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Il potere tributario

Capitolo primo: Potere ed ordine


1. Ordine e comunità sociale
L'ordine è una funzione biologica della specie umana attraverso la quale sono
stati avviati processi evolutivi che hanno determinato la dimensione esistenziale
ed i livelli di vita e di benessere. L'ordine ha un ruolo determinante nella
formazione dell'Io e del Noi.
L'ordine rappresenta un insieme di vari elementi della vita che presentano nessi
di collegamento in ragione di una funzione unitaria: nel concetto di ordine una
pluralità di elementi può essere collegata in relazione ad una funzione comune.
La nozione di ordine esprime, quindi, un concetto relazionale.
I fattori costitutivi della nozione di ordine sono:
- la pluralità di elementi della vita;
- la funzione comune;
- i nessi di collegamento tra i vari elementi.
La definizione di un ordine vale a stabilire un criterio ripartitorio di una pluralità
di elementi. Il nesso di collegamento della pluralità di elementi della vita rispetto
alla funzione può consentire una diversa collocazione nello spazio e/o nel
tempo. Esiste un ordine orizzontale (o ordine simultaneo) nel quale gli elementi
si distribuiscono su un medesimo piano secondo una logica di simultaneità e un
ordine verticale (o ordine sequenziale) in cui gli elementi vengono ripartiti su
più piani, anche di diverso valore o grado, assumendo pertanto un differente
rilievo di importanza e venendo considerati in successione logica.
La formazione dell'ordine è nella disponibilità del soggetto in quanto
l'individuazione del criterio ordinatore dipende da scelte individuali. Sono
rimessi a valutazioni soggettive tutti i fattori costitutivi della nozione di ordine,
ad es. la selezione degli elementi della vita da ricomprendere nell'insieme
«ordinato», la fissazione della funzione perseguita, la determinazione dei nessi
di collegamento e la metodologia di relazione (induttiva, deduttiva, analogica,
ecc.) tra i vari elementi «ordinati». L'ordine, quindi, non è un dato di fatto, ma è
il risultato di un giudizio soggettivo, in ragione della valutazione specifica e
personale formulata dall'individuo (o dall’istituzione) chiamato a stabilire il
criterio ordinatore. La soggettività che connota l'individuazione del criterio
ordinatore vale a qualificare l'ordine come una categoria «a numero infinito», la
cui concreta determinazione è rimessa alle scelte formulate da ciascun
individuo. La scelta del criterio ordinatore da parte del medesimo individuo (o
istituzione) può variare di momento in momento, dipendendo da ragioni che
possono anche essere estemporanee e non stabili nel corso del tempo: si tratta
di un giudizio definito nella sua storicità, e quindi da contestualizzare ad un dato
momento.
L'ordine costituisce un modello di riferimento per i gesti, il pensiero e gli atti del
soggetto: l’ordine può essere definito come il paradigma della vita, in quanto
parametro di formazione dei comportamenti dei soggetti, individuali e collettivi,
quali risultanti dell'insieme di gesti, funzioni cognitive e azioni.
L'individuazione di un ordine persegue innanzitutto una funzione cognitiva, in
quanto pone in condizione l'individuo di classificare gli elementi della vita.
L'attribuzione di una qualità («è buono», «è cattivo») e la valutazione di
funzionalità («è utile», «serve allo scopo») dipendono essenzialmente dalla
definizione del nesso con cui il singolo elemento della vita viene collegato ad
altri elementi e posto in relazione con la funzione dell'ordine. Anche il giudizio
descrittivo dell'elemento della vita (es. colore, dimensioni, durata nel tempo,
ecc.) presuppone l'adozione di simboli il cui fondamento è costituito dalla
fissazione di un ordine attraverso il quale gli stessi simboli sono riconoscibili e
utilizzabili.
La cognizione presuppone un ordine logico attraverso il quale si forma il
pensiero e si può veicolare il pensiero all'esterno, consentendo il confronto
intersoggettivo. Il confronto intersoggettivo consente di sviluppare il pensiero e,
in definitiva, affinare e arricchire la cognizione: l’ordine consente la
rappresentazione e a formazione della cognizione, in quanto si pone alla base
dei principali processi cognitivi.
La fissazione di un ordine serve ad orientare le azioni individuali, laddove fissa le
relazioni di base che vengono assunte per la determinazione dei
comportamenti: le azioni rispondono usualmente al criterio del «mezzo allo
scopo» e dunque si rapportano alla funzione perseguita. La cognizione degli
elementi della vita e l'idea della trasformazione degli stessi attraverso l'azione
individuale assumono consistenza all'interno di un ordine determinato. Senza
un ordine le azioni individuali verrebbero considerate quali semplici impulsi
indirizzati verso trasformazioni casuali degli elementi della vita.
Nella tradizione filosofica sono identificate due tipologie di ordine:
- Cosmos o ordine spontaneo, ovvero un tipo di ordine che si forma
spontaneamente all'interno di una comunità, in modo «endogeno», e
viene recepito dall'individuo come un dato naturale e primordiale;
- Taxis o ordine costruito, ovvero un tipo di ordine che viene costituito dalla
società e si forma sulla base di giudizi e valutazioni sviluppati in un dato
contesto storico. Si tratta di un ordine etero-diretto, che è generato
dall'alto, perlopiù attraverso un processo deduttivo e rappresenta un
ordine di carattere esogeno o artificiale che segna una perimetrazione del
flusso naturale degli eventi. Spesso viene rappresentato come «ordine del
tempo» nel senso di «limite al fluire del Tempo».
Le due tipologie di ordine convivono e coesistono, secondo relazioni variabili:
spesso vi è la riduzione proporzionale dello spazio riservato all'una categoria in
ragione della crescita dell'altra categoria (trade off).
L'ordine viene elaborato nell'ambito di una comunità di individui assumendo i
caratteri di un ordine sociale: si tratta di un ordine di gruppo, in quanto viene
formato attraverso un processo di valutazione e decisione collettiva. L’ordine
sociale è l'insieme di elementi della vita che la comunità assume (dal Cosmos) e
definisce (attraverso la Taxis) in ragione delle finalità comuni e degli interessi
collettivi perseguiti. L'ordine della comunità interagisce con l’ordine individuale:
la formazione dell’ordine individuale è determinata in base all’accettazione dei
valori del gruppo di appartenenza. Dunque, la varietà di ordini produce la
coesistenza di una pluralità di ordini.
L'ordine può essere determinato dal soggetto secondo due metodi:
- Il Logos, ovvero l'assunzione di un assetto lineare e stabile dei criteri
ordinatori, nel quale sia fissata la gerarchia di un ordine prevalente
rispetto al numero infinito di ordini astrattamente possibili;
- Il Chaos, ovvero l'apertura verso un numero indefinito di ordini, nel quale
manchi un criterio ordinatore prevalente e sia ammessa senza preclusioni
la sostituzione di un ordine dato con un ordine nuovo.
Sul piano logico, le due metodologie sono egualmente ammissibili, ma la scelta
di una o l’altra comporta effetti differenti, in quanto esse esprimono una visione
della vita connotata da una idea dei rapporti umani diversa.
Ricorrendo al Logos, l'ordine è determinato dal soggetto secondo un sistema
lineare che presuppone un criterio di prevalenza o di priorità gerarchica per cui
si dispone una lista di preferenze che pone in cima l’ordine primario o ordine
dominante. Quindi, il Logos indica la preferibilità gerarchica di un ordine rispetto
agli altri e impone un sistema lineare di ricostruzione dei nessi tale per cui si può
parlare di metodologia deduttiva, predicibile e conservativa dell’ordine in
quanto espressione di una dimensione statica.
Con il Chaos, invece, si esprime l’apertura verso processi di trasformazione
costante dell’ordine: l’ordine viene determinato di volta in volta andando a
sostituire l’ordine «vecchio» con l’ordine «nuovo», per cui si afferma un’idea di
sostituibilità di ogni ordine. Dunque, il Chaos indica la coesistenza dinamica di
più ordini, non la mancanza dell’ordine, e in tal modo si valorizza l’entropia.
Tradizionalmente, si predilige il Logos. I due concetti, infatti, si confrontano in
una sorta di antagonismo logico e il Logos viene assunto a punto di arrivo di un
percorso evolutivo ella specie umana. L'attitudine dei soggetti a preferire il
Logos costituisce un dato primordiale, in quanto il Logos viene avvertito come
una forma pura delle relazioni, un dato originario: viene percepito come il
principio vivente che si diffonde fra gli individui e ne qualifica gli atti e, quindi,
viene qualificato come il paradigma della vita.
La determinazione dell'ordine risente del gruppo di appartenenza dell’individuo:
l'individuo aderisce ad un modello di ordine in relazione alla appartenenza al
gruppo in base alla logica del comando gerarchico e della condivisione di valori
e principi. L’ordine è, simultaneamente, la matrice e la derivata di elementi che
riportano l'individuo al gruppo. La sequenza costitutiva dell'ordine sociale (ad
es. simboli, riti, autorità) è perlopiù una grandezza collettiva stabilita
dall'appartenenza di gruppo”, per cui gli elementi della vita (gesti, pensieri,
azioni) prodotti dagli individui vengono orientati verso il rispetto dell'ordine
dominante. I fattori costitutivi dell’ordine si impongono come meccanismi che
favoriscono il collegamento degli elementi della vita rispetto al paradigma
assunto dal gruppo. Tali fattori possono definirsi «legature», che si esprimono
come vincoli esterni dotati di forza coercitiva sull’individuo.
Il Logos si fonda sul riconoscimento di un ordine sociale dominante che viene
attuato mediante le legature sociali: si fonda sul riconoscimento del Noi come
criterio essenziale di fissazione dell’ordine.
Nel Logos, l’ordine sociale si esprime attraverso forme di organizzazione stabile
e gli elementi costitutivi dell’organizzazione possono individuarsi nell’adozione
di regole per perseguire una finalità comune. L'organizzazione esprime diverse
combinazioni di ordine collettivo, ad es. l'ordinamento giuridico che indica i
comportamenti ammessi e quelli vietati o l’ordine pubblico che indica le misure
che garantiscono la pubblica sicurezza. L'organizzazione, poi, costituisce il
nucleo fondante della soggettività collettiva.
Ovviamente, il concetto di ordine è multiforme in quanto dipende dalle
valutazioni assunte in un dato momento storico. Ed è possibile che le varie
anime della società esprimano nozioni diverse di ordine da bilanciare fra loro.
L'individuo nella comunità procede a comporre la propria identità. È una ricerca
continua che avviene all'interno del Noi convenzionale, cioè della comunità, e
che quindi è segnata dall'incombenza dell'ordine sociale sulle
prospettive/aspettative dell'Io. L'Io muove verso un'identità costantemente non
definita e non fissa, ma valida «fino a nuovo avviso». L'Io prova a prendere le
distanze dagli assetti tradizionali di superiorità/inferiorità e dai postulati
assiologici della storia che sono erosi. Il mondo non ha perso solo stabilità e
certezze, ma soprattutto si sente privato di origine, scopi e ordine. Così l'identità
è portata a vagare nella storia: l'lo percorre i tratti della sua storia attraverso le
varie comunità a cui appartiene, connesso dalle legature dell'ordine sociale
espresso da ciascun gruppo.
In tale prospettiva il Logos e il Chaos possono trovare forme di coesistenza
dinamica all'interno di una medesima comunità: la coesistenza è affidata ad una
dialettica, il dialogos, in cui convivono visioni differenti del vivere insieme e del
patto costituzionale”. Il pensiero che si sviluppa attraverso il dialogos è la
ragione dialettica che si contrappone al dogma. Il dialogos è apertura verso
l'orizzonte del possibile e verso la modificabilità del mondo. L'unicità del
pensiero (il Logos) non è più la sostanza originaria del mondo, intorno alla quale
si costruisce un'identità definita e ben perimetrata, ma essa è immersa in un
mondo mescolato e plurale, contagiata e alterata dal divenire sociale e storico.
Il pensiero dialettico diventa il principio di mobilitazione interna che sollecita un
divenire continuo dell'individuo, a seguito del quale l'identità non è mai la stessa
ed è in stato di continua metamorfosi ed alterazione: con il dialogos l'identità
diventa uscire da sé stessi per orientarsi verso il divenire e la trasformazione
dell'esistente. L'alterazione e il divenire, quindi, costituiscono i modi esistenziali
per la composizione dell'identità. «L’unico nucleo d’identità destinato
sicuramente a emergere illeso dal cambiamento continuo è quello dell’homo
eligens - l’uomo che sceglie – ma che non ha già scelto, di un Io stabilmente
instabile».
2. Ordine e potere
L'ordine costituisce il modello di vita a cui si ispira il comportamento del singolo
o del gruppo. L'ordine si costituisce attraverso una sequenza di fattori che si
collegano mediante nessi variabili ma in funzione della composizione di un
paradigma di vita.
Il primo fattore costitutivo della nozione di ordine si rinviene nei segni utilizzati
per trasferire informazioni. I segni assumono il carattere di «significante» che
trasferisce il contenuto informativo, ovvero il «significato». Questi segni hanno,
quindi la funzione di trasferire informazioni affinché poi vi sia la fase di
elaborazione soggettiva. Anche i segni seguono un ordine in base al quale si
collegano, ovvero la sintassi. La conservazione dei segni e della sintassi nel
tempo consolida il patrimonio di conoscenze, per cui la semantica (ovvero la
capacità dei segni di veicolare informazioni) dipende dalla stabilità dei segni e
della loro sintassi. Le regole di impiego dei segni dipendono dalla comune
esperienza: segni e sintassi si producono in un contesto necessariamente
collettivo.
L'attuazione dei comportamenti richiesti dai simboli è affidata ai rituali, ovvero
un procedimento che definisce il comportamento di individui e gruppi secondo
atti predeterminati da regole comuni. Il nucleo del rituale consiste nel
raggiungimento di uno standard. Nei gruppi primordiali, i rituali mostrano una
tendenza statica alla conservazione di valori sacralizzati nella mitologia; nei
gruppi più evoluti, il rito assume caratteri più complessi in relazione all’esigenza
dinamica di trasformazione e sviluppo espressa dalla comunità.
L'osservanza del rito è assicurata dall’azione dell’autorità, ovvero istituzioni
costituite dalla comunità alle quali gli individui si assoggettano per realizzare
scopi comuni e per il governo di attività organizzate. Le autorità vigilano sul
rispetto del rituale e se vi è una deviazione non ammessa, l’autorità interviene
per riportare il comportamento individuale alla logica del rituale, anche
attraverso l’uso della forza. Il tratto qualificante dell’autorità consiste nel
tracciare un confine tra uso legittimo della forza e coercizione illegittima.
L'ordine collettivo si costituisce attraverso la sequenza «simbolo - rituale -
autorità». Il simbolo esprime le regole prescrittive che ispirano le scelte
comportamentali della collettività. Il rituale definisce la sequenza
predeterminata di atti a cui i singoli ed i gruppi devono adeguarsi per il rispetto
dei simboli. Le autorità assicurano che i rituali ed i simboli siano rispettati dai
singoli e dai gruppi. Dunque, i comportamenti dei membri della comunità
vengono ricollegati funzionalmente all'osservanza delle finalità espresse e
perseguite dalla comunità medesima.
L'ordine collettivo si manifesta secondo due possibili forme espressive, ovvero:
- Il Nomos, l'ordine condizionante espresso da regole precettive (quindi
aventi un contenuto vincolante), perlopiù identificabile con l'ordine
istituzionale e giuridico della comunità;
- L'Ethos, l'ordine programmatico definito da regole di comportamento di
generale rilevanza, sostenuto da precetti morali e regole di persuasione
(anche identificabile con l'etica o la morale del gruppo).
Le due forme sono distinte essenzialmente in ragione del ruolo dell'autorità. Nel
Nomos l'autorità è attribuita ad istituzioni ben definite, esternamente
riconoscibili e dotate di poteri coercitivi e sanzionatori. Nell'Ethos, invece,
l'autorità non è identificabile in istituzioni specifiche, in quanto corrisponde alla
coscienza comunitaria ed è dotata di una capacità di controllo e di sanzione che
viene esercitata attraverso la valutazione morale dei comportamenti
dell'individuo nella società e l'eventuale riprovazione e perdita di stima.
Ethos e Nomos concorrono alla formazione della coscienza comune del gruppo
e ne esprimono l'identità culturale.
Il potere è coessenziale all’ordine, in quanto la sequenza costitutiva dell’ordine
presuppone l'esercizio di un potere: la stessa percezione di trovarsi di fronte ad
un ordine presuppone il riconoscimento di un sistema di potere. Nell’ordine
collettivo il potere si concentra nella fase dell’autorità, laddove viene assicurata
la vigilanza e il ripristino dell'ordine costituito.
Il potere esprime la capacità di trasformare la realtà, in particolare di indurre
comportamenti, anche attraverso l’uso della forza: è uno strumento giuridico
che incide sui comportamenti orientandoli al rispetto dell’ordine costituito.
Si distinguono potere esercitati nel nome proprio e poteri esercitati in nome di
un interesse altrui o oggettivo; questi ultimi sono poteri esercitati in funzione
dell’ordine collettivo e quindi vincolato al bene comune e all’interesse pubblico.
In questo ambito si pongono i poteri tutelatori indirizzati a conservare i
comportamenti individuali in caso di deviazione e i poteri conformativi in cui la
trasformazione del rituale costituisce un processo di adattamento.
Il potere è uno strumento diretto a garantire l’ordine, a prescindere dal metodo
usato (Logos o Chaos), in quanto il potere è neutrale rispetto al concetto di
ordine.
Il potere, quindi, si collega al Logos per assicurare la conservazione di un ordine
stabilizzato in regole di coesistenza. Il potere, in questo caso, si riferisce alle
legature sociali, ovvero quelle connessioni fra i soggetti mediante le quali si
compone l’ordine sociale. Il potere vuole preservare il Logos e reprimere i
comportamenti dissonanti: il potere correlato al Logos garantisce il
funzionamento dell’ordine sociale dominante, per cui si garantisce il dominio del
Noi rispetto all’Io e la sottomissione dell’Io al Noi.
Ma il potere può anche collegarsi al Chaos. In questo caso il potere si esprime
come resistenza al potere del Logos e favorisce la trasformazione del paradigma
di vita secondo modelli innovativi che si sostituiscono all’ordine costituito.
Questo diverso ordine si forma sulla base delle anomalie espresse dal singolo Io
o da gruppi che non si indentificano nel Noi convenzionale. Il potere espresso
dal Chaos asseconda la liberazione dell’Io e favorisce le peculiarità della sua
dimensione esistenziale.
3. La fenomenologia del potere
La fenomenologia del potere si esprime mediante alcune forme tipiche, definite
forme antropologiche primarie:
- Il potere di offendere gli altri organismi viventi esercitando violenza;
- Il potere strumentale, ovvero di formulare minacce e promesse, quindi di
indurre comportamenti;
- Il potere normativo, ovvero il potere di stabilire una norma come regola
comportamentale;
- Il potere di modificare lo stato delle cose.
Le manifestazioni del potere possono avere effetto interno, quindi permanere
nella sfera di chi lo esercita, o effetto esterno, quindi riguardare anche soggetti
terzi, a seconda che il potere venga esercitato in pubblico o in privato. Il potere
può essere inteso come «potenza» o Macht, ovvero come volontà che si impone
al destinatario anche contro la sua volontà, o come «dominio» o Herrschaft,
ovvero come possibilità di trovare obbedienza rispetto ad un comando.
Il potere di offendere è l’elemento fondante della comunità: la paura che l’altro
possa colpire fa nascere l’esigenza di forme di organizzazione che garantiscano
la tutela della vita anche attraverso la forza. L’ordine sociale, quindi, nasce
dell’istanza di protezione dalla violenza esterna. Allo stesso tempo, si deve
contenere la violenza interna al gruppo definendo le regole di autolimitazione
del potere di offendere: queste regole sono un fattore fondamentale
dell’esperienza sociale.
Il potere strumentale consiste nel potere di esprimere minacce e promesse: le
minacce inducono comportamenti mediante la paura, mentre le promesse
promuovono comportamenti tramite la speranza. L'individuo deve compiere
una scelta di comportamento fra un’alternativa (aut-aut) e il comportamento
conforme all’ordine evita la punizione minacciata o ottiene il premio promesso,
quindi comporta un beneficio. Minacce e promesse sono molto efficienti, in
quanto garantiscono il rapporto sociale mediante il controllo della paura o della
speranza.
Il potere normativo definisce lo standard della vita collettiva in grado di
orientare il comportamento del singolo. L'adeguamento allo standard esprime
la conformità all’ordine del gruppo e, quindi, risponde all’esigenza di essere
socialmente riconosciuto come appartenente alla comunità. Il potere normativo
è usato per formare il Nomos, ovvero l’ordine giuridico: il potere normativo è lo
strumento essenziale per regolare l’agire.
Il potere come agire tecnico si presenta come modificare o produrre: è
un’attività volta alla trasformazione del reale. L'agire tecnico esprime «un
potere di stabilire dati di fatto nuovi rispetto a quelli pre-esistenti». L'agire
tecnico produce anche effetti esterni, in quanto non riguarda solo il soggetto
che esercita il potere ma anche gli altri soggetti del mondo.
Una questione fondamentale è la relazione dialettica fra potere e diritto. Vi sono
due visioni contrapposte:
- Il potere costituisce e prevale sul diritto. Si tratta di una visione che ha
avuto prevalenza dagli Stati dell’antichità fino allo Stato assoluto, per cui
la sovranità era intesa come potere assoluto. Il potere è matrice del diritto
e si afferma che «il diritto è il potere del più forte»;
- Il diritto fonda e regola il potere. Visione che si è affermata a seguito delle
rivoluzioni del XVIII sec e dell’affermazione dei diritti fondamentali, per
cui il potere sorge nell’ambito di un ordinamento giuridico che stabilisce
garanzie e procedure per perseguire il bene comune. Il potere è derivata
del diritto.
Comunque sia, il potere è uno dei fondamentali meccanismi di dominazione
all’interno di un gruppo organizzato.
4. Autorità e potere
Il potere è un fattore di coesione sociale del vivere insieme. La sequenza
costitutiva dell’ordine (simbolo-rituale-autorità) presuppone l’autorità come
elemento costitutivo. All'autorità viene attribuito il potere necessario per
garantire l’attuazione del simbolo e del rituale, ovvero le viene attribuito il
potere di offendere, il potere strumentale per guidare il comportamento dei
membri e il potere normativo per stabilire lo standard della vita collettiva.
Il potere deve essere ovviamente distinto dalla violenza che è solo in grado di
distruggere e non di creare.
L'autorità viene riconosciuta dal gruppo come un’istituzione e il processo di
istituzionalizzazione si qualifica per il fatto che il potere è spersonalizzato (è
attribuito a prescindere dalla persona che ricopre la funzione), il potere è
formalizzato e il potere è coerente con i principi e le regole dell’ordine collettivo.
Come istituzione l’autorità si lega alla struttura dell’ordine collettivo
prescindendo dall’arbitrio individuale.
L'autorità è riconosciuta dai membri del gruppo come istituzione preposta
all’esercizio del potere per tutelare l’ordine collettivo e, allo stesso tempo, i
membri della collettività vogliono essere riconosciuti come persone che
agiscono in modo conforme all’ordine collettivo. Dunque, il rapporto di autorità
si basa su un doppio processo di riconoscimento e il potere deriva da questo
duplice riconoscimento dell’autorità.
L'autorità implica ma non coincide con il potere. L'istituzionalizzazione del
potere attraverso l’autorità consente la stabilizzazione della comunità: l’autorità
è dotata di potere per perseguire le finalità assegnate dalla comunità. Le
distinzioni dell’autorità sono basate sulla dimensione del potere:
- L'autorità legale si fonda sul potere giuridico definito nel Nomos;
- L'autorità tradizionale si collega al potere di persuasione espresso dalle
formule sacralizzate nell’Ethos;
- L'autorità carismatica si fonda sul potere di convincimento del singolo
individuo che si pone come «guida» di un gruppo.
In quanto funzionale alla tutela dell’ordine, il potere dell’autorità si distingue in:
- Poteri tutelatori, assicurano il controllo e la vigilanza sul comportamento
individuale nel rispetto degli standard. Si assicura una dimensione statica
dell’ordine.
- Poteri conformativi, esprimono la capacità di modificare e trasformare gli
standard in base al processo di evoluzione della mitologia collettiva.
Garantisce la dimensione dinamica dell’ordine.
L'autorità si fonda sulla forza originaria ritratta all’interno della comunità, è un
dato primitivo. Uno dei tratti qualificanti del modo di esercitare il potere da
parte dell’autorità è la segretezza dei fini e delle tecniche per raggiungere le
stesse, escludendo così il giudizio sui modi di esercizio del potere. Il potere,
quindi, si isola rispetto alla comunità diventano auto-referenziale.
5. L'evoluzione del potere nella Storia
Ci si deve porre la domanda: quali soggetti, all’interno del gruppo, sono chiamati
a formulare decisioni di sistema? Chi compone l’autorità? L'oligarchia
dominante assume su di sé la funzione di guida, tanto che «le idee della classe
dominante sono in ogni epoca le idee dominanti». La superiorità di una ristretta
classe dominante sulla grande massa dei dominati è definita dalla
concentrazione e accumulazione del potere, il controllo delle autorità e la
definizione delle regole dell’ordine sociale. A tal fine le varie «anime» della
classe dominante trovano punti d’incontro per negoziare ruoli e le attribuzioni
di potere.
Nel corso della storia, l’oligarchia dominante ha assunto modi diversi di
esprimere la sua relazione con l’ordine e per ogni fase storica si può individuare
un modo diverso di manifestarsi della relazione di potere espressa dall’oligarchia
sui dominati. Per lungo tempo, la comunità si è incentrata su un corpo di élites,
che si possono definire Buone Società, che rivendicavano il monopolio del
pensiero.
Nelle comunità primordiali, si aveva un assetto di società ternaria articolata su
tre classi sociali:
- I sacerdoti ricostruivano la mitologia collettiva collegandola al sacro e
stabilendo i simboli e rituali;
- I guerrieri fissavano i simboli e rituali civili per organizzare la collettività
secondo regole di divisione di lavoro;
- I lavoratori erano la classe più numerosa e garantivano la sopravvivenza
della comunità fornendo i mezzi per l’assolvimento dei bisogni primari.
Si sviluppava una mitologia funzionale a consacrare la superiorità naturale delle
due classi dominanti. Il potere veniva esercitato dal sovrano e dalla classe
dominante attraverso il «diritto di spada», ovvero un potere assoluto di vita e di
morte funzionale a mantenere la terra nelle mani dell’oligarchia dominante.
Nelle comunità della fase più evoluta, ma ancora antica, si ripropone lo stesso
schema di ordine collettivo e le due classi che governano sono la derivazione dei
guerrieri e dei sacerdoti:
- L'aristocrazia acquisisce la sua forza dall’accumulo del potere militare;
- Il clero mantiene il rapporto con le divinità;
- Il popolo è la classe più numerosa e svolge il lavoro manuale per garantire
la sopravvivenza e lo sviluppo della comunità.
L'ordine collettivo era definito tramite simboli e rituali religiosi e civili e il potere
di governo, che ricomprendeva il potere di offendere il potere strumentale e il
potere normativo, era affidati a queste due classi. Si trattava di un potere che
richiedeva obbedienza assoluta.
Nel Medio Evo, l’esigenza primaria era la difesa della vita. Ciò ha portato a
chiudere le mura e il gruppo si presentava come un ordo conclusus nel quale
ogni individuo aveva un ruolo fissato e non modificabile. La comunità si
orientava verso modelli sociali statici. Con la produzione di un surplus di
ricchezza emerge, però, il bisogno di uscire dall’ordo conclusus e portare
ricchezza al di fuori dello stesso. Il commercio genere una nuova classe sociale
che accumula ricchezza. I commercianti e borghesi riescono a stabilire forme di
alleanza con i detentori del governo della comunità, clero e aristocrazia, ma non
riescono ad intervenire nei processi di formazione dei simboli e dei rituali: ai
commercianti si riconosce una posizione collaterale di vantaggio ma non è
riconosciuto il potere che fonda l’ordine collettivo.
L'assetto della comunità cambia con lo Stato-nazione, in quanto viene superata
la distinzione fra classi sociali e il potere di governo viene tolto all’aristocrazia e
al clero per essere affidati alle istituzioni dello Stato-nazione. Dunque, simboli e
rituali vengono stabiliti dalle istituzioni statali a cui viene attribuita anche la
funzione di vigilanza e sanzione dell’autorità. L'ordine collettivo è fissato dallo
Stato-nazione come grandezza collettiva autonoma rispetto agli impulsi egoistici
di classi sociali prepotenti. Appare una nuova classe sociale: la burocrazia
composta da servitori professionali dello Stato-nazione. Il potere di governo si
spersonalizza, in quanto viene affidato all’apparato burocratico, impersonale,
istituzionalizzato, stabile. Il singolo funzionario non può sottrarsi allo
svolgimento dei suoi doveri d’ufficio, per cui il potere di governo si realizza
mediante l’esercizio di doveri d’ufficio dell’apparato burocratico. In questo
modo si ha il livellamento della massa dei dominati ad esecutori dei doveri di
soggezione. L'attribuzione del potere di governo alla burocrazia permette la
fondazione di un ordine sociale burocratizzato, per cui i dominati non possono
fare a meno dell’apparato di potere.
Nei tempi recenti, si assiste all’erosione della sovranità dello Stato-nazione a
seguito della globalizzazione e dello sviluppo di un nuovo ordine e di
conseguenza il controllo delle risorse economiche è attribuito alle forze che
dirigono il mercato globale. I vertici di questi nuovi centri di potere sono i
managers, i quali compongono la classe dominante della società moderna e
l’accesso a tale classe è solo apparentemente libero.
6. Oligarchia dominante e potere
Nella comunità, la piramide sociale è determinata mediante il rapporto con i
mezzi di produzione e la proprietà come diritto convenzionale implica il
controllo dei fattori della produzione. Nella struttura sociale di una comunità si
individua un gruppo di comando che è il titolare dei mezzi di produzione e che
controlla il lavoro degli altri membri del gruppo. Si determina la divisione sociale
fra i titolari della proprietà e i lavoratori: i pochi titolari della proprietà dei fattori
della produzione dettano le condizioni della produzione economica ai molti
lavoratori. In proprietari dei fattori della produzione compongono la classe
agiata che assume il governo della comunità e diventa oligarchia dominante:
ciascun appartenente di tale classe agiata si identifica con il proprio ruolo di
soggetto dominante e portatore di Logos.
La proprietà privata non garantisce, però il possesso di beni che migliorano la
qualità della vita ed elevano l’Io, ma è un fattore che garantisce esclusivamente
l’appartenenza alla classe agiata e quindi assicura onore e rispettabilità.
Accumulare la proprietà garantisce un ruolo sociale crescente: l’accumulazione
serve a distinguere i gradi della forza dei vari soggetti all’interno della classe
agiata e consente l’ingresso di nuovi soggetti alla classe agiata. La proprietà
diventa, quindi, simbolo della transizione sociale ed emblema di una posizione
sociale. Allo stesso tempo, la proprietà produce un confronto antagonistico fra i
membri del gruppo.
L’astensione dal lavoro diventa segno dell’agiatezza e la vita quotidiana si
riempie di funzioni istituzionali connesse alla gestione dell’autorità e di attività
del tempo libero. I comportamenti sociali sono caratterizzati dall’appropriazione
dall’accumulo della proprietà e dalla conseguente astensione dal lavoro. Si
forma un codice delle buone maniere come paradigma dei rapporti sociali
ispirato alla dimensione della classe agiata, ma che viene imposto all’intera
comunità e le violazioni del codice sono considerate odiose.
Le classi inferiori non avvertono mortificazione nell’assegnazione del compito
della produzione economica, anzi trovano il senso della loro vita e l’onore sociale
nello svolgimento corretto ed efficiente del lavoro assegnato dalla comunità. La
classe lavoratrice non può e vitare il lavoro, ma adotta modelli di vita emulatici
di quelli della classe agiata in riferimento al tempo libero. Si genera una classe
agiata sussidiaria, ovvero la classe media, che produce una rappresentazione
parziale e derivata dell’agiatezza dell’oligarchia dominante.
La diversità fra le classi sociali, quindi, è da riportare al diverso ruolo che queste
assolvono nella comunità.
La classe agiata fissa le regole della produzione e di conseguenza l’ordine sociale.
La classe agiata definisce la sequenza costitutiva dell’ordine e forma, fra i propri
membri, le autorità che fanno rispettare il paradigma del vivere comune: la
classe agiata individua l’ordine e assume il potere per far rispettare tale ordine.
Il potere garantisce all’oligarchia dominante la capacità di stabilire la direzione
verso la quale si muove il gruppo ed è l’attributo necessario per consentire di
assumere la responsabilità del destino collettivo. Potere e responsabilità
costituiscono il binomio che fonda l’assunzione del ruolo di governo in capo
all’oligarchia dominante.
L'oligarchia dominante non può assumere un ruolo «a tempo» che si esaurisce
in un tempo predeterminato, ma richiede un ruolo stabile e duraturo nel tempo
che sia in grado di rinnovarsi in base ai cambiamenti del vivere comune. Occorre
assicurare la stabilizzazione del potere attribuito all’oligarchia dominante per
assicurare questa continuità della funzione di guida: si necessitano meccanismi
idonei a garantire la stabilità dell’assegnazione. In una prima fase, l’oligarchia
dominante viene formata su base elettiva o comunque attraverso un processo
di selezione meritocratica che fa emergere i migliori individui. Successivamente,
l’oligarchia attenua il senso di responsabilità ed enfatizza il potere: la funzione
di guida viene presentato come un attributo naturale dell’oligarchia e il potere
è un elemento costitutivo della stessa. L'appartenenza all’oligarchia si tramanda
di generazione in generazione e l’oligarchia si trasforma in una casta chiamata
per vocazione naturale o religiosa al governo del gruppo.
La classe agiata tende alla conservazione dello status quo nel quale riveste un
ruolo dominante: celebra l’ordine esistente e promuove il Logos come elemento
essenziale di rispettabilità ed onore. Il Chaos, come stravolgimento degli assetti
consolidati, viene gravemente criticato e presentato come no stadio di pericolo
che mette in discussione la sopravvivenza dell’individuo.
7. Sovranità, funzione fiscale e diseguaglianze
La capacità di realizzare attività pubbliche a vantaggio dei membri della
comunità dipende dalla quantità e tempestività delle risorse finanziarie
necessarie per svolgere tali attività. Nello Stato, le entrate derivano
principalmente dai tributi.
La funzione primaria della fiscalità è acquisire un flusso di entrate stabili da
mettere al servizio delle varie esigenze di spesa della collettività e individuate
dal bilancio pubblico. Questa funzione strutturale della fiscalità vuole garantire
l’equilibrio finanziario dei conti pubblici.
Una funzione secondaria è la ripartizione del carico fiscale fra i vari consociati
secondo una logica di solidarietà sociale e di equità distributiva al fine di
correggere la naturale distribuzione delle risorse per favorire la parità di
opportunità per tutti i consociati.
Vi sono altre funzioni collaterali della fiscalità riconducibili a finalità ulteriori, ad
es. funzione disincentivante o di promozione per alcune attività economiche. Le
funzioni collaterali, però, assumono un carattere recessivo in quanto
l’appartenenza dello Stato ad organismi sopranazionali (UE) limita il potere degli
Stati di usare i tributi come fattori di conformazione del sistema economico.
La funzione fiscale viene realizzata tramite poteri pubblici, ovvero:
- La potestà normativa, riguarda la capacità di introdurre o modificare
norme di natura fiscale nell’ordinamento giuridico, quindi è un potere di
carattere innovativo. Questa potestà si esercita nel rispetto dei principi
fondamentali. La potestà normativa, inoltre, si esercita in modo diverso a
seconda dell’ordinamento tributario di riferimento (Stato, enti locali, UE).
- La potestà amministrativa, si collega all’esigenza di funzionamento delle
norme stabilite in astratto affinché le prestazioni fiscali siano in concreto
attuate. È un potere di carattere tutelatorio in quanto funzionale a
realizzare e tutelare le condizioni giuridiche esistenti. L'esercizio di tale
potere è rimesso agli apparati amministrativi che garantiscono il corretto
adempimento degli obblighi fiscali. La potestà amministrativa risponde a
un modello unitario conforme alle regole di buona amministrazione,
ovvero il principio di trasparenza e di legalità, di conseguenza questa
potestà si atteggia in modo uniforme per ciascuna collettività.
Il principale potere tributario è la potestà normativa che può essere distinta in
tre parti:
- I principi generali della funzione fiscale, riguardano sia la fase
normogenetica sia la disciplina sostanziale indicando i parametri da
assumere nell’esercizio del potere tributario;
- Il sistema tributario, fornisce i criteri logici per ricostruire la fattispecie
normativa e gli effetti giuridici;
- L'attuazione dei tributi, contempla la disciplina della liquidazione,
dell’accertamento, della riscossione, delle sanzioni e del contenzioso.
La struttura della norma fiscale mantiene caratteri comuni per ogni comunità,
ciò che distingue i vari ordinamenti (Stati, enti locali, UE) sono i principi generali
in quanto espressione di assetti di interessi diversi. Dunque, la funzione fiscale
si esprime con modalità differenziate a seconda dell’ordinamento giuridico di
riferimento:
- Nel Welfare State, la funzione fiscale risponde ai principi dell’interesse
fiscale e della capacità contributiva;
- Negli enti locali, la funzione fiscale si rapporta al principio del beneficio;
- Nell'UE, prevale la logica liberistica per cui si parla di fiscalità negativa.
È nello Stato democratico che la fiscalità ha una portata prevalente in quanto
assolve ad un compito essenziale del patto democratico incidendo sui diritti
fondamentali dell’individuo.
Il potere tributario si collega all’idea di Stato: le regole che disciplinano
l’esercizio della funzione fiscale sono destinate a stabilire un’organizzazione
dell’attività collettiva idonea a garantire l’acquisizione di flussi finanziari allo
Stato. Si tratta di un’espressione del potere collegata al Logos come ordine
acquisito da una comunità. La capacità fiscale dello Stato esprime la visione
dell’ordine sociale che si vuole promuovere. Il Logos cambia in ragione
dell’esercizio del potere tributario assumendo diverse connotazioni istituzionali:
in una prima fase, si ha uno Stato minimo che svolge poche funzioni del vivere
insieme in quanto la sua capacità fiscale è ridotta; successivamente, si è
affermato uno «Stato guardiano notturno» che assume le funzioni di polizia e di
ordine interno per garantire la sicurezza del vivere insieme; infine, con il Welfare
State si è predisposto un modello di prestazioni fiscali in grado di garantire una
piattaforma di servizi pubblici.
La fiscalità riflette le ideologie dell’oligarchia dominante, in quanto strumento di
realizzazione dei modelli di ordine della società e quindi uno strumento di
governo. Fino al periodo pre-industriale, l’esazione dei tributi era vista in chiave
protettiva della proprietà fondiaria; con l’affermazione di modelli sociali
capitalistici, la funzione fiscale è stata riferita allo sfruttamento dei fattori
produttivi. Oggi, la politica fiscale risponde alla visione della classe dominante
sui mercati globali, orientata verso la massimizzazione della propria ricchezza.
Il generale perseguimento degli obiettivi della comunità viene realizzato tramite
la selezione dei bisogni secondo la scala delle preferenze scartando i bisogni non
prioritari. Le decisioni assunte in materia fiscale sollevano problemi di giustizia
distributiva in quanto definiscono i criteri mediante i quali è ripartito l’onere
tributario. La funzione fiscale definita ed attuata secondo gli interessi
dell’oligarchia dominante ha comportato la discriminazione fra i lavoratori e i
titolari della ricchezza, producendo una società caratterizzata da profonde
diseguaglianze. Il tema della diseguaglianza è uno dei tratti qualificanti del
potere tributario. Con il Welfare State, il tema dell’eguaglianza sociale ha
innervato le ragioni del vivere insieme.
Capitolo secondo: Il potere tributario nell’antichità
1. La funzione fiscale
La civiltà occidentale si è sviluppata nell’antichità a partire dalla zona
mediterranea, infatti i primi popoli di cui sono documentate le istituzioni
comunitarie erano collocati in territori limitrofi al Mar Mediterraneo. In questi
popoli la formazione di assetti organizzativi volti alla protezione del bene
comune ha determinato forme di gestione delle risorse collettive che
rappresentano i preliminari della funzione fiscale dello Stato.
In relazione all’antichità si pone il problema delle fonti, ma sull’esercizio della
funzione fiscale vi sono numerose e ricorrenti notizie tratte da documenti antichi
il che ci consente di comprendere il ruolo rilevante della funzione fiscale anche
in questi popoli.
Lo schema ricorrente della fiscalità nelle comunità antiche è individuabile nella
determinazione dei tributi posti a carico delle popolazioni assoggettate a seguito
di guerre. Si trattava, principalmente, di prestazioni in natura prelevate dalle
attività economiche svolte nei territori occupati.
Sovente, insieme ai tributi si mischiavano oggetti di valore che erano donati dalle
autorità locali allo Stato vincitore come forma di ringraziamento o di deferenza.
Dunque, la nozione di tributo ricomprendeva non solo prestazioni obbligatorie
ma anche liberalità.
Non rilevante, invece, il peso dei contributi pagati al sovrano per l’uso di bene,
ad es. i terreni, in quanto si trattava di beni di appartenenza del sovrano stesso.
Alla logica della finanza propria del sovrano può, però, collegarsi la pratica dei
doni che gli oligarchi portavano al monarca (ad es. nelle città elleniche): si
trattava di donazioni remuneratorie che compensavano il sovrano degli anni e
oneri sostenuti nell’interesse comune. Si trattava di contribuzioni che avevano
una natura morale e personale, non giuridica.
Ruolo centrale nella finanza pubblica era assunto dal «tesoro del sovrano»,
frutto della politica di accumulazione di metalli preziosi a seguito del bottino di
guerra o dei doni dei popoli sottomessi e, in un momento successivo, dei tributi
versati dai sudditi. Fintantoché il tesoro del sovrano rimase integro, il potere
dello Stato nei confronti delle varie articolazioni territoriali era consolidato;
quando tale potere cominciò a perdere consistenza, i potenti locali persero la
dipendenza dal potere sovrano.
Il fenomeno tributario nell’antichità era regolato mediante atti di mero esercizio
del potere sovrano: l’istituzione e la modificazione del tributo avvenivano in
base a una decisione unilaterale del sovrano senza alcuna composizione degli
interessi collettivi. Il tributo era l’espressione del potere incondizionato del
sovrano ed era collegato al dominio assoluto sui sudditi.
2. La funzione fiscale in Mesopotamia
In Mesopotamia, l’economia di carattere agrario richiedeva un’organizzazione
di tipo collettivistico per garantire la realizzazione e la manutenzione delle
infrastrutture necessarie per l’irrigazione e la tenuta dei campi.: la supremazia
del monarca era basata sulla capacità di assicurare soluzioni tecniche ai problemi
di sistemazione delle acque. L'esigenza di costruire e mantenere dighe e canali
caratterizzò le monarchie di Babilonesi e Assiri, le quali chiedevano tali corvées
al popolo e alle popolazioni conquistate. Infatti, l’obbligo di prestare un servizio
al sovrano era indissolubilmente legato alla terra: il diritto di proprietà venne
qualificato come un diritto relativo tale per cui sorgeva un obbligo di prestare
lavoro per i bisogni della collettività. Successivamente, si diffuse il meccanismo
dell’appalto delle imposte: per assicurare stabilità alle entrate dello Stato,
l’appaltatore assumeva il pagamento del tributo e veniva ripagato dai
contribuenti con altri prodotti in misura maggiore (sul piano giuridico questo
fenomeno non è adeguatamente conosciuto).
Dunque, il fabbisogno dello Stato era garantito da corvées e tributi in natura. Le
prestazioni lavorative erano richieste sia ai cittadini sia alle popolazioni
conquistate, ma si prevedevano immunità e privilegi per i cittadini. Le principali
prestazioni lavorative riguardavano la costruzione e manutenzione di dighe e
canali, ma potevano anche estendersi ad opere religiose. Per gli uomini in età
adeguata si prevedeva l’obbligo del servizio militare, tutti coloro che non
potevano prestare tale servizio, incluse le donne, dovevano pagare un’imposta
personale che sostituiva la prestazione del servizio militare.
I tributi riguardavano la proprietà dei terreni ed erano pagati in grano
direttamente alle casse dello Stato; successivamente, anche i templi, avendo
diritti proprietari sui fondi, potevano raccogliere tributi. Vi erano anche tributi
sul commercio di alcuni prodotti e sull’allevamento.
Il sovrano controllava l’esazione dei tributi prestando attenzione al rispetto degli
stessi da parte dei contribuenti nei vari anni. L'organizzazione amministrativa
era articolata sul territorio secondo un’articolazione in 20 distretti, ognuno dei
quali aveva un proprio governo locale ed era responsabile dell’esazione dei
tributi.
