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18 gennaio 2023

FORZE OSTILI ALLA SCIENZA MODERNA


Quali furono le forze che tentarono di bloccare l’avanzata inarrestabile della scienza moderna, usando da un lato
l’autorità di Aristotele e dall’altro quella della chiesa cattolica? Ricordiamo infatti che Aristotele, nel suo trattato
De Caelo, aveva confermato il sistema geocentrico: valeva ancora l’ipse dixit: per questo, avendolo scritto
Aristotele, si riteneva il suo pensiero come corretto.

Nella Sacra Scrittura si trova un passo in cui si impone al sole di fermarsi: ovviamente se si impone al Sole di
fermarsi vuol dire che gli si può imporre anche il moto. Dal momento che la Sacra Scrittura per un buon cattolico
è stata ispirata da Dio, allora Dio non può ingannare.

Per quanto concerne il sistema tolemaico, esso era stato confermato, dopo essere stato formulato per la prima
volta da Aristotele, da Tolomeo, vissuto fra il 120 ed il 160 a.C. ad Alessandria d’Egitto, che fu distrutta dai romani.
Secondo il sistema tolemaico l’Universo era chiuso, unico nell’eternità delle stelle fisse, finito (nel senso di
concluso, perfetto), e basato sulla differenza fra mondo sublunare e mondo sopralunare: questa differenza
consiste nel fatto che il mondo sublunare riguarda la superficie terrestre, costituita dai quattro elementi soggetti
(in base a quanto scrive Aristotele in Metafisica lambda 1) al ghenestai chai apollysthai, ossia aria, acqua, terra e
fuoco, mentre il mondo sopralunare è costituito dal quinto elemento, l’etere, che costituirebbe l’eternità.

Tutti questi aspetti furono messi in discussione già da Niccolò Copernico, il quale pubblica nel 1543 l’opera De
rivolutionibus orbium caelestium, nella quale per la prima volta formula l’ipotesi copernicana, che poi avrebbe
trovato conferma sia da un punto di vista sperimentale che da un punto di vista matematico. Copernico pensò di
capovolgere il ruolo della Terra, del Sole e degli altri pianeti, ponendo al centro del sistema il Sole come stella
fissa attorno alla quale ruotavano sia la Terra che gli altri pianeti. Si passò dunque dal sistema geocentrico a
quello eliocentrico: l’universo con Copernico rimane sferico, unico, ma ovviamente quest’ipotesi risultava
ugualmente rivoluzionaria poiché anche basandosi sui sensi a noi sembra che la mattina il Sole sorga ed alla sera
tramonti: anche la nostra forma espressiva è dunque rimasta aristotelico-tolemaica, poiché esprimendoci in
questo modo è come se a muoversi fosse il Sole.

L’astronomo danese Ticho Brahe propose una soluzione, definita “teoria ticonica”, che avrebbe potuto
ottemperare ed armonizzare la componente geocentrica e quella eliocentrica sostenendo che i pianeti ruotassero
attorno al Sole e che il Sole ruotasse attorno alla Terra: l’ipotesi si rivelerà infondata, ed infatti sarà dileggiata,
presa in giro dallo stesso Galileo Galilei.
Altro importante astronomo sarà Giovanni Keplero. Egli nasce a Weil, presso Stoccarda, nel 1571. Egli chiarisce
che le orbite dei pianeti sono ellittiche, di cui il Sole occupa uno dei due fuochi.

Un ulteriore approfondimento dal punto di vista filosofico sull’ipotesi eliocentrica sarà dato da Giordano Bruno,
nato a Nola nel 1548, entrato nell’ordine domenicano. Nelle sue opere sia in italiano che in latino sosteneva in
primo luogo l’infinità dei mondi sulla base dell’infinità della causa: se Dio è infinito i mondi non possono che
essere infiniti. Se i mondi sono infiniti non esistono limiti al cosmo; se non esistono limiti al cosmo allora la Terra
è soltanto un pianeta minuscolo nell’ambito dell’infinità del cosmo e non si possono dunque delimitare gli
elementi che delimitano il cosmo. Dal concetto di infinità del cosmo viene dunque a decadere anche l’eventuale
concetto di centralità della Terra rispetto al cosmo stesso: il centro si definisce in relazione alla periferia o a dei
punti di riferimento. Con Giordano Bruno viene così a decadere anche la distinzione fra mondo sublunare e
mondo sopralunare avanzata da Aristotele: con Bruno sia la terra che gli altri pianeti sono costituiti dagli stessi
elementi. Giordano Bruno sostiene queste tesi sulla base di considerazioni di carattere filosofico e non di
carattere astronomico o matematico. Queste tesi costituirono il pretesto per la denuncia di Giordano Bruno come
eretico da parte di un nobile veneziano, Giovanni Mocenigo. Durante il processo Giordano Bruno ribadì le sue
tesi: di qui la condanna per eresia e la sua consegna all’autorità civile sulla base riportata sulle cronache del
tempo “ecclesia aborret sanguinem”, “la chiesa rifiuta lo spargimento del sangue”; l’autorità civile però,
riconoscendo Bruno eretico impenitente, lo condanna al rogo: infatti egli viene bruciato vivo il 17 febbraio 1600
a Campo de’ Fiori, dove, negli anni ‘80 del XIV secolo venne eretta una statua in suo onore.

FRANCESCO BACONE
Come precursore della scienza moderna, Bacone ne individua alcune componenti che andremo di qui a poco ad
analizzare, pur non compiendo alcun cambiamento radicale.
Francesco Bacone, nella lingua originale Francis Bacon, nasce a Londra il 22 gennaio 1561. Il padre è guardasigilli
(colui che tutela le leggi scritte che nessuno può modificare; corrisponde all’odierno ministro di grazia e giustizia)
della regina Elisabetta I. Bacone studia a Cambridge e amplia le proprie competenze linguistiche e culturali
mediante un soggiorno a Parigi. Ritornato in Inghilterra, per alcuni anni esercita l’attività di consigliere del re
Giacomo I Stuart. Accusato nel 1621 e condannato per corruzione, egli abbandona completamente qualsiasi
attività politica e comincia a dedicarsi completamente agli studi. Muore il 9 aprile 1626.
Francis Bacon parte dalla premessa delle potenzialità dischiuse dagli sviluppi della scienza. Sulla base della sua
frase che ci è stata tramandata, “l’uomo col peccato originale ha perso l’innocenza ed il dominio sulle cose create,
ma può recuperare l’innocenza attraverso la fede e il dominio sulle cose create attraverso la scienza e la tecnica”.
L’innocenza consiste, in questo caso, nell’assenza di colpe, nel senso di relazione pacifica con Dio e con gli altri
uomini. In che senso secondo Bacone scienza e tecnica risultano due componenti interdipendenti? La scienza
intesa come osservazione dei fenomeni naturali ed individuazione delle leggi non fa altro che procedere in senso
teorico, la tecnica non fa altro, per quanto concerne la vita quotidiana, di applicare i risultati e le scoperte della
scienza, a tal punto che una delle frasi attribuite a Bacone è “scientia est potentia”: questa frase vuol dire che la
scienza contiene le potenzialità attraverso le quali si possono migliorare le condizioni lavorative e di vita
quotidiana dell’uomo. Questo aspetto, presente a livello introduttivo in Bacone, ha consentito allo studioso
inglese Farrington di definire Bacone come “il filosofo dell’età industriale”: ciò vuol dire che Bacone per primo
avrebbe individuato le potenzialità insite nella ricerca scientifica (scientifica non nel senso di epistheme, che
individua un sapere saldo ed incontrovertibile. In questo caso “scientifica” è intesa nel senso del latino scientia
latina e moderna, basata sul metodo ipotetico-deduttivo, nel quale si parte da un’ipotesi e se ne deducono le
conseguenze).

20 gennaio 2023

Ritornando alla frase di Bacone “scientia est potentia”, da essa deriva l’ottimismo che attraversa e pervade la
filosofia di Bacone in merito al miglioramento delle condizioni sia del lavoro che della vita del genere umano. A
questo proposito infatti Bacone scrive e pubblica “La Nuova Atlantide”, un’opera di carattere ed argomento
utopistico (da u topos, ossia “nessun luogo”); la nuova Atlantide dovrebbe costituire secondo Bacone una società
alternativa in cui attraverso l’applicazione delle scoperte tecniche si garantirebbe la sconfitta della miseria, lo
sfruttamento, e si garantirebbe il lavoro per tutti e dunque una condizione di felicità e di benessere. In questo
modo egli non fa altro che ribadire la sua posizione positiva ed ottimistica riguardo alle sorti del genere umano,
quelle che poi Leopardi definirà nella “Ginestra”, in senso polemico e derisorio contro Vincenzo Mamiani, “le
magnifiche sorti e progressive”.

INSTAURATIO MAGNA – NOVUM ORGANON


Bacone poi in senso fondativo progetterà l’Instauratio Magna, ossia l’instaurazione di un nuovo sapere, la cui
prima parte sarà completata con il titolo “Novum Organum”: il titolo non è casuale poiché non fa altro che
aggiornare l’Organum di Aristotele, composto da Le Categorie, il De interpretatione, Analitici Primi, Analitici
Secondi, Topici, Elenchi sofistici (elencos nel senso di confutazione e critica). Novum Organum indica dunque un
nuovo organo presso il quale fondare la nuova scienza andando oltre Aristotele poiché egli ritiene che occorr la
formulazione di un nuovo metodo sia nella filosofia che nella scienza mediante anche una nuova concezione
dell’esperienza e quindi dell’induzione (l’induzione costituiva lo strumento attraverso cui procedere nella
ricerca) superando l’induzione aristotelica (il sapere secondo Platone procedeva dal particolare all’universale);
la nuova induzione deve procedere in maniera graduale e non in maniera rapida e veloce dal particolare
all’universale; Bacone contrappone dunque all’induzione aristotelica la nozione di esperimento: un
procedimento critico e graduale attraverso cui interrogare i fenomeni (interrogare ovviamente nel senso di
ricercare nei fenomeni delle conferme rispetto ad eventuali ipotesi); questa nozione di esperimento sarà poi
ulteriormente sviluppata ed articolata da Galileo Galilei.
PARS COSTRUENS E DESTRUENS IN BACONE

Il nuovo tipo di fondazione del sapere si articola poi in due componenti: una pars destruens, ossia una parte
critico-negativa, ed una pars costruens, una parte fondativa. Bacone, per costruire un nuovo tipo di sapere, deve
abbattere i pregiudizi, o idola, false forme di sapere accettate passivamente senza che siano sottoposte alla
componente critico-negativa. Bacone individua quattro tipi di idola:

• Idola tribus: significa “idoli della tribù”, laddove per tribù si intende il genere umano. Essa riguarda il
cattivo uso delle facoltà e della sensazione dell’intelletto: molte volte ciò che vediamo ci inganna. Gli idola
tribus costituiscono pertanto la demistificazione o l’invito ad un uso critico delle facoltà del genere
umano;
• Idola specus: gli idoli della spelonca. Qui il riferimento è al mito della caverna di Platone, con cui si apre il
VII libro della Republica e riguarda forme di sapere che ci sono imposte dall’educazione. Molto spesso ciò
che ci viene imposto attraverso l’educazione non corrisponde ad un tipo di sapere certo e fondato;
• Idola fori, riguardano il linguaggio, dal forus romano, dove avvenivano le componenti relazionali nella
Repubblica romana. Molte volte il linguaggio risulta inappropriato ed infondato. Un classico esempio è
costituito nel momento in cui affermiamo che il sole sorge, affermazione che implica che il Sole si muova:
noi sappiamo invece sin da Copernico che è la Terra a muoversi attorno al Sole assieme agli altri pianeti
mentre il Sole sta fermo;
• Idola theatri riguardano il rapporto con la tradizione ed il sapere precedente, in alcuni casi accettato
passivamente, laddove invece soltanto un’analisi critica (nel senso di crino: “giudicare, distinguere l’aletes
dallo pseudos, il vero dal falso”) di questa forma di sapere.
Da questi idola, così come vengono configurati da Bacone, scaturisce il rapporto critico sia con le abitudini sia
con l’educazione che ci viene impartita attraverso determinati pseudo-valori che accettiamo passivamente, sia
attraverso il linguaggio che attraverso il rapporto critico col passato. Questo rapporto critico è di fondamentale
importanza per fondare un nuovo tipo di sapere e dunque una nuova organizzazione riguardante quella che
Bacone aveva definito Instauratio Magna.

