucidi Il regno dei Lagidi, o dinastia dei Tolomei, subentrò nel controllo di molti territori appartenenti al vecchio Impero persiano. I Tolomei si consideravano successori di Alessandro e gli eredi dei faraoni, per cui mantennero la tradizionale visione egizia del potere sovrano su tutti i territori imperiali: il diritto alla terra era riferito direttamente al sovrano che la concedeva in uso ai sudditi. Il tesoro del re era stato dissipato dai re macedoni, ma vi era un ingente gettito fiscale. L'organizzazione delle finanze era impostata su una base gerarchica: al vertice vi era un ministro, denominato amministratore, che presiedeva alla direzione della politica finanziaria del paese. Vi era una serie articolata di prestazioni fiscali, ad es. le imposte fondiarie, le imposte sulle attività economiche, i dazi sui prodotti. Il metodo di esazione riprendeva il modello greco: gli appaltatori anticipavano il contributo e poi agivano per recuperarlo dai sudditi. Rispetto alla tradizione dell’epoca faraonica, si fece ricorso in modo sistematico al pagamento in denaro degli obblighi fiscali, per cui le prestazioni pecuniarie andarono a sostituire i tributi in natura e le corvées, per cui si procedeva alla stima del valore della prestazione in natura e alla trasformazione in valore monetario. Ogni patrimonio personale era registrato e classificato e il singolo detentore doveva pagare una certa prestazione in denaro: il suddito era legato alla comunità di origine ed era registrato presso di questa e non poteva trasferirsi in altre località. Come conseguenza del pagamento in denaro si estese la responsabilità solidale ai cittadini più facoltosi i quali, secondo il principio della liturgia, garantivano il pagamento del tributo con i propri patrimoni personali. La riscossione delle imposte in denaro era curata direttamente dallo Stato, il quale richiedeva la garanzia dell’appaltatore delle imposte. Quest'ultimo non doveva anticipare l’intero tributo, ma soltanto garantire il raggiungimento di un risultato minimo consentendo il rispetto delle previsioni di bilancio. L'acquisizione di consistenti e stabili flussi di denaro in entrata consentì allo Stato di modificare la propria politica di investimento in ragione della maggiore capacità di spesa: il ricorso all’economia monetaria comportò un intervento sempre più invasivo dello Stato nelle iniziative economiche andando a costituire monopoli pubblici che riducevano il margine di profitto delle iniziative private. Il regno dei Seleucidi si affermò a seguito della dissoluzione dell’Impero ellenistico grazie al collegamento ereditario con Alessandro il Grande. Il modello fiscale era derivato dalla tradizione ellenistica: il potere tributario veniva esercitato con l’editto dell’imperatore che esprimeva la volontà dello Stato. La gestione fiscale era caratterizzata da discrezionalità: il re concedeva esenzioni alle categorie sociali che riteneva meritevoli. Molta importanza venne data all’organizzazione dell’apparato amministrativo chiamato ad incassare i tributi. Le imposte erano varie, ad es. le imposte sui commerci, sugli schiavi, sulla vendita di beni. 6. Il potere tributario nell’esperienza di Roma in età repubblicana Nella prima fase storica, il ruolo del prelievo fiscale era residuale, si ricorreva piuttosto ad una finanza di tipo predatorio costituita dai bottini di guerra. Nella struttura originaria di Roma vi erano clan patrizi che godevano di una dominanza economica e politica grazie alla proprietà di vasti appezzamenti di terreni. Vi erano poi i clientes, i quali ottenevano protezione dal signore in cambio di corvées e tributi in natura. La comunità cittadina era composta da tre tribù articolate in 10 curie al fine di distribuire gli obblighi pubblici tra i cittadini. Talli obblighi riguardavano le prestazioni necessarie a sostenere l’esercito. Con il consolidarsi della città-Stato aumentò l’ager publicus con graduale dissoluzione delle terre gentilizie, di conseguenza i proventi della terra vennero acquistai dalla casse pubbliche. Con Servio Tullio si stabilì un’imposta commisurata al patrimonio (tributum ex censu) determinato in base al censimento: questa imposta era stabilita dal re saltuariamente per assicurare le spese pubbliche impreviste e veniva riscossa tramite le tribù. Con la trasformazione avvenuta in età repubblicana, perde importanza la clientela e tali individui confluiscono nella plebe. La principale entrata per lo Stato era il canone pagato per lo sfruttamento dei vari ben immobili di proprietà pubblica e che riguardava terreni, pascoli, boschi, terme, fiumi. Inoltre, ogni tribù doveva pagare un tributo in favore della città per finalità belliche e la cui riscossione era devoluta a funzionari cittadini, ovvero i tribuni aerari. Si prevedeva una distinzione fra cittadini (tribules) aventi il possesso della terra, che erano chiamati al servizio presso l’esercito, e cittadini (aerarii) che non avevano proprietà terriera e non potevano fornire servizio militare e quindi erano tenuti al pagamento di un tributo in denaro. Nell'età repubblicana si ebbe un’espansione territoriale di Roma e al nemico sconfitto si requisiva almeno un terzo dei sui territori da spartire in favore dei militari e dell’oligarchia dominante. Per garantire la difesa dei territori conquistati e l’ulteriore espansione si prevedeva l’esazione di tributi a carico dei popoli vinti: le province erano i principali tributari della finanza pubblica. Nell'età repubblicana, la terra costituisce la maggiore formai di ricchezza e la principale componente della distribuzione delle funzioni pubbliche e della tassazione. Il tributum di origine monarchica venne ripristinato a carico dei titolari di proprietà fondiaria. La tassazione venne introdotta durante la Guerra di Veio per il mantenimento dell’esercito professionale (stipendium) e questo prelievo era previsto in parte secondo una quota fissa e in parte secondo una quota variabile. Inizialmente, si doveva trattare di un’imposta occasionale, ma poi divenne stabile. A fronte di proteste, il Senato decise di ottenere entrate da fronti diversi rispetto allo stipendium e quindi si escluse l’imposta fondiaria sulla proprietà terriera. Per quanto concerne i tributi indiretti, questi erano rari e marginali, destinati a perseguire obiettivi sociali più che garantire un flusso di risorse finanziarie per l’erario. Ad esempio si prevedeva un’imposta pari al 5% del valore dello schiavo per la manomissione dello schiavo stesso, per scoraggiare l’affrancamento dello schiavo; si prevedevano dazi e pedaggi. Si impose anche un modello di fiscalità delocalizzata nel quale i territori assoggettati erano sottoposti a tassazione. Il fondamento del prelievo era l’indennità di guerra o il corrispettivo per la sovranità dominante. Facendo riferimento al sistema produttivo e alle condizioni politiche e sociali di ogni territorio, Roma per ogni provincia stabiliva un modello impositivo: questa flessibilità del potere tributario fu uno degli elementi del successo della politica romana di colonizzazione. La tassazione delle province era articolata secondo una tripartizione: - Civites liberae et immunes, si trattava di città che avevano stipulato alleanze giurate con Roma, ad es. Atene e Rodi. Non pagavano oneri fiscali ordianari, ma partecipavano alla contribuzione di emergenza. In alcuni casi si prevedeva l’ager publicus e quindi il suo uso presupponeva il pagamento di un tributo; - Civitates stipendiariae, chiamate a versare lo stipendium, un tributo la cui misura era definita in base ai rapporti successivi alla conquista; - Civitates soggette al tributum, (ad es. Sicilia) in cui si applicava l’imposizione fondiaria pari a un decimo del prodotto lordo. I tributi richiesti riguardavano l’uso di beni immobili: si ricorreva al tributum soli nel caso di fondi e terreni agricoli e al tributum capitis per gli altri beni immobili. Per la ricostruzione della base imponibile si ricorreva al censimento. La riscossione dei tributi era affidata ad appaltatori privati: l’appalto veniva attribuito a soggetti dotati di un consistente patrimonio che potesse fornire un’adeguata garanzia per lo Stato e gli appaltatori poi potevano agire sui contribuenti senza alcun controllo esterno. La condizione giuridica per l’appalto limitava l’accesso a tale struttura costituendo un ceto capitalistico. 7. Il potere tributario del sovrano in epoca imperiale a Roma Con l’avvento dell’impero si trasforma la finanza pubblica di Roma, in quanto la crescita amministrativa e militare prodotta dallo sviluppo dello Stato romano impone flussi di entrate stabili e consistenti. La capacità economica si esprime in commerci e traffici internazionali e anche le prestazioni tributarie si modificano di conseguenza. La finanza predatoria assume un rilievo sempre maggiore: i proventi di una guerra vengono utilizzati per sostenere altre guerre. Vi è anche un incremento della tassazione sulle province, sempre secondo il meccanismo per cui i tributi sono calibrati sulle abitudini del paese. È con l’editto di Caracalla (212 d.C.) che scompare la distinzione nella tassazione fra territori italici e provinciali, comportando però una distinzione fra categorie sociali. Con Ottaviano Augusto si riforma la fiscalità ponendo le basi per la finanza pubblica dell’età imperiale. Per quanto riguardava l’imposizione fondiaria, si ricorse a catasti che consentivano di stimare la produttività del terreno. Si istituirono imposte personali in denaro riferite ai beni immobili impiegate nelle attività economiche di artigiani e commercianti; a tal fine si predispose un censimento per assicurare conoscenza delle attività economiche nelle province. Per i cittadini romani, si predisposero delle imposte indirette sulle transazioni commerciali, sulle successioni ereditarie e sul valore degli schiavi. Vennero mantenuti anche i dazi doganali. Per la riscossione delle imposte, si ricorreva all’appalto solo per pochi tributi, mentre i principali tributi erano affidati alle amministrazioni locali: nelle province imperiali la riscossione era affidata a procuratori dell’imperatore mentre nelle province senatorie la riscossione era affidata a questori di nomina del Senato. Accanto alla tradizionale cassa finanziaria costituita dall’aerarum Populi (a cui venivano assegnate le entrate di competenza del Senato, ovvero lo stipendium), venne istituito il fiscus che fungeva da cassa per i proventi spettanti al princeps, ovvero le imposte indirette e il tributum (=i proventi delle province tributarie). Questo fondo era usato per gli interventi finanziari decisi direttamente dal princeps. In questo modo si assegnava autonomia finanziaria sia al Senato che all’imperatore, ma si riconosceva la predominanza del princeps il quale aveva il diritto di votare le leggi finanziarie relative all’aerarium. Successivamente, la distinzione fra i due fondi svanì e l’aerarium venne ricompreso nel fiscus. Il potere di imporre tributi, quindi, venne collegato alla sfera patrimoniale del sovrano come se si trattasse di risorse finanziarie spettanti alla sua persona. Si affermava un’idea di sovranità che si saldava intorno alla figura dell’imperatore e, quindi, la legittimazione del sistema finanziario e di governo discendeva direttamente dall’imperatore. Grazie all’apporto dei giureconsulti e all’esigenza di stabilire forme di garanzia per le posizioni dei contribuenti si affermò che le controversie relative alla riscossione dei tributi dovessero essere affidate alla competenza dei tribunali per le vicende dei privati, nonostante i procuratori provinciali ritenevano che si trattasse di vicende pubblicistiche. Il ruolo dei giuristi venne formalizzato da Adriano che istituì l’advocatus fisci, il quale rappresentava l’interesse dell’amministrazione finanziaria nei rapporti con i privati anche in sede contenziosa. Dopo un primo periodo di espansione territoriale, l’economia mostrò una flessione negativa: gli scambi commerciali regredivano e la proprietà terriera diveniva meno proficua e i proprietari terrieri tendevano a produrre per il proprio fabbisogno non per il mercato. Si avviò una fuga dalle città e l’oligarchia economica si posizionò nelle campagne. Inoltre, i costi dell’apparato burocratico erano sempre più ingenti, così come gli oneri della difesa militare dei confini. Iniziavano a mancare le risorse finanziarie per il sostentamento dell’Impero. La reazione più frequente degli imperatori era quella di istituire tassazioni straordinarie sulle province e di avviare forme sempre più rigorose di esazione dei tributi ordinari. Inoltre, si perseguì una politica di uscita dall’economia monetaria ripristinando l’obbligo del servizio militare e predisponendo prestazioni in natura in luogo di tributi. In questo modo lo Stato fa fronte alle proprie esigenze ricorrendo ai mezzi ritratti dalle risorse proprie e non al mercato. Comunque sia, elemento qualificante della fiscalità dell’Impero romano è il carattere discriminatorio della prestazione tributaria, in quanto si prevedeva l’esenzione dei cittadini romani da ogni prelievo fiscale. Ciò faceva sì che la libertà venisse ricostruita intorno all’intangibilità del patrimonio e che il tributo fosse ricondotto ad un «marchio di servitù». Questa percezione negativa non venne rimossa neanche con la parificazione tra cittadini romani e cittadini delle province con l’editto di Caracalla (212 d.C.). Dinanzi a questa crisi economica dell’Impero si doveva revisionare il sistema dei tributi e delle entrate erariali anche tramite una modifica delle abitudini. Diocleziano realizzò un’importante riforma fiscale che trasformava le consuetudini stratificate nel tempo: il sistema istituito da Diocleziano combinava le caratteristiche dell’imposta personale e dell’imposta reale. Il territorio imperiale venne ripartito in juga, ovvero fondi, e il bestiame e i lavoratori erano considerate pertinenze del territorio. Ogni individuo (caput) doveva pagare un tributo per ogni jugum, ovvero al fondo, da questo detenuto: il tributo era fissato con riferimento al fondo indipendentemente dal suo titolare e si trasmetteva all’avente causa. Ogni anno si determinava l’ammontare dell’imposta tenendo conto della fertilità del terreno e delle necessità del momento. I singoli cittadini dovevano presentare un’autodichiarazione dei beni patrimoniali posseduti e l’accertamento avveniva da parte di agenti sulla base del censimento e la riscossione era curata da funzionari imperiali. L'imposta era obbligatoria e confluiva in due casse con finalità specifiche: l’annona civica per il sostentamento delle città imperiali e l’annona militaris per il mantenimento dell’esercito. L'obbligazione poteva essere adempiuta sia in denaro che in natura, ma la preferenza era per il pagamento in natura. Nel procedimento di imposizione vennero coinvolte le istituzioni comunitarie locali, infatti l’importo fiscale complessivo da incassare era ripartito da ciascuna prefettura tra le singole province, la quale doveva calcolare la quota di tributo dovuta. Il sistema della jugatio-capitatio incrementò le entrate fiscali dello Stato sia per l’ampliamento della base imponibile sia per l’efficacia della tecnica di accertamento e di esazione. Effetto negativo, però, fu la limitazione della capacità di produzione. Inoltre, questo sistema non rispondeva ad esigenze solidaristiche di distribuzione del carico fiscale fra i consociati, anzi reiterò le distinzioni fra classi sociali. La pesantezza del prelievo fiscale dato da questo sistema continuato anche dagli imperatori successivi comportò l’abbandono dei terreni da parte dei contadini al fine di sottrarsi agli obblighi fiscali. Costantino, quindi, assegnò le terre incolte alle curie e dispose l’asservimento del contadino alla terra e l’ereditarietà di tale obbligo. Venne istituita la categoria dei coloni, i quali rispondevano direttamente allo Stato della propria quota di tributo. Questo fenomeno venne esteso anche alle corporazioni professionali che fornivano prestazioni personali in favore dello Stato. Il colonato e l’ereditarietà della funzione sono la premessa del fenomeno dei contadini e artigiani dell’epoca feudale, asserviti al territorio del signore. Vennero, inoltre, introdotte numerose nuove imposte, ad es. le munera ovvero le prestazioni funzionali ad esigenze pubbliche, e si mantennero in vita le imposte indirette. È da tenere in considerazione che l’esazione delle tasse era affidata a funzionari imperiali che mostravano un levato livello di arbitrarietà. Teodosio, invece, per limitare l’abbandono delle terre accorpò le terre incolte alle terre fertili più prossime. 8. Il potere tributario nell’antichità Dall'esame comparato delle civiltà antiche emergono alcuni elementi comuni. Le forme di aggregazione umana si uniscono in organizzazioni sociali più ampie che formano la Grande Comunità, all’interno delle quali si sviluppa un concetto di ordine collettivo funzionale a perseguire un bene comune. Le comunità minori di origine tribale, ovvero le Buone Società, esprimono il gruppo dirigente della Grande Comunità. Quest'ultima chiede alle Buone Società di fornire un contributo, prima in natura e poi in denaro, al bene comune, ma la principale fonte di approvvigionamento è il bottino di guerra. Si definisce un assetto del gruppo ispirato al principio della divisione del lavoro: ogni individuo, pur nella diversità della funzione sociale partecipa al perseguimento del bene del gruppo. Si definisce un ordine di gruppo ne quale si inserisce l’individuo, il quale, quindi, è soggetto al Logos in quanto simboli rituali e autorità regolano i comportamenti dei membri del gruppo. Le due grandezze collettive si rapportano secondo una logica cooperativa: la Buona Società (la tribù, la classe sociale) è la prima forma di associazione in cui si costruisce l’identità dell’individuo: la Buona Società si presenta come paradigma di vita nel quale si definisce l’Io. La Grande Comunità (lo Stato) è il garante del percorso evolutivo che assicura protezione e quindi richiede cooperazione e asservimento da parte della Buona Società. Nei sistemi fiscali dell’antichità, il fenomeno tributario assume una posizione recessiva nell’ambito della finanza pubblica. Rilevante è la finanza predatoria, mentre la fiscalità ordinaria è ristretta a fattispecie limitate di tributi indiretti. Per quanto riguarda le imposte dirette queste erano chieste in situazioni di emergenza nazionale. Il tributo diventa, quindi, espressione di una situazione di soggezione politica e porta il «marchio di servitù». In questo assetto di fiscalità, la posizione del sovrano in ordine ai tributi consisteva in un potere di signoria assoluto cui corrispondeva una situazione di totale soggezione dei contribuenti. Il sovrano era titolare di un potere illimitato di richiede tributi ai sudditi, si trattava di una facoltà insindacabile e soltanto un senso di benevolenza del sovrano o le reazioni della prassi giurisprudenziale costituivano un freno all’incondizionato esercizio del potere tributario. In questo contesto non si sviluppa un’idea di interesse fiscale dello Stato come valore normativo protetto in contrapposizione ad altri valori normativi difensivi della sfera individuale dei sudditi. Il dominio fiscale del sovrano comporta come corollario la mancanza di una struttura giuridica che si ponga a tutela delle situazioni giuridiche dei contribuenti. Solo in alcune situazioni marginali viene usata la legge come istituto giuridico di esercizio del potere tributario con fissazione dei diritti dei contribuenti e, quindi, solo in queste situazioni viene utilizzata la tutela giudiziaria. Il dominio fiscale, dunque, nell’antichità esclude la formazione di un corpus strutturato di regole di diritto che possa disciplinare il fenomeno tributario. Il potere tributario si impone a prescindere dall’esistenza di un diritto fiscale. La struttura tipica del prelievo fiscale nell’antichità, inoltre, rende evidente il ruolo decisivo dell’oligarchia dominante rispetto all’esercizio del potere tributario: il ricorso alla fiscalità predatoria si concilia con l’atteggiamento espansionistico dell’oligarchia dominante e l’esclusione dei cittadini dalle imposte dirette rafforza il gruppo di persone riferibili all’area di governo. Le scelte di finanza pubblica sono funzionali a preservare il potere sociale ed economico della classe dominante. Infine, poiché il tributo porta un «marchio di odiosità» che si connette alla logica di discriminazione sociale ed economica di alcuni gruppi rispetto a quelli dell’oligarchia, l’esercizio del potere tributario porta a forme di diseguaglianze sociali ed economiche tra gli individui della Grande Comunità. La disparità di trattamento riguarda un elemento oggettivo della persona, solitamente l’appartenenza etnica ad una popolazione sottomessa. Il tema della giustizia (che riguarda la relazione fra l’uomo e Dio) è estraneo all’esercizio del potere tributario. Capitolo terzo: Il potere tributario nell’epoca intermedia 1. La funzione fiscale nell’Alto Medio Evo La tradizione fiscale correlata all’Impero romano si perpetua, in un primo momento, nelle popolazioni germaniche che avevano invaso i territori imperiali. Queste popolazioni erano prive di un sistema tributario applicabile a dimensioni elevate e recepirono i modelli tributari imperiali. La continuità con gli istituti tributari imperiali riguarda soprattutto l’esazione del contributo fondiario e personale tramite registri contenenti censimenti pro capite e canoni individuali. In questo periodo, vi è confusione del patrimonio del sovrano con le casse della comunità statale, il che porta alla commistione tra diritto pubblico e diritto privato nella gestione della finanza dello Stato. Comunque sia, a seguito della caduta di Roma, vi fu anche la crisi fiscale dello Stato a causa del calo demografico, del mancato aggiornamento dei registri fiscali e della riduzione delle entrate doganali. La funzione fiscale attenuò il suo carattere di base di funzionamento della potenza dello Stato. Inoltre, gli ultimi imperatori smisero di imporre tasse (che avevano indotto i contribuenti ad abbandonare terre ed attività economiche per sottrarsi agli obblighi fiscali) incentrando la propria politica economica sul possesso della terra che venne acquisita al patrimonio personale dell’imperatore. Ciò fece sì che importanti ricchezze si formarono intorno a chiese e monasteri tanto che un terzo del territorio di Francia e Italia era di proprietà ecclesiastica. I popoli barbari, quindi, mantennero in vita il sistema tributario romano e si consolidò l’idea che la funzione fiscale ha un carattere trascendente che si mantiene oltre la morte del sovrano in quanto connessa alla sovranità e alla continuità del potere dello Stato sulla comunità. Il sistema tributario era quello istituito da Diocleziano, basato su un’imposta fondiaria calcolata sull’estensione e fertilità dei fondi e imposte sui mercanti ed artigiani. Per evitare «la fuga dalla terra», erano previsti metodi coercitivi che vincolavano i contadini, ovvero il colonato. Si prevedevano anche numerose imposte indirette, quali dazi doganali e pedaggi che erano destinate al tesoro del re; venivano riscosse in denaro e la riscossione era affidata a funzionari di nomina reale, ovvero i telonearii. I proventi della tassazione si mantennero cospicui e si ponevano alla base del funzionamento dello Stato in quanto consentivano il pagamento degli stipendi dell’esercito. La tassazione assunse, però, anche aspetti di iniquità e si comportava come un’invasione costante della vita dei sudditi. Nell'epoca dei re carolingi, la crisi fiscale dello Stato si consolida e il potere tributario si elide. La recessione del sistema produttivo e la delocalizzazione dei centri politici decisionali nel contesto feudale porta alla diffusione del vassallaggio e dei rapporti di fedeltà. Il sistema fiscale di origine romana cadde in disuso e fu sostituito dalla finanza propria del sovrano: il re era titolare di enormi latifondi che venivano concessi a potenti locali dietro pagamento di canoni demaniali. Le imposte fondiarie romane si erano trasformate in oneri reali, denominati censi, dovuti dai possessori di terreni. I possedimenti ecclesiastici dovevano versare a favore della curia la decima e a favore del re un contributo determinato di volta in volta in base alle esigenze: il patrimonio ecclesiastico venne considerato una sorta di patrimonio aggiunto del sovrano. Si prevedevano, poi, alcune imposte indirette come ad es. i dazi in ingresso e uscita dalle città o le tasse sui contratti. Le entrate erano molto superiori alle uscite in quanto il re doveva sostenere solo le spese della sua corte e del suo esercito personale, mentre molte funzioni di interesse collettivo erano affidate ai feudatari. Le comunità intermedie o minori si presentavano come centri autosufficienti in cui i sudditi si articolavano secondo un ordine gerarchico basato sulle differenze di status. Questa disintegrazione dei poteri pubblici a favore dei poteri privati portò all’abdicazione dello Stato all’applicazione dei tributi. La dipendenza personale che fondava la relazione feudale assunse caratteri privatistici essendo riferita ad uno schema contrattuale. A partire dai re Carolingi, il sistema di finanza pubblica si articolò intorno a due tipologie di rapporti: - Relazione re-feudatari, per cui i feudatari versavano contributi a favore del re in occasioni speciali, ad es. nozze, o straordinarie, ad es. guerre o carestie. Si trattava di regalie o liberalità che si collegavano al concetto di fidelitas che prevedeva, fra gli obblighi del feudatario, anche il dovere di prestare servizio nell’esercito del sovrano; - Relazione feudatari-sudditi, per cui i feudatari imponevano contributi secondo valutazioni di opportunità e secondo esigenze contingenti. I feudatari chiedevano, principalmente prestazioni personali e dazioni di prodotti in natura, quali le corvées che avevano ad oggetto i prodotti agricoli. Si assiste alla disintegrazione dell’unità statale a favore della dislocazione della sovranità in numerosi centri di potere, con conseguente attribuzione della funzione tributaria: lo Stato, perdendo la funzione fiscale, diviene uno «Stato senza imposte». Questo trasferimento di potestà impositiva, però, non riduce la pressione tributaria sui consociati, anzi riduce i meccanismi di garanzia a protezione dall’arbitrio nel potere, in quanto si afferma il potere assoluto del feudatario. Si afferma, quindi, un nuovo concetto di libertà che fa riferimento all’affrancamento dal carico fiscale. In questo contesto di «Stato senza imposte», si afferma come unica prestazione tributaria generale il fodrum. In origine, era una corvée richiesta ai sudditi per la messa a disposizione di foraggio per l’esercito. Successivamente, esprimeva il diritto all’ospitalità riservato all’imperatore nelle terre assoggettate, quindi divenne un’imposta di carattere generale pagata in denaro a favore dello Stato. Il fodrum era determinato con riguardo ai nuclei familiari individuat sulla base dei rapporti di convivenza: la determinazione per focolare imponeva la ricostruzione della ricchezza della famiglia. La ricchezza veniva individuata nei beni immobili, di conseguenza il fodrum è la base storica dele imposte dirette adottate poi in epoca comunale. Il fodrum veniva riscossa dalle singole comunità e divenne la principale fonte di entrate imperiali, ma generò aspre contese: Federico Barbarossa affermò che i diritti feudali e le prestazioni patrimoniali spettavano all’imperatore, ma dopo aver perso la guerra contro i comuni uniti nella Lega Lombarda riconobbe il diritto dei comuni a richiedere i tributi ai propri cittadini. Alle richieste del sovrano e di feudatari si aggiungeva la decima, un tributo richiesto dalle autorità ecclesiastiche e il cui fondamento era l’appartenenza alla comunità religiosa. La Chiesa, infatti, era titolare di un ingente patrimonio, derivante dalle donazioni dei fedeli e la gestione di tale patrimonio comportava che le porzioni dei terreni venissero affidate in coltivazione ai contadini i quali dovevano corrispondere la «decima dominicale». Se le unità ecclesiastiche non disponevano di un patrimonio specifico per la concessione potevano richiedere un corrispettivo, ovvero la decima, per il mantenimento e il sostentamento della curia. Si affermò il convincimento che la decima fosse una prestazione patrimoniale dovuta a fronte del potere di governo della Chiesa sulla comunità religiosa in virtù della funzione universale della Chiesa. La decima era un tributo di ammontare pari al 10% della produzione economica del contribuente e si distinguevano due tipologie di decima: la decima prediale, applicata sulla produzione agricola, e la decima personale, riguardava l’attività economica svolta dal singolo contribuente. Il tributo era dovuto dai fedeli, eretici e scomunicati, non dagli infedeli. Decime di carattere straordinario vennero richieste dal Papa per esigenze universali della Chiesa, ad es. le crociate. Nel tempo, tale tributo venne acquisito alla pertinenza dell’imperatore o dei signori della zona facendo perdere la titolarità alla Chiesa. Accanto alla scomparsa dello Stato come detentore della sovranità e della potestà tributaria, si formano comunità e gruppi che hanno fini comuni di difesa e di tutela rispetto all’esercizio del potere tributario: i rappresentanti delle comunità si rapportavano con gli agenti delle imposte imperiali o comunali e negoziavano il carico fiscale pe poi procedere alla riscossione delle imposte. In questo ambito di «responsabilità comune» si crearono delle relazioni di «solidarietà orizzontale» tra i membri della collettività per ricercare equi criteri di riparto del carico fiscale, di «solidarietà provvisorie» che sorgevano fra comunità sottoposte a pressioni fiscali gravose per formare alleanze per resistere al potere pubblico, di «solidarietà verticale» fra i funzionari imperiali o i signori locali e le comunità sottoposte per negoziare un diverso trattamento. Queste relazioni erano improntate, comunque sia, alla prevalenza del potere del soggetto più forte il quale declinava la solidarietà nella forma a lui più vantaggiosa. Allo stesso tempo questo assetto solidaristico era espressione della coscienza collettiva comunitaria del Medio Evo. Nell'Impero d’Oriente, invece, anche nell’Alto Medio Evo la funzione fiscale rimase salda al funzionamento dello Stato. Si adottò una fiscalità di derivazione romana gestita attraverso un’articolata rete di uffici locali. Il tributo era determinato con il sistema della jugatio-capitatio ed era assolto con prestazioni in natura. La prosecuzione del sistema di tassazione romana fece sì che si mantenne in vita l’asservimento alla terra mediante l’istituto del colonato, il che produsse la «fuga dalla terra» dei piccoli contadini e l’assorbimento di tali terreni nei grandi latifondi formando le grandi proprietà rurali. Nel corso del tempo, la situazione finanziaria dell’Impero peggiorò e divenne necessario incrementare i flussi delle entrate fiscali per difendersi dalle invasioni dei popoli islamici: si estese l’asservimento alla terra e si cancellarono numerose esenzioni tributarie. Con l’avvento dell’Islamismo e la conquista dell’Impero, si formò un terzo centro di potere stabile nel Mediterraneo: si trattava di uno Stato teocratico ed assoluto e la funzione fiscale doveva supportare i progetti di espansione. Si prevedeva un’imposta che i popoli arabi sottomessi dovevano versare come quota delle loro rendite o delle loro ricchezze, la contribuzione era discrezionale, basata sul dialogo fra il fedele e Allah. Successivamente s stabilì un’imposta anche a carico dei non mussulmani che venne strutturata prima come il tributo richiesto ai popoli arabi e poi come un’imposta fondiaria indipendente dal credo religioso in virtù del fatto che gli individui procedevano alla conversione solo per essere esenti dall’imposta. Le imposte, inoltre, vennero canalizzate verso il centro del califfato formando una rete amministrativa efficiente. Si recuperarono sistemi tributari di derivazione romana, quali il censimento, per cui il sistema fiscale dell’Impero romano venne mantenuto in funzionamento. A partire dal X secolo, l’Impero arabo perse la sua centralità e si definirono sovranità periferiche che assunsero autonomia di governo anche in ambito fiscale. Dunque, i sistemi politici ed istituzionali dell’Alto Medio Evo avevano delle strutture comuni: la ricchezza e il potere erano basati sulla terra. Lo strumento di finanziamento della signoria erano i proventi della terra: l’aristocrazia si arricchiva sulla terra e sosteneva il sovrano mediante doni. Anche il rapporto feudale era basato sulla concessione di terra per scopi economici o di sussistenza familiare e vincolata a servizi da rendere al signore. La ricchezza e il potere erano determinati da un assetto sociale oppressivo. L’imposizione della ricchezza si imponeva mediante tasse o canoni di affitto: le tasse erano raccolte dagli Stati che avevano ereditato la tradizione romana dell’imposta fondiaria, mentre i canoni di locazione erano richiesti ai contadini dai proprietari della terra. Qualora lo Stato fosse fondato sull’imposizione, appariva più solido e organizzato; se era fondato su strumenti privatistici, appariva più decentralizzato. 2. Il potere tributario nell’epoca dei comuni nel Basso Medio Evo Durante il XII secolo, grazie ai novi traffici commerciali e la produzione diffusa di merci, si sviluppa una ripresa economica imperniata sul ruolo delle città. Emergono, quindi, esigenze di una sistemazione razionale della finanza pubblica. I comuni italiani regolano i tributi in via autonoma in base a deliberazioni delle istituzioni cittadine: i tributi imposti ai membri del comune assumevano il carattere di compartecipazione dei singoli alle spese comuni. La funzione fiscale era distribuita su due tipologie di prestazioni: - L'imposta diretta, applicata sui cittadini in via occasionale come strumento complementare delle entrate tributarie. Si ricorreva al catasto e, inoltre, emerse l’idea di tassazione proporzionale alla ricchezza del contribuente; - La gabella, ovvero tributi di natura eterogena in cui erano incluse tutte le imposte di natura diversa rispetto alle imposte dirette. Le gabelle erano facilmente esigibili e si ponevano alla base delle entrate comunali. Comunque sia si impone una diversa applicazione del carico fiscale sui membri della comunità, distinguendo fra residenti della città, i cittadini, e i residenti della campagna, il contado: l’oligarchia dominante cittadina poneva carichi fiscali maggiori sul contado. Nei vari comuni italiani del Basso Medio Evo, si delinea un modello omogeneo di esercizio della funzione fiscale. Si applicava un’imposta diretta sui cittadini e sul contado che si determinava in base ai dati riportati su registri pubblici, ovvero l’extimo. L'estimo era usato per la tassazione del contado don un tributo di carattere patrimoniale che riguardava il nucleo familiare, per cui si prevedeva un registro pubblico dei vari focolari domestici. Per i cittadini si dava rilievo anche alla componente mobiliare, quindi ai proventi delle attività economiche e alla ricchezza prodotta dal capitale. La scelta del criterio di formazione dell’estimo rifletteva i vari orientamenti politici della classe dominante, ad es. la componente immobiliare era presa in considerazione dai comuni a vocazione commerciale. Il comune di Siena, nel XIII e XIV secolo, è uno dei pochi comuni italiani per cu esiste un’ampia raccolta di documenti relativi alla finanza pubblica. La principale fonte di entrate fiscali era il gettito fiscale derivante dalle prestazioni tributarie. Ruolo primario era l’imposta diretta del «dazio» che veniva posta a carico di tutti i cittadini e, in alcuni casi, sui contadini in relazione alla «nuova» ricchezza, denominata lira o libra, prodotta ogni anno e accertata secondo il metodo dell’alliramento. Il pagamento del dazio poteva essere effettuato n un’unica soluzione o in più rate. Il metodo dell’alliramento voleva valorizzare la capacità economica effettiva e quindi era improntato ad un sistema fiscale volto all’equità sostanziale. Le commissioni di allibratori valutavano i beni e i proventi annuali dei cittadini facendo riferimento anche alle dichiarazioni degli stessi: si prevedevano ammende per coloro che tentavano di evadere le imposte. La popolazione era divisa in «lira maggiore», «lira mediocre», «lira minore» a seconda della ricchezza stabilita con l’alliramento. Venne istituito anche un registro delle proprietà terriere, la «Tavola delle possessioni», nel quale si misuravano i singoli appezzamenti di terra per valutare i beni immobili. Si prevedevano, poi, le gabelle, che ricomprendevano tutte le imposte non determinate sulla lira. La gabella del contado era ripartita per comunità terriere locali in relazione alla capacità di sostenere la quota fiscale attribuita. Anche in riferimento alla gabella, si prevedeva un meccanismo che voleva contrastare i tentativi di frode. Le decisioni sulle imposte erano affidate al Consiglio dei Nove, ovvero l’organi di governo del Comune. Le imposte indirette erano amministrate da un ufficio specifico, ovvero la Gabella Generale, affidata a un non cittadino. Il controllo sulla funzione fiscale era affidato a 4 provveditori. La Repubblica di Firenze aveva un modello impositivo simile a quello di Siena, ma le imposte dirette erano usate saltuariamente e si preferivano le imposte indirette. Diffuso era il ricorso alle gabelle, le quali avevano un carattere regressivo in quanto colpivano generi di prima necessità e servizi di base che colpivano maggiormente i cittadini di minore capacità economica. Il sistema tributario fiorentino non garantiva entrate fiscali adeguate ai bisogni della città: le gabelle avevano dissolto i rapporti feudali ma non erano sufficienti per i bisogni finanziari della città. Si introdusse la tassazione diretta dei cittadini che comportò la capitolazione della borghesia cittadina. Il catasto era determinato in base ad un censimento delle varie categorie di residenti, ogni residente doveva presentare una dichiarazione in cui indicava i propri bene ed erano esenti le case per abitazione, le masserizie e il cavallo per uso personale. Il contribuente doveva dichiarare la spesa annua per ogni appartenente alla famiglia, la quale poteva essere dedotta dal reddito annuo familiare. Al catasto si aggiungeva anche un’imposta personale sui cittadini maschi. Il catasto e l’imposta personale erano riscossi ogni anno; alcuni anni si eliminò l’imposta personale a fronte di un’aliquota progressiva sul catasto. Comunque sia, nonostante il contribuente presentasse una dichiarazione, le commissioni che redigevano il ruolo assumevano un valore presuntivo sulla base dei rendimenti degli ultimi anni: la ricchezza immobiliare era tassata su base oggettiva. Nello Stato pontificio, le donazioni e le rendite delle terre sottoposte al potere temporale del Papa costituivano il «patrimonio di San Pietro». Le donazioni vennero presentate come un obbligo dello spirito assumendo la forma di una speciale decima che serviva per il mantenimento dei luoghi santi, la sussistenza del clero e l’aiuto dei poveri. La funzione fiscale venne esercitata secondo i modelli dei comuni italiani. Inizialmente, la tassazione era effettuata tramite gabelle; successivamente, si introdussero le imposte dirette: si ricorse al «sussidio triennale» come tributo straordinario poi stabilizzato, il quale era riscosso ogni anno secondo stime approssimative della produzione agricola e degli abitanti. Erano previste anche imposte di scopo. Le casse fiscali, inizialmente, erano gestite dalla Camera Apostolica, poi furono affidate al cardinale camerlengo. Nel regno meridionale, le prestazioni fiscali si distinguevano a seconda dell’origine: - Jura vetera, includevano le imposte indirette e le tasse richieste dai vari signori locali; - Jura nova, imposte da Federico II di Svevia e quindi di origine imperiale, comprendevano le gabelle. Federico II istituì un’imposta diretta ordinaria, la «colletta», che veniva riscossa ogni anno dall’amministrazione statale. Successivamente, quest’imposta fu determinata in un ammontare unitario dal fisco regio ed era applicata all’universalità in proporzione al numero di fuochi e, a questo fine, ciascun soggetto doveva presentare una dichiarazione con l’elenco dei propri beni immobili e mobili. L'approssimazione del metodo di rilevazione catastale e l’inefficienza della riscossione generarono forte resistenza nei contribuenti i quali percepivano una pressione fiscale intollerabile. 