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La società anarchica, Bull

Relazioni internazionali (Università degli Studi di Milano)

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LA SOCIETA’ ANARCHICA- BULL


SARA INTRODUZIONE
Questo libro è una ricerca sulla natura dell’ordine della società degli Stati nonché della politica
internazionale. Risponde a tre domande fondamentali: che cos’è l’ordine nella politica mondiale? _
come è mantenuto l’ordine all’interno dell’attuale sistema degli stati sovrani? _ il sistema degli stati
sovrani offre una strada percorribile in vista del raggiungimento di tale ordine? Le tre parti di
questo libro esplorano in successione tali domande.
Elementi fondamentali dell’approccio: non si è interessati alla totalità della politica mondiale ma a
un solo elemento interno, l’ordine. Ordine pensato come a una qualità che, in ogni dato luogo o
momento, può essere presente o assente dalla vita politica, internazionale o può manifestarsi in
grado maggiore o minore: l’ordine opposto al disordine. In questo caso non bisogna pensare
all’ordine come l’insieme delle relazioni tra gli stati. L’ordine è definito come una realtà in atto o in
potenza, come uno stato di cose, non come valore, fine od obbiettivo. Quindi non bisogna
supporre che l’ordine sia da intendersi come un fine desiderabile. Dire che una tale o talaltra
istituzione, o che un corso di azioni, aiuta a sostenere l’ordine nella politica mondiale non equivale
a raccomandare che quella determinata istituzione vada preservata o che quel corso di azioni
debba essere seguito. Considereremo l’ordine come qualcosa che può esistere ed è esistito
indipendentemente dal diritto internazionale o dall’organizzazione internazionale, ma sosterremo
che il suo mantenimento dipende da regole, e nel moderno sistema internazionale un ruolo
fondamentale è stato svolto proprio da quelle regole che possiedono lo status di norme del diritto
internazionale. Dobbiamo anche riconoscere il ruolo delle norme che non hanno uno status
giuridico e dobbiamo ammettere la possibilità che in futuro potrebbero esistere forme di ordine
internazionale senza alcuna regola di diritto internazionale.
Allo stesso modo questo approccio non si sofferma a considerare le organizzazioni internazionali
come le Nazioni Unite e le sue agenzie speciali e i vari accordi internazionali di tipo regionale. Il
ruolo svolto da esse per il mantenimento dell’ordine nella politica mondiale è importante, ma per
rintracciare le cause fondamentali dell’ordine esistente non si deve guardare a tali società ma a
istituzioni della società internazionale che sorgono prima della costituzione di queste
organizzazioni e continuerebbero a operare anche in loro assenza.
IL CONCETTO DI ORDINE NELLA POLITICA MONDIALE
Che cos'è l'ordine?
ORDINE NELLA VITA SOCIALE.
Quando parliamo di ordine come opposto del disordine nella vita sociale abbiamo in mente un
modello ben preciso. L'ordine che gli uomini cercano nella vita sociale non è una qualsiasi
regolarità nelle relazioni umane tra individui o gruppi, ma è un modello che conduce ad un
particolare risultato, una sistemazione della vita sociale tale da promuovere alcuni scopo o valori.
(in questo senso finalistico un certo numero di libri esprime un ordine non quando questi sono
semplicemente disposti in serie, ma quando questi sono sistemati secondo l'autore o il soggetto).
Era questa concezione finalistica che s. Agostino aveva in mente quando definiva l'ordine come “la
disposizione di realtà uguali e disuguali, ciascun al proprio posto”. Presenta l'ordine, non come una
semplice regolarità, ma come un particolare tipo di modello e pone l'enfasi sui fini, fornendo un
agevole punto di partenza.
La definizione agostiniana a sua volta solleva la questione: “buono o adatto per che cosa?” In
questo senso finalistico l'ordine è necessariamente un concetto relativo: una sistemazione (per
esempio i libri) che è ordinata in relazione ad uno scopo (trovare un libro di un particolare autore)
può essere disordinata in relazione ad un altro (trovare un libro su un particolare soggetto). Questa
è la ragione per cui si verificano disaccordi nel giudicare se un certo insieme di disposizioni sociali
comporti un ordine o no, e per cui sistemi politici e sociali in conflitto tra loro possano entrambi
includere un ordine.

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Tuttavia, se l'ordine in senso agostiniano esiste solo in relazione a dati fini, alcuni si distinguono
come elementari o primari, in modo tale che il loro raggiungimento è in qualche misura una
condizione della vita sociale in quanto tale. Qualunque sano gli altri scopi che perseguono, tutte le
società riconoscono questi scopi primari e prevedono alcune disposizioni che ne favoriscono il
raggiungimento. Tre di questi scopi in particolare possono essere menzionati 1) tutte le società
cercano di garantire entro una certa misura la protezione dalla violenza, che potrebbe portare alla
morte o all'offesa corporale; 2) tutte le società cercano di assicurare che le promesse, una volte
fatte, siano mantenute, o che gli accordi una volta stabiliti siano osservati; 3) tutte le società
perseguono lo scopo di assicurare che il possesso delle cose rimanga stabile per un certo grado, e
non sia soggetto a contestazioni costanti e senza limite. Per ordine nella vita sociale intendesi un
modello di attività umana che sostiene scopi elementari, primari o universali come questi. Questa
non è una lista esaustiva di scopi comuni ad ogni forma di società, e al termine ordine non può
essere dato un contenuto solo in relazione ad essi. Ma gli scopi appena menzionati devono
certamente essere inclusi in ogni lista di scopi primari e illustrano bene che cosa sia uno scopo
primario. Ciascuno di questi scopi può essere definito elementare: una costellazione di persone o
gruppi nella quale non esistano aspettative di sicurezza nei confronti della violenza, di rispetto degli
accordi o di stabilità della proprietà, potrebbe difficilmente essere considerata una società. Gli
scopi sono anche da considerarsi primari nel senso che qualunque sia il fine generale che una
società stabilisce per se stessa, esso presuppone per un certo grado la realizzazione di tali
obbiettivi fondamentali. (gli individui in assenza di questi scopi non sono in grado di concentrarsi su
altri. Per esempio: senza la certezza che il possesso di oggetti da parte di persone o gruppi sia in
qualche modo reso stabile od organizzato, sarebbe difficile immaginare relazioni stabili di un
qualsiasi tipo). I tre scopi sono anche universali, nel senso che ogni società reale sembra tenerne
conto.
Comunque, nel definire l'ordine nella vita sociale come modello di attività umana, una disposizione
di realtà uguali e disuguali che sostiene scopi elementari o primari come questi, non si sostiene che
tali scopi dovrebbero avere una priorità. Si sostiene che senza una qualche realizzazione di questi
scopi non possiamo parlare di società o di vita sociale; che il raggiungimento di altri scopi
presuppone in qualche modo il raggiungimento di questi.
L'ordine non è il solo valore in relazione a cui si forma la condotta umana, né dobbiamo assumere
che esso sia prioritario rispetto ad altri.
L'ordine sociale è definito talvolta in termini di obbedienza a regole di condotta; altre volte definito
come obbedienza alle regole del diritto. Di fatto l'ordine nella vita sociale è legato molto
strettamente alla conformità del comportamento umana alle regole di condotta, se non
necessariamente alle norme di legge. Ma l'ordine nella vita sociale può esistere, in linea di
principio, senza regole, ed è meglio trattare le regole come strumenti diffusi e pressoché
onnipresenti per la creazione dell'ordine nelle società umane, piuttosto che come una parte della
definizione di ordine stesso.
Si è affermato talvolta che l'ordine nella vita sociale ha a che fare con la conformità della condotta
umana a leggi scientifiche (che stabiliscono una connessione causale tra una classe di eventi
sociale e un'altra) che garantisce una base per la previsione del comportamento futuro. I modelli di
comportamento diventano conosciuti ed è così possibile formulare leggi generali che forniscano la
base per alcune aspettative riguardo al comportamento futuro. Ma anche il comportamento privo
di ordine può conformarsi alla legge scientifica e garantire una base per alcune aspettative nei
confronti dei comportamenti futuri: l'intera letteratura sulle caratteristiche ricorrenti della guerra,
della guerra civile e delle rivoluzioni attesta la possibilità di trovare conformità alla legge scientifica
anche in condizione sociale priva delle caratteristiche dell'ordine.
L'ORDINE INTERNAZIONALE
Per ordine internazionale s’intende un modello di attività che sostiene scopi elementari o primari
della società degli stati, o società internazionale.

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Il punto di partenza per le relazioni internazionali è l'esistenza degli stati, o comunità politiche
indipendenti ciascuna della quali possiede un governo e stabilisce la propria sovranità in relazione
a una particolare porzione della superficie terrestre, e su un particolare segmento della
popolazione umana. Gli stati affermano quindi una sovranità interna, che significa supremazia su
ogni altra autorità all'interno di quel territorio e di quella popolazione. Stabiliscono anche la
sovranità esterna ossia l'indipendenza dalle altre autorità esterne. La sovranità degli stati può
essere concepita sia sul piano normativo che su un piano fattuale.
Una comunità politica indipendente che semplicemente rivendica un diritto alla sovranità, ma che
non può affermare questo diritto nella pratica, non è uno stato nel vero senso della parola.
Un sistema di stati o sistema internazionale si forma quando due i più di essi stabiliscono
sufficiente contatto, e assumono ciascuno sulle decisioni dell'altro un impatto sufficiente a far si
che ognuno si comporti – almeno in una certa misura – come parte di un tutto. Due o più stati
possono naturalmente esistere senza formare un sistema internazionale in questo senso.
Ma dove gli stati si trovano in regolare contatto gli uni con gli altri, e in aggiunta si verifica
un'interazione tra essi sufficiente a fare del comportamento di ciascuno un elemento necessario
nei calcoli dell'altro, allora possiamo dire che formano un sistema. L'interazione tra stati può essere
diretta – come quando due stati sono vicini, o competono per lo stesso oggetto, o collaborano
nella stessa impresa; oppure le loro interazioni possono essere indirette – in conseguenza del fatto
che ciascuno deve trattare con uno stesso terzo stato, o semplicemente a causa dell'impatto che
ognuno esercita nel sistema nel suo complesso. Le interazioni tra stati per mezzo delle quali si
costituisce un sistema internazionale possono prendere la forma della cooperazione, ma anche del
conflitto, della neutralità o dell'indifferenza nei riguardi degli obbiettivi altrui. Le interazioni
possono essere presenti su un intera gamma di settori – politico, strategico, economico, sociale –
così come accade oggi, oppure solo in uno o due di esse: può essere sufficiente, come comporta la
definizione di sistema internazionale data da Raymond Aron, che le comunità politiche
indipendenti in questione “coltivino relazioni regolari” e “siano tutte suscettibili di venire coinvolte
in una guerra generale”.
Martin Wight, classificando diversi tipi di sistemi di stati, ha distinto ciò che egli stesso definisce
“sistema internazionale di stati” dal “sistema a stato sovrano”. Il primo è un sistema composto da
stati sovrani, il secondo è un sistema in cui un solo stato afferma e mantiene la propria prevalenza
e supremazia sugli altri. Per alcuni di quelli che Wight chiamerebbe sistemi internazionali di stati si
ritiene, invece, che sia destinata costantemente a esistere una potenza dominante o egemonica.
Ciò che distingue un sistema a stato sovrano da un sistema internazionale di stati è che nel primo
modello la potenza dominante esercita un'egemonia permanente ed è impossibile da sfidare, nel
secondo l'egemonia passa da una potenza all'altra ed è costantemente oggetto di disputa. Nel
primo caso, secondo Wight, lo stato sovrano detiene la sovranità e di conseguenza una delle
condizioni fondamentali per l'esistenza di un sistema si stati, ovvero che ci debbano essere due o
più stati sovrani, è assente.
Una seconda distinzione fatta da Martin Wight è quella tra “sistemi di stati primari” e “sistemi di
stati secondari”. I primi sono composti di stati, mentre i secondi, a loro volta, di sistemi di stati –
spesso di sistemi a stato sovrano. Nei termini del nostro presente approccio dobbiamo tenere
presente solo i sistemi di stati sovrani.
L'espressione “sistema di stati” ha una lunga storia e ha coperto alcuni significati molto differenti
prima di arrivare a quello attuale. La sua storia sembra essere cominciata con Pufendorf, il cui
trattato de systematibus civitatum fu pubblicato nel 1675. Egli non si riferiva al sistema generale
degli stati europei, ma ad un particolare gruppo di stati all'interno di quel sistema, che erano
sovrani e al tempo stesso connessi tra loro in modo da formare un unico organismo. Il termine
sistema fu applicato all'insieme degli stati europei da scrittori del XVIII secolo come Rousseau e
Nettelbladt. Heeren, Ancillon e Gentz che sono i principali promotori della sua diffusione. Per
Hereen il sistema non era semplicemente una costellazione di Stati aventi un certo grado di
contatto e interazione ma era “l'unione di stati limitrofi, conformi per religione e cultura, vincolati

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tra loro per interessi reciproci”, e pensava che farne parte comportasse aver interessi e valori in
comune. L'autore percepiva la fragilità di un tale sistema, dal momento che la libertà dei suoi
membri poteva operare al suo mantenimento o permettere che fosse distrutto. È più vicino a ciò
che definisce “società internazionale”.
Una società di stati o società internazionale esiste quando un gruppo di stati, conscio di alcuni
valori e interessi in comune, forma una società nel senso che ciascuno si concepisce, nelle proprie
relazioni con gli altri, vincolato da un insieme di regole comuni, e partecipa al funzionamento di
situazioni condivise. Essi si ritengono vincolati da certe regole nei loro rapporti reciproci, in modo
tale da accettare le rispettive pretese di sovranità, da onorare gli accordi presi e da sentirsi soggetti
ad alcune limitazioni nell'uso della forza contro gli altri.
In questo senso una società internazionale presuppone un sistema internazionale, ma quest'ultimo
può essere anche in assenza di società internazionale. Due o più stati possono essere in contatto
tra loro e interagire in modo tale da costituire fattori necessari nel calcolo altrui, senza dover per
questo condividere valori o interessi comuni. Per esempio: Turchia, Cina, Giappone,Corea e Siam
furono parte del sistema internazionale dominato dagli europei prima di diventare parte della loro
società internazionale. Sarebbe a dire che questi paesi erano in contatto con le potenze europee e
vi interagivano significativamente in guerre e commercio; prima che essi stessi e quelle potenze
arrivassero a riconoscere interessi e valori comuni, o a considerarsi reciprocamente soggetti allo
stesso insieme di regole.
Non è sempre facile determinare se le caratteristiche distintive della società internazionale siano
presenti all'interno di un sistema internazionale. Esistono casi in cui un senso di interesse comune
è approssimativo e incerto; dove le regole comuni percepite sono vaghe e mal costruite; o dove le
istituzioni condivise sono embrionali o non del tutto esplicite. Se ci chiediamo quando ha avuto
inizio la società internazionale moderna o quali siano i suoi limiti geografici, veniamo a nostra volta
coinvolti in questo complesso problema di determinazione dei confini. Alcuni sistemi
internazionale sono stati abbastanza chiaramente anche società internazionali. Gli esempi
principali sono il sistema di città stato della Grecia classica, la Cina nel periodo degli stati guerrieri,
l'India antica e il sistema degli stati moderni. Una caratteristica comune di queste società
internazionali storiche è che tutte furono fondate su una comune cultura o civilizzazione, o
quantomeno su alcuni degli elementi di una civilizzazione: lingua comune, religione, codice etico,
una tradizione estetica o artistica. Questi elementi sono alla base di una società internazionale,
facilitano il suo funzionamento in due modi. Da una parte rendono più facile la comunicazione e
quindi la definizione di regole condivise e di istituzioni comuni. Dall'altra possono rinforzare il
senso di interesse comune, valori condivisi.
Per ordine internazionale si intende un modello di organizzazione dell'attività internazionale che
sostiene gli scopi elementari, primari o universali della società degli stati. Quali sono questi scopi?
Il primo è l'obbiettivo della preservazione stessa del sistema e della società internazionale.
Qualsiasi fossero le divisioni tra loro, gli stati moderni sono sempre stati uniti nella convinzione di
essere i principali attori della politica mondiale e i principali portatori di diritti e doveri al suo
interno. La società degli stati ha cercato di assicurare a se stessa la propria permanenza come
forma prevalente dell'organizzazione politica universale, di fatto e di diritto. In alcuni casi, le sfide
all’ esistenza della società degli stati sono state avanzate da un particolare stato dominante. Alcune
sfide sono state avanzate anche da attori non statali, che minacciavano di privare gli stati della loro
posizione di principali protagonisti della politica mondiale. Attori sovra-statali come il Papato o le
Nazioni Unite, attori sub-statali che operano nella politica mondiale dall'interno di un particolare
Stato, o attori trans-statali ovvero gruppi che si costituiscono trasversalmente ai confini tra gli stati,
possono anch'essi sfidare la loro posizione di privilegio nella politica mondiale.
Il secondo scopo è il mantenimento dell'indipendenza o sovranità esterna dei singoli stati. Dalla
prospettiva di ciascuno, ciò che si spera fondamentalmente di guadagnare dalla partecipazione alla
società degli stati è il riconoscimento dell'indipendenza da un autorità esterna, e in particolare
della supremazia della propria giurisdizione sui cittadini e il territorio. Il prezzo più grande da

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pagare per questo è a sua volta il riconoscimento di simili diritti di indipendenza e di sovranità agli
altri stati. La società internazionale ha spesso consentito che l'indipendenza degli stati venisse
sacrificata, come nel grande processo di spartizione e assorbimento delle piccole potenze da parte
delle grandi che, in nome di principi come quello della compensazione o dell'equilibrio di potenza,
ha prodotto uno stabile declino nel numero degli stati presenti in Europa dalla pace di Westfalia nel
1648 fino al congresso di Vienna nel 1815, in questo senso la società internazionale almeno dal
punto di vista delle grandi potenze che se ne sentono custodi, vede l'indipendenza degli stati
particolari subordinata alla necessità di preservare il sistema in quanto tale, allorché tollera o
incoraggia la limitazione della sovranità o dell'indipendenza dei piccoli stati attraverso strategie
come gli accordi sulle sfere di influenza o sulla creazione di stati cuscinetto o neutrali.
Il terzo scopo è la pace. Con ciò non si intende una pace universale e permanente, si intende
piuttosto il mantenimento della pace nel senso dell'assenza di guerra tra gli stati membri della
società internazionale come condizione normale delle loro relazioni, da rompersi solo in
circostanze particolari e secondo i principi generalmente accettati. La pace in questo senso è stata
considerata dalla società internazionale uno scopo subordinato a quello del mantenimento del
sistema stesso, ragione per cui si è ampliamente sostenuta l'idea che fosse giusto far ricorso alla
guerra. Lo scopo della pace è stato subordinato anche alla necessità di preservare la sovranità e
l'indipendenza dei singoli stati, che hanno insistito del diritto di ricorrere alla guerra per auto-
difesa, e per proteggere altri diritti. Questo status di subordinazione si riflette nell'espressione
“pace e sicurezza” che ricorre nello statuto delle Nazioni Unite. Il termine sicurezza nella politica
internazionale non significa nient'altro che salvezza e incolumità: sia quella fisica, oggettiva, reale,
sia quella soggettiva, sentita o percepita. Ciò che gli stati cercano di mettere al sicuro, o in salvo,
non è semplicemente la pace, ma la loro indipendenza e l'esistenza permanente della società degli
stati che quella indipendenza esige; e per raggiungere questi obiettivi, come abbiamo notato, essi
sono pronti a far ricorso alla guerra o a minacciarla. Le esigenze di sicurezza possono entrare in
conflitto con quelle della pace, e in tal caso quest'ultima non necessariamente ottiene la priorità.
Quarto scopo. Si deve osservare che tra gli obbiettivi primari o elementari della società degli Stati
si annoverano quelli definiti all'inizio del capitolo come scopi comuni di ogni esistenza sociale, ossia
la limitazione della violenza che potrebbe portare alla morte o all'offesa corporale, il
mantenimento dei patti e la stabilizzazione del possesso per mezzo di regole di proprietà. Lo scopo
della limitazione della violenza si manifesta in un certo numero di modi. Gli stati cooperano nella
società internazionale al fine di mantenere il monopolio della violenza e di negare ad altri gruppi il
diritto di esercitarla. Accettano anche alcune limitazioni al proprio diritto di usare la violenza.
Accettano che la guerra debba essere mossa solo per una “giusta” causa, hanno inoltre reclamato
costantemente il rispetto di regole secondo le quali le guerre devono essere combattute all'interno
di certi limiti, i temperamenta belli.
Lo scopo del mantenimento delle promesse è rappresentato dal principio pacta sunt servanda. La
cooperazione più avere luogo solo grazie a degli accordi che possono compiere la loro funzione
solo sulla base della supposizione che, una volta stipulati, verranno rispettati. Attraverso poi la
dottrina del rebus sic stantibus, la società internazionale si adatta al cambiamento.
Lo scopo della stabilità del possesso si manifesta nella società internazionale non solo nel
riconoscimento reciproco delle rispettive proprietà , ma ancor più profondamente nel patto del
mutuo riconoscimento della sovranità, in cui gli Stati accettano ciascuno la sfera di giurisdizione
dell'altro; l'idea della sovranità dello Stato deriva storicamente dalla convinzione che alcuni
territori o alcune genti fossero proprietà o patrimonio del governante.
L'ORDINE MONDIALE
Per ordine mondiale si intende quei modelli o disposizioni dell'attività umana che sostengono gli
scopi elementari o primari della vita sociale all'interno dell'umanità intesa come totalità. L'ordine
internazionale è ordine tra stati; ma gli stati sono semplicemente raggruppamenti di uomini, e gli
uomini possono raggrupparsi in maniera da non formare stati. Attraverso la storia, prima del XIX
secolo, non c'è stato alcun sistema politico che abbia unito il mondo nella sua totalità. Prima della

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seconda metà del XIX secolo l'ordine mondiale era semplicemente la somma dei vari sistemi
politici che fornivano ordine alle diverse parti del mondo. A partire dalla fine del XIX secolo e dagli
inizi del XX secolo, è emerso per la prima volta un sistema politico genuinamente globale.
Il primo sistema politico globale ha preso la forma di un sistema globale di stati. L'espansione del
sistema degli stati europei su tutta la superficie del globo, e la sua trasformazione in un sistema di
stati di dimensione globale sono stati i principali responsabili della nascita di un grado di
interazione tra i sistemi politici di tutti i continenti del mondo, sufficiente a farci parlare di un
sistema politico mondiale. Nella prima fase di questo processo gli stati europei si sono ingranditi e
hanno incorporato o posto sotto il loro dominio il resto del mondo, terminando con la spartizione
dell'Africa nel XIX secolo. Nella seconda fase le aree del mondo così incorporate o poste sotto
dominio si sono staccate dal controllo europeo e hanno preso il loro posto come Stati membri della
società internazionale, cominciando dalla Rivoluzione americana e terminando con le rivoluzioni
anti-coloniali dei nostri tempi, in Asia e in Africa. L'espansione del sistema degli stati fu una parte
di un più ampio processo di estensione degli scambi economici e sociali.
Mentre il sistema politico mondiale che esiste attualmente assume la forma di un sistema di stati,
l'ordine mondiale può essere ottenuto mediante altre forme di organizzazione politica universale.
Altre modalità di organizzazione politica universale sono esistite in passato e la forma del sistema
di stati ha costituito l'eccezione, piuttosto che la regola. È ragionevole assumere che in futuro
potranno essere create nuove modalità di organizzazione politica universale che non somigliano a
quelle esistite in passato.
Qui è necessario solo sottolineare che in questo studio l'ordine mondiale implica qualcosa di
differente dall'ordine internazionale. L'ordine nella comunità complessiva degli esseri umani è
qualcosa di più esteso dell'ordine tra gli stati, di più basilare e originario, e di moralmente
prioritario rispetto ad esso.
È più esteso perche dobbiamo riferirci non solo a quello tra gli stati, ma anche a quello prodotto su
scala domestica o locale all'interno di determinati stati, o a quello interno al più ampio sistema
politico mondiale di cui il sistema degli stati è solo una parte.
È più importante e originario dell'ordine internazionale perché le unità ultime della società
composta dall'intero genere umano non sono gli stati ma i singoli uomini: gli individui, infatti, a
differenza dei loro raggruppamenti sociali, sono permanenti e indistruttibili.
Possiede una priorità morale rispetto all'ordine internazionale. Assumere questo punto di vista
significa affrontare la questione dell'ordine mondiale come valore e del suo posto all'interno della
gerarchia dei valori umani. (capitolo quarto). Per ora, è necessario stabilire che se si deve attribuire
un qualsiasi valore all'ordine nella politica mondiale, esso riguarda l'ordine all'interno dell'intera
comunità umana e non quello relativo alla società degli stati. Se l'ordine internazionale possiede
un valore, ce l'ha solo in quanto finalizzato allo scopo dell'ordine nell'intera società degli uomini.

CAPITOLO SECONDO
ESISTE L'ORDINE NELLA POLITICA MONDIALE?
Nella fase presente, siamo ancora abituati a pensare all'ordine politico mondiale come a una realtà
che consiste nell'ordine domestico, o interno agli stati, e in quello internazionale, ordine tra gli
stati. Per molte persone, l'idea di un ordine internazionale non indica nulla di realmente esistito in
passato, ma semplicemente un possibile o desiderabile stato futuro delle relazioni internazionali,
riguardo a cui si può discutere o impegnarsi per la sua effettiva realizzazione.
Questo studio invece assume come proprio punto di partenza la proposizione che l'ordine è parte
del tracciato storico delle relazioni internazionali; e, in particolare, che gli stati moderni hanno
formato, e continuano a formare, non solo un sistema di stati, ma anche una società
internazionale.
L'IDEA DELLA SOCIETA' INTERNAZIONALE
Nella storia del sistema degli stati moderni tre sono le tradizioni di pensiero in competizione: la
tradizione hobbesiana o realista, che concepisce la politica internazionale come uno stato di guerra

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permanente; la tradizione kantiana o universalista, che nella politica internazionale vede l'attività
di una potenziale comunità dell'umanità intera; e la tradizione groziana, o internazionalista, che
vede lo svolgersi della politica internazionale all'interno del quadro di una società internazionale.
La tradizione hobbesiana descrive le relazioni internazionali come uno stato di guerra di tutti
contro tutti, un’arena in cui ciascuno stato si misura con gli altri. Le relazioni internazionali,
rappresentano il puro conflitto tra stati, gli interessi di ciascuno stato escludono quelli di qualsiasi
altro. L'attività internazionale più caratteristica è la guerra stessa. Dunque, la pace è il periodo di
convalescenza che sta tra l'ultima guerra e la preparazione di quella successiva. La condotta in
ambito internazionale secondo la visione hobbesiana è che lo stato è libero di perseguire i suoi
scopi in relazione agli altri Stati senza restrizioni morali o legali di sorta. La vita politica
internazionale avviene oltre qualsiasi vincolo sociale. Nella tradizione hobbesiana le sole regole o
principi che possono dirsi efficaci nel delimitare o nel circoscrivere il comportamento degli stati
nelle loro relazioni reciproche sono la prudenza e l'interesse. Gli accordi possono essere sottoscritti
se è utile farlo, ma possono essere violati in base allo stesso principio.
All'altro estremo, la tradizione kantiana o universalista stabilisce che la natura essenziale della
politica internazionale non risiede nel conflitto tra gli stati, come nella prospettiva hobbesiana, ma
nei legami sociali transnazionali che uniscono i singoli esseri umani, soggetti o cittadini degli stati. Il
tema dominante delle relazioni internazionali, in questa visione, è solo apparentemente quello
delle relazioni tra gli stati, dal momento che in realtà tale visione riguarda i rapporti tra tutti i
soggetti della comunità umana universale, comunità che esiste solo potenzialmente, non ancora in
atto, e che col suo arrivo relegherà il sistema degli stati nel dimenticatoio. All'interno della
comunità umana universale, gli interessi di tutti formano una cosa sola; la politica internazionale è
considerata, non come un gioco puramente distribuito, ma un gioco puramente cooperativo. I
conflitti di potere esistono tra le classi dominanti degli stati, e si riferiscono solo ad un livello
superficiale o transitorio del sistema degli rati attualmente esistente. In sintesi, gli interessi di tutti i
popoli sono gli stessi. L'attività che meglio rappresenta l'essenza della vita politica internazionale è
il conflitto orizzontale tra le ideologie, che taglia attraverso i confini degli stati e divide la società
umana in due campi: i fiduciari dell’immanente comunità universale degli uomini e coloro che
intralciano la sua strada, quelli che professano la vera fede e gli eretici, i liberatori e gli oppressi.
In contrasto con la visione hobbesiana, la tradizione kantiana sostiene che anche nelle relazioni
internazionali esistono imperativi morali limitanti la sfera d'azione degli stati, m questi imperativi
non impongono tanto la coesistenza o a cooperazione tra gli stati, quanto il rovesciamento del
sistema degli stati e la sua sostituzione con una società cosmopolitica. La comunità umana
universale non è solo la realtà centrale della politica internazionale, nel senso che le forze capaci di
realizzarla sono già in essere nel presente, essa è anche il fine o l’oggetto del più alto sforzo etico.
La questione della mutua accettazione dei diritti di sovranità e di indipendenza non si pone
neppure.
La tradizione groziana o internazionalista si pone fra la tradizione realista e quella universalista.
Essa descrive la politica internazionale nei termini di una società di stati o società internazionale.
Contro la tradizione hobbesiana, i groziani sostengono che gli stati non sono meramente impegnati
in una lotta, ma sono vincolati da regole e istituzioni comuni nei loro conflitti reciproci. Tuttavia,
contro la prospettiva kantiana, accettano la premessa hobbesiana che i sovrani o gli stati sono le
principali realtà della politica internazionale. La politica internazionale, nell'interpretazione
groziana, non esprime né un totale conflitto tra gli interessi degli stati, né una loro completa
coincidenza. È paragonabile a un gioco parzialmente distributivo e parzialmente generativo.
L'attività che esemplifica meglio la politica internazionale come tale non è ne la guerra tra gli stati,
né il conflitto ideologico orizzontale che si manifesta trasversalmente ai confini statali, ma il
commercio o più generalmente i rapporti economici o sociali tra paese e l'altro.
Tutti gli stati nelle loro relazioni sono legati dalle regole e dalle istituzioni della società da essi
formata. Diversamente dalla tradizione realista, in questa visione gli stati non sono vincolati solo
dalla prudenza e dall'interesse, ma anche da imperativi giuridici e morali. In contrasto con