Prima di esaminare in dettaglio come si articola la nuova concezione del sapere e dunque l’induzione baconiana,
la sua concezione dell’esperimento, importantissima è la metafora delle formiche, delle api e dei ragni. Le
formiche rappresentano ed esprimono un tipo di sapere che accumula passivamente (esse infatti raccolgono ed
accumulano in maniera passiva il cibo per l’inverno); i ragni sono coloro che tessono la tela a partire da quanto
essi stessi possiedono physei, per natura: se le formiche costituiscono il corrispondente dell’empirismo, i ragni
costituiscono la componente del razionalismo, nel senso in cui noi possediamo delle idee e delle nozioni
indipendentemente dall’esperienza ed il sapere deriva da un tipo sapere che Bacone definisce come innato.
Formiche e ragni costituiscono dunque l’esemplificazione di due componenti antinomiche e contrastanti del
sapere: le formiche, ripetiamo, quello dell’empirismo, i ragni quello del razionalismo.
Queste due componenti antinomiche ed unilaterali vengono superate dalle api, perché le api traggono il nettare
dai fiori e lo trasformano nel miele del sapere. Secondo Bacone dunque soltanto le api costituiscono
l’esemplificazione del nuovo tipo di sapere.

Il nuovo metodo del sapere si articola secondo Bacone attraverso la costituzione delle tabulae, che non sono
altro che il corrispondente delle catalogazioni o registrazioni di quelle che Bacone definisce tabulae presentiae
(le tavole della presenza: in questo contesto si intende riportare tutti i casi in cui un fenomeno si verifica sulla
base di un esperimento che costituisce l’arche ed il telos del metodo baconiano), tabulae absentiae (le tavole
dell’assenza; si intende riportare i casi in cui un fenomeno, sulla base di un esperimento, non si verifica), tabulae
gradum (nel senso di riportare l’intensità in cui un fenomeno si verifica). Sulla base di queste tre fasi deriva quella
che Bacone definisce vindimiatio prima, o “prima vendemmia”: così come nella vendemmia si raccoglie l’uva in
questo caso si raccolgono i risultati del procedimento sulla base delle applicazioni delle tre tavole.
Come seconda fase interviene quella che Bacone definisce come instantiae crucis, che significa “istanze cruciali”.
Esse consistono nel fatto che si possono costituire due tipi di interpretazioni contrastanti riguardanti i vari
fenomeni e le osservazioni che sono state compiute sulla base delle tabule presentiae, absentiae e gradum. Per
risolvere le instantiae crucis occorre sempre secondo Bacone interrogare l’esperienza. Quindi, attraverso
un’ulteriore graduale e lenta applicazione del metodo sperimentale riusciremo a ridurre la distanza o la
differenza fra l’alethes e lo pseudos. L’arché e il telos del dell’esperimento è dato dall’esperienza, con l’obiettivo di
individuare quella che Bacone definisce come l’essenza dei fenomeni. L’essenza va intesa in questo senso: Bacone
esamina criticamente le quattro cause aristoteliche: la causa efficiente, la causa finale, la causa materiale e la
causa formale. Ritiene la causa efficiente, la causa materiale e la causa finale ormai superate ed infondate; l’unico
tipo di causa che secondo lui resta valida è quella formale, che consiste proprio nell’individuare l’essenza dei
fenomeni: ciò vuol dire muoversi in una prospettiva qualitativa. L’aspettò positivo della filosofia di Bacone è dato
dal riconoscimento e dall’individuazione delle enormi capacità insite nelle scoperte della scienza, mentre
l’aspetto negativo è dato dal fatto che pur riconoscendo queste potenzialità della scienza egli rimane ancora
nell’ambito dell’individuazione delle essenze dei fenomeni, della loro causa formale, della loro qualità, e quindi
rimane estraneo alla prospettiva quantitativa, che sarà poi sviluppata da Galileo Galileo, secondo il quale la natura
non è altro che un libro scritto a caratteri matematici; per Bacone invece la natura altro non è che un libro scritto
secondo l’essenza, secondo la causa formale, secondo la dimensione qualitativa.

23 gennaio

GALILEO GALILEI
Galileo Galilei nasce a Pisa il 15 febbraio 1564, primogenito dei sette figli di Vincenzo Galilei e di Giulia
Ammannati; appartiene all’aristocrazia pisana: fa parte dunque di una famiglia agiata. In un primo momento si
iscrive alla facoltà di medicina, per poi comprendere che gli studi di medicina non sono per lui congeniali e
comincia a dedicarsi allo studio della matematica con un importante maestro, Ostilio Ricci, che a sua volta è stato
allievo di Niccolò Tartaglia. Allo studio della matematica si associano anche osservazioni fisiche: in particolare
nel 1583 Galilei scopre l’isocronismo delle oscillazioni del pendolo (pag. 112). Da studioso con interessi vasti e
molteplici egli si dedica anche allo studio di Dante. Nel 1589 gli viene attribuita la cattedra di matematica
all’Università di Pisa; egli però ha sempre chiarito che lo studio della matematica sarà associato a quello della
fisica: infatti in questo periodo egli individua la legge dei gravi.

Da Pisa si trasferisce, sempre per insegnare matematica, a Padova, nella quale è presente in questo periodo una
delle università più prestigiose. Associando i suoi studi matematici, le sue osservazioni fisiche, associando anche
quanto risulta dall’utilizzo del cannocchiale per osservare la volta celeste, egli riesce per la prima volta a chiarire
il problema delle macchie lunari, ed infatti pubblicherà il 12 marzo del 1610 un’opera molto importante, il
Sidèreus Nuncius. Per la prima volta dunque egli utilizza il cannocchiale individuando e riconoscendo le enormi
potenzialità insite nell’uso di questo strumento che a noi ovviamente possono sembrare ovvie e banali, ma allora
non lo era affatto: alcuni sostenevano addirittura che il cannocchiale con le sue lenti ingannasse i sensi umani. Il
Sidèreus Nuncius si propone dunque come un’opera importante perché costituisce un’ulteriore conferma delle
teorie e ipotesi copernicane, a tal punto che ci sarà una reazione da parte della chiesa cattolica: Galilei verrà
convocato dal Tribunale del Santo Uffizio e sei anni dopo, nel 1616, gli sarà imposto, da parte del cardinale
Roberto Bellarmino, la guida del Tribunale dell’Inquisizione, di non occuparsi più di questioni astronomiche;
questo perché le sue scoperte astronomiche invalidavano ciò che era scritto nelle Sacre Scritture. Malgrado
queste intimazioni da parte del cardinale Bellarmino Galileo continua nei suoi studi: nel 1623 pubblica un’altra
opera importante, il Saggiatore.

Altra opera che comincia a scrivere negli anni successivi e che pubblicherà nel 1632 è il Dialogo sopra i due
massimi sistemi, il Tolemaico ed il Copernicano. In questo dialogo Galileo sono presenti tre personaggi: Simplicio
(che rappresenta l’esemplificazione degli aristotelici; egli era stato un commentatore di Aristotele del VI sec. D.C.
che nel commentare la Fisica di Aristotele cita una frase di Anassimandro con cui comincia la filosofia
occidentale), Filippo Salviati, esemplificazione del copernicanesimo che mette in discussione la concezione
geocentrica aristotelico-tolemaica, e Gianfrancesco Sagredo, che tenta di trova una sintesi fra le due posizioni
contrastanti, quella di Simplicio e quella di Salviati.
In quest’opera Galilei conferma la validità del copernicanesimo a tal punto che suscita l’intervento del tribunale
dell’inquisizione: sarà invitato a presentarsi davanti al tribunale dell’inquisizione da cui verrà avviato un
processo. La sentenza si concluderà con il riconoscimento delle tesi eretiche sostenute da Galileo in quest’opera
a tal punto che egli verrà costretto ad abiurare; se non lo avesse fatto sarebbe stato ucciso come Giordano Bruno.
Malgrado l’abiura, siccome Galilei già aveva subito un processo nel 1616, verrà comunque condannato al confino
nella sua villa ad Arcetri, nei dintorni di Firenze, a tal punto che ancora oggi ad Arcetri si trova un osservatorio
astronomico proprio in ricordo ed onore di Galileo Galilei.

Verrà assistito dalla figlia fino a quando non morirà nel 1642: l’ultima opera, infatti, i Discorsi e le dimostrazioni
matematiche, sarà pubblicata in Olanda: se fosse stata pubblicata in Italia sarebbe intervenuta la censura da parte
del Tribunale della Santa Inquisizione.

PARS DESTRUENS E COSTRUENS IN GALILEO

Per quanto concerne la pars destruens di Galileo, essa concerne il rapporto critico-negativo della scienza, quindi
della fisica e della matematica così come si stava imponendo in questo periodo, nei confronti delle due autoritates,
autorità o punti di riferimento considerati indiscutibili, Aristotele e la Bibbia.

Galileo chiarisce prima di tutto che la Sacra Scrittura e le leggi individuate dalla natura non possono contraddirsi
poiché riteneva che ambedue fossero opera di Dio. Se non possono contraddirsi da cosa deriva il contrasto fra
quanto riportato nella Sacra Scrittura e quanto emerge dalle indagini fisiche? In primo luogo questo contrasto
deriva dal fatto che la Bibbia è scritta in una lingua accessibile a tutti e contiene le regole ed i principi su come “si
varia al cielo” per citare Galilei, ossia su cosa si deve fare per guadagnare il Paradiso. Nel momento ovviamente
in cui Galileo tratta del cielo, esso è inteso in maniera omnicomprensiva, come insieme di cielo e terra soggetti
alle stesse leggi (contro quanto invece sosteneva Aristotele che invece distingueva il mondo sublunare dal mondo
sopralunare). Il linguaggio della Bibbia non va dunque mai interpretato in un senso o in un significato
astronomico o fisico: la Bibbia contiene solamente i principi ai quali bisogna fare riferimento per riuscire a
guadagnare il Paradiso. Invece la natura, per Galileo, è un libro scritto in lingua matematica (come egli stesso
affermerà nel Saggiatore): l’indagine della scienza dunque si muove in una dimensione, rigorosa e precisa,
completamente alternativa rispetto alla dimensione ed al linguaggio poetico ed immaginativo presente nella
Sacra Scrittura. Mentre infatti per la fisica e la matematica occorrono delle evidenze scientifiche, la Sacra Scrittura
deve essere letta, compresa ed applicata da tutti i cristiani. Nel caso dunque in cui i risultati della scienza non
coincidano con quanto presente nella Bibbia, non bisogna colpevolizzare chi comunica questi risultati,
semplicemente perché la Bibbia non è un testo di scienza o di astronomia ma è un testo artificioso. Galileo esclude
dunque che riferimenti di carattere fisico o astronomico presenti nella Bibbia possano essere considerati come
informazioni o espressione reale e fondata di leggi astronomiche e fisiche. Per Galileo la bibbia è stata scritta per
essere compresa da quello che lui stesso definirà come “popolo rozzo e incolto”. La natura va compresa invece,
secondo le sue leggi, basandosi sulla lingua matematica, che pochi conoscono e comprendono.
Anche per quanto concerne il rapporto fra matematica e fisica, Galileo modifica la concezione aristotelica. Nella
filosofia aristotelica la matematica e la fisica erano accomunate dal fatto che costituivano due componenti delle
scienze teoretiche poiché appartenevano entrambe all’ananchaion, ossia il “necessario”.

25 gennaio

Introduzione del brano pag. 144


Oltre alla critica riguardante un carattere fisico-astronomico della Sacra Scrittura, va chiarito che Galileo estende
questo tipo di critica nei confronti non solo della tradizione religiosa ma anche della tradizione filosofica nei
confronti degli aristotelici; in effetti la critica agli aristotelici fu una componente molto importante presente nella
pars destruens della filosofia di Bacone: gli aristotelici consultano le biblioteche ed i trattati di Aristotele,
ritengono che egli abbia posto le basi dell’analisi dei fenomeni fisici ed astronomici, mentre Galileo da un lato
recupera ciò che Aristotele già scriveva nel I libro della Metafisica, laddove egli osservava che il compito della
ricerca va identificato con apoluthein tois phainomenois, “corrispondere ai fenomeni”, ma dall’altro scrive, ritiene
che se Aristotele tornasse in vita non esiterebbe a mettere in discussione le tesi sostenute nei suoi trattati in
corrispondenza dei risultati e delle osservazioni che le smentiscono.
Per quanto riguarda gli studi sul moto dei corpi, Aristotele sosteneva che i corpi pesanti sono destinati a scendere
verso il basso, mentre i corpi leggeri ad ascendere verso l’alto: egli riteneva dunque che il movimento dei corpi
fosse determinato dal peso. Per Galileo ogni corpo tende a mantenere il proprio stato di moto rettilineo uniforme
finché non intervengono altre forze a modificare questo stato di movimento: è il principio di inerzia.