3. La finanza pubblica negli Stati europei Il Basso Medio Evo in Europa è contrassegnato da alcuni elementi qualificanti della finanza pubblica. Con le strutture istituzionali e produttive di derivazione feudale, lo Stato aveva perso la sua centralità. Successivamente, con il calo demografico vi fu l’abbandono dei villaggi e lo sviluppo delle città e lo Stato riacquistò importanza per la rinnovata centralità dell’amministrazione pubblica. Lo Stato non è svincolato dal feudalesimo, rimanendo dipendente dal prelievo fiscale dei signori locali, per cui o sovrani delle maggiori potenze europee riconobbero l’importanza dell’imposizione fiscale nel rafforzamento della loro potestà unitaria. Nel Regnum Siciliae, Federico II di Svevia emanò le «Costituzioni di Melfi» che vogliono istituire un programma volto a formare un assetto fiscale imperniato intorno ai poteri pubblici centrali che consentisse flussi finanziari alle casse erariali. L'idea di fondo è «fiscus et republica idem sunt». La funzione fiscale era il fondamento necessario per la sopravvivenza della sovranità della comunità di riferimento in quanto fondamento per la sovranità nella comunità di riferimento: la regola di coesione e convivenza richiedeva la tassazione dei sudditi. La rivolta fiscale a Messina configurò la lesione della divina maiestas dell’imperatore, il quale concesse alcuni sgravi ma condannò per eresia il capo della rivolta. Le Costituzioni di Melfi regolano le misure fiscali e indicano anche le ragioni a sostegno del prelievo fiscale: emerge l’obiettivo protezionistico di tutela del mercato interno. Tale sistema fiscale aveva una connotazione autoritaria che, però, non era in linea con il clima culturale dell’epoca. Nello Stato rancese, la maggior parte delle entrate proveniva dai domini del re ed erano di modesto ammontare. Nei vari territori continuavano ad essere valide le giurisdizioni fiscali dei vari signori. A partire dal XII secolo si introdussero forme di prelievo para-fiscale che integravano la finanza propria del re e nei feudi si indebolì l’esazione delle corvées. Il sovrano provò a introdurre vari tributi, ma poi questi venivano aboliti (ad es. Filippo il Bello introdusse un dazio sulle merci che poi, a seguito delle resistenze dei commercianti, si trasformò in gabella sui beni di prima necessità), di conseguenza lo Stato francese non riuscì ad assicurarsi entrate stabili. Per rendere più gestibile l’esazione dei tributi, Filippo il Bello portò i problemi di finanza pubblica in discussione presso un’assemblea centrale espressione dell’aristocrazia, del clero e della borghesia cittadina. In Inghilterra, come in Francia, la gestione della finanza pubblica è effettuata secondo il modello di derivazione feudale, per cui sono i signori locali a chiedere i tributi. Con Guglielmo il Conquistatore si affermò che il sovrano era il più importante signore feudale: tutta la terra era di proprietà del re e coloro che la occupano devono pagare un tributo per la concessione della terra al re o a colui a cui è delegato il potere. Dunque, il re aveva diritto a ricevere un tributo fondiario calcolato sulla produttività del fondo e che veniva riscosso dai baroni sui rispettivi territori. Si avviò la compilazione di un registro fondiario, il Domesday book, che conteneva la descrizione dei terreni (manors) dell’intero territorio. Nel corso del tempo, il re divenne proprietario di sempre più terra e accrebbe il flusso delle entrate. Con il regno di Enrico II Plantageneto si consolidò il potere del sovrano limitando le funzioni dei baroni e si assoggettarono anche le città al dominio diretto della Corona. Enrico II organizzo l’amministrazione finanziaria, che prese il nome di scacchiere e che venne divisa in un dipartimento per le entrate e in uno per le uscite. Gli sceriffi vennero resi responsabili dell’incasso dei crediti fiscali da parte dei contribuenti rispondendone con il patrimonio personale di fronte allo Scacchiere: questa responsabilità solidale accentuò il malessere della classe baronale nei confronti del potere della Corona. Questa riforma consentì un aumento dei proventi fiscali, ma il malessere portò i baroni a organizzare una resistenza collettiva contro gli eccessi fiscali. A seguito di tale resistenza venne emanata la Magna Charta, la quale stabiliva che nessun tributo poteva essere imposto dal sovrano se non in base ad una determinazione comune del consiglio dei baroni: si tratta del testo che pose dei limiti al potere del sovrano e del fondamento del principio del consenso alla tassazione. L'Impero bizantino, nel Basso Medio Evo, mantenne la sua struttura fiscale originaria fondata sull’imposta fondiaria e sul principio di «responsabilità comune» delle comunità interessate: i grandi proprietari dovevano riscuotere le imposte da tutti i contribuenti della comunità; se un colono non poteva pagare il tributo, il suo raccolto era ripartito fra coloro che pagavano; se un campo era incolto questo veniva affidato a chi era in condizioni di pagare il tributo e questo sistema favoriva l’accumulo di proprietà in capo ai cittadini più ricchi che potevano subentrare a quelli più poveri. Nel X secolo, per stabilizzare le entrate si istituì la concessione di un beneficio territoriale che permetteva al signore locale di incamerare un tributo sui terreni in cambio di servizi ed opere. L'amministrazione imperiale era accentrata a Costantinopoli e rimetteva il controllo complessivo di tutti gli uffici fiscali e finanziari al Saecellarius, ovvero il ministro delle finanze. I funzionari imperiali erano dotati di alta competenza e garantivano una costante sorveglianza sul funzionamento dell’apparato amministrativo. La Chiesa poteva chiedere tributi ai cittadini di fede cristiana e i tributi venivano ripartiti tra le varie entità dell’organizzazione ecclesiastica (vescovo, parrocchia, monasteri) secondo le funzioni ed i ruoli rivestiti nei territori e che variavano da regione a regione. Il Papa, inoltre, rivendicava il diritto di imporre tributi a carico dei credenti e dei sovrani, in quanto credenti: questo potere era collegato alla funzione del tesoro pontificio come patrimonio destinato alla tutela e promozione degli interessi spirituali e morali della comunità cristiana. Anche in ambito ecclesiastico il tributo si caratterizzò come prova della soggezione alla sovranità. Questo potere tributario della Chiesa divenne sempre più invasivo e l’esazione dei tributi divenne sempre più aggressiva: gli esattori pontifici ricorrevano a strumenti canonici, come la scomunica, ma anche a misure personali, come il carcere. Ciò comportò grande malcontento nella popolazione. Allo stesso tempo, emerge anche il rapporto fra Stato e Chiesa: la Chiesa rivendicava come un diritto divino l’immunità dei propri possedimenti dalla fiscalità dello Stato: i proventi delle proprietà della Chiesa avevano natura sacramentale in quanto consentivano di prendersi cura delle anime dei credenti per questo erano intangibili per il potere secolare. Per di più, essendo i tributi espressione della soggezione e riconoscimento della sovranità, la Chiesa non poteva assoggettarsi ad imposte laiche. Questa impostazione entrò in contrasto con le teorie collettivistiche ed egualitarie dei comuni europei e quindi si chiesero tributi anche alla Chiesa, la quale reagì con il Concilio Lateranense (1179) formulando anatemi contro coloro che chiedevano alla Chiesa tributi. In Italia furono molti gli episodi di contrasti politici con il potere religioso. Nel 1296, il re Filippo il Bello di Francia, per far fronte ad una guerra contro l’Inghilterra, decide di tassare i beni della Chiesa; il Papa Bonifacio VIII vieta ai prelati di attuare l’editto reale. La crisi istituzionale si conclude con un compromesso: il Papa ammette le contribuzioni delle proprietà ecclesiastiche al tesoro reale qualificandole come donazioni decise dalla Chiesa. 4. La funzione fiscale nel pensiero filosofica del Medio Evo C la Chiesa, nei suoi primordi, ha assunto un’impostazione minimalista rispetto ai poteri dello Stato evidenziando la necessità di aspirare alla dimensione spirituale e di trascurare le implicazioni terrene derivanti dalla dimensione statalista. Di conseguenza, l’originario approccio della Chiesa all’esercizio dei poteri tributari si fondava sulla frase «dare a Cesare ciò che è di Cesare». Secondo San Paolo, ognuno deve essere sottoposto alle superiori potestà «poiché non vi è potestà che non venga da Dio». Per Sant’Agostino le leggi dello Stato vanno accettate e non ha senso che un cristiano operi per modificarle in quanto egli deve aspirare alla «città di Dio». Con lo sviluppo secolare della Chiesa, però, matura un pensiero diverso che viene espresso dalla scolastica: il tributo è uno strumento rivolto al perseguimento del bene comune ed è raccolto alternativamente dal sovrano, come depositario terreno della funzione di tutela dell’utilità collettiva, e dalla Chiesa, per il perseguimento delle finalità sacramentali della comunità religiosa. Si evidenzia il rapporto fra tributo e funzione collettiva, per cui il tributo non è più considerato un vantaggio patrimoniale del sovrano, ma l’imposta viene vista come uno strumento per la partecipazione dei consociati allo sviluppo della collettività. Il tributo deve essere giustificato da una quadripartizione di elementi causali: la prestazione tributaria deve provenire da un potere legittimo, deve correlarsi ad uno scopo di utilità generale, deve fondarsi su un giusto rapporto tra onere imposto al contribuente e risultato utile ottenuto dallo Stato e su un’equa scelta delle persone o beni su cui viene applicata. Il tributo diviene uno strumento di partecipazione dell’individuo alla vita collettiva indicando la liberazione terrena dei singoli dal potere totalitario del sovrano. Si inizia a delineare il confronto fra interesse della collettività, cui si correla il tributo, e interesse individuale, che vuole trarre beneficio dalla partecipazione alla collettività. 5. Il potere tributario dell’età del «Chaos» Durante il Medio Evo è mancato un ordine principale dello Stato che si ponesse in posizione dominante rispetto agli ordini delle comunità minori: il sovrano era il più ricco e potente proprietario terriero della nazione; i signori feudali, sul proprio territorio, esercitavano un potere assoluto non coercibile dallo Stato; alle città e alla Chiesa veniva riconosciuta questa potestà delocalizzata. Mancava, dunque, una gerarchia dell’ordine politico e sociale che metteva la Grande Comunità in posizione più elevata rispetto alle Buone Società: non esiste un ordine dominante, ma una serie di ordini che coesistono senza pretesa di dominio sugli altri. Questa è la situazione ricondotta al metodo del Chaos. Anche il potere tributario si atteggia in modo peculiare: la fiscalità statale tende a scomparire e si limita ai proventi delle proprietà terriere del sovrano; i signori feudali, i domini ecclesiastici e le città esercitano il potere tributario nei propri territori, ma anche in tali luoghi il potere tributario si confonde con la potestà di gestione della terra. Emerge l’idea che le entrate fiscali non esprimono la funzionalità ad un interesse generale, ma la connotazione di rendita del patrimonio. La situazione della fiscalità può essere, quindi, riassunta nell’espressione «Stato senza imposte»: l’assenza di un ordine dominante esclude il potere dello Stato di far valere la fiscalità in termini propulsivi degli interessi collettivi. Il potere tributario mantiene, però, le cadenze autoritative riconducibili al ruolo dominante del sovrano grazie alla diffusione di centri di governo in una pluralità di potentati. Il potere tributario viene esercitato sulla base di atti autoritativi pressoché incontrastati a cui corrisponde uno stato di mera soggezione dei contribuenti, ai quali non vengono riconosciuti diritti da tutelare in sede giudiziaria. Di conseguenza, non si forma un diritto tributario che disciplini il fenomeno del prelievo fiscale. In parziale controtendenza, vi sono le città e i comuni, che non possono contare sui proventi delle terre e che hanno un’impostazione prevalentemente democratica, da cui deriva una regolamentazione condivisa della funzione fiscale: le prestazioni tributarie sono stabilite mediante atti normativi di carattere generale che riconoscono il diritto all’esercizio legale del potere tributario. Dunque, il potere tributario viene correlato ad un sistema di regole giuridiche per definire le procedure della fase autoritativa e vengono riconosciute forme di sindacato giudiziale del potere tributario. Emerge un diritto dei tributi. Nel Chaos dell’età intermedia, il potere tributario è espressione dell’ordine individuato dalle oligarchie dominanti e il prelievo fiscale diventa elemento qualificante dell’appartenenza ad una classe sociale: la funzione fiscale si rapporta ai bisogni finanziari dell’oligarchia dominante in quanto l’esercizio del potere tributario voleva consolidare il potere politico e sociale dei signori medievali in quanto le imposte e le corvées andavano a impoverire i soggetti appartenenti alla sfera dei subordinati. Il potere tributario, in questo contesto, viene esercitato con effetti discriminatori a scapito dei gradi più bassi e deboli della società, in quanto è verso tali soggetti che è rivolto il prelievo fiscale lasciando, invece, indenni i titolari del capitale: si afferma anche in campo fiscale la rilevanza dello status. La stabilizzazione dei flussi fiscali produce un risultato di conservazione dello status quo della classe dominante in quanto garantisce la preservazione della situazione di dominio dei fattori produttivi. L'esercizio del potere tributario è portatore di effetti discriminatori a danno delle categorie deboli e a vantaggio delle classi dominanti. Capitolo quarto: Il potere tributario nello Stato moderno 1. La formazione dello Stato moderno Durante il Rinascimento, lo Stato venia guardato come unità politica incentrata sul princeps, titolare del potere sovrano. Il fondamento dell’autorità del princeps è «la ragione di Stato», ovvero la priorità assiologica dell’azione di governo e del potere a questa riconducibile rispetto agli interessi collettivi e individuali sottoposti allo Stato: lo Stato era inteso come potenza e il principe che lo guidava doveva pensare all’incremento e alla tutela di tale potenza assumendo la «ragione di Stato» come unica regola di condotta. Il potere tributario venne considerato un attributo fondamentale della sovranità principesca, in quanto funzionale a garantire l’equilibrio patrimoniale dello Stato. Il principe non poteva far fronte ai bisogni dello Stato con il suo patrimonio personale e, in virtù della sua signoria unitaria, egli era legittimato a richiedere tributi di carattere generale svincolandosi dal ruolo intermedio dei signori locali. Si usò, principalmente, l’imposizione diretta di carattere fondiario e l’imposizione indiretta attraverso dazi, imposte sul consumo e accise. Il tributo venne considerato come un provento derivante dal potere del principe e funzionale al perseguimento del bene pubblico. L'esercizio del potere tributario da parte del princeps determinò una serie di relazioni giuridiche fra Stato e contribuenti che consentirono il superamento delle istituzioni medievali: si distinse fra obbligazione del suddito nei confronti del sovrano, da qualificare come obbligazione naturale, e obbligazione dovuta al signore locale, qualificata come obbligazione di tipo civilistico. A partire dal 1500, gli Stati europei si trovarono spesso in situazioni di affanno finanziario a causa dei costi della guerra, di conseguenza i sovrani ritennero che l’imposizione fiscale dovesse esercitare un ruolo rilevante nella dimensione pubblica e nella coscienza collettiva. In effetti, l’esazione dei tributi crebbe durante le guerre producendo malcontento fra i cittadini e comportando difficoltà nella riscossione del tributo per i signori locali: ne derivò un’atrofia del potere fiscale dei signori locali, i quali perdevano potere a vantaggio del sovrano. Lo Stato acquisiva centralità crescente e recuperò le funzioni fiscali che prima erano state dislocate fra i vari signori. Si costituirono amministrazioni specializzate nella gestione degli affari di finanza pubblica che operavano a livello centrale e quasi sempre al vertice di tali apparati vi erano ecclesiastici, al cui mantenimento provvedeva la Chiesa (quindi non erano un onore per lo Stato). Con il rafforzamento della figura regia e degli apparati burocratici si sviluppò la finanza pubblica. I tributi venivano considerati risorsa strategica dello Stato in quanto consentivano di raccogliere strumenti necessari per i processi di sviluppo della collettività: si delineava una «ragione fiscale» come esigenza di attribuire rilievo primario al fenomeno tributario. La struttura del sistema fiscale, però, non fu sottoposta a revisione e si mantennero le forme di tassazione di derivazione medievale, ciò fece sì che si cercasse di finanziare la copertura di esigenze finanziarie con l’espansione bellica. Nell'elaborazione filosofica e giuridica, la sovranità del princeps non venne considerata illimitata, ma venne rapportata a limiti derivanti dalle leggi naturali e divine, dai diritti naturali dell’individuo e dal consenso del popolo. Si svilupparono teorie contrattualistiche che individuavano il fondamento del potere del sovrano in un contratto con il popolo, per cui la decisione potestativa del princeps trovasse fondamento nel consenso popolare facendo perdere rilievo all’elemento teleologico della volontà divina. Al contrattualismo, adottato ad esempio in Inghilterra, si contrapponeva l’assolutismo, adottato ad es. in Francia in cui il potere tributario era considerato un attributo intrinseco della sovranità. La relazione fra potere tributario e consenso popolare è l’antecedente storico delle vicende rivoluzionarie del XVII-XVIII secolo. Nel Basso Medio Evo, ma anche successivamente, la Chiesa era legittimata a chiedere tasse nei territori sottoposti al proprio controllo e le varie istituzioni ecclesiastiche mantenevano una relazione di tipo feudale con lo Stato al fine di definire una relazione fra ufficio ecclesiastico e potere secolare. Il potere fiscale della Chiesa si espresse con modalità diverse e con diverse relazioni rispetto allo Stato nei vari contesti nazionali: - In Francia, i rapporti fra Stato e Chiesa si inasprirono. Si giunse ad un compromesso con il Concordato per cui la Chiesa si impegnava a versare una parte delle entrate fiscali alle casse dello Stato. Successivamente, con il contratto di Poissy (1561), il clero si impegnò a pagare una somma annuale in relazione ai propri territori, si trattava del diritto di regalia temporale. - In Spagna, le entrate fiscali pagate dalla Chiesa allo Stato divennero imposte stabili. - In Inghilterra, la rivoluzione anglicana di Enrico VIII fece sì che lo Stato subentrò anche nella gestione della fiscalità ecclesiastica. - A Venezia, l’imposizione diretta venne riportata alla guerra religiosa contro i Turchi ottenendo così l’approvazione della Chiesa. La riforma protestante fu determinata da una serie di elementi di contrasto con l’eccessiva secolarizzazione del potere della Chiesa, tra cui l’esercizio della funzione fiscale. Le richieste dei contadini erano assunte dal movimento protestante come ragioni da condividere al fine di una riforma equa della società. Dopo un primo periodo di contese belliche, si definì il principio «cuius regio eius religio» per cui nel principato tedesco si doveva seguire la confessione religiosa scelta dal principe. Rispetto al Cattolicesimo, il Protestantesimo seguì una strada diversa per l’economia e l’impresa: si sviluppò una concezione di vita razionalistica favorendo l’eliminazione dell’elemento teleologico e morale. Il mondo era destinato alo scopo di favorire la glorificazione di Dio e, in tal modo, le opere erano il modo precipuo di agire per la gloria di Dio: si favorì la promozione di strutture ideali e politiche portatrici di un nuovo atteggiamento mentale di apertura verso lo Stato e di distacco dal potere temporale della Chiesa. La Riforma indusse ad accettare il ruolo dello Stato come garante della comunità sociale e a sostenere l’accrescimento della potenza politica ed economica a scapito della ricchezza della Chiesa. Lo Stato veniva considerato come garante del bene comune e non della proprietà privata del sovrano, di conseguenza si doveva perseguire una politica finanziaria razionale e contenuta. Una delle note qualificanti dello Stato moderno è la propensione a favorire il mercantilismo: lo sviluppo del commercio sfaldò i rigidi confini dell’economia domestica e il reddito nazionale incrementò grazie alla crescita mercantile. Gli Stati europei coinvolti nei processi del mercantilismo decisero di supportare lo sviluppo economico attraverso un’adeguata politica doganale: Olanda, Francia, Inghilterra stabilirono dazi sulle importazioni ed esportazioni e, correlativamente, ridussero le gabelle locali. L'idea era che attraverso la politica doganale si sarebbe potuto aumentare il gettito fiscale e indirizzare il commercio sul mercato internazionale, senza però scoraggiare le operazioni dei commercianti stranieri. Comunque sia, la caratteristica della finanza pubblica degli Stati europei del primo Settecento consiste nella crescita del fabbisogno finanziario in relazione al protratto stato di guerra. La disponibilità delle risorse da impiegare nello sforzo militare consentiva di favorire l’andamento della guerra e il successo degli Stati. Il fattore finanziario venne interpretato in modo diverso dai vari Stati europei (ad es. in Inghilterra si aumentarono le aliquote sulle imposte indirette, si istituì un’imposta diretta di carattere straordinario e si ricorse all’indebitamento; in Francia si aumentarono le imposte indirette ma non si ricorse all’indebitamento). Allo stesso tempo vi erano dei tratti comuni nelle scelte dei vari Stati: si mantennero inalterate le strutture fiscali precedenti, salvo interventi sulle aliquote o imposte di carattere straordinario; la parte preponderante del sistema tributario è costituita dall’imposizione indiretta; il grave indebitamento è una soluzione di carattere contingente adottata al fine di non procedere ad una riforma fiscale organica. Sul piano concettuale, nel periodo che va dal Cinquecento al Settecento, il tributo mantiene il carattere deteriore e la connotazione di odiosità che lo aveva caratterizzato in precedenza. Il fenomeno tributario era ricondotto al patrimonio personale del sovrano, di conseguenza il tributo era un dovere assoluto verso l’autorità e il contribuente non aveva diritto di pretendere alcun servizio pubblico n cambio del tributo. Si assiste a un consolidamento del nesso fra imposizione fiscale ed impegno bellico, ma non emerge il concetto di interesse generale della collettività. La tendenza a prelevare tributi in qualunque modo fa sì che continuino le diseguaglianze fiscali. 2. Lo sviluppo della fiscalità negli Stati europei La funzione fiscale nell’Impero tedesco La dieta di Ratisbona (1471) attribuiva il compito della riscossione di una nuova tassa imperiale in capo ai signori territoriali: le signorie di tradizione feudale venivano coinvolte nel finanziamento dello Stato. La funzione fiscale viene esercitata dallo Stato con cadenza regolare, soprattutto per finanziare la politica militare. Le esigenze finanziarie dovevano essere negoziate con i principi elettori e con i ceti imperiali riuniti periodicamente nella dieta imperiale. La forza della posizione dei principi e dei ceti consisteva nel diritto di decidere sulle prestazioni fiscali richieste alle varie comunità intermedie e si esprimeva nella delibera della dieta. Il tributo dovuto dai sudditi fu sostituito da un tributo gravante sui principi e stabilito anno per anno in base ad appositi registri che riportavano l’elenco dei beni presenti nei vari territori: il signore richiedeva ai contribuenti il pagamento della quota di imposta loro riferibile. In aggiunta a questo tributo si prevedevano imposte straordinarie, come le imposte di consumo, motivate da ragioni di impellenza finanziaria dello Stato. A tali tributi statali si aggiungeva l’imposta locale richiesta dai signori sui propri territori. Si definì un sistema fiscale dualistico distribuito su potere statale e poteri locali: la potestà suprema dell’imperatore fondava l’imposizione di tributi generali sia ordinari sia straordinari, la potestà locale dei signori riguardava l’imposizione di tributi circoscritti al territorio del governo signorile. La dimensione territoriale costituiva la ratio della funzione fiscale. La funzione fiscale in Spagna Lo Stato spagnolo mantenne la tradizione feudale delle prestazioni fiscali riscosse a livello locale da signori e città, salvo incrementarne la quantità e consolidarne la portata in una visione centralista del potere tributario. A seguito dell’unificazione delle corone di Castiglia e Aragona, l Stato centrale acquisì il controllo dei benefici ecclesiastici. Inoltre, nella politica spagnola, la guerra era un’occasione per aumentare le imposte che poi si sarebbero sedimentate nelle abitudini del cittadino e sarebbero state pagate anche in tempo di pace. L'esercizio della funzione fiscale era rimesso ad una procedura legislativa che coinvolgeva le Cortes, le quali dovevano verificare i fondamenti delle misure tributarie. Le Cortes impedirono la formazione di un potere monarchico assoluto affermando che le decisioni in materia fiscale potevano essere assunte solo nel contesto parlamentare. Questa concezione pattizia del potere fiscale venne mantenuta fino a tutto il XVIII secolo. La funzione fiscale in Francia Lo Stato, dal XV secolo in poi, acquisì una centralità assorbente della sovranità fiscale rispetto ai poteri feudali delocalizzati: si affermò l’idea per cui il sovrano non aveva bisogno di consultare i deputati dei tre ordini riuniti negli Stati generali per fissare o prorogare e imposte di guerra. Questa posizione sovranista venne avversata dai ceti sociali espressi dagli Stati generali. Si impose una concezione pattizia della sovranità con riflessi immediati sull’esercizio della funzione fiscale, per cui si riconosceva la sovranità del re ma l’imposta necessitava dell’autorizzazione degli Stati generali. Lo Stato, però, non riusciva ad assicurarsi entrate stabili: si ricorreva ai tributi di origine feudale e ad imposte straordinarie, ma non si definì un sistema fiscale ordinato a livello nazionale. Il costo delle guerre e l’apparato dello Stato era sopportato dai poveri del regno che non riuscivano a sostenere gli effetti del depauperamento. Vi era un contesto sociale di grande agitazione che portò all’assedio di Parigi (1649) e ad una vera e propria guerra civile; alla fine del 1652 il potere del re venne pienamente consolidato e si proibì ai parlamentari di criticare l’operato dei ministri e di interferire con gli affari di Stato. Il re di Francia assunse personalmente il controllo dell’amministrazione finanziaria e della politica fiscale e il potere tributario dello Stato si esprimeva nelle forme più assolutistiche ed illimitate. Accanto ai tributi richiesti dallo Stato, permanevano gli oneri ecclesiastici e gli oneri a favore dell’aristocrazia locale. Nonostante la struttura dei tributi rimase la medesima della tradizione feudale, la novità della fiscalità dello Stato riguardava il livello quantitativo delle prestazioni fiscali che venne incrementato in dipendenza dei bisogni di entrate dello Stato e della finanza di guerra. Inoltre, la pressione fiscale venne incrementata grazie al funzionamento di un efficace apparato amministrativo: la tassazione divenne stabile e consentì la crescita dell’apparato statale. La funzione fiscale in Inghilterra Nel XV secolo, il re aveva una posizione dominante come suprema autorità feudale che si esprimeva nella gestione della finanza pubblica e della fiscalità. Si prevedevano forme di patteggiamento con le assemblee dei nobili e la Magna Charta fissava i diritti del popolo e richiedeva che il potere d richiedere imposte fosse autorizzato dal Parlamento. Il sistema tributario inglese, quindi, era fondato sul principio del consenso parlamentare: il re non può spogliare i sudditi del loro patrimonio senza rispettare le leggi e non può imporre tasse senza il loro consenso preventivo. L'amministrazione delle finanze era scolta attraverso la Real Casa: il ministro dello Scacchiere doveva presentare una dichiarazione annuale delle entrate e delle uscite dello Stato e la maggior parte ei tributi erano dati in appalto a finanzieri che si impegnavano ad assicurare flussi certi in un tempo pluriennale. Con il regno di Elisabetta I, a fronte delle maggiori spese pubbliche, il modello finanziario dovette mutare: Elisabetta ripristinò la tassazione su base annuale e convocò il Parlamento più volte per votare le prestazioni fiscali imposte sul popolo. Con la finanza di guerra nel Settecento si assistette ad un consistente incremento della pressione fiscale e nel 1692 venne istituita per la prima volta l’imposta fondiaria (land tax) che gravava sui proventi della terra, determinati secondo un estimo catastale. La funzione fiscale nell’Impero ottomano La struttura di gestione dell’Impero era articolata su base feudale mediante la ripartizione dei territori ai cavalieri secondo il timar e lo ziamet (rapporti che si differenziavano in base all’estensione dei fondi): il diritto di proprietà spettava all’Impero, mentre i cavalieri feudali erano titolari di un diritto di usufrutto che consentiva di assegnare ai contadini l’uso e lo sfruttamento della terra. Nel corso del tempo i rapporti feudali vennero assorbiti dal sistema di appalto delle imposte in base al quale i signori locali si trasformavano in esattori dei tributi dovuti dai contadini in favor dello Stato: la fiscalità dell'Impero si reggeva sul rapporto tra il governo centrale e i cavalieri feudali. La funzione fiscale in Russia Nel XVII secolo, la Russia avviò un processo di occidentalizzazione che determinò il superamento dello stato di autocrazia e l’apertura verso un modello organizzativo che contemplava una maggiore spesa pubblica. Non si riuscivano ad ottenere adeguati flussi di entrate per le esigenze di sviluppo e di funzionamento dello Stato, quindi si introdusse un censimento generale delle terre e delle altre risorse economiche escludendo, però, le terre dei nobili e del clero. La tassazione assunse un carattere reale e fondiario per cui le imposte principale erano ripartire in base ad una unità fondiaria. I criteri di tassazione non erano, però, razionali e ciò portò ad abbandonare tale modello di tassazione per ricorrere invece ad un’imposta personale. L'esazione tributaria, però, non garantiva adeguata efficacia sul piano concreto in quanto gli uffici dello zar potevano procedere solo con la collaborazione dei signori locali della nobiltà rurale. Poiché il proprietario terriero poteva richiedere i tributi ai suoi sottoposti in misura discrezionale e arbitraria, gli oneri fiscali crescenti esposero i contadini e le categorie più povere ad un sensibile depauperamento. La funzione fiscale in Olanda, uno Stato mercantile Dal XVII secolo, i Paesi Bassi divennero una potenza mondiale grazie allo sviluppo dei commerci e alla politica di colonizzazione. Si prevedevano imposte di fabbricazione (accise) sui principali prodotti commerciali, in questo modo si prevedeva un’imposta sul commercio dei beni nella fase più facile da colpire; si prevedevano dazi sia sull’importazione che sull’esportazione; si prevedevano imposte patrimoniali e sui fabbricati. I tributi erano riscossi mediante appalti a terzi e tale struttura della fiscalità venne considerata tipica di un paese vocato al mercantilismo. La funzione fiscale in Prussia, uno Stato guerriero Nel Settecento, la Prussia era uno degli Stati europei che esprimeva la maggiore forza militare attraverso un esercito numeroso e ben equipaggiato. Si adottò un sistema finanziario semplice e capace di garantire flussi costanti nelle casse pubbliche: il reddito del demanio regio proveniva da possedimenti molto vasti che davano lavoro a un terzo dei contadini del paese; l’imposta sulle proprietà fondiarie era determinata secondo estimi catastali; l’accisa era applicata su molti prodotti. Il mantenimento di immunità sui terreni dei nobili comportò che il carico fiscale fosse riversato sulla classe rurale. Vi era una burocrazia dislocata sul territorio dedicata al controllo degli adempimenti fiscali dei contribuenti. 3. Lo sviluppo della fiscalità negli Stati italiani Nel Rinascimento gli Stati italiani seguirono il modello di assetto politico imperniato intorno al princeps: la sovranità è riferita alla persona del monarca che riunisce nella propria sfera i poteri pubblici richiesti per il governo della «cosa comune». Si pone il problema delle relazioni con le comunità intermedie di derivazione medievale: l’esercizio del potere sovrano implicava una collaborazione con i potenti locali per coinvolgere le comunità intermedie nella fase di attuazione dei tributi. La nota caratteristica degli Stati italiani può individuarsi nella dialettica fra il potere tributario del princeps e il potere tributario delle comunità locali, ovvero le città, al fine di promuovere situazioni di ragionevolezza ed equità dell’imposizione. La funzione fiscale nel Regno di Napoli Nel Regno di Napoli la funzione fiscale coinvolse direttamente le comunità territoriali esistenti per la raccolta ed il pagamento delle imposte dirette. Il Regno di Napoli era articolato in una serie di università intese come corpi rappresentativi di una pluralità di cittadini: l’universitas era un corpo intermedio fra i cittadini e lo Stato. Ciascuna università venne considerata come un unico debitore fiscale di fronte allo Stato in relazione all’imposta diretta che era calcolata proporzionalmente ai «fuochi familiari» presenti. L'universitas anticipava l’imposta allo Stato per poi ricomprendere dai singoli contribuenti la quota del tributo che incombeva su di essi; solo in casi eccezionali, la riduzione del numero di fuochi poteva produrre una rideterminazione del carico fiscale dovuto dall’università. Questo corpo intermedio, quindi, assumeva una funzione pubblica nell’interesse fiscale dello Stato e aveva un potere tributario da fare valere nei confronti dei cittadini: si trattava del potere di jurisdictio, ovvero di raccolta dell’imposta diretta- in caso di insolvenza da parte dell’università le autorità pubbliche non avevano la facoltà di agire direttamente contro i singoli contribuenti delle università. La funzione fiscale nel Ducato di Savoia Anche il Ducato di Savoia è un esempio di ordinamento imperniato sul coinvolgimento di comunità intermedie, le universitates civium, rispetto all’attuazione del prelievo fiscale. Il «tasso» era un tributo dovuto dalle universitates civium: il tasso era fissato in un importo complessivo che veniva distribuito fra le varie comunità territoriali secondo criteri approssimativi. In effetti, individuare dei criteri oggettivi e razionali per la distribuzione del carico fiscale tra le varie comunità territoriali del Ducato costituì uno dei principali temi di discussione di finanza pubblica. Dunque, per ottenere una determinazione razionale del tributo si faceva riferimento a un criterio legislativo univoco, ovvero le rendite prodotte dai beni di ciascun contribuente. Il credito era vantato dallo Stato nei confronti delle università che poi erano legittimate a richiedere la quota individuale dell’imposta ai singoli contribuenti: il debito fiscale dell’universitas era dato dalla somma dei debiti fiscali dei singoli cittadini, non aveva una propria autonomia, infatti i contribuenti erano obbligati anche verso lo Stato per cui potevano subire anche l’azione diretta dei funzionari pubblici. L'universitas aveva un ruolo ambivalente: era titolare di un’obbligazione tributaria nei confronti dello Stato e era un organismo locale che era chiamato ad esigere gli stessi tributi dai contribuenti operando come un soggetto delegato dell’autorità statale (si riteneva che si trattasse di un potere derivato dal princeps). La funzione fiscale a Venezia A Venezia, le antiche gabelle e le imposte indirette vennero integrate dall’adozione di imposte dirette, definite «angarie», applicate a tutti i cittadini della repubblica senza distinzione di residenza fra la città di Venezia e i domini di terraferma e di appartenenza sociale. Le imposte erano pagate con un abbuono se corrisposte prima del termine; si prevedeva un’ammenda se si violava il termine. I dazi doganali erano la voce principale delle entrate fiscali di Venezia, la parte residua delle entrate era data dalle imposte dirette. Lo Stato, inoltre, faceva ricorso al meccanismo dei prestiti forzosi, ovvero raccoglieva risorse finanziarie dai cittadini parametrate alla propria ricchezza; nonostante in capo al cittadino sorgesse un diritto alla restituzione con pagamento di interessi attivi, il prestito attivo comportava malcontento in quanto veniva ricollegato alle altre pretese fiscali. L'esercizio del potere tributario comportava una dialettica fra Stato e comunità territoriali: le prestazioni tributarie venivano richieste ai cittadini della Dominante (città di Venezia) e dei Domini. Il prelievo era modulato secondo le capacità economiche dei vari territori: si chiedevano prestazioni superiori ai Domini rispetto alla Dominante in quanto la loro relazione non era di pura soggezione ma anche di collaborazione, ovvero vi era una logica commutativa fra la protezione fornita dalla Dominante e le prestazioni finanziarie fornite dai Domini. La funzione fiscale nello Stato milanese Nel Basso Medio Evo, nel Comune di Milano si prendeva il modello fiscale degli altri Stati italiani: ricorso all’imposizione indiretta, soprattutto ai dazi; ricorso all’imposta diretta soprattutto nei confronti del contado e immunità dalle imposte dirette per le attività mercantili. Con lo sviluppo della città e con le esigenze dello sforzo bellico, si ampliarono le imposte e si introdussero tasse da pagare in denaro. Nel XVI secolo, la fiscalità venne riordinata attraverso una riforma fondata sull’istituzione dell’estimo mediante il censimento di tutta la ricchezza presente nel territorio dello Stato milanese. 