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Esercitazioni

di laboratorio
Esercitazioni di laboratorio a cura dei Proff. Raffaele Miranda e Francesco Della Gala

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Indice delle esercitazioni

C
Conducibilità delle soluzioni Pag. 4
Costruzione di un'unità di misura Pag. 6
Costruzione e taratura di un dinamometro Pag. 7
Cristallizzazione Pag. 9
Cromatografia su strato sottile Pag. 10
Curva di titolazione Pag. 12

Densità delle soluzioni Pag. 14


Densità di liquidi Pag. 15
Densità di solidi Pag. 18
Determinazione acidità dell’aceto Pag. 19
Determinazione acidità del limone Pag. 20
Determinazione acidità dell'olio d'oliva Pag. 21
Determinazione dei cloruri in un’acqua Pag. 23
Determinazione del pH Pag. 24
Determinazione dell'acqua ossigenata Pag. 26
Determinazione della durezza di un'acqua Pag. 27
Determinazione della massa molecolare Pag. 29
Determinazione della pressione atmosferica Pag. 30
Differenza tra miscugli e composti Pag. 31
Distillazione Pag. 32

Elettrolisi dell’acqua Pag. 34


Esperienze sugli acidi carbossilici Pag. 35
Esperienze sugli alcani Pag. 36
Esperienze sugli alcheni e alchini Pag. 37
Esperienze sugli alcoli Pag. 38
Esperienze sugli esteri Pag. 39
Esperienze sui carboidrati Pag. 40
Esperienze sulle aldeidi e chetoni Pag. 41
Esperienze sulle proteine Pag. 42
Estrazione della caffeina Pag. 43
Estrazione Pag. 44

Filtrazione Pag. 45
Formazione di composti Pag. 47
Fusione e solidificazione Pag. 50

Idrolisi del saccarosio Pag. 51


Idrolisi della caseina Pag. 53
Idrolisi salina Pag. 54

L’albero chimico Pag. 56


Legge isobara dei gas Pag. 57
Legge isocora dei gas Pag. 59
Legge isoterma dei gas Pag. 61
L’isola infuocata Pag. 63
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3
M

Misura della conducibilità delle soluzioni Pag. 64


Misure di grandezze Pag. 65

P
Pila Daniell Pag. 69
Polarità delle molecole Pag. 71
Potere ossidante e riducente Pag. 74
Precipitazione della caseina Pag. 77
Preparazione del sapone Pag. 78
Preparazione e controllo di una soluzione di AgNO3 Pag. 79
Preparazione e controllo di una soluzione di EDTA Pag. 80
Preparazione e controllo di una soluzione di HCl Pag. 82
Preparazione e controllo di una soluzione di KOH Pag. 83

R
Reazioni chimiche Pag. 84
Reazioni di complessazione Pag. 86
Reazioni di ossidoriduzione Pag. 87

Saggi alla fiamma Pag. 90


Saggi alla perla Pag. 91
Scrittura invisibile Pag. 92
Sintesi del cloruro di ter-butile Pag. 93
Sintesi della saccarina Pag. 94
Sintesi dell'acido benzoico Pag. 95
Sintesi dell'aspirina Pag. 96
Solubilità Pag. 97
Soluzioni tampone Pag. 98

Titolazioni acido-base Pag. 99


Tubi di Crookes Pag. 100

Velocità delle reazioni Pag. 101


Verifica del principio di Le Chatlier Pag. 103
Verifica della legge di Lavoisier Pag. 104
Verifica dell'equilibrio chimico Pag. 105
Vulcano in eruzione Pag. 107
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Conducibilità delle soluzioni

Materiali occorrenti:
Acqua distillata – Acetone – Alcool etilico – Solfato di rame – Glucosio – Idrossido di sodio – Cloruro di sodio
– Becher da 250 ml – Cavetti con morsetto – Batterie da 4,5 V – Lampadine da 6 V – Portalampada –
Tavoletta di legno – Carta da filtro – Spatoline – Spruzzetta – Elettrodi di grafite.

Cenni teorici:
L’acqua pura non conduce la corrente elettrica, ma le soluzioni acquose possono farlo. Dipende dal soluto
che in essa è disciolto. Alcune sostanze formano soluzioni capaci di condurre la corrente elettrica, e
vengono chiamate elettroliti, altre, invece, formano soluzioni che non sono capaci di condurre la corrente e,
per questo, sono chiamate non elettroliti.
Lo scopo dell’esercitazione è proprio quello di dare una classificazione ad alcune sostanze, stabilire cioè
quali sono elettroliti e quali non lo sono, e dimostrare che non tutti gli elettroliti conducono la corrente allo
stesso modo.
Per fare questo, ovviamente, le soluzioni che si preparano devono avere tutte la stessa concentrazione. Solo
in questo modo si può fare un paragone.

Esecuzione dell’esperienza:
Si collegano i due elettrodi di grafite con due cavetti muniti di spinotto, una batteria da 4,5 V e una
lampadina da 6 V (come mostrato in figura), avendo cura di fissare gli elettrodi in modo che la distanza
rimanga invariata durante l'esecuzione delle varie prove.

Si versano 100 mL di acqua distillata in un becher da 250 ml e nel liquido si immergono i due elettrodi.
Si osserva se la lampadina si accende o meno.
In un altro becker da 250 mL, si versano 100 mL di acqua distillata e in essa si sciolgono 5,8 g di cloruro di
sodio (NaCl). Nella soluzione si immergono, dopo averli lavati accuratamente ed asciugati, i due elettrodi in
grafite. Anche in questo caso si osserva se la lampadina si accende o meno
L’esperienza va ripetuta versando sempre 100 mL di acqua distillata in becker da 250 mL e sciogliendo in
essa, di volta in volta, 16 g di solfato rameico (CuSO4), la prima volta, 4,0 g di idrossido di sodio (NaOH),
la seconda volta e, infine, 18 g di glucosio, l’ultima volta.
In ogni soluzione si introducono gli elettrodi di grafite, sempre ben lavati ed asciugati, e ogni volta si osserva
se la lampadina si accende o meno..

I casi che si possono avere sono tre e riconducibili a:

― la lampadina non si accende;


― la lampadina si accende con luce fioca;
― la lampadina si accende con luce intensa.

È necessario per ogni prova usare un becher diverso. Nel caso in cui non se ne disponesse a sufficienza, si
può usare lo stesso, purché ogni volta, venga ben lavato ed asciugato con carta da filtro.
Alla fine di ogni prova si segna, nella tabella della pagina seguente, una crocetta nella casella che
corrisponde a quanto osservato per ogni singola sostanza o soluzione sottoposta a prova.
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Sostanza o Mancata Accensione Accensione


soluzione accensione fioca intensa
Acqua distillata
Acetone
Alcool etilico
Glucosio
Cloruro di sodio
Solfato di rame
Idrossido di sodio

Nella relazione finale, che segue l’esperienza, rispondere alle seguenti domande:

- A cosa è dovuta la capacità, per alcune sostanze, di formare soluzioni che conducono la corrente?

- Perché per alcune soluzioni la luminosità della lampadina è maggiore e per altre minore?
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Costruzione di un’unità di misura della lunghezza

Materiali occorrenti:
Foglio di carta a quadretti - Forbici - Nastro adesivo - Riga (o squadretta) - Matita

Cenni Teorici:
Una unità di misura è una grandezza di riferimento a cui si assegna il valore di 1 e un nome. Le misure che
si effettuano sono tutte riferite all’unità di misura stabilita per quella grandezza. Ad esempio le misure di
massa sono tutte riferite al chilogrammo, che è l’unità di misura scelta per questa grandezza. La scelta di
un’unità di misura è, però, del tutto arbitraria, cioè viene scelta senza precise regole, ma, per lo più,
seguendo la tradizione o le comodità di lettura e fabbricazione di uno strumento di misura.
Lo scopo di questa esercitazione è quello di far vedere come la scelta di una unità di misura è arbitraria e
come, con il nostro sistema decimale, si ottengono i sottomultipli di questa unità. Per fare questo,
costruiremo un’unità di misura della lunghezza.

Esecuzione dell’esperienza:
Dal foglio di carta si ritagliano delle strisce rettangolari in numero a scelta. Le strisce ottenute si uniscono
mediante nastro adesivo. Unire un solo lato, perché l’altro deve essere libero per poterci scrivere. Una volta
unito il numero di strisce scelte, si segna alla destra del rettangolo ottenuto un punto e, alla stessa altezza,
sulla destra, un altro punto. In corrispondenza del punto messo a sinistra si segna 0, mentre in
corrispondenza di quello di destra si segna 1.
Si uniscono i due punti con un segmento orizzontale, come indicato dalla figura successiva.

0 1

Il segmento ottenuto tra i punti 0 e 1, rappresenta l’unità di misura costruita. Si può assegnare,
adesso, un nome all’unità ottenuta ed un simbolo (il simbolo deve essere formato da 1 oppure 2 lettere,
che richiamano il nome dato all’unità).
Aiutandosi con i quadratini del foglio si divide il segmento in dieci parti uguali. (basta conteggiare i quadratini
che vi sono tra 0 e 1 e dividere questo numero per 10. Quello che si ottiene rappresenta il numero dei
quadratini alla fine del quale dobbiamo segnare un punto)
In corrispondenza dei punti ottenuti si segnano i valori di 0,1 per il primo punto dopo lo 0, si segna 0,2 per il
secondo, 0,3 per il terzo e così di seguito, fino ad ottenere una situazione come quella riportata di seguito:

0 0,1 0,2 0,3 0,4 0,5 0,6 0,7 0,8 0,9 1

I valori segnati rappresentano i decimi dell’unità di misura costruita.


Lo spazio compreso tra 0 e 0,1 si può dividere ulteriormente in dieci parti, sempre aiutandosi con i
quadratini. Allo stesso modo si procede per lo spazio tra 0,1 e 0,2, come anche per gli altri spazi, fino ad
avere anche i centesimi dell’unità costruita, come riportato in figura.

0 0,1 0,2 0,3 0,4 0,5 0,6 0,7 0,8 0,9 1

(i valori di 0,01 e i seguenti, cioè 0,02 0,03 0,04, ecc., che sono il primo , il secondo, il terzo, e così di
seguito, dopo lo 0, non sono stati riportati per mancanza di spazio. Per questo, per evitare poco spazio a
disposizione, si consiglia di formare una striscia abbastanza lunga, senza, però, esagerare). I valori dopo 0,1
iniziano con 0,11, come dopo lo 0,2 iniziano con 0,21 e questo per tutti gli altri punti.
In questo modo si è ottenuta un’unità di misura della lunghezza, con relativo nome e i suoi sottomultipli,
scelta in modo arbitrario, perché il valore 1 (unità di misura) è stato stabilito da chi ha ritagliato i rettangolini
di carta, così come il numero dei rettangoli da unire.
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Costruzione di un dinamometro e relativa taratura

Materiali occorrenti:
Due cilindri di qualunque materiale di differente diametro – Alcuni elastici – Gancio – Colla – Tappi di gomma
(o altro materiale) – Nastro adesivo.

Cenni teorici:
Tarare uno strumento di misura significa costruire per esso una scala con relativa divisione e stabilire il
valore massimo che lo strumento è in grado di misurare.
La scala che costruiamo per lo strumento rappresenta la scala di misura dell’apparecchio, mentre il valore
massimo che lo strumento è in grado di misurare rappresenta la portata dell’apparecchio.
La scala di misura si stabilisce, ovviamente, in base all’unità di misura adoperata.
Ad esempio, una scala di misura di un termometro, può essere ottenuta in gradi Centigradi (°C) o anche in
gradi Kelvin (°K).
Una volta costruita la scala di misura, si può anche stabilire il valore minimo per il quale lo strumento
produce una misura. Questo valore rappresenta la sensibilità dell’apparecchio.

Costruzione del dinamometro:


Si prende il tubo con diametro maggiore e si tappa una delle due estremità. Il tappo si fissa al tubo con della
colla e/o con del nastro adesivo. Nel tappo si produce un foro (non molto grande) attraverso il quale si fanno
passare degli elastici (anche solo uno). Questo determinerà la portata del dinamometro. In sostituzione degli
elastici ci si può avvalere anche di una molla metallica di adeguata lunghezza. Si fissano gli elastici (o la
molla metallica) al tappo superiore (si possono anche utilizzare semplici stuzzicadenti, che messi tra gli
elastici e il tappo non permettono che essi si stacchino. Ovviamente bisogna, poi, fissare il tutto).
Si infila nel tubo a diametro maggiore quello a diametro minore e, ponendo un tappo nella parte inferiore del
tubo minore, si fissano gli elastici attaccando ad essi un gancio.
Si realizza cosi un dinamometro (come quello schematizzato in fig. 1), che dovrà essere tarato.
Il dinamometro può anche essere alla fine rivestito per fornirgli un aspetto più elegante.

Taratura del dinamometro:


Costruito il dinamometro, si segna una tacca di riferimento sul cilindro interno, in corrispondenza dell’orlo del
cilindro esterno, come mostrato nella figura 1. In corrispondenza della tacca tracciata si segna il valore di 0
N, perché utilizzeremo questa unità di misura per costruire la nostra scala. Lo strumento in questo momento
non effettua alcuna misura e, per questo, abbiamo dato il valore zero.
Si attacca al gancio del dinamometro un corpo di peso noto e si attende che il cilindro interno si fermi. In
corrispondenza dell’orlo del cilindro esterno si segna una tacca di riferimento e il valore noto del peso del
corpo. Così, ad esempio, se il valore del peso del corpo è di 5 N, in corrispondenza della tacca ottenuta si
segna il valore 5 N, come mostrato nella figura 2.

Fig. 2
Fig. 1

(per avere un corpo di peso pari a 1N si deve disporre di un corpo di massa pari a 102 g).
A questo punto si misura la spazio che intercorre tra il valore 0 N e
quello di 5 N, che rappresenta, ovviamente, la nostra scala di 5
Newton. Questa distanza, poiché rappresenta 5 N, deve essere
divisa in modo da ottenere ogni Newton a quanti cm o mm Fig. 3
corrisponde. (vedi figura 3)
Ad esempio se lo spazio tra 0N e 5N corrisponde a 3 cm, siamo
nell’eguaglianza di 5N = 3cm, per cui per sapere 1N a quanto
corrisponde, poiché nel nostro caso sono 5 i Newton che
consideriamo, basta dividere tutto per 5 (riduzione all’unità).
Si ottiene 1N = 3/5 cm, cioè, 1N = 0,6 cm.
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A questo punto, a partire da 0N, sulla nostra scala misuriamo 0,6 cm e segniamo una tacca di riferimento e il
valore di 1N, successivamente, partendo da 1N misuriamo 0,6 cm e segniamo una tacca con il valore di 2N,
e così di seguito.
(Se per avere il secondo punto, differente dallo 0, si è utilizzato un peso di 1 N, basta misurare la distanza
tra 0 N e 1 N e riportarla di seguito all’1N).
La scala, tirando il cilindro interno (attenzione a non spezzare l’elastico) va continuata anche oltre 5N. Il
valore massimo che riusciremo a segnare rappresenta la portata del nostro dinamometro.
La distanza tra 0 N e 1 N, deve essere diviso in 10 parti uguali, ognuna delle quali rappresenterà i decimi di
N. La divisione avviene semplicemente misurando la distanza tra 0 N e 1 N e dividendo questa distanza per
10. Questo valore vale per tutte le altre distanze tra una tacca e quella successiva. (cioè tra 1 N e 2 N, tra 2
N e 3 N e così di seguito).
Per finire, si attaccano al gancio pesi molto piccoli e si segna per quale di quelli lo strumento produce una
misurazione. Questo valore rappresenta la sensibilità del dinamometro.
Ad esempio si attaccano al gancio oggetti di peso di 0,1 N, 0,2 N, 0,3 N e 0,4 N. Con il primo oggetto il
dinamometro non subisce variazioni dallo 0, mentre fornisce il valore di 0,2 N quando si aggancia il secondo
oggetto. Il dinamometro ha un sensibilità di 0,2 N.

N. B. la taratura dell’apparecchio può essere controllata attaccando al gancio del dinamometro oggetti di
peso noto, differenti da quello utilizzato per la taratura. Ad esempio, se per tarare l’apparecchio si è usato un
oggetto di 5 N, come illustrato in precedenza, si possono utilizzare, per il controllo, pesi di 2 N e di 7 N. E’
sempre bene andare al disopra e al disotto del valore considerato per la taratura (nel nostro caso i 5 N),
senza, ovviamente, superare la portata dello strumento.
Una volta attaccati questi oggetti al gancio del dinamometro, si controlla se lo strumento segna il valore
corretto.
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La cristallizzazione

Materiali occorrenti:
Acido salicilico – Becker da 250 ml – Bacchettina di vetro – Treppiedi – Cilindro graduato da 100 mL.

Cenni teorici:
La solubilità di una sostanza dipende da diversi fattori, tra cui la temperatura. Vi sono sostanze che disciolte
in un solvente mostrano, a freddo, una scarsa solubilità mentre, a caldo, risultano molto solubili. Questo
fenomeno viene sfruttato per purificare una sostanza, attraverso una tecnica chiamata cristallizzazione.
Per una buona purificazione di una sostanza bisogna scegliere un solvente che, non solo mostra le
proprietà descritte, cioè la sostanza deve essere praticamente insolubile a freddo e solubile a caldo,
ma deve sciogliere le impurità sia a freddo che a caldo.
Durante il raffreddamento della soluzione la sostanza da purificare, che abbassa la propria solubilità, inizia a
precipitare mostrando i primi cristalli solidi. Su questi cristalli iniziali si andranno ad accrescere le altre
particelle solide che successivamente si formeranno.
Il fenomeno di formazione dei primi cristalli è chiamato nucleazione, perché si formano i primi nuclei su cui
andranno le altre particelle. Il secondo, invece, è chiamato accrescimento. I due fenomeni avvengono con
differente velocità, che dipende dalla velocità di raffreddamento. Se si raffredda lentamente si formano meno
nuclei e, nella successiva fase di accrescimento, poiché vi sono pochi siti su cui si possono attaccare le
particelle, si avranno meno cristalli, ma di grandi dimensioni. Viceversa, se si raffredda più velocemente, si
avranno molti nuclei a disposizione delle particelle che precipitano dopo e, per questo, si avranno più cristalli
ma di dimensioni ridotte.
Nel primo caso si ha una bassa velocità di nucleazione, nel secondo una più alta velocità.
E’ sempre bene raffreddare lentamente, perché, in tal modo, si ottengono cristalli più grossi che sono
più facilmente filtrabili, nella fase di separazione, successiva, alla precipitazione della sostanza.

Esecuzione dell’esperienza:
Porre in due differenti beckers da 250 mL, 100 mL d'acqua distillata. Aggiungere, ad ognuno, alcuni mg di
acido salicilico. Riscaldare i due miscugli fino all’ebollizione dell’acqua. Abbassare leggermente la fiamma e
lasciare bollire fino a che tutto l’acido salicilico si è disciolto. Spegnere la fiamma e prendere visione dell’ora
alla quale la fiamma è stata spenta. Lasciare raffreddare uno dei due becker all’aria, mentre l’altro si porta in
frigo o sotto un getto continuo di acqua, bagnando le pareti esterne (attenzione a non far entrare acqua nel
becker). Si annotano i tempi necessari alla comparsa dei primi cristalli nei due differenti becker. Si continua a
questo punto a far raffreddare, con le modalità precedenti, i due beckers fino a che non si ottiene più
precipitato. Si annotano i tempi necessari a completare anche questa fase. I cristalli di acido salicilico si
presentano come aghi bianchi traslucidi ed estremamente friabili (si spappolano con una lievissima presione
delle dita).
Una volta avvenuta la cristallizzazione, si passa alla separazione dei cristalli dalla soluzione. Per completare
la nostra esercitazione utilizzeremo uno solo dei due becker in cui è avvenuta la cristallizzazione. La
filtrazione avviene per decantazione e i cristalli, una volta avuti nell’imbuto, si lavano cinque o sei volte, con
pochissima acqua fredda per volta, per allontanare eventuali impurezze adsorbite sulla loro superficie.
Infine si essiccano i cristalli in stufa per due ore, per allontanare l’acqua.

L’esperienza può anche essere condotta utilizzando del solfato di rame (CuSO4). In questo caso in un
becker da 250 mL si pongono 100 mL di acqua distillata e in essa si versano 60 g di solfato di rame,
finemente sminuzzati in mortaio. Il miscuglio ottenuto viene riscaldato ad una temperatura intorno ai 60°C,
fino a che tutto il sale non è disciolto. Si continua il riscaldamento, facendo attenzione a non superare gli
80°C, fino alla riduzione del volume di soluzione a circa 1/3 di quello iniziale. A questo punto si spegne il
bunsen, si toglie il becker dalla retina e si lascia raffreddare la soluzione all’aria. Dopo circa 20 minuti
compaiono i primi cristalli di solfato di rame. Dopo circa mezz’ora, la precipitazione è completa. Si filtra,
come visto in precedenza, e si lascia essiccare il solido all’aria per un intero giorno.
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Cromatografia su strato sottile

Materiali occorrenti:
Alcol etilico - Acetato di etile - Foglie di spinaci - Mortaio con pestello - Pipetta Pasteur - Lastra
cromatografica in gel di silice - Vaschetta per cromatografia - Provetta.

Cenni teorici:
Il principio fondamentale, su cui si basa la cromatografia su strato sottile, è quello di stendere la miscela in
esame, sciolta in un opportuno solvente, su particolari strati (fase fissa), che hanno la capacità di trattenere
(adsorbire) in modo diverso i vari componenti della miscela, che poi saranno trascinati da un opportuno
solvente, l’eluente (fase mobile), con velocità diversa permettendone la separazione. Nella cromatografia su
strato sottile, in particolare, l’adsorbimento si fa avvenire su un sottile strato di adsorbente, la silice, de-
positata su una lastrina di vetro.
A seconda della natura delle due fasi, quella mobile e quella fissa, la cromatografia viene distinta in
cromatografia solido-liquida, come quella che tratteremo in queste pagine, cromatografia liquido-liquido
e cromatografia gas-solido, chiamata anche semplicemente gascromatografia.
La cromatografia è un ottimo metodo per la separazione di miscele, anche molto complesse, di composti
presenti in piccole quantità, con caratteristiche fisiche e chimiche abbastanza simili e, per questo, non se-
parabili con nessun’altra tecnica.

Fase di estrazione:
Si tagliano a pezzetti 3 o 4 foglie di spinaci (o anche 1, se la lastra cromatografica è piccola), si pongono in
un mortaio insieme ad alcuni millilitri di alcol etilico e si pestano fino a ridurle in poltiglia. Si preleva il liquido
sovrastante (quando è diventato di colore verde intenso) con una pipetta Pasteur e si raccoglie in una
provetta.

Fase di separazione (cromatografia):


Si pone la soluzione, precedentemente raccolta, sulla linea di base tracciata sulla lastra per cromatografia a
circa 2 cm dal bordo, usando una pipetta ben sfilata, come mostrato in figura.

Per evitare che la soluzione posta sulla linea di base si espanda troppo è consigliabile spargere il liquido
poco per volta, ripetendo l’operazione più volte.
Si attende qualche minuto per consentire al solvente di evaporare (l’operazione può essere favorita
utilizzando un comune asciugacapelli) e si pone la piastra nella vaschetta per cromatografia, contenente
l’eluente, che nel nostro caso è acetato di etile (CH3COOC2H5), come mostrato nella figura sottostante.

Bisogna stare ben attenti che il livello dell’eluente sia al di sotto del punto di caricamento della lastra per
evitare fenomeni di diffusione.
Si toglie la lastra dalla vaschetta quando il fronte dell’eluente è arrivato a circa 1 cm dal bordo superiore della
piastra. Si lascia asciugare la lastra e si osservano le bande colorate, che si presenteranno come nella figura
successiva.
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Si nota che la cromatografia ci consente di chiarire che le foglie di spinaci, come tutte le foglie, sono
costituite da più componenti. Nella parte più alta rispetto al fronte superiore si trova una banda di colore
giallo dorato dovuta alla presenza del carotene, più in basso una fascia gialla costituita dalla xantofilla,
infine le bande verdi, molto vicine, rivelano che la clorofilla è costituita da due tipi diversi di clorofilla, la
clorofilla a e la clorofilla b.
La cromatografia appena vista, si può realizzare anche utilizzando come fase solida, anziché una lastrina di
gel di silice, un foglio di carta, appositamente preparato per aumentarne l’adsorbanza (carta per
cromatografia). In questo caso la cromatografia viene indicata come cromatografia su carta e, per essa, si
procede allo stesso modo visto per la cromatografia su gel di silice. Si carica, su una linea orizzontale, ad
una certa distanza dal bordo inferiore, la striscia di carta con la miscela da separare, si lascia asciugare e,
successivamente, si infila nell’eluente, facendo attenzione che il liquido arrivi ad una certa distanza dalla
linea di caricamento, senza bagnarla. Si fa migrare l’eluente e si tira dal liquido la striscia di carta, quando
l’eluente è arrivato a pochi cm dal bordo superiore.
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Curva di titolazione

Materiali occorrenti:
Acido cloridrico sol 0,1 M – ldrossido di sodio 0,1 M – pHmetro – Buretta da 50 mL – Becker da 250 mL.

Cenni teorici:
Per titolare è necessario la presenza di un indicatore, che ci permette di cogliere il punto di equivalenza, cioè
il momento in cui la reazione tra titolato e titolante si è completata. Il punto di equivalenza viene indicato in
base a una variazione visibile dell’indicatore (viraggio), che per una titolazione acido-base corrisponde ad
un cambiamento di colore dell’indicatore. Il cambiamento di colore di un indicatore acido-base avviene ad un
determinato valore di pH. Ma gli indicatori non virano tutti allo stesso pH, per cui è importante conoscere il
pH di equivalenza per poter scegliere l’indicatore più adatto per la titolazione.
Il pH di equivalenza si ottiene tracciando la curva di titolazione della reazione che si sta considerando. Una
curva di titolazione, è il grafico ottenuto riportando i mL di soluzione titolante e il pH della soluzione
da titolare, che si osserva per aggiunte progressive di titolante.
Inizialmente il pH della soluzione da titolare è dovuto alla concentrazione della soluzione da titolare (nel
nostro caso è un pH acido, perché titoleremo l’acido cloridrico).
Mano a mano che aggiungiamo il titolante il pH varierà (nel nostro caso tenderà a salire). Inizialmente con
lentezza, mentre, vicino al punto di equivalenza, vi sarà una notevole variazione del pH, per piccole aggiunte
di titolante (salto del pH), in quanto, vicino all’equivalenza la concentrazione dello ione ossidrile [OH] e
quella dello ione idrogeno [H3O+], sono praticamente uguali, per cui anche una piccola aggiunta di titolante
provoca una grande variazione della concentrazione dei suoi ioni e, di conseguenza, del pH. Dopo
l’equivalenza, predomina lo ione ossidrile e la curava, per ulteriore aggiunta di titolante, continuerà a salire,
ma senza brusche variazioni.

Esecuzione dell'esperienza:
Si prelevano, con pipetta tarata, 10 mL di acido cloridrico (HCl) sol. 0,1 M, facendoli sgocciolare
accuratamente in un becker da 250 mL; ad essi si aggiungono 90 mL di acqua distillata. Nei 100 mL di
soluzione così preparata si trovano 0,001 moli di HCI, per cui la soluzione è 0,01 M.
Si riempie con cura, fino alla tacca zero, una buretta da 50 mL con la soluzione di idrossido di sodio
(NaOH) 0,1 M e la si pone sul suo sostegno. Si mette il becker con l'acido sotto la buretta, in esso si
immerge l’elettrodo del pHmetro, precedentemente lavato con cura (Il pHmetro deve essere tarato con
soluzioni tampone prima di essere utilizzato). Si attende un minuto circa al fine di compensare la
temperatura e si rileva il valore del pH. Poiché la soluzione preparata di acido cloridrico è una soluzione 0,01
M, il valore di pH dovrà essere, nei limiti degli errori sperimentali, uguale a 2 .
Si registra nella tabella sottostante il valore reale di pH misurato. Si procede, quindi, all’aggiunta della
soluzione titolante, di 1 mL alla volta. Dopo l’aggiunta di 8 mL di NaOH è consigliabile fare aggiunte di 0,2
mL fino al valore di 12 mL, al fine di poter cogliere il punto di equivalenza in modo più preciso.
Successivamente si aggiunge di nuovo 1 mL per volta arrestando la lettura al valore di 20 mL. Registrare
nella tabella, dopo ogni aggiunta di titolante, sia il volume sia il valore di pH misurato. Per una
misurazione più precisa, ad ogni intervallo, si agita per alcuni secondi la soluzione nel becker con un
bacchetta e si attendono almeno 30 secondi per stabilizzare la lettura.

N. Volume di Valore di
della NaOH pH
lettura aggiunto misurato
1a 0
2a
3a
4a
5a
6a

(la tabella va, ovviamente, continuata fino a riportare tutti i valori)

Con i dati della tabella è possibile ricavare il grafico dell'andamento della titolazione, riportando, su un foglio
di carta millimetrata, i valori dei mL di titolante aggiunti, sulle ascisse, e i valori di pH misurati, sulle
ordinate. I punti che si ottengono collegati tra loro danno la curva di titolazione.
Nella pagina successiva viene riportato un esempio di curva di titolazione.
Esercitazioni di laboratorio a cura dei Proff. Raffaele Miranda e Francesco Della Gala

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Esempio di curva di titolazione. Nel caso di un acido forte e di una base forte, come quello da noi trattato, il punto di
equivalenza è esattamente a pH 7 (come nell’esempio). Negli altri casi si coglie il punto di equivalenze dalla variazione di
pendenza della curva.
Si noti che nel primo tratto la curva ha un andamento crescente regolare, mentre in prossimità del punto di equivalenza
subisce una forte impennata.
Nel caso di un acido debole o di una base debole,
debole l’impennata della curva è molto meno pronunciata (in alcuni casi quasi
inesistente).

Alla fine dell’esperienza, nella relazione


relazione finale, riportare, ricavandolo dal grafico, il volume di soluzione di
NaOH che produce la neutralizzazione (volume
(volume al punto di equivalenza).
equivalenza). Con questo valore calcolare la
concentrazione reale della soluzione di HCl (considerando corretta quella di NaOH).
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La densità delle soluzioni

Materiale occorrente:
Cloruro di sodio – Cilindro da 100 mL – Cilindro da 50 mL – Becker da 100 mL – Vetrino d’orologio –
Bacchettina di vetro lunga – Pipetta Pasteur – Bilancia tecnica.

Cenni teorici:
Come sappiamo, la densità di un corpo (soluzioni comprese) è data dal rapporto tra la massa del corpo e il
suo volume.
Per ogni corpo la densità è una grandezza caratteristica e costante. Nel caso delle soluzioni, però, il suo
valore dipende dalla concentrazione, oltre che dalla temperatura.
Lo scopo dell’esperienza è proprio quello di individuare la dipendenza della densità dalla concentrazione, nel
senso che dovremo stabilire se le due grandezze sono inversamente o direttamente proporzionali e perché.

Esecuzione dell’esperienza:
Pesare un cilindro vuoto e ben asciutto da 100 mL. Successivamente pesare 1,8 g di cloruro di sodio (NaCl).
Trasportare quantitativamente i g pesati nel cilindro e aggiungere acqua fino al volume di 100 mL. Ripesare il
cilindro con la soluzione. Calcolare la molarità e la densità della soluzione ottenuta. Pesare un becker
vuoto e asciutto da 100 mL. Trasportare 20,0 mL della soluzione presente nel cilindro e aggiungere 4,0 mL
di acqua. Ripesare il becker con la soluzione. Calcolare la molarità e la densità di questa nuova
soluzione. Svuotare il becker, lavarlo e asciugarlo accuratamente e ripesarlo. Prelevare dal cilindro 20,0 mL
di soluzione, trasportarli nel becker e aggiungere, questa volta, 10 mL di acqua. Ripesare il becker con la
soluzione. Calcolare la molarità e la densità di quest’altra soluzione. Svuotare il becker, lavarlo e
asciugarlo accuratamente e ripesarlo. Prelevare dal cilindro 20,0 mL di soluzione, trasportarli nel becker e
aggiungere 20 mL di acqua. Ripesare il becker con la soluzione. Calcolare la molarità e la densità di
questa quarta soluzione. Svuotare, ancora una volta, il becker, lavarlo e asciugarlo accuratamente e
ripesarlo. Prelevare dal cilindro 20,0 mL di soluzione, trasportarli nel becker e aggiungere 40 mL di acqua.
Ripesare il becker con la soluzione. Calcolare la molarità e la densità di quest’ultima soluzione.

Trascrivere i valori ottenuti nella tabella sottostante:

Densità Concentrazione
mL di acqua
(g/mL) (molarità)
Soluzione 1 ----------
Soluzione 2 4,0
Soluzione 3 10
Soluzione 4 20
Soluzione 5 40

Trasportare i valori ottenuti in un grafico, riportando sulle ascisse la densità e sulle ordinate la
concentrazione.

Nella relazione che seguirà all’esperienza, rispondere alle seguenti domande:

- Quale relazione esiste tra densità e concentrazione (diretta o inversa)?


- Perché la relazione tra densità e concentrazione è proprio del tipo dedotto?
(se è diretta perché lo è, oppure se è inversa perché?)
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Determinazione della densità di liquidi

Materiali occorrenti:
Alcool etilico – Acqua distillata – Acido cloridrico al 37% –Tetracloruro di carbonio – Bilancia di Mohr-
Westphal – Picnometri – Densimetri – Cilindri graduati da 100 mL – Pipetta Pasteur.

Cenni teorici:
Anche la densità di un liquido, come quella dei solidi, è data dal rapporto tra la massa del liquido e il suo
volume. La densità di un liquido si esprime con le stesse unità utilizzate per i solidi, anche se, visti i valori
non molto elevati, si preferisce, di solito, esprimerla in g/mL.
Nel caso di un liquido, si effettua sia una misura diretta, utilizzando degli apparecchi che forniscono
direttamente la densità, che sono la bilancia di Mohr-Westphal e i densimetri, sia una misura indiretta
utilizzando il picnometro.
I densimetri sfruttano il principio di Archimede, per il quale un corpo immerso in un liquido riceve una
spinta verso l’alto che dipende dalla massa del volume di liquido spostato, e, quindi, dalla sua densità.
Un densimetro (vedi figura successiva) è costituito da un’asta in vetro, recante una scala graduata, che si
allarga nella parte terminale con un bulbo che contiene la zavorra (di solito pallini di piombo).
Per effettuare la determinazione si riempie fin quasi allo zero un cilindro graduato e nel liquido si immerge
lentamente il densimetro. Per effetto della massa della zavorra il densimetro tenderà a scendere (gravità),
allo stesso tempo il liquido sul densimetro esercita una spinta (spinta idrostatica). Quando queste due forze
si eguagliano il densimetro si ferma. Possiamo, a questo punto effettuare la lettura.