Per quanto riguarda la legge della caduta dei gravi, secondo Aristotele la differenza nella caduta dei corpi dipende
dal peso; quindi è veloce per i corpi pesanti, lento per i corpi leggeri. Secondo Galileo invece tutti i corpi cadono
alla stessa velocità a prescindere dal loro peso; la differenza di velocità cambia a seconda dell’attrito con l’aria.
Questa legge verrà confermata da Torricelli il quale costituì una situazione di vuoto confermando la teoria
galileiana.
Per quanto concerne le scoperte astronomiche, Galilei ebbe un ruolo fondamentale: i suoi risultati saranno
enunciati nell’opera del 1610, il Sidèreus Nuncius, laddove Galileo individuò per la prima volta le enormi
potenzialità del cannocchiale, che potenzia la nostra capacità visiva: nelle notti serene osservava gli astri. Fu
proprio a seguito dell’utilizzo del cannocchiale che Galileo riuscì a dare una spiegazione al fenomeno delle
macchie lunari. Alcuni avevano risolto questo problema in maniera mitologica pensando che si trattasse di Caino
che trascinasse un fascio di spine; altri avevano risolto questo problema in base alle leggi di condensazione e di
rarefazione. Il problema delle macchie lunari sarà risolto da Aristotele affermando che le macchie lunari
dimostrando che le macchie lunari non sono altro che la conseguenza delle montagne e delle valli presenti sulla
Luna stessa. Questo conferma come la Luna e gli altri astri siano costituiti dai quattro elementi, aria, acqua, terra
e fuoco, e smentisce la concezione aristotelica secondo la quale gli astri sarebbero costituiti dal quinto elemento,
l’etere.

Per quanto concerne il Dialogo sopra i due massimi sistemi, in esso particolarmente importante è il principio
copernicano (brano a pag. 122). In che consiste il principio di relatività galileiano? All’interno di un sistema
chiuso, e quindi senza punti di riferimento, è impossibile stabilire se un corpo è in quiete o in moto rettilineo
uniforme.

Brano a pag. 144-145: “Il linguaggio del <<grandissimo libro>> della natura”.

In questo brano da un lato Galileo indica il Sarsi, pseudonimo di Orazio Grassi, dall’altro sostiene che la natura
non è altro che un libro scritto in caratteri matematici.

1. “...di qualche celebre autore”. Secondo il Sarsi dunque filosofare vuol dire trovare un fondamento in un
autore del passato.
2. “...ne dovesse in tutto rimanere sterile ed infeconda”: Galileo critica il metodo del Sarsi, che è succube
degli autori del passato tanto che senza un fondamento tratto da un’opera del passato non è possibile
individuare alcun tipo di verità.
3. “...quello che vi è scritto sia vero”: il Sarsi identifica con poemi come l’Iliade e l’Orlando Furioso,
esemplificativi di tutti quei poemi in cui l’aspetto meno importante è l’attendibilità di quanto è narrato: i
poemi sono infatti opera dell’immaginazione dei poeti. Nella filosofia però l’immaginazione assume un
ruolo accessorio e secondario, per procedere invece in maniera alternativa.
4. “...io dico l’universo”: la filosofia non fa altro che leggere in questo grandissimo libro, l’Universo: il mondo
sublunare e quello sopralunare, che costituiscono la dimensione in cui si approssima la filosofia. Le leggi
dell’Universo, però (qui Galileo utilizza la metafora del libro) non si possono intendere se non se ne
impara ad intenderne la lingua, se non se ne imparano dunque i caratteri nel quale è scritto: noi non
riusciremmo a leggere un libro scritto in cinese se non conoscessimo il cinese, ad esempio.
5. “...oscuro laberinto”: la lingua dell’universo è dunque la matematica: senza conoscerla non si riuscirebbe
ad individuare alcun tipo di legge; anzi, quanto si formulerebbe sarebbe il risultato della fantasia e
dell’immaginazione, come accade nelle opere poetiche cui il Sarsi stesso fa precedentemente riferimento.

3 febbraio
(Pag. 123 e seguenti: “il valore scientifico del cannocchiale”) Galileo è il primo ad individuare le potenzialità insite
nel cannocchiale a tal punto che attraverso l’uso del cannocchiale riesce a risolvere il problema delle macchie
lunari: il cannocchiale, come qualsiasi strumento, non fa altro che potenziare i nostri sensi. Attraverso il
cannocchiale Galilei riuscì ad affermare che la Luna non fosse affatto liscia, uniforme e di esatta sfericità, ma
diseguale, scabra, ricca di cavità e sporgenze, come la Terra.
Galileo però non formulò in maniera univoca il metodo della scienza, ma ne accennò alcuni aspetti nelle varie
opere che pubblicò. Noi sappiamo che la parola “metodo” deriva da meta hodòs, “percorso che ha come obiettivo
quello di produrre un risultato ulteriore rispetto al punto di partenza”: il metodo della scienza altro non è che il
criterio che Galilei utilizza per giungere a determinati risultati sia nella fisica che nella astronomia: ricordiamo
che nel Saggiatore egli scrisse che la natura altro non è che un gran libro scritto a caratteri matematici. La
metafora del libro indica che la natura possieda delle leggi interne e che dunque non sia disorganica e
frammentaria; essa possiede una dimensione unitaria che si esprime mediante delle leggi matematiche.

Il metodo galileiano si suddivide in due momenti:

• Il momento analitico: costituito da osservazione, misurazione attraverso l’applicazione dei criteri


matematici, e poi la formulazione dell’ipotesi;
• Il momento sintetico: costituito dalla verifica dell’ipotesi distinguendo esperienza ed esperimento. La
distinzione galileiana fra esperienza ed esperimento consiste nel fatto che mentre l’esperienza viene
subita passivamente (il mio udito mi fa intendere che stanno passando delle macchine poiché ne sento il
rumore), l’esperimento supera la dimensione passiva perché in esso è lo scienziato stesso a porre le
condizioni di determinate ipotesi. Nell’esperimento la dimensione teorica ed astratta precede la
dimensione della verifica, che avviene attraverso l’ausilio dello strumento tecnico, che potenzia i nostri
sensi. Non è casuale il fatto che Galileo e gli scienziati successivi commissionino agli artigiani mezzi e
strumenti sempre più potenti in modo tale da trovare conferma alle proprie ipotesi.
Oltre a questo, Galileo distingue sensata esperienza e necessarie dimostrazioni. Nel primo caso si fa
riferimento ovviamente all’esperienza; l’aggettivo “sensata” significa che essa assume un significato, non
appartiene alla dimensione casuale, ma è un’esperienza ripetuta che può ritenersi legittima e fondata; essa
corrisponde alla componente induttiva galileiana, ma va osservato che Galileo sviluppa una concezione di
induzione completamente diversa ed alternativa rispetto a quella di Bacone.

DIFFERENZA BACONE GALILEI

La differenza fra i due tipi di induzione è data dal fatto che mentre Bacone nella sua induzione procedeva in un
senso qualitativo nell’individuazione delle essenze dei fenomeni (un retaggio della filosofia aristotelica), Galileo
procede in un senso quantitativo nell’individuazione di fenomeni esprimibili mediante formule matematiche: le
qualità secondo Galileo sono infatti soggettive (colori, odori, ecc. Possono essere avvertiti in maniera intensa da
qualcuno ed in maniera molto più tenue da qualcun’altro): di qui la differenza anche fra qualità primarie e qualità
secondarie: le prime sono quelle misurabili, le seconde sono soggettive (un cibo soggettivamente può essere
apprezzato, per altri può essere considerato invece disprezzabile); la perifrasi necessarie dimostrazioni indica
la conseguenza delle ipotesi formulate partendo non più dall’esperienza ma dalle ipotesi: gli storici hanno
discusso sul fatto che Galileo appartenga alla dimensione induttiva o deduttiva, ma queste due dimensioni in
Galileo risultano intrecciate: in alcune fasi prevale la dimensione induttiva, in altri momenti prevale la
dimensione deduttiva.

CARTESIO (pag. 188)


L’arco cronologico in cui è vissuto Cartesio va dal 1596 sino al 1650. Egli nasce a La Haye en Touraine; la sua
educazione avviene nel collegio di La Flèche, dei gesuiti, in cui gli viene attribuita un tipo di istruzione scolastica
(un tipo di istruzione basata cioè sulla seconda fase della filosofia medievale, la filosofia scolastica, tenuta nelle
scuole), la quale non faceva altro che ripetere i dogmi filosofici e teologici che nessuno avrebbe dovuto mettere
in discussione; teologici per quanto riguarda la dottrina cristiana, filosofici in quanto Aristotele viene
interpretato come anticipatore e precursore della filosofia cristiana, mentre sappiamo che Aristotele non ha nulla
a che fare con il cristianesimo.
Disgustato e critico nei confronti di questo tipo di istruzione, Cartesio decide di arruolarsi. Si accorge egli stesso
però che la vita militare non è per lui; abbandona anche quest’attività. Nel 1619, come scriverà nella sua
autobiografia intellettuale, il "Discorso sul metodo”, egli diventa partecipe di quella che definisce come “grande
illuminazione” o “mirabile visione”: sembra cioè che egli abbia avuto l’anticipazione di un nuovo tipo di filosofia,
ed allora come ringraziamento per questa mirabile visione che riceve egli compie un pellegrinaggio alla Madonna
di Loreto, mentre abbozza il primo sistema o la prima formulazione del metodo attraverso cui fondare un nuovo
tipo di sapere nell’opera pubblicata postuma Regulae ad directionem ingenii, nel quale egli scrive per la prima
volta le 21 regole per individuare un nuovo tipo di sapere incontrovertibile; in seguito esse saranno ridotte,
sempre nel “Discorso sul metodo”, a 4.
Nel 1628 egli si trasferisce in Olanda, un paese più tollerante della Francia o dell’Italia, laddove governava la
Controriforma. Egli pubblica anche alcune opere di fisica o di matematica. Nel 1637 egli pubblicherà il “Discorso
sul metodo” in francese per far sì che l’opera possa essere compresa anche da coloro ignoranti del latino; nel
1641 pubblicherà le Meditazioni sulla filosofia prima: utilizza insomma la stessa formulazione aristotelica,
Protae Philosophiae. Egli invierà quest’opera ai maggiori intellettuali del tempo che gli invieranno le loro risposte:
l’opera sarà dunque ripubblicata con delle integrazioni.
Nel 1644 egli pubblicherà un’opera sistematica, i Principiae philosophiae, i “Principi della filosofia”, di cui va
ricordata la metafora dell’albero: il sapere è come un albero le cui radici sono date dalla Protae philosophia, il cui
tronco è dato dalla fisica, ed i cui rami sono dati dalle discipline particolari. La filosofia prima assicura dunque le
radici all’albero del sapere: senza un sapere basato sulla Protae philosophia l’albero smetterebbe di crescere, di
produrre rami, foglie e così via. La metafora dell’albero è dunque importante perché da un lato stabilisce la
successione fra le varie forme di sapere, a partire dal suo fondamento, in tedesco Grund, e perché attruibuisce
alla Protae Philosophia il ruolo principale nella costruzione del sapere.

Intanto la regina Cristina di Svezia si mostrò interessata alle forme di sapere che Cartesio aveva sviluppato; per
questo lo invitò a corte perché gli insegnasse tutto ciò che era scritto nelle sue opere. Cartesio accettò l’invito, ma
la regina Cristina era solita convocarlo a corte per le lezioni alle 5.00 di mattina. Cartesio si ammalò di polmonite
e morì l’11 febbraio 1650.

6 febbraio

REGULAE AD DIRECTIONEM INGENII; 1628; DISCORSO SUL METODO

In quest’opera Cartesio cerca delle regole, dei principi, per produrre un tipo di sapere fondato e legittimo. Le
Regulae non furono però pubblicate durante la vita di Cartesio: egli le superò infatti con il Discorso sul metodo,
ma sono comunque importanti perché costituiscono una fase del percorso filosofico di Cartesio. In quest’opera
Cartesio individua 21 regole per costituire un sapere fondato e legittimo; esse verranno superate dallo stesso
Cartesio nel Discorso sul metodo e ridotte a 4.