3. Il potere tributario in Egitto nell’epoca dei faraoni
L'antico Egitto era un paese ad economia agricola e l’organizzazione dello Stato
era funzionale alla gestione del territorio: vi era un forte apparato burocratico e
la popolazione era reclutata al fine di realizzare e conservare le opere idrauliche.
L’individuo si presenza come un servitore dello Stato e del faraone e il suo
rapporto con lo Stato si configura secondo una formula fiscale per cui chiunque
possiede un terreno o svolge un’attività economica deve effettuare una
prestazione a favore delle casse pubbliche (imposte fondiarie o imposte sui
prodotti dell’attività); tutti gli altri abitanti devono fornire prestazioni di lavoro
per i bisogni collettivi.
La ragione fiscale è elemento fondante delle istituzioni e dei rapporti sociali.
Per quanto concerne le entrate tributarie, dal Nuovo Regno, la maggior parte
delle entrate per lo Stato era rappresentata dalle tasse. Enormi tasse annuali
ricadevano su coloro che svolgevano attività economiche: lavoro significava
anche tassa. I contribuenti versavano la prestazione in natura alle istituzioni
presenti a livello locale, le quali, trattenuta una parte per sé, riversavano tali
risorse alle casse dello Stato. La tassa più importante era quella sul raccolto,
fissata nella metà del raccolto: ogni anno si misurava la capacità contributiva del
terreno su cui commisurare la tassa. Vi era poi la tassa sul bestiame fondata sul
censimento delle greggi. Questi tributi erano indicati in appositi registri delle
tasse che contenevano i risultati del censimento. Si prevedevano anche tasse
sulla produzione e sulla vendita di beni di consumo e tasse sulla caccia, da pagare
in selvaggina.
Non esistevano immunità per classi sociali: l’onere tributario era generalizzato e
l’inadempimento era penalizzato anche con misure personali.
Inoltre, sin dall’Antico Regno, si prevedeva in capo ai sudditi l’obbligo di prestare
corvées lavorative sia per realizzare e conservare le opere idriche sia per i
progetti monumentali del faraone. Si affermarono anche prestazioni
obbligatorie di coltivazione del suolo per conto del faraone: il diritto alla terra
era il corrispettivo dell’obbligo di prestare lavoro verso il faraone. Queste
prestazioni erano distribuite fra i vari membri della comunità dal nomarca, un
funzionario statale. Nel Medio Regno, si formarono comunità feudali governate
da aristocratici che prelevavano direttamente le corvées al posto del faraone.
L'organizzazione amministrativa era parzialmente decentralizzata. Il visir,
cancelliere del re, sovrintendeva gli affari politici ed economici del regno e
gestiva la ricchezza dello Stato (successivamente, si sono previsti due visir). Il
dipartimento governativo più importante era il dipartimento del tesoro, che
svolgeva funzioni di controllo contabile. A capo del dipartimento del tesoro vi
erano due ispettori che collaboravano con i due visir. Vi erano poi altre strutture
amministrative quali l’ufficio centrale dei grani e del bestiame. I nomarchi erano
funzionari locali che si occupavano dell’adempimento degli obblighi fiscali ed era
prevista una responsabilità solidale dei nomarchi per il gettito atteso da ciascuna
unità in base al catasto.
Per garantire la reperibilità a fini fiscali ogni abitante del regno doveva iscrivere
la propria residenza presso un registro ufficiale e se non si adempieva era
prevista una sanzione.
4. La finanza pubblica in Grecia
Nella Grecia antica e nell’esperienza delle città-Stato mancava una disciplina
della finanza pubblica e mancava anche un’amministrazione finanziaria. Le
entrate dipendevano da meccanismi estemporanei di carattere predatorio
(bottini di guerra) o da forme di contribuzione liberale. In via episodica erano
previste contribuzioni sotto forma di prestazioni di lavoro connesse ad opere
straordinarie. Anche l’esercito strutturato e stabile era fondato su corvées a
carico della popolazione.
Ad Atene, la politica finanziaria della città era rimessa alle decisioni
dell’assemblea e regolata dal consiglio. Le entrate confluivano nel tesoro di
Athena, un fondo utilizzabile in casi di emergenza. Non si prevedano,
stabilmente, imposte dirette sulla popolazione: in via straordinaria, imposte
dirette vennero previste per finanziare l’attività bellica durante la Guerra del
Peloponneso contro Sparta. In tal caso, venne introdotta una tassa patrimoniale
di carattere progressivo, denominata eisphora, che assoggettava a tassazione i
cittadini in misura crescente in relazione all’aumentare del patrimonio. Il
provvedimento normativo che introdusse tale imposta aveva un carattere di
assoluta eccezionalità e si prevedeva una procedura speciale anche solo per la
presentazione della proposta di eisphora.
Successivamente, il sistema dell’esphora venne modificato con l’introduzione
del meccanismo delle simmorie: i contribuenti venneo classificati in base al
patrimonio personale in 20 classi omogenee per censo (denominate simmorie)
e il capo di ogni simmoria raccoglieva l'importo complessivo per versarlo alle
casse statali. Il prelievo rimaneva eccezionale ma veniva ripartito sui cittadini in
base alla capacità economica.
Un'imposta diretta era, invece, prevista per gli starnieri residenti, ovvero i
meteci.
Molto utilizzate erano invece le imposte indirette, ad es. i dazi sulle importazioni
o esportazioni, le imposte sui mercati.
La maggior parte delle entrate pubbliche derivava, però, da fonti non tributarie
quali le ammende, i proventi della vendita dei beni sequestrati, i contributi
ricevuti dagli alleati.
Inoltre, alcune spese di interesse pubblico erano sostenute direttamente da
alcune categorie di cittadini, ad es. il gymnasiacha funzionale al sostenimento
delle competizioni atletiche. Si trattava di prestazioni, definite liturgie,
inizialmente volontarie e libere poi trasformate in meccanismi di finanziamento
permanente dei bisogni collettivi richiesti ai cittadini appartenenti a categorie
privilegiate.
Durante la guerra contro la Persia, si formò una lega di città-Stato che
riconoscevano in Atene il ruolo di guida: le città-Stato versavano dei contributi,
definiti phoroi, in una cassa comune tenuta, prima presso il tempio di Apollo a
Delo e successivamente ad Atene presso il tempio di Atena. Sull'acropoli di
Atene erano erette stele di pieta in cui venivano registrati i contributi versati alla
cassa comune: erano le liste dei tributi. Si trattava di contributi in natura, navi e
forze militari, o di prestazioni in denaro. Inizialmente, si trattava di contributi su
base volontaria; successivamente, Atene chiese contribuzioni di carattere
obbligatorio sempre maggiori. Questo modello di contributi versati da città-
Stato in favore di Atene venne replicato anche per altre esigenze, soprattutto
religiose (ad es. si chiedeva un contributo annuale per l’organizzazione di feste
in onore di Dionisio).
Il pagamento dei contributi dalle città-Stato venne considerato espressione del
ruolo dominante di Atene.
Per quanto riguarda il pensiero filosofico, questo si è poco interessati della
fiscalità. Secondo Platone, la fiscalità deve avere una finalità redistributiva in
quanto la diseguaglianza delle condizioni economiche è il principale ostacolo per
raggiungere un assetto pacifico. Dunque, colui che accumula un livello di
ricchezza che eccede di quattro volte il livello di ricchezza base, ovvero il censo,
deve rimettere allo Stato l’eccedenza. Secondo Aristotele, invece, si ispira alla
promozione del merito che consente l’accumulazione delle ricchezze. Egli ritiene
che tali riserve possono essere usate dallo Stato per sopperire a esigenze
finanziarie improvvise, per cui la fiscalità è uno strumento per accrescere il
potere dello Stato.
Verso la metà del IV sec. a.C., la finanza pubblica venne intesa come un bisogno
comune da assolvere costantemente. Ad Atene si istituì una cassa centrale dello
Stato in cui confluivano tutte le somme in eccedenza accumulate. Tale cassa era
amministrata da un collegio di magistrati eletti dall’assemblea ogni 4 anno.
Con la vittoria di Filippo il Macedone e l’espansione di Alessandro il Grande, i
modelli ellenistici si svilupparono su tutto il Mediterraneo: la visione
centralistica delle monarchie orientali venne sostituita da un assetto
istituzionale che guardava alle aggregazioni urbane come centro di sviluppo
delle iniziative economiche. I tesori dei re persiani furono distribuiti come
donativi all’esercito macedone ed ai suoi seguaci e i tributi corrisposti dalle
satrapie persiane vennero dati all’Impero macedone. Alessandro affidò il
controllo in materia fiscale a sopraintendenti di sua nomina: i tributi venivano
versati direttamente ai soprintendenti. I tributi consistevano sia in prestazioni in
natura sia in tributi in denaro.
5. La fiscalità della dinastia Tolemaica e dei Seleucidi
Il regno dei Lagidi, o dinastia dei Tolomei, subentrò nel controllo di molti territori
appartenenti al vecchio Impero persiano. I Tolomei si consideravano successori
di Alessandro e gli eredi dei faraoni, per cui mantennero la tradizionale visione
egizia del potere sovrano su tutti i territori imperiali: il diritto alla terra era
riferito direttamente al sovrano che la concedeva in uso ai sudditi.
Il tesoro del re era stato dissipato dai re macedoni, ma vi era un ingente gettito
fiscale. L'organizzazione delle finanze era impostata su una base gerarchica: al
vertice vi era un ministro, denominato amministratore, che presiedeva alla
direzione della politica finanziaria del paese. Vi era una serie articolata di
prestazioni fiscali, ad es. le imposte fondiarie, le imposte sulle attività
economiche, i dazi sui prodotti. Il metodo di esazione riprendeva il modello
greco: gli appaltatori anticipavano il contributo e poi agivano per recuperarlo dai
sudditi.
Rispetto alla tradizione dell’epoca faraonica, si fece ricorso in modo sistematico
al pagamento in denaro degli obblighi fiscali, per cui le prestazioni pecuniarie
andarono a sostituire i tributi in natura e le corvées, per cui si procedeva alla
stima del valore della prestazione in natura e alla trasformazione in valore
monetario. Ogni patrimonio personale era registrato e classificato e il singolo
detentore doveva pagare una certa prestazione in denaro: il suddito era legato
alla comunità di origine ed era registrato presso di questa e non poteva
trasferirsi in altre località.
Come conseguenza del pagamento in denaro si estese la responsabilità solidale
ai cittadini più facoltosi i quali, secondo il principio della liturgia, garantivano il
pagamento del tributo con i propri patrimoni personali. La riscossione delle
imposte in denaro era curata direttamente dallo Stato, il quale richiedeva la
garanzia dell’appaltatore delle imposte. Quest'ultimo non doveva anticipare
l’intero tributo, ma soltanto garantire il raggiungimento di un risultato minimo
consentendo il rispetto delle previsioni di bilancio.
L'acquisizione di consistenti e stabili flussi di denaro in entrata consentì allo
Stato di modificare la propria politica di investimento in ragione della maggiore
capacità di spesa: il ricorso all’economia monetaria comportò un intervento
sempre più invasivo dello Stato nelle iniziative economiche andando a costituire
monopoli pubblici che riducevano il margine di profitto delle iniziative private.
Il regno dei Seleucidi si affermò a seguito della dissoluzione dell’Impero
ellenistico grazie al collegamento ereditario con Alessandro il Grande. Il modello
fiscale era derivato dalla tradizione ellenistica: il potere tributario veniva
esercitato con l’editto dell’imperatore che esprimeva la volontà dello Stato. La
gestione fiscale era caratterizzata da discrezionalità: il re concedeva esenzioni
alle categorie sociali che riteneva meritevoli. Molta importanza venne data
all’organizzazione dell’apparato amministrativo chiamato ad incassare i tributi.
Le imposte erano varie, ad es. le imposte sui commerci, sugli schiavi, sulla
vendita di beni.
6. Il potere tributario nell’esperienza di Roma in età repubblicana
Nella prima fase storica, il ruolo del prelievo fiscale era residuale, si ricorreva
piuttosto ad una finanza di tipo predatorio costituita dai bottini di guerra.
Nella struttura originaria di Roma vi erano clan patrizi che godevano di una
dominanza economica e politica grazie alla proprietà di vasti appezzamenti di
terreni. Vi erano poi i clientes, i quali ottenevano protezione dal signore in
cambio di corvées e tributi in natura. La comunità cittadina era composta da tre
tribù articolate in 10 curie al fine di distribuire gli obblighi pubblici tra i cittadini.
Talli obblighi riguardavano le prestazioni necessarie a sostenere l’esercito. Con
il consolidarsi della città-Stato aumentò l’ager publicus con graduale
dissoluzione delle terre gentilizie, di conseguenza i proventi della terra vennero
acquistai dalla casse pubbliche. Con Servio Tullio si stabilì un’imposta
commisurata al patrimonio (tributum ex censu) determinato in base al
censimento: questa imposta era stabilita dal re saltuariamente per assicurare le
spese pubbliche impreviste e veniva riscossa tramite le tribù.
Con la trasformazione avvenuta in età repubblicana, perde importanza la
clientela e tali individui confluiscono nella plebe. La principale entrata per lo
Stato era il canone pagato per lo sfruttamento dei vari ben immobili di proprietà
pubblica e che riguardava terreni, pascoli, boschi, terme, fiumi. Inoltre, ogni
tribù doveva pagare un tributo in favore della città per finalità belliche e la cui
riscossione era devoluta a funzionari cittadini, ovvero i tribuni aerari. Si
prevedeva una distinzione fra cittadini (tribules) aventi il possesso della terra,
che erano chiamati al servizio presso l’esercito, e cittadini (aerarii) che non
avevano proprietà terriera e non potevano fornire servizio militare e quindi
erano tenuti al pagamento di un tributo in denaro. Nell'età repubblicana si ebbe
un’espansione territoriale di Roma e al nemico sconfitto si requisiva almeno un
terzo dei sui territori da spartire in favore dei militari e dell’oligarchia
dominante.
Per garantire la difesa dei territori conquistati e l’ulteriore espansione si
prevedeva l’esazione di tributi a carico dei popoli vinti: le province erano i
principali tributari della finanza pubblica.
Nell'età repubblicana, la terra costituisce la maggiore formai di ricchezza e la
principale componente della distribuzione delle funzioni pubbliche e della
tassazione. Il tributum di origine monarchica venne ripristinato a carico dei
titolari di proprietà fondiaria. La tassazione venne introdotta durante la Guerra
di Veio per il mantenimento dell’esercito professionale (stipendium) e questo
prelievo era previsto in parte secondo una quota fissa e in parte secondo una
quota variabile. Inizialmente, si doveva trattare di un’imposta occasionale, ma
poi divenne stabile. A fronte di proteste, il Senato decise di ottenere entrate da
fronti diversi rispetto allo stipendium e quindi si escluse l’imposta fondiaria sulla
proprietà terriera.
Per quanto concerne i tributi indiretti, questi erano rari e marginali, destinati a
perseguire obiettivi sociali più che garantire un flusso di risorse finanziarie per
l’erario. Ad esempio si prevedeva un’imposta pari al 5% del valore dello schiavo
per la manomissione dello schiavo stesso, per scoraggiare l’affrancamento dello
schiavo; si prevedevano dazi e pedaggi.
Si impose anche un modello di fiscalità delocalizzata nel quale i territori
assoggettati erano sottoposti a tassazione. Il fondamento del prelievo era
l’indennità di guerra o il corrispettivo per la sovranità dominante. Facendo
riferimento al sistema produttivo e alle condizioni politiche e sociali di ogni
territorio, Roma per ogni provincia stabiliva un modello impositivo: questa
flessibilità del potere tributario fu uno degli elementi del successo della politica
romana di colonizzazione. La tassazione delle province era articolata secondo
una tripartizione:
- Civites liberae et immunes, si trattava di città che avevano stipulato
alleanze giurate con Roma, ad es. Atene e Rodi. Non pagavano oneri fiscali
ordianari, ma partecipavano alla contribuzione di emergenza. In alcuni
casi si prevedeva l’ager publicus e quindi il suo uso presupponeva il
pagamento di un tributo;
- Civitates stipendiariae, chiamate a versare lo stipendium, un tributo la cui
misura era definita in base ai rapporti successivi alla conquista;
- Civitates soggette al tributum, (ad es. Sicilia) in cui si applicava
l’imposizione fondiaria pari a un decimo del prodotto lordo.
I tributi richiesti riguardavano l’uso di beni immobili: si ricorreva al tributum soli
nel caso di fondi e terreni agricoli e al tributum capitis per gli altri beni immobili.
Per la ricostruzione della base imponibile si ricorreva al censimento.
La riscossione dei tributi era affidata ad appaltatori privati: l’appalto veniva
attribuito a soggetti dotati di un consistente patrimonio che potesse fornire
un’adeguata garanzia per lo Stato e gli appaltatori poi potevano agire sui
contribuenti senza alcun controllo esterno. La condizione giuridica per l’appalto
limitava l’accesso a tale struttura costituendo un ceto capitalistico.
7. Il potere tributario del sovrano in epoca imperiale a Roma
Con l’avvento dell’impero si trasforma la finanza pubblica di Roma, in quanto la
crescita amministrativa e militare prodotta dallo sviluppo dello Stato romano
impone flussi di entrate stabili e consistenti. La capacità economica si esprime
in commerci e traffici internazionali e anche le prestazioni tributarie si
modificano di conseguenza. La finanza predatoria assume un rilievo sempre
maggiore: i proventi di una guerra vengono utilizzati per sostenere altre guerre.
Vi è anche un incremento della tassazione sulle province, sempre secondo il
meccanismo per cui i tributi sono calibrati sulle abitudini del paese. È con l’editto
di Caracalla (212 d.C.) che scompare la distinzione nella tassazione fra territori
italici e provinciali, comportando però una distinzione fra categorie sociali.
Con Ottaviano Augusto si riforma la fiscalità ponendo le basi per la finanza
pubblica dell’età imperiale. Per quanto riguardava l’imposizione fondiaria, si
ricorse a catasti che consentivano di stimare la produttività del terreno. Si
istituirono imposte personali in denaro riferite ai beni immobili impiegate nelle
attività economiche di artigiani e commercianti; a tal fine si predispose un
censimento per assicurare conoscenza delle attività economiche nelle province.
Per i cittadini romani, si predisposero delle imposte indirette sulle transazioni
commerciali, sulle successioni ereditarie e sul valore degli schiavi. Vennero
mantenuti anche i dazi doganali.
Per la riscossione delle imposte, si ricorreva all’appalto solo per pochi tributi,
mentre i principali tributi erano affidati alle amministrazioni locali: nelle
province imperiali la riscossione era affidata a procuratori dell’imperatore
mentre nelle province senatorie la riscossione era affidata a questori di nomina
del Senato.
Accanto alla tradizionale cassa finanziaria costituita dall’aerarum Populi (a cui
venivano assegnate le entrate di competenza del Senato, ovvero lo stipendium),
venne istituito il fiscus che fungeva da cassa per i proventi spettanti al princeps,
ovvero le imposte indirette e il tributum (=i proventi delle province tributarie).
Questo fondo era usato per gli interventi finanziari decisi direttamente dal
princeps. In questo modo si assegnava autonomia finanziaria sia al Senato che
all’imperatore, ma si riconosceva la predominanza del princeps il quale aveva il
diritto di votare le leggi finanziarie relative all’aerarium.
Successivamente, la distinzione fra i due fondi svanì e l’aerarium venne
ricompreso nel fiscus. Il potere di imporre tributi, quindi, venne collegato alla
sfera patrimoniale del sovrano come se si trattasse di risorse finanziarie
spettanti alla sua persona. Si affermava un’idea di sovranità che si saldava
intorno alla figura dell’imperatore e, quindi, la legittimazione del sistema
finanziario e di governo discendeva direttamente dall’imperatore.
Grazie all’apporto dei giureconsulti e all’esigenza di stabilire forme di garanzia
per le posizioni dei contribuenti si affermò che le controversie relative alla
riscossione dei tributi dovessero essere affidate alla competenza dei tribunali
per le vicende dei privati, nonostante i procuratori provinciali ritenevano che si
trattasse di vicende pubblicistiche. Il ruolo dei giuristi venne formalizzato da
Adriano che istituì l’advocatus fisci, il quale rappresentava l’interesse
dell’amministrazione finanziaria nei rapporti con i privati anche in sede
contenziosa.
Dopo un primo periodo di espansione territoriale, l’economia mostrò una
flessione negativa: gli scambi commerciali regredivano e la proprietà terriera
diveniva meno proficua e i proprietari terrieri tendevano a produrre per il
proprio fabbisogno non per il mercato. Si avviò una fuga dalle città e l’oligarchia
economica si posizionò nelle campagne. Inoltre, i costi dell’apparato burocratico
erano sempre più ingenti, così come gli oneri della difesa militare dei confini.
Iniziavano a mancare le risorse finanziarie per il sostentamento dell’Impero. La
reazione più frequente degli imperatori era quella di istituire tassazioni
straordinarie sulle province e di avviare forme sempre più rigorose di esazione
dei tributi ordinari. Inoltre, si perseguì una politica di uscita dall’economia
monetaria ripristinando l’obbligo del servizio militare e predisponendo
prestazioni in natura in luogo di tributi. In questo modo lo Stato fa fronte alle
proprie esigenze ricorrendo ai mezzi ritratti dalle risorse proprie e non al
mercato.
Comunque sia, elemento qualificante della fiscalità dell’Impero romano è il
carattere discriminatorio della prestazione tributaria, in quanto si prevedeva
l’esenzione dei cittadini romani da ogni prelievo fiscale. Ciò faceva sì che la
libertà venisse ricostruita intorno all’intangibilità del patrimonio e che il tributo
fosse ricondotto ad un «marchio di servitù». Questa percezione negativa non
venne rimossa neanche con la parificazione tra cittadini romani e cittadini delle
province con l’editto di Caracalla (212 d.C.).
Dinanzi a questa crisi economica dell’Impero si doveva revisionare il sistema dei
tributi e delle entrate erariali anche tramite una modifica delle abitudini.
Diocleziano realizzò un’importante riforma fiscale che trasformava le
consuetudini stratificate nel tempo: il sistema istituito da Diocleziano combinava
le caratteristiche dell’imposta personale e dell’imposta reale. Il territorio
imperiale venne ripartito in juga, ovvero fondi, e il bestiame e i lavoratori erano
considerate pertinenze del territorio. Ogni individuo (caput) doveva pagare un
tributo per ogni jugum, ovvero al fondo, da questo detenuto: il tributo era
fissato con riferimento al fondo indipendentemente dal suo titolare e si
trasmetteva all’avente causa. Ogni anno si determinava l’ammontare
dell’imposta tenendo conto della fertilità del terreno e delle necessità del
momento. I singoli cittadini dovevano presentare un’autodichiarazione dei beni
patrimoniali posseduti e l’accertamento avveniva da parte di agenti sulla base
del censimento e la riscossione era curata da funzionari imperiali. L'imposta era
obbligatoria e confluiva in due casse con finalità specifiche: l’annona civica per
il sostentamento delle città imperiali e l’annona militaris per il mantenimento
dell’esercito. L'obbligazione poteva essere adempiuta sia in denaro che in
natura, ma la preferenza era per il pagamento in natura. Nel procedimento di
imposizione vennero coinvolte le istituzioni comunitarie locali, infatti l’importo
fiscale complessivo da incassare era ripartito da ciascuna prefettura tra le
singole province, la quale doveva calcolare la quota di tributo dovuta.
Il sistema della jugatio-capitatio incrementò le entrate fiscali dello Stato sia per
l’ampliamento della base imponibile sia per l’efficacia della tecnica di
accertamento e di esazione. Effetto negativo, però, fu la limitazione della
capacità di produzione. Inoltre, questo sistema non rispondeva ad esigenze
solidaristiche di distribuzione del carico fiscale fra i consociati, anzi reiterò le
distinzioni fra classi sociali.
La pesantezza del prelievo fiscale dato da questo sistema continuato anche dagli
imperatori successivi comportò l’abbandono dei terreni da parte dei contadini
al fine di sottrarsi agli obblighi fiscali. Costantino, quindi, assegnò le terre incolte
alle curie e dispose l’asservimento del contadino alla terra e l’ereditarietà di tale
obbligo. Venne istituita la categoria dei coloni, i quali rispondevano
direttamente allo Stato della propria quota di tributo. Questo fenomeno venne
esteso anche alle corporazioni professionali che fornivano prestazioni personali
in favore dello Stato. Il colonato e l’ereditarietà della funzione sono la premessa
del fenomeno dei contadini e artigiani dell’epoca feudale, asserviti al territorio
del signore.
Vennero, inoltre, introdotte numerose nuove imposte, ad es. le munera ovvero
le prestazioni funzionali ad esigenze pubbliche, e si mantennero in vita le
imposte indirette. È da tenere in considerazione che l’esazione delle tasse era
affidata a funzionari imperiali che mostravano un levato livello di arbitrarietà.
Teodosio, invece, per limitare l’abbandono delle terre accorpò le terre incolte
alle terre fertili più prossime.
8. Il potere tributario nell’antichità
Dall'esame comparato delle civiltà antiche emergono alcuni elementi comuni.
Le forme di aggregazione umana si uniscono in organizzazioni sociali più ampie
che formano la Grande Comunità, all’interno delle quali si sviluppa un concetto
di ordine collettivo funzionale a perseguire un bene comune. Le comunità minori
di origine tribale, ovvero le Buone Società, esprimono il gruppo dirigente della
Grande Comunità. Quest'ultima chiede alle Buone Società di fornire un
contributo, prima in natura e poi in denaro, al bene comune, ma la principale
fonte di approvvigionamento è il bottino di guerra. Si definisce un assetto del
gruppo ispirato al principio della divisione del lavoro: ogni individuo, pur nella
diversità della funzione sociale partecipa al perseguimento del bene del gruppo.
Si definisce un ordine di gruppo ne quale si inserisce l’individuo, il quale, quindi,
è soggetto al Logos in quanto simboli rituali e autorità regolano i comportamenti
dei membri del gruppo.
Le due grandezze collettive si rapportano secondo una logica cooperativa: la
Buona Società (la tribù, la classe sociale) è la prima forma di associazione in cui
si costruisce l’identità dell’individuo: la Buona Società si presenta come
paradigma di vita nel quale si definisce l’Io. La Grande Comunità (lo Stato) è il
garante del percorso evolutivo che assicura protezione e quindi richiede
cooperazione e asservimento da parte della Buona Società.
Nei sistemi fiscali dell’antichità, il fenomeno tributario assume una posizione
recessiva nell’ambito della finanza pubblica. Rilevante è la finanza predatoria,
mentre la fiscalità ordinaria è ristretta a fattispecie limitate di tributi indiretti.
Per quanto riguarda le imposte dirette queste erano chieste in situazioni di
emergenza nazionale. Il tributo diventa, quindi, espressione di una situazione di
soggezione politica e porta il «marchio di servitù».
In questo assetto di fiscalità, la posizione del sovrano in ordine ai tributi
consisteva in un potere di signoria assoluto cui corrispondeva una situazione di
totale soggezione dei contribuenti. Il sovrano era titolare di un potere illimitato
di richiede tributi ai sudditi, si trattava di una facoltà insindacabile e soltanto un
senso di benevolenza del sovrano o le reazioni della prassi giurisprudenziale
costituivano un freno all’incondizionato esercizio del potere tributario.
In questo contesto non si sviluppa un’idea di interesse fiscale dello Stato come
valore normativo protetto in contrapposizione ad altri valori normativi difensivi
della sfera individuale dei sudditi.
Il dominio fiscale del sovrano comporta come corollario la mancanza di una
struttura giuridica che si ponga a tutela delle situazioni giuridiche dei
contribuenti. Solo in alcune situazioni marginali viene usata la legge come
istituto giuridico di esercizio del potere tributario con fissazione dei diritti dei
contribuenti e, quindi, solo in queste situazioni viene utilizzata la tutela
giudiziaria.
Il dominio fiscale, dunque, nell’antichità esclude la formazione di un corpus
strutturato di regole di diritto che possa disciplinare il fenomeno tributario. Il
potere tributario si impone a prescindere dall’esistenza di un diritto fiscale.
La struttura tipica del prelievo fiscale nell’antichità, inoltre, rende evidente il
ruolo decisivo dell’oligarchia dominante rispetto all’esercizio del potere
tributario: il ricorso alla fiscalità predatoria si concilia con l’atteggiamento
espansionistico dell’oligarchia dominante e l’esclusione dei cittadini dalle
imposte dirette rafforza il gruppo di persone riferibili all’area di governo. Le
scelte di finanza pubblica sono funzionali a preservare il potere sociale ed
economico della classe dominante.
Infine, poiché il tributo porta un «marchio di odiosità» che si connette alla logica
di discriminazione sociale ed economica di alcuni gruppi rispetto a quelli
dell’oligarchia, l’esercizio del potere tributario porta a forme di diseguaglianze
sociali ed economiche tra gli individui della Grande Comunità. La disparità di
trattamento riguarda un elemento oggettivo della persona, solitamente
l’appartenenza etnica ad una popolazione sottomessa. Il tema della giustizia
(che riguarda la relazione fra l’uomo e Dio) è estraneo all’esercizio del potere
tributario.
Capitolo terzo: Il potere tributario nell’epoca intermedia
1. La funzione fiscale nell’Alto Medio Evo
La tradizione fiscale correlata all’Impero romano si perpetua, in un primo
momento, nelle popolazioni germaniche che avevano invaso i territori imperiali.
Queste popolazioni erano prive di un sistema tributario applicabile a dimensioni
elevate e recepirono i modelli tributari imperiali. La continuità con gli istituti
tributari imperiali riguarda soprattutto l’esazione del contributo fondiario e
personale tramite registri contenenti censimenti pro capite e canoni individuali.
In questo periodo, vi è confusione del patrimonio del sovrano con le casse della
comunità statale, il che porta alla commistione tra diritto pubblico e diritto
privato nella gestione della finanza dello Stato.
Comunque sia, a seguito della caduta di Roma, vi fu anche la crisi fiscale dello
Stato a causa del calo demografico, del mancato aggiornamento dei registri
fiscali e della riduzione delle entrate doganali. La funzione fiscale attenuò il suo
carattere di base di funzionamento della potenza dello Stato. Inoltre, gli ultimi
imperatori smisero di imporre tasse (che avevano indotto i contribuenti ad
abbandonare terre ed attività economiche per sottrarsi agli obblighi fiscali)
incentrando la propria politica economica sul possesso della terra che venne
acquisita al patrimonio personale dell’imperatore. Ciò fece sì che importanti
ricchezze si formarono intorno a chiese e monasteri tanto che un terzo del
territorio di Francia e Italia era di proprietà ecclesiastica.
I popoli barbari, quindi, mantennero in vita il sistema tributario romano e si
consolidò l’idea che la funzione fiscale ha un carattere trascendente che si
mantiene oltre la morte del sovrano in quanto connessa alla sovranità e alla
continuità del potere dello Stato sulla comunità. Il sistema tributario era quello
istituito da Diocleziano, basato su un’imposta fondiaria calcolata sull’estensione
e fertilità dei fondi e imposte sui mercanti ed artigiani. Per evitare «la fuga dalla
terra», erano previsti metodi coercitivi che vincolavano i contadini, ovvero il
colonato. Si prevedevano anche numerose imposte indirette, quali dazi doganali
e pedaggi che erano destinate al tesoro del re; venivano riscosse in denaro e la
riscossione era affidata a funzionari di nomina reale, ovvero i telonearii.
I proventi della tassazione si mantennero cospicui e si ponevano alla base del
funzionamento dello Stato in quanto consentivano il pagamento degli stipendi
dell’esercito. La tassazione assunse, però, anche aspetti di iniquità e si
comportava come un’invasione costante della vita dei sudditi.
Nell'epoca dei re carolingi, la crisi fiscale dello Stato si consolida e il potere
tributario si elide. La recessione del sistema produttivo e la delocalizzazione dei
centri politici decisionali nel contesto feudale porta alla diffusione del
vassallaggio e dei rapporti di fedeltà. Il sistema fiscale di origine romana cadde
in disuso e fu sostituito dalla finanza propria del sovrano: il re era titolare di
enormi latifondi che venivano concessi a potenti locali dietro pagamento di
canoni demaniali. Le imposte fondiarie romane si erano trasformate in oneri
reali, denominati censi, dovuti dai possessori di terreni. I possedimenti
ecclesiastici dovevano versare a favore della curia la decima e a favore del re un
contributo determinato di volta in volta in base alle esigenze: il patrimonio
ecclesiastico venne considerato una sorta di patrimonio aggiunto del sovrano.
Si prevedevano, poi, alcune imposte indirette come ad es. i dazi in ingresso e
uscita dalle città o le tasse sui contratti.
Le entrate erano molto superiori alle uscite in quanto il re doveva sostenere solo
le spese della sua corte e del suo esercito personale, mentre molte funzioni di
interesse collettivo erano affidate ai feudatari. Le comunità intermedie o minori
si presentavano come centri autosufficienti in cui i sudditi si articolavano
secondo un ordine gerarchico basato sulle differenze di status.
Questa disintegrazione dei poteri pubblici a favore dei poteri privati portò
all’abdicazione dello Stato all’applicazione dei tributi. La dipendenza personale
che fondava la relazione feudale assunse caratteri privatistici essendo riferita ad
uno schema contrattuale. A partire dai re Carolingi, il sistema di finanza pubblica
si articolò intorno a due tipologie di rapporti:
- Relazione re-feudatari, per cui i feudatari versavano contributi a favore
del re in occasioni speciali, ad es. nozze, o straordinarie, ad es. guerre o
carestie. Si trattava di regalie o liberalità che si collegavano al concetto di
fidelitas che prevedeva, fra gli obblighi del feudatario, anche il dovere di
prestare servizio nell’esercito del sovrano;
- Relazione feudatari-sudditi, per cui i feudatari imponevano contributi
secondo valutazioni di opportunità e secondo esigenze contingenti. I
feudatari chiedevano, principalmente prestazioni personali e dazioni di
prodotti in natura, quali le corvées che avevano ad oggetto i prodotti
agricoli.
Si assiste alla disintegrazione dell’unità statale a favore della dislocazione della
sovranità in numerosi centri di potere, con conseguente attribuzione della
funzione tributaria: lo Stato, perdendo la funzione fiscale, diviene uno «Stato
senza imposte». Questo trasferimento di potestà impositiva, però, non riduce
la pressione tributaria sui consociati, anzi riduce i meccanismi di garanzia a
protezione dall’arbitrio nel potere, in quanto si afferma il potere assoluto del
feudatario. Si afferma, quindi, un nuovo concetto di libertà che fa riferimento
all’affrancamento dal carico fiscale.
In questo contesto di «Stato senza imposte», si afferma come unica prestazione
tributaria generale il fodrum. In origine, era una corvée richiesta ai sudditi per
la messa a disposizione di foraggio per l’esercito. Successivamente, esprimeva il
diritto all’ospitalità riservato all’imperatore nelle terre assoggettate, quindi
divenne un’imposta di carattere generale pagata in denaro a favore dello Stato.
Il fodrum era determinato con riguardo ai nuclei familiari individuat sulla base
dei rapporti di convivenza: la determinazione per focolare imponeva la
ricostruzione della ricchezza della famiglia. La ricchezza veniva individuata nei
beni immobili, di conseguenza il fodrum è la base storica dele imposte dirette
adottate poi in epoca comunale.
Il fodrum veniva riscossa dalle singole comunità e divenne la principale fonte di
entrate imperiali, ma generò aspre contese: Federico Barbarossa affermò che i
diritti feudali e le prestazioni patrimoniali spettavano all’imperatore, ma dopo
aver perso la guerra contro i comuni uniti nella Lega Lombarda riconobbe il
diritto dei comuni a richiedere i tributi ai propri cittadini.
Alle richieste del sovrano e di feudatari si aggiungeva la decima, un tributo
richiesto dalle autorità ecclesiastiche e il cui fondamento era l’appartenenza alla
comunità religiosa. La Chiesa, infatti, era titolare di un ingente patrimonio,
derivante dalle donazioni dei fedeli e la gestione di tale patrimonio comportava
che le porzioni dei terreni venissero affidate in coltivazione ai contadini i quali
dovevano corrispondere la «decima dominicale». Se le unità ecclesiastiche non
disponevano di un patrimonio specifico per la concessione potevano richiedere
un corrispettivo, ovvero la decima, per il mantenimento e il sostentamento della
curia.
Si affermò il convincimento che la decima fosse una prestazione patrimoniale
dovuta a fronte del potere di governo della Chiesa sulla comunità religiosa in
virtù della funzione universale della Chiesa. La decima era un tributo di
ammontare pari al 10% della produzione economica del contribuente e si
distinguevano due tipologie di decima: la decima prediale, applicata sulla
produzione agricola, e la decima personale, riguardava l’attività economica
svolta dal singolo contribuente. Il tributo era dovuto dai fedeli, eretici e
scomunicati, non dagli infedeli. Decime di carattere straordinario vennero
richieste dal Papa per esigenze universali della Chiesa, ad es. le crociate. Nel
tempo, tale tributo venne acquisito alla pertinenza dell’imperatore o dei signori
della zona facendo perdere la titolarità alla Chiesa.
Accanto alla scomparsa dello Stato come detentore della sovranità e della
potestà tributaria, si formano comunità e gruppi che hanno fini comuni di difesa
e di tutela rispetto all’esercizio del potere tributario: i rappresentanti delle
comunità si rapportavano con gli agenti delle imposte imperiali o comunali e
negoziavano il carico fiscale pe poi procedere alla riscossione delle imposte. In
questo ambito di «responsabilità comune» si crearono delle relazioni di
«solidarietà orizzontale» tra i membri della collettività per ricercare equi criteri
di riparto del carico fiscale, di «solidarietà provvisorie» che sorgevano fra
comunità sottoposte a pressioni fiscali gravose per formare alleanze per
resistere al potere pubblico, di «solidarietà verticale» fra i funzionari imperiali
o i signori locali e le comunità sottoposte per negoziare un diverso trattamento.
Queste relazioni erano improntate, comunque sia, alla prevalenza del potere del
soggetto più forte il quale declinava la solidarietà nella forma a lui più
vantaggiosa. Allo stesso tempo questo assetto solidaristico era espressione della
coscienza collettiva comunitaria del Medio Evo.
Nell'Impero d’Oriente, invece, anche nell’Alto Medio Evo la funzione fiscale
rimase salda al funzionamento dello Stato. Si adottò una fiscalità di derivazione
romana gestita attraverso un’articolata rete di uffici locali. Il tributo era
determinato con il sistema della jugatio-capitatio ed era assolto con prestazioni
in natura. La prosecuzione del sistema di tassazione romana fece sì che si
mantenne in vita l’asservimento alla terra mediante l’istituto del colonato, il che
produsse la «fuga dalla terra» dei piccoli contadini e l’assorbimento di tali terreni
nei grandi latifondi formando le grandi proprietà rurali. Nel corso del tempo, la
situazione finanziaria dell’Impero peggiorò e divenne necessario incrementare i
flussi delle entrate fiscali per difendersi dalle invasioni dei popoli islamici: si
estese l’asservimento alla terra e si cancellarono numerose esenzioni tributarie.
Con l’avvento dell’Islamismo e la conquista dell’Impero, si formò un terzo centro
di potere stabile nel Mediterraneo: si trattava di uno Stato teocratico ed
assoluto e la funzione fiscale doveva supportare i progetti di espansione. Si
prevedeva un’imposta che i popoli arabi sottomessi dovevano versare come
quota delle loro rendite o delle loro ricchezze, la contribuzione era discrezionale,
basata sul dialogo fra il fedele e Allah. Successivamente s stabilì un’imposta
anche a carico dei non mussulmani che venne strutturata prima come il tributo
richiesto ai popoli arabi e poi come un’imposta fondiaria indipendente dal credo
religioso in virtù del fatto che gli individui procedevano alla conversione solo per
essere esenti dall’imposta. Le imposte, inoltre, vennero canalizzate verso il
centro del califfato formando una rete amministrativa efficiente. Si
recuperarono sistemi tributari di derivazione romana, quali il censimento, per
cui il sistema fiscale dell’Impero romano venne mantenuto in funzionamento.
A partire dal X secolo, l’Impero arabo perse la sua centralità e si definirono
sovranità periferiche che assunsero autonomia di governo anche in ambito
fiscale.
Dunque, i sistemi politici ed istituzionali dell’Alto Medio Evo avevano delle
strutture comuni: la ricchezza e il potere erano basati sulla terra. Lo strumento
di finanziamento della signoria erano i proventi della terra: l’aristocrazia si
arricchiva sulla terra e sosteneva il sovrano mediante doni. Anche il rapporto
feudale era basato sulla concessione di terra per scopi economici o di sussistenza
familiare e vincolata a servizi da rendere al signore. La ricchezza e il potere erano
determinati da un assetto sociale oppressivo.
L’imposizione della ricchezza si imponeva mediante tasse o canoni di affitto: le
tasse erano raccolte dagli Stati che avevano ereditato la tradizione romana
dell’imposta fondiaria, mentre i canoni di locazione erano richiesti ai contadini
dai proprietari della terra. Qualora lo Stato fosse fondato sull’imposizione,
appariva più solido e organizzato; se era fondato su strumenti privatistici,
appariva più decentralizzato.
2. Il potere tributario nell’epoca dei comuni nel Basso Medio Evo
Durante il XII secolo, grazie ai novi traffici commerciali e la produzione diffusa di
merci, si sviluppa una ripresa economica imperniata sul ruolo delle città.
Emergono, quindi, esigenze di una sistemazione razionale della finanza pubblica.
I comuni italiani regolano i tributi in via autonoma in base a deliberazioni delle
istituzioni cittadine: i tributi imposti ai membri del comune assumevano il
carattere di compartecipazione dei singoli alle spese comuni. La funzione fiscale
era distribuita su due tipologie di prestazioni:
- L'imposta diretta, applicata sui cittadini in via occasionale come
strumento complementare delle entrate tributarie. Si ricorreva al catasto
e, inoltre, emerse l’idea di tassazione proporzionale alla ricchezza del
contribuente;
- La gabella, ovvero tributi di natura eterogena in cui erano incluse tutte le
imposte di natura diversa rispetto alle imposte dirette. Le gabelle erano
facilmente esigibili e si ponevano alla base delle entrate comunali.
Comunque sia si impone una diversa applicazione del carico fiscale sui membri
della comunità, distinguendo fra residenti della città, i cittadini, e i residenti della
campagna, il contado: l’oligarchia dominante cittadina poneva carichi fiscali
maggiori sul contado.
Nei vari comuni italiani del Basso Medio Evo, si delinea un modello omogeneo
di esercizio della funzione fiscale. Si applicava un’imposta diretta sui cittadini e
sul contado che si determinava in base ai dati riportati su registri pubblici,
ovvero l’extimo. L'estimo era usato per la tassazione del contado don un tributo
di carattere patrimoniale che riguardava il nucleo familiare, per cui si prevedeva
un registro pubblico dei vari focolari domestici. Per i cittadini si dava rilievo
anche alla componente mobiliare, quindi ai proventi delle attività economiche e
alla ricchezza prodotta dal capitale. La scelta del criterio di formazione
dell’estimo rifletteva i vari orientamenti politici della classe dominante, ad es. la
componente immobiliare era presa in considerazione dai comuni a vocazione
commerciale.
Il comune di Siena, nel XIII e XIV secolo, è uno dei pochi comuni italiani per cu
esiste un’ampia raccolta di documenti relativi alla finanza pubblica. La principale
fonte di entrate fiscali era il gettito fiscale derivante dalle prestazioni tributarie.
Ruolo primario era l’imposta diretta del «dazio» che veniva posta a carico di tutti
i cittadini e, in alcuni casi, sui contadini in relazione alla «nuova» ricchezza,
denominata lira o libra, prodotta ogni anno e accertata secondo il metodo
dell’alliramento. Il pagamento del dazio poteva essere effettuato n un’unica
soluzione o in più rate. Il metodo dell’alliramento voleva valorizzare la capacità
economica effettiva e quindi era improntato ad un sistema fiscale volto
all’equità sostanziale. Le commissioni di allibratori valutavano i beni e i proventi
annuali dei cittadini facendo riferimento anche alle dichiarazioni degli stessi: si
prevedevano ammende per coloro che tentavano di evadere le imposte. La
popolazione era divisa in «lira maggiore», «lira mediocre», «lira minore» a
seconda della ricchezza stabilita con l’alliramento.
Venne istituito anche un registro delle proprietà terriere, la «Tavola delle
possessioni», nel quale si misuravano i singoli appezzamenti di terra per
valutare i beni immobili.
Si prevedevano, poi, le gabelle, che ricomprendevano tutte le imposte non
determinate sulla lira. La gabella del contado era ripartita per comunità terriere
locali in relazione alla capacità di sostenere la quota fiscale attribuita. Anche in
riferimento alla gabella, si prevedeva un meccanismo che voleva contrastare i
tentativi di frode.