La figura di fianco rappresenta un densimetro generico. Alcuni densimetri portano all’interno dell’asta
un termometro, perché la misurazione va effettuata a 15°C, che è la temperatura di taratura di un
densimetro. Per temperature differenti dai 15°C, bisogna apportare una correzione. (–0,0002
moltiplicato per i gradi di differenza con 15°C, se la temperatura è maggiore di 15°C, invece +0,0002
moltiplicato ogni grado in meno, per temperature inferiori).

Anche la bilancia di Mohr-Westphal utilizza la spinta idrostatica, che un galleggiante, attaccato al braccio
di una bilancia, riceve quando viene immerso nel liquido da valutare. Questa volta la spinta viene
equilibrata da “pesetti” posti lungo il braccio della bilancia. Dai pesetti aggiunti e dalla loro posizione lungo il
braccio della bilancia si risale alla densità del liquido. I pesetti in dotazione alla bilancia di Mohr-Westphal
hanno forma e massa differenti e vengono chiamati “cavalieri”. (vedi figura successiva).

Cavaliere 2 Cavaliere 3
Cavaliere C Cavaliere 1

L’uso della bilancia e dei cavalieri sarà dettagliato nell’esperienza che segue.
Infine un picnometro permette la misurazione della densità, perché con esso si determinano la massa e il
volume del liquido. Un picnometro è formato da un palloncino con un collo sul quale è riportata una tacca di
riferimento (vedi figura successiva), che indica il volume misurato dal picnometro.

Il picnometro ha una tacca di riferimento che corrisponde al


volume riportato sull’apparecchio. La misurazione andrebbe
fatta alla temperatura indicata, che di solito è di 15°C.
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Determinazione della densità con i densimetri:
Si riempie un cilindro graduato con ca. 80 mL di alcool etilico. Nel liquido s’immerge lentamente il
densimetro. Si aspetta che esso si arresti e si effettua la misura. (Se il densimetro utilizzato presenta l’asta
fuori dal liquido, si cambia densimetro scegliendone uno con una scala più elevata. Viceversa se il
densimetro affonda completamente nel liquido, si cambia densimetro scegliendone uno con una scala più
bassa.)
Si ripete l’esperienza, cambiando cilindro e utilizzando, questa volta, 80 mL di tetracloruro di carbonio.
(Attenzione: la lettura va fatta in corrispondenza del pelo libero del liquido e non nella parte più alta che si
forma intorno al densimetro per effetto della capillarità, come mostrato nella figura successiva.)

La lettura di un densimetro va fatta lungo la linea tratteggiata, che


corrisponde al pelo libero del liquido. Lungo l’asta nel punto di contatto con il
liquido si formano delle increspature (indicate con A nella figura). La lettura
non va fatta in quel punto.

Determinazione della densità con il picnometro:


Si pesa il picnometro ben asciutto e pulito. Si riempie con molta calma con dell’alcool etilico fino alla tacca di
riferimento, portando a volume con una pipetta Pasteur. Eventualmente si asciuga per bene il collo se
qualche goccia di liquido è fuoriuscita e si riporta alla bilancia. Per differenza tra la seconda e la prima
pesata si ottiene la massa di alcool che corrisponde al volume introdotto nel picnometro. Da questi due valori
(massa e volume) si ottiene la misura della densità.
(se nella portata a volume si va oltre la tacca, ci si può aiutare con una sottile striscia di carta da filtro per
togliere l’eccesso di liquido e riportare, successivamente, a volume, anche se questa pratica non è molto
ortodossa.)
Dopo aver pulito e asciugato per bene il picnometro, si ripete l’esperienza utilizzando, questa volta, il
tetracloruro di carbonio. (confrontate i valori ottenuti con il picnometro e il densimetro)

Determinazione della densità con la bilancia di Mohr-Westphal:


La bilancia di Mohr-Westphal è formata da un supporto su cui è attaccato un braccio oscillante (vedi figura
successiva), terminante con un gancio. Lungo il braccio si trova una scala graduata, ottenuta con
scanalature su cui si mettono i cavalieri.
I
B

G1
Schema di una bilancia di Mohr-Westphal. Al
V1 gancio G1 si attacca il galleggiante G. La lettura va
fatta, in base alla posizione occupata lungo il
braccio B dai cavalieri, e ai tipi di cavalieri utilizzati.
La bilancia è in equilibrio quando i due riferimenti
dell’indice I coincidono. La vite V1 serve a regolare
G la bilancia in altezza, mentre la vite V ad azzerare la
bilancia.
V

Innanzitutto, la bilancia va azzerata e per fare questo si attacca il galleggiante al gancio e, in aria, si
controlla che i riferimenti dell’indice coincidano. Se così non è, si agisce sulla vite di azzeramento fino a far
coincidere i due riferimenti. A questo punto si riempie il cilindro, in dotazione all’apparecchio con acqua
distillata, e sul gancio, dove è il galleggiante, si attacca il cavaliere C (che vale 1 g/mL).
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Si immerge il galleggiante nell’acqua distillata e si controlla che l’indice coincida. Abbiamo azzerato la
bilancia che è pronta per effettuare la misura. Si svuota il cilindro si pulisce e asciuga per bene e si riempie
con l’alcool etilico.
Siccome l’alcool ha una densità minore dell’acqua dal gancio del galleggiante si toglie il cavaliere C e
l’equilibrio viene raggiunto ponendo lungo il braccio i cavalieri 2 e 3, che valgono rispettivamente 0,1 e
0,01. (se necessario, quando due cavalieri devono occupare la stessa scanalatura, è possibile agganciarli
l’uno su l’altro, come mostrato nell’esempio alla fine.) Avvenuto l’equilibrio dell’indice si effettua la lettura.
Si svuota il cilindro, si lava accuratamente e si asciuga. Si riempie con il tetracloruro di carbonio. Siccome il
tetracloruro di carbonio ha una densità maggiore dell’acqua, questa volta sul gancio del galleggiante si
pone il cavaliere 1 (che vale anch’esso 1) e lungo il braccio i cavalieri 2 e 3 fino all’equilibrio. Si effettua,
infine, la lettura.
Confrontate i valori ottenuti con i tre diversi apparecchi di misura.
Forniamo, a questo punto, per completezza di trattazione, alcuni esempi di lettura nel caso di un liquido
meno denso dell’acqua, come l’alcool etilico, e più denso, come il tetracloruro di carbonio.
Nel primo caso abbiamo ottenuto, ad esempio, la seguente disposizione dei cavalieri:

Il cavaliere 1 sulla scanalatura 7


Il cavaliere 2 sulla scanalatura 4
Il cavaliere 3 sulla scanalatura 7

(si noti che il cavaliere 3, che deve occupare la stessa scanalatura del cavaliere 1, viene agganciato a
quest’ultimo)

Siccome le scanalature sono prima del gancio che vale 1, bisogna moltiplicare il valore della scanalatura per
0,1 e per il valore del cavaliere, pertanto si ha:

Il cavaliere 1 sulla scanalatura 7 vale 0,1x 1 x 7 = 0,7000


Il cavaliere 2 sulla scanalatura 4 vale 0,1 x 0,1 x 4 = 0,0400
Il cavaliere 3 sulla scanalatura 7 vale 0,1 x 0,01 x 7 = 0,0070

che porta a un totale di 0,7470 g/mL

Supponiamo, invece, che, nel caso di liquidi più densi dell’acqua, come il tetracloruro di carbonio, si sia
avuto:

Il cavaliere C sul gancio del galleggiante


Il cavaliere 1 sulla scanalatura 8
Il cavaliere 2 sulla scanalatura 4
Il cavaliere 3 sulla scanalatura 6

Per il cavaliere C che sta sul gancio il valore è 1, per gli altri si determina il valore come prima e, quindi:

Il cavaliere 1 sulla scanalatura 8 vale 0,1x 1 x 8 = 0,8000


Il cavaliere 2 sulla scanalatura 4 vale 0,1 x 0,1 x 4 = 0,0400
Il cavaliere 3 sulla scanalatura 6 vale 0,1 x 0,01 x 6 = 0,0060

che porta, sommando 1 per il cavaliere C, a un valore di 1,8460 g/mL.


Esercitazioni di laboratorio a cura dei Proff. Raffaele Miranda e Francesco Della Gala

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Determinazione della densità di solidi

Materiali occorrenti:
Cilindro graduato da 100 mL - Becker da 250mL - Cubi di marmo di varie dimensioni - Sferette di vetro -
Cerchietti di ferro di varie dimensioni.

Cenni teorici:
La densità di un solido, come quella di qualsiasi corpo, è data dal rapporto tra la sua massa e il suo
volume. Nel S.I. l’unità di misura della densità è il Kg/m3, nell’uso comune la densità si esprime in g/mL. La
determinazione, nel caso di un solido si esegue con una determinazione indiretta, cioè si determina prima
la massa del materiale in esame e successivamente il suo volume. Da questi valori si calcola la densità.

Esecuzione dell’esperienza:
Si pesa un becker da 250 mL vuoto e ben asciutto. Si pone nel becker un cubetto di marmo e si porta alla
bilancia. Stabilita la massa del materiale, si trasporta il cubetto in un cilindro graduato da 100 mL riempito
per metà con acqua. Attenzione a versare lentamente il materiale nell’acqua del cilindro, per evitare che
il vetro che forma il cilindro possa rompersi e che l’acqua possa fuoriuscire dal cilindro.
Si annota il volume dell’acqua nel cilindro prima e dopo l’aggiunta del materiale. La differenza tra questi
valori rappresenta il volume del materiale.
Si annotano i valori della massa e del volume.
Si ripetono le operazioni descritte utilizzando, questa volta, due cubetti di marmo.
Si annotano i valori della massa e del volume.
La prova viene rifatta, successivamente, con tre cubetti di marmo, segnando sempre i valori della massa
e del volume.
Per avere la densità del materiale si divide il valore della massa con quella del volume. Il risultato deve
essere espresso sia in grammi/millilitro (g/mL), sia con l’unità di misura del S.I., cioè chilogrammo/metro
cubo (Kg/m3) e sia in chilogrammi/litro (Kg/L).
Le prove, come descritto precedentemente, si ripetono utilizzando una biglia di vetro, poi due e, infine, tre.
Stesso procedimento poi con i cerchietti di ferro, prima uno, poi due e, infine, tre.
I valori ottenuti per i materiali nelle varie prove vengono segnati nello specchietto seguente:

Densità
Materiale Prova
g/mL Kg/m3 Kg/L
a
1

Marmo 2a

3a

1a

Vetro 2a

3a

1a

Ferro 2a

3a

Cosa si osserva dalla tabella?


Quali deduzioni si possono trarre?
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Determinazione dell’acidità dell’aceto

Materiali occorrenti:
Buretta da 50 mL - Aceto commerciale - Idrossido di sodio sol. 0,100 M - Fenolftaleina sol. 1% - Pipetta
graduata da 5 mL - Beuta da 250 mL - Buretta da 50 mL.

Esecuzione della prova:


Si preleva, mediante pipetta graduata da 5 mL, un campione di 3,00 mL (o un valore molto vicino) di aceto
da titolare (segnare il volume esatto prelevato), versandolo in una beuta da 250 mL e diluendolo con ca. 100
mL di acqua distillata.
Si aggiungono 3 o 4 gocce di fenolftaleina sol. 1% quale indicatore; la soluzione resta, come è noto, incolore.
Si riempie la buretta con la soluzione 0,100 M di idrossido di sodio; si procede alla titolazione, facendo
defluire la soluzione goccia a goccia, agitando la beuta con cura.
Al punto di viraggio dell’indicatore si chiude il rubinetto della buretta e si annota la quantità di soluzione
titolante consumata.
Tutto l’acido acetico presente nell’aceto di vino è stato, a quel punto, neutralizzato dall’idrossido di sodio
secondo la reazione:

CH3COOH + NaOH CH3COONa + H2O

Secondo tale reazione una mole di CH3COOH viene neutralizzata da una mole di NaOH : al punto di
equivalenza, segnalato dal viraggio dell’indicatore, il numero di moli presenti nella quantità di idrossido di
sodio gocciolato è uguale al numero di moli di acido acetico presente nei 3,00 mL di aceto sottoposto al test.
Supponiamo di aver impiegato 30,0 mL di NaOH 0,100 M per titolare il campione di 3,00 mL di soluzione di
acido acetico (il nostro aceto).
Calcoliamo le moli di idrossido presenti nei 30,0 mL con la formula moli = M•V, con il volume espresso in litri:
moli = 0,100 • 0,0300 = 0,00300

Tale valore corrisponde al numero di moli di NaOH nei 30,0 mL di soluzione 0,100 M ma anche al numero di
moli CH3COOH presenti nei 3,00 mL di aceto testato.
Da questo valore si può risalire al titolo molare dell’acido acetico, mediante la formula:

mol soluto 0,00300


M = ——————— = ————— = 1,00
litri soluzione 0,00300

La soluzione di acido acetico ha, quindi, un titolo 1,00 M.


E’ possibile, poi, trasformare il valore molare in concentrazione in g/L moltiplicando il numero delle moli per
la massa molecolare dell’acido acetico (ca. 60):

g/L = M • m m = 1,00 • 60 = 60,0 g/L

Nel nostro caso la concentrazione massa/volume è del 60 ‰, vale a dire del 6,0 % . Assumendo la densità
dell’aceto pari a 1 g/mL, questi valori corrispondono anche alla concentrazione massa/massa.
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Determinazione dell’acidità del succo di limone

Materiali occorrenti:
Limone - Idrossido di sodio sol. 0,100 M - Fenolftaleina sol. 1% - Buretta da 50 mL - Carta da filtro a banda
nera – Imbuto - Beuta da 250 mL - Pipetta graduata da 5 mL - Buretta da 50 mL .

Esecuzione della prova:


Si spreme completamente un limone in un becker da 100 mL. Si filtra il succo utilizzando un filtro rapido in
carta (ad es. filtro a banda nera o filtro Wathman 113 o 91), se ne prelevano, con pipetta graduata, 2,00 mL
circa (annotando il valore prelevato) versandoli in una beuta da 250 mL; si aggiungono 100 mL circa di
acqua distillata e 3 o 4 gocce di fenolftaleina sol. 1% quale indicatore; la soluzione rimane, ovviamente,
incolore.
Si riempie la buretta con 50 mL di idrossido di sodio sol. 0,100 M, si pone la beuta sotto il rubinetto e si
procede alla titolazione, gocciolando lentamente il titolante ed agitando la beuta.
Al punto di viraggio al rosa-violetto dell’indicatore si chiude il rubinetto della buretta e si annota la quantità di
titolante consumata.
A questo punto tutto l’acido citrico presente nel succo di limone è stato neutralizzato dall’idrossido di sodio
con la reazione:

CH2 ― COOH CH2 ― COONa

H ― O ― C ― COOH +3NaOH H ― O ― C ― COONa + 3H2O

CH2 ― COOH CH2 ― COONa


acido citrico citrato di sodio

Come si vede per neutralizzare una mole di acido citrico, idrossiacido tricarbossilico, occorrono 3 moli di
idrossido di sodio, per cui il numero di moli presenti nella quantità di idrossido di sodio gocciolata è 3 volte il
numero di moli di acido citrico presenti nei 2,00 mL di succo di limone.
Se, ad esempio, si sono utilizzati 20,0 mL di NaOH 0,100 M per titolare 2,00 mL di succo di limone, le moli di
idrossido nei 20,0 mL saranno:

molNaOH = M • V = 0,100 • 0,0200 = 0,00200


II valore ricavato corrisponde al numero di moli presenti nei 20,0 mL della soluzione di idrossido di sodio, per
cui il numero di moli di acido citrico presenti nei 2,00 mL di succo di limone è 1/3 di tale valore, cioè molacido
citrico = 0,000666.
Da questo valore si può risalire al titolo molare dell’acido citrico del succo di limone, cioè:
mol soluto 0,000666
M = ——————— = —————— = 0,333
litri soluzione 0,00200
II succo di limone è, quindi, una soluzione 0,333 M di acido citrico.
E’ possibile, poi, trasformare il valore molare in g/L moltiplicando il numero di moli per la massa molecolare
dell’acido citrico (circa 192):

0,333 • 192 = 63,9 g/L ovvero circa il 6,39 %.

Infatti il succo di limone contiene circa il 6 % di acido citrico e presenta una concentrazione idrogenionica
circa 2 • 10―3 M che determina un pH = 2,8.
Esercitazioni di laboratorio a cura dei Proff. Raffaele Miranda e Francesco Della Gala

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Determinazione dell’acidità dell’olio d’oliva

Materiali occorrenti:
Olio extravergine d’oliva - Idrossido di potassio sol. 0,1 M - Etere etilico - Alcool etilico assoluto -Fenolftaleina
sol. 0,1 % - Buretta da 50 mL – 2 Beute da 250 mL.

Cenni teorici:
Un olio (qualunque esso sia) è formato da glicerina (vedi in calce a questi cenni), a cui sono attaccati degli
acidi formati da lunghe catene di atomi di carbonio e chiamati acidi carbossilici, perché all’inizio della catena
di atomi di carbonio vi è un gruppo (-COOH), chiamato, appunto, gruppo carbossilico. L’attacco alla glicerina
avviene proprio tra il gruppo carbossilico dell’acido e il gruppo ossidrilico della glicerina. Il composto che si
ottiene sarà formato da glicerina e tre acidi carbossilici (perché sono tre i gruppi ossidrilici della glicerina).
Per questo il composto che si ottiene è indicato come trigliceride (anche in questo caso, vedi in calce a
questi cenni).
I trigliceridi sono i costituenti fondamentali non solo degli oli, ma anche dei grassi solidi (burro, margarina,
lardo, ecc.).
In un grasso, come anche in un olio, gli acidi carbossilici che formano i trigliceridi possono essere saturi,
cioè tra i vari atomi di carbonio che formano l’acido carbossilico, indicato anche come acido grasso, vi sono
solo legami semplici, vale a dire che ogni carbonio lega i carboni vicini con un legame singolo, oppure
insaturi, se nella catena di atomi di carbonio dell’acido, vi è uno o più doppi legami. Se vi è un solo doppio
legame, l’acido è detto monoinsaturo, se vi sono due o più doppi legami è detto polinsaturo.
L’olio d’oliva è l’unico olio, che presenta un’alta percentuale di acido grasso monoinsaturo, perché i
trigliceridi che lo formano, sono composti in maggior parte dall’acido oleico, che presenta un solo doppio
legame.
In base al grado di maturazione delle olive, o per lo stress che le sostanze subiscono durante la lavorazione
o per effetto della temperatura, in un olio vi è sempre una certa quantità di acido frasso che si stacca dal
trigliceride e che rappresenta la cosiddetta acidità libera.
Lo scopo dell’esercitazione odierna è proprio quello di determinare l’acidità libera in un olio d’oliva. Questo
valore determina una delle caratteristiche merceologiche dell’olio, dalle quali discendono le diverse
classificazioni (olio extravergine, olio d’oliva, olio di sansa, ecc.)

CH2-OH CH2-OCO-R

CH-OH CH-OCO-R

CH2-OH CH2-OCO-R
Un trigliceride. La R
Glicerina rappresenta la catena di
atomi di carbonio
dell’acido grasso.

Esecuzione della prova:


Si pesano accuratamente su bilancia analitica, in una beuta da 250 mL, 10 grammi di olio in esame. In un
cilindro graduato si preparano 120 mL di una miscela 1:3 di alcool etilico ed etere etilico (30 mL di alcool
etilico e 90 mL di etere etilico) e la si travasa in una seconda beuta da 250 mL.
Si prepara la buretta sul suo sostegno versando in essa la soluzione di idrossido di potassio 0,10 M, fino alla
tacca zero.
Si prende la beuta contenente la miscela alcool-etere e ad essa si aggiungono 1 o 2 mL di fenolftaleina sol.
1 %. Poiché la miscela risulta debolmente acida è necessaria neutralizzarla con alcune gocce di soluzione di
KOH, fatte defluire dalla buretta, fino a evidente colorazione violetta.
Si aggiunge alla buretta altra soluzione di idrossido di potassio 0,10 M, fino a ripristino del livello zero. Si
travasa la miscela prima preparata, nella beuta contenente l’olio d’oliva, si agita per alcuni secondi al fine di
rendere omogeneo il tutto, che, per la presenza degli acidi grassi, ritorna incolore.
Si da inizio alla titolazione gocciolando lentamente il titolante; al viraggio della soluzione si chiude il rubinetto
annotando la quantità utilizzata.
Dalla titolazione con idrossido di potassio sol. 0,10 M si ricavano sia il numero di acidità, ovvero i mg di KOH
necessari a neutralizzare gli acidi liberi presenti in 1 g di olio, sia l’acidità espressa in % in massa di acido
oleico.
Esercitazioni di laboratorio a cura dei Proff. Raffaele Miranda e Francesco Della Gala

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Le formule da applicare sono:

v • M • 56,1 v • M • 28,2
numero di acidità = ——————— e % acido oleico = ———————
P P

ove v rappresenta i mL di soluzione di KOH usati per la titolazione, M la molarità della soluzione di KOH e P
è la massa in g dell’olio.
Ad esempio, se si sono utilizzati 2,00 mL di idrossido di potassio sol. 0,10 M, per titolare 10 g di olio,
applicando le formule citate, si ha:

v • M • 56,1 2,00 • 0,10 • 56,1


numero di acidità = ——————— = ————————— = 1,122
P 10

v • M • 28,2 2,00 • 0,10 • 28,2


% acido oleico = ——————— = ———————— = 0,564%
P 10

N.B. la miscela alcool etilico-etere etilico deve essere preparata, se possibile, sotto cappa a causa della
volatilità dell’etere. Accertarsi che non siano presenti nelle vicinanze fiamme libere o riscaldatori elettrici in
funzione. Al posto dell’olio d’oliva può essere utilizzato anche un altro tipo di olio vegetale od un grasso
solido, ad esempio il burro. In quest’ultimo caso, il grasso deve essere preventivamente fuso, in modo da
permettere una completa dissoluzione della miscela
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Determinazione dei cloruri in un’acqua

Materiali occorrenti:
Nitrato d’argento sol. 0,0100 M – Cromato di potassio sol. 0,25 M – Beuta da 250 mL – Buretta da 50 mL.

Cenni teorici:
I cloruri in un’acqua sono presenti, generalmente, come sali di metalli alcalini (sodio e potassio) e come
sali di metalli alcalino-terrosi (calcio e magnesio). Il metodo più semplice per la loro determinazione è per
via argentometrica, cioè precipitandoli sottoforma di cloruro d’argento. Per questo si utilizza una soluzione a
titolo noto di nitrato d‘argento, in presenza di dicromato di potassio, che ha la funzione di indicatore. I principi
teorici alla base della titolazione sono gli stessi di quelli su cui si fonda il controllo del titolo della soluzione di
nitrato d’argento.
Spesso l’acqua distillata adoperata per le preparazioni delle varie soluzioni contengono ioni cloruri, per cui
per evitare di valutare anche questi cloruri che non sono presenti nel campione di acqua, si titola anche
dell’acqua distillata (prova in bianco) e i mL consumati per questa titolazione si defalcano dai mL utilizzati
per titolare il campione.

Esecuzione dell’esperienza:
Si prelevano 100 mL dell’acqua da analizzare e si trasportano, quantitativamente, in una beuta da 250 mL.
Si aggiungono 2 mL circa di una soluzione di dicromato di potassio (K2Cr2O7). Si carica una buretta da
50 mL con la soluzione di nitrato d’argento (AgNO3), il cui titolo è stato determinato precedentemente e si
titola, fino al viraggio dell’indicatore (da giallo ocra a rosso mattone).
Si annotano i mL di soluzione di nitrato d’argento consumati per effettuare la titolazione.
In un’altra beuta da 250 mL si pongono 100 mL di acqua distillata e si versano in essa 2 mL della soluzione
di dicromato di potassio. Si azzera di nuovo la buretta con la soluzione di nitrato d’argento e si titola, questa
volta, l’acqua distillata.
Fare aggiunte goccia dopo goccia perché in questo caso il viraggio è quasi immediato.
Si annotano i mL di soluzione di nitrato d’argento consumati per effettuare questa titolazione.
I mL utilizzati in questa seconda titolazione vanno sottratti a quelli della prima titolazione e con il
valore ottenuto si esegue, successivamente, il calcolo per avere il contenuto dei cloruri nel nostro campione,
che deve essere espresso in mg/L (p.p.m.). La reazione che avviene in soluzione è:

Ag+ + Cl AgCl


Esercitazioni di laboratorio a cura dei Proff. Raffaele Miranda e Francesco Della Gala

24
Determinazione del pH di alcune soluzioni

Materiali occorrenti:
Limone – Aceto – Coca Cola – Ammoniaca sol. al 10% – Cloruro di sodio – Bicarbonato di sodio – Acido
cloridrico sol. 0,1 M – Acido acetico sol. 0,1 M – Cilindro graduato da 50 mL – Becker da 100 mL – pHmetro
– Cartina al tornasole – Cartina al pH universale.

Cenni teorici:
Il pH è una grandezza che misura l’acidità di una sostanza ed è data, matematicamente, dall’espressione:

pH = ─ Log [H+]

Il pH, dunque, dipende dalla concentrazione degli ioni H+, più basso (perché sono potenze negative) è il suo
valore più acida è la sostanza (o la soluzione) che si sta misurando.
La variazione della concentrazione dello ione H+ (idrogenione), comporta anche una variazione della
concentrazione dello ione OH¯ (ossidrilione). Le sostanza basiche, con caratteristiche opposte a quelle degli
acidi, fanno aumentare la concentrazione degli ossidrilioni. Sostanze che non sono acide e non sono
basiche (sostanze neutre) mantengono inalterato il rapporto tra gli idrogenioni e gli ossidrilioni, che in questo
caso risultano tra loro uguale e pari a 1,0 • 10─7. Questo valore della concentrazione di H+ corrisponde a un
pH di 7. Per questo possiamo dire che sostanze a pH minore di 7 sono acide. Sono basiche sostanze a pH
maggiore di 7 e neutre quelle a pH uguale a 7. Queste considerazioni ci portano alla seguente scala dei
valori di pH:

Più il valore del pH va al di sotto di 7 più acida è la sostanza, così come più va al di sopra più è basica.
In base a questo, una sostanza (o soluzione) può essere classificata come fortemente acida per valori al
disotto di 3, acida per valori tra 3 e 5 e debolmente acida per valori tra 5 e 7. Sarà fortemente basica per
valori superiori a 11, basica per valori tra 9 e 11 e debolmente basica per valori tra 7 è 9.

Esecuzione dell’esperienza:
Si preme un limone e si filtra per eliminare i semi e le parti grossolane della polpa. Si prelevano 30 mL del
succo ottenuto, trasportandolo in un becker da 100 mL. Si misura il pH utilizzando prima la cartina al
tornasole, poi la cartina al pH universale e, infine, il pHmetro. Si annota il colore osservato, per la cartina al
tornasole, e i valori rilevati, negli altri casi.
Si versano in un altro becker da 100 mL, 30 mL di aceto e si procede alla misurazione del pH come fatto in
precedenza. Anche in questo caso si annota il colore osservato, per la cartina al tornasole, e i valori rilevati,
con gli altri strumenti.
In un terzo becker da 100 mL si versano (sotto cappa) 30 mL di una soluzione di ammoniaca (NH4OH) al
10% e si procede alla misurazione del pH come fatto nei casi precedenti. Anche in questo caso si annota il
colore osservato, per la cartina al tornasole, e i valori rilevati, con gli altri strumenti.
Si prelevano 30 mL di acqua distillata e si versano in un quarto becker da 100 mL, in essa si sciolgono 130
mg di cloruro di sodio (NaCl). Della soluzione ottenuta si misura il pH come fatto in precedenza. Anche in
questo caso si annota il colore osservato, per la cartina al tornasole, e i valori rilevati.
In un quinto becker da 100 mL, si versano 30 mL di acqua distillata e in essa si sciolgono 260 mg di
bicarbonato di sodio (NaHCO3). Della soluzione ottenuta si misura il pH come fatto in precedenza. Anche in
questo caso si annotano le diverse osservazioni e misurazioni.
In altri due becker da 100 mL si versano, rispettivamente, 30 mL di una soluzione di acido cloridrico (HCl)
0,1 M e 30 mL di acido acetico (CH3COOH) 0,1 M.
Anche in questi due ultimi casi, si fanno le stesse annotazioni, dei casi precedenti.

I valori ottenuti e le osservazioni fatte si trascrivono nella tabella della pagina successiva.
Esercitazioni di laboratorio a cura dei Proff. Raffaele Miranda e Francesco Della Gala

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Colore della Valore con la cartina
Sostanza Valore con
cartina al pH universale
(o Soluzione) il pHmetro
al tornasole
Limone
Aceto
Coca Cola
Cloruro di sodio
Bicarbonato di sodio
Acido cloridrico
Acido acetico

Cosa si può dedurre da questa tabella?


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Determinazione dell’acqua ossigenata in una soluzione

Materiali occorrenti:
Permanganato di potassio sol. 0,0100 M – Acido solforico conc. – Beuta da 250 mL – Buretta da 50 mL. –
Acqua ossigenata – Matraccio da 10 mL.

Cenni teorici:
L’acqua ossigenata presente in commercio è una soluzione di perossido d’idrogeno (H2O2). La percentuale
di perossido varia a secondo dell’uso a cui è destinata la soluzione. Il titolo della soluzione, oltre che in
percentuale in massa, spesso viene anche espresso in volumi di ossigeno che si sviluppano ogni 100 mL di
soluzione, considerando che il perossido d’idrogeno si decompone con la seguente reazione:

2H2O2 2H2O + O2

Questo modo di esprimere la concentrazione della soluzione è indicato come volumi sviluppati.
l’acqua ossigenata è un ossidante, ma in presenza di ossidanti più energici, si comporta da riducente, come
nel caso del permanganato. La reazione avviene in ambiente acido, per cui si adopera un acido forte come
l’acido solforico.

Esecuzione dell’esperienza:
Si prelevano 50 g dell’acqua ossigenata da analizzare e si trasportano, quantitativamente, in una beuta da
250 mL. Si aggiunge 1 mL di acido solforico conc (H2SO4). Si carica una buretta da 50 mL con la
soluzione di permanganato di potassio (KMnO4), il cui titolo è stato, precedentemente, determinato in
modo esatto, e si titola fino al permanere del colore viola del permanganato.
Si annotano i mL di soluzione di permanganato consumati per effettuare la titolazione.
Con questi mL di permanganato consumati si calcolano i g di H2O2 presenti nel campione e, con questo
valore, la percentuale nella soluzione, tenendo presente che la reazione che avviene durante la titolazione è:

2KMnO4 + 5H2O2 + 3H2SO4 2MnSO4 + 8H2O + K2SO4 + 5O2

A questo punto si pesa un matraccio da 10 mL e in esso si trasporta, fino alla tacca di riferimento, l’acqua
ossigenata in esame. Si ripesa il matraccio contenente l’acqua ossigenata e, per differenza delle due pesate,
si determina la massa della nostra soluzione che corrisponde a 10 mL. Con la formula d= m/v, si calcola la
densità della soluzione.
Una volta trovata la percentuale di H2O2 e la densità della soluzione, applicando la formula successiva è
possibile calcolare i volumi di ossigeno che la soluzione sviluppa, considerando che il gas è in condizioni
standard, cioè ad 1 Atm. e alla temperatura di 0° C, pari a 273,15° K.

Volume di O2 = % in massa • densità soluzione • 3,294

N.B. La reazione tra permanganato e acqua ossigenata, avviene inizialmente in modo lento, ma appena si
forma il sale di manganese (MnSO4), la reazione accelera per la presenza dello ione Mn++. Per questo
motivo è bene far scendere, inizialmente, dalla buretta alcune gocce di permanganato nella beuta con
l’acqua ossigenata e attendere che la soluzione, che apparirà di colore viola, non si decolori. A questo punto
si può titolare goccia a goccia, agitando continuamente. Quando il colore viola stenta a scomparire,
rallentare il gocciolamento e interromperlo quando il colore viola permane.
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Determinazione della durezza di un’acqua

Materiali occorrenti:
Nero eriocromo T – Soluzione tampone a pH 10 – Soluzione di EDTA 0,0100 M – Cilindro graduato da 100
mL – Beuta da 250 mL – Capsulina di porcellana – Buretta da 50 mL.

Cenni teorici:
In un acqua potabile, come è noto, sono disciolti sali minerali di varia natura, tra cui il calcio e il magnesio. I
sali di questi metalli sono detti sali indurenti. La quantità di sali indurenti in un’acqua potabile non può
superare un certo valore, che è di 40° F (gradi francesi), o, che è lo stesso, 400 p.p.m. (parti per milione).
Alcuni dei sali di calcio e magnesio per effetto della temperatura formano sali insolubili che precipitano e che
sono, per lo più, formati da carbonato di calcio (calcare). La quantità di calcio e magnesio che si perde per
effetto della temperatura è detta durezza temporanea (cioè rimane fino a quando non si riscalda l’acqua).
La quantità di sali di calcio e di magnesio che rimangono in soluzione anche dopo il riscaldamento
rappresenta la durezza permanente. La somma delle due durezze è la durezza totale. E’ importante
conoscere la durezza totale di un’acqua, così come quella temporanea, sia nell’uso industriale dell’acqua,
sia in quello casalingo.
Basti pensare alla lavatrice che riscalda l’acqua per fare il bucato. Se in casa abbiamo un’acqua con
un’elevata durezza temporanea si forma molto calcare che va ad intasare resistenze elettriche e filtri,
procurando la rottura di questi componenti. Un’acqua con durezza temporanea più bassa procura meno
calcare e l’elettrodomestico dura di più.
(all’inconveniente si può ovviare immettendo in acqua delle sostanze che legandosi al calcio non fanno
avvenire la precipitazione, oppure, prima di immettere acqua, farla passare attraverso resine, naturali o
sintetiche, che trattengono calcio e magnesio.)
La determinazione viene eseguita per via complessometrica, utilizzando il sale bisodico dell’EDTA (acido
etilendiammino tetracetico), che forma complessi con il calcio e il magnesio. Come indicatore viene utilizzato
il Nero eriocromo T, una sostanza che forma, anch’essa, complessi con il calcio e il magnesio, però meno
forti di quelli con l’EDTA.
L’indicatore, in soluzione, senza legare il calcio ha un colore azzurro, mentre quando lo lega il colore è rosa.
Per questo, se aggiungiamo all’acqua che contiene calcio e magnesio del Nero eriocromo T l’acqua si colora
in rosa. Quando aggiungiamo l’EDTA, quest’ultimo sottrae il calcio all’indicatore e quando l’indicatore l’avrà
perso tutto, si otterrà il viraggio all’azzurro.

Determinazione della durezza totale dell’acqua:


Si prelevano 100 mL esatti dell’acqua da dosare e si versano quantitativamente in una beuta da 250 mL.
Si aggiungono 20 mL della soluzione tampone (a pH=10) e 2-3 gocce di indicatore (nero eriocromo T). Si
agita e la soluzione ottenuta acquista una colorazione rosa (attenzione a non togliere dalla soluzione lo
strumento utilizzato per agitare, se prima non lo si è sciacquato con acqua distillata). Si carica la buretta da
50 mL con la soluzione di EDTA di cui abbiamo controllato il titolo e si titola fino al viraggio azzurro
dell’indicatore. In queste condizioni il numero di ml di EDTA utilizzati corrisponde ai gradi francesi di
durezza dell’acqua (per le p.p.m si moltiplica per 10). Questo solo se la soluzione di EDTA è
effettivamente 0,0100 M.