4. La teoria della ragione di Stato Con la formazione dello Stato moderno si forma un pensiero dottrinale a sostegno dell’infrastruttura statalista: si afferma l’idea per cui il potere dello Stato è volto alla protezione del bene comune ed è quindi il valore di riferimento di ogni comunità politica e va difeso con ogni mezzo. Si elabora anche la nozione di «ragione di Stato» come la serie di interessi collettivi, fra cui rientra la funzione fiscale, di cui lo Stato è portatore e che giustifica ogni forma di esercizio del potere. La «ragione» è il fondamento del potere tributario dello Stato assoluto: si deve valutare l’utilità per lo Stato secondo parametri razionali, non si tratta di un potere arbitrario. Emerge il pensiero di Niccolò Machiavelli. Il principe si pone come figura di garanzia e di tutela della comunità e deve operare per il mantenimento e l’accrescimento del proprio potere anche mediante scelte utilitaristiche, purché funzionali ad assicurare la forza e la piena capacità di funzionamento delle istituzioni pubbliche. La centralità del potere pubblico è individuata nei rapporti con le oligarchie interne e nel trattamento del popolo, inoltre il nucleo del potere pubblico è la capacità di gestione delle forze militari. Machiavelli non esamina la funzione fiscale come attributo del potere del sovrano, anzi tale funzione mantiene un ruolo subalterno rispetto agli altri poteri dello Stato. La fiscalità andava inserita in un contesto di un potere dominante che si doveva confrontare con altri poteri: il principe doveva assumere impegni di un utilizzo limitato del prelievo fiscale, rendendo conoscibili le ragioni dell’inasprimento fiscale. Francesco Guicciardini, invece, assunse una visione dello Stato svincolata dalla centralità del principe e riferita alla pluralità di istituzioni pubbliche che lo connotavano. Egli analizzò con maggiore attenzione la funzione fiscale: l’obiettivo da perseguire era l’uguaglianza effettiva nella contribuzione fiscale da parte di tutti i cittadini tenendo conto della diversa capacità economica delle varie categorie sociali. Da ciò conseguiva la preferenza per le imposte progressive affinché vi fosse uguaglianza nel sacrificio senza comportare rilevanti alterazioni delle capacità economiche dei contribuenti. Il principe aveva un potere funzionale alla tutela del bene pubblico, ma si escludeva il diritto di appropriarsi delle ricchezze dei cittadini e dello Stato. Jean Bodin poneva a fondamento dello Stato la sovranità come potere assoluto e perpetuo da riferire ad un unico organo. Il principe deve operare per il perseguimento del bene comune e non per il suo interesse personale, ma il suo potere non trova limitazione nel consenso del popolo neanche in ambito fiscale. Le imposte vengono considerate come strumento non stabile a cui ricorrere solo in occasioni gravi ed impellenti: il potere fiscale viene esercitato dal sovrano quando occorre con le modalità che ritiene necessarie per il bene comune. Althusius si pone in contrapposizione rispetto a Bodin ed esprime una teoria antiassolutista di cui la sovranità popolare è il fondamento. L'ordine sociale e politico è garantito dall’esercizio di un potere di comando che assicura il rispetto delle regole di comportamento prescritte agli individui nell’interesse del bene comune e questo potere di comando si fonda sul volere della comunità. Dunque, la volontà del monarca è derivata da quella originaria del popolo. Anche il potere tributario è espressione di una sovranità derivata del monarca e, quindi, il potere di fissare tributi deve essere esercitato dal sovrano nel rispetto del consenso popolare. Ugo Grozio afferma che si deve distinguere fra legge di natura, fra cui vi sono i diritti fondamentali delle genti, e legge positiva. L'uomo tende alla socialità e si pone il divieto di togliere all’individuo ciò che gli appartiene. Questo principio deve essere applicato anche nella fiscalità e, dunque, ne deriva una limitazione al potere tributario del sovrano: solo un prelievo fiscale equo e non arbitrario e correlato ai bisogni della comunità è sostenibile. Erasmo da Rotterdam qualificava il principe come un amministratore degli affari nel pubblico interesse che non si doveva allontanare dalle leggi e dal consenso del popolo. Tommaso Moro critica l’assolutismo, in quanto consente di incamerare tributi in modo illimitato e afferma che nello Stato ideale le leggi sono ispirate dal principio di uguaglianza: in virtù dell’assetto egualitario non occorre prelevare tributi poiché è lo Stato che si fa carico di assicurare la corretta distribuzione delle risorse di vita fra i consociati. La finanza pubblica assolve una funzione primaria in quando deve consentire di reperire le risorse necessarie per il governo del bene comune: non vanno tassati i beni necessari, ma il lusso. Nella letteratura utopistica emerge l’assetto di una società di matrice egualitaristica che non richiede una fiscalità perché lo Stato è padrone di ogni mezzo economico e produttivo e allo stesso tempo si evidenzia che il potere del sovrano deve ricondursi ai bisogni di una società pacifica. 5. Il potere tributario e la formazione dello Stato moderno La crescente potenza dello Stato moderno, imperniato intorno alla figura del principe, viene alimentata dall’incremento dei flussi finanziari. Le prestazioni fiscali dello Stato assoluto si rapportano alle esigenze militari di accrescimento della potenza nazionale. La potenza finanziaria richiama l’esercizio del potere del sovrano in ordine alla regolazione dei flussi fiscali: la potestà di richiedere prestazioni fiscali è attribuita al principe-sovrano come un potere da esercitare direttamente nei confronti della generalità dei sudditi. Questa concezione dei rapporti sociali e politici esprime l’aspirazione al superamento del Chaos: la centralità dello Stato e l’imposizione di una gerarchia nella costruzione dell’ordine portano all’affermazione di una metodologia ispirata dal Logos. La fiscalità dello Stato assoluto esprime le scelte di valore del sovrano per aumentare la potenza della comunità. La struttura della fiscalità, però, non viene innovata e mantenne i caratteri del disordine provenienti dalle esperienze medievali. Comunque sia alcuni fattori di variazione del modello fiscale tradizionale sono ricollegabili al consolidarsi del mercantilismo. Dunque, si può pensare ad una combinazione di Logos, ovvero una visione ordinata e gerarchica del mondo per cui il sovrano persegue il bene comune attraverso l’esercizio di un potere incondizionato, e Chaos, ovvero il sotto-prodotto della persistenza delle istituzioni fiscali e delle strutture giuridiche del Medio Evo. L'aumento della potenza finanziaria dello Stato assoluto impone il riconoscimento del potere del principe-sovrano per la regolazione dei flussi fiscali comportando il superamento della delocalizzazione del periodo medievale. Allo stesso tempo emergono procedure parlamentari che assumono i contorni delle disposizioni legislative per definire i modi di esercizio della funzione fiscale: il potere tributario viene correlato al crescente diritto tributario per cui emerge la dimensione giuridica del potere tributario come elemento di un ordinamento. Si mantiene, comunque sia, la rilevanza centrale delle oligarchie dominanti, per cui il potere tributario viene esercitato dal sovrano nel coordinamento con le posizioni assunte dall’oligarchia dominante. Inoltre, il potere tributario incise sulla composizione della classe dominante in quanto il sistema d’appalto delle imposte aprì opportunità di investimento alla classe borghese. La tassazione avveniva ad un duplice livello: quello statale imposto dal sovrano e quello locale riconducibile ai poteri signorili. Di conseguenza, si aumentava la distanza fra classi «forti», a cui venivano concesse immunità e privilegi, e classi «deboli». La preoccupazione dello Stato era quella di ottenere il flusso di entrate non di ripartire equamente tra i sudditi. La diseguaglianza tributaria è un connotato della funzione fiscale. Una peculiarità di questo periodo storico, inoltre, è la comparsa di forme di resistenza diffusa rispetto all’esercizio arbitrario del potere tributario da parte del sovrano. Inoltre, si diffondono teorie che rilevano la necessità di un limite al potere del sovrano anche in materia fiscale: il fondamento dell’ordine politico è enucleato nel rapporto fra autorità e consenso popolare. Il potere tributario non viene presentato come un potere assoluto, ma come un attributo della sovranità coerente con il perseguimento degli interessi collettivi, sottoposto ad un limite intrinseco di razionalità. In qualche modo, la resistenza al potere fiscale del sovrano è considerata un tratto costitutivo dello Stato assoluto. Capitolo quinto: La trasformazione del potere tributario nell’epoca delle rivoluzioni moderne 1. Le rivoluzioni dell’età moderna e la trasformazione del potere tributario La concezione del potere sovrano si modifica a seguito della fase rivoluzionaria che si avvia nella metà del XVII secolo. Prima delle rivoluzioni democratiche del Settecento esistevano le leggi fondamentali dell’uomo e di Dio: si trattava di principi consuetudinari che non erano codificati ma erano ricostruiti su base interpretativa. Le costituzioni scritte dell’epoca rivoluzionaria segnano una cesura con il passato. Il fondamento del potere costituente era individuato nel popolo in quanto portatore della volontà generale della comunità. Anche il potere tributario, ovviamente, era coinvolto da questo processo di trasformazione: non più la determinazione univoca del sovrano, ma la determinazione condivisa e patteggiata con il popolo. Per quanto riguarda la prima rivoluzione inglese, si deve risalire a quando salì al trono Giacomo I Stuart, il quale impose una visione assolutista dei rapporti col popolo tanto che nei primi anni del suo regno governò senza ricorrere al Parlamento. Si svilupparono numerose contese fra la Camera dei Comuni e il sovrano in materia fiscale, ma non si giunse ad una limitazione del potere sovrano. Con la successione salì al trono Carlo I, ma si ripropose lo stesso modello di assolutismo. A fronte di nuove imposizioni non autorizzate, però, vi fu una resistenza molto forte e il Parlamento redasse una dichiarazione dei propri diritti, la Petition of Rights del 1628. Si trattava di un documento che imponeva limitazioni al potere monarchico e che costituiva il fondamento della funzione rappresentativa della nazione in capo al Parlamento. Per fronteggiare tale resistenza, Carlo I si appoggiò alla Chiesa anglicana e smise di consultare il Parlamento e introdusse misure finanziarie rigorose. Si sviluppò un sentimento di rancore nei confronti della dinastia monarchica che interrompeva l’obbedienza verso la dinastia Tudor. Nel 1640, il sovrano sciolse il Parlamento in quanto questo non votò le imposte che voleva predisporre. Un gruppo di cittadini, fra cui John Pym, promosse un piano di riforme del regno e venne insediato il Lungo Parlamento: vennero aboliti numerosi tributi e privilegi e venne affermato il principio della Petition of Rights secondo cui era illegale stabilire tributi senza il consenso del Parlamento. Il rapporto fra re e borghesia si inasprì ulteriormente portando alla guerra civile del 1642 e all’espulsione di Carlo I dal regno. A seguito della morte di Oliver Cromwell che aveva guidato il partito popolare, emerse l’incapacità della nuova classe dirigente il che portò alla restaurazione della monarchia: si richiamo Carlo I dall’esilio, ma questo doveva rispettare i limiti espressi dalla Petition of Rights vincolandosi all’esercizio di un potere congiunto con il Parlamento. Per un lungo periodo, vi fu una coesistenza pacifica fra le due istituzioni e si formò un duplice schieramento dei partiti: i Tories, che difendevano gli interessi della Corona, e i Whigs, che celebravano la funzione rappresentativa degli interessi popolari. La tensione fra i due partiti sfociò nella «gloriosa rivoluzione» de 1688 che portò alla fuga del re e all’avvio di una nuova fase di governo parlamentare. Nel 1689 venne promulgata la Dichiarazione dei diritti (Bill of Rights) formulata dal Parlamento e successivamente riconosciuta dal nuovo re Guglielmo d’Orange, che vietava all’esecutivo di imporre tributi senza la preventiva autorizzazione parlamentare. L'approvazione dei tributi da parte del Parlamento, comunque sia, comportò una maggiore adesione popolare al prelievo fiscale. Per quanto concerne la situazione in America, invece, il governo inglese aumentò la politica fiscale sulle colonie prevedendo numerose imposte al fine di risanare le casse pubbliche a seguito della Guerra dei 7 anni combattuta contro la Francia con il supporto delle stesse colonie americane. Con l’istituzione di tali tributi si pose il problema della rappresentanza delle colonie americane rispetto al potere sovrano della tassazione, in quanto le colonie erano prive di rappresentanza diretta nel Parlamento inglese: in questo contesto si affermò «no taxation without representation». A seguito dell’imposizione di una tassa sul tè si convocò a Filadelfia il primo Congresso delle colonie che pronunciò la DIchiarazione di Indipendenza in cui si affermava il principio di sovranità popolare e l’indipendenza dal regno d’Inghilterra. A seguito di tale Dichiarazione prese l’avvio la guerra di rivoluzione americana che si concluse con la vittoria delle colonie e il riconoscimento dell’indipendenza americana. Nel 1787 venne redatta la Costituzione degli Stati Uniti, in cui si stabiliva che il Congresso è titolare del potere di imporre e raccogliere tasse, diritti doganali, imposte indirette ed accise affermando, quindi, il principio del consenso parlamentare per istituire ed attuare leggi fiscali e fissando una regola di federalismo. Per quanto concerne la rivoluzione francese, emerge come la funzione fiscale era esercitata nell’Ancien régime secondo modelli tributari di derivazione feudale che garantivano privilegi in favore degli aristocratici e degli ecclesiastici facendo gravare l’imposizione fiscale sulla borghesia e sui piccoli agricoltori. Con la convocazione degli Stati generali da parte di Luigi XVI nel 1789 si avviò un processo di rivolta. L'Assemblea nazionale costituente, in cui erano rappresentati i tre stati della nazione, adottò provvedimenti che sopprimevano i privilegi fiscali dei nobili e liberavano i contadini dai vincoli feudali. Inoltre, l’Assemblea emanò la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino che rappresentò il primo testo costituzionale prodotto dalla fase rivoluzionaria in cui vennero ripresi spunti dei documenti costituzionali della rivoluzione americana. Nella Dichiarazione si affermò che per mantenere la forza pubblica si doveva ricorrere a un contributo comune che doveva essere ripartito fra i cittadini in ragione delle loro facoltà (art. 13) e che ogni cittadino, da loro stessi o per mezzo di rappresentanti, ha diritto di consentire e controllare l’imposizione fiscale (art. 14). Si affermo l’idea per cui l’imposta era un contributo necessario al bene comune e chi rifiutava il pagamento non difendeva il suo diritto di proprietà, ma commetteva un’ingiustizia in quanto faceva pagare ad altri il vantaggio che riceveva dalla comunità. 2. La funzione fiscale in Inghilterra del XVII secolo Nell'ambito della contrapposizione fra l’autoritarismo regio e le istanze del pluralismo borghese espresse dal Parlamento si delinea l’antitesi fra l’interesse pubblico alla riscossione dei tributi e l’interesse dei singoli consociati ad una difesa dei diritti individuali di proprietà e libertà. In un primo momento, la contrapposizione fra i due organi costituzionali, re e Parlamento, concerneva semplicemente l’identificazione dei diritti individuali di libertà e proprietà quale limite al potere del sovrano di imporre tributi, per cui si chiedeva un preventivo assenso da parte del Parlamento. Si riconosceva l’esistenza di valori attinenti alla sfera individuale, liberty e property clause, che si ponevano in termini concorrenti con il valore normativo superindividuale collettivo espresso dal potere impositivo del sovrano. Ne conseguiva che il potere del sovrano non poteva più essere inteso come «dominio assoluto», ma la potestà individuale doveva ricollegarsi ad un interesse generale della comunità per cui l’interesse fiscale diveniva il baricentro teorico dell’imposizione. In un secondo momento, il Parlamento si pose su posizioni sbilanciate verso un ribaltamento del rapporto fra i due valori normativi: si contestò la validità giusnaturalistica del potere del sovrano e si accentuò la priorità tecnica e sostanziale dei valori di libertà e proprietà. La posizione del Parlamento come garante della legittimità delle norme tributarie venne considerata essenziale per la piena tutela dei valori di libertà e proprietà. Matura, dunque, la nozione di interesse fiscale dello Stato come valore normativo pubblico contrapposto ad altri valori normativi riguardanti la sfera individuale: gli interessi individuali corrispondenti ai valori della libertà e della proprietà sono posti in contrapposizione dialettica con l’interesse della collettività ad acquisire le risorse finanziarie fondamentali per la propria sopravvivenza. Il pensiero di Hobbes conferma la contrapposizione fra interessi individuali e interesse pubblico alla percezione dei tributi. Secondo Hobbes, il bene fondamentale che gli individui cercano è la pace e la sicurezza e questo bene può essere raggiunto solo in un assetto organizzato della collettività che consente di superare le debolezze del singolo. Nella contrapposizione fra stato di natura e stato civile si rinvengono i prodromi dell’antitesi fra interesse fiscale e interessi individuali: nello stato di natura sono presenti libertà e uguaglianza che però sono destinate a risolversi nel conflitto universale «di tutti contro tutti»; quando subentra la regolamentazione pubblica degli interessi individuali operata dal sovrano, si possono raggiungere i superiori obiettivi di pace e sicurezza. Si riconosce, quindi, la preminenza degli interessi pubblici rispetto ai valori individuali. La contrapposizione fra popolo e sovrano si risolve nella riduzione del pactum unionis al pactum subiectionis, alla quale si può ricondurre il potere assoluto del sovrano. Si puntualizza, però, che i carichi fiscali devono essere ripartiti secondo uguaglianza da rapportare ai consumi e non alla ricchezza (i tributi devono colpire le sole ricchezze consumate), secondo una logica corrispettiva dei rapporti fra contribuzione fiscale e servizi ricevuti dallo Stato. Lo Stato assoluto è il quadro di riferimento all’interno del quale si creano le condizioni per il dispiegarsi degli interessi privati ed assume una sovranità distributiva che consiste nel «dare a ciascuno il suo». I tributi vengono presentati come il salario che gli individui versano per perseguire obiettivi funzionali al bene collettivo e si stigmatizza il rifiuto di pagare le tasse. Il pensiero di Locke esprime il carattere funzionale dello Stato rispetto alla società civile: si afferma il primato dell’individuo e dei suoi valori e di conseguenza la strumentalità del potere politico per assicurare il benessere dei cittadini. La società civile, quindi, ha un ruolo prevalente rispetto alla posizione del sovrano e si ribalta l’impostazione di Hobbes. Lo Stato non ha il potere di agire nella sfera individuale di proprietà richiamando lo scopo di perseguire un interesse pubblico, in quanto gli è riconosciuta la facoltà di operare solo in presenza di un consenso espresso dagli individui con gli strumenti della rappresentatività. Si esprime, come principio di giustizia, che i tributi vengano pagati dai consociati in relazione al beneficio ottenuto per la convivenza nella collettività organizzata. Comunque sia, coerentemente con il pensiero giusnaturalistico, l’obbligazione tributaria viene configurata come una sorta di auto-imposizione da parte degli individui per cui lo strumento di attuazione è la «Rule of law» con esclusione di un potere discrezionale da parte del sovrano. Si consolida l’idea che l’interesse fiscale presenti una matrice comunitaria, in quanto il suo fondamento sono i bisogni giuridicamente apprezzabili diffusi nella comunità. Questa trasformazione dell’interesse fiscale riguarda la fase normogenetica e in parte la fase procedimentale; non si producono effetti sul sistema dei tributi che resta improntato all’impianto di derivazione feudale. L'interesse fiscale dello Stato si presenta, comunque sia, come principio a contenuto essenzialmente politico prima ancora che normativo, in quanto diretto a regolare l’equilibrio tra poteri costituzionali. In effetti, la partecipazione dei rappresentanti del popol era funzionale a stabilire una regola di legge, Rule of law per l’appunto, in materia di tassazione che fosse idonea a garantire i diritti fondamentali del cittadino, soprattutto le libertà e la proprietà. Di conseguenza, il potere tributario deve essere rispettoso della regola di legge formulata dal Parlamento e i contribuenti potevano chiedere di valutare e sindacare l’atto di esercizio della funzione fiscale da parte dell’amministrazione finanziaria per verificare il rispetto della Rule of law: spettava ai giudici, più precisamente alla Court of Exchequer, effettuare tale sindacato. Il giudice doveva verificare l’esistenza degli elementi di fatto e di diritto stabiliti dalla regola di legge per l’esercizio della tassazione e poteva definire la portata semantica della norma secondo un’opera di interpretazione. Il criterio dell’auto-imposizione implicò come corollario giuridico l’attribuzione al potere giudiziario di una funzione di controllo e di sindacato rispetto al potere tributario. 3. La concezione della funzione fiscale nella rivoluzione americana Il tratto qualificante della rivoluzione americana è la forte vocazione democratica. Già nella seconda metà del XVII secolo emersero vari documenti di carattere istituzionale elaborati nelle colonie americane in cui si esprimeva l’aspirazione ad una tutela dei diritti fondamentali dell’uomo rispetto all’incombenza del sovrano inglese: la libertà di religione e di coscienza volevano proteggere le posizioni assunte nei vari territori coloniali. Si prevede, però, la contrapposizione fra due linee concettuali alla base del percorso rivoluzionario. In primo luogo, il pensiero di Thomas Jefferson prevedeva l’istituzione di un sistema di democrazia liberale fondato sull’autodecisione del popolo che risultasse funzionale a garantire i diritti fondamentali dell’uomo. Il punto focale di questa impostazione era la centralità del processo di formazione di del governo dei territori americani e nella necessità di indipendenza rispetto ai poteri esogeni. In secondo luogo, si definì una concezione di matrice liberista e liberale riconducibile a Alexander Hamilton e James Madison: il nucleo primario della comunità nazionale è la tutela dei diritti fondamentali, per cui si perseguiva un disegno di promozione delle libertà dell’uomo. Questo pensiero liberale rappresentò il fondamento della Costituzione degli Stati Uniti del 1787. I membri della Convenzione di Filadelfia che elaborarono la Costituzione erano espressione di interessi legati allo sviluppo industriale e commerciale del paese, per cui si affermava che «i fondamentali diritti personali di proprietà sono anteriori al governo». Lo Stato, quindi, si doveva porre in posizione protettiva rispetto alla proprietà e agli interessi economici. Sia nella Dichiarazione di indipendenza sia nella Costituzione degli Stati Uniti si affida il potere sovrano ad istituzioni che rappresentavano la volontà popolare. Nella connessione fra rappresentanza come forma di esercizio del potere sovrano e tutela dei diritti naturali si può cogliere il richiamo al pensiero di Locke, infatti secondo Locke i diritti fondamentali potevano essere garantiti solo attraverso la fissazione di limiti al potere assoluto del sovrano. La rappresentanza si configurò in modo diverso in relazione alla duplice corrente teorica prima menzionata: nel pensiero di Jefferson, si prevedeva una partecipazione popolare largamente maggioritaria in cui la volontà del popolo potesse essere ricostruita in maniera puntuale, per cui le istituzioni rappresentative dovevano essere composte in base ad una selezione di delegati che fosse in grado di corrispondere alla base popolare; nel pensiero di Hamilton e Madison, la rappresentanza andava definita secondo meccanismi elitari per assicurare «la delega di governo ad un piccolo numero di cittadini eletti dal resto del popolo», per cui le istituzioni divenivano strumenti per la rappresentanza di interessi emergenti dalla comunità nazionale da mediare rispetto al «bene comune». Quest’ultima è l’impostazione che si è andata affermando. Il tema della regolazione del potere tributario è stato affrontato nella prospettiva del consenso popolare dando valorizzazione del principio della rappresentanza. In una prima fase, il consenso alla tassazione era espressione dell’idea di auto-decisione delle colonie rispetto alla volontà esogena formulata dalla casa-madre. A questa impostazione si collega il pensiero di James Otis che assegnava alla fiscalità una posizione centrale rispetto alla rivendicazione di indipendenza, definendo il consenso alla tassazione come una necessità di diritto naturale. In una seconda fase, il tema del consenso si spostò verso gli interessi della nazione e il consenso diveniva una formula di sintesi del processo democratico che produce le mediazioni politiche occorrenti per una corretta decisione legislativa in materia di fiscalità. Il tema della fiscalità, quindi, si sposta verso l’ambito della politica interna e dell’espressione della volontà popolare richiesta per garantire l’interesse della nazione. In America, il consenso era espressione di una sovranità attribuita direttamente al popolo, non esisteva una contrapposizione fra sovrano e popolo a differenza di quanto avveniva in Inghilterra in cui il consenso veniva usato per regolare il patteggiamento istituzionale fra il sovrano e il popolo. Nella dottrina rivoluzionaria americana si consolidò il convincimento che il bene della comunità e la tutela dei diritti naturali dell’uomo fossero assicurati attraverso la stabilità di governo e l’inattività dello Stato: si definì l’idea per cui lo Stato dovesse astenersi da ogni intervento in economia e nella giustizia sociale e di conseguenza si ebbe un’assoluta estraneità alle dottrine rivoluzionarie americane di ogni attenzione ai fondamenti logici e giuridici del potere tributario. La matrice liberale indusse scelte di politica fiscale ispirate al protezionismo della capacità di funzionamento del sistema produttivo americano, ad esempio si ricorse a una politica doganale protettiva. Le teorie espresse dalla rivoluzione trovarono conferma nella giurisprudenza della Corte Suprema degli Stati Uniti. Figura chiave fu quella del Chief Justice John Marshall il quale emise una serie di sentenze storiche che fissarono la cornice giuridica e assiologica della Costituzione americana: egli prospettò la teoria della «supremazia della Costituzione» secondo cui la legge fondamentale poneva limiti insuperabili alle leggi dello Stato federale e dei singoli Stati. Si affermò che il potere tributario costituisce un elemento fondamentale della sovranità che garantisce l’efficace funzionamento dello Stato, il potere di tassazione è un potere assoluto che non conosce altri limiti se non quelli fissati in Costituzione e il potere tributario può essere esercitato dall’Esecutivo secondo valutazioni autonome, si esclude un controllo del merito del potere tributario, ma si prevede un criterio di rappresentanza politica manifestata attraverso il Parlamento che definisce un garanzia di procedura rispetto all’esercizio del potere tributario. Nella seconda metà del XVIII secolo si formulò una teoria di resistenza fiscale, sviluppata nell’ambito delle dottrine religiose, che propugnava la libertà dell’individuo di sottrarsi alla sovranità dello Stato qualora l’utilizzo del gettito fiscale fosse rivolto a manifestazioni di violenza incompatibili con il credo religioso. A partire da John Woolman si affermò anche un’idea di resistenza fiscale che metteva in discussione il diritto del sovrano a richiedere imposte a fronte di una destinazione bellica che contrastava con il diritto dei popoli. 4. L'ulteriore trasformazione della funzione fiscale nel sistema francese di formazione illuministica In Francia, vi era una monarchia assoluta che aveva esautorato da qualsiasi funzione il Parlamento di conseguenza le istanze riformatrici assunsero un carattere più radicale rispetto all’impostazione inglese. Il sistema fiscale monarchico presentava i tratti originari della fiscalità medievale, quindi si delineò la convinzione che il carico fiscale dovesse seguire un percorso di sviluppo diretto a superare il sistema di tributi dell’Anchien Régime attraverso una trasformazione concettuale dei criteri di tassazione. Nel pensiero illuministico si pone in risalto come le imposte debbano assumere un ruolo positivo all’interno dell’organizzazione sociale, per cui il cittadino è chiamato a partecipare all’assetto politico del paese con il proprio suffragio ed al fabbisogno economico mediante la propria contribuzione. In effetti, in Francia, la contribuzione tributaria è stata più volte presentata come elemento discriminante per l’accesso alle cariche politiche e per l’attribuzione dell’elettorato attivo. La concezione etica e politica del tributo viene modificata: «il pagamento del tributo è posto come uno dei più alti doveri del cittadino e si afferma l’uguaglianza di tutti i cittadini davanti al tributo»; il tributo viene qualificato come un essenziale strumento di partecipazione del cittadino alla vita politica e come un «segno di libertà». L'interesse fiscale viene elevato al livello degli interessi pubblici fondamentali e si fonda su un concetto di sovranità non più identificata con il potere regio, bensì la sovranità viene attribuita alla volontà generale: il singolo partecipa con gli strumenti propri della vita politica alla formazione delle scelte generali in materia fiscale. Allo stesso tempo, la componente borghese conduce ad una valorizzazione degli interessi individuali. Si inserisce l’idea contrattualistica di una collettività statuale imperniata sul consenso degli individui destinati a farne parte: si afferma il principio del consenso in materia tributaria per cui si devono recuperare le funzioni rappresentative in materia di decisioni sul livello di imposizione con valorizzazione dello strumento legislativo. Nella scuola dei fisiocratici, si afferma anche l’idea di applicare i criteri giuridici del rapporto obbligatorio nel sistema fiscale: i tributi si inquadravano come prestazioni rese dai singoli cittadini a fronte del godimento di servizi pubblici erogati dallo Stato, quasi si trattasse di uno scambio di mercato. Montesquieu individua un sistema di limiti nella distribuzione del potere da realizzare mediante la tripartizione delle funzioni di governo. Egli inquadra la funzione fiscale come espressione del patto sociale, in quanto il tributo è la parte di ciò che il «cittadino dà di ciò che possiede per avere la sicurezza del restante». Nel pensiero di Montesquieu emerge una connessione fa libertà e imposizione fiscale, in quanto il tributo è il corrispettivo dei diritti politici e garantisce la libertà dei cittadini rispetto al potere del sovrano. La libertà civile e politica della comunità richiede un livello più elevato di imposizione fiscale. Comunque sia, il prelievo fiscale va innestato in un contesto di libertà civili che contempla la proprietà come fattore fondamentale dell’individuo. Si comincia ad elaborare un compromesso fra fruizione individuale ed utilità generale: la ricerca dell’interesse individuale può essere coniugata con le finalità collettive in quanto esiste una modalità comune d’azione. La mediazione fra interesse della comunità alla percezione dei tributi e tutela dei valori individuali di aspirazione borghese avveniva realizzata attraverso la fissazione di parametri normativi generali che consentissero un contenimento della potestà d’imposizione e, quindi, la protezione di un’area individuale. Le contraddizioni derivanti dalle direttrici ideologiche sopra indicate si riflettono sul tema dell’uguaglianza dei cittadini sotto il profilo fiscale: la Dichiarazione dei diritti del 1789 affermò all’articolo 6 l’uguaglianza di fronte «alle tasse ed alla legge» e all’articolo 13 che «la contribuzione comune deve essere ripartita egualmente tra tutti i cittadini in ragione dei loro averi». L'uguaglianza assumeva il connotato di un’equivalenza formale degli uomini di fronte agli obblighi fiscali per cui si promossero strutture impositive ispirate dalla tassazione proporzionale. Le idee dell’illuminismo sfociarono nella rivoluzione francese del 1789: i tributi di origine feudale vennero soppressi e sostituiti da un articolato complesso di prestazioni tributarie; l’esazione dei tributi venne affidata alle municipalità locali sottraendola ai funzionari regi. Al posto di una disorganica serie di tributi, il prelievo fiscale venne organizzato intorno a delle imposte che dovevano assicurare stabilità del gettito e un riparto più equo tra le varie categorie di contribuenti: si spostò il baricentro fiscale dalle imposte indirette, regressive, a quelle dirette. I tributi rappresentavano il risultato di un assetto coerente ai valori diffusi nella società civile. 5. Il potere tributario a seguito delle rivoluzioni dell’epoca moderna La rivoluzione è una trasformazione dell’ordinamento di una comunità conseguente ad una ribellione di massa: si vuole «abbattere l’ordine costituito per instaurarne di fatto uno nuovo». Il Logos dello Stato viene modificato attraverso la definizione di un altro Logos emergente dal movimento rivoluzionario, in questo senso si può sostenere che le rivoluzioni dello Stato abbiano generato un’età del Chaos. La funzione fiscale viene identificata come un valore che permea il sistema tributario; allo stesso tempo, il potere tributario si pone in relazione dialettica con i valori fondamentali di libertà e proprietà degli individui: la matrice comunitaria e la tensione dialettica con altri valori costituzionali valgono a delineare il carattere del potere tributario come elemento del patto sociale, per cui si deve porre in essere un bilanciamento di interessi. I valori propri dell’individuo vengono assunti come punto di rifermento dello sviluppo del diritto fiscale: in Inghilterra e negli Stati Uniti, la tassazione è vista come un limite allo sviluppo dell’individuo; mentre, in Francia, l’interesse fiscale assume un valore superiore nel confronto con i diritti individuali. Si possono individuare, quindi, due direttrici: la prima direttrice orientata verso una concezione utilitaristica dei rapporti pubblici in cui si afferma la prevalenza dell’individuo e una seconda in cui la dimensione etica e l’interesse generale della collettività sono valori supremi e prevalenti rispetto agli interessi individuali. Muta anche il rapporto fra sovrano e cittadinanza: il patto sociale che sosteneva la nuova sovranità era definito nelle costituzioni in cui si dichiaravano i principi fondamentali della relazione sociale e politica. Il fondamento assiologico del potere tributario era da ricercare nel bene comune e il potere tributario veniva spersonalizzato in quanto considerato come un potere generale dello Stato al servizio del bene comune e non più connesso al potere assoluto del sovrano- persona. Il potere tributario perde la sua determinazione auto-referenziale e viene, invece, stabilito secondo il principio del consenso parlamentare, per cui l’imposizione è decisa secondo una procedura concordata con le istituzioni rappresentative della volontà popolare. L'effetto rilevante di questa trasformazione si avverte nel sindacato giudiziario degli atti autoritativi riferiti alla potestà tributaria: la tutela giudiziaria diviene il meccanismo mediante il quale si garantisce l’effettiva attuazione del diritto fiscale stabilito dalla legge. La borghesia mercantile ed industriale si è posta come base economica e politica delle iniziative rivoluzionarie per rivendicare cambiamenti degli assetti sociali che permettessero una maggiore capacità di funzionamento dei mercati e di circolazione della ricchezza. Di conseguenza, la limitazione del potere tributario dello Stato assoluto era una necessità storica per la modernizzazione del patto sociale. La regola di legge che voleva limitare la potestà amministrativa in ambito fiscale era espressione di un progetto di sviluppo delle libertà borghesi essenziale per promuovere il capitalismo mercantile ed industriale. Il fondamento della trasformazione del potere tributario risiede nell’avvento del capitalismo borghese e, quindi, nella trasformazione dell’oligarchia dominante. In quest’epoca si afferma anche il principio di uguaglianza, la quale era intesa come uguaglianza davanti alla legge e nei diritti fondamentali di dignità, libertà e proprietà. Si trattava di un’uguaglianza «negativa» che voleva esprimere l’eguale considerazione dei consociati nella società a prescindere da elementi che potessero ostacolarla. L'uguaglianza in ambito fiscale si manifestò in forma diversa a seconda dei vari contesti: in Inghilterra e America, l’uguaglianza rimase un motivo di fondo per cui lo Stato doveva ridurre il potere tributario per consentire a ciascuno di esprimere le proprie potenzialità; in Francia, l’uguaglianza era alla base dell’ideologia rivoluzionaria e si presentava come uguaglianza «formale» come equivalenza formale degli uomini di fronte agli obblighi fiscali. L'uguaglianza non voleva mettere in discussione i postulati capitalistici della «società dei proprietari», anzi favoriva l’accumulazione. Capitolo sesto: Capitalismo e potere tributario 1. Rivoluzione industriale e libero scambio: la trasformazione del sistema doganale Elemento determinante del XIX secolo è la rivoluzione industriale, in quanto il progresso tecnologico esercitò un sensibile effetto sulla capacità del sistema produttivo generando un incremento del prodotto interno lordo delle nazioni. L'Inghilterra assunse un ruolo primario nello sviluppo dell’industrializzazione europea e mondiale: l’utilizzo delle innovazioni tecnologiche venne poi replicato anche nelle altre nazioni. La Rivoluzione industriale esercitò una grande influenza sull’assetto economico e sociale del tempo, in quanto il fabbisogno della comunità poteva essere soddisfatto solo facendo ricorso a un’attività ‘impresa che utilizzava i nuovi fattori della produzione. Si realizzò l’elemento che diede avvio al capitalismo. A livello internazionale si afferma il principio del libero scambio e si definisce l’ordine liberale che vuole abolire le barriere fisiche e legali ai traffici commerciali che possano alterare o comprimere la capacità di funzionamento «naturale» del mercato. L'idea guida era rappresentata dall’orientamento della gestione della cosa pubblica verso la ricerca del benessere generale, per cui i provvedimenti di carattere liberale dovevano servire a massimizzare l’utilità generale della comunità. Nella tradizione dello Stato moderno, il regime degli scambi era ispirato ad un assetto protezionistico per cui si ricorreva a prestazioni fiscali, soprattutto dazi doganali, come barriere legali rispetto alla circolazione di prodotti dall’estero. I dazi doganali erano imposti sulle importazioni di prodotti che erano suscettibili di competere con la produzione nazionale ovvero sulle esportazioni di derrate alimentari e beni agricoli per contenere il prezzo sul mercato domestico. Nel pensiero liberoscambista, invece, i dazi riducono la capacità di funzionamento del mercato, internazionale e domestico, limitando le potenzialità economiche e di espansione dell’utilità generale. Dunque, la diffusione delle idee liberistiche portò, prima in Inghilterra e poi negli altri paesi industrializzati, a modificare la legislazione doganale in senso favorevole al principio del libero scambio. Solo pochi paesi, come la Spagna e la Russia, mantennero un’impronta protezionistica. Bisogna evidenziare che i dazi, comunque sia, rappresentavano una fonte importante delle entrate fiscali dello Stato, di conseguenza si doveva ricorrere ad altre fonti di entrata che fossero in grado di compensare la perdita di gettito. In Germania esisteva un sistema doganale frammentato: si registravano 39 Stati e 39 sistemi doganali distinti, alcuni più liberali altri più protezionistici. Con la costituzione della Confederazione degli Stati tedeschi del 1815 si istituì un sistema doganale comune, per cui si abolirono le frontiere interne e si istituì un sistema tariffario unico su tutto il territorio. Si costituì una vera e propria unione doganale, lo Zollverein, che portò all’abolizione delle frontiere interne e all’adozione di regimi doganali uniformi sull’intero mercato tedesco: si tratta dello sfondo ideologico di un movimento portatore del progetto di unificazione nazionale. 