Le decisioni sulle imposte erano affidate al Consiglio dei Nove, ovvero l’organi di
governo del Comune. Le imposte indirette erano amministrate da un ufficio
specifico, ovvero la Gabella Generale, affidata a un non cittadino. Il controllo
sulla funzione fiscale era affidato a 4 provveditori.
La Repubblica di Firenze aveva un modello impositivo simile a quello di Siena,
ma le imposte dirette erano usate saltuariamente e si preferivano le imposte
indirette. Diffuso era il ricorso alle gabelle, le quali avevano un carattere
regressivo in quanto colpivano generi di prima necessità e servizi di base che
colpivano maggiormente i cittadini di minore capacità economica. Il sistema
tributario fiorentino non garantiva entrate fiscali adeguate ai bisogni della città:
le gabelle avevano dissolto i rapporti feudali ma non erano sufficienti per i
bisogni finanziari della città. Si introdusse la tassazione diretta dei cittadini che
comportò la capitolazione della borghesia cittadina. Il catasto era determinato
in base ad un censimento delle varie categorie di residenti, ogni residente
doveva presentare una dichiarazione in cui indicava i propri bene ed erano
esenti le case per abitazione, le masserizie e il cavallo per uso personale. Il
contribuente doveva dichiarare la spesa annua per ogni appartenente alla
famiglia, la quale poteva essere dedotta dal reddito annuo familiare. Al catasto
si aggiungeva anche un’imposta personale sui cittadini maschi. Il catasto e
l’imposta personale erano riscossi ogni anno; alcuni anni si eliminò l’imposta
personale a fronte di un’aliquota progressiva sul catasto. Comunque sia,
nonostante il contribuente presentasse una dichiarazione, le commissioni che
redigevano il ruolo assumevano un valore presuntivo sulla base dei rendimenti
degli ultimi anni: la ricchezza immobiliare era tassata su base oggettiva.
Nello Stato pontificio, le donazioni e le rendite delle terre sottoposte al potere
temporale del Papa costituivano il «patrimonio di San Pietro». Le donazioni
vennero presentate come un obbligo dello spirito assumendo la forma di una
speciale decima che serviva per il mantenimento dei luoghi santi, la sussistenza
del clero e l’aiuto dei poveri. La funzione fiscale venne esercitata secondo i
modelli dei comuni italiani. Inizialmente, la tassazione era effettuata tramite
gabelle; successivamente, si introdussero le imposte dirette: si ricorse al
«sussidio triennale» come tributo straordinario poi stabilizzato, il quale era
riscosso ogni anno secondo stime approssimative della produzione agricola e
degli abitanti. Erano previste anche imposte di scopo. Le casse fiscali,
inizialmente, erano gestite dalla Camera Apostolica, poi furono affidate al
cardinale camerlengo.
Nel regno meridionale, le prestazioni fiscali si distinguevano a seconda
dell’origine:
- Jura vetera, includevano le imposte indirette e le tasse richieste dai vari
signori locali;
- Jura nova, imposte da Federico II di Svevia e quindi di origine imperiale,
comprendevano le gabelle.
Federico II istituì un’imposta diretta ordinaria, la «colletta», che veniva riscossa
ogni anno dall’amministrazione statale. Successivamente, quest’imposta fu
determinata in un ammontare unitario dal fisco regio ed era applicata
all’universalità in proporzione al numero di fuochi e, a questo fine, ciascun
soggetto doveva presentare una dichiarazione con l’elenco dei propri beni
immobili e mobili. L'approssimazione del metodo di rilevazione catastale e
l’inefficienza della riscossione generarono forte resistenza nei contribuenti i
quali percepivano una pressione fiscale intollerabile.
3. La finanza pubblica negli Stati europei
Il Basso Medio Evo in Europa è contrassegnato da alcuni elementi qualificanti
della finanza pubblica. Con le strutture istituzionali e produttive di derivazione
feudale, lo Stato aveva perso la sua centralità. Successivamente, con il calo
demografico vi fu l’abbandono dei villaggi e lo sviluppo delle città e lo Stato
riacquistò importanza per la rinnovata centralità dell’amministrazione pubblica.
Lo Stato non è svincolato dal feudalesimo, rimanendo dipendente dal prelievo
fiscale dei signori locali, per cui o sovrani delle maggiori potenze europee
riconobbero l’importanza dell’imposizione fiscale nel rafforzamento della loro
potestà unitaria.
Nel Regnum Siciliae, Federico II di Svevia emanò le «Costituzioni di Melfi» che
vogliono istituire un programma volto a formare un assetto fiscale imperniato
intorno ai poteri pubblici centrali che consentisse flussi finanziari alle casse
erariali. L'idea di fondo è «fiscus et republica idem sunt». La funzione fiscale era
il fondamento necessario per la sopravvivenza della sovranità della comunità di
riferimento in quanto fondamento per la sovranità nella comunità di
riferimento: la regola di coesione e convivenza richiedeva la tassazione dei
sudditi. La rivolta fiscale a Messina configurò la lesione della divina maiestas
dell’imperatore, il quale concesse alcuni sgravi ma condannò per eresia il capo
della rivolta. Le Costituzioni di Melfi regolano le misure fiscali e indicano anche
le ragioni a sostegno del prelievo fiscale: emerge l’obiettivo protezionistico di
tutela del mercato interno. Tale sistema fiscale aveva una connotazione
autoritaria che, però, non era in linea con il clima culturale dell’epoca.
Nello Stato rancese, la maggior parte delle entrate proveniva dai domini del re
ed erano di modesto ammontare. Nei vari territori continuavano ad essere
valide le giurisdizioni fiscali dei vari signori. A partire dal XII secolo si introdussero
forme di prelievo para-fiscale che integravano la finanza propria del re e nei
feudi si indebolì l’esazione delle corvées. Il sovrano provò a introdurre vari
tributi, ma poi questi venivano aboliti (ad es. Filippo il Bello introdusse un dazio
sulle merci che poi, a seguito delle resistenze dei commercianti, si trasformò in
gabella sui beni di prima necessità), di conseguenza lo Stato francese non riuscì
ad assicurarsi entrate stabili. Per rendere più gestibile l’esazione dei tributi,
Filippo il Bello portò i problemi di finanza pubblica in discussione presso
un’assemblea centrale espressione dell’aristocrazia, del clero e della borghesia
cittadina.
In Inghilterra, come in Francia, la gestione della finanza pubblica è effettuata
secondo il modello di derivazione feudale, per cui sono i signori locali a chiedere
i tributi. Con Guglielmo il Conquistatore si affermò che il sovrano era il più
importante signore feudale: tutta la terra era di proprietà del re e coloro che la
occupano devono pagare un tributo per la concessione della terra al re o a colui
a cui è delegato il potere. Dunque, il re aveva diritto a ricevere un tributo
fondiario calcolato sulla produttività del fondo e che veniva riscosso dai baroni
sui rispettivi territori. Si avviò la compilazione di un registro fondiario, il
Domesday book, che conteneva la descrizione dei terreni (manors) dell’intero
territorio. Nel corso del tempo, il re divenne proprietario di sempre più terra e
accrebbe il flusso delle entrate. Con il regno di Enrico II Plantageneto si consolidò
il potere del sovrano limitando le funzioni dei baroni e si assoggettarono anche
le città al dominio diretto della Corona. Enrico II organizzo l’amministrazione
finanziaria, che prese il nome di scacchiere e che venne divisa in un dipartimento
per le entrate e in uno per le uscite. Gli sceriffi vennero resi responsabili
dell’incasso dei crediti fiscali da parte dei contribuenti rispondendone con il
patrimonio personale di fronte allo Scacchiere: questa responsabilità solidale
accentuò il malessere della classe baronale nei confronti del potere della
Corona. Questa riforma consentì un aumento dei proventi fiscali, ma il
malessere portò i baroni a organizzare una resistenza collettiva contro gli eccessi
fiscali. A seguito di tale resistenza venne emanata la Magna Charta, la quale
stabiliva che nessun tributo poteva essere imposto dal sovrano se non in base
ad una determinazione comune del consiglio dei baroni: si tratta del testo che
pose dei limiti al potere del sovrano e del fondamento del principio del consenso
alla tassazione.
L'Impero bizantino, nel Basso Medio Evo, mantenne la sua struttura fiscale
originaria fondata sull’imposta fondiaria e sul principio di «responsabilità
comune» delle comunità interessate: i grandi proprietari dovevano riscuotere le
imposte da tutti i contribuenti della comunità; se un colono non poteva pagare
il tributo, il suo raccolto era ripartito fra coloro che pagavano; se un campo era
incolto questo veniva affidato a chi era in condizioni di pagare il tributo e questo
sistema favoriva l’accumulo di proprietà in capo ai cittadini più ricchi che
potevano subentrare a quelli più poveri. Nel X secolo, per stabilizzare le entrate
si istituì la concessione di un beneficio territoriale che permetteva al signore
locale di incamerare un tributo sui terreni in cambio di servizi ed opere.
L'amministrazione imperiale era accentrata a Costantinopoli e rimetteva il
controllo complessivo di tutti gli uffici fiscali e finanziari al Saecellarius, ovvero il
ministro delle finanze. I funzionari imperiali erano dotati di alta competenza e
garantivano una costante sorveglianza sul funzionamento dell’apparato
amministrativo.
La Chiesa poteva chiedere tributi ai cittadini di fede cristiana e i tributi venivano
ripartiti tra le varie entità dell’organizzazione ecclesiastica (vescovo, parrocchia,
monasteri) secondo le funzioni ed i ruoli rivestiti nei territori e che variavano da
regione a regione. Il Papa, inoltre, rivendicava il diritto di imporre tributi a carico
dei credenti e dei sovrani, in quanto credenti: questo potere era collegato alla
funzione del tesoro pontificio come patrimonio destinato alla tutela e
promozione degli interessi spirituali e morali della comunità cristiana. Anche in
ambito ecclesiastico il tributo si caratterizzò come prova della soggezione alla
sovranità. Questo potere tributario della Chiesa divenne sempre più invasivo e
l’esazione dei tributi divenne sempre più aggressiva: gli esattori pontifici
ricorrevano a strumenti canonici, come la scomunica, ma anche a misure
personali, come il carcere. Ciò comportò grande malcontento nella popolazione.
Allo stesso tempo, emerge anche il rapporto fra Stato e Chiesa: la Chiesa
rivendicava come un diritto divino l’immunità dei propri possedimenti dalla
fiscalità dello Stato: i proventi delle proprietà della Chiesa avevano natura
sacramentale in quanto consentivano di prendersi cura delle anime dei credenti
per questo erano intangibili per il potere secolare. Per di più, essendo i tributi
espressione della soggezione e riconoscimento della sovranità, la Chiesa non
poteva assoggettarsi ad imposte laiche. Questa impostazione entrò in contrasto
con le teorie collettivistiche ed egualitarie dei comuni europei e quindi si
chiesero tributi anche alla Chiesa, la quale reagì con il Concilio Lateranense
(1179) formulando anatemi contro coloro che chiedevano alla Chiesa tributi. In
Italia furono molti gli episodi di contrasti politici con il potere religioso. Nel 1296,
il re Filippo il Bello di Francia, per far fronte ad una guerra contro l’Inghilterra,
decide di tassare i beni della Chiesa; il Papa Bonifacio VIII vieta ai prelati di
attuare l’editto reale. La crisi istituzionale si conclude con un compromesso: il
Papa ammette le contribuzioni delle proprietà ecclesiastiche al tesoro reale
qualificandole come donazioni decise dalla Chiesa.
4. La funzione fiscale nel pensiero filosofica del Medio Evo
C la Chiesa, nei suoi primordi, ha assunto un’impostazione minimalista rispetto
ai poteri dello Stato evidenziando la necessità di aspirare alla dimensione
spirituale e di trascurare le implicazioni terrene derivanti dalla dimensione
statalista. Di conseguenza, l’originario approccio della Chiesa all’esercizio dei
poteri tributari si fondava sulla frase «dare a Cesare ciò che è di Cesare».
Secondo San Paolo, ognuno deve essere sottoposto alle superiori potestà
«poiché non vi è potestà che non venga da Dio». Per Sant’Agostino le leggi dello
Stato vanno accettate e non ha senso che un cristiano operi per modificarle in
quanto egli deve aspirare alla «città di Dio».
Con lo sviluppo secolare della Chiesa, però, matura un pensiero diverso che
viene espresso dalla scolastica: il tributo è uno strumento rivolto al
perseguimento del bene comune ed è raccolto alternativamente dal sovrano,
come depositario terreno della funzione di tutela dell’utilità collettiva, e dalla
Chiesa, per il perseguimento delle finalità sacramentali della comunità religiosa.
Si evidenzia il rapporto fra tributo e funzione collettiva, per cui il tributo non è
più considerato un vantaggio patrimoniale del sovrano, ma l’imposta viene vista
come uno strumento per la partecipazione dei consociati allo sviluppo della
collettività. Il tributo deve essere giustificato da una quadripartizione di
elementi causali: la prestazione tributaria deve provenire da un potere
legittimo, deve correlarsi ad uno scopo di utilità generale, deve fondarsi su un
giusto rapporto tra onere imposto al contribuente e risultato utile ottenuto dallo
Stato e su un’equa scelta delle persone o beni su cui viene applicata.
Il tributo diviene uno strumento di partecipazione dell’individuo alla vita
collettiva indicando la liberazione terrena dei singoli dal potere totalitario del
sovrano. Si inizia a delineare il confronto fra interesse della collettività, cui si
correla il tributo, e interesse individuale, che vuole trarre beneficio dalla
partecipazione alla collettività.
5. Il potere tributario dell’età del «Chaos»
Durante il Medio Evo è mancato un ordine principale dello Stato che si ponesse
in posizione dominante rispetto agli ordini delle comunità minori: il sovrano era
il più ricco e potente proprietario terriero della nazione; i signori feudali, sul
proprio territorio, esercitavano un potere assoluto non coercibile dallo Stato;
alle città e alla Chiesa veniva riconosciuta questa potestà delocalizzata.
Mancava, dunque, una gerarchia dell’ordine politico e sociale che metteva la
Grande Comunità in posizione più elevata rispetto alle Buone Società: non esiste
un ordine dominante, ma una serie di ordini che coesistono senza pretesa di
dominio sugli altri. Questa è la situazione ricondotta al metodo del Chaos.
Anche il potere tributario si atteggia in modo peculiare: la fiscalità statale tende
a scomparire e si limita ai proventi delle proprietà terriere del sovrano; i signori
feudali, i domini ecclesiastici e le città esercitano il potere tributario nei propri
territori, ma anche in tali luoghi il potere tributario si confonde con la potestà di
gestione della terra. Emerge l’idea che le entrate fiscali non esprimono la
funzionalità ad un interesse generale, ma la connotazione di rendita del
patrimonio. La situazione della fiscalità può essere, quindi, riassunta
nell’espressione «Stato senza imposte»: l’assenza di un ordine dominante
esclude il potere dello Stato di far valere la fiscalità in termini propulsivi degli
interessi collettivi.
Il potere tributario mantiene, però, le cadenze autoritative riconducibili al ruolo
dominante del sovrano grazie alla diffusione di centri di governo in una pluralità
di potentati. Il potere tributario viene esercitato sulla base di atti autoritativi
pressoché incontrastati a cui corrisponde uno stato di mera soggezione dei
contribuenti, ai quali non vengono riconosciuti diritti da tutelare in sede
giudiziaria. Di conseguenza, non si forma un diritto tributario che disciplini il
fenomeno del prelievo fiscale.
In parziale controtendenza, vi sono le città e i comuni, che non possono contare
sui proventi delle terre e che hanno un’impostazione prevalentemente
democratica, da cui deriva una regolamentazione condivisa della funzione
fiscale: le prestazioni tributarie sono stabilite mediante atti normativi di
carattere generale che riconoscono il diritto all’esercizio legale del potere
tributario. Dunque, il potere tributario viene correlato ad un sistema di regole
giuridiche per definire le procedure della fase autoritativa e vengono
riconosciute forme di sindacato giudiziale del potere tributario. Emerge un
diritto dei tributi.
Nel Chaos dell’età intermedia, il potere tributario è espressione dell’ordine
individuato dalle oligarchie dominanti e il prelievo fiscale diventa elemento
qualificante dell’appartenenza ad una classe sociale: la funzione fiscale si
rapporta ai bisogni finanziari dell’oligarchia dominante in quanto l’esercizio del
potere tributario voleva consolidare il potere politico e sociale dei signori
medievali in quanto le imposte e le corvées andavano a impoverire i soggetti
appartenenti alla sfera dei subordinati.
Il potere tributario, in questo contesto, viene esercitato con effetti
discriminatori a scapito dei gradi più bassi e deboli della società, in quanto è
verso tali soggetti che è rivolto il prelievo fiscale lasciando, invece, indenni i
titolari del capitale: si afferma anche in campo fiscale la rilevanza dello status.
La stabilizzazione dei flussi fiscali produce un risultato di conservazione dello
status quo della classe dominante in quanto garantisce la preservazione della
situazione di dominio dei fattori produttivi. L'esercizio del potere tributario è
portatore di effetti discriminatori a danno delle categorie deboli e a vantaggio
delle classi dominanti.
Capitolo quarto: Il potere tributario nello Stato moderno
1. La formazione dello Stato moderno
Durante il Rinascimento, lo Stato venia guardato come unità politica incentrata
sul princeps, titolare del potere sovrano. Il fondamento dell’autorità del
princeps è «la ragione di Stato», ovvero la priorità assiologica dell’azione di
governo e del potere a questa riconducibile rispetto agli interessi collettivi e
individuali sottoposti allo Stato: lo Stato era inteso come potenza e il principe
che lo guidava doveva pensare all’incremento e alla tutela di tale potenza
assumendo la «ragione di Stato» come unica regola di condotta. Il potere
tributario venne considerato un attributo fondamentale della sovranità
principesca, in quanto funzionale a garantire l’equilibrio patrimoniale dello
Stato. Il principe non poteva far fronte ai bisogni dello Stato con il suo
patrimonio personale e, in virtù della sua signoria unitaria, egli era legittimato a
richiedere tributi di carattere generale svincolandosi dal ruolo intermedio dei
signori locali. Si usò, principalmente, l’imposizione diretta di carattere fondiario
e l’imposizione indiretta attraverso dazi, imposte sul consumo e accise. Il tributo
venne considerato come un provento derivante dal potere del principe e
funzionale al perseguimento del bene pubblico. L'esercizio del potere tributario
da parte del princeps determinò una serie di relazioni giuridiche fra Stato e
contribuenti che consentirono il superamento delle istituzioni medievali: si
distinse fra obbligazione del suddito nei confronti del sovrano, da qualificare
come obbligazione naturale, e obbligazione dovuta al signore locale, qualificata
come obbligazione di tipo civilistico.
A partire dal 1500, gli Stati europei si trovarono spesso in situazioni di affanno
finanziario a causa dei costi della guerra, di conseguenza i sovrani ritennero che
l’imposizione fiscale dovesse esercitare un ruolo rilevante nella dimensione
pubblica e nella coscienza collettiva. In effetti, l’esazione dei tributi crebbe
durante le guerre producendo malcontento fra i cittadini e comportando
difficoltà nella riscossione del tributo per i signori locali: ne derivò un’atrofia del
potere fiscale dei signori locali, i quali perdevano potere a vantaggio del sovrano.
Lo Stato acquisiva centralità crescente e recuperò le funzioni fiscali che prima
erano state dislocate fra i vari signori. Si costituirono amministrazioni
specializzate nella gestione degli affari di finanza pubblica che operavano a
livello centrale e quasi sempre al vertice di tali apparati vi erano ecclesiastici, al
cui mantenimento provvedeva la Chiesa (quindi non erano un onore per lo
Stato).
Con il rafforzamento della figura regia e degli apparati burocratici si sviluppò la
finanza pubblica. I tributi venivano considerati risorsa strategica dello Stato in
quanto consentivano di raccogliere strumenti necessari per i processi di sviluppo
della collettività: si delineava una «ragione fiscale» come esigenza di attribuire
rilievo primario al fenomeno tributario. La struttura del sistema fiscale, però,
non fu sottoposta a revisione e si mantennero le forme di tassazione di
derivazione medievale, ciò fece sì che si cercasse di finanziare la copertura di
esigenze finanziarie con l’espansione bellica.
Nell'elaborazione filosofica e giuridica, la sovranità del princeps non venne
considerata illimitata, ma venne rapportata a limiti derivanti dalle leggi naturali
e divine, dai diritti naturali dell’individuo e dal consenso del popolo. Si
svilupparono teorie contrattualistiche che individuavano il fondamento del
potere del sovrano in un contratto con il popolo, per cui la decisione potestativa
del princeps trovasse fondamento nel consenso popolare facendo perdere
rilievo all’elemento teleologico della volontà divina. Al contrattualismo,
adottato ad esempio in Inghilterra, si contrapponeva l’assolutismo, adottato ad
es. in Francia in cui il potere tributario era considerato un attributo intrinseco
della sovranità. La relazione fra potere tributario e consenso popolare è
l’antecedente storico delle vicende rivoluzionarie del XVII-XVIII secolo.
Nel Basso Medio Evo, ma anche successivamente, la Chiesa era legittimata a
chiedere tasse nei territori sottoposti al proprio controllo e le varie istituzioni
ecclesiastiche mantenevano una relazione di tipo feudale con lo Stato al fine di
definire una relazione fra ufficio ecclesiastico e potere secolare. Il potere fiscale
della Chiesa si espresse con modalità diverse e con diverse relazioni rispetto allo
Stato nei vari contesti nazionali:
- In Francia, i rapporti fra Stato e Chiesa si inasprirono. Si giunse ad un
compromesso con il Concordato per cui la Chiesa si impegnava a versare
una parte delle entrate fiscali alle casse dello Stato. Successivamente, con
il contratto di Poissy (1561), il clero si impegnò a pagare una somma
annuale in relazione ai propri territori, si trattava del diritto di regalia
temporale.
- In Spagna, le entrate fiscali pagate dalla Chiesa allo Stato divennero
imposte stabili.
- In Inghilterra, la rivoluzione anglicana di Enrico VIII fece sì che lo Stato
subentrò anche nella gestione della fiscalità ecclesiastica.
- A Venezia, l’imposizione diretta venne riportata alla guerra religiosa
contro i Turchi ottenendo così l’approvazione della Chiesa.
La riforma protestante fu determinata da una serie di elementi di contrasto con
l’eccessiva secolarizzazione del potere della Chiesa, tra cui l’esercizio della
funzione fiscale. Le richieste dei contadini erano assunte dal movimento
protestante come ragioni da condividere al fine di una riforma equa della
società. Dopo un primo periodo di contese belliche, si definì il principio «cuius
regio eius religio» per cui nel principato tedesco si doveva seguire la confessione
religiosa scelta dal principe. Rispetto al Cattolicesimo, il Protestantesimo seguì
una strada diversa per l’economia e l’impresa: si sviluppò una concezione di vita
razionalistica favorendo l’eliminazione dell’elemento teleologico e morale. Il
mondo era destinato alo scopo di favorire la glorificazione di Dio e, in tal modo,
le opere erano il modo precipuo di agire per la gloria di Dio: si favorì la
promozione di strutture ideali e politiche portatrici di un nuovo atteggiamento
mentale di apertura verso lo Stato e di distacco dal potere temporale della
Chiesa. La Riforma indusse ad accettare il ruolo dello Stato come garante della
comunità sociale e a sostenere l’accrescimento della potenza politica ed
economica a scapito della ricchezza della Chiesa. Lo Stato veniva considerato
come garante del bene comune e non della proprietà privata del sovrano, di
conseguenza si doveva perseguire una politica finanziaria razionale e contenuta.
Una delle note qualificanti dello Stato moderno è la propensione a favorire il
mercantilismo: lo sviluppo del commercio sfaldò i rigidi confini dell’economia
domestica e il reddito nazionale incrementò grazie alla crescita mercantile. Gli
Stati europei coinvolti nei processi del mercantilismo decisero di supportare lo
sviluppo economico attraverso un’adeguata politica doganale: Olanda, Francia,
Inghilterra stabilirono dazi sulle importazioni ed esportazioni e,
correlativamente, ridussero le gabelle locali. L'idea era che attraverso la politica
doganale si sarebbe potuto aumentare il gettito fiscale e indirizzare il commercio
sul mercato internazionale, senza però scoraggiare le operazioni dei
commercianti stranieri.
Comunque sia, la caratteristica della finanza pubblica degli Stati europei del
primo Settecento consiste nella crescita del fabbisogno finanziario in relazione
al protratto stato di guerra. La disponibilità delle risorse da impiegare nello
sforzo militare consentiva di favorire l’andamento della guerra e il successo degli
Stati. Il fattore finanziario venne interpretato in modo diverso dai vari Stati
europei (ad es. in Inghilterra si aumentarono le aliquote sulle imposte indirette,
si istituì un’imposta diretta di carattere straordinario e si ricorse
all’indebitamento; in Francia si aumentarono le imposte indirette ma non si
ricorse all’indebitamento). Allo stesso tempo vi erano dei tratti comuni nelle
scelte dei vari Stati: si mantennero inalterate le strutture fiscali precedenti, salvo
interventi sulle aliquote o imposte di carattere straordinario; la parte
preponderante del sistema tributario è costituita dall’imposizione indiretta; il
grave indebitamento è una soluzione di carattere contingente adottata al fine di
non procedere ad una riforma fiscale organica.
Sul piano concettuale, nel periodo che va dal Cinquecento al Settecento, il
tributo mantiene il carattere deteriore e la connotazione di odiosità che lo aveva
caratterizzato in precedenza. Il fenomeno tributario era ricondotto al
patrimonio personale del sovrano, di conseguenza il tributo era un dovere
assoluto verso l’autorità e il contribuente non aveva diritto di pretendere alcun
servizio pubblico n cambio del tributo. Si assiste a un consolidamento del nesso
fra imposizione fiscale ed impegno bellico, ma non emerge il concetto di
interesse generale della collettività. La tendenza a prelevare tributi in qualunque
modo fa sì che continuino le diseguaglianze fiscali.
2. Lo sviluppo della fiscalità negli Stati europei
La funzione fiscale nell’Impero tedesco
La dieta di Ratisbona (1471) attribuiva il compito della riscossione di una nuova
tassa imperiale in capo ai signori territoriali: le signorie di tradizione feudale
venivano coinvolte nel finanziamento dello Stato. La funzione fiscale viene
esercitata dallo Stato con cadenza regolare, soprattutto per finanziare la politica
militare. Le esigenze finanziarie dovevano essere negoziate con i principi elettori
e con i ceti imperiali riuniti periodicamente nella dieta imperiale. La forza della
posizione dei principi e dei ceti consisteva nel diritto di decidere sulle prestazioni
fiscali richieste alle varie comunità intermedie e si esprimeva nella delibera della
dieta. Il tributo dovuto dai sudditi fu sostituito da un tributo gravante sui principi
e stabilito anno per anno in base ad appositi registri che riportavano l’elenco dei
beni presenti nei vari territori: il signore richiedeva ai contribuenti il pagamento
della quota di imposta loro riferibile. In aggiunta a questo tributo si prevedevano
imposte straordinarie, come le imposte di consumo, motivate da ragioni di
impellenza finanziaria dello Stato. A tali tributi statali si aggiungeva l’imposta
locale richiesta dai signori sui propri territori.
Si definì un sistema fiscale dualistico distribuito su potere statale e poteri locali:
la potestà suprema dell’imperatore fondava l’imposizione di tributi generali sia
ordinari sia straordinari, la potestà locale dei signori riguardava l’imposizione di
tributi circoscritti al territorio del governo signorile. La dimensione territoriale
costituiva la ratio della funzione fiscale.
La funzione fiscale in Spagna
Lo Stato spagnolo mantenne la tradizione feudale delle prestazioni fiscali
riscosse a livello locale da signori e città, salvo incrementarne la quantità e
consolidarne la portata in una visione centralista del potere tributario. A seguito
dell’unificazione delle corone di Castiglia e Aragona, l Stato centrale acquisì il
controllo dei benefici ecclesiastici. Inoltre, nella politica spagnola, la guerra era
un’occasione per aumentare le imposte che poi si sarebbero sedimentate nelle
abitudini del cittadino e sarebbero state pagate anche in tempo di pace.
L'esercizio della funzione fiscale era rimesso ad una procedura legislativa che
coinvolgeva le Cortes, le quali dovevano verificare i fondamenti delle misure
tributarie. Le Cortes impedirono la formazione di un potere monarchico assoluto
affermando che le decisioni in materia fiscale potevano essere assunte solo nel
contesto parlamentare. Questa concezione pattizia del potere fiscale venne
mantenuta fino a tutto il XVIII secolo.
La funzione fiscale in Francia
Lo Stato, dal XV secolo in poi, acquisì una centralità assorbente della sovranità
fiscale rispetto ai poteri feudali delocalizzati: si affermò l’idea per cui il sovrano
non aveva bisogno di consultare i deputati dei tre ordini riuniti negli Stati
generali per fissare o prorogare e imposte di guerra. Questa posizione sovranista
venne avversata dai ceti sociali espressi dagli Stati generali. Si impose una
concezione pattizia della sovranità con riflessi immediati sull’esercizio della
funzione fiscale, per cui si riconosceva la sovranità del re ma l’imposta
necessitava dell’autorizzazione degli Stati generali. Lo Stato, però, non riusciva
ad assicurarsi entrate stabili: si ricorreva ai tributi di origine feudale e ad imposte
straordinarie, ma non si definì un sistema fiscale ordinato a livello nazionale. Il
costo delle guerre e l’apparato dello Stato era sopportato dai poveri del regno
che non riuscivano a sostenere gli effetti del depauperamento. Vi era un
contesto sociale di grande agitazione che portò all’assedio di Parigi (1649) e ad
una vera e propria guerra civile; alla fine del 1652 il potere del re venne
pienamente consolidato e si proibì ai parlamentari di criticare l’operato dei
ministri e di interferire con gli affari di Stato. Il re di Francia assunse
personalmente il controllo dell’amministrazione finanziaria e della politica
fiscale e il potere tributario dello Stato si esprimeva nelle forme più
assolutistiche ed illimitate.
Accanto ai tributi richiesti dallo Stato, permanevano gli oneri ecclesiastici e gli
oneri a favore dell’aristocrazia locale.
Nonostante la struttura dei tributi rimase la medesima della tradizione feudale,
la novità della fiscalità dello Stato riguardava il livello quantitativo delle
prestazioni fiscali che venne incrementato in dipendenza dei bisogni di entrate
dello Stato e della finanza di guerra. Inoltre, la pressione fiscale venne
incrementata grazie al funzionamento di un efficace apparato amministrativo:
la tassazione divenne stabile e consentì la crescita dell’apparato statale.
La funzione fiscale in Inghilterra
Nel XV secolo, il re aveva una posizione dominante come suprema autorità
feudale che si esprimeva nella gestione della finanza pubblica e della fiscalità. Si
prevedevano forme di patteggiamento con le assemblee dei nobili e la Magna
Charta fissava i diritti del popolo e richiedeva che il potere d richiedere imposte
fosse autorizzato dal Parlamento. Il sistema tributario inglese, quindi, era
fondato sul principio del consenso parlamentare: il re non può spogliare i sudditi
del loro patrimonio senza rispettare le leggi e non può imporre tasse senza il loro
consenso preventivo. L'amministrazione delle finanze era scolta attraverso la
Real Casa: il ministro dello Scacchiere doveva presentare una dichiarazione
annuale delle entrate e delle uscite dello Stato e la maggior parte ei tributi erano
dati in appalto a finanzieri che si impegnavano ad assicurare flussi certi in un
tempo pluriennale.
Con il regno di Elisabetta I, a fronte delle maggiori spese pubbliche, il modello
finanziario dovette mutare: Elisabetta ripristinò la tassazione su base annuale e
convocò il Parlamento più volte per votare le prestazioni fiscali imposte sul
popolo.
Con la finanza di guerra nel Settecento si assistette ad un consistente
incremento della pressione fiscale e nel 1692 venne istituita per la prima volta
l’imposta fondiaria (land tax) che gravava sui proventi della terra, determinati
secondo un estimo catastale.
La funzione fiscale nell’Impero ottomano
La struttura di gestione dell’Impero era articolata su base feudale mediante la
ripartizione dei territori ai cavalieri secondo il timar e lo ziamet (rapporti che si
differenziavano in base all’estensione dei fondi): il diritto di proprietà spettava
all’Impero, mentre i cavalieri feudali erano titolari di un diritto di usufrutto che
consentiva di assegnare ai contadini l’uso e lo sfruttamento della terra.
Nel corso del tempo i rapporti feudali vennero assorbiti dal sistema di appalto
delle imposte in base al quale i signori locali si trasformavano in esattori dei
tributi dovuti dai contadini in favor dello Stato: la fiscalità dell'Impero si reggeva
sul rapporto tra il governo centrale e i cavalieri feudali.
La funzione fiscale in Russia
Nel XVII secolo, la Russia avviò un processo di occidentalizzazione che determinò
il superamento dello stato di autocrazia e l’apertura verso un modello
organizzativo che contemplava una maggiore spesa pubblica.
Non si riuscivano ad ottenere adeguati flussi di entrate per le esigenze di
sviluppo e di funzionamento dello Stato, quindi si introdusse un censimento
generale delle terre e delle altre risorse economiche escludendo, però, le terre
dei nobili e del clero. La tassazione assunse un carattere reale e fondiario per cui
le imposte principale erano ripartire in base ad una unità fondiaria. I criteri di
tassazione non erano, però, razionali e ciò portò ad abbandonare tale modello
di tassazione per ricorrere invece ad un’imposta personale. L'esazione tributaria,
però, non garantiva adeguata efficacia sul piano concreto in quanto gli uffici
dello zar potevano procedere solo con la collaborazione dei signori locali della
nobiltà rurale. Poiché il proprietario terriero poteva richiedere i tributi ai suoi
sottoposti in misura discrezionale e arbitraria, gli oneri fiscali crescenti esposero
i contadini e le categorie più povere ad un sensibile depauperamento.
La funzione fiscale in Olanda, uno Stato mercantile
Dal XVII secolo, i Paesi Bassi divennero una potenza mondiale grazie allo sviluppo
dei commerci e alla politica di colonizzazione. Si prevedevano imposte di
fabbricazione (accise) sui principali prodotti commerciali, in questo modo si
prevedeva un’imposta sul commercio dei beni nella fase più facile da colpire; si
prevedevano dazi sia sull’importazione che sull’esportazione; si prevedevano
imposte patrimoniali e sui fabbricati. I tributi erano riscossi mediante appalti a
terzi e tale struttura della fiscalità venne considerata tipica di un paese vocato
al mercantilismo.
La funzione fiscale in Prussia, uno Stato guerriero
Nel Settecento, la Prussia era uno degli Stati europei che esprimeva la maggiore
forza militare attraverso un esercito numeroso e ben equipaggiato. Si adottò un
sistema finanziario semplice e capace di garantire flussi costanti nelle casse
pubbliche: il reddito del demanio regio proveniva da possedimenti molto vasti
che davano lavoro a un terzo dei contadini del paese; l’imposta sulle proprietà
fondiarie era determinata secondo estimi catastali; l’accisa era applicata su
molti prodotti. Il mantenimento di immunità sui terreni dei nobili comportò che
il carico fiscale fosse riversato sulla classe rurale. Vi era una burocrazia dislocata
sul territorio dedicata al controllo degli adempimenti fiscali dei contribuenti.
3. Lo sviluppo della fiscalità negli Stati italiani
Nel Rinascimento gli Stati italiani seguirono il modello di assetto politico
imperniato intorno al princeps: la sovranità è riferita alla persona del monarca
che riunisce nella propria sfera i poteri pubblici richiesti per il governo della
«cosa comune». Si pone il problema delle relazioni con le comunità intermedie
di derivazione medievale: l’esercizio del potere sovrano implicava una
collaborazione con i potenti locali per coinvolgere le comunità intermedie nella
fase di attuazione dei tributi. La nota caratteristica degli Stati italiani può
individuarsi nella dialettica fra il potere tributario del princeps e il potere
tributario delle comunità locali, ovvero le città, al fine di promuovere situazioni
di ragionevolezza ed equità dell’imposizione.
La funzione fiscale nel Regno di Napoli
Nel Regno di Napoli la funzione fiscale coinvolse direttamente le comunità
territoriali esistenti per la raccolta ed il pagamento delle imposte dirette. Il
Regno di Napoli era articolato in una serie di università intese come corpi
rappresentativi di una pluralità di cittadini: l’universitas era un corpo intermedio
fra i cittadini e lo Stato. Ciascuna università venne considerata come un unico
debitore fiscale di fronte allo Stato in relazione all’imposta diretta che era
calcolata proporzionalmente ai «fuochi familiari» presenti. L'universitas
anticipava l’imposta allo Stato per poi ricomprendere dai singoli contribuenti la
quota del tributo che incombeva su di essi; solo in casi eccezionali, la riduzione
del numero di fuochi poteva produrre una rideterminazione del carico fiscale
dovuto dall’università. Questo corpo intermedio, quindi, assumeva una funzione
pubblica nell’interesse fiscale dello Stato e aveva un potere tributario da fare
valere nei confronti dei cittadini: si trattava del potere di jurisdictio, ovvero di
raccolta dell’imposta diretta- in caso di insolvenza da parte dell’università le
autorità pubbliche non avevano la facoltà di agire direttamente contro i singoli
contribuenti delle università.
La funzione fiscale nel Ducato di Savoia
Anche il Ducato di Savoia è un esempio di ordinamento imperniato sul
coinvolgimento di comunità intermedie, le universitates civium, rispetto
all’attuazione del prelievo fiscale. Il «tasso» era un tributo dovuto dalle
universitates civium: il tasso era fissato in un importo complessivo che veniva
distribuito fra le varie comunità territoriali secondo criteri approssimativi. In
effetti, individuare dei criteri oggettivi e razionali per la distribuzione del carico
fiscale tra le varie comunità territoriali del Ducato costituì uno dei principali temi
di discussione di finanza pubblica. Dunque, per ottenere una determinazione
razionale del tributo si faceva riferimento a un criterio legislativo univoco,
ovvero le rendite prodotte dai beni di ciascun contribuente. Il credito era
vantato dallo Stato nei confronti delle università che poi erano legittimate a
richiedere la quota individuale dell’imposta ai singoli contribuenti: il debito
fiscale dell’universitas era dato dalla somma dei debiti fiscali dei singoli cittadini,
non aveva una propria autonomia, infatti i contribuenti erano obbligati anche
verso lo Stato per cui potevano subire anche l’azione diretta dei funzionari
pubblici. L'universitas aveva un ruolo ambivalente: era titolare di
un’obbligazione tributaria nei confronti dello Stato e era un organismo locale
che era chiamato ad esigere gli stessi tributi dai contribuenti operando come un
soggetto delegato dell’autorità statale (si riteneva che si trattasse di un potere
derivato dal princeps).
La funzione fiscale a Venezia
A Venezia, le antiche gabelle e le imposte indirette vennero integrate
dall’adozione di imposte dirette, definite «angarie», applicate a tutti i cittadini
della repubblica senza distinzione di residenza fra la città di Venezia e i domini
di terraferma e di appartenenza sociale. Le imposte erano pagate con un
abbuono se corrisposte prima del termine; si prevedeva un’ammenda se si
violava il termine.
I dazi doganali erano la voce principale delle entrate fiscali di Venezia, la parte
residua delle entrate era data dalle imposte dirette. Lo Stato, inoltre, faceva
ricorso al meccanismo dei prestiti forzosi, ovvero raccoglieva risorse finanziarie
dai cittadini parametrate alla propria ricchezza; nonostante in capo al cittadino
sorgesse un diritto alla restituzione con pagamento di interessi attivi, il prestito
attivo comportava malcontento in quanto veniva ricollegato alle altre pretese
fiscali.
L'esercizio del potere tributario comportava una dialettica fra Stato e comunità
territoriali: le prestazioni tributarie venivano richieste ai cittadini della
Dominante (città di Venezia) e dei Domini. Il prelievo era modulato secondo le
capacità economiche dei vari territori: si chiedevano prestazioni superiori ai
Domini rispetto alla Dominante in quanto la loro relazione non era di pura
soggezione ma anche di collaborazione, ovvero vi era una logica commutativa
fra la protezione fornita dalla Dominante e le prestazioni finanziarie fornite dai
Domini.
La funzione fiscale nello Stato milanese
Nel Basso Medio Evo, nel Comune di Milano si prendeva il modello fiscale degli
altri Stati italiani: ricorso all’imposizione indiretta, soprattutto ai dazi; ricorso
all’imposta diretta soprattutto nei confronti del contado e immunità dalle
imposte dirette per le attività mercantili.
Con lo sviluppo della città e con le esigenze dello sforzo bellico, si ampliarono le
imposte e si introdussero tasse da pagare in denaro. Nel XVI secolo, la fiscalità
venne riordinata attraverso una riforma fondata sull’istituzione dell’estimo
mediante il censimento di tutta la ricchezza presente nel territorio dello Stato
milanese.
4. La teoria della ragione di Stato
Con la formazione dello Stato moderno si forma un pensiero dottrinale a
sostegno dell’infrastruttura statalista: si afferma l’idea per cui il potere dello
Stato è volto alla protezione del bene comune ed è quindi il valore di riferimento
di ogni comunità politica e va difeso con ogni mezzo. Si elabora anche la nozione
di «ragione di Stato» come la serie di interessi collettivi, fra cui rientra la
funzione fiscale, di cui lo Stato è portatore e che giustifica ogni forma di esercizio
del potere. La «ragione» è il fondamento del potere tributario dello Stato
assoluto: si deve valutare l’utilità per lo Stato secondo parametri razionali, non
si tratta di un potere arbitrario.
Emerge il pensiero di Niccolò Machiavelli. Il principe si pone come figura di
garanzia e di tutela della comunità e deve operare per il mantenimento e
l’accrescimento del proprio potere anche mediante scelte utilitaristiche, purché
funzionali ad assicurare la forza e la piena capacità di funzionamento delle
istituzioni pubbliche. La centralità del potere pubblico è individuata nei rapporti
con le oligarchie interne e nel trattamento del popolo, inoltre il nucleo del
potere pubblico è la capacità di gestione delle forze militari. Machiavelli non
esamina la funzione fiscale come attributo del potere del sovrano, anzi tale
funzione mantiene un ruolo subalterno rispetto agli altri poteri dello Stato. La
fiscalità andava inserita in un contesto di un potere dominante che si doveva
confrontare con altri poteri: il principe doveva assumere impegni di un utilizzo
limitato del prelievo fiscale, rendendo conoscibili le ragioni dell’inasprimento
fiscale.
Francesco Guicciardini, invece, assunse una visione dello Stato svincolata dalla
centralità del principe e riferita alla pluralità di istituzioni pubbliche che lo
connotavano. Egli analizzò con maggiore attenzione la funzione fiscale:
l’obiettivo da perseguire era l’uguaglianza effettiva nella contribuzione fiscale
da parte di tutti i cittadini tenendo conto della diversa capacità economica delle
varie categorie sociali. Da ciò conseguiva la preferenza per le imposte
progressive affinché vi fosse uguaglianza nel sacrificio senza comportare
rilevanti alterazioni delle capacità economiche dei contribuenti. Il principe aveva
un potere funzionale alla tutela del bene pubblico, ma si escludeva il diritto di
appropriarsi delle ricchezze dei cittadini e dello Stato.
Jean Bodin poneva a fondamento dello Stato la sovranità come potere assoluto
e perpetuo da riferire ad un unico organo. Il principe deve operare per il
perseguimento del bene comune e non per il suo interesse personale, ma il suo
potere non trova limitazione nel consenso del popolo neanche in ambito fiscale.
Le imposte vengono considerate come strumento non stabile a cui ricorrere solo
in occasioni gravi ed impellenti: il potere fiscale viene esercitato dal sovrano
quando occorre con le modalità che ritiene necessarie per il bene comune.
Althusius si pone in contrapposizione rispetto a Bodin ed esprime una teoria
antiassolutista di cui la sovranità popolare è il fondamento. L'ordine sociale e
politico è garantito dall’esercizio di un potere di comando che assicura il rispetto
delle regole di comportamento prescritte agli individui nell’interesse del bene
comune e questo potere di comando si fonda sul volere della comunità. Dunque,
la volontà del monarca è derivata da quella originaria del popolo. Anche il potere
tributario è espressione di una sovranità derivata del monarca e, quindi, il potere
di fissare tributi deve essere esercitato dal sovrano nel rispetto del consenso
popolare.
Ugo Grozio afferma che si deve distinguere fra legge di natura, fra cui vi sono i
diritti fondamentali delle genti, e legge positiva. L'uomo tende alla socialità e si
pone il divieto di togliere all’individuo ciò che gli appartiene. Questo principio
deve essere applicato anche nella fiscalità e, dunque, ne deriva una limitazione
al potere tributario del sovrano: solo un prelievo fiscale equo e non arbitrario e
correlato ai bisogni della comunità è sostenibile.