Determinazione della durezza permanente dell’acqua:


Si prelevano 100 mL esatti di acqua da dosare e in una capsulina di porcellana si fanno bollire lentamente
per circa 30 minuti, senza far svaporare completamente l’acqua.
Si lascia raffreddare e successivamente si diluisce con acqua distillata a circa 80 mL e si filtra, raccogliendo
il filtrato in un cilindro da 100 mL.
Si porta,poi, al volume iniziale di 100 ml con acqua distillata. Si trasporta quantitativamente la soluzione
ottenuta in una beuta da 250 ml. Si carica la buretta da 50 mL e si titola, come indicato per la durezza totale.
Anche in questo caso ogni ml di soluzione di EDTA consumato nella titolazione corrisponde a un grado
francese.
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Determinazione della durezza temporanea dell’acqua:
Si determina prima la durezza totale e successivamente quella permanente. Dalla loro differenza si ottiene
la durezza temporanea.

Nota: Nel caso in cui la concentrazione della soluzione di EDTA non fosse di 0,0100 M, per avere i gradi
francesi bisogna moltiplicare i ml di EDTA consumati per 100 e per la concentrazione effettiva.
Si ricorda che 1°F corrisponde a 10 mg di CaCO3 per litro d’acqua e 1 p.p.m. corrisponde a 1 mg di
CaCO3 per litro d’acqua. Pertanto 1°F = 10 p.p.m. (per avere le p.p.m. si devono moltiplicare per 10 i °F).
La reazione che avviene nella titolazione è:

EDTA─Na2 + Ca++ EDTA─Ca + 2Na+


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Determinazione della massa molecolare di un gas ottenuta per diffusione

Materiali occorrenti:
Tubo in vetro del diametro di 10 mm, lungo 50 cm ca. - Acido cloridrico sol. 37 % - Idrossido di ammonio sol.
25 % - Ovatta - Tappi in gomma - Riga millimetrata - Cronometro.

Cenni teorici:
Intorno al 1850 Thomas Graham enunciò la seguente legge “Le velocità di diffusione di due gas, ad
identiche condizioni di temperatura e pressione, sono inversamente proporzionali alle radici quadrate delle
loro densità “:

V1 : V2 = ρ2 : ρ1 con V1 = velocità gas 1 e V2 = velocità gas 2


ρ1 = densità gas 1 e ρ2 = densità gas 2

Dalla legge generale dei gas si deduce, poi, che le densità dei gas sono in rapporto alle loro masse
molecolari (m.m), per cui si ha:

V 1 : V2 = mm2 : mm1 (1)

Poiché v = d/t (d = distanza, t = tempo ), misurando le distanze percorse dai gas, durante la diffusione, ed il
tempo impiegato, si può facilmente ricavare la velocità di diffusione.
Conoscendo, poi, la m.m. di uno dei gas impiegati, si può ricavare la m.m. del secondo.

Esecuzione dell’esperienza:
Si monta in orizzontale, su idoneo supporto, il tubo di vetro, aperto alle due estremità; si imbevono
completamente due batuffoli di ovatta di cotone, uno con acido cloridrico (HCl) sol. 37 %, l’altro con
idrossido di ammonio (NH4OH) sol. 25 %.
Con l’aiuto di due pinzette si inseriscono contemporaneamente i batuffoli, uno per estremità, tappando
velocemente; allo stesso tempo un’altra persona fa partire il cronometro.
I gas dalle soluzioni diffondono verso il centro del tubo e quando giungono a contatto reagiscono, formando
un anello biancastro, ben visibile sulla parete, di cloruro di ammonio, secondo la reazione:

NH4OH + HCl NH4Cl + H2O

a questo punto si ferma il cronometro, si annota il tempo in secondi trascorso e si misurano le distanze in
centimetri tra l’anello e le due estremità del tubo. Con questi valori, conoscendo ad esempio la mm dell’acido
cloridrico, si può calcolare la mm dell’ammoniaca (NH3) o viceversa.
Nel caso in esperimento si vuole determinare la m.m. dell’ammoniaca, data come incognita, misurando la
sua velocità di diffusione e ponendola in rapporto con quella dell’acido cloridrico, di cui si conosce la m. m..
Così, ad esempio, se il tempo trascorso per la formazione dell’anello, è di 180 secondi, la distanza percorsa
dall’acido cloridrico è di 19,1 cm e quella percorsa dall’ammoniaca è di 27,5 cm, considerando che:

19,1 cm 27,5 cm
VHCl = ————— = 0,106 cm/s e VNH = ————— = 0,155 cm/s .
3
180 s 180 s

si ottiene dalla formula (1):

0,106: 0,155 = mm2 : 36,46


da cui si ricava:

mm2 = 4,123

ed, infine:
m. m. NH3 = 16,99 u.m.a.

che, nei limiti dell’errore sperimentale, rappresenta un valore corretto per la m.m. dell’ammoniaca, che in
realtà è di 17,03 u.m.a. (scarto di – 0,235%)
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L’esperienza di Torricelli (misura della pressione atmosferica)

Materiali occorrenti:
Tubo in vetro di circa 1 m chiuso a un’estremità – Becker da 500 mL – Mercurio (1000 g ca.) – Metro a
nastro.

Cenni teorici:
Nel 1643 Evangelista Torricelli ideò un sistema per la misurazione della pressione atmosferica: il
barometro a mercurio.
Questo è formato da un tubo in vetro alto circa 1 m, chiuso ad una estremità e che deve essere
accuratamente riempito di mercurio. L'apparecchio viene rovesciato in posizione verticale con l'estremità
aperta immersa in una bacinella contenente anch'essa mercurio, badando a non far entrare aria.
L’equilibrio tra la massa del mercurio che tende a scendere per gravità e la pressione dell’aria (pressione
atmosferica) sul mercurio è dovuta solo a queste due grandezze, perché nello spazio che si forma sopra la
colonna di mercurio sono presenti solo vapori di Hg, la cui pressione può essere, a condizioni standard di
temperatura, considerata insignificante.
Applicando la legge di Stevino (pressione di un fluido in quiete) si ha:

P = ρ •g •h (1)

ove P è la pressione atmosferica, ρ è la densità mercurio, che vale (a 0°C) 13,595 g/cm3, g è l’accelerazione
di gravita, (che vale 980,66 cm/s2) e h è l’altezza della colonna di Hg.
Con questa equazione è possibile mettere in relazione il valore dell’altezza della colonnina di mercurio
(espressa in cm o mm), e che rappresenta il valore della pressione atmosferica, con le unità di misura del S.
I., cioè il N/m2 che è detto anche pascal (simbolo pa) (basta sostituire nell’equazione i valori dati per ρ e g e
il valore misurato per h). Ovviamente il valore che otterremmo corrisponde alla pressione misurata in quelle
condizioni (temperatura del laboratorio in quel momento e sua altitudine). A °C e a livello del mare la
colonnina di mercurio dovrebbe avere un’altezza di 76 cm (o 760 mm), che corrisponde ad un pressione di 1
atmosfera (atm.), per cui:

1 atm. = 13,595 g/cm3 • 980,66 cm/s2 • 76 cm = 1,013 • 106 g/cm•s2

Considerando che per trasformare i g in Kg bisogna dividere per 1000 e che per
trasformare i cm in m, si deve moltiplicare per 100 (si moltiplica perché i cm compaiono
al denominatore), per cui per ottenere i Kg/m•s2 (unità del S.I.), basta dividere per 10 il
valore precedente. Con queste considerazioni si ottiene:

1,013 • 106 g/cm•s2 = 1,013 • 105 Kg/m•s2 = 1,013 • 105 Kg m /m2•s2

Infine tenendo presente che Kgm/s2 è uguale al Newton, si ottiene:

1 atm. = 1,013 • 105 N/m2 = 1,013 • 105 Pa = 760 mm Hg

Ne deriva che, a 0 °C, 1 mm di Hg corrisponde a 0,00131 atm (1/760) e a 133,3 N/m2


o a 133,3 Pa (1.013 • 105/760= 133,3).

Esecuzione dell'esperienza:
Preliminarmente si versa nel becker da 500 mL del mercurio fino a raggiungere
un'altezza di circa 3 cm. Si riempie il tubo di vetro utilizzando un idoneo imbuto, fino a
che il menisco del mercurio non raggiunga l'estremità aperta. Si chiude fermamente
l'apertura con un dito (utilizzare guanti in gomma) e si rovescia l'apparecchio
immergendone l'estremità nel mercurio del becker (vedi figura di lato).
E' necessario operare con la massima cautela al fine di evitare ingresso di bolle d'aria
o, peggio, la rottura del tubo.
Si toglie il dito dall'apertura, si fissa l'apparecchio ad un supporto con pinza a ragno, si aspetta che il
mercurio ridiscenda e, quando si è fermato, si misura con il metro a nastro (o da muratore) l’altezza della
colonnina di mercurio partendo dal livello del mercurio nel becker fino al menisco superiore che si forma nel
tubo di vetro. Lo spazio sovrastante il mercurio, nel tubo è privo d’aria (il tubo all’inizio era tutto pieno di
mercurio), sono presenti solo i vapori di mercurio, per cui possiamo ritenere che in quella zona la pressione
è 0. Con il valore misurato dell’altezza della colonnina, utilizzando la formula (1) si può calcolare a quanto
equivale 1 atm, nelle condizioni del nostro laboratorio (temperatura e altitudine).
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Esperienza sulla differenza tra miscuglio e composto

Materiali occorrenti:
Acido cloridrico concentrato – Tetracloruro di carbonio – Provette – Vetrino d’orologio – Pinza in acciaio (o in
legno) – Cartine all’acetato di piombo – Spatolina.

Cenni teorici:
Una sostanza è un materiale puro, che può essere un elemento o un composto. Un miscuglio, invece,
non è puro ma formato da varie sostanze. Un elemento è una sostanza semplice che è formata da
un’unica cosa (ad esempio l’ossigeno o il ferro, o anche l’idrogeno, ecc.). Un composto è formato da
elementi uniti tra di loro (ad esempio l’acqua formata da idrogeno e ossigeno). Anche un miscuglio può
essere formato da più elementi, ma mentre nel composto gli elementi hanno perso le loro proprietà per dare
origine a una nuova entità con proprietà proprie, nel miscuglio ogni elemento conserva le proprie proprietà.
(ad esempio l’acqua ha proprietà che non sono né quelle dell’idrogeno né quelle dell’ossigeno, mentre in un
miscuglio tra idrogeno e ossigeno, ogni elemento conserva le sue caratteristiche.)

Esecuzione dell’esperienza:
Mettere alcuni mg di Zolfo (S) in tre provette e alcuni mg di Ferro (Fe) in polvere in altre tre provette.
Aggiungere, sotto cappa, ad una delle provette contenente Zolfo e ad un'altra contenente Ferro dell'acido
cloridrico (HCl). Posizionare all’imboccatura della provetta contenente Ferro ed acido una cartina
all’acetato di Piombo ((CH3COO)2Pb).
Annotare quello che si osserva nelle provette e sulla cartina.

Trattare altre due provette, contenenti una Zolfo e l’altra Ferro in polvere, con tetracloruro di carbonio
(CCl4).
Annotare quello che si osserva nelle due provette.

Unire su un vetrino d’orologio le parti di Zolfo e di Ferro rimaste nelle altre provette e mescolare
uniformemente. Dividere il miscuglio così ottenuto in tre parti uguali e porre due di queste in due differenti
provette. Trattare le due porzioni, sotto cappa, con acido cloridrico e con tetracloruro di carbonio
rispettivamente. Porre all’imboccatura della provetta, con miscuglio e acido, una cartina all’acetato di
piombo.
Annotare quello che si osserva nelle provette e sulla cartina.

Porre la terza parte del miscuglio in una provetta e portarla alla fiamma diretta fino al calore rosso della
massa per circa 1 minuto. Far raffreddare e, successivamente, dividere la massa così ottenuta in due parti
uguali (se necessario spaccare la provetta, facendo attenzione, ovviamente, a non tagliarsi). Trattare la
prima parte con acido cloridrico, ponendo all’imboccatura la cartina all’acetato di piombo, e la seconda con
tetracloruro di carbonio.
Annotare quello che si osserva nelle provette e sulla cartina.
Trascrivere le osservazioni effettuate, nella seguente tabella:

Fe S Fe + S FeS
Reattivo Elemento Elemento Miscuglio Composto
(Ferro) (zolfo) (Ferro + zolfo) (Solfuro di ferro)

HCl

CCl4
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32
Distillazione

Materiali occorrenti:
Vino – Pallone da 500 mL con collo recante un attacco laterale – Beuta da 500 mL – Termometro –
Refrigerante – Tubi in gomma – Treppiedi – Retina d’amianto – Tappi forati.

Cenni teorici:
La distillazione è un metodo di separazione di un miscuglio omogeneo formato sia da solido e liquido che
da due (o più) liquidi.
La separazione avviene sfruttando la diversa volatilità dei componenti del miscuglio. Nel caso del
miscuglio solido-liquido, è solo il componente liquido ad essere volatile, per cui questi si separa dal solido
quando il miscuglio è riscaldato. La separazione avviene portando all’ebollizione il miscuglio. Il liquido che
bolle, passa allo stato di vapore liberandosi dal miscuglio. Il vapore viene incanalato in un sistema che lo
raffredda (refrigerante), facendolo ritornare allo stato di liquido, che viene raccolto nella beuta. Nel caso di
due o più liquidi, bollirà prima quello che ha un punto di ebollizione più basso e, poi, via via gli altri. Nel caso
di miscugli liquidi, non si riesce quasi mai ad avere liquidi puri, ma si hanno frazioni di liquido nelle quali la
quantità di uno dei componenti è maggiore rispetto al miscuglio di partenza (frazione arricchita in un
componente). La prima distillazione, quella solido-liquida, è chiamata distillazione semplice, mentre la
seconda, quella liquido-liquido, è chiamata distillazione frazionata, proprio perché si ottengono delle
frazioni.
Un esempio di distillazione semplice è quella che si realizza distillando acqua di fonte, per ottenere acqua
priva di sali (acqua distillata). Un esempio di distillazione frazionata è la distillazione del petrolio, dalla quale
si hanno le diverse frazioni di combustibili (benzina, cherosene, ecc.). L’esperienza che faremo è anch’essa
una distillazione frazionata, nella quale si ottengono frazioni di liquido, derivanti dal vino, in cui la quantità di
alcool è maggiore rispetto al vino che distilleremo. Queste frazioni sono chiamate genericamente grappe.

Esecuzione dell’esperienza:
Il miscuglio da separare (il vino) si pone in un pallone da 500 mL recante sul collo un raccordo. Si tappa il
pallone con un tappo forato, nel quale è stato introdotto un termometro. Il raccordo presente sul collo del
pallone viene attaccato al refrigerante, tramite un tappo forato. L’ingresso in basso del refrigerante viene
attaccato, tramite un tubo in gomma, ad una fontana e l’uscita, presente in alto del refrigerante, tramite un
altro tubo in gomma, viene collegato ad uno scarico (ad esempio il lavello). Sotto al becco del refrigerante si
pone una beuta, che ha la funzione di raccogliere il liquido che fuoriesce dal refrigerante. L’apparecchiatura,
una volta assemblata, si presenta come nella figura successiva.

Termometro

Miscuglio Refrigerante

Uscita acqua
Ingresso acqua

Bunsen Liquido raccolto


Schema di un apparecchio di distillazione assemblato.

Assemblato l’apparecchio di distillazione, non resta che accendere il bunsen. La temperatura del miscuglio,
ovviamente, salirà mano a mano che il tempo passa. Vicino al punto di ebollizione dell’alcool etilico (ca.
75°C) incominciano ad essere evidenti i vapori, che si condensano già nel collo del pallone, più la
temperatura aumenta più la condensazione avviene lontano dal pallone.
Il vapore che arriva nel refrigerante incontra l’acqua che circola nella camicia esterna del refrigerante (non vi
è contatto tra la camicia esterna in cui vi è acqua e la camicia interna in cui circola vapore, per cui i due stati
non si mescolano ma scambiano solo calore).
Nella beuta si raccoglie un liquido bianco (grappa), formato da una miscela di acqua e alcool, nel quale la
quantità di alcool (superiore ai 30°) è maggiore di quella del vino (circa 12°).
Esercitazioni di laboratorio a cura dei Proff. Raffaele Miranda e Francesco Della Gala

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Nota: L’ingresso dell’acqua nel refrigerante deve avvenire in modo tale che l’acqua che circola nella camicia
esterna abbia un percorso opposto rispetto al vapore nella camicia interna (controcorrente). In questo
modo il vapore incontra sempre acqua fredda. Per questo motivo l’ingresso è stato attaccato in basso e
l’uscita in alto (vedi figura precedente).
I refrigeranti non hanno tutti la stessa forma di quello riportato in figura. Alcuni, come camicia interna, hanno
una serie di bolle di vetro (refrigerante a bolle), in modo che il vapore offre una superficie di contatto
all’acqua maggiore. Altri hanno, invece, una serpentina (refrigerante a serpentina) nella quale circola il
vapore, in modo tale che il vapore resta a contatto con l’acqua per un tempo più lungo.

Esempio di refrigerante a bolle

(per avere una buona grappa, bisognerebbe, innanzitutto, far avvenire la distillazione in presenza delle
vinacce da cui si è ottenuto il vino. Inoltre le prime frazioni che escono dal distillatore vanno buttate, perché
contengono altri alcool, oltre quello etilico, di sapore non del tutto gradevole. Allo stesso modo quando sta
per terminare il liquido nel pallone, non bisogna più raccogliere quello che esce dal refrigerante, per lo stesso
motivo visto in precedenza. Come si è solito dire, “vanno scartate la testa e la coda” della distillazione.)
Esercitazioni di laboratorio a cura dei Proff. Raffaele Miranda e Francesco Della Gala

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Elettrolisi dell’acqua

Materiali occorrenti:
Batteria da 4,5 volt – Elettrodi di grafite – Bacinella in plastica – Sigillante (colla o silicone) – NaOH 1 M –
Burette da 25 mL.

Cenni teorici:
Come sappiamo, l’acqua è formata da idrogeno e ossigeno, con gli elementi, in rapporto molare di due a
uno. Questi elementi, possono essere ottenuti dall’acqua, per azione della corrente elettrica. L’acqua pura
non è un conduttore di corrente elettrica, ma le sue soluzioni, formate da elettroliti, lo sono. Ad esempio, una
soluzione d’idrossido di sodio, conduce la corrente elettrica, per la presenza, in soluzione, di ioni Na+ e OH¯ .
Se, in una soluzione di un elettrolita, immergiamo dei conduttori metallici, chiamati elettrodi, collegati a un
generatore di corrente, gli ioni, in soluzione, migreranno verso l’elettrodo che con carica opposta, ad essi.
L’elettrodo positivo, chiamato anodo, attirerà gli ioni negativi, detti, per questo, anioni, mentre verso
l’elettrodo negativo, chiamato catodo, migreranno gli ioni positivi, per questo, indicati come cationi. La
presenza delle cariche elettriche degli elettrodi, fa avvenire le reazioni redox, degli ioni che vi arrivano. Nel
caso dell’acqua, al catodo arriva lo ione idrogeno (H+), che si trasformerà in idrogeno elementare (H2),
all’anodo, invece, arriva lo ione ossidrile (OH¯ ), che si trasforma in ossigeno elementare (O2). I due elementi
sono gassosi, per cui, ai due elettrodi, si avrà sviluppo di gas.

Esecuzione dell’esperienza:
A una bacinella di materiale plastico, si praticano sul fondo due fori per permettere il passaggio dei,due
elettrodi di grafite. Si collocano I due elettrodi, in modo che, una parte di essi sia nella bacinella e una parte
fuoriesca da essa. La parte che fuoriesce deve essere collegata, tramite fili elettrici, alla batteria. Sistemati i
due elettrodi, i fori sul fondo praticati nella bacinella, vengono sigillati, con della colla o del silicone, per
evitare che da essi possa, poi, uscire dell’acqua.
A questo punto, si riempire metà bacinella con dell’acqua, a cui si aggiungono alcune gocce di una soluzione
di idrossido di sodio 1 M.
Due burette da 25 mL, a rubinetto chiuso, si riempiono d’acqua fino all’orlo. Tappando, con un dito, l’apertura
delle burette, si capovolgono e si immergono nella bacinella, posizionandole con un elettrodo, all’interno di
ciascuna.
Si collegano i due elettrodi alla pila.
Per effetto delle reazioni che avvengono agli elettrodi, si formeranno dei gas all’interno delle burette, che
spingeranno l’acqua, in esse contenuta, verso l’esterno. I gas si raccoglieranno nella parte superiore delle
burette.
Quando i volumi di due gas, quello all’anodo e quello al catodo, sono diventati abbastanza consistenti, si può
effettuare la loro misura, sulla scala delle burette. I valori che si troveranno, dovrebbero essere, nei limiti
dell’errore sperimentale, uno il doppio dell’altro: il volume di idrogeno, al catodo, il doppio di quello
dell’ossigeno, all’anodo. Questo perché, nell’acqua, le moli di idrogeno sono il doppio di quelle dell’ossigeno.
Esercitazioni di laboratorio a cura dei Proff. Raffaele Miranda e Francesco Della Gala

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Esperienze sugli acidi carbossilici

Materiali occorrenti:
Acido acetico glaciale. - Acido ossalico - Acido oleico - Etanolo - Acido solforico sol. 95% - Dicromato di
potassio cristallino - Idrossido di sodio sol. 0.1 M - Magnesio - Idrossido di bario sol. 1 % - Fenolftaleina –
Provette – Pallone codato da 100 mL – Tappo con tubo ad U.

Esame delle caratteristiche fisiche di alcuni acidi carbossilici:


Disponendo di più acidi carbossilici è possibile effettuare un esame delle caratteristiche, quali lo stato fisico
(liquido o solido), la densità, l’odore, la miscibilità con acqua o con eventuali solventi apolari, il pH, la
conducibilità elettrica di soluzioni a diverse concentrazioni.
I dati raccolti sperimentalmente vengono riportati in una tabella appositamente preparata.

Preparazione di acido acetico per ossidazione di etanolo con bicromato di potassio:


In un pallone codato da 100 mL si pongono 20 mL di alcool etilico 95° e 20 mL di acqua distillata. Si agita
per mescolare perfettamente e si aggiunge una punta di spatola di bicromato potassico; la soluzione assume
il colore caratteristico arancio. Goccia a goccia, si versano 2 mL ca. di acido solforico al 95 %, si tappa e si
porta sul bunsen con reticella d’amianto per un cauto riscaldamento. In poco tempo si osserva il
cambiamento del colore al verde ad indicare la riduzione del cromo. Contemporaneamente si ha
l’ossidazione dell’alcool etilico ad acido acetico, che distilla dal tubo del palloncino e che è riconoscibile per
il caratteristico odore, oltre che per l’acidità, verificabile con una cartina all’indicatore universale.

Reazioni di salificazione:
In una provetta si versano 5 mL di acido acetico glaciale e 5 mL di acqua distillata e, nella soluzione
ottenuta, si immerge una lastrina di magnesio. Si nota lo sviluppo di un gas (idrogeno); in soluzione si forma
l’acetato di magnesio.
Allo stesso modo si può porre in provetta anziché magnesio, un altro metallo come il sodio o il calcio.

Reazione di decarbossilazione dell’acido ossalico:


In una provetta si versa una spatolata di acido ossalico cristallino; si chiude la provetta con un tappo con
tubo di sviluppo. In un’altra provetta si versa dell’idrossido di bario e il tubo di sviluppo della prima provetta.
Si porta la provetta con l’acido ossalico al bunsen e si riscalda lentamente fino a una temperatura tra i 160°
C e i 180 °C. A questa temperatura si nota lo sviluppo di un gas (anidride carbonica), che, sviluppandosi
attraverso il tubicino, intorbidirà la soluzione di idrossido di bario presente nell’altra provetta.
Esercitazioni di laboratorio a cura dei Proff. Raffaele Miranda e Francesco Della Gala

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Esperienze sugli alcani

Materiali occorrenti:
Metano - Esano (o Benzina) - Paraffina - Permanganato di potassio sol. 0,001 M - Idrossido di sodio in perle
e sol. 4 M - Acetato di sodio - Acido solforico sol. 1:5 - Acqua di bromo satura - Benzene - Cloroformio -
Tetracloruro di carbonio - Iodio - Saccarosio - Cloruro di sodio - Etanolo – Mortaio – Provette – Tappo forato
con tubicino – Becco bunsen – 2 Capsule di porcellana .

Preparazione del metano da acetato di sodio e idrossido di sodio:


In un piccolo mortaio si mescolano 1 g di acetato di sodio e 1 g di idrossido di sodio polverizzandoli
accuratamente. Si raccoglie il miscuglio in una provetta e si riscalda al bunsen. A compimento della reazione
si verifica la fuoriuscita del metano dalla provetta. Il gas, convogliato tramite un tubo può essere combusto
all’estremità del tubo stesso.

Reazioni di combustione del metano (o del propano, o del butano):


Si accende un bunsen, alimentato a metano (o a propano, o anche a butano), a fiamma riducente e si pone
sopra quest’ultima una capsula di porcellana bianca, perfettamente pulita ed asciutta. In breve si osservano
la condensazione sulle pareti del vapor acqueo ed il depositarsi di particelle di carbonio (nerofumo).
Aprendo i fori d’ingresso dell’aria del bunsen si ottiene una fiamma ossidante (di colore azzurro e più
regolare, con la presenza di due coni). Ponendo un altra capsula bianca di porcellana sopra la fiamma si
osserva solo la condensazione del vapore acqueo, senza formazione di nerofumo.
Sottoponendo la prima capsula, con il nerofumo, all’azione della fiamma ossidante si osserva la progressiva
scomparsa del nero dalle pareti della capsula.

Reattività dell’esano:
In tre provette si pongono 1 o 2 mL di permanganato di potassio sol. 0,001 M. In una provetta si aggiungono
alcune gocce di idrossido di sodio sol. 4 M; in un’altra alcune gocce di acido solforico sol. 1:5. A tutte e tre le
provette si aggiunge 1 mL circa di esano, si agita e si osserva che in nessun caso si verifica la decolorazione
del permanganato di potassio; ciò indica che non è avvenuta, né in condizioni di neutralità né di basicità né
di acidità, riduzione del Mn7+ con conseguente ossidazione dell’alcano.

Prove comparative di miscibilità e solubilità:


Disponendo di più alcani o di loro derivati ( es. tetracloruro di carbonio, cloroformio ) è possibile effettuare
prove per verificare la miscibilità di tali composti. Tali prove si possono eseguire anche con altri solventi
apolari ( es. benzene ) o polari ( es. acqua, etanolo ).
Prove di solubilità si possono effettuare sciogliendo un alcano solido ( paraffina ) in uno liquido e provando a
sciogliere, nello stesso, sostanze di tipo molecolare ( es. iodio, saccarosio ) o ionico ( es. cloruro di sodio ).
(In mancanza di esano le esperienze di cui sopra possono essere effettuate con della benzina che, come è
noto, è una miscela di idrocarburi a 6-7-8 atomi di carbonio.)
Esercitazioni di laboratorio a cura dei Proff. Raffaele Miranda e Francesco Della Gala

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Esperienze sugli alcheni

Materiali occorrenti:
1-ottene - Esano - Tetracloruro di carbonio - Permanganato di potassio sol. 0.001 M - Idrossido di sodio sol.
1 M - Acqua di bromo satura - Paraffina - Cloruro di sodio - Etanolo - Iodio – Provette.

Ossidazione a glicol dell’1-ottene:


In una provetta porre 3 o 4 mL di permanganato di potassio sol. 0,001 M ed alcalinizzare con 2 o 3 gocce di
idrossido di sodio sol. 1 M; si aggiunge, infine, 1 mL di 1-ottene e si agita.
In breve si osserva la scomparsa della colorazione viola, con comparsa di un colore bruno tenue.

Addizione di bromo all’1-ottene:


Si pongono in una provetta 4 o 5 mL di acqua di bromo satura e si aggiunge 1 mL circa di 1-ottene, agitando
la miscela. In breve si osserva lo scolorimento dell’acqua di bromo.

Prove comparative di miscibilità e solubilità:


E’ possibile verificare la miscibilità di alcuni alcheni (etilene, 1-ottene, ecc.) da effettuarsi con altri idrocarburi
o derivati (es. esano, benzene, tetracloruro di carbonio, cloroformio) e con solventi di altra natura (es. acqua
o etanolo ).
E’ anche possibile verificare la solubilità in un alchene (es. 1-ottene) sciogliendo in esso un alcano solido (
paraffina ) e sostanze di tipo molecolare (es. iodio, saccarosio) oppure ionico (es. cloruro di sodio).
I risultati delle prove di cui sopra possono essere raccolti in una tavola sinottica appositamente
preparata.

Esperienze sugli alchini

Materiali occorrenti:
Carburo di calcio - Acqua di bromo sol. satura - Fenolftaleina sol. 1 % - Capsula in porcellana – Provette –
Tappo forato con tubo ad U.

Preparazione dell’acetilene (etino) dal carburo di calcio:


Riempire di acqua una capsula in porcellana fino a 2 cm dal bordo e far cadere in essa un pezzetto di
carburo di calcio (circa 2 o 3 g). Si osserva un forte sviluppo di acetilene (etino), riconoscibile dall’odore.
II formarsi di un leggero precipitato biancastro nell’acqua della capsula ed il comportamento basico,
verificabile con l’aggiunta di 2 o 3 gocce di fenolftaleina, confermano, con certezza, la formazione
dell’idrossido di calcio.
Avvicinando una fiamma all’acetilene in formazione si ha l’immediata accensione dello stesso, con fiamma
poco luminosa e che lascia residui fuligginosi.

Addizione di bromo all’acetilene (etino):


Disporre in un sostegno due provette. In una mettere 2 o 3 mL di acqua di bromo satura e 10 mL circa di
acqua distillata; nell’altra, al fine di sviluppare acetilene, si versano 10 mL circa di acqua e si lascia cadere 1
g circa di carburo di calcio e si chiude velocemente con il tappo del tubo di sviluppo. Lo stesso tubo di
sviluppo si inserisce nella prima provetta, al fine di far gorgogliare il gas. In breve si nota una completa
decolorazione dell’acqua di bromo ad indicare l’avvenuta reazione di alogenazione.
Esercitazioni di laboratorio a cura dei Proff. Raffaele Miranda e Francesco Della Gala

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Esperienze sugli alcoli

Materiali occorrenti:
Metanolo - Etanolo - 1-Butanolo - 2-Butanolo - t-Butanolo - 1,2,3-Propantriolo - Bicromato di potassio -
Cromato di potassio - Cloruro di zinco - Acido cloridrico sol. 37 % - Sodio - Rame - Piridina - Acido solforico
sol. 95 % - Provette - Capsula di porcellana.

Prove di miscibilità con acqua:


Si prelevano campioni di 2 ml circa di ciascun alcool disponibile e si pone, ognuno, in un una provetta. Ad
ogni provetta aggiungere 2 mL di acqua distillata, agitare ed osservare se si ha completa, parziale o
mancata miscibilità.
I risultati vengono, poi, riportati in una tabella.

Ossidazione di un alcool ad opera del dicromato di potassio:


In una provetta si introducono 3 mL di etanolo sol. 95 % e 1 mL circa di acqua distillata; a questi si
aggiungono una punta di spatola di bicromato di potassio agitando fino a completa solubilizzazione del sale.
La soluzione appare di colore arancio intenso. Si aggiungono, con cautela, 1 mL di piridina, al fine di evitare
l’ulteriore ossidazione ad acido carbossilico e 2 o 3 gocce di acido solforico sol. 95 % . Si porta la provetta
sul bunsen e si scalda lentamente; subito si nota il viraggio del colore da arancio ad un colore verde tenue
ad indicare la riduzione del cromo con contemporanea ossidazione dell’alcool etilico ad aldeide acetica
(etanale).

Ossidazione di un alcool in presenza di rame ad alta temperatura:


In un piccolo becker si pongono 10-20 mL di metanolo. A parte si riscalda una lastrina di rame tenuta da
pinze; quando la lastrina è arroventata, cautamente la si immerge senza farla raffreddare nel metanolo. Si
osserva immediatamente l’ossidazione del metanolo ad aldeide formica (metanale) riconoscibile dal
caratteristico odore.

Riconoscimento di un alcool con reattivo di Lucas:


II reattivo di Lucas si prepara al momento (sotto cappa) essendo molto deperibile: si sciolgono 13,6 g di
cloruro di zinco in 10 mL di acido cloridrico sol. 37 %. Si tratta (sempre sotto cappa) 1 mL di ogni alcool con
3 mL di reattivo di Lucas, in una provetta, agitando per favorire la reazione:
Alcool terziario (es. alcool t-butilìco): la soluzione intorbida e si forma uno strato oleoso che subito viene a
galla. Il composto formatosi è l’alogenuro alchilico.
Alcool secondano (es. alcool sec-butilico): la formazione dell’alogenuro alchilico avviene dopo circa 5 minuti.
Alcool primario (es. alcool n-butilico o etilico): non si verifica la stratificazione.

Formazione di un alcolato:
In una capsula di porcellana si pongono 10 mL circa di etanolo sol. 95° e ad essi si aggiungono, poco per
volta, piccoli pezzi di sodio (in tutto 4 o 5 g), facendo molta attenzione ad evitare che il calore di reazione
possa incendiare l’idrogeno o l’etanolo.
(La capsula può essere immersa in acqua e ghiaccio)
Alla fine si lascia evaporare l’alcool in eccesso; nella capsula si deposita una polvere biancastra, che è
l’alcolato.
Esercitazioni di laboratorio a cura dei Proff. Raffaele Miranda e Francesco Della Gala

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Esperienze sugli esteri

Materiali occorrenti:
Acido acetico glac. - Etanolo 95 % - Olio di oliva (o di semi) - Idrossido di sodio sol. 8 M - Cloruro di sodio
cristallino - Acido solforico sol. 95 % - Sapone di Marsiglia - Pallone in vetro pyrex da 250 mL – Refrigerante
- Imbuto separatore - Becker da 250 mL - Provette.

Sintesi dell’acetato di etile (etanoato di etile):


In un pallone in vetro pyrex da 250 mL si versano 20 mL di acido acetico glaciale e 20 mL di alcool etilico
95°; si mescola e si aggiungono, goccia a goccia, 10 mL di acido solforico sol. 95 % . Si monta il refrigerante
(a ricadere) e si riscalda lentamente per circa 10 minuti.
A reazione avvenuta si lascia raffreddare e dopo 10 minuti si aggiungono 100 mL circa di acqua distillata.
L’estere formatosi (l’etanoato di etile, o acetato di etile) avendo densità minore ed essendo insolubile,
galleggerà sull’acqua. L’eccesso di acido può essere eliminato agitando la massa con una soluzione al 10 %
di carbonato di sodio. La separazione dello strato dell’estere dalla parte acquosa si fa avvenire in un imbuto
separatore.