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l'interpretazione universalista, ciò che questi imperativi impongono non è il rovesciamento del
sistema degli stati ma piuttosto l'accettazione delle condizioni di coesistenza e cooperazione
presenti in una società di stati.
Queste dottrine si esprimono in un linguaggio diverso in relazione a temi e preoccupazioni sempre
differenti in base al momento storico. L'idea groziana della società è sempre stata presente nelle
riflessioni sul sistema degli stati.
LA SOCIETA' INTERNAZIONALE CRISTIANA
Nel corso del XV, XVI, XVII secolo, quando l'organizzazione politica universale della cristianità
occidentale era ancora dentro un processo di disintegrazione e lo stato moderno in una fase di
articolazione, presero forma tre modelli di pensiero intenzionati a descrivere la nuova politica
internazionale e a prescrivere la condotta al suo interno.
Da un lato pensatori come Machiavelli, Bacone e Hobbes vedevano gli stati emergenti confrontarsi
col vuoto morale sociale lasciato dalla repubblica cristiana ormai in declino. Dall'altro, gli scrittori
fedeli del papato o all'impero che combattevano una battaglia di retroguardia in nome dell'idea
dell'autorità universale del papa o dell'imperatore. Contro queste alternative un altro gruppo di
pensatori, affidandosi alla tradizione del diritto naturale, sosteneva la possibilità che i principi
emergenti fossero legati da regole e interessi comuni.
Questa società internazionale concepita dai pensatori del diritto naturale dell'epoca (Grozio,
Gentili) aveva alcune caratteristiche di centrale importanza.
In primo luogo, i valori che essi credevano fondati per la società erano cristiani. È vero che Grozio
insistendo sull'argomento della legge naturale quale fonte principale del diritto delle nazioni (diritti
e doveri di tutti gli uomini in quanto tali) e sul principio che la validità della legge naturale è
confermata indipendentemente dall'esistenza di Dio, implicava che la società internazionale
potesse, in ultima istanza, fare a meno delle sue fondazioni cristiane. Ma nessuno di questi teorici
credeva che le relazioni tra le potenze della società internazionale e le relazioni tra le potenze
cristiane si svolgessero sullo stesso terreno delle relazioni esistenti tra queste e le altre potenze.
Anche per Grozio esisteva il circolo più ristretto costituito dalla cristianità, all'interno del più ampio
circolo dell'intera umanità legato dai principi del diritto naturale. La firma dei trattati, in questo
periodo, veniva accompagnata da giuramenti di carattere religioso. Le società cristiane del tempo
intendevano fortemente distinguersi rispetto alle potenze esterne, specialmente nei confronti degli
ottomani.
In secondo luogo, i teorici di questo periodo non offrivano nessun chiaro principio guida in base a
cui determinare quali fossero i membri della società internazionale. Quando non era ancora
stabilita la concezione dello stato, l'idea di una società composta principalmente da un unico tipo
di entità politiche chiamate stati non poteva prendere forma. La dottrina del diritto naturale,
considerava i singoli individui piuttosto che le loro aggregazioni o gli stati, come i depositari in
ultima istanza i diritti e doveri.
In terzo luogo, nel definire la fonte delle norme da cui i principi e le comunità cristiane erano
vincolati, il diritto naturale si vedeva accordato un primato rispetto a quello che oggi sarebbe
chiamato diritto internazionale positivo. I principi e i popoli erano governati da norme soprattutto
in quanto uomini, e quindi soggetti alla legge naturale. Invocando la legge naturale speravano di
liberare il diritto delle nazioni dai condizionamenti delle pratiche esistenti e di sviluppare regole
adatte alla nuova situazione.
Una quarta caratteristica dell'idea di società internazionale che emerge in questo periodo consiste
nel fatto che le regole di coesistenza da essa proclamate erano mal precisate e si sovrapponevano
ad assunzioni relative ad una società universale. Ciò emerge chiaramente nei loro tentativi di
formulare i principi fondamentali di limitazione dell'uso della violenza tra i membri della società
internazionale. Tutti i primi internazionalisti insistono sull'idea che la guerra dovrebbe essere
combattuta solo tra i detentori della specifica autorità, per una giusta causa e con giusti mezzi. Ma
non vanno oltre a un timido avvicinamento alla dottrina moderna secondo cui solo le autorità
pubbliche sono autorizzate a portare guerra, e che per tali autorità si possono intendere soltanto

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gli stati. Anche Grozio non cerca di proibire la guerra privata. Nello spiegare la necessità di porre un
limite al modo in cui la guerra è condotta e di contenere la sua estensione geografica, egli è
condizionato dalla convinzione universalista o solidarista per la quale a queste limitazioni non deve
essere permesso di arrecare svantaggio alla parte la cui causa sia giusta. Tutti i primi
internazionalisti, fatta eccezione per Gentili, hanno difficoltà a concepire che la guerra può essere
giusta allo stesso tempo per entrambe le parti e non solo nella loro opinione soggettiva ma anche
oggettivamente.
I primi internazionalisti confermano il principio pacta sunt servanda ma concepivano i trattati in
termini di analogia con i contratti del diritto privato. In questo periodo era ancora ampiamente
ritenuto che i trattati fossero vincolanti solo per i prìncipi che li stipulavano, e non per i loro
successori; che i trattati non fossero vincolanti se conclusi sotto costrizione e che rimanessero in
vigore a prescindere da qualsiasi clausola rebus sic stantibus, ovvero a prescindere dalla condizione
che le cose non subissero mutamenti. Gentili cercò di sviluppare in seguito una teoria generale dei
trattati come specie distinta di contratti ma anche questi pensatori rimasero per un certo grado
sotto l'influenza dell'analogia con il contratto privato.
Una quinta caratteristica dell'idea di società internazionale elaborata dai primi internazionalisti era
il fatto che essa non definiva un insieme di istituzioni della cooperazione degli stati. Da una parte,
le istituzioni internazionali o sovranazionali esistenti erano quelle del papato e del'impero e non
derivavano dalla cooperazione e dal consenso degli stati; dall'altra la tradizione di cooperazione
che gli stati stavano sviluppando non era percepita come qualcosa da sostituire a quelle istituzioni.
Dunque i primi teorici contribuirono tutti allo sviluppo di ciò che fu più tardi chiamato “diritto
internazionale”, una delle istituzioni centrali della società degli stati. Ma non cercarono di fondare il
diritto sulla prassi degli stati e la loro affinità con il diritto naturale e il diritto divino fu tale da
impedire lo sviluppo del diritto internazionale come tecnica e disciplina distinta. L'istituzione della
diplomazia fu di fatto sviluppata in questo periodo ma non cercarono di interpretare la
cooperazione degli stati nelle attività di rappresentanza diplomatica.
Tra questi teorici non ci fu neanche chi discusse dell'equilibrio di potenza.
Nel senso del tentativo consapevole di contrastare il predominio di un solo stato, cominciò a
svilupparsi la coalizione contro Filippo II: preservarla era un obbiettivo implicito della pace di
Westafalia che segnava la fine delle aspirazioni degli Asburgo alla monarchia universale. Ma fu solo
molto più tardi (al tempo della lotta contro luigi XIV) che l'equilibrio di potenza fu riconosciuto
dalla teoria come un'istituzione della società internazionale. Bisogna dire che i teorici di questa
teoria non avevano nessuna concezione della grande potenza e del suo ruolo nella società
internazionale, essi infatti ragionavano in termini di gerarchia dei governanti, determinata dallo
status.
LA SOCIETA’ INTERNAZIONALE EUROPEA
Nel XVIII e nel XIX secolo, quando le vestigia della cristianità occidentale erano quasi scomparse
dalla pratica e dalla teoria della politica internazionale, quando lo stato completava il suo sviluppo,
prima nella sua fase assoluta, poi in quella nazionale e popolare, l'idea della società internazionale
assunse una forma differente. La legge naturale lasciò spazio al diritto internazionale positivo. Le
idee dei giuristi arrivarono a coincidere con quelle degli storici che cercavano di registrare la prassi
del sistema degli stati.
La società internazionale concepita dai teorici di questo periodo si definiva più come europea che
come cristiana nei suoi valori o nella sua cultura, i riferimenti alla cristianità o al diritto divino
sparirono.
I riferimenti all'Europa presero il loro posto. Come aumentava il senso del carattere europeo della
società degli stati, così cresceva la percezione della differenzazione culturale da ciò che stava al di
fuori: si affermava l'idea che le potenze europee nelle relazioni reciproche fossero vincolate da un
codice di condotta che non si applicava ai loro rapporti con le altre società meno evolute. Il senso
di differenziazione era già presente all'epoca della società internazionale cristiana. Ma l'esclusività
dell'idea di società internazionale cristiana era stata mitigata dall'influenza della dottrina del diritto

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naturale, che proclamava diritti e doveri comuni degli uomini in quanto tali. Dal XIX secolo la
dottrina ortodossa dei teorici del diritto internazionale positivo stabiliva che la società
internazionale era un'associazione europea, a cui gli stati non europei potevano essere ammessi
solo quando e se avessero raggiunto un livello di civilizzazione fissato dagli europei.
Si forma una chiara esposizione del principio che la società internazionale è una società di stati o di
nazioni.
Da questi due riconoscimenti hanno origine altre due caratteristiche fondamentali dell'idea di
società internazionale: l'idea che tutti i membri abbiano gli stessi diritti fondamentali, che gli
obblighi siano reciproci, che le regole e le istituzioni della società internazionale derivano dal loro
consenso, che le entità politiche come i regni orientali, gli emirati islamici e le tribù africane
dovrebbero essere escluse dalla società.
Prima della rivoluzione francese e americana questi stati erano per la gran parte monarchie
ereditarie, il principio di legittimità internazionale era dinastico. Dopo le rivoluzioni, il principio di
legittimità internazionale prevalente cessò di essere dinastico e divenne nazionale o popolare; fu
generalmente ritenuto che le questioni dovessero essere risolte non in base ai diritti dei
governanti, ma a quelli delle nazioni e dei popoli. Il matrimonio dinastico come mezzo per
l'acquisizione di un territorio lasciò il posto al plebiscito; il principio patrimoniale al principio
dell'autodeterminazione.
Nell'identificare le fonti delle norme da cui gli Stati erano vincolati, i teorici della società
internazionale si volsero dalla legge naturale verso il diritto internazionale positivo; più in generale,
essi presero come principio guida non la teoria astratta riguardo a ciò che gli stati avrebbero
dovuto fare, ma il corpo di leggi consuetudinarie e di trattati relativo a ciò che gli stati
effettivamente facevano.
Alle prese con la formulazione delle regole di coesistenza, i teorici di questo periodo furono abili
nel liberarsi dai pregiudizi universalistici o solidaristici, ereditati dall'epoca medievale, e nel dare
conto esclusivamente delle caratteristiche della società anarchica.
La definizione “diritto delle nazioni” venne abbastanza chiaramente a indicare il diritto tra le
nazioni, e non il diritto comune a tutte le nazioni. La transizione fu completa quando la stessa
dizione “diritto delle nazioni” cedette il passo a “diritto internazionale” espressione coniata da
Bentham nel 1789.
Così le regole restrittive dell'uso della violenza elaborate in questo periodo, a differenza di quelle
dei primi naturalisti, chiarirono che il ricorso alla violenza legittima nella politica internazionale era
monopolio di stato. Dal riconoscimento che la giusta guerra poteva avere una giusta causa da
entrambe le parti, era breve il passaggio in direzione della dottrina che rendeva la guerra un
semplice conflitto politico, e che bandiva la questione della giusta causa dal diritto internazionale,
perche principio impossibile da praticarsi da parte della società internazionale. Le norme che
regolavano la condotta della guerra, nella formulazione di questi teorici, garantivano un'uguale
protezione a ciascuno dei belligeranti. Riconobbero che la neutralità, come strumento volto a
limitare l'estensione geografica della guerra, esigeva imparzialità nei confronti di entrambe le parti,
contrariamente alla dottrina di Grozio secondo cui essa avrebbe dovuto operare una
discriminazione in favore della parte la cui causa fosse da ritenersi giusta.
I teorici di questo periodo, nel loro approccio sulla validità dei trattati, riuscirono a superare
completamente l'analogia coi contratti di diritto privato, e a riconoscere che i trattati stipulati da un
governo erano vincolanti anche per i suoi successori, e che essi erano validi anche se conclusi sotto
costrizione. Nel XIX la dottrina Gentili aveva cercato di applicare il principio che i trattati restano
validi solo finché le circostanze rimangono invariate, con l'aggiunta che spettava a ciascuna delle
parti decidere se le circostanze fossero cambiate.
I teorici di questo periodo formularono una concezione della sovranità come attributo di tutti gli
stati, e posero il suo riconoscimento reciproco come regola basilare della coesistenza all'interno del
sistema degli stati. Furono capaci anche di dedurre alcune sue conseguenze ossia il principio di non

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intervento, la regola dell'uguaglianza degli stati rispetto ai loro diritti fondamentali, e l'autonomia
nella giurisdizione domestica.
Infine, nel XVII e XIX secolo la società internazionale possedeva una manifestazione visibile di sé in
alcune istituzioni che riflettevano la cooperazione tra i suoi stati membri. Il diritto internazionale fu
riconosciuto come un distinto corpo di norme, emergenti dalla cooperazione degli stati moderni.
Esso era anche concepito come distinto dalle materie di diritto privato e fu indicato nel XIX secolo
come “diritto pubblico internazionale”.
Il sistema diplomatico fu riconosciuto come compito istituzionale della società internazionale dal
Congresso di Vienna.
La preservazione dell'equilibrio di potenza fu elevata allo status di obbiettivo consapevolmente
perseguito dall'intera società delle nazioni.
La nozione di “grande potenza” arrivò a costruire una nuova dottrina della gerarchia o
classificazione degli stati, in luogo della vecchia gerarchia basata sullo status ereditario e sul
precedente. Essa si fondava sulla potenza relativa e sul consenso della società internazionale.
LA SOCIETA' INTERNAZIONALE MONDIALE
Nel XX secolo l'idea di società internazionale è tornata sulla difensiva, come nel '600 e '700. Da un
lato, l'interpretazione hobbesiana o realista è stata eliminata dalle due guerre mondiali e
dall'espansione della società internazionale oltre i suoi originari confini europei. Dall'altro, la
visione kantiana o universalista si è affermata grazie agli sforzi di superamento del sistema degli
stati, e grazie alla rivoluzione Russa e cinese, che hanno offerto una nuova diffusione alla dottrina
della solidarietà transnazionale globale.
Le concezioni della società internazionale del XX secolo possono essere considerate come più
vicine a quelle accettate nei primi secoli del sistema degli stati che non a quelle prevalenti nel XVII
e XIX secolo.
Nel XX secolo la società internazionale cessò di essere considerata come una realtà specificamente
europea e cominciò ad essere ritenuta una realtà globale o mondiale.
Intorno al 1880 il giusnaturalista scozzese James Lorimer scriveva che l'umanità si divideva in
civilizzata, barbara e selvaggia. L'umanità civilizzata comprendeva le nazioni d'Europa e delle
Americhe, cui spettava pieno riconoscimento di membri della società internazionale. L'umanità
barbara comprendeva gli stati indipendenti dell'Asia (Turchia, Persia, Siam, Giappone e Cina) a cui
spettava un riconoscimento parziale. Dell'umanità selvaggia faceva parte il resto del mondo, che
rimaneva oltre i confini della società degli stati, sebbene fosse destinataria di “un riconoscimento
umano o naturale”.
Oggi che gli stati europei rappresentano la grande maggioranza all'interno della società
internazionale, e che l'Organizzazione delle Nazioni Unite è pressoché universale dal punto di vista
della partecipazione, la dottrina secondo cui la società internazionale si fonda su una specifica
cultura o civilizzazione è generalmente respinta. È importante tenere a mente che la società
internazionale contemporanea possiede una base culturale, non si tratta di una cultura globale, ma
è piuttosto quella della cosiddetta “modernità”, cultura delle potenze occidentali dominanti.
Nel XX secolo, inoltre, rispetto alle fiduciose affermazioni dell'epoca precedente, secondo cui i
membri della società internazionale erano gli stati e le nazioni, la discussione ha fatto registrare dei
passi indietro verso l'ambiguità e l'incertezza caratteristiche dell'età di Grozio.
Oggi si ritiene in maniera abbastanza condivisa che lo stato, come portatore di diritti e doveri, legali
e morali, nella società internazionale, è affiancato da organizzazioni internazionali, attori non statali
di vario tipo operanti attraverso le frontiere e anche dagli individui.
In questo secolo, la teoria della società internazionale si è espressa in favore di un ritorno ai
principi del diritto naturale o a qualche equivalente contemporaneo di essi.
Parallelamente a questo si è assistito a un ritorno degli assunti universalisti e solidaristi nella
formulazione delle regole di coesistenza. L'idea che i mezzi usati dagli stati in guerra debbano
essere controllati è espressa dal riapparire della distinzione tra cause di guerra oggettivamente

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giuste o ingiuste, così come dal tentativo di proibire la “guerra di aggressione”. L'idea che i paesi
neutrali debbano comportarsi in maniera imparziale ha subito le stesse influenze.
Tutto ciò ha indotto a considerare la Società delle Nazioni e le altre organizzazioni internazionali le
istituzioni principali della società internazionale. Sono così nati il rifiuto wilsoniano dell'equilibrio di
potenza, il disprezzo della diplomazia e la tendenza a rimpiazzarli con l'amministrazione
internazionale, e si è verificato il ritorno della credenza, già prevalente nell'età groziana, a
confondere il diritto internazionale con la moralità o il progresso internazionale.
LA RELATA' DELLA SOCIETA' INTERNAZIONALE
L'ELEMENTO DELLA SOCIETA'
il sistema internazionale moderno riflette di fatto tutti e tre gli elementi elaborati rispettivamente
dalla tradizione hobbesiana, kantiana e groziana: quello della guerra e della lotta per il potere tra
gli stati, quello della solidarietà transazionale e del conflitto ideologico trasversale ai confini
nazionali e quello della cooperazione e del rapporto regolato tra gli stati. In differenti fasi storiche
del sistema, nei diversi contesti geografici e nelle politiche degli uomini e stati, ciascuno di essi può
predominare sugli altri.
Così si può dire che:
1. nel COMMERCIO e nelle GUERRE COLONIALI combattute nel tardo XVII e XVIII secolo, dove
l'oggetto da contendere era il monopolio commerciale e potere marittimo e controllo politico sulle
colonie, l'elemento dello stato di GUERRA era predominante.
2. Nelle GUERRE DI RELIGIONE combattute fino alla pace di Westfalia e nello SCONTRO
IDEOLOGICO tra potenze comuniste e anticomuniste, l'elemento della solidarietà e del conflitto
trasversale è stato dominante.
3. Nell'Europa del XIX secolo al risorgere del conflitto delle grandi potenze che condurranno
alla prima guerra mondiale, l'elemento della SOCIETA' INTERNAZIONALE è stato dominante. Esso è
sempre stato presente nel moderno sistema internazionale.
L'idea della società internazionale ha una base nella realtà talvolta precaria, ma che non è mai
scomparsa del tutto. Anche nella fase più acuta di una grande guerra o di un conflitto ideologico
l'idea della società internazionale non sparisce ma diventa sotterranea, e continua a influenzare la
prassi degli stati. Tale sopravvivenza in questi periodi di tensione getta le fondamenta per la
ricostruzione di una nuova società internazionale, quando la guerra avrà lasciato il posto alla pace
e il conflitto ideologico avrà ceduto alla dètente
LA SOCIETA' ANARCHICA
Si è spesso sostenuto che l'esistenza della società internazionale sia smentita dalla presenza
dell'anarchia, intesa come assenza di governo o autorità. È ovvio che gli stati sovrani non sono
soggetti ad un governo comune, diversamente dagli individui al loro interno e che quindi esiste, in
questo senso, anarchia internazionale.
Come conseguenza a tale anarchia, gli stati non formano nessun tipo di società, e qualora
dovessero farlo, ciò potrebbe avvenire soltanto per la loro subordinazione ad una autorità comune.
Argomento ricorrente.
Fondamentale sostegno teorico di questa dottrina è l'analogia domestica, una tesi che muove
dall'esperienza degli individui nel contesto domestico per analizzare l'esperienza degli stati nella
politica internazionale. Secondo questo argomento, gli stati, come gli individui, sono capaci di
condurre una vita sociale ordinata solo se vivono sotto un potere comune che li tiene soggiogati.
Secondo Hobbes gli stati che vivono in assenza di governo si trovano in uno stato di natura che è
uno stato di guerra. Invece, nell'idea di coloro che guardano avanti in direzione di un governo
mondiale o universale, il principio dell'analogia domestica è sviluppato fino ad abbracciare non
solo la concezione dello stato di natura, ma che quella del contratto sociale che dovrà riprodurre le
condizioni dell'ordine interno alla stato su scala universale. Vi sono tre punti deboli nella tesi che
gli stati non formano una società a causa della condizione di anarchia internazionale in cui si
trovano collocati: il primo è che il sistema internazionale moderno non somiglia interamente a uno
stato di natura hobbesiana; nella versione hobbesiana, la situazione in cui gli uomini vivono senza

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un'autorità comune di cui avere timore possiede tre caratteristiche principali. In questa condizione
non può esistere nessuna industria, agricoltura, navigazione, commercio o altri tipi di progresso
nelle condizioni di vita, poiché la forza e la creatività degli uomini sono concentrate nel provvedere
alla propria sicurezza nei confronti degli altri. Non esistono norme giuridiche o morali, non ci sono
proprietà, ma soltanto che ogni uomo ha quello che può ottenere per tutto il tempo che può
tenerselo. Lo stato di natura, infine, è uno stato di guerra, e quest'ultima va intesa, per Hobbes,
come qualcosa che consiste non nel combattimento in atti, ma in una nota disposizione a
combattere e che si caratterizza per essere una guerra tale che ogni uomo è contro ogni uomo.
La prima di queste caratteristiche è chiaramente non appartenente all'anarchia internazionale.
L'assenza di un governo mondiale non è necessariamente un impedimento allo sviluppo
dell'industria, del commercio e al progresso delle condizioni di vita. Gli stati non esauriscono la loro
forza e la loro creatività nella ricerca di sicurezza tanto da rendere la vita dei loro cittadini solitaria,
povera, brutale. Al contrario, le forze armate dello stato, stabiliscono le condizioni grazie a cui,
dentro i loro confini, possono avere luogo tali progressi. L'assenza di un governo universale non è
stata incompatibile con l'interdipendenza economica internazionale.
La seconda caratteristica dello stato di natura hobbesiano, ovvero la completa mancanza delle idee
di torto e di ragione, anche per quanto riguarda la concezione della proprietà, non si applica alle
moderne relazioni internazionali. All'interno del sistema degli stati che sorse in Europa si estese al
resto del mondo, l'idea del torto e della ragione nel comportamento internazionale degli stati ha
sempre mantenuto una rilevanza decisiva.
Solo una delle tre principali caratteristiche dello stato di natura hobbesiano può essere applicata
alla condizione delle relazioni internazionali moderne, e riguarda l'esistenza al loro interno dello
stato di guerra, inteso nel senso di una predisposizione costante da parte di ciascuno stato ad
intraprendere la guerra contro qualunque stato. Gli stati sovrani sono sempre pronti al conflitto e
lo considerano una delle opzioni di scelta a loro disposizione.
Una seconda debolezza nella critica della società internazionale basata sull'esistenza dell'anarchia
è che essa si regge su false premesse riguardo alle condizioni dell'ordine tra individui e gruppi
diversi dello stato. Non è vero che la paura di un potere supremo sia la sola fonte dell'ordine
dentro uno stato moderno ma è il giusto peso a fattori come interessi reciproci, senso di comunità,
volontà generale, abitudine e inerzia.
Se dobbiamo paragonare le relazioni internazionali con un immaginario stato di natura, potremmo
scegliere di adottare non la descrizione hobbesiana bensì quella offerta da Locke.
La concezione lockiana dello stato di natura come società senza governo ci si presenta infatti in
stretta analogia con la condizione della società degli stati. Nella società internazionale moderna,
come nello stato di natura di Locke, non esiste un autorità di governo capace di interpretare e
applicare la legge, e così i singoli membri della società devono giustificarla e applicarla da sé. La
giustizia appare rozza e incerta. Ma non di meno esiste una grossa differenza tra questa forma
rudimentale di vita sociale e la completa mancanza di qualsiasi sua forma.
La terza debolezza dell'argomento relativo all'anarchia sta nel fatto che non riconosce i limiti
dell'analogia con l'ambiente domestico. Gli stati sono molto diversi dagli individui. Ci sono buone
ragioni per credere che l'anarchia tra gli stati possa essere tollerata ad un livello più elevato che
non tra gli individui. Inoltre non sono vulnerabili agli attacchi violenti nella stessa misura in cui lo
sono gli individui. i gruppi di uomini organizzati come stati possono dotarsi di un mezzo di difesa
che esiste indipendentemente dalla fragilità di ciascuno di essi, e l'attacco armato a uno stato da
parte di un altro stato non porta con se una prospettiva paragonabile all'uccisione di un individuo
da parte di un altro.
Nella storia moderna è stato possibile assumere la visione secondo cui la guerra con il suo risultato
non è mai qualcosa di assoluto, e una sconfitta in essa può rappresentare per lo stato soccombente
solo un male transitorio per il quale può trovare ancora un rimedio. In passato la guerra non
poteva essere concepita come capace di realizzare questo risultato. È solo nel contesto creato dalle
armi nucleari e da altre recenti tecnologie militari che è diventato pertinente chiedersi se davvero

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la guerra non possa essere oggi qualcosa di assoluto nei suoi risultati; e se di conseguenza, la
violenza non si ponga nei confronti dello stato con lo stesso tipo di prospettiva che ha sempre
tenuto nei confronti dell'individuo. Questa differenza, che fa gli stati meno vulnerabili ai reciproci
ricorsi alla forza fisica rispetto ai singoli uomini, è rafforzata da un ulteriore distinzione. Gli stati,
nella misura in cui sono vulnerabili all'aggressione fisica, non lo sono in maniera uniforme. È questa
uguale vulnerabilità di ciascun uomo nei confronti di qualsiasi altro uomo, nella visione
hobbesiana, che rende la condizione di anarchia intollerabile. Ma nella società internazionale
moderna c'è stata una persistente distinzione tra le grandi potenze e le piccole. Le grandi potenze
non sono risultate vulnerabili agli attacchi da parte delle piccole potenze nella stessa misura in cui
le piccole lo sono state ai loro. Ancora una volta, è solo la diffusione delle armi nucleari anche tra le
piccole potenze, e la possibilità di un mondo fatto di molte potenze nucleari, a sollevare la
domanda se nelle relazioni internazionali possa verificarsi una situazione in cui il più debole ha
forza sufficiente per uccidere il più forte.
Dunque, crolla la tesi secondo cui, dal momento che gli uomini non possono formare una società
senza governo, anche gli stati non possono: non solo perché un certo livello di ordine può
verificarsi perché gli stati non sono come gli individui, e hanno una maggiore capacità di dare vita a
una società anarchica. L'analogia domestica non è niente di più che un analogia; il fatto che gli stati
formino una società senza governo riflette alcune caratteristiche uniche della loro condizione.
I LIMITI DELLA SOCIETA' INTERNAZIONALE
Abbiamo mostrato che il sistema internazionale moderno deve considerarsi anche come una
società internazionale, almeno nel senso che quello della società internazionale è stato uno degli
elementi costantemente operanti al suo interno; e che l'esistenza di questa società internazionale
non è come tale smentita dall'esistenza dell'anarchia internazionale. È importante, comunque,
tenere a mente alcuni dei limiti della società internazionale anarchica.
È erroneo interpretare gli eventi politici internazionali come se quello della società fosse
l'elemento unico o predominante al loro interno. L'elemento della società internazionale è reale,
ma quelli dello stato di guerra e delle lealtà o divisioni trasversali lo sono altrettanto.
Inoltre l'ordine garantito all'interno della società internazionale moderna è precario e imperfetto.
Dimostrare che la società internazionale ha garantito un qualche grado di ordine non significa
stabilire che nella politica mondiale non potrebbe essere mantenuto più adeguatamente
servendosi di strutture di natura sensibilmente diversa.