Erasmo da Rotterdam qualificava il principe come un amministratore degli affari
nel pubblico interesse che non si doveva allontanare dalle leggi e dal consenso
del popolo.
Tommaso Moro critica l’assolutismo, in quanto consente di incamerare tributi
in modo illimitato e afferma che nello Stato ideale le leggi sono ispirate dal
principio di uguaglianza: in virtù dell’assetto egualitario non occorre prelevare
tributi poiché è lo Stato che si fa carico di assicurare la corretta distribuzione
delle risorse di vita fra i consociati. La finanza pubblica assolve una funzione
primaria in quando deve consentire di reperire le risorse necessarie per il
governo del bene comune: non vanno tassati i beni necessari, ma il lusso.
Nella letteratura utopistica emerge l’assetto di una società di matrice
egualitaristica che non richiede una fiscalità perché lo Stato è padrone di ogni
mezzo economico e produttivo e allo stesso tempo si evidenzia che il potere del
sovrano deve ricondursi ai bisogni di una società pacifica.
5. Il potere tributario e la formazione dello Stato moderno
La crescente potenza dello Stato moderno, imperniato intorno alla figura del
principe, viene alimentata dall’incremento dei flussi finanziari. Le prestazioni
fiscali dello Stato assoluto si rapportano alle esigenze militari di accrescimento
della potenza nazionale. La potenza finanziaria richiama l’esercizio del potere
del sovrano in ordine alla regolazione dei flussi fiscali: la potestà di richiedere
prestazioni fiscali è attribuita al principe-sovrano come un potere da esercitare
direttamente nei confronti della generalità dei sudditi.
Questa concezione dei rapporti sociali e politici esprime l’aspirazione al
superamento del Chaos: la centralità dello Stato e l’imposizione di una gerarchia
nella costruzione dell’ordine portano all’affermazione di una metodologia
ispirata dal Logos. La fiscalità dello Stato assoluto esprime le scelte di valore del
sovrano per aumentare la potenza della comunità. La struttura della fiscalità,
però, non viene innovata e mantenne i caratteri del disordine provenienti dalle
esperienze medievali. Comunque sia alcuni fattori di variazione del modello
fiscale tradizionale sono ricollegabili al consolidarsi del mercantilismo. Dunque,
si può pensare ad una combinazione di Logos, ovvero una visione ordinata e
gerarchica del mondo per cui il sovrano persegue il bene comune attraverso
l’esercizio di un potere incondizionato, e Chaos, ovvero il sotto-prodotto della
persistenza delle istituzioni fiscali e delle strutture giuridiche del Medio Evo.
L'aumento della potenza finanziaria dello Stato assoluto impone il
riconoscimento del potere del principe-sovrano per la regolazione dei flussi
fiscali comportando il superamento della delocalizzazione del periodo
medievale. Allo stesso tempo emergono procedure parlamentari che assumono
i contorni delle disposizioni legislative per definire i modi di esercizio della
funzione fiscale: il potere tributario viene correlato al crescente diritto tributario
per cui emerge la dimensione giuridica del potere tributario come elemento di
un ordinamento.
Si mantiene, comunque sia, la rilevanza centrale delle oligarchie dominanti, per
cui il potere tributario viene esercitato dal sovrano nel coordinamento con le
posizioni assunte dall’oligarchia dominante. Inoltre, il potere tributario incise
sulla composizione della classe dominante in quanto il sistema d’appalto delle
imposte aprì opportunità di investimento alla classe borghese.
La tassazione avveniva ad un duplice livello: quello statale imposto dal sovrano
e quello locale riconducibile ai poteri signorili. Di conseguenza, si aumentava la
distanza fra classi «forti», a cui venivano concesse immunità e privilegi, e classi
«deboli». La preoccupazione dello Stato era quella di ottenere il flusso di entrate
non di ripartire equamente tra i sudditi. La diseguaglianza tributaria è un
connotato della funzione fiscale.
Una peculiarità di questo periodo storico, inoltre, è la comparsa di forme di
resistenza diffusa rispetto all’esercizio arbitrario del potere tributario da parte
del sovrano. Inoltre, si diffondono teorie che rilevano la necessità di un limite al
potere del sovrano anche in materia fiscale: il fondamento dell’ordine politico è
enucleato nel rapporto fra autorità e consenso popolare. Il potere tributario non
viene presentato come un potere assoluto, ma come un attributo della sovranità
coerente con il perseguimento degli interessi collettivi, sottoposto ad un limite
intrinseco di razionalità. In qualche modo, la resistenza al potere fiscale del
sovrano è considerata un tratto costitutivo dello Stato assoluto.
Capitolo quinto: La trasformazione del potere tributario nell’epoca
delle rivoluzioni moderne
1. Le rivoluzioni dell’età moderna e la trasformazione del potere tributario
La concezione del potere sovrano si modifica a seguito della fase rivoluzionaria
che si avvia nella metà del XVII secolo. Prima delle rivoluzioni democratiche del
Settecento esistevano le leggi fondamentali dell’uomo e di Dio: si trattava di
principi consuetudinari che non erano codificati ma erano ricostruiti su base
interpretativa. Le costituzioni scritte dell’epoca rivoluzionaria segnano una
cesura con il passato. Il fondamento del potere costituente era individuato nel
popolo in quanto portatore della volontà generale della comunità. Anche il
potere tributario, ovviamente, era coinvolto da questo processo di
trasformazione: non più la determinazione univoca del sovrano, ma la
determinazione condivisa e patteggiata con il popolo.
Per quanto riguarda la prima rivoluzione inglese, si deve risalire a quando salì al
trono Giacomo I Stuart, il quale impose una visione assolutista dei rapporti col
popolo tanto che nei primi anni del suo regno governò senza ricorrere al
Parlamento. Si svilupparono numerose contese fra la Camera dei Comuni e il
sovrano in materia fiscale, ma non si giunse ad una limitazione del potere
sovrano. Con la successione salì al trono Carlo I, ma si ripropose lo stesso
modello di assolutismo. A fronte di nuove imposizioni non autorizzate, però, vi
fu una resistenza molto forte e il Parlamento redasse una dichiarazione dei
propri diritti, la Petition of Rights del 1628. Si trattava di un documento che
imponeva limitazioni al potere monarchico e che costituiva il fondamento della
funzione rappresentativa della nazione in capo al Parlamento. Per fronteggiare
tale resistenza, Carlo I si appoggiò alla Chiesa anglicana e smise di consultare il
Parlamento e introdusse misure finanziarie rigorose. Si sviluppò un sentimento
di rancore nei confronti della dinastia monarchica che interrompeva
l’obbedienza verso la dinastia Tudor. Nel 1640, il sovrano sciolse il Parlamento
in quanto questo non votò le imposte che voleva predisporre. Un gruppo di
cittadini, fra cui John Pym, promosse un piano di riforme del regno e venne
insediato il Lungo Parlamento: vennero aboliti numerosi tributi e privilegi e
venne affermato il principio della Petition of Rights secondo cui era illegale
stabilire tributi senza il consenso del Parlamento. Il rapporto fra re e borghesia
si inasprì ulteriormente portando alla guerra civile del 1642 e all’espulsione di
Carlo I dal regno.
A seguito della morte di Oliver Cromwell che aveva guidato il partito popolare,
emerse l’incapacità della nuova classe dirigente il che portò alla restaurazione
della monarchia: si richiamo Carlo I dall’esilio, ma questo doveva rispettare i
limiti espressi dalla Petition of Rights vincolandosi all’esercizio di un potere
congiunto con il Parlamento. Per un lungo periodo, vi fu una coesistenza pacifica
fra le due istituzioni e si formò un duplice schieramento dei partiti: i Tories, che
difendevano gli interessi della Corona, e i Whigs, che celebravano la funzione
rappresentativa degli interessi popolari. La tensione fra i due partiti sfociò nella
«gloriosa rivoluzione» de 1688 che portò alla fuga del re e all’avvio di una nuova
fase di governo parlamentare. Nel 1689 venne promulgata la Dichiarazione dei
diritti (Bill of Rights) formulata dal Parlamento e successivamente riconosciuta
dal nuovo re Guglielmo d’Orange, che vietava all’esecutivo di imporre tributi
senza la preventiva autorizzazione parlamentare. L'approvazione dei tributi da
parte del Parlamento, comunque sia, comportò una maggiore adesione
popolare al prelievo fiscale.
Per quanto concerne la situazione in America, invece, il governo inglese
aumentò la politica fiscale sulle colonie prevedendo numerose imposte al fine
di risanare le casse pubbliche a seguito della Guerra dei 7 anni combattuta
contro la Francia con il supporto delle stesse colonie americane. Con l’istituzione
di tali tributi si pose il problema della rappresentanza delle colonie americane
rispetto al potere sovrano della tassazione, in quanto le colonie erano prive di
rappresentanza diretta nel Parlamento inglese: in questo contesto si affermò
«no taxation without representation». A seguito dell’imposizione di una tassa
sul tè si convocò a Filadelfia il primo Congresso delle colonie che pronunciò la
DIchiarazione di Indipendenza in cui si affermava il principio di sovranità
popolare e l’indipendenza dal regno d’Inghilterra. A seguito di tale Dichiarazione
prese l’avvio la guerra di rivoluzione americana che si concluse con la vittoria
delle colonie e il riconoscimento dell’indipendenza americana. Nel 1787 venne
redatta la Costituzione degli Stati Uniti, in cui si stabiliva che il Congresso è
titolare del potere di imporre e raccogliere tasse, diritti doganali, imposte
indirette ed accise affermando, quindi, il principio del consenso parlamentare
per istituire ed attuare leggi fiscali e fissando una regola di federalismo.
Per quanto concerne la rivoluzione francese, emerge come la funzione fiscale
era esercitata nell’Ancien régime secondo modelli tributari di derivazione
feudale che garantivano privilegi in favore degli aristocratici e degli ecclesiastici
facendo gravare l’imposizione fiscale sulla borghesia e sui piccoli agricoltori. Con
la convocazione degli Stati generali da parte di Luigi XVI nel 1789 si avviò un
processo di rivolta. L'Assemblea nazionale costituente, in cui erano
rappresentati i tre stati della nazione, adottò provvedimenti che sopprimevano
i privilegi fiscali dei nobili e liberavano i contadini dai vincoli feudali. Inoltre,
l’Assemblea emanò la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino che
rappresentò il primo testo costituzionale prodotto dalla fase rivoluzionaria in cui
vennero ripresi spunti dei documenti costituzionali della rivoluzione americana.
Nella Dichiarazione si affermò che per mantenere la forza pubblica si doveva
ricorrere a un contributo comune che doveva essere ripartito fra i cittadini in
ragione delle loro facoltà (art. 13) e che ogni cittadino, da loro stessi o per mezzo
di rappresentanti, ha diritto di consentire e controllare l’imposizione fiscale (art.
14). Si affermo l’idea per cui l’imposta era un contributo necessario al bene
comune e chi rifiutava il pagamento non difendeva il suo diritto di proprietà, ma
commetteva un’ingiustizia in quanto faceva pagare ad altri il vantaggio che
riceveva dalla comunità.
2. La funzione fiscale in Inghilterra del XVII secolo
Nell'ambito della contrapposizione fra l’autoritarismo regio e le istanze del
pluralismo borghese espresse dal Parlamento si delinea l’antitesi fra l’interesse
pubblico alla riscossione dei tributi e l’interesse dei singoli consociati ad una
difesa dei diritti individuali di proprietà e libertà.
In un primo momento, la contrapposizione fra i due organi costituzionali, re e
Parlamento, concerneva semplicemente l’identificazione dei diritti individuali di
libertà e proprietà quale limite al potere del sovrano di imporre tributi, per cui
si chiedeva un preventivo assenso da parte del Parlamento. Si riconosceva
l’esistenza di valori attinenti alla sfera individuale, liberty e property clause, che
si ponevano in termini concorrenti con il valore normativo superindividuale
collettivo espresso dal potere impositivo del sovrano. Ne conseguiva che il
potere del sovrano non poteva più essere inteso come «dominio assoluto», ma
la potestà individuale doveva ricollegarsi ad un interesse generale della
comunità per cui l’interesse fiscale diveniva il baricentro teorico
dell’imposizione.
In un secondo momento, il Parlamento si pose su posizioni sbilanciate verso un
ribaltamento del rapporto fra i due valori normativi: si contestò la validità
giusnaturalistica del potere del sovrano e si accentuò la priorità tecnica e
sostanziale dei valori di libertà e proprietà. La posizione del Parlamento come
garante della legittimità delle norme tributarie venne considerata essenziale per
la piena tutela dei valori di libertà e proprietà. Matura, dunque, la nozione di
interesse fiscale dello Stato come valore normativo pubblico contrapposto ad
altri valori normativi riguardanti la sfera individuale: gli interessi individuali
corrispondenti ai valori della libertà e della proprietà sono posti in
contrapposizione dialettica con l’interesse della collettività ad acquisire le
risorse finanziarie fondamentali per la propria sopravvivenza.
Il pensiero di Hobbes conferma la contrapposizione fra interessi individuali e
interesse pubblico alla percezione dei tributi. Secondo Hobbes, il bene
fondamentale che gli individui cercano è la pace e la sicurezza e questo bene
può essere raggiunto solo in un assetto organizzato della collettività che
consente di superare le debolezze del singolo. Nella contrapposizione fra stato
di natura e stato civile si rinvengono i prodromi dell’antitesi fra interesse fiscale
e interessi individuali: nello stato di natura sono presenti libertà e uguaglianza
che però sono destinate a risolversi nel conflitto universale «di tutti contro
tutti»; quando subentra la regolamentazione pubblica degli interessi individuali
operata dal sovrano, si possono raggiungere i superiori obiettivi di pace e
sicurezza. Si riconosce, quindi, la preminenza degli interessi pubblici rispetto ai
valori individuali. La contrapposizione fra popolo e sovrano si risolve nella
riduzione del pactum unionis al pactum subiectionis, alla quale si può ricondurre
il potere assoluto del sovrano. Si puntualizza, però, che i carichi fiscali devono
essere ripartiti secondo uguaglianza da rapportare ai consumi e non alla
ricchezza (i tributi devono colpire le sole ricchezze consumate), secondo una
logica corrispettiva dei rapporti fra contribuzione fiscale e servizi ricevuti dallo
Stato.
Lo Stato assoluto è il quadro di riferimento all’interno del quale si creano le
condizioni per il dispiegarsi degli interessi privati ed assume una sovranità
distributiva che consiste nel «dare a ciascuno il suo». I tributi vengono presentati
come il salario che gli individui versano per perseguire obiettivi funzionali al
bene collettivo e si stigmatizza il rifiuto di pagare le tasse.
Il pensiero di Locke esprime il carattere funzionale dello Stato rispetto alla
società civile: si afferma il primato dell’individuo e dei suoi valori e di
conseguenza la strumentalità del potere politico per assicurare il benessere dei
cittadini. La società civile, quindi, ha un ruolo prevalente rispetto alla posizione
del sovrano e si ribalta l’impostazione di Hobbes. Lo Stato non ha il potere di
agire nella sfera individuale di proprietà richiamando lo scopo di perseguire un
interesse pubblico, in quanto gli è riconosciuta la facoltà di operare solo in
presenza di un consenso espresso dagli individui con gli strumenti della
rappresentatività. Si esprime, come principio di giustizia, che i tributi vengano
pagati dai consociati in relazione al beneficio ottenuto per la convivenza nella
collettività organizzata.
Comunque sia, coerentemente con il pensiero giusnaturalistico, l’obbligazione
tributaria viene configurata come una sorta di auto-imposizione da parte degli
individui per cui lo strumento di attuazione è la «Rule of law» con esclusione di
un potere discrezionale da parte del sovrano. Si consolida l’idea che l’interesse
fiscale presenti una matrice comunitaria, in quanto il suo fondamento sono i
bisogni giuridicamente apprezzabili diffusi nella comunità. Questa
trasformazione dell’interesse fiscale riguarda la fase normogenetica e in parte la
fase procedimentale; non si producono effetti sul sistema dei tributi che resta
improntato all’impianto di derivazione feudale. L'interesse fiscale dello Stato si
presenta, comunque sia, come principio a contenuto essenzialmente politico
prima ancora che normativo, in quanto diretto a regolare l’equilibrio tra poteri
costituzionali. In effetti, la partecipazione dei rappresentanti del popol era
funzionale a stabilire una regola di legge, Rule of law per l’appunto, in materia
di tassazione che fosse idonea a garantire i diritti fondamentali del cittadino,
soprattutto le libertà e la proprietà. Di conseguenza, il potere tributario deve
essere rispettoso della regola di legge formulata dal Parlamento e i contribuenti
potevano chiedere di valutare e sindacare l’atto di esercizio della funzione
fiscale da parte dell’amministrazione finanziaria per verificare il rispetto della
Rule of law: spettava ai giudici, più precisamente alla Court of Exchequer,
effettuare tale sindacato. Il giudice doveva verificare l’esistenza degli elementi
di fatto e di diritto stabiliti dalla regola di legge per l’esercizio della tassazione e
poteva definire la portata semantica della norma secondo un’opera di
interpretazione. Il criterio dell’auto-imposizione implicò come corollario
giuridico l’attribuzione al potere giudiziario di una funzione di controllo e di
sindacato rispetto al potere tributario.
3. La concezione della funzione fiscale nella rivoluzione americana
Il tratto qualificante della rivoluzione americana è la forte vocazione
democratica. Già nella seconda metà del XVII secolo emersero vari documenti di
carattere istituzionale elaborati nelle colonie americane in cui si esprimeva
l’aspirazione ad una tutela dei diritti fondamentali dell’uomo rispetto
all’incombenza del sovrano inglese: la libertà di religione e di coscienza volevano
proteggere le posizioni assunte nei vari territori coloniali.
Si prevede, però, la contrapposizione fra due linee concettuali alla base del
percorso rivoluzionario. In primo luogo, il pensiero di Thomas Jefferson
prevedeva l’istituzione di un sistema di democrazia liberale fondato
sull’autodecisione del popolo che risultasse funzionale a garantire i diritti
fondamentali dell’uomo. Il punto focale di questa impostazione era la centralità
del processo di formazione di del governo dei territori americani e nella
necessità di indipendenza rispetto ai poteri esogeni. In secondo luogo, si definì
una concezione di matrice liberista e liberale riconducibile a Alexander Hamilton
e James Madison: il nucleo primario della comunità nazionale è la tutela dei
diritti fondamentali, per cui si perseguiva un disegno di promozione delle libertà
dell’uomo. Questo pensiero liberale rappresentò il fondamento della
Costituzione degli Stati Uniti del 1787. I membri della Convenzione di Filadelfia
che elaborarono la Costituzione erano espressione di interessi legati allo
sviluppo industriale e commerciale del paese, per cui si affermava che «i
fondamentali diritti personali di proprietà sono anteriori al governo». Lo Stato,
quindi, si doveva porre in posizione protettiva rispetto alla proprietà e agli
interessi economici.
Sia nella Dichiarazione di indipendenza sia nella Costituzione degli Stati Uniti si
affida il potere sovrano ad istituzioni che rappresentavano la volontà popolare.
Nella connessione fra rappresentanza come forma di esercizio del potere
sovrano e tutela dei diritti naturali si può cogliere il richiamo al pensiero di Locke,
infatti secondo Locke i diritti fondamentali potevano essere garantiti solo
attraverso la fissazione di limiti al potere assoluto del sovrano.
La rappresentanza si configurò in modo diverso in relazione alla duplice corrente
teorica prima menzionata: nel pensiero di Jefferson, si prevedeva una
partecipazione popolare largamente maggioritaria in cui la volontà del popolo
potesse essere ricostruita in maniera puntuale, per cui le istituzioni
rappresentative dovevano essere composte in base ad una selezione di delegati
che fosse in grado di corrispondere alla base popolare; nel pensiero di Hamilton
e Madison, la rappresentanza andava definita secondo meccanismi elitari per
assicurare «la delega di governo ad un piccolo numero di cittadini eletti dal resto
del popolo», per cui le istituzioni divenivano strumenti per la rappresentanza di
interessi emergenti dalla comunità nazionale da mediare rispetto al «bene
comune». Quest’ultima è l’impostazione che si è andata affermando.
Il tema della regolazione del potere tributario è stato affrontato nella
prospettiva del consenso popolare dando valorizzazione del principio della
rappresentanza. In una prima fase, il consenso alla tassazione era espressione
dell’idea di auto-decisione delle colonie rispetto alla volontà esogena formulata
dalla casa-madre. A questa impostazione si collega il pensiero di James Otis che
assegnava alla fiscalità una posizione centrale rispetto alla rivendicazione di
indipendenza, definendo il consenso alla tassazione come una necessità di
diritto naturale.
In una seconda fase, il tema del consenso si spostò verso gli interessi della
nazione e il consenso diveniva una formula di sintesi del processo democratico
che produce le mediazioni politiche occorrenti per una corretta decisione
legislativa in materia di fiscalità. Il tema della fiscalità, quindi, si sposta verso
l’ambito della politica interna e dell’espressione della volontà popolare richiesta
per garantire l’interesse della nazione.
In America, il consenso era espressione di una sovranità attribuita direttamente
al popolo, non esisteva una contrapposizione fra sovrano e popolo a differenza
di quanto avveniva in Inghilterra in cui il consenso veniva usato per regolare il
patteggiamento istituzionale fra il sovrano e il popolo.
Nella dottrina rivoluzionaria americana si consolidò il convincimento che il bene
della comunità e la tutela dei diritti naturali dell’uomo fossero assicurati
attraverso la stabilità di governo e l’inattività dello Stato: si definì l’idea per cui
lo Stato dovesse astenersi da ogni intervento in economia e nella giustizia sociale
e di conseguenza si ebbe un’assoluta estraneità alle dottrine rivoluzionarie
americane di ogni attenzione ai fondamenti logici e giuridici del potere
tributario. La matrice liberale indusse scelte di politica fiscale ispirate al
protezionismo della capacità di funzionamento del sistema produttivo
americano, ad esempio si ricorse a una politica doganale protettiva.
Le teorie espresse dalla rivoluzione trovarono conferma nella giurisprudenza
della Corte Suprema degli Stati Uniti. Figura chiave fu quella del Chief Justice
John Marshall il quale emise una serie di sentenze storiche che fissarono la
cornice giuridica e assiologica della Costituzione americana: egli prospettò la
teoria della «supremazia della Costituzione» secondo cui la legge fondamentale
poneva limiti insuperabili alle leggi dello Stato federale e dei singoli Stati. Si
affermò che il potere tributario costituisce un elemento fondamentale della
sovranità che garantisce l’efficace funzionamento dello Stato, il potere di
tassazione è un potere assoluto che non conosce altri limiti se non quelli fissati
in Costituzione e il potere tributario può essere esercitato dall’Esecutivo
secondo valutazioni autonome, si esclude un controllo del merito del potere
tributario, ma si prevede un criterio di rappresentanza politica manifestata
attraverso il Parlamento che definisce un garanzia di procedura rispetto
all’esercizio del potere tributario.
Nella seconda metà del XVIII secolo si formulò una teoria di resistenza fiscale,
sviluppata nell’ambito delle dottrine religiose, che propugnava la libertà
dell’individuo di sottrarsi alla sovranità dello Stato qualora l’utilizzo del gettito
fiscale fosse rivolto a manifestazioni di violenza incompatibili con il credo
religioso. A partire da John Woolman si affermò anche un’idea di resistenza
fiscale che metteva in discussione il diritto del sovrano a richiedere imposte a
fronte di una destinazione bellica che contrastava con il diritto dei popoli.
4. L'ulteriore trasformazione della funzione fiscale nel sistema francese di
formazione illuministica
In Francia, vi era una monarchia assoluta che aveva esautorato da qualsiasi
funzione il Parlamento di conseguenza le istanze riformatrici assunsero un
carattere più radicale rispetto all’impostazione inglese.
Il sistema fiscale monarchico presentava i tratti originari della fiscalità
medievale, quindi si delineò la convinzione che il carico fiscale dovesse seguire
un percorso di sviluppo diretto a superare il sistema di tributi dell’Anchien
Régime attraverso una trasformazione concettuale dei criteri di tassazione.
Nel pensiero illuministico si pone in risalto come le imposte debbano assumere
un ruolo positivo all’interno dell’organizzazione sociale, per cui il cittadino è
chiamato a partecipare all’assetto politico del paese con il proprio suffragio ed
al fabbisogno economico mediante la propria contribuzione. In effetti, in
Francia, la contribuzione tributaria è stata più volte presentata come elemento
discriminante per l’accesso alle cariche politiche e per l’attribuzione
dell’elettorato attivo. La concezione etica e politica del tributo viene modificata:
«il pagamento del tributo è posto come uno dei più alti doveri del cittadino e si
afferma l’uguaglianza di tutti i cittadini davanti al tributo»; il tributo viene
qualificato come un essenziale strumento di partecipazione del cittadino alla
vita politica e come un «segno di libertà». L'interesse fiscale viene elevato al
livello degli interessi pubblici fondamentali e si fonda su un concetto di sovranità
non più identificata con il potere regio, bensì la sovranità viene attribuita alla
volontà generale: il singolo partecipa con gli strumenti propri della vita politica
alla formazione delle scelte generali in materia fiscale.
Allo stesso tempo, la componente borghese conduce ad una valorizzazione degli
interessi individuali. Si inserisce l’idea contrattualistica di una collettività
statuale imperniata sul consenso degli individui destinati a farne parte: si
afferma il principio del consenso in materia tributaria per cui si devono
recuperare le funzioni rappresentative in materia di decisioni sul livello di
imposizione con valorizzazione dello strumento legislativo.
Nella scuola dei fisiocratici, si afferma anche l’idea di applicare i criteri giuridici
del rapporto obbligatorio nel sistema fiscale: i tributi si inquadravano come
prestazioni rese dai singoli cittadini a fronte del godimento di servizi pubblici
erogati dallo Stato, quasi si trattasse di uno scambio di mercato.
Montesquieu individua un sistema di limiti nella distribuzione del potere da
realizzare mediante la tripartizione delle funzioni di governo. Egli inquadra la
funzione fiscale come espressione del patto sociale, in quanto il tributo è la parte
di ciò che il «cittadino dà di ciò che possiede per avere la sicurezza del restante».
Nel pensiero di Montesquieu emerge una connessione fa libertà e imposizione
fiscale, in quanto il tributo è il corrispettivo dei diritti politici e garantisce la
libertà dei cittadini rispetto al potere del sovrano. La libertà civile e politica della
comunità richiede un livello più elevato di imposizione fiscale. Comunque sia, il
prelievo fiscale va innestato in un contesto di libertà civili che contempla la
proprietà come fattore fondamentale dell’individuo.
Si comincia ad elaborare un compromesso fra fruizione individuale ed utilità
generale: la ricerca dell’interesse individuale può essere coniugata con le finalità
collettive in quanto esiste una modalità comune d’azione. La mediazione fra
interesse della comunità alla percezione dei tributi e tutela dei valori individuali
di aspirazione borghese avveniva realizzata attraverso la fissazione di parametri
normativi generali che consentissero un contenimento della potestà
d’imposizione e, quindi, la protezione di un’area individuale.
Le contraddizioni derivanti dalle direttrici ideologiche sopra indicate si riflettono
sul tema dell’uguaglianza dei cittadini sotto il profilo fiscale: la Dichiarazione dei
diritti del 1789 affermò all’articolo 6 l’uguaglianza di fronte «alle tasse ed alla
legge» e all’articolo 13 che «la contribuzione comune deve essere ripartita
egualmente tra tutti i cittadini in ragione dei loro averi». L'uguaglianza assumeva
il connotato di un’equivalenza formale degli uomini di fronte agli obblighi fiscali
per cui si promossero strutture impositive ispirate dalla tassazione
proporzionale.
Le idee dell’illuminismo sfociarono nella rivoluzione francese del 1789: i tributi
di origine feudale vennero soppressi e sostituiti da un articolato complesso di
prestazioni tributarie; l’esazione dei tributi venne affidata alle municipalità locali
sottraendola ai funzionari regi. Al posto di una disorganica serie di tributi, il
prelievo fiscale venne organizzato intorno a delle imposte che dovevano
assicurare stabilità del gettito e un riparto più equo tra le varie categorie di
contribuenti: si spostò il baricentro fiscale dalle imposte indirette, regressive, a
quelle dirette.
I tributi rappresentavano il risultato di un assetto coerente ai valori diffusi nella
società civile.
5. Il potere tributario a seguito delle rivoluzioni dell’epoca moderna
La rivoluzione è una trasformazione dell’ordinamento di una comunità
conseguente ad una ribellione di massa: si vuole «abbattere l’ordine costituito
per instaurarne di fatto uno nuovo». Il Logos dello Stato viene modificato
attraverso la definizione di un altro Logos emergente dal movimento
rivoluzionario, in questo senso si può sostenere che le rivoluzioni dello Stato
abbiano generato un’età del Chaos.
La funzione fiscale viene identificata come un valore che permea il sistema
tributario; allo stesso tempo, il potere tributario si pone in relazione dialettica
con i valori fondamentali di libertà e proprietà degli individui: la matrice
comunitaria e la tensione dialettica con altri valori costituzionali valgono a
delineare il carattere del potere tributario come elemento del patto sociale, per
cui si deve porre in essere un bilanciamento di interessi. I valori propri
dell’individuo vengono assunti come punto di rifermento dello sviluppo del
diritto fiscale: in Inghilterra e negli Stati Uniti, la tassazione è vista come un limite
allo sviluppo dell’individuo; mentre, in Francia, l’interesse fiscale assume un
valore superiore nel confronto con i diritti individuali. Si possono individuare,
quindi, due direttrici: la prima direttrice orientata verso una concezione
utilitaristica dei rapporti pubblici in cui si afferma la prevalenza dell’individuo e
una seconda in cui la dimensione etica e l’interesse generale della collettività
sono valori supremi e prevalenti rispetto agli interessi individuali.
Muta anche il rapporto fra sovrano e cittadinanza: il patto sociale che sosteneva
la nuova sovranità era definito nelle costituzioni in cui si dichiaravano i principi
fondamentali della relazione sociale e politica. Il fondamento assiologico del
potere tributario era da ricercare nel bene comune e il potere tributario veniva
spersonalizzato in quanto considerato come un potere generale dello Stato al
servizio del bene comune e non più connesso al potere assoluto del sovrano-
persona. Il potere tributario perde la sua determinazione auto-referenziale e
viene, invece, stabilito secondo il principio del consenso parlamentare, per cui
l’imposizione è decisa secondo una procedura concordata con le istituzioni
rappresentative della volontà popolare. L'effetto rilevante di questa
trasformazione si avverte nel sindacato giudiziario degli atti autoritativi riferiti
alla potestà tributaria: la tutela giudiziaria diviene il meccanismo mediante il
quale si garantisce l’effettiva attuazione del diritto fiscale stabilito dalla legge.
La borghesia mercantile ed industriale si è posta come base economica e politica
delle iniziative rivoluzionarie per rivendicare cambiamenti degli assetti sociali
che permettessero una maggiore capacità di funzionamento dei mercati e di
circolazione della ricchezza. Di conseguenza, la limitazione del potere tributario
dello Stato assoluto era una necessità storica per la modernizzazione del patto
sociale. La regola di legge che voleva limitare la potestà amministrativa in ambito
fiscale era espressione di un progetto di sviluppo delle libertà borghesi
essenziale per promuovere il capitalismo mercantile ed industriale. Il
fondamento della trasformazione del potere tributario risiede nell’avvento del
capitalismo borghese e, quindi, nella trasformazione dell’oligarchia dominante.
In quest’epoca si afferma anche il principio di uguaglianza, la quale era intesa
come uguaglianza davanti alla legge e nei diritti fondamentali di dignità, libertà
e proprietà. Si trattava di un’uguaglianza «negativa» che voleva esprimere
l’eguale considerazione dei consociati nella società a prescindere da elementi
che potessero ostacolarla. L'uguaglianza in ambito fiscale si manifestò in forma
diversa a seconda dei vari contesti: in Inghilterra e America, l’uguaglianza rimase
un motivo di fondo per cui lo Stato doveva ridurre il potere tributario per
consentire a ciascuno di esprimere le proprie potenzialità; in Francia,
l’uguaglianza era alla base dell’ideologia rivoluzionaria e si presentava come
uguaglianza «formale» come equivalenza formale degli uomini di fronte agli
obblighi fiscali.
L'uguaglianza non voleva mettere in discussione i postulati capitalistici della
«società dei proprietari», anzi favoriva l’accumulazione.
Capitolo sesto: Capitalismo e potere tributario
1. Rivoluzione industriale e libero scambio: la trasformazione del sistema
doganale
Elemento determinante del XIX secolo è la rivoluzione industriale, in quanto il
progresso tecnologico esercitò un sensibile effetto sulla capacità del sistema
produttivo generando un incremento del prodotto interno lordo delle nazioni.
L'Inghilterra assunse un ruolo primario nello sviluppo dell’industrializzazione
europea e mondiale: l’utilizzo delle innovazioni tecnologiche venne poi replicato
anche nelle altre nazioni. La Rivoluzione industriale esercitò una grande
influenza sull’assetto economico e sociale del tempo, in quanto il fabbisogno
della comunità poteva essere soddisfatto solo facendo ricorso a un’attività
‘impresa che utilizzava i nuovi fattori della produzione. Si realizzò l’elemento che
diede avvio al capitalismo.
A livello internazionale si afferma il principio del libero scambio e si definisce
l’ordine liberale che vuole abolire le barriere fisiche e legali ai traffici
commerciali che possano alterare o comprimere la capacità di funzionamento
«naturale» del mercato. L'idea guida era rappresentata dall’orientamento della
gestione della cosa pubblica verso la ricerca del benessere generale, per cui i
provvedimenti di carattere liberale dovevano servire a massimizzare l’utilità
generale della comunità.
Nella tradizione dello Stato moderno, il regime degli scambi era ispirato ad un
assetto protezionistico per cui si ricorreva a prestazioni fiscali, soprattutto dazi
doganali, come barriere legali rispetto alla circolazione di prodotti dall’estero. I
dazi doganali erano imposti sulle importazioni di prodotti che erano suscettibili
di competere con la produzione nazionale ovvero sulle esportazioni di derrate
alimentari e beni agricoli per contenere il prezzo sul mercato domestico. Nel
pensiero liberoscambista, invece, i dazi riducono la capacità di funzionamento
del mercato, internazionale e domestico, limitando le potenzialità economiche
e di espansione dell’utilità generale. Dunque, la diffusione delle idee liberistiche
portò, prima in Inghilterra e poi negli altri paesi industrializzati, a modificare la
legislazione doganale in senso favorevole al principio del libero scambio. Solo
pochi paesi, come la Spagna e la Russia, mantennero un’impronta
protezionistica. Bisogna evidenziare che i dazi, comunque sia, rappresentavano
una fonte importante delle entrate fiscali dello Stato, di conseguenza si doveva
ricorrere ad altre fonti di entrata che fossero in grado di compensare la perdita
di gettito.
In Germania esisteva un sistema doganale frammentato: si registravano 39 Stati
e 39 sistemi doganali distinti, alcuni più liberali altri più protezionistici. Con la
costituzione della Confederazione degli Stati tedeschi del 1815 si istituì un
sistema doganale comune, per cui si abolirono le frontiere interne e si istituì un
sistema tariffario unico su tutto il territorio. Si costituì una vera e propria unione
doganale, lo Zollverein, che portò all’abolizione delle frontiere interne e
all’adozione di regimi doganali uniformi sull’intero mercato tedesco: si tratta
dello sfondo ideologico di un movimento portatore del progetto di unificazione
nazionale.
2. L'avvento del capitalismo industriale
Dopo la prima fase della rivoluzione industriale, si assiste ad uno slancio
economico dei sistemi produttivi. Le invenzioni e le innovazioni riguardano i
fattori impiegati nella produzione industriale come il petrolio, l’elettricità, i
prodotti chimici. Aumenta la produttività industriale e si realizza una diffusione
di massa dei prodotti che favorisce il ciclo economico dello sviluppo capitalistico.
Si favorì uno sviluppo del benessere individuale e collettivo e di conseguenza vi
fu un aumento demografico. Si formò il convincimento che la crescita della
produzione industriale aumentava in dipendenza dell’investimento di capitale
da parte dell’imprenditore, per cui l’aumento ei fattori produttivi avrebbe
comportato un aumento dei risultati economici: ciò lasciava intendere la
possibilità di una crescita illimitata e fece nascere il «mito» dell’investimento.
Il movimento liberoscambista subì un «effetto di riflusso» nella seconda metà
del XIX secolo che produsse un rallentamento dei processi di riduzione dei dazi
doganali e, quindi, un «ritorno al protezionismo». Dopo la firma del Trattato
«Cobden-Chevalier» fra Francia e Inghilterra che portava all’abolizione dei
divieti ni traffici commerciali fra i due paesi e all’esenzione di numerosi prodotti
dai dazi doganali, altri Stati assunsero un’impostazione marcatamente
protezionistica che prendeva come riferimento lo Zollverein tedesco. Dunque, si
introdussero dazi doganali su prodotti strategici nel sistema economico interno.
Negli Stati Uniti, la teoria protezionistica di Hamilton promuoveva l’esigenza di
tutelare lee industrie nascenti attraverso le barriere tariffarie. Soltanto
l’Inghilterra mantenne un rigoroso approccio liberoscambista.
3. La reazione al capitalismo: il socialismo e il contenimento delle
diseguaglianze
Lo sviluppo del capitalismo comportò rilevanti trasformazioni dei rapporti sociali
nelle città e nelle comunità industriali, in quanto l’utilizzo di grandi masse di
lavoratori in condizioni ambientali difficili generò numerose situazioni di miseria
e povertà. La «nuova povertà» non riguardava solo gruppi marginali, ma
assumeva un carattere endemico, generando una sorta di «epidemia della
povertà». Il lavoro, considerato come una merce, veniva venduto dai salariati e
acquistato dai capitalisti; inoltre, in una condizione di popolazione in aumento e
di libera concorrenza fra i lavoratori, i salari scendevano ai livelli di minima
sussistenza. L'aggregazione urbana, inoltre, porta a stretto contatto i vari livelli
della popolazione il che mette in comparazione lo stile di vita dei ricchi industriali
e dei molti operai: si avverte l’ingiustizia di una società squilibrata che porta alle
rivendicazioni dei lavoratori.
Il socialismo trova la sua ragione fondativa in tale contesto. La base filosofica del
pensiero socialista è ravvisabile nella rappresentazione materialista della
società: i processi economici formano l’angolo visuale sotto il quale è ricostruito
il potere dello Stato e le relazioni fra classi sociali. La società capitalista è
considerata come un passaggio transitorio nel percorso storico verso un assetto
rivoluzionario in cui è dominante il proletariato e scompaia la titolarità dei mezzi
di produzione in capo alla borghesia. La società prefigurata dal socialismo è una
comunità solidale in cui si supera la solitudine dell’individuo. La
rappresentazione del pensiero socialista è il Manifesto del partito comunista di
Marx e Engels. In una prospettiva rivoluzionaria, si richiede un ripensamento
della funzione fiscale: il prelievo fiscale deve assumere una funzione
redistributiva, la struttura del sistema fiscale deve essere integrata anche da
imposte dirette che devono assumere una connotazione progressiva. La
rivisitazione della funzione fiscale si collegava al progetto di abolizione della
proprietà dei mezzi produttivi al fine di rimuovere il potere di una classe
privilegiata e di favorire la socializzazione del potere nello Stato a beneficio del
popolo. La trasformazione della fiscalità, quindi, andava collegata ad un
progetto di sviluppo della società ispirato dal principio di uguaglianza sostanziale
che avrebbe comportato la redistribuzione delle risorse. Questa finalità di
trasformazione sociale fu il pericolo avvertito dagli ideologi del capitalismo
borghese liberista.
4. La funzione fiscale nell’epoca del capitalismo
La visione liberoscambista dei rapporti economici influì anche sulla ricostruzione
della funzione fiscale: lo Stato venne considerato come un soggetto estraneo ai
processi di sviluppo del capitale e dell’industria e aveva solo un ruolo di
regolatore di vicende istituzionali destinate a proteggere il funzionamento del
mercato. La fiscalità era riportata ad una logica di scambio fra la prestazione
patrimoniale dovuta dal cittadino ed il servizio pubblico assicurato dallo Stato:
questa visione «commutativa» delle prestazioni fiscali si poneva in continuità
con la visione libero-scambista dei rapporti economici. Vennero mantenute, in
linea di massima, le strutture del prelievo fiscale che avevano caratterizzato il
passato. Il nucleo del prelievo fiscale continua ad essere rappresentato dai
tributi indiretti: i dazi doganali sono applicati in maniera consistente ai traffici
commerciali esteri, pur in un contesto mutevole nel tempo; si prevedevano
prestazioni tributarie rivolte ad incidere sulla circolazione delle merci ne
mercato interno e che, quindi, colpivano la fabbricazione o il consumo dei beni
(per i beni oggetto di fiscalità si assiste ad una variabilità in base alle specificità
del sistema produttivo nazionale, ad es. in Inghilterra e America si presta
attenzione alle bevande alcoliche e al tè, in Francia si tassa il vino e il tabacco,
nei paesi mediterranei si colpiscono con i dazi i beni di prima necessità come il
sale o il grano). La fiscalità indiretta si arricchisce anche di imposte sugli atti,
come l’imposta di registro.
Cominciano ad essere istituite in modo ordinato le imposte dirette: le prime
articolate forme di imposizione diretta fu realizzata in Francia, ad es. l’imposta
fondiaria, l’imposta su porte e finestre, la tassa sulla ricchezza mobile (colpiva i
redditi presunti dell’azienda), e poi questo modello venne ripreso dalla maggior
parte dei paesi europei. La nota qualificante di tale imposta è la base indiziaria
che portava ad assoggettare a tassazione un reddito figurativo e congetturale,
dunque tali imposte erano affini alle imposte patrimoniali in quando andavano
a colpire il possesso di beni immobili. La connotazione giuridica di queste prime
forme di tassazione diretta corrisponde al clima ideologico del capitalismo in
quanto si riferisce al capitale come elemento di tassazione piuttosto che al flusso
reddituale effettivamente prodotto dall’attività economica.
Si iniziano ad adottare anche imposte sulla ricchezza mobiliare che si riferiscono
ai proventi delle attività economiche. L'istituzione della tassazione sulla
ricchezza mobile segnava un’importante trasformazione dei sistemi fiscali,
poiché indicava la rilevanza dell’attività economica a prescindere dall’impiego di
proprietà immobiliari e portava il prelievo fiscale ad incidere sui risultati della
ricchezza mobile. L'attenzione alle attività economiche era un corollario del
nuovo contesto economico industriale e capitalistico.
La fiscalità degli Stati europei nel XIX secolo mostra una situazione disomogenea
per cui vi erano una pluralità di ordinamenti tributari. Le maggiori divergenze
della fiscalità erano riconducibili all’imposizione della ricchezza mobile a causa
dell’eterogeneità dei tributi applicati: la diversità di tributo incideva
sull’identificazione del presupposto, sul criterio di commisurazione dell’imposta
e sulla valutazione della base imponibile in quanto si prendeva a riferimento o il
reddito effettivo o il reddito presuntivo. Si riscontravano differenze anche
nell’imposta fondiaria e nelle imposte indirette. Una certa omogeneità si
riscontrava nelle imposte di bollo e di registro.
Agli inizi del Settecento, il sistema del diritto comune presentava una pluralità
di fonti normative che si ponevano in rapporto di concorrenza o di coordinazione
fra di loro. L'esigenza di comporre la frammentazione dell’ordinamento giuridico
si sviluppò a seguito del dibattito che si sviluppò nel XVIII secolo in merito al
superamento del Corpus iuris civilis giustinianeo. Sulla scia della legislazione
napoleonica, in numerosi paesi vi fu un impulso alla redazione di codici per il
diritto civile, il diritto penale e le relative procedure. Da questo processo di
codificazione e di razionalizzazione fu tenuto fuori il sistema tributario, in quanto
vi era l’idea che la disciplina fiscale avesse caratteristiche di ordine
amministrativo e, quindi, non era una disciplina volta a regolamentare rapporti
giuridici fra soggetti bensì erano norme volte a indirizzare l’attività
dell’amministrazione statale nella raccolta di risorse finanziarie. Le leggi di
imposta costituivano medio-sistemi autonomi ed indipendenti, mentre il macro-
sistema era composto prevalentemente di regole di ordine costituzionale. Le
conseguenze di questo assetto così scomposto e frazionato era la difficoltà di
rintracciare criteri ermeneutici unitari e l’instabilità delle regole di imposizione.