Reazione di idrolisi di un trigliceride (reazione di saponificazione dei grassi):


In un becker da 250 mL si versano 10 mL di olio di oliva (o di semi) e 5 mL di idrossido di sodio sol. 8 M. Si
aggiungono 10 mL di acqua distillata e si porta il becker su una reticella d’amianto posta su un bunsen,
procedendo ad un lento e cauto riscaldamento. Si agita frequentemente, aggiungendo acqua se questa
evapora, fino a che la saponificazione non si è completata. Quando si osserva la comparsa di schiuma e la
completa assenza di gocce di olio, si aggiunge una spatolata di cloruro di sodio cristallino al fine di favorire
l’aggregarsi del sapone in micelle. Si lascia raffreddare e si recupera il sapone formatosi.

Esame del potere detergente dei saponi:


Per verificare l’azione detergente del sapone, si preparano due provette contenenti ciascuna 5 mL di acqua
distillata e 5/10 gocce di olio.
In una delle due provette si aggiunge una piccola quantità di sapone di Marsiglia (o del sapone
precedentemente preparato). Si agitano entrambe le provette e si nota che nella prima provetta, quella
senza il sapone, si ha stratificazione dell’olio sull’acqua, mentre nella seconda provetta, quella contenente il
sapone, si ha una omogenea dispersione delle particelle del grasso nell’acqua.
Esercitazioni di laboratorio a cura dei Proff. Raffaele Miranda e Francesco Della Gala

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Esperienze sui carboidrati (zuccheri)

Materiali occorrenti:
Saccarosio - Glucosio - Fruttosio - Amido - Reattivo di Fehling - Acido solforico sol. 95 % - Acido cloridrico
sol. 37 % - Iodio sol. 0,01 M - Vetrino da orologio – Provette - .

Disidratazione del saccarosio:


In un vetro da orologio si pongono 10 g circa di saccarosio e su questi si versano 2 o 3 mL di acido solforico
95 %. In pochi secondi si forma una massa scura.

Esame del potere riducente di alcuni zuccheri:


Si preparano 10 mL di reattivo di Fehling completo (5 mL di soluzione A + 5 mL di soluzione B) e tre provette
contenenti 5 mL circa di acqua distillata. In una provetta si versa una piccola quantità di glucosio, nella
seconda una di fruttosio e nella terza una di saccarosio; si agitano le provette fino a completa dissoluzione e
a ciascuna si aggiungono 3 mL di reattivo di Fehling. Si porta la provetta con il glucosio al bunsen e si
scalda; in pochi secondi si nota la formazione del precipitato color rosso mattone. Si pone sul bunsen la
provetta con il fruttosio e si nota che il precipitato si forma un po’ più lentamente ed appare lievemente meno
intenso.
Riscaldando al bunsen la provetta contenente la soluzione di saccarosio non si forma alcun precipitato.

Inversione del saccarosio:


In due provette con 5 mL di acqua distillata ciascuna si disciolgono due piccole spatolate di saccarosio. Una
provetta serve da “bianco”, e non viene trattata, mentre alla seconda si aggiungono 2 o 3 gocce di acido
cloridrico al 37 %; si scaldano entrambe al bunsen ed ad esse si aggiungono, ciascuna, 3 mL di reattivo di
Fehling completo. Solo la provetta trattata con acido cloridrico presenta un precipitato rosso mattone.

Idrolisi dell’amido:
In una provetta si scioglie una punta di spatola di amido solubile in 5 o 6 mL di acqua distillata; alla
soluzione si aggiungono alcune gocce di soluzione 0,01 M di iodio che impartiscono il colore blu.
A questo punto, si aggiungono 3 o 4 gocce di acido cloridrico al 37 % e si porta la provetta al bunsen per il
riscaldamento; in pochi secondi il colore blu scompare, indicando la demolizione della molecola del
polisaccaride.
Esercitazioni di laboratorio a cura dei Proff. Raffaele Miranda e Francesco Della Gala

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Esperienze sulle aldeidi e chetoni

Materiali occorrenti:
Aldeide acetica - Aldeide formica - 1-butanolo - 2-propanolo - Acetone - Dicromato di potassio cristallino -
Acido solforico sol. 95 % - Nitrato di argento sol. 0.1 M - Idrossido d’ammonio sol. 2 % - Idrossido di sodio
sol. 1 M - Reattivi di Fehling - Piridina – Provette – Becker da 25 mL - Becker da 250 mL.

Preparazione dell’aldeide n-butirrica per ossidazione dell’1-butanolo con dicromato di potassio:


In una provetta si introducono 3 mL di 1-butanolo e 1 mL circa di acqua distillata; a questa soluzione si
aggiunge una punta di spatola dì dicromato di potassio agitando fino a completa dissoluzione del sale. La
soluzione appare di colore arancio intenso. Si aggiungono, con cautela, 1 mL di piridina, al fine di evitare
l’ulteriore ossidazione ad acido carbossilico e 2 o 3 gocce di acido solforico al 95 %. Si porta la provetta sul
bunsen e si scalda lentamente; subito si nota il viraggio del colore arancio ad un colore verde tenue ad
indicare la riduzione del cromo con contemporanea ossidazione dell’ alcool n-butilico ad aldeide butirrica
(butanale).

Preparazione dell’acetone per ossidazione del 2-propanolo con dicromato di potassio:


In una provetta si introducono 3 mL di 2-propanolo e 1 mL circa di acqua distillata; a questa soluzione si
aggiunge una punta di spatola di dicromato di potassio agitando fino a completa dissoluzione del sale. Si
aggiungono, con cautela, 2 o 3 gocce di acido solforico al 95 %. Si porta la provetta sul bunsen e si scalda
lentamente; subito si nota il viraggio del colore da arancio a un verde tenue.

Reazione di Tollens e formazione dello specchio d’argento:


Il reattivo di Tollens si prepara al momento versando in una provetta 2 mL di nitrato di argento sol. 0,1 M, 1-
2 gocce di idrossido di sodio sol. 1 M ed alcune gocce di idrossido di ammonio sol. 2 %, fino a completa
soluzione.
In una seconda provetta si versano 1-2 mL di una aldeide (formica o acetica), si aggiungono 5 o 6 gocce del
reattivo di Tollens e si porta al bunsen riscaldando lentamente. Dopo pochi secondi si nota sul fondo della
provetta la comparsa dello specchio d’argento dovuto alla riduzione di Ag+ a argento elementare.

(E’ preferibile operare con guanti monouso al fine di evitare macchie di argento sulle mani.)

Esame del differente potere riducente di aldeidi e chetoni con reattivo di Fehling:
Il reattivo di Fehling è costituito da due soluzioni, la soluzione A e la soluzione B .
Al momento dell’analisi si mescolano in un becker da 25 mL, 5 mL per ciascuna delle due soluzioni.
Successivamente, in una provetta si versano 2 mL di aldeide (formica o acetica) e in una seconda provetta 2
mL di acetone. Si pongono le provette in un bagnomaria caldo (o in un becker da 250 mL con acqua calda) e
si versano, in ciascuna, 3 o 4 mL di reattivo di Fehling completo. Nella provetta contenente l’aldeide si
osserva il formarsi di un precipitato bruno di ossido rameoso e contemporanea ossidazione dell’aldeide ad
acido carbossilico. Nella provetta contenente il chetone non si ha alcuna reazione redox.
Esercitazioni di laboratorio a cura dei Proff. Raffaele Miranda e Francesco Della Gala

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Esperienze sulle proteine

Materiali occorrenti:
Reattivo di Fehling sol. A - Idrossido di sodio sol. 2 M - Campioni di carne, uova, formaggio, olio di oliva
(succhi di frutta) - Provette.

Comportamento del legame peptitico con la sol. A del reattivo di Fehling:


Le sostanze contenenti proteine reagiscono, in soluzione od emulsione fortemente basica ed a caldo, con il
reattivo A di Fehling (soluzione di ioni Cu2+) dando una colorazione che va dal rosso al viola. In una provetta
si introduce una piccola quantità di albume di uovo fresco amalgamandola con cura con 5 mL circa di acqua
distillata; si aggiungono poi 2 mL circa di idrossido di sodio sol. 2 M ed altrettanti di reattivo di Fehling sol. A,
agitando e portando la provetta al bunsen per un cauto riscaldamento. In pochi secondi, se si è agito
correttamente, si osserva il cambiamento del colore verso il rosso-viola;
In una seconda provetta si pone un pezzetto di carne e in una terza uno di formaggio, aggiungendo 5 mL
circa di acqua distillata, cercando di frantumare e disperdere il più possibile il materiale in analisi. Compiuta
questa operazione si procede nel modo già descritto; anche in questi due casi si nota il cambiamento del
colore, dall’azzurro al rosso-viola, ad indicare la presenza di proteine.
Per confronto si effettua una prova “in bianco” prima solo con acqua distillata, idrossido di sodio e reattivo di
Fehling sol. A e poi con un campione di olio di oliva, seguendo la procedura citata.
In entrambi i casi non si verifica alcun cambiamento di colore del reattivo, indicando l’assenza di materiale
proteico.
(La prova “in bianco” può essere effettuata anche con frutta fresca o con suoi derivati, come ad esempio i
succhi di frutta).
Esercitazioni di laboratorio a cura dei Proff. Raffaele Miranda e Francesco Della Gala

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Estrazione della caffeina dal tè

Materiale occorrente:
occorrente
Tè in polvere – Carbonato di calcio – Diclorometano (Cloruro di metilene) – Sodio solfato – Imbuto
separatore – Becker da 400 mL – Piastra agitante e riscaldante – Pallone da 250 mL – Imbuto –Rotavapor
Rotavapor

Cenni teorici:
teorici
La caffeina è un alcaloide,
alcaloide, presente non solo nel caffè,
caffè ma in altre piante come il tè, che risponde alla
formula:

Il termine alcaloide è riservato ad un gran numero di sostanze, contenenti uno o più atomi di azoto,
appartenenti anche a classi differenti di composti organici, che hanno un comportamento basico e, per
questo, simile agli alcali. Sono sostanze di origine naturali, quasi tutti solidi, ad eccezione della nicotina che
è liquida. Gli alcaloidi presentano proprietà molto differenti tra loro, per cui si va da sostanze che sono
utilizzate a scopo terapeutico, come la papaverina, la morfina o il chinino, a sostanz sostanze
e tossiche come la
stricnina.
L’estrazione della caffeina avviene in acqua a caldo. caldo. In acqua, oltre alla caffeina passeranno altre
sostanze solubili, per questo si effettua una nuova estrazione in un solvente organico, nel quale passerà
esclusivamente la caffeina. Questo solvente è il cloruro di metilene. Una volta estratta la caffeina, si fa
evaporare il solvente organico, sotto vuoto al rotavapor, per avere la caffeina in polvere, che dovrà, poi,
essere purificata.
L’esercitazione vuole fornire una tecnica
tecnica di estrazione e far familiarizzare con alcuni strumenti di laboratorio,
come l’imbuto separatore, la piastra agitante e il rotavapor.

Estrazione::
Pesare su bilancia tecnica 23 g di tè in un becker da 400 ml e aggiungervi 10 g di CaCO3 precedentemente
pesati in una vaschetta. Aggiungere, poi, 200 ml di H2O e mantenere in ebollizione su piastra sotto
agitazione per 20 min.
Dopo aver fatto decantare il materiale solido, filtrare sotto vuoto. Per evitare l’intasamento del filtro trasferire
prima la maggior quantità di liquido e dopo la poltiglia rimanente.
Estrarre in imbuto separatore il filtrato freddo con 50 ml di CH2Cl2.
(Attenzione:
Attenzione: appena versati i liquidi sfiatare l’imbuto e ricordarsi di sfiatare dopo ogni agitazione)
agitazione) Lasciare
che sii verifichi una netta separazione delle due fasi. Agitare dolcemente con movimenti rotatori evitando il
rimescolamento completo delle due fasi, fasi per ridurre al minimo la formazione di emulsioni. La fase organica
dovrebbe assumere una leggera colorazione verdina verdina o ambrata. Trasferire la fase organica in un becker.
Ripetere l’estrazione per altre tre volte riunendo tutti gli estratti diclorometanici nello stesso becker.
Anidrificare l’estratto totale aggiungendo nel becker Na2SO4 fino all’ottenimento di una ssoluzione
oluzione verdina o
ambrata limpida.
Filtrare il liquido su filtro a pieghe in un pallone da 250 ml già pesato su bilancia analitica.
Portare a secco al rotavapor fino ad ottenere un residuo solido verdino o ambrato. Asciugare bene e pesare
per ottenere ilil peso di caffeina grezza.
Esercitazioni di laboratorio a cura dei Proff. Raffaele Miranda e Francesco Della Gala

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Estrazione

Materiali occorrenti:
Foglia di una pianta – Alcool etilico a 95° – Iodio metallico – Ioduro di potassio – Tetracloruro di carbonio –
Becker da 50 mL – Treppiedi – Retina d’amianto – Imbuto separatore.

Cenni teorici:
L’estrazione è un metodo di separazione sia di un miscuglio omogeneo sia di uno eterogeneo, in
qualsiasi stato di aggregazione.
La separazione avviene sfruttando la diversa solubilità dei componenti del miscuglio, in un opportuno
solvente. L’estrazione non è quasi mai selettiva, nel senso che non si riesce mai a estrarre un solo composto
dal miscuglio. Per questo l’estrazione è sempre accompagnata da un’altra tecnica di separazione (come, ad
esempio, la cromatografia).
Un esempio di estrazione è quella che si realizza quando si prepara il caffè. In questo caso il vapore
surriscaldato che nella parte bassa della macchinetta del caffè (dove si mette l’acqua) passa attraverso il
caffè in polvere, estraendo alcuni componenti del caffè (caffeina e altre sostanze). Nella parte alta, a contatto
con l’aria il vapore, con le sostanze che ha estratto, si raffredda e ritorna allo stato liquido dando il caffè che
poi berremo.
Questo tipo di estrazione, ottenuto con del vapore, è chiamata estrazione in corrente di vapore.
La nostra esperienza, invece, utilizza un solvente allo stato liquido (l’alcool etilico a 95°). Anche nel caso di
un solvente liquido l’estrazione è influenzata dalla temperatura, nel senso che a caldo avviene più
velocemente e, in genere, estrae anche più sostanze rispetto a quando l’estrazione avviene a freddo.

Estrazione della clorofilla da una foglia:


Una foglia (non molto grande) di una pianta si spezzetta in più parti e si pone in un becker da 50 mL. Nel
becker si versano ca. 25 mL di alcool etilico a 95°. Si lascia il miscuglio ottenuto a riposo per circa 2 minuti.
Si nota, dopo tale tempo, che l’alcool da incolore che era, comincia ad assumere una colorazione verde
tenue, a conferma che sta estraendo dalla foglia la clorofilla, che presenta proprio questa colorazione.
Si lascia ancora per 3 minuti e dopo si filtra. Il filtrato sarà formato da alcool contenente clorofilla, che gli da il
colore verde, e altre sostanze presenti nella foglia (xantofilla, carotene, e altre).

Influenza della temperatura:


In due beckers da 50 mL si spezzettano due foglie della stessa grandezza (o quasi). In entrambi i beckers si
versano 25 mL di alcool etilico, Uno dei due becker si pone su un treppiede con reticella di amianto e sotto la
reticella si accende il bunsen a fiamma lenta.
Da quando l’alcool comincia a bollire si lasciano passare 2 minuti, dopo di che si confrontano le colorazioni
dei liquidi presenti nei due becker.
Si nota che il liquido sottoposto a riscaldamento, presenta un colore verde molto più scuro di quello non
riscaldato. Questo a conferma che il riscaldamento favorisce l’estrazione.

Estrazione da una fase liquida:


In un becker da 100 mL si versa 50 mL di acqua e in essa si disciolgono, aiutandosi con una bacchettina,
pochi mg (uno o due) di ioduro di potassio (KI) e alcuni mg (massimo 5) di iodio (I2). La soluzione si colora
di viola. Una volta disciolto tutto lo iodio si versa la soluzione in un imbuto separatore. Si aggiungono
nell’imbuto 40 o 50 mL di tetracloruro di carbonio (CCl4). Si agita l’imbuto, dopo averlo tappato, e si
osserva che il tetracloruro, che è più denso dell’acqua e, per questo, si trova sul fondo dell’imbuto
separatore, comincia a colorarsi di viola. L’acqua tenderà a schiarirsi. Quando tutto lo iodio è passato nel
tetracloruro, si apre il rubinetto dell’imbuto e si fa gocciolare, lentamente, la soluzione di tetracloruro e iodio,
che essendo in basso uscirà per prima. Il rubinetto si chiude quando tutta la soluzione di tetracloruro è
fuoriuscita dall’imbuto separatore. Nell’imbuto resterà l’acqua privata dello iodio.
(In considerazione del basso valore delle masse di ioduro di potassio e iodio, si può evitare la pesate di
queste sostanze, aggiungendo all’acqua un paio di granelli di ioduro di potassio e tre o quattro scagliette di
iodio).
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Filtrazione

Materiali occorrenti:
Solfato di sodio – Cloruro di bario sol. – Becker da 100 mL - Imbuto – Vetrino d’orologio – Anello per
filtrazione – Carta da filtro.

Cenni teorici:
La filtrazione è un metodo di separazione di un miscuglio eterogeneo, formato da solido e liquido.
La separazione avviene inviando il miscuglio su un sistema (filtro) che permette il passaggio del liquido, ma
non del solido. Nel nostro caso il filtro è rappresentato da una particolare carta, detta appunto carta da filtro.
La carta da filtro viene trattata in modo da esaltare la sua porosità e in modo da regolare la grandezza dei
pori, per poter trattenere anche solidi particolarmente fini.

Formazione del precipitato:


In un becher da 100 mL si versano circa 50 mL di acqua. In essa si disciolgono alcuni mg di solfato di
sodio (Na2SO4). Alla soluzione ottenuta si aggiungono 10 mL di una soluzione di cloruro di bario (BaCl2).
Per reazione tra il solfato di sodio e il cloruro di bario, in soluzione, si forma il solfato di bario (BaSO4), che
è insolubile, cioè non si discioglie in acqua. Essendo insolubile, il solfato di bario appena si forma si stacca
dalla soluzione, depositandosi, per gravità, sul fondo del becker. Si dice che il solfato di bario (di colore
bianco) precipita.
In queste condizioni siamo in presenza di un miscuglio formato da un liquido, l’acqua con quello che è
rimasto in soluzione, e un solido, il solfato di bario.

Separazione (filtrazione):
Avuto il precipitato di solfato di bario, lo si lascia depositare sul fondo in modo che le particelle del solido,
ammassandosi le une sulle altre, possano aumentare di dimensioni. Questa operazione viene detta
decantazione del precipitato. Per permettere un maggiore accrescimento delle dimensioni del precipitato, si
inclina il becker contenente il miscuglio e sotto di esso si pone un vetrino d’orologio, come mostrato in figura.

Decantazione del precipitato. Il becker inclinato fa sì che il


precipitato si ammassi su uno spazio minore (lo spigolo del
becker), aumentando in tale modo maggiormente le dimensioni
dei cristalli di solido.

Mentre il precipitato decanta, si prepara la carta da filtro da inserire nell’imbuto. Il dischetto di carta da filtro si
piega lungo il diametro, accostando due lembi (vedi figure successive).

La carta da filtro si piega lungo il diametro


(figura di sinistra). Si avvicinano i due lembi
come mostrato nella figura di destra.

L’operazione si ripete, in modo da avere come risultato il piegamento in quattro del disco di carta da filtro. A
questo punto si apre uno dei lembi, in modo da ottenere un cono (vedi figure successive) che può essere
introdotto nell’imbuto.

Il risultato del ripiegamento del disco in quattro è


visualizzabile nella figura di sinistra. Aprendo
uno dei lembi si ottiene un cono come quello di
destra.
Esercitazioni di laboratorio a cura dei Proff. Raffaele Miranda e Francesco Della Gala

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Una volta preparato il filtro, si introduce nell’imbuto e, per farlo aderire alle pareti, si bagna con poca acqua.
L’imbuto con il filtro si mette nell’anello per filtrazione e si pone sotto l’imbuto un becker pulito e asciutto, che
serve a raccogliere il liquido (filtrato) che fuoriesce dall’imbuto stesso.
A questo punto può iniziare la filtrazione, che avviene versando sulla carta, presente nell’imbuto, il liquido del
miscuglio da filtrare, facendo attenzione a non smuovere il solido presente sul fondo.
Per evitare schizzi del liquido, è bene versarlo lungo una bacchettina di vetro tenuta perpendicolare al centro
della carta da filtro (Vedi figura sottostante).

Per evitare schizzi del liquido, lo si versa lentamente lungo


una bacchettina di vetro tenuta perpendicolare al centro del
filtro e quanto più in basso possibile. Attenzione a tenere,
poi, la bacchettina nel becker per evitare che l’eventuale
precipitato attaccato ad essa possa cadere fuori. Alla fine
la bacchettina va sciacquata all’interno dell’imbuto.

Non riempire mai il filtro oltre la metà della sua altezza, perché certi precipitati, per il fenomeno della
capillarità, tendono ad “arrampicarsi” lungo il filtro. Se il precipitato è molto in alto, può succedere che riesce
a varcare l’orlo della carta da filtro e finire nel becker sottostante.
Quando quasi tutto il liquido è stato versato nell’imbuto, si versa il restante insieme al solido, aiutandosi, se
serve, anche con una spruzzetta contenente acqua.
Versato completamente il solido sul filtro si aspetta che tutto il liquido, presente nel cono dell’imbuto, passi
nel becker sottostante. A questo punto si lava il precipitato sul filtro tre o quattro volte, con poca acqua per
volta.
La separazione è avvenuta, perché nell’imbuto vi è solo il solido (che può essere essiccato in stufa, per
togliere tutta l’acqua presente) e nel becker sotto l’imbuto, il liquido del miscuglio.
Esercitazioni di laboratorio a cura dei Proff. Raffaele Miranda e Francesco Della Gala

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Formazione di composti

Materiali occorrenti:
Magnesio - Calcio - Sodio - Zolfo - Zinco - Anidride fosforica - Ossido di calcio - Ossido di mercurio -
Idrossido di sodio sol. 0.1 M - Idrossido di bario soluzione 1 % - Acido solforico sol. 1:5 - Acido cloridrico sol.
1:3 e 0.1 M - Acido nitrico sol. 1:3 - Acido ortofosforico sol. 1:2 - Cartine all'indicatore universale -
Fenolftaleina sol. 1 % - Becker da 250 mL - Capsulina di porcellana - Crogiolo di porcellana – Beckers da 25
mL - Provette.

Cenni teorici:
I composti inorganici vengono preparati con delle reazioni, che possono essere classificate in base al
prodotto che esse formano, e in sintonia con la classificazione dei composti, come data dalla nomenclatura
chimica. In questa esperienza vengono fornite le reazioni per la formazione degli ossidi, degli idrossidi, delle
anidride, degli acidi e dei sali. L’esperienza vuole fornire un quadro, anche se minimo, delle possibilità di
formazione dei vari composti inorganici e, dalla loro combinazione, un quadro per la sintesi di alcuni
composti. Ad esempio, con la formazione di un ossido e di un acido, si pongono le basi per sintetizzare un
sale.

Formazione di ossido a partire dal metallo:


Porre del magnesio in lastrina o in polvere in una capsulina di porcellana e portare il tutto su una fiamma di
bunsen fino a che non si abbia la combustione del magnesio. La polvere bianca che si forma è l’ossido di
magnesio, ottenuto dalla reazione:

2Mg + O2 2MgO

Formazione di idrossido a partire dal metallo:


Porre in una provetta alcuni granuli di calcio ed aggiungere alcuni mL di acqua distillata. Si forma
l'idrossido di calcio e si sviluppa idrogeno, secondo la reazione:

Ca + 2H2O Ca(OH)2 + H2

L'idrossido è riconoscibile per aggiunta di alcune gocce di fenolftaleina, mentre l'idrogeno sviluppatosi può
essere convogliato, tappando la provetta con un tappo con tubo di sviluppo, e combusto, accendendolo con
un fiammifero, all’imboccatura del tubo di sviluppo.
La stessa esperienza può essere condotta con un pezzo molto piccolo di sodio posto in un becker da 250
mL riempito con acqua quasi del tutto. Si ricopre rapidamente il becker con una reticella. La reazione che
avviene è molto esotermica e può portare all'esplosione dell'idrogeno formatosi:

2Na + 2H2O 2NaOH + H2

Come prima, l'idrossido può essere riconosciuto per aggiunta di alcune gocce di fenolftaleina.

Formazione di idrossido a partire dall'ossido:


Si raccoglie l'ossido prodotto nella prima prova e lo si pone in una provetta con alcuni mL di acqua.
Lentamente, in quanto il composto è poco solubile, si forma l'idrossido di magnesio, secondo la reazione:

MgO + H2O Mg(OH)2

L'idrossido così formato è riconoscibile per aggiunta di alcune gocce di fenolftaleina, che vireranno al viola
per l'ambiente basico.
Porre una punta di spatola di ossido di calcio in un becker ed agitare fino alla formazione di una soluzione
lattiginosa. La reazione che avviene è la seguente:

CaO + 2H2O Ca(OH)2

L'idrossido è riconoscibile aggiungendo alcune gocce di fenolftaleina.


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Formazione dell'anidride:
Si bruciano alcuni grammi di zolfo in polvere posti in un crogiolo di porcellana. Il gas biancastro con odore
caratteristico pungente che si forma è I'anidride solforosa (biossido di zolfo), ottenuto secondo la
reazione:
S + O2 SO2

Formazione di acido a partire dall'anidride:


Si pone sopra lo sviluppo della SO2 nella prova precedente un vetro da orologio, nel cui incavo è attaccata
una cartina all'indicatore universale inumidita, si vedrà la stessa colorarsi in rosso, ad indicare la formazione
dell' acido solforoso, secondo la reazione:

SO2 + H2O H2SO3

In una provetta si pone una punta di spatola di anidride fosforica aggiungendo (sotto cappa) alcuni mL di
acqua. La reazione è esotermica ed è abbastanza violenta:

P2O5 + 3H2O 2H3PO4

L'acido ortofosforico formatosi è riconoscibile per mezzo di una cartina all'indicatore universale che,
ovviamente, fornirà un pH acido.

Formazione di Sali:
Si pone un po' di zinco in una provetta e ad esso si aggiungono 2 o 3 mL di acido cloridrico sol. 1:3. Si
sviluppa subito idrogeno mentre il cloruro di zinco passa in soluzione. La reazione che avviene, in questo
caso, è:

Zn + 2HCI ZnCI2 + H2

Si pone un pezzettino di nastro di magnesio in una provetta e si aggiungono 1 o 2 mL di acido


ortofosforico (H3PO4) sol. 1:2. Si sviluppa idrogeno e si osserva il contemporaneo formarsi dell' ortofosfato
di magnesio insolubile che da un precipitato bianco.

3Mg + 2H3PO4 Mg3(PO4)2 + 3H2

Si pongono alcuni granuli di calcio in una provetta facendoli reagire con 1 o 2 mL di acido solforico sol. 1:5
circa. Si ha sviluppo di idrogeno e formazione del solfato di calcio, sale poco solubile che da un precipitato
bianco.

Ca + H2SO4 CaSO4 + H2

In una provetta si pone una mezza spatolata di ossido di calcio (CaO) e ad esso si aggiungono 3 o 4 mL di
acido nitrico (HNO3) sol. 1:3. L' ossido di calcio si dissolve rapidamente formando il nitrato di calcio che
resta in una soluzione incolore.

2HNO3 + CaO Ca(NO3)2 + H2O

In una provetta si fanno reagire 1 mL di idrossido di bario (Ba(OH)2) sol. 1 % ed 1 mL di acido solforico
(H2SO4) sol. 1:5. Si forma immediatamente un precipitato bianco caseoso di solfato di bario, sale
pochissimo solubile.

Ba(OH)2 + H2SO4 BaSO4 + 2H2O

In una provetta si fanno reagire 1 mL di idrossido d’ammonio (NH4OH) sol. 0.1 M e 1 mL di acido
cloridrico (HCl) sol. 0.1 M. Al completamento della reazione si ha come prodotto il cloruro d’ammonio,
sale, ottenuto dalla reazione che segue, che si evidenzia per la formazione di fumi bianchi molto densi.

NH4OH + HCI NH4CI + H2O


Esercitazioni di laboratorio a cura dei Proff. Raffaele Miranda e Francesco Della Gala

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In un becker si versano circa 5 mL di idrossido di bario (Ba(OH)2) sol. 1 %, aggiungendo 30 o 40 mL di
acqua distillata. Con una pipetta si soffia molto lentamente nella soluzione, in modo da introdurre, con il
proprio alito, dell’anidride carbonica.
L'anidride carbonica (biossido di carbonio ) reagisce con I’idrossido formando il carbonato di bario, sale
insolubile che da origine, secondo la seguente reazione, ad un precipitato di colore bianco.

Ba(OH)2 + CO2 BaCO3 + H2O


Esercitazioni di laboratorio a cura dei Proff. Raffaele Miranda e Francesco Della Gala

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Esperienza sulla fusione e solidificazione della naftalina

occorrenti:
Materiali occorrenti:
Naftalina – Provettone – Termometro con scala da 0° C a 120° C – Treppiedi – Reticella d’amianto – Pinza
con relativo sostegno – Becker da 250 ml – Cronometro.

Cenni teorici:
teorici
La fusione e la solidificazione sono passaggi di stato che avvengono, il primo, per somministrazione di
calore e, il secondo, per sottrazione del calore. Durante i passaggi di stato considerati, poiché utilizzeremo
una sostanza, si osserverà una sosta termica.
termica. La durata della sosta termica dipende dalla velocità di
riscaldamento o di raffreddamento. Per questo è bene riscaldare lentamente, così come raffreddare. Nel
primo caso si deve abbassare molto la fiamma e far avvenire il riscaldamento a bagnomaria, n nel
el secondo si
fa avvenire il raffreddamento all’aria.

Esecuzione dell’esperienza:
dell’esperienza
Si sistema il materiale, come riportato nella figura. Nel becker si pone l’acqua per il
bagnomaria e nel provettone si mette tanta naftalina quanto ne basta per coprire il
bulbo del termometro. Si infila il termometro nella naftalina, facendo bene
attenzione a coprire interamente il bulbo e a non farlo toccare sul fondo o alle
pareti.. Si accende il becco bunsen, riscaldando l’acqua molto lentamente e quando
il termometro segnasegna circa 45° C (tempo
( 0),
), si incominciano ad annotare le
temperature, che verranno segnate ogni 30 secondi e riportate nella prima delle
tabelle che seguono. Arrivati a circa 100° C, si spegne il becco bunsen e si estrae il
provettone dall’acqua, lasciandolo
lasciandolo raffreddare all’aria. Dopo qualche minuto (tempo
(tempo
0 per la solidificazione)
solidificazione) si incominciano ad annotare le temperature che saranno
riportate ad intervallo di un minuto nella seconda tabella.

Fusione Solidificazione

I tempi riportati nelle tabelle, si sono fermati a valori che si notano (cioè 7 e 12 minuti), per mancanza di
spazio. Se vi è necessità (come è probabile), i rilievi cronometrici vanno proseguiti anche dopo i valori
riportati. I dati raccolti, dei tempi e delle temperature, saranno riportati in due grafici, uno per la fusione e uno
per la solidificazione,
solidificazione, riportando in ordinate le temperature e in ascisse i tempi.
te
Esercitazioni di laboratorio a cura dei Proff. Raffaele Miranda e Francesco Della Gala

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Idrolisi del saccarosio

Materiale occorrente:
Saccarosio – D (+) Glucosio – Acido cloridrico soluzione 0,2 M – Reattivo di Fehling (sol. A e B) – Argento
nitrato sol. 0,1 M – Idrossido di sodio sol 1 M – Ammonio idrossido sol. 2% – Provette

Cenni teorici:
Il saccarosio è uno zucchero disaccaride formato da un’unità di α-D-(+) glucosio (ossidrile assiale) che si
lega ad un’unità di β-D-(-) fruttosio, come riportato per il reagente della reazione successiva, nella quale il
legame α della molecola di saccarosio è riportata in rosso. Come tutti gli acetali, per idrolisi a caldo, il
saccarosio fornisce i due monosaccaridi che formano lo zucchero.

Saccarosio (destrogiro) D (+) Glucosio D (–) Fruttosio

L’idrolisi del saccarosio porta ad una miscela di due zuccheri che hanno potere rotatorio opposto: il fruttosio
con forte potere levogiro e il glucosio destrogiro. La miscela, nella sua totalità, si presenta con un potere
rotatorio levogiro. Il saccarosio è destrogiro, mentre la miscela è levogiro. Durante l’idrolisi si ha
un’inversione del potere rotatorio. Disponendo di un polarimetro, sarebbe possibile verificare questa
inversione. (per tale ragione la miscela, viene spesso indicata come zucchero invertito)
Il saccarosio non fornisce, come si sa, mutarotazione, per cui non esiste in forma lineare a catena aperta,
mentre, sia il glucosio che il fruttosio, esistono in forma ciclica in equilibrio con la forma lineare a catena
aperta, con la funzione aldeidica libera. Per questo, il glucosio, che esiste in forma lineare, fornisce reazioni
di riduzione dei reattivi di Tollens e Fehling, mentre il saccarosio non riduce questi reattivi, perché, essendo
in forma ciclica, avrà la funzione aldeidica del glucosio e quella chetonica del fruttosio bloccate dalla forma
emiacetalica.
Il reattivo di Tollens è una soluzione ammoniacale (cioè in idrossido d’ammonio) di idrossido d’argento
([Ag(NH3)2]OH), mentre il reattivo di Fehling è formato da due soluzioni, chiamate genericamente soluzione
A e soluzione B, formate, rispettivamente, da una soluzione di solfato rameico pentaidrato (CuSO4•5H2O) e
una soluzione di tartrato di sodio e potassio. Quando si mescolano le due soluzioni si forma un complesso
tra lo ione rame Cu++ e lo ione tartrato. E’ questo complesso a subire la reazione.
Con il reattivo di Tollens si ha l’ossidazione del gruppo aldeidico, con formazione di prodotti di degradazione
dello zucchero, e, parallelamente, si ha la riduzione dello ione Ag+ ad argento metallico, il quale si deposita
sulle pareti e sul fondo del recipiente, ricoprendolo completamente. Si ottiene l’effetto di una superficie di
metallo riflettente, chiamato comunemente specchio d’argento.
Con il reattivo di Fehling, insieme ai prodotti dell’ossidazione dello zucchero, si ha la riduzione dello ione
Cu++ a ione Cu+, che in ambiente acquosa da origine all’ossido rameoso (Cu2O) insolubile, che precipita
come solido rosso mattone.
L’avvenuta idrolisi del saccarosio, quindi, si può verificare attraverso le reazioni con i reattivi di Tollens e di
Fehling. Se è avvenuta l’idrolisi la soluzione, chiamata genericamente idrolizzato, dovrà fornire le reazioni.
Ogni prova verrà confrontata con un analogo test, utilizzando una soluzione di saccarosio e una di glucosio,
per dimostrare che il saccarosio non fornisce queste reazioni, mentre il glucosio si.