CAPITOLO TERZO
COME SI MANTIENE L'ORDINE NELLA POLITICA MONDIALE??
IL MANTENIMENTO DELL'ORDINE NELLA VITA SOCIALE
In tutte le società, come abbiamo detto, l'ordine è un modello di comportamento che sostiene gli
scopi elementari o primari della vita sociale. L'ordine, in questo senso, è mantenuto dalla
percezione di un INTERESSE COMUNE in questi scopi elementari o primari, delle norme che
prescrivono il modello di comportamento che li sostiene, e dalle istituzioni che attribuiscono
validità a queste norme.
Il mantenimento dell'ordine in qualsiasi società presume che tra i suoi membri ci debba essere la
percezione di interessi comuni negli scopi elementari della vita sociale. Così, la vulnerabilità umana
alla violenza conduce gli uomini a percepire come un interesse comune la restrizione dell'uso della
forza. L'impegno degli uomini nella soddisfazione dei bisogni materiali li conduce ad avvertire
come interesse comune la garanzia del rispetto dei patti. Il limitato altruismo umano e la limitata
abbondanza delle risorse conducono gli uomini a riconoscere come interesse comune la
stabilizzazione del possesso.
Questo senso di interesse comune può essere una conseguenza della paura. O può derivare da un
calcolo razionale oppure può esprimere la capacità degli individui o dei gruppi di identificarsi tra
loro.

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Questo senso di interesse comune può essere vago e indeterminato. Il contributo delle norme è
esercitare una guida precisa rispetto a quale comportamento sia da considerarsi coerente con gli
scopi elementari e quale no. Le norme sono principi imperativi generali che obbligano o
autorizzano alcune categorie di persone o gruppi a comportarsi in determinati modi. In ogni
società l'ordine si mantiene attraverso norme in grado di definire il tipo di comportamento che è
da ritenersi ordinato. Queste norme possono avere uno status giuridico, morale, consuetudinario o
di etichetta, o di semplici procedure operative o regole del gioco.
In linea di principio l'ordine nella vita sociale può essere garantito senza l'aiuto delle norme. È
concepibile, per esempio, che modelli ordinati di comportamento possano essere inculcati con il
condizionamento, così da far agire gli uomini coerentemente con gli scopi elementari attraverso
una semplice azione riflessa. Inoltre è possibile che in società molto piccole, come la famiglia o il
clan, le regole possano essere amministrate da un'autorità fondata esclusivamente sull'uso di
comandamenti singoli, che obbligano o autorizzano particolari persone a fare particolari cose,
evitando di ricorre a qualunque principio imperativo generale. Per questo motivo abbiamo bisogno
di distinguere concettualmente tra ordine nella vita sociale e norme che agevolano la sua
creazione e il suo mantenimento.
Dobbiamo prendere in considerazione la visione marxista, secondo cui le norme servono come
sostegno degli interessi particolari della sua classe dirigente o dei suoi membri dominanti. Sebbene
sia importante prendere in considerazione questa prospettiva nello studio del ruolo delle norme,
nella società internazionale come negli altri tipi di società, bisogna dire però che essa non efficacia
la validità della presente analisi. Ci devono essere alcuni limiti nel ricorso alla violenza, aspettative
in generale sul rispetto dei patti e una qualche forma di regole di proprietà, e non hanno a che fare
con gli interessi di alcuni membri della società, ma con l'interesse generale di ciascuno di essi.
Le norme sono, di per sé, meri costrutti intellettuali. L'efficacia di una norma non consiste nel suo
essere praticata in ogni evenienza da tutte le persone o i gruppi a cui si applica. Al contrario, ogni
efficace norma di condotta è abitualmente violata di tanto in tanto, e se non ci fosse possibilità per
il comportamento concreto di differire da quello prescritto, non ci sarebbe bisogno di una regola.
Una norma per essere efficace in una società deve essere obbedita secondo un certo grado, e
considerata come una delle variabili nei calcoli di coloro a cui si applica, anche di quelli che
scelgono di violarla.
Laddove le regole non sono meri costrutti intellettuali, ma sono socialmente efficaci nel senso
appena descritto è perche esistono istituzioni che svolgono le seguenti funzioni:
1. le norme devono essere create, formulate e promulgate come norme per questa società
2. le norme devono essere comunicate, devono essere proclamate o pubblicate in maniera
tale che il loro contenuto sia conosciuto da coloro a cui si applicano.
3. Le norme devono essere amministrate nei casi in cui devono essere compiuti atti sussidiari
rispetto a ciò che è prescritto nelle norme stesse affinché siano rispettate.
4. Le norme devono essere interpretate, le questioni che possono sorgere riguardo al
significato di una norma, devono essere risolte affinché le norme possano provvedere a guidare di
fatto il comportamento.
5. Le norme devono essere attuate affinché la norma sia efficace, c'è bisogno di una qualche
pena connessa al mancato rispetto.
6. Le norme devono essere legittimate. Sono legittimate nella misura in cui i membri di una
società le accettano come valide, o abbracciano i valori in esse impliciti o presupposti.
7. Le norme devono essere capaci di adattarsi a circostanze e bisogni mutevoli: devono
esistere modi per abolire o modificare le vecchie regole e per sostituirle con regole nuove.
8. Le norme devono essere protette da sviluppi sociali capaci di minare la loro effettiva
operatività.
L'ORDINE NELLO STATO MODERNO
Per rendere effettive le norme sociali elementari, lo stato moderno può disporre di una particolare
istituzione, o se si vuole, di un insieme di istituzioni connesse tra loro: il governo.

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Un governo si distingue dalle altre istituzioni dello stato moderno per il fatto di avere a
disposizione la possibilità di fare ricorso all'uso della forza fisica. Possiede il monopolio pressoché
completo dell'uso della forza legittima.
Il governo opera per rendere efficaci le norme sociali elementari nel contesto dello stato moderno
svolgendo tutte e funzioni analizzate nella sezione precedente. Non è solo il governo a svolgere
queste funzioni; anche individui e gruppi diversi dallo stato se ne fanno carico. Tuttavia, il ruolo del
governo nel promuovere l'efficacia delle norme sociali fondamentali è centrale.
1. il governo crea le norme, non sempre nel senso che le elabora poi le formula, ma nel senso
che impone su di esse un'approvazione sociale. Mentre dal punto di vista formale l'attività di
creazione delle norme è compito degli organi legislativi, nella pratica questa attività è svolta anche
da organi amministrativi, la cui funzione formale è tradurre il diritto in atti, e dagli organi giudiziari,
la cui funzione ufficiale sarebbe interpretare la legge piuttosto che crearla.
2. Il governo provvede a comunicare le norme a coloro che da esse sono vincolati. La
pubblicazione di statuti e sentenze e il lavoro della polizia nel perseguimento contribuiscono a
diffondere la consapevolezza di quali norme siano considerate dalla società norme di legge.
3. Il governo rende operative le norme, traducendole da principi generali in obblighi, per
determinate persone, a fare o ad astenersi dal fare particolari cose.
4. Il governo è in grado di interpretare le norme attraverso l'apparato giudiziario.
5. Il governo è anche in grado di attuare il diritto attraverso l'uso, e la minaccia dell'uso, della
polizia e delle forze armate e attraverso le sanzioni imposte dai tribunali.
6. Il governo contribuisce alla legittimazione delle norme attraverso l'influenza che possiede
sull'educazione, il potere di persuasione dei propri leader ecc.
7. il governo può anche adattare le norme a domande e circostanze in continuo cambiamento:
i suoi organi legislativi abrogano le vecchie norme e ne emanano delle nuove.
8. Il governo svolge la funzione di protezione delle norme per mezzo di azioni politiche
finalizzate a organizzare la realtà sociale così che le regole continuino ad operare.
Ciò che questi atti politici eterogenei hanno in comune è il fatto di essere diretti a preservare
l'ordine, non attraverso la conferma diretta della norma, ma dando forma, gestendo l'ambiente
sociale in cui esse operano affinché abbiano la possibilità di continuare a farlo. Le norme
appartengono a una sfera di azione che non possono regolare o influenzare, ma che è nondimeno
presupposta dalla loro operatività.
L'ORDINE NELLA SOCIETA' PRIMITIVE SENZA STATO
L'ordine all'interno dello stato moderno è l'effetto, tra le altre cose, del governo; l'ordine tra gli
stati, invece, non può esserlo, dal momento che la società internazionale è una società anarchica,
senza governo. Ma anche le società primitive senza stato presentano questo spettacolo
dell'anarchia ordinata.
Queste società primitive sono prive di governo ma allo stesso tempo esibiscono chiaramente un
ordine, nel senso che al loro interno la condotta si conforma agli scopi elementari della coesistenza
sociale. In assenza di qualsiasi autorità centralizzata, comunque, tutte le funzioni riguardo alle
norme solitamente svolte dai governi, sono svolte dai gruppi in cui queste società sono divise.
Le norme sorgono dalla pratica dei gruppi nelle loro relazioni reciproche e sono incorporate in una
consuetudine, a sua volta confermate da credenze morali e religiose. Questa è la unica fonte di
norme nelle società primitive.
La conformità alle norme è ottenuta per inerzia e condizionamento, per mezzo di sanzioni morali
come l'esposizione al pubblico ecc. Laddove queste sanzioni sono insufficienti a prevenire o a
punire violazioni delle norme vi può essere un atto di autotutela (self-help) da parte di gruppi
all'interno della società che si fanno carico della responsabilità di certificare l'infrazione alle regole
e di tentare di ripristinare la loro applicazione. Per esempio la ritorsione. Ma il ricorso a tali atti di
autotutela non rappresenta una smentita delle norme e la caduta dei gruppi interessati in uno
stato di natura hobbesiano; esso fa parte del funzionamento di un sistema in cui questi gruppi
assumono la funzione di interpretare, attuare e rendere efficaci le norme. Il ricorso alla forza in

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risposta a una violazione è accettato all'interno delle società come legittimo. Gli atti di autotutela
nelle società primitive, oltre a dotare le norme di sanzioni coercitive, sostengono due altre
funzioni: servono ad unire i gruppi sociali e a mantenere i criteri legali e morali del torto e della
ragione. Rispetto al problema del mantenimento dell'ordine, le società anarchiche primitive
mostrano chiaramente importanti analogie con la società internazionale. In entrambi i casi un
qualche fattore di ordine è mantenuto a dispetto dell'assenza di un autorità centrale dotata di una
forza sovrastante e del monopolio del suo uso legittimo. In entrambi i casi, inoltre, ciò si realizza
attraverso l'assunzione da parte di particolari gruppi delle funzioni che, in uno stato moderno, il
governo compie per rendere effettive le norme. Nella società anarchica primitiva, come nella
società internazionale, l'ordine possa su un fondamentale principio costituzionale, proclamato o
implicito, che individua in certi gruppi i soli organi competenti a svolgere queste funzioni politiche.
In entrambe le società, i gruppi politicamente competenti usano con legittimità la forza in difesa
dei propri diritti.
Ci sono anche notevoli differenze tra società internazionale e le società primitive senza stato. In
primo luogo, la società internazionale, è sovrano nel senso che detiene la giurisdizione suprema sui
suoi cittadini e sul suo territorio. I gruppi dinastici o locali che esercitano il potere politico nelle
società primitive non hanno nessun diritto esclusivo di questo tipo sulle persone che li
costituiscono, e mostrano generalmente una relazione con il territorio definita in maniera molto
meno chiara. Poiché nelle società primitive senza stato i gruppi politicamente competenti non sono
sovrani sulle persone e sul territorio, ma sono legati ad essi in maniera meno esclusiva dello stato
moderno, sembrano condurre un'esistenza meno autosufficiente, ed essere meno introversi e
autoreferenziali dei membri della società degli stati.
Un secondo punto di contrasto consiste nel fatto che la società internazionale moderna,
specialmente al giorno d'oggi, è culturalmente eterogenea, mentre le società primitive senza stato
sono caratterizzate da un alto grado di omogeneità culturale.
Un terzo elemento di contrasto è dato dal fatto che la società primitive senza stato si fondano su
una cultura non solo omogenea, ma con elementi di credenza magica o religiosa. Le basi morali
della società internazionale possono essere meno fragili di quelle delle società primitive.
Infine, vi sono grosse differenze di estensione tra la società internazionale e le società primitive
senza stato.
Nel complesso è dimostrato che questi punti di contrasto che la coesione sociale e la solidarietà
sono molto più forti nelle società anarchiche primitive che nella società internazionale. La natura
meno esclusiva delle unità politiche di cui si compongono le società primitive, l'omogeneità
culturale, il consolidamento delle norme per mezzo di credenze di carattere magico e religioso, e la
dimensione ridotta, tutto indica che, sebbene un governo sia assente in questi sistemi, essi non
difettano di un forte grado di solidarietà sociale. Il mantenimento dell'ordine nella società
internazionale deve avere luogo non solo in assenza di un governo, ma anche in mancanza di una
solidarietà sociale di questo tipo.
L'ORDINE NELLA SOCIETA' INTERNAZIONALE
Il mantenimento dell'ordine nella politica mondiale dipende, in prima istanza, da alcuni fattori
contingenti, che produrrebbero ordine anche se gli stati fossero privi di qualsiasi idea di interessi,
istituzioni, e norme in comune – anche se, in altre parole, formassero soltanto un sistema
internazionale, e non anche una società internazionale.
Nella società internazionale, l'ordine è il frutto di un senso di interesse comune per gli scopi
elementari della vita sociale, di norme che prescrivono il comportamento che sostiene questi
scopi, e di istituzioni che aiutano queste norme a diventare effettive.
INTERESSI COMUNI
Dire che un oggetto x sia nell'interesse di qualcuno, significa dire che serve come mezzo per
qualche fine che questi intende perseguire. Ma se x sia o meno nell'interesse di qualcuno non
dipende solo da una valutazione di questo genere, ma anche dal problema di sapere quale fine si

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stia perseguendo. Ne consegue che l'idea di interesse può risultare un indicativo vuoto o generico,
bisogna sapere quali fini.
Così il criterio dell'interesse nazionale o dell'interesse dello stato in sé non ci fornisce nessuna
guida nell'interpretazione del comportamento degli stati. In ogni caso il concetto di interesse
nazionale o interesse dello stato può avere significato in una situazione in cui i fini nazionali o
statali siano definiti e concordati, e il problema in questione sia solo determinare attraverso quali
strumenti possano essere promossi.
Il mantenimento dell'ordine nella società internazionale ha come suo punto di partenza l'emergere
tra gli stati di un senso di interesse condiviso negli scopi elementari della vita sociale. Il senso di
interesse condiviso può derivare dalla paura di una violenza illimitata, da quella dell'instabilità degli
accordi oppure dall'insicurezza relativa alla propria indipendenza e sovranità.
NORME
Nella società internazionale , il senso di interesse comune negli scopi elementari della vita sociale
non fornisce di per sé alcuna indicazione rispetto a quale sia la condotta coerente con questi scopi;
provvedere a ciò è il compito delle norme. Queste norme possono avere uno status di diritto
internazionale, di regole morali, di consuetudine o di prassi consolidata, o può trattarsi
semplicemente di pratiche operative.
La gamma di tali norme è vasta, e in tutta la sua estensione esse sono in continuo mutamento. Qui
menzioniamo solo tre complessi che giocano un ruolo nel mantenimento dell'ordine
internazionale.
Il primo complesso riguarda le norme che stabiliscono ciò che può essere chiamato il principio
normativo fondamentale o costituzionale della politica mondiale nell'epoca corrente. Si tratta della
regola che identifica l'idea della società degli stati come principio normativo supremo
dell'organizzazione politica dell'umanità, in contrapposizione a idee alternative come quella
dell'impero universale. Da una parte , l'idea della società internazionale individua negli stati i suoi
membri , nonché le unità che svolgono le funzioni politiche al proprio interno, comprese quelle
necessarie a rendere efficaci le norme principali. Dall'altra parte l'idea della società internazionale
qualifica le relazioni tra gli stati come relazioni tra membri di una società vincolata da norme
condivise e legata da istituzioni comuni; quindi , esclude la concezione della politica mondiale
come semplice arena dello scontro o come stato di guerra. Questo principio fondamentale o
costituzionale dell'ordine internazionale è presupposto dalla condotta ordinaria degli stati. I loro
atti quotidiani manifestano al principio. Gli stati sono i soli o principali titolari di diritti e doveri nel
diritto internazionale; sono essi hanno il diritto di usare la forza per confermare la validità; la fonte
principale delle norme sta nel consenso degli stati, espresso nella consuetudine o nei trattati.
Il secondo complesso di norme è costituito da quelle che possono essere chiamate regole di
coesistenza. Dato che il principio costituzionale indica chi siano i membri della società
internazionale, queste regole stabiliscono le condizioni minime della loro coesistenza. Esse
includono anzitutto le regole che cercano di confinare l'uso legittimo della violenza agli stati
sovrani e di negarlo ad altri agenti. Inoltre, le norme cercano di restringere il numero delle cause o
dei fini per cui uno stato sovrano può legittimamente cominciare una guerra. Hanno anche cercato
di delimitare i modi in cui gi stati sovrani possono condurre una guerra e di contenere l'estensione
geografica dei conflitti. Esiste un ulteriore complesso di norme di coesistenza che riscrive il
comportamento appropriato al raggiungimento della risoluzione degli accordi presi. La norma
fondamentale pacta sunt servanda stabilisce il solo assunto in base al quale può avere senso il fatto
stesso di prendere accordi. Al cuore di questo complesso di norme sta il principio che ciascuno
stato accetta il dovere di rispettare la sovranità o la giurisdizione suprema di ciascuno altro stato
sopra i propri cittadini e il proprio territorio, in cambio del diritto ad aspettarsi un analogo rispetto
della sua sovranità da parte degli altri stati. Un altro principio è dato dalla regola che stabilisce
l'uguaglianza degli stati, nel senso dell'uguale fruizione dei diritti di sovranità.
Il terso complesso riguarda le norme volte a regolare la cooperazione tra gli stati al di là di quella
necessaria alla mera coesistenza. Sono comprese qui le norme che facilitano la cooperazione, non

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solo politica e strategica ma anche di natura sociale ed economica. Le norme di quest’ultimo tipo
prescrivono un comportamento appropriato non agli scopi elementari, ma a quelli più complessi o
secondari, che sono caratteristici di una società internazionale in cui è stato raggiunto il consenso
su una serie di obbiettivi più ampi di quelli legati alla mera coesistenza. Forniscono gli strumenti
con cui la società internazionale procede da una vaga percezione dell'interesse comune a una
chiara concezione del tipo di condotta che esso richiede.
ISTITUZIONI
Nella società internazionale è ai membri stessi che spetta svolgere la funzione di rendere efficaci le
norme. In questo senso si può dire che sono gli stati le istituzioni principali della società
internazionale. Cosi gli stati svolgono la funzione legislativa. Le regole di normale applicazione,
come le regole di coesistenza, sorgono dalla consuetudine e dalla prassi consolidata, e sono in
alcuni casi confermate da convenzioni multilaterali. Gli stati comunicano attraverso le loro stesse
pronunce ufficiali, ma anche attraverso le proprie azioni. Ciascuno stato fornisce la propria
interpretazione delle norme legali, morali e operative. L'attuazione delle regole, in assenza di un’
autorità centrale, è compiuta dagli stati , che possono fare ricorso ad atti di autotutele, compresi
atti di forza, a difesa dei loro diritti basati su norme operative, morali o giuridiche. Gli stati
esercitano il compito di legittimare le norme, promuovendone la ricezione in quanto degne di
valore, e impiegando il proprio potere di persuasione e di propaganda per ottenere il sostegno
dell'intero contesto della politica mondiale, attualmente, un mezzo importante per la
legittimazione delle norme è costituito dall'appoggio delle assemblee e delle organizzazioni
internazionali. Gli stati svolgono la funzione di modificare o di adattare alle mutevoli circostanze le
norme e le regole operative, ma devono farlo in assenza di un'autorità legislativa universale.
Tuttavia, anche in questo caso, gli stati possono cambiare le vecchie norme violandole o
ignorandole abbastanza sistematicamente così da dimostrare di aver ritirato il proprio consenso ad
esse. Infine, gli stati svolgono quel compito istituzionale che, in mancanza di un termine migliore,
abbiamo chiamato di protezione delle norme. Così gli stati cercano di preservare un equilibrio
generale di potenza nel sistema internazionale, di contenere o comporre i conflitti ideologici; di
risolvere o moderare i conflitti tra interessi statali; di limitare o controllare gli armamenti e le forze
armate in relazione agli interessi percepiti nella sicurezza internazionale. Certe misure che gli stati
prendono a protezione delle norme potrebbero anche porli in conflitto aperto con il diritto
internazionale. Nello svolgimento di queste funzioni gli stati collaborano tra loro, a vari gradi, in
quelle che possono essere chiamate istituzioni della società internazionale: equilibrio di potenza,
diritto internazionale, meccanismi della diplomazia, sistema di direzione delle grandi potenze e
guerra. Le istituzioni fanno da simbolo dell'esistenza di una società internazionale che è più della
somma dei suoi membri, danno sostanza e continuità alla collaborazione tra di essi nello
svolgimento delle funzioni politiche della società internazionale e moderano la tendenza a perdere
di vista gli interessi comuni.

LASPE CAPITOLO CINQUE: L’equilibrio di potenza e l’ordine internazionale

1. L’EQUILIBRIO DI POTENZA

Per “equilibrio di potenza” si intende ciò che Vattel definiva “una disposizione delle cose,
mediante la quale veruna potenza non trovasi in stato di predominare assolutamente e d’impor la
legge ad altrui”.

Anzitutto si deve fare una distinzione tra un equilibrio di potenza semplice, composto quindi da
due potenze e uno complesso, che ne comprende tre o più. Storicamente, nessun equilibrio di

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potenza è mai stato perfettamente semplice o complesso, tuttavia esemplificativo del primo tipo,
quello semplice, è lo scontro tra la Francia e gli Asburgo di Austria e Spagna nel XVI e XVII secolo, e
quello tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica durante la guerra fredda. Il secondo tipo di equilibrio è
invece illustrato dalla situazione europea della metà del XVIII secolo, quando alla Francia e
all’Austria, ormai separata dalla Spagna, si aggiunsero grandi potenze come Inghilterra, Russia e
Prussia. Mentre un equilibrio semplice richiede necessariamente un’uguaglianza o una parità in
termini di potenza, in una situazione di equilibrio complesso, lo sviluppo di una grossa
diseguaglianza non pone necessariamente la più forte in una posizione di preponderanza, poiché
le altre hanno la possibilità di unirsi contro di essa. La condizione di equilibrio complesso
comprende la risorsa addizionale e quindi lo sfruttamento della presenza di altre potenze
attraverso il loro assorbimento o la loro spartizione. Ciò ha consolidato la credenza che gli equilibri
complessi siano più stabili, considerando anche il fatto che in un equilibrio semplice, la sola
strategia per una potenza che stia perdendo terreno nei confronti della rivale, sia di aumentare la
sua forza intrinseca (es: la tecnologia militare nel XX secolo).

In secondo luogo è necessario distinguere tra un equilibrio di potenza generale, caratterizzato


dall’assenza di una potenza capace di dominare nell’intero sistema internazionale, e uno locale o
particolare, concentrato in un’area o in un segmento del sistema. Entrambi i tipi sono compatibili
con l’esistenza di un equilibrio di potenza generale all’interno del sistema internazionale
complessivo.

La terza distinzione è tra un equilibrio di potenza che esiste soggettivamente e uno che esiste
oggettivamente. Il problema del mantenimento di un equilibrio di potenza non è soltanto
assicurare che esista di fatto un equilibrio in termini militari, ma anche garantire che si creda in
esso, tant’è che l’elemento soggettivo della credenza è necessario per l’esistenza di un equilibrio di
potenza nonostante non sia una condizione sufficiente.

Una quarta distinzione va fatta tra un equilibrio di potenza fortuito e uno intenzionale. Un
equilibrio fortuito emerge in assenza di qualsiasi sforzo cosciente nell’attuarlo da parte dei
protagonisti, mentre al contrario per quanto riguarda quello intenzionale, la sua esistenza deve
almeno parzialmente essere consequenziale alle politiche consapevoli di una o di entrambe le
parti. L’equilibrio di potenza intenzionale comprende due forme; quella più elementare è un
equilibrio binario in cui una delle parti persegue una politica volta a prevenire il raggiungimento
del predominio militare da parte dell’altro. La forma più avanzata invece, è quella di un equilibrio
ternario in cui una potenza cerca di prevenire l’acquisizione del predominio da parte di ciascuna
delle altre due, non semplicemente attraverso l’aumento della propria forza militare, ma anche
prendendo posizione a fianco della potenza che tra le due risulta più debole. (Quest’ultima è la
politica conosciuta come “conservare l’equilibrio di potere”.)

Il passo successivo è rappresentato dalla politica di preservazione dell’equilibrio di potenza


all’interno del sistema internazionale nel suo complesso. Si tratta di una politica che presuppone
due fattori; il primo consiste nell’abilità di percepire la pluralità delle potenze interagenti come
costituenti un singolo sistema o un singolo campo di forze, mentre il secondo è dato da un sistema
diplomatico continuo e universale, che garantisca alle potenze interessate, informazioni circa le
mosse di tutti gli Stati parte del sistema e i mezzi per intervenire su di essi. È fondamentale che la

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politica di preservazione venga concepita oltre che come uno stato di cose generato dalle politiche
consapevoli di Stati particolari, anche come scopo consapevole del sistema in quanto tale.

Questa concezione implica:

 la possibilità di collaborazione tra gli Stati nel promuovere l’obiettivo comune della
preservazione dell’equilibrio;
 il contenimento degli altri e l’auto-limitazione, ovvero rispettivamente, che ciascuno Stato
non debba soltanto agire per impedire la minacciata preponderanza altrui, ma anche
accettare la responsabilità di non sconvolgere a sua volta l’equilibrio.

2. LE FUNZIONI DELL’EQUILIBRIO DI POTENZA

Possiamo affermare che la preservazione dell’equilibrio di potenza, all’interno del sistema degli
Stati moderni, abbia svolto le tre seguenti funzioni storiche:

1) l’esistenza di un equilibrio generale di potenza all’interno del sistema internazionale


complessivo ha operato per prevenire che questo fosse trasformato, per mezzo di
conquista, in un impero universale;
2) l’esistenza di equilibri di potenza locali ha permesso di preservare, in particolari aree,
l’indipendenza degli Stati, difendendoli dal pericolo dell’assorbimento o del dominio da
parte di un potere localmente preponderante;
3) gli equilibri di potenze generali e locali, laddove sono stati presenti, hanno fornito le
condizioni in cui le altre istituzioni da cui l’ordine internazionale dipende (diplomazia,
guerra, diritto internazionale, primato delle grandi potenze) hanno potuto funzionare.

Titubanza e contrasti in merito all’idea che l’equilibrio di potenza abbia svolto funzioni positive in
relazione all’ordine internazionale, soprattutto in merito:

 alla natura non verificata o non verificabile della generalizzazione storica su cui esso si
fonda;
 alla dipendenza dalla teoria dell’idea che qualsiasi comportamento in ambito
internazionale consista nella ricerca del potere;
 al fatto che il tentativo di preservare un equilibrio di potenza sia causa di guerre e che
questo stesso tentativo, oltre a condurre al disprezzo del diritto internazionale, sia
praticato nell’interesse delle grandi potenze a spese delle piccole.

È indubbio che i tentativi di progettare un equilibrio di potenza non hanno sempre prodotto il
risultato di preservare la pace, ma è altrettanto giusto affermare che non sia quella la sua funzione
principale. Lo scopo dell’equilibrio è quello di preservare il sistema degli Stati e il suo
mantenimento richiede la guerra quando questo è il solo mezzo mediante il quale, la forza di un
potenziale Stato dominante, possa essere controllata. Consequenzialmente, si può affermare che
preservare la pace è un obiettivo subordinato. Il paradosso del principio di equilibrio di potenza sta
nel fatto che, sebbene l’esistenza dell’equilibrio sia una condizione essenziale del funzionamento
del diritto internazionale, le misure necessarie al suo mantenimento spesso ne comportano la
violazione degli obblighi da esso previsti, come ad esempio il fatto che il principio di preservazione
dell’equilibrio abbia teso ad operare in favore delle grandi potenze e a spese delle piccole, tanto

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da essere spesso mantenuto attraverso la spartizione e l’assorbimento di quest’ultime. Preservare


l’equilibrio esige l’uso o la minaccia della forza in risposta alla potenza crescente di un altro Stato,
indipendentemente dal fatto che questo abbia violato le norme del diritto.

Per quanto riguarda il tema dell’esistenza di una qualche forma di controllo sopra al potere di uno
Stato, da un lato vi è la concezione kantiana di Stato costituzionale o Rechtsstaat, che possiede
meccanismi interni di controllo del potere dei governanti, ed è capace di una condotta
internazionale virtuosa di cui invece lo Stato assoluto non è capace. Il filosofo arriva cosi a
raccomandare la formazione di una coalizione nonostante non abbia dubbi sulla possibilità che la
coalizione stessa, abusi del proprio potere. Dall’altro troviamo invece la concezione di Acton,
secondo cui il potere stesso corrompe, indipendentemente dalle ideologie, dalle istituzioni, dalle
virtù o dalle buone intenzioni dello Stato che si trova nella posizione di predominio. Questa
posizione contiene di per sé una minaccia agli altri stati che non può essere contenuta da accordi o
leggi, ma solo da una potenza contrapposta.