2. L'avvento del capitalismo industriale Dopo la prima fase della rivoluzione industriale, si assiste ad uno slancio economico dei sistemi produttivi. Le invenzioni e le innovazioni riguardano i fattori impiegati nella produzione industriale come il petrolio, l’elettricità, i prodotti chimici. Aumenta la produttività industriale e si realizza una diffusione di massa dei prodotti che favorisce il ciclo economico dello sviluppo capitalistico. Si favorì uno sviluppo del benessere individuale e collettivo e di conseguenza vi fu un aumento demografico. Si formò il convincimento che la crescita della produzione industriale aumentava in dipendenza dell’investimento di capitale da parte dell’imprenditore, per cui l’aumento ei fattori produttivi avrebbe comportato un aumento dei risultati economici: ciò lasciava intendere la possibilità di una crescita illimitata e fece nascere il «mito» dell’investimento. Il movimento liberoscambista subì un «effetto di riflusso» nella seconda metà del XIX secolo che produsse un rallentamento dei processi di riduzione dei dazi doganali e, quindi, un «ritorno al protezionismo». Dopo la firma del Trattato «Cobden-Chevalier» fra Francia e Inghilterra che portava all’abolizione dei divieti ni traffici commerciali fra i due paesi e all’esenzione di numerosi prodotti dai dazi doganali, altri Stati assunsero un’impostazione marcatamente protezionistica che prendeva come riferimento lo Zollverein tedesco. Dunque, si introdussero dazi doganali su prodotti strategici nel sistema economico interno. Negli Stati Uniti, la teoria protezionistica di Hamilton promuoveva l’esigenza di tutelare lee industrie nascenti attraverso le barriere tariffarie. Soltanto l’Inghilterra mantenne un rigoroso approccio liberoscambista. 3. La reazione al capitalismo: il socialismo e il contenimento delle diseguaglianze Lo sviluppo del capitalismo comportò rilevanti trasformazioni dei rapporti sociali nelle città e nelle comunità industriali, in quanto l’utilizzo di grandi masse di lavoratori in condizioni ambientali difficili generò numerose situazioni di miseria e povertà. La «nuova povertà» non riguardava solo gruppi marginali, ma assumeva un carattere endemico, generando una sorta di «epidemia della povertà». Il lavoro, considerato come una merce, veniva venduto dai salariati e acquistato dai capitalisti; inoltre, in una condizione di popolazione in aumento e di libera concorrenza fra i lavoratori, i salari scendevano ai livelli di minima sussistenza. L'aggregazione urbana, inoltre, porta a stretto contatto i vari livelli della popolazione il che mette in comparazione lo stile di vita dei ricchi industriali e dei molti operai: si avverte l’ingiustizia di una società squilibrata che porta alle rivendicazioni dei lavoratori. Il socialismo trova la sua ragione fondativa in tale contesto. La base filosofica del pensiero socialista è ravvisabile nella rappresentazione materialista della società: i processi economici formano l’angolo visuale sotto il quale è ricostruito il potere dello Stato e le relazioni fra classi sociali. La società capitalista è considerata come un passaggio transitorio nel percorso storico verso un assetto rivoluzionario in cui è dominante il proletariato e scompaia la titolarità dei mezzi di produzione in capo alla borghesia. La società prefigurata dal socialismo è una comunità solidale in cui si supera la solitudine dell’individuo. La rappresentazione del pensiero socialista è il Manifesto del partito comunista di Marx e Engels. In una prospettiva rivoluzionaria, si richiede un ripensamento della funzione fiscale: il prelievo fiscale deve assumere una funzione redistributiva, la struttura del sistema fiscale deve essere integrata anche da imposte dirette che devono assumere una connotazione progressiva. La rivisitazione della funzione fiscale si collegava al progetto di abolizione della proprietà dei mezzi produttivi al fine di rimuovere il potere di una classe privilegiata e di favorire la socializzazione del potere nello Stato a beneficio del popolo. La trasformazione della fiscalità, quindi, andava collegata ad un progetto di sviluppo della società ispirato dal principio di uguaglianza sostanziale che avrebbe comportato la redistribuzione delle risorse. Questa finalità di trasformazione sociale fu il pericolo avvertito dagli ideologi del capitalismo borghese liberista. 4. La funzione fiscale nell’epoca del capitalismo La visione liberoscambista dei rapporti economici influì anche sulla ricostruzione della funzione fiscale: lo Stato venne considerato come un soggetto estraneo ai processi di sviluppo del capitale e dell’industria e aveva solo un ruolo di regolatore di vicende istituzionali destinate a proteggere il funzionamento del mercato. La fiscalità era riportata ad una logica di scambio fra la prestazione patrimoniale dovuta dal cittadino ed il servizio pubblico assicurato dallo Stato: questa visione «commutativa» delle prestazioni fiscali si poneva in continuità con la visione libero-scambista dei rapporti economici. Vennero mantenute, in linea di massima, le strutture del prelievo fiscale che avevano caratterizzato il passato. Il nucleo del prelievo fiscale continua ad essere rappresentato dai tributi indiretti: i dazi doganali sono applicati in maniera consistente ai traffici commerciali esteri, pur in un contesto mutevole nel tempo; si prevedevano prestazioni tributarie rivolte ad incidere sulla circolazione delle merci ne mercato interno e che, quindi, colpivano la fabbricazione o il consumo dei beni (per i beni oggetto di fiscalità si assiste ad una variabilità in base alle specificità del sistema produttivo nazionale, ad es. in Inghilterra e America si presta attenzione alle bevande alcoliche e al tè, in Francia si tassa il vino e il tabacco, nei paesi mediterranei si colpiscono con i dazi i beni di prima necessità come il sale o il grano). La fiscalità indiretta si arricchisce anche di imposte sugli atti, come l’imposta di registro. Cominciano ad essere istituite in modo ordinato le imposte dirette: le prime articolate forme di imposizione diretta fu realizzata in Francia, ad es. l’imposta fondiaria, l’imposta su porte e finestre, la tassa sulla ricchezza mobile (colpiva i redditi presunti dell’azienda), e poi questo modello venne ripreso dalla maggior parte dei paesi europei. La nota qualificante di tale imposta è la base indiziaria che portava ad assoggettare a tassazione un reddito figurativo e congetturale, dunque tali imposte erano affini alle imposte patrimoniali in quando andavano a colpire il possesso di beni immobili. La connotazione giuridica di queste prime forme di tassazione diretta corrisponde al clima ideologico del capitalismo in quanto si riferisce al capitale come elemento di tassazione piuttosto che al flusso reddituale effettivamente prodotto dall’attività economica. Si iniziano ad adottare anche imposte sulla ricchezza mobiliare che si riferiscono ai proventi delle attività economiche. L'istituzione della tassazione sulla ricchezza mobile segnava un’importante trasformazione dei sistemi fiscali, poiché indicava la rilevanza dell’attività economica a prescindere dall’impiego di proprietà immobiliari e portava il prelievo fiscale ad incidere sui risultati della ricchezza mobile. L'attenzione alle attività economiche era un corollario del nuovo contesto economico industriale e capitalistico. La fiscalità degli Stati europei nel XIX secolo mostra una situazione disomogenea per cui vi erano una pluralità di ordinamenti tributari. Le maggiori divergenze della fiscalità erano riconducibili all’imposizione della ricchezza mobile a causa dell’eterogeneità dei tributi applicati: la diversità di tributo incideva sull’identificazione del presupposto, sul criterio di commisurazione dell’imposta e sulla valutazione della base imponibile in quanto si prendeva a riferimento o il reddito effettivo o il reddito presuntivo. Si riscontravano differenze anche nell’imposta fondiaria e nelle imposte indirette. Una certa omogeneità si riscontrava nelle imposte di bollo e di registro. Agli inizi del Settecento, il sistema del diritto comune presentava una pluralità di fonti normative che si ponevano in rapporto di concorrenza o di coordinazione fra di loro. L'esigenza di comporre la frammentazione dell’ordinamento giuridico si sviluppò a seguito del dibattito che si sviluppò nel XVIII secolo in merito al superamento del Corpus iuris civilis giustinianeo. Sulla scia della legislazione napoleonica, in numerosi paesi vi fu un impulso alla redazione di codici per il diritto civile, il diritto penale e le relative procedure. Da questo processo di codificazione e di razionalizzazione fu tenuto fuori il sistema tributario, in quanto vi era l’idea che la disciplina fiscale avesse caratteristiche di ordine amministrativo e, quindi, non era una disciplina volta a regolamentare rapporti giuridici fra soggetti bensì erano norme volte a indirizzare l’attività dell’amministrazione statale nella raccolta di risorse finanziarie. Le leggi di imposta costituivano medio-sistemi autonomi ed indipendenti, mentre il macro- sistema era composto prevalentemente di regole di ordine costituzionale. Le conseguenze di questo assetto così scomposto e frazionato era la difficoltà di rintracciare criteri ermeneutici unitari e l’instabilità delle regole di imposizione. 5. Il mito dei catasti Nel secolo XVIII, in numerosi Stati europei, si affermò l’idea per cui il sistema tributario di derivazione feudale dovesse essere sottoposto a revisione. Si era delineato un modello fiscale imperniato sulla pre-determinazione del reddito imponibile riferibile alla terra e anche ad attività mobiliari, da individuare sulla base di valutazioni congetturali: tale modello fiscale era imperniato sull’istituzione di un catasto dei terreni e delle ricchezze mobiliari. I catasti erano improntati a diverse metodologie, vi erano: catasti di tipo geometrico- particellare, che consentivano misurazioni analitiche della dimensione fisica dei terreni; catasti di tipo descrittivo, che riproducevano, su base peritale, una stima della capacità produttiva del singolo appezzamento di terreno. Si è affermato il «mito del catasto» come strumento evoluto e moderno di tassazione della ricchezza prodotta dai cittadini sul territorio nazionale. Nello Stato di Milano, venne formulato un progetto di revisione dell’imposta diretta e nel 1718 venne proposta l’istituzione di un catasto, ma questa riforma rimase incompiuta a causa della crisi istituzionale che colpì la monarchia milanese. Nel 1750, Pompeo Neri venne incaricato di formulare una nuova proposta di catasto per lo Stato milanese; da tale studio derivano alcuni principi fondamentali: - Gli appezzamenti di terra erano misurati nella loro estensione geometrica (catasto geometrico-particellare), dando carattere oggettivo alla classificazione fondiaria; - La tassazione della terra doveva essere effettuata con riguardo alla «rendita imponibile» espressa da ogni porzione fondiaria; - Si definì il concetto di «reddito ordinario» individuato sulla base dei risultati ritraibili mediamente secondo l’esperienza verificata; - La tassazione della rendita mobiliare era parametrata al tasso medi di rendimento del capitale; - I benefici a speciali categorie di contribuenti (ecclesiastici) andava abolito in virtù di una visione egualitaria della tassazione. Il censimento entrò in vigore dal 1760 e in ogni comunità venne istituita una commissione chiamata alla formazione dell’imposta e alla tenuta dei ruoli d’imposta. Il tributo si rivelò efficace rispetto alla gestione amministrativa e consentì di risanare le finanze pubbliche. Nel Regno di Napoli, nel 1740 Carlo di Borbone ordinò l’istituzione di un catasto generale per tutti i territori al fine di promuovere un riassetto strutturale della fiscalità. Si optò per un catasto di tipo descrittivo, privo di una rilevazione analitica del terreno. Il metodo prescelto fu denominato «onciario» in virtù dell’unità di misura adottata, ovvero l’oncia, in base alla quale si misurava la capacità di rendita del singolo appezzamento di terra e, quindi, la base imponibile del catasto. La classificazione catastale ricomprendeva redditi fondiari e proventi di altro genere, in virtù del fatto che le imposte reali coesistevano con le imposte personali. Il catasto si fondava su una denuncia presentata dal contribuente, ovvero la «rivela», e i beni fondiari ivi indicati erano oggetto di una valutazione denominata «apprezzo» formulata da agrimensori locali. La rendita era stimata al netto dei costi di produzione. La «rivela» era verificata dai funzionari pubblici mediante uno scrutinio dei dati riportati, ovvero lo «spoglio»; i dati delle dichiarazioni verificate erano riportati in un documento che riassumeva la base imponibile complessiva del territorio comunale, ovvero la «collettiva generale». Il reddito imponibile era tassato con aliquote diverse a seconda della categoria di appartenenza del contribuente. Nonostante vi fosse un’idea di fondo di riforma, l’applicazione concreta di tale istituto produsse notevoli disparità che agevolarono le classi sociali più forti. Nel Regno delle due Sicilie, Vittorio Amedeo II aveva avviato una distribuzione dei carichi fiscali sui terreni del regno al fine di ripartire il prelievo tributario tra le province. Nel 1731 venne emanato l’editto di perequazione fiscale da parte di Carlo Emanuele III che concluse l’opera paterna. Il catasto sabaudo configurò un esempio di perequazione fiscale volta a perseguire un disegno razionale ed oggettive di misurazione della base imponibile su cui applicare le prestazioni tributarie. Il mito del catasto italiano si trasferì nell’ideologia illuministica francese, divenendo il modello di riferimento da utilizzare per la fiscalità di una società riformata: si prospettò l’idea che la tassazione sui proventi della terra dovesse avvenire secondo un criterio razionale ed oggettivo che portasse al riconoscimento dell’effettiva capacità produttiva. Nel 1802, fu ordinato di avviare i lavori preparatori per la formazione di un catasto particellare generale in Francia (venne istituito nel 1811). 6. Le teorie economiche sul capitalismo ed il ruolo della funzione fiscale Adam Smith, nella sua opera La ricchezza delle nazioni, fornì la completa sistematizzazione della scienza economica moderna, in quanto colse i tratti qualificanti del processo capitalistico. Smith dedicò attenzione al ruolo della politica pubblica rispetto al funzionamento del mercato soffermandosi sulla funzione fiscale: le spese di carattere generale dello Stato vanno sostenute dalla contribuzione fiscale a carico dei membri della società in proporzione alle rispettive capacità, inoltre, egli collega l’obbligo fiscale ai benefici che ciascun contribuente riceve dall’attività pubblica, si tratta del principio di giustizia o proporzione. Egli stabilisce, poi, il «principio della certezza dell’imposta», per cui «il tempo del pagamento, il modo di pagare, la somma dovuta dovrebbero essere tutti chiari e semplici per il contribuente» in quanto le incertezze del sistema tributario favoriscono l’arbitrio. Si afferma anche il «principio della comodità dell’imposta» per cui l’imposta deve essere riscossa nel tempo e nel modo in cui è più comodo al contribuente, ovvero quando egli ha mezzi adeguati per pagarla. Infine, si stabilisce il «principio dell’economicità della riscossione» per cui il prelievo fiscale non deve comportare per lo Stato un costo superiore al beneficio che ne può trarre, in quanto l’attuazione del tributo può richiedere oneri ingiustificati ed irrazionali. Smith poi esprime preferenza le imposte che assumono come presupposto e come base imponibile la ricostruzione effettiva del reddito in quanto elemento razionale di calcolo della prestazione tributaria; mentre si esprime sfavore per le imposte di carattere patrimoniale che riducono ingiustamente la portata del capitale da investire nelle iniziative economiche o nella dignità della vita. Smith, inoltre, rileva la diseguaglianza delle imposte indirette, in quanto colpiscono in modo ineguale il ricco e il povero in virtù del fatto che sono proporzionali. Si esprime, quindi, preferenza per le imposte dirette. Richard Cantillon promosse il libero scambio come strumento dello sviluppo dell’economia dello Stato. Altro contributo al libero scambio provenne da J.B Say e da Humboldt. Quest'ultimo formula una teoria dei limiti dello Stato per cui questo non deve intervenire nell’economia e nella società: lo Stato è un «male necessario» che può procedere con i suoi interventi in ambiti circoscritti solo dove è indispensabili per assicurare la sicurezza degli individui. Infatti, sono le libertà in tutti i campi che garantiscono lo sviluppo della società e del benessere, dunque lo Stato non deve limitare la libertà dei cittadini. Di conseguenza, il ricorso alla funzione fiscale deve essere limitato allo stretto indispensabile. Egli, inoltre, mostrò di preferire le imposte dirette sulla proprietà fondiaria rispetto a quelle indirette sui traffici mercantili. David Ricardo è l’ideologo di riferimento del movimento liberoscambista. Egli affermava come un’imposta sui lavoratori sarebbe stata trasferita dai produttori in un aumento del prezzo delle merci al fine di mantenere inalterato il salario del lavoratore, dunque egli sosteneva che andavano evitate le imposte che colpivano i profitti in quanto avrebbero interferito con i processi espansionistici del sistema industriale. Di conseguenza, andava escluso l’intervento governativo rispetto al funzionamento del mercato e si doveva guardare con diffidenza il prelievo fiscale che potesse avviare processi redistributivi. Egli suggerì di optare per imposte indirette sui consumi di lusso e per imposte sulle rendite fondiarie in quanto non avrebbero ostacolato il funzionamento del mercato e non avrebbero posto un freno all’espansione dell’economia. Jeremy Bentham definisce il principio di utilità come nucleo logico dei rapporti produttivi e di scambio: le attività umane sono orientate a perseguire l’utilità individuale in quanto connessa alla ricerca della felicità; gli atti che si scostano dall’utilità sono da disapprovare in quanto contrari alla razionalità dell’agire umano. Lo Stato ha come obiettivo la protezione di un assetto ordinato nella società civile volto allo scambio ed alla produzione in quanto fattori determinanti per la ricerca dell’utilità: gli interventi dello Stato devono fornire la cornice normativa più favorevole alla dinamica del mercato e del libero scambio. Lo Stato deve fissare un ordine naturale che emerge dalle regole del mercato al fine di conservare la proprietà ed il commercio e quindi di tutelare il benessere che ne deriva. Egli ritiene che l’uguaglianza vada intesa come un principio astratto che non richiede l’equa distribuzione delle ricchezze, in quanto la diversità di posizione sociale ed economica è la «condizione naturale della società umana». Il prelievo delle prestazioni tributarie ha una connotazione coercitiva che produce una riduzione delle libertà del cittadino. David Hume è espressione del pensiero mercantilista. Il diritto di proprietà si pone come garanzia essenziale della libertà individuale e si presenta come conseguenza naturale di un assetto ordinato verso la libera concorrenza nel mercato. Egli evidenzia il nesso tra l’imposizione tributaria e la crescita dell’economia, in quanto solo in virtù di tale connessione i tributi sono considerati sostenibili dal contribuente. Inoltre, la relazione fa tributi e ricchezza industriale deve essere proporzionale. Egli predilige le imposte indirette, ovvero le imposte che gravano sui consumi, specialmente su quelli di lusso perché si tratta delle tasse meno sentite dal popolo. Alexis De Tocqueville analizza i meccanismi di un assetto democratico in cui si persegue un disegno di «eguaglianza delle condizioni», per cui la democrazia si presenta come un «tipo ideale» orientato verso il benessere della comunità e la funzione fiscale viene inquadrata come strumento per assicurare le risorse occorrenti alle esigenze dello Stato. Egli, inoltre, individua una relazione fra la prevalenza politica di una classe sociale e la scelta del modello di imposizione, per cui se governa la classe dei ricchi, questa non diminuiranno le tasse poiché queste tolgono solo il superfluo; se governa la classe media, questa non sarà prodiga di imposte perché non vi è nulla di peggiore di una tassa su una piccola fortuna; se governa la classe dei poveri, questa aumenterà le imposte perché i poveri non hanno nessuna proprietà imponibile e gli sembra che tutto il denaro che si spende possa solo dare profitto. La soluzione preferibile è il governo della classe media in quanto l’incremento della pressione fiscale è visto come un eccesso di intervento dello Stato in economia. Stuart Mill esprime la teoria della «libertà negativa» per cui la libertà è libertà da ingiustificate interferenze esterne. Ne deriva un impianto ricostruttivo della politica in cui la capacità di intervento dello Stato è limitata alle sole iniziative di protezione del nucleo fondamentale dei diritti individuali. Dunque, la tassazione si presenta come un attributo della sovranità da limitare al minimo. In un assetto di libera concorrenza di mercato, la tutela del capitale e del risparmio dalla tassazione costituiscono fattori determinanti per il consolidamento del sistema produttivo. Inoltre, l’inquadramento della funzione fiscale è da lui riportato ad un contesto di capitalismo mercantile in cui la parte principale del gettito tributario dello Stato deriva dalle imposte indirette sulla circolazione delle merci. Friedrich List è il principale teorico della politica doganale adottata dallo Zollverein in Germania. Egli affermò che la dimensione economica è un processo ininterrotto che attraversa vari stadi di sviluppo e per garantire un adeguato percorso di crescita fra queste fasi è essenziale che lo Stato una funzione di direzione e protezione del mercato interno. Un fondamentale strumento nella gestione pubblica delle dinamiche del mercato è individuato nelle tariffe doganali, in quanto paesi in via di sviluppo, come la Germania, potevano trarre benefici dallo strumento protezionista doganale (solo gli Stati sviluppati potevano rinunciare alle protezioni doganali). Karl Marx riprende le critiche al sistema liberoscambista di List. Marx riteneva che si dovesse abolire la proprietà privata dei mezzi di produzione al fine di favorire la socializzazione del capitale attraverso lo Stato così da abolire il potere politico della classe borghese e ridurre l’oppressione sulla classe proletaria. Il capitalista è il principale beneficiario del ricavato dei proventi della fiscalità, in quanto le spese pubbliche dello Stato si riflettono in incrementi del benessere o della capacità di investimento della classe dei capitalisti: il beneficio del capitalista è rappresentato dal plusvalore sul lavoro dei salariati più il risultato indiretto di imposte e tasse. Egli critica l’impostazione di Hegel per cui le imposte possono funzionare come fattore di sviluppo della capacità dello Stato di perseguire le finalità collettive, in quanto il percorso parlamentare non esprime il potere di controllo della fiscalità. Marx propose un’imposta generale sul reddito a carattere progressivo per ridurre i benefici della classe borghese e favorire i processi di redistribuzione della ricchezza a favore di operai e proletari. L'imposta progressiva rappresenta una minaccia della proprietà in quanto chiama i ricchi a contribuire in misura maggiore. 7. L'idealismo tedesco e la teoria dei diritti pubblici soggettivi La costruzione edificata dal giusnaturalismo tradizionale viene scossa dal concetto di «totalità etica» che è assunto da Hegel a premessa della nuova concezione del diritto e dello Stato. Il «tutto» identificabile nello Stato è superiore rispetto alle parti che lo compongono, ovvero ai singoli aggregati nella società civile, per cui la libertà degli individui non è quella soggettiva, ma è quella oggettiva che si realizza nello Stato e che diviene tale solo in quanto si realizza nella comunità mediante la legge. Di conseguenza, lo Stato deve guardare all’interesse generale e non piegarsi agli interessi particolari dei singoli. L'imposizione fiscale è determinata dal potere statale in relazione alle esigenze dell’interesse generale e non riguarda la libertà individuale. Gerber fa assurgere lo Stato a centro assoluto dello sviluppo del diritto pubblico e di tutti i rapporti giuridici che ne derivano, sul presupposto che «in esso il popolo giunge ad essere riconosciuto e a valere come un’unità etica totale». Corollario di tale identificazione è la personificazione dello Stato. Il potere dello Stato è diretto a realizzare gli interessi ed i fini della collettività ed ha carattere di forza suprema ed irresistibile cui si piega totalmente ciascun individuo. Si evidenzia come l’obbligazione di imposta abbia perso il carattere privatistico e la prestazione tributaria abbia acquisito i tratti di un obbligo generale fondato sul rapporto etico e giuridico che collega i cittadini allo Stato. L'esercizio del potere tributario può avvenire solo con i modi e le forme di una democrazia parlamentare, quindi attraverso la legge, affinché le decisioni sul bene comune emergano attraverso un’adeguata procedura di confronto nella comunità politica. La vicenda fiscale è riportata ad un ambito di interessi generali e primari della collettività in cui diviene evanescente la situazione giuridica dell’individuo. I rapporti tributari vengono qualificati in relazione all’interesse fiscale dello Stato e, di conseguenza, le fasi di contenzioso sono affidate all’attività decisionale amministrativa. Secondo la dottrina tedesca, la potestà impositiva esprimeva la posizione dominante dello Stato rispetto al dispiegarsi delle volontà individuali quale si sarebbe avuta in un contesto parlamentare. La legge di bilancio consente un rendiconto dell’attività di governo e dei risultati prodotti in termini di entrate fiscali. La teoria del diritto pubblico di emanazione tedesca è caratterizzata dalla priorità assoluta assegnata all’interesse fiscale come interesse generale della collettività rispetto agli interessi individuali. Lo Stato viene considerato come il garante della preservazione e dello sviluppo della personalità umana. Il processo evolutivo del potere tributario si sviluppa abbandonando la visione personalistica del sovrano e quindi la riconducibilità alla volontà autoritaria del sovrano. La soggezione del cittadino al potere tributario è assoluta e senza limiti, ma è rimessa alla condizione che tale potere venga esercitato nel rispetto delle procedure pubbliche suscettibili di far emergere la determinazione dello Stato come espressione del volere collettivo e funzionale al bene comune. L'interesse fiscale è, infatti, un valore primario della collettività. I principi espressi dall’idealismo tedesco vennero recepiti dalla dottrina del «metodo giuridico». Si diffuse l’idea che la relazione tributaria dovesse essere ricollegata alla sovranità dello Stato e declinata secondo le regole espresse dai testi normativi approvati con le procedure parlamentari indicate nelle carte costituzionali. La vicenda fiscale era da intendere come un fenomeno coercitivo il cui fondamento era la sudditanza del contribuente e la sovranità dello Stato. La nozione di tributo veniva riportata al potere di coazione che lo Stato esercitava sui cittadini per il perseguimento del bene comune. Ne conseguì una ricostruzione del rapporto fra cittadino e Stato che era ricondotto allo schema «potere pubblico-soggezione del privato». Il tributo venne ricostruito come una figura di obbligazione ex lege. 8. Il potere tributario nel primo capitalismo Il modello di ordine prospettato nello Stato capitalistico era espressione della classe che stava assumendo il controllo dei mezzi industriali, ovvero la borghesia. Il potere economico della borghesia si andava combinando al potere dell’aristocrazia terriera, per cui il nuovo ordine capitalista era espressione di un processo di compromesso fra le istanze della borghesia e dell’aristocrazia. Si trattava, però, di un assetto instabile. Il Logos della società è determinato dalla nuova oligarchia dominante, ovvero la borghesia capitalistica. Il tema centrale del Logos capitalistico è la difesa del capitale e della proprietà dalle intrusioni dello Stato nelle dinamiche del mercato. Le libertà dell’individuo sono libertà di fare e di agire, ovvero le libertà dell’homo oeconomicus. I diritti fondamentali dell’uomo, celebrati nelle carte costituzionali, sono espressione delle aspirazioni borghesi alla tutela della ricchezza e del capitale. Lo Stato viene visto come garante della sicurezza delle iniziative economiche ma anche come possibile fonte di arbitrio e iniquità che va controllata. L'ideologia liberale che si salda con la teoria della «mano invisibile del mercato» è il nucleo fondante della visione dei rapporti sociali e politici. La dimensione del «sociale» e del benessere collettivo sono estranee al Logos capitalistico. Libertà e proprietà delimitano lo spazio dell’individuo che deve essere protetto dall’azione invasiva dello Stato, per cui si definisce un modello liberale di convivenza civile in cui prevale l’idea di immunitas della persona, ovvero di sottrazione dell’individuo al potere pubblico. Il prelievo fiscale viene mantenuto entro rigorosi limiti quantitativi, venendo attuato solo per lo stretto indispensabile occorrente per il bene comune. Con l’affermazione dello Stato assoluto del Settecento si definisce un compromesso politico tra l’aristocrazia terriera e la nuova borghesia: il tema fiscale è volto alla protezione del mercato attraverso gli strumenti fiscali propri della politica doganale: si abolirono le barriere interne che impedivano il commercio nel territorio azionale e, per favorire la produzione nazionale, si imposero dazi doganali sulle importazioni. Oltre alla politica doganale, però, lo Stato assoluto mantiene l’indirizzo di politica fiscale dell’Ancien régime. Con l’avvento del capitalismo si consolida il modello istituzionale voluto dalla borghesia: l’obiettivo principale dell’ordine capitalistico consisteva nella difesa del capitale e della proprietà dalle intrusioni dello Stato, per cui il potere tributario venne qualificato come un attributo della sovranità dello Stato da esercitare con prudenza in modo da rispettare le libertà capitalistiche. Si incrementò la regolazione normativa delle obbligazioni fiscali: le leggi tributarie erano rivolte a definire le norme sostanziali (ad es. la base imponibile e l’aliquota) e le norme strumentali dirette a fissare le procedure dell’agire amministrativo. Non ricorreva, ovviamente, una situazione omogenea in quanto esistevano una pluralità di sistemi tributari diversificati da paese a paese. Comunque sia, anche mancano una codificazione della disciplina fiscale, si affermava che le leggi di imposta erano autonomi sistemi normativi rispondenti a interessi e valori propri non sovrapponibili con altri settori del diritto. Il diritto tributario tendeva a limitare il potere tributario. Nell'ordine capitalistico, l’uguaglianza si presenta come astratta titolarità di diritti in ragione della comune appartenenza alla società, quindi come uguaglianza «formale». Le dottrine liberoscambiste consideravano «naturale» la diseguaglianza e non ritenevano che lo Stato dovesse intervenire per correggere l’ineguale distribuzione di ricchezza, per cui lo Stato non doveva intervenire con le leggi tributarie in funzione redistributiva alterando le leggi della domanda e dell’offerta. Una peculiare configurazione è assunta dall’idealismo tedesco, per cui l’uguaglianza qualifica i cittadini davanti allo Stato e vuole escludere privilegi o immunità a favore di alcune categorie sociali: si promuove il livellamento della tassazione a tutta la cittadinanza. Capitolo settimo: La funzione fiscale nell’epoca dell’imperialismo e delle Guerre mondiali 1. L'imperialismo Dalla seconda metà del XIX secolo fino alla prima metà del XX secolo, si è assistito a un fenomeno di espansione politica e capitalistica conosciuto come «imperialismo» per cui paesi molto sviluppati esercitano dominazione su paesi meno coinvolti nello sviluppo industriale. La spinta imperialista espressa da ciascun paese avanzato si è manifestata in modo diverso a seconda dello stadio del capitalismo. I territori dominati si presentavano come «mondi in ritardo» rispetto all’evoluzione del capitalismo industriale che potevano soggiacere alla seduzione del progresso tecnologico, ma i programmi di industrializzazione dei «mondi in ritardo» si tradussero in una sistematica spoliazione delle ricchezze dei territori dominati. I vari Stati che ricevevano iniziative industriali erano chiamati a contrarre debiti per ripagare gli investimenti operati dai paesi industrializzati, debiti erano anticipati da banche che richiedevano come garanzie la canalizzazione dei proventi del prelievo fiscale: una parte delle risorse del paese era asservita agli interessi finanziari del paese dominante per il tramite del gettito fiscale. Era necessario rendere la fiscalità dei paesi in ritardo più performante e questa trasformazione della fiscalità si espresse in modi diversi a seconda dei contesti economici e sociali. La pesante tassazione che venne imposta dai colonizzatori esprimeva una forma di dominio suscettibile di generare un vivo malcontento nelle popolazioni autoctone: i benefici dell’industrializzazione venivano limitati alle élites locali, mentre il popolo avvertiva solo l’oppressione dei colonizzatori anche in virtù della pressione fiscale. I paesi industrializzati svilupparono una relazione commerciale privilegiata con i propri domini coloniali per cui attuarono una politica doganale moderata. Le importazioni provenienti da altri Stati, invece, furono oggetto di dazi doganali di elevata misura. Dunque, il protezionismo di questo periodo si saldava con la politica di protezione doganale già avviata in passato. 2. Spunti e aperture verso la tassazione egualitaria degli Stati europei La rivoluzione industriale aveva prodotto numerose ingiustizie sociali, dunque si dovevano studiare forme di redistribuzione del reddito che riducessero le diseguaglianze e favorissero un recupero della dignità e libertà da parte del popolo. Un elemento decisivo è riconosciuto all’esercizio della funzione fiscale in senso redistributivo, in virtù di una «teoria sociale della fiscalità». Le linee guida di questa fase riformatrice sono: l’istituzione di un’imposta personale sul reddito, i tentativi di attenuazione delle imposte indirette e la centralità dei dazi doganali. Elemento qualificante della riforma fiscale è, innanzitutto, l’istituzione di un’imposta generale sul reddito. L'imposta si sposta dal dato patrimoniale a quello reddituale, in quanto il reddito viene considerato come un indicatore affidabile della ricchezza e della capacità di contribuire alle spese pubbliche. In Inghilterra, Robert Peel, per finanziare la guerra contro Napoleone, introdusse un’imposta proporzionale sul reddito (income tax), in questo modo l’imposta non modificava la ripartizione delle ricchezze. Dopo la vittoria di Waterloo, questa tassa venne abrogata per poi essere nuovamente instaurata a fronte della crisi sociale dell’industrializzazione e delle proteste operaie: in questo modo si poterono ridurre i dazi e favorire la pratica liberoscambista. Un tema importante fu quello della progressività dell’imposta generale sul reddito quale meccanismo idoneo ad attivare i processi di redistribuzione della ricchezza nazionale. Ovviamente, vi erano anche oppositori del principio di progressività in quanto considerato contrastante con la libertà di mercato. In Inghilterra, con la vittoria liberale del 1892, si accentuarono le deduzioni dell’income tax per i meno abbienti e vennero previste aliquote progressive per l’imposta di successione. Nel 1909, su proposta del cancelliere allo Scacchiere, si istituì un’imposta progressiva sul reddito globale dei contribuenti i cui proventi andavano a finanziare misure di sostegno ai ceti poveri. In Germania, si istituì un’’imposta unica e globale sul reddito che consentiva di attuare una forma di progressività. In Francia, nel 1914, si istituì un’imposta unica sul reddito a carattere proporzionale. L'imposta progressiva rappresentò l’emblema della trasformazione della tassazione nel senso egualitario come correttivo pubblico agli eccessi del capitalismo industriale: alla logica dello scambio fra imposte e servizi pubblici si sostituì la logica della redistribuzione della ricchezza nazionale mediante lo strumento fiscale. Un ulteriore profilo della redistribuzione della ricchezza nazionale tramite la funzione fiscale fu individuato nella possibile discriminazione in sede di tassazione dei fattori produttivi e delle tipologie di reddito, per cui ad esempio si potevano prevedere aliquote differenziate e si poteva ricorrere ad un’imposta complementare a quella sul reddito. Per le imposte sul reddito, inoltre, si utilizzò in modo sistematico il sistema della ritenuta alla fonte per cui il datore di lavoro operava come un sostituto d’imposta trattenendo dalla retribuzione del lavoratore la quota d’imposta. In questo modo il pagamento del tributo era effettuato in modo più semplice, veloce e sicuro, evitando il rischio di evasione da parte del lavoratore. Nella quasi totalità dei sistemi tributari degli Stati industrializzati, la componente principale delle entrate era assicurata dall’imposizione indiretta in virtù della facilità di gestione. Questi tributi erano applicati con modalità diverse nei vari paesi e presentavano un effetto diverso a seconda della diversità di aliquota d’imposta applicata. 