5. Il mito dei catasti
Nel secolo XVIII, in numerosi Stati europei, si affermò l’idea per cui il sistema
tributario di derivazione feudale dovesse essere sottoposto a revisione. Si era
delineato un modello fiscale imperniato sulla pre-determinazione del reddito
imponibile riferibile alla terra e anche ad attività mobiliari, da individuare sulla
base di valutazioni congetturali: tale modello fiscale era imperniato
sull’istituzione di un catasto dei terreni e delle ricchezze mobiliari. I catasti erano
improntati a diverse metodologie, vi erano: catasti di tipo geometrico-
particellare, che consentivano misurazioni analitiche della dimensione fisica dei
terreni; catasti di tipo descrittivo, che riproducevano, su base peritale, una
stima della capacità produttiva del singolo appezzamento di terreno. Si è
affermato il «mito del catasto» come strumento evoluto e moderno di
tassazione della ricchezza prodotta dai cittadini sul territorio nazionale.
Nello Stato di Milano, venne formulato un progetto di revisione dell’imposta
diretta e nel 1718 venne proposta l’istituzione di un catasto, ma questa riforma
rimase incompiuta a causa della crisi istituzionale che colpì la monarchia
milanese. Nel 1750, Pompeo Neri venne incaricato di formulare una nuova
proposta di catasto per lo Stato milanese; da tale studio derivano alcuni principi
fondamentali:
- Gli appezzamenti di terra erano misurati nella loro estensione geometrica
(catasto geometrico-particellare), dando carattere oggettivo alla
classificazione fondiaria;
- La tassazione della terra doveva essere effettuata con riguardo alla
«rendita imponibile» espressa da ogni porzione fondiaria;
- Si definì il concetto di «reddito ordinario» individuato sulla base dei
risultati ritraibili mediamente secondo l’esperienza verificata;
- La tassazione della rendita mobiliare era parametrata al tasso medi di
rendimento del capitale;
- I benefici a speciali categorie di contribuenti (ecclesiastici) andava abolito
in virtù di una visione egualitaria della tassazione.
Il censimento entrò in vigore dal 1760 e in ogni comunità venne istituita una
commissione chiamata alla formazione dell’imposta e alla tenuta dei ruoli
d’imposta. Il tributo si rivelò efficace rispetto alla gestione amministrativa e
consentì di risanare le finanze pubbliche.
Nel Regno di Napoli, nel 1740 Carlo di Borbone ordinò l’istituzione di un catasto
generale per tutti i territori al fine di promuovere un riassetto strutturale della
fiscalità. Si optò per un catasto di tipo descrittivo, privo di una rilevazione
analitica del terreno. Il metodo prescelto fu denominato «onciario» in virtù
dell’unità di misura adottata, ovvero l’oncia, in base alla quale si misurava la
capacità di rendita del singolo appezzamento di terra e, quindi, la base
imponibile del catasto. La classificazione catastale ricomprendeva redditi
fondiari e proventi di altro genere, in virtù del fatto che le imposte reali
coesistevano con le imposte personali. Il catasto si fondava su una denuncia
presentata dal contribuente, ovvero la «rivela», e i beni fondiari ivi indicati erano
oggetto di una valutazione denominata «apprezzo» formulata da agrimensori
locali. La rendita era stimata al netto dei costi di produzione. La «rivela» era
verificata dai funzionari pubblici mediante uno scrutinio dei dati riportati,
ovvero lo «spoglio»; i dati delle dichiarazioni verificate erano riportati in un
documento che riassumeva la base imponibile complessiva del territorio
comunale, ovvero la «collettiva generale». Il reddito imponibile era tassato con
aliquote diverse a seconda della categoria di appartenenza del contribuente.
Nonostante vi fosse un’idea di fondo di riforma, l’applicazione concreta di tale
istituto produsse notevoli disparità che agevolarono le classi sociali più forti.
Nel Regno delle due Sicilie, Vittorio Amedeo II aveva avviato una distribuzione
dei carichi fiscali sui terreni del regno al fine di ripartire il prelievo tributario tra
le province. Nel 1731 venne emanato l’editto di perequazione fiscale da parte di
Carlo Emanuele III che concluse l’opera paterna. Il catasto sabaudo configurò un
esempio di perequazione fiscale volta a perseguire un disegno razionale ed
oggettive di misurazione della base imponibile su cui applicare le prestazioni
tributarie.
Il mito del catasto italiano si trasferì nell’ideologia illuministica francese,
divenendo il modello di riferimento da utilizzare per la fiscalità di una società
riformata: si prospettò l’idea che la tassazione sui proventi della terra dovesse
avvenire secondo un criterio razionale ed oggettivo che portasse al
riconoscimento dell’effettiva capacità produttiva.
Nel 1802, fu ordinato di avviare i lavori preparatori per la formazione di un
catasto particellare generale in Francia (venne istituito nel 1811).
6. Le teorie economiche sul capitalismo ed il ruolo della funzione fiscale
Adam Smith, nella sua opera La ricchezza delle nazioni, fornì la completa
sistematizzazione della scienza economica moderna, in quanto colse i tratti
qualificanti del processo capitalistico. Smith dedicò attenzione al ruolo della
politica pubblica rispetto al funzionamento del mercato soffermandosi sulla
funzione fiscale: le spese di carattere generale dello Stato vanno sostenute dalla
contribuzione fiscale a carico dei membri della società in proporzione alle
rispettive capacità, inoltre, egli collega l’obbligo fiscale ai benefici che ciascun
contribuente riceve dall’attività pubblica, si tratta del principio di giustizia o
proporzione. Egli stabilisce, poi, il «principio della certezza dell’imposta», per
cui «il tempo del pagamento, il modo di pagare, la somma dovuta dovrebbero
essere tutti chiari e semplici per il contribuente» in quanto le incertezze del
sistema tributario favoriscono l’arbitrio. Si afferma anche il «principio della
comodità dell’imposta» per cui l’imposta deve essere riscossa nel tempo e nel
modo in cui è più comodo al contribuente, ovvero quando egli ha mezzi adeguati
per pagarla. Infine, si stabilisce il «principio dell’economicità della riscossione»
per cui il prelievo fiscale non deve comportare per lo Stato un costo superiore al
beneficio che ne può trarre, in quanto l’attuazione del tributo può richiedere
oneri ingiustificati ed irrazionali. Smith poi esprime preferenza le imposte che
assumono come presupposto e come base imponibile la ricostruzione effettiva
del reddito in quanto elemento razionale di calcolo della prestazione tributaria;
mentre si esprime sfavore per le imposte di carattere patrimoniale che riducono
ingiustamente la portata del capitale da investire nelle iniziative economiche o
nella dignità della vita. Smith, inoltre, rileva la diseguaglianza delle imposte
indirette, in quanto colpiscono in modo ineguale il ricco e il povero in virtù del
fatto che sono proporzionali. Si esprime, quindi, preferenza per le imposte
dirette.
Richard Cantillon promosse il libero scambio come strumento dello sviluppo
dell’economia dello Stato. Altro contributo al libero scambio provenne da J.B
Say e da Humboldt. Quest'ultimo formula una teoria dei limiti dello Stato per
cui questo non deve intervenire nell’economia e nella società: lo Stato è un
«male necessario» che può procedere con i suoi interventi in ambiti circoscritti
solo dove è indispensabili per assicurare la sicurezza degli individui. Infatti, sono
le libertà in tutti i campi che garantiscono lo sviluppo della società e del
benessere, dunque lo Stato non deve limitare la libertà dei cittadini. Di
conseguenza, il ricorso alla funzione fiscale deve essere limitato allo stretto
indispensabile. Egli, inoltre, mostrò di preferire le imposte dirette sulla proprietà
fondiaria rispetto a quelle indirette sui traffici mercantili.
David Ricardo è l’ideologo di riferimento del movimento liberoscambista. Egli
affermava come un’imposta sui lavoratori sarebbe stata trasferita dai produttori
in un aumento del prezzo delle merci al fine di mantenere inalterato il salario
del lavoratore, dunque egli sosteneva che andavano evitate le imposte che
colpivano i profitti in quanto avrebbero interferito con i processi espansionistici
del sistema industriale. Di conseguenza, andava escluso l’intervento governativo
rispetto al funzionamento del mercato e si doveva guardare con diffidenza il
prelievo fiscale che potesse avviare processi redistributivi. Egli suggerì di optare
per imposte indirette sui consumi di lusso e per imposte sulle rendite fondiarie
in quanto non avrebbero ostacolato il funzionamento del mercato e non
avrebbero posto un freno all’espansione dell’economia.
Jeremy Bentham definisce il principio di utilità come nucleo logico dei rapporti
produttivi e di scambio: le attività umane sono orientate a perseguire l’utilità
individuale in quanto connessa alla ricerca della felicità; gli atti che si scostano
dall’utilità sono da disapprovare in quanto contrari alla razionalità dell’agire
umano. Lo Stato ha come obiettivo la protezione di un assetto ordinato nella
società civile volto allo scambio ed alla produzione in quanto fattori
determinanti per la ricerca dell’utilità: gli interventi dello Stato devono fornire
la cornice normativa più favorevole alla dinamica del mercato e del libero
scambio. Lo Stato deve fissare un ordine naturale che emerge dalle regole del
mercato al fine di conservare la proprietà ed il commercio e quindi di tutelare il
benessere che ne deriva. Egli ritiene che l’uguaglianza vada intesa come un
principio astratto che non richiede l’equa distribuzione delle ricchezze, in quanto
la diversità di posizione sociale ed economica è la «condizione naturale della
società umana». Il prelievo delle prestazioni tributarie ha una connotazione
coercitiva che produce una riduzione delle libertà del cittadino.
David Hume è espressione del pensiero mercantilista. Il diritto di proprietà si
pone come garanzia essenziale della libertà individuale e si presenta come
conseguenza naturale di un assetto ordinato verso la libera concorrenza nel
mercato. Egli evidenzia il nesso tra l’imposizione tributaria e la crescita
dell’economia, in quanto solo in virtù di tale connessione i tributi sono
considerati sostenibili dal contribuente. Inoltre, la relazione fa tributi e ricchezza
industriale deve essere proporzionale. Egli predilige le imposte indirette, ovvero
le imposte che gravano sui consumi, specialmente su quelli di lusso perché si
tratta delle tasse meno sentite dal popolo.
Alexis De Tocqueville analizza i meccanismi di un assetto democratico in cui si
persegue un disegno di «eguaglianza delle condizioni», per cui la democrazia si
presenta come un «tipo ideale» orientato verso il benessere della comunità e la
funzione fiscale viene inquadrata come strumento per assicurare le risorse
occorrenti alle esigenze dello Stato. Egli, inoltre, individua una relazione fra la
prevalenza politica di una classe sociale e la scelta del modello di imposizione,
per cui se governa la classe dei ricchi, questa non diminuiranno le tasse poiché
queste tolgono solo il superfluo; se governa la classe media, questa non sarà
prodiga di imposte perché non vi è nulla di peggiore di una tassa su una piccola
fortuna; se governa la classe dei poveri, questa aumenterà le imposte perché i
poveri non hanno nessuna proprietà imponibile e gli sembra che tutto il denaro
che si spende possa solo dare profitto. La soluzione preferibile è il governo della
classe media in quanto l’incremento della pressione fiscale è visto come un
eccesso di intervento dello Stato in economia.
Stuart Mill esprime la teoria della «libertà negativa» per cui la libertà è libertà
da ingiustificate interferenze esterne. Ne deriva un impianto ricostruttivo della
politica in cui la capacità di intervento dello Stato è limitata alle sole iniziative di
protezione del nucleo fondamentale dei diritti individuali. Dunque, la tassazione
si presenta come un attributo della sovranità da limitare al minimo. In un assetto
di libera concorrenza di mercato, la tutela del capitale e del risparmio dalla
tassazione costituiscono fattori determinanti per il consolidamento del sistema
produttivo. Inoltre, l’inquadramento della funzione fiscale è da lui riportato ad
un contesto di capitalismo mercantile in cui la parte principale del gettito
tributario dello Stato deriva dalle imposte indirette sulla circolazione delle
merci.
Friedrich List è il principale teorico della politica doganale adottata dallo
Zollverein in Germania. Egli affermò che la dimensione economica è un processo
ininterrotto che attraversa vari stadi di sviluppo e per garantire un adeguato
percorso di crescita fra queste fasi è essenziale che lo Stato una funzione di
direzione e protezione del mercato interno. Un fondamentale strumento nella
gestione pubblica delle dinamiche del mercato è individuato nelle tariffe
doganali, in quanto paesi in via di sviluppo, come la Germania, potevano trarre
benefici dallo strumento protezionista doganale (solo gli Stati sviluppati
potevano rinunciare alle protezioni doganali).
Karl Marx riprende le critiche al sistema liberoscambista di List. Marx riteneva
che si dovesse abolire la proprietà privata dei mezzi di produzione al fine di
favorire la socializzazione del capitale attraverso lo Stato così da abolire il potere
politico della classe borghese e ridurre l’oppressione sulla classe proletaria. Il
capitalista è il principale beneficiario del ricavato dei proventi della fiscalità, in
quanto le spese pubbliche dello Stato si riflettono in incrementi del benessere o
della capacità di investimento della classe dei capitalisti: il beneficio del
capitalista è rappresentato dal plusvalore sul lavoro dei salariati più il risultato
indiretto di imposte e tasse. Egli critica l’impostazione di Hegel per cui le imposte
possono funzionare come fattore di sviluppo della capacità dello Stato di
perseguire le finalità collettive, in quanto il percorso parlamentare non esprime
il potere di controllo della fiscalità. Marx propose un’imposta generale sul
reddito a carattere progressivo per ridurre i benefici della classe borghese e
favorire i processi di redistribuzione della ricchezza a favore di operai e proletari.
L'imposta progressiva rappresenta una minaccia della proprietà in quanto
chiama i ricchi a contribuire in misura maggiore.
7. L'idealismo tedesco e la teoria dei diritti pubblici soggettivi
La costruzione edificata dal giusnaturalismo tradizionale viene scossa dal
concetto di «totalità etica» che è assunto da Hegel a premessa della nuova
concezione del diritto e dello Stato. Il «tutto» identificabile nello Stato è
superiore rispetto alle parti che lo compongono, ovvero ai singoli aggregati nella
società civile, per cui la libertà degli individui non è quella soggettiva, ma è quella
oggettiva che si realizza nello Stato e che diviene tale solo in quanto si realizza
nella comunità mediante la legge. Di conseguenza, lo Stato deve guardare
all’interesse generale e non piegarsi agli interessi particolari dei singoli.
L'imposizione fiscale è determinata dal potere statale in relazione alle esigenze
dell’interesse generale e non riguarda la libertà individuale.
Gerber fa assurgere lo Stato a centro assoluto dello sviluppo del diritto pubblico
e di tutti i rapporti giuridici che ne derivano, sul presupposto che «in esso il
popolo giunge ad essere riconosciuto e a valere come un’unità etica totale».
Corollario di tale identificazione è la personificazione dello Stato. Il potere dello
Stato è diretto a realizzare gli interessi ed i fini della collettività ed ha carattere
di forza suprema ed irresistibile cui si piega totalmente ciascun individuo. Si
evidenzia come l’obbligazione di imposta abbia perso il carattere privatistico e
la prestazione tributaria abbia acquisito i tratti di un obbligo generale fondato
sul rapporto etico e giuridico che collega i cittadini allo Stato. L'esercizio del
potere tributario può avvenire solo con i modi e le forme di una democrazia
parlamentare, quindi attraverso la legge, affinché le decisioni sul bene comune
emergano attraverso un’adeguata procedura di confronto nella comunità
politica. La vicenda fiscale è riportata ad un ambito di interessi generali e primari
della collettività in cui diviene evanescente la situazione giuridica dell’individuo.
I rapporti tributari vengono qualificati in relazione all’interesse fiscale dello Stato
e, di conseguenza, le fasi di contenzioso sono affidate all’attività decisionale
amministrativa.
Secondo la dottrina tedesca, la potestà impositiva esprimeva la posizione
dominante dello Stato rispetto al dispiegarsi delle volontà individuali quale si
sarebbe avuta in un contesto parlamentare. La legge di bilancio consente un
rendiconto dell’attività di governo e dei risultati prodotti in termini di entrate
fiscali.
La teoria del diritto pubblico di emanazione tedesca è caratterizzata dalla
priorità assoluta assegnata all’interesse fiscale come interesse generale della
collettività rispetto agli interessi individuali. Lo Stato viene considerato come il
garante della preservazione e dello sviluppo della personalità umana. Il processo
evolutivo del potere tributario si sviluppa abbandonando la visione
personalistica del sovrano e quindi la riconducibilità alla volontà autoritaria del
sovrano. La soggezione del cittadino al potere tributario è assoluta e senza limiti,
ma è rimessa alla condizione che tale potere venga esercitato nel rispetto delle
procedure pubbliche suscettibili di far emergere la determinazione dello Stato
come espressione del volere collettivo e funzionale al bene comune. L'interesse
fiscale è, infatti, un valore primario della collettività.
I principi espressi dall’idealismo tedesco vennero recepiti dalla dottrina del
«metodo giuridico». Si diffuse l’idea che la relazione tributaria dovesse essere
ricollegata alla sovranità dello Stato e declinata secondo le regole espresse dai
testi normativi approvati con le procedure parlamentari indicate nelle carte
costituzionali. La vicenda fiscale era da intendere come un fenomeno coercitivo
il cui fondamento era la sudditanza del contribuente e la sovranità dello Stato.
La nozione di tributo veniva riportata al potere di coazione che lo Stato
esercitava sui cittadini per il perseguimento del bene comune. Ne conseguì una
ricostruzione del rapporto fra cittadino e Stato che era ricondotto allo schema
«potere pubblico-soggezione del privato». Il tributo venne ricostruito come una
figura di obbligazione ex lege.
8. Il potere tributario nel primo capitalismo
Il modello di ordine prospettato nello Stato capitalistico era espressione della
classe che stava assumendo il controllo dei mezzi industriali, ovvero la
borghesia. Il potere economico della borghesia si andava combinando al potere
dell’aristocrazia terriera, per cui il nuovo ordine capitalista era espressione di un
processo di compromesso fra le istanze della borghesia e dell’aristocrazia. Si
trattava, però, di un assetto instabile.
Il Logos della società è determinato dalla nuova oligarchia dominante, ovvero la
borghesia capitalistica. Il tema centrale del Logos capitalistico è la difesa del
capitale e della proprietà dalle intrusioni dello Stato nelle dinamiche del
mercato. Le libertà dell’individuo sono libertà di fare e di agire, ovvero le libertà
dell’homo oeconomicus. I diritti fondamentali dell’uomo, celebrati nelle carte
costituzionali, sono espressione delle aspirazioni borghesi alla tutela della
ricchezza e del capitale. Lo Stato viene visto come garante della sicurezza delle
iniziative economiche ma anche come possibile fonte di arbitrio e iniquità che
va controllata. L'ideologia liberale che si salda con la teoria della «mano invisibile
del mercato» è il nucleo fondante della visione dei rapporti sociali e politici. La
dimensione del «sociale» e del benessere collettivo sono estranee al Logos
capitalistico.
Libertà e proprietà delimitano lo spazio dell’individuo che deve essere protetto
dall’azione invasiva dello Stato, per cui si definisce un modello liberale di
convivenza civile in cui prevale l’idea di immunitas della persona, ovvero di
sottrazione dell’individuo al potere pubblico. Il prelievo fiscale viene mantenuto
entro rigorosi limiti quantitativi, venendo attuato solo per lo stretto
indispensabile occorrente per il bene comune.
Con l’affermazione dello Stato assoluto del Settecento si definisce un
compromesso politico tra l’aristocrazia terriera e la nuova borghesia: il tema
fiscale è volto alla protezione del mercato attraverso gli strumenti fiscali propri
della politica doganale: si abolirono le barriere interne che impedivano il
commercio nel territorio azionale e, per favorire la produzione nazionale, si
imposero dazi doganali sulle importazioni. Oltre alla politica doganale, però, lo
Stato assoluto mantiene l’indirizzo di politica fiscale dell’Ancien régime.
Con l’avvento del capitalismo si consolida il modello istituzionale voluto dalla
borghesia: l’obiettivo principale dell’ordine capitalistico consisteva nella difesa
del capitale e della proprietà dalle intrusioni dello Stato, per cui il potere
tributario venne qualificato come un attributo della sovranità dello Stato da
esercitare con prudenza in modo da rispettare le libertà capitalistiche. Si
incrementò la regolazione normativa delle obbligazioni fiscali: le leggi tributarie
erano rivolte a definire le norme sostanziali (ad es. la base imponibile e
l’aliquota) e le norme strumentali dirette a fissare le procedure dell’agire
amministrativo. Non ricorreva, ovviamente, una situazione omogenea in quanto
esistevano una pluralità di sistemi tributari diversificati da paese a paese.
Comunque sia, anche mancano una codificazione della disciplina fiscale, si
affermava che le leggi di imposta erano autonomi sistemi normativi rispondenti
a interessi e valori propri non sovrapponibili con altri settori del diritto. Il diritto
tributario tendeva a limitare il potere tributario.
Nell'ordine capitalistico, l’uguaglianza si presenta come astratta titolarità di
diritti in ragione della comune appartenenza alla società, quindi come
uguaglianza «formale». Le dottrine liberoscambiste consideravano «naturale»
la diseguaglianza e non ritenevano che lo Stato dovesse intervenire per
correggere l’ineguale distribuzione di ricchezza, per cui lo Stato non doveva
intervenire con le leggi tributarie in funzione redistributiva alterando le leggi
della domanda e dell’offerta.
Una peculiare configurazione è assunta dall’idealismo tedesco, per cui
l’uguaglianza qualifica i cittadini davanti allo Stato e vuole escludere privilegi o
immunità a favore di alcune categorie sociali: si promuove il livellamento della
tassazione a tutta la cittadinanza.
Capitolo settimo: La funzione fiscale nell’epoca dell’imperialismo e
delle Guerre mondiali
1. L'imperialismo
Dalla seconda metà del XIX secolo fino alla prima metà del XX secolo, si è
assistito a un fenomeno di espansione politica e capitalistica conosciuto come
«imperialismo» per cui paesi molto sviluppati esercitano dominazione su paesi
meno coinvolti nello sviluppo industriale. La spinta imperialista espressa da
ciascun paese avanzato si è manifestata in modo diverso a seconda dello stadio
del capitalismo. I territori dominati si presentavano come «mondi in ritardo»
rispetto all’evoluzione del capitalismo industriale che potevano soggiacere alla
seduzione del progresso tecnologico, ma i programmi di industrializzazione dei
«mondi in ritardo» si tradussero in una sistematica spoliazione delle ricchezze
dei territori dominati.
I vari Stati che ricevevano iniziative industriali erano chiamati a contrarre debiti
per ripagare gli investimenti operati dai paesi industrializzati, debiti erano
anticipati da banche che richiedevano come garanzie la canalizzazione dei
proventi del prelievo fiscale: una parte delle risorse del paese era asservita agli
interessi finanziari del paese dominante per il tramite del gettito fiscale. Era
necessario rendere la fiscalità dei paesi in ritardo più performante e questa
trasformazione della fiscalità si espresse in modi diversi a seconda dei contesti
economici e sociali. La pesante tassazione che venne imposta dai colonizzatori
esprimeva una forma di dominio suscettibile di generare un vivo malcontento
nelle popolazioni autoctone: i benefici dell’industrializzazione venivano limitati
alle élites locali, mentre il popolo avvertiva solo l’oppressione dei colonizzatori
anche in virtù della pressione fiscale.
I paesi industrializzati svilupparono una relazione commerciale privilegiata con i
propri domini coloniali per cui attuarono una politica doganale moderata. Le
importazioni provenienti da altri Stati, invece, furono oggetto di dazi doganali di
elevata misura. Dunque, il protezionismo di questo periodo si saldava con la
politica di protezione doganale già avviata in passato.
2. Spunti e aperture verso la tassazione egualitaria degli Stati europei
La rivoluzione industriale aveva prodotto numerose ingiustizie sociali, dunque si
dovevano studiare forme di redistribuzione del reddito che riducessero le
diseguaglianze e favorissero un recupero della dignità e libertà da parte del
popolo. Un elemento decisivo è riconosciuto all’esercizio della funzione fiscale
in senso redistributivo, in virtù di una «teoria sociale della fiscalità». Le linee
guida di questa fase riformatrice sono: l’istituzione di un’imposta personale sul
reddito, i tentativi di attenuazione delle imposte indirette e la centralità dei dazi
doganali.
Elemento qualificante della riforma fiscale è, innanzitutto, l’istituzione di
un’imposta generale sul reddito. L'imposta si sposta dal dato patrimoniale a
quello reddituale, in quanto il reddito viene considerato come un indicatore
affidabile della ricchezza e della capacità di contribuire alle spese pubbliche. In
Inghilterra, Robert Peel, per finanziare la guerra contro Napoleone, introdusse
un’imposta proporzionale sul reddito (income tax), in questo modo l’imposta
non modificava la ripartizione delle ricchezze. Dopo la vittoria di Waterloo,
questa tassa venne abrogata per poi essere nuovamente instaurata a fronte
della crisi sociale dell’industrializzazione e delle proteste operaie: in questo
modo si poterono ridurre i dazi e favorire la pratica liberoscambista.
Un tema importante fu quello della progressività dell’imposta generale sul
reddito quale meccanismo idoneo ad attivare i processi di redistribuzione della
ricchezza nazionale. Ovviamente, vi erano anche oppositori del principio di
progressività in quanto considerato contrastante con la libertà di mercato. In
Inghilterra, con la vittoria liberale del 1892, si accentuarono le deduzioni
dell’income tax per i meno abbienti e vennero previste aliquote progressive per
l’imposta di successione. Nel 1909, su proposta del cancelliere allo Scacchiere,
si istituì un’imposta progressiva sul reddito globale dei contribuenti i cui proventi
andavano a finanziare misure di sostegno ai ceti poveri. In Germania, si istituì
un’’imposta unica e globale sul reddito che consentiva di attuare una forma di
progressività. In Francia, nel 1914, si istituì un’imposta unica sul reddito a
carattere proporzionale. L'imposta progressiva rappresentò l’emblema della
trasformazione della tassazione nel senso egualitario come correttivo pubblico
agli eccessi del capitalismo industriale: alla logica dello scambio fra imposte e
servizi pubblici si sostituì la logica della redistribuzione della ricchezza nazionale
mediante lo strumento fiscale.
Un ulteriore profilo della redistribuzione della ricchezza nazionale tramite la
funzione fiscale fu individuato nella possibile discriminazione in sede di
tassazione dei fattori produttivi e delle tipologie di reddito, per cui ad esempio
si potevano prevedere aliquote differenziate e si poteva ricorrere ad un’imposta
complementare a quella sul reddito.
Per le imposte sul reddito, inoltre, si utilizzò in modo sistematico il sistema della
ritenuta alla fonte per cui il datore di lavoro operava come un sostituto
d’imposta trattenendo dalla retribuzione del lavoratore la quota d’imposta. In
questo modo il pagamento del tributo era effettuato in modo più semplice,
veloce e sicuro, evitando il rischio di evasione da parte del lavoratore.
Nella quasi totalità dei sistemi tributari degli Stati industrializzati, la componente
principale delle entrate era assicurata dall’imposizione indiretta in virtù della
facilità di gestione. Questi tributi erano applicati con modalità diverse nei vari
paesi e presentavano un effetto diverso a seconda della diversità di aliquota
d’imposta applicata.
3. Le dottrine finanziarie e il ruolo del tributo nell’economia capitalistica
A partire dalla seconda metà del XIX secolo si elaborarono dottrine finanziarie
che attribuivano un ruolo primario al tributo nella definizione degli scenari
macro-economici, per cui il tributo veniva studiato come elemento decisivo
dell’economia idoneo a determinare gli indirizzi e gli equilibri del sistema
finanziario di uno Stato. Le posizioni dottrinali possono essere accorpate in tre
principali filoni teorici:
- Teoria individualistica e liberista, fondata sulle leggi del mercato e della
concorrenza per cui la funzione fiscale è giudicata in base a principi
liberistici;
- Teoria organicistica, per cui la condotta economica dello Stato è guardata
nella prospettiva dei «corpi sociali», quindi adottando categorie logiche
non tipicamente economiche;
- Teoria conflittualistica, in cui i modelli economici e la funzione fiscale
sono espressione dei conflitti sociali tra gruppi egemoni e lavoratori.
Le dottrine riconducibili alla teoria individualistica sono caratterizzate dalla
logica di scambio volontario come fondamento della dimensione di finanza
pubblica: ogni individuo, consapevole dei propri bisogni e dei mezzi adeguati a
soddisfarli, opera le sue scelte in libertà in un assetto concorrenziale in cui lo
Stato non interferisce con il funzionamento del mercato. Le entrate fiscali sono
considerate come un corrispettivo che il cittadino deve pagare per la fruizione
dei servizi pubblici. Secondo la teoria classica, lo Stato è considerato come
un’impresa che fornisce servizi dietro richiesta; secondo la teoria neoclassica, lo
scambio fra Stato e cittadino è incluso nella valutazione dell’equilibrio del
consumatore; secondo la teoria dello «scambio volontario», si contestualizza la
relazione fra Stato e cittadini ad una comunità di più individui. Il fondamento
ideologico di tali dottrine è la concezione liberale della finanza pubblica, per cui
lo Stato deve essere neutrale nel mercato. Di conseguenza, il prelievo fiscale va
limitato al minimo possibile ed i tributi non devono interferire con le logiche
della concorrenza. Un qualche effetto redistributivo può essere realizzato dalla
funzione fiscale tenendo conto dell’esigenza di proteggere la capacità di
funzionamento del mercato mediante la crescita dei fattori produttivi.
Le dottrine riconducibili alla teoria organicistica assumono l’esistenza di un
unico corpo sociale e di un insieme di valori coerente ed oggettivo come guida
dell’attività economica. Lo Stato è considerato come un’entità superindividuale
che vale a fissare e mantenere i presupposti per il libero svolgimento dell’attività
economica degli individui e le condizioni dell’intervento pubblico in economia
sono connotate dalle mutevoli ragioni spaziali, temporali, socio-culturali.
Emerge la funzione sociale dello Stato il cui intervento integra l’iniziativa privata
e la capacità di funzionamento del mercato. L'applicazione dei tributi è spiegata
con ragioni etiche e sociali in funzione correttiva delle ineguaglianze sociali. La
capacità contributiva indica nell’appartenenza ad una comunità il presupposto
del dovere tributario di partecipare ai costi di sopravvivenza e sviluppo della
società.
Ciò che caratterizza le dottrine classificabili nella teoria conflittualistica è
l’imputazione del calcolo finanziario alla classe politica dominante che procede
alle scelte di investimento dello Stato secondo valutazioni di opportunità
coerenti con i propri interessi. Le scelte di finanza pubblica, quindi, rispondo agli
interessi di una classe sociale e di conseguenza scontentano la maggioranza
popolare: il potere tributario viene esercitato per scaricare il peso del prelievo
sulle classi più deboli. L'esercizio della funzione fiscale si inserisce in un contesto
di conflitti sociali tra l’oligarchia dominante e le altre categorie. il fondamento
del tributo è la decisione politica della classe dominante in ragione della propria
percezione dei bisogni della comunità. Un secondo indirizzo, invece, riporta la
finanza pubblica al contesto sociologico e ai sentimenti religiosi, per cui il
prelievo tributario è da riportare ad apprezzamenti e scelte della classe
dominante motivate da elementi sociologici e quindi non razionali.
Nel movimento dottrinale sociologico si iscrive la teoria della finanza pubblica
elaborata da Vilfredo Pareto. In virtù dell’eterogeneità sociale, la logica del
mercato non è applicabile alle dinamiche della finanza pubblica: non è possibile
postulare l’esistenza di un unico soggetto che formula le scelte di mercato.
L'obiettivo di ogni assetto collettivo è il perseguimento del massimo di utilità che
viene raggiungo quando la trasformazione dell’assetto non aggiunge più una
utilità a scapito della perdita di utilità in qualcuno dei consociati, ovvero l’ottimo
paretiano. Il massimo di utilità per una comunità non è determinabile a priori in
virtù della pluralità di interessi e valori. Le decisioni collettive sulle opzioni di
finanza pubblica sono, quindi, riconducibili ad apprezzamenti formulati da un
gruppo ristretto. L'intervento dello Stato è proficuo se procura vantaggi alla
società secondo l’ottimo paretiano, non se persegue finalità limitate alla classe
dominante.
Nella dottrina delle illusioni finanziarie di Peruviani si afferma che l’imposta
viene usata per assicurare vantaggi alla classe dominante e per non rendere
percepibile l’effetto reale prodotto si ricorre ad espedienti normativi o
istituzionali, appunto le illusioni finanziarie che attenuano la sensazione di
penosità dei tributi nei contribuenti e quindi la resistenza ad adempiere agli
obblighi finanziari.
L'idea di un «socialismo di Stato» venne sostenuta anche da Adolph Wagner,
studioso non socialista. Lo Stato, rivolto alla tutela del bene comune, doveva
intervenire nelle dinamiche economiche per favorire il progresso del sistema
produttivo per perseguire un disegno di trasformazione sociale che avrebbe
ridotto le diseguaglianze. Lo Stato, quindi, doveva farsi carico del benessere dei
cittadini, ma l’aumento della dimensione dello Stato interventista richiedeva un
incremento del fabbisogno finanziario: egli prospettò un aumento del prelievo
fiscale da attuare mediante un’imposta progressiva sul reddito che avrebbe
favorito la redistribuzione della ricchezza sul reddito.
Le dottrine che rientrano nella logica liberista convergono sull’enucleazione di
alcune massime di «buon governo fiscale» per ottimizzare l’esercizio del potere
tributario: la produzione non deve essere ostacolata dalle imposte, le imposte
devono avere una funzione fiscale e non extra-fiscale, l’effetto redistributivo
deve essere marginale ed accessorio rispetto al fine di procurare entrate allo
Stato. Dunque, si prospetta una concezione minimalista dello Stato, ispirata
dalla logica della «neutralità del tributo» rispetto al funzionamento del mercato.
4. La fiscalità dei periodi delle Guerre Mondiali
A seguito della I Guerra Mondiale, l’economia mondiale è sconvolta: lo spazio
economico unitario che si era creato viene meno e il ciclo economico e
industriale viene alterato dalle esigenze belliche. La pace non servì per
ripristinare i modelli economici preesistenti alla guerra.
I principali paesi che avevano partecipato alla guerra dovettero coprire l spese
del conflitto e gli oneri della ricostruzione con interventi finanziari ingenti che
portarono il bilancio nazionale a situazioni di deficit. Per aumentare gli introiti si
aumentarono le imposte dirette, ma ciò non fu sufficiente: si ricorse a dilazioni
e finanziamenti in una logica di differimento del rimborso del debito. Gli Stati
europei dovettero ricorrere ad ulteriori indebitamenti con il sistema finanziario
per coprire il disavanzo d’esercizio alimentato dallo stesso indebitamento. Per
garantire l’emissione dei prestiti si ricorse a meccanismi inflazionistici in chiave
di copertura del debito. La perdita di valore d’acquisto della moneta
conseguente all’inflazione risultò negativa per i ceti medi che non potevano
agire sui prezzi delle merci per recuperare forza economica.
La crisi europea si estende anche agli Stati Uniti producendo la crisi economica
che, nel 1929, affonda la Borsa di Wall Street. La grande depressione economica
che si sviluppa negli anni Trenta del XX secolo porta all’accantonamento
dell’impostazione liberoscambista e all’emersione di tendenze protezionistiche
volte a tutelare il mercato interno ricorrendo a dazi. Il ricorso ad una fiscalità
doganale costituì una barriera alla ripresa del commercio internazionale.
In questo contesto, vi furono anche spunte verso la tassazione egualitaria che
avrebbe comportato l’aumento dei proventi fiscali e un effetto redistributivo a
beneficio delle classi sociali più deboli. Queste istanze vennero fortemente
opposte negli Stati industrializzati per la resistenza delle classi dominanti: in
Inghilterra e in America si modificano le aliquote sulle imposte in base
all’alternanza fra partiti. I sistemi fiscali degli Stati europei rimasero ancorati a
modelli tradizionali in cui manteneva un peso rilevante l’imposizione indiretta,
comprimendo la funzione livellatrice ed egualitaria della fiscalità.
5. La fiscalità dei regimi totalitari
La fiscalità del fascismo
L'avvento del fascismo in Italia nel 1922 determina una trasformazione dei
modelli sociali ed economici. L'ideologia di espansionismo imperialista espressa
dal fascismo richiedeva un potenziamento demografico, di conseguenza
vennero istituite imposte sui celibi e vennero previste esenzioni fiscali per le
famiglie numerose. Oltre a questi profili politici ed ideologici, però, il fascismo
non intervenne in modo rilevante sul sistema fiscale e prevalsero interventi
parziali su aspetti specifici dei tributi esistenti. Furono previste lievi modifiche
normative all’imposta fondiaria e all’imposta di ricchezza mobile mantenendo
inalterati i caratteri strutturali. Venne istituita un’imposta complementare sul
reddito. Venne istituita l’imposta generale sugli scambi, quindi sul complesso
delle transazioni in entrata del contribuente, vennero aumentate le accise e fu
promossa una riorganizzazione dei dazi doganali. Vennero modificate le tasse
sugli affari e si abolì l’imposta sulle successioni per venire incontro alle richieste
della popolazione.
In linea di massima il sistema tributario manteneva la tradizione dello Stato
liberale, salvo il disegno propagandista.
La fiscalità del nazismo
Nell'ideologia nazista, l’economia è un mezzo per assicurare il perseguimento
degli obiettivi di «terra e sangue». Inizialmente, si mantenne il sistema fiscale
precedente ispirato all’austerità e al rigore integrato, però, con una politica di
indebitamento per sostenere le spese di armamento. Per favorire gli
investimenti, si ridusse la tassazione sul capitale eliminando l’imposta sugli
aumenti patrimoniali e prevedendo esenzioni per gli investimenti produttivi.
La fiscalità del comunismo in Russia
A seguito della rivoluzione del 1917, la politica economica era volta
all’accentramento delle decisioni nelle mani del partito comunista e alla
sostituzione dell’economia di mercato con un’economia di baratto e di scambi
in natura. Gli anni successivi alla I Guerra Mondiale resero, però, evidente
l’incapacità di funzionamento di questo assetto economico. Nel 1929 venne
inaugurata la «nuova politica economica» (NEP) volta alla crescita della
produttività. L'esigenza di un aumento della produttività impose di contenere le
aspirazioni ad una società egualitaria: si impose un’imposta fondiaria unica sui
proventi fondiari da pagare in natura; si ridussero le tasse sui proventi dei fondi
agricoli gestiti in modo collettivistico; si aggravarono i dazi e le accise. La
situazione economica in Russia peggiorò portando a fenomeni di inflazione
monetaria. Stalin utilizzò la tassazione come strumento di profilazione sociale
ed economica del paese: i contadini agiati vennero presentati come «nemici»
della classe operaia e dello Stato e venivano penalizzati a favore delle comunità
collettivistiche (Kolchoz), per cui i contadini agiati vennero spersonalizzati
dentro le comunità collettivistiche promosse dal regime.
6. La II Guerra Mondiale
Il periodo bellico produsse elevati costi per i paesi partecipanti al conflitto: gli
Stati coprivano il fabbisogno finanziario in parte ridotta con il gettito fiscale e in
parte principale con l’indebitamento pubblico. Gli stati ricorsero stabilmente ad
una politica di deficit spending per sostenere il rilancio dell’economia e
l’occupazione. La funzione fiscale era strumento necessario per garantire flussi
finanziari stabili.
La fiscalità dell’epoca di guerra presenta obiettivi comuni a tutti i paesi
partecipanti al conflitto, ovvero l’esigenza di assicurare flussi stabili e
incrementati per assicurare una copertura finanziari alle spese per armamenti.
Il prelievo fiscale aumentò in maniera consistente con preferenza per le imposte
indirette che consentivano di produrre un gettito incrementale rispetto alle
imposte dirette. Vennero anche previsti meccanismi normativi di carattere
straordinario.
Il Reich nazista ricorse ad una fiscalità predatoria per cui si accaparrava le risorse
finanziarie dei paesi sconfitti. Il prelievo sui paesi occupati variava da Stato a
Stato avendo riguardo sia alla condizione di ricchezza sia al grado di adesione
politica all’indirizzo nazista.
Durante il periodo di conflitto bellico, gli Stati coinvolti nella guerra avevano
esigenza di incrementare il livello delle entrate tributarie per far fronte alle
maggior spese. L'alternativa era aumentare il carico fiscale ordinario o ricorrere
agli strumenti di finanza straordinaria: si ricorse ad entrambi gli strumenti con
maggiore incidenza della finanza straordinaria. Sulla finanza ordinaria si
intervenne mediante manovre sulle aliquote. Per quanto riguarda la finanza
straordinaria, si trattava di misure estemporanee che determinavano un livello
aggiuntivo di prelievo rispetto a quello ordinario e potevano configurarsi quali
nuovi tributi quanto come addizionali di tributi esistenti.
Ciò che colpisce è la mancanza è la mancanza di elasticità del prelievo rispetto
alle effettive variazioni dei redditi in congiunture di notevole dinamismo.
7. Il disegno degli economisti per il rilancio dopo la II Guerra Mondiale
La teoria di John Keynes rivoluzionò l’approccio alla politica economica e fu
utilizzata per il rilancio dell’economia dopo la II Guerra Mondiale. Egli dimostra
che esistono contesti in cui il consumo si blocca e il risparmio permane come
liquidità senza essere immesso nel circuito degli investimenti. Per favorire la
crescita economica e l’occupazione, la spesa di investimenti deve tendere ad
eguagliare ed assorbire il livello del risparmio di piena occupazione, dunque è
necessario un intervento dello Stato nella spesa per investimenti per
raggiungere tale punto di equilibrio. Inoltre, la spesa pubblica è destinata a
produrre un effetto di moltiplicazione della produzione e del reddito nazionale
poiché la quota di consumo derivante dall’investimento attiva un ciclo di
ulteriori produzioni e consumi: si tratta della teoria del moltiplicatore
keynesiano. L'intervento dello Stato in economia tramite la spesa per
investimenti costituisce un fattore decisivo per risollevare il sistema produttivo
delle fasi di depressione. La politica fiscale svolgeva un ruolo primario per
supportare lo Stato nel suo intervento in economia: si collegò il concetto di
azione fiscale e di finanza pubblica, nel quale si doveva includere anche la
funzione tributaria e l’indebitamento come strumenti idonei a garantire le
risorse per gli investimenti. La politica di deficit spending consentiva un
incremento della domanda globale e quindi dell’occupazione.
Le teorie di Keynes furono riprese nel periodo a cavallo della II Guerra Mondiale
e si formularono varie teorie che riprendevano i suoi postulati. La molteplicità
dei modelli matematici fornisce, però, un elemento di incertezza in quanto
diventa difficile comprendere quale tra di essi sia preferibile. Nell'ambito di
questi modelli, la funzione fiscale non è considerata come un elemento
determinante, ad eccezione del modello prospettato da Alvin Hansen che
analizzò il ruolo della politica fiscale nei cicli di sviluppo del mercato e sostenne
che l’azione dello Stato, supportata da un’adeguata politica tributaria, avrebbe
potuto evitare il ristagno dell’economia.
Vi sono anche ipotesi di ricostruzione dello scenario evolutivo del capitalismo in
continuità con il pensiero marxista, distaccandosi dalla teoria keynesiana. Si
pensi, ad esempio, a Sterbenrg, Sweezy e Baran. La funzione fiscale aveva un
ruolo determinante per capire i processi di funzionamento del mercato secondo
il capitalismo industriale. Nel capitalismo moderno, lo Stato interviene sul
mercato per accrescer la domanda di beni e servizi senza aumentare la
tassazione, senza creare alcuna fiscalità che assorba la spesa pubblica. La spesa
pubblica incrementale produce effetti positivi sull’occupazione ma anche sul
capitale monopolistico allontanando i rischi della depressione: il supporto
politico allo Stato che procede a investimenti è garantito dall’oligarchia
dominante. L'aumento delle imposte è, quindi, guardato in maniera favorevole
dall’oligarchia dominante, poiché aumentando la capacità di investimento dello
Stato contrasta la depressione. Il capitale monopolistico tende a preferire le
imposte che possono essere traslate su altri fattori produttivi, ad es. le imposte
sui consumi, mentre è sfavorevole ad imposte sul patrimonio.