Le critiche alla dottrina dell’equilibrio come elemento centrale nel mantenimento dell’ordine
internazionale sono dovute al fatto che questo meccanismo viene percepito come parte di una
teoria della “politica di potenza”, che presenta la ricerca del potere come interesse preponderante
e comune di tutti gli Stati nella conduzione della loro politica estera. L’idea che se uno Stato sfida
l’equilibrio, gli altri Stati siano obbligati ad impedirglielo, si basa sull’assunto secondo cui tutti gli
Stati cerchino di massimizzare la propria posizione di potenza relativa, nonostante questo non
corrisponda alla realtà. Gli Stati sono sempre nella posizione di poter scegliere se impiegare le
proprie risorse ed energie al mantenimento o all’estensione della propria posizione di potenza
internazionale, o se impegnarle nella ricerca di altri fini, tant’è che ad esempio, alcuni Stati in
possesso del potenziale per occupare un ruolo più importante, preferiscono recitarne uno minore.
La dottrina fino a questo punto esposta, non afferma quindi nessuna tendenza inevitabile
all’emergere dell’equilibrio di potenza nel sistema internazionale, ma solo il bisogno che esso sia
mantenuto affinché possa affermarsi un ordine internazionale. È quindi importante sostenere a
questo punto, che gli Stati possono comportarsi, e spesso si comportano, in modo tale da
addirittura ignorare le esigenze dell’equilibrio di potenza.

3. LA RILEVANZA ATTUALE DELL’EQUILIBRIO DI POTENZA

Oggi esiste chiaramente un equilibrio di potenza, nel senso che nessuno Stato occupa una
posizione dominante all’interno del sistema internazionale nel suo complesso. La caratteristica
principale di questo equilibrio negli anni Settanta, è costituita dal fatto di essere complesso.
Tuttavia, l’affermazione che ci sia un equilibrio di potenza multilaterale o complesso, ha dato vita
ad una serie di malintesi che è necessario chiarire.

Innanzitutto, parlare di equilibrio multiplo o complesso fra tre o quattro potenze non implica
l’affermazione che esse dispongano della stessa forza, tant’è che in un sistema di questo tipo,
l’equilibrio può essere raggiunto in assenza di una condizione di uguaglianza tra le potenze
interessate.

In secondo luogo, parlare di tale equilibrio, non significa implicare che tutte e quattro le grandi
potenze dispongano dello stesso tipo di influenza o di potere. Chiaramente, nella politica
internazionale, le mosse si compiono su numerosi “scacchieri” e l’interconnessione tra questi vari

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campi d’azione, ci permette di dedurre la concezione generale del potere o dell’influenza nella
politica internazionale, il comune denominatore rispetto a cui possiamo dire che è presente un
equilibrio o un predominio.

In terzo luogo, parlare delle attitudini tra le grandi potenze come di un equilibrio complesso non
significa implicare che siano politicamente equidistanti, o che vi sia completa mobilità diplomatica
tra loro.

In quarto luogo, bisogna notare che l’equilibrio di potenza complesso “attualmente” esistente, non
si regge su alcun sistema generale di collaborazione tra le grandi potenze interessate, né esiste un
accordo generale su un sistema di norme volte a evitare o a controllare le crisi o i conflitti. Non
esiste quindi un equilibrio di potenza consapevole, nel senso che tutte le potenze lo riconoscono
come obiettivo comune.

Infine, va detto che l’ “attuale” equilibrio di potenza complesso non si fonda su una cultura
comune agli Stati più importanti che vi prendono parte.

Ciascuno di questi cinque malintesi sorge dal fatto che nelle riflessioni odierne l’idea dell’equilibrio
di potenza tende ad essere confusa con quella del sistema europeo dell’equilibrio, in particolare
con quello del XIX secolo. Questo sistema si caratterizzava per:

 l’eguaglianza approssimativa tra le cinque grandi potenze


(Francia, Austria - Ungheria, Russia, Prussia - Germania, Gran Bretagna) ;
 l’equidistanza politica tra loro e la massima mobilità diplomatica;
 l’accordo generale sulle regole del gioco;
 una cultura di base condivisa.

L’equilibrio di potenza, nella fase “attuale”, in relazione all’ordine internazionale, sembra svolgere
le stesse tre funzioni che aveva nei periodi precedenti:

1. l’equilibrio generale ha il compito di impedire che il sistema degli Stati venga


trasformato, per mezzo di conquista, in un impero universale;
2. gli equilibri di potenza locali, dove esistono, operano per proteggere, in aree particolari,
l’indipendenza degli Stati dal pericolo di assorbimento o dominio da parte di una
potenza localmente prepotente;
3. entrambi i tipi di equilibri sopracitati, aiutano a garantire le condizioni in cui, le altre
istituzioni dalle quali dipende l’ordine internazionale, siano abilitate ad operare. Le
istituzioni a cui si fa riferimento sono il diritto internazionale, il sistema diplomatico, la
guerra e la direzione del sistema internazionale, e tutte presuppongono una situazione
in cui nessuno Stato sia dotato di una forza preponderante.

4. LA MUTUA DETERRENZA NUCLEARE

Dai tardi anni Cinquanta si è affermata un’altra istituzione o quasi-istituzione che per alcuni aspetti
è un caso speciale di equilibrio di potenza, ma per altri costituisce una realtà differente: la mutua
deterrenza nucleare. Analizzeremo la questione attraverso le risposte a tre quesiti:

1. Che cos’è l’equilibrio del terrore, o la relazione di mutua deterrenza nucleare?

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2. In che relazione si trova la mutua deterrenza nucleare con l’equilibrio di potenza?


3. Qual è la funzione della mutua deterrenza nucleare in relazione all’ordine internazionale?

Per poter parlare di deterrenza devono verificarsi le seguenti tre condizioni:

 ci deve essere una minaccia comunicata dal dissuasore (deterrer) al dissuaso (deterred);
 deve sussistere qualche possibilità per cui il Paese oggetto della minaccia intraprenda il
corso di azioni da cui il Paese dissuasore vuole farlo recedere;
 il Paese minacciato di punizione viene effettivamente dissuaso solo se ritiene che il Paese
che ha comunicato la minaccia possieda la volontà e la capacità di darle attuazione, e di
conseguenza, decida che il corso di azione che avrebbe altrimenti intrapreso non è più
opportuno.

La minaccia deve essere credibile per il Paese minacciato, per cui diviene impossibile stabilire in
maniera assoluta quale sia il “livello di danno” necessario e sufficiente affinché il Paese minacciato
venga dissuaso dal fare qualcosa.

La DETERRENZA, ovvero la dissuasione degli attacchi da parte delle altre potenze, è sempre stata
una delle finalità per cui gli Stati hanno cercato di impiegare la loro forza militare. La novità in
questa era di armi nucleari, è data dal fatto che le potenze sono state portate ad elevarla allo
status di oggetto primario della politica statale, a causa della loro riluttanza all’impiego delle armi
nucleari nei conflitti reali. Le politiche o strategie di deterrenza che si sono evolute variano lungo
tre direttrici:

 la gamma delle azioni da cui si desidera dissuadere l’avversario;


 la priorità accordata alla deterrenza negli schemi della politica statale;
 la forza minacciata per produrre la dissuasione.

Con mutua deterrenza si intende una condizione in cui due o più potenze si dissuadono a vicenda
dal fare qualcosa. Questo caso consente un’ampia gamma di minacce e azioni, che non hanno
bisogno di fare riferimento né alle armi nucleari, né ad aspetti militari.

Con mutua deterrenza nucleare invece ci si riferisce ad una condizione in cui due o più potenze si
dissuadono reciprocamente dal portare deliberatamente un attacco nucleare per mezzo della
minaccia di una ritorsione nucleare. Come nella condizione che abbiamo chiamato di “equilibrio di
potenza”, una situazione di mutua deterrenza nucleare può verificarsi:

 in una semplice relazione binaria o in una più complessa relazione tra tre o più potenze;
 sia localmente che in una dimensione complessiva;
 in maniera fortuita o come risultato di una pianificazione.

5. LA MUTUA DETERRENZA NUCLEARE E L’EQUILIBRIO DI POTENZA

L’idea di una relazione di mutua deterrenza pianificata o intenzionale è per alcuni aspetti
corrispondente a quella di equilibrio di potenza consapevole, tuttavia presenta alcune differenze.

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In primo luogo, la relazione di mutua deterrenza tra due potenze è solo una parte della relazione
di equilibrio di potenza tra loro, essendo quest’ultima costituita da tutti gli ingredienti della
potenza nazionale, di cui solo uno è lo sfruttamento delle risorse nucleari.

In secondo luogo, in una relazione di mutua deterrenza nucleare non è necessaria un’uguaglianza
o una parità in termini di forza militare. L’obiettivo della dissuasione richiede solamente che
ciascuna potenza possieda una forza nucleare sufficiente a colpire.

In terzo luogo, mentre l’equilibrio di potenza è essenzialmente un fenomeno oggettivo ed è


definito dalla mancanza effettiva di una potenza dominante, la relazione di mutua deterrenza è
soggettiva ed è una condizione fatta di credenze; la credenza di ciascuna parte che l’altra abbia la
volontà e la capacità di esercitare una ritorsione ad un livello sufficiente.

In quarto luogo, mentre l’equilibrio di potenza ha come sua funzione primaria quella di preservare
il sistema internazionale e l’indipendenza degli Stati, e comporta il mantenimento della pace solo
come conseguenza incidentale, la preservazione della mutua deterrenza nucleare, ha come sua
prima funzione, il mantenimento della pace nucleare.

6. LE FUNZIONI DELLA MUTUA DETERRENZA NUCLEARE

La relazione di mutua deterrenza nucleare, finora esistita in maniera non ambigua solo tra Stati
Uniti e Unione Sovietica, ha svolto le seguenti funzioni:

1. ha agevolato la preservazione della pace nucleare;


2. ha facilitato il mantenimento della pace tra le due principali potenze nucleari,
rendendole riluttanti ad entrare direttamente in ostilità non nucleari per timore di
un’estensione nella natura del conflitto;
3. ha contribuito al mantenimento di un equilibrio di potenza generale nel sistema
internazionale facilitando la stabilizzazione dell’equilibrio dominante.

È importante tenere sempre a mente quelli che sono i limiti dell’affermazione secondo cui,
preservare la mutua deterrenza nucleare significa contribuire al mantenimento della pace
nucleare.

In primo luogo, la mutua deterrenza può rendere “irrazionale” il ricorso alla guerra nucleare come
strumento di politica estera solo fino a quando è stabile, ovvero fino a quando manifesta una
tendenza intrinseca alla persistenza.

In secondo luogo, per tutto il tempo in cui la relazione di mutua deterrenza persiste, e il ricorso
deliberato alla guerra nucleare è reso irrazionale, rimangono comunque pericoli riguardo alla
possibilità che la guerra nucleare si generi accidentalmente o per errori di valutazione, tutti
elementi su cui la relazione di mutua deterrenza di per sé è incapace di avere effetti di
contenimento.

In terzo luogo, mentre la mutua deterrenza è in grado, fino a quando è presente, di rendere
improbabile una guerra nucleare, non può fare nulla per risolvere il problema del contenimento o
del controllo di una guerra nucleare già scoppiata.

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In quarto luogo, l’idea della mutua deterrenza come fonte di pace nucleare crea una tremenda
responsabilità sul presupposto dell’aspettativa che gli uomini agiscano in maniera “razionale”.

In quinto luogo, dire che la mutua deterrenza nucleare svolge queste funzioni in relazione alla
preservazione della pace non significa sostenere l’idea che la sicurezza internazionale è rafforzata
dalla presenza delle armi nucleari su entrambi i fronti dello scontro.

In sesto luogo, preservare la mutua deterrenza nucleare impedisce nel lungo periodo la possibilità
di fondare l’ordine internazionale su una base migliore. Il mantenimento della pace tra le grandi
potenze per mezzo di un sistema in cui ciascuno minaccia di distruggere o di mutilare la società
civile dell’altro, riflette la debolezza del senso di interesse comune nella società internazionale.

CAPITOLO SEI: Ordine internazionale e diritto

1. LA NATURA DEL DIRITTO INTERNAZIONALE

Il diritto internazionale può essere considerato come un corpo di norme che vincolano gli Stati e gli
altri attori della politica mondiale nelle loro relazioni reciproche, e al quale viene generalmente
attribuito uno status giuridico. Le riflessioni relative al diritto internazionale, così come quelle su
qualsiasi altro corpo di norme, si svolgono su un piano normativo e non su uno empirico o fattuale.
Possiamo anche affermare che, influenzando concretamente il comportamento degli attori nella
politica mondiale, le regole di diritto internazionale fanno parte della realtà sociale. Passando ad
una definizione più avanzata, si identifica il diritto internazionale come un corpo di norme che
governano la mutua interazione non solo tra gli Stati, ma anche tra altri attori della politica
internazionale. I soggetti di diritto internazionale che costituiscono la categoria di “altri attori”sono
gli individui, i gruppi diversi dallo Stato, le organizzazioni internazionali. Il diritto internazionale si
differenzia da quello interno per un aspetto fondamentale, dato dal fatto che mentre il diritto
all’interno dello Stato moderno è sostenuto dall’autorità di un governo, ivi compreso il potere di
usare la forza, il diritto internazionale è privo di questo tipo di appoggio. Hans Kelsen afferma che
la natura dell’ordine internazionale è un “ordine coercitivo” che si regge su sanzioni
decentralizzate e che nella società internazionale, le sanzioni sono applicate dai singoli membri
della società, sulla base di un principio di autotutela (self-help). Sebbene in generale non sia vera
la tesi secondo cui ogni norma di diritto internazionale debba la usa efficacia ad autonomi atti
coercitivi, il sistema del diritto internazionale nel suo complesso può dipendere in alcuni casi dal
ricorso ad essi, ed è proprio per questo che esiste un’intima connessione tra l’efficacia del diritto
all’interno della società internazionale e il funzionamento dell’equilibrio di potenza. La difficoltà
principale della visione di Kelsen è che, in particolari casi, la società internazionale non è capace di
raggiungere un consenso su quale delle due parti in guerra rappresenti quella dei trasgressori e
quale invece quella della comunità internazionale, infatti secondo la sua opinione una guerra una
volta scoppiata, può essere o un delitto o una sanzione. Solo in questi casi, si può affermare che
nella società internazionale esiste un “monopolio coercitivo della comunità”. Tuttavia, solo
raramente la società internazionale si mobilita sulla base di tali interpretazioni. L’idea di un diritto
internazionale come ordinamento coercitivo basato su un sistema decentrato di sanzioni è una
finzione che non regge il confronto diretto con la realtà.

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Hart, per esempio, afferma che la concezione del diritto come “ordine sostenuto da minacce” è
inapplicabile al diritto interno stesso, per un certo numero di aspetti. Secondo Hart infatti, ciò che
caratterizza un sistema giuridico non è la presenza di un sovrano capace di sostenere le norme con
la forza, ma “l’unione di norme primarie e secondarie”, ovvero rispettivamente, norme che
impongono agli esseri umani di astenersi da certe azioni e norme che hanno per oggetto altre
norme. Hart nota che è possibile immaginare una società in cui esistano solo norme primarie,
nonostante riconosca che sia una struttura destinata ad avere certi difetti, quali:

1. l’incertezza, data dal fatto che le norme non formerebbero un sistema, ma stabilirebbero
una serie di separati criteri di condotta privi di un elemento comune. Di conseguenza, se
dovessero sorgere dubbi su quali siano le norme, non ci sarebbero procedure adatte a
chiarirli;
2. il carattere statico e quindi l’assenza di mezzi di adattamento deliberato delle norme alle
mutevoli circostanze, o per eliminare le vecchie norme e introdurne delle nuove;
3. l’inefficacia della pressione sociale diffusa per mezzo della quale le norme sono
mantenute.

Tuttavia, tutti e tre questi difetti, presentano un rimedio attraverso l’unione di norme primarie e
secondarie.

Il primo difetto è corretto da ciò che Hart chiama “norma di riconoscimento”, la quale specifica
alcune caratteristiche, il cui possesso da parte di una norma, è considerato come un’indicazione
affermativa e decisiva circa la sua qualificazione come norma.

Il secondo difetto viene chiarito sia dal metodo di mutamento delle norme, che ne determina un
processo di crescita mediante il quale, tipi di condotta un tempo ritenuti facoltativi, diventano
prima abituali e poi obbligatori, sia dal processo inverso di decadenza, per cui le deviazioni, una
volta punite severamente, prima vengono tollerate e poi passano inavvertite.

Il terzo difetto viene corretto dalle “norme di giudizio”, le quali conferiscono ad alcuni individui il
potere di emettere determinazioni dotate di autorità e la possibilità di dettare le procedure da
seguirsi.

Ciò che noi chiamiamo “diritto internazionale” è chiaramente ciò che Hart definisce un insieme di
norme primarie.

2. L’EFFICACIA DEL DIRITTO INTERNAZIONALE

Quali sono le conseguenze del diritto internazionale sul comportamento concreto degli Stati?

Affinché le norme internazionali possano influenzare seriamente la vita della società


internazionale è necessario che dispongano di un certo grado di efficacia. Non c’è dubbio che
esista un grado sostanziale di coincidenza tra il comportamento internazionale effettivo e quello
prescritto dalle regole del diritto internazionale, nonostante in casi particolari, le norme di diritto
vengano violate o ignorate. Il segno più chiaro dell’inefficacia di un insieme di regole, si manifesta
nel caso in cui non si verifichi semplicemente una mancanza di conformità tra il comportamento
effettivo e quello prescritto, ma il rifiuto stesso di accettare la validità o il carattere vincolante delle
obbligazioni, come illustrato dagli appelli ragionati a principi opposti e differenti, o dalla

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trasgressione arbitraria delle norme. I detrattori del diritto internazionale, comunque, sebbene
siano in errore quando pretendono di affermare che il diritto internazionale sia privo di efficacia,
sono nel giusto quando insistono sul fatto che il rispetto della legge non è di per sé la motivazione
principale per dare conto della conformità ad essa. Gli Stati si conformano al diritto in parte per
abitudine o per inerzia, ma è altrettanto plausibile, che la loro conformità al diritto abbia origine in
un calcolo o in una deliberazione e in tal caso, può derivare da tre tipi di motivazione:

in primo luogo, l’obbedienza può risultare dal fatto che l’azione prevista dalla legge sia ritenuta
degna di valore o ingiuntiva o obbligatoria indipendentemente dalla sua obbligatorietà legale. La
norma viene considerata fine a se stessa, come parte o strumento della realizzazione di un più
ampio insieme di valori. Le norme che ottengono obbedienza per queste ragioni, appartengono al
“diritto internazionale di comunità”.

In secondo luogo, l’obbedienza può derivare dalla coercizione, o dalla minaccia di esercitarla, da
parte di una potenza superiore che si fa carico dell’attuazione degli accordi. I patti accettati
principalmente per questo tipo di ragioni sono definiti come “diritto internazionale di potenza”.

In terzo luogo, l’obbedienza può essere il risultato dell’interesse percepito da uno Stato in
un’azione fondata su una reciprocità che coinvolga un altro Stato o altri Stati.

L’importanza del diritto internazionale non sta nella volontà degli Stati di tenere fede ai suoi
principi a scapito dei propri interessi, quanto nel ritenere conforme ai propri interessi il rispetto
delle regole del diritto.

3. IL CONTRIBUTO DEL DIRITTO ALL’ORDINE INTERNAZIONALE

Qual è il ruolo del diritto in relazione all’ordine internazionale?

Prima funzione: identificare come principio normativo supremo dell’organizzazione politica umana
l’idea di una società di Stati sovrani.

Seconda funzione: stabilire le norme basilari della coesistenza tra gli Stati e gli altri attori della
società internazionale. Queste norme si ripartiscono in tre categorie: (vedere capitoli 1 e 3)

 Norme di restrizione della violenza tra gli Stati e gli altri attori della politica
internazionale;
 Norme relative agli accordi stipulati tra questi soggetti;
 Norme che riguardano la sovranità e l’indipendenza.

Terza funzione: promuovere lo sviluppo del consenso nei confronti delle regole della società
internazionale, come le regole fondamentali di coesistenza e quelle di cooperazione.

Da ciò si deduce che è erroneo ritenere che il contributo principale del diritto all’ordine
internazionale sia imporre vincoli al comportamento degli attori.

4. I LIMITI DEL DIRITTO INTERNAZIONALE

In primo luogo: non è vero che il diritto internazionale sia una condizione necessaria o essenziale
dell’ordine internazionale. Le funzioni che svolge lo sono, ma possono in linea di principio, essere
attuate in modo diverso.

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In secondo luogo: il diritto internazionale non è di per sé sufficiente a garantire l’ordine


internazionale, difatti non può compiere funzioni che gli vengono ascritte, se non in presenza di
condizioni garantite dal diritto stesso.

In terzo luogo: il diritto internazionale, o alcune sue particolari interpretazioni, possono in alcuni
casi, ostacolare le misure volte al mantenimento dell’ordine internazionale.

Un caso classico è lo scontro tra il diritto internazionale e le misure ritenute necessarie al


mantenimento dell’equilibrio di potenza. Questo tipo di conflitto tra sistemi imperativi, può essere
rintracciato a vari livelli:

 Il primo riguarda la guerra preventiva e il fatto che molte trattazioni di diritto


internazionale la ritengano illegale;
 Il secondo fa riferimento alle sanzioni contro una guerra di aggressione;
 Il terzo è relativo alla questione della non-interferenza.

( Per approfondimento leggere i relativi esempi alle pagine 168 e inizio 169)

In quarto luogo: si deve ricordare che il diritto può farsi veicolo o strumento di progetti diversi da
quello dell’ordine, e che possono di fatto, opporsi ad esso.

5. IL DIRITTO INTERNAZIONALE CONTEMPORANEO

Dalla fine della seconda guerra mondiale, per il diritto internazionale, è cominciato un periodo
di grandi mutamenti.

1) Attualmente infatti, rientrano a far parte del novero dei soggetti di diritto internazionale i
singoli esseri umani, le organizzazioni intergovernative universali o quasi-universali o
regionali e le organizzazioni internazionali non-governative. A questo proposito, Philip
Jessup ha parlato di una transizione dal diritto internazionale al diritto “transnazionale”,
ovvero a leggi che regolano tutte le azioni e gli eventi che trascendono le frontiere
nazionali, indipendentemente dal fatto che le azioni coinvolte siano quelle dei soggetti del
diritto internazionale.
2) Altro cambiamento consiste in un’enorme crescita del settore del diritto internazionale che
si occupa di regolare le materie economiche, sociali, ambientali, della comunicazione.
L’espansione del raggio d’azione del diritto internazionale ha indotto B. V. A. Roling a
parlare di una transizione in atto dal “diritto internazionale della libertà” al contemporaneo
“diritto sociale (welfare) internazionale”. Roling ritiene che il primo tipo di diritto venne
creato da un piccolo gruppo di ricchi Stati europei, interessati a conciliare la libertà di
ciascuno con quella degli altri, in accordo al modello dello Stato liberale. Il secondo invece,
riflette l’aumento dell’intervento statale nel settore economico, nonché l’impatto sulla
società internazionale di una maggioranza di Stati che non sono né ricchi né europei, e
sono interessati a sfidare il “diritto della libertà” in un equivalente internazionale della lotta
di classe.

Sempre nell’ambito delle transizioni, Wolfgang Friedmann ne sostiene una secondo cui da un
“diritto internazionale della coesistenza” si passerebbe ad un “diritto internazionale di
cooperazione”. Questa transizione mette in evidenza sia l’espansione “orizzontale” del diritto

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internazionale verso l’inclusione di nuovi Stati estranei alla tradizione europea, sia quella
“verticale” verso la regolamentazione di nuovi campi dell’attività internazionale.

3) Molto diffusa è inoltre l’opinione che riscontra enormi cambiamenti nei procedimenti
attraverso cui il diritto internazionale viene prodotto, o nelle fonti da cui deriva. Dal XIX
secolo infatti, la dottrina predominante tra i giuristi era stata quella che riconosceva come
unica vera fonte del diritto internazionale il consenso degli Stati. Tuttavia, l’articolo 38 dello
statuto della Corte internazionale di giustizia, afferma che ci sono quattro diverse fonti del
diritto internazionale:
1. le convenzioni internazionali, generali o particolari, che stabiliscono delle norme
espressamente riconosciute dagli Stati attraverso consenso;
2. la consuetudine, quale evidenza di una prassi generale accettata come legge;
3. i principi generali del diritto riconosciuti dagli Stati civilizzati;
4. le sentenze giudiziarie e gli insegnamenti dei pubblicisti più altamente qualificati delle varie
nazioni, come mezzi sussidiari di determinazione delle norme di legge.

La dottrina secondo cui la validità degli Stati deriva esclusivamente dal consenso degli Stati stessi,
ha sempre dovuto confrontarsi con la corrente di opinione dominante che considera il diritto
internazionale una derivazione diretta del diritto naturale. In seguito si è però sviluppata, una
proliferazione di nuove teorie, come ad esempio quelle “solidariste”, le quali sostengono che le
fonti del diritto internazionale debbano essere cercate nella prassi concreta degli Stati, non solo in
quelle norme a cui gli Stati danno il loro consenso esplicito, ma anche in quelle a cui una
solidarietà o un consenso generale, sono stati raggiunti dalla società internazionale nel suo
complesso, anche nel caso in cui questo consenso sia rifiutato da alcuni singoli Stati.

A questo proposito Richard Falk, ritiene che la società internazionale per poter svolgere
effettivamente la sue funzioni, debba essere dotata dell’autorità legislativa che le permetta di
trasformare quel consenso generale in norme di legge, nonostante l’opposizione di pochi Stati
sovrani. Egli ritiene, in particolare, che la Corte internazionale di giustizia debba confermare il
ruolo del consenso generale come fonte di diritto internazionale.

4) Infine, un mutamento di rilievo, è avvenuto nel ruolo del giurista internazionale. La


tradizionale ottica positivista, ritiene che il ruolo del giudice, dell’esperto legale e del
giurista accademico consista nel determinare quali siano le norme di diritto internazionale,
e nel farlo in maniera accurata e obiettiva, senza lasciarsi condizionare dai valori non
giuridici. Oggi è invece presente, una dottrina di un gruppo molto influente di giuristi
internazionali, secondo cui il giurista è e deve essere “politicamente orientato” nel senso di
esplicitamente impegnato nella scelta tra valori etici, politici e sociali.

Questi quattro cambiamenti hanno indotto alcuni giuristi ad affermare che quello che si è
verificato nel diritto internazionale non è stato semplicemente un mutamento, ma un’evoluzione.
Tuttavia, è molto dubbio, se queste evoluzioni del diritto internazionale abbiano effettivamente
portato con sé uno sviluppo del ruolo svolto dal diritto in relazione all’ordine internazionale.

6. I SOGGETTI DEL DIRITTO INTERNAZIONALE

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Gli sperimentali tentativi odierni di rafforzamento del ruolo dei diritti e dei doveri degli individui
nell’ambito del diritto internazionale non riflettono in realtà nessun accordo sul loro contenuto o
sui modi in cui dovrebbero essere affermati. Portata alle sue estreme conseguenze, la dottrina
dell’accoglimento dei diritti umani nel sistema del diritto internazionale, sovverte lo stesso
principio per cui l’umanità debba essere organizzata come una società di Stati sovrani. Di qui la via
è aperta alla sovversione della società degli Stati sovrani in nome del principio di organizzazione
alternativo costituito dalla comunità cosmopolitica. In conclusione, quello che si vuole osservare in
merito, è che il dibattito internazionale sul ruolo dei diritti e dei doveri dell’uomo nel sistema del
diritto internazionale rappresenta un sintomo di disordine, e non di ordine.

7. IL CAMPO D’AZIONE DEL DIRITTO INTERNAZIONALE

L’allargamento del raggio di applicazione del diritto internazionale a materie economiche, sociali,
ambientali, di comunicazione, rappresenta un rafforzamento del suo contributo all’ordine
internazionale. L’influenza crescente delle politiche statali in questi settori, e l’impatto che hanno
sulla vita di tutti gli Stati, è una fonte di conflitto e di disordine a cui la regolamentazione giuridica
internazionale può porre un freno. Tuttavia, la regolamentazione legale internazionale in questi
ambiti, non implica di per sé nessun rafforzamento del ruolo del diritto internazionale. L’idea che si
sia manifestata un’evoluzione da un “diritto internazionale di coesistenza” ad un “diritto
internazionale di cooperazione” porta con sé l’implicazione che il primo tipo di diritto sia diventato
più sicuro e stabile. Se si analizza però, lo stato attuale del “diritto internazionale di coesistenza”,
diventa chiaro come questa condizione sia tutt’altro che vera. Basti pensare alla parte del suddetto
diritto inerente alla restrizione dell’uso della violenza. L’idea che in tempi recenti si sia registrato
un rafforzamento del ruolo del diritto internazionale in questa funzione si basa principalmente
sulla dottrina che si incarna nella Carta delle Nazioni Unite, secondo cui l’uso o la minaccia della
forza da parte degli Stati sia illegale. In realtà, appare piuttosto ovvio che i fattori principali che
trattengono gli Stati dal ricorso alla forza non si trovino nel diritto internazionale, bensì nei costi
sempre più alti della guerra e nella diminuzione dei guadagni attesi. Inoltre la norma è
chiaramente in disaccordo con la concreta prassi internazionale, specialmente se consideriamo
che inibisce non solo l’uso della forza, ma anche la sua minaccia stessa, che nelle relazioni
internazionali contemporanee è continua e onnipresente. Ad oggi, ciò che risulta lampante, è che
il monopolio della violenza internazionale legittima, debba sostenere una sfida su più fronti; da
una parte ci sono i gruppi politici non statali, i quali impiegano la cosiddetta violenza “terroristica”
o di “basso livello”, mentre dall’altra troviamo l’assunzione da parte delle organizzazioni
internazionali del diritto a usare la forza.