3. Le dottrine finanziarie e il ruolo del tributo nell’economia capitalistica A partire dalla seconda metà del XIX secolo si elaborarono dottrine finanziarie che attribuivano un ruolo primario al tributo nella definizione degli scenari macro-economici, per cui il tributo veniva studiato come elemento decisivo dell’economia idoneo a determinare gli indirizzi e gli equilibri del sistema finanziario di uno Stato. Le posizioni dottrinali possono essere accorpate in tre principali filoni teorici: - Teoria individualistica e liberista, fondata sulle leggi del mercato e della concorrenza per cui la funzione fiscale è giudicata in base a principi liberistici; - Teoria organicistica, per cui la condotta economica dello Stato è guardata nella prospettiva dei «corpi sociali», quindi adottando categorie logiche non tipicamente economiche; - Teoria conflittualistica, in cui i modelli economici e la funzione fiscale sono espressione dei conflitti sociali tra gruppi egemoni e lavoratori. Le dottrine riconducibili alla teoria individualistica sono caratterizzate dalla logica di scambio volontario come fondamento della dimensione di finanza pubblica: ogni individuo, consapevole dei propri bisogni e dei mezzi adeguati a soddisfarli, opera le sue scelte in libertà in un assetto concorrenziale in cui lo Stato non interferisce con il funzionamento del mercato. Le entrate fiscali sono considerate come un corrispettivo che il cittadino deve pagare per la fruizione dei servizi pubblici. Secondo la teoria classica, lo Stato è considerato come un’impresa che fornisce servizi dietro richiesta; secondo la teoria neoclassica, lo scambio fra Stato e cittadino è incluso nella valutazione dell’equilibrio del consumatore; secondo la teoria dello «scambio volontario», si contestualizza la relazione fra Stato e cittadini ad una comunità di più individui. Il fondamento ideologico di tali dottrine è la concezione liberale della finanza pubblica, per cui lo Stato deve essere neutrale nel mercato. Di conseguenza, il prelievo fiscale va limitato al minimo possibile ed i tributi non devono interferire con le logiche della concorrenza. Un qualche effetto redistributivo può essere realizzato dalla funzione fiscale tenendo conto dell’esigenza di proteggere la capacità di funzionamento del mercato mediante la crescita dei fattori produttivi. Le dottrine riconducibili alla teoria organicistica assumono l’esistenza di un unico corpo sociale e di un insieme di valori coerente ed oggettivo come guida dell’attività economica. Lo Stato è considerato come un’entità superindividuale che vale a fissare e mantenere i presupposti per il libero svolgimento dell’attività economica degli individui e le condizioni dell’intervento pubblico in economia sono connotate dalle mutevoli ragioni spaziali, temporali, socio-culturali. Emerge la funzione sociale dello Stato il cui intervento integra l’iniziativa privata e la capacità di funzionamento del mercato. L'applicazione dei tributi è spiegata con ragioni etiche e sociali in funzione correttiva delle ineguaglianze sociali. La capacità contributiva indica nell’appartenenza ad una comunità il presupposto del dovere tributario di partecipare ai costi di sopravvivenza e sviluppo della società. Ciò che caratterizza le dottrine classificabili nella teoria conflittualistica è l’imputazione del calcolo finanziario alla classe politica dominante che procede alle scelte di investimento dello Stato secondo valutazioni di opportunità coerenti con i propri interessi. Le scelte di finanza pubblica, quindi, rispondo agli interessi di una classe sociale e di conseguenza scontentano la maggioranza popolare: il potere tributario viene esercitato per scaricare il peso del prelievo sulle classi più deboli. L'esercizio della funzione fiscale si inserisce in un contesto di conflitti sociali tra l’oligarchia dominante e le altre categorie. il fondamento del tributo è la decisione politica della classe dominante in ragione della propria percezione dei bisogni della comunità. Un secondo indirizzo, invece, riporta la finanza pubblica al contesto sociologico e ai sentimenti religiosi, per cui il prelievo tributario è da riportare ad apprezzamenti e scelte della classe dominante motivate da elementi sociologici e quindi non razionali. Nel movimento dottrinale sociologico si iscrive la teoria della finanza pubblica elaborata da Vilfredo Pareto. In virtù dell’eterogeneità sociale, la logica del mercato non è applicabile alle dinamiche della finanza pubblica: non è possibile postulare l’esistenza di un unico soggetto che formula le scelte di mercato. L'obiettivo di ogni assetto collettivo è il perseguimento del massimo di utilità che viene raggiungo quando la trasformazione dell’assetto non aggiunge più una utilità a scapito della perdita di utilità in qualcuno dei consociati, ovvero l’ottimo paretiano. Il massimo di utilità per una comunità non è determinabile a priori in virtù della pluralità di interessi e valori. Le decisioni collettive sulle opzioni di finanza pubblica sono, quindi, riconducibili ad apprezzamenti formulati da un gruppo ristretto. L'intervento dello Stato è proficuo se procura vantaggi alla società secondo l’ottimo paretiano, non se persegue finalità limitate alla classe dominante. Nella dottrina delle illusioni finanziarie di Peruviani si afferma che l’imposta viene usata per assicurare vantaggi alla classe dominante e per non rendere percepibile l’effetto reale prodotto si ricorre ad espedienti normativi o istituzionali, appunto le illusioni finanziarie che attenuano la sensazione di penosità dei tributi nei contribuenti e quindi la resistenza ad adempiere agli obblighi finanziari. L'idea di un «socialismo di Stato» venne sostenuta anche da Adolph Wagner, studioso non socialista. Lo Stato, rivolto alla tutela del bene comune, doveva intervenire nelle dinamiche economiche per favorire il progresso del sistema produttivo per perseguire un disegno di trasformazione sociale che avrebbe ridotto le diseguaglianze. Lo Stato, quindi, doveva farsi carico del benessere dei cittadini, ma l’aumento della dimensione dello Stato interventista richiedeva un incremento del fabbisogno finanziario: egli prospettò un aumento del prelievo fiscale da attuare mediante un’imposta progressiva sul reddito che avrebbe favorito la redistribuzione della ricchezza sul reddito. Le dottrine che rientrano nella logica liberista convergono sull’enucleazione di alcune massime di «buon governo fiscale» per ottimizzare l’esercizio del potere tributario: la produzione non deve essere ostacolata dalle imposte, le imposte devono avere una funzione fiscale e non extra-fiscale, l’effetto redistributivo deve essere marginale ed accessorio rispetto al fine di procurare entrate allo Stato. Dunque, si prospetta una concezione minimalista dello Stato, ispirata dalla logica della «neutralità del tributo» rispetto al funzionamento del mercato. 4. La fiscalità dei periodi delle Guerre Mondiali A seguito della I Guerra Mondiale, l’economia mondiale è sconvolta: lo spazio economico unitario che si era creato viene meno e il ciclo economico e industriale viene alterato dalle esigenze belliche. La pace non servì per ripristinare i modelli economici preesistenti alla guerra. I principali paesi che avevano partecipato alla guerra dovettero coprire l spese del conflitto e gli oneri della ricostruzione con interventi finanziari ingenti che portarono il bilancio nazionale a situazioni di deficit. Per aumentare gli introiti si aumentarono le imposte dirette, ma ciò non fu sufficiente: si ricorse a dilazioni e finanziamenti in una logica di differimento del rimborso del debito. Gli Stati europei dovettero ricorrere ad ulteriori indebitamenti con il sistema finanziario per coprire il disavanzo d’esercizio alimentato dallo stesso indebitamento. Per garantire l’emissione dei prestiti si ricorse a meccanismi inflazionistici in chiave di copertura del debito. La perdita di valore d’acquisto della moneta conseguente all’inflazione risultò negativa per i ceti medi che non potevano agire sui prezzi delle merci per recuperare forza economica. La crisi europea si estende anche agli Stati Uniti producendo la crisi economica che, nel 1929, affonda la Borsa di Wall Street. La grande depressione economica che si sviluppa negli anni Trenta del XX secolo porta all’accantonamento dell’impostazione liberoscambista e all’emersione di tendenze protezionistiche volte a tutelare il mercato interno ricorrendo a dazi. Il ricorso ad una fiscalità doganale costituì una barriera alla ripresa del commercio internazionale. In questo contesto, vi furono anche spunte verso la tassazione egualitaria che avrebbe comportato l’aumento dei proventi fiscali e un effetto redistributivo a beneficio delle classi sociali più deboli. Queste istanze vennero fortemente opposte negli Stati industrializzati per la resistenza delle classi dominanti: in Inghilterra e in America si modificano le aliquote sulle imposte in base all’alternanza fra partiti. I sistemi fiscali degli Stati europei rimasero ancorati a modelli tradizionali in cui manteneva un peso rilevante l’imposizione indiretta, comprimendo la funzione livellatrice ed egualitaria della fiscalità. 5. La fiscalità dei regimi totalitari La fiscalità del fascismo L'avvento del fascismo in Italia nel 1922 determina una trasformazione dei modelli sociali ed economici. L'ideologia di espansionismo imperialista espressa dal fascismo richiedeva un potenziamento demografico, di conseguenza vennero istituite imposte sui celibi e vennero previste esenzioni fiscali per le famiglie numerose. Oltre a questi profili politici ed ideologici, però, il fascismo non intervenne in modo rilevante sul sistema fiscale e prevalsero interventi parziali su aspetti specifici dei tributi esistenti. Furono previste lievi modifiche normative all’imposta fondiaria e all’imposta di ricchezza mobile mantenendo inalterati i caratteri strutturali. Venne istituita un’imposta complementare sul reddito. Venne istituita l’imposta generale sugli scambi, quindi sul complesso delle transazioni in entrata del contribuente, vennero aumentate le accise e fu promossa una riorganizzazione dei dazi doganali. Vennero modificate le tasse sugli affari e si abolì l’imposta sulle successioni per venire incontro alle richieste della popolazione. In linea di massima il sistema tributario manteneva la tradizione dello Stato liberale, salvo il disegno propagandista. La fiscalità del nazismo Nell'ideologia nazista, l’economia è un mezzo per assicurare il perseguimento degli obiettivi di «terra e sangue». Inizialmente, si mantenne il sistema fiscale precedente ispirato all’austerità e al rigore integrato, però, con una politica di indebitamento per sostenere le spese di armamento. Per favorire gli investimenti, si ridusse la tassazione sul capitale eliminando l’imposta sugli aumenti patrimoniali e prevedendo esenzioni per gli investimenti produttivi. La fiscalità del comunismo in Russia A seguito della rivoluzione del 1917, la politica economica era volta all’accentramento delle decisioni nelle mani del partito comunista e alla sostituzione dell’economia di mercato con un’economia di baratto e di scambi in natura. Gli anni successivi alla I Guerra Mondiale resero, però, evidente l’incapacità di funzionamento di questo assetto economico. Nel 1929 venne inaugurata la «nuova politica economica» (NEP) volta alla crescita della produttività. L'esigenza di un aumento della produttività impose di contenere le aspirazioni ad una società egualitaria: si impose un’imposta fondiaria unica sui proventi fondiari da pagare in natura; si ridussero le tasse sui proventi dei fondi agricoli gestiti in modo collettivistico; si aggravarono i dazi e le accise. La situazione economica in Russia peggiorò portando a fenomeni di inflazione monetaria. Stalin utilizzò la tassazione come strumento di profilazione sociale ed economica del paese: i contadini agiati vennero presentati come «nemici» della classe operaia e dello Stato e venivano penalizzati a favore delle comunità collettivistiche (Kolchoz), per cui i contadini agiati vennero spersonalizzati dentro le comunità collettivistiche promosse dal regime. 6. La II Guerra Mondiale Il periodo bellico produsse elevati costi per i paesi partecipanti al conflitto: gli Stati coprivano il fabbisogno finanziario in parte ridotta con il gettito fiscale e in parte principale con l’indebitamento pubblico. Gli stati ricorsero stabilmente ad una politica di deficit spending per sostenere il rilancio dell’economia e l’occupazione. La funzione fiscale era strumento necessario per garantire flussi finanziari stabili. La fiscalità dell’epoca di guerra presenta obiettivi comuni a tutti i paesi partecipanti al conflitto, ovvero l’esigenza di assicurare flussi stabili e incrementati per assicurare una copertura finanziari alle spese per armamenti. Il prelievo fiscale aumentò in maniera consistente con preferenza per le imposte indirette che consentivano di produrre un gettito incrementale rispetto alle imposte dirette. Vennero anche previsti meccanismi normativi di carattere straordinario. Il Reich nazista ricorse ad una fiscalità predatoria per cui si accaparrava le risorse finanziarie dei paesi sconfitti. Il prelievo sui paesi occupati variava da Stato a Stato avendo riguardo sia alla condizione di ricchezza sia al grado di adesione politica all’indirizzo nazista. Durante il periodo di conflitto bellico, gli Stati coinvolti nella guerra avevano esigenza di incrementare il livello delle entrate tributarie per far fronte alle maggior spese. L'alternativa era aumentare il carico fiscale ordinario o ricorrere agli strumenti di finanza straordinaria: si ricorse ad entrambi gli strumenti con maggiore incidenza della finanza straordinaria. Sulla finanza ordinaria si intervenne mediante manovre sulle aliquote. Per quanto riguarda la finanza straordinaria, si trattava di misure estemporanee che determinavano un livello aggiuntivo di prelievo rispetto a quello ordinario e potevano configurarsi quali nuovi tributi quanto come addizionali di tributi esistenti. Ciò che colpisce è la mancanza è la mancanza di elasticità del prelievo rispetto alle effettive variazioni dei redditi in congiunture di notevole dinamismo. 7. Il disegno degli economisti per il rilancio dopo la II Guerra Mondiale La teoria di John Keynes rivoluzionò l’approccio alla politica economica e fu utilizzata per il rilancio dell’economia dopo la II Guerra Mondiale. Egli dimostra che esistono contesti in cui il consumo si blocca e il risparmio permane come liquidità senza essere immesso nel circuito degli investimenti. Per favorire la crescita economica e l’occupazione, la spesa di investimenti deve tendere ad eguagliare ed assorbire il livello del risparmio di piena occupazione, dunque è necessario un intervento dello Stato nella spesa per investimenti per raggiungere tale punto di equilibrio. Inoltre, la spesa pubblica è destinata a produrre un effetto di moltiplicazione della produzione e del reddito nazionale poiché la quota di consumo derivante dall’investimento attiva un ciclo di ulteriori produzioni e consumi: si tratta della teoria del moltiplicatore keynesiano. L'intervento dello Stato in economia tramite la spesa per investimenti costituisce un fattore decisivo per risollevare il sistema produttivo delle fasi di depressione. La politica fiscale svolgeva un ruolo primario per supportare lo Stato nel suo intervento in economia: si collegò il concetto di azione fiscale e di finanza pubblica, nel quale si doveva includere anche la funzione tributaria e l’indebitamento come strumenti idonei a garantire le risorse per gli investimenti. La politica di deficit spending consentiva un incremento della domanda globale e quindi dell’occupazione. Le teorie di Keynes furono riprese nel periodo a cavallo della II Guerra Mondiale e si formularono varie teorie che riprendevano i suoi postulati. La molteplicità dei modelli matematici fornisce, però, un elemento di incertezza in quanto diventa difficile comprendere quale tra di essi sia preferibile. Nell'ambito di questi modelli, la funzione fiscale non è considerata come un elemento determinante, ad eccezione del modello prospettato da Alvin Hansen che analizzò il ruolo della politica fiscale nei cicli di sviluppo del mercato e sostenne che l’azione dello Stato, supportata da un’adeguata politica tributaria, avrebbe potuto evitare il ristagno dell’economia. Vi sono anche ipotesi di ricostruzione dello scenario evolutivo del capitalismo in continuità con il pensiero marxista, distaccandosi dalla teoria keynesiana. Si pensi, ad esempio, a Sterbenrg, Sweezy e Baran. La funzione fiscale aveva un ruolo determinante per capire i processi di funzionamento del mercato secondo il capitalismo industriale. Nel capitalismo moderno, lo Stato interviene sul mercato per accrescer la domanda di beni e servizi senza aumentare la tassazione, senza creare alcuna fiscalità che assorba la spesa pubblica. La spesa pubblica incrementale produce effetti positivi sull’occupazione ma anche sul capitale monopolistico allontanando i rischi della depressione: il supporto politico allo Stato che procede a investimenti è garantito dall’oligarchia dominante. L'aumento delle imposte è, quindi, guardato in maniera favorevole dall’oligarchia dominante, poiché aumentando la capacità di investimento dello Stato contrasta la depressione. Il capitale monopolistico tende a preferire le imposte che possono essere traslate su altri fattori produttivi, ad es. le imposte sui consumi, mentre è sfavorevole ad imposte sul patrimonio. 8. Il potere tributario nell’epoca dell’imperialismo capitalistico Il capitalismo si era consolidato nell’epoca dell’imperialismo producendo l’affermazione del modello di produzione fondato sul capitale industriale, mentre la proprietà fondiaria era stata ridimensionata ad un ruolo marginale nell’economia. Nei piani di sviluppo della borghesia capitalista il motore concettuale è la libertà che si espande al di là dei confini nazionali: il punto di gravitazione dell’ordine delle nuove società è la libertà economica di fare rispetto alla quale lo Stato ha una posizione minimale. Allo stesso tempo emergono le esigenze e le aspettative di benessere della classe dei lavoratori, i quali sono il fattore produttivo decisivo per lo sviluppo del capitalismo. Vanno, quindi, ricercate soluzioni di compromesso politico, per cui la libertà si salda con la solidarietà e con i diritti sociali. Il Logos del capitalismo avanzato impone mediazioni istituzionali politiche. Di conseguenza, il modello tributario del capitalismo avanzato tende a trasformarsi secondo le esigenze di contemperamento delle opposte esigenze: si considera opportuno ricorrere a forme di fiscalità egualitaria, la quale non viene realmente realizzata ma si presentano spinte verso la personalità e progressività delle imposte dirette. Si tratta di una fiscalità ispirata dalla borghesia capitalistica e temperata dalle istanze progressiste. Il progresso degli scambi commerciali ha indotto l'evoluzione e la riforma del sistema fiscale in senso egualitario istituendo un'imposta unica sul reddito e accogliendo forme redistributive del reddito nazionale. Si affermava l'idea che lo strumento fiscale indirizzato verso modelli egualitari poteva comporre il divario di diseguaglianza tra ricchi e poveri. Nella prima metà del XX secolo si assistette ad un rapido sviluppo dei modelli autoritari dell'organizzazione politica in quanto la società liberale non era riuscita a fornire risposte adeguate alle esigenze di protezione e sicurezza del popolo. Si svilupparono movimenti politici radicalizzati intorno a poche idee guida che proponevano un assetto sociale rigido. Si determinò una sorta di identificazione tra appartenenza politica e appartenenza statale, per cui lo Stato autoritario si trasformò in «Stato totale» nel quale l'ordine della massa diventava il bene comune che non ammetteva deroghe. Si realizza una legittimazione profonda dell'autorità da parte del popolo. La funzione fiscale viene iscritta nel Logos dei vari Stati autoritari in termini di rispondenza agli obiettivi sociali assunti: la funzione fiscale è lo strumento per acquisire entrate da destinare ai programmi dello Stato totalitario. Il modello tributario del capitalismo avanzato tende a favorire i programmi di espansione economica e a ridurre il grado di conflittualità sociale riconoscendo gli impulsi verso forme di fiscalità egualitaria. Ciò porta ad un'implementazione delle leggi tributarie per recepire le esigenze di contemperamento degli opposti interessi della borghesia e dei lavoratori. La funzione fiscale venne realizzata tramite una pluralità di leggi tributarie che prevedono l'uso di numerosi tributi. Si trattava di sistemi di diritto autosufficienti e l'attuazione dei tributi venne disciplinata secondo moduli di diritto amministrativo. Era considerato imprescindibile il ricorso al sindacato giudiziario, in quanto si era consolidata l'idea che il potere tributario esiste solo all'interno dell'ordinamento giuridico. Tale impostazione venne utilizzata anche dallo Stato totalitario. Nei contesti sociali europei, la concezione dell'uguaglianza tributaria si modifica ed emerge il principio dell'uguaglianza sostanziale mediante il quale trasformare la società secondo la logica della «parità di opportunità tra i consociati». La funzione fiscale viene usata per favorire una redistribuzione delle risorse collettive e quindi emerge il convincimento che il tributo debba orientarsi verso forme di progressività. Sembra, quindi, applicarsi il principio enunciato nel Manifesto del partito comunista di Marx. Questa linea di pensiero, però, non trova applicazione negli Stati totalitari. In questa fase storica, l'ideologia liberista ha portato avanti meccanismi di fiscalità oppressivi sui cittadini, tramite espedienti che consentissero di alterare la percezione del tributo per renderlo più accettabile. Si tratta delle «illusioni finanziarie». Le illusioni finanziarie sono diventate uno strumento di oppressione fiscale che confermano la necessità di attuare il dominio da parte della borghesia con tecniche di mediazione che comportino l'accettazione da parte dei lavoratori. Capitolo ottavo: il potere tributario nell’epoca delle costituzioni e dello Stato sociale 1. L'epoca delle costituzioni democratiche L'evoluzione giuridico-istituzionale del XX secolo ha portato ad un superamento della nozione di sovranità statale, in quanto si è demolita l'idea di Stato come modello dell'unità politica di una collettività. Nelle società pluralista emergono interessi, progetti ed ideologie differenziati fra loro e incapaci di presentarsi come fattori dominanti rispetto alla sovranità statale, dunque la costituzione si presenta come «la condizione di possibilità della vita in comune» e non come atto portatore di un progetto predeterminato. Il pluralismo democratico impone modelli costituzionali nei quali si abbandonano schemi aprioristici a favore di un disegno «aperto». La costituzione rappresenta un progetto di vita in comune e non più il corollario della sovranità statale: si tratta di una «costituzione senza sovrano». Nell'età della Belle Époque si definisce un nuovo paradigma costituzionale. In Germania, a seguito della II Guerra Mondiale, la Repubblica di Weimar si confrontò con il bisogno di istituzioni democratiche. Inoltre, il fardello delle restituzioni di guerra impose di ripensare il sistema di finanza pubblica. Dunque, nella Costituzione di Weimar, espressione del nuovo patto sociale, furono stabilite numerose e regole relative alla funzione fiscale. Questo articolato gruppo di norme costituzionali relative alla materia tributaria si divide in due gruppi: - Norme sulla distribuzione della funzione fiscale tra le varie istituzioni democratiche, nelle quali venne consacrato il principio del consenso parlamentare; - Regole sulla logica distributiva dei carichi fiscali, in particolare la fissazione del principio di riparto tra i cittadini fondato sul criterio egualitario. La Costituzione di Weimar ha prodotto un modello di regolazione costituzionale che si è protratto nel tempo: rappresenta un nuovo paradigma costituzionale del potere, ispirato alla tradizione egualitaria promossa dal socialismo, che indica la necessità di conciliare l’interesse finanziario dello Stato con i diritti sociali dei cittadini. Le carte costituzionali degli Stati europei adottate nel XX secolo mostrano una significativa convergenza nella regolazione del fenomeno tributario. Si afferma il principio del consenso alle imposte essendo enunciata la necessità del ricorso allo strumento legislativo per l’istituzione e la modificazione degli istituti tributari. Si tratta della regola della «riserva di legge», che si esprime, nelle varie costituzioni in maniera differente: - Formulazione esplicita del principio di riserva di legge a seguito dell’enunciazione della competenza esclusiva dell’atto legislativo per la disciplina dei tributi (ad esempio Austria, Danimarca, Francia, Spagna); - Enunciazione della procedura legislativa adottabile per la promulgazione di norme a contenuto tributario (ad es., Belgio, Germania, Irlanda); - Nel Regno Unito, mancando una costituzione scritta, si afferma il principio del consenso alle imposte e, quindi, il coinvolgimento parlamentare. La centralità parlamentare è da ricondurre alle esigenze di una società pluralista in cui il dibattito parlamentare è la forma più matura di definizione dei valori collettivi. Le scelte inerenti alla materia fiscale non possono essere affidate all’estemporaneità delle procedure dell’esecutivo che comporta un’approssimazione dei giudizi valutativi. Il principio di legalità assume una funzione sostanziale come tecnica di bilanciamento dei valori. Il nesso tra la centralità del Parlamento e la formulazione delle norme tributarie emerge anche nell’esclusione del referendum in materia fiscale, in quanto la valutazione personale è condizionata dall’inclinazione a sottrarsi al depauperamento. Accanto alle regole sulla fase normogenetica, si pongono, meno frequentemente, anche norme di carattere sostanziale nei testi costituzionali, che vogliono disciplinare il merito del bilanciamento dei valori. In alcune costituzioni, in applicazione del principio di uguaglianza, si vieta l’adozione di privilegi in materia tributaria (ad es. Belgio, Lussemburgo, Francia); nelle costituzioni dei paesi latini si richiama il criterio della capacità contributiva come regola di redistribuzione dei carichi fiscali. Sporadicamente sono previste regole sulla conformazione del sistema tributario, ad esempio la progressività (Italia e Spagna) o la funzione generale dei presupposti dei singoli tributi (Portogallo). Questa trasformazione giuridico-costituzionale accompagna un altro mutamento storico dei rapporti fra Stato e società: la distribuzione dei benefici e dei sacrifici non è più determinata dalla spontanea composizione degli interessi presenti sul mercato, ma avviene secondo la direzione del potere pubblico nel rispetto dei valori delineati in sede costituzionale. In effetti, nello Stato pluriclasse, la compresenza di valori eterogenei determina l’esigenza di combinare istanze decisionali in un compromesso fra maggioranze e minoranze secondo le linee guida costituzionali. Si afferma una «legalità per valori» idonea a fungere da parametro per il controllo della legittimazione dell’attività legislativa. La funzione fiscale, quindi, non può essere posta come un concetto della sovranità statale che si pone in contrasto con i valori individuali, ma si deve porre nel contesto della pluralità di valori della collettività. Lo sviluppo dei principi costituzionali porta il tema del conflitto dei valori su un piano positivo idoneo ad accentuare le ragioni di convivenza: viene in rilievo la coesistenza armonica dei valori della convivenza. 2. La funzione fiscale nel «Welfare State» Le discussioni politiche e sociali del XX secolo hanno come punto focale la configurazione del Welfare State. Le teorie di ispirazione socialista individuano l’obiettivo da raggiungere nella costruzione di un forte Stato sociale capace di rispondere ai bisogni di protezione e sicurezza degli individui, mentre le teorie di matrice liberale pongono come obiettivi primari il depotenziamento dello Stato sociale ad una funzione minimale e la riduzione del prelievo fiscale in quanto gli strumenti privatistici possono perseguire con maggiore efficacia la finalità di tutela. Nessuna delle due teorie, però, nega il ruolo del Welfare State: è generalizzata l’idea che la tutela pubblica di fondamentali bisogni dell’individuo abbia avviato il percorso di sviluppo economico. Lo Stato si è trasformato e da «Stato militare» è diventato «Stato dei diritti»: la funzione sociale costituisce l’oggetto di un diritto dei cittadini che fonda l’uguaglianza all’interno della comunità, per cui lo Stato deve garantire la «parità di posizioni di partenza» dei consociati. Lo Stato sociale è il risultato di un progetto di vita collettiva che pone il benessere al centro del patto sociale: il perseguimento dei diritti sociali è considerato come uno strumento necessario per assicurare che la persona sviluppi le proprie potenzialità, dunque i diritti sociali diventano la garanzia della «libertà uguale». La libertà assume un effettivo contenuto solo se viene intesa come un valore «positivo» volto a promuovere l’auto-realizzazione della persona mediante le conoscenze acquisite con l’istruzione. Il riconoscimento dei diritti sociali consente una sintesi fra uguaglianza e libertà, dove la libertà è intesa come «liberazione dalla privazione» e vuole assicurare la pari opportunità. Lo Stato, quindi, deve intervenire per superare le sproporzioni e per assicurare l’uguaglianza sostanziale: le finalità del Welfare State sono volte all’attuazione del progetto di trasformazione sociale e di sviluppo della comunità coerente con i principi di uguaglianza sostanziale e di libertà. Il problema centrale del Welfare State è l’individuazione della qualità e quantità di prestazioni sociali da erogare ai membri della comunità. Si è consolidato il convincimento che le prestazioni dei servizi pubblici dovevano essere rivolte alla generalità dei consociati ed erogate dello Stato e che il finanziamento delle prestazioni pubbliche doveva essere garantito tramite il prelievo fiscale. In questo modo, si attua anche il piano di redistribuzione delle risorse fra i membri della collettività, in quanto i più ricchi erano chiamati a contribuire in maniera più che proporzionale. Il modello classico di Welfare State si incentra, quindi, sul binomio «prestazioni pubbliche - finanziamento fiscale» per cui le prestazioni sociali sono garantite tramite il prelievo fiscale e la libertà e l’uguaglianza dipendono dal livello, dalla qualità e dalla quantità dell’imposizione fiscale. Il modello classico di Welfare State, però, ha mostrato delle disfunzioni e inefficienze. L'idea originaria di «dare un poco a tutti» aveva ragione di esistere in una fase storica di povertà diffusa, ma successivamente perse di utilità a fronte della diffusione del benessere individuale. Si sarebbe dovuta perseguire una logica assistenziale selettiva, concentrando le risorse per i soggetti più bisognosi, ma questo adeguamento non è stato perseguito e, di conseguenza, vi è stato uno scadimento della qualità delle prestazioni sociali a fronte della grande quantità di soggetti a cui destinare le prestazioni sociali. Inoltre, la generalizzazione dell’intervento pubblico ha comportato un costo enorme per le casse statali, per cui a fronte dell’abbassamento della qualità delle prestazioni sociali si è registrato l’innalzamento del costo pubblico per la loro erogazione venendo meno il binomio «prestazioni pubbliche – finanziamento fiscale». Infine, per evitare che il peso del finanziamento pubblico fosse di ostacolo allo sviluppo del sistema produttivo a causa del gravoso prelievo fiscale a carico di lavoratori e imprese, si è ricorso all’indebitamento scaricando il costo delle prestazioni sociali sulle generazioni future. Sul piano fiscale, quindi, si è avvertita diffusamente la crisi del modello classico di Welfare State. A seguito della maggiore mobilità dei fattori produttivi e della concorrenza fiscale fra Stati, il modello dell’imposta unica sul reddito è stato abbandonato a favore di un sistema di imposte cedolari, ovvero la tassazione della singola fattispecie di attività economica o di ricchezza: ci si è allontanati dall’idea di uguale trattamento dei redditi orientandosi verso modelli impositivi incongruamente diversificati. Inoltre, viene in rilievo il corto circuito del sistema fiscale nella fase di attuazione del prelievo tributario: nel contesto di fiscalità di massa emergono le condotte di evasione o elusione fiscale, le quali sono poste in essere dalle categorie sociali forti comportando un maggiore peso della spesa pubblica a carico dei lavoratori dipendenti e dei pensionati attuandosi una «redistribuzione al contrario». Il modello classico di Welfare State non riesce a soddisfare le esigenze di giustizia sociale secondo il programma di libertà positiva e di uguaglianza sostanziale. 3. La definitiva affermazione della tassazione egualitaria Con l’affermazione costituzionale del Welfare State si definisce una struttura del sistema fiscale orientata verso modelli di tassazione egualitaria: la funzione fiscale viene concepita come strumento per attivare processi di redistribuzione del reddito. La tassazione egualitaria si esprime mediante imposte e tributi che variano da paese a paese, ma vi sono degli elementi che sono comuni ai vari paesi: si ricorre ad una pluralità di strumenti tributari e si adotta una tassazione di carattere progressivo. Le entrate dello Stato possono essere ricondotte ad una duplice fonte: - Entrate pubbliche di diritto privato, ovvero le entrate jure privatorum, derivanti dallo svolgimento di attività economiche o dalla gestione di beni pubblici. Si tratta delle entrate che pervengono in virtù di rapporti contrattuali, ad esempio canoni di concessione; - Entrate pubbliche conseguenti all’esercizio del potere di supremazia nei confronti dei consociati, ovvero le entrate jure imperii, in cui vi rientrano le sanzioni a contenuto patrimoniale, le ablazioni e i tributi. Nel bilancio pubblico degli Stati moderni, l’entrata che fornisce maggiore apporto quantitativo è data dai tributi. Nella finanza statale possono individuarsi tre gruppi di tributi: - Imposte dirette, colpiscono le manifestazioni dirette della capacità contributiva quali il patrimonio o il reddito; - Imposte sul consumo, colpiscono il consumatore finale indipendentemente dalla tecnica impositiva adottata, ad es. IVA, accise, imposte di fabbricazione, dazi doganali; - Imposte sugli affari, assumono a presupposto il compimento di un atto giuridico volto alla conclusione di un affare o a compiere un trasferimento patrimoniale, ad esempio l’imposta di registro, l’imposta di bollo, l’imposta di successioni o donazioni. Il sistema della finanza locale si articola in sub-sistemi in ragione della comunità territoriale di riferimento, per cui si distingue la finanza regionale e la finanza degli enti locali. Nella finanza locale si individuano tributi propri, addizionali ai tributi statali e l’attribuzione del gettito di tributi statali. Si deve analizzare il sistema tributario anche sotto il profilo quantitativo, per cui si devono porre a confronto le entrate tributarie e la ricchezza complessiva del paese indicata dal PIL. Innanzitutto, la pressione fiscale è un dato a grande mutevolezza temporale in ragione dell’andamento dell’economia. Emerge, poi, che il tributo più importante sotto il profilo quantitativo è l’IRPEF, che da solo garantisce un apporto pari a un terzo del gettito fiscale. Si deve sottolineare che i contribuenti non sono in grado di ricostruire la destinazione dei tributi pagati in quanto vige il principio di unicità del bilancio, in quanto gli impegni di spesa devono trovare una copertura nell’insieme delle entrate complessivamente considerate. L'imposta sul reddito delle persone fisiche, detta IRPEF, costituisce il tributo di maggior rilevanza nl panorama fiscale attuale, sia sotto il profilo quantitativo che qualitativo, in quanto contribuisce in maniera prioritaria al gettito fiscale ed incide sulla funzione redistributiva. Si tratta di un’imposta a carattere personale e progressivo: in riferimento alla personalità del tributo, si tiene conto non solo del complesso dei redditi posseduti dal soggetto, ma anche delle spese primarie sostenute dall’individuo e dalla sua famiglia; per quanto riguarda la progressività, l’imposta è determinata attraverso un meccanismo di graduazione delle aliquote dell’imposta in misura più che proporzionale rispetto al crescere della ricchezza. Il presupposto del tributo è il possesso dei redditi in denaro o natura appartenenti alle categorie reddituali indicate nella legge: per i residenti si applica il principio del reddito mondiale, per cui si prevede l’imponibilità di tutti i redditi ovunque prodotti; per i non residenti si applica il principio di territorialità per cui si prevede l’imponibilità solo dei redditi realizzati nel territorio nazionale. La base imponibile viene determinata mediante la somma algebrica di tutti i redditi di categoria imputati nel periodo d’imposta allo stesso contribuente; determinato il reddito complessivo lordo si deducono gli oneri deducibili riconosciuti dalla legge ottenendo il reddito complessivo netto. A quest’ultimo valore vanno applicate le aliquote d’imposta e all’imposta complessiva lorda si applicano le detrazioni d’imposta previste dalla legge. L'imposta sulle società ha come presupposto il possesso di redditi in denaro o in natura. Il reddito imponibile viene ricondotto a più profili ed elementi facenti capo al soggetto, ad esempio perdite pregresse, crediti tributari ed oneri deducibili: si tratta di un profilo di personalità dell’imposta. Si tratta di un’imposta proporzionale fondata su un’aliquota fissa calcolata in misura proporzionale rispetto alla base imponibile. L'imposta patrimoniale si riferisce al possesso di beni suscettibili di una valutazione patrimoniale, ad esempio immobili, capitale finanziario, partecipazioni societarie, e consiste nell’applicare un’aliquota al valore del bene. È un tributo che ha una funzione redistributiva in quanto vuole colpire le posizioni d vantaggio economico, ma allo stesso tempo il possesso del patrimonio non necessariamente corrisponde alla produzione di un flusso reddituale ed è per questo motivo che l’imposizione patrimoniale è criticata. Prevalentemente l’imposta patrimoniale è applicata al livello dei tributi locali, ad esempio in Italia, Francia, Germania, mentre è più raro che venga prevista un’imposta patrimoniale di carattere generale (ad es. Spagna e Svizzera). L'imposta sul valore aggiunto, IVA, è stata istituita a livello comunitario per attenuare gli squilibri fiscali sul prezzo dei beni e servizi che circolavano all’interno del mercato comune. La caratteristica dell’IVA è la sua neutralità rispetto alle varie fasi del ciclo produttivo o distributivo, in quanto l’imposta grava sul consumatore finale indipendentemente dal numero delle transazioni e dalla circolazione del bene o servizi: l’imprenditore o il professionista può portare in detrazione dal debito verso l’Erario l’IVA pagata sugli acquisti di beni e servizi utilizzati, per cui l’imposta colpisce solo il «valore aggiunto» apportato al bene o al servizio dall’attività specifica dell’imprenditore o del professionista e, quindi, grava sul consumatore che non può portare in detrazione quanto pagato. Si tratta di neutralità interna, per cui si ha la neutralizzazione dell’incidenza delle prestazioni tributarie rispetto al numero dei passaggi intermedi subiti dal bene o dal servizio, e di neutralità esterna o internazionale, in quanto gravando solo sul consumatore si assicura la neutralità nel trattamento internazionale delle transazioni commerciali. Il presupposto dell’imposta è la cessione di beni o servizi effettuati nel territorio dello Stato, nell’esercizio di professioni o imprese o arti. La base imponibile è l’ammontare complessivo dei corrispettivi pattuiti negozialmente per le singole cessioni di beni e prestazioni di servizi. Le accise e i dazi sono forme di imposizione indiretta sui consumi. Le accise sono tributi monofase a carattere speciale (ovvero colpiscono solo alcune categorie di beni) che sottopongono a tassazione la produzione o il consumo dei beni. Tradizionalmente, il presupposto delle imposte di fabbricazione è la produzione dei prodotti, mentre per le imposte di consumo è il consumo del prodotto. In realtà, la differenza fra le due imposte si attenua in virtù del fatto che l’imposta di fabbricazione è esigibile solo nel momento dell’immissione dei prodotti finiti in consumo sul mercato. Si tratta di tributi che possono influire sulla circolazione di beni e servizi e, quindi, possono alterare il libero svolgersi del mercato concorrenziale. L'obiettivo è, di conseguenza, cercare un coordinamento fiscale nello spazio europeo evitando forme d concorrenza dannosa fra i vari paesi. Comunque sia, rimangono diversità significative nella disciplina dei vari Stati, dunque possono esservi asimmetrie fiscali nel trattamento fiscale dei trasferimenti degli stessi beni il che può portare a distorsioni della libera concorrenza. I dazi, invece, sono tributi imposti in ragione dell’attraversamento della linea di confine territoriale da parte di una merce. Si tratta di un’imposta di comoda gestione e che si concilia con l’esigenza di procedere ad un controllo alla frontiera delle merci immesse sul mercato nazionale. A livello comunitario si è proceduto all’abbattimento delle frontiere doganali al fine di consentire la libera circolazione di beni nell’ambito commerciale comunitario e si è anche fissato il criterio dell’unione doganale per cui si fissa un’unica tariffa doganale da applicare a tutte le merci provenienti dai paesi esterni all’Unione Europea. Dunque, ai fini della politica doganale, i confini territoriali di riferimento sono quelli dell’Unione Europea. L'imposta di registro è nata come corrispettivo del servizio costituito dalla registrazione dell’atto; oggi, è una vera e propria imposizione gravante sulla circolazione di ricchezza come fonte di entrata per lo Stato assumendo i connotati dell’imposta in ragione del crescente fabbisogno finanziario dello Stato. L'imposta di bollo è un tributo che riguarda la formazione di un documento appartenente ad una tipologia di atti indicati nella tariffa allegata alla legge di bollo. Rileva la mera redazione del documento giuridico e non il suo contenuto negoziale, quindi si tratta di un’imposta sul documento e non sull’atto. L'imposta sulle successioni e donazioni ha come presupposto un trasferimento di ricchezza e la discriminante fra le due va ravvisato nella circostanza che dà luogo al trasferimento, ovvero che questo avviene mortis causa inter vivos con atto liberale. 