La prima regola è quella della chiarezza, evidenza e distinzione, cioè non accogliere mai nessun fenomeno
come vero che non sia evidente.
La seconda regola è quella dell’analisi: di fronte ad un problema, è necessario scomporlo in vari sottoproblemi
e giungere ad una conclusione.

La terza regola è quella della sintesi, mentre la quarta è quella della enumerazione.
Le regole contengono una pars destruens ed una pars costruens.

La pars destruens costituisce una parte critico negativa rispetto al sapere tradizionale del quale Cartesio risulta
completamente insoddisfatto a partire da quanto gli era stato insegnato dal corso di studi al collegio di La Flèche.
Essa contiene in primo luogo la critica agli scolastici, coloro che ripetevano passivamente ciò che Aristotele
aveva scritto nei propri trattati all’interno delle scuole (per questa ragione la definizione di “scolastici”).
Aristotele invero era stato riconosciuto come un importantissimo filosofo sia da Bacone che da Galilei, ma
entrambi riconobbero che quanto Aristotele aveva scritto nei suoi trattati fosse superato, giacché erano passati
1400 anni. Egli critica anche l’induzione, e sotto questo aspetto non fa altro che ribadire quanto a suo tempo
aveva già scritto Bacone (ricordiamo che la parola “induzione” corrisponde alla parola greca ec epagoghé; essa
contiene e comprende un percorso che ha un inizio; l’ec costituisce l’inizio, l’avvio di una ricerca per individuare
una legge universale; nell’induzione aristotelica avveniva un tipo di procedimento ingannevole poiché il
procedimento stesso risulta non attraversato da un metodo critico, ma esso si sviluppa attraverso determinati
presupposti da cui si fanno derivare delle conclusioni smentite da dati sperimentali successivi, e quindi
infondate). Cartesio critica anche il sillogismo aristotelico; un sillogismo altro non è che un procedimento
argomentativo in cui date le premesse ne derivano delle conseguenze diverse dalle premesse stesse. Il sillogismo
che Aristotele sviluppa nei trattati di logica ed in particolare negli Analitici Primi e Analitici Secondi è formulato
in questo modo: “tutti gli uomini sono mortali; Socrate è un uomo; Socrate è mortale”. Non si dimostra però che
vuol dire mortale e non si procede nella definizione di cos’è l’uomo.

Per quanto concerne la pars costruens, qui Cartesio individua due fonti legittime da un punto di vista conoscitivo,
destinate a superare, sempre secondo Cartesio, l’induzione aristotelica. Esse sono l’intuitus e la deductio.
Nell’intuitus cogliamo direttamente, in maniera chiara ed evidente ciò che si presenta immediatamente
attraverso i sensi, ma anche attraverso un coinvolgimento soggettivo. Nell’intuitus dunque si coappartengono o
sono coinvolte due componenti: sia quella oggettiva che quella soggettiva; esse, in un unicum, contribuiscono a
cogliere in maniera diretta ed immediata un determinato fenomeno che si impone per la sua immediatezza. Nella
deductio invece si parte da una premessa e se ne deducono le conseguenze. L’intuitus e la deductio costituiscono,
sempre ovviamente per Cartesio, il corrispondente della induzione e della deduzione, come componenti
interdipendenti ai fini di costituire quella che Cartesio definisce matesis universalis, ossia “matematica
universale”: bisogna fare attenzione al fatto però che la matesis non si identifica con la matematica, pur
riconoscendo Cartesio alla matematica la fondatezza delle sue dimostrazioni, ma è intesa nel senso di “meta
matematica”. Per “meta matematica” Cartesio intende una disciplina che va oltre la matematica intesa come
forma di sapere comprensiva dell’aritmetica e della geometria, intendendo una forma di sapere attraverso il
quale poi fondare un sapere legittimo sulla base della metafora dell’albero, arbum scientiarum: un sapere senza
radici è destinato a non crescere ed a non produrre frutti. La metafora dell’albero implica da un lato l’organicità
del sapere (ovvero il fatto che il sapere costituisca un unicum in cui le parti, in quanto parti, rinviano all’intero,
che a sua volta si riferisce alle parti), dall’altro una consequenzialità del sapere in cui il prius è costituito dalla
protae philosophia. Per Cartesio infatti la matesis universalis contiene come componenti quella che egli definisce
ordine e misura: per ordine egli intende non scambiare il proteron per lo iusteron e lo iusteron per il proteron,
non scambiare il prius per il posterius ed il posterius per il prius. La misura è intesa come criterio attraverso il
quale non superare ciò che risulta al di là delle capacità conoscitive umane; misura dunque intesa nel senso del
metros: non nel metros che misura la lunghezza, la larghezza e così via, ma misura nel senso dell’etos. A tal
proposito ricordiamo il frammento 119 di Eraclito etos antropo daimon ed il detto medèn àgan, “nulla di troppo”.

8 febbraio
MEDITATIONES DE PRIMA PHILOSOPHIA; 1641.
Le Meditationes de Prima Philosophia sono 6 meditazioni che furono pubblicate da Cartesio nel 1641. Già dal
titolo si intende che Cartesio rifiuta la definizione scolastica di Metafisica e invece rinnova o ridefinisce quella
che è passata alla tradizione come Protae Philosophia.
I meditazione

La I meditazione non fa altro che ripercorrere quanto già Cartesio aveva scritto nelle Regulae attravero il
cosiddetto “dubbio metodico”. I primi a formulare la concezione di dubbio metodico erano stati gli scettici
(termine che deriva dal greco skepsis, ossia “indagine”, “ricerca”). La differenza fra la concezione del dubbio degli
scettici e quella cartesiana è data dal fatto che mentre il dubbio degli scettici costituiva l’arche e il telos della
ricerca filosofica a tal punto che poi sfociava nell’epoke, sospensione del giudizio, che trovava il suo compimento
nell’afasia (da a fràzo), l’impossibilità di dire qualcosa, il dubbio di Cartesio costituisce l’avvio del percorso
filosofico alla ricerca del fondamentum inconcussum, cioè il fondamento indiscutibile, solido, non soggetto ad
alcun tipo di obiezione. Attraverso il dubbio Cartesio cerca infatti un tipo di verità fondata ed incontrovertibile
superando qualsiasi tipo di pseudo-verità: in questo senso egli ripercorre lo stesso itinerario delle Regulae, sia la
presunta verità dell’intuizione, sia la presunta verità del sillogismo, sia anche qualsiasi altra verità tramandata
dalla Scolastica, la scuola filosofica del periodo fra l’XI secolo ed il Rinascimento (Scolastica poiché era effettuata
nelle scuole).

Sulla base di questi aspetti il dubbio metodico sfocia nel cosiddetto dubbio iperbolico, il dubbio giunto alle
estreme conseguenze a tal punto che con il dubbio iperbolico Cartesio comincia a dubitare anche dell’aritmetica
e della geometria; esso comporta dunque l’affermazione della possibilità dell’impossibilità di qualsiasi forma di
certezza, in particolare applicata alle matematiche. Il dubbio iperbolico segna dunque il punto estremo del
dubitare cartesiano nel senso che Cartesio finisce per dubitare anche quelle che considerava come le massime
forme di certezza, l’aritmetica e la geometria. Si passa dunque ad una condizione di disperazione, o “mancanza
di speranza nell’individuazione di un punto fermo, stabile ed incontrovertibile”. Di qui allora egli cita Archimede
all’inizio della seconda meditazione: “Datemi un punto fermo e solleverò il mondo”. Qual è il punto fermo cui
giunge Cartesio? È la scoperta del cogito: io posso “cogitare” di qualsiasi cosa ma non posso dubitare di me stesso
in quando ente dubitante: se dubito ovviamente esercito l’attività pensante: di qui dunque il cogito ergo sum,
laddove il cogito costituisce il prius ed il sum il posterius con il capovolgimento rispetto alla filosofia greca nella
quale invece la dimensione dell’einai c il prius e quella del noein il posterius. Va sottolineato poi il fatto che Cartesio
declina l’attività cogitante e la dimensione dell’essere nella prima persona singolare, rispetto invece alla
declinazione della filosofia precedente che riguardava la componente universale.
Testo pag. 223, righe 38 – 39 – 40: come risponde dunque Cartesio alla domanda “cosa sono io dunque?”. Egli
risponde che una cosa che pensa, corrispondente al latino res cogitans, ossia una cosa che esercita il dubbio
metodico, che intende, ossia esercita la facoltà dall’intelletto (mediante la quale si riesce a distinguere l’aletes
dallo pseudos), che afferma e che nega (le dimensioni dell’affermazione e della negazione sono proprie della
dimensione del leghein: io affermo che la giornata è soleggiata e nego che la giornata sia piovosa, nevosa, ecc.),
che vuole (restituisce dunque al cogito la dimensione della volontà, che implica il prattein, l’agire: io voglio
mangiare e mangio; il volere viene riportato sempre alla dimensione del cogito), che immagina (l’immaginazione
costituisce una delle facoltà della psyché, ed in particolare quella parte della psyché che tende verso il futuro), che
sente (cioè che ha delle sensazioni, che possono essere caldo, freddo, piacere, dolore, componente emotiva).
All’interno di questa dimensione plurivoca data da Cartesio si costituisce una dimensione molto amplia ed estesa
del cogito. L’affermazione cogito ergo sum va dunque chiarita nei termini che abbiamo appena espresso.

L’attività pensante per Cartesio genera dunque le idee. La parola idea era stata individuata per la prima volta da
Platone: la differenza però fra la concezione platonica e quella cartesiana di idea è data dal fatto che mentre le
idee platoniche avevano un significato ontologico (come entità dunque separate dal mondo sensibile), in Cartesio
le idee assumono una dimensione psicologica, intesa nel senso di riferimento alla psyché, all’attività pensante.
Per Cartesio avviene dunque una metabasis, un cambiamento, dalla concezione platonica delle idee separate dal
mondo sensibile ad una nuova concezione di idee prodotte dall’attività pensante.

Per Cartesio esistono tre tipologie di idee:

• Idee avventizie: provenienti dal mondo esterno, proprio per questo ingannevoli. A me sembra da
lontano che si avvicini qualcuno che conosco, invece è qualcun’altro; ci sembra che il Sole la mattina sorga
e la sera tramonti, invece siamo noi a muoverci. Per Cartesio non bisogna fidarsi di una sensazione che ci
abbia ingannato una volta;
• Idee fattizie: prodotte, generate dall’attività pensante. Posso pensare di volare, so che questo tipo di
pensiero non risulta realizzabile, ma se mi fidassi di questo pensiero precipiterei. Posso pensare di essere
bravo in latino e di meritare 10, ma potrebbe non essere così. Le idee fattizie sono idee arbitrarie che non
trovano alcuna corrispondenza attuale;
• Idea innata: per Cartesio la più importante fra le idee innate è l’idea di Dio. Prima di esaminare in che
modo Cartesio sviluppa l’idea di Dio e ne dimostra l’esistenza, vediamo in che modo era stata dimostrata
l’esistenza di Dio da Anselmo d’Aosta: siamo all’inizio della filosofia scolastica. Egli pubblica, nel 1078,
un saggio in latino dal titolo Proslogion. In quest’opera Anselmo d’Aosta individua l’argomento
incontrovertibile per dimostrare l’esistenza di Dio (dimostrazione esistenza Dio Anselmo d’Aosta),
che si articola in due frasi latine, definite argumenti fermissimi (argumentum firmissimum): Deus est
Illud quo maius cogitari nequit, che significa “Dio è ciò di cui non si può pensare nulla di più grande”:
se Dio è ciò di cui non si può pensare nulla di più grande, allora necessariamente esiste; perché se non
esistesse sarebbe minore rispetto ad un ente superiore che esisterebbe; Dio è però l’ente di cui non si può
pensare nulla di più grande, e dunque esiste. La seconda frase è poi Deus est Ens perfectissimus:
ovviamente, essendo l’ente perfettissimo, esso esiste, giacché se non esistesse allora non sarebbe
perfettissimo, e non possederebbe il superlativo assoluto ma al massimo superlativo relativo.