Idrolisi del saccarosio:


In un pallone di reazione da 100 mL, si disciolgono 4 g di saccarosio in 20 mL di HCl 0,2M e si pone la
soluzione a ricadere per 30 minuti.
Terminati i 30 minuti si lascia raffreddare la massa di reazione per 5 minuti avendo cura di sollevare il
pallone dalla piastra di riscaldamento. Nella soluzione, contenuta nel pallone di reazione, è avvenuta
l’idrolisi, per cui, in esso, ora sono presenti il glucosio e il fruttosio. Questo può essere messo in evidenza
con la reazione dei reattivi di Fehling e di Tollens.
Esercitazioni di laboratorio a cura dei Proff. Raffaele Miranda e Francesco Della Gala

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Riduzione del reattivo di Fehling:
In una provetta si introducono circa 5 mL di acqua distillata, nella quale si discioglie una spatolata di
saccarosio. In un’altra provetta si introducono sempre 5 mL di acqua e in essa si discioglie una spatolata di
D (+) glucosio. In una terza provetta si versa l’idrolizzato nella stessa quantità di quella dell’acqua delle
provette precedenti. Alle tre provette si aggiungono 3 mL di reattivo di Fehling completo (1,5 mL di soluzione
A + 1,5 mL di soluzione B). Le provette si riscaldano al bunsen. Le provette contenente la soluzione
proveniente dall’idrolisi e quella con il glucosio presenteranno un precipitato rosso mattone, mentre quella
contenente saccarosio non darà alcuna reazione.

Riduzione del reattivo di Tollens:


Il reattivo di Tollens si prepara al momento, versando in una provetta 2 mL di nitrato di argento sol. 0,1 M, e
1-2 gocce di idrossido di sodio sol. 1 M. Si ottiene un precipitato nero, che si ridiscioglie, aggiungendo
idrossido di ammonio sol. 2 %, goccia a goccia, fino a riavere la soluzione limpida.
In una provetta si versano 5 mL dell’idrolizzato e, successivamente, 5 o 6 gocce del reattivo di Tollens. In
una seconda provetta si versano 5 mL di acqua distillata e in essa si scioglie una spatola di saccarosio e si
versano poi 5 o 6 gocce del reattivo di Tollens. In una terza provetta si versano 5 mL di acqua e in essa si
discioglie una spatolata di D (+) glucosio e, successivamante, si versano 5 o 6 gocce del reattivo di Tollens.
Si portano le provette al bunsen, riscaldando lentamente. Dopo pochi secondi si nota sul fondo e sulle pareti
delle provette, contenenti l’idrolizzato e il glucosio, la comparsa dello specchio d’argento dovuto alla
riduzione di Ag+ ad argento elementare. Nella provetta contenente saccarosio non si nota alcuna reazione.

(E’ preferibile operare con guanti monouso al fine di evitare macchie di argento sulle mani.)
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Idrolisi della caseina

Materiali occorrenti:
Caseina – Pallone di reazione a 2 colli – Acido cloridrico 2 M – Piastra riscaldante – Refrigerante a bolle –
Ancoretta magnetica – Acetato di etile – Acetone – Acido acetico – Metanolo – Vaschetta per cromatografia
– Lastra in gel di silice – Capillari – Ninidrina soluz. 1%

Cenni teorici:
La caseina è una proteina e, come tale, per idrolisi acida si frammenta negli amminoacidi che la
compongono. L’idrolisi in ambiente fortemente acido, per acido cloridrico, spezza la molecola proteica
generando tutti i singoli amminoacidi, che compongono la proteine. La reazione avviene a caldo, alla
temperatura di ebollizione del solvente, nel quale è disciolta la proteina (reazione a ricadere).
I radicali dei vari amminoacidi sono formati da differenti gruppi funzionali che hanno differente polarità e
proprietà fisiche. Questo conferisce ai diversi amminoacidi differente affinità per la silice (differente potere
adsorbente). Quando gli amminoacidi adsorbiti sulla silice vengono eluiti, si ha una separazione, dovuta
proprio al differente potere adsorbente della silice verso i diversi amminoacidi. La posizione degli
amminoacidi, dopo l’eluizione, viene ottenuta per reazione con la ninidrina, che deve essere ottenuta in stufa
a 120°C per circa 30 minuti.

Idrolisi della caseina:


2 g di caseina vengono aggiunti a 100 mL di acqua e trasferiti in un pallone di reazione a 2 colli, insieme ad
un’ancoretta magnetica. Uno dei due colli, quello centrale, viene munito di un refrigerante. Nel collo laterale
si pone, invece, un imbuto separatore contenente 10 mL di acido cloridrico 2 M. Si colloca il tutto, su una
piastra riscaldante e si riscalda sotto agitazione, non molto energica. Quando il solvente comincia a ricadere
si apre il rubinetto dell’imbuto separatore e si versa, con lento gocciolamento, l’acido alla soluzione. Si lascia,
dopo l’aggiunta dell’acido, la massa di reazione a ricadere per 30 minuti. Dopo tale periodo si spegne il
riscaldamento, si toglie il pallone di reazione dalla piastra e si lascia raffreddare. Successivamente, la
miscela viene sottoposta a cromatografia, per la separazione degli amminoacidi.

Cromatografia:
Sulla lastrina di gel di silice, ad 1 cm dal bordo inferiore, si segnano 2 punti, uno per la miscela da separare,
proveniente dall’idrolisi della caseina, e l’altro per l’amminoacido di riferimento. Con un capillare si
depositano sulla lastrina, con piccole toccate per volta, la miscela da separare e, successivamente,
l’amminoacido di riferimento, asciugando ogni volta prima di una successiva toccata. Dopo aver asciugato
bene la lastra, agitandola o aiutandosi con un phon, la si deposita nella vaschetta, dove è stato versato
l’eluente (acetato di etile 60%, acetone 20%, acido acetico 10%, metanolo 10%). Quando il fronte
dell’eluente avrà raggiunto una distanza di circa 1 cm dal bordo superiore, si estrae la lastrina dalla
vaschetta e si spruzza con una soluzione di ninidrina. La lastrina si pone in stufa a circa 120°C per 30 minuti.
In corrispondenza delle zone raggiunte dagli amminoacidi si ottiene una colorazione. Osservare se la
colorazione è la stessa per tutti gli amminoacidi.

N. B. Quando si spruzza la soluzione di ninidrina utilizzare guanti monouso, evitando di sporcarli per non
venire a contatto con la sostanza quando si tolgono. Spruzzare velocemente e in piccola quantità cercando
di non respirare, per evitare l’inalazione della sostanza.
Esercitazioni di laboratorio a cura dei Proff. Raffaele Miranda e Francesco Della Gala

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Idrolisi salina

Materiali occorrenti:
Ammonio cloruro - Ammonio acetato - Sodio cloruro - Sodio acetato - Rame solfato - Sodio carbonato -
Potassio nitrato - Cartina al pH universale - Beckers da 50 mL.

Cenni teorici:
L’idrolisi salina è la reazione che avviene tra l’acqua e gli ioni di un sale disciolto in soluzione. Questa
reazione avviene quando il sale è formato da ioni che derivano da una base o da un acido deboli o da
entrambi deboli. L’idrolisi porta ad una variazione di pH della soluzione, perché per effetto della reazione in
soluzione si generano ioni H+ (idrogenione) o ioni OH (ossidrilioni), oppure entrambi, ma in quantità
differente. Un sale formato da ioni provenienti da acidi e basi forti non subisce idrolisi e il pH delle sue
soluzioni è 7.

Sale formato da ioni di acido forte e base forte:


In un becker da 50 mL si versano 25 mL di acqua distillata e in essa si disciolgono 230 mg di cloruro di
sodio (NaCl). Con una cartina al pH universale si misura il pH nel becker.
Nella soluzione sono presenti gli ioni sodio (Na+) e cloruro (CI) dovuti alla dissociazione del sale.
Gli ioni sodio e cloruro provengono, rispettivamente, da basi e acidi forti, per cui non vi è alcuna
reazione con l’acqua.
Il pH, in questo caso, è 7.

Sale formato da ioni di acido forte e base debole:


In due beckers da 50 mL si versano 25 mL di acqua distillata e nel primo si disciolgono 210 mg di cloruro
d’ammonio (NH4Cl), mentre nel secondo si disciolgono 640 mg di solfato rameico (CuSO4). Con una
cartina al pH universale si misura il pH nei due beckers.

Nella soluzione del primo becker sono presenti gli ioni ammonio (NH4+) e cloruro (CI) dovuti alla
dissociazione del sale.
Lo ione ammonio proviene da una base debole, per cui tra NH4+ e l’acqua si ha l'equilibrio:

NH4+ + H2O NH4OH + H+

Da questa reazione si producono ioni H+, per cui la loro concentrazione tenderà ad aumentare e di
conseguenza si avrà un pH <7.

Nel secondo becker, contenente solfato rameico (CuSO4), sono presenti gli ioni rame (Cu2+) e gli ioni
solfato (SO42).
Lo ione ammonio rame proviene da una base debole, per cui tra Cu2+ e l’acqua si ha l'equilibrio:

Cu2+ + 2H2O Cu(OH)2 + 2H+

Anche in questo caso, in soluzione, si ha un aumento di H+, per cui si avrà pH <7.

Nei due beckers si trova lo stesso valore di pH?


Se vi sono differenze, spiegare il perché.

Sale formato da ioni di acido debole e base forte:


In due differenti becker da 50 mL si versano, in ciascuno, 25 mL di acqua.
Nel primo becker si disciolgono 330 mg di acetato di sodio (CH3COONa) e nel secondo 424 mg di
carbonato di sodio (Na2CO3). Con una cartina al pH universale si misura il pH nei due beckers.
Esercitazioni di laboratorio a cura dei Proff. Raffaele Miranda e Francesco Della Gala

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Nel primo becker, contenente acetato di sodio, sono presenti gli ioni sodio (Na+) e gli ioni acetato
(CH3COO), provenienti dalla dissociazione del sale. Lo ione acetato proviene da un acido debole, per cui tra
CH3COO e l’acqua si ha l'equilibrio:

CH3COO+ H2O CH3COOH + OH

Questa reazione fa aumentare la concentrazione degli ioni OH, per cui si avrà un pH >7.

Nel secondo becker, contenente carbonato di sodio (Na2CO3), in soluzione sono presenti gli ioni sodio
(Na+) e gli ioni carbonato (CO32), dovuti alla dissociazione del sale.

Lo ione carbonato proviene da un acido debole, per cui tra CO32 e l’acqua si ha l'equilibrio:

CO32  + 2H2O H2CO3 + 2OH

Per effetto di questa reazione, in soluzione, aumenta la concentrazione degli ossidrilioni, per cui si ha, anche
in questo caso, un pH >7.

Nei due beckers si trova lo stesso valore di pH?


Se vi sono differenze, spiegare il perché.

Sale formato da ioni di acido debole e base debole:


In due differenti becker da 50 mL si versano, in ciascuno, 25 mL di acqua.
Nel primo becker si disciolgono 308 mg di acetato d’ammonio (CH3COONH4) e nel secondo 616 mg
sempre di acetato d’ammonio. Con una cartina al pH universale si misura il pH nei due beckers.
Nei due becker, contenenti acetato d’ammonio, sono presenti gli ioni ammonio (NH4+) e gli ioni acetato
(CH3COO), provenienti dalla dissociazione del sale. Lo ione acetato proviene da un acido debole, per cui tra
CH3COO e l’acqua si ha l'equilibrio:

CH3COO+ H2O CH3COOH + OH

Lo ione ammonio proviene da una base debole, per cui tra NH4+ e l’acqua si ha l'equilibrio:

NH4+ + H2O NH4OH + H+

In questo caso, in soluzione si ha, sia un aumento di idrogenioni che di ossidrilioni. Il pH, quindi, dipenderà
dall’aumento relativo dei due ioni, nel senso che se l’aumento di H+ è maggiore di quello di OH il pH
sarà minore di 7, sarà maggiore nel caso inverso.
Inoltre possiamo anche notare che il pH della soluzione non dipende dalla concentrazione del sale (nei
due beckers la cartina dovrebbe segnare lo stesso valore).
Esercitazioni di laboratorio a cura dei Proff. Raffaele Miranda e Francesco Della Gala

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L’albero chimico

Materiali occorrenti:
Ferrocianuro di potassio – Solfato di rame in cristalli – Acqua distillata – Contenitore in vetro.

Cenni teorici:
Il fenomeno della precipitazione, di un composto insolubile, è regolato da due parametri, la nucleazione e
l’accrescimento. Pochi nuclei iniziali, determinano che i punti su cui i cristalli si possono accrescere sono in
numero ridotto e, per questo, le dimensioni dei cristalli saranno grandi e la loro crescita avverrà, a partire dal
nucleo d’accrescimento, in tutte le direzioni.
Il solfato di rame (CuSO4) con il ferrocianuro di potassio (K4Fe(CN)6) forma ferrocianuro di rame
(Cu2Fe(CN)6), che è insolubile. Quando si forma un composto insolubile, si osserva la sua precipitazione,
con formazione dei cristalli sui punti di accrescimento, che sono i nuclei ottenuti durante la formazione del
composto insolubile. In questa esperienza, però, la reazione si fa avvenire sulla superficie di un cristallo di
solfato di rame. Avremo un solo nucleo, vale a dire un solo punto di accrescimento. Il ferrocianuro di rame,
che si forma, comincia ad accrescere i suoi cristalli, da quel punto in tutte le direzioni. Il risultato è una
struttura ramificata, che somiglia ad un albero, con il proprio tronco, il nucleo d’accrescimento, e i rami,
formati dall’accrescimento dei cristalli, nelle varie direzioni.

Esecuzione dell’esperienza:
In un becker, si immette una certa quantità di una soluzione all'1% di ferrocianuro di potassio, tale da
riempire circa a metà il contenitore. Al centro del fondo del becker, con una certa cautela, si pone un cristallo
di solfato di rame. Sul cristallo di solfato, in brevissimo tempo, si forma una patina bruna, dovuta alla
precipitazione del ferrocianuro di rame. Trascorso un poco di tempo, dal cristallo si alzerà sempre di più il
ferrocianuro di rame, il nostro tronco. Dopo altro tempo, cominceranno a formarsi delle ramificazioni, che,
con il passare del tempo, divengono sempre più numerose. Alla fine si otterrà un “albero”, che tenderà a
riempire tutto il contenitore.
Durante l’intera fase, ovviamente, il becker non deve essere mosso, per nessuna ragione, altrimenti
l’agitazione distruggerà tutta la struttura.
Esercitazioni di laboratorio a cura dei Proff. Raffaele Miranda e Francesco Della Gala

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La legge isobara dei gas (legge di Charles)

Materiali occorrenti:
Apparecchio per la legge di Charles – Glicerina – Becker da 800 mL – Termometro – Piastra riscaldante –
Vetreria.

Cenni teorici:
L’esperienza che segue serve a dimostrare l’enunciato di Jacques Charles, basato sui suoi esperimenti,
secondo il quale “riscaldando un gas, a pressione costante, si provoca un aumento del suo volume. Tale
aumento, per ogni °C, è di 1/273,16 del volume occupato dal gas a 0 °C“, che viene espresso dalla formula:

Vt=V0(1+α
αt)

ove Vo è il volume a 0°C, Vt il volume a t°C e α, chiamato coefficiente di dilatazione termica, è una
costante che vale 1/273,16.
La precedente equazione, può assumere una diversa forma. Infatti, sostituendo ad α il suo valore, e
effettuando l’operazione in parentesi, si ha

1 273,16 + t
Vt = V0 (1+ α t ) = V0 (1 + ——— t) = V0 (—————— )
273,16 273,16

Se si considera che 273,16 + t = T, e che a 0°C, la temperatura, indicata con T0, vale 273,16°K, si ottiene
l’espressione:

T VT V0
VT = V0 —— che può anche essere scritta come —— = ——
T0 T T0

esprimibile anche da:


V
—— = cost.
T

Quest’espressione afferma la proporzionalità diretta tra volume e temperatura di un gas, nel senso che un
aumento di temperatura del gas comporta un aumento del suo volume. Parimenti, se il gas si espande
aumenta la sua temperatura.

Esecuzione dell'esperienza:
Si pone l'apparecchio nel becker da 800 mL versando nello strumento acqua fredda, possibilmente con
alcuni cubetti di ghiaccio, controllando che il palloncino sia completamente immerso. Si lascia riposare per 1
o 2 minuti. Del palloncino deve essere noto il volume, espresso in mL. La pressione, per la struttura
dell'apparecchio, risulta costante in ogni fase.
Lasciando aperto il rubinetto centrale, utilizzando uno dei tubi laterali ed un imbutino, si versa
nell'apparecchio della glicerina, o altro liquido denso, fino a livello dello zero della scala in mL segnata sul
tubo centrale.
Si chiude il rubinetto, s’immerge il termometro, con il bulbo all'altezza del palloncino, e si registra la
temperatura.
Il valore rilevato deve essere riportato nella tabella della pagina successiva, come prima lettura, alla quale è
da attribuirsi, ovviamente, un incremento del volume pari a 0, per cui il volume del gas è dato dal solo valore
del volume del palloncino.
Si provvede, a questo punto, al riscaldamento della massa d'acqua e, di conseguenza, anche dell'aria
contenuta nel palloncino, agitando in modo da avere omogeneità in tutti i punti.
Ad intervalli regolari di temperatura, ad esempio ogni 5°C, si rilevano gli incrementi di volume sul tubo
centrale, riportando i valori ottenuti nella tabella.
Per ogni valore di temperatura l’incremento di volume deve essere sommato al volume del palloncino. Al fine
di limitare possibili errori sperimentali, conviene effettuare tra le 8 e le 10 letture.
Esercitazioni di laboratorio a cura dei Proff. Raffaele Miranda e Francesco Della Gala

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Terminata l’esperienza, si provvede alla messa in grafico dei dati riportati nella tabella.
I grafici da fare, sono quelli del rapporto V/T contro la temperatura e il grafico V contro t, riportando la
temperatura in ascissa, per entrambi i grafici.
Con l’ultimo grafico, è possibile, per estrapolazione, ricavare il valore dello zero assoluto (cioè il valore di -
273,16 °C), punto limite ove il volume, e non solo quello, teoricamente si annulla.

Tabella dei valori ottenuti sperimentalmente


Numero temperatura Incremento Volume pallone Vol. tot. gas Rapporto
lettura in °C vol. in mL in mL (col. 3 + col. 4) V/T
1
2
3
4
5
6
7
8

Esempio di grafico V – t nella legge isobara


Esercitazioni di laboratorio a cura dei Proff. Raffaele Miranda e Francesco Della Gala

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La legge isocora dei gas (legge di Gay-Lussac)

Materiali occorrenti:
Apparecchio per la legge di Gay-Lussac – Mercurio 500 g - Becker da 800 mL – Termometro – Piastra
riscaldante – Barometro.

Cenni teorici:
Joseph Gay-Lussac, dopo aver effettuato numerosi esperimenti, dichiarò che “riscaldando un qualunque
gas, a volume costante, si provoca un aumento della pressione. Per ogni grado centigrado di temperatura la
pressione aumenta di 1/273,16 della pressione che il gas esercitava a 0 °C”, che tradotto in formula
matematica vale:

Pt = P0 (1+ α t )

ove Po è la pressione a 0°C, Pt la pressione a t°C ed α, chiamato coefficiente di compressione termica, è


una costante che vale 1/273,16.
La precedente espressione può essere esplicitata, effettuando la somma in parentesi. Infatti:

1 273,16 + t
Pt = P0 (1+ α t ) = P0 (1 + ——— t) = P0 (—————— )
273,16 273,16

Se s’introduce la temperatura assoluta T, espressa in gradi Kelvin (°K), come T = 273,16 + t, e considerando
che a 0°C, la temperatura assoluta (che indicheremo con T0) vale 273,16, si giunge all’espressione:

T PT P0
PT = P0 —— che può anche essere scritta come —— = ——
T0 T T0

o che è lo stesso:
P
—— = cost.
T

Questa espressione conferma l’assunto di Charles, infatti un rapporto costante tra due grandezze, nel nostro
caso pressione e temperatura, indica che le due grandezze sono direttamente proporzionali, cioè l’aumento
di una provoca l’aumento dell’altra, come affermato dallo scienziato francese.

Esecuzione dell'esperienza:
Si rileva, preliminarmente, la pressione atmosferica, utilizzando il barometro, e se ne trascrive il valore nella
tabella riportata nella pagina seguente, considerandola costante per tutte le letture.
Si versa nel becker acqua fredda, possibilmente con alcuni cubetti di ghiaccio, fino a 3-4 cm dal bordo e si
immerge l'apparecchio, fissandolo con il sostegno a pinza e controllando che tutto il pallone in vetro risulti
immerso. Il volume dell'aria imprigionata nel pallone viene considerata costante in ogni fase.
Si pone l'apparecchio sull'elemento riscaldante ancora spento e si versa il mercurio, con l'aiuto di un
imbutino, nel ramo di destra del tubo ad U, fino a che il livello non raggiunga, perfettamente, lo zero della
scala.
A questo punto si chiude il ramo di sinistra con un tappino, s’immergono il termometro e l'agitatore attraverso
i due fori posti sulla base e s’iniziano a rilevare i valori della temperatura.
Il primo valore rilevato serve per la prima lettura, alla quale si assegna un dislivello = 0 e, quindi, una
pressione sull'aria contenuta nel palloncino, pari alla sola pressione atmosferica. Si trascrive il valore nella
tabella dei dati.
Si riscalda, a questo punto, la massa d'acqua e, di conseguenza, anche dell'aria contenuta nel palloncino,
agitando in modo da avere omogeneità in tutti i punti. A intervalli regolari di temperatura, ad esempio ogni
5°C, si rilevano i dislivelli esistenti tra i menischi dei due rami del tubo ad U, indicanti l'aumento della
pressione. Si riportano i valori misurati, nella tabella della pagina successiva. Al fine di limitare possibili errori
sperimentali, si effettuano dalle 8 alle 10 letture.
Esercitazioni di laboratorio a cura dei Proff. Raffaele Miranda e Francesco Della Gala

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Al termine della rilevazione, i dati, segnati nella tabella, saranno riportati in grafico. Si costruiscono i grafici
con i valori del rapporto P/T contro i valori della temperatura e con le pressioni (in mm di Hg) contro le
temperature (in °C).
In entrambi i casi si ottengono delle rette. Nel primo caso una retta parallela all’asse delle ascisse, a
dimostrazione che il rapporto tra le grandezze è costante, nel secondo caso una retta angolata sull’asse
delle ascisse (vedi figura) e che interseca l'asse delle ordinate.
Per estrapolazione dei valori messi in grafico, si può ottenere lo zero assoluto (-273,16 °C), punto limite ove
la pressione, e non solo quella, teoricamente si annulla.

Tabella dei valori ottenuti sperimentalmente


Numero temperatura Dislivello Pres. atmosferica Pressione aria Rapporto
lettura in °C in mm Hg in mm Hg (col. 3 + col. 4) P/T
1
2
3
4
5
6
7
8

Esempio di grafico P – T nella legge isocora


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La legge isoterma dei gas (legge di Boyle)

Materiali occorrenti:
Apparecchio per la legge di Boyle.

Cenni teorici:
Nel 1662 con i suoi esperimenti Robert Boyle determinò che “per tutti i gas, qualunque sia la sua quantità,
mantenendo costante la temperatura, il prodotto dei valori della pressione e del volume, risulta uguale a una
costante”.

P • V = cost.

In base a questa legge, ogni aumento della pressione provoca una diminuzione del volume, e viceversa.

Esecuzione dell'esperienza:
Si dispone sul banco l'apparecchio e si apre la valvola disposta dietro il manometro. Con la manopola,
applicata allo stantuffo della siringa, si azzera l’apparecchio, portando l’inizio dello stantuffo sullo 0 della
scala presente sulla siringa.
Si chiude la valvola, aperta in precedenza. Si porta, a questo punto lo stantuffo sul valore di 10 mL. Il volume
d'aria presente nella siringa, sarà quello della capacità dello strumento (ultimo valore sulla scala) meno i 10
mL che abbiamo tolto, spostando lo stantuffo.
Il valore calcolato per il volume, viene riportato nella tabella di lavoro, come prima lettura.
Contemporaneamente si legge il valore della pressione sul manometro dell’apparecchio. Il valore letto si
riporta nella tabella.
A questo punto si sposta lo stantuffo sul valore di 15 mL. Si calcola di nuovo il valore del volume d’aria nella
siringa e si rileva il valore della pressione.
I due valori, quello del volume e quello della pressione, si riportano nelle rispettive colonne, in
corrispondenza della prova n. 2, nella tabella sottostante.
Si continuano le prove, spostando lo stantuffo della siringa di 5 mL in 5mL e rilevando, ogni volta, il valore
della pressione riportato dal manometro.
Dopo ogni prova, si riportano, i valori della pressione letta sul manometro e del volume calcolato, nelle
rispettive colonne della tabella.
Le prove terminano quando il valore del volume d’aria arriva a 10 mL, oppure quando l’indice del manometro
arriva a fondo scala.
Al termine della verifica, si determina il valore del prodotto P•V, per ogni prova effettuata. In questo modo,
sarà possibile (nei limiti dell’errore sperimentale) verificare che i prodotti P•V hanno tutti lo stesso valore,
quindi il prodotto PV, come asserito da Boyle, è costante.
Riportando in grafico, i valori del prodotto P•V in ordinata e i valori di P in ascissa, si dovrebbe ottenere una
retta orizzontale, a conferma che il prodotto del valore della pressione per quello del volume è costante.
Riportando, invece il valore del volume sulle ascisse e quelli della pressione sulle ordinate, si ottiene un
ramo d’iperbole equilatera.
Un esempio di come si presentano i grafici descritti in precedenza è riportato nella pagina successiva.
(Il ramo d’iperbole è quello della seconda figura).

Numero della Volume d’aria Pressione Prodotto


prova nella siringa misurata P•V
1
2
3
4
5
6
7
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Esempio di grafico P•V (ordinate) contro la Pressione (ascisse)

Esempio di grafico Pressione (ordinate) contro il Volume (ascisse)


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L’isola infuocata

Materiali occorrenti:
Nitrato di potassio – Carbone di legna – Recipiente di vetro a pareti spesse

Cenni teorici:
La combustione è un fenomeno, che avviene con una reazione di ossido riduzione, ad opera dell’ossigeno. Il
materiale che brucia è chiamato combustibile, l’ossigeno che fa avvenire la combustione, è detto
comburente. L’ossigeno necessario per una combustione, non deve essere preso per forza dall’aria.
Qualsiasi sostanza, che in una redox, libera ossigeno, può far avvenire una combustione. Questa esperienza
ha proprio questo scopo, dimostrare che un ossidante, come il nitrato di potassio (KNO3), può provocare la
combustione di un pezzetto di carbone.
Il nitrato di potassio, per reazione con il carbonio, del carbone che abbiamo surriscaldato, procura l’ossigeno
necessario alla combustione del carbone. Siccome la combustione è una reazione fortemente esotermica, si
avrà una temperatura tale da fondere il nitrato di potassio. è per tale motivo, che, dopo un poco che la
reazione è avvenuta, il nitrato di potassio diviene liquido.
Il nitrato di potassio liquido, ha una densità maggiore del carbone, e, pertanto, il pezzettino di carbone
infuocato, galleggerà sul liquido sottostante.

Esecuzione dell’esperienza:
In un recipiente di vetro a pareti spesse, si pone un sottile strato di nitrato di potassio.
Con una pinza, si porta alla fiamma, non molto alta, per evitare la combustione, un pezzettino di carbone,
fino a farlo diventare incandescente. Si pone, a questo punto, sullo strato di nitrato di potassio, il carbone
incandescente, adagiandolo con cura.
Il carbone comincerà a bruciare vivacemente, lanciando scintille tutto intorno.
Dopo poco tempo, il nitrato diviene liquido e il carbone, che continua a bruciare, galleggerà su di esso.
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Misura della conducibilità delle soluzioni

Materiali occorrenti:
Acqua distillata – Cloruro di sodio – Acetato di sodio – Becher da 250 ml – Carta da filtro – Spatoline –
Spruzzetta – Conduttimetro.

Cenni teorici:
L’acqua pura non conduce la corrente elettrica, ma le soluzioni acquose possono farlo. Dipende dal soluto
che in essa è disciolto. Alcune sostanze formano soluzioni capaci di condurre la corrente elettrica, e
vengono chiamate elettroliti, altre, invece, formano soluzioni che non sono capaci di condurre la corrente e,
per questo, sono chiamate non elettroliti. La quantità di corrente trasportata da una soluzione di un
elettrolita dipende della concentrazione dell’elettrolita e dalla sua natura.
Lo scopo dell’esercitazione è proprio quello di stabilire la dipendenza della quantità corrente trasportata, in
relazione alla concentrazione della soluzione e alla natura dell’elettrolita.
Per fare questo, ovviamente, si preparano soluzioni a concentrazione differente di due diversi elettroliti, che
sono il cloruro di sodio e l’acetato di sodio. Di queste soluzioni, di concentrazione analoga, se ne preparano
un certo numero, e si confrontano i valori della conducibilità.

Esecuzione dell’esperienza:
Si dispongono due serie di cinque becker da 250 mL e in ognuno si versano 100 mL di acqua.
Nella prima serie di becker si sciolgono rispettivamente 0,6 g, 1,2 g, 1,7 g, 2,3 g e 2,9 g di NaCl. Nella
seconda serie, invece, si disciolgono 0,8 g, 1,6 g, 2,5 g, 3,3 g, e 4,1 g di acetato di sodio.
(Se si dispone di un numero limitato di becker, si possono preparare le soluzioni utilizzando lo stesso becker,
purché venga lavato e sciacquato accuratamente e asciugato con carta da filtro, prima di ogni utilizzo).
Si misura la conducibilità di ogni soluzione preparata, sciacquando ben bene l’elettrodo del conduttimetro
prima di una misura successiva.
I valori ottenuti, espressi in mS, vengono riportati nella tabella seguente, dopo aver calcolato la molarità di
ogni soluzione.

Molarità Valore della


Grammi
Soluzione della conducibilità
pesati
soluzione (in mS)
Soluzione 1 di NaCl 0,6
Soluzione 2 di NaCl 1,2
Soluzione 3 di NaCl 1,7
Soluzione 4 di NaCl 2,3
Soluzione 5 di NaCl 2,9
Soluzione 1 di CH3COONa 0,8
Soluzione 2 di CH3COONa 1,6
Soluzione 3 di CH3COONa 2,5
Soluzione 4 di CH3COONa 3,3
Soluzione 5 di CH3COONa 4,1
Soluzione ~2 M di NaCl
Soluzione ~2 M di CH3COONa

Successivamente, alle misure effettuate fino a questo punto, si preparano 100 mL di soluzioni di NaCl e
CH3COONa, che siano entrambe circa 2 M . Di queste due soluzioni si determinano le conducibilità e i valori
ottenuti, insieme alle molarità esatte, si aggiungono alla tabella precedente.
Le ultime due colonne della tabella precedente saranno poste in due grafici, uno per il cloruro di sodio e
l’altro per l’acetato di sodio, mettendo in ordinate la conducibilità e in ascisse la concentrazione.

Nella relazione finale, che segue l’esperienza, rispondere alle seguenti domande:

- Perché alcune soluzioni hanno una conducibilità maggiore di altre?

- Cosa si nota per le due soluzioni a concentrazione maggiore?


Esercitazioni di laboratorio a cura dei Proff. Raffaele Miranda e Francesco Della Gala

65
Misure di grandezze

Materiali occorrenti:
Bilancia analitica - Bilancia tecnica - Burette da 50 mL - Matracci - Cilindri graduati - Pipette - Propipetta -
Sferetta in acciaio - Acqua distillata.

Misure dirette e indirette:


Misurare una grandezza significa attribuire ad essa un valore numerico, in base all’unità di misura utilizzata.
Le misurazioni possono essere dirette, quando si determina, attraverso un opportuno strumento di misura,
direttamente il valore della grandezza, oppure indirette, se si misurano altre grandezze e, attraverso un
calcolo matematico, si risale al valore della grandezza. Nel primo caso, quindi, si ha una grandezza
misurata, nel secondo, invece, una grandezza calcolata.
Sono esempi di misure dirette, la lunghezza determinata con un metro o la massa determinata con una
bilancia. È esempio, di misura indiretta la determinazione della densità, ottenuta attraverso misure di massa
e volume e ricavata, poi, dalla formula d = m/V.

Portata, divisione e sensibilità


Uno strumento di misura, non può dare qualsiasi valore della grandezza che determina. Vi sarà un valore al
di sopra del quale, lo strumento non produce alcuna misura. Il valore massimo, determinabile con uno
strumento, rappresenta la portata dello strumento. Con le scale di misura, che riportano sottomultipli
dell’unità scelta, vi saranno delle tacche di riferimento, per i diversi sottomultipli. La divisione dello
strumento, indica proprio, ogni tacca a quale valore corrisponde. Così, ad esempio, una pipetta, che riporta
la scritta 10 mL e al disotto di questa 1:10, indica che quella pipetta ha una portata di 10 mL e che ogni tacca
rappresenta un decimo di mL. La sensibilità di uno strumento di misura, invece, indica il valore minimo che
produce una misura.

Gli strumenti di misura:


Gli strumenti che si utilizzano in un laboratorio di chimica possono essere strumenti tarati, con i quali si
determina un unico valore, o strumenti graduati, con i quali si determinano, in base alla scala (graduazione)
riportata dallo strumento, tutti i valori compresi tra il valore minimo della scala e quello massimo.

Strumenti tarati:
Sono, per lo più, strumenti in vetro per misure di capacità di liquidi. Riportano una o due tacche
rappresentanti i limiti di riempimento del liquido per avere, a una data temperatura, riportata sullo strumento,
il volume di liquido, pari a quella indicata dallo strumento. A causa della dilatazione del vetro questi
strumenti, come tutti gli altri dello stesso materiale, garantiscono precisione elevata solo alla temperatura
indicata. Gli strumenti tarati più utilizzati sono le pipette e i palloni tarati (matracci).

Strumenti graduati:
Sono strumenti, per lo più in vetro (sostituito, oggi, sempre più da materiale plastico), che riportano una scala
graduata suddivisa in sottomultipli dell'unità di misura. La scala permette letture intermedie. Si utilizzano per
misure di volumi di liquidi e sono pipette, cilindri o bicchieri (becker) graduati, che riportano, come unità di
misura il mL, e i suoi sottomultipli o multipli.
Anche il termometro, utilizzato per misurare la temperatura di un corpo, o le aste graduate ed i metri per le
misure di lunghezza sono strumenti graduati.