8. LE FONTI DEL DIRITTO INTERNAZIONALE

Il presunto spostamento dall’assenso degli Stati al consenso generale come fonte basilare del
diritto internazionale contiene a prima vista grandi promesse di rafforzamento del contributo del
diritto all’ordine internazionale. Se l’opinione di una maggioranza preponderante degli Stati
potesse rappresentare la “volontà della comunità internazionale”, si aprirebbe la via al
consolidamento del diritto internazionale di coesistenza. Le norme che in questo studio sono state
chiamate “di coesistenza” servono a sostenere l’ordine in una società internazionale in cui, in
circostanze normali, a parte queste stesse regole, non esiste un consenso su molto altro. Se, di
fatto, la società internazionale dovesse raggiungere una solidarietà politica e morale di fondo, tale

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che un consenso generale potrebbe normalmente emergere, allora il contributo del diritto
internazionale al mantenimento dell’ordine potrebbe risultare rafforzato dall’accettazione della
dottrina del consenso generale. A questo proposito, volendo seguire la pretesa di attribuire lo
status legale a una norma o a un corso di azioni attraverso il consenso generale della società
internazionale, la questione cruciale risulta essere se, e in quale misura, esista in realtà un tale
consenso. La dottrina che sostiene questa fonte del diritto internazionale, si preoccupa di
assicurare che il diritto stesso, sia strettamente legato alla prassi concreta degli Stati. Tuttavia, si
deve riconoscere che per qualche giurista l’attrattiva esercitata dalla teoria del consenso generale
sta nella possibilità che offre di sviluppare il diritto internazionale non in relazione alla prassi
concreta degli Stati, ma in conformità alle loro opinioni riguardo ai requisiti fondamentali
dell’ordine e della giustizia internazionale. In questa forma, la dottrina del consenso generale o
della “volontà della comunità internazionale”, non rappresenta un tentativo di allargare il diritto
internazionale positivo, ma il desiderio di far rientrare dalla finestra quello naturale.

9. IL RUOLO DEL GIURISTA INTERNAZIONALE

La tesi secondo cui il ruolo del giurista è quello di provvedere a un’interpretazione del diritto
dinamica e creativa, e non statica e meccanica, sembra voler consolidare, a prima vista, il
contributo del diritto all’ordine internazionale. Tuttavia, se non si mantiene nessuna distinzione tra
le norme della condotta internazionale che hanno uno status giuridico e quelle che non lo hanno, il
diritto internazionale non è nemmeno in grado di sopravvivere come distinto sistema normativo.
Le recenti trasformazioni del diritto internazionale non indicano che sia avvenuto un
consolidamento del suo contributo all’ordine internazionale, in particolar modo se si analizzano i
seguenti aspetti:

 lo spazio sempre maggiore accordato ai diritti e ai doveri dei singoli individui è un segno
della contrazione del consenso generale e non della sua espansione;
 lo sviluppo di un nuovo “diritto internazionale di cooperazione” non è basato su un più
forte “diritto internazionale di coesistenza”, ma su uno più debole;
 la tendenza a considerare il consenso generale piuttosto che l’assenso degli Stati come
fonte del diritto internazionale riflette l’impulso della teoria giuridica ad allontanarsi dalla
base della prassi concreta degli Stati.

Nonostante tutto ciò, il diritto internazionale a cui, in qualche misura, tutti gli Stati del sistema
internazionale globale garantiscono il loro assenso formale, è ancora sufficiente a svolgere i suoi
compiti tradizionali:

1. identificare nell’idea della società degli Stati il principio operativo fondamentale della
politica mondiale;
2. formulare le norme basilari della coesistenza;
3. facilitare l’accoglimento di queste e altre norme.

CAPITOLO SETTIMO: Diplomazia e ordine internazionale

1. LA DIPLOMAZIA

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Bisogna fare una distinzione fra tre importanti significati della parola “diplomazia”:

1. la condotta delle relazioni tra Stati e altre entità rilevanti della politica mondiale da parte di
agenti ufficiali e attraverso l’uso di mezzi pacifici.
(Questo è il senso più ampio con cui sarà utilizzato il termine in questa sede);
2. la gestione di queste relazioni per mezzo di diplomatici professionisti;
3. una gestione delle relazioni tra Stati che è, nel senso comune del termine, condotta in
modo “diplomatico”, ovvero sottile e pieno di tatto.

La fonte primitiva della diplomazia consiste nella trasmissione di messaggi tra comunità politiche
indipendenti.

Oggi, parlando di diplomazia, dobbiamo tenere a mente le seguenti distinzioni:

 la diplomazia include sia la formulazione della politica esterna di uno Stato, sia la
sua esecuzione. La formulazione comprende la raccolta e la valutazione di
informazioni sull’ambiente internazionale e la considerazione di linee politiche
alternative. L’esecuzione include la comunicazione agli altri governi e agli altri
popoli della linea di politica estera decisa, e i tentativi di spiegazione e di
giustificazione di essa.
 le relazioni diplomatiche sono o bilaterali o multilaterali. Quelle bilaterali legano
uno Stato o un governo a un altro, anche se nella prassi concreta costituiscono
anche i legami tra un sistema politico e un altro. La diplomazia multilaterale invece,
può assumere la forma di conferenze tra due o più Stati, oppure di conferenze
permanenti e quindi di organizzazioni internazionali.
 la diplomazia può essere ad hoc o istituzionalizzata. Mentre i primi incontri tra gli
europei e i nativi americani, nascevano dal bisogno di recapitare un certo
messaggio o negoziare un determinato affare, gli odierni contatti diplomatici tra
Stati sovrani sono istituzionalizzati nel senso che sono mantenuti
indipendentemente dai particolari temi affrontati e che avvengono sulla base di una
relazione permanente tra le parti interessate e di regole e convenzioni accettate da
tutti, aventi in taluni casi uno status giuridico.
 Infine, l’ultima distinzione va fatta tra la branca “diplomatica” e quella consolare
della condotta delle relazioni internazionali. La prima è interessata alle relazioni tra i
governi di due Paesi, mentre la seconda concerne le relazioni tra i privati cittadini di
un Paese e il governo, o i privati cittadini di un altro Paese. Tuttavia, una distinzione
è sempre difficile da tracciare considerando che, mentre nel secolo scorso e nei
primi anni di questo, molte nazioni mantenevano separate le relazioni diplomatiche
e quelle consolari, la tendenza attuale va verso la fusione dei due servizi.

Il principio per cui gli ambasciatori non devono interferire con la politica del Paese ospitante, oggi
così rilevante, non fu stabilito fin dalle prime fasi della diplomazia residente. L’analisi generale
della diplomazia e del suo ruolo nella società internazionale più importante è quella di Callières, il
quale sostiene infatti, che il loro ruolo debba contribuire ad assicurare che siano gli interessi dei
prìncipi a trionfare sulle loro passioni e non viceversa, aggiungendo che il negoziato non deve
essere solo continuo e universale, ma anche condotto in maniera professionale. Questa

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concezione dell’ “ambasciatore ideale” come persona governata dalla ragione piuttosto che dalle
passioni, è strettamente legata all’emergere del razionalismo nel XVII secolo, e specialmente
all’idea che l’obiettivo specifico degli Stati sia promuovere gli interessi piuttosto che l’onore o la
fede. La moderna tradizione diplomatica dà corpo al tentativo di sostenere un comportamento
basato su questo modello.

2. LE FUNZIONI DELLA DIPLOMAZIA

Come prima funzione, la diplomazia agevola le comunicazioni tra i leader politici degli Stati e delle
altre entità rilevanti della politica mondiale. La condizione necessaria all’effettivo svolgimento di
questa attività è data dall’immunità diplomatica dell’inviato, ovvero l’impossibilità per lo Stato che
lo ospita di ucciderlo o di far uso della forza su di lui.

La seconda funzione sta nella negoziazione degli accordi. Gli accordi sono possibili solo se gli
interessi delle parti, benché differenti, arrivino a coincidere su almeno qualche punto, e se le parti
siano capaci di percepire questa coincidenza.

La terza funzione è quella di raccogliere conoscenze e informazioni sui Paesi stranieri. Ciascun
Paese cerca di negare agli altri alcune informazioni su di sé, e, allo stesso tempo, ha interesse nel
fornirne delle altre.

La quarta funzione consiste nel minimizzare gli effetti delle frizioni che si verificano nella politica
internazionale. La frizione è l’attrito o la collisione di cose che si trovano in prossimità l’una
dell’altra ed è una costante fonte di tensioni e di contrasti internazionali.

La quinta funzione riguarda l’essere un simbolo dell’esistenza della società degli Stati. I moderni
corpi diplomatici presenti in tutte le capitali forniscono un’evidenza tangibile della società
internazionale come fattore operante nelle relazioni politiche internazionali.

3. LA RILEVANZA ATTUALE DELLA DIPLOMAZIA

Se si considera il termine nel primo e più ampio significato che gli è stato attribuito in precedenza,
non si potrebbe certo sostenere che la diplomazia abbia cessato di fornire il suo apporto all’ordine
internazionale. Tuttavia, in alcuni casi, questo argomento viene proposto in relazione al secondo
significato della parola, quello che fa riferimento alla condotta delle relazioni tra Stati per mezzo di
diplomatici professionisti. Coloro che sostengono questa opinione fanno notare che, a partire dalla
prima guerra mondiale, si è verificato un netto declino, sotto vari aspetti, del ruolo ricoperto dai
diplomatici di professione nella politica internazionale.

In primo luogo, il ruolo dell’ambasciatore residente e della sua missione è diminuito in relazione a
quello degli altri conduttori degli affari internazionali. Alcuni osservatori prevedono che nei casi in
cui il volume degli affari tra due Stati sia molto ampio e le loro relazioni molto strette e intime,
l’istituzione della missione diplomatica residente potrebbe direttamente scomparire.

In secondo luogo, in questo secolo la diplomazia bilaterale è in declino soprattutto in relazione a


quella multilaterale, principalmente come conseguenza del proliferare delle organizzazioni
internazionali. Naturalmente, la crescita dell’importanza relativa della diplomazia multilaterale

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non implica di per sé un declino del ruolo dei diplomatici professionisti. In larga misura infatti, si
può affermare che lo sviluppo della diplomazia multilaterale rappresenti un cambiamento nel
carattere del lavoro del diplomatico professionista piuttosto che un regresso del suo ruolo. Questo
cambiamento riguarda il fatto che, dalla prima guerra mondiale, nel complesso della politica
internazionale, si è verificato il declino di quella fondamentale attività della diplomazia
professionale che Callières definisce “negoziato”, ovvero l’identificazione degli interessi degli Stati
e la realizzazione di una conciliazione tra loro laddove è possibile. La condotta intelligente e piena
di tatto degli affari, da un lato ha lasciato spazio a una “politica dello stato di guerra”, a una
“diplomazia urlata”, mentre dall’altro, ha ceduto il passo a ciò che può essere chiamata “gestione
tecnica” dei problemi internazionali, un’attività la cui preoccupazione fondamentale non consiste
nella conciliazione dei diversi interessi degli Stati, ma nella collaborazione a massimizzare
l’interesse comune. In generale, si può affermare che durante l’incontro di due persone che si
vedono per trattare un affare, sono almeno due gli aspetti che si possono notare. Il primo, è che le
parti coinvolte hanno a che fare direttamente l’una con l’altra e quindi quando una delle due parla,
è indubbio che si rivolga all’altra. Il secondo riguarda il fatto che entrambe presuppongono che ci
sia la possibilità di avere qualche interesse in comune. Tuttavia, molto di frequente, queste due
condizioni sono assenti quando ad incontrarsi sono i rappresentanti degli Stati, in quanto
indirizzano le loro osservazioni a terzi, di cui cercano di ottenere l’appoggio nel corso del
confronto, e risultano piuttosto indifferenti alla ricerca di un terreno comune, dal momento che
ciascuna parte, ritiene che il raggiungimento dei propri scopi comporti la sconfitta totale
dell’avversario. Un altro cambiamento si ha nella crisi di quel consenso di fondo tra le grandi
potenze europee, grazie a cui ciascuna di esse, accettava almeno l’altrui diritto all’esistenza. In una
situazione di conflitto internazionale non moderata dalla percezione degli Stati di appartenere ad
una comunità, la “diplomazia forense” costituisce uno strumento efficace e funzionale di politica
estera. Mentre in alcune aree delle relazioni internazionali la diplomazia ha lasciato spazio alla
politica dello stato di guerra, in altre si è ritirata a favore della gestione tecnica degli affari
internazionali. L’efficacia della diplomazia, viene quindi indebolita, non solo dall’aumentare di
quelle situazioni in cui gli Stati non percepiscono nessun interesse comune, ma anche di quelle in
cui gli Stati considerano i propri interessi come identici. Proprio in queste situazioni infatti, gli Stati
coinvolti cercano di promuovere i propri interessi attraverso una cooperazione che tenda a
massimizzare il loro interesse comune, dovendo affrontare il problema tecnico di cercare i mezzi
più efficienti per raggiungere un dato scopo. Tuttavia, è difficile trovare esempi di relazioni
internazionali in cui la gestione tecnica abbia soppiantato completamente l’approccio diplomatico.

In terzo luogo, le istituzioni diplomatiche, ovvero le norme e le convenzioni che rendono possibili
le pratiche diplomatiche e facilitano il loro svolgimento, nel nostro secolo hanno subito un forte
declino. È vero che le fondamentali istituzioni della diplomazia, da un punto di vista strettamente
legale, hanno registrato un consolidamento, ma questo consolidamento e l’estensione delle
forme legali in cui le norme e le istituzioni della diplomazia si esprimono, hanno proceduto
parallelamente al declino della loro effettiva osservanza. Basti pensare alla pratica dello
spionaggio, largamente abusata nelle relazioni diplomatiche tra le nazioni occidentali e quelle
comuniste nel corso della guerra fredda. Addirittura, durante gli anni Sessanta, si ha assistito alla
proliferazione di attacchi fisici alle missioni diplomatiche e al rischio per gli inviati diplomatici di
essere rapiti. In conclusione, il declino della diplomazia professionale può essere interpretato sia
come causa sia come effetto di un più generale decadimento delle condizioni dell’ordine

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internazionale del nostro secolo, ma nonostante ciò, si può affermare che continui ad adempiere
alle proprie funzioni fondamentali relative al mantenimento dell’ordine internazionale.

3.1 COMUNICAZIONE

La comunicazione tra le classi dirigenti degli Stati e gli altri attori della politica mondiale avviene di
solito, senza la mediazione dei diplomatici professionisti. Tuttavia, i diplomatici sono specialisti
nella comunicazione precisa e accurata. Sono veri e propri esperti nella percezione e nella
trasmissione delle sfumature del dialogo internazionale e sono capaci non solo di recapitare il
messaggio, ma di valutare il linguaggio in cui deve essere espresso, il pubblico a cui deve essere
esposto e l’occasione in cui deve essere presentato, avvalendosi anche di alcune convenzioni
stilistiche e terminologiche.

3.2 NEGOZIATO

La negoziazione degli accordi tra gli Stati può avere luogo, e di fatto avviene, senza la mediazione
dei diplomatici professionisti. Nonostante ciò, sarebbe errato affermare che il ruolo dei diplomatici
di professione nella negoziazione degli accordi non sia più di importanza vitale. Il negoziato
presuppone una situazione in cui due parti si percepiscono come portatrici di diversi interessi, ma
riescono anche a riconoscere la possibilità che questi interessi possano coincidere su alcuni punti.
L’arte del negoziatore consiste nel determinare qual sia quest’area di convergenza, e di portarne a
conoscenza le parti, utilizzando il ragionamento e la persuasione.

3.3 INFORMAZIONE

Per quanto riguarda la funzione di raccolta e valutazione delle informazioni sui Paesi stranieri, il
diplomatico è solo uno dei molti attori impegnati in questo compito. Tuttavia, possiede una
competenza unica nella raccolta di un particolare tipo di informazioni, quelle relative alle opinioni
e agli orientamenti delle politiche della classe dirigente di un Paese, occupandosi delle personalità
che compongono i governi esteri, delle alleanze e delle rivalità, degli alti e dei bassi delle loro
fortune politiche.

3.4 MINIMIZZARE LE FRIZIONI

Anche il compito di attenuare gli attriti nelle relazioni internazionali, in linea di principio, può
essere svolto senza far ricorso alle istituzioni diplomatiche moderne, ma la professione
diplomatica nel corso del tempo, ha cercato di adattarsi a questo ruolo e di incorporare tradizioni
e convenzioni che la dotano di un’abilità unica nello svolgimento di tale funzione.

3.5 FUNZIONE SIMBOLICA

La funzione di simbolizzare l’esistenza della società degli Stati, e al di là di essa, e di rappresentare


l’elemento di unità dell’organizzazione politica dell’umanità, non spetta solo alle istituzioni
diplomatiche, ma anche alle organizzazioni internazionali a carattere universale. Il meccanismo
diplomatico ricopre in questo caso un ruolo, seppur di grande importanza, piuttosto simbolico.
Oggi, uno dei pochi elementi che indicano l’accettazione universale dell’idea della società
internazionale è rappresentato dalla straordinaria volontà espressa da Stati di ogni regione,

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cultura, convinzione politica e livello di sviluppo, di abbracciare procedure diplomatiche, spesso


arcaiche e incomprensibili, che nacquero in un’Europa appartenente a un’altra epoca.

CAPITOLO OTTO: La guerra e l’ordine internazionale

Qualcuno potrebbe sostenere che sia un’idea perversa considerare la guerra un’istituzione della
società degli Stati. Tuttavia, se intesa nel senso di un modello stabilito di comportamento,
orientato alla promozione di scopi comuni, non c’è dubbio che in passato abbia raggiunto una
valenza istituzionale, e così anche oggi.

1. LA GUERRA

La guerra è un atto di violenza organizzata perpetrato da unità politiche nei confronti di altre unità
politiche; tant’è che la violenza non può essere detta guerra se non è appunto realizzata in nome
di un’unita politica. Ciò che distingue l’uccisione in guerra dall’assassinio è il suo carattere delegato
e ufficiale, ovvero la responsabilità simbolica dell’unità politica di cui l’uccisore è un’agente. La
violenza impiegata dagli Stati nell’esecuzione dei criminali o nella lotta ai pirati non si qualifica
come guerra, poiché è diretta contro individui. È opportuno effettuare una distinzione tra guerra
nel senso ampio di violenza organizzata che può essere esercitata da qualunque unità politica,
come tribù, principati feudali o fazioni civili moderne, e guerra nel senso specifico di conflitto
interstatale o internazionale, ovvero di violenza organizzata esercitata da Stati sovrani. All’interno
del sistema degli Stati moderni solo la guerra in senso stretto, quella internazionale, è stata
considerata come legittima; gli Stati sovrani hanno così cercato di conservare a se stessi il
monopolio dell’uso legittimo della violenza. Questo processo si è svolto in due fasi:

1) si è creata una distinzione tra la guerra pubblica, ovvero quella condotta sulla base
dell’autorità di un organismo pubblico, e la guerra privata, la quale si svolge in assenza di
questa autorità;
2) si è affermata l’idea che lo Stato fosse il solo organo pubblico competente a conferire una
tale autorità.

Lo sviluppo del concetto moderno di guerra come violenza organizzata tra Stati sovrani è stato
per tanto, il risultato di un processo di limitazione e di contenimento della violenza.

Un’altra distinzione è tra guerra in senso materiale, che riguarda i concreti atti di ostilità, e
guerra in senso legalo o normativo riguardante invece uno stato di cose astratto, che si verifica
rispettando certi criteri legali o normativi appunto, come per esempio il fatto che debba essere
dichiarata o riconosciuta da un’autorità competente.

L’ultima distinzione riguarda la guerra come attività razionale, intelligente o intenzionale e la


guerra in quanto fenomeno cieco, impulsivo, irriflessivo. Tuttavia, la guerra molto spesso non è
uno strumento di progetti intelligenti e razionali.

2. LA GUERRA NEL SISTEMA DEGLI STATI MODERNI

Le funzioni della guerra nel sistema storico degli Stati moderni possono essere considerate da tre
differenti prospettive:

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1) quella dei singoli Stati, in cui la guerra appare come uno strumento di politica estera, uno
dei mezzi grazie a cui i suoi obiettivi possono essere raggiunti, anche se, l’esperienza bellica
trasforma così profondamente gli Stati belligeranti e gli obiettivi che si erano prefissati, che
i motivi originari per cui essa era stata intrapresa si perdono di vista;
2) quella del sistema degli Stati, per la quale la guerra viene considerata come una
determinante fondamentale della forma che il sistema assume in ogni specifico momento.
È proprio la guerra che contribuisce a stabilire se certi Stati sopravvivono o sono eliminati,
se le loro popolazioni sono governate da un regime piuttosto che da un altro, se esiste un
equilibrio di potenza nel sistema internazionale o se uno Stato diviene predomionante;
3) quella della società degli Stati, ovvero dei valori, delle norme e delle istituzioni comuni
accettate dal sistema degli Stati nel suo complesso, secondo cui la guerra ha un doppio
significato. Da una parte, è una manifestazione di disordine interno alla società
internazionale che porta con sé la minaccia della riduzione di questa stessa società in uno
stato di pura inimicizia o di guerra di tutti contro tutti. Di conseguenza, la società degli Stati
ha il compito di contenere e limitare la guerra, di tenerla dentro i confini delle norme
stabilita dalla stessa società internazionale. Dall’altra parte, in qualità di strumento della
politica statale e di determinante fondamentale della forma del sistema internazionale, è
un mezzo a cui la stessa società internazionale ha bisogno di ricorrere per raggiungere i
proprio obiettivi.

La società internazionale è costretta a limitare il diritto degli Stati di far ricorso alla guerra e questo
tentativo si è espresso in quattro modi diversi:

Innanzitutto, riserva il diritto alla guerra agli Stati sovrani.

In secondo luogo, cerca di imporre limiti al modo in cui la guerra è condotta.

In terzo luogo, ha provato a contenere l’estensione geografica dei conflitti attraverso le leggi della
neutralità, stabilendo i diritti e i doveri reciproci dei Paesi neutrali e dei Paesi belligeranti.

Infine, ha tentato di limitare le ragioni o le cause per cui uno Stato possa legittimamente far
ricorso alla guerra.

Tuttavia, la società internazionale, ha cercato allo stesso tempo di assegnare a un certo tipo di
guerra, un ruolo positivo nel mantenimento dell’ordine internazionale.

In primo luogo, la guerra è stata considerata un possibile mezzo di attuazione del diritto
internazionale. Al suo livello massimo la concezione si estende anche alla guerra condotta in nome
di una vittima da parte di Stati terzi i cui diritti siano stati lesi, e della guerra fatta in difesa non solo
dell’integrità territoriale, ma di una vasta gamma di diritti legali.

In secondo luogo, la società internazionale ha visto nella guerra un mezzo di mantenimento


dell’equilibrio di potenza, cioè quella situazione in cui nessuno Stato è predominante ed è in
condizione di dettare legge agli altri.

In terzo luogo, il più incerto, è possibile affermare che la società internazionale nel suo insieme
abbia talvolta guardato positivamente al conflitto, nel momento in cui sia combattuto non in nome
dell’ordine legale internazionale, ma al fine di realizzare un giusto cambiamento.

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3. LA GUERRA OGGI SARA

L’opinione secondo cui la guerra non è più capace di svolgere le funzioni che abbiamo appena
sopra delineato si fonda principalmente sulla convinzione che, data l’esistenza delle armi nucleari,
la forza sia diventata politicamente inutilizzabile nel contesto interstatale. Per questo motivo, dal
punto di vista del singolo stato, la guerra non costituisce più la prosecuzione della politica con altri
mezzi, ma ne rappresenti la crisi, il fallimento. La forza e la minaccia della forza non sarebbero più
le determinanti fondamentali del carattere e della forma del sistema internazionale, o, in ogni
caso, cesserebbero di esserlo qualora le armi nucleari divenissero accessibili a tutti gli stati.

È vero che una guerra combattuta senza restrizioni e senza limiti da parte di stati dotati di armi
nucleari e di altre tecnologie militari avanzate non può servire come strumento di politica estera,
almeno nel senso in cui questa fase è stata compresa nella moderna esperienza europea. Una tale
guerra porterebbe senza dubbio al collasso, se non all’annientamento, non solo della società
ritenuta nemica, ma della stessa società che dovesse decidere di dare vita al conflitto. Da questo
però non segue che la guerra e la minaccia della guerra siano private di qualsiasi utilità politica.

In primo luogo, la maggior parte dei conflitti internazionali non coinvolge direttamente le potenze
nucleari. Solo 6 paesi su circa 140 stati hanno fino a ora condotto esperimenti nucleari. Nel caso di
conflitti tra stati non dotati di armi nucleari la guerra e la minaccia della guerra continuano ad
avere un ruolo politico. In guerre come queste il corso degli eventi è particolarmente condizionato
dalla presenza dello sfondo delle armi nucleari. Ogni volta che scoppia un conflitto armato tra stati
sovrani, si registra in tutto il mondo un senso di allarme derivante dalla paura della guerra
nucleare.

In secondo luogo, se una potenza nucleare è direttamente coinvolta in un conflitto internazionale,


il suo avversario può essere rappresentato da un paese che non dispone di questa tecnologia. Si
ritiene spesso che in un conflitto tra una potenza nucleare e una non-nucleare il ricorso
all’arsenale atomico comporti un costo politico e morale sproporzionato rispetto ai fini che ci si
propone.

In terzo luogo, anche quando armi nucleari sano disponibili per entrambe le parti in causa in un
conflitto internazionale, e la prospettiva della distruzione reciproca sia immediatamente presente,
le possibilità di uno sfruttamento politico della forza sono considerevoli. Questo è un punto
cruciale, poiché significa che la persistente utilità politica della forza nell’era nucleare non è
semplicemente una caratteristica dell’attuale imperfetta distribuzione delle armi atomiche tra le
varie potenze del mondo, ma potrebbe essere mantenuta anche qualora queste armi divenissero
generalmente accessibili. Le potenze nucleari coinvolte in un conflitto contro altre potenze
nucleari non si trovano necessariamente in un a condizione mutua deterrenza o di stallo. Per
raggiungere questa condizione devono essere soddisfatti un certo numero di presupposti, tra i
quali solo uno è quello del possesso di armi atomiche da parte di entrambi i contendenti.Ciascuna
delle parti deve avere una forza nucleare capace di sopravvivere a un primo attacco da parte
dell’avversario, e di penetrare fino a raggiungere i propri obiettivi con un sufficiente effetto
distruttivo. Ciascuna delle parti deve credere che l’altra possieda sia la capacità sia la volontà di
produrre un danno, e che la prospettiva di questo eventuale danno sarebbe inaccettabile.

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Dove c’è una relazione di mutua deterrenza fondamentalmente stabile come tra Stati Uniti e
Unione Sovietica oggi, lo sfruttamento della forza per obbiettivi di politica estera è estremamente
circoscritto. Ma in linea di principio esistono due vie di uscita.

La prima è l’uso limitato della forza. Fino ad oggi gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica hanno del tutto
evitato di essere direttamente coinvolte in uno scontro. La paura di un’estensione del conflitto a
livello di una guerra nucleare incontrollata ha di fatto dissuaso le due potenze dal sottoporre la
teoria della guerra limitata alla prova di una verifica diretta.

L’altra via d’uscita disponibile a potenze nucleari contendenti che si trovano in una situazione di
stallo, ma comunque alla ricerca di mezzi che consentano lo sfruttamento politico della forza, è
minacciare l’uso.

Il numero degli obbiettivi politici che la guerra può conseguire è diventato più basso mentre il
costo di un ricorso ad essa si è fatto sempre più alto. Un conflitto, anche senza l’uso delle armi
nucleari, potrebbe comportare distruzione materiale, disastro politico, economico e sociale tali
che l’opzione bellica è divenuta quasi impensabile a meno che non si tratti di una guerra molto
limitata e combattuta ben oltre il territorio dello stesso stato. La guerra, in primo luogo, è stata
combattuta per un guadagno economico e in secondo luogo le guerre sono state combattute per
ragioni di sicurezza, per confrontare o rimuovere minacce esterne all’integrità dello stato. È stata
anche combattuta per la promozione di obbiettivi ideologici, per espandere e affermare una fede
politica o religiosa. Oggi molti dubitano apertamente del fatto che una guerra possa davvero far
conseguire un guadagno economico attraverso la conquista territoriale. Le guerre sono ancora
combattute per promuovere obbiettivi ideologici. È difficile comunque oggi che un paese entri in
guerra per difendere con la spada una fede presso una popolazione straniera. In sostanza, gli stati
oggi sono riluttanti a imbarcarsi in un’ impresa bellica se non per cogliere obiettivi di sicurezza. La
sicurezza può includere la protezione delle risorse economiche possedute. Un obbiettivo di
sicurezza può anche essere quello di garantirsi la presenza di governi stranieri la cui politica è
congeniale alla propria ideologia. Attualmente, comunque, sembrerebbe che solo considerazioni
legate a motivi di sicurezza siano in grado di indurre il governo di uno stato a concludere che la
scelta della guerra valga i costi che comporta.