8. Il potere tributario nell’epoca dell’imperialismo capitalistico
Il capitalismo si era consolidato nell’epoca dell’imperialismo producendo
l’affermazione del modello di produzione fondato sul capitale industriale,
mentre la proprietà fondiaria era stata ridimensionata ad un ruolo marginale
nell’economia. Nei piani di sviluppo della borghesia capitalista il motore
concettuale è la libertà che si espande al di là dei confini nazionali: il punto di
gravitazione dell’ordine delle nuove società è la libertà economica di fare
rispetto alla quale lo Stato ha una posizione minimale. Allo stesso tempo
emergono le esigenze e le aspettative di benessere della classe dei lavoratori, i
quali sono il fattore produttivo decisivo per lo sviluppo del capitalismo. Vanno,
quindi, ricercate soluzioni di compromesso politico, per cui la libertà si salda con
la solidarietà e con i diritti sociali. Il Logos del capitalismo avanzato impone
mediazioni istituzionali politiche. Di conseguenza, il modello tributario del
capitalismo avanzato tende a trasformarsi secondo le esigenze di
contemperamento delle opposte esigenze: si considera opportuno ricorrere a
forme di fiscalità egualitaria, la quale non viene realmente realizzata ma si
presentano spinte verso la personalità e progressività delle imposte dirette. Si
tratta di una fiscalità ispirata dalla borghesia capitalistica e temperata dalle
istanze progressiste.
Il progresso degli scambi commerciali ha indotto l'evoluzione e la riforma del
sistema fiscale in senso egualitario istituendo un'imposta unica sul reddito e
accogliendo forme redistributive del reddito nazionale. Si affermava l'idea che
lo strumento fiscale indirizzato verso modelli egualitari poteva comporre il
divario di diseguaglianza tra ricchi e poveri.
Nella prima metà del XX secolo si assistette ad un rapido sviluppo dei modelli
autoritari dell'organizzazione politica in quanto la società liberale non era
riuscita a fornire risposte adeguate alle esigenze di protezione e sicurezza del
popolo. Si svilupparono movimenti politici radicalizzati intorno a poche idee
guida che proponevano un assetto sociale rigido. Si determinò una sorta di
identificazione tra appartenenza politica e appartenenza statale, per cui lo Stato
autoritario si trasformò in «Stato totale» nel quale l'ordine della massa
diventava il bene comune che non ammetteva deroghe. Si realizza una
legittimazione profonda dell'autorità da parte del popolo. La funzione fiscale
viene iscritta nel Logos dei vari Stati autoritari in termini di rispondenza agli
obiettivi sociali assunti: la funzione fiscale è lo strumento per acquisire entrate
da destinare ai programmi dello Stato totalitario.
Il modello tributario del capitalismo avanzato tende a favorire i programmi di
espansione economica e a ridurre il grado di conflittualità sociale riconoscendo
gli impulsi verso forme di fiscalità egualitaria. Ciò porta ad un'implementazione
delle leggi tributarie per recepire le esigenze di contemperamento degli opposti
interessi della borghesia e dei lavoratori. La funzione fiscale venne realizzata
tramite una pluralità di leggi tributarie che prevedono l'uso di numerosi tributi.
Si trattava di sistemi di diritto autosufficienti e l'attuazione dei tributi venne
disciplinata secondo moduli di diritto amministrativo. Era considerato
imprescindibile il ricorso al sindacato giudiziario, in quanto si era consolidata
l'idea che il potere tributario esiste solo all'interno dell'ordinamento giuridico.
Tale impostazione venne utilizzata anche dallo Stato totalitario.
Nei contesti sociali europei, la concezione dell'uguaglianza tributaria si modifica
ed emerge il principio dell'uguaglianza sostanziale mediante il quale trasformare
la società secondo la logica della «parità di opportunità tra i consociati». La
funzione fiscale viene usata per favorire una redistribuzione delle risorse
collettive e quindi emerge il convincimento che il tributo debba orientarsi verso
forme di progressività. Sembra, quindi, applicarsi il principio enunciato nel
Manifesto del partito comunista di Marx. Questa linea di pensiero, però, non
trova applicazione negli Stati totalitari.
In questa fase storica, l'ideologia liberista ha portato avanti meccanismi di
fiscalità oppressivi sui cittadini, tramite espedienti che consentissero di alterare
la percezione del tributo per renderlo più accettabile. Si tratta delle «illusioni
finanziarie». Le illusioni finanziarie sono diventate uno strumento di
oppressione fiscale che confermano la necessità di attuare il dominio da parte
della borghesia con tecniche di mediazione che comportino l'accettazione da
parte dei lavoratori.
Capitolo ottavo: il potere tributario nell’epoca delle costituzioni e
dello Stato sociale
1. L'epoca delle costituzioni democratiche
L'evoluzione giuridico-istituzionale del XX secolo ha portato ad un superamento
della nozione di sovranità statale, in quanto si è demolita l'idea di Stato come
modello dell'unità politica di una collettività. Nelle società pluralista emergono
interessi, progetti ed ideologie differenziati fra loro e incapaci di presentarsi
come fattori dominanti rispetto alla sovranità statale, dunque la costituzione si
presenta come «la condizione di possibilità della vita in comune» e non come
atto portatore di un progetto predeterminato. Il pluralismo democratico impone
modelli costituzionali nei quali si abbandonano schemi aprioristici a favore di un
disegno «aperto». La costituzione rappresenta un progetto di vita in comune e
non più il corollario della sovranità statale: si tratta di una «costituzione senza
sovrano».
Nell'età della Belle Époque si definisce un nuovo paradigma costituzionale.
In Germania, a seguito della II Guerra Mondiale, la Repubblica di Weimar si
confrontò con il bisogno di istituzioni democratiche. Inoltre, il fardello delle
restituzioni di guerra impose di ripensare il sistema di finanza pubblica. Dunque,
nella Costituzione di Weimar, espressione del nuovo patto sociale, furono
stabilite numerose e regole relative alla funzione fiscale. Questo articolato
gruppo di norme costituzionali relative alla materia tributaria si divide in due
gruppi:
- Norme sulla distribuzione della funzione fiscale tra le varie istituzioni
democratiche, nelle quali venne consacrato il principio del consenso
parlamentare;
- Regole sulla logica distributiva dei carichi fiscali, in particolare la fissazione
del principio di riparto tra i cittadini fondato sul criterio egualitario.
La Costituzione di Weimar ha prodotto un modello di regolazione costituzionale
che si è protratto nel tempo: rappresenta un nuovo paradigma costituzionale
del potere, ispirato alla tradizione egualitaria promossa dal socialismo, che
indica la necessità di conciliare l’interesse finanziario dello Stato con i diritti
sociali dei cittadini.
Le carte costituzionali degli Stati europei adottate nel XX secolo mostrano una
significativa convergenza nella regolazione del fenomeno tributario. Si afferma
il principio del consenso alle imposte essendo enunciata la necessità del ricorso
allo strumento legislativo per l’istituzione e la modificazione degli istituti
tributari. Si tratta della regola della «riserva di legge», che si esprime, nelle varie
costituzioni in maniera differente:
- Formulazione esplicita del principio di riserva di legge a seguito
dell’enunciazione della competenza esclusiva dell’atto legislativo per la
disciplina dei tributi (ad esempio Austria, Danimarca, Francia, Spagna);
- Enunciazione della procedura legislativa adottabile per la promulgazione
di norme a contenuto tributario (ad es., Belgio, Germania, Irlanda);
- Nel Regno Unito, mancando una costituzione scritta, si afferma il principio
del consenso alle imposte e, quindi, il coinvolgimento parlamentare.
La centralità parlamentare è da ricondurre alle esigenze di una società pluralista
in cui il dibattito parlamentare è la forma più matura di definizione dei valori
collettivi. Le scelte inerenti alla materia fiscale non possono essere affidate
all’estemporaneità delle procedure dell’esecutivo che comporta
un’approssimazione dei giudizi valutativi. Il principio di legalità assume una
funzione sostanziale come tecnica di bilanciamento dei valori. Il nesso tra la
centralità del Parlamento e la formulazione delle norme tributarie emerge
anche nell’esclusione del referendum in materia fiscale, in quanto la valutazione
personale è condizionata dall’inclinazione a sottrarsi al depauperamento.
Accanto alle regole sulla fase normogenetica, si pongono, meno
frequentemente, anche norme di carattere sostanziale nei testi costituzionali,
che vogliono disciplinare il merito del bilanciamento dei valori. In alcune
costituzioni, in applicazione del principio di uguaglianza, si vieta l’adozione di
privilegi in materia tributaria (ad es. Belgio, Lussemburgo, Francia); nelle
costituzioni dei paesi latini si richiama il criterio della capacità contributiva come
regola di redistribuzione dei carichi fiscali. Sporadicamente sono previste regole
sulla conformazione del sistema tributario, ad esempio la progressività (Italia e
Spagna) o la funzione generale dei presupposti dei singoli tributi (Portogallo).
Questa trasformazione giuridico-costituzionale accompagna un altro
mutamento storico dei rapporti fra Stato e società: la distribuzione dei benefici
e dei sacrifici non è più determinata dalla spontanea composizione degli
interessi presenti sul mercato, ma avviene secondo la direzione del potere
pubblico nel rispetto dei valori delineati in sede costituzionale. In effetti, nello
Stato pluriclasse, la compresenza di valori eterogenei determina l’esigenza di
combinare istanze decisionali in un compromesso fra maggioranze e minoranze
secondo le linee guida costituzionali. Si afferma una «legalità per valori» idonea
a fungere da parametro per il controllo della legittimazione dell’attività
legislativa. La funzione fiscale, quindi, non può essere posta come un concetto
della sovranità statale che si pone in contrasto con i valori individuali, ma si deve
porre nel contesto della pluralità di valori della collettività. Lo sviluppo dei
principi costituzionali porta il tema del conflitto dei valori su un piano positivo
idoneo ad accentuare le ragioni di convivenza: viene in rilievo la coesistenza
armonica dei valori della convivenza.
2. La funzione fiscale nel «Welfare State»
Le discussioni politiche e sociali del XX secolo hanno come punto focale la
configurazione del Welfare State. Le teorie di ispirazione socialista individuano
l’obiettivo da raggiungere nella costruzione di un forte Stato sociale capace di
rispondere ai bisogni di protezione e sicurezza degli individui, mentre le teorie
di matrice liberale pongono come obiettivi primari il depotenziamento dello
Stato sociale ad una funzione minimale e la riduzione del prelievo fiscale in
quanto gli strumenti privatistici possono perseguire con maggiore efficacia la
finalità di tutela. Nessuna delle due teorie, però, nega il ruolo del Welfare State:
è generalizzata l’idea che la tutela pubblica di fondamentali bisogni
dell’individuo abbia avviato il percorso di sviluppo economico. Lo Stato si è
trasformato e da «Stato militare» è diventato «Stato dei diritti»: la funzione
sociale costituisce l’oggetto di un diritto dei cittadini che fonda l’uguaglianza
all’interno della comunità, per cui lo Stato deve garantire la «parità di posizioni
di partenza» dei consociati. Lo Stato sociale è il risultato di un progetto di vita
collettiva che pone il benessere al centro del patto sociale: il perseguimento dei
diritti sociali è considerato come uno strumento necessario per assicurare che
la persona sviluppi le proprie potenzialità, dunque i diritti sociali diventano la
garanzia della «libertà uguale». La libertà assume un effettivo contenuto solo se
viene intesa come un valore «positivo» volto a promuovere l’auto-realizzazione
della persona mediante le conoscenze acquisite con l’istruzione. Il
riconoscimento dei diritti sociali consente una sintesi fra uguaglianza e libertà,
dove la libertà è intesa come «liberazione dalla privazione» e vuole assicurare la
pari opportunità. Lo Stato, quindi, deve intervenire per superare le sproporzioni
e per assicurare l’uguaglianza sostanziale: le finalità del Welfare State sono volte
all’attuazione del progetto di trasformazione sociale e di sviluppo della comunità
coerente con i principi di uguaglianza sostanziale e di libertà.
Il problema centrale del Welfare State è l’individuazione della qualità e quantità
di prestazioni sociali da erogare ai membri della comunità. Si è consolidato il
convincimento che le prestazioni dei servizi pubblici dovevano essere rivolte alla
generalità dei consociati ed erogate dello Stato e che il finanziamento delle
prestazioni pubbliche doveva essere garantito tramite il prelievo fiscale. In
questo modo, si attua anche il piano di redistribuzione delle risorse fra i membri
della collettività, in quanto i più ricchi erano chiamati a contribuire in maniera
più che proporzionale. Il modello classico di Welfare State si incentra, quindi, sul
binomio «prestazioni pubbliche - finanziamento fiscale» per cui le prestazioni
sociali sono garantite tramite il prelievo fiscale e la libertà e l’uguaglianza
dipendono dal livello, dalla qualità e dalla quantità dell’imposizione fiscale.
Il modello classico di Welfare State, però, ha mostrato delle disfunzioni e
inefficienze. L'idea originaria di «dare un poco a tutti» aveva ragione di esistere
in una fase storica di povertà diffusa, ma successivamente perse di utilità a
fronte della diffusione del benessere individuale. Si sarebbe dovuta perseguire
una logica assistenziale selettiva, concentrando le risorse per i soggetti più
bisognosi, ma questo adeguamento non è stato perseguito e, di conseguenza, vi
è stato uno scadimento della qualità delle prestazioni sociali a fronte della
grande quantità di soggetti a cui destinare le prestazioni sociali. Inoltre, la
generalizzazione dell’intervento pubblico ha comportato un costo enorme per
le casse statali, per cui a fronte dell’abbassamento della qualità delle prestazioni
sociali si è registrato l’innalzamento del costo pubblico per la loro erogazione
venendo meno il binomio «prestazioni pubbliche – finanziamento fiscale».
Infine, per evitare che il peso del finanziamento pubblico fosse di ostacolo allo
sviluppo del sistema produttivo a causa del gravoso prelievo fiscale a carico di
lavoratori e imprese, si è ricorso all’indebitamento scaricando il costo delle
prestazioni sociali sulle generazioni future.
Sul piano fiscale, quindi, si è avvertita diffusamente la crisi del modello classico
di Welfare State. A seguito della maggiore mobilità dei fattori produttivi e della
concorrenza fiscale fra Stati, il modello dell’imposta unica sul reddito è stato
abbandonato a favore di un sistema di imposte cedolari, ovvero la tassazione
della singola fattispecie di attività economica o di ricchezza: ci si è allontanati
dall’idea di uguale trattamento dei redditi orientandosi verso modelli impositivi
incongruamente diversificati. Inoltre, viene in rilievo il corto circuito del sistema
fiscale nella fase di attuazione del prelievo tributario: nel contesto di fiscalità di
massa emergono le condotte di evasione o elusione fiscale, le quali sono poste
in essere dalle categorie sociali forti comportando un maggiore peso della spesa
pubblica a carico dei lavoratori dipendenti e dei pensionati attuandosi una
«redistribuzione al contrario».
Il modello classico di Welfare State non riesce a soddisfare le esigenze di giustizia
sociale secondo il programma di libertà positiva e di uguaglianza sostanziale.
3. La definitiva affermazione della tassazione egualitaria
Con l’affermazione costituzionale del Welfare State si definisce una struttura del
sistema fiscale orientata verso modelli di tassazione egualitaria: la funzione
fiscale viene concepita come strumento per attivare processi di redistribuzione
del reddito. La tassazione egualitaria si esprime mediante imposte e tributi che
variano da paese a paese, ma vi sono degli elementi che sono comuni ai vari
paesi: si ricorre ad una pluralità di strumenti tributari e si adotta una tassazione
di carattere progressivo.
Le entrate dello Stato possono essere ricondotte ad una duplice fonte:
- Entrate pubbliche di diritto privato, ovvero le entrate jure privatorum,
derivanti dallo svolgimento di attività economiche o dalla gestione di beni
pubblici. Si tratta delle entrate che pervengono in virtù di rapporti
contrattuali, ad esempio canoni di concessione;
- Entrate pubbliche conseguenti all’esercizio del potere di supremazia nei
confronti dei consociati, ovvero le entrate jure imperii, in cui vi rientrano
le sanzioni a contenuto patrimoniale, le ablazioni e i tributi.
Nel bilancio pubblico degli Stati moderni, l’entrata che fornisce maggiore
apporto quantitativo è data dai tributi.
Nella finanza statale possono individuarsi tre gruppi di tributi:
- Imposte dirette, colpiscono le manifestazioni dirette della capacità
contributiva quali il patrimonio o il reddito;
- Imposte sul consumo, colpiscono il consumatore finale
indipendentemente dalla tecnica impositiva adottata, ad es. IVA, accise,
imposte di fabbricazione, dazi doganali;
- Imposte sugli affari, assumono a presupposto il compimento di un atto
giuridico volto alla conclusione di un affare o a compiere un trasferimento
patrimoniale, ad esempio l’imposta di registro, l’imposta di bollo,
l’imposta di successioni o donazioni.
Il sistema della finanza locale si articola in sub-sistemi in ragione della comunità
territoriale di riferimento, per cui si distingue la finanza regionale e la finanza
degli enti locali. Nella finanza locale si individuano tributi propri, addizionali ai
tributi statali e l’attribuzione del gettito di tributi statali.
Si deve analizzare il sistema tributario anche sotto il profilo quantitativo, per cui
si devono porre a confronto le entrate tributarie e la ricchezza complessiva del
paese indicata dal PIL. Innanzitutto, la pressione fiscale è un dato a grande
mutevolezza temporale in ragione dell’andamento dell’economia. Emerge, poi,
che il tributo più importante sotto il profilo quantitativo è l’IRPEF, che da solo
garantisce un apporto pari a un terzo del gettito fiscale.
Si deve sottolineare che i contribuenti non sono in grado di ricostruire la
destinazione dei tributi pagati in quanto vige il principio di unicità del bilancio,
in quanto gli impegni di spesa devono trovare una copertura nell’insieme delle
entrate complessivamente considerate.
L'imposta sul reddito delle persone fisiche, detta IRPEF, costituisce il tributo di
maggior rilevanza nl panorama fiscale attuale, sia sotto il profilo quantitativo
che qualitativo, in quanto contribuisce in maniera prioritaria al gettito fiscale ed
incide sulla funzione redistributiva. Si tratta di un’imposta a carattere personale
e progressivo: in riferimento alla personalità del tributo, si tiene conto non solo
del complesso dei redditi posseduti dal soggetto, ma anche delle spese primarie
sostenute dall’individuo e dalla sua famiglia; per quanto riguarda la
progressività, l’imposta è determinata attraverso un meccanismo di
graduazione delle aliquote dell’imposta in misura più che proporzionale rispetto
al crescere della ricchezza. Il presupposto del tributo è il possesso dei redditi in
denaro o natura appartenenti alle categorie reddituali indicate nella legge: per i
residenti si applica il principio del reddito mondiale, per cui si prevede
l’imponibilità di tutti i redditi ovunque prodotti; per i non residenti si applica il
principio di territorialità per cui si prevede l’imponibilità solo dei redditi realizzati
nel territorio nazionale. La base imponibile viene determinata mediante la
somma algebrica di tutti i redditi di categoria imputati nel periodo d’imposta allo
stesso contribuente; determinato il reddito complessivo lordo si deducono gli
oneri deducibili riconosciuti dalla legge ottenendo il reddito complessivo netto.
A quest’ultimo valore vanno applicate le aliquote d’imposta e all’imposta
complessiva lorda si applicano le detrazioni d’imposta previste dalla legge.
L'imposta sulle società ha come presupposto il possesso di redditi in denaro o
in natura. Il reddito imponibile viene ricondotto a più profili ed elementi facenti
capo al soggetto, ad esempio perdite pregresse, crediti tributari ed oneri
deducibili: si tratta di un profilo di personalità dell’imposta. Si tratta di
un’imposta proporzionale fondata su un’aliquota fissa calcolata in misura
proporzionale rispetto alla base imponibile.
L'imposta patrimoniale si riferisce al possesso di beni suscettibili di una
valutazione patrimoniale, ad esempio immobili, capitale finanziario,
partecipazioni societarie, e consiste nell’applicare un’aliquota al valore del bene.
È un tributo che ha una funzione redistributiva in quanto vuole colpire le
posizioni d vantaggio economico, ma allo stesso tempo il possesso del
patrimonio non necessariamente corrisponde alla produzione di un flusso
reddituale ed è per questo motivo che l’imposizione patrimoniale è criticata.
Prevalentemente l’imposta patrimoniale è applicata al livello dei tributi locali,
ad esempio in Italia, Francia, Germania, mentre è più raro che venga prevista
un’imposta patrimoniale di carattere generale (ad es. Spagna e Svizzera).
L'imposta sul valore aggiunto, IVA, è stata istituita a livello comunitario per
attenuare gli squilibri fiscali sul prezzo dei beni e servizi che circolavano
all’interno del mercato comune. La caratteristica dell’IVA è la sua neutralità
rispetto alle varie fasi del ciclo produttivo o distributivo, in quanto l’imposta
grava sul consumatore finale indipendentemente dal numero delle transazioni
e dalla circolazione del bene o servizi: l’imprenditore o il professionista può
portare in detrazione dal debito verso l’Erario l’IVA pagata sugli acquisti di beni
e servizi utilizzati, per cui l’imposta colpisce solo il «valore aggiunto» apportato
al bene o al servizio dall’attività specifica dell’imprenditore o del professionista
e, quindi, grava sul consumatore che non può portare in detrazione quanto
pagato. Si tratta di neutralità interna, per cui si ha la neutralizzazione
dell’incidenza delle prestazioni tributarie rispetto al numero dei passaggi
intermedi subiti dal bene o dal servizio, e di neutralità esterna o internazionale,
in quanto gravando solo sul consumatore si assicura la neutralità nel
trattamento internazionale delle transazioni commerciali. Il presupposto
dell’imposta è la cessione di beni o servizi effettuati nel territorio dello Stato,
nell’esercizio di professioni o imprese o arti. La base imponibile è l’ammontare
complessivo dei corrispettivi pattuiti negozialmente per le singole cessioni di
beni e prestazioni di servizi.
Le accise e i dazi sono forme di imposizione indiretta sui consumi. Le accise sono
tributi monofase a carattere speciale (ovvero colpiscono solo alcune categorie
di beni) che sottopongono a tassazione la produzione o il consumo dei beni.
Tradizionalmente, il presupposto delle imposte di fabbricazione è la produzione
dei prodotti, mentre per le imposte di consumo è il consumo del prodotto. In
realtà, la differenza fra le due imposte si attenua in virtù del fatto che l’imposta
di fabbricazione è esigibile solo nel momento dell’immissione dei prodotti finiti
in consumo sul mercato. Si tratta di tributi che possono influire sulla circolazione
di beni e servizi e, quindi, possono alterare il libero svolgersi del mercato
concorrenziale. L'obiettivo è, di conseguenza, cercare un coordinamento fiscale
nello spazio europeo evitando forme d concorrenza dannosa fra i vari paesi.
Comunque sia, rimangono diversità significative nella disciplina dei vari Stati,
dunque possono esservi asimmetrie fiscali nel trattamento fiscale dei
trasferimenti degli stessi beni il che può portare a distorsioni della libera
concorrenza. I dazi, invece, sono tributi imposti in ragione dell’attraversamento
della linea di confine territoriale da parte di una merce. Si tratta di un’imposta
di comoda gestione e che si concilia con l’esigenza di procedere ad un controllo
alla frontiera delle merci immesse sul mercato nazionale. A livello comunitario
si è proceduto all’abbattimento delle frontiere doganali al fine di consentire la
libera circolazione di beni nell’ambito commerciale comunitario e si è anche
fissato il criterio dell’unione doganale per cui si fissa un’unica tariffa doganale
da applicare a tutte le merci provenienti dai paesi esterni all’Unione Europea.
Dunque, ai fini della politica doganale, i confini territoriali di riferimento sono
quelli dell’Unione Europea.
L'imposta di registro è nata come corrispettivo del servizio costituito dalla
registrazione dell’atto; oggi, è una vera e propria imposizione gravante sulla
circolazione di ricchezza come fonte di entrata per lo Stato assumendo i
connotati dell’imposta in ragione del crescente fabbisogno finanziario dello
Stato.
L'imposta di bollo è un tributo che riguarda la formazione di un documento
appartenente ad una tipologia di atti indicati nella tariffa allegata alla legge di
bollo. Rileva la mera redazione del documento giuridico e non il suo contenuto
negoziale, quindi si tratta di un’imposta sul documento e non sull’atto.
L'imposta sulle successioni e donazioni ha come presupposto un trasferimento
di ricchezza e la discriminante fra le due va ravvisato nella circostanza che dà
luogo al trasferimento, ovvero che questo avviene mortis causa inter vivos con
atto liberale.
4. Il potere tributario nell’attuazione della disciplina del fenomeno fiscale
L'esercizio della funzione fiscale si esprime mediante l’attuazione dei tributi,
quindi quella serie di attività poste in essere dall’amministrazione finanziaria e
dal contribuente per la ricostruzione giuridica del presupposto d’imposta, la
liquidazione del tributo e l’adempimento dell’obbligazione tributaria.
L'attuazione dei tributi vuole trasformare il sistema normativo, che dispone
regole astratte circa le prestazioni tributarie, in comportamenti concreti che
generano il flusso di entrate tributarie. L'attuazione dei tributi è, quindi,
elemento fondamentale dell’effettiva funzionalità del sistema tributario.
L'attuazione del tributo si realizza mediante una pluralità di fasi:
- L'accertamento del tributo, ovvero quella serie di attività volte a
ricostruire il presupposto e la base imponibile e che, quindi, portano alla
liquidazione del tributo. Si tratta di una fase che si articola nella
dichiarazione del contribuente, nei controlli degli uffici fiscali e
nell’accertamento delle violazioni del contribuente;
- La riscossione dei tributi, mediante la quale si effettua l’adempimento
delle prestazioni tributarie. Tale fase si distingue nella riscossione
spontanea se il contribuente procede autonomamente al pagamento del
tributo e nella riscossione coattiva se l’amministrazione finanziaria
esercita i poteri coattivi per assicurare l’incasso delle prestazioni
tributarie;
- Le sanzioni tributarie, sono irrogate in presenza di violazioni del
contribuente e assicurano la funzione afflittiva e punitiva in una logica di
deterrenza;
- La tutela dei diritti, sia in fase stragiudiziale, mediante accordi
amministrativi tra contribuente e amministrazione, sia in fase giudiziale
davanti al giudice tributario.
In ogni fase, la funzione fiscale si articola attraverso procedimenti che regolano
i comportamenti dei contribuenti e dell’amministrazione ed è l’ordinamento a
riconoscere diritti, obblighi, poteri, libertà, doveri di volta in volta.
Per quanto riguarda l’obbligazione tributaria, in una prima prospettiva teorica
(teoria dichiarativa), l’obbligazione tributaria viene ricondotta al verificarsi del
presupposto determinato dalla fonte legale e spetta all’amministrazione
dichiarare l’obbligazione. In una seconda prospettiva, teoria costitutiva, il
verificarsi del presupposto d’imposta stabilito dalla legge attiva la funzione
d’imposizione ed innesca il potere dell’ente impositore di determinare la
sussistenza e l’entità dell’obbligazione tributaria al quale corrispondeva una
situazione di soggezione da parte del contribuente. L'alternativa fra le due
ricostruzioni ha generato una polemica fra gli studiosi del diritto tributario. Lo
sviluppo dell’ordinamento tributario in un assetto di fiscalità di massa ha fatto
emergere una varietà di schemi applicativi del tributo e una pluralità di situazioni
soggettive differenti rispetto all’obbligazione tributaria. Di conseguenza,
l’obbligazione tributaria ha perso il carattere totalizzante dell’esperienza
tributaria in quanto non è necessariamente la causa della prestazione tributaria:
si è cominciato a porre a base dell’attività dell’amministrazione finanziaria la
funzione fiscale e non l’obbligazione tributaria. Si è, quindi, avanzata la teoria
del procedimento come prospettiva teorica di ricostruzione del rapporto
tributario e dell’attuazione del tributo.
Oggi, sembra sopito il confronto fra teoria costitutiva e teoria dichiarativa, ed
anche la teoria del procedimento ha perso il suo carattere unitario. Si è posta in
evidenza la centralità della funzione fiscale in modo da ricondurre le varie fasi
dell’attuazione del tributo all’esigenza di un’efficiente azione amministrativa
con la finalità di assicurare il corretto perseguimento degli obiettivi
dell’interesse fiscale e del riparto del carico fiscale tra i consociati secondo il
principio della capacità contributiva.
Nell'odierno assetto di fiscalità di massa, il principale criterio di funzionamento
del sistema dei tributi è l’autotassazione ad opera dei contribuenti, per cui il
funzionamento del sistema dei tributi è rimesso alla spontanea adesione dei
contribuenti: in sede di dichiarazione tributaria, il contribuente ricostruisce il
presupposto del tributo, procede alla quantificazione dell’obbligazione in sede
di auto-liquidazione e predispone l’auto-versamento della prestazione fiscale.
L'amministrazione finanziaria assume un ruolo «esterno» rispetto alle condotte
fiscalmente rilevanti del contribuente, in quanto si limita al controllo e alla
vigilanza dei comportamenti assunti dai contribuenti e se rileva inadempimenti,
emette atti impositivi a tutela della pretesa fiscale. Dunque, l’intervento
dell’amministrazione finanziaria è puramente eventuale e non necessario al
funzionamento del sistema dei tributi.
Nell'ottica di una rapida ed efficace definizione dell’accertamento in un assetto
di una fiscalità di massa, si ricorre a modelli di predeterminazione normativa del
presupposto e della base imponibile, mediante i quali il risultato economico di
attività è determinato secondo indici statistici o empirici. Si risale, dunque, alla
determinazione del fatto ignoto, ovvero presupposto e base imponibile, in base
ad un meccanismo induttivo e giudizi di tipo probabilistico. La diffusione di
meccanismi normativi ispirati alla normalizzazione della pretesa impositiva è
coerente con l’assetto di fiscalità di massa, in quanto rede più gestibile il
rapporto fra contribuente ed amministrazione finanziaria: le forme di
predeterminazione normativa del presupposto e della base imponibile si
collegano alle ragioni di funzionamento del sistema dei tributi.
Inoltre, nell’attuale sistema di fiscalità di massa, vi è un incremento dei processi
di automatizzazione dell’attuazione dei tributi, ad es. la dichiarazione tributaria
è presentata in forma elettronica e il controllo formale della dichiarazione è
svolto tramite elaborazione informatica dei dati contenuti ne documento
elettronico. In questo modo, gli uffici fiscali possono mettere a confronto i dati
formulati dal contribuente con i parametri normativi per verificare la condotta
tenuta dal contribuente. L'attività di verifica è compiuta direttamente dalla
macchina e anche l’atto di accertamento può essere emesso in forma
automatizzata. Poiché la fase di accertamento automatico contempla il rischio
di una scarsa attenzione alle vicende atipiche del contribuente, si deve
valorizzare il contraddittorio tra ufficio e contribuente.
Si prevede un’accelerazione delle procedure amministrative finalizzate a
garantire la conclusione dell’attività di determinazione e liquidazione del
tributo, come ad esempio le forme anticipate della riscossione del tributo. Tale
accelerazione risponde sia all’esigenza «di cassa», quindi consentire
un’acquisizione più rapida delle entrate, sia ad una logica di civiltà del diritto che
vuole favorire la stabilità e prevedibilità dei rapporti giuridici tra cittadini e
amministrazioni pubbliche evitando che il periodo di instabilità del rapporto
tributario possa mettere in discussione la certezza del traffico commerciale.
L'esigenza di velocizzare i rapporti fra contribuente ed amministrazione, inoltre,
ha fatto emergere istituti giuridici che perseguono intese fra contribuente ed
amministrazione. Dunque, si prevede il contraddittorio fra il contribuente e
l’ufficio impositore al fine di far emergere una ricostruzione condivisa del
presupposto e della base imponibile, da cui derivano riduzioni delle sanzioni a
carico del contribuente e forme agevolate di pagamento delle prestazioni
tributarie. Queste forme di collaborazione consentono di velocizzare le entrate
fiscali e di deflazionare il contezioso tributario.
Si possono prevedere alcune sequenze principali in base alle quali si relaizzano
le fasi dell’accertamento e della riscossione, ad esempio:
- Dichiarazione del contribuente – adempimento spontaneo;
- Dichiarazione del contribuente – controllo formale della dichiarazione –
cartella esattoriale;
- Dichiarazione del contribuente – controllo parametrico – accertamento
sostanziale;
- Dichiarazione del contribuente – controllo sul campo mediante accessi ed
ispezioni – accertamento globale.
Si tratta di sequenze rispetto alle quali il ruolo dell’amministrazione è variabile.
Inoltre, queste sequenze non esauriscono gli atti dell’accertamento: la funzione
fiscale non si esaurisce in un modulo unitario, ma si declina in più sequenze
procedimentali. L'elemento che accomuna le carie sequenze procedimentali è la
partecipazione del contribuente. Si vuole garantire il coinvolgimento del
contribuente al fine di raccogliere ulteriori elementi di fatto. Si individuano due
forme di partecipazione del contribuente:
- Il contraddittorio difensivo, mette il contribuente in condizione di
tutelare i propri diritti rispetto all’esercizio dell’azione amministrativa sia
nella fase di accertamento che nella fase esecutiva;
- Il contraddittorio collaborativo, per cui il contribuente collabora con
l’ufficio fiscale per determinare il presupposto e la base imponibile per
definire un’intesa amministrativa che stabilisca la pretesa impositiva.
Questi meccanismi di contraddittorio sono previsti nella fase dell’istruttoria
tributaria e sono accentuati nella fase dell’emissione dell’atto di accertamento.
Le forme di partecipazione del contribuente all’esercizio della funzione fiscale
vogliono promuovere una democrazia amministrativa in cui l’amministrazione
finanziaria assume il connotato di «centro di servizio» perdendo il connotato di
«centro di dominio».
5. La funzione fiscale secondo le teorie economiche e sociali del XX secolo
A partire dal secondo dopoguerra si sviluppano teorie economiche che
prospettano la maggiore validità di un assetto di libero scambio, in quanto si
ritiene che le leggi di mercato sono in grado di autoregolarsi e di trovare
soluzioni idonee a supportare l’evoluzione del benessere individuale e collettivo.
I sostenitori di questa teoria del libero mercato sono L. Von Mises, H.R. Bowen,
M. Rothbart, I. Kirzner. Si tratta di teorie di neoliberismo fiscale, per cui la
fiscalità è considerata come un potenziale ostacolo alla concorrenza, di
conseguenza lo Stato deve essere neutrale rispetto alle dinamiche del mercato.
Si impone l’idea di una dimensione minima dello Stato, per cui «meno spesa –
meno tassazione», quindi viene meno la funzione redistributiva delle prestazioni
fiscali.
Tra i modelli liberisti vi è anche il pensiero di Von Hayek. Egli sostiene che il
principio guida della fiscalità debba consistere nel rapporto commutativo tra
beni e servizi pubblici ricevuti e imposte pagate, affinché vi sia equilibrio fra
l’utilità ricevuta dal contribuente e le prestazioni fiscali pagate dallo Stato. Egli
critica la tassazione progressiva, in quanto ispirata ad una logica di
espropriazione del prodotto dell’attività umana.
Robert Nozick prospetta la teoria dello «Stato minimo», per cui lo Stato deve
agire per proteggere le libertà dei cittadini rispetto alle aggressioni dei terzi, ma
non deve interferire con tali libertà; infatti, il principio della giustizia distributiva
prevede che il presupposto della giustizia è l’esistenza di diritti fondamentali di
proprietà attribuiti all’individuo. La diseguaglianza è un evento naturale e,
quindi, non deve essere contrastata, per cui la funzione fiscale rappresenta una
delle principali interferenze dello Stato: la tassazione dei proventi del lavoro
viene paragonata ad una «nuova schiavitù» e la tassazione è ammissibile solo in
forma contenuta per finanziare le ridotte funzioni dello Stato minimo, non per
svolgere ulteriori funzioni sociali.
A partire dagli anni Sessanta del XX secolo, soprattutto negli Stati Uniti, si sono
affermate teorie economiche neoclassiche che rifiutavano l’impianto logico
della concorrenza perfetta. Emerge la teoria di Milton Friedman che valorizza il
principio di libertà in quanto in tal modo l’individuo è lasciato libero e troverà il
modo per massimizzare i risultati economici e sociali. Egli riteneva che l’azione
di controllo dell’economia doveva essere incentrata sulla liquidità monetaria
consentendo la stabilizzazione dei prezzi, ma non vi doveva essere un intervento
pubblico in economia in quanto ciò avrebbe alterato il mercato. La politica
monetaria, che voleva difendere l’ortodossia liberale, si contrappone alla
politica fiscale: egli propose di diminuire la fiscalità.
Il monetarismo venne accolto da molti governi liberisti e conservatori nella
convinzione che avrebbe potuto liberare le risorse implicite nell’economia
nazionale. Il minore afflusso di entrate tributarie, però, comportò il ricorso
all’indebitamento. Si formulò la teoria della supply side economics per cui la
riduzione del prelievo fiscale avrebbe aumentato le entrate tributarie nel lungo-
medio periodo, in quanto la riduzione del prelievo fiscale avrebbe promosso una
crescita della produttività. Il disimpegno dello Stato avrebbe prodotto un effetto
positivo sull’andamento del mercato. In realtà, nessuna evidenza empirica ha
sorretto tale teoria.
Vi sono poi teorie sulla neutralità del prelievo fiscale rispetto al funzionamento
del mercato per cui le imposte creano una differenza tra il prezzo di mercato
delle merci e il loro valore come prodotto industriale, dunque se l’aliquota
d’imposta viene mantenuta costante e ridotta, le distorsioni rimangono
contenute e circoscritte.
Negli ultimi decenni, si sono sviluppate teorie orientate verso lo Stato minimo in
cui la dimensione pubblica è recessiva. L'intervento dello Stato è configurato in
misura marginale e vi è un ridimensionamento della funzione fiscale,
accompagnato dall’indebitamento dello Stato.
John Rawls ha formulato la teoria della giustizia distributiva, in cui la giustizia è
considerata come equità, per cui si deve riconoscere l’uguaglianza
nell’assegnazione dei diritti e dei doveri fondamentali, le libertà individuali non
possono essere violate per aumentare il reddito o patrimonio, le pubbliche
opportunità vanno aperte a tutti e, quindi, le politiche sociali dello Stato devono
dare priorità ai miglioramenti delle condizioni dei soggetti svantaggiati (la
diseguaglianza operata dallo Stato è utilizzata come rimedio alla diseguaglianza
di partenza). L'imposizione fiscale è necessaria per realizzare il programma di
giustizia sociale e si deve ricorrere a imposte a elevato contenuto redistributivo,
che vogliono assicurare eguale libertà, e a prestazioni tributarie preferenziali al
fine di fornire le entrate per i beni pubblici.
La teoria della scelta pubblica evidenzia come le decisioni in materia di finanza
pubblica siano assunte in relazione agli interessi utilitaristici perseguiti dai
cittadini. Le scelte di finanza pubblica sono determinate dalle valutazioni
formulate dall’elettore in posizione mediana, il quale in linea di massima è
contrario ad un incremento della tassazione in quanto rileva il suo
depauperamento. Il calcolo egoistico dell’elettore spinge i programmi politici
verso modelli di fiscalità ridotta che operano a detrimento del Welfare State.
Amartya Sen considera lo Stato come un’istituzione che non può essere
burocratizzata dalla comunità politica e che deve procedere a rimuovere gli
ostacoli materiali che producono ingiustizie sociali. Lo Stato deve favorire il
raggiungimento di un livello di pari opportunità, per cui pur rispettando la
matrice liberista dell’economia è necessaria l’istituzione del Welfare State per
garantire l’uguaglianza di opportunità: la funzione fiscale si collega al progetto
di sviluppo dell’uguaglianza distributiva promosso dallo Stato.
6. La giuridicizzazione del potere tributario nel nuovo assetto del «Welfare
State»
Il modello di funzionamento del Welfare State vuole un progetto di comunità
che tende a garantire la crescita e l’inclusione di ciascun consociato mediante
l’ampiamento della piattaforma delle pari opportunità. L'obiettivo del patto
sociale è garantire ad ogni membro della collettività l’effettiva e concreta
capacità di autodeterminazione attraverso il godimento di prestazioni pubbliche
che superano le diseguaglianze. Ciascun individuo, quindi, partecipa a questo
programma mediante il pagamento di prestazioni fiscali diversamente
distribuite in ragione di una tassazione progressiva.
In continuità con il processo storico avviato con il capitalismo avanzato, i poteri
dell’amministrazione pubblica per l’esazione delle prestazioni fiscali sono
sottoposti alle regole ed ai vincoli derivanti dall’ordinamento giuridico. Il potere
tributario è sottoposto ai diritti tributari. Nella fase ascendente, il potere
normativo è affidato al Parlamento secondo la logica del consenso; nella fase
discendente, la potestà ammnistrativa di dare attuazione alle norme fiscali è
vincolata al rispetto della legge senza margini di discrezionalità. Il diritto dei
tributi acquista una sua specifica identità come settore specifico
dell’ordinamento.
Il potere tributario è disciplinato nel sistema tributario, ovvero quel complesso
di principi e norme che formano un insieme unitario diretto all’istituzione ed
attuazione dei tributi. Si individuano più livelli del sistema tributario:
- Il macro-sistema, composto dalle norme costituzionali e dai principi
generali che governano il rapporto tributario;
- I medio-sistemi di primo livello, individuati con riferimento alle regole,
istituti e norme proprie di ciascun tributo;
- I medio-sistemi di secondo livello, composti dall’insieme normativo
riguardante una categoria complessiva del tributo (ad esempio le
categorie di reddito all’interno dell’IRPEF);
- I micro-sistemi, definiti con riguardo alle specifiche fattispecie impositive
e agli obblighi tributari all’interno della disciplina di ciascun tributo.
Si possono individuare relazioni verticali fra il macro-sistema e i medio-sistemi,
fra i medio-sistemi di primo livello e quelli di secondo livello; si possono anche
individuare relazioni orizzontali fra i medio-sistemi di primo livello.
Il sistema tributario presenta tratti di autonomia e di particolarismo.
L'autonomia del sistema tributario si riscontra nella presenza di principi generali
della materia fiscale che garantiscono la ricostruzione unitaria del settore
disciplinare. I principi generali si identificano nell’interesse generale della
collettività di acquisire risorse tributarie e nell’interesse individuale alla tutela
della propria sfera di libertà. Il particolarismo, invece, si rinviene nell’attitudine
delle norme fiscali a sovrapporsi a qualificazioni giuridiche o a regole di altri
settori disciplinari. In virtù del particolarismo, istituti di tipica derivazione
privatistica vengono ripresi e rielaborati nel sistema tributario secondo una
logica funzionale ai principi della materia fiscale.
Nella regolazione del fenomeno fiscale, ovviamente, emergono una pluralità di
interessi che si compongono attraverso la rappresentanza politica e la
mediazione normativa. La tutela degli interessi da tutelare avviene in sede
parlamentare nella formazione della norma, mediante atti amministrativi che
chiariscono la portata interpretativa della norma, nella fase di attuazione dei
tributi mediante l’applicazione delle norme con riguardo agli specifici rapporti
tributari, in sede di tutela dei diritti di fronte ai giudici. La giuridicizzazione del
potere tributario porta a ricercare forme normative per regolare la funzione
fiscale.
Nello Stato di diritto la formula della «sovranità del popolo» appare sovente riva
di effettività, in quanto la decisione è affidata a istituzioni sociali rappresentate
da un ristretto gruppo di individui. Ciò si riflette anche nella politica fiscale, in
quanto le decisioni di sistema vengono realizzate secondo le volontà maturate
nei centri di potere della società pluralista. Le scelte tecniche che connotano la
declinazione del potere tributario sono il risultato della forza sociale e politica
delle nuove oligarchie, ma il potere delle oligarchie è sottoposto al controllo di
validità rispetto ai principi fondanti dell’ordinamento giuridico.
Elemento qualificante del potere tributario nello Stato sociale è il principio di
uguaglianza sostanziale, in quanto compensa gli effetti distorsivi che il gioco
spontaneo delle forze economiche e sociali può produrre. Lo Stato sociale
promuove un complesso di relazioni tra i suoi cittadini che valorizza la parità di
opportunità e la dignità umana, relegando a un ruolo subordinato l’efficienza
economica: è ammesso ricorrere ad interventi correttivi e distributivi da parte
dei poteri pubblici. Il contribuente non è più visto come un suddito gravato dalla
potestà fiscale, ma come il contitolare della sovranità tributaria che concorre
all’esercizio di una funzione primaria per il bene generale.
L'aspirazione di una società ispirata all’uguaglianza sostanziale fa sì che
l’intervento dello Stato sia sempre più rilevante, ma emerge la difficile
funzionalità dell’ordine generale. Si deve procedere ad una revisione dell’attuale
modello di Stato sociale: va effettuata una «selezione dei bisogni» per enucleare
gli obiettivi davvero primari, in quanto si deve eliminare il concetto di
«prestazioni generalizzate» al fine di alleggerire il bilancio pubblico senza che
ciò vada a diminuire la tutela sociale in virtù del fatto che spesso le prestazioni
hanno carattere ridondante; devono essere rivisti i contenuti delle prestazioni
sociali per aumentarne la qualità e va ridotto il costo delle prestazioni pubbliche
al fine di evitare un eccessivo indebitamento dello Stato. La riduzione del costo
sostenuto dal Welfare State per il venir meno di prestazioni generalizzate può
consentire un risparmio di risorse che possono essere reinvestite per migliorare
la qualità delle prestazioni sociali. Lo Stato deve rispondere concretamente alle
esigenze di salvaguardia dei diritti minimi di sussistenza e di dignità.