Fig. 1 Fig. 2 Fig. 3

Esempi di pipette graduate e tarate. Nella fig. 1 una pipetta graduata. Nella fig. 2 una pipetta tarata con due
tacche di riferimento. Nella fig. 3 una pipetta tarata con una sola tacca di riferimento.
Esercitazioni di laboratorio a cura dei Proff. Raffaele Miranda e Francesco Della Gala

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Quando si aspirano con le pipette dei liquidi volatili e pericolosi, per evitare l’ingestione di vapori, la pipetta
non può essere utilizzata aspirando a bocca il liquido. In questo caso si utilizzano pipetta a stantuffo, che
portano nella parte superiore un cilindro con uno stantuffo (del tutto simile ad una ssiringa iringa utilizzata per
iniettare medicinali). L’aspirazione avviene sollevando verso l’alto lo stantuffo. Ovviamente, per far scendere
il liquido, basta spingere verso il basso lo stantuffo.
Un altro strumento utilizzato per ovviare all’aspirazione a bocca è la palla d’aspirazione o propipetta.
propipetta. Una
tipica propipetta ha la forma riportata nella figura 4.

I Fig. 4

La pipetta si attacca all’imboccatura I.. Per far avvenire l’aspirazione,


l’aspirazione si preme la valvola A e,
contemporaneamente, la palla centrale. Senza rilasciare la palla centrale si toglie la pressione alla valvola A.
contemporaneamente,
La palla resterà, così, premuta. Si infila la punta della pipetta nel liquido da prelevare e si preme la valvola B..
Il liquido salirà nella pipetta. Per arrestare
arrestare la salita del liquido basta rilasciare la valvola B. Per avere, infine,
la fuoriuscita del liquido dalla pipetta, si preme la valvola C.

Misure di volumi:
volumi
II volume è una grandezza fisica,
fisica che indica lo spazio occupato da un corpo. La sua unità di misura, nel S.I.
è il metro cubo (m3), mentre nell’uso comune si utilizza il litro (L), ), che corrisponde ad 1 decimetro cubo (1 (1 L
= 1 dm3), ciò vale a dire che 1 L = 0,001 m3, o, che è lo stesso, 1 m3 = 1000 L. I sottomultipli del litro sono
dL, 1dL = 100 cm3), il centilitro (cL, 1 cL = 10 cm3) e, soprattutto quello più utilizzato, il millilitro
decilitro (dL
(mL, 1 mL = 1 cm3).
Per oggetti solidi che hanno forma geometrica regolare, regolare, è possibile la misura indiretta del volume partendo
dalla misurazione dei parametri caratteristici della forma geometrica (es. lato, diametro, etc.).
Per oggetti solidi che hanno forma geometrica irregolare,
irregolare, è possibile una misura indiretta per immersione in
un liquido, contenuto in un cilindro graduato.
graduato. Il volume del solido si ottiene per differenza tra il volume che
si osserva dopo l’immersione nel liquido e quello prima dell’immersione. Ad esempio, se si vuole determinare
il volume di un sassolino di forma irregolare, si prende un cilindro graduato da 100 mL ((la la capacità del
cilindro
ilindro dipende dal volume presunto dell’oggetto)
dell’oggetto) e lo si riempie di acqua fino a circa la metà, annotando il
valore. Successivamente, e molto cautamente, si immerge con cura nell’acqua l'oggetto da misurare. Si
misura il nuovo valore del volume nel cilindro.
cilindro. Se, ad esempio, il volume iniziale era di 50 mL e il volume
dopo l’immersione è salito fino a 75 mL, il volume del sassolino sarà 75 mL – 50 mL = 25 mL.
Per i liquidi si utilizzano recipienti tarati (pipette e matracci) e graduati (cilindri,
cilindri, pipette, burette, etc.).

Misure di masse e pesi:


pesi
La massa rappresenta la quantità di materia di un corpo e la sua unità di misura nel S. I. è il kilogrammo
(kg).
). La massa si determina con la bilancia.
Il peso rappresenta la forza con la quale il corpo è attratto dalla terra e la sua unità di misura nel S. I. è il
Newton (N). ). Il peso viene determinato con il dinamometro.
dinamometro.
Le bilance che si utilizzano in un laboratorio, sono di due tipi: bilance tecniche e bilance analitiche,
analitiche, che
possono essere a uno o due piatti, manuali o automatiche e, oggi, anche elettroniche.
Le bilance tecniche presentano una grande portata (di solito più di 1000 g, cioè 1 Kg), ma sono poco
accurate (hanno, di solito, come divisione massima il centigrammo) e poco sensibili.
Le bilance analitiche, invece, hanno una portata limitata (non superiore ai 200 g), ma sono molto più
accurate (divisione fino al decimilligrammo) e molto più sensibili.
Esercitazioni di laboratorio a cura dei Proff. Raffaele Miranda e Francesco Della Gala

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Attualmente nella pratica di laboratorio si utilizzano bilance analitiche elettroniche monopiatto con
divisione fino al centimilligrammo e sensibilità di 0,01 mg.

Esempio di bilancia analitica elettronica monopiatto automatica. Una volta accesa la bilancia, tramite una
serie di tasti, si può accedere ai menu, per personalizzare le pesate e per azzerare e controllare lo
strumento. La lettura avviene nel display, che fornisce automaticamente il valore della massa dell’oggetto
posto sul piatto. Alcune bilance possono essere collegate a una stampante, per ottenere la stampa della
pesata.

Gli errori:
Effettuando misurazioni di grandezze è teoricamente impossibile non commettere errori. Al massimo si può
rendere minimo questo errore utilizzando strumenti accurati, cioè che riportano una scala con una divisione
quanto maggiore possibile e utilizzandoli in modo corretto. Utilizzare uno strumento di misura in modo
corretto significa evitare imprecisioni nell’uso; imprecisioni che sono legate all’uso di quello specifico
strumento e ad alcune di carattere generale.
Le imprecisioni più comuni di carattere generale sono legate soprattutto a misure di volume con i liquidi.
I liquidi si possono classificare in due categorie, cioè liquidi a forte coesione e liquidi a forte adesione. I
liquidi a forte coesione sono liquidi che mostrano una forza tra le particelle che lo compongono molto
elevata, per cui le particelle si attirano molto le une con le altre e vincono le forze di adesione con le pareti
del recipiente. Quando si versa un liquido del genere, siccome le forze che tengono unite le particelle alle
pareti sono deboli, non rimangono gocce attaccate alle pareti. Liquidi come questi vengono definiti “liquidi
che non bagnano il vetro”.
I liquidi a forte adesione hanno comportamento opposto, cioè le forze che trattengono le particelle alle pareti
sono maggiori di quelle che esistono tra le particelle, per questo quando si versa un tale liquido rimangono
gocce attaccate alle pareti. Liquidi come questi vengono definiti “liquidi che bagnano il vetro”.
Quando si misurano volumi di liquidi, la misura avviene in spazi ristretti (colli di matracci, pipette, ecc.). In
queste condizioni la superficie del liquido non è più piana, ma presenta una curva (menisco) che può essere
rivolta verso il basso (menisco concavo) o verso l’alto (menisco convesso). I liquidi a forte coesione
mostrano un menisco convesso, mentre quelli a forte adesione mostrano un menisco concavo (vedi figure
successive).

Menisco Menisco
convesso concavo

E’ evidente che le letture nei due casi devono avvenire in modo differente.
Quando si misurano liquidi che non bagnano il vetro, il menisco deve toccare la tacca di riferimento con la
sua parte superiore (vedi figura 5), mentre nell’altro caso la tacca di riferimento deve essere toccata con la
parte inferiore del menisco (vedi figura 6).
Esercitazioni di laboratorio a cura dei Proff. Raffaele Miranda e Francesco Della Gala

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Menisco convesso. Il pelo libero del


liquido tocca la tacca di riferimento Menisco concavo. Il pelo libero del
con la sua parte superiore. liquido tocca la tacca di riferimento
con la sua parte inferiore.

Fig. 6
Fig. 5

Un’altra imprecisione frequente è quella di effettuare la lettura in posizione errata.


Quando si effettua la lettura si deve avere la tacca di riferimento all’altezza degli occhi. In questo modo la
tacca apparirà come singola linea e non come un cerchietto, che non permette una esatta lettura. Questo
errore, che si commette frequentemente in un laboratorio, è chiamato errore di parallasse (vedi figure
successive).

Misura effettuata in modo


Misura effettuata in modo errato.
corretto. L’occhio non è all’altezza
L’occhio è all’altezza della della tacca di riferimento e
tacca di riferimento e vede vede un cerchietto. In
un’unica linea. queste condizioni la misura
non può essere effettuata.

A questo punto non resta che esercitarsi nell’uso di questi strumenti di misura utilizzati nella pratica di
laboratorio, chiamati genericamente vetreria (bilancia esclusa), per la natura del materiale che li
componeva. Anche se il vetro, come detto, viene sostituito sempre più dalla plastica, il termine vetreria è
ancora oggi in uso.
Esercitazioni di laboratorio a cura dei Proff. Raffaele Miranda e Francesco Della Gala

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La pila Daniell (Pila zinco / rame)

Materiali occorrenti:
Lamine di rame e di zinco – Solfato rameico sol. 0,1 M – Solfato di zinco sol. 0,1 M – Soluzione concentrata
di cloruro di ammonio – Voltmetro – Tester – Cavi di collegamento – Tubo ad U.

Cenni teorici:
Le reazioni di ossidoriduzione, come sappiamo, avvengono con variazione del numero di ossidazione di
alcuni degli elementi che partecipano alla reazione. L’elemento che si ossida cede elettroni all’elemento
che si riduce. Nelle ossidoriduzioni, quindi, vi è un flusso di elettroni, che, se teniamo separate le due
semireazioni, può essere incanalato, attraverso conduttori elettrici, in un percorso esterno al sistema di
reazione. Si realizza, in tale modo, un flusso di corrente elettrica, generato dalle due semicelle, quella in cui
avviene l’ossidazione e quella in cui avviene la riduzione. Il sistema realizzato con le due semicelle prende il
nome di pila. Una pila è, dunque, un generatore di corrente basato su processi ossido-riduttivi.
La corrente erogata prende il nome di forza elettromotrice (abbreviata con f.e.m.) o potenziale elettrico.
Le due semireazioni, per essere realizzate, dovranno avvenire tra la forma ossidata e ridotta dello stesso
elemento, che esistono nella reazione complessiva. In altri termini devono esistere nello stesso sistema (la
semicella) sia la forma ossidata che ridotta dell’elemento che si considera.
Le due semicelle, per assicurare il passaggio degli elettroni da un sistema all’altro, devono essere collegati
elettricamente. Il contatto elettrico viene, solitamente, assicurato da un ponte salino costituito da un tubo ad
U contenente una soluzione concentrata di un sale (ad es. il cloruro d’ammonio, NH4CI), che, grazie agli
ioni presenti nella soluzione, permette di mantenere il contatto elettrico. Bisogna, però, evitare che la
soluzione del ponte salino vada nei sistemi in cui avvengono le due semireazioni.
La pila Daniel è molto semplice, essendo costituita da due semicelle formate da soluzioni di rame e
zinco a contatto con i rispettivi metalli.
Le due lamine metalliche sono collegate con fili elettrici, in modo che quando si chiude il circuito si possa
generare corrente elettrica.
La corrente passa dalla semicella, dove si ha l'ossidazione (anodo o polo negativo), alla semicella, dove si
ha la riduzione (catodo o polo positivo).
Per misurare la f.e.m. della pila, i conduttori, legati alle due lamine metalliche, si collegano ad un voltmetro,
oppure, per misurare l’intensità della corrente erogata, si possono collegare ad un amperometro.
Il flusso di cariche continua fino a che non si raggiunge l’equilibrio tra i due processi.

Preparazione della semicella a zinco (Zn / Zn2+):


Si pongono in un becker da 100 mL, ca. 80 mL di soluzione 0,1 M di solfato di zinco (ZnSO4). Nella
soluzione si immerge una lamina di zinco.

Preparazione della semicella a rame (Cu / Cu2+):


In un secondo becker, sempre da 100 mL, si pone una quantità identica alla precedente, di una soluzione
0,1 M di solfato di rame (CuSO4). Si immerge nella soluzione una lamina di rame.

Preparazione del ponte salino:


Si tappa una delle due estremità di un tubo ad U con un batuffolo di cotone idrofilo (ovatta) e si riempie
completamente, utilizzando l’altra estremità, con una soluzione concentrata di cloruro di ammonio (NH4Cl),
dopo di che, si tappa, sempre con cotone idrofilo, l’estremità utilizzata per riempire il tubo,
Attenzione ad essere certi di aver riempito completamente il tubo e che non vi siano bolle d’aria.

Costruzione della pila:


Si rovescia il ponte salino immergendolo nei due beckers che costituiscono le semicelle. Si attaccano due fili
elettrici, di diverso colore, alle lamine di rame e zinco. Si ottiene un sistema come quello riportato in figura:
Esercitazioni di laboratorio a cura dei Proff. Raffaele Miranda e Francesco Della Gala

70
Si collega la lamina di rame all'ingresso positivo del voltmetro e la lamina di zinco all'ingresso negativo.
Si legge il valore della f.e.m. della pila costruita (dovrebbe essere circa 1,1 Volt).
Quando si collegano le due lamine, permettendo il flusso di elettroni, nelle due semicelle avvengono le
seguenti reazioni:

Zn Zn2+ + 2e

Cu2+ + 2e Cu

La reazione complessiva, ottenuta sommando le due semireazioni, sarà:

Zn + Cu2+ Zn2+ + Cu

Lo zinco si ossida e, per questo, funziona da anodo (polo negativo), mentre il rame si riduce e, per questo,
funziona da catodo (polo positivo).
La lamina di zinco si consuma, mentre quella di rame aumenta il proprio volume.
Se si dispone di un amperometro, collegandolo al posto del voltmetro, è possibile misurare l'intensità della
corrente.
La pila Daniell, appena vista, si può anche schematizzare scrivendo:

(+) Cu / Cu2+ / / Zn2+ / Zn(―)

La schematizzazione avviene scrivendo prima il metallo del polo positivo, e poi lo ione che esiste in
soluzione, mentre per il polo negativo è l’inverso, prima lo ione e poi il metallo. Tra i due sistemi si pongono
due sbarrette, a indicare il contatto elettrico (ponte salino).
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Polarità delle molecole

Materiali occorrenti:
Benzene - Tetracloruro di carbonio - Alcool etilico - Acetone - Paraffina - Glucosio - Cloruro di sodio - Iodio -
Vetreria.

Cenni teorici:
Il legame covalente se s’instaura tra atomi differenti, che hanno, per questo, differente elettronegatività, è
un legame polare, perché sugli atomi interessati si creano poli elettrici, negativo sull’atomo più
elettronegativo e positivo su quello più elettronegativo. Se la molecolare è biatomica, ne consegue che essa
sarà una molecola polare, come nel caso dell’acido cloridrico che presenta un polo elettrico negativo sul
cloro e un polo positivo sull’idrogeno. Per molecole poliatomiche diviene importante, per stabilire la polarità
complessiva di tutta la molecola, anche la geometria, vale a dire la disposizione nello spazio degli atomi.
La molecola del benzene, infatti, è apolare, perché, pur essendo il legame C – H del tipo covalente polare,
la struttura regolare della molecola (un esagono regolare), fa sì che il baricentro delle cariche negative si
trovi al centro geometrico della struttura come il baricentro delle cariche positive, annullando l'effetto di
tali cariche (vedi fìg. 1).
La molecola d’acqua è, invece, polare perché tra gli atomi di idrogeno-ossigeno-idrogeno vi è un angolo
(angolo tetraedrico), che crea un addensamento di carica negativa da parte dell'atomo d’ossigeno e una
zona ad addensamento di carica positiva, dalla parte dei due atomi d’idrogeno (vedi fìg. 2).
Lo scopo dell’esercitazione è quello di classificare alcune molecole come polari o apolari attraverso alcune
loro proprietà, come il comportamento di queste molecole in un campo elettrico. Tenendo, poi, presente il
criterio (non sempre valido) che liquidi polari si disciolgono in liquidi polari e liquidi apolari si disciolgono in
liquidi apolari, l’esercitazione tenta una classificazione anche in base alla miscibilità di liquidi.
Innanzitutto, si confermano le osservazioni precedenti, cioè la polarità dell’acqua e l’apolarità del benzene,
considerando il comportamento di questi liquidi in un campo elettrico, prodotto semplicemente da cariche
elettrostatiche che si ottengono, sulla superficie di alcuni materiali plastici o resine naturali, quando questi
materiali vengono sottoposti a strofinio.
Partendo dalla classificazione del benzene e dell’acqua, comparando la loro miscibilità con altri liquidi, si
otterrà la polarità o apolarità dei liquidi testati. Infine si sottopongono a test anche alcuni solidi con lo stesso
criterio di solubilità (la solubilità dei solidi).

H δ+
δ−
C δ− O
δ+ δ+
H C δ −C H H H
δ−
δ+ δ+

Figura 2
H Cδ− δ −C H
δ+ δ+
C δ−

Hδ+
Figura 1

Polarità dei liquidi:


Si pone in una buretta del benzene e in una seconda buretta si pone dell'acqua distillata. Si montano
entrambe le burette su un apposito sostegno.
Si prende una bacchetta di ambra (o di plastica) e si strofina con uno straccio di lana per elettrizzarla,
caricandola negativamente. Si apre il rubinetto della buretta contenente l'acqua in modo da avere un sottile
rivolo e si avvicina al getto la bacchetta elettrizzata. Si nota una deflessione del getto molto evidente. Si
compie la stessa operazione con la buretta contente il benzene. In questo caso non si nota alcuna
deflessione. Secondo tali osservazioni si conferma che l'acqua è un liquido polare e il benzene, invece, è
apolare.
Esercitazioni di laboratorio a cura dei Proff. Raffaele Miranda e Francesco Della Gala

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Prove comparative di miscibilità:
Si eseguono prove comparative della miscibilità dei liquidi da testare traendone, in base alle osservazioni, le
dovute conclusioni.

Acqua con Benzene:


Si prelevano 2 mL circa di benzene versandoli in una provetta contenente alcuni mL d’acqua; si agita e si
osserva il comportamento dei due liquidi.

Acqua con Tetracloruro di carbonio:


Si opera come nel caso precedente, e, dopo l’agitazione, e si osserva il comportamento dei due liquidi.

Benzene con Tetracloruro di carbonio:


Si prelevano 2 mL di benzene ponendoli in una provetta contenente altrettanto tetracloruro di carbonio; si
agita e si osserva il comportamento dei due liquidi.

Acqua con Alcool etilico:


Si aggiungono 2 o 3 mL di alcool etilico ad una provetta contenente alcuni mL d’acqua; si agita e si
osserva il comportamento dei due liquidi.

Acqua con Acetone:


Si versano in una provetta contenente alcuni mL d’acqua un’eguale quantità di acetone; si agita e si
osserva il comportamento dei due liquidi.

Benzene con Acetone:


Si pongono in una provetta 2 mL di benzene e ad essi si aggiunge altrettanto acetone; si agita e si vede
cosa accade nella provetta.

Benzene con Alcool etilico:


Ad una provetta contenente 2 o 3 mL di alcool etilico si aggiungono 2 mL di benzene. Dopo aver agitato, si
osserva cosa si è ottenuto nella provetta.

(Nota operativa: nelle prove descritte il benzene può essere sostituito da altro solvente non-polare,
quale l’esano o la benzina).

Solubilità di solidi nei liquidi polari e non-polari:


Si preparano tre file da quattro provette contenenti, la prima fila 2 o 3 mL di benzene, la seconda fila
un’eguale quantità di acqua e la terza di alcool etilico.

Solubilità nel benzene:


Si prendono le provette contenenti il benzene e in una di esse si aggiunge un pezzettino di paraffina, in una
seconda alcuni cristalli di glucosio, in una terza alcuni cristalli di iodio e, infine, in una quarta una punta di
spatola di cloruro di sodio.
Si osserva quale delle sostanze si solubilizza e quale no.

Solubilità in acqua:
Si ripete l’esperienza, con le sostanze indicate in precedenza, versandole nelle provette contenenti acqua.
Si osserva, anche in questo caso, quale delle sostanze si solubilizza e quale no.

Solubilità in alcool:
Si sottopone a test anche la fila di provette con l'alcool etilico, ripetendo quanto fatto con benzene e acqua.
Si osserva, anche in questo caso, quale delle sostanze si solubilizza e quale no.

Dopo le prove di miscibilità e di solubilità effettuate si riempiono le tabelle riassuntive riportate nella pagina
successiva.
Esercitazioni di laboratorio a cura dei Proff. Raffaele Miranda e Francesco Della Gala

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Tabella riassuntiva delle prove di miscibilità

Benzene Acqua
(apolare) (polare)

Acqua

Alcool etilico

Tetracloruro
di carbonio

Acetone

Tabella riassuntiva delle prove di solubilità

Benzene Acqua Alcool etilico


(apolare) (polare)

Paraffina

Glucosio

Iodio

Cloruro di sodio
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74
Potere ossidante e riducente di alcuni metalli

Materiali occorrenti:
Lastrine di argento, di rame, di piombo e di zinco – Nitrati di argento, rame (ico), piombo, zinco – Acido
cloridrico sol. 37 % – Beckers da 100 mL.

Cenni teorici:
Come sappiamo, nelle reazioni redox, esistono elementi che si ossidano ed altri che si riducono. Ma la
tendenza ad ossidarsi non è la stessa per tutti gli elementi, così come non è la stessa la tendenza a
ridursi, nel senso che due elementi che si ossidano, non lo fanno con la stessa facilità. Vi saranno elementi
che si ossidano più facilmente, altri che lo fanno con più difficoltà. Per i primi basta un ossidante, anche non
molto energico per avere l’ossidazione, mentre per i secondi occorrono ossidanti più drastici e condizioni più
energiche. Identica è la situazione per la riduzione.
Con questa esperienza, vogliamo creare una scala che ci dia la facilità con la quale si ossidano alcuni
elementi (argento, rame, piombo e zinco) e la scala con la quale essi tendono a ridursi, quando sono in
forma ossidata. In altri termini verificheremo la tendenza ad ossidarsi dei metalli allo stato elementare
(Ag, Cu, Pb e Zn) e la tendenza a ridursi quando sono allo stato ionico (Ag+, Cu2+, Pb2+ e Zn2+).

Beckers con nitrato d'argento:


Versare in 4 becker da 100 mL, alcuni mL di una soluzione di nitrato d’argento (AgNO3). Nelle quattro
soluzioni si immergono le lamine dei 4 metalli (una per ogni becker). Si nota che nel becker in cui abbiamo
immerso la lamina d’argento (Ag) non si osserva alcuna reazione. Nel becker in cui vi è la lamina di rame
(Cu), si nota che la lamina si ricopre di una polvere nerastra, mentre lentamente si consuma. La soluzione,
nel contempo, diviene azzurrina.
Questo indica, che il rame si è ossidato a Cu2+, che compare in soluzione colorandola, mentre Ag+, che è
in soluzione, si è ridotto ad argento metallico, depositandosi sulla lamina di rame, secondo la reazione:

2Ag+ + Cu Cu2+ + 2Ag


ottenuta dalle due semireazione:

Cu Cu2+ + 2e semireazione di ossidazione


+
2Ag +2e 2Ag semireazione di riduzione

La lamina di piombo (Pb), immersa nel terzo becker si ricopre anch'essa di polvere nerastra, consumandosi
lentamente. Il piombo si è ossidato a Pb2+ mentre l’Ag+ si è ridotto ad argento secondo la reazione:

2Ag+ + Pb Pb2+ + 2Ag


ottenuta dalle due semireazione:

Pb Pb2+ + 2e semireazione di ossidazione


+
2Ag + 2e 2Ag semireazione di riduzione

Nel quarto becker, dove è immersa la lamina di zinco (Zn), si nota un comportamento identico ai casi
precedenti, cioè la lamina del metallo si ricopre di una polvere nera, mentre lentamente si consuma. Lo
zinco si è ossidato a Zn2+ mentre lo ione Ag+ si è ridotto ad argento elementare, secondo la reazione:

2Ag+ + Zn Zn2+ + 2Ag


ottenuta dalle due semireazione:

Zn Zn2+ + 2e semireazione di ossidazione


+
2Ag + 2e 2Ag semireazione di riduzione

In definitiva possiamo dire che lo ione argento ha reagito con il rame, con il piombo e con lo zinco, ma
non con se stesso.
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75
Beckers con nitrato di rame:
Versare in 4 becker da 100 mL alcuni mL di una soluzione di nitrato rameico (Cu(NO3)2). Nelle quattro
soluzioni si immergono le lamine dei 4 metalli (una per ogni becker). Si nota subito che le lamine di argento
e di rame non danno luogo ad alcuna reazione ossidoriduttiva.
La lamina di piombo, immersa nel terzo becker si ricopre di una polvere scura, mentre la soluzione che è
azzurra, lentamente si scolora. Il piombo sì è ossidato a Pb2+ mentre lo ione rame (Cu2+) si è ridotto a
rame metallico, secondo la reazione:

Cu2+ + Pb Pb2+ + Cu
ottenuta dalle due semireazione:

Pb Pb2+ + 2e semireazione di ossidazione


2+
Cu + 2e Cu semireazione di riduzione

Nel quarto becker la lamina di zinco si ricopre velocemente di polvere scura, mentre la soluzione si scolora.
Lo zinco si è ossidato a Zn2+ mentre lo ione rame (Cu2+) si è ridotto a rame metallico, secondo la
reazione:

Cu2+ + Zn Zn2+ + Cu
ottenuta dalle due semireazione:

Zn Zn2+ + 2e semireazione di ossidazione


Cu2+ + 2e Cu semireazione di riduzione

Per la soluzione di nitrato rameico, cioè per lo ione Cu2+, si ottiene che esso reagisce con il piombo e,
ancor più velocemente, con lo zinco. Non reagisce, però, con l’argento e con se stesso.

Beckers con nitrato di piombo:


Versare in 4 becker da 100 mL alcuni mL di una soluzione di nitrato di piombo (Pb(NO3)2). Nelle quattro
soluzioni si immergono le lamine dei 4 metalli (una per ogni becker). Si nota subito che le lamine di argento,
rame e piombo non subiscono alcun processo ossidoriduttivo.
La lamina di zinco, invece, si ricopre di una polvere nerastra, mentre lentamente si consuma: lo zinco si è
ossidato a Zn2+ mentre Pb2+ si è ridotto a piombo metallico, secondo la reazione:

Pb2+ + Zn Zn2+ + Pb

ottenuta dalle due semireazione:

Zn Zn2+ + 2e semireazione di ossidazione


2+
Pb + 2e Pb semireazione di riduzione

In definitiva possiamo dire che lo ione piombo (Pb2+) reagisce solamente con lo zinco, ma non con gli altri
metalli.

Beckers con nitrato di zinco:


Versare in 4 becker da 100 mL alcuni mL di una soluzione di nitrato di zinco (Zn(NO3)2). Nelle quattro
soluzioni si immergono le lamine dei 4 metalli (una per ogni becker). Si nota che nessuna delle lamine
subisce un processo ossidoriduttivo.

Le osservazioni fatte durante l’esperienza vengono riportate nella tabella della pagina seguente, dalla quale
si vede che lo zinco metallico, reagisce con tutti gli ioni, tranne che con se stesso, il piombo reagisce con
due ioni, il rame reagisce con uno solo e l’argento non reagisce con nessuno ione.
Esercitazioni di laboratorio a cura dei Proff. Raffaele Miranda e Francesco Della Gala

76
Lamine metalliche
Ag Cu Pb Zn
Il rame si Il piombo si Lo zinco si
+ Nessuna ossida e ossida e ossida e
Ag
reazione l’argento si l’argento si l’argento si
riduce riduce riduce
Ioni in soluzione

Il piombo si Lo zinco si
2+ Nessuna Nessuna ossida e il ossida e il
Cu
reazione reazione rame si rame si
riduce riduce
Lo zinco si
2+ Nessuna Nessuna Nessuna ossida e il
Pb
reazione reazione reazione piombo si
riduce
Nessuna Nessuna Nessuna Nessuna
Zn2+
reazione reazione reazione reazione

Lo ione argento, viceversa, reagisce con tutti i metalli (tranne che con se stesso), invece lo ione zinco non
reagisce con nessun metallo. L’argento allo stato metallico non reagisce con nessun ione, mentre lo zinco
reagisce con tutti gli ioni (tranne che con il proprio).
Tutto questo, ci porta a dire che lo zinco metallico ha la maggiore tendenza ad ossidarsi, mentre lo ione
argento ha la maggiore tendenza a ridursi.
Il piombo metallico reagisce con due ioni, mentre il rame metallico con uno solo (lo ione argento). Il piombo,
quindi, ha meno tendenza ad ossidarsi dello zinco, ma più del rame, il quale si ossiderà più facilmente
dell’argento.
Pertanto si può scrivere la seguente scala per la tendenza all’ossidazione:

Zn > Pb > Cu > Ag

Ovviamente la scala della tendenza degli ioni di questi elementi a ridursi, ha andamento opposto, cioè:

Ag+ > Cu2+ > Pb2+ > Zn2+


Esercitazioni di laboratorio a cura dei Proff. Raffaele Miranda e Francesco Della Gala

77
Precipitazione della caseina dal latte

Materiali occorrenti:
Latte scremato – Becker da 250 mL – Acido acetico al 10% – Alcool etilico – Imbuto – Carta da filtro –
Ancoretta magnetica – Piastra riscaldante

Cenni teorici:
La caseina è una proteina (proteina globulare) presente nel latte. E' caratterizzata dall'avere una parte
idrofobica e una parte idrofila polare carica; le regioni anioniche (con carica negativa) della zona polare sono
sensibili al Ca++ a cui si legano. Le caseine sono le proteine che precipitano quando il latte scremato viene
acidificato portando il pH a un valore di 4,6-4,7 a 20 °C. La precipitazione si può anche aver per trattamento
enzimatico (chimosina) o per centrifugazione ad alta velocità. La caseina contiene tutti gli amminoacidi
essenziali, risultando ricca in prolina, acido glutammico e glutammina, mentre è povera di glicina, acido
aspartico e asparagina. La caseina, in realtà è formata da una serie di proteine chiamate genericamente
caseine, che sono relativamente idrofobiche e che, nelle condizioni ioniche esistenti nel latte, si associano in
modo da presentarsi in forma colloidale a formare particelle, dette "micelle".
Le micelle sono costituite da una frazione proteica ed una componente minerale (calcio, fosfato).
La preparazione del formaggio è basata sulla precipitazione della caseina, ottenendo un solido detto caglio.
Il siero viene eliminato e il caglio, cotto, pressato e salato, diventerà poi, dopo adeguata stagionatura, un
formaggio. La caseina precipita dal latte quando il valore del pH è inferiore a 4,6. Per questo motivo,
l’esperienza viene condotta acidificando il latte con acido acetico, in modo da precipitare la caseina per
acidificazione. Il siero viene poi separato dalla caseina per filtrazione.

Esecuzione dell’esperienza.
In un becker da 250 mL, si pongono 100 mL di latte scremato e un’ancoretta magnetica. Si scalda, sotto
leggera agitazione, il latte a 40 °C mettendo il becker su una piastra riscaldante. A questa temperatura, si
aggiunge, goccia a goccia, dell’acido acetico al 10%, fino a che non si ottiene più precipitato (circa 8 mL). Si
toglie, a questo punto il becker dalla piastra, e si lascia raffreddare la miscela. Con un cartina al pH
universale (o con il pHmetro), si controlla il pH della soluzione. Dopo aver decantato il precipitato, si filtra e,
infine, si trasferisce la caseina su un filtro (sarebbe preferibile un buckner munito di filtro di carta e filtrare
sotto vuoto), aiutandosi nel trasferimento con piccole porzioni di acqua. Si lava la caseina sul filtro, con un
poco d’acqua, e si spreme con una spatola eliminando il siero. Si asciuga, a questo punto, la caseina con un
filtro di carta e si trasferisce in un becker, dove viene aggiunta una quantità di alcool etilico sufficiente a
coprire completamente il precipitato (circa 40 mL). Mediante l’aiuto di una spatola o di una bacchetta di
vetro, si divide finemente la caseina e, si aggiunge, un’ancoretta magnetica. Si porta il tutto su una piastra
agitante (senza riscaldare), lasciando sotto agitazione, per 10 minuti. Infine, si filtra e la caseina ottenuta si
asciuga, con della carta da filtro.
Esercitazioni di laboratorio a cura dei Proff. Raffaele Miranda e Francesco Della Gala

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Preparazione del sapone dall’olio d’oliva
(idrolisi alcalina di trigliceridi)

Materiali occorrenti:
Becker da 400mL – Piastra riscaldante e agitante – Pallone da 100mL – magnete – 2 Beute da 100mL –
Bacchetta di vetro – Cristallizzatore – Imbuto Büchner – Beuta da vuoto da 500mL – carta da filtro – Carta di
alluminio – Olio d’oliva – Idrossido di sodio – Alcool etilico – Cloruro di sodio

Cenni teorici:
La reazione di un trigliceride con una soluzione di idrossido di sodio (o di potassio) porta alla formazione di
un sale sodico (o potassico) dell’acido grasso presente nel trigliceride. Il sale di un acido grasso è un
sapone, che può essere, quindi, sodico o potassico.
I saponi sodici sono saponi duri, mentre quelli potassici sono molli.
La reazione d’idrolisi di un grasso può essere catalizzata sia da un ambiente acido che basico. Nel caso
d’idrolisi, in ambiente acido, si ottiene lo ione dell’acido grasso (R–COO), mentre con una catalisi basica, si
ottiene il sale, cioè il sapone. Nel primo caso, dopo la scissione del trigliceride, per ottenere il sapone
bisogna alcalinizzare. La reazione che avviene è:

CH2 – OCO–R CH2 – OH

CH – OCO–R + 3NaOH CH – OH + 3 R–COONa


sapone
CH2 – OCO–R CH2 – OH
Trigliceride Glicerina

Saponificazione:
Ad una soluzione di 20mL di acqua e 20mL di etanolo al 95%, posta in un pallone da 100mL munito di
magnete, si aggiungono lentamente 5g di NaOH.
Pesare 10g di olio d’oliva e versarlo nel pallone; attaccare un refrigerante e riscaldare a ricadere per circa
40-60min. Nel frattempo, preparare una soluzione di 50g di cloruro di sodio (NaCl) in 150mL di acqua, in un
becker da 400mL (riscaldare se necessario per sciogliere il sale). A questa soluzione aggiungere la miscela
calda dell’olio e raffreddare in un cristallizzatore con acqua e ghiaccio. Agitare con una bacchetta per
ottenere uno strato amalgamato di sapone in superficie.
Raccogliere il sapone precipitato per filtrazione su imbuto Büchner sotto vuoto e lavare per 2 volte, con
piccole quantità di acqua fredda (la soluzione da filtrare deve essere fredda, per evitare che la sostanza si
sciolga).
Asciugare il sapone sull’imbuto continuando a tenerlo sotto vuoto, raccogliere il sapone su un foglio di carta
d’alluminio formando un panetto.