Dal punto di vista del sistema internazionale la guerra rimane una determinate fondamentale della
forma del sistema stesso. Ma tra le grandi potenze nucleari è la minaccia della guerra piuttosto
che la guerra stessa, a determinare e relazioni.

Tre cambiamenti rispetto al sistema internazionale precedente al 1945 sono degni di nota.

In primo luogo, laddove le forze armate di Stati Uniti e Unione Sovietica sono entrate in conflitto
diretto, come per più di tre decenni è avvenuto nell’Europa centrale, una guerra vera e propria,
come risoluzione dei contrasti non si è verificata. Hanno assunto la forma di un elaborato sistema
di minacce.

In secondo luogo, mentre la guerra al di fuori dell’ambito delle relazioni dirette tra le grandi
potenze nucleari gioca un ruolo ancor maggiore nella storia internazionale di quello che aveva
coperto in passato, esiste una clausola per cui se le grandi potenze nucleari decidono di
appoggiare gli opposti settori di un conflitto locale, cercheranno di controllarlo in maniera tale che

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le regole di fondo delle loro relazioni siano rispettate. La guerra potrebbe assumere di nuovo la
sua funzione storica “normale” di condurre queste dispute ad una conclusione favorevole a una
parte o all’altra solo se una o entrambe le superpotenze decidessero d disimpegnarsi.

In terzo luogo, gli ostacoli che si pongono sulla strada del ricorso alla guerra tra gli stati sovrani
hanno incoraggiato tendenze che favoriscono il ricorso alla guerra o alla violenza al loro interno. La
guerra internazionale, come determinante della configurazione del sistema internazionale, ha
perso posizioni rispetto alla guerra civile. La violenza civile oggi così estesa in molti paesi non esiste
indipendentemente dai meccanismi del sistema internazionale le guerre civili sono
internazionalizzate in virtù degli interventi degli stati esterni.

Dal punto di vista della società internazionale la guerra mantiene il suo doppio aspetto: da una
parte quello della minaccia da limitare e contenere; dall’altra quello di uno strumento da collegare
strettamente agli obbiettivi della stessa società internazionale. Tuttavia è la prima di queste forme
che oggi è dominante. L’equilibrio di potenza resta una condizione essenziale dell’esistenza del
sistema degli stati, e ad essa contribuiscono anche le guerre limitate che influenzano la
distribuzione della potenza tra grandi stati del sistema. In questa relazione di deterrenza
reciproca,la guerra illimitata non può svolgere nessun ruolo positivo, ma può solo rappresentare
un collasso del sistema.

MICHELE Capitolo 9 – Le grandi potenze e l’ordine internazionale

In questo capitolo si risponderà alle domande: che cosa sono le grandi potenze? Quale ruolo recitano le
grandi potenze in relazione all’ordine internazionale generale e attuale?

1. Le grandi potenze

Quando si parla di grandi potenze si intende riferirsi a tre realtà:

1) Intendiamo due o più potenze paragonabili dal punto di vista dello status: da notare è che non ci
può essere solo una grande potenza. Se gli US fossero l’unica grande potenza dominante sulla
scena mondiale non potremmo più chiamarli “grande potenza”.
2) Quando parliamo di grandi potenze, implichiamo che queste dispongano di una forza militare di
primo rango: tutte le grandi potenze sono equiparabili dal punto di vista militare e non esiste una
classe di potenze superiore ad esse. In ultima analisi, non c’è ragione per ritenere una paese come il
Giappone una grande potenza senza che esso abbia affrontato i passi necessari per raggiungere i
più alti livelli anche nel settore militare: lo status di grande potenza dal punto di vista militare può
essere considerato raggiunto quando uno stato è in grado di difendersi da solo da tutti gli altri,
anche nel caso che tutti si coalizzino contro di lui – Stati Uniti e Unione Sovietica possono difendere
la propria sicurezza senza alleati e contro qualsiasi aggressore. Da non confondere con le grandi
potenze in questi termini sono tutte quelle piccole o medie potenze non allineate che sono in grado
di provvedere alla propria sicurezza senza una struttura di alleanze: tale capacità è condizionata
non dalla capacità militare fuori dal comune delle stesse piccole o medie potenze, ma piuttosto dal
mantenimento dell’equilibrio generale di potenza nel sistema internazionale da parte di stati
diversi da loro.
3) Le grandi potenze sono riconosciute dalla comunità internazionale, dalla propria classe politica e
dalla propria popolazione come detentori di particolari diritti e doveri nei confronti della società
internazionale stessa, come il diritto ad influenzare pesantemente la pace e la sicurezza dell’intero
sistema internazionale, o il dovere di modificare le proprie politiche alla luce delle responsabilità
che hanno nella direzione dello stesso sistema: la Francia di Napoleone o la Germania di Hitler

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erano sì potenze militari di primordine, ma dal momento che la propria classe politica e la società
internazionale non li considerava detentori di particolari diritti e doveri nei confronti del sistema
stesso, essi non possono essere considerati alla stregua di grandi potenze.

Chi sono allora oggi (considerare, da qui in avanti e per le parti precedenti, che il libro è stato scritto nel
1977) le grandi potenze? Analizziamo il contesto odierno facendo riferimento ai tre criteri appena descritti.

1) Considerando il primo criterio US, URSS e Cina sono potenze che hanno un’importanza grosso
modo simile nella politica mondiale, riconoscendosi reciprocamente e in generale essendo
riconosciute dalla più ampia società internazionale come detentrici di una comune preminenza: lo
status o l’importanza di queste grandi potenze, in concreto, può essere riconosciuto nell’attenzione
che altri paesi ripongono nelle scelte di politica estera e militare delle stesse grandi potenze citate.
2) Quanto al secondo criterio, sembra che la Cina debba essere esclusa dal trittico prima delineato a
causa della sua arretratezza in campo di forza militare di primo rango: essa può essere considerata
una grande potenza solo su scala regionale.
3) Affrontando il terzo criterio, vediamo una comparazione fra retorica ufficiale degli stati (come loro
nei propri discorsi e atti si autodefiniscono) e evidenza pratica (cosa le loro azioni fanno trasparire
in realtà nella prassi):

US. Nella retorica ufficiale, all’idea di società internazionale e di diritti e doveri particolari è
accordata un’importanza preminente; né si può dubitare, nella prassi, che la gran parte
della stessa comunità internazionale attribuisca agli Stati Uniti tale preminenza.

URSS. Nella retorica ufficiale, queste idee vengono subordinate alla concezione di sé come il
centro della rivoluzione globale. Nella prassi, invece, traspare chiaramente una
consapevolezza del proprio ruolo predominante come grande potenza nello scenario
internazionale, con l’attribuzione di diritti e doveri particolari (come il ruolo all’interno
dell’ONU, o nelle negoziazioni per il disarmo nucleare) da parte della propria classe
dirigente e della stessa comunità internazionale.

Cina. La retorica ufficiale nega esplicitamente l’appartenenza al “club” delle grandi potenze,
presentando il paese invece come il campione dei Paesi del Terzo Mondo nella lotta contro
l’egemonia delle due superpotenze. La pratica, invece, smentisce la retorica: la deterrenza
nucleare, l’appartenenza permanente al Consiglio di Sicurezza delle UN, le donazioni
all’estero, …, la fanno apparire niente meno che una grande potenza.

2. Il ruolo delle grandi potenze

Il contributo delle grandi potenze all’ordine internazionale deriva semplicemente dalla disparità di potere
tra gli stati che costituiscono il sistema internazionale: se tutti gli stati detenessero la stessa quota di
potere, presenterebbero le proprie istanze con lo stesso vigore e difficilmente le controversie che ne
nascerebbero potrebbero essere risolte. Le richieste degli stati forti sono riconosciute come le uniche
rilevanti: la disuguaglianza di potere ha l’effetto di semplificare il modello delle relazioni internazionali –
con la conseguenza che lo studioso sarà facilitato nella propria opera in quanto potrà identificare nelle
relazioni fra grandi potenze lo scheletro essenziale della politica internazionale.

Inoltre, le grandi potenze possono svolgere un ruolo importante nella promozione dell’ordine
internazionale (tenendo sempre ben presente che questa è una definizione di ciò che le grandi potenze
possono fare, considerano quindi anche l’eventualità non rara di un comportamento irrazionale che genera
disordine), questo in primis gestendo le proprie relazioni reciproche nell’interesse dell’ordine

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internazionale – esattamente ciò che fa sì che gli altri paesi accettino il ruolo preponderante delle grandi
potenze, riconoscendo loro i diritti e doveri particolari di cui abbiamo discusso prima – tramite:

1) una preservazione dell’equilibrio generale tramite le proprie azioni intraprese per difenderlo,
misure prevalentemente negoziali, che quindi comprendono anche le misure di collaborazione [vd.
Capitolo 5]. È bene tenere a mente che ciò non implica che esisteranno necessariamente relazioni
pacifiche fra le grandi potenze.
2) la prevenzione e controllo delle crisi, azioni dunque finalizzate ad evitare il rischio di una guerra o a
controllarla qualora si verifichi. Importante è notare la differenza radicale fra questa categoria che
stiamo analizzando e la crisis management, la seconda improntata ad una gestione di crisi in
un’ottica di trionfo diplomatico (vd. Kennedy nella gestione della Crisi di Cuba del 1962: si evita la
guerra e si passa alla storia riportando una vittoria diplomatica senza precedenti); la prima relativa
alle misure che possono essere messe in atto nel perseguimento di interessi comuni dell’impedire
una crisi che potrebbe comportare l’eventualità di una guerra.
È bene tenere a mente che non sempre (e anzi raramente) le grandi potenze cercano di evitare le
crisi: sono frequenti i casi di crisi deliberatamente costruite dalle grandi potenze in un’ottica di
vittoria diplomatica.
Inoltre, sarebbe erroneo ritenere che le crisi siano sempre negative per l’ordine internazionale.
La gestione e controllo delle crisi ha un riflesso anche nelle relazioni dirette tra le grandi potenze:
ad esempio, durante il predominio americano e sovietico delle questioni internazionali, non erano
rari i casi in cui uno o l’altro cercassero di evitare lo scoppio di crisi evitando unilateralmente di
intervenire all’interno della sfera di influenza dell’altro – quando era chiaro che l’intervento di uno
avrebbe causato l’intervento conseguente dell’altro –, cercando anche di evitare l’entrata in
conflitto diretto delle proprie forze armate e definendo anche un regime di contenimento degli
alleati – rispettivamente con la NATO e il Patto di Varsavia – per evitare che conflitti regionali
potessero portare ad un’escalation a livello mondiale e, peggio, nucleare; è altrettanto chiaro che le
due potenze nei confronti diplomatici diretti abbiano talvolta agito con studiata cautela e auto-
limitazione cercando di concedersi reciprocamente una via d’uscita che non facesse troppo perdere
loro la faccia; il concetto di azione congiunta copre, infine, un certo spettro di possibilità.
Si può addirittura sostenere che le due potenze, nei propri confronti diplomatici, abbiano stabilito
delle regole operative, o regole del gioco che li assistessero nella prevenzione delle crisi che
potessero mettere in pericolo la pace fra loro: ciò non significa che le classi dirigenti ne fossero al
corrente o che fossero d’accordo; e non significa nemmeno che sia semplice identificarne il
contenuto.
3) il contenimento della guerra, ivi comprendendo anche misure atte ad evitarla: un ruolo stabile
delle grandi potenze in relazione all’ordine internazionale. Queste misure comprendono tutto ciò di
cui al punto precedente, ma anche le pratiche volte ad impedire una guerra per errore o
incomprensione (vd. Capitolo 6, cd. “frizione”), a risolvere o contenere le dispute politiche fra le
grandi potenze per mezzo del negoziato, a controllare la competizione militare, a prevenire o
contenere a livello regionale guerre tra potenze minori che potrebbero portare ad un’escalation
globale. Le strategie facenti capo a questo criterio comprendono la preservazione della distinzione
fra conflitti convenzionali e conflitti nucleari; il mantenimento nel corso della guerra di efficaci
canali di comunicazione fra le grandi potenze; il mantenimento del controllo effettivo delle forze
militari in modo da evitare il pericolo di un’espansione non intenzionale della guerra. Queste
strategie possono avere forma unilaterale o possono far parte delle regole operative citate prima.

In secundis, sfruttando la propria posizione di preponderanza nei confronti del resto della società
internazionale tramite:

4) l’esercizio unilaterale del predominio locale, ovvero il predominio politico su alcune aree del
mondo. Questo sfruttamento può assumere generalmente tre forme:

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i. il dominio si caratterizza per l’uso abituale della forza da parte di una grande potenza nei
confronti degli stati minori che formano il suo contesto politico, e per l’abituale rifiuto di
norme universali di comportamento interstatale che conferiscono diritti di sovranità,
uguaglianza e indipendenza degli stessi stati. Il dominio della grande potenza si è espresso
nell’abituale intervento militare negli affari interni e nelle relazioni esterne degli stati locali,
inclusa l’occupazione militare prolungata. La grande potenza tratta i piccoli stati o quasi-
stati della propria sfera di influenza come fossero meri sudditi a lei sottoposti.
Un buon esempio a questo proposito è l’atteggiamento europeo in epoca coloniale nei
confronti del resto del mondo. Nella politica contemporanea è difficile trovare un esempio
di questo tipo di esercizio unilaterale del predominio politico locale, avendo questo
cessato, nella forma del dominio, di essere una forma accettabile dell’esercizio del potere
da parte delle grandi potenze.
ii. all’estremo opposto vi è il primato, che consiste in una preponderanza di una grande
potenza acquisita senza nessun ricorso alla forza o alla minaccia della forza, e con un grado
di rifiuto delle norme universali di sovranità, uguaglianza e indipendenza che non sia
maggiore dell’ordinario. La posizione di primato è liberamente concessa dagli stati minori e
spesso costituisce un riconoscimento da parte di questi nei confronti del contributo
enorme che la grande potenza è in grado di portare al raggiungimento di scopi comuni.
Una caratteristica importante è che il primato abbia luogo all’interno di un gruppo di paesi
le cui popolazioni tendenzialmente rivelano alcuni segni distintivi di un’unica comunità
politica.
Un buon esempio è quello degli Stati Uniti all’interno della NATO per quanto riguarda la
dipendenza degli stati dell’occidente (compreso il Canada) dall’apporto militare difensivo
offerto dai primi.
iii. a metà strada vi è l’egemonia, consistente nel persistere del ricorso alla forza e nella
minaccia di usarla, anche se non in maniera abituale e incontrollata, ma occasionale e
riluttante: l’uso o la minaccia della forza sono risorse impiegate in situazioni estreme vista
la chiara percezione che l’impiego di queste comporterebbe alti costi politici. La grande
potenza, anche se preparata a violare i diritti di sovranità, uguaglianza e indipendenza degli
stati minori, non li rifiuta in linea di principio e ne giustifica la violazione con l’appello a
qualche specifico principio di ordine superiore: questi sono motivi per cui l’egemonia è
stata definita come un “imperialismo dalle buone maniere”.
Una condizione egemonica è quella che contraddistingue le relazioni fra URSS e Europa
orientale (cd. “Dottrina Brezhnev”, 1968): da notare è che i casi in cui la prima è ricorsa
all’uso della forza – in Ungheria nel 1956 e in Cecoslovacchia nel 1968 – ciò ha comportato
costi politici molto elevati; inoltre è importate rilevare come per l’egemone sia preferibile e
maggiormente tollerabile una concessione di rottura del sistema-blocco, come nel caso
jugoslavo.
Altro esempio è quello che lega i rapporti fra US e paesi dell’America centrale e caraibica,
con il classico esempio di preferenza rivolta ad una rottura del sistema (Cuba, 1962)
piuttosto che affrontare gli incommensurabili costi politici di un attacco diretto militare sul
suolo cubano.
In entrambi i casi, posto che vi sono, com’è ovvio, differenze nei due atteggiamenti, è
importante rivelare come tutt’e due abbiano perseguito la legittimazione dell’intervento
attraverso un’ideologia facente capo ai criteri di pace e sicurezza invece che fare
affidamento sulle ispirazioni dottrinarie.
Entrambe le egemonie, in ultima analisi, offrono una soluzione di ordine: le potenze minori
di ciascuna area non possono prevedere il ricorso alla forza nella gestione dei loro rapporti,
né i loro governi possono essere rovesciati, se non attraverso l’autorizzazione della potenza

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egemone; le dispute territoriali non sono semplicemente tenute sotto controllo, ma viene
impedito loro preventivamente di raggiungere la superficie dell’attività politica
consapevole. Tutto ciò, ovvero l’imposizione unilaterale della conformità ad alcune regole,
sarà gioco forza percepito come ingiusto, ma nondimeno produrrà ordine.
5) le sfere di influenza, interesse e responsabilità, il cui scopo principale è confermare le grandi
potenze nelle rispettive posizioni di predominio locale evitando collisioni e frizioni fra loro. LINDLEY
ha individuato tre tipi di accordo che possono sorgere fra due o più grandi potenze:
i. il primo tipo è fra potenze coloniali che si riconoscono reciprocamente un diritto esclusivo
in aree risultanti territorium nullius o abitate da gruppi non identificabili come stati sovrani:
la tipica intesa sulle sfere di influenza che accompagnò l’espansione coloniale europea in
Africa e Oceania.
Quando si parla di grandi potenze, non è detto che gli accordi siano espliciti, ovvero di
diritto, ma sono spesso e volentieri di fatto: queste possono arrivare a considerarsi
detentrici di diritti conferiti da regole operative, o del gioco – regole del gioco che se
rispettate, danno origine da entrambe le parti ad aspettative stabili e implicano un mutuo
riconoscimento di diritti: esattamente quello che accade oggi fra US e URSS.
Inoltre, si può parlare di accordo che conferisce diritti specifici e limitati e invece uno in cui
viene concessa la “mano libera”, implicante quest’ultimo nella volontà da parte di ciascuna
potenza di disinteressarsi completamente a ciò che l’altro compie nella sua sfera: un
classico esempio può essere quello che fa riferimento alla “mano libera” concessa dalla
Gran Bretagna alla Francia in Marocco corrisposto dalla “mano libera” concessa dalla
Francia alla Gran Bretagna in Egitto. Oggi, fra US e URSS esistono solo accordi che
conferiscono diritti specifici e limitati, con il riconoscimento di fatto dell’esistenza di zone di
influenza di una e dell’altra potenza egemone pur senza disinteressarsi completamente agli
affari di quell’area.
Va tenuta presente anche una distinzione fra accordi negativi e positivi: i primi riguardano il
tentativo di ciascuna potenza all’esclusione delle altre dalla propria sfera di operazioni,
spingendole a riconoscere il loro désintéressement; i secondi, invece, stabiliscono una
divisione del lavoro fra le parti nell’esecuzione di un obiettivo comune, stabilendo quindi
una sfera di responsabilità.
Un chiaro esempio del secondo tipo di accordo è quello concluso fra le quattro potenze
Francia, US, UK e URSS sull’occupazione post-bellica della Germania sconfitta, dove in
ciascuna regione di influenza la potenza ivi competente si faceva carico della sua parte di
responsabilità nell’esecuzione di una politica comune. Oggi, più che altro, fra le due
potenze egemoni vigono accordi negativi, pur collaborando per il raggiungimento di
obiettivi comuni – anche in questi casi, tuttavia, è difficile individuare un chiaro
delineamento di sfere di responsabilità.

Proprio l’informalità e il carattere tacito degli accordi fra le due potenze egemoni crea
elementi di vaghezza e imprecisione che rischiano di portare a tensioni: gli obblighi della
NATO e del Patto di Varsavia che impegnano le superpotenze alla difesa delle aree
interessate forniscono la base per queste intese, esprimendo soprattutto il carattere
negativo di questi accordi informali.
È bene tenere presente che queste intese sulle sfere di influenza sono stabilite, e i loro
termini eventualmente alterati (come nel caso dell’azione sovietica durante la Crisi cubana
del 1962), non dalla discussione e dal negoziato, ma dalla lotta e dalla competizione.

ii. il secondo tipo è stabilito da potenze coloniali riguardo al territorio di un qualche stato
terzo, assegnato in tutto o in parte alla sfera esclusiva di una sola potenza coloniale,

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generalmente destinato allo sfruttamento economico: la tipica intesa sulle sfere di


interesse del periodo di espansione europea in Asia.
iii. il terzo tipo di accordo è fra una potenza coloniale e uno stato locale, in cui quest’ultimo
accetta di non cedere territorio o di non fare altre concessioni a nessuno stato terzo.
6) il concerto o condominio delle grandi potenze, basato sull’accordo sull’unione delle proprie forze
nella promozione di politiche comuni all’interno del sistema internazionale nel suo complesso.
Di fatto, la struttura delle intese fra US e URSS non può essere descritta in questi termini: è vero
che, soprattutto in un’ottica di controllo della diffusione di armi nucleari oltre che di ostacolo
all’emersione di nuove potenze, le due superpotenze riconoscono interessi condivisi, ma in ogni
caso non c’è mai stato nessun tentativo di formalizzare un concerto sovietico-americano. Anzi, è da
registrare un cambiamento significativo nella politica estera degli Stati Uniti negli anni ’60, volta al
progetto di edificazione di un sistema formato da tre o, possibilmente, da quattro grandi potenze.

3. Le grandi potenze oggi

Oggi, almeno in qualche misura, Stati Uniti e Unione Sovietica svolgono le sei funzioni appena analizzate, e
di conseguenza contribuiscono a sostenere un ordine di un certo tipo: questo, come si è avuto modo di
accennare, da parte di alcune potenze del Terzo Mondo e di potenze minori, è percepito come un ordine
ingiusto. Se un ordine esiste è uno nel quale le grandi potenze, agendo per il suo mantenimento, ripongono
uno speciale interesse e nella stessa opera di preservazione dello status quo garantiscono a se stesse
particolari privilegi: ciò tuttavia non significa che sia intollerabile, poiché, di fatto, l’ordine internazionale
così com’è gode di ampio consenso. Comunque, il problema principale delle grandi potenze è quello di
confermare e assicurare il consenso da parte degli altri stati per il ruolo speciale che si trovano a ricoprire,
potendo loro svolgere il suddetto ruolo solo se queste funzioni sono accettate abbastanza chiaramente da
una porzione della società internazionale abbastanza vasta da garantirne la legittimità.

Le grandi potenze, quindi mettono in pratica alcune condizioni in base alle quali possono cercare di
legittimare il proprio ruolo:

 esse non possono formalizzare e rendere integralmente esplicita la loro posizione speciale, poiché la
società internazionale, da Westphalia, ripudia qualunque ordine gerarchico esplicito degli stati:
rendere espliciti i diritti e i doveri delle grandi potenze significherebbe generare un antagonismo
maggiore di quello che lo stesso ordine internazionale possa sopportare;
 esse devono evitare di rendersi responsabili della creazione di grosse fonti di disordine, in quanto la
stessa legittimità delle grandi potenze per quanto riguarda la loro posizione predominante
ricoperta nel sistema dipende direttamente dall’ordine che queste possono generare insieme alla
giustizia che esse possono assicurare;
 esse devono cercare di soddisfare alcune delle domande di giusto cambiamento espresse nel
mondo, come le domande di giustizia economica da parte dei paesi poveri, quelle di giustizia
nucleare espresse dalle potenze non-nucleari, quelle di giustizia razziale e così via: questo tipo di
richieste devono essere affrontate con almeno un grado di disponibilità, per evitare di alienarsi
tanti segmenti della società internazionale, poiché la sua libertà di manovra è limitata dalla
responsabilità nei confronti del sistema;
 esse, nelle parti del mondo dove la posizione politica delle grandi potenze è limitata da alcune
potenze secondarie di grande peso, le prime dovrebbero cercare di lasciare spazio a queste ultime
invitandole a collaborare nella gestione dell’equilibrio regionale interessato: uno dei mezzi con cui
le grandi potenze possono tentare di legittimare il loro ruolo è la cooptazione delle più importanti
potenze secondarie che per definizione sono le loro maggiori rivali potenziali.

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PARTE TERZA – LE STRADE ALTERNATIVE VERSO L’ORDINE MONDIALE

Capitolo 10 – Le alternative al sistema degli stati contemporaneo

Dobbiamo iniziare la ricerca verso le vie alternative dell’ordine mondiale con una domanda fondamentale:
quali forme di organizzazione politica universale alternative all’attuale sistema degli stati ci sono? Nel
rispondere a questa domanda dobbiamo tenere sempre presente le tre caratteristiche essenziali del
sistema degli stati: una pluralità di stati sovrani; un certo grado di interazione fra loro; un certo grado di
accettazione di norme e istituzioni comuni.

1. Un mondo disarmato

Innanzitutto, possiamo concepire dei cambiamenti abbastanza radicali nell’attuale struttura politica del
mondo, che rappresenterebbero semplicemente una transizione da una fase ad un’altra del sistema degli
Stati, senza causarne il superamento.

1) Un primo cambiamento potrebbe essere l’avvento di un mondo disarmato, un disarmo totale fatta
eccezione per quelle forze necessarie a garantire l’ordine interno ai singoli stati. Questo non
comporterebbe la scomparsa del sistema degli stati dal momento che non implicherebbe di per sé
la fine dell’esistenza degli stati sovrani, anche dove questo sia accompagnato dalla previsione di
un’autorità mondiale in possesso della forza militare tout court – come nelle previsioni americane –
o sottoposta comunque al veto delle grandi potenze – come nelle previsioni, invece sovietiche.
Pro. L’argomento in favore di questa soluzione può assumere sia una forma forte, per la
quale il disarmo totale renderebbe la guerra materialmente impossibile, sia una forma
debole, secondo cui il massimo disarmo possibile potrebbe rendere la guerra
semplicemente meno probabile, in quanto un mondo in cui armi sofisticate e forme
avanzate di organizzazione e tecnica militare siano state abolite garantirebbe maggiore
sicurezza: i conflitti avrebbero minori probabilità di scoppiare, poiché non ci sarebbero
grandi apparati militari a esercitare pressioni in favore della guerra; ci sarebbe una minore
mobilità strategica; non esisterebbero sistemi capaci di generare la paura di un attacco a
sorpresa; una guerra mondiale, se scoppiasse, sarebbe decisamente meno catastrofica in
quanto sarebbe più lenta, meno costosa e comporterebbe un grado minore di distruzione
fisica e sconvolgimento economico.
Contro. L’obiezione al disarmo totale comprende il fatto che tutto ciò sia semplicemente
utopia: la capacità fisica della violenza organizzata è inerente alla società umana e non può
essere abolita per trattato. Tutto ciò che un trattato può fare è sanzionare delle tipologie di
guerra, non la guerra tout court, perché sia che il disarmo sia davvero totale o sia che
comunque vengano mantenute delle quote di armi sia per garantire la propria salvaguardia
sia da destinare alla autorità mondiale, sarebbe sempre possibile per gli stati condurre una
guerra ad un livello primitivo. Comunque, anche le forme più radicali di disarmo
lascerebbero ad alcuni stati maggiori capacità belliche di altri, dipendendo il potenziale
bellico di una nazione non solo dagli armamenti ma dall’intero complesso delle sue risorse
economiche, tecnologiche, demografiche, geopolitiche, ….

Comunque, la prospettiva di un mondo privo di armi è incompleta se non è accompagnata da un


approfondimento della questione circa la spiegazione delle norme e delle istituzioni in base a cui, al
suo interno, gli scopi elementari della vita sociale possono essere raggiunti. C’è prima di tutto la
questione di come garantire il più alto livello di disarmo possibile, una volta che si sia riusciti a
ottenerlo, conducendoci a considerare l’ipotesi di un sistema che individui le violazioni ed elabori

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sanzioni garantendo la sicurezza di chi invece tale accordo lo rispetta: la questione dell’ipotesi che
uno stato che violasse con successo le norme senza ricevere una sanzione adeguata in grado di
ripristinare lo status quo ante si ritroverebbe in una condizione predominante rispetto a tutti gli
altri ci porta a considerare come soluzione la costituzione e l’affermazione di un’autorità mondiale
dotata del predominio sulla forza militare. In secundis, vi è la centrale questione riguardo al modus
tramite il quale l’ordine internazionale, conquistato il disarmo, debba essere garantito, visto che,
come abbiamo osservato, un mondo disarmato è ancora un mondo in cui la possibilità della
violenza organizzata esiste. In ultimo, come comprendere il giusto cambiamento?

2) Un’altra possibile struttura politica del mondo sarebbe quella in cui l’Organizzazione delle Nazioni
unite, o un qualche organismo simile, anch’esso fondato sulla cooperazione degli stati sovrani su
base globale, divenisse la forza predominante della politica mondiale: si fa riferimento alla
solidarietà degli Stati, come previsto dalla realizzazione della dottrina groziana o solidarista
dell’ordine internazionale, la quale immagina che nonostante gli stati si oppongano alla creazione di
un Governo Mondiale, essi cerchino una soluzione alternativa al problema attraverso una stretta
collaborazione e una stretta aderenza ai principi costituzionali dell’ordine internazionale a cui
danno consenso – una solidarietà, almeno potenziale, della maggior parte degli stati per difendere
la volontà collettiva della società internazionale di fronte alle sfide che le sono portate in un’ottica
di realizzazione di un mondo più ordinato tramite la messa al bando dello strumento bellicoso per
motivi politici dei singoli stati. In altre parole, si promuove l’idea che la forza può essere usata
legittimamente solo per perseguire degli scopi della comunità internazionale: nel progetto di
Grozio, si agevolava il trionfo di quella o quelle parti che disponevano della “giusta causa” e che di
conseguenza agivano nel nome della comunità internazionale. La dottrina groziana (o neogroziana)
trovano affermazione nel Patto della Società delle Nazioni, prima, e nella Carta delle Nazioni Unite,
poi, previsioni che contemplano il divieto dell’uso della forza se non nei casi di legittima difesa e in
quelli in cui si rafforza il sistema di sicurezza collettiva in nome dell’organizzazione internazionale.
È bene notare che nella concreta realtà, un tal grado di solidarietà – alla base della dottrina
solidarista – non è mai esistito: nel XX secolo, i tentativi i applicazione della dottrina sono risultati in
insuccessi e nell’indebolimento stesso dei meccanismi classici di preservazione dell’ordine.