4. Il potere tributario nell’attuazione della disciplina del fenomeno fiscale L'esercizio della funzione fiscale si esprime mediante l’attuazione dei tributi, quindi quella serie di attività poste in essere dall’amministrazione finanziaria e dal contribuente per la ricostruzione giuridica del presupposto d’imposta, la liquidazione del tributo e l’adempimento dell’obbligazione tributaria. L'attuazione dei tributi vuole trasformare il sistema normativo, che dispone regole astratte circa le prestazioni tributarie, in comportamenti concreti che generano il flusso di entrate tributarie. L'attuazione dei tributi è, quindi, elemento fondamentale dell’effettiva funzionalità del sistema tributario. L'attuazione del tributo si realizza mediante una pluralità di fasi: - L'accertamento del tributo, ovvero quella serie di attività volte a ricostruire il presupposto e la base imponibile e che, quindi, portano alla liquidazione del tributo. Si tratta di una fase che si articola nella dichiarazione del contribuente, nei controlli degli uffici fiscali e nell’accertamento delle violazioni del contribuente; - La riscossione dei tributi, mediante la quale si effettua l’adempimento delle prestazioni tributarie. Tale fase si distingue nella riscossione spontanea se il contribuente procede autonomamente al pagamento del tributo e nella riscossione coattiva se l’amministrazione finanziaria esercita i poteri coattivi per assicurare l’incasso delle prestazioni tributarie; - Le sanzioni tributarie, sono irrogate in presenza di violazioni del contribuente e assicurano la funzione afflittiva e punitiva in una logica di deterrenza; - La tutela dei diritti, sia in fase stragiudiziale, mediante accordi amministrativi tra contribuente e amministrazione, sia in fase giudiziale davanti al giudice tributario. In ogni fase, la funzione fiscale si articola attraverso procedimenti che regolano i comportamenti dei contribuenti e dell’amministrazione ed è l’ordinamento a riconoscere diritti, obblighi, poteri, libertà, doveri di volta in volta. Per quanto riguarda l’obbligazione tributaria, in una prima prospettiva teorica (teoria dichiarativa), l’obbligazione tributaria viene ricondotta al verificarsi del presupposto determinato dalla fonte legale e spetta all’amministrazione dichiarare l’obbligazione. In una seconda prospettiva, teoria costitutiva, il verificarsi del presupposto d’imposta stabilito dalla legge attiva la funzione d’imposizione ed innesca il potere dell’ente impositore di determinare la sussistenza e l’entità dell’obbligazione tributaria al quale corrispondeva una situazione di soggezione da parte del contribuente. L'alternativa fra le due ricostruzioni ha generato una polemica fra gli studiosi del diritto tributario. Lo sviluppo dell’ordinamento tributario in un assetto di fiscalità di massa ha fatto emergere una varietà di schemi applicativi del tributo e una pluralità di situazioni soggettive differenti rispetto all’obbligazione tributaria. Di conseguenza, l’obbligazione tributaria ha perso il carattere totalizzante dell’esperienza tributaria in quanto non è necessariamente la causa della prestazione tributaria: si è cominciato a porre a base dell’attività dell’amministrazione finanziaria la funzione fiscale e non l’obbligazione tributaria. Si è, quindi, avanzata la teoria del procedimento come prospettiva teorica di ricostruzione del rapporto tributario e dell’attuazione del tributo. Oggi, sembra sopito il confronto fra teoria costitutiva e teoria dichiarativa, ed anche la teoria del procedimento ha perso il suo carattere unitario. Si è posta in evidenza la centralità della funzione fiscale in modo da ricondurre le varie fasi dell’attuazione del tributo all’esigenza di un’efficiente azione amministrativa con la finalità di assicurare il corretto perseguimento degli obiettivi dell’interesse fiscale e del riparto del carico fiscale tra i consociati secondo il principio della capacità contributiva. Nell'odierno assetto di fiscalità di massa, il principale criterio di funzionamento del sistema dei tributi è l’autotassazione ad opera dei contribuenti, per cui il funzionamento del sistema dei tributi è rimesso alla spontanea adesione dei contribuenti: in sede di dichiarazione tributaria, il contribuente ricostruisce il presupposto del tributo, procede alla quantificazione dell’obbligazione in sede di auto-liquidazione e predispone l’auto-versamento della prestazione fiscale. L'amministrazione finanziaria assume un ruolo «esterno» rispetto alle condotte fiscalmente rilevanti del contribuente, in quanto si limita al controllo e alla vigilanza dei comportamenti assunti dai contribuenti e se rileva inadempimenti, emette atti impositivi a tutela della pretesa fiscale. Dunque, l’intervento dell’amministrazione finanziaria è puramente eventuale e non necessario al funzionamento del sistema dei tributi. Nell'ottica di una rapida ed efficace definizione dell’accertamento in un assetto di una fiscalità di massa, si ricorre a modelli di predeterminazione normativa del presupposto e della base imponibile, mediante i quali il risultato economico di attività è determinato secondo indici statistici o empirici. Si risale, dunque, alla determinazione del fatto ignoto, ovvero presupposto e base imponibile, in base ad un meccanismo induttivo e giudizi di tipo probabilistico. La diffusione di meccanismi normativi ispirati alla normalizzazione della pretesa impositiva è coerente con l’assetto di fiscalità di massa, in quanto rede più gestibile il rapporto fra contribuente ed amministrazione finanziaria: le forme di predeterminazione normativa del presupposto e della base imponibile si collegano alle ragioni di funzionamento del sistema dei tributi. Inoltre, nell’attuale sistema di fiscalità di massa, vi è un incremento dei processi di automatizzazione dell’attuazione dei tributi, ad es. la dichiarazione tributaria è presentata in forma elettronica e il controllo formale della dichiarazione è svolto tramite elaborazione informatica dei dati contenuti ne documento elettronico. In questo modo, gli uffici fiscali possono mettere a confronto i dati formulati dal contribuente con i parametri normativi per verificare la condotta tenuta dal contribuente. L'attività di verifica è compiuta direttamente dalla macchina e anche l’atto di accertamento può essere emesso in forma automatizzata. Poiché la fase di accertamento automatico contempla il rischio di una scarsa attenzione alle vicende atipiche del contribuente, si deve valorizzare il contraddittorio tra ufficio e contribuente. Si prevede un’accelerazione delle procedure amministrative finalizzate a garantire la conclusione dell’attività di determinazione e liquidazione del tributo, come ad esempio le forme anticipate della riscossione del tributo. Tale accelerazione risponde sia all’esigenza «di cassa», quindi consentire un’acquisizione più rapida delle entrate, sia ad una logica di civiltà del diritto che vuole favorire la stabilità e prevedibilità dei rapporti giuridici tra cittadini e amministrazioni pubbliche evitando che il periodo di instabilità del rapporto tributario possa mettere in discussione la certezza del traffico commerciale. L'esigenza di velocizzare i rapporti fra contribuente ed amministrazione, inoltre, ha fatto emergere istituti giuridici che perseguono intese fra contribuente ed amministrazione. Dunque, si prevede il contraddittorio fra il contribuente e l’ufficio impositore al fine di far emergere una ricostruzione condivisa del presupposto e della base imponibile, da cui derivano riduzioni delle sanzioni a carico del contribuente e forme agevolate di pagamento delle prestazioni tributarie. Queste forme di collaborazione consentono di velocizzare le entrate fiscali e di deflazionare il contezioso tributario. Si possono prevedere alcune sequenze principali in base alle quali si relaizzano le fasi dell’accertamento e della riscossione, ad esempio: - Dichiarazione del contribuente – adempimento spontaneo; - Dichiarazione del contribuente – controllo formale della dichiarazione – cartella esattoriale; - Dichiarazione del contribuente – controllo parametrico – accertamento sostanziale; - Dichiarazione del contribuente – controllo sul campo mediante accessi ed ispezioni – accertamento globale. Si tratta di sequenze rispetto alle quali il ruolo dell’amministrazione è variabile. Inoltre, queste sequenze non esauriscono gli atti dell’accertamento: la funzione fiscale non si esaurisce in un modulo unitario, ma si declina in più sequenze procedimentali. L'elemento che accomuna le carie sequenze procedimentali è la partecipazione del contribuente. Si vuole garantire il coinvolgimento del contribuente al fine di raccogliere ulteriori elementi di fatto. Si individuano due forme di partecipazione del contribuente: - Il contraddittorio difensivo, mette il contribuente in condizione di tutelare i propri diritti rispetto all’esercizio dell’azione amministrativa sia nella fase di accertamento che nella fase esecutiva; - Il contraddittorio collaborativo, per cui il contribuente collabora con l’ufficio fiscale per determinare il presupposto e la base imponibile per definire un’intesa amministrativa che stabilisca la pretesa impositiva. Questi meccanismi di contraddittorio sono previsti nella fase dell’istruttoria tributaria e sono accentuati nella fase dell’emissione dell’atto di accertamento. Le forme di partecipazione del contribuente all’esercizio della funzione fiscale vogliono promuovere una democrazia amministrativa in cui l’amministrazione finanziaria assume il connotato di «centro di servizio» perdendo il connotato di «centro di dominio». 5. La funzione fiscale secondo le teorie economiche e sociali del XX secolo A partire dal secondo dopoguerra si sviluppano teorie economiche che prospettano la maggiore validità di un assetto di libero scambio, in quanto si ritiene che le leggi di mercato sono in grado di autoregolarsi e di trovare soluzioni idonee a supportare l’evoluzione del benessere individuale e collettivo. I sostenitori di questa teoria del libero mercato sono L. Von Mises, H.R. Bowen, M. Rothbart, I. Kirzner. Si tratta di teorie di neoliberismo fiscale, per cui la fiscalità è considerata come un potenziale ostacolo alla concorrenza, di conseguenza lo Stato deve essere neutrale rispetto alle dinamiche del mercato. Si impone l’idea di una dimensione minima dello Stato, per cui «meno spesa – meno tassazione», quindi viene meno la funzione redistributiva delle prestazioni fiscali. Tra i modelli liberisti vi è anche il pensiero di Von Hayek. Egli sostiene che il principio guida della fiscalità debba consistere nel rapporto commutativo tra beni e servizi pubblici ricevuti e imposte pagate, affinché vi sia equilibrio fra l’utilità ricevuta dal contribuente e le prestazioni fiscali pagate dallo Stato. Egli critica la tassazione progressiva, in quanto ispirata ad una logica di espropriazione del prodotto dell’attività umana. Robert Nozick prospetta la teoria dello «Stato minimo», per cui lo Stato deve agire per proteggere le libertà dei cittadini rispetto alle aggressioni dei terzi, ma non deve interferire con tali libertà; infatti, il principio della giustizia distributiva prevede che il presupposto della giustizia è l’esistenza di diritti fondamentali di proprietà attribuiti all’individuo. La diseguaglianza è un evento naturale e, quindi, non deve essere contrastata, per cui la funzione fiscale rappresenta una delle principali interferenze dello Stato: la tassazione dei proventi del lavoro viene paragonata ad una «nuova schiavitù» e la tassazione è ammissibile solo in forma contenuta per finanziare le ridotte funzioni dello Stato minimo, non per svolgere ulteriori funzioni sociali. A partire dagli anni Sessanta del XX secolo, soprattutto negli Stati Uniti, si sono affermate teorie economiche neoclassiche che rifiutavano l’impianto logico della concorrenza perfetta. Emerge la teoria di Milton Friedman che valorizza il principio di libertà in quanto in tal modo l’individuo è lasciato libero e troverà il modo per massimizzare i risultati economici e sociali. Egli riteneva che l’azione di controllo dell’economia doveva essere incentrata sulla liquidità monetaria consentendo la stabilizzazione dei prezzi, ma non vi doveva essere un intervento pubblico in economia in quanto ciò avrebbe alterato il mercato. La politica monetaria, che voleva difendere l’ortodossia liberale, si contrappone alla politica fiscale: egli propose di diminuire la fiscalità. Il monetarismo venne accolto da molti governi liberisti e conservatori nella convinzione che avrebbe potuto liberare le risorse implicite nell’economia nazionale. Il minore afflusso di entrate tributarie, però, comportò il ricorso all’indebitamento. Si formulò la teoria della supply side economics per cui la riduzione del prelievo fiscale avrebbe aumentato le entrate tributarie nel lungo- medio periodo, in quanto la riduzione del prelievo fiscale avrebbe promosso una crescita della produttività. Il disimpegno dello Stato avrebbe prodotto un effetto positivo sull’andamento del mercato. In realtà, nessuna evidenza empirica ha sorretto tale teoria. Vi sono poi teorie sulla neutralità del prelievo fiscale rispetto al funzionamento del mercato per cui le imposte creano una differenza tra il prezzo di mercato delle merci e il loro valore come prodotto industriale, dunque se l’aliquota d’imposta viene mantenuta costante e ridotta, le distorsioni rimangono contenute e circoscritte. Negli ultimi decenni, si sono sviluppate teorie orientate verso lo Stato minimo in cui la dimensione pubblica è recessiva. L'intervento dello Stato è configurato in misura marginale e vi è un ridimensionamento della funzione fiscale, accompagnato dall’indebitamento dello Stato. John Rawls ha formulato la teoria della giustizia distributiva, in cui la giustizia è considerata come equità, per cui si deve riconoscere l’uguaglianza nell’assegnazione dei diritti e dei doveri fondamentali, le libertà individuali non possono essere violate per aumentare il reddito o patrimonio, le pubbliche opportunità vanno aperte a tutti e, quindi, le politiche sociali dello Stato devono dare priorità ai miglioramenti delle condizioni dei soggetti svantaggiati (la diseguaglianza operata dallo Stato è utilizzata come rimedio alla diseguaglianza di partenza). L'imposizione fiscale è necessaria per realizzare il programma di giustizia sociale e si deve ricorrere a imposte a elevato contenuto redistributivo, che vogliono assicurare eguale libertà, e a prestazioni tributarie preferenziali al fine di fornire le entrate per i beni pubblici. La teoria della scelta pubblica evidenzia come le decisioni in materia di finanza pubblica siano assunte in relazione agli interessi utilitaristici perseguiti dai cittadini. Le scelte di finanza pubblica sono determinate dalle valutazioni formulate dall’elettore in posizione mediana, il quale in linea di massima è contrario ad un incremento della tassazione in quanto rileva il suo depauperamento. Il calcolo egoistico dell’elettore spinge i programmi politici verso modelli di fiscalità ridotta che operano a detrimento del Welfare State. Amartya Sen considera lo Stato come un’istituzione che non può essere burocratizzata dalla comunità politica e che deve procedere a rimuovere gli ostacoli materiali che producono ingiustizie sociali. Lo Stato deve favorire il raggiungimento di un livello di pari opportunità, per cui pur rispettando la matrice liberista dell’economia è necessaria l’istituzione del Welfare State per garantire l’uguaglianza di opportunità: la funzione fiscale si collega al progetto di sviluppo dell’uguaglianza distributiva promosso dallo Stato. 6. La giuridicizzazione del potere tributario nel nuovo assetto del «Welfare State» Il modello di funzionamento del Welfare State vuole un progetto di comunità che tende a garantire la crescita e l’inclusione di ciascun consociato mediante l’ampiamento della piattaforma delle pari opportunità. L'obiettivo del patto sociale è garantire ad ogni membro della collettività l’effettiva e concreta capacità di autodeterminazione attraverso il godimento di prestazioni pubbliche che superano le diseguaglianze. Ciascun individuo, quindi, partecipa a questo programma mediante il pagamento di prestazioni fiscali diversamente distribuite in ragione di una tassazione progressiva. In continuità con il processo storico avviato con il capitalismo avanzato, i poteri dell’amministrazione pubblica per l’esazione delle prestazioni fiscali sono sottoposti alle regole ed ai vincoli derivanti dall’ordinamento giuridico. Il potere tributario è sottoposto ai diritti tributari. Nella fase ascendente, il potere normativo è affidato al Parlamento secondo la logica del consenso; nella fase discendente, la potestà ammnistrativa di dare attuazione alle norme fiscali è vincolata al rispetto della legge senza margini di discrezionalità. Il diritto dei tributi acquista una sua specifica identità come settore specifico dell’ordinamento. Il potere tributario è disciplinato nel sistema tributario, ovvero quel complesso di principi e norme che formano un insieme unitario diretto all’istituzione ed attuazione dei tributi. Si individuano più livelli del sistema tributario: - Il macro-sistema, composto dalle norme costituzionali e dai principi generali che governano il rapporto tributario; - I medio-sistemi di primo livello, individuati con riferimento alle regole, istituti e norme proprie di ciascun tributo; - I medio-sistemi di secondo livello, composti dall’insieme normativo riguardante una categoria complessiva del tributo (ad esempio le categorie di reddito all’interno dell’IRPEF); - I micro-sistemi, definiti con riguardo alle specifiche fattispecie impositive e agli obblighi tributari all’interno della disciplina di ciascun tributo. Si possono individuare relazioni verticali fra il macro-sistema e i medio-sistemi, fra i medio-sistemi di primo livello e quelli di secondo livello; si possono anche individuare relazioni orizzontali fra i medio-sistemi di primo livello. Il sistema tributario presenta tratti di autonomia e di particolarismo. L'autonomia del sistema tributario si riscontra nella presenza di principi generali della materia fiscale che garantiscono la ricostruzione unitaria del settore disciplinare. I principi generali si identificano nell’interesse generale della collettività di acquisire risorse tributarie e nell’interesse individuale alla tutela della propria sfera di libertà. Il particolarismo, invece, si rinviene nell’attitudine delle norme fiscali a sovrapporsi a qualificazioni giuridiche o a regole di altri settori disciplinari. In virtù del particolarismo, istituti di tipica derivazione privatistica vengono ripresi e rielaborati nel sistema tributario secondo una logica funzionale ai principi della materia fiscale. Nella regolazione del fenomeno fiscale, ovviamente, emergono una pluralità di interessi che si compongono attraverso la rappresentanza politica e la mediazione normativa. La tutela degli interessi da tutelare avviene in sede parlamentare nella formazione della norma, mediante atti amministrativi che chiariscono la portata interpretativa della norma, nella fase di attuazione dei tributi mediante l’applicazione delle norme con riguardo agli specifici rapporti tributari, in sede di tutela dei diritti di fronte ai giudici. La giuridicizzazione del potere tributario porta a ricercare forme normative per regolare la funzione fiscale. Nello Stato di diritto la formula della «sovranità del popolo» appare sovente riva di effettività, in quanto la decisione è affidata a istituzioni sociali rappresentate da un ristretto gruppo di individui. Ciò si riflette anche nella politica fiscale, in quanto le decisioni di sistema vengono realizzate secondo le volontà maturate nei centri di potere della società pluralista. Le scelte tecniche che connotano la declinazione del potere tributario sono il risultato della forza sociale e politica delle nuove oligarchie, ma il potere delle oligarchie è sottoposto al controllo di validità rispetto ai principi fondanti dell’ordinamento giuridico. Elemento qualificante del potere tributario nello Stato sociale è il principio di uguaglianza sostanziale, in quanto compensa gli effetti distorsivi che il gioco spontaneo delle forze economiche e sociali può produrre. Lo Stato sociale promuove un complesso di relazioni tra i suoi cittadini che valorizza la parità di opportunità e la dignità umana, relegando a un ruolo subordinato l’efficienza economica: è ammesso ricorrere ad interventi correttivi e distributivi da parte dei poteri pubblici. Il contribuente non è più visto come un suddito gravato dalla potestà fiscale, ma come il contitolare della sovranità tributaria che concorre all’esercizio di una funzione primaria per il bene generale. L'aspirazione di una società ispirata all’uguaglianza sostanziale fa sì che l’intervento dello Stato sia sempre più rilevante, ma emerge la difficile funzionalità dell’ordine generale. Si deve procedere ad una revisione dell’attuale modello di Stato sociale: va effettuata una «selezione dei bisogni» per enucleare gli obiettivi davvero primari, in quanto si deve eliminare il concetto di «prestazioni generalizzate» al fine di alleggerire il bilancio pubblico senza che ciò vada a diminuire la tutela sociale in virtù del fatto che spesso le prestazioni hanno carattere ridondante; devono essere rivisti i contenuti delle prestazioni sociali per aumentarne la qualità e va ridotto il costo delle prestazioni pubbliche al fine di evitare un eccessivo indebitamento dello Stato. La riduzione del costo sostenuto dal Welfare State per il venir meno di prestazioni generalizzate può consentire un risparmio di risorse che possono essere reinvestite per migliorare la qualità delle prestazioni sociali. Lo Stato deve rispondere concretamente alle esigenze di salvaguardia dei diritti minimi di sussistenza e di dignità. Capitolo nono: Il potere tributario nell’epoca della globalizzazione 1. La coesistenza di una pluralità di sistemi tributari ed il mercato delle imposte La globalizzazione ha comportato la diminuzione del ruolo degli Stati nel governo dell’economia a favore delle spinte provenienti dai soggetti multinazionali della finanza. Il pluralismo politico dovuto alla formazione dii centri di potere alternativi e concorrenziali al potere statuale e l’attribuzione ad entità sopranazionali ha portato all’attenuazione della funzione principale dello Stato come detentore del monopolio della decisione politica. Si ha il passaggio da un assetto monolitico di tipo statuale, cui corrisponde un sistema tributario unico, ad un assetto pluralista connotato dalla coesistenza di più sistemi tributari appartenenti alle diverse forme di comunità territoriale. Oggigiorno convivono una pluralità di ordinamenti diversi riconducibili a diverse comunità territoriali e ogni ordinamento si caratterizza per una tavola di valori della comunità. La Costituzione prevede una dialettica fra i valori della capacità contributiva e l’interesse fiscale, per cui si devono individuare le forme del riparto dei carichi fiscali fra i consociati per distribuire le spese per il sostenimento e lo sviluppo del Welfare State. Nell'ordinamento di finanza locale delle regioni si perseguono obiettivi di sviluppo di ampio respiro che sono comunque riferibili ai bisogni primari di una comunità per cui la fiscalità è funzionale ad assicurare un gettito di rilevante entità secondo criteri generali di redistribuzione fra i consociati. Nell'ordinamento di finanza locale degli enti esponenziali minori, le funzioni di spesa sono da riportare a bisogni localistici di carattere specifico e il criterio di riparto dei carichi fiscali è il principio del beneficio. Nell'ordinamento dell’Unione Europea, si assume una fiscalità «negativa» per cui si vuole garantire la libera circolazione dei servizi e dei beni, di conseguenza le prestazioni tributarie vengono guardate con diffidenza. La diversità dei macro-sistemi comporta che le norme tributarie siano declinate in modo diverso, per cui non si possono esportare principi, istituti, categorie giuridiche da un sistema di diritto ad un altro. Fra i vari ordinamenti vi sono rapporti che tendono alla concordia e all’armonica coesistenza. Il problema si pone nell’ipotesi di conflitto, in virtù del fatto che non si può ricorrere al criterio gerarchico per risolvere l’antinomia in quanto si tratta di ordinamenti equi-ordinati fra di loro. Si deve, quindi, ricercare un criterio di coordinamento di tipo orizzontale: si deve ricorrere al criterio di competenza per cui ogni ordinamento dispone di un’area di pertinenza da regolamentare in forma esclusiva senza che altre fonti possano interferire. Se il criterio di competenza non consente di superare il conflitto, la soluzione va ricercata attraverso la dialettica dei valori e degli interessi secondo un modello di coesistenza, ricercando, quindi, dei punti di equilibrio. Si deve lasciare spazio a soluzioni «aperte» al fine di individuare compromessi normativi idonei a mediare interessi e valori contrastanti. Nei modelli giuspubblicistici meno recenti, vi era coincidenza fra lo Stato e il sistema tributario, in quanto lo Stato assurge a perno centrale dello sviluppo della società civile. Il dovere di partecipare alle spese pubbliche veniva considerato come una manifestazione dello stato di soggezione del cittadino rispetto allo Stato. Lo slittamento della sovranità fiscale dello Stato ad una pluralità di entità territoriali ha comportato l’allargamento della partecipazione alla vita politica a varie classi e gruppi di interessi determinando l’esigenza di combinare le istanze decisionali in un compromesso fra maggioranza e minoranza. La pluralità di ordinamenti mette in crisi la corrispondenza biunivoca fra sistema tributario e piano ideologico, rendendo evidente come lo strumento tributario possa essere adottato in maniera flessibile per una pluralità di scopi. Si assiste ad una «neutralizzazione» della funzione etica del sistema tributario, nell’apertura verso numerose istanze provenienti da una società ontologicamente pluralista. Dunque, la nozione di sistema tributario assume una conformazione «aperta» determinata da soluzioni di compromesso. La diffusione dei processi di globalizzazione ha indotto riflessi significativi sui meccanismi di definizione delle scelte tributarie, in quanto il carico fiscale diventa un fattore importante nella competizione fra imprese. Si è creato un vero e proprio «mercato delle imposte» per cui gli Stati competono fra di loro al fine di definire un livello di tassazione appetibile. Al fine di evitare questa competizione, all’interno dell’Unione Europea si è previsto un maggior coordinamento delle politiche tributarie. 2. La fiscalità «negativa» quale tratto qualificante dell’ordinamento europeo L'Unione Europea è improntata ad una fiscalità «negativa», in quanto l’obiettivo primario dell’UE è l’individuazione di vincoli, di limiti all’esercizio del potere tributario da parte dei singoli Stati. La fiscalità negativa esprime l’esigenza di limitare l’«altrui» sovranità fiscale, comunque riconosciuta agli Stati membri, escludendo una fiscalità «positiva» attraverso la quale definire un piano di valori propri. Si abbandona il nucleo dell’interesse fiscale a favore di un posizionamento minimale orientato verso la logica della non discriminazione. In effetti, la fiscalità negativa trova conferme nell’uso delle direttive per regolare la materia fiscale e nell’uso di atti di soft law per il settore delle imposte dirette. L'Unione Europea si qualifica come ente di indirizzo che promuove l’adesione verso linee normative, ma non regola direttamente la materia tributaria. Gli organi dell’Unione Europea, inoltre, sono titolari di un potere normativo limitato solo in riferimento alle imposte indirette, mentre le imposte dirette sono di competenza esclusiva degli Stati. Infine, la giurisprudenza della Corte di Giustizia in materia fiscale è pragmatica e rivolta alla declinazione nel caso concreto delle regole ostruttive formalizzate nel diritto comunitario. Alla base della disciplina del potere tributario vi è la concezione di «mercato comune» come allocazione delle risorse e dei fattori produttivi efficienti, dunque il fenomeno impositivo può influire sui flussi di beni o di capitali verso le localizzazioni più produttive. Si è, quindi, definito il principio di «neutralità fiscale» che assume il carattere di «neutralità all’esportazione di capitali», ad indicare che il fattore fiscale non può assumere un carattere disincentivante o distorsivo rispetto all’effettuazione di investimenti transnazionali, e di «neutralità all’importazione di capitali», al fine di definire la parità di trattamento fiscale dei capitali affluenti nel mercato di uno Stato a prescindere dalla provenienza nazionale. Queste due forme di neutralità possono essere assunte contemporaneamente solo se i sistemi fiscali dei singoli Stati mostrano una fondamentale identità. La variabile fiscale è vista in termini negativi, come un fattore suscettibile di determinare distorsioni rispetto alla «capacità naturale» di funzionamento del mercato: nel Rapporto Ruding si enuncia che l’obiettivo primario dell’UE in materia fiscale è l’eliminazione delle distorsioni ed inefficienze determinate dai sistemi fiscali nazionali rispetto alla piena efficienza allocativa delle risorse produttive. La fiscalità negativa si collega all’impianto assiologico liberistico che ha denotato lo sviluppo dell’ordinamento comunitario: il principio di non discriminazione tributaria è uno dei corollari maggiormente significativi delle quattro libertà del Trattato. Con il Trattato di Maastricht sono emersi ulteriori valori non a carattere economico che, quindi, indicano un allargamento degli obiettivi dell’UE, ma l’attuazione normativa ed operativa è ancora in fase primordiale. L'idea dominante dell’ordinamento comunitario rimane comunque la tutela e la promozione della concorrenza, rimuovendo eventuali ostacoli. Dunque, il fenomeno tributario viene disciplinato di conseguenza, riducendo il peso delle misure fiscali al fine di evitare che le imposte costituiscano un impedimento al funzionamento del mercato. La fiscalità negativa è, quindi, corollario della fiscalità neutrale. L'assunzione del mercato a valore di riferimento dell’ordinamento comunitario contrada con le costituzioni degli Stati ove alla fiscalità è riconosciuta un’importante funzione propulsiva rispetto ai processi di trasformazione sociale. Nell'ordinamento comunitario si è imposta la logica correlata al principio di «eguaglianza formale» in virtù del quale la posizione dei contribuenti è valutata in ragione di una parità di trattamento di tipo «orizzontale», per cui l’imposizione non deve alterare l’opportunità di accedere al mercato. Nelle carte costituzionali, invece, trova accoglimento il principio di «uguaglianza sostanziale» secondo cui l’imposizione fiscale va raccordata all’obiettivo di promozione della parità di chances al fine di ricercare una parità di trattamento di tipo «verticale». Di conseguenza, il principio di non discriminazione e il principio di non restrizione sono il corollario del principio di uguaglianza formali in ambito comunitario; mentre, l’interesse fiscale e la capacità contributiva sono i corollari dell’uguaglianza sostanziale delle carte costituzionali. La finanza «neutrale» verso cui si orienta l’ordinamento comunitario è, quindi, difforme sia sotto il profilo assiologico che normativo, rispetto ai modelli di finanza «funzionale» degli ordinamenti fiscali nazionali. La fiscalità negativa indica, quindi, che l’Unione Europea richiama a sé alcune scelte in materia fiscale sottraendole alla competenza degli Stati nazionali e limitando la sovranità nazionale in materia tributaria senza, però, comportare una sostituzione della stessa con una sovranità comunitaria. L'UE opera come un anti-sovrano che limita e depotenzia la sovranità degli Stati nazionali, rinunciando a sostituirla con un differente sindacato discrezionale. In effetti, l’Unione Europea ha alcuni tratti che non la rendono conciliabile con l’idea moderna della sovranità: mancano la concezione ascendente del potere, determinata dalla rappresentatività popolare, e la connessione con una nazione. Il processo di erosione della sovranità nazionale non comporta la creazione di un nuovo ordine di valori regolato secondo le valutazioni di un nuovo titolare del potere sovrano, ma costituisce un ordine auto-referenziale ed auto-regolato formato a seguito delle transazioni commerciali e rispondente alle logiche concorrenziali, non imposto dall’autorità. Cambia, quindi, anche la relazione fra libertà e potere pubblico: nell’ordinamento democratico la libertà individuale va rapportata agli interessi generali della collettività come raccolti dal potere sovrano; nell’ordinamento comunitario, invece, la libertà di agire si presenta come libertà di fatto il cui ambito attuativo appare come uno spazio non regolato dal diritto. In questo ambito, emerge la fiscalità negativa che elide la sovranità nazionale e rinuncia alle aspirazioni di redistribuzione del reddito e di trasformazione della società in conformità alle esigenze di rimozione degli ostacoli materiali al pieno sviluppo della personalità dei consociati. Nella prospettiva dell’anti-sovrano cresce la tensione fra ordinamento comunitario e ordinamenti nazionali, in virtù dell’antitesi fra la decisione dell’Unione Europea riconducibile al mercato e il complesso di valori a connotazione sociale delle carte costituzionali. Inoltre, la globalizzazione dell’economia ha fatto sì che questa non fosse più riconducibile ad un ambito spaziale circoscritto ponendo in crisi la logica nazionale di regolazione dei fenomeni economici. La crisi del concetto tradizionale di sovranità assoluta degli Stati rimette il controllo delle risorse economiche alle forze che dirigono il mercato: vi è un’inversione logica rispetto al tradizionale rapporto tra Stato e mercato, per cui sono gli Stati ad essere funzionali ai mercati e le scelte operate dagli Stati sono subordinate alla finanza. Emerge una funzione «amministrativa» dello Stato e non una funzione sociale. Il pericolo è che nel mercato i «forti» si impongano sui «deboli» favorendone l’espulsione dal circuito produttivo, dunque vi è il pericolo dell’abbandono della funzione sociale e dell’idea di costituire un ordine economico rispondente all’equilibrio dei vari interessi della collettività. L'assunzione della fiscalità negativa come paradigma del potere tributario accentua i rischi dell’anti-sovrano, in quanto si abbandona ogni connotazione sociale e redistributiva del prelievo fiscale che viene riportato a mero strumento finanziario di copertura del debito pubblico. L'interesse fiscale e la capacità contributiva, i bisogni generali della collettività e le libertà individuali perdono di rilievo nell’ordinamento comunitario, mentre i principi di non restrizione delle libertà di circolazione rimettono al libero gioco concorrenziale la scelta sugli assetti allocativi: la fiscalità negativa fornisce un impulso ulteriore all’ordine spontaneo, ovvero al cosmos, del mercato. Un rimedio per contenere i rischi dell’anti-sovrano potrebbe essere la promulgazione di una Costituzione europea che riprenda i principi formulati nella tradizione costituzionale dei paesi membri dell’Unione Europea. Si dovrebbe inserire il principio del consenso all’imposizione che implica la rappresentatività popolare come fonte di legittimazione del potere tributario. Si dovrebbero riprendere i principi di dell’interesse fiscale e della capacità contributiva come momenti dialettici del diritto tributario. Si dovrebbe enucleare un principio di riparto dei carichi fiscali fra consociati che si colleghi al principio di uguaglianza sostanziale. Ovviamente, l’enucleazione di principi costituzionali non escluderebbe il ruolo dell’anti-sovrano, per cui le regole tributarie sarebbero comunque orientate alla fiscalità negativa, ma l’affermazione di valori positivi comporterebbe una formazione progressiva nel tempo di norme che abbiano un contenuto positivo e non solo una funzione limitativa. Il rischio dell’anti-sovrano verrebbe scongiurato in radice se la sovranità tributaria fosse attribuita all’Unione Europea, magari nell’ambito di una Costituzione europea. Affinché l’Unione Europea sia destinataria di competenze piene in materia fiscale è necessario il passaggio istituzionale per cui l’Unione Europea diventi uno Stato federale. La costituzione di uno Stato federale costituisce il punto di arrivo del percorso di integrazione economica, giuridica ed istituzionale avviato con l’istituzione dell’ordinamento comunitario. Il federalismo fiscale consiste nell’attribuire un potere tributario, differentemente graduato, ad una serie di enti territoriali subordinati rispetto allo Stato, secondo il principio di sussidiarietà. Al potere centrale, dunque agli Stati Uniti d’Europa, si dovrebbe attribuire la competenza di disciplinare il settore delle imposte dirette, mentre agli Stati locali si dovrebbe riconoscere il diritto di compartecipazione al gettito delle imposte dirette senza alcuna facoltà di intervento sulla disciplina normativa. Agli Stati locali potrebbe essere affidata la competenza a disciplinare le imposte indirette, ovvero tributi che influiscono in maniera ridotta rispetto al gettito tributario complessivo; bisogna tenere in considerazione, inoltre, che la determinazione dei tributi locali è riconducibile ai bisogni di una classe di soggetti territorialmente circoscritta. La costituzione degli Stati Uniti d’Europa invertirebbe i ruoli e le funzioni rispetto al vigente assetto dell’ordinamento comunitario, in quanto, in quest’ultimo, i poteri tributari sono riconosciuti solo agli Stati membri, mentre l’UE ha potere tributario solo in relazione ai dazi e ha un potere regolatorio relativo alle imposte indirette, mentre sulle imposte dirette l’UE ha solo un ruolo programmatico. Negli Stati Uniti d’Europa, l’Europa si atteggerà a sovrano fiscale che userà la leva tributaria secondo le ragioni ed i bisogni del moderno Stato, per cui la sua istituzione potrebbe costituire il rimedio rispetto ai rischi dell’anti-sovrano. La prima modalità di esercizio del potere tributario da parte di un’Europa che si atteggi a centro unitario della sovranità fiscale è l’istituzione di un tributo a carattere europeo. I tratti qualificanti del tributo europeo si individuano nel potere normativo attribuito all’Unione Europea e nella destinazione del gettito all’UE; gli Stati potrebbero intervenire con addizionali o sovraimposte e sarebbero chiamati a favorire l’attuazione del tributo in sede di accertamento e di riscossione. L'istituzione di un tributo europeo aumenterebbe le entrate nel bilancio pubblico favorendo l’ampliamento della capacità di spesa e, quindi, consentendo la perseguibilità di programmi di sostegno sociale: l’Unione Europea potrebbe farsi carico delle funzioni sociali proprie del Welfare State. Attualmente solo i dazi doganali possono considerarsi come tributo europeo. Sono state prospettate altre ipotesi di tributo europeo, ad es. la Tobin Tax sulle transazioni finanziarie o la carbon tax, ma la limitatezza delle proposte, riconducibili a settori marginali del diritto tributario, rende evidente la timidezza nell’usare questo strumento nell’integrazione europea. Per superare la logica dell’anti-sovrano, si può anche ricorrere alla formazione di una vera e propria amministrazione finanziaria europea, ovvero costruire una forza di controllo delle attività fiscalmente rilevanti effettuate nel territorio dell’UE. La presenza di uffici amministrativi dedicati al perseguimento degli obiettivi fiscali dell’Unione Europea, indipendenti dagli Stati nazionali, garantisce uno strumento effettivamente idoneo a consentire l’attuazione concreta di una politica fiscale comunitaria, senza dover dipendere dal grado di adesione dei singoli Stati. Secondo l’ipotesi di costituire una world tax organization, a tale forza amministrativa europea dovrebbero essere affidate una serie di funzioni, che sono riconosciute alle amministrazioni finanziarie nazionali e che costituiscono il pendant della sovranità fiscale: - Funzioni cognitive, volte ad acquisire informazioni specifiche sui comportamenti fiscalmente rilevanti dei contribuenti; - Funzioni di controllo, hanno ad oggetto il monitoraggio e il controllo delle condotte fiscale da realizzare mediante controlli a tavolino e sul campo; - Funzioni conciliative, per cui si devono costituire uffici e procedure di conciliazione stragiudiziale dei contenziosi tributari, sia in riferimento alle controversie Stati-UE sia con riguardo alle contestazioni di singoli individui; - Funzioni di studio, come l’analisi delle tendenze fiscali nazioni e delle problematiche di fiscalità internazionale per elaborare statistiche e politiche economiche e fiscali; - Funzioni consultive, consistenti nell’assistenza tecnica e legislativa alle istituzioni parlamentari e alle amministrazioni fiscali degli Stati per favorire il coordinamento e l’armonizzazione. La dimensione organizzativa assume, quindi, un connotato strumentale rispetto alla definizione delle norme tributarie. La formazione di un’amministrazione europea è un momento imprescindibile del processo di definizione di una sovranità fiscale comunitaria. Ciò dovrebbe favorire la diffusione dei valori accolti nell’eventuale Costituzione europea e dovrebbe contribuire a superare la fase di fiscalità negativa. 