Capitolo nono: Il potere tributario nell’epoca della globalizzazione
1. La coesistenza di una pluralità di sistemi tributari ed il mercato delle
imposte
La globalizzazione ha comportato la diminuzione del ruolo degli Stati nel
governo dell’economia a favore delle spinte provenienti dai soggetti
multinazionali della finanza. Il pluralismo politico dovuto alla formazione dii
centri di potere alternativi e concorrenziali al potere statuale e l’attribuzione ad
entità sopranazionali ha portato all’attenuazione della funzione principale dello
Stato come detentore del monopolio della decisione politica. Si ha il passaggio
da un assetto monolitico di tipo statuale, cui corrisponde un sistema tributario
unico, ad un assetto pluralista connotato dalla coesistenza di più sistemi tributari
appartenenti alle diverse forme di comunità territoriale.
Oggigiorno convivono una pluralità di ordinamenti diversi riconducibili a diverse
comunità territoriali e ogni ordinamento si caratterizza per una tavola di valori
della comunità. La Costituzione prevede una dialettica fra i valori della capacità
contributiva e l’interesse fiscale, per cui si devono individuare le forme del
riparto dei carichi fiscali fra i consociati per distribuire le spese per il
sostenimento e lo sviluppo del Welfare State. Nell'ordinamento di finanza locale
delle regioni si perseguono obiettivi di sviluppo di ampio respiro che sono
comunque riferibili ai bisogni primari di una comunità per cui la fiscalità è
funzionale ad assicurare un gettito di rilevante entità secondo criteri generali di
redistribuzione fra i consociati. Nell'ordinamento di finanza locale degli enti
esponenziali minori, le funzioni di spesa sono da riportare a bisogni localistici di
carattere specifico e il criterio di riparto dei carichi fiscali è il principio del
beneficio. Nell'ordinamento dell’Unione Europea, si assume una fiscalità
«negativa» per cui si vuole garantire la libera circolazione dei servizi e dei beni,
di conseguenza le prestazioni tributarie vengono guardate con diffidenza. La
diversità dei macro-sistemi comporta che le norme tributarie siano declinate in
modo diverso, per cui non si possono esportare principi, istituti, categorie
giuridiche da un sistema di diritto ad un altro.
Fra i vari ordinamenti vi sono rapporti che tendono alla concordia e all’armonica
coesistenza. Il problema si pone nell’ipotesi di conflitto, in virtù del fatto che non
si può ricorrere al criterio gerarchico per risolvere l’antinomia in quanto si tratta
di ordinamenti equi-ordinati fra di loro. Si deve, quindi, ricercare un criterio di
coordinamento di tipo orizzontale: si deve ricorrere al criterio di competenza
per cui ogni ordinamento dispone di un’area di pertinenza da regolamentare in
forma esclusiva senza che altre fonti possano interferire. Se il criterio di
competenza non consente di superare il conflitto, la soluzione va ricercata
attraverso la dialettica dei valori e degli interessi secondo un modello di
coesistenza, ricercando, quindi, dei punti di equilibrio. Si deve lasciare spazio a
soluzioni «aperte» al fine di individuare compromessi normativi idonei a
mediare interessi e valori contrastanti.
Nei modelli giuspubblicistici meno recenti, vi era coincidenza fra lo Stato e il
sistema tributario, in quanto lo Stato assurge a perno centrale dello sviluppo
della società civile. Il dovere di partecipare alle spese pubbliche veniva
considerato come una manifestazione dello stato di soggezione del cittadino
rispetto allo Stato. Lo slittamento della sovranità fiscale dello Stato ad una
pluralità di entità territoriali ha comportato l’allargamento della partecipazione
alla vita politica a varie classi e gruppi di interessi determinando l’esigenza di
combinare le istanze decisionali in un compromesso fra maggioranza e
minoranza. La pluralità di ordinamenti mette in crisi la corrispondenza biunivoca
fra sistema tributario e piano ideologico, rendendo evidente come lo strumento
tributario possa essere adottato in maniera flessibile per una pluralità di scopi.
Si assiste ad una «neutralizzazione» della funzione etica del sistema tributario,
nell’apertura verso numerose istanze provenienti da una società
ontologicamente pluralista. Dunque, la nozione di sistema tributario assume
una conformazione «aperta» determinata da soluzioni di compromesso.
La diffusione dei processi di globalizzazione ha indotto riflessi significativi sui
meccanismi di definizione delle scelte tributarie, in quanto il carico fiscale
diventa un fattore importante nella competizione fra imprese. Si è creato un
vero e proprio «mercato delle imposte» per cui gli Stati competono fra di loro al
fine di definire un livello di tassazione appetibile. Al fine di evitare questa
competizione, all’interno dell’Unione Europea si è previsto un maggior
coordinamento delle politiche tributarie.
2. La fiscalità «negativa» quale tratto qualificante dell’ordinamento europeo
L'Unione Europea è improntata ad una fiscalità «negativa», in quanto l’obiettivo
primario dell’UE è l’individuazione di vincoli, di limiti all’esercizio del potere
tributario da parte dei singoli Stati. La fiscalità negativa esprime l’esigenza di
limitare l’«altrui» sovranità fiscale, comunque riconosciuta agli Stati membri,
escludendo una fiscalità «positiva» attraverso la quale definire un piano di valori
propri. Si abbandona il nucleo dell’interesse fiscale a favore di un
posizionamento minimale orientato verso la logica della non discriminazione. In
effetti, la fiscalità negativa trova conferme nell’uso delle direttive per regolare
la materia fiscale e nell’uso di atti di soft law per il settore delle imposte dirette.
L'Unione Europea si qualifica come ente di indirizzo che promuove l’adesione
verso linee normative, ma non regola direttamente la materia tributaria. Gli
organi dell’Unione Europea, inoltre, sono titolari di un potere normativo limitato
solo in riferimento alle imposte indirette, mentre le imposte dirette sono di
competenza esclusiva degli Stati. Infine, la giurisprudenza della Corte di Giustizia
in materia fiscale è pragmatica e rivolta alla declinazione nel caso concreto delle
regole ostruttive formalizzate nel diritto comunitario.
Alla base della disciplina del potere tributario vi è la concezione di «mercato
comune» come allocazione delle risorse e dei fattori produttivi efficienti,
dunque il fenomeno impositivo può influire sui flussi di beni o di capitali verso
le localizzazioni più produttive. Si è, quindi, definito il principio di «neutralità
fiscale» che assume il carattere di «neutralità all’esportazione di capitali», ad
indicare che il fattore fiscale non può assumere un carattere disincentivante o
distorsivo rispetto all’effettuazione di investimenti transnazionali, e di
«neutralità all’importazione di capitali», al fine di definire la parità di
trattamento fiscale dei capitali affluenti nel mercato di uno Stato a prescindere
dalla provenienza nazionale. Queste due forme di neutralità possono essere
assunte contemporaneamente solo se i sistemi fiscali dei singoli Stati mostrano
una fondamentale identità. La variabile fiscale è vista in termini negativi, come
un fattore suscettibile di determinare distorsioni rispetto alla «capacità
naturale» di funzionamento del mercato: nel Rapporto Ruding si enuncia che
l’obiettivo primario dell’UE in materia fiscale è l’eliminazione delle distorsioni ed
inefficienze determinate dai sistemi fiscali nazionali rispetto alla piena efficienza
allocativa delle risorse produttive.
La fiscalità negativa si collega all’impianto assiologico liberistico che ha denotato
lo sviluppo dell’ordinamento comunitario: il principio di non discriminazione
tributaria è uno dei corollari maggiormente significativi delle quattro libertà del
Trattato. Con il Trattato di Maastricht sono emersi ulteriori valori non a carattere
economico che, quindi, indicano un allargamento degli obiettivi dell’UE, ma
l’attuazione normativa ed operativa è ancora in fase primordiale. L'idea
dominante dell’ordinamento comunitario rimane comunque la tutela e la
promozione della concorrenza, rimuovendo eventuali ostacoli. Dunque, il
fenomeno tributario viene disciplinato di conseguenza, riducendo il peso delle
misure fiscali al fine di evitare che le imposte costituiscano un impedimento al
funzionamento del mercato. La fiscalità negativa è, quindi, corollario della
fiscalità neutrale. L'assunzione del mercato a valore di riferimento
dell’ordinamento comunitario contrada con le costituzioni degli Stati ove alla
fiscalità è riconosciuta un’importante funzione propulsiva rispetto ai processi di
trasformazione sociale. Nell'ordinamento comunitario si è imposta la logica
correlata al principio di «eguaglianza formale» in virtù del quale la posizione dei
contribuenti è valutata in ragione di una parità di trattamento di tipo
«orizzontale», per cui l’imposizione non deve alterare l’opportunità di accedere
al mercato. Nelle carte costituzionali, invece, trova accoglimento il principio di
«uguaglianza sostanziale» secondo cui l’imposizione fiscale va raccordata
all’obiettivo di promozione della parità di chances al fine di ricercare una parità
di trattamento di tipo «verticale». Di conseguenza, il principio di non
discriminazione e il principio di non restrizione sono il corollario del principio di
uguaglianza formali in ambito comunitario; mentre, l’interesse fiscale e la
capacità contributiva sono i corollari dell’uguaglianza sostanziale delle carte
costituzionali. La finanza «neutrale» verso cui si orienta l’ordinamento
comunitario è, quindi, difforme sia sotto il profilo assiologico che normativo,
rispetto ai modelli di finanza «funzionale» degli ordinamenti fiscali nazionali.
La fiscalità negativa indica, quindi, che l’Unione Europea richiama a sé alcune
scelte in materia fiscale sottraendole alla competenza degli Stati nazionali e
limitando la sovranità nazionale in materia tributaria senza, però, comportare
una sostituzione della stessa con una sovranità comunitaria. L'UE opera come
un anti-sovrano che limita e depotenzia la sovranità degli Stati nazionali,
rinunciando a sostituirla con un differente sindacato discrezionale. In effetti,
l’Unione Europea ha alcuni tratti che non la rendono conciliabile con l’idea
moderna della sovranità: mancano la concezione ascendente del potere,
determinata dalla rappresentatività popolare, e la connessione con una nazione.
Il processo di erosione della sovranità nazionale non comporta la creazione di
un nuovo ordine di valori regolato secondo le valutazioni di un nuovo titolare
del potere sovrano, ma costituisce un ordine auto-referenziale ed auto-regolato
formato a seguito delle transazioni commerciali e rispondente alle logiche
concorrenziali, non imposto dall’autorità. Cambia, quindi, anche la relazione fra
libertà e potere pubblico: nell’ordinamento democratico la libertà individuale va
rapportata agli interessi generali della collettività come raccolti dal potere
sovrano; nell’ordinamento comunitario, invece, la libertà di agire si presenta
come libertà di fatto il cui ambito attuativo appare come uno spazio non
regolato dal diritto. In questo ambito, emerge la fiscalità negativa che elide la
sovranità nazionale e rinuncia alle aspirazioni di redistribuzione del reddito e di
trasformazione della società in conformità alle esigenze di rimozione degli
ostacoli materiali al pieno sviluppo della personalità dei consociati.
Nella prospettiva dell’anti-sovrano cresce la tensione fra ordinamento
comunitario e ordinamenti nazionali, in virtù dell’antitesi fra la decisione
dell’Unione Europea riconducibile al mercato e il complesso di valori a
connotazione sociale delle carte costituzionali. Inoltre, la globalizzazione
dell’economia ha fatto sì che questa non fosse più riconducibile ad un ambito
spaziale circoscritto ponendo in crisi la logica nazionale di regolazione dei
fenomeni economici. La crisi del concetto tradizionale di sovranità assoluta degli
Stati rimette il controllo delle risorse economiche alle forze che dirigono il
mercato: vi è un’inversione logica rispetto al tradizionale rapporto tra Stato e
mercato, per cui sono gli Stati ad essere funzionali ai mercati e le scelte operate
dagli Stati sono subordinate alla finanza. Emerge una funzione «amministrativa»
dello Stato e non una funzione sociale. Il pericolo è che nel mercato i «forti» si
impongano sui «deboli» favorendone l’espulsione dal circuito produttivo,
dunque vi è il pericolo dell’abbandono della funzione sociale e dell’idea di
costituire un ordine economico rispondente all’equilibrio dei vari interessi della
collettività. L'assunzione della fiscalità negativa come paradigma del potere
tributario accentua i rischi dell’anti-sovrano, in quanto si abbandona ogni
connotazione sociale e redistributiva del prelievo fiscale che viene riportato a
mero strumento finanziario di copertura del debito pubblico. L'interesse fiscale
e la capacità contributiva, i bisogni generali della collettività e le libertà
individuali perdono di rilievo nell’ordinamento comunitario, mentre i principi di
non restrizione delle libertà di circolazione rimettono al libero gioco
concorrenziale la scelta sugli assetti allocativi: la fiscalità negativa fornisce un
impulso ulteriore all’ordine spontaneo, ovvero al cosmos, del mercato.
Un rimedio per contenere i rischi dell’anti-sovrano potrebbe essere la
promulgazione di una Costituzione europea che riprenda i principi formulati
nella tradizione costituzionale dei paesi membri dell’Unione Europea. Si
dovrebbe inserire il principio del consenso all’imposizione che implica la
rappresentatività popolare come fonte di legittimazione del potere tributario. Si
dovrebbero riprendere i principi di dell’interesse fiscale e della capacità
contributiva come momenti dialettici del diritto tributario. Si dovrebbe
enucleare un principio di riparto dei carichi fiscali fra consociati che si colleghi al
principio di uguaglianza sostanziale. Ovviamente, l’enucleazione di principi
costituzionali non escluderebbe il ruolo dell’anti-sovrano, per cui le regole
tributarie sarebbero comunque orientate alla fiscalità negativa, ma
l’affermazione di valori positivi comporterebbe una formazione progressiva nel
tempo di norme che abbiano un contenuto positivo e non solo una funzione
limitativa.
Il rischio dell’anti-sovrano verrebbe scongiurato in radice se la sovranità
tributaria fosse attribuita all’Unione Europea, magari nell’ambito di una
Costituzione europea. Affinché l’Unione Europea sia destinataria di competenze
piene in materia fiscale è necessario il passaggio istituzionale per cui l’Unione
Europea diventi uno Stato federale. La costituzione di uno Stato federale
costituisce il punto di arrivo del percorso di integrazione economica, giuridica ed
istituzionale avviato con l’istituzione dell’ordinamento comunitario. Il
federalismo fiscale consiste nell’attribuire un potere tributario, differentemente
graduato, ad una serie di enti territoriali subordinati rispetto allo Stato, secondo
il principio di sussidiarietà. Al potere centrale, dunque agli Stati Uniti d’Europa,
si dovrebbe attribuire la competenza di disciplinare il settore delle imposte
dirette, mentre agli Stati locali si dovrebbe riconoscere il diritto di
compartecipazione al gettito delle imposte dirette senza alcuna facoltà di
intervento sulla disciplina normativa. Agli Stati locali potrebbe essere affidata la
competenza a disciplinare le imposte indirette, ovvero tributi che influiscono in
maniera ridotta rispetto al gettito tributario complessivo; bisogna tenere in
considerazione, inoltre, che la determinazione dei tributi locali è riconducibile ai
bisogni di una classe di soggetti territorialmente circoscritta. La costituzione
degli Stati Uniti d’Europa invertirebbe i ruoli e le funzioni rispetto al vigente
assetto dell’ordinamento comunitario, in quanto, in quest’ultimo, i poteri
tributari sono riconosciuti solo agli Stati membri, mentre l’UE ha potere
tributario solo in relazione ai dazi e ha un potere regolatorio relativo alle imposte
indirette, mentre sulle imposte dirette l’UE ha solo un ruolo programmatico.
Negli Stati Uniti d’Europa, l’Europa si atteggerà a sovrano fiscale che userà la
leva tributaria secondo le ragioni ed i bisogni del moderno Stato, per cui la sua
istituzione potrebbe costituire il rimedio rispetto ai rischi dell’anti-sovrano.
La prima modalità di esercizio del potere tributario da parte di un’Europa che si
atteggi a centro unitario della sovranità fiscale è l’istituzione di un tributo a
carattere europeo. I tratti qualificanti del tributo europeo si individuano nel
potere normativo attribuito all’Unione Europea e nella destinazione del gettito
all’UE; gli Stati potrebbero intervenire con addizionali o sovraimposte e
sarebbero chiamati a favorire l’attuazione del tributo in sede di accertamento e
di riscossione. L'istituzione di un tributo europeo aumenterebbe le entrate nel
bilancio pubblico favorendo l’ampliamento della capacità di spesa e, quindi,
consentendo la perseguibilità di programmi di sostegno sociale: l’Unione
Europea potrebbe farsi carico delle funzioni sociali proprie del Welfare State.
Attualmente solo i dazi doganali possono considerarsi come tributo europeo.
Sono state prospettate altre ipotesi di tributo europeo, ad es. la Tobin Tax sulle
transazioni finanziarie o la carbon tax, ma la limitatezza delle proposte,
riconducibili a settori marginali del diritto tributario, rende evidente la timidezza
nell’usare questo strumento nell’integrazione europea.
Per superare la logica dell’anti-sovrano, si può anche ricorrere alla formazione
di una vera e propria amministrazione finanziaria europea, ovvero costruire una
forza di controllo delle attività fiscalmente rilevanti effettuate nel territorio
dell’UE. La presenza di uffici amministrativi dedicati al perseguimento degli
obiettivi fiscali dell’Unione Europea, indipendenti dagli Stati nazionali,
garantisce uno strumento effettivamente idoneo a consentire l’attuazione
concreta di una politica fiscale comunitaria, senza dover dipendere dal grado di
adesione dei singoli Stati. Secondo l’ipotesi di costituire una world tax
organization, a tale forza amministrativa europea dovrebbero essere affidate
una serie di funzioni, che sono riconosciute alle amministrazioni finanziarie
nazionali e che costituiscono il pendant della sovranità fiscale:
- Funzioni cognitive, volte ad acquisire informazioni specifiche sui
comportamenti fiscalmente rilevanti dei contribuenti;
- Funzioni di controllo, hanno ad oggetto il monitoraggio e il controllo delle
condotte fiscale da realizzare mediante controlli a tavolino e sul campo;
- Funzioni conciliative, per cui si devono costituire uffici e procedure di
conciliazione stragiudiziale dei contenziosi tributari, sia in riferimento alle
controversie Stati-UE sia con riguardo alle contestazioni di singoli
individui;
- Funzioni di studio, come l’analisi delle tendenze fiscali nazioni e delle
problematiche di fiscalità internazionale per elaborare statistiche e
politiche economiche e fiscali;
- Funzioni consultive, consistenti nell’assistenza tecnica e legislativa alle
istituzioni parlamentari e alle amministrazioni fiscali degli Stati per
favorire il coordinamento e l’armonizzazione.
La dimensione organizzativa assume, quindi, un connotato strumentale rispetto
alla definizione delle norme tributarie. La formazione di un’amministrazione
europea è un momento imprescindibile del processo di definizione di una
sovranità fiscale comunitaria.
Ciò dovrebbe favorire la diffusione dei valori accolti nell’eventuale Costituzione
europea e dovrebbe contribuire a superare la fase di fiscalità negativa.
3. L'ordine internazionale della competizione fiscale
La concorrenza fiscale fra Stati è un fenomeno relativamente recente e consiste
in una competizione ispirata dall’obiettivo di attrarre capitali ed imprese sul
territorio dello Stato mediante la leva tributaria. Nella prospettiva
concorrenziale, lo Stato decide di adottare una politica tributaria ispirata ad una
riduzione del carico fiscale sui capitali e sulle imprese multinazionali rispetto al
livello ordinariamente applicato dai principali paesi del mondo. Si predispone,
dunque, un assetto fiscale attrattivo e che presenti un’incidenza effettiva sui
risultati economici: lo strumento della detassazione è un importante fattore
delle decisioni strategiche delle imprese multinazionali in ordine al territorio in
cui posizionare le proprie attività, in quanto un minore onere tributario può
permettere la massimizzazione del profitto. Il calcolo economico sotteso alla
concorrenza fiscale è da rinvenire nel calcolo di convenienza formulato dallo
Stato, per cui la localizzazione di imprese è in grado di compensare il mancato
gettito tributario producendo un aumento del benessere collettivo superiore da
quello che deriverebbe dal ricorso al livello ordinario di tassazione. Nasce,
appunto, un vero e proprio «mercato delle imposte» nel quale l’offerta di un
prelievo tributario ridotto costituisce la merce di scambio dell’insediamento
imprenditoriale nel territorio nazionale. Al fine di evitare i rischi che potrebbero
derivare da tale competizione fiscale, come la crisi fiscale dello Stato, le
istituzioni internazionali, come ad es. l'UE, hanno affermato l’esigenza di un
maggior coordinamento delle politiche tributarie dei paesi.
Inizialmente, la concorrenza fiscale fra Stati non era considerata un’automatica
distorsione del mercato, ma come un possibile strumento di politica economica
per favorire l’incremento di alcuni fattori della produzione del sistema
nazionale. A partire dagli ultimi anni del XX secolo, si è, invece, enucleata la
nozione di «concorrenza fiscale sleale» fra Stati, ad indicare un utilizzo della leva
tributaria in una dimensione distorsiva rispetto alle normali logiche del mercato.
La «slealtà» della concorrenza fiscale è ricondotta ad una tassazione selettiva,
rivolta solo ad alcune attività economiche per favorire la localizzazione, anche
solo formale, di alcune imprese multinazionali senza promuovere una crescita
del sistema produttivo interno: le scelte di fiscalità agevolata sono state rivolte
a favorire stanziamenti minimi di società multinazionali, anche solo mediante
sedi legali, per beneficiare dei vantaggiosi trattamenti tributari. Il ricorso alla
detassazione, quindi, non risulta funzionale alla produzione di esternalità
positive derivanti dalla localizzazione di attività di impresa e la concorrenza
fiscale non è legata ad un piano di sviluppo del sistema produttivo interno. La
concorrenza fiscale viene qualificata come «sleale» in quanto ricondotta ad un
mero calcolo politico svincolato da un beneficio economico generalizzato.
La diffusione delle logiche di mercato ha travolto il Welfare State, in effetti inizia
ad evaporare anche l’idea di sovranità nazionale che è elemento portante del
Welfare State. Il punto cardinale di riferimento diviene il «mercato», il quale si
presenta come un meccanismo regolatore degli equilibri sociali ed economici.
La funzione regolatrice, quindi, non risponde ad una logica ordinatrice secondo
valori e modelli elaborati aprioristicamente dallo Stato comunità, ma è rimessa
a scelte e giudizi emergenti nel mercato transnazionale formulati secondo
l’incontro della domanda e dell’offerta. Dunque, il fenomeno tributario viene
regolato in modo tale che le imposte non si risolvano in impedimenti che
alterano la capacità di funzionamento del mercato. Anche la formulazione della
nozione di «concorrenza fiscale dannosa» si allinea all’idea di una «fiscalità di
mercato», per cui il «mercato» è il punto di riferimento delle scelte fiscali.
L'assunzione del «mercato» come valore di riferimento dell’ordinamento fiscale
contrasta con le scelte operate dalle costituzioni nazionali, dove alla fiscalità è
riconosciuta la funzione propulsiva dei processi di trasformazione sociale al fine
di sviluppare un assetto sociale in linea con il principio di uguaglianza
sostanziale. L'assetto sociale e gli equilibri degli interessi vengono realizzati
mediante la declinazione normativa dei rapporti tra potere politico e potere
economico, ma la globalizzazione dell’economia ha posto in crisi la logica
nazionale di regolazione dei fenomeni economici. Il mercato internazionale non
coincide con il territorio di uno Stato e l’abbandono del riferimento al territorio
indica lo scadimento del potere politico nazionale. La crisi de concetto
tradizionale di sovranità assoluta degli Stati porta a rimettere il controllo delle
risorse economiche dalla classe politica alle forze che dirigono il mercato e si
inverte il rapporto fra Stato e mercato, per cui il primo diviene funzionale al
secondo. Lo Stato diviene un entro regolatore del mercato ed emerge una
funzione «amministrativa» dello Stato al posto della funzione sociale. Emerge,
però, come nel mercato i «forti» si impongano sui deboli, per cui vi è il pericolo
dell’abbandono della funzione sociale in quanto la democrazia del mercato si
dimostra iniqua. La fiscalità concorrenziale produce l’abbandono di ogni
connotazione sociale e redistributiva del prelievo fiscale, che viene riportato a
un mero strumento finanziario di copertura del debito pubblico. Si stabilisce la
priorità degli interessi del mercato.
Il fenomeno della concorrenza sleale è stato oggetto di una serie di studi da
parte delle istituzioni economiche mondiali, come l’OCSE (Organizzazione per la
Cooperazione e lo Sviluppo Economico). Nel 1998, l’OCSE ha pubblicato un
primo rapporto sulla concorrenza fiscale dannosa provando ad individuare le
possibili azioni di contrasto. In questo documento si definisce la concorrenza
fiscale dannosa facendo riferimento alle «pratiche fiscali dannose», ovvero a
quelle pratiche volte esclusivamente ad attrarre investimenti esteri nel territorio
statale mediante l’uso di forme di detassazione. Il danno consiste nella riduzione
dei flussi fiscali degli Stati. Gli elementi qualificanti della concorrenza fiscale
dannosa, quindi, sono: la riduzione dell’imposizione, la delimitazione dei
benefici tributari agli investitori esteri, l’assenza di trasparenza finanziaria, la
mancanza di scambio di informazioni con le amministrazioni finanziarie di paesi
esteri. Nel 2000, si è pubblicato un secondo rapporto che fornisce indicazioni e
raccomandazioni agli Stati per eliminare le elusioni e le evasioni fiscali ed
individua una lista di Stati (Black list) che hanno un regime fiscale privilegiato
che vale a costituire un parametro di valutazione da assumere nella disciplina
nazionale per il contrasto alle pratiche di concorrenza fiscale. Si promuove un
approccio collaborativo fra gli Stati per contrastare la concorrenza fiscale
dannosa. Anche nei successivi rapporti emerge la convinzione che il contrasto
alle partiche fiscali dannose non può essere rimesso a scelte di politica tributaria
assunte arbitrariamente da singoli Stati, ma deve essere coordinato da
un’azione comune a livello internazionale. Nel febbraio 2011 si è affermata
l’esigenza di una governance internazionale della fiscalità che sia idonea a
scoraggiare gli «aggressive tax plannings» delle multinazionali. Si esprime l’idea
di avviare strumenti di contrasto alle partiche fiscali dannose poste in essere da
alcuni Stati.
Lo strumento usato a livello internazionale, quindi, è la soft law, ovvero atti che
assumono il carattere di raccomandazioni e suggerimenti e che hanno una
funzione di stimolo e di indirizzo.
Il contrasto alla concorrenza fiscale dannosa è stato avviato su base
internazionale grazie all’attività svolta dagli Stati Uniti per tutelarsi dall’evasione
fiscale derivante da operazioni svolte all’estero dai propri residenti.
L'amministrazione finanziaria degli USA, all’inizio del XXI secolo, ha iniziato
operazioni di istruttoria presso alcuni dei principali istituti finanziari esteri per
acquisire informazioni sulla condotta fiscale dei propri contribuenti e, dunque,
si sono contestati ai contribuenti e anche agli istituti finanziari illeciti tributari.
L'amministrazione finanziaria degli USA ha, quindi, fatto ricorso a forme di
collaborazione amministrativa tra le autorità dei vari paesi al fine di raggiungere
un adeguato grado di trasparenza dei rapporti finanziari dei residenti esteri.
Questo modello giuridico è stato ripreso nella disciplina OCSE rappresentando
la base regolamentare adottata come standard globale negli accordi
internazionali. Ovviamente, gli Stati Uniti hanno una forza diplomatica ed
economica che si esprime anche nelle relazioni internazionali, dunque questi
possono influenzare i mercati internazionali ed incidere sulla vita materiale ed
economica di molte imprese multinazionali. È lo Stato che dispone di tale forza
che determina la soluzione normativa recepita dagli altri Stati: le norme di
formazione pattizia che compongono i trattati internazionali non sono il frutto
di un negoziato fra soggetti paritetici, ma sono il risultato di decisioni sostenute
da forza di uno tra gli Stati pre-dominanti. Le norme del diritto internazionale
non sono espressione della libertà democratica, ma del primato della sovranità
fiscale di uno Stato più forte rispetto agli altri.
La prima direttrice delle azioni di contrasto della concorrenza fiscale dannosa è
individuabile nella definizione di un modello giuridico comune su base
internazionale per la disciplina delle attività multinazionali. Nel 2013, in
occasione del G20 di Mosca, viene pubblicato il rapporto «Base erosion and
profit shifting - BEPS» che formalizza i risultati di un progetto congiunto del G20
e dell’OCSE. L'obiettivo è quello di definire un modello di tassazione delle attività
internazionali che consenta di applicare l’imposta nel luogo in cui l’attività è
svolta, colmando le lacune dei sistemi fiscali nazionali che consentono forme di
elusione. Il «piano d’azione» prevede molteplici punti:
- Disciplinare l’economia digitale sotto il profilo tributario;
- Dare coerenza ai regimi fiscali nazionali con riguardo alle attività
transnazionali;
- Perseguire il riallineamento della tassazione alla localizzazione sostanziale
delle attività produttive;
- Aumentare la trasparenza delle attività internazionali e favorire lo
scambio di informazioni;
- Consentire l’adeguamento dei trattati bilaterali attraverso il recepimento
di una convenzione multilaterale.
Queste raccomandazioni sono state recepite dagli Stati nella propria legislazione
interna.
La seconda direttrice di contrasto alla concorrenza fiscale dannosa consiste nel
definire regole che garantiscano la trasparenza dei rapporti finanziari di
carattere internazionale e lo scambio automatico di informazioni fra
amministrazioni fiscali. Presso l’OCSE è stato istituito il Global forum on
transparency and exchange of information for tax purposes che ha dato avvio
ad una serie di iniziative per implementare la trasparenza fiscale al livello
internazionale. Il Global forum ha anche pubblicato lo Standard for automatic
exchange of financial account information in tax matters che ha stabilito lo
scambio di informazioni automatico come strumento per assicurare la
ttrasparenza fiscale. Nel 2015 è stata approvata la Convenzione multilaterale
sulla muta assistenza amministrativa in materia fiscale. Inoltre, si prevede che i
vari Stati stipulino accordi amministrativi bilaterali secondo un modello comune
elaborato in sede internazionale, dunque è previsto che, a partire dal 2017, ogni
istituto finanziario deve rilevare i dati anagrafici del titolare effettivo delle
attività finanziarie e comunicarle all’autorità fiscale del proprio paese, oltretutto
l’autorità fiscale del paese interessato trasmette un «pacchetto informativo»
contenente i dati sul titolare e sui conti correnti alle autorità dei vari Stati
interessati.
Emerge come negli ultimi anni vi sia una fase di contro-tendenza rispetto alla
concorrenza fiscale fra Stati, in quanto la concorrenza fiscale può essere
dannosa cagionando una distorsione del mercato a favore delle multinazionali e
determinando un circuito negativo sul piano fiscale a scapito dei contribuenti
nazionali (si ritiene che la concorrenza sleale dannosa sia la causa principale
dello spostamento del prelievo tributario sul fattore lavoro). Inoltre, emerge
l’idea che gli Stati debbano cooperare per raggiungere obiettivi comuni di
sviluppo economico e sociale. Dunque, la lotta alla concorrenza fiscale dannosa
è elemento funzionale al perseguimento di una libera concorrenza sul mercato
internazionale e al risanamento sociale: la lotta alla concorrenza fiscale dannosa
costituisce l’avvio di un nuovo ordine fiscale internazionale connotato da un
peso rilevante degli accordi internazionali con l’obiettivo di contenere gli
squilibri a favore delle multinazionali. La partecipazione alla lotta alla
concorrenza fiscale internazionale è, quindi, un impegno politico diffuso fra i
singoli Stati.
Capitolo decimo: Il potere tributario
1. Il potere tributario come fattore del «Logos» nella evoluzione storica
Dall'analisi storica emerge che il potere tributario è un elemento qualificante del
patto sociale che presiede alla coesistenza di più soggetti nell’ambito di una
comunità. È una necessità per la collettività acquisire risorse da utilizzare per le
finalità di interesse comune, dunque il potere tributario può essere considerato
un fondamento del Logos della società. Il potere tributario si presenta come un
«codice sociale» della comunità caratterizzato da elementi stabili, ovvero le
«costanti», e elementi che variano in base ai contesti, ovvero le «variabili». Le
«costanti» sono elementi che sono rimasti tendenzialmente immutati nel corso
del tempo e sono:
- La finalità di acquisire le risorse;
- L'atto dell’autorità che esprime la sovranità e costituisce lo strumento per
acquisire le risorse;
- Lo stato di soggezione del consociato;
- La natura coattiva della relazione giuridica fra Stato e consociato.
Le «variabili» sono:
- L'oggetto del prelievo, che può essere una prestazione in natura, una
prestazione di servizi o attività lavorativa, una cessione di denaro;
- I destinatari dell’atto autoritativo, possono essere tutti i consociati o parte
della comunità in ragione di immunità;
- Le tecniche giuridiche che portano all’adozione di tipologie diverse di
tributi e a diverse tecniche di accertamento tributario.
Questi elementi qualificano la portata del codice sociale espresso dal potere
tributario rispetto al Logos di una data fase storica: a seconda di come si
combinano le variabili, si ottiene una declinazione del potere tributario. Dunque,
lo studio del diritto tributario è lo studio dell’uso delle diverse variabili nei vari
contesti storici.
Emerge, quindi, il percorso storico del potere tributario.
Nell’antichità, il potere tributario era un potere del sovrano volto a garantire
ridotti flussi finanziari alle casse pubbliche e sostenuto principalmente da una
fiscalità confiscatoria e predatoria.
Nel Medio Evo, si afferma lo «Stato senza imposte» ed il potere tributario viene
esercitato dai signori feudali.
Con la progressiva affermazione dello Stato in epoca moderna, la funzione
fiscale assume una posizione centrale nella definizione del potere del sovrano,
in quanto determina un aumento dei flussi finanziari nelle casse pubbliche. Il
potere tributario diviene un elemento costitutivo del Logos della comunità
nazionale.
Con le rivoluzioni del XVII e XVIII secolo e il costituzionalismo moderno si afferma
il principio del consenso popolare.
Con il capitalismo si afferma un’idea impersonale del potere tributario sganciata
dall’autorità del sovrano.
Con lo Stato sociale, il potere tributario si ricollega alla funzione redistributiva e
di giustizia sociale: il potere sociale assume i connotati di un fattore costitutivo
del Logos della società che definisce l’attuale codice sociale.
Un primo tratto qualificante del processo storico del potere tributario è
l’evoluzione della capacità fiscale dello Stato. L'evoluzione della capacità fiscale
dello Stato si collega, inoltre, ad una particolare visione dei rapporti comunitari.
Si possono individuare tre principali passaggi storici:
- Lo Stato minimo dell’antichità e del Medio Evo esercitava una fiscalità
ridotta, la comunità non era in grado di assumere un’organizzazione
strutturata;
- Lo Stato assoluto aumentò la pressione fiscale e svolse la funzione di
«guardiano notturno» sostituendosi ai vari signori territoriali;
- Lo Stato sociale o Welfare State ha portato la pressione tributaria ad una
media del 40% del reddito nazionale a fronte delle prestazioni sociali
erogate.
Nel corso del tempo è, inoltre, mutata la concezione di sovranità. La sovranità è
un attributo dello Stato che si pone come vertice gerarchico delle relazioni tra
autorità. La sovranità indica la capacità di regolazione della vita comune e,
quindi, implica il potere del sovrano di comandare ai membri della società i
comportamenti da assumere. La sovranità si radica in termini monopolistici in
capo a chi assume il potere sovrano e il comando da questo formulato impegna
tutti i consociati, per cui può essere fatto valere attraverso l’uso della forza. Le
varie concezioni della sovranità che si sono alternate nel corso della storia
riguardano la definizione del diritto di comando e l’individuazione di forme,
modi e limiti all’esercizio della stessa all’interno della comunità. Il potere
tributario è uno dei fattori necessari per l’esercizio della sovranità. Nell'antichità
non era formulato un concetto di sovranità in termini specifici, emergeva la
posizione di comando della persona titolare del potere sovrano a cui
corrispondeva una posizione di totale soggezione dei sudditi. Il potere tributario
si esprimeva nelle forme del «dominio fiscale».
Nel Medio Evo, la sovranità è dispersa fra i vari signori locali tanto che si può
parlare di «Stato senza imposte» in quanto manca una sovranità centrale.
Con l’affermazione dello Stato moderno si accoglie la nozione di sovranità
assoluta. In un primo momento vi è una negoziazione fra il sovrano e l’oligarchia;
successivamente, il monarca dispone di una propria amministrazione capace di
raccogliere i tributi in autonomia e si impone lo Stato assoluto.
Con il capitalismo, la sovranità trascende la singola persona ed è riportata alla
«volontà del popolo», come il risultato di una ricchezza collettiva ed individuale.
Il potere tributario diventa fattore di conformazione della ricchezza dei
consociati. Negli sviluppi del capitalismo e con lo Stato sociale, la sovranità si
consolida come un concetto ideale congiunto con l'interesse generale della
collettività. Dunque, il potere tributario viene considerato come un fattore
fondamentale per la redistribuzione della ricchezza.
Rileva come la concezione di sovranità sia condizionata dalla portata
dell’apparato amministrativo come strumento per attuare i precetti autoritativi:
se l’apparato amministrativo è disperso, il sovrano deve patteggiare coi poteri
forti della società; se l’amministrazione assume forza e piena capacità di
funzionamento, il monarca è svincolato da altri poteri della società.
Un tratto qualificante del potere tributario è la trasformazione delle modalità di
esercizio nell’ambito delle istituzioni sociali. Nell'antichità, il potere tributario
era espressione di un potere incontrastato del sovrano, si trattava di un atto
autoritario illimitato ed incontenibile esercitato prevalentemente nei confronti
dei popoli sottomessi. Il potere fiscale assumeva i caratteri di dominio fiscale.
Nel Medio Evo, il potere tributario si è dissolto insieme all’evaporazione dello
Stato rispetto al dominio diffuso delle signorie feudali.
Con lo Stato moderno, il potere tributario assume un ruolo centrale: il potere
tributario viene configurato come un attributo della sovranità sottoposto a
modesti limiti di negoziazione con le istituzioni rappresentative de consenso
diffuso. Con le rivoluzioni del XVII e XVIII secolo si afferma la limitazione dei
poteri del sovrano, per cui il potere tributario viene esercitato in forma condivisa
fra sovrano e popolo.
Nel periodo del capitalismo e dello Stato sociale, emerge la forma democratica
di esercizio della funzione fiscale per cui il potere tributario viene considerato
come un fattore sganciato dall’autorità di una singola persona.
Emerge come il potere tributario si sia trasformato nell’ambito del Logos della
società: da atto dell’autorità il potere tributario diventa un fattore primario al
servizio della sovranità popolare. La determinazione del potere tributario va
raccordata, quindi, al bene comune e non ad un interesse individuale, ovvero il
volere dell’autorità.
Da questo percorso storico emerge anche la spersonalizzazione del potere
tributario, per cui dal volere dell’autorità diviene concetto astratto di bene
comune. Mentre in precedente era l’atto di autorità che consentiva l’esercizio
del potere tributario, nell’epoca liberale si definisce un modello di Logos riferito
all’unità degli istituti giuridici ed etici volti alla coesistenza della società. Il
sistema giuridico è un complesso di istituti espressione di un ordine sociale
determinato dalla vita del popolo. Il potere tributario, quindi, si correla ad un
ordine di espressione popolare e viene determinato in base al patteggiamento
fra sovrano e organi rappresentativi del popolo. Il patteggiamento è consacrato
nelle costituzioni democratiche.
Il potere tributario non è più la risultante di un processo autoritario, ma è
derivato dalla procedura costituzionale di determinazione del bene comune
mediante il patteggiamento sociale degli organi costituzionali rappresentativi
della volontà popolare. Il potere tributario si spersonalizza dall’autorità e si
determina in riferimento ad un concetto astratto, ovvero il bene comune.
Nel corso del tempo, inoltre, avviene anche la metamorfosi del concetto di
tributo. Nell'antichità e nel Medio Evo, la posizione soggettiva del sovrano in
ordine all’applicazione dei tributi consisteva in un potere di signoria assoluto cui
corrispondeva una situazione di totale soggezione dei contribuenti. Il sovrano,
infatti, era titolare di un potere pressoché illimitato e la potestà impositiva era
considerata come una sorta di attributo naturale del sovrano, quindi si trattava
di un dominio assoluto e insindacabile. Il tributo, in quanto espressione di una
situazione di soggezione politica, porta impresso un «marchio di servitù» che
impedisce una ricostruzione del tributo connessa alla contribuzione politica.
Con l’affermazione dello Stato moderno, emerge la tendenza alla contrattazione
del potere tributario nel rapporto con il popolo per il tramite di organi
rappresentativi e parlamentari. Il tributo non è più considerato il diritto
spettante al sovrano in quanto titolare della terra o come l’effetto patrimoniale
di una condizione sociale deteriore, ma come il corrispettivo dei diritti politici: il
tributo viene qualificato come un essenziale strumento di partecipazione del
cittadino alla vita sociale e politica. La funzione fiscale, di conseguenza, viene
considerata come elemento costitutivo del bene comune ed elevata al livello
degli interessi pubblici fondamentali, essenziali per la conservazione lo sviluppo
della collettività.
Inoltre, muta anche la finalità del tributo nel corso del tempo. Inizialmente, il
potere in materia fiscale era funzionale a raccogliere i mezzi, in denaro o in
natura, da mettere al servizio delle spese statali. L'obiettivo primario della
funzione fiscale è enucleabile nel concetto di «fare cassa».
In un momento successivo, con le rivoluzioni moderne, il tributo ha modificato
la sua funzione. L'obiettivo della funzione fiscale non è solo rispondere alle
finalità di «fare cassa», ma anche a quelle di una redistribuzione dei carichi fiscali
secondo equità. La finalità redistributiva ha comportato il passaggio da un
concetto di uguaglianza formale a quello di uguaglianza sostanziale. Si stabilisce
un legame fra il potere tributario e la giustizia sociale, per cui la funzione fiscale
deve essere considerata uno strumento di redistribuzione della ricchezza fra i
consociati. Il potere tributario viene innervato dalla finalità collettiva di
perseguire il bene comune.
Parallelamente al mutamento della concezione del tributo, è cambiata anche la
situazione del contribuente. Dall'originario stato di soggezione, nel quale il
contribuente è un mero sottoposto al potere dello Stato, si è passati ad una
posizione intermedia delle società liberali in cui l’adempimento della
prestazione tributaria è considerato un obbligo sociale del cittadino per
permettere il funzionamento della comunità.
Nelle attuali società democratiche il cittadino che paga le imposte si sottomette
ad un potere impersonale che risponde ad un valore astratto della società,
ovvero il bene comune che è il prodotto della concorrenza sui mercati
internazionali. Spesso, però, l’obbligo fiscale perde la connessione coi valori
positivi che riguardano la dimensione individuale del contribuente e si collega
allo Stato che esercita il potere per ragioni di equilibrio finanziario. La soggezione
del cittadino al potere tributario rimane assoluta, ma si pone la condizione che
il potere venga esercitato nel rispetto della legalità, sul presupposto che la
determinazione dello Stato sia espressione del volere collettivo e funzionale al
bene comune. Ne deriva una situazione di silenziosa sottomissione del
contribuente allo Stato.
Il percorso storico del potere tributario è anche collegato al ruolo delle oligarchie
dominanti. La funzione fiscale è attribuita al sovrano, ma è realizzata attraverso
il contributo dei poteri forti presenti nella società: si afferma il principio secondo
cui «la lotta fiscale è la più antica forma di lotta di classe». In effetti, la
connotazione oligarchica del potere tributario ha comportato la produzione
continua di diseguaglianze sociali, quali ad esempio le immunità e i privilegi, il
che ha fornito la connotazione del tributo come strumento «odioso» di
differenziazione sociale fra dominanti e dominati.
Infatti, per un lungo periodo di tempo, l’emanazione dell’atto di autorità da
parte del sovrano è negoziata con la classe dominante, inoltre l’attuazione del
potere tributario presuppone l’adesione della classe dominante che influenza i
sudditi sui territori grazie al prestigio di ceto e alla propria forza. Emerge che il
potere tributario deriva dalla relazione del potere con l’apparato dell’oligarchia
dominante. Ovviamente, l’oligarchia dominante formula l’atto autoritativo in
modo da escludere i propri membri dal dovere di obbedienza fiscale attraverso
immunità e privilegi fiscali.