3) Un altro mutamento radicale sarebbe rappresentato dall’affermarsi di un mondo con molte


potenze nucleari, un’alternativa che interessa molto gli studiosi visto l’alta probabilità che ciò si
manifesti nella realtà a seguito del processo di proliferazione delle armi nucleari del quale siamo
testimoni. Un mondo tale sarebbe profondamente differente dall’attuale qualora siano presenti le
condizioni per le quali KAPLAN l’ha definito “unit veto system” (cd. Sistema a veto unitario) e BURNS
“sistema deterrente”: queste condizioni richiederebbero che le armi nucleari fossero, in primis, a
disposizione non solo di molti stati, ma se possibile di tutti o comunque tutti i gruppi o blocchi di
stati; inoltre, sarebbe necessario che questo possesso di armi nucleari comportasse la possibilità di
infliggere danni inaccettabili agli altri senza impedire che gli altri facciano altrettanto – quindi una
capacità di porre il veto sul ricorso deliberato e razionale alla guerra nucleare illimitata da parte di
ciascuno degli altri. In altre parole, il sistema a veto unitario consisterebbe in uno stato di natura
hobbesiano in cui gli interessi di tutti sono contrastanti, dove gli spostamenti e i riequilibri delle
alleanze sarebbero eliminati, dove non esisterebbero soggetti universali come le Nazioni Unite e il
quale sarebbe in alto grado non solidale, non integrato e caratterizzato da un’estrema tensione.
Ciononostante non si deve presumere che – come succede nel sistema di veto reciproco fra US e
URSS – tutto quello che è stato detto (nonostante questa parte riguardi mere speculazioni) non
possa invece avvenire.
Esiste un argomento che sostiene che più stati possiedano armi nucleari, maggiore stabilità sarà
garantita al sistema internazionale nel perseguimento dei fini di pace e sicurezza, dal momento che
significherebbe generalizzare il sistema di mutua deterrenza nucleare che ha contribuito a

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mantenere la pace durante la Guerra Fredda. L’argomento tuttavia sopravvaluta la stabilità della
relazione di mutua deterrenza: la guerra, innanzitutto, non sarebbe impossibile ma meramente
irrazionale; inoltre, è sbagliato assumere che la diffusione di armi nucleari avrebbe l’effetto
automatico di replicare le relazioni instauratesi fra US e URSS e generanti pace e stabilità,
generando in altre parole un sistema di veto unitario.
Esiste un argomento maggiormente serio che riguarda non tanto la diffusione delle armi nucleari,
quanto il fatto che l’obiettivo di giustizia internazionale intesa come uguaglianza possa essere
perseguito e conquistato solo tramite un disarmo totale o una deterrenza generale almeno per
quanto riguarda gli attori principali, siano essi stati o blocchi di stati.

4) Un’ulteriore alternativa sarebbe quella di un sistema di stati caratterizzato da omogeneità


ideologica, in contrapposizione con l’eterogeneità presente allo stato attuale: gli esponenti di
questa tesi, sostenendo che l’affermazione delle varie dottrine politiche all’interno del sistema
internazionale comporterebbe l’eliminazione o la riduzione delle fonti di guerra e conflitto
realizzando come conseguenza un ordine mondiale migliore, abbracciano l’ideale di una società
universale che sostituisca il sistema degli stati. È bene tenere presente che questa considerazione è
ben differente dalla dottrina groziana solidaristica, che assume che esisteranno sempre interessi
conflittuali fra gli stati e si propone di porre loro un freno tramite la forza sovrastante di una
comunità: la prospettiva dell’omogeneità ideologica ritiene, invece, che quando la “vera” ideologia
sarà universalmente trionfante, i conflitti tra gli interessi degli stati non potranno esistere, o
potranno essere solo di scarsa rilevanza – un esponente di questa teoria era Woodrow Wilson.
Un sistema siffatto sarà probabilmente molto più ordinato di quello che esiste attualmente: ARON
osserva come sistemi di questo tipo con le medesime caratteristiche siano emersi dopo un massimo
sconvolgimento ideologico, quale le guerre di religione, la Rivoluzione francese, le guerre
napoleoniche, le guerre mondiali e la guerra fredda. I periodi di omogeneità ideologica, comunque,
si sono perlopiù distinti per la propria tolleranza dell’eterogeneità invece che per un’effettiva
uniformità, spesso causa non tanto di buon senso o buona disposizione ma più che altro di
sfinimento seguito alle catastrofi ideologiche citate prima che portarono di seguito a compromessi
che permisero la convivenza di ideologie differenti. Un tale sistema permette un alto grado di
ordine domestico, dal momento che chiunque intenda sfidare il sistema prevalente, dovrebbe
affrontare la società di stati nel suo complesso; oltre che un alto grado di ordine internazionale, in
seguito al fatto che un tale ordine permetterebbe sempre lo svolgersi di conflitti fra paesi, ma
questi non sarebbero generati da tensioni ideologiche: il comune interesse nel difendere uno
stabile sistema politico, economico e sociale garantirebbe un forte incentivo al contenimento dei
conflitti.

2. Al di là del sistema degli Stati

All’inizio del capitolo si sono elencate le tre caratteristiche fondamentali del sistema degli stati – che qui si
riportano per chiarezza espositiva: una pluralità di stati sovrani; un certo grado di interazione fra loro; un
certo grado di accettazione di norme e istituzioni comuni. Ebbene, se nella prima parte del capitolo si è
parlato di forme evolutive del sistema degli stati, in questa parte, parlando invece di forme alternative
dell’ordine politico universale, trattiamo di casi in cui la scomparsa di uno degli attributi essenziali di cui
sopra permette il definitivo andare oltre il sistema degli stati.

1) È possibile l’affermazione di una forma di organizzazione politica universale che possieda il primo e
il secondo degli attributi, ma non il terzo: possiamo immaginare l’esistenza di una pluralità di stati
sovrani che formano un sistema e che non costituiscono una società internazionale, quindi un

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sistema senza società nel quale mancherebbe, a fronte di una continuazione di interazioni fra stati,
l’elemento dell’accettazione di interessi e valori comuni e, su questa base, di norme e istituzioni.
Sarebbe molto complesso determinare il punto in cui, nel futuro, il sistema degli stati potrebbe
smettere di presentarsi nella forma di una società internazionale; in generale comunque vi è ampia
evidenza storica di casi empirici del passato che facciano riferimento ad una convivenza di stati
nella quale manchi completamente una società internazionale – o dove, per lo meno,
manifestazioni del genere si sono sviluppate a livello regionale e non globale.
Un sistema del genere sarebbe, in ultima analisi, decisamente disordinato, esemplificando di fatto
lo stato di natura hobbesiano.
2) È possibile, inoltre, l’emergere di una forma di organizzazione politica universale che possieda il
primo carattere ma non il secondo: possiamo immaginare che esistano stati sovrani, ma che non
siano in contatto o in interazione o, a ogni modo, che non interagiscano in maniera sufficiente da
potersi comportare come parti di un sistema – se non nei casi già prima ammessi di sistemi a livello
locale e regionale, ma decisamente non globali –, quindi stati senza sistema. Ancora una volta
possiamo dire che vi sono numerosi precedenti storici in questo senso, e a questo proposito basti
pensare che prima del secolo XIX non esisteva nessun tipo di sistema di stati di estensione globale.
Quando si considera un siffatto non-sistema, si calcola che esso possa essere in linea di massima
una soluzione più alta al perseguimento dell’ordine mondiale: facendo riferimento a questa tesi, ci
si rivolge in maniera implicita alla tesi di ROUSSEAU, che esprimeva il concetto di un mondo di stati
autosufficienti, ciascuno capace di provvedere al proprio ordine interno attraverso la realizzazione
della volontà generale della comunità, e di conseguire l’ordine nelle loro relazioni esterne
riducendo al minimo i contatti in modo da evitare le classiche fonti di disordine dovute alla
condizione di interazione tra gli Stati.
Tuttavia, una forma di organizzazione politica universale basata su un isolamento relativo o
assoluto delle comunità politiche avrebbe alcuni inconvenienti: se l’interazione sistematica tra gli
stati ha comportato dei costi (disordine internazionale, soggezione del più debole al più forte,
sfruttamento, …), essa ha anche portato numerosi e non indifferenti benefici (assistenza al debole,
divisione internazionale del lavoro, arricchimento intellettuale reciproco, …), per cui la prescrizione
di un isolazionismo universale implicherebbe la perdita delle opportunità insite nell’interazione
umana a livello globale, almeno quanto l’eliminazione dei suoi pericoli.
3) Potrebbe affermarsi un’altra forma alternativa di organizzazione politica universale nella quale
mancherebbe il primo requisito, ovvero l’esistenza di stati sovrani: ciò potrebbe accadere
attraverso l’affermazione di un governo mondiale, che si potrebbe affermare sia tramite conquista
come risultato di una “sfida all’ultimo sangue” (cd. Knock-out tournament) configurandosi come
impero universale, oppure come conseguenza di un contratto sociale tra gli Stati, e sarebbe quindi
quello di una repubblica universale fondata su qualche forma di assenso o consenso.
Pro. L’argomento classico a favore del governo mondiale sostiene che il modo migliore per
garantire l’ordine all’interno della comunità internazionale è applicare gli stessi mezzi
utilizzati per lo stesso fine nella comunità nazionale, ovvero attraverso la creazione di
un’autorità suprema. Questa tesi si lega allo scopo dell’ordine minimo come fine ultimo
concretizzatosi nella prevenzione della guerra; in altri casi si lega allo scopo dell’ordine
migliore, come ad esempio oggi si sostiene talvolta che il modo migliore per raggiungere gli
obiettivi di giustizia economica, sociale e razziale è affidarsi ad un governo mondiale.
Contro. L’argomento classico contro il governo mondiale afferma che, sebbene riesca a
ottenere un ordine più stabile, esso si dimostra nocivo nei confronti della libertà e
dell’autonomia, violando le libertà degli stati e delle nazioni e imponendo vincoli sulle
libertà degli individui.

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La questione riguarda quindi l’attribuzione di una maggiore priorità allo scopo dell’ordine rispetto
alla libertà e alla giustizia umana o internazionale: si può ritenere comunque che il sistema degli
stati garantisca prospettive migliori di quelle del governo mondiale.
4) È possibile che gli stati scompaiano – quindi mancando il primo requisito – ma che invece che
formarsi un governo mondiale, come nel caso precedente, emerga una versione moderna e
secolarizzata del tipo di organizzazione politica universale esistente prima di Westphalia, vale a dire
un nuovo Medioevo: nessuno stato e nessun governante potrebbero – esattamente come non
potevano concretamente – dirsi sovrani nel senso moderno, ognuno essendo obbligato a
condividere la propria autorità (nel passato, verso il basso con i vassalli, verso l’alto con il Papa e
l’Imperatore). È bene sottolineare il carattere moderno e secolarizzato con il quale ci si sta riferendo
ad una riedizione del sistema politico universale medievale, un sistema di autorità sovrapposte e di
lealtà multiple nel quale l’elemento cristiano che lo teneva insieme in passato – e che ne
determinerebbe nel presente la difficile, se non impossibile, applicazione e realizzazione – viene
decisamente meno. È riconosciuto il fatto che gli stati sovrani oggi condividano il campo della
politica mondiale con “altri attori”: se lo stato moderno dovesse spingersi avanti nella condivisione
delle sue prerogative x– e cioè dell’autorità sui propri cittadini e del diritto a pretendere da loro la
lealtà – con le autorità politiche mondiali e regionali da una parte e con quelle locali, sub-statali e
sub-nazionali dall’altra fino al punto in cui il concetto di sovranità non potrebbe più essere
applicato, allora potremmo dire che una forma di ordine politico universale neomedievale ha preso
il sopravvento.
Pro. Gli elementi positivi di questo sistema risiede nel fatto che questo tende all’elusione
dei classici pericoli presenti nel sistema degli stati per mezzo di una struttura di autorità
sovrapposte e lealtà incrociate che eviterebbe quella concentrazione di potere inerente alla
costituzione di un governo mondiale.
Contro. I dubbi nei suoi confronti riguardano, invece, il fatto che non ci sia nessuna garanzia
che un modello neomedievale possa dimostrarsi più ordinato e stabile di quello offerto dal
sistema degli stati: se si prende ad esempio il modello politico universale medievale, ci si
può facilmente accorgere di come questo precedente storico fosse caratterizzato da una
violenza e un’insicurezza diffuse e continue, esattamente quegli elementi la cui gravità e
insostenibilità hanno portato, al termine della Guerra dei 30 Anni alla Pace di Westphalia.

Capitolo 11 – Il sistema degli Stati è in declino?

Oggi a questa domanda si risponde spesso in maniera affermativa. Ma che evidenze ci sono che
effettivamente in un futuro prossimo una delle alternative discusse nel capitolo precedente rimpiazzi il
sistema degli Stati?

1. Un sistema senza società

Non è difficile immaginare una situazione nella quale gli stati, pur continuando a esistere come sistema
internazionale, cessino di dar vita ad una società internazionale: è molto probabile che dalla Grande
Guerra, nonostante la retorica di rafforzamento della società internazionale propugnata e fomentata dal
moltiplicarsi delle organizzazioni internazionali, all’interno del sistema degli Stati il consenso relativo agli
interessi e ai valori comuni è in declino.

Comunque, se dobbiamo riconoscere che la scomparsa della società internazionale è una cosa probabile,
dobbiamo anche notare la presenza di alcuni fattori che ne sostengono la continuità: se pensiamo alle
pressioni cui la società internazionale è stata sottoposta durante il XX secolo, l’aspetto forse più

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sconvolgente è proprio la sopravvivenza del sistema stesso; se poi si pensa alla messa in sfida da parte dei
paesi ex-colonizzati dei principi alla base dello stesso sistema del diritto internazionale in quanto facenti
capo all’esperienza europea, e quindi improntato alla soddisfazione e al perseguimento di certi e
determinati interessi delle potenze europee, è da constatare come, nonostante alcuni risultati siano stati
ricercati e in ultima istanza raggiunti, tutto questo ha avuto luogo sullo sfondo dell’accettazione da parte
dei nuovi stati delle strutture e dei principi fondamentali del sistema; anche lo stesso meccanismo delle
relazioni diplomatiche ha ricevuto un duro colpo dallo scontro ideologico tra i paesi comunisti e anti-
comunisti, ma nonostante ciò anche nel momento più aspro di questo conflitto un certo livello di attività
diplomatica tra i due blocchi è sempre stato mantenuto; infine, l’Organizzazione delle Nazioni Unite non è
riuscita a fornire una soluzione alternativa al problema dell’ordine mondiale basandosi sulla solidarietà
degli stati come veicolo di attuazione di un sistema di sicurezza collettiva, ma ciononostante essa è riuscita
a sopravvivere come un’unica, universale organizzazione internazionale e quindi come simbolo di quel
sistema di comuni interessi e valori proprio alla base della società internazionale.

2. Stati senza sistema

Una tale soluzione – quindi con la continuazione dell’esistenza degli stati ma senza che questi si
inquadrassero in un sistema globale (vd. ROUSSEAU) – rappresenterebbe un ritorno alla situazione vigente
prima del XIX secolo: la scomparsa dell’elemento del sistema dal contemporaneo modello di organizzazione
politica universale potrebbe realizzarsi solo in conseguenza di un collasso della nostra odierna civiltà
scientifica, industriale e tecnologica (si consideri che negli ultimi 250 anni il progresso dell’industria e della
tecnologia ha portato a una crescita del volume di interazioni economiche, sociali e strategiche tra le varie
parti del globo).

Non è possibile pensare che siffatte tendenze siano reversibili, e anche allorquando si vada ricercando un
isolamento e un distacco dal sistema, è difficile che questo porti a quella congerie di comunità isolate
immaginate da ROUSSEAU. Certo, nella politica mondiale contemporanea è possibile osservare una
tendenza ad un maggiore regionalismo, ma una visione del mondo che implica una accentuazione di questa
tendenza è la divisione del mondo in sfere d’influenza sotto la responsabilità delle grandi potenze.
Comunque, questa e altre visioni di un mondo più regionalizzato sono molto lontane da rappresentare uno
stato di cose in cui non esiste un sistema di stati globale: una visione del mondo futuro che non prenda in
considerazione l’esistenza di interazione sociale, economica, diplomatica e strategica su scala globale –
essendo una delle caratteristiche fondamentali del sistema degli stati l’esistenza di un certo grado di
interazione fra di essi – non può essere considerata realistica. Solo cambiamenti catastrofici indotti da una
guerra nucleare globale che ridurrebbe l’intera vita sociale a un livello minimo di sviluppo economico e
tecnologico, o l’esaurimento delle fonti di energia con il conseguente collasso dei trasporti e delle
comunicazioni globali potrebbero rappresentare le condizioni per una regressione a un modello costituito
da stati che non danno vita a un sistema.

3. Un governo mondiale

Non esiste nemmeno una minuscola evidenza che gli stati accetteranno – in questo secolo e forse mai – di
sottomettersi ad un governo mondiale fondato sul consenso generale: l’evidenza offerta dalla politica
internazionale moderna ha sempre mostrato come gli stati non riconoscessero un bisogno tale da
giustificare il raggiungimento di una tale soluzione.

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Se questa è la situazione che si presenta per quanto riguarda quella che precedentemente è stata definita
repubblica universale, anche la possibilità di un impero universale, quindi un governo mondiale formato da
conquista, – nonostante l’evidenza storica mostri come proprio la conquista portò alla creazione dei
precedenti imperi universali – pare essere scarsa e fragile. Non sembra probabile che una qualsiasi delle
grandi potenze, anche se nucleari, sia capace di raggiungere una tale posizione di preponderanza da far
accettare alle altre l’instaurazione di un sistema imperale, anche considerando la complessità dell’equilibrio
di potenza emerso negli anni ’70 del XX secolo, altro elemento, insieme alla deterrenza, che aumenta la
stabilità del sistema nel quale ci troviamo. Infine, considerando l’ultimo elemento in disfavore della
formazione di un governo mondiale, l’attivismo politico dei popoli che si esprime nella sua suprema e più
importante forma del nazionalismo (più importante per i nostri scopi) rende impossibile la concezione della
possibilità che un sistema gerarchico possa essere stabilito: la nostra è un’epoca di disgregazione di imperi,
e le prospettive di una monarchia universale non sono mai apparse così evanescenti.

4. Un nuovo Medioevo

È indubbio che gli stati-nazione oggi non sono gli unici attori importanti nella politica mondiale: la questione
cruciale è comprendere se l’invasione effettuata da queste nuove “consociazioni” nel campo della
sovranità, o della supremazia dello stato sul suo territorio e sui suoi cittadini, è tale da rendere la stessa
supremazia fittizia, e da privare quindi il concetto di sovranità della sua unità e vitalità. È bene tenere a
mente che la mera emersione, o creazione, di nuove consociazioni come appena definite non comporta ex
se una tendenza verso un nuovo Medioevo. Esistono, tuttavia, cinque caratteristiche della politica mondiale
contemporanea che rendono evidente come il concetto di sovranità stia perdendo le proprie concezioni
sopra citate:

1) la prima di queste caratteristiche è la tendenza di alcuni stati all’integrazione regionale e quindi alla
costituzione di unità maggiormente ampie: gli stati membri della Comunità Economica Europea
sono una delle espressioni più chiare ed evidenti – oltre che costituenti una sorta di unicum in
termini di cessione di quote di sovranità in campo economico – di ciò. Alcuni sostengono che un
processo del genere possa comportare un giorno la cessione completa della sovranità da parte
degli stati che volessero vincolarsi alla CEE: la retorica del “movimento europeo” ha sempre
sostenuto l’idea che l’integrazione europea avrebbe effetti innovativi e benefici, sia in quanto si
costituirebbe una sorta di “comunità di sicurezza” nel cuore dell’Europa che garantirebbe la pace,
sia perché dimostrerebbe al resto del mondo la capacità di un gruppo di stati di fondere insieme
volontariamente la propria sovranità.
L’aspetto che potremmo definire problematico riguarda il fatto che, anche se il processo di
integrazione regionale europeo dovesse portare alla formazione di un singolo stato, questo
comunque rientrerebbe nello schema del sistema degli stati, al massimo abbassandone il numero
ma comunque rispettandone i requisiti fondamentali. Si potrebbe osservare che il nuovo Stato
Europeo costituisce uno stato sovrano ma costituirebbe un passo oltre lo stato-nazione, eliminando
i problemi relativi alle spinte e ambizioni nazionalistiche e quindi risultando in un’alternativa
decisamente più pacifica e rispettosa della legge: si tratterebbe, in ultima analisi, di uno stato
sovrano dal quale la politica di potenza sarebbe stata definitivamente estirpata. Contro
quest’ultima considerazione si possono avanzare numerose obiezioni: la prima riguarda il fatto che
ciò che è appena stato trattato ignora il fatto che il movimento per l’integrazione europea non
rifletta solo l’ambizione all’annullamento della politica di potenza, ma anche faccia riferimento a
delle spinte che proprio tramite la politica di potenza di un grande Stato Europeo vedono la
costituzione di un’entità che consenta di impegnarsi maggiormente nella stessa politica di potenza
con altri stati di dimensione continentale (come l’URSS, la Cina e gli stessi US); in secundis,

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attribuire agli stati-nazione la pratica della politica di potenza significa ignorare l’evidenza storica
che dimostra chiaramente come il periodo degli stati-nazione costituisce solo una particolare fase
storica del sistema degli stati, e che lo spazio riservato alla politica di potenza da parte di entità
statali che non sono stati-nazione, come nella fase dinastica o assolutista, è ben presente.
2) Accanto a questa tendenza, possiamo identificarne un’altra, particolarmente imponente negli anni
Sessanta e Settanta, che va forse nella direzione esattamente opposta: la disintegrazione degli
Stati. Non si tratta semplicemente di un fenomeno che porta alla nascita di stati nuovi, ma riguarda
anche il fenomeno di frammentazioni di realtà storiche e statuali sia recenti che più antiche: si
pensi ad esempio alla Jugoslavia, da un lato, e alle tendenze secessioniste in Gran Bretagna, Spagna
e Canada. È fondamentale riconoscere come, per quanto riguarda la stragrande maggioranza di
questi, il desiderio di provocare una rottura dello stato da cui ritengono di essere oppressi si
sviluppa nello scopo di dare vita essi stessi a nuovi stati sovrani: il risultato di queste tendenze, in
altre parole, non si pone come alternativa al sistema degli stati ma anzi aumenta il numero degli
stessi stati-nazione che si inseriscono esattamente all’interno dello schema già vigente, con la
conseguenza che l’istituzione statale, invece che uscirne indebolita, ne risulta rafforzata. L’inerzia
del sistema degli stati genera un circolo (vizioso o virtuoso, a seconda di come lo si guardi) al cui
interno vengono confinati i movimenti che sostengono la creazione di nuove comunità politiche: i
movimenti secessionisti non fanno altro che confermare l’istituzione dello stato sovrano senza
metterla affatto in discussione.
3) Un altro sviluppo che può essere interpretato come un segno del declino del sistema degli stati e
della sua trasformazione in una reincarnazione secolare dell’ordine medievale sta nella
restaurazione della violenza internazionale privata, ovvero da parte di gruppi diversi dallo stato: il
monopolio statale sulla violenza organizzata legittima è stato violato da quelle organizzazioni
internazionali che hanno rivendicato per sé il diritto all’esercizio della forza in ambito
internazionale, come nel caso delle Nazioni Unite. Inoltre, una sfida in questo senso di ancora
maggior spessore è quella condotta da gruppi politici che non sono stati sovrani e che non sono
nemmeno autorità legittime: è questo il caso di un uso della violenza non solo nei confronti del
governo che stanno cercando di rovesciare, ma anche usata tramite il rapimento di diplomatici e
cittadini di paesi terzi al fine di esercitare pressioni politiche sullo stesso governo con il quale sono
entrati in conflitto. La società degli stati non è stata in grado di far fronte significativamente a
questa sfida al suo monopolio della violenza legittima, e se questa tendenza dovesse progredire,
sarebbe possibile cogliere una manifestazione di crisi del monopolio statale sull’uso della forza,
nonché una restaurazione in atto della condizione medievale in cui la violenza poteva essere
legittimamente esercitata sia da autorità pubbliche che da enti privati: ciò che colpisce non è tanto
la novità del fenomeno, quanto la sua inedita estensione su scala globale.
È sempre bene tenere a mente, tuttavia, che il fatto che gli stati siano gli unici ad essere autorizzati
all’uso della forza è un dato più che altro giuridico che fattuale, in quando questo non ha mai
fornito una rappresentazione esatta della realtà. Inoltre, sembra che il circolo vizioso o virtuoso che
si vedeva prima inglobi anche questi movimenti privati, in quanto le azioni violente sembra siano
comunque tese sì ad una rottura con lo stato originario, ma anche alla creazione di un nuovo stato-
nazione.
4) È utile considerare i movimenti che si sono appena analizzati come un’espressione particolare di un
fenomeno invece più generale che potrebbe minacciare la stessa esistenza del sistema degli stati: le
organizzazioni internazionali, ovvero un tipo di organizzazione che opera attraverso i confini
nazionali, talvolta su scala globale, che cerca di ignorare i suddetti confini, e che agisce per stabilire
legami tra differenti società nazionali, o tra sezioni di esse. Si fa riferimento, quindi, alle imprese
multinazionali, ai movimenti politici, alle associazioni non governative internazionali, alle
associazioni religiose, alle agenzie intergovernative che operano attraverso le frontiere, …. Si
sostiene spesso che (alcune di) queste organizzazioni internazionali stiano causando la scomparsa
del sistema degli stati, dal momento che scavalcano il sistema stesso e che contribuiscono
direttamente alla connessione della società globale o dell’economia globale: si dice, in ultima

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analisi, che le loro dimensioni, la loro ricchezza e la loro espansione siano il risultato del trionfo
della tecnologia geocentrica sulla politica etnocentrica.
Non è certo, comunque, che le organizzazioni internazionali stiano effettivamente destabilizzando il
sistema degli stati: basti pensare, anzitutto, al fatto che nessuna organizzazione internazionale
odierna ha raggiunto l’importanza e la potenza della Compagnia delle Indie Orientali – che
disponeva addirittura di una propria amministrazione territoriale, oltre che di un proprio vero
esercito di conquista, ndr; poi, è bene tenere presente che gli stati sovrani si sono dimostrati abili e
capaci di resistere alle imprese multinazionali, ove la crescita della consapevolezza riguardo
all’impatto economico delle imprese multinazionali stesse, e con lo sviluppo del dibattito
internazionale su questo problema, si è generata una certa reazione da parte degli stati sovrani,
dimostrando che gli stati hanno la forza di dettare le loro condizioni sul problema; quindi, anche
quando le organizzazioni transnazionali riescano comunque a garantirsi l’accesso al territorio di una
nazione, non è detto che quest’evenienza si traduca in una diminuzione del potere dello stato
interessato – a questo proposito è da citare HUNTINGTON che sostenne che ciò “non è
necessariamente vero […], una crescita nel numero, nelle funzioni e nell’ampiezza delle
organizzazioni internazionali aumenterebbe la domanda di accesso ai territori nazionali, e quindi
farebbe anche crescere il valore della sola risorsa che è quasi esclusivamente sotto il controllo dei
governi nazionali”. Se, infine, molti paesi concedono l’accesso ai propri territori alle organizzazioni
transnazionali è perché questi decidono di agire in questo modo, non perché siano in balia della
tecnologia geocentrica. Le imprese multinazionali non avanzano nemmeno lontanamente una sfida
allo stato e alle sue prerogative, in quanto l’estensione delle loro attività e perfino la loro
sopravvivenza dipende dalle decisioni prese dagli stessi stati.
5) Si è anche sostenuto talvolta che la scomparsa del sistema degli stati si stia realizzando come
conseguenza dell’unificazione tecnologica del mondo, destinata a condurci verso un contesto
politico definito con il termine “villaggio globale”, in cui il sistema degli stati sarebbe solo una parte
del più vasto insieme e di cui attori non statali che praticano la violenza e organizzazioni
transnazionali sarebbero mere esemplificazioni particolari. È però chiaro che il “restringersi del
mondo” non può creare un’unità di prospettive e di visioni: il paradosso del nostro tempo è che
l’umanità sta diventando simultaneamente più unificata e più frammentata, dove la prossimità
invece di promuovere l’unità dà origine invece a tensioni mosse da un nuovo senso di congestione
globale. Più utile dell’idea di villaggio sarebbe quella di città globale, costituita da una rete nervosa,
agitata, tesa e frammentata di relazioni interdipendenti, meglio caratterizzate dall’interazione
piuttosto che dall’intimità.