3. L'ordine internazionale della competizione fiscale La concorrenza fiscale fra Stati è un fenomeno relativamente recente e consiste in una competizione ispirata dall’obiettivo di attrarre capitali ed imprese sul territorio dello Stato mediante la leva tributaria. Nella prospettiva concorrenziale, lo Stato decide di adottare una politica tributaria ispirata ad una riduzione del carico fiscale sui capitali e sulle imprese multinazionali rispetto al livello ordinariamente applicato dai principali paesi del mondo. Si predispone, dunque, un assetto fiscale attrattivo e che presenti un’incidenza effettiva sui risultati economici: lo strumento della detassazione è un importante fattore delle decisioni strategiche delle imprese multinazionali in ordine al territorio in cui posizionare le proprie attività, in quanto un minore onere tributario può permettere la massimizzazione del profitto. Il calcolo economico sotteso alla concorrenza fiscale è da rinvenire nel calcolo di convenienza formulato dallo Stato, per cui la localizzazione di imprese è in grado di compensare il mancato gettito tributario producendo un aumento del benessere collettivo superiore da quello che deriverebbe dal ricorso al livello ordinario di tassazione. Nasce, appunto, un vero e proprio «mercato delle imposte» nel quale l’offerta di un prelievo tributario ridotto costituisce la merce di scambio dell’insediamento imprenditoriale nel territorio nazionale. Al fine di evitare i rischi che potrebbero derivare da tale competizione fiscale, come la crisi fiscale dello Stato, le istituzioni internazionali, come ad es. l'UE, hanno affermato l’esigenza di un maggior coordinamento delle politiche tributarie dei paesi. Inizialmente, la concorrenza fiscale fra Stati non era considerata un’automatica distorsione del mercato, ma come un possibile strumento di politica economica per favorire l’incremento di alcuni fattori della produzione del sistema nazionale. A partire dagli ultimi anni del XX secolo, si è, invece, enucleata la nozione di «concorrenza fiscale sleale» fra Stati, ad indicare un utilizzo della leva tributaria in una dimensione distorsiva rispetto alle normali logiche del mercato. La «slealtà» della concorrenza fiscale è ricondotta ad una tassazione selettiva, rivolta solo ad alcune attività economiche per favorire la localizzazione, anche solo formale, di alcune imprese multinazionali senza promuovere una crescita del sistema produttivo interno: le scelte di fiscalità agevolata sono state rivolte a favorire stanziamenti minimi di società multinazionali, anche solo mediante sedi legali, per beneficiare dei vantaggiosi trattamenti tributari. Il ricorso alla detassazione, quindi, non risulta funzionale alla produzione di esternalità positive derivanti dalla localizzazione di attività di impresa e la concorrenza fiscale non è legata ad un piano di sviluppo del sistema produttivo interno. La concorrenza fiscale viene qualificata come «sleale» in quanto ricondotta ad un mero calcolo politico svincolato da un beneficio economico generalizzato. La diffusione delle logiche di mercato ha travolto il Welfare State, in effetti inizia ad evaporare anche l’idea di sovranità nazionale che è elemento portante del Welfare State. Il punto cardinale di riferimento diviene il «mercato», il quale si presenta come un meccanismo regolatore degli equilibri sociali ed economici. La funzione regolatrice, quindi, non risponde ad una logica ordinatrice secondo valori e modelli elaborati aprioristicamente dallo Stato comunità, ma è rimessa a scelte e giudizi emergenti nel mercato transnazionale formulati secondo l’incontro della domanda e dell’offerta. Dunque, il fenomeno tributario viene regolato in modo tale che le imposte non si risolvano in impedimenti che alterano la capacità di funzionamento del mercato. Anche la formulazione della nozione di «concorrenza fiscale dannosa» si allinea all’idea di una «fiscalità di mercato», per cui il «mercato» è il punto di riferimento delle scelte fiscali. L'assunzione del «mercato» come valore di riferimento dell’ordinamento fiscale contrasta con le scelte operate dalle costituzioni nazionali, dove alla fiscalità è riconosciuta la funzione propulsiva dei processi di trasformazione sociale al fine di sviluppare un assetto sociale in linea con il principio di uguaglianza sostanziale. L'assetto sociale e gli equilibri degli interessi vengono realizzati mediante la declinazione normativa dei rapporti tra potere politico e potere economico, ma la globalizzazione dell’economia ha posto in crisi la logica nazionale di regolazione dei fenomeni economici. Il mercato internazionale non coincide con il territorio di uno Stato e l’abbandono del riferimento al territorio indica lo scadimento del potere politico nazionale. La crisi de concetto tradizionale di sovranità assoluta degli Stati porta a rimettere il controllo delle risorse economiche dalla classe politica alle forze che dirigono il mercato e si inverte il rapporto fra Stato e mercato, per cui il primo diviene funzionale al secondo. Lo Stato diviene un entro regolatore del mercato ed emerge una funzione «amministrativa» dello Stato al posto della funzione sociale. Emerge, però, come nel mercato i «forti» si impongano sui deboli, per cui vi è il pericolo dell’abbandono della funzione sociale in quanto la democrazia del mercato si dimostra iniqua. La fiscalità concorrenziale produce l’abbandono di ogni connotazione sociale e redistributiva del prelievo fiscale, che viene riportato a un mero strumento finanziario di copertura del debito pubblico. Si stabilisce la priorità degli interessi del mercato. Il fenomeno della concorrenza sleale è stato oggetto di una serie di studi da parte delle istituzioni economiche mondiali, come l’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico). Nel 1998, l’OCSE ha pubblicato un primo rapporto sulla concorrenza fiscale dannosa provando ad individuare le possibili azioni di contrasto. In questo documento si definisce la concorrenza fiscale dannosa facendo riferimento alle «pratiche fiscali dannose», ovvero a quelle pratiche volte esclusivamente ad attrarre investimenti esteri nel territorio statale mediante l’uso di forme di detassazione. Il danno consiste nella riduzione dei flussi fiscali degli Stati. Gli elementi qualificanti della concorrenza fiscale dannosa, quindi, sono: la riduzione dell’imposizione, la delimitazione dei benefici tributari agli investitori esteri, l’assenza di trasparenza finanziaria, la mancanza di scambio di informazioni con le amministrazioni finanziarie di paesi esteri. Nel 2000, si è pubblicato un secondo rapporto che fornisce indicazioni e raccomandazioni agli Stati per eliminare le elusioni e le evasioni fiscali ed individua una lista di Stati (Black list) che hanno un regime fiscale privilegiato che vale a costituire un parametro di valutazione da assumere nella disciplina nazionale per il contrasto alle pratiche di concorrenza fiscale. Si promuove un approccio collaborativo fra gli Stati per contrastare la concorrenza fiscale dannosa. Anche nei successivi rapporti emerge la convinzione che il contrasto alle partiche fiscali dannose non può essere rimesso a scelte di politica tributaria assunte arbitrariamente da singoli Stati, ma deve essere coordinato da un’azione comune a livello internazionale. Nel febbraio 2011 si è affermata l’esigenza di una governance internazionale della fiscalità che sia idonea a scoraggiare gli «aggressive tax plannings» delle multinazionali. Si esprime l’idea di avviare strumenti di contrasto alle partiche fiscali dannose poste in essere da alcuni Stati. Lo strumento usato a livello internazionale, quindi, è la soft law, ovvero atti che assumono il carattere di raccomandazioni e suggerimenti e che hanno una funzione di stimolo e di indirizzo. Il contrasto alla concorrenza fiscale dannosa è stato avviato su base internazionale grazie all’attività svolta dagli Stati Uniti per tutelarsi dall’evasione fiscale derivante da operazioni svolte all’estero dai propri residenti. L'amministrazione finanziaria degli USA, all’inizio del XXI secolo, ha iniziato operazioni di istruttoria presso alcuni dei principali istituti finanziari esteri per acquisire informazioni sulla condotta fiscale dei propri contribuenti e, dunque, si sono contestati ai contribuenti e anche agli istituti finanziari illeciti tributari. L'amministrazione finanziaria degli USA ha, quindi, fatto ricorso a forme di collaborazione amministrativa tra le autorità dei vari paesi al fine di raggiungere un adeguato grado di trasparenza dei rapporti finanziari dei residenti esteri. Questo modello giuridico è stato ripreso nella disciplina OCSE rappresentando la base regolamentare adottata come standard globale negli accordi internazionali. Ovviamente, gli Stati Uniti hanno una forza diplomatica ed economica che si esprime anche nelle relazioni internazionali, dunque questi possono influenzare i mercati internazionali ed incidere sulla vita materiale ed economica di molte imprese multinazionali. È lo Stato che dispone di tale forza che determina la soluzione normativa recepita dagli altri Stati: le norme di formazione pattizia che compongono i trattati internazionali non sono il frutto di un negoziato fra soggetti paritetici, ma sono il risultato di decisioni sostenute da forza di uno tra gli Stati pre-dominanti. Le norme del diritto internazionale non sono espressione della libertà democratica, ma del primato della sovranità fiscale di uno Stato più forte rispetto agli altri. La prima direttrice delle azioni di contrasto della concorrenza fiscale dannosa è individuabile nella definizione di un modello giuridico comune su base internazionale per la disciplina delle attività multinazionali. Nel 2013, in occasione del G20 di Mosca, viene pubblicato il rapporto «Base erosion and profit shifting - BEPS» che formalizza i risultati di un progetto congiunto del G20 e dell’OCSE. L'obiettivo è quello di definire un modello di tassazione delle attività internazionali che consenta di applicare l’imposta nel luogo in cui l’attività è svolta, colmando le lacune dei sistemi fiscali nazionali che consentono forme di elusione. Il «piano d’azione» prevede molteplici punti: - Disciplinare l’economia digitale sotto il profilo tributario; - Dare coerenza ai regimi fiscali nazionali con riguardo alle attività transnazionali; - Perseguire il riallineamento della tassazione alla localizzazione sostanziale delle attività produttive; - Aumentare la trasparenza delle attività internazionali e favorire lo scambio di informazioni; - Consentire l’adeguamento dei trattati bilaterali attraverso il recepimento di una convenzione multilaterale. Queste raccomandazioni sono state recepite dagli Stati nella propria legislazione interna. La seconda direttrice di contrasto alla concorrenza fiscale dannosa consiste nel definire regole che garantiscano la trasparenza dei rapporti finanziari di carattere internazionale e lo scambio automatico di informazioni fra amministrazioni fiscali. Presso l’OCSE è stato istituito il Global forum on transparency and exchange of information for tax purposes che ha dato avvio ad una serie di iniziative per implementare la trasparenza fiscale al livello internazionale. Il Global forum ha anche pubblicato lo Standard for automatic exchange of financial account information in tax matters che ha stabilito lo scambio di informazioni automatico come strumento per assicurare la ttrasparenza fiscale. Nel 2015 è stata approvata la Convenzione multilaterale sulla muta assistenza amministrativa in materia fiscale. Inoltre, si prevede che i vari Stati stipulino accordi amministrativi bilaterali secondo un modello comune elaborato in sede internazionale, dunque è previsto che, a partire dal 2017, ogni istituto finanziario deve rilevare i dati anagrafici del titolare effettivo delle attività finanziarie e comunicarle all’autorità fiscale del proprio paese, oltretutto l’autorità fiscale del paese interessato trasmette un «pacchetto informativo» contenente i dati sul titolare e sui conti correnti alle autorità dei vari Stati interessati. Emerge come negli ultimi anni vi sia una fase di contro-tendenza rispetto alla concorrenza fiscale fra Stati, in quanto la concorrenza fiscale può essere dannosa cagionando una distorsione del mercato a favore delle multinazionali e determinando un circuito negativo sul piano fiscale a scapito dei contribuenti nazionali (si ritiene che la concorrenza sleale dannosa sia la causa principale dello spostamento del prelievo tributario sul fattore lavoro). Inoltre, emerge l’idea che gli Stati debbano cooperare per raggiungere obiettivi comuni di sviluppo economico e sociale. Dunque, la lotta alla concorrenza fiscale dannosa è elemento funzionale al perseguimento di una libera concorrenza sul mercato internazionale e al risanamento sociale: la lotta alla concorrenza fiscale dannosa costituisce l’avvio di un nuovo ordine fiscale internazionale connotato da un peso rilevante degli accordi internazionali con l’obiettivo di contenere gli squilibri a favore delle multinazionali. La partecipazione alla lotta alla concorrenza fiscale internazionale è, quindi, un impegno politico diffuso fra i singoli Stati. Capitolo decimo: Il potere tributario 1. Il potere tributario come fattore del «Logos» nella evoluzione storica Dall'analisi storica emerge che il potere tributario è un elemento qualificante del patto sociale che presiede alla coesistenza di più soggetti nell’ambito di una comunità. È una necessità per la collettività acquisire risorse da utilizzare per le finalità di interesse comune, dunque il potere tributario può essere considerato un fondamento del Logos della società. Il potere tributario si presenta come un «codice sociale» della comunità caratterizzato da elementi stabili, ovvero le «costanti», e elementi che variano in base ai contesti, ovvero le «variabili». Le «costanti» sono elementi che sono rimasti tendenzialmente immutati nel corso del tempo e sono: - La finalità di acquisire le risorse; - L'atto dell’autorità che esprime la sovranità e costituisce lo strumento per acquisire le risorse; - Lo stato di soggezione del consociato; - La natura coattiva della relazione giuridica fra Stato e consociato. Le «variabili» sono: - L'oggetto del prelievo, che può essere una prestazione in natura, una prestazione di servizi o attività lavorativa, una cessione di denaro; - I destinatari dell’atto autoritativo, possono essere tutti i consociati o parte della comunità in ragione di immunità; - Le tecniche giuridiche che portano all’adozione di tipologie diverse di tributi e a diverse tecniche di accertamento tributario. Questi elementi qualificano la portata del codice sociale espresso dal potere tributario rispetto al Logos di una data fase storica: a seconda di come si combinano le variabili, si ottiene una declinazione del potere tributario. Dunque, lo studio del diritto tributario è lo studio dell’uso delle diverse variabili nei vari contesti storici. Emerge, quindi, il percorso storico del potere tributario. Nell’antichità, il potere tributario era un potere del sovrano volto a garantire ridotti flussi finanziari alle casse pubbliche e sostenuto principalmente da una fiscalità confiscatoria e predatoria. Nel Medio Evo, si afferma lo «Stato senza imposte» ed il potere tributario viene esercitato dai signori feudali. Con la progressiva affermazione dello Stato in epoca moderna, la funzione fiscale assume una posizione centrale nella definizione del potere del sovrano, in quanto determina un aumento dei flussi finanziari nelle casse pubbliche. Il potere tributario diviene un elemento costitutivo del Logos della comunità nazionale. Con le rivoluzioni del XVII e XVIII secolo e il costituzionalismo moderno si afferma il principio del consenso popolare. Con il capitalismo si afferma un’idea impersonale del potere tributario sganciata dall’autorità del sovrano. Con lo Stato sociale, il potere tributario si ricollega alla funzione redistributiva e di giustizia sociale: il potere sociale assume i connotati di un fattore costitutivo del Logos della società che definisce l’attuale codice sociale. Un primo tratto qualificante del processo storico del potere tributario è l’evoluzione della capacità fiscale dello Stato. L'evoluzione della capacità fiscale dello Stato si collega, inoltre, ad una particolare visione dei rapporti comunitari. Si possono individuare tre principali passaggi storici: - Lo Stato minimo dell’antichità e del Medio Evo esercitava una fiscalità ridotta, la comunità non era in grado di assumere un’organizzazione strutturata; - Lo Stato assoluto aumentò la pressione fiscale e svolse la funzione di «guardiano notturno» sostituendosi ai vari signori territoriali; - Lo Stato sociale o Welfare State ha portato la pressione tributaria ad una media del 40% del reddito nazionale a fronte delle prestazioni sociali erogate. Nel corso del tempo è, inoltre, mutata la concezione di sovranità. La sovranità è un attributo dello Stato che si pone come vertice gerarchico delle relazioni tra autorità. La sovranità indica la capacità di regolazione della vita comune e, quindi, implica il potere del sovrano di comandare ai membri della società i comportamenti da assumere. La sovranità si radica in termini monopolistici in capo a chi assume il potere sovrano e il comando da questo formulato impegna tutti i consociati, per cui può essere fatto valere attraverso l’uso della forza. Le varie concezioni della sovranità che si sono alternate nel corso della storia riguardano la definizione del diritto di comando e l’individuazione di forme, modi e limiti all’esercizio della stessa all’interno della comunità. Il potere tributario è uno dei fattori necessari per l’esercizio della sovranità. Nell'antichità non era formulato un concetto di sovranità in termini specifici, emergeva la posizione di comando della persona titolare del potere sovrano a cui corrispondeva una posizione di totale soggezione dei sudditi. Il potere tributario si esprimeva nelle forme del «dominio fiscale». Nel Medio Evo, la sovranità è dispersa fra i vari signori locali tanto che si può parlare di «Stato senza imposte» in quanto manca una sovranità centrale. Con l’affermazione dello Stato moderno si accoglie la nozione di sovranità assoluta. In un primo momento vi è una negoziazione fra il sovrano e l’oligarchia; successivamente, il monarca dispone di una propria amministrazione capace di raccogliere i tributi in autonomia e si impone lo Stato assoluto. Con il capitalismo, la sovranità trascende la singola persona ed è riportata alla «volontà del popolo», come il risultato di una ricchezza collettiva ed individuale. Il potere tributario diventa fattore di conformazione della ricchezza dei consociati. Negli sviluppi del capitalismo e con lo Stato sociale, la sovranità si consolida come un concetto ideale congiunto con l'interesse generale della collettività. Dunque, il potere tributario viene considerato come un fattore fondamentale per la redistribuzione della ricchezza. Rileva come la concezione di sovranità sia condizionata dalla portata dell’apparato amministrativo come strumento per attuare i precetti autoritativi: se l’apparato amministrativo è disperso, il sovrano deve patteggiare coi poteri forti della società; se l’amministrazione assume forza e piena capacità di funzionamento, il monarca è svincolato da altri poteri della società. Un tratto qualificante del potere tributario è la trasformazione delle modalità di esercizio nell’ambito delle istituzioni sociali. Nell'antichità, il potere tributario era espressione di un potere incontrastato del sovrano, si trattava di un atto autoritario illimitato ed incontenibile esercitato prevalentemente nei confronti dei popoli sottomessi. Il potere fiscale assumeva i caratteri di dominio fiscale. Nel Medio Evo, il potere tributario si è dissolto insieme all’evaporazione dello Stato rispetto al dominio diffuso delle signorie feudali. Con lo Stato moderno, il potere tributario assume un ruolo centrale: il potere tributario viene configurato come un attributo della sovranità sottoposto a modesti limiti di negoziazione con le istituzioni rappresentative de consenso diffuso. Con le rivoluzioni del XVII e XVIII secolo si afferma la limitazione dei poteri del sovrano, per cui il potere tributario viene esercitato in forma condivisa fra sovrano e popolo. Nel periodo del capitalismo e dello Stato sociale, emerge la forma democratica di esercizio della funzione fiscale per cui il potere tributario viene considerato come un fattore sganciato dall’autorità di una singola persona. Emerge come il potere tributario si sia trasformato nell’ambito del Logos della società: da atto dell’autorità il potere tributario diventa un fattore primario al servizio della sovranità popolare. La determinazione del potere tributario va raccordata, quindi, al bene comune e non ad un interesse individuale, ovvero il volere dell’autorità. Da questo percorso storico emerge anche la spersonalizzazione del potere tributario, per cui dal volere dell’autorità diviene concetto astratto di bene comune. Mentre in precedente era l’atto di autorità che consentiva l’esercizio del potere tributario, nell’epoca liberale si definisce un modello di Logos riferito all’unità degli istituti giuridici ed etici volti alla coesistenza della società. Il sistema giuridico è un complesso di istituti espressione di un ordine sociale determinato dalla vita del popolo. Il potere tributario, quindi, si correla ad un ordine di espressione popolare e viene determinato in base al patteggiamento fra sovrano e organi rappresentativi del popolo. Il patteggiamento è consacrato nelle costituzioni democratiche. Il potere tributario non è più la risultante di un processo autoritario, ma è derivato dalla procedura costituzionale di determinazione del bene comune mediante il patteggiamento sociale degli organi costituzionali rappresentativi della volontà popolare. Il potere tributario si spersonalizza dall’autorità e si determina in riferimento ad un concetto astratto, ovvero il bene comune. Nel corso del tempo, inoltre, avviene anche la metamorfosi del concetto di tributo. Nell'antichità e nel Medio Evo, la posizione soggettiva del sovrano in ordine all’applicazione dei tributi consisteva in un potere di signoria assoluto cui corrispondeva una situazione di totale soggezione dei contribuenti. Il sovrano, infatti, era titolare di un potere pressoché illimitato e la potestà impositiva era considerata come una sorta di attributo naturale del sovrano, quindi si trattava di un dominio assoluto e insindacabile. Il tributo, in quanto espressione di una situazione di soggezione politica, porta impresso un «marchio di servitù» che impedisce una ricostruzione del tributo connessa alla contribuzione politica. Con l’affermazione dello Stato moderno, emerge la tendenza alla contrattazione del potere tributario nel rapporto con il popolo per il tramite di organi rappresentativi e parlamentari. Il tributo non è più considerato il diritto spettante al sovrano in quanto titolare della terra o come l’effetto patrimoniale di una condizione sociale deteriore, ma come il corrispettivo dei diritti politici: il tributo viene qualificato come un essenziale strumento di partecipazione del cittadino alla vita sociale e politica. La funzione fiscale, di conseguenza, viene considerata come elemento costitutivo del bene comune ed elevata al livello degli interessi pubblici fondamentali, essenziali per la conservazione lo sviluppo della collettività. Inoltre, muta anche la finalità del tributo nel corso del tempo. Inizialmente, il potere in materia fiscale era funzionale a raccogliere i mezzi, in denaro o in natura, da mettere al servizio delle spese statali. L'obiettivo primario della funzione fiscale è enucleabile nel concetto di «fare cassa». In un momento successivo, con le rivoluzioni moderne, il tributo ha modificato la sua funzione. L'obiettivo della funzione fiscale non è solo rispondere alle finalità di «fare cassa», ma anche a quelle di una redistribuzione dei carichi fiscali secondo equità. La finalità redistributiva ha comportato il passaggio da un concetto di uguaglianza formale a quello di uguaglianza sostanziale. Si stabilisce un legame fra il potere tributario e la giustizia sociale, per cui la funzione fiscale deve essere considerata uno strumento di redistribuzione della ricchezza fra i consociati. Il potere tributario viene innervato dalla finalità collettiva di perseguire il bene comune. Parallelamente al mutamento della concezione del tributo, è cambiata anche la situazione del contribuente. Dall'originario stato di soggezione, nel quale il contribuente è un mero sottoposto al potere dello Stato, si è passati ad una posizione intermedia delle società liberali in cui l’adempimento della prestazione tributaria è considerato un obbligo sociale del cittadino per permettere il funzionamento della comunità. Nelle attuali società democratiche il cittadino che paga le imposte si sottomette ad un potere impersonale che risponde ad un valore astratto della società, ovvero il bene comune che è il prodotto della concorrenza sui mercati internazionali. Spesso, però, l’obbligo fiscale perde la connessione coi valori positivi che riguardano la dimensione individuale del contribuente e si collega allo Stato che esercita il potere per ragioni di equilibrio finanziario. La soggezione del cittadino al potere tributario rimane assoluta, ma si pone la condizione che il potere venga esercitato nel rispetto della legalità, sul presupposto che la determinazione dello Stato sia espressione del volere collettivo e funzionale al bene comune. Ne deriva una situazione di silenziosa sottomissione del contribuente allo Stato. Il percorso storico del potere tributario è anche collegato al ruolo delle oligarchie dominanti. La funzione fiscale è attribuita al sovrano, ma è realizzata attraverso il contributo dei poteri forti presenti nella società: si afferma il principio secondo cui «la lotta fiscale è la più antica forma di lotta di classe». In effetti, la connotazione oligarchica del potere tributario ha comportato la produzione continua di diseguaglianze sociali, quali ad esempio le immunità e i privilegi, il che ha fornito la connotazione del tributo come strumento «odioso» di differenziazione sociale fra dominanti e dominati. Infatti, per un lungo periodo di tempo, l’emanazione dell’atto di autorità da parte del sovrano è negoziata con la classe dominante, inoltre l’attuazione del potere tributario presuppone l’adesione della classe dominante che influenza i sudditi sui territori grazie al prestigio di ceto e alla propria forza. Emerge che il potere tributario deriva dalla relazione del potere con l’apparato dell’oligarchia dominante. Ovviamente, l’oligarchia dominante formula l’atto autoritativo in modo da escludere i propri membri dal dovere di obbedienza fiscale attraverso immunità e privilegi fiscali. Con l’avvento del capitalismo e la trasformazione dello Stato, il ruolo dominante è assunto dalla burocrazia all’interno dello Stato titolare di una sovranità impersonale astrattamente riferita al popolo. Il potere tributario viene gestito da questo apparato amministrativo nelle sue varie fasi. La tendenza all’uguaglianza si completa con la formazione dello Stato sociale in quanto si consolida il convincimento di perseguire un benessere generale attraverso l’intervento pubblico. Il potere tributario occorrente per accompagnare il progetto del Welfare State impone uno sviluppo del prelievo fiscale a cui serve un modello di distribuzione degli oneri fra i consociati. Con la diffusione della globalizzazione dei mercati e l’erosione della sovranità politica degli Stati, il management delle multinazionali interviene nei processi decisionali e nei modi di esercizio del potere tributario e si pone come potere concorrente con quello tradizionale della burocrazia amministrativa. La traiettoria del potere tributario appare come espressione di un itinerario storico deciso dall’oligarchia dominante. La dimensione dell’oligarchia dominante è la vera architrave su cui poggia il potere tributario assumendo i caratteri del nucleo fondante dell’ordine sociale. Anche nell’esperienza del fenomeno fiscale si ravvede un’espressione della relazione dialettica fra diritto e potere. In una prima fase storica si assiste ad una prevalenza del potere tributario e la disciplina della funzione fiscale è rimessa all’esercizio di potere da parte del sovrano; successivamente, con l’affermazione dello Stato assoluto si avvia una relazione dialettica fra il sovrano e le altre componenti sociali per regolare in modo patteggiato la funzione fiscale. Con l’epoca delle rivoluzioni questa relazione fra diritto e potere tributario si trasforma e si stabilisce l’esigenza di fissare una regola di diritto come strumento essenziale per la tutela dei diritti fondamentali; con l’avvento del capitalismo, il diritto tributario tende ad inglobare il potere tributario come uno strumento per perseguire gli obiettivi generali della comunità. Emerge come la disciplina giuridica della funzione fiscale è funzionale a stabilire e mantenere il potere tributario che viene concepito come un attributo della sovranità e il potere tributario è regolato nell’ambito dell’ordinamento giuridico al fine di definire le garanzie per lo Stato e per i cittadini. La combinazione delle variabili della funzione fiscale nel corso del tempo ha prodotto diverse tipologie del codice sociale espresso dal potere tributario. Il potere tributario è un codice della totalità sociale che serve ad elaborare relazioni di dominio a favore dell’oligarchia dominante e contro una grande maggioranza di sudditi pagatori dei tributi. Il tributo costituisce l’archetipo del potere tributario in quanto esprime la relazione di domini correlata alla sovranità che si ripete nel tempo. La combinazione dei tributi e l’uso dei vari simboli esprime la visione complessiva del Logos della società secondo la rappresentazione dei pochi. Il potere tributario definisce strutture di comportamento economico. Il codice sociale connesso al potere tributario è accompagnato da immagini di varia portata che avvolgono l’atto autoritativo in suggestioni circa il ruolo del contribuente, per cui il pagamento del tributo non viene presentato come un mero atto di obbedienza ma come il doveroso comportamento di una «persone per bene». Arricchito di queste immagini, il potere tributario si presenta come un «distributore di senso» all’interno del Logos della società per favorire l’obbedienza all’atto autoritativo che produce un depauperamento e si pone «contro-natura» rispetto agli istinti egoistici dell’individuo. Il codice sociale determina un processo di auto-riconoscimento per cui il «pagare i tributi» costituisce atto dovuto di appartenenza alla comunità e quindi un elemento di riconoscimento dell’Io come parte del Noi. 2. Il feticcio del potere tributario Nella dimensione originale il feticcio o «totem» primordiale è un’immagine, prevalentemente di un essere vivente o a volte di un oggetto materiale, verso il quale l’uomo primitivo nutre un rispetto superstizioso. Il feticcio è considerato un oggetto con potere «divino» capace di produrre protezione e favore per il seguace: si tratta di una guida per l’anima dell’uomo che si affida ad esso, ponendola al sicuro rispetto a minacce e pericoli. L'adorazione verso i feticci è uno dei tratti essenziali delle società arcaiche. Il linguaggio dei feticci è la magia, ovvero la pratica di collegare immagini e porle in relazione causale con gli eventi storici. Anche nella società evoluta il feticcio mantiene la sua carica magica e richiede cura e devozione costante che si esprimono mediante il rispetto dei riti e cerimoniali. Il feticcio promette protezione e favore verso i suoi seguaci rappresentando i valori e gli interessi della comunità. La cura del feticcio assicura la cura della comunità verso il consociato. Nella società moderna esiste una grande pluralità di feticci: ideologie, istituzioni che si generano di continuo attraverso la vita del Noi convenzionale, come idee guida del cammino individuale. Il feticcio assicura il legame all’interno del gruppo attraverso l’adesione ai valori fondanti del patto sociale. Il culto del feticcio assicura la reciproca assistenza tra individuo e gruppo, in quanto la condivisine di immagini del patrimonio collettivo mantiene saldo il esso relazionale all’interno della società. L'ordine che ispira il feticcio è rappresentato dall’ordine sociale dominante, per cui il feticcio è custode del Logos. Il feticcio esprime idee che governano l’agire umano attraverso mezzi non logici, ma psicologici. Il feticcio è un prodotto del Noi convenzionale che vuole garantire la preservazione dell’ordine sociale dominante e si presenta come un essenziale fattore dell’apparato di dominio dell’individuo nella società. Il potere tributario come codice sociale assolve una funzione costitutiva dell’ordine della comunità, in quanto compone le istituzioni giuridiche e politiche necessarie per assicurare le risorse necessarie per la sopravvivenza e lo sviluppo della comunità. Per essere accettato dai membri della comunità, il potere tributario viene presentato come una funzione essenziale per il perseguimento del bene collettivo: nell’antichità, i flussi fiscali erano ricondotti ad uno Stato minimo che spendeva per le esigenze belliche secondo un’idea di protezione e sicurezza; successivamente, nello Stato liberale e democratico, l’adempimento fiscale era volto a perseguire le finalità di una società migliore. Dunque, il potere tributario viene considerato un feticcio del Logos espresso dalla società ed è un feticcio collegato all’idea di bene collettivo. A partire dalle rivoluzioni moderne e dallo Stato liberale, il potere tributario come feticcio del Logos collettivo può essere accostato all’idea di giustizia perseguita all’interno della società. L'esercizio del potere tributario viene fondato su finalità ed obiettivi di giustizia sociale: i modi di esercizio della funzione fiscale viene considerata un fattore determinante per il riconoscimento del grado di giustizia sociale perseguito. La stessa giustizia può considerarsi un feticcio primario del vivere insieme nella società moderna, in quanto la giustizia fonda il criterio di attribuzione delle risorse del gruppo ai singoli consociati. La giustizia è la sintesi dell’intera sequenza costitutiva dell’ordine: i simboli appresentano l’insieme dei precetti normativi che valgono da regole conformative dell’agire; i rituali sono i procedimenti giuridici da seguire in concreto attraverso la serie di azioni individuali; le autorità sono le istituzioni chiamate a presidiare sul rispetto dei simboli, ovvero le regole, e dei rituali, ovvero i procedimenti, da parte degli individui. La giustizia rientra tra i criteri fondamentali che valgono a tenere uniti i membri della comunità e viene realizzata secondo un giudizio di conformità di un comportamento posto in essere dall’individuo rispetto al modello assunto a paradigma di giustizia dal gruppo sociale. Nella sua formula base la giustizia corrisponde alla regola di corrispettività: tanto viene prodotto dal singolo individuo attraverso la sua attività, tanto riceve in cambio dalla comunità sociale. In una successiva fase evolutiva, la giustizia viene rappresentata come un criterio distributivo: si tratta di ripartire le risorse collettive fra gli appartenenti al gruppo. La logica di ripartizione va riportata ai vari beni sociali così da produrre diversità di sfere di rilevanza rispetto alle quali si possono applicare differenti criteri distributivi. La giustizia distributiva produce una trasformazione dell’assetto sociale esistente al fine di promuovere una parte della comunità a scapito di un’altra parte. L'idea di giustizia si forma all’interno della società in base alla tavola di valori condivisi e accettati. La molteplicità delle comunità e dei gruppi intermedi produce una moltiplicazione dell’ordine etico e, quindi, coesistono diverse manifestazioni dell’idea di giustizia. Un unico individuo deve rispondere a più ordini etici che si confrontano nella sua vita in relazione alle diverse forme di appartenenza collettiva. Si produce una liquidità etica che determina lo slittamento del concetto di giustizia etica a seconda della maggiore forza di attrazione di un ordine etico rispetto agli altri. Inoltre, viene abolita l’unità dell’ordinamento giuridico a favore di una pluralità di ordinamenti in quanto rilevano gli ordinamenti di enti sopra-statali, dello Stato e di enti sub-statali. In presenza di una pluralità di ordini sociali equipollenti diviene difficile individuare il parametro precettivo: la scelta viene effettuata in base al principio di competenza. La competenza emerge dalla dimensione esistenziale dell’ordine, ovvero la tavola dei valori, il gruppo di riferimento. La giustizia si presenta come una derivata dell’ordine competente. Qualora non si possa ricorrere al criterio di competenza per risolvere antinomie fra i diversi ordini sociali, si devono ricercare soluzione di combinazione e bilanciamento che permettono la concordia degli ordini al fine di trovare un punto di equilibrio. La giustizia, quindi, si presenta come un sistema «aperto», nel quale l’individuazione del parametro precettivo è un problema costante senza una risposta certa e stabile. La giustizia, come forma di riconoscimento dell’ordine sociale, esprime la prevalenza del Logos in un contesto collettivo, per cui prevale l’ordine dominante rispetto alle possibili soluzioni di assetto sociale astrattamente perseguibili. L'attuazione della giustizia dipende dalla valutazione di conformità elaborata secondo i postulati espressi dall’ordine sociale dominante. In una società stabile, tale giudizio tende ad essere largamente prevedibile, in virtù del codice di comportamento (Dike) formulato dall’oligarchia dominante e accettato nel patto sociale. Nelle società odierne, in cui sussiste la liquidità etica, è difficile stabilire a priori la sequenza costitutiva dell’ordine (simbolo – rituale - autorità) da applicare, di conseguenza la giustizia diventa impredicibile. La pluralità di interessi in gioco e la necessità di mediazioni e bilanciamenti assiologici comporta la ricerca di combinazioni della serie di valori che richiedono l’adozione di rituali che coinvolgono numerosi passaggi da parte delle autorità chiamate ad esprimere il giudizio di conformità. La giustizia diventa un metodo di approssimazione nella formulazione del giudizio di conformità all’ordine sociale dei comportamenti individuali. Comunque sia, la giustizia rimane il feticcio che protegge la sopravvivenza del Noi rispetto alle aspirazioni centrifughe dell’Io. Inizialmente, il feticcio del potere tributario era un istituto che non poteva essere messo in discussione. La funzione fiscale veniva presentata come un elemento della sicurezza di un popolo la cui violazione deve ingenerare il timore che la collettività non sia in grado di farcela, si sopravvivere. A partire dalla fase rivoluzionaria e capitalista, invece, la funzione fiscale viene connotata come fattore di giustizia sociale, necessario per portare avanti un piano di distribuzione dei carichi fiscali. Il feticcio, quindi, induce comportamenti attraverso promesse di vita migliore e la paura e la speranza conducono forzatamente a venerare il potere tributario. Il feticcio del potere tributario è un’immagine che fissa la logica del dominio consolidato dalla classe governante e che, quindi, manifesta la permanenza della costrizione sociale. La sacralità del linguaggio dei feticci attesta l’impenetrabile unità di società. La dimensione attuale della funzione fiscale è riconducibile allo Stato che richiede un elevato ammontare di prestazioni tributarie a fronte di un elevato ammontare di spese pubbliche. L'idea di favorire processi egualitari si è fortemente attenuata ed il pagamento del tributo è diventato un adempimento obbligatorio per garantire la continuità degli apparati istituzionali. Tale modificazione dell’immagine del tributo deriva da molteplici cause, ad esempio dalla funzionalità della spesa pubblica alle ragioni del consenso, dalla preponderanza delle forze del mercato, dall’ipertrofia del sistema fiscale. L'inefficacia della funzione fiscale come strumento di giustizia sociale diventa una costante dell’immaginario collettivo: il tributo non colma le distanze fra ricchi e poveri, ma assolve funzioni economiche che non contemplano il perseguimento della giustizia sociale. La funzione fiscale si ricollega, dunque, alla crescita dell’apparato amministrativo e lo Stato viene collegato ad una straripante fiscalità che allontana le ragioni di uguaglianza e libertà. Il debito pubblico costituisce uno strumento tipico di finanziamento dello sviluppo del Welfare State, in quanto le entrate dello Stato non consentono di ripagare i costi delle prestazioni pubbliche. L'indebitamento può essere coperto mediante l’emissione di titoli o mediante la creazione di base monetaria. Il ricorso all’indebitamento presuppone, però, un patto fra le generazioni dei consociati, in quanto comporta uno spostamento temporale dell’imposizione necessaria a ripagare il debito medesimo (proposizione di equivalenza di Barro- Ricardo). Ovviamente la crescita del Welfare State produce un incremento della protezione sociale della potenzialità di sviluppo individuale che genere un beneficio anche per i consociati giovani e non solo per quelli maturi. Il debito pubblico è, quindi, uno strumento di finanziamento dello Stato sociale utilizzato per ampliare la capacità di erogare prestazioni pubbliche a favore della comunità e un meccanismo di finanziamento affidato al patto sociale fra generazioni. Il debito pubblico è un tratto tipizzante della finanza pubblica degli Stati contemporanei, tanto che l’impegno dei governi recenti è volto a contenere gli effetti negativi del debito pubblico. Inoltre, se lo stock di titoli del debito pubblico non venisse acquistato dagli investitoti, lo Stato si troverebbe privo di risorse finanziarie per effettuare i pagamenti periodici e si troverebbe in una situazione di insolvenza. A fronte dello Stato cleptocrate, il tributo non è più visto come lo strumento che consente di affermare l’uguaglianza sociale, ma è visto come mero rispetto di un obbligo di legge: l’individuo paga il tributo per non correre il rischio di sanzioni in caso di inadempimento, dunque il pagamento del tributo diviene espressione dell’obbedienza alla legge. Inoltre, il fondamento etico del tributo è l’obiettivo di respingere i rischi della bancarotta statale, per cui i cittadini subiscono una «passività di secondo grado, giacché lo Stato li ha incatenati da dietro le spalle alla galera del debito pubblico». La funzione fiscale ha assunto i caratteri sostanziali di un feticcio rivolto al mantenimento dell’apparato istituzionale. I feticci sono simboli che vincolano l’Io verso comportamenti adesivi rispetto all’ordine sociale dominante. I feticci esprimono una realtà simbolica, non esistente. Il feticcio del potere tributario come strumento di giustizia sociale va considerato come un simbolo che esprime un rapporto fra la presenza e l’assenza: la funzione fiscale si correla ai bisogni immaginari della comunità espressi dalle leggi. Il potere tributario può essere espresso dalla formula «oblio del soggetto che dà», ovvero il contribuente. Il carattere del potere tributario come fondamento primario del patto sociale impone di andare oltre la dimensione del feticcio del Logos, per cui il potere tributario dovrebbe assumere contorni ulteriormente innovativi. Si dovrebbe intervenire in relazione al rapporto fra sovranità e consenso, all’uguaglianza fiscale e alla libertà positiva in ambito tributario. 3. La decisione circa l’esercizio del potere tributario Nello Stato moderno, la connessione fra la sovranità e la fiscalità costituisce un elemento fondamentale. La sovranità si esprime mediante il bilanciamento e la ponderazione dei conflitti di interesse ed implica il passaggio necessario attraverso la gestione delle risorse finanziarie come strumento per la realizzazione dei fini generali perseguiti. La fiscalità è essenziale per la formazione delle risorse finanziarie pubbliche, quindi è condizione irrinunciabile di realizzazione degli obiettivi di fondo della collettività. La fiscalità può essere considerata come una condizione trascendentale della vita in comune, funzionale al raggiungimento delle finalità generali di libertà, ma anche strumentale all’auto-realizzazione della personalità di ogni individuo nella comunità. Il potere tributario è un attributo irrinunciabile della sovranità. Dunque, i modi di formazione del potere tributario sono un fattore decisivo del patto sociale. La regolazione costituzionale del potere tribunale, quindi, è il primo capitolo del patto sociale con cui si determina il Logos della società. Nel corso del tempo, il nesso fra sovranità e fiscalità ha assunto connotazioni diverse ed emerge come il principio del consenso del popolo si sia formato in riferimento al potere tributario. Nel costituzionalismo inglese del XVII secolo, l’interesse fiscale è un interesse proprio del sovrano, per cui il patrimonio del monarca si pone in confronto con l’interesse dei sudditi. Con la rivoluzione borghese, emerge la connessione della fiscalità con gli obiettivi generali della collettività, anche se in posizione recessiva rispetto ai diritti di proprietà e di libertà. Nell'illuminismo francese si accentua il ruolo strumentale dei poteri impositivi rispetto al perseguimento delle finalità generali della società, per cui i diritti individuali occupano una posizione subalterna. Nell'idealismo tedesco, l’interesse fiscale è un valore fondamentale della collettività e si supera la concezione per cui il potere impositivo è un attributo personale del sovrano. Nelle costituzioni moderne si afferma che i poteri normativi in materia fiscale sono riservati al Parlamento e si indica una connessione fra la sovranità democratica e la regolazione della fiscalità. Nelle costituzioni contemporanee, il nucleo qualificante della potestà normativa si rinviene nella rappresentanza del popolo, espressa diversamente a seconda dell’ordinamento, per cui la scelta della procedura per realizzare la potestà normativa fiscale varia a seconda del livello ordinamentale oscillando fra potere legislativo (Stato e Regioni che ricorrono alla legge statale e regionale) e potere esecutivo (Unione Europea che ricorre a regolamenti e direttive, enti locali che ricorrono ad atti dell’esecutivo). Dunque, la potestà normativa può essere esercitata mediante una pluralità di procedure e fonti normative. Mantiene, comunque, un rilievo attuale la riserva di legge come istituto di tutela e garanzia della potestà normativa tributaria: gli elementi della tutela fornita dal consenso parlamentare si individuano nella riserva di legge, la quale spesso è «relativa» per cui si ammettono fonti secondarie coerenti con la fonte primaria. La riserva di legge, inoltre, è riferita alle prestazioni patrimoniali stabilite in via autoritativa, non solo quindi ai tributi. Inizialmente, la riserva di legge e gli istituti di rappresentanza popolare erano volti a proteggere una parte della comunità nazionale, assoggettata all’esercizio del potere sovrano, rispetto agli arbitri del sovrano. Nello Stato attuale, invece, viene meno la contrapposizione fra sovrano e popolo, dunque si supera la concezione di riserva di legge come istituto di protezione della classe debole rispetto al potere sovrano: la rappresentanza della comunità è un elemento del processo di determinazione della politica fiscale nello Stato sociale. La riserva di legge, inoltre, esprime una scelta di distribuzione delle competenze fra gli organi dello Stato, con una preferenza per il Parlamento rispetto al Governo. Il primo, infatti, è il luogo in cui si esprime il confronto fra le varie componenti elette dalla comunità nazionale e garantisce la trasparenza del dibattito politico; inoltre la procedura di approvazione delle leggi del Parlamento richiede una durata prolungata, quindi si escludono scelte estemporanee; infine, le leggi del Parlamento sono sottoposte al sindacato della Corte Costituzionale. Il Governo, invece, non garantisce la trasparenza della decisione ed applica solo le tesi della maggioranza senza un confronto con le altre forze politiche. Dunque, si può affermare che la scelta delle costituzioni moderne di ricorrere alla riserva di legge indica una scelta più garantista rispetto all’interesse pubblico generale: in una società pluralista le decisioni in materia fiscale devono essere affidate al percorso parlamentare. La riserva di legge assume la funzione di «garanzia di procedura». 4. Il potere tributario come funzione dell’uguaglianza Nella fase originaria del processo evolutivo del diritto tributario, il principio di uguaglianza non trovava alcun riconoscimento, anzi il tributo portava con sé un «marchio di odiosità» in quanto era applicato ai soggetti più deboli. Con l’illuminismo si afferma il principio di uguaglianza formale, secondo il quale i carichi fiscali devono essere ripartiti proporzionalmente fra i vari membri della collettività (ogni consociato paga i tributi mediante una relazione proporzionale con la ricchezza posseduta e i privilegi costituiscono discriminazioni). Il ricorso al principio di uguaglianza formale risponde alla logica borghese della valorizzazione dell’individuo in base alla forza economica. Con l’affermarsi dello Stato sociale, emerge la nozione di uguaglianza sostanziale, per cui la funzione fiscale viene utilizzata a fini redistributivi. Si afferma, quindi, che il tributo si deve orientare verso forme di progressività, per cui si devono richiedere prestazioni tributarie più che proporzionali alle categorie forti. Si evidenzia come l’uguaglianza sia un giudizio relazionale: si tratta di una valutazione attraverso la quale si individua una relazione di parificazione tra gli appartenenti ad una collettività. Gli individui sono valutati come uguali in ragione di uno o più elementi che li accomunano. Gli elementi che fondano il giudizio di uguaglianza possono essere di diversa natura. L'uguaglianza consiste nella parificazione degli individui a prescindere da alcuni elementi esteriori. si tratta di un giudizio «in negativo» fondato sulla verifica di elementi a carattere formale (uguaglianza formale). Nel Welfare State l’uguaglianza viene intesa come una nozione sostanziale, per cui l’uguaglianza sostanziale consiste nel garantire la «parità di chances» ai consociati. Dunque, l’uguaglianza sostanziale configura un progetto di vita nella società che vuole assicurare la redistribuzione al fine di garantire il raggiungimento della dotazione minima. La dotazione di base deve essere individuata tenendo conto della protezione di sfere di libertà fondamentali tali per cui la relativa rimozione renderebbe una vita non adeguata alla dignità umana. Lo scopo perseguito dall’uguaglianza sostanziale è quello di produrre capacità per ogni persona, per cui il concetto di uguaglianza si salda con quello di libertà. Negli ordinamenti odierni, l’uguaglianza è «tutela delle differenze» e garanzia della pari dignità sociale e r «riduzione delle differenze». L'eguaglianza sostanziale dei membri di una comunità dipende dai carichi fiscali imposti sui membri stessi, dunque la libertà e l’uguaglianza sono correlate alla funzione fiscale. La funzione fiscale risponde ad una logica redistributiva per cui l’apporto dei singoli membri è determinato secondo meccanismi di progressività che comportano una partecipazione più che proporzionale da parte dei soggetti dotati di maggiore ricchezza. Inoltre, anche il ricorso alle agevolazioni fiscali esprime la scelta per un disegno di trasformazione sociale che persegue lo sviluppo dell’uguaglianza sostanziale. L'uguaglianza sostanziale è, quindi, un principio che promuove le diseguaglianze fra i consociati per perseguire un disegno di trasformazione sociale ispirato al raggiungimento di una piattaforma di parità di opportunità. Solo la diseguaglianza distributiva può rimuovere la diseguaglianza di fatto preesistente, infatti «la nuova eguaglianza è il risultato del pareggiamento di due diseguaglianze». Per risolvere eventuali conflitti normativi relativi a diversità di trattamento si deve ricorrere al criterio di ragionevolezza: per determinare la comparabilità di situazioni giuridiche si deve far riferimento ad un tertium comparationis, ovvero un termine di confronto normativo, e l’adeguatezza del trattamento normativo è determinata sulla base di criteri di ragionevolezza che si esprime attraverso una pluralità di tecniche di valutazione della coerenza logica. Quindi, la discrezionalità del legislatore può essere sindacata in ordine alla ragionevolezza del trattamento uguale o differenziato. La coerenza di una disciplina può essere guardata come coerenza interna del sistema normativo, per cui vi è una corrispondenza logica fra le varie norme di uno stesso contesto giuridico, e come coerenza esterna, che indica la compatibilità delle norme settoriali rispetto ai principi generali dell’ordinamento giuridico. L'uguaglianza tributaria, come ragionevolezza, si presenta come criterio logico di valutazione dell’adeguatezza del trattamento fiscale di fattispecie distinte. L'uguaglianza sostanziale impone di ricorrere ad un bilanciamento fra i valori giuridici sottostanti alle norme. Si ricorre alla tecnica della «co-essenzialità del limite», per cui un valore può essere compresso rispetto alla rilevanza dell’altro valore purché rimanga preservato nel suo nucleo essenziale, oltre tale limite la compressione del valore comporta il suo annullamento. Dunque, il principio di uguaglianza impone una mediazione fra l’interesse fiscale dello Stato comunità e la capacità contributiva o le libertà individuali. Il principio di uguaglianza tributaria si esprime in forme diverse a seconda dell’ordinamento fiscale di riferimento. Ad esempio, nell’ordinamento degli enti locali si ricorre al principio del beneficio per cui l’uguaglianza tributaria tiene conto del grado di utilità che ciascun consociato riceve dai servizi pubblici. Nell'ordinamento europeo, si esprime il principio di non discriminazione fiscale per cui si escludono gli ostacoli tributari che possano compromettere il primario obiettivo della libera circolazione dei fattori produttivi e dei prodotti economici. Il principio di non discriminazione si configura come una regola a contenuto conservativo dello status quo, che non è volta a perseguire un progressivo superamento delle diseguaglianze. Dunque, nell’ordinamento comunitario, i soggetti vengono parificati quanto alle prestazioni tributarie in elazione al dato formale della produzione di un singolo evento economicamente apprezzabile. 5. Il potere tributario come funzione della libertà Nel pensiero contemporaneo è consolidato il convincimento che l’essere esiste solo nella sua libertà, per cui la libertà è l’essere nel mondo dell’individuo. La libertà è sottoposta ai condizionamenti provenienti dagli elementi materiali e storici nei quali si realizza la vita, dunque la libertà viene esercitata in un contesto dato e preesistente. La libertà esiste solo se esiste un dubbio: l’individuo è chiamato ad effettuare una scelta rispetto ad una pluralità di opzioni. La libertà consiste nella capacità dell’individuo di formulare una scelta impegnativa della propria esistenza secondo criteri e valutazioni auto- determinate. La libertà, quindi, consiste nell’auto-determinazione dell’individuo ed il tratto qualificante della libertà si ravvisa nell’idoneità del soggetto a determinare autonomamente il programma della propria esistenza rimuovendo ostacoli che impediscono la realizzazione del programma. Nella moderna società democratica, dunque, la libertà assume un contenuto effettivo solo se intesa come valore «positivo». La libertà non è solo assenza di vincoli, ma è la capacità che permette di sviluppare il progetto di vita che ciascuno ha. La libertà positiva si presenta come «libertà di conseguire» e si distingue dalla «libertà di agire». La libertà «positiva» si presenta come un agire auto-determinato e consapevole orientato verso la formulazione di scelte in ordine al percorso evolutivo individuale. La capacità di formulare scelte attinenti al progetto di sviluppo della persona presuppone che i bisogni elementari siano soddisfatti in quanto altrimenti il soggetto non potrebbe dedicarsi alla definizione di un progetto generale di formazione e sviluppo. Il fondamento della libertà positiva, quindi, può essere rintracciato nella liberazione dai bisogni e la libertà positiva costituisce un insieme di opportunità che permettono all’individuo di formulare una scelta in ordine al progetto di vita da conseguire. L'idea di libertà, pertanto, si salda all’idea di capacità. La libertà positiva si compie mediante atti destinati a promuovere l’autorealizzazione della persona e la capacità di auto-determinazione presuppone dei fattori (biologici ed ambientali) necessari per assumere le scelte. Nella moderna società democratica, la libertà positiva si realizza attraverso le conoscenze acquisite con l’istruzione, mediante il rispetto della dignità garantita dal lavoro e dalla sicurezza sociale. Di conseguenza, la libertà positiva presuppone la messa a disposizione per l’individuo di risorse economiche necessarie a finalizzare il programma di istruzione, di tutela della salute, di sviluppo del lavoro e di sicurezza sociale. Senza risorse economiche da parte dello Stato la libertà è gravemente danneggiata, in quanto non si produce la liberazione dal bisogno. Dunque, la libertà positiva si può esplicare solo se l’individuo è egualmente ammesso a godere di una dotazione di strumenti minimi che permettano di sviluppare il progetto di auto-realizzazione della persona. La funzione fiscale è necessaria per garantire che ciascun individuo nella società possa godere di un corredo minimo di strumenti di libertà (studiare, tutelare la propria salute, godere di una sicurezza sociale e previdenziale). Il paradigma della libertà nella società va individuato nella garanzia della «libertà eguale». 6. Potere e libertà nella fase di attuazione dei tributi Dall'attuazione dei tributi emerge il collegamento funzionale con la tutela degli obiettivi e le finalità perseguite attraverso l’esercizio del potere tributario, quindi il nesso con la funzione fiscale nella sua polifonica capacità di protezione. La fase dell’accertamento si riferisce alla tutela delle prestazioni fiscali relative all’obbligazione tributaria, ma anche al controllo e alla vigilanza circa le condotte preliminari dei contribuenti. La fase della riscossione riguarda non solo l’incasso di prestazioni fiscali relative all’obbligazione tributaria, ma anche la percezione di prestazioni patrimoniali riferite a obblighi di acconto. Le sanzioni tributarie penalizzano l’evasione dei tributi ma anche la violazione di obblighi strumentali di collaborazione del contribuente. La centralità della funzione fiscale rispetto alle fasi dell’attuazione dei tributi fa mergere un nuovo modello ricostruttivo dei rapporti tra le parti del rapporto tributario, ovvero amministrazione finanziaria e contribuenti. Tali relazioni possono essere ricondotte alla dialettica «potere/libertà»: la funzione fiscale, infatti, impone che gli enti impositori siano dotati di poteri pubblici al fine di garantire la tutela degli obiettivi e dei risultati perseguiti dall’ordinamento fiscale; mentre i contribuenti devono vedere tutelata la propria sfera di libertà. La fase di attuazione dei tributi si costruisce intorno alla relazione fra il potere pubblico e le libertà garantite ai contribuenti. I poteri pubblici sono utilizzati per acquisire conoscenze storiche sul comportamento fiscalmente rilevante del contribuente: tale opera istruttoria richiede l’invasione della sfera di libertà e riservatezza della persona. Una volta che l’amministrazione finanziaria ha verificato la correttezza o meno della condotta fiscale, i poteri pubblici sono esercitati per garantire l’adempimento dell’obbligazione fiscale. L'esercizio dei poteri pubblici si raccorda al perseguimento delle finalità dell’interesse fiscale dello Stato. A fronte dei poteri pubblici, si pongono le libertà ed i diritti dell’individuo che vanno preservati rispetto all’esercizio dei poteri pubblici. Questa protezione della sfera dell’individuo non si estende automaticamente all’area di riservatezza e segretezza, anzi a questi ambiti si riconosce un carattere recessivo rispetto all’esercizio dei poteri pubblici. L'esercizio del potere pubblico può comprimere i diritti fondamentali della persona, dunque è necessario un bilanciamento dei valori a fondamento del potere pubblico e delle libertà costituzionalmente garantite. Il legislatore fiscale ha, quindi, previsto soluzioni normative che consentono di garantire la protezione della sfera di libertà e dignità dell’individuo: si prevedono modalità di esercizio modalità di esercizio di poteri pubblici che consentono la preservazione delle forme più rilevanti dei diritti di libertà dell’individuo, come l’autorizzazione giudiziaria; sono previste forme di contraddittorio fra amministrazione finanziaria e contribuente; l’esercizio del potere pubblico richiede il rispetto delle regole del buon agire amministrativo. Correlato alla finalità tributaria vi è anche una seconda tipologia di interesse generale, ovvero l’interesse dell’apparato pubblico a realizzare gli obiettivi assegnati dallo svolgimento delle funzioni collettive. Si tratta di un interesse secondario, per cui assume rilievo la regola che indica l’imparzialità ed il buon andamento dell’agire amministrativo. Dunque, l’organizzazione dei poteri pubblici al fine di perseguire un innalzamento dei livelli quantitativi e qualitativi dell’azione amministrativa risponde alle esigenze di proteggere e perseguire gli interessi della collettività. L'interesse fiscale dello Stato può, inoltre, legittimare regole di favore per l’amministrazione finanziaria destinate a ridurre l’onere di funzionamento a carico di quest’ultima. Queste regole, però, non possono riguardare norme di carattere sostanziale poiché in tal caso il valore secondario finirebbe per collidere con i valori primari della sfera individuale. 7. L'ordine del vivere insieme La forma naturale dell’esistenza umana è vivere insieme ad altri individui simili a sé stesso. L'Io si esprime e si realizza attraverso il Noi e attraverso l’ordine della società i tanti Io diventano il Noi. Il Noi si esprime mediante una pluralità di possibili dimensioni, quali gruppi ristretti ad esempio le Buone società e gruppi ampi come le Grandi comunità. Il Noi frantuma l’Io in varie identità sociali. L'appartenenza al Noi impone l’adesione all’ordine collettivo. L'ordine sociale si presenta come parametro del riconoscimento all’interno del gruppo, attraverso l’adesione alla sequenza simbolo-rituale e il giudizio di conformità espresso dalle autorità. Il riconoscimento reciproco dentro il Noi consente l’auto- riconoscimento per cui vivere insieme è condizione imprescindibile nella quale si forma e si sviluppa l’Io. L'Io si compone, scompone, decompone e ricompone in base alla dialettica del Noi: l’ordine collettivo si impone sull’individuo senza bisogno di azioni violente o coercitive. L'identità, individuale e collettiva, si compone attraverso il vivere comune: il Noi è misura dell’Io. La dialettica del Noi si sviluppa attraverso: - Le legature sociali, ovvero gli elementi che permettono di tenere insieme il gruppo e che sviluppano la coesistenza. Vivere insieme è reso possibile dai vincoli che consentono ai tanti di formare un Noi, per cui la solitudine è superata grazie al Noi. Le legature sociali inducono il soggetto a orientare la propria energia verso l’ordine sociale; - I rumori di fondo, ovvero i dati imprevedibili che emergono dal fondo di ciascun Io e che indicano pulsioni esistenziali rispetto al gruppo, ad esempio paure e sperane non collegate all’ordine sociale. I rumori di fondo fanno emergere le pulsioni esistenziali peculiari dell’Io. Entrambi gli elementi si sviluppano nella vita collettiva, i rumori di fondo tendono verso il Chaos: nel vivere insieme, dunque, coesistono il Logos ed il Chaos. Vivere insieme rappresenta il fondamento necessario sul quale si sviluppa il Logos universale. La ragione fondamentale del vivere insieme è il perseguimento di un disegno mobile di libertà eguale: l’obiettivo primario dell’etica sociale consiste nell’incrementare l’uguaglianza sostanziale senza distruggere la libertà individuale. Si deve trattare di un programma che persegue l’uguaglianza e la libertà nella loro impersonalità. La libertà uguale costituisce il programma fondamentale della vita dell’Io e del Noi. La ripartizione dei beni sociali all’interno del gruppo di appartenenza è una delle forme di giustizia redistributiva più rilevanti nella comunità. I bisogni sociali aumentano con o sviluppo socio-economico, dunque occorre che la comunità definisca il modello di ripartizione delle risorse occorrente per soddisfare i bisogni sociali in relazione al patto costituzionale. Il patto sociale stesso si presenta come «un accordo per redistribuire le risorse dei membri secondo una concezione collettiva dei loro bisogni». Tra le varie forme di ripartizione che possono essere attuate, quella rimessa all’azione dello Stato consiste nella redistribuzione della capacità economica attraverso il sistema fiscale. La funzione fiscale trova il suo primato nell’ordine costituito dallo Stato (Grande comunità) e non in altre comunità, come quelle degli enti territoriali minori. Nel Welfare State la funzione di protezione sociale è l’oggetto di un diritto dei cittadini, per cui lo Stato deve garantire la «parità di posizioni di partenza» dei consociati affinché questi possano realizzare i propri progetti di auto- realizzazione. Lo Stato sociale ha per obiettivi la tutela delle libertà individuali dell’uguaglianza sostanziale: il riconoscimento dei diritti sociali consente di realizzare la sintesi fra uguaglianza e libertà per ottenere la «liberazione dalla privazione». La «liberazione dai bisogni» è il paradigma della libertà, per cui lo Stato deve intervenire, attraverso la spesa pubblica, in funzione correttiva: lo Stato deve ricercare un adeguato livello di benessere al fine di sostenere il progetto di vita in comune per garantire la libertà e l’uguaglianza sostanziale dei consociati. Dunque, lo Stato favorisce programmi di crescita produttiva e di sviluppo del sistema economico e sociale al fine di assicurare un livello di benessere individuale e collettivo coerente con i bisogni della comunità. Ovviamente, però, la libertà e l’uguaglianza dipendono dal livello, dalla qualità e dalla quantità dell’imposizione fiscale. Le ragioni dello «stare insieme» all’interno della comunità organizzata possono ravvisarsi nella definizione di istituzioni e programmi che garantiscono a ciascun soggetto la realizzazione del percorso di auto-realizzazione secondo i postulati di libertà ed uguaglianza sostanziale. Lo Stato sociale pone il benessere al centro del «patto sociale», infatti la scelta di vivere in comunità deriva dall’idea che in tal modo i bisogni fondamentali dell’individuo sono realizzati dall’erogazione di prestazioni pubbliche che garantiscono un livello minimo di libertà e di dignità. Il Welfare state rappresenta la formula organizzativa della comunità democratica richiesta da ogni individuo quale condizione dell’adesione alla comunità al fine di assicurare il perseguimento degli obiettivi di uguaglianza e libertà. L'organizzazione della comunità e le regole strumentali al perseguimento delle finalità collettive avviano un processo circolare per mezzo del quale ciascun elemento presuppone l’altro e si adopera per il progresso e lo sviluppo coerente con il bene comune secondo le coordinate del vivere insieme. La società circolare è la società dove le forze spingono per il raggiungimento di una dimensione di libertà uguale che vale come «ordine e misura del caos». l’individuo non viene concepito come uno strumento per soddisfare i bisogni degli altri, ma come il termine finale dei processi di produzione del benessere. Per conseguire un corretto sviluppo della personalità e del progetto d vita che ciascun individuo intende realizzare va fornito il raggiungimento di un adeguato livello di capacità umane fondamentali. Sviluppare la capacità vale a preservare le libertà e le opportunità di partenza che ciascun individuo deve possedere per essere considerato come un fine. Nella società circolare la soglia delle opportunità di partenza tende a crescere sempre di più. La giustizia sociale si persegue mettendo in condizione ciascun individuo di scegliere liberamente il proprio destino sulla base di una dotazione di mezzi di base che lo rendono «libero dalla privazione». La società circolare deve favorire l’approntamento di un insieme di opportunità affinché si permetta lo sviluppo delle capacità combinate. Il benessere è uno strumento che vale a consentire all’individuo di soddisfare i bisogni e di convertire le capacità in funzionamenti. 8. Una nuova teoria del potere tributario Il potere tributario costituisce l’attributo qualificante della società circolare nella misura in cui soddisfa gli obiettivi d libertà uguale che ne denotano il processo di sviluppo. Infatti, nella società circolare i diritti fondamentali dell’individuo sono fondati su un adeguato compendio di solidarietà che avvolge la vita collettiva. Questa solidarietà si esprime mediante il concorso alla spesa pubblica che qualifica l’agire dello Stato. Il prelievo fiscale risponde alla logica di coesione e solidarietà sociale cosicché la ricchezza individuale vada considerata al netto degli oneri tributari. La dimensione del potere tributario, quindi, riguarda l’attitudine complessiva del prelievo fiscale a perseguire gli obiettivi di uguaglianza sostanziale e di libertà positiva. Il potere tributario va sganciato da una politica di breve periodo ed indirizzato verso un’identità sociale di lungo periodo, per cui gli elementi di fiscalità dovrebbero essere orientati al perseguimento di un incremento della «libertà uguale» producendo una riduzione del carico fiscale sul fattore lavoro e allargando la base imponibile complessiva mediante la lotta all’evasione. La trasformazione delle forme del prelievo fiscale porterebbe ad un diverso criterio redistributivo degli oneri pubblici. Un passaggio fondamentale per la costituzione di un ordine ispirato all’uguaglianza sostanziale riguarda il finanziamento dello Stato sociale. Si deve ricorrere ad un meccanismo tributario che consenta di spostare il peso del prelievo fiscale sul capitale rispetto al lavoro, in quanto in tal modo si favorirebbe l’incremento di capacità economica a e finanziaria in capo alle famiglie dei lavoratori e si potrebbe seguire la capacità contributiva del contribuente in modo più corretto. La tassazione rapportata al reddito e non al patrimonio non sembra una forma adeguata di tassazione della capacità contributiva in quanto misconosce un dato fondamentale per la valutazione del ruolo sociale e della capacità di concorrere alle pubbliche spese. I proventi dell’imposta sul capitale potrebbero essere considerati come il nucleo fondante del piano di finanziamento dello Stato nella logica redistributiva. Appare opportuno riprendere la teoria della «imposta negativa», per cui si assicura un livello minimo di dotazione reddituale a ciascun membro della comunità affinché questo possa perseguire il progetto di auto-determinazione e di promozione delle capacità centrali della persona. Si crea, quindi, un collegamento fra il prelievo dei soggetti più ricchi ed il finanziamento dei sussidi a favore dei soggetti più poveri (l’individuazione della soglia di povertà e di reddito minimo dipende da valutazioni di opportunità). L'«imposta negativa» può attivare circuiti solidaristici. Oggigiorno, il potere tributario deve essere scollegato dal prendere risorse per «tenere in equilibrio i conti pubblici» e va, piuttosto, connesso ad un fine solidaristico, per cui si deve formulare un «programma paese» volto al superamento della crisi dello Stato sociale e alla trasformazione del nucleo del patto sociale. Il potere tributario deve essere inserito all’interno di un progetto complessivo e generale di crescita sociale ed economica della comunità, nel cui ambito le prestazioni fiscali sono strumenti per favorire obiettivi condivisi dai cittadini. In tal modo il depauperamento fiscale è avvertito come un elemento del piano di rinascita della propria comunità. Sul presupposto di una diffusa e consistente diseguaglianza sociale, si prende atto che il sistema fiscale di carattere obbligatorio non contribuisce a risolvere il problema della diseguaglianza. Vi è una teoria filosofica secondo cui si dovrebbe sostituire l’obbligo legale con un atto liberale del consociato, sostituendo l’edita del dare alla soggezione obbligatoria alla legge. In questo modo, la funzione fiscale diventerebbe un atto di solidarietà nei confronti dell’altro. Tale prospettazione costituisce, evidentemente, un paradosso, in quanto lo Stato ha necessità di una certezza di incassi che solo l’obbligatorietà ex lege delle prestazioni fiscali può garantire. Comunque sia, il potere tributario va ridimensionato nella dimensione della società circolare per superare la routine di una fiscalità datata: si tratta di promuovere un’etica fiscale ispirata alla logica della coesione e della solidarietà nei confronti dell’altro, nella direzione di una strategia sociale diretta verso l’inclusione e a tutela del bisognoso. In questo modo, la fratellanza espressa dalla logica del dono, riscatterebbe l’uguaglianza sostanziale promuovendo un progetto di integrazione solidale della società.
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