Con l’avvento del capitalismo e la trasformazione dello Stato, il ruolo dominante
è assunto dalla burocrazia all’interno dello Stato titolare di una sovranità
impersonale astrattamente riferita al popolo. Il potere tributario viene gestito
da questo apparato amministrativo nelle sue varie fasi. La tendenza
all’uguaglianza si completa con la formazione dello Stato sociale in quanto si
consolida il convincimento di perseguire un benessere generale attraverso
l’intervento pubblico. Il potere tributario occorrente per accompagnare il
progetto del Welfare State impone uno sviluppo del prelievo fiscale a cui serve
un modello di distribuzione degli oneri fra i consociati. Con la diffusione della
globalizzazione dei mercati e l’erosione della sovranità politica degli Stati, il
management delle multinazionali interviene nei processi decisionali e nei modi
di esercizio del potere tributario e si pone come potere concorrente con quello
tradizionale della burocrazia amministrativa.
La traiettoria del potere tributario appare come espressione di un itinerario
storico deciso dall’oligarchia dominante. La dimensione dell’oligarchia
dominante è la vera architrave su cui poggia il potere tributario assumendo i
caratteri del nucleo fondante dell’ordine sociale.
Anche nell’esperienza del fenomeno fiscale si ravvede un’espressione della
relazione dialettica fra diritto e potere. In una prima fase storica si assiste ad una
prevalenza del potere tributario e la disciplina della funzione fiscale è rimessa
all’esercizio di potere da parte del sovrano; successivamente, con l’affermazione
dello Stato assoluto si avvia una relazione dialettica fra il sovrano e le altre
componenti sociali per regolare in modo patteggiato la funzione fiscale. Con
l’epoca delle rivoluzioni questa relazione fra diritto e potere tributario si
trasforma e si stabilisce l’esigenza di fissare una regola di diritto come strumento
essenziale per la tutela dei diritti fondamentali; con l’avvento del capitalismo, il
diritto tributario tende ad inglobare il potere tributario come uno strumento per
perseguire gli obiettivi generali della comunità. Emerge come la disciplina
giuridica della funzione fiscale è funzionale a stabilire e mantenere il potere
tributario che viene concepito come un attributo della sovranità e il potere
tributario è regolato nell’ambito dell’ordinamento giuridico al fine di definire le
garanzie per lo Stato e per i cittadini.
La combinazione delle variabili della funzione fiscale nel corso del tempo ha
prodotto diverse tipologie del codice sociale espresso dal potere tributario. Il
potere tributario è un codice della totalità sociale che serve ad elaborare
relazioni di dominio a favore dell’oligarchia dominante e contro una grande
maggioranza di sudditi pagatori dei tributi. Il tributo costituisce l’archetipo del
potere tributario in quanto esprime la relazione di domini correlata alla
sovranità che si ripete nel tempo. La combinazione dei tributi e l’uso dei vari
simboli esprime la visione complessiva del Logos della società secondo la
rappresentazione dei pochi. Il potere tributario definisce strutture di
comportamento economico. Il codice sociale connesso al potere tributario è
accompagnato da immagini di varia portata che avvolgono l’atto autoritativo in
suggestioni circa il ruolo del contribuente, per cui il pagamento del tributo non
viene presentato come un mero atto di obbedienza ma come il doveroso
comportamento di una «persone per bene». Arricchito di queste immagini, il
potere tributario si presenta come un «distributore di senso» all’interno del
Logos della società per favorire l’obbedienza all’atto autoritativo che produce
un depauperamento e si pone «contro-natura» rispetto agli istinti egoistici
dell’individuo. Il codice sociale determina un processo di auto-riconoscimento
per cui il «pagare i tributi» costituisce atto dovuto di appartenenza alla comunità
e quindi un elemento di riconoscimento dell’Io come parte del Noi.
2. Il feticcio del potere tributario
Nella dimensione originale il feticcio o «totem» primordiale è un’immagine,
prevalentemente di un essere vivente o a volte di un oggetto materiale, verso il
quale l’uomo primitivo nutre un rispetto superstizioso. Il feticcio è considerato
un oggetto con potere «divino» capace di produrre protezione e favore per il
seguace: si tratta di una guida per l’anima dell’uomo che si affida ad esso,
ponendola al sicuro rispetto a minacce e pericoli. L'adorazione verso i feticci è
uno dei tratti essenziali delle società arcaiche. Il linguaggio dei feticci è la magia,
ovvero la pratica di collegare immagini e porle in relazione causale con gli eventi
storici.
Anche nella società evoluta il feticcio mantiene la sua carica magica e richiede
cura e devozione costante che si esprimono mediante il rispetto dei riti e
cerimoniali. Il feticcio promette protezione e favore verso i suoi seguaci
rappresentando i valori e gli interessi della comunità. La cura del feticcio assicura
la cura della comunità verso il consociato. Nella società moderna esiste una
grande pluralità di feticci: ideologie, istituzioni che si generano di continuo
attraverso la vita del Noi convenzionale, come idee guida del cammino
individuale.
Il feticcio assicura il legame all’interno del gruppo attraverso l’adesione ai valori
fondanti del patto sociale. Il culto del feticcio assicura la reciproca assistenza tra
individuo e gruppo, in quanto la condivisine di immagini del patrimonio
collettivo mantiene saldo il esso relazionale all’interno della società. L'ordine
che ispira il feticcio è rappresentato dall’ordine sociale dominante, per cui il
feticcio è custode del Logos. Il feticcio esprime idee che governano l’agire umano
attraverso mezzi non logici, ma psicologici. Il feticcio è un prodotto del Noi
convenzionale che vuole garantire la preservazione dell’ordine sociale
dominante e si presenta come un essenziale fattore dell’apparato di dominio
dell’individuo nella società.
Il potere tributario come codice sociale assolve una funzione costitutiva
dell’ordine della comunità, in quanto compone le istituzioni giuridiche e
politiche necessarie per assicurare le risorse necessarie per la sopravvivenza e
lo sviluppo della comunità. Per essere accettato dai membri della comunità, il
potere tributario viene presentato come una funzione essenziale per il
perseguimento del bene collettivo: nell’antichità, i flussi fiscali erano ricondotti
ad uno Stato minimo che spendeva per le esigenze belliche secondo un’idea di
protezione e sicurezza; successivamente, nello Stato liberale e democratico,
l’adempimento fiscale era volto a perseguire le finalità di una società migliore.
Dunque, il potere tributario viene considerato un feticcio del Logos espresso
dalla società ed è un feticcio collegato all’idea di bene collettivo.
A partire dalle rivoluzioni moderne e dallo Stato liberale, il potere tributario
come feticcio del Logos collettivo può essere accostato all’idea di giustizia
perseguita all’interno della società. L'esercizio del potere tributario viene
fondato su finalità ed obiettivi di giustizia sociale: i modi di esercizio della
funzione fiscale viene considerata un fattore determinante per il riconoscimento
del grado di giustizia sociale perseguito. La stessa giustizia può considerarsi un
feticcio primario del vivere insieme nella società moderna, in quanto la giustizia
fonda il criterio di attribuzione delle risorse del gruppo ai singoli consociati. La
giustizia è la sintesi dell’intera sequenza costitutiva dell’ordine: i simboli
appresentano l’insieme dei precetti normativi che valgono da regole
conformative dell’agire; i rituali sono i procedimenti giuridici da seguire in
concreto attraverso la serie di azioni individuali; le autorità sono le istituzioni
chiamate a presidiare sul rispetto dei simboli, ovvero le regole, e dei rituali,
ovvero i procedimenti, da parte degli individui. La giustizia rientra tra i criteri
fondamentali che valgono a tenere uniti i membri della comunità e viene
realizzata secondo un giudizio di conformità di un comportamento posto in
essere dall’individuo rispetto al modello assunto a paradigma di giustizia dal
gruppo sociale. Nella sua formula base la giustizia corrisponde alla regola di
corrispettività: tanto viene prodotto dal singolo individuo attraverso la sua
attività, tanto riceve in cambio dalla comunità sociale. In una successiva fase
evolutiva, la giustizia viene rappresentata come un criterio distributivo: si tratta
di ripartire le risorse collettive fra gli appartenenti al gruppo. La logica di
ripartizione va riportata ai vari beni sociali così da produrre diversità di sfere di
rilevanza rispetto alle quali si possono applicare differenti criteri distributivi. La
giustizia distributiva produce una trasformazione dell’assetto sociale esistente
al fine di promuovere una parte della comunità a scapito di un’altra parte.
L'idea di giustizia si forma all’interno della società in base alla tavola di valori
condivisi e accettati. La molteplicità delle comunità e dei gruppi intermedi
produce una moltiplicazione dell’ordine etico e, quindi, coesistono diverse
manifestazioni dell’idea di giustizia. Un unico individuo deve rispondere a più
ordini etici che si confrontano nella sua vita in relazione alle diverse forme di
appartenenza collettiva. Si produce una liquidità etica che determina lo
slittamento del concetto di giustizia etica a seconda della maggiore forza di
attrazione di un ordine etico rispetto agli altri. Inoltre, viene abolita l’unità
dell’ordinamento giuridico a favore di una pluralità di ordinamenti in quanto
rilevano gli ordinamenti di enti sopra-statali, dello Stato e di enti sub-statali. In
presenza di una pluralità di ordini sociali equipollenti diviene difficile individuare
il parametro precettivo: la scelta viene effettuata in base al principio di
competenza. La competenza emerge dalla dimensione esistenziale dell’ordine,
ovvero la tavola dei valori, il gruppo di riferimento. La giustizia si presenta come
una derivata dell’ordine competente. Qualora non si possa ricorrere al criterio
di competenza per risolvere antinomie fra i diversi ordini sociali, si devono
ricercare soluzione di combinazione e bilanciamento che permettono la
concordia degli ordini al fine di trovare un punto di equilibrio. La giustizia, quindi,
si presenta come un sistema «aperto», nel quale l’individuazione del parametro
precettivo è un problema costante senza una risposta certa e stabile.
La giustizia, come forma di riconoscimento dell’ordine sociale, esprime la
prevalenza del Logos in un contesto collettivo, per cui prevale l’ordine
dominante rispetto alle possibili soluzioni di assetto sociale astrattamente
perseguibili. L'attuazione della giustizia dipende dalla valutazione di conformità
elaborata secondo i postulati espressi dall’ordine sociale dominante. In una
società stabile, tale giudizio tende ad essere largamente prevedibile, in virtù del
codice di comportamento (Dike) formulato dall’oligarchia dominante e
accettato nel patto sociale. Nelle società odierne, in cui sussiste la liquidità etica,
è difficile stabilire a priori la sequenza costitutiva dell’ordine (simbolo – rituale -
autorità) da applicare, di conseguenza la giustizia diventa impredicibile. La
pluralità di interessi in gioco e la necessità di mediazioni e bilanciamenti
assiologici comporta la ricerca di combinazioni della serie di valori che
richiedono l’adozione di rituali che coinvolgono numerosi passaggi da parte delle
autorità chiamate ad esprimere il giudizio di conformità. La giustizia diventa un
metodo di approssimazione nella formulazione del giudizio di conformità
all’ordine sociale dei comportamenti individuali. Comunque sia, la giustizia
rimane il feticcio che protegge la sopravvivenza del Noi rispetto alle aspirazioni
centrifughe dell’Io.
Inizialmente, il feticcio del potere tributario era un istituto che non poteva
essere messo in discussione. La funzione fiscale veniva presentata come un
elemento della sicurezza di un popolo la cui violazione deve ingenerare il timore
che la collettività non sia in grado di farcela, si sopravvivere. A partire dalla fase
rivoluzionaria e capitalista, invece, la funzione fiscale viene connotata come
fattore di giustizia sociale, necessario per portare avanti un piano di
distribuzione dei carichi fiscali. Il feticcio, quindi, induce comportamenti
attraverso promesse di vita migliore e la paura e la speranza conducono
forzatamente a venerare il potere tributario. Il feticcio del potere tributario è
un’immagine che fissa la logica del dominio consolidato dalla classe governante
e che, quindi, manifesta la permanenza della costrizione sociale. La sacralità del
linguaggio dei feticci attesta l’impenetrabile unità di società.
La dimensione attuale della funzione fiscale è riconducibile allo Stato che
richiede un elevato ammontare di prestazioni tributarie a fronte di un elevato
ammontare di spese pubbliche. L'idea di favorire processi egualitari si è
fortemente attenuata ed il pagamento del tributo è diventato un adempimento
obbligatorio per garantire la continuità degli apparati istituzionali. Tale
modificazione dell’immagine del tributo deriva da molteplici cause, ad esempio
dalla funzionalità della spesa pubblica alle ragioni del consenso, dalla
preponderanza delle forze del mercato, dall’ipertrofia del sistema fiscale.
L'inefficacia della funzione fiscale come strumento di giustizia sociale diventa
una costante dell’immaginario collettivo: il tributo non colma le distanze fra
ricchi e poveri, ma assolve funzioni economiche che non contemplano il
perseguimento della giustizia sociale. La funzione fiscale si ricollega, dunque, alla
crescita dell’apparato amministrativo e lo Stato viene collegato ad una
straripante fiscalità che allontana le ragioni di uguaglianza e libertà.
Il debito pubblico costituisce uno strumento tipico di finanziamento dello
sviluppo del Welfare State, in quanto le entrate dello Stato non consentono di
ripagare i costi delle prestazioni pubbliche. L'indebitamento può essere coperto
mediante l’emissione di titoli o mediante la creazione di base monetaria. Il
ricorso all’indebitamento presuppone, però, un patto fra le generazioni dei
consociati, in quanto comporta uno spostamento temporale dell’imposizione
necessaria a ripagare il debito medesimo (proposizione di equivalenza di Barro-
Ricardo). Ovviamente la crescita del Welfare State produce un incremento della
protezione sociale della potenzialità di sviluppo individuale che genere un
beneficio anche per i consociati giovani e non solo per quelli maturi. Il debito
pubblico è, quindi, uno strumento di finanziamento dello Stato sociale utilizzato
per ampliare la capacità di erogare prestazioni pubbliche a favore della comunità
e un meccanismo di finanziamento affidato al patto sociale fra generazioni. Il
debito pubblico è un tratto tipizzante della finanza pubblica degli Stati
contemporanei, tanto che l’impegno dei governi recenti è volto a contenere gli
effetti negativi del debito pubblico. Inoltre, se lo stock di titoli del debito
pubblico non venisse acquistato dagli investitoti, lo Stato si troverebbe privo di
risorse finanziarie per effettuare i pagamenti periodici e si troverebbe in una
situazione di insolvenza.
A fronte dello Stato cleptocrate, il tributo non è più visto come lo strumento che
consente di affermare l’uguaglianza sociale, ma è visto come mero rispetto di
un obbligo di legge: l’individuo paga il tributo per non correre il rischio di
sanzioni in caso di inadempimento, dunque il pagamento del tributo diviene
espressione dell’obbedienza alla legge. Inoltre, il fondamento etico del tributo è
l’obiettivo di respingere i rischi della bancarotta statale, per cui i cittadini
subiscono una «passività di secondo grado, giacché lo Stato li ha incatenati da
dietro le spalle alla galera del debito pubblico». La funzione fiscale ha assunto i
caratteri sostanziali di un feticcio rivolto al mantenimento dell’apparato
istituzionale.
I feticci sono simboli che vincolano l’Io verso comportamenti adesivi rispetto
all’ordine sociale dominante. I feticci esprimono una realtà simbolica, non
esistente. Il feticcio del potere tributario come strumento di giustizia sociale va
considerato come un simbolo che esprime un rapporto fra la presenza e
l’assenza: la funzione fiscale si correla ai bisogni immaginari della comunità
espressi dalle leggi. Il potere tributario può essere espresso dalla formula «oblio
del soggetto che dà», ovvero il contribuente.
Il carattere del potere tributario come fondamento primario del patto sociale
impone di andare oltre la dimensione del feticcio del Logos, per cui il potere
tributario dovrebbe assumere contorni ulteriormente innovativi. Si dovrebbe
intervenire in relazione al rapporto fra sovranità e consenso, all’uguaglianza
fiscale e alla libertà positiva in ambito tributario.
3. La decisione circa l’esercizio del potere tributario
Nello Stato moderno, la connessione fra la sovranità e la fiscalità costituisce un
elemento fondamentale. La sovranità si esprime mediante il bilanciamento e la
ponderazione dei conflitti di interesse ed implica il passaggio necessario
attraverso la gestione delle risorse finanziarie come strumento per la
realizzazione dei fini generali perseguiti. La fiscalità è essenziale per la
formazione delle risorse finanziarie pubbliche, quindi è condizione irrinunciabile
di realizzazione degli obiettivi di fondo della collettività. La fiscalità può essere
considerata come una condizione trascendentale della vita in comune,
funzionale al raggiungimento delle finalità generali di libertà, ma anche
strumentale all’auto-realizzazione della personalità di ogni individuo nella
comunità.
Il potere tributario è un attributo irrinunciabile della sovranità. Dunque, i modi
di formazione del potere tributario sono un fattore decisivo del patto sociale. La
regolazione costituzionale del potere tribunale, quindi, è il primo capitolo del
patto sociale con cui si determina il Logos della società.
Nel corso del tempo, il nesso fra sovranità e fiscalità ha assunto connotazioni
diverse ed emerge come il principio del consenso del popolo si sia formato in
riferimento al potere tributario. Nel costituzionalismo inglese del XVII secolo,
l’interesse fiscale è un interesse proprio del sovrano, per cui il patrimonio del
monarca si pone in confronto con l’interesse dei sudditi. Con la rivoluzione
borghese, emerge la connessione della fiscalità con gli obiettivi generali della
collettività, anche se in posizione recessiva rispetto ai diritti di proprietà e di
libertà. Nell'illuminismo francese si accentua il ruolo strumentale dei poteri
impositivi rispetto al perseguimento delle finalità generali della società, per cui
i diritti individuali occupano una posizione subalterna. Nell'idealismo tedesco,
l’interesse fiscale è un valore fondamentale della collettività e si supera la
concezione per cui il potere impositivo è un attributo personale del sovrano.
Nelle costituzioni moderne si afferma che i poteri normativi in materia fiscale
sono riservati al Parlamento e si indica una connessione fra la sovranità
democratica e la regolazione della fiscalità.
Nelle costituzioni contemporanee, il nucleo qualificante della potestà normativa
si rinviene nella rappresentanza del popolo, espressa diversamente a seconda
dell’ordinamento, per cui la scelta della procedura per realizzare la potestà
normativa fiscale varia a seconda del livello ordinamentale oscillando fra potere
legislativo (Stato e Regioni che ricorrono alla legge statale e regionale) e potere
esecutivo (Unione Europea che ricorre a regolamenti e direttive, enti locali che
ricorrono ad atti dell’esecutivo). Dunque, la potestà normativa può essere
esercitata mediante una pluralità di procedure e fonti normative. Mantiene,
comunque, un rilievo attuale la riserva di legge come istituto di tutela e garanzia
della potestà normativa tributaria: gli elementi della tutela fornita dal consenso
parlamentare si individuano nella riserva di legge, la quale spesso è «relativa»
per cui si ammettono fonti secondarie coerenti con la fonte primaria. La riserva
di legge, inoltre, è riferita alle prestazioni patrimoniali stabilite in via
autoritativa, non solo quindi ai tributi.
Inizialmente, la riserva di legge e gli istituti di rappresentanza popolare erano
volti a proteggere una parte della comunità nazionale, assoggettata all’esercizio
del potere sovrano, rispetto agli arbitri del sovrano. Nello Stato attuale, invece,
viene meno la contrapposizione fra sovrano e popolo, dunque si supera la
concezione di riserva di legge come istituto di protezione della classe debole
rispetto al potere sovrano: la rappresentanza della comunità è un elemento del
processo di determinazione della politica fiscale nello Stato sociale.
La riserva di legge, inoltre, esprime una scelta di distribuzione delle competenze
fra gli organi dello Stato, con una preferenza per il Parlamento rispetto al
Governo. Il primo, infatti, è il luogo in cui si esprime il confronto fra le varie
componenti elette dalla comunità nazionale e garantisce la trasparenza del
dibattito politico; inoltre la procedura di approvazione delle leggi del
Parlamento richiede una durata prolungata, quindi si escludono scelte
estemporanee; infine, le leggi del Parlamento sono sottoposte al sindacato della
Corte Costituzionale. Il Governo, invece, non garantisce la trasparenza della
decisione ed applica solo le tesi della maggioranza senza un confronto con le
altre forze politiche. Dunque, si può affermare che la scelta delle costituzioni
moderne di ricorrere alla riserva di legge indica una scelta più garantista rispetto
all’interesse pubblico generale: in una società pluralista le decisioni in materia
fiscale devono essere affidate al percorso parlamentare. La riserva di legge
assume la funzione di «garanzia di procedura».
4. Il potere tributario come funzione dell’uguaglianza
Nella fase originaria del processo evolutivo del diritto tributario, il principio di
uguaglianza non trovava alcun riconoscimento, anzi il tributo portava con sé un
«marchio di odiosità» in quanto era applicato ai soggetti più deboli. Con
l’illuminismo si afferma il principio di uguaglianza formale, secondo il quale i
carichi fiscali devono essere ripartiti proporzionalmente fra i vari membri della
collettività (ogni consociato paga i tributi mediante una relazione proporzionale
con la ricchezza posseduta e i privilegi costituiscono discriminazioni). Il ricorso al
principio di uguaglianza formale risponde alla logica borghese della
valorizzazione dell’individuo in base alla forza economica. Con l’affermarsi dello
Stato sociale, emerge la nozione di uguaglianza sostanziale, per cui la funzione
fiscale viene utilizzata a fini redistributivi. Si afferma, quindi, che il tributo si deve
orientare verso forme di progressività, per cui si devono richiedere prestazioni
tributarie più che proporzionali alle categorie forti.
Si evidenzia come l’uguaglianza sia un giudizio relazionale: si tratta di una
valutazione attraverso la quale si individua una relazione di parificazione tra gli
appartenenti ad una collettività. Gli individui sono valutati come uguali in
ragione di uno o più elementi che li accomunano. Gli elementi che fondano il
giudizio di uguaglianza possono essere di diversa natura. L'uguaglianza consiste
nella parificazione degli individui a prescindere da alcuni elementi esteriori. si
tratta di un giudizio «in negativo» fondato sulla verifica di elementi a carattere
formale (uguaglianza formale). Nel Welfare State l’uguaglianza viene intesa
come una nozione sostanziale, per cui l’uguaglianza sostanziale consiste nel
garantire la «parità di chances» ai consociati. Dunque, l’uguaglianza sostanziale
configura un progetto di vita nella società che vuole assicurare la redistribuzione
al fine di garantire il raggiungimento della dotazione minima. La dotazione di
base deve essere individuata tenendo conto della protezione di sfere di libertà
fondamentali tali per cui la relativa rimozione renderebbe una vita non adeguata
alla dignità umana. Lo scopo perseguito dall’uguaglianza sostanziale è quello di
produrre capacità per ogni persona, per cui il concetto di uguaglianza si salda
con quello di libertà. Negli ordinamenti odierni, l’uguaglianza è «tutela delle
differenze» e garanzia della pari dignità sociale e r «riduzione delle differenze».
L'eguaglianza sostanziale dei membri di una comunità dipende dai carichi fiscali
imposti sui membri stessi, dunque la libertà e l’uguaglianza sono correlate alla
funzione fiscale. La funzione fiscale risponde ad una logica redistributiva per cui
l’apporto dei singoli membri è determinato secondo meccanismi di progressività
che comportano una partecipazione più che proporzionale da parte dei soggetti
dotati di maggiore ricchezza. Inoltre, anche il ricorso alle agevolazioni fiscali
esprime la scelta per un disegno di trasformazione sociale che persegue lo
sviluppo dell’uguaglianza sostanziale.
L'uguaglianza sostanziale è, quindi, un principio che promuove le diseguaglianze
fra i consociati per perseguire un disegno di trasformazione sociale ispirato al
raggiungimento di una piattaforma di parità di opportunità. Solo la
diseguaglianza distributiva può rimuovere la diseguaglianza di fatto
preesistente, infatti «la nuova eguaglianza è il risultato del pareggiamento di due
diseguaglianze». Per risolvere eventuali conflitti normativi relativi a diversità di
trattamento si deve ricorrere al criterio di ragionevolezza: per determinare la
comparabilità di situazioni giuridiche si deve far riferimento ad un tertium
comparationis, ovvero un termine di confronto normativo, e l’adeguatezza del
trattamento normativo è determinata sulla base di criteri di ragionevolezza che
si esprime attraverso una pluralità di tecniche di valutazione della coerenza
logica. Quindi, la discrezionalità del legislatore può essere sindacata in ordine
alla ragionevolezza del trattamento uguale o differenziato. La coerenza di una
disciplina può essere guardata come coerenza interna del sistema normativo,
per cui vi è una corrispondenza logica fra le varie norme di uno stesso contesto
giuridico, e come coerenza esterna, che indica la compatibilità delle norme
settoriali rispetto ai principi generali dell’ordinamento giuridico. L'uguaglianza
tributaria, come ragionevolezza, si presenta come criterio logico di valutazione
dell’adeguatezza del trattamento fiscale di fattispecie distinte.
L'uguaglianza sostanziale impone di ricorrere ad un bilanciamento fra i valori
giuridici sottostanti alle norme. Si ricorre alla tecnica della «co-essenzialità del
limite», per cui un valore può essere compresso rispetto alla rilevanza dell’altro
valore purché rimanga preservato nel suo nucleo essenziale, oltre tale limite la
compressione del valore comporta il suo annullamento. Dunque, il principio di
uguaglianza impone una mediazione fra l’interesse fiscale dello Stato comunità
e la capacità contributiva o le libertà individuali.
Il principio di uguaglianza tributaria si esprime in forme diverse a seconda
dell’ordinamento fiscale di riferimento. Ad esempio, nell’ordinamento degli enti
locali si ricorre al principio del beneficio per cui l’uguaglianza tributaria tiene
conto del grado di utilità che ciascun consociato riceve dai servizi pubblici.
Nell'ordinamento europeo, si esprime il principio di non discriminazione fiscale
per cui si escludono gli ostacoli tributari che possano compromettere il primario
obiettivo della libera circolazione dei fattori produttivi e dei prodotti economici.
Il principio di non discriminazione si configura come una regola a contenuto
conservativo dello status quo, che non è volta a perseguire un progressivo
superamento delle diseguaglianze. Dunque, nell’ordinamento comunitario, i
soggetti vengono parificati quanto alle prestazioni tributarie in elazione al dato
formale della produzione di un singolo evento economicamente apprezzabile.
5. Il potere tributario come funzione della libertà
Nel pensiero contemporaneo è consolidato il convincimento che l’essere esiste
solo nella sua libertà, per cui la libertà è l’essere nel mondo dell’individuo. La
libertà è sottoposta ai condizionamenti provenienti dagli elementi materiali e
storici nei quali si realizza la vita, dunque la libertà viene esercitata in un
contesto dato e preesistente. La libertà esiste solo se esiste un dubbio:
l’individuo è chiamato ad effettuare una scelta rispetto ad una pluralità di
opzioni. La libertà consiste nella capacità dell’individuo di formulare una scelta
impegnativa della propria esistenza secondo criteri e valutazioni auto-
determinate. La libertà, quindi, consiste nell’auto-determinazione dell’individuo
ed il tratto qualificante della libertà si ravvisa nell’idoneità del soggetto a
determinare autonomamente il programma della propria esistenza rimuovendo
ostacoli che impediscono la realizzazione del programma.
Nella moderna società democratica, dunque, la libertà assume un contenuto
effettivo solo se intesa come valore «positivo». La libertà non è solo assenza di
vincoli, ma è la capacità che permette di sviluppare il progetto di vita che
ciascuno ha. La libertà positiva si presenta come «libertà di conseguire» e si
distingue dalla «libertà di agire». La libertà «positiva» si presenta come un agire
auto-determinato e consapevole orientato verso la formulazione di scelte in
ordine al percorso evolutivo individuale. La capacità di formulare scelte attinenti
al progetto di sviluppo della persona presuppone che i bisogni elementari siano
soddisfatti in quanto altrimenti il soggetto non potrebbe dedicarsi alla
definizione di un progetto generale di formazione e sviluppo. Il fondamento
della libertà positiva, quindi, può essere rintracciato nella liberazione dai bisogni
e la libertà positiva costituisce un insieme di opportunità che permettono
all’individuo di formulare una scelta in ordine al progetto di vita da conseguire.
L'idea di libertà, pertanto, si salda all’idea di capacità.
La libertà positiva si compie mediante atti destinati a promuovere
l’autorealizzazione della persona e la capacità di auto-determinazione
presuppone dei fattori (biologici ed ambientali) necessari per assumere le scelte.
Nella moderna società democratica, la libertà positiva si realizza attraverso le
conoscenze acquisite con l’istruzione, mediante il rispetto della dignità garantita
dal lavoro e dalla sicurezza sociale. Di conseguenza, la libertà positiva
presuppone la messa a disposizione per l’individuo di risorse economiche
necessarie a finalizzare il programma di istruzione, di tutela della salute, di
sviluppo del lavoro e di sicurezza sociale. Senza risorse economiche da parte
dello Stato la libertà è gravemente danneggiata, in quanto non si produce la
liberazione dal bisogno. Dunque, la libertà positiva si può esplicare solo se
l’individuo è egualmente ammesso a godere di una dotazione di strumenti
minimi che permettano di sviluppare il progetto di auto-realizzazione della
persona. La funzione fiscale è necessaria per garantire che ciascun individuo
nella società possa godere di un corredo minimo di strumenti di libertà (studiare,
tutelare la propria salute, godere di una sicurezza sociale e previdenziale). Il
paradigma della libertà nella società va individuato nella garanzia della «libertà
eguale».
6. Potere e libertà nella fase di attuazione dei tributi
Dall'attuazione dei tributi emerge il collegamento funzionale con la tutela degli
obiettivi e le finalità perseguite attraverso l’esercizio del potere tributario,
quindi il nesso con la funzione fiscale nella sua polifonica capacità di protezione.
La fase dell’accertamento si riferisce alla tutela delle prestazioni fiscali relative
all’obbligazione tributaria, ma anche al controllo e alla vigilanza circa le condotte
preliminari dei contribuenti. La fase della riscossione riguarda non solo l’incasso
di prestazioni fiscali relative all’obbligazione tributaria, ma anche la percezione
di prestazioni patrimoniali riferite a obblighi di acconto. Le sanzioni tributarie
penalizzano l’evasione dei tributi ma anche la violazione di obblighi strumentali
di collaborazione del contribuente.
La centralità della funzione fiscale rispetto alle fasi dell’attuazione dei tributi fa
mergere un nuovo modello ricostruttivo dei rapporti tra le parti del rapporto
tributario, ovvero amministrazione finanziaria e contribuenti. Tali relazioni
possono essere ricondotte alla dialettica «potere/libertà»: la funzione fiscale,
infatti, impone che gli enti impositori siano dotati di poteri pubblici al fine di
garantire la tutela degli obiettivi e dei risultati perseguiti dall’ordinamento
fiscale; mentre i contribuenti devono vedere tutelata la propria sfera di libertà.
La fase di attuazione dei tributi si costruisce intorno alla relazione fra il potere
pubblico e le libertà garantite ai contribuenti. I poteri pubblici sono utilizzati per
acquisire conoscenze storiche sul comportamento fiscalmente rilevante del
contribuente: tale opera istruttoria richiede l’invasione della sfera di libertà e
riservatezza della persona. Una volta che l’amministrazione finanziaria ha
verificato la correttezza o meno della condotta fiscale, i poteri pubblici sono
esercitati per garantire l’adempimento dell’obbligazione fiscale. L'esercizio dei
poteri pubblici si raccorda al perseguimento delle finalità dell’interesse fiscale
dello Stato. A fronte dei poteri pubblici, si pongono le libertà ed i diritti
dell’individuo che vanno preservati rispetto all’esercizio dei poteri pubblici.
Questa protezione della sfera dell’individuo non si estende automaticamente
all’area di riservatezza e segretezza, anzi a questi ambiti si riconosce un carattere
recessivo rispetto all’esercizio dei poteri pubblici.
L'esercizio del potere pubblico può comprimere i diritti fondamentali della
persona, dunque è necessario un bilanciamento dei valori a fondamento del
potere pubblico e delle libertà costituzionalmente garantite. Il legislatore fiscale
ha, quindi, previsto soluzioni normative che consentono di garantire la
protezione della sfera di libertà e dignità dell’individuo: si prevedono modalità
di esercizio modalità di esercizio di poteri pubblici che consentono la
preservazione delle forme più rilevanti dei diritti di libertà dell’individuo, come
l’autorizzazione giudiziaria; sono previste forme di contraddittorio fra
amministrazione finanziaria e contribuente; l’esercizio del potere pubblico
richiede il rispetto delle regole del buon agire amministrativo.
Correlato alla finalità tributaria vi è anche una seconda tipologia di interesse
generale, ovvero l’interesse dell’apparato pubblico a realizzare gli obiettivi
assegnati dallo svolgimento delle funzioni collettive. Si tratta di un interesse
secondario, per cui assume rilievo la regola che indica l’imparzialità ed il buon
andamento dell’agire amministrativo. Dunque, l’organizzazione dei poteri
pubblici al fine di perseguire un innalzamento dei livelli quantitativi e qualitativi
dell’azione amministrativa risponde alle esigenze di proteggere e perseguire gli
interessi della collettività. L'interesse fiscale dello Stato può, inoltre, legittimare
regole di favore per l’amministrazione finanziaria destinate a ridurre l’onere di
funzionamento a carico di quest’ultima. Queste regole, però, non possono
riguardare norme di carattere sostanziale poiché in tal caso il valore secondario
finirebbe per collidere con i valori primari della sfera individuale.
7. L'ordine del vivere insieme
La forma naturale dell’esistenza umana è vivere insieme ad altri individui simili
a sé stesso. L'Io si esprime e si realizza attraverso il Noi e attraverso l’ordine della
società i tanti Io diventano il Noi. Il Noi si esprime mediante una pluralità di
possibili dimensioni, quali gruppi ristretti ad esempio le Buone società e gruppi
ampi come le Grandi comunità. Il Noi frantuma l’Io in varie identità sociali.
L'appartenenza al Noi impone l’adesione all’ordine collettivo. L'ordine sociale si
presenta come parametro del riconoscimento all’interno del gruppo, attraverso
l’adesione alla sequenza simbolo-rituale e il giudizio di conformità espresso dalle
autorità. Il riconoscimento reciproco dentro il Noi consente l’auto-
riconoscimento per cui vivere insieme è condizione imprescindibile nella quale
si forma e si sviluppa l’Io. L'Io si compone, scompone, decompone e ricompone
in base alla dialettica del Noi: l’ordine collettivo si impone sull’individuo senza
bisogno di azioni violente o coercitive. L'identità, individuale e collettiva, si
compone attraverso il vivere comune: il Noi è misura dell’Io.
La dialettica del Noi si sviluppa attraverso:
- Le legature sociali, ovvero gli elementi che permettono di tenere insieme
il gruppo e che sviluppano la coesistenza. Vivere insieme è reso possibile
dai vincoli che consentono ai tanti di formare un Noi, per cui la solitudine
è superata grazie al Noi. Le legature sociali inducono il soggetto a
orientare la propria energia verso l’ordine sociale;
- I rumori di fondo, ovvero i dati imprevedibili che emergono dal fondo di
ciascun Io e che indicano pulsioni esistenziali rispetto al gruppo, ad
esempio paure e sperane non collegate all’ordine sociale. I rumori di
fondo fanno emergere le pulsioni esistenziali peculiari dell’Io.
Entrambi gli elementi si sviluppano nella vita collettiva, i rumori di fondo
tendono verso il Chaos: nel vivere insieme, dunque, coesistono il Logos ed il
Chaos.
Vivere insieme rappresenta il fondamento necessario sul quale si sviluppa il
Logos universale. La ragione fondamentale del vivere insieme è il perseguimento
di un disegno mobile di libertà eguale: l’obiettivo primario dell’etica sociale
consiste nell’incrementare l’uguaglianza sostanziale senza distruggere la libertà
individuale. Si deve trattare di un programma che persegue l’uguaglianza e la
libertà nella loro impersonalità. La libertà uguale costituisce il programma
fondamentale della vita dell’Io e del Noi.
La ripartizione dei beni sociali all’interno del gruppo di appartenenza è una delle
forme di giustizia redistributiva più rilevanti nella comunità. I bisogni sociali
aumentano con o sviluppo socio-economico, dunque occorre che la comunità
definisca il modello di ripartizione delle risorse occorrente per soddisfare i
bisogni sociali in relazione al patto costituzionale. Il patto sociale stesso si
presenta come «un accordo per redistribuire le risorse dei membri secondo una
concezione collettiva dei loro bisogni». Tra le varie forme di ripartizione che
possono essere attuate, quella rimessa all’azione dello Stato consiste nella
redistribuzione della capacità economica attraverso il sistema fiscale.
La funzione fiscale trova il suo primato nell’ordine costituito dallo Stato (Grande
comunità) e non in altre comunità, come quelle degli enti territoriali minori. Nel
Welfare State la funzione di protezione sociale è l’oggetto di un diritto dei
cittadini, per cui lo Stato deve garantire la «parità di posizioni di partenza» dei
consociati affinché questi possano realizzare i propri progetti di auto-
realizzazione. Lo Stato sociale ha per obiettivi la tutela delle libertà individuali
dell’uguaglianza sostanziale: il riconoscimento dei diritti sociali consente di
realizzare la sintesi fra uguaglianza e libertà per ottenere la «liberazione dalla
privazione». La «liberazione dai bisogni» è il paradigma della libertà, per cui lo
Stato deve intervenire, attraverso la spesa pubblica, in funzione correttiva: lo
Stato deve ricercare un adeguato livello di benessere al fine di sostenere il
progetto di vita in comune per garantire la libertà e l’uguaglianza sostanziale dei
consociati. Dunque, lo Stato favorisce programmi di crescita produttiva e di
sviluppo del sistema economico e sociale al fine di assicurare un livello di
benessere individuale e collettivo coerente con i bisogni della comunità.
Ovviamente, però, la libertà e l’uguaglianza dipendono dal livello, dalla qualità e
dalla quantità dell’imposizione fiscale.
Le ragioni dello «stare insieme» all’interno della comunità organizzata possono
ravvisarsi nella definizione di istituzioni e programmi che garantiscono a ciascun
soggetto la realizzazione del percorso di auto-realizzazione secondo i postulati
di libertà ed uguaglianza sostanziale. Lo Stato sociale pone il benessere al centro
del «patto sociale», infatti la scelta di vivere in comunità deriva dall’idea che in
tal modo i bisogni fondamentali dell’individuo sono realizzati dall’erogazione di
prestazioni pubbliche che garantiscono un livello minimo di libertà e di dignità.
Il Welfare state rappresenta la formula organizzativa della comunità
democratica richiesta da ogni individuo quale condizione dell’adesione alla
comunità al fine di assicurare il perseguimento degli obiettivi di uguaglianza e
libertà.
L'organizzazione della comunità e le regole strumentali al perseguimento delle
finalità collettive avviano un processo circolare per mezzo del quale ciascun
elemento presuppone l’altro e si adopera per il progresso e lo sviluppo coerente
con il bene comune secondo le coordinate del vivere insieme. La società
circolare è la società dove le forze spingono per il raggiungimento di una
dimensione di libertà uguale che vale come «ordine e misura del caos».
l’individuo non viene concepito come uno strumento per soddisfare i bisogni
degli altri, ma come il termine finale dei processi di produzione del benessere.
Per conseguire un corretto sviluppo della personalità e del progetto d vita che
ciascun individuo intende realizzare va fornito il raggiungimento di un adeguato
livello di capacità umane fondamentali. Sviluppare la capacità vale a preservare
le libertà e le opportunità di partenza che ciascun individuo deve possedere per
essere considerato come un fine. Nella società circolare la soglia delle
opportunità di partenza tende a crescere sempre di più. La giustizia sociale si
persegue mettendo in condizione ciascun individuo di scegliere liberamente il
proprio destino sulla base di una dotazione di mezzi di base che lo rendono
«libero dalla privazione». La società circolare deve favorire l’approntamento di
un insieme di opportunità affinché si permetta lo sviluppo delle capacità
combinate. Il benessere è uno strumento che vale a consentire all’individuo di
soddisfare i bisogni e di convertire le capacità in funzionamenti.
8. Una nuova teoria del potere tributario
Il potere tributario costituisce l’attributo qualificante della società circolare nella
misura in cui soddisfa gli obiettivi d libertà uguale che ne denotano il processo
di sviluppo. Infatti, nella società circolare i diritti fondamentali dell’individuo
sono fondati su un adeguato compendio di solidarietà che avvolge la vita
collettiva. Questa solidarietà si esprime mediante il concorso alla spesa pubblica
che qualifica l’agire dello Stato. Il prelievo fiscale risponde alla logica di coesione
e solidarietà sociale cosicché la ricchezza individuale vada considerata al netto
degli oneri tributari. La dimensione del potere tributario, quindi, riguarda
l’attitudine complessiva del prelievo fiscale a perseguire gli obiettivi di
uguaglianza sostanziale e di libertà positiva.
Il potere tributario va sganciato da una politica di breve periodo ed indirizzato
verso un’identità sociale di lungo periodo, per cui gli elementi di fiscalità
dovrebbero essere orientati al perseguimento di un incremento della «libertà
uguale» producendo una riduzione del carico fiscale sul fattore lavoro e
allargando la base imponibile complessiva mediante la lotta all’evasione. La
trasformazione delle forme del prelievo fiscale porterebbe ad un diverso criterio
redistributivo degli oneri pubblici.
Un passaggio fondamentale per la costituzione di un ordine ispirato
all’uguaglianza sostanziale riguarda il finanziamento dello Stato sociale. Si deve
ricorrere ad un meccanismo tributario che consenta di spostare il peso del
prelievo fiscale sul capitale rispetto al lavoro, in quanto in tal modo si
favorirebbe l’incremento di capacità economica a e finanziaria in capo alle
famiglie dei lavoratori e si potrebbe seguire la capacità contributiva del
contribuente in modo più corretto. La tassazione rapportata al reddito e non al
patrimonio non sembra una forma adeguata di tassazione della capacità
contributiva in quanto misconosce un dato fondamentale per la valutazione del
ruolo sociale e della capacità di concorrere alle pubbliche spese. I proventi
dell’imposta sul capitale potrebbero essere considerati come il nucleo fondante
del piano di finanziamento dello Stato nella logica redistributiva.
Appare opportuno riprendere la teoria della «imposta negativa», per cui si
assicura un livello minimo di dotazione reddituale a ciascun membro della
comunità affinché questo possa perseguire il progetto di auto-determinazione e
di promozione delle capacità centrali della persona. Si crea, quindi, un
collegamento fra il prelievo dei soggetti più ricchi ed il finanziamento dei sussidi
a favore dei soggetti più poveri (l’individuazione della soglia di povertà e di
reddito minimo dipende da valutazioni di opportunità). L'«imposta negativa»
può attivare circuiti solidaristici.
Oggigiorno, il potere tributario deve essere scollegato dal prendere risorse per
«tenere in equilibrio i conti pubblici» e va, piuttosto, connesso ad un fine
solidaristico, per cui si deve formulare un «programma paese» volto al
superamento della crisi dello Stato sociale e alla trasformazione del nucleo del
patto sociale. Il potere tributario deve essere inserito all’interno di un progetto
complessivo e generale di crescita sociale ed economica della comunità, nel cui
ambito le prestazioni fiscali sono strumenti per favorire obiettivi condivisi dai
cittadini. In tal modo il depauperamento fiscale è avvertito come un elemento
del piano di rinascita della propria comunità.
Sul presupposto di una diffusa e consistente diseguaglianza sociale, si prende
atto che il sistema fiscale di carattere obbligatorio non contribuisce a risolvere il
problema della diseguaglianza. Vi è una teoria filosofica secondo cui si dovrebbe
sostituire l’obbligo legale con un atto liberale del consociato, sostituendo l’edita
del dare alla soggezione obbligatoria alla legge. In questo modo, la funzione
fiscale diventerebbe un atto di solidarietà nei confronti dell’altro. Tale
prospettazione costituisce, evidentemente, un paradosso, in quanto lo Stato ha
necessità di una certezza di incassi che solo l’obbligatorietà ex lege delle
prestazioni fiscali può garantire.
Comunque sia, il potere tributario va ridimensionato nella dimensione della
società circolare per superare la routine di una fiscalità datata: si tratta di
promuovere un’etica fiscale ispirata alla logica della coesione e della solidarietà
nei confronti dell’altro, nella direzione di una strategia sociale diretta verso
l’inclusione e a tutela del bisognoso. In questo modo, la fratellanza espressa
dalla logica del dono, riscatterebbe l’uguaglianza sostanziale promuovendo un
progetto di integrazione solidale della società.

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