Tutti e cinque gli aspetti che abbiamo osservato costituiscono dei fatti anomali per la teoria classica della
politica internazionale, tradizionalmente legata all’osservazione delle relazioni tra Stati. Questa teoria, in
ogni caso, si è sempre dovuta confrontare con un certo numero di eccezioni – come il Vaticano dal 1870 al
1929; il Commonwealth britannico dal 1919 al 1939 che negava il principio della sovranità inter se; la
Compagnia delle Indie Orientali che esercitava il diritto alla guerra e alla conquista –: la teoria classica ha
dominato semplicemente perché si è distinta in efficacia nella guida all’analisi della politica internazionale.
Verrà il momento in cui una nuova teoria prenderà piede dimostrando maggiore efficacia, situazione che
potrebbe verificarsi se alcune delle tendenze appena descritte verso un nuovo Medioevo dovessero
progredire. Ma sarebbe andare oltre l’evidenza empirica affermare che vi sono “gruppi diversi dallo Stato”
che già ora abbiano aperto delle crepe tali nella struttura della sovranità statale da causare il crollo del
sistema degli stati.

Alla domanda con la quale si è aperto questo capitolo si deve rispondere come segue: non esiste
un’evidenza chiara del fatto che nei prossimi decenni il sistema degli stati possa essere sostituito da una
qualsiasi delle alternative menzionate.

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5. Il sistema politico mondiale

Se la nostra analisi, in definitiva, ci spinge a respingere l’opinione secondo cui il sistema degli stati è in
declino, ci consente anche di osservare una delle caratteristiche fondamentali dello stesso sistema nella
fase attuale, ovvero il fatto che oggi esiste un più ampio sistema politico mondiale di cui il sistema degli
stati è solo una parte: si fa riferimento ad una rete di interdipendenze che comprende non solo gli stati ma
anche gli altri attori politici che si trovano sia “al di sotto” sia “al di sopra” di essa. Non bisogna farsi
confondere dall’apparente semplicità di un sistema siffatto, che parrebbe essere meramente caratterizzato
da organizzazioni internazionali espressione delle politiche degli stati e da gruppi interni che costituirebbero
una parte delle cause che muove la politica di ciascuno: in realtà, i gruppi politici all’interno dello stato non
condizionano solamente la politica mondiale attraverso l’influenza che possono avere sulla formazione
della politica estera del proprio stato di appartenenza, ma possono anche e soprattutto entrare in relazione
con gruppi politici di altri stati, stabilire relazioni dirette con alcuni stati esteri (come quando un’impresa
multinazionale stipula patti col governo di uno stato che la ospita) e instaurare relazioni dirette con
organizzazioni internazionali (come quando gruppi non statali ottengono una rappresentanza in una delle
agenzie specializzate delle Nazioni Unite).

Tuttavia, se volessimo abbracciare tale paradigma, saremmo anche costretti a sconfessarne alcune
concezioni: in primo luogo, sarebbe impreciso e ignorante sostenere che un tale sistema nel quale
convivono elementi statuali e non sia effettivamente recente o nuovo, avendo il sistema degli stati già fatto
parte di un più ampio sistema di interazione in cui gruppi diversi dallo stato stabilivano interazioni fra loro –
al massimo, tutto ciò che può essere percepito come nuovo è l’estensione globale di tale sistema; in
secondo luogo, dove si giudichi il peso degli attori non statuali nella politica mondiale odierna, è molto
improbabile che il loro peso attuale sia anche solo in minima parte paragonabile a quello che avevano nel
XVI e XVII secolo – e a questo proposito va tenuto conto che lo studio delle relazioni transnazionali è una
disciplina assai recente, e procedendo con la propria attenzione quasi esclusivamente rapita dall’attualità in
una tensione verso la spiegazione e la comprensione del nostro contesto politico mondiale ci porta a
trascurare colpevolmente proprio il fatto che la posizione delle relazioni transnazionali nelle precedenti fasi
del sistema degli stati è stata maggiormente centrale; in terzo luogo, se per società mondiale integrata
intendiamo a ragione una percezione di interessi e di valori comuni sulla cui base possano essere costruite
norme e istituzioni condivise, i fattori di consolidamento del sistema politico mondiale di per sé non
assicurano in alcuna misura l’emergere di tale sistema. A proposito di quest’ultimo punto, non c’è dubbio
che lo sviluppo tecnologico abbia influito direttamente sulle comunicazioni globali portando ad un livello di
mutua consapevolezza senza precedenti; ciò tuttavia non ha affatto portato a una situazione di perfetta
conoscenza reciproca delle società, considerando anche il fatto, plausibile oltre che concretamente
possibile, di una manipolazione o quantomeno un filtro nella trasmissione di notizie circa l’una o l’altra
cultura. Non c’è nemmeno dubbio che tra le diverse società vi sia oggi un livello di interdipendenza e
sensibilità reciproca nel perseguimento degli scopi fondamentali della vita umana molto elevato; bisogna
però essere accorti e riconoscere gli appelli di interdipendenza per quello che in realtà sono, ovvero spesso
e volentieri espressioni unilaterali più che reciproche a carattere politico, senza considerare il fatto che
l’interdipendenza, anche quando esistente nella sua forma pura, di per sé non basta a generare il senso di
un interesse comune, e ancor meno di valori comuni. In quarto luogo, dobbiamo notare che nel sistema
politico mondiale contemporaneo le relazioni transnazionali sembrano aver compiuto progressi importanti
nel sistema degli stati, ma ciò è avvenuto in maniera irregolare, soprattutto se consideriamo la posizione
importante nella politica regionale europea occupata dalla CEE o per gli elementi di panarabismo in Medio
Oriente: sicuramente, se questi fenomeni spingono verso un infittimento dei legami verso un’integrazione
sociale transnazionale, questi non agevolano necessariamente l’integrazione sociale su scala globale,

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considerando anche che alcuni fenomeni integrativi mostrano come il proprio fine sia la diffusione di una
cultura dominante che presuppone l’allontanamento di alcuni elementi sociali. In quinto, ultimo e forse più
importate luogo, il sistema politico mondiale non implica in nessun modo la scomparsa del sistema degli
stati.

Capitolo 12 – Il sistema degli Stati è obsoleto?

Talvolta si dice che il sistema degli stati è divenuto obsoleto, intendendo questo termine in senso di
disfunzionalità per quanto riguarda i fini e gli obiettivi fondamentali dell’uomo sulla terra: secondo questo
punto di vista, oggi il sistema degli stati non è più in grado di trovare soluzioni plausibili al problema
dell’ordine mondiale. Coloro che si fanno portatori di siffatta ipotesi abbracciano una o più delle seguenti
proposizioni:

1) Il sistema degli stati non potrà più garantire, se mai lo avesse fatto in passato, la pace e la sicurezza
o, più in generale, un ordine mondiale minimo;
2) Il sistema degli stati, anche qualora dovesse essere compatibile con il mantenimento di pace e
sicurezza, non può garantire il raggiungimento di scopi più ambiziosi, quale quello della giustizia
economica e sociale tra le nazioni del mondo e tra gli uomini al loro interno;
3) Il sistema degli stati è un ostacolo al raggiungimento dello scopo ecologico umano di vivere in
armonia con il proprio ambiente.

Analizziamo quindi ciascuna delle proposizioni elencate per rispondere alla domanda contenuta nel titolo
stesso del capitolo sulla obsolescenza del sistema degli stati.

1. Pace e sicurezza

Chi sostiene questo paradigma, usa il classico argomento che lega l’inevitabilità della guerra all’esistenza di
un sistema di stati: se questo elemento era tollerabile in passato, ora, con la vasta disponibilità di armi
nucleari che permetterebbero di cancellare la convivenza civile allo scoppio di una guerra caratterizzata
dall’uso di strumenti siffatti, è inaccettabile e l’unica soluzione plausibile risiede nella sostituzione del
sistema con un altro nel quale l’elemento guerra non sia un fattore endemico, in particolare con la
creazione di un sistema di stati che consista in una universale comunità di sicurezza pluralistica in cui siano
generalizzati i rapporti che caratterizzano storicamente i rapporti sempre pacifici fra gruppi di paesi (come
le relazioni fra paesi di lingua inglese, o fra US e Canada).

Un sistema di questo tipo non è propriamente impossibile, ma non vi sono evidenze per cui sarebbe
plausibile a breve. Inoltre, la guerra è sempre inevitabile anche in contesti caratterizzati da lunghi periodi
pacifici, con la conseguenza che aspettarsi una pace universale e permanente in futuro è irragionevole data
l’esistenza di stati sovrani, armati e politicamente divisi. Non si può certo negare che il carattere che lega
l’insostenibilità di una guerra ora, visto il carattere nucleare che questa prenderebbe, sia inverosimile o non
fondato su evidenza; non è conseguenza di ciò, però, che il sistema degli stati non sia funzionale al
mantenimento di un ordine mondiale minimo, soprattutto considerando che gli svantaggi del sistema degli
stati va paragonato, per un calcolo di costi e benefici, a quelli delle forme alternative di organizzazione
politica universale che potrebbero prendere il sopravvento – è necessario, in altre parole, constatare se vi
sia un stretta correlazione fra l’elemento di guerra inevitabile e il sistema degli stati oppure se questo
dipenda da cause ben più profonde e trasversali rispetto alle forme alternative di organizzazione politica
universale:

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Governo mondiale. Le guerre che accompagnerebbero la crisi di un governo siffatto, esattamente


come quelle civili all’interno degli stati-nazione, non sarebbero per nulla meno violente o
distruttive: ovviamente possiamo immaginare un governo mondiale che faccia ricorso minimo
all’uso della forza per il mantenimento della pace e dell’ordine al proprio interno e che utilizzi
invece per la soluzione di dispute strutture istituzionali burocratizzate, un meccanismo che quindi
potrebbe far sì che l’uso della forza su larga scala possa essere evitato per lunghi periodi. Queste
caratteristiche però sono chiaramente utopiche.

Ordine neomedievale. Allo stesso modo, qui la guerra come violenza organizzata fra stati sovrani
non esisterebbe, poiché non esisterebbero gli stessi stati sovrani al suo interno: questo, tuttavia
non darebbe alcuna garanzia di maggiore pace e sicurezza. Potremmo immaginare anche un
sistema neomedievale con le stesse strutture istituzionali del governo mondiale, concludendo
parimenti che esse appartengono alla pura immaginazione utopica.

In generale, concludere che il sistema degli stati ha perso la propria funzionalità, significa trascurare il ruolo
positivo che esso, nel perseguire gli stessi scopi, può rivestire: la nascita di un tale sistema all’indomani
della Guerra dei 30 anni è stata motivata esattamente dal fatto che la religione e l’autorità dell’Impero e del
Papato erano diventate a loro volta disfunzionali e causa di profondo disordine, individuando la soluzione in
un sistema di stati indipendenti e sovrani e non nella costruzione di un ordine alternativo basato su un
consenso ancora maggiore. I pericoli per l’ordine emergenti dalla coesistenza di governi diversi sono minori
dei pericoli presenti nel tentativo di tenere insieme comunità ostili in una stessa entità politica.

Infine, dobbiamo riconoscere al sistema di stati di aver sviluppato dei sentimenti di prudenza e limitazione
nell’uso di quelle armi nucleari che sarebbero il germe dell’insostenibilità dello stesso sistema, oltre che un
senso di collaborazione fra le due superpotenze mosso dal riconoscimento di interessi comuni e teso al
controllo e alla prevenzione della diffusione di armi nucleari, quindi di futuribili conflitti.

2. Giustizia economica e sociale

L’esistenza di questa ingiustizia non è in alcun modo nuova o inusuale, e anzi nel corso della storia i fatti
come questi sono stati dati per ovvi e scontati, oltre al fatto che prima del XIX secolo non esistesse un
sistema politico veramente esteso su scala globale che si potesse fare portatore di tali obiettivi, con una
conseguente limitazione al loro perseguimento ad un contesto domestico e locale. Il sistema politico
mondiale nato fra il XIX e il XX secolo ha prodotto le condizioni di un’interdipendenza globale e di una
coscienza e consapevolezza altrettanto globale, in cui è stata data un’applicazione mondiale alle idee di
giustizia economica e sociale.

Il sistema degli stati impedisce l’affermarsi di questi scopi in due modi principali: imponendo barriere al
libero movimento degli uomini, della moneta e dei beni, quindi inibendo la crescita economica mondiale;
restringendo la responsabilità degli interessi ad un segmento limitato della popolazione umana, quindi
ostacolando una giusta redistribuzione dei benefici economici e sociali tra le nazioni, tra gli individui. Si
afferma talvolta che finché questo sistema non sarà smantellato, sarà impossibile raggiungere gli obiettivi di
giustizia economica e sociale: un sistema nel quale i paesi ricchi si preoccupano di mantenere e accumulare
la propria ricchezza sfruttando le risorse dei paesi più poveri ed è difficile che si arrivi al compimento dei
sopra citati obiettivi senza l’instaurazione di un governo mondiale al quale gli stati cederebbero le proprie
competenze economiche e sociali riducendosi a meri agenti o fiduciari della stessa autorità mondiale,
questa perseguendo il bene comune mondiale.

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Le difficoltà presentate da tale impostazione sono le stesse della precedente. In primo luogo, l’ingiustizia
economica e sociale ha radici ben più profonde che non nell’esistenza del sistema degli stati, e queste
sarebbero attive in qualunque altro ordine politico mondiale alternativo. In secondo luogo, la tesi esposta
trascura gli elementi positivi del sistema degli stati apportati alla causa: non è un caso che i paesi più ricchi
siano fautori dell’avvento del governo mondiale mentre quelli più poveri della persistenza di un sistema di
stati, vedendo in un governo mondiale non la redistribuzione delle risorse e della ricchezza ma un
consolidamento dello status quo, guardando quindi all’istituzione della sovranità come una garanzia di
salvaguardia nei confronti degli stati più potenti – non si dimentichi che è stato con la creazione degli stati
sovrani in contrasto alle potenze coloniali che le nazioni più povere sono riuscite a ottenere una qualche
porzione di giustizia. In terzo luogo, tale argomento ignora la possibilità che i fini delle politiche statali
possano essere gestiti con una maggiore solidarietà umana.

3. L’uomo e l’ambiente

L’umanità oggi deve affrontare le minacce derivanti dall’aumento demografico, dalla crescita economica e
industriale, e anche dall’impatto che tali fattori esercitano sulla disponibilità di risorse scarse, come la terra,
l’energia, il cibo, le materie prime, e dal conseguente sovraccarico all’ambiente. Si ritiene che per far fronte
a tali problemi sia necessaria una comunione d’intenti in modo che possano essere globalmente affrontati,
una soluzione a cui si oppone la divisione del mondo in stati-nazione, in cui ognuno ha le proprie
convinzioni e impronte ideologiche, nei quali ogni stato ha le proprie politiche di crescita economica e
demografica, oltre che di sfruttamento delle proprie risorse.

In un tale contesto è tutt’altro che chiaro come un superamento del sistema degli stati possa comportare o
contribuire al raggiungimento di un’efficace strategia di approccio alle interconnesse minacce per
l’ambiente. In primo luogo, ciò che impedisce un piano comune globale non è il sistema degli stati ma la
discordia fra uomini e il confitto nell’ambito delle questioni ecologiche: questo conflitto ha radici ben più
profonde, che attraversano trasversalmente le alternative possibili di ordine politico universale e che
concernono il problema comune a tutti i sistemi immaginabili circa la limitazione delle libertà del singolo al
fine di preservare il proprio ambiente. In secondo luogo, l’argomento che stiamo considerando trascura
l’apporto positivo che il sistema degli stati può fornire garantendo l’ordine minimo che a sua volta permette
che si affrontino tali problemi: è indubbio che una politica di breve periodo sulla, ad esempio, limitazione
dell’inquinamento o contenimento delle nascite dipenda strettamente dalla sovranità dello stato-nazione,
entità in grado di mobilitare dati, esperienza e risorse che invece un’istituzione politica fondamentalmente
differente non potrebbe nemmeno immaginare di avere alla propria mercé. In terzo luogo, come per gli
altri casi, una tesi del genere trascura la possibilità della solidarietà umana che può in potenza emergere
nella gestione da parte degli stati-nazione della questione ambientale.

Capitolo 13 – Il sistema degli Stati può essere riformato?

Abbiamo osservato nei capitoli precedenti come il sistema degli stati sia probabilmente destinato a
persistere nel prossimo futuro e allo stesso tempo che non sia necessariamente destinato a diventare
obsoleto o disfunzionale. Ci dobbiamo quindi chiedere, in quest’ultimo passaggio: in che modo potrebbe
essere riformato affinché possa promuovere con maggiore efficacia l’ordine mondiale?

1. Un concerto delle grandi potenze: il “modello Kissinger”

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Il primo modello di riforma è quello che viene chiamato modello Kissinger, una soluzione che punta sul
concerto delle grandi potenze e non a caso gode dell’appoggio americano che da una parte, attualmente,
sono impegnati nella stabilizzazione dell’ordine internazionale esistente, ma dall’altra percepiscono il
declino della potenza e il conseguente bisogno di invitare le nuove grandi potenze ad assumere il ruolo di
collaboratrici – una sorta di burden sharing, ndr: un tale concerto avrebbe volto alla creazione di una
struttura di pace, sebbene la pace garantita potrebbe essere quella solo delle grandi potenze e non del
mondo intero; inoltre, sarebbe anche funzionale al perseguimento della giustizia economica e sociale
internazionale, per quanto questo debba essere effettuato nel quadro dei rapporti di potenza esistenti
attraverso misure di assistenza allo sviluppo internazionale; l’attenzione all’ambiente umano sarebbe
soprattutto retorica.

È importante notare come attualmente esista un equilibrio di grandi potenze – sebbene molto differente da
quello esistente nel secolo XIX – ma che questo non si materializza in un concerto, ovvero in un sistema di
collaborazione generale tra le grandi potenze per il mantenimento dell’ordine [vd. Capitolo 5]. Inoltre, si è
notato come le grandi potenze, quando entrano in uno schema di collaborazione reciproca, sono capaci di
promuovere l’ordine internazionale, di gestire i loro rapporti in vista di questo fine e di sfruttare la propria
preponderanza sul resto della società internazionale [vd. Capitolo 9].

In estrema sintesi, finché il sistema delle grani potenze continuerà ad esistere, l’ordine sarà maggiormente
garantito dall’accordo fra queste piuttosto che dalla discordia: non è assolutamente vero che qualsiasi
tentativo di spingere le grandi potenze a una maggiore collaborazione serva solo i loro interessi e non
promuova invece quelli della società internazionale nel suo complesso – un fatto chiaramente esemplificato
dalla percezione della guerra nucleare e dalle misure messe in atto di concerto delle grandi potenze per
evitarla; vero è anche tuttavia che le grandi potenze quando interagiscono lo fanno anche e soprattutto per
perseguire i propri interessi e per mantenere un generale status quo e potrebbe anche darsi che senza
questi interessi particolari, la collaborazione nemmeno avrebbe l’incentivo ad essere instaurata.

Il modello del concerto tra le grandi potenze ignora le domande di cambiamento dei paesi e delle
popolazioni più deboli, anche se un possibile concerto che comprendesse anche la Cina non è detto che
sarebbe del tutto sordo a tali richieste.

È vero, inoltre, che un sistema di concerto raccoglierebbe un consenso maggiore di una situazione opposta,
legittimando così maggiormente il proprio ruolo, ascoltando le domande di cambiamento e cercando di
assicurarsi il supporto delle principali potenze secondarie per cooptazione. È comunque molto difficile
pensare che l’insoddisfazione dei paesi poveri possa essere mitigata da gesti simbolici, gesti che quindi non
corrispondano ad una effettiva redistribuzione del potere e della ricchezza: un regime internazionale che
non riesca a far fronte alle domande della maggioranza dei paesi della comunità internazionale – proprio
quelli del Terzo Mondo e poveri le cui richieste rimangono inascoltate e disattese – mancherebbe di
autorità morale anche di fronte all’arena dei paesi ricchi, e sarebbe quindi incapace di raggiungere il tipo di
consenso richiesto dal mantenimento dell’ordine mondiale. Il consenso, quindi, emerge come elemento
fondamentale nell’evoluzione del sistema, viste le aspettative che l’attuale ordine disattende.

2. Centralismo globale: il modello salvazionista radicale

Un’altra risposta guarda ad un modello di direzione centralizzata degli affari globali, non basato sulla
cooperazione delle grandi potenze, ma su un’unità di intenti o su una volontà generale sella comunità
umana, generata da una percezione crescente dell’emergenza globale. Anche questo modello ha la propria
origine nell’occidente, ma viene avanzato da intellettuali radicali o dissidenti: la centralità proposta non è
un’alternativa al sistema degli stati, ma un’evoluzione verso il grado maggiore di direzione centralizzata che

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si possa raggiungere compatibilmente con lo stesso sistema. L’interesse da perseguire è quello del
superiore interesse comune dell’umanità intera: questo comprende non solo la minimizzazione della
violenza, ma anche elementi che fanno parte di un optimum, come l’unità del genere umano, il
mantenimento della qualità ambientale, livelli minimi di benessere da riconoscersi come diritti erga omnes,
…. Per perseguire siffatti fini, si auspica un rafforzamento delle competenze e delle facoltà delle Nazioni
Unite e della Corte Internazionale di Giustizia in parallelo ad un indebolimento degli stati esistenti e delle
proprie quote di sovranità: questa visione implica un consenso che coinvolga la società internazionale nel
suo insieme e il bisogno di perseguire un’agenda di scopi molto più ampi che il mero dittico pace-sicurezza.

L’aspetto debole, a cui si farà breve accenno, è quello che fa riferimento ad un tema già trattato, ovvero
quello che riguarda il fatto che i paesi del Terzo Mondo vedono qualunque accentramento del potere in
un’autorità mondiale come una minaccia alla propria sovranità e ad un consolidamento delle ingiustizie già
presenti e aventi la propria origine nella distribuzione diseguale di risorse e potere. KOTHARI osserva come
fino al momento di una seria e profonda redistribuzione di potere e ricchezza, una soluzione del genere
appare decisamente lontana dall’eventualità della propria concretizzazione: sembra poco verosimile che
una struttura globale centralizzata possa essere messa in piedi, e permeata da valori radicali occidentali,
solo attraverso l’esortazione salvazionista. In altre parole, quella che viene presentata nel modello
salvazionista radicale non è altro che una costruzione ideale che poco considera della realtà.

3. Regionalismo: un modello terzomondista

Un altro approccio al problema cerca di attribuire un ruolo più ampio alle organizzazioni regionali che
occupano lo spazio tra gli stati, da una parte, e le organizzazioni globali, dall’altra: le organizzazioni regionali
sono capaci di compiere funzioni che si immaginano per le organizzazioni internazionali, riguardo ai temi di
pace e sicurezza, giustizia economica e sociale e del governo delle questioni ambientali. NYE distingue
cinque dottrine di origine recente che stabiliscono una connessione tra lo sviluppo delle organizzazioni
regionali e un ordine mondiale più pacifico: la prima sostiene che le organizzazioni regionali agiscono
contro la concentrazione del potere nelle mani delle due superpotenze – un argomento utilizzato spesso in
relazione allo sviluppo del movimento regionalista europeo; la seconda afferma che mettendo in atto
un’alleanza di stati piccoli e deboli si potrebbe eliminare dal sistema la tentazione dell’intervento straniero
e del conflitto; la terza propone la creazione di istituzioni al di sopra dello stato che possano limitare o
diminuire la sua sovranità, contribuendo a ridurre i pericoli classici del sistema degli stato sovrani – la tesi
sull’affermazione di un nuovo Medioevo); la quarta ritiene che le organizzazioni regionali, legando gli stati
in una stretta rete di relazioni economiche, sociali e culturali, inibiscano il ricorso alla guerra tra stati
appartenenti alla stessa regione; la quinta considera le organizzazioni regionali come particolarmente abili
nella gestione dei conflitti tra gli stati membri, in parte perché isolano la regine da conflitti globali, e in parte
perché dispongono di una posizione privilegiata rispetto alle lontane organizzazioni globali quando si tratta
di comprendere le cause dei conflitti all’interno della regione.

Da tenere presente, come già si vedeva prima, è che il regionalismo non tenta sempre di fuggire le
dinamiche della politica di potenza, ma anzi in alcuni casi ne fa esso stesso parte: una riorganizzazione su
base regionale della politica mondiale è stata talvolta immaginata come una divisione del mondo in grandi
sfere di influenza o di responsabilità. Comunque, dalla seconda guerra mondiale, gli approcci regionalisti
sono stati per lo più utilizzati in un’ottica di limitazione o per combattere l’influenza delle superpotenze che
ne uscirebbero ridimensionate.

Vi sono tuttavia delle limitazioni agli approcci regionalisti. In primo luogo, è difficile immaginare una
struttura di organizzazioni regionali che possa sostenere l’ordine mondiale senza essere sostenuta essa

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stessa da una qualche cornice di dimensione globale: in quest’ottica le organizzazioni regionali si


costituirebbero come grandi potenze esse stesse, e l’ordine mondiale ne risulterebbe dalle relazioni fra le
stesse grandi potenze. Il fatto che KHOTARI respinga l’approccio dell’equilibrio di potenza, consistente nel
fondare la pace e la sicurezza sulla cooperazione delle grandi potenze, ritenendolo precario e instabile
nonché responsabile di condannare la maggioranza della popolazione umana a una relazione di
dipendenza, conduce alla contraddizione di considerare un sistema dominato da organizzazioni regionali
ma senza il tessuto che terrebbe insieme lo stesso sistema, costituito proprio dalla cornice globale di
cooperazione che vedevamo prima. In secondo luogo, KHOTARI – massimo esponente della teoria
regionalista, ndr – non spiega quali elementi dovrebbero condurre alla coagulazione di un’organizzazione
regionale, né quali relazioni debbano vigere fra i paesi membri, senza considerare il fatto che sarebbe
plausibile una situazione in cui un paese piccolo e debole si ritrovasse alla mercé dello stato regionale
preponderante.

4. Rivoluzione: un modello marxista

Un’altra via alla riforma del sistema degli stati è la rivoluzione proletaria universale, volta a rimuovere lo
sfruttamento dell’uomo sull’uomo sia all’interno degli stati sia tra di essi. Le varie prescrizioni rivoluzionarie
contemporanee, nonostante la teoria di MARX ed ENGELS indichi esattamente l’opposto, si delineano nel
senso di mantenere, nonostante il cambiamento radicale, la struttura basilare dello stato: la priorità del
giusto cambiamento è l’oggetto della polemica cinese degli anni Sessanta diretta contro Krushev, Tito,
Togliatti e gli altri revisionisti, considerati come dei “nuovi imperialisti” che scendevano a patti con il nemico
sfruttatore celando alla vista le ingiustizie del mondo. In nome di un giusto cambiamento è minacciata una
struttura politica ed economica esistente nel mondo, e nel corso di questo processo l’ordine è infranto;
questa fase tuttavia è seguita dalla creazione di una nuova struttura politica ed economica in cui l’ordine è
restaurato: è ai vecchi valori che le prescrizioni rivoluzionarie sono intrinsecamente ostili, non all’essenza
dell’ordine in quanto tale. Inoltre, tornando al discorso del consenso nei confronti dell’ordine
internazionale e del suo necessario passaggio attraverso una radicale redistribuzione della ricchezza e del
potere per garantire il consenso anche della maggioranza povera del Terzo Mondo, questo modello è una
delle vie percorribili a questi fini.

È importante notare che il modello marxista non risponde alla domanda relativa al mantenimento
dell’ordine internazionale, né ante né post rivoluzione.

5. Le aspettative della società internazionale

Quali condizioni sono necessarie affinché il sistema degli stati possa continuare a fornire strumenti capaci di
reggere l’ordine mondiale? In primo luogo, il sistema degli stati può rimanere attivo solo se l’elemento della
società internazionale sarà preservato e rafforzato: questo dipende, ancora, dal mantenimento e
dall’allargamento del consenso agli interessi e ai valori condivisi che forniscono le fondamenta delle se
norme e istituzioni comuni, quindi direttamente dipendente da un accordo fra le grandi potenze in
un’ottica di preservazione dell’ordine minimo e dall’ascolto e dal perseguimento delle istanze dei paesi del
Terzo Mondo – che, si ricorda alla nausea, costituiscono la maggioranza degli stati, quindi, in un certo
senso, i diretti decisori circa la legittimità del sistema, ndr. È difficile che queste domande di giusto
cambiamento possano essere soddisfatte senza una ampia redistribuzione della ricchezza e del potere: non
prima di ciò può esserci alcun tipo di sviluppo verso un’evoluzione o una più radicale alternativa del sistema
di stati.

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Il futuro delle relazioni internazionali sarà probabilmente determinato, tra le altre cose, dalla preservazione
e dall’estensione di una cultura cosmopolitica che comprenda idee e valori comuni e che sia più
generalmente radicata nelle società così come nelle élites. Affermare ciò non significa implicare che
qualsiasi cultura del tipo possa essere candidata a diventare cultura dominante, inghiottendo i
particolarismi culturali, o che sia comunque desiderabile. Dobbiamo inoltre riconoscere che la nascente
cultura cosmopolitica contemporanea è chiaramente improntata in favore dell’occidente: come la società
internazionale, la cultura cosmopolitica da cui dipende può aver bisogno di assorbire in misura molto più
elevata elementi estranei alla tradizione occidentale, se vuole dimostrarsi genuinamente universale e
provvedere alla fondazione di una nuova società internazionale.

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