La saponificazione, sempre a caldo, può essere condotta, anche, in un altro modo

In un becker da 250 mL, si versano 10 mL di olio di oliva e 5 mL di idrossido di sodio sol. 8 M. Si aggiungono
10 mL di acqua distillata. Si porta il becker su una reticella d’amianto posta su un bunsen, procedendo a un
lento e cauto riscaldamento. Si agita frequentemente, aggiungendo acqua se questa evapora, fino a che la
saponificazione non si è completata. Quando si osserva la comparsa di schiuma e la completa assenza di
gocce di olio, si aggiunge una spatolata di cloruro di sodio cristallino al fine di favorire l’aggregarsi del
sapone in micelle. Si lascia raffreddare e si recupera il sapone formatosi, trasportandolo su un foglio di carta
d’alluminio, formando un panetto.
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Preparazione e controllo di una soluzione di AgNO3 0,0100 M

Materiali occorrenti:
Nitrato d’argento – Cloruro di sodio – Cromato di potassio – Matraccio da 500 mL – Becker da 250 mL –
Spruzzetta con acqua distillata – Agitatore in vetro (bacchettina) – Imbuto a gambo lungo – Pipetta Pasteur –
Vetrino d’orologio – Buretta da 50 mL.

Cenni teorici:
La soluzione di nitrato d‘argento viene utilizzata per la titolazione degli alogenuri, in particolare dei cloruri,
soprattutto presenti in un’acqua. La titolazione con nitrato d’argento si basa sulla reazione di precipitazione
che avviene tra lo ione cloruro (Cl) e lo ione argento (Ag+), che è la seguente:

Ag+ + Cl AgCl (1)

Come indicatore viene utilizzato il cromato di potassio (K2CrO4), perché lo ione cromato (CrO42 ) con lo
ione argento da origine al cromato d’argento (Ag2CrO4), anch’esso insolubile.

2Ag+ + CrO42  Ag2CrO4

Ma finché in soluzione vi è lo ione cloruro è il cloruro d’argento a precipitare. Quando tutto lo ione cloruro
è precipitato allora comincia a precipitare il cromato d’argento di colore rosso mattone. La formazione
di un precipitato rosso mattone, quindi, indica che tutto lo ione cloruro ha reagito.
Come sostanza madre per il controllo del titolo della soluzione di AgNO3, si utilizza il cloruro di sodio
essiccato in stufa per circa un’ora.
N. B. La soluzione di nitrato d’argento va conservata in recipiente scuro (lo ione argento è
fotosensibile).

Preparazione della soluzione di AgNO3:


Si pesano nel vetrino d’orologio 0,8 g di nitrato d’argento (AgNO3), o una quantità approssimativamente
uguale, cioè poco più o poco meno di quella indicata, e si trasporta, successivamente, in un becker da 250
mL, aggiungendo poca acqua distillata e agitando fino alla dissoluzione del solido. Se necessario si
aggiunge un altro poco di acqua distillata e si agita. Attenzione a non togliere la bacchettina dal becker.
(Nel caso che non si disponesse di un matraccio da 500 mL, ma di uno da 250 mL, per preparare la
soluzione si devono pesare 0,4 g di nitrato d’argento o una quantità approssimativamente uguale.)
Successivamente si trasporta, la soluzione ottenuta, con l’imbuto a gambo lungo, nel matraccio da 500 mL,
prestando attenzione a lavare con poca acqua per volta il becker, l’agitatore e l’imbuto. Infine si porta a
volume il matraccio utilizzando la spruzzetta e la pipetta Pasteur, per aggiunte goccia a goccia.

Controllo del titolo della soluzione di AgNO3:


In un vetrino d’orologio si pesa una quantità di cloruro di sodio (NaCl) compresa tra 0,015 g e 0,018 g
(valore da determinare con molta precisione) e si trasporta in un becker lavando accuratamente e con poca
acqua per volta il vetrino dopo il trasporto.
Si agita il contenuto del becker con una bacchettina, senza toglierla dal becker, fino a completa dissoluzione
della sostanza e successivamente si aggiunge acqua fino a circa 100 mL.
Alla soluzione così ottenuta si aggiungono 2 mL di una soluzione di cromato di potassio (K2CrO4) 0,25 M.
Si carica una buretta da 50 mL con la soluzione da controllare e con questa si titola la soluzione, nella
quale è stato versato il cromato di potassio (K2CrO4), fino alla comparsa di una colorazione rossa
(viraggio da giallo ocra a rosso mattone).
Si annotano i mL di soluzione consumati per effettuare la titolazione.
Con i mL consumati si esegue, successivamente, il calcolo per il titolo reale della soluzione di
AgNO3, tenendo presente che in soluzione è avvenuta la reazione (1).
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Preparazione e controllo di una soluzione di EDTA

Materiali occorrenti:
Sale sodico dell’EDTA – Cloruro d’ammonio – Soluzione di ammoniaca conc. – Nero eriocromo T –
Mg-EDTA in polvere – Acido cloridrico 2 M – Beuta da 250 mL – Matraccio da 500 mL – Cilindro graduato da
500 mL – Imbuto – Becker da 250 mL – Buretta da 50 mL.

Cenni teorici:
La soluzione di EDTA viene utilizzata per determinare molti metalli, tra cui il calcio e il magnesio,
soprattutto presenti nell’acqua. L’EDTA è una molecola organica, abbastanza complessa, che con molti
metalli forma composti di coordinazione.

HOOC—CH2 CH2 — COONa

N — CH2 — CH2 — N • 2 H2O

NaOOC—CH2 CH2 — COOH

Sale bisodico dell’acido etilendiamminotetracetico biidrato (EDTA)

L’EDTA, con i gruppi carbossilici salificati e con i due azoti, forma composti di coordinazione, mediante
legame dativo, chiamati complessi. La reazione che, quindi, si sfrutta nella determinazione di questi metalli
è una reazione di complessazione, che viene utilizzata anche per il controllo del titolo di EDTA.
Perché la reazione sia univoca, cioè avvenga solo con il calcio e il magnesio e non con altri metalli, si deve
controllare il pH che deve essere pari a 10. È per tale motivo, che alla soluzione da titolare si aggiunge una
soluzione tampone che assicura la stabilità del pH.
Per il controllo dell’EDTA si utilizza come sostanza madre il carbonato di calcio (CaCO3), che viene
essiccato in stufa per circa un’ora tra i 150° e i 200°C. Prima, però, di procedere al controllo del titolo della
soluzione si devono preparare le soluzioni necessarie alla titolazione.

Preparazione della soluzione tampone (a pH 10):


Si prelevano in un cilindro graduato 285 ml di ammoniaca concentrata (sotto cappa) si aggiungono di 35 g
di cloruro di ammonio (NH4Cl). Si agita fino a dissoluzione del sale. La soluzione ottenuta si trasporta
quantitativamente in un matraccio da 500 mL e si porta a volume.

Preparazione della soluzione di Nero Eriocromo T (indicatore)


Si pesano esattamente 1,5 g di nero eriocromo T. Si trasportano in un becker da 250 mL e si disciolgono in
circa 100 mL di acqua (fare piccole aggiunte progressive). Si trasporta la soluzione ottenuta in un matraccio
da 500 mL e si porta a volume.

A questo punto si prepara la soluzione di EDTA e poi se ne controlla il titolo.

Preparazione della soluzione di EDTA:


Si pesano esattamente 1,86 g di sale sodico dell’EDTA (per avere una soluzione 0,0100 M). La quantità
pesata, si trasporta quantitativamente in un becker da 250 mL, e si scioglie in circa 100 mL di acqua (fare
piccole aggiunte progressive). Si porta quantitativamente la soluzione ottenuta in un matraccio di 500 mL.
Infine si porta a volume.

Controllo del titolo della soluzione di EDTA:


Si pesa una quantità di carbonato di calcio (CaCO3) compresa tra 0,025 e 0,030 g (quantità da
determinare con precisione) su un vetrino d’orologio e si trasporta, successivamente, aiutandosi con una
spruzzetta con acqua distillata e un imbuto, in una beuta da 250 mL. Si aggiunge goccia a goccia dell’acido
cloridrico (HCl) 2 M fino a completa dissoluzione del carbonato di calcio.
Esercitazioni di laboratorio a cura dei Proff. Raffaele Miranda e Francesco Della Gala

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Si riscalda la soluzione ottenuta, per alcuni minuti, per allontanare l’anidride carbonica (CO2) che si forma
nella reazione tra carbonato ed acido, perché la presenza di CO2 potrebbe falsare la prova.
Si porta, poi, a ca. 100 mL con acqua distillata. A questo punto si aggiungono 0,1 g del complesso Mg-
EDTA e 5 mL di soluzione tampone e alcune gocce di soluzione di indicatore.
Si carica la buretta con la soluzione di EDTA da controllare e si titola fino al viraggio azzurro
dell'indicatore.
Si annota il volume di soluzione di EDTA utilizzato per la titolazione e, con esso, si procede al calcolo
della concentrazione reale della soluzione.
La reazione che avviene, durante la titolazione del calcio presente in soluzione e l’EDTA, rappresentato con
EDTA–Na2, è:

EDTA─Na2 + Ca++ EDTA─Ca + 2Na+


Esercitazioni di laboratorio a cura dei Proff. Raffaele Miranda e Francesco Della Gala

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Preparazione e controllo di una soluzione di HCl 0,1 M

Materiali occorrenti:
Acido cloridrico sol. al 37% – Carbonato di sodio anidro – Matraccio da 500 mL – Becker da 250 mL –
Spruzzetta con acqua distillata – Agitatore in vetro (bacchettina) – Vetrino d’orologio – Pipetta da 5 mL con
aspiratore a palla (propipetta) – Imbuto a gambo lungo – Pipetta Pasteur

Cenni teorici:
Preparare una soluzione a titolo noto significa preparare una soluzione di cui si conosce la concentrazione.
La preparazione parte dal calcolo del soluto da utilizzare e avviene attraverso una metodica che tende a
rendere minimo l’errore nella preparazione in modo che alla fine la concentrazione sia effettivamente quella
voluta. I passaggi successivi nella preparazione risentono ognuno di un errore che, per quanto piccolo, alla
fine, sommati tra loro, portano ad avere una concentrazione che, quasi mai, è proprio quella voluta. L’errore
più comune che si commette è l’errore di parallasse nella portata a volume, oltre a quello sulle pesate o la
lettura degli strumenti per la determinazione dei volumi. Per questo una volta preparata la soluzione bisogna
controllare il suo titolo (la sua concentrazione). Per controllare il titolo di una soluzione si utilizza una
sostanza, chiamata sostanza madre, che abbia una massa molecolare non molto elevata, che non sia
igroscopica (non deve assorbire umidità) e deve essere solubile. Il primo requisito permette di poter utilizzare
piccoli volumi di soluzione, il secondo ci assicura che nel determinare la massa siamo certi di non aver
pesato anche umidità che non partecipa alla reazione e il terzo, infine, permette di poter sciogliere in
soluzione la sostanza madre. Ovviamente la sostanza madre deve reagire con la sostanza presente nella
soluzione da controllare.
Per la soluzione di acido cloridrico (HCl), oggetto della nostra esperienza, si utilizza come sostanza madre il
carbonato di sodio anidro (Na2CO3), essiccato in stufa per essere certi che non vi sia umidità.
Il controllo avviene tramite una titolazione, cioè una reazione controllata, nel senso che possiamo sapere
quando il soluto della soluzione ha reagito completamente con la sostanza madre. Ciò che ci avverte
dell’avvenuta reazione è una sostanza che, attraverso una variazione delle sue proprietà, ci indica il
momento della completezza. Questa sostanza è chiamata indicatore.
Nell’esperienza che proponiamo la reazione avviene tra una sostanza a carattere acido (l’acido cloridrico) e
una carattere basico (il carbonato di sodio), per questo la titolazione è detta acido-base e l’indicatore è
chiamato indicatore acido-base. Come indicatore useremo il metilarancio, il quale presenta un colore giallo
oro in ambiente basico e rosa in ambiente acido. Al punto di equivalenza, cioè quando tutta la base ha
reagito con l’acido, si ha il cambiamento di colore dell’indicatore. Il cambiamento di colore dell’indicatore
viene chiamato viraggio dell’indicatore.

Preparazione della soluzione:


Si preleva con la pipetta, a cui è attaccata la propipetta, il volume di soluzione di HCl al 37%, calcolato per
preparare la soluzione (o una quantità approssimativamente uguale, cioè poco più o poco meno di quella
calcolata). Si trasporta il volume prelevato in un becker contenente già dell’acqua distillata
(approssimativamente 30 mL). L’operazione va compiuta tassativamente sotto cappa, perché l’acido
cloridrico concentrato emana molti vapori. Si agita la soluzione con un agitatore in vetro (non toglierlo dal
becker) e, successivamente, si trasporta, con l’imbuto a gambo lungo, nel matraccio da 500 mL, prestando
attenzione a lavare, con poca acqua per volta, il becker, l’agitatore e l’imbuto. Infine si porta a volume il
matraccio utilizzando prima la spruzzetta e poi la pipetta Pasteur, per le aggiunte goccia a goccia.

Controllo del titolo:


In un vetrino d’orologio si pesa una quantità di carbonato di sodio anidro (Na2CO3) compresa tra 0,100 g e
0,160 g (valore da determinare con molta precisione) e si trasporta in un becker lavando accuratamente e
con poca acqua per volta il vetrino dopo il trasporto.
Si agita il contenuto del becker con un agitatore in vetro (bacchettina), senza toglierlo dal becker, fino a
completa dissoluzione della sostanza e successivamente si aggiunge acqua fino a circa 100 mL.
Alla soluzione così ottenuta si aggiungono una o due gocce di metilarancio (indicatore).
Si carica una buretta da 50 mL con la soluzione da controllare e con questa si titola la soluzione, nella
quale è stato versato il metilarancio, fino al viraggio dell’indicatore.
Si annotano i mL di soluzione consumati nella buretta per eseguire il calcolo della concentrazione
(concentrazione reale rispetto a quella presunta di 0,1M), tenendo presente che, in soluzione, è avvenuta la
seguente reazione:

2HCl + Na2CO3 2NaCl + CO2 + H2O


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Preparazione e controllo di una soluzione di KOH 0,1 M

Materiali occorrenti:
Idrossido di potassio - Matraccio da 500 mL - Becker da 250 mL - Spruzzetta con acqua distillata - Agitatore
in vetro (bacchettina) - Vetrino d’orologio - Imbuto a gambo lungo - Pipetta Pasteur

Cenni teorici:
Preparare una soluzione a titolo noto, come sappiamo, significa preparare una soluzione di cui si conosce la
concentrazione. In questo caso il soluto è un solido e, per questo, la preparazione parte dal calcolo del
soluto da utilizzare, cioè dei grammi da sciogliere. Determinata la quantità di soluto, si pesa e si trasporta
quantitativamente in becker e, successivamente, dopo averla disciolta in poca acqua, si trasporta
quantitativamente nel matraccio e si porta a volume. Anche per la soluzione di idrossido di potassio (KOH),
una volta preparata, bisogna controllare il suo titolo (la sua concentrazione). Per controllare il titolo della
soluzione di KOH, si utilizza, come sostanza madre, lo ftalato acido di potassio, oppure, in sostituzione, si
può utilizzare una soluzione di acido cloridrico (HCl), di sui si conosce esattamente il titolo.
Il controllo, in questa esperienza, verrà effettuato, utilizzando una soluzione, precedentemente controllata, e,
per questo, il controllo viene definito “controllo incrociato”. Ovviamente si deve sempre effettuare una
titolazione, fino al viraggio dell’indicatore.
La soluzione di idrossido di potassio che sarà preparata e controllata, in questa esperienza di laboratorio
verrà, successivamente, utilizzata per il controllo dell’acidità dell’olio di oliva in una successiva esperienza.

Preparazione della soluzione:


Si pesano in un vetrino d’orologio la quantità di idrossido di potassio calcolata per avere la concentrazione
desiderata. Si trasporta l’idrossido pesato in un becker e si lava più volte il vetrino d’orologio con poca
acqua. Si agita il miscuglio nel becker con un agitatore in vetro (non toglierlo dal becker) fino a dissoluzione
completa dell’idrossido. Se necessario si aggiunge altra acqua (poco per volta). Successivamente, si
trasporta, con l’imbuto a gambo lungo, nel matraccio da 500 mL, prestando attenzione a lavare, con poca
acqua per volta, il becker, l’agitatore e l’imbuto. Infine si porta a volume il matraccio, utilizzando, prima, la
spruzzetta e, poi, la pipetta Pasteur, per le aggiunte goccia a goccia.

Nota: Siccome il titolo dell’idrossido si determinerà con esattezza nel successivo controllo, in questa fase
non è necessario avere i grammi di idrossido con un gran numero di cifre. Per questo la pesata verrà
effettuata con la bilancia tecnica.

Controllo del titolo:


Si carica una buretta da 50 mL con la soluzione di HCl e si preleva un volume di acido compreso tra 20,0 e
25,0 mL (valore da determinare con molta precisione), versandolo in una beuta (o un becker) da 250 mL.
Alla soluzione si aggiunge acqua fino a circa 100 mL e due o tre gocce di metilarancio (indicatore).
Si carica un’altra buretta da 50 mL, con la soluzione di idrossido di potassio da controllare e, con questa, si
titola la soluzione di acido, in cui è presente l’indicatore, fino al viraggio del metilarancio.
Si annotano i mL di soluzione consumati nella buretta, per eseguire il calcolo per il titolo della soluzione,
tenendo presente la concentrazione reale dell’acido cloridrico. La reazione che avviene è

KOH + HCl KCl + H2O


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Le reazioni chimiche

Materiali occorrenti:
Nitrato d’argento – Cloruro di sodio – Cloruro ferrico – Solfato ferroso – Nitrato di piombo – Carbonato di
sodio – Ioduro di potassio – Dicromato di potassio – Acido cloridrico sol. 1:3 – Acido solforico sol. 1:5 –
Idrossido di sodio sol. 1 M e 8 M – Idrossido di ammonio sol. 25 % – Cartina al pH universale – Provette –
Tubicino da saggio – Becher da 250 mL – Tappo in gomma con tubicino.

Cenni teorici:
Una reazione è una trasformazione della materia (trasformazione chimica), nel senso che le sostanze che
formano la materia, siano esse elementi o composti, si trasformano per dare origine a nuove sostanze. Le
sostanze che subiscono la trasformazione sono chiamare reagenti quelle che si formano, invece, sono
chiamate prodotti.
Per capire se una trasformazione è chimica, oppure fisica, vi è un solo modo, l’analisi delle sostanze che
formano la materia prima e dopo la trasformazione. Solo in questo modo, si è certi che le sostanze che
formavano la materia sono differenti, da quelle che la formano dopo la trasformazione.
Vi sono però degli indizi, che possono, anche se non con assoluta certezza, dirci se la trasformazione è
fisica o chimica. Se, da una trasformazione si ottiene, da sostanze tutte solubili, una sostanza insolubile
(precipitato), oppure dalla trasformazione si sviluppa un gas, o anche le due cose assieme, così come se
scompare o si forma una colorazione, allora siamo quasi certi, che siamo in presenza di una trasformazione
chimica, cioè una reazione.

Esecuzione dell'esperienza:
Tutte le soluzioni dei sali, possono essere preparate al momento, sciogliendo una punta di spatola in 2 o 3
mL di acqua distillata, posta in una provetta. Si fanno reagire, alcuni mL delle soluzioni dei sali specificati
nelle reazioni, con i reagenti indicati e si osserva ciò che avviene.

Reazioni con formazione di precipitati:


In 5 differenti provette si immette dell’acqua distillata e si scioglie, nella prima, una punta di spatola di nitrato
d’argento (AgNO3), nella seconda, una punta di spatola di cloruro ferrico (FeCl3), nella terza, una punta di
spatola di solfato ferroso (FeSO4) e nella quarta e quinta una punta di spatola di nitrato di piombo
[Pb(NO3)2].
Nella prima provetta si versano alcune gocce di una soluzione di cloruro di sodio (NaCl). Si ottiene un
precipitato bianco di cloruro d’argento (AgCl) per effetto della reazione:

AgNO3 + NaCl AgCl + NaNO3 (precipitato bianco)

Nella seconda provetta si versano alcune gocce di una soluzione di idrossido d’ammonio (NH4OH). Si
ottiene un precipitato rosso mattone di idrossido ferrico [Fe(OH)3], formatosi dalla reazione:

FeCl3 + 3NH4OH Fe(OH)3 + 3NH4Cl (precipitato rosso mattone)

Nella terza provetta si versano alcune gocce di una soluzione di idrossido di sodio (NaOH). Si ottiene un
precipitato verde dovuto all’idrossido ferroso [Fe(OH)2], ottenuto dalla reazione:

FeSO4 + 2NaOH Fe(OH)2 + Na2SO4 (precipitato verde)

Nella quarta provetta si versano alcune gocce di una soluzione di ioduro di potassio (KI). si ottiene un
precipitato giallo di ioduro di piombo (PbI2), generato dalla reazione:

Pb(NO3)2 + 2KI PbI2 + 2KNO3 (precipitato giallo)

Infine nella quinta provetta si versano alcune gocce di una soluzione di dicromato di potassio (K2Cr2O7). Si
ottiene un precipitato giallo arancio dovuto al dicromato di piombo (PbCr2O7), formatosi dalla reazione:

Pb(NO3)2 + K2Cr2O7 PbCr2O7 + 2KNO3 (precipitato arancio)

(N. B. I composti sottolineati indicano che si tratta di un solido insolubile che precipita. Di solito per
evidenziare quest’ultima proprietà, si pone una freccia rivolta verso il basso, accanto al composto che
precipita.)
Esercitazioni di laboratorio a cura dei Proff. Raffaele Miranda e Francesco Della Gala

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Reazioni con sviluppo di gas:
In una provetta si pongono 16 mL di acido cloridrico, ottenuto con 4 mL di acido cloridrico al 37% e 12 mL
di acqua distillata, in essa si versano pochi mg di carbonato di sodio (Na2CO3). Si sviluppa un gas
(anidride carbonica), che prova l’avvenuta reazione:

Na2CO3 + 2HCI 2NaCI + CO2 (g) + H2O

In un becher da 250 mL si versano circa 150 mL di acqua distillata ed in essa si aggiunge con cautela un
pezzettino, molto piccolo, di sodio. Si nota subito la produzione, intorno al pezzettino di sodio, di
un’effervescenza, tanto rapida da mettere in rotazione il pezzettino che tende a prendere la forma di una
sferetta. Il gas che si sprigiona è l’idrogeno (H2), in accordo con la reazione:

2Na + 2H2O 2NaOH + H2 (g)

Alla fine della reazione (quando si è consumato tutto il sodio), a conferma della presenza in soluzione di
NaOH, si misura, con una cartina al pH universale, il valore della basicità, che dovrebbe essere superiore a
12.

(la reazione descritta avviene in modo abbastanza violento, tanto che se il sodio, nel suo movimento, urta le
pareti del recipiente può produrre scintille, che possono anche fuoriuscire dal recipiente. E’ per questo
motivo che la reazione si fa avvenire in becker che è più largo di una provetta.)

Reazioni con formazione di precipitato e sviluppo di gas:


In una provetta si versano pochi mL di una soluzione di acido solforico (H2SO4) ottenuti diluendo 1:5
dell’acido solforico fumante.
Nella provetta si aggiunge un pezzettino, molto piccolo, di calcio. Si nota subito un’effervescenza e la
formazione di un precipitato bianco, in accordo con la reazione:

Ca + H2SO4 CaSO4 + H2 (g) (precipitato bianco)

Per confermare la produzione di idrogeno, si tappa la provetta con un tappo munito di tubicino. L’idrogeno
che si sviluppa si brucia, all’imbocco del tubicino, infiammandolo con un fiammifero.

(Anche questa reazione va effettuata sotto cappa, tenendo il vetro abbassato.)

In un tubicino da saggio si introduce dell’ossido di mercurio (HgO) e si porta alla fiamma. Quando la
temperatura nel tubicino è abbastanza elevata, si nota la produzione di un gas (l’ossigeno) e la formazione
di mercurio sulle pareti.

2HgO 2Hg + O2 (g)

(Introdurre nel tubicino pochissimo ossido.)

Reazioni con scomparsa di un colore:


Una provetta si riempie quasi a meta con acqua distillata e in essa si sciolgono 2 o 3 granellini (non di più) di
permanganato di potassio (KMnO4). Una volta avuta la soluzione si aggiungono ad essa poche gocce di
acido solforico 1:5 e ca. 1 mL di acqua ossigenata (H2O2). Inizialmente si ha l’impressione che non accada
nulla, ma se si riscalda la provetta, semplicemente strofinandosela tra le mani, si nota una certa
effervescenza e la progressiva decolorazione della soluzione che da violetto intenso (sembra quasi vino)
ritorna incolore. L’effervescenza è dovuta alla formazione dell’ossigeno secondo la reazione:

2KMnO4 + 3H2SO4 + 5H2O2 2MnSO4 + K2SO4 + 5O2 (g) + 8H2O

La perdita di colore, invece, è dovuta alla trasformazione del permanganato di colore viola in solfato di
manganese (MnSO4) che è incolore.
Esercitazioni di laboratorio a cura dei Proff. Raffaele Miranda e Francesco Della Gala

86
Reazioni di complessazione

Materiali occorrenti:
Solfato rameico – Solfato d’alluminio – Nitrato d’argento sol. 0,1 M – Cloruro di sodio – Ammoniaca sol. 1:3 –
Idrossido di sodio sol 4 M – Becker da 50 mL – Provette.

Cenni teorici:
Per composti di coordinazione s’intendono molecole (o ioni) in cui ad un atomo centrale, detto coordinatore,
sono legati dei gruppi atomici detti ligandi, in numero superiore alla valenza (o al numero di ossidazione)
dell'atomo coordinatore. Tra l'atomo centrale e i gruppi ad esso legati, si stabiliscono legami di tipo dativo
detti legami di coordinazione.
I composti di coordinazione, per la complessità della molecola, vengono anche chiamati complessi.
I coordinatori sono acidi di Lewis perché accettori di coppie di elettroni. I più importanti sono i metalli di
transizione, ma anche elementi dei gruppi A (ad esempio Boro, Allumino e Piombo).
I ligandi sono donatori di coppie di elettroni e quindi sono basi di Lewis. Possono essere ioni o molecole che
possiedono una o più coppie libere di elettroni che possono donare (ad esempio H2O, NH3, CO, CI, OH,
CN).
L’esperienza che faremo, mette in evidenza la formazione di alcuni complessi e il nome, che si ricava per
essi.

Esecuzione dell'esperienza:
In una provetta si pongono alcuni mL di acqua distillata ed in essa si disciolgono pochi mg di solfato di
rame (CuSO4). La soluzione che si ottiene presenta un colore celeste pallido. Alla soluzione nella provetta,
si aggiungono alcuni mL di una soluzione di idrossido d’ammonio (NH4OH), ottenuta diluendo una
soluzione concentrata con acqua, in rapporto di 1:3 (5 mL di idrossido e 15 mL di acqua). La soluzione
acquista un intenso colore blu dovuto alla formazione del complesso cuprotetrammino [Cu(NH3)4]2+,
indicato spesso come complesso cuproammoniacale.
In soluzione è avvenuta la seguente reazione:

CuSO4 + 4NH4OH [Cu(NH3)4]2++ SO42 + 4H2O

In un’altra provetta si pone dell’acqua distillata ed in essa si disciolgono alcuni mg di cloruro di sodio
(NaCl). Alla soluzione ottenuta si aggiungono poche gocce di una soluzione di nitrato d’argento. Si ottiene un
precipitato bianco di cloruro d’argento (AgCl), per effetto della reazione:

NaCI + AgNO3 NaNO3 + AgCl

Nella provetta, si versano, poi, alcuni mL di una soluzione di idrossido d’ammonio (NH4OH) diluita 1:3
(come la precedente). Il precipitato di cloruro d’argento si ridiscioglie per la formazione del complesso, che è
lo ione diamminoargento [Ag(NH3)2]+, che sottrae ioni argento (Ag+) allo ione cloruro (Cl ), per cui il
cloruro d’argento ritorna in soluzione. La reazione di complessazione che avviene è:

AgCI + 2NH4OH [Ag(NH3)2]+ + Cl + 2H2O

In una terza provetta, infine, si pone dell’acqua distillata ed in essa si disciolgono pochi mg di solfato di
alluminio (Al2(SO4)3). Alla soluzione che si ottiene si aggiungono pochi mL di una soluzione di idrossido
d’ammonio (NH4OH), diluita 1:3. Si ottiene un precipitato bianco a fiocchi, di idrossido di alluminio
(AI(OH)3), per effetto della reazione:

Al2(SO4)3 + 6NH4OH 2AI(OH)3 + 3(NH4)2SO4

A questo punto nella soluzione si immettono alcuni mL di idrossido di sodio (NaOH) 4 M. Anche in questo
caso il precipitato si ridiscioglie per la formazione di un complesso che è lo ione tetraidrossialluminato
[AI(OH)4]. La reazione che porta alla formazione del complesso è:

AI(OH)3 + NaOH [AI(OH)4] + Na+


Esercitazioni di laboratorio a cura dei Proff. Raffaele Miranda e Francesco Della Gala

87
Le reazioni di ossidoriduzione

Materiali occorrenti:
Solfato ferroso – Solfato rameico sol. 0,1 M – Ioduro di potassio sol 0,1 M – Permanganato di potassio sol.
0,01 M – Bicromato di potassio – Rame in polvere (o in trucioli) – Acido nitrico sol. 65 % e 1:3 – Acido
cloridrico sol. 1:3 – Idrossido di sodio sol. 4 M – Acqua ossigenata sol. 20 o 30 % – Salda d'amido –
Fenolftaleina sol. 1 % – Provette.

Cenni teorici:
Le reazioni di ossidoriduzione, dette anche reazioni redox, avvengono con variazione del numero di
ossidazione di uno o più degli elementi che partecipano alla reazione. Un elemento aumenta il proprio
numero di ossidazione (elemento che si ossida) e un altro, o anche lo stesso, diminuisce il proprio
numero di ossidazione (elemento che si riduce). Quando è lo stesso elemento a ridursi ed ossidarsi la
reazione è detta di dismutazione. L’ossidazione avviene per perdita di elettroni, mentre la riduzione per
acquisto. Tra gli elementi che si ossidano e si riducono, quindi, vi è uno scambio di elettroni. L’elemento
che si ossida cede elettroni all’elemento che si riduce.
Una reazione redox, quando condotta in soluzione, viene scritta sempre in forma ionica, perché sono gli
ioni ad esistere in soluzione e sono loro a subire la reazione. Di solito, si scrivono le reazioni, quella di
riduzione e quella di ossidazione, separatamente, indicandole come semireazioni. Questo modo di scrivere
le reazioni non è un artificio ma riflette il fatto che le due semireazioni si possono condurre in due recipienti
separati, che vengono collegati elettricamente, con dei conduttori (cavi), per permettere il passaggio degli
elettroni. Le esperienze che seguono voglio fornire alcuni esempi di reazioni di ossidoriduzione, in modo da
familiarizzare con esse e con il modo di scriverle.

Reazione tra l'acido nitrico diluito ed il rame:


Si tratta, in provetta e sotto cappa, una piccola quantità di rame (Cu) con alcuni mL di acido nitrico (HNO3 )
sol. 1:3. Dalla provetta si sprigiona un gas di colore rosso bruno dovuto al biossido di azoto (NO2). Nella
reazione tra rame e acido nitrico è il rame ad ossidarsi, passando a ione rame (Cu2+), mentre l’azoto
dell’acido nitrico si riduce divenendo monossido d’azoto (NO). La semireazione di ossidazione del rame è:

3Cu 3Cu2+ + 6e semireazione di ossidazione

mentre la semireazione di riduzione dell’azoto è:

2NO3 + 8H+ +6e 2NO + 4H2O semireazione di riduzione

La somma delle due reazioni, per ottenere quella complessiva, è:

2NO3 + 3Cu + 8H+ 3Cu2+ + 2NO + 4H2O reazione complessiva

Dalla reazione, come si vede, si ottiene monossido d’azoto (NO), il quale immediatamente, per reazione
con l’ossigeno dell’aria, da origine al biossido di azoto (NO2), secondo la reazione:

2NO + O2 2NO2

In soluzione rimane lo ione Cu2+ di colore azzurro.


Si noti che i coefficienti delle due semireazioni sono stati ottenuti per avere uno stesso numero di elettroni
ceduti (dal rame) e acquistati (dall’azoto). Solo in questo modo è possibile sommare le due semireazioni.
Altrimenti troveremmo elettroni liberi, che non possono esistere. Inoltre c’è da rilevare che la reazione
complessiva è bilanciata sia come massa che come carica. (la carica dell’elettrone non è stata indicata,
perché è sottinteso che è negativa. Da questo momento in poi scriveremo sempre prima la reazione di
ossidazione e, poi, quella di riduzione. Forniremo, poi, la reazione complessiva, data dalla loro somma).

Reazione tra l'acido nitrico concentrato ed il rame:


Si opera come nell'esperienza precedente, utilizzando, questa volta, acido nitrico (HNO3) sol. 65 %. Si
ottiene, in questo caso, la formazione diretta di biossido di azoto (NO2), come evidenziato dalle reazioni:
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Cu Cu2+ + 2e semireazione di ossidazione

2NO3 + 4H+ + 2e 2NO2 + 2H2O semireazione di riduzione

Cu + 2NO3 + 4H+ Cu2+ + 2NO2 + 2H2O reazione complessiva

Anche in questo caso in soluzione rimane lo ione Cu2+ di colore azzurro.

Ossidazione del Ferro II a Ferro III da parte dell'acido nitrico:


Si disciolgono in una provetta, in acqua distillata, alcuni mg di solfato ferroso (FeSO4). Si prelevano da
questa soluzione poche gocce e si trasportano in un’altra provetta. Nella prima provetta, si versano 1 o 2 mL
di acido nitrico (HNO3) sol. 1:2 e si riscalda con molta attenzione, sotto cappa. Avvenuta la reazione si
prelevano dalla soluzione poche gocce e si trasportano in una terza provetta.
Nella seconda provetta, a questo punto, è presente lo ione ferroso (Fe2+), mentre nella terza provetta vi
sarà lo ione ferrico (Fe3+) proveniente dalla reazione. Per verificare se l’ossidazione del ferro è avvenuta,
trattiamo le due provette con NaOH 4 M. Nella seconda provetta si ottiene un precipitato verde mela, mentre
nella terza un precipitato rosso mattone, a conferma di quanto sostenuto. La reazione che è avvenuta è:

3Fe2+ 3Fe3+ + 3e semireazione di ossidazione

NO3 + 4H+ + 3e NO +2H2O semireazione di riduzione

3Fe2++ NO3 + 4H+ 3Fe3+ + NO + 2H2O reazione complessiva

Riduzione del manganese VII a manganese II ad opera dell'acido cloridrico:


Si pongono 2 o 3 mL di una soluzione 0,01 M di permanganato di potassio (KMnO4) in una provetta e si
aggiunge 1 mL circa di acido cloridrico (HCI) sol. 1:2. Si agita con cautela per pochi secondi. La soluzione,
di colore viola, caratteristica del permanganato, scolorirà fino a divenire quasi incolore, indicando la
riduzione a ione manganese (Mn2+). La contemporanea ossidazione di CI a cloro gassoso (Cl2) può
essere evidenziata dall'odore caratteristico del gas. La reazione che avviene è:

10CI 5Cl2 + 10e semireazione di ossidazione

2MnO4 + 10e + 16H+ 2Mn2+ + 8H2O semireazione di riduzione

10CI + 2 MnO4 + 16H+ 5CI2 + 2Mn2+ + 8H2O reazione complessiva

Reazione tra il solfato rameico e lo ioduro di potassio:


Si pongono alcuni mL di una soluzione 0,1 M di solfato rameico (CuSO4) in una provetta e si trattano con
un’eguale quantità di una soluzione 0,1 M di ioduro di potassio (KI). Si nota subito il formarsi di un
precipitato bruno di ioduro rameoso (CuI) per riduzione del Cu2+ a Cu+ Lo iodio si ossida a iodio
metallico, la cui presenza può essere evidenziata aggiungendo alcune gocce di salda d'amido ed agitando
energicamente la provetta. Si avrà la tipica colorazione blu, del complesso tra la salda e lo iodio.

2I  l2 + 2e semireazione di ossidazione

2Cu2++2e 2Cu+ semireazione di riduzione

2 I  + 2Cu2+ l2 + 2Cu+ reazione complessiva


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Riduzione del cromo VI a cromo III ad opera dell'acido cloridrico:
Si pongono alcuni cristalli di bicromato di potassio (K2Cr2O7) in una provetta con 3 o 4 mL di acqua
distillata; si aggiunge 1 mL circa di acido cloridrico (HCI) sol. 1:3. Si agita con cura e dopo alcuni secondi si
osserva il cambiamento del colore della soluzione dall'arancio, colore dato dallo ione dicromato, al verde
chiaro, colore tipico dello ione Cr3+. Come prima, l’ossidazione di CI a cloro gassoso (Cl2) può essere
evidenziata dall'odore caratteristico del gas. La reazione che avviene è:

6CI 3CI2 + 6e semireazione di ossidazione

Cr2O72 +6e + 14H+ 2Cr3+ + 7H2O semireazione di riduzione

6CI + Cr2O72 + 14H+ 3CI2 + 2Cr3+ + 7H2O reazione complessiva


Esercitazioni di laboratorio a cura dei Proff. Raffaele Miranda e Francesco Della Gala

90
Saggi alla fiamma

Materiali occorrenti:
Sostanze contenenti Sodio, Litio, Potassio, Calcio, Bario, Stronzio e Rame – Acido cloridrico diluito (1:3) –
Vetrini d’orologio – Filo di platino – Becco bunsen

Cenni teorici:
Quando si fornisce energia ad un atomo, che sia da solo o legato ad altri atomi, questi assorbe energia
(processo di eccitamento) e, per tornare allo stato iniziale di energia, la restituisce quasi istantaneamente
(processo si diseccitamento). L’energia può essere fornita sotto qualsiasi forma (calore, elettricità,
magnetismo, ecc.) ma l’atomo la restituisce sempre e solo, sotto forma di luce. Per questo possiamo dire
che all’eccitamento di un atomo, si accompagna sempre un’emissione di luce. La lunghezza d’onda (e,
quindi, anche la frequenza) della luce emessa, dipende dalla quantità di energia assorbita, la quale, a
sua volta, dipende dalla struttura dell’atomo. Atomi diversi emetteranno luce di differente lunghezza
d’onda.
La fiamma è una fonte di calore e, quindi, di energia, per questo quando si portano delle sostanze, che sono
formate da atomi, alla fiamma si ha emissione di luce.

Esecuzione dell’esperienza:
Si prepara l’acido cloridrico diluito mescolando 4 mL di acido cloridrico al 37% con 12 mL di acqua. Si pone,
in ognuno dei vetrini, una delle sostanze da sottoporre a prova e nell’ottavo vetrino l’acido cloridrico diluito.
Si accende il becco bunsen, regolandolo sulla fiamma ossidante. Prima di effettuare la prova si pulisce il filo
di platino, immergendolo (solo la punta) prima nell’acido e, successivamente, portandolo alla fiamma, come
illustrato nella figura successiva.
Attenzione a non arrivare con l’asta di vetro nella fiamma. Si continua con l’immersione nell’acido e con
il passaggio nella fiamma, fino a quando essa non produce alcun colore, diverso dal proprio. Il filo di platino
deve essere posto alla sommità del cono interno della fiamma, di colore azzurro e di massima temperatura
(vedi figura successiva).

Il filo di platino nella fiamma deve essere introdotto, come visualizzabile


dalla figura, alla sommità del cono interno. In questa zona vi è la
temperatura più alta rispetto alle altre zone della fiamma. Il filo di
platino non deve essere introdotto molto nella fiamma, per evitare di
surriscaldare il vetro dell’asta, che rammollendosi può perdere il filo
metallico attaccato.

A questo punto si cambia l’acido cloridrico con altro acido pulito e si provano le varie sostanze presenti nei
vetrini (una per volta), toccando prima con la punta del filo di platino l’acido e, successivamente, la sostanza
da portare alla fiamma. Attenzione a non immergere troppo il filo nella sostanza.
Una volta toccata la sostanza si porta il filo di platino alla fiamma e si osserva il colore che viene prodotto.
Pulendo ogni volta il filo, prima di saggiare una nuova sostanza, e cambiando spesso l’acido con la
soluzione pulita, si può osservare la colorazione della fiamma prodotta da ognuna di esse. Dopo le sette
prove effettuate, si può completare la tabella di seguito riportata.

Elemento
sottoposto a Colorazione ottenuta
prova
Sodio
Litio
Bario
Potassio
Rame
Stronzio
Calcio

Rispondere alle seguenti domande:


1) Perché la fiamma si colora? 2) Perché non tutte le sostanze colorano la fiamma? 3) Perché si utilizza
acido cloridrico e non semplicemente acqua?
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Saggi alla perla

Materiali occorrenti:
Nitrato di cobalto – Biossido di manganese – Nitrato di nichel – Nitrato rameico – Nitrato ferrico – Ossido di
cromo – Borace in polvere – Vetrini d’orologio – Filo di platino – Becco bunsen

Cenni teorici:
Lo stato vetroso è dovuto ad alcuni composti di elementi come il silicio, ma anche come il boro. I composti di
questi elementi che danno origine, ad alte temperature, a una pasta vitrea sono dei minerali (ricavate da
rocce o sabbia). Nel caso del boro il composto che ha queste caratteristiche è il tetraborato di sodio
decaidrato (Na2B4O7•10H2O) chiamato anche borace. La molecola di borace possiede, come si vede, 10
molecole d’acqua, che ad alte temperature vengono liberate sotto forma di vapore. Il vapore che lascia la
massa tende a farla rigonfiare. Quando tutta l’acqua è stata ceduta dal borace, si ottiene una massa che
con l’aumentare della temperatura diviene trasparente e di consistenza vitrea, diminuendo il proprio volume.
Questa pasta vitrea, come tutte le altre paste vitree, con alcuni metalli da origine a vetri colorati, per cui
questo fenomeno può essere sfruttato per il riconoscimento di questi metalli.
Si prepara la massa vitrea, chiamata perlina per l’aspetto tondeggiante, e dal colore, che essa assume
quando sono state inglobate delle sostanze, si può risalire al metallo presente nella sostanza inglobata.
I metalli che colorano la perla, danno colori che possono differire a secondo della temperatura
raggiunta, per questo la prova verrà effettuata sia a fiamma ossidante (temperatura maggiore) che riducente
(temperatura minore).

Esecuzione dell’esperienza:
Si pone, ognuna delle sostanze da sottoporre a prova, cioè Nitrato di cobalto (Co(NO3)2), Biossido di
manganese (MnO2), Nitrato di nichel (Ni(NO3)2), Nitrato rameico (Cu(NO3)2), Nitrato ferrico (Fe(NO3)3) e
Ossido di cromo (Cr2O3), in un differente vetrino d’orologio. In un altro vetrino si mette del borace
(Na2B4O7•10H2O) in polvere. Si accende il becco bunsen e, prima di effettuare la prova, si piega il filo di
platino in punta fino ad avere un occhiello. Il becco bunsen viene regolato con fiamma ossidante (ricca di
ossigeno, fiamma azzurra). Si riscalda nella fiamma l’occhiello del filo di platino fino al calor rosso e,
successivamente, ancora caldo, si tocca il borace, il quale si attacca al filo rigonfiandosi. Si riporta il tutto
nella fiamma fino a che non si ottiene una massa vetrosa trasparente. Attenzione a non arrivare con l’asta
di vetro nella fiamma. A questo punto si tocca leggermente una delle sostanze indicate e si riporta il tutto
nella fiamma. Si riscalda fino a che la perlina nell’asola del filo di platino non torna trasparente. Si toglie dalla
fiamma il tutto e si osserva il colore che si ottiene a caldo. Si lascia raffreddare la massa e si osserva il
colore che si ottiene a freddo. La perla si stacca dal filo di platino quando è calda (quando è di colore
rosso) dando un colpo deciso, dall’alto in basso, alla mano che regge il filo. Ripetere le operazioni descritte
per ogni sostanza da testare. Infine, le operazioni descritte, debbono essere ripetute, regolando, questa
volta, il bunsen a fiamma riducente (povera di ossigeno, fiamma gialla). Rilevare il colore che si osserva,
anche questa volta, quando la perlina è calda e quando è fredda.
Riportare le osservazioni effettuate nello specchietto sottostante.

Sostanza Fiamma ossidante Fiamma riducente


a caldo a freddo a caldo a freddo
Nitrato di cobalto
Biossido di manganese
Nitrato di nichel
Nitrato rameico
Nitrato ferrico
Ossido di cromo
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92
La scrittura invisibile

Materiali occorrenti:
Solfocianuro d’ammonio – Ferrocianuro di potassio – Salicilato di sodio – Acido tannico – Cloruro ferrico –
Beckers – Pennelli – Spruzzatore – Foglio da disegno su cui scrivere.

Cenni teorici:
L’esperienza vuole dimostrare che tra le sostanze avvengono delle trasformazione (reazione), con
formazione di nuove sostanze diverse da quelle di prima, sia per composizione chimica, sia per proprietà
fisiche, quale, ad esempio, il colore. Per questo le sostanze che adopereremo, tutte incolori, che metteremo
sul foglio, daranno origine, dopo la reazione, a sostanze colorate. Inoltre una stessa sostanza (il cloruro
ferrico) produce combinandosi, con sostanze diverse, dei composti che sono tra di loro differenti, come è
testimoniato dai differenti colori, che si producono sul foglio. Questa esperienza coglie, comunque solo un
aspetto delle reazioni, che è forse il più appariscente. Non tutte le reazioni, però, avvengono con
cambiamenti così evidenti.

Esecuzione dell’esperienza:
Si preparano 5 soluzioni (ca. 1 M) di solfucianuro d’ammonio, di ferrocianuro di potassio, di salicilato di
sodio, di acido tannico e di cloruro ferrico. Le prime quatto soluzioni si versano in quattro differenti
beckers da 250 mL. In ciascuno dei quattro becker si intinge un pennellino, che si fa sgocciolare
attentamente prima di scrivere con esso, sul foglio bianco, la (o le) frase che più si desiderata (escluso,
ovviamente, le parolacce), lungo una linea retta.
Questa operazione si ripete, su quattro linee differenti del foglio, per le quattro soluzioni.
Mentre il foglio con la scritta si asciuga (non eccessivamente), si riempie uno spruzzatore con la soluzione di
cloruro ferrico.
A questo punto si spruzza in modo uniforme il foglio con la scritta (non visibile).
Apparirà, in diversi colori, quanto è stato scritto sul foglio bianco.
Esercitazioni di laboratorio a cura dei Proff. Raffaele Miranda e Francesco Della Gala

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Sintesi del cloruro di ter-butile

Materiali occorrenti:
Alcool ter-butilico – Acido cloridrico conc. (32%) – Solfato di sodio – Imbuto separatore

Cenni teorici:
La sintesi del cloruro di ter-butile, partendo dall’alcool ter-butilico, è un classico esempio di reazione di
sostituzione nucleofila monomolecolare (SN1). La reazione è catalizzata da un acido, che in questo caso
funge anche da reagente. Infatti, l’acido cloridrico fornisce sia lo ione H+, che dà la catalisi, sia lo ione Cl¯ ,
che si attacca al carbocatione che si forma nello stadio lento.

CH3 CH3 CH3 CH3 CH3


C OH C OH2 C C Cl
CH3 H+ CH3 – H2O Cl¯ CH3
CH3 CH3 CH3 CH3

L’acido cloridrico viene utilizzato in eccesso, rispetto alla quantità stechiometrica, per rendere l’ambiente
fortemente acido, in modo da contrastare la reazione di eliminazione. Questo, perché il carbocatione
potrebbe espellere uno ione H+, formando il 2 metil propene:

CH3 CH3
CH3
C C CH2 + H+

CH3 CH3

Il cloruro scritto come prodotto, ha la stessa configurazione dell’alcool di partenza, ciò significa che il
prodotto ha mantenuto la configurazione (ritenzione). Insieme a questo prodotto si ha anche quello con la
configurazione opposta (inversione).

CH3

CH3
Cl C

CH3

In questo caso, poiché l’alcool di partenza non è otticamente attivo, le due configurazioni, per semplice
rotazione delle molecole, possono essere sovrapposte. Questo determina che le due configurazioni
rappresentano lo stesso composto. Non così per le molecole otticamente attive.

Sintesi:
Si prelevano circa 25,6 ml di alcool ter-butilico e si pongono in un imbuto separatore. A questi si aggiungono
70 ÷ 80 ml di HCl conc. (32%), che rappresentano un eccesso del 300% circa.
Dopo l'aggiunta dell'acido, si agita energicamente e si apre il rubinetto dell'imbuto, tenendolo tappato e
capovolto, per far fuoriuscire i gas che si sono formati. Si raddrizza l’imbuto e si lasciano stratificare le due
fasi. Quella organica, più leggera, e per questo sovrastante, è formata dal cloruro di ter-butile, mentre quella
acquosa, più pesante, e per questo sottostante, conterrà l’acido in eccesso e, ovviamente, l’acqua.
Si separano le due fasi, e quella organica viene trattata con Na2SO4, per eliminare l'eventuale acqua rimasta
e, successivamente, si filtra.
Esercitazioni di laboratorio a cura dei Proff. Raffaele Miranda e Francesco Della Gala

94
Sintesi dell’o-benzoilsolfonimmide
(saccarina)

Materiali occorrenti:
o-Toluensolfonammide – Permanganato di potassio – Idrossido di sodio – Solfito di sodio – Acido cloridrico
1:10 – Acido cloridrico al 37% – Pallone di reazione da 100 mL – Piastra riscaldante – Agitatore magnetico –
Refrigerante

Cenni teorici:
La saccarina è un dolcificante, utilizzato (o meglio era utilizzato) in sostituzione del saccarosio, in alcune
patologie.
La sintesi parte dall’ossidazione dell’o-toluensolfonammide, ad opera del permanganato di potassio. Dalla
reazione si ottiene l’ossidazione del gruppo metilico a gruppo carbossilico, che si presenta come ione
carbossilato, per l’ambiente basico, nel quale avviene la reazione.

NaOH
+ 2 KMnO4 + 2 MnO2 + 2 KOH + H2O

Il sale ottenuto, viene prima trattato con HCl diluito, per liberare l’acido carbossilico e, successivamente, ad
opera dell’acido cloridrico concentrato, si ha la chiusura ad anello con formazione dell’ammide ciclica, cioè
l’immide.

HCl dil. HCl conc.


+ H2O

Sintesi:
Si pesano 0,78 g di NaOH e si versano in un pallone di reazione di 100 mL, sciogliendoli in 35 mL di acqua.
Si aggiungono alla soluzione 2,24 g di o-toluensolfonammide e si scalda a 35-40°C, sotto forte agitazione e
a ricadere, fino a quando non si ottiene una soluzione limpida. Si pesano 3,2 g di permanganato e si
aggiungono, in piccole porzioni successive, per un tempo complessivo di circa 2 ore, e sempre sotto forte
agitazione, alla soluzione di o-toluensolfonammide. Il frazionamento delle aggiunte di KMnO4 evita che la
soluzione si riscaldi molto, perché la reazione è fortemente esotermica, per cui facendo passare del tempo
tra una aggiunta e quella successiva, la soluzione ha la possibilità di raffreddarsi in parte.
Si lascia riposare la massa di reazione per circa 24 ore.
Si ottiene, dalla reazione, un precipitato di MnO2, che viene filtrato.Il filtrato, si decolora aggiungendo un
poco di Na2SO3 solido. Si aggiungono due gocce di metilarancio e la soluzione si neutralizza, fino al viraggio
dell’indicatore, con HCl diluito, ottenuto diluendo l’acido al 37%, in rapporto di 1:10. A questo punto, il filtrato
neutralizzato, si tratta con HCl al 37%, fino a che non si nota più la precipitazione della saccarina. Si lascia
riposare la massa di reazione per circa 30', poi si filtra lavando il precipitato con poca H2O per volta.
La saccarina ottenuta viene purificata cristallizzandola in acqua.
Esercitazioni di laboratorio a cura dei Proff. Raffaele Miranda e Francesco Della Gala

95
Sintesi dell’acido benzoico

Materiali occorrenti:
Alcool benzilico – Permanganato di potassio – Acido cloridrico al 37% – Beuta da 400 mL – Agitatore – Stufa

Cenni teorici:
Gli alcoli, sia alifatici che aromatici, per ossidazione danno origine agli acidi carbossilici. Anche l’alcool
benzilico, che è un alcool aromatico, per ossidazione fornisce un acido, che è, appunto, l’acido benzoico.
La sintesi, nella nostra esperienza, viene condotta per ossidazione con un forte ossidante, che è il
permanganato di potassio (KMnO4). Dall’ossidazione, condotta in ambiente neutro, si ottiene il benzoato
di potassio e il biossido di manganese, che è insolubile. Una volta separata la soluzione dal biossido, si
può ottenere l’acido benzoico per acidificazione della soluzione, che contiene il benzoato.

H+
+ KMnO4

L’acido benzoico si presenta come una polvere bianca, che può essere cristallizzata in acqua, per purificarla.

Sintesi dell’acido benzoico:


Si pesano circa 15 grammi di KMnO4 e si trasportano in una beuta da 400 mL, sciogliendoli,
successivamente, in circa 250 mL di acqua. Alla soluzione ottenuta si addizionano lentamente 9 mL di
alcool benzilico, agitando di tanto in tanto. In breve tempo la soluzione risulterà color marrone, per la
formazione di biossido di manganese. Si decanta la soluzione, che apparirà giallognola, e si filtra, lavando il
precipitato più volte con H2O calda. L’acqua di lavaggio, va aggiunta al filtrato.
Sul filtro resterà il biossido di manganese, mentre nel filtrato sarà presente Il benzoato di potassio.
Si concentra la soluzione, per lento riscaldamento, a circa 1/3 del volume iniziale. Si raffredda e si filtra.
Si lascia riposare la soluzione per 24 ore.
Successivamente, si acidifica la soluzione con HCl concentrato al 37%, aggiungendolo goccia a goccia e a
temperatura ambiente (sotto cappa). L’acido benzoico precipita come solido bianco, che viene filtrato.
Per purificare il prodotto, l’acido viene cristallizzato in acqua (operazione che può essere ripetuta più volte,
per aumentare il grado di purezza della sostanza).
L’acido posto su un vetrino d’orologio (o un opportuno recipiente) viene essiccato in stufa, a 60 °C per 2 ore.
Esercitazioni di laboratorio a cura dei Proff. Raffaele Miranda e Francesco Della Gala

96
Sintesi dell'acido acetilsalicilico (Aspirina)

Materiali occorrenti:
Acido salicilico – Anidride acetica – Soluzione di acido fosforico al 85% – Cilindro graduato da 10 mL –
Beuta da 250 mL – Agitatore magnetico – Piastra riscaldante – Stufa

Cenni teorici:
L’acido acetilsalicilico, più noto come aspirina, trova grande applicazione in campo farmaceutico, come
antalgico (antidolorifico) e antipiretico (contro gli stati febbrili). Notevole anche l’applicazione in casi d’infarti
cardiaci, sia durante l’episodio, sia successivamente, come terapia di mantenimento.
La sintesi dell’aspirina è una reazione di formazione di un estere, ottenuta per reazione tra l’acido salicilico e
l’anidride acetica.

H+
+ +

La reazione non si fa avvenire con acido acetico, perché in questo caso si ha una reazione di equilibrio, che
avviene troppo lentamente e con scarse rese. La reazione con l’anidride, invece, come quella con il cloruro
dell’acido, è molto più veloce ed ha rese molto vicine al 100%.
L’acido fosforico funge, in questa reazione, da catalizzatore. La sintesi si fa avvenire a una temperatura di
circa 80°C e, questa, viene controllata riscaldando a bagnomaria. Le aggiunte dei due acidi vanno fatte con
cautela e utilizzando guanti in lattice, perché possono causare ustioni.

Sintesi dell’acido acetilsalicilico:


Si pesano circa 3,0 g di acido salicilico e si versano in una beuta da 250 mL. Si prelevano, con il cilindro
graduato, 6,0 mL di anidride acetica e si aggiungono alla beuta contenente l’acido salicilico.
Sotto agitazione, si aggiungono da 5 a 10 gocce di acido fosforico al 85%. La miscela ottenuta si riscalda a
bagnomaria, per circa 10 minuti, ad una temperatura tra i 70 e gli 80 °C.
Dopo tale periodo, si spegne il riscaldatore e, con molta cautela, si aggiungono 20 gocce di acqua distillata.
Successivamente si raffredda, la beuta con la massa di reazione, in ghiaccio. In queste condizioni si ha la
cristallizzazione dell’acido acetilsalicilico, che può essere aiutata sfregando, con una bacchettina di vetro, le
pareti del recipiente.
Si filtra il solido ottenuto, e si lava con 2-3 mL di acqua raffreddata in ghiaccio.
Il precipitato, trasportato su un vetrino d’orologio, si pone in stufa a 100 °C per circa 30 minuti, fino a
completa secchezza.
Esercitazioni di laboratorio a cura dei Proff. Raffaele Miranda e Francesco Della Gala

97
La solubilità

Materiali occorrenti:
Cloruro di sodio – Solfato di rame – Carbonato di Litio – Ferro in polvere – Becker da 250 ml – Spruzzetta
con acqua distillata – Bacchettina di vetro – Spatolina – Cilindro graduato da 100 mL.

Cenni teorici:
L’acqua è un ottimo solvente, perché riesce a sciogliere una grande varietà di sostanze. Ma le sostanze
non si disciolgono tutte nella stessa quantità. Per ogni sostanza esiste un limite, oltre il quale in
soluzione non si riesce più a sciogliere altro soluto. Questo limite, espresso in g/L, è chiamato solubilità
della sostanza.
In altri termini la solubilità rappresenta la quantità massima, in grammi, di quella sostanza che si
riesce a sciogliere in un litro di soluzione.
La soluzione che si ottiene in questo caso è detta soluzione satura. Altro solido, che tentiamo di sciogliere,
si deposita sul fondo e viene indicato come corpo di fondo.
Con questa esperienza tenteremo di stabilire la solubilità di alcune sostanze, che sono il cloruro di sodio (il
comune sale da cucina), il solfato di rame (che è commercialmente noto come verderame), il carbonato di
litio e il ferro in polvere.

Esecuzione dell’esperienza:
Porre in quattro differenti beckers da 250 mL, 100 mL d'acqua distillata. Aggiungere al primo 20 mg di
cloruro di sodio (NaCl), al secondo 20 mg di solfato di rame (CuSO4), al terzo 20 mg di carbonato di litio
(Li2CO3) e al quarto 20 mg di ferro (Fe) in polvere. Agitare e annotare nella tabella successiva cosa si
osserva nei beckers dopo l'agitazione.

Nota: Si deve sempre, dopo aver prelevato una sostanza, pulire la spatolina prima di prendere le altre
sostanze, così come sciacquare bene la bacchettina di vetro, prima di agitare il contenuto di altri
becker, questo per evitare inquinamento delle sostanze, o delle reazioni che possono avvenire, e che
possono falsare l'esperienza presente e/o quelle future.

Pulire e asciugare bene i becker adoperati. Immettere in essi sempre 100 mL di acqua e sciogliere, in
ciascun becker, le stesse sostanze precedenti. Questa volta, però, adoperando 40 mg per ogni sostanza.
Agitare bene e annotare nella tabella successiva cosa si osserva nei beckers dopo l'agitazione.
Pulire di nuovo bene i becker e asciugarli. Ripetere ancora l'esperienza utilizzando sempre 100 mL di acqua,
ma, questa volta, 100 mg di ogni sostanza.
Agitare bene e annotare nella tabella successiva cosa si osserva nei beckers dopo l'agitazione.
Infine si ripete l’esperienza, sempre dopo aver lavato e asciugato bene i beckers, con 100 mL di acqua e 1
grammi di ogni sostanza.
Agitare bene e annotare nella tabella successiva cosa si osserva nei beckers dopo l'agitazione.

H2O + H2O + H2O + H2O +


NaCl CuSO4 Li2CO3 Fe

100 mL +
20mg

100 mL +
40mg

100 mL +
100 mg

100 mL +
1g
Esercitazioni di laboratorio a cura dei Proff. Raffaele Miranda e Francesco Della Gala

98
Soluzioni tampone

Materiali occorrenti:
Ammonio cloruro - Ammonio Idrossido sol al 28% - Acido cloridrico sol. 1 M - Sodio idrossido sol 1. M -
Beckers da 200 mL - Becker da 400 mL - Matraccio da 500 mL - pHmetro.

Cenni teorici:
Una soluzione tampone è una soluzione che non varia il proprio pH anche se ad essa si aggiunge un
acido o una base forte. La costanza del pH si nota anche se la soluzione viene diluita. Le soluzioni tampone
sono formata da un acido debole ed un suo sale o da una base debole e un suo sale. Nell’esercitazione che
segue si preparerà prima una soluzione tampone formata da idrossido d’ammonio (NH4OH), che è la base
debole, e cloruro d’ammonio (NH4Cl), che è il sale della base debole (sale dello ione ammonio). Questo
tampone è chiamato comunemente tampone ammoniacale. Si misurerà, poi, la variazione del pH dopo
l’aggiunta di acido cloridrico (HCl), un acido forte, e di idrossido di sodio (NaOH), una base forte. Si
misurerà, altresì, la variazione di pH dopo la diluizione con acqua distillata. L’esperienza vuole dimostrare
che in nessuno dei tre casi si ottiene variazione di pH. Per confronto le aggiunte di acido e di base saranno
fatte anche a una stessa quantità di acqua distillata. In quest’ultimo caso si nota, invece, una forte variazione
di pH.

Preparazione del tampone:


In un becker da 400 mL si versano (sotto cappa) 285 mL di una soluzione di idrossido d’ammonio (NH4OH)
al 28% e in essa si disciolgono 35 g di cloruro d’ammonio (NH4Cl). La soluzione ottenuta si trasporta in un
matraccio da 500 mL, sciacquando, con poca acqua per volta, il becker utilizzato per la preparazione della
soluzione e l’imbuto per il travaso. Infine si porta a volume.

Aggiunta di un acido forte:


In due beckers da 200 mL si versano 100 mL di acqua distillata, nel primo, e 100 mL di soluzione tampone,
nel secondo. Con il pHmetro si misura il pH nei due differenti beckers. Ad entrambi i beckers si aggiungono
10 mL di una soluzione di acido cloridrico 1 M. Si agitano le due soluzioni ottenute e si misura,
successivamente il pH. Segnare nella tabella riportata in calce all’esperienza, i valori di pH, dell’acqua
distillata, del tampone e quello riscontrato dopo le aggiunte di acido.

Aggiunta di una base forte:


In due beckers da 200 mL si versano 100 mL di acqua distillata, nel primo, e 100 mL di soluzione tampone,
nel secondo. Con il pHmetro si misura il pH nei due differenti beckers. Ad entrambi i beckers si aggiungono
10 mL di una soluzione di idrossido di sodio 1 M. Si agitano le due soluzioni ottenute e si misura,
successivamente il pH. Segnare nella tabella i valori di pH riscontrati dopo l’aggiunta della base.

Effetto della diluizione:


In un becker da 200 mL si versano 100 mL della soluzione tampone. Si musura il pH della soluzione.
Alla soluzione, poi, si aggiungono 50 mL di acqua distillata e si agita per omogeneizzare la soluzione. Si
musura, a questo punto, nuovamente il pH della soluzione. Segnare nella tabella il valore del pH dopo la
diluizione.

pH dopo pH dopo
pH dopo la
pH l’aggiunta l’aggiunta
diluizione
di HCl di NaOH
Acqua
---------
distillata

Tampone
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99
Titolazioni acido- base
Materiali occorrenti:
Acido cloridrico a titolo noto – NaOH a titolo incognito – Becker da 250 mL – Buretta da 50 mL – Spruzzetta
con acqua distillata – Agitatore in vetro (bacchettina).

Cenni teorici:
Titolare significa far avvenire una reazione, in presenza di un indicatore, per poterne cogliere il punto
d’equivalenza. Questo ci permette, poi, di poter calcolare i grammi di una sostanza, o la molarità di una
soluzione, noto il titolo della soluzione che si utilizza. Le titolazioni acido-base sfruttano reazioni che
avvengono tra una sostanza a carattere acido e una a carattere basico. Gli acidi e le basi possono essere
sia forti che deboli, ma questo non influenza la metodica da utilizzare, determina solamente la scelta
dell’indicatore. Scelta che viene fatta, dopo aver determinato la curva di titolazione.
L’esperienza attuale è una titolazione, tra un acido forte e una base forte. In questo caso si possono usare
un gran numero di indicatori, perché tutti, o quasi, riescono a cogliere il punto di equivalenza, cioè il
momento nel quale la reazione si è completata.
Una titolazione si effettua sempre ponendo in un recipiente, di solito un becker o una beuta, la sostanza di
cui si vuole conoscere la quantità (titolato) e in una buretta la soluzione a titolo noto (titolante). L’indicatore si
pone nel recipiente con il titolato.
Al viraggio dell’indicatore si annotano i mL di titolante consumati e con essi si effettuano i calcoli.
Con la nostra esperienza, vogliamo calcolare la molarità di una soluzione di NaOH, utilizzando una soluzione
di HCl, di sui è noto il titolo.

Esecuzione dell’esperienza:
Si preleva in un becker da 250 mL, con una buretta da 50 mL, un volume noto della soluzione di idrossido
di sodio (NaOH), di cui si vuole il titolo (diciamo tra 20 e 30 mL). Successivamente, per cogliere meglio il
viraggio dell’indicatore, si aggiunge acqua fino a circa 100 mL, in modo da avere un volume maggiore. Per il
nostro calcolo finale, però, va utilizzato il volume prelevato, perché l’idrossido è presente proprio in quel
volume di soluzione.
Alla soluzione, così ottenuta, si aggiungono una o due gocce di fenolftaleina (indicatore).
La fenolftaleina in ambiente basico si colora di rosa, mentre in ambiente acido è incolora.
Si carica un’altra buretta da 50 mL, con la soluzione di acido cloridrico (HCl) a titolo noto e si titola, goccia
a goccia, la soluzione nel becker, fino al viraggio dell’indicatore.
Si annotano i mL di soluzione consumati nella buretta per eseguire la titolazione.
Con i mL consumati, e con il volume prelevato, si determina la molarità della soluzione d’idrossido di sodio.
Per avere le moli di NaOH, nella soluzione incognita, si deve considerare il rapporto di reazione,

HCl + NaOH NaCl + H2O

che, nel nostro caso è 1:1. Per questo, le moli di NaOH saranno uguali a quelle di HCl. Le moli dell’acido,
sono quelle presenti nel volume consumato.
Ad esempio, se la soluzione di acido cloridrico ha una molarità di 0,103 M e per titolare il campione di NaOH
si sono consumati 23,5 mL di titolante, si avrà:

molHCl = M • V (in litri) = 0,103 • 0,0235 = 0,00242

che sono anche le moli di NaOH. Queste moli, d’altro canto, si trovavano nel volume prelevato della
soluzione della base. Con le moli calcolate e con il volume prelevato, si può calcolare la molarità Ad
esempio, se il volume prelevato inizialmente della soluzione di NaOH era di 23,8 mL, la concentrazione
risulterà

mol 0,00242 mol


M = ————= ——————— = 0,102 mol/L
litri 0,0238 L
Esercitazioni di laboratorio a cura dei Proff. Raffaele Miranda e Francesco Della Gala

100
Tubi di Crookes

Materiali occorrenti:
Tubo di Crookes con croce di Malta – Tubo di Crookes a mulinello – Rocchetto di Ruhmkorff con
alimentatore a corrente continua – Cavi di collegamento – Magnete.

Cenni teorici:
I tubi di Crookes sono formato da un tubo di vetro contenente un gas rarefatto (pressione 10¯5 atmosfere)
e al cui interno sono presenti due elettrodi metallici collegati ad un elevatore di tensione (ca. 15000 volt).
Quando si da corrente agli elettrodi si ottiene, attraverso il gas, una scarica elettrica, chiamata raggio
catodico, perché parte dal catodo (polo negativo) e va verso l’anodo (polo positivo). All’interno dei tubi si
possono trovare differenti oggetti che permettono di apprezzare alcune proprietà del raggio catodico. I
diversi tubi di Crooks vengono distinti in base all’oggetto in esso presente.
Con questa esperienza vogliamo dimostrare che detti raggi catodici sono costituiti da:

― piccolissime particelle viaggianti in linea retta (i corpi interposti danno ombra).


― possiedono una certa massa (sono capaci di muovere un mulinello a pale).
― hanno carica elettrica negativa (sono attratte dal polo positivo di un campo elettrico o magnetico).
― non dipendono né dal tipo di metallo costituente il catodo, né dal tipo di gas contenuto nel tubo
(variando questi le particelle esistono comunque).

Nel 1897 Thompson riuscì a determinare il rapporto carica/massa delle particelle, che formano il raggio
catodico, e considerando, che queste particelle:

― possono provenire o dagli atomi costituenti il catodo o dalle molecole del gas contenuto nel tubo;
― non dipendono dal particolare tipo di catodo o di gas impiegati;
― possiedono tutte lo stesso rapporto carica/massa;

si può concludere che esse sono tutte uguali tra loro, e sono presenti in tutti gli atomi. A queste particelle è
stato dato il nome di elettroni. Per questo si può affermare che il raggio catodico generato nei tubi di
Crookes, altro non è che un fascio di elettroni.

Tubo a croce di Malta:


Si monta il rocchetto ad induzione (rocchetto di