15 febbraio

Il monaco Gaunilone (fine XI secolo d.C.) replicò ad Anselmo nel Liber Pro Insipiente, sostenendo che
non per il fatto che pensi un ente questo poi esista: io posso pensare che esista l’isola dei Beati dove si è
felici tutto l’anno, ma questo non vuol dire che esista. In questo modo Gaunilone non fa altro che
sottolineare il passaggio arbitrario compiuto da Anselmo dalla definizione di Dio alla sua esistenza, che
invece va dimostrata per via empirica.
Anselmo, a sua volta, risponde a Gaunilone nel Liber apologeticus. Con quale tipo di argomentazioni
Anselmo risponde alle obiezioni di Gaunilone? Sostenendo che la definizione di Dio come l’ente di cui
non si può pensare nulla di più grande si riferisce soltanto a Dio e non agli altri enti. Non si riferisce al
fatto che io possa pensare all’isola dei beati. La definizione relativa al fatto che se penso Dio questi
esiste è un tipo di definizione riferita o propria di Dio, non si riferisce ad altri enti, come aveva fatto
Gaunilone estendendo ad altri enti l’argomentazione di Anselmo d’Aosta.

Meditazione III e V – dimostrazione esistenza Dio Cartesio


Cartesio dedica la III e la V meditazione alle prove dell’esistenza di Dio (dimostrazione esistenza Dio Cartesio).

Per quanto riguarda la prima prova, “da dove deriva la mia idea di Dio?”: in questo caso Cartesio risponde che
la mia idea di Dio non può derivare da me perché l’idea di un ente perfetto, Dio, non può derivare da un ente
imperfetto, l’uomo. Se dunque possiedo l’idea di Dio, esiste Dio che genera in me questa idea. Esiste dunque Dio
che genera in noi la sua idea.
Nella seconda prova Cartesio afferma per assurdo che se l’idea di Dio provenisse da me, individuo del genere
umano, mi attribuirei tutte le qualità di Dio: sarei eterno, immortale, onnipotente, ecc. Ma siccome io non sono
tutte queste cose, esiste Dio che produce e genera la sua idea in me. La seconda prova non è dunque altro che un
ampliamento, una declinazione della prima prova.

La terza prova (anche definita prova ontologica) è trattata nella V meditazione. La terza prova è questa:
dall’essenza di Dio scaturisce la sua esistenza. Qual è l’essenza di Dio? La sua perfezione, il fatto che possieda
tutte le qualità e dunque non può che possedere la caratteristica dell’esistenza. Così come non si può concepire
un triangolo con due angoli retti, così non si può concepire un essere perfetto che non esiste.

L’ultima prova dell’esistenza di Dio presente nella V meditazione non fa altro che replicare il secondo argomento
relativo all’esistenza di Dio partendo dal concetto di Dio come ens perfectissimum.

IV meditazione
Perché Cartesio dedica una parte consistente della III e della V meditazione a dimostrare l’esistenza di Dio?
Perché Dio secondo Cartesio costituisce il garante della veridicità delle nostre conoscenze: Dio non può indurci
a sbagliare perché è supremamente buono. Se Dio è garante delle nostre conoscenze, da dove deriva l’errore? A
questo problema Cartesio dedica la IV meditazione. L’errore ovviamente non può derivare da Dio, che è una
causa efficiente, ma deriva da una causa deficiente (laddove con questo termine si intende il termine
riconducibile al latino deficio), ossia da un limite insito nell’uomo. Come articola quest’argomentazione Cartesio?
Sostenendo che nella determinazione dell’alethes e dello pseudos concorrono due facoltà, l’intelletto e la volontà:
il primo che procede secondo le idee chiare e distinte, la volontà che dovrebbe assecondare l’intelletto. L’errore
interviene quando la volontà giunge prima dell’intelletto, quando la volontà giunge a determinate conclusioni ed
esiti senza essere sottoposta a controllo, senza dunque risultare giustificata dalle idee chiare e distinte
dell’intelletto. Se ci fosse una corretta cooperazione fra queste due componenti l’errore non esisterebbe.
PAG. 200; L’EVIDENZA IN PLATONE E CARTESIO

20 febbraio

DUALISMO CARTESIANO
Che si intende per dualismo cartesiano? Si intende la concezione cartesiana riguardante le sostanze che sono tre
(tre sostanze):

• Dio: ente infinito perfetto, che non ci induce in errore ma si fa garante della nostra conoscenza a tal punto
che Cartesio aveva impiegato la III e la V meditazione per dimostrare l’esistenza di Dio;
• Res cogitans;
• Res estensa.

La parola sostanza è utilizzata nel senso latino di subastantia, che a sua volta deriva dal greco ousia. Aristotele
trattava dell’ousia sia nella Protae Philosophia che nelle Categorie. In particolare, nel Libro VII (z) della
Repubblica, capitolo III, Aristotele individua quattro significati dell’ousia, o sostanza.

In Metafisica Z3 Aristotele individua 4 significati dell’essere, einai, e dell’ente, on:


• Ghenos: genere inteso come uomo, animale, libro, ecc.;
• Chatolu: universale. Comprende i particolari: universale come banco comprende tutti i banchi;
• To ti en einai: “l’essere di ciò che era”. Vuol dire la permanenza dell’essere e deriva dal verbo;
• Ypokeimenon: substrato, base dell’essere. Questa parola deriva da ypokeisthai (ciò che sta alla base dell’ente).
Aristotele precisa che l’ente comprende tre componenti: il materiale, la yle, la forma specifica, l’eidos, tratto da Platone ma con
un significato diverso da quello platonico: se la forma platonica risultava separata dagli enti sensibili, per Aristotele ciò non
accade: l’unione fra materia e forma dà come risultato synolon, da olon, “intero”, l’unione fra materia e forma.

Sempre nel libro z egli individua 3 componenti che caratterizzano la sostanza:


• Yle: riguarda la materia. Per quanto riguarda la sostanza cattedra la yle è legno e ferro;
• Eidos: forma che distingue un ente dall’altro. L’eidos distingue il libro dalla cattedra, dal banco, ecc.;
• Synolon: l’unione fra yle e eidos.

Nel trattato sulle Categorie, capitolo IV (4), Aristotele per quanto riguarda l’ousia sviluppa una distinzione fra on
chatauto e on prosti: l’ente che esiste di per sé e l’ente che esiste dipendente da altro (se dico grande e bello, non
assumono significato se non riferiti ad una sostanza).

Cartesio nella definizione e significato di sostanza utilizza ed applica la nozione aristotelica di sostanza sviluppata
nel trattato sulle Categorie, capitolo IV: egli intende dunque per sostanza l’on chatauto, l’ente che esiste di per sé.
L’ente che esiste di per sé e non ha bisogno di null’altro per esistere è Dio: in questo senso Dio costituisce la
sostanza suprema, privilegiata; le altre due sostanze che ad esclusione di Dio esistono di per sé sono quelle che
egli definisce res cogitans e res estensa. La concezione cartesiana della sostanza si rivela dunque triplice: una
riguarda Dio, sostanza in senso assoluto, l’altra riguarda la res cogitans, o “cosa pensante”, e l’ultima la res estensa,
quindi la sostanza che occupa uno spazio, e dunque i corpi.

22 febbraio 2023

Qual è la differenza ontologica fra res cogitans e res estensa? La res cogitans è incorporea, inestesa (non fa dunque
riferimento al corpo né allo spazio. In quanto attività pensante non è dunque identificata da Cartesio con un
organo presente nel cervello, ma costituisce il risultato, la conseguenza, dell’esercizio presente nel cervello),
consapevole perché riguarda l’attività pensante (il cogito cartesiano non è dunque altro che una conseguenza
della determinazione ontologica della res cogitans) e libera, indipendente, poiché in quanto volontaria decide
cosa fare e cosa non fare.
La res estensa riguarda invece i corpi che occupano uno spazio: anche il nostro corpo è res estensa, mentre la
nostra mente corrisponde alla res cogitans. La res estensa è inconsapevole perché ontologicamente si pone in una
dimensione separata rispetto alla res cogitans: essa, dunque, genera dei movimenti meccanici (considerando il
nostro corpo come res estensa esso genera dei movimenti meccanici, come quello del cuore, indipendenti dalla
nostra volontà. La parola “meccanico” deriva dal greco mekaniké, che significa che riguarda gli enti che generano
e producono il loro movimento in maniera inconsapevole. Il nostro corpo è meccanico perché il cuore, ad
esempio, continua a pulsare indipendentemente dal fatto che io pensi che esso pulsi, ecc.). Essa è poi determinata
nel senso che possiede alcune determinazioni specifiche che sono quelle proprie dei corpi: di qui una breve
sintesi della fisica cartesiana, che riguarda proprio la res estensa, in base alla quale tutti i corpi sono costituiti
da materia e movimento, laddove per materia si intende l’insieme dei corpi che occupano uno spazio: di qui
ritorna la definizione aristotelica di iule. Per movimento si intendono i cambiamenti che avvengono nell’ambito
della dimensione della res estensa, che non sono altro che meccanici e dunque inconsapevoli, destinati a
riprodursi per un rapporto causa-effetto. Nell’ambito, dunque, delle quattro cause aristoteliche (che ricordiamo
essere la causa efficiente, la causa finale, la causa materiale e la causa formale), fra esse l’unica valida secondo
Cartesio è la causa efficiente, quindi il rapporto causa-effetto.

L’ultimo problema che si pone nell’ambito della filosofia di Cartesio è questo: se la res cogitans e la res estensa
risultano etimologicamente separate, allora come fanno a interagire? Come faccio, io, con la mia res cogitans, a
comunicare al corpo che devo alzarmi, che devo muovermi, ecc.? Secondo Cartesio l’interazione fra res cogitans
e res estensa è assicurata dalla ghiandola pineale, o ipofisi, componente presente nel cervello che
contemporaneamente contiene sia la componente sensibile che la componente consapevole e libera. Attraverso
lo pneuma, degli spruzzi vitali, essa riesce a comunicare al corpo quale tipo di azioni esso debba compiere.

FILOSOFIA POST-CARTESIANA
Il tentativo di spiegare, articolare e sviluppare quanto risultava presente nelle opere di Cartesio, va annoverato
nella filosofia post-cartesiana. Che si intende per filosofia post-cartesiana? Si intendono due significati: uno
cronologico, si intendono cioè tutti quei filosofi nati dopo la morte di Cartesio. Il secondo significato è tematico-
argomentativo, poiché riguarda gli argomenti che Cartesio aveva trattato nelle sue opere che sono discussi ed in
alcuni casi replicati o modificati, giacché, come ci ha insegnato Platone, il migliore allievo è colui che uccide
filosoficamente il maestro compiendo il cosiddetto “patricidio spirituale”.

Tra i filosofi post-cartesiani, va annoverato sicuramente Blaise Pascal, che oltre ad essere filosofo fu anche
matematico e fisico.

BLAISE PASCAL
Blaise Pascal nasce nel 1623 a Clermont-Ferrand. A 16 anni scrisse il “Trattato sulle sezioni coniche”; inventò
anche una prima rudimentale macchina calcolatrice per aiutare il padre, che effettuava l’opera di intendente e
riscuoteva le tasse. Nel 1654, ad appena 31 anni, si rende conto della vuotezza ed inutilità degli studi di
matematica e di fisica: li abbandona nonostante i risultati geniali a cui è giunto e decide di entrare a far parte del
convento giansenista di Port-Royal (per giansenista si intende una dottrina secondo cui l’uomo nasce corrotto, la
cui corruzione deriva dal peccato originale. Essa attribuisce un ruolo fortemente subordinato per la salvezza alle
opere: soltanto la fede e la grazia divina possono intervenire per salvare l’uomo, poiché le opere, per generose
che siano, possono essere determinate da interessi particolari, anche solo per guadagnare la salvezza. Per i
giansenisti, dunque, le opere non sono mai disinteressate): passerà il resto dei suoi anni in questo convento, fino
a quando non morirà prematuramente nel 1662 ad appena 39 anni. Egli vive dunque otto anni in tale convento
nonostante il papa Innocenzo X dichiari le dottrine gianseniste eretiche, e ritenga eretica l’opera di Cornelius
Iansen, Augustinus. Oltre alla condanna del pontefice, però, il movimento dei giansenisti subì anche la condanna
del re di Francia Luigi XIV, che addirittura distrusse il convento di Port-Royal e scoperchiò le tombe dei frati
morti. Comunque sia, durante il suo periodo di permanenza in tale convento, Pascal scrive alcune opere, ed in
particolare le “Lettere provinciali”, nelle quali critica il modo in cui i gesuiti intendevano la dottrina cattolica (essi
la intendevano infatti come una serie di dogmi da seguire passivamente; anche essi erano intolleranti verso chi
aveva delle idee alternative); altra opera è l’”Apologia del Cristianesimo” che egli non riuscì a terminare: infatti
essa fu pubblicata postuma, col titolo di “Pensiers” (“Pensieri”).

BASI DELLA FILOSOFIA DI PASCAL


La premessa della filosofia di Pascal suscita alcune componenti di assonanza con la filosofia cartesiana. (Pensiero
194, pag. 249-250 – Pensieri; ). Egli scrive: “non so chi mi abbia messo al mondo, né che cosa sia il mondo, né
che cosa sia io stesso”. Egli parte dunque dalla dichiarazione di non sapere né chi lo abbia messo al mondo come
genere umano, né che cosa sia il mondo. Egli aveva ovviamente trovato una risposta a queste domande studiando
fisica o chimica, ma questo tipo di risposte non lo avevano soddisfatto. Ancora, peggio, egli non sa chi sia lui
stesso, e la risposta di Cartesio non lo soddisfa. Egli prosegue infatti, “sono in un’ignoranza spaventosa di tutto.
Non so che cosa sia il mio corpo, i miei sensi, la mia anima e questa stessa parte di me che pensa ciò che dico”.
Addirittura, egli non sa che cosa sia il suo corpo, se un insieme di organi o qualcosa di unico o di specifico che lo
distingue dagli altri corpi; non sa cosa siano i sensi; non sa che cosa sia l’anima, e la risposta che Cartesio aveva
dato, come abbiamo affermato, non lo soddisfa. Ricordiamo che Cartesio aveva basato la sua concezione di anima
sulla quadripartizione dell’anima agostiniana. Agostino definiva l’anima come “parte animatrice del corpo”.
La questione dell’anima è una questione centrale di Agostino. Quanto sostiene Agostino riguardo l’anima è stato
mantenuto e ritenuto valido anche dalla concezione cristiana successiva nel senso che se Aristotele definiva l’ente
pollachos legomenon (ciò che è e si dice in molti modi), Agostino definisce l’anima ugualmente in molti modi,
parafrasando Aristotele, pollachos. Dunque pollachos leghetai psyche, “l’anima si dice in molti modi”.
Quali sono i molti modi in cui si dice l’anima secondo Agostino?
1. Come corrispondente al latino anima, la parte animatrice del corpo. Ciò vuol dire che l’anima corrisponde
alla componente che assicura non solo la vitalità del corpo e quindi il funzionamento dei nostri organi, ma
assicura anche le sensazioni, i movimenti e così via. La prima definizione dell’anima comprende in sé stessa
sia i due significati di anima aristotelica, vegetativa e sensitiva, che quella romana;
2. La seconda definizione è quella di spiritus, che comprende la componente razionale, della ragione, che
costituisce il corrispondente della terza parte dell’anima aristotelica, la parte intellettiva;
3. Altra declinazione dell’anima è quella di mens. Con questa declinazione si intende la facoltà che stabilisce
le associazioni e le dissociazioni fra i componenti. Se dico che la giornata è soleggiata, “la giornata” è posta
in relazione con “soleggiata”. Se dico “la giornata non è nevosa” dissocio la giornata da questa
determinazione;
4. Ultima definizione dell’anima è quella come intellectus, la parte suprema dell’anima attraverso la quale
secondo Agostino si stabilisce la relazione fra questa parte superiore dell’anima e Dio. Di conseguenza
l’anima per Agostino è definita “a immagine e somiglianza – nel senso dell’anima come intellectus – di Dio”.

Ritornando al testo, egli continua “e mi trovo confinato in un angolo di questa immensa distesa senza sapere
perché sono collocato qui piuttosto che altrove”. Egli, dunque, non comprende perché si trovi in un determinato
spazio piuttosto che in un altro luogo. Perché, ad esempio, ci troviamo a vivere qui ed oggi, invece che ad essere
nati in Grecia duemila anni fa? “Da ogni parte vedo soltanto infiniti, che mi assorbono come un atomo e come
un’ombra che dura un istante, e scompare poi per sempre”: il mondo in cui ci troviamo a vivere è solo una piccola
parte dell’infinito; siamo poi come un’ombra destinata a scomparire in un tempo piccolissimo. “Tutto quel che so
è che debbo presto morire; ma quel che ignoro di più è, appunto, questa stessa morte, che non posso evitare”.
Pascal afferma dunque che non si può evitare questa morte che incombe, quello che poi un filosofo del ‘900,
Martin Heidegger, definirà come “essere per la morte”, che definirà come possibilità dell’impossibilità
dell’esserci. Di qui si apre un divario profondo rispetto a Cartesio: se Cartesio cerca e trova un sapere solido, qui
Pascal non trova alcun tipo di certezze.

24 febbraio
Qual è l’alternativa rispetto alla consapevolezza esplicitata rispetto al Pensiero 194? L’alternativa è quello che
Pascal definisce divertissement, termine che deriva dal latino de vertere, che vuol dire “volgere altrove l’attenzione
o l’interesse, verso aspetti che allevino o dissolvano la consapevolezza della fragilità umana”: dedicarsi al gioco,
agli affari, alla politica altro non sono che componenti che costituiscono un modo per distrarre l’uomo rispetto
alla sua condizione ontologica. Questa condizione ontologica produce anche, sempre in Pascal, la dicotomia fra
quello che egli definisce esprit de géométrie ed esprit de finesse. Per esprit de géométrie Pascal intende
null’altro che quello che un filosofo del ‘900, Martin Heidegger, definirà come Denken als Rechnen, “pensiero
calcolante”: si può risolvere tutto nel calcolo? Si può risolvere tutto in dimostrazioni geometriche, matematiche,
ecc.? Di qui emerge già il distacco di Pascal rispetto a Cartesio: se Cartesio rimaneva le matematiche come la
forma di sapere indubitabile, superiore rispetto alle altre forme di sapere, Pascal individua i limiti matematici
(non si può dunque ridurre tutto al calcolo, tutto al procedimento ipotetico deduttivo delle matematiche e
dunque dell’aritmetica e della geometria). Qual è la dimensione alternativa rispetto all’esprit de géométrie?
Quello che Pascal definisce esprit de finesse, che riguarda la componente interiore, i sentimenti, senza i quali
non si potrebbe vivere e non si potrebbe raccontare agli altri, laddove infatti come scriverà lo stesso Galimberti,
“i sentimenti costituiscono l’ancora dell’etica”: ciò vuol dire che se io provo un sentimento nei confronti del
prossimo a tal punto che lo rispetto, a tal punto che non lo offendo e così via, ne deriva quello che i greci
definivano katechon, “elemento frenante”. Se invece non ne sono coinvolto posso uccidere il prossimo senza
provare alcun tipo di sentimento. Il sentimento impone le emozioni, che costituiscono il fondamento dell’esprit
de finesse che risultava completamente estranea alla filosofia di Cartesio. Per questo Pascal introduce un aspetto
importante nella filosofia occidentale destinato poi ad essere sviluppato nella filosofia successiva. Heidegger
scriverà poi in Sein und Zeit, “Essere e tempo” del 1927 che alla base dei rapporti interpersonali si pone la
Befindlichkeit, la “situazione emotiva”, senza la quale non esiste l’esistere con gli altri, mitdasein.

Lo Spirito di geometria, dunque, ha per soggetto gli enti naturali, dunque le scienze, e gli enti matematici. Si fonda
sulla ragione discorsiva, per mezzo della quale si dimostrano leggi scientifiche, e procede per dimostrazioni, in
particolare secondo il metodo ipotetico-deduttivo: si parte da un’ipotesi e se ne deducono le conseguenze.

Lo Spirito di finezza ha come centro l’uomo ed i temi esistenziali riguardanti la sua vita quotidiana, i temi morali
e religiosi, non nel senso di una religione dogmatica, accettata passivamente, ma di una religione che ci consideri
come soggetti attivi (ricordiamo infatti che la parola “religione” deriva dal latino religio: “relegare”, nel senso che
con la religione si confina e si trasferisce ad un ente superiore ciò che affligge l’uomo, trovando in quest’ente
superiore una consolazione, un riparo rispetto ai mali che affliggono il genere umano). Se nella ragione
discorsiva, propria dello Spirito della geometria, prevale il procedimento dimostrativo, nello spirito di finezza
prevalgono le emozioni, il modo immediato attraverso il quale si riesce a cogliere ed individuare l’essenza del
mondo, attraverso quella che i tedeschi definiranno einfuhlung, da ein gefuhl, che significa “coinvolgimento
sentimentale in modo tale che tutti si trovino in sintonia emotiva”: esso non è altro che la sintonia emotiva.

DIMOSTRAZIONE DELL’ESISTENZA DI DIO - PASCAL


Per quanto concerne invece la dimostrazione dell’esistenza di Dio, Pascal rifiuta sia le argomentazioni di Anselmo
d’Aosta che quelle di Cartesio. Egli ricorre infatti all’argomento del pari o della scommessa. Scommettiamo che
Dio esiste: se esiste abbiamo in premio il Paradiso poiché abbiamo dimostrato la fede nella sua esistenza; se non
esiste non abbiamo perso nulla. L’argomento del pari dunque da un lato supera le prove dell’esistenza di Dio in
Anselmo d’Aosta ed in Cartesio (che si era occupato dell’esistenza di Dio nelle Meditazioni III e IV). Pascal,
appartenente al giansenismo, ritiene che la salvezza sia per grazia divina, mentre per il cristianesimo ufficiale
non occorre solo la fede, ma anche la fede. Per il giansenismo, ma anche in realtà per Lutero, le opere sono sempre
determinate da interessi particolari: faccio carità per farmi vedere, per trovare una soddisfazione personale, ecc.

SPINOZA
Spinoza nasce ad Amsterdam il 24 novembre 1632 da una famiglia di origine ebraica che era stata costretta ad
abbandonare la Spagna in quanto aveva subito le persecuzioni contro gli ebrei da parte del re Filippo II.
Frequentò la comunità israelitica, ma per le sue tesi eretiche venne scomunicato, espulso dalla comunità ebraica.
Allora si dedicò esclusivamente alla sua attività filosofica, e per vivere esercitò l’attività di “monitore di lenti”:
modellava e costruiva le lenti per occhiali e cannocchiali. Muore il 21 febbraio 1677, ad appena 44 anni. Per tutta
la sua esistenza condurrà una vita ritirata e tranquilla (in questo senso si attiene al concetto epicureo late biosas,
“vivi appartato”) ed in maniera frugale, tanto è vero che non si sposerà mai. Quando un amico, Simone de Vries,
gli volle far dono di 2000 fiorini, egli rifiutò. Quando lo stesso de Vries volle versargli una cifra annua di 500
fiorini, egli disse che erano troppi e gliene sarebbero bastati 300. Questo dimostra il fatto che Spinoza non fosse
interessato ad aumentare le sue ricchezze, ma preferiva guadagnare i soldi con la propria attività di monitore di
lenti.

OPERE DI SPINOZA
Per quanto riguarda le opere vanno ricordate in primo luogo i “Principi della filosofia cartesiana”, importanti
perché indicano come il punto di partenza della filosofia di Spinoza sia costituito dalla filosofia cartesiana; i
“Pensieri metafisici”; il “Trattato teologico-politico" attraverso il quale si riteneva che la Chiesa dovesse astenersi
da qualsiasi intervento dal piano politico, sul quale si dovesse assicurare una sorta di liberalismo.
L’opera pubblicata postuma che costituisce la summa del pensiero di Spinoza, scritta in latino, è l’Ethica ordine
geometrico demonstrata: in quest’opera si dimostravano i principi dell’etica attraverso gli Elementi di Euclide.
Essi costituivano l’opera di geometria alla base della geometria greca, tanto è vero che dall’800 comincia ad
affermarsi la geometria non euclidea.

Sono state pubblicate postume anche Lettere, molto importanti poiché attraverso esse Spinoza aveva modo di
chiarire e discutere alcuni aspetti del suo pensiero.

FILOSOFIA DI SPINOZA
Come intende Spinoza la filosofia? La intende come catarsi esistenziale (il termine “catarsi” deriva dal greco
katarsis, che significa “purificazione”. Infatti, Aristotele definiva la tragedia come catartica, nel senso che
assistendo agli spettacoli teatrali, da un lato ci si dimenticava dei problemi quotidiani, dall’altro ci si emancipava
nelle tematiche rappresentate).

27 febbraio
Come fondamento della filosofia di Spinoza si pone la nozione di “sostanza”: da un lato Spinoza recupera la
concezione cartesiana della sostanza, nel senso di on chatauto, così come era stata definita da Aristotele nel IV
capitolo del Trattato sulle Categorie; dall’altro lato Spinoza critica Cartesio perché ritiene che la definizione
cartesiana della sostanza risulti in contrasto con l’individuazione della sostanza: se sostanza vuol dire “ente che
esiste di per sé” e non ha bisogno di null’altro per esistere, l’unico tipo di sostanza allora è quella divina. Di qui,
allora, come fondamento della filosofia spinoziana, si pone la concezione monista della sostanza (da monos,
“unica”) rispetto alla concezione pluralista della sostanza cartesiana, questo perché Spinoza ritiene che l’unico
tipo di sostanza fondato riguardi Dio, ma non un Dio trascendente, un Dio presente negli elementi naturali: di qui
la frase cartesiana “Deus sive natura”: vuol dire che il Dio cui Spinoza fa riferimento è un dio ilozoistico (che si
manifesta cioè in tutte le forme viventi, da iule zoon) e panteistico (che si manifesta in tutte le forme di divinità,
e quindi la divinità si manifesta nell’alternarsi delle stagioni e in tutti gli eventi naturali). Si ha dunque il recupero
della nozione greca ed in particolare dei cosiddetti filosofi presocratici della nozione di physis
Quali sono le proprietà della sostanza spinoziana? Essa è necessariamente increata, giacché se fosse creata
deriverebbe da altro: ma se la sostanza è divina è necessario che sia l’increato. È eterna, perché se non fosse
eterna sarebbe soggetta al tempo, e prima di essere non sarebbe. Ma se prima di essere non fosse, allora
esisterebbe una sostanza che ne determinerebbe la genesi, la nascita, e la morte (l’ente che prima non era è infatti
destinato a non essere più). La sostanza spinoziana è poi unica, poiché se fosse doppia, triplice, quadruplice, non
sarebbe poi infinita e perfetta, perché dovrebbe spartire la sua perfezione con un’altra sostanza: la sua unicità,
dunque, altro non è che il corrispondente della prospettiva monista spinoziana. Essa è poi infinita, giacché non
possiede alcun limite. La parola infinito implica dunque l’esclusione di qualsiasi limitatezza.
Ricordiamo che la parola Dio deriva da Theos, che a sua volta deriva da tiuein, che vuol dire “affumicare” e fa
riferimento ai sacrifici che si facevano per guadagnare il favore degli dèi: buoni raccolti, che non imperversasse
la pestilenza.

Differenze fra Dio in Cartesio, Pascal e Spinoza; pag. 285

Si noti come Dio in Cartesio è un dio della ragione. Infatti, Dio secondo Cartesio è la prima delle idee innate, la cui
essenza implica l’esistenza secondo la prova sviluppata nella V meditazione e nella III meditazione. La sua
esistenza si può dimostrare razionalmente attraverso la ragione, che costituivano lo sviluppo della filosofia di
Anselmo d’Aosta; inoltre, sempre per Cartesio, Dio è garante della nostra conoscenza; malgrado questo, però,
molto spesso le nostre conoscenze sono fallaci. Gli errori però secondo Cartesio non derivano da una casa
efficiente, ma da una causa deficiente: non può essere Dio a indurci a sbagliare, perché sennò non sarebbe
completamente buono.
In Pascal, invece, Dio è il Dio-persona del cristianesimo, cui vengono attribuite qualità umane: Dio dunque
perdona, ma castiga anche chi non rispetta i precetti divini. Sempre secondo Pascal è però impossibile dimostrare
l’esistenza di Dio secondo la ragione, ma è intuito dal cuore. Ricordiamo l’argomento di Pascal riguardo
l’esistenza di Dio: egli basa la propria dimostrazione su una scommessa in base alla quale se si crede in Dio, ed
Egli esiste, allora si ottiene la vita eterna. Se si crede, e Dio non esistesse, non si perderebbe nulla.

In Spinoza, invece, Dio è inteso come Dio-natura, e costituisce la base della Protae philosophia, quindi della
Filosofia Prima. La sua esistenza poi si può dimostrare e si impone alla ragione come verità evidente, perché
senza un’unica sostanza non esisterebbe il mondo come eterno e corrispondente alla sostanza divina. Il mondo,
poi, è costituito da un ordine geometrico, necessario e razionale dell’universo. Di qui derivano due critiche
importanti:

• la critica al finalismo: se Dio si ponesse dei fini vuol dire che non li possiederebbe. Se non li possedesse
verrebbe però meno la sua perfezione assoluta. Questo implica dunque che il finalismo risulti in contrasto
con la definizione di perfezione di Dio.
• La critica al Dio della Bibbia (di qui l’esclusione di Spinoza dalla comunità ebraica): il Dio biblico implicava
una concezione della divinità basata sul creazionismo. Se Dio è eterno, per Spinoza anche il mondo è
eterno poiché all’eternità della causa corrisponde l’eternità dell’effetto.

Commento a pag. 310 – le definizioni fondamentali Spinoza


1. Causa di sé riguarda l’ente la cui essenza implica anche l’esistenza. Se Dio è perfetto, esiste
necessariamente. Di qui è presente un riferimento implicito alla terza prova cartesiana: Dio è perfetto, la
sua essenza implica anche l’esistenza.
2. Alla parola “finito” Spinoza attribuisce un significato negativo. Un ente è finito se la sua natura deriva da
un altro ente. Esso non corrisponde dunque, in termini greci, all’on chatauto, all’ente che esiste di per sé.

1° marzo

...continuazione pag. 310 “finito” significa limitato, ripetiamo. “Un pensiero è limitato da un altro pensiero”: se
tu esprimi un tuo pensiero, un altro può esprimere un pensiero alternativo: un pensiero così come espresso non
costituisce un tipo di definizione univoca. Leggere ultima frase Cosa significa questa frase? Un pensiero, per
Spinoza, implica una componente fisica: posso pensare se le mie parti corporee me lo consentono. Il corpo, a sua
volta, per Spinoza, non si identifica con la res estensa, come sosteneva Cartesio, ma possiede una componente
pensante ed attiva. Di qui scaturisce il superamento della dicotomia cartesiana fra res cogitans e res estensa, di
cui parleremo in seguito.
3. La definizione di sostanza, qui, riguarda la definizione ontologico, gnoseologica e logica. “Concepito”
deriva dal latino concipitur, che significa “generato dall’attività della mente”. Il fatto che un concetto possa
essere pensato non ha bisogno di un altro concetto per essere integrato. Ciò corrisponde all’on chatauto.
L’essenza implica dunque l’esistenza, che corrisponde alla terza dimostrazione dell’esistenza di Dio
sviluppata da Cartesio nella V meditazione. Queste definizioni di sostanza risultano coappartenenti. Sia
la componente dell’on chatauto nel senso ontologico (un essere che non ha bisogno di null’altro per
esistere), ma anche la componente dell’on chatauto nel senso logico (la sostanza implica il fatto che possa
essere pensata indipendentemente da un altro ente o indipendentemente da qualsiasi definizione della
logica, del linguaggio e del pensiero). Di qui la coappartenenza di dimensione ontologica e logica nella
definizione spinoziana di sostanza. Il superamento della dicotomia cartesiana di res cogitans e res
estensa segna una svolta nella filosofia occidentale che è definita da Costanzo Breve come passaggio da
una prospettiva bimondana ad una prospettiva monomondana. L’emeplificazione della filosofia
bimondana è data dalla filosofia di Platone, che individuava due mondi, in riferimento alla teoria della
linea: il noeton, l’intellegibile, e l’oraton, il visibile. Anche in Cartesio è presente una concezione
bimondana del mondo, ed addirittura nel cristianesimo, secondo cui ci sono due mondi: quello di Dio,
infinito ed eterno, e quello terrestre, destinato alla corruzione.
4. La sostanza corrisponde dunque per Cartesio solamente a Dio, che è perfetto; solo lui possiede la
proprietà la cui essenza implica l’esistenza. L’attributo altro non è che ciò che l’intelletto umano
percepisce della sostanza. La sostanza è dunque infinita, ma non l’intelletto umano. La sostanza infinita
Dio possiede infiniti attributi ma viene concepita in maniera finita dall’intelletto, che le attribuisce due
attributi: il pensiero e l’estensione.
5. Per chiarire ulteriormente queste definizioni è importante analizzare lo schema sinottico presente a pag.
284. Da un lato la sostanza è eterna, infinita, unica; gli attributi ad essa attribuiti dal pensiero umano sono
quello del pensiero e quello dell’estensione. I modi sono ulteriori specificazioni della sostanza. Per quanto
riguarda il pensiero il suo modo è l’intelletto e la volontà: mediante l’intelletto si comprendono le leggi
del mondo, mentre attraverso la volontà si passa dalla dimensione del teorein alla dimensione del
prattein. I modi dell’estensione sono invece il moto e la quiete. Ciò significa che i corpi o sono in quiete.
Tutto ciò che è, dunque, in conclusione, o è sostanza, ma essa è unica, è Dio, o è attributo alla sostanza. Il
pensiero finito però individua solo due attributi alla sostanza, il pensiero e l’estensione; oppure è modo,
nei termini che abbiamo precedentemente analizzato.
6. Dio è dunque un ente infinito: possiede tutti gli attributi giacché se ne possedesse solamente una parte
sarebbe finito, e ciascuno di questi attributi appartiene all’essenza divina, che è eterna ed infinita. Ne
deriva che all’eternità di Dio corrisponde l’eternità del mondo.

Spiegazione. Infinito nel suo genere può essere definito l’uomo, ma naturalmente l’uomo non possiede tanti
attributi: non possiede l’immortalità, l’onnipotenza, ecc. All’essenza che esiste di per sé possono invece essere
attribuiti infiniti attributi senza che venga meno la sua determinazione ontologica.

7. L’uomo è determinato da necessità che limitano la sua libertà. Ne deriva che la libertà per l’uomo è una
libertà parziale ed incompleta, laddove invece solo Dio, in quanto infinito, può essere libero. Se infatti non
fosse libero allora verrebbe meno la determinazione ontologica che sarebbe finito o limitato.
8. La definizione di “ente eterno” deriva dalla determinazione dell’eternità, che non è soggetto a nascita e
morte.

Superamento del dualismo cartesiano


Da queste definizioni deriva il superamento del dualismo cartesiano di pensiero ed estensione. Se pensiero ed
estensione costituiscono due attributi di un’unica sostanza. Ne deriva che se si riferiscono ad un’unica sostanza
dalla loro eterogeneità scaturisce la loro omogeneità, in quanto derivano da una stessa sostanza. Ne deriva che
non si può porre un pensiero senza un riferimento ai corpi (non si può pensare senza un cervello): non si può
parlare di corpi senza l’attività pensante, poiché essi non si identificano con la materia ed il movimento come
invece sosteneva Cartesio, ma possiedono una vitalità interna, una forma di pensiero prima inconscia e poi
successivamente conscia. Anche la terra su cui poggiamo i piedi possiede una vitalità interna e ce la comunica
attraverso i fenomeni sismici. Di qui, attraverso questa concezione, Spinoza supera definitivamente la dicotomia
cartesiana fra res cogitans e res estensa.
JOHN LOCKE
L’arco cronologico in cui vive John Locke, in Inghilterra, va dal 1632 al 1704. Egli nasce in una famiglia agiata,
studia all’Università di Oxford e diventa consigliere e segretario di Lord Ashley. Sarà poi coinvolto in alcuni casi
di corruzione, a tal punto che dovrà abbandonare Londra, nella quale sarebbe stato incarcerato. Con la seconda
rivoluzione inglese (1688, di cui è protagonista Guglielmo d’Orange), egli ritorna in Inghilterra, ma preferisce
abbandonare qualsiasi attività politica e dedicarsi alla stesura delle sue opere, “I due trattati sul governo”, nei
quali Locke sviluppa la concezione del liberalismo politico.

3 marzo

Il liberalismo lockiano
Lo stato altro non è che un’autorità che esercita il potere su delega dei cittadini. Il potere risiede o si identifica
con i cittadini, in quella che poi sarà definita “sovranità popolare”. Ne deriva che se il sovrano o i delegati del
governo non rispettano quanto i cittadini hanno sottoscritto ed il programma che il sovrano deve rispettare,
allora i cittadini sono autorizzati alla rivoluzione, cioè ad abbattere il potere del sovrano e dei vari delegati e ad
istituire una nuova forma di potere che rispetti la volontà popolare.

Ovviamente queste tesi lockiane altre non sono che il posterius, la conseguenza, di quanto era avvenuto in
Inghilterra con la prima e la seconda rivoluzione inglese. Ne deriva che si pone una corrispondenza, anche
cronologica, fra la seconda rivoluzione inglese del 1688 e la pubblicazione dei Due Trattati sul governo avvenuta
due anni dopo, nel 1690. Locke non fa altro che porre dal punto di vista della filosofia politica quanto è emerso
come risultato e conseguenza dalla seconda rivoluzione inglese, la Gloriosa Rivoluzione.

Altra opera pubblicata nel 1690, non più di argomento politico ma più spiccatamente filosofico, è il Saggio
sull’intelletto umano.

SAGGIO SULL’INTELLETTO UMANO

Locke è definito il fondatore dell’empirismo moderno. La parola “empirismo” deriva dal greco en peira, cioè
l’unico criterio di verità è data dall’esperienza. L’unico criterio di separazione fra vero e falso è dato dunque
dall’esperienza. Per l’empirismo l’arche e il telos di qualsiasi conoscenza e di qualsiasi tipo di sapere coincide con
l’esperienza. L’empirismo lockiano implica due componenti: la pars destruens e la pars costruens.
La pars destruens riguarda la critica delle idee e dell’innatismo. La critica dell’innatismo contiene in sé stessa la
critica della teoria delle idee, che attraversa come un leitfaden (filo conduttore, elemento comune) da Platone
sino a Cartesio (anche Cartesio tratta delle idee innate, idee avventizie, ecc.) .
Con quali argomenti Locke critica l’innatismo? Con due argomenti fondamentali:

• Se possedessimo idee innate, le possiederebbero tutti, anche bambini e deficienti. I bambini devono
essere educati (con la paideia, l’educazione) a rispettare il prossimo, la proprietà. Senza l’educazione i
bambini non saprebbero cosa fare. I deficienti, invece, non possiedono alcun tipo di idea, giacché se la
possedessero non sarebbero tali.
• Se esistessero delle idee innate, tutti i popoli possiederebbero gli stessi valori, gli stessi usi e gli stessi
costumi. Per alcuni popoli, però, l’unico tipo di sepoltura è quello di mangiare i morti, per altri popoli
invece risulta brutale e sacrilego. Per alcuni popoli la divinità si identifica con il dio della pioggia, ad
esempio, per altri popoli invece la divinità si identifica con un Dio non giusto e misericordioso, ma che
punisce in maniera crudele. Da queste differenze scaturisce l’impossibilità che questi popoli possiedano
delle idee uniche e comuni che giustificherebbe la concezione dell’innatismo.
Attraverso questi argomenti critici, dunque, Locke demolisce la teoria delle idee, che era stata alla base della
filosofia occidentale. Se non possediamo nessuna idea innata, come si acquisiscono le conoscenze? A questo
proposito Locke afferma che la nostra mente al momento della nascita è come un foglio bianco sulla quale si
imprimono progressivamente, attraverso i sensi, le conoscenze: si distingue il caldo dal freddo, il dolce
dall’amaro, ecc., nozioni che scaturiscono esclusivamente dall’esperienza. Dall’esperienza scaturiscono poi quelle
che Locke definisce idee semplici e idee complesse. Le idee semplici riguardano le nozioni dirette che
apprendiamo (il dolce, l’amaro, il caldo, il freddo, ecc.), mentre le idee complesse altro non sono che le relazioni
fra le idee complesse. Attraverso le idee complesse io posso, ad esempio, anticipare che se tocco qualcosa di caldo
mi brucio, non lo tocco. Stabilisco dunque delle relazioni con una mia esperienza precedente in modo tale che
attraverso essa possa anticipare eventuali conseguenze negative di quanto ho fatto. Locke, dunque, riutilizza il
termine idea, ma in un altro significato rispetto al modo in cui era stato inteso nella filosofia precedente. Se il
termine “idea”, come abbiamo visto, comprendeva le idee innate, la nozione invece di idea lockiana implica il
fatto che esse si acquisiscano attraverso l’esperienza.

Oltre alla distinzione fra idee semplici e idee complesse (o idee di sensazione e idee di riflessione) Locke aggiunge
anche la distinzione fra qualità primarie e qualità secondarie. Le qualità primarie sono quelle misurabili e
quindi inconfutabili. Le qualità secondarie sono invece soggettive, come i gusti, e dipendono da chi le percepisce.

Fra le idee complesse Locke ricorda:

• Idee di sostanza: costituiscono un’idea artificiosa, inconsistente, in quanto non trova una corrispondenza
nell’esperienza. In questo modo, allora, Locke abbatte e demolisce, oltre che la concezione dell’innatismo,
anche la concezione di sostanza, che era stata alla base della filosofia occidentale, sino a Cartesio (con la
concezione delle tre sostanze) e Spinoza, attraverso la prospettiva monista, l’unica sostanza. L’opera
demolitoria compiuta da Locke comprende e riguarda dunque sia l’innatismo che la concezione di
sostanza.
• Idee di modi
• Idee di relazioni.

La pars costruens, invece, identifica qualsiasi tipo di conoscenza nelle idee e nel modo attraverso cui queste idee
vengono tratte dall’esperienza.

METODO DELLA FILOSOFIA


Altro aspetto importante in Locke riguarda il metodo della filosofia (la parola “metodo” deriva da metà odòs, ossia
“percorso attraverso il quale si parte da una determinata premessa e si giunge ad una conseguenza diversa dalla
premessa stessa mediante il metodo deduttivo, partendo da una definizione traendone le conseguenze, o
induttivo, partendo da esperienza semplici sino a giungere ad una definizione universale).
La prospettiva del nuovo metodo della filosofia si identifica con l’individuazione delle possibilità e limiti della
conoscenza umana. Partendo dalla premessa che la conoscenza umana, in quanto si basa su una sensibilità, non
potrà mai costituirsi come conoscenza perfetta, individuare la possibilità vuol dire individuare l’orizzonte nel
quale la conoscenza umana può muoversi. Come noi non potremo mai raggiungere l’orizzonte nello spazio, così
anche per quanto concerne la conoscenza umana qualsiasi punto di arrivo altro non è che un punto di partenza
verso un nuovo tipo di scoperta. La conoscenza umana è dunque limitata, e non potremo mai rispondere alle
domande che l’uomo si è posto sin dall’inizio: chi sono io? Chi mi ha messo al mondo? Qual è il senso della mia
esistenza? A queste domande l’uomo ha tentato di rispondere nella consapevolezza di non formulare un tipo di
risposta univoca e definitiva.

6 marzo

Leibniz
Nasce a Lipsia nel 1646, studia filosofia a Iena (Napoleone vinse il 14 ottobre 1806 contro la quarta coalizione in
questa battaglia, combattuta fra l’esercito francese e quello prussiano) e poi giurisprudenza a Altdorf, vicino
Norimberga. Molto presto vengono riconosciute le sue qualità sia di filosofo che di esperto in leggi, a tal punto
che egli viene nominato consigliere del principe elettore di Magonza (i principi elettore erano 8: 5 autorità laiche
e 3 ecclesiastiche, in base alla bolla d’oro del 1356, con la quale Carlo IV decise di regolare l’elezione degli
imperatori). Seguendo il principe elettore, successivamente egli si trasferisce a Parigi: qui egli può confrontarsi
direttamente con il pensiero e la filosofia di Cartesio. Qui egli si dedica anche agli studi di matematica e fisica: in
effetti Leibniz costituisce uno dei pochi filosofi enciclopedici, nessuna forma di sapere gli è estranea, dalla protae
philosophia alla matematica sino a giungere alla fisica. Egli giunge infatti ad individuare il calcolo infinitesimale
attraverso un procedimento autonomo, mentre Newton lo farà solo 10 anni dopo. Nel 1676 rientra in Germania,
dove viene nominato bibliotecario del duca di Hannover. Uno studioso che diventa bibliotecario è come se vivesse
nel suo regno.

Oltre questo ruolo egli continua i suoi viaggi: a quei tempi solo attraverso i viaggi si poteva entrare a contatto con
culture diverse dal proprio luogo di origine. Nel 1700 promuove la fondazione dell’Accademia prussiana delle
scienze, finché non morirà il 14 novembre 1716.

OPERE DI LEIBNIZ
Leibniz costituisce un esempio di intellettuale dai molteplici interessi, a tal punto che le sue opere spaziano dalla
matematica alla fisica, dalla giurisprudenza alle scienze naturali, ecc.

Per quanto riguarda le opere filosofiche, va ricordato il Discorso di metafisica, pubblicato nel 1686, i Principi
di filosofia, noti dal 1714 con il nome di Monadologia, e nel biennio 1703-1704 i Nuovi Saggi sull’intelletto
umano. Attraverso quest’opera affronta il Saggio sull’intelletto umano di Jhon Locke modificando dunque la
gnoseologia lockiana (ricordiamo infatti che il Saggio sull’intelletto umano di Locke era stato pubblicato nel
1690). Nel 1710 pubblica poi i Saggi di Uticea. Con essi si intende null’altro che il modo attraverso il quale
secondo Leibniz il nostro sarebbe il migliore dei mondi possibili. Quando ci fu il terremoto di Lisbona gli rispose
Voltaire con il saggio “Poema sul disastro di Lisbona”.

FILOSOFIA LEIBNEZIANA
Quali sono i presupposti della filosofia leibneziana? Leibniz intende coniugare e dunque individuare una sintesi
fra quelli che definisce antichi e moderni. Che intende Leibniz per tentativo di sintesi fra antichi e moderni? Gli
antichi aveva privilegiato una concezione del mondo teleologica (tutto ciò che accade ha un fine, e non avviene
in maniera casuale): un esempio della concezione teleologica lo troviamo in Aristotele, ed in particolare in
relazione alla causa finale di ciascun ente: Aristotele individuava infatti quattro cause: la causa materiale, la causa
formale, la causa efficiente e la causa finale. Tutto ciò che accade nel mondo possiede un fine, anche un filo d’erba,
un sassolino, ecc. Di conseguenza la concezione finalistica è quella dei greci, secondo Leibniz, che è stata
completamente modificata dal meccanicismo cartesiano, concezione cartesiana secondo cui tutto ciò che è, il
mondo cartesiano, è costituito da materia in movimento e quindi da corpi mobili nello spazio destinati a ripetere
gli stessi movimenti impressi dalla causa prima, Dio, in maniera inerte ed inconsapevole. Il cuore, ad esempio, è
destinato alle pulsazioni, così anche il giorno è destinato a consumarsi nella notte, la notte nel giorno, ecc.
Leibniz tenta di coniugare queste due componenti contrapposte. Egli lo fa attraverso una struttura filosofica che
assume in primo luogo un significato logico, ed a causa della stretta coappartenenza fra dimensione logica e
dimensione ontologica, l’una implica l’altra, e quindi un significato ontologico, attraverso l’individuazione di due
forme di verità: la verità di ragione e la verità di fatto. La parola verità deriva dal latino veritas, che a sua volta
deriva dal greco aletheia, che è costituita dalle parole a privativo lantano: la verità di rivela nascondendosi e si
nasconde rivelandosi in base anche al frammento 123 di Eraclito, physis chriptestai philei. Nel frattempo, però, si
è passati alla concezione cartesiana della verità: se i greci all’interno della loro concezione della verità
mantenevano e conservavano una componente zetetica (da zetesis, ricerca, e quindi una volontà mai definitiva
ma sempre in divenire), con la concezione latino e poi della filosofia moderna della verità si è imposta la
concezione cristiana della verità catechetica; catechetica non nel senso della verità così come emerge con gli
articoli di fede, ma nel senso delle verità filosofiche che vengono espresse e definite mediante la ragione.
Leibniz, dunque, individua due tipi di verità: la verità di ragione e la verità di fatto. Le verità di ragioni sono le
verità incontrovertibili che si identificano con le verità della geometria e della matematica e non possono essere
messe in discussione, mentre le verità di fatto sono le verità contingenti. Nelle verità di fatto Leibniz individua il
principio di ragione sufficiente: il fatto che oggi ci troviamo qui in classe implica il fatto che ci sia una ragione
sufficiente per la quale noi oggi ci troviamo qui e non invece in un altro luogo. Nelle verità di fatto, per tutto ciò
che accade, esiste sempre una ragione sufficiente per cui una determinata situazione si presenti in un modo
piuttosto che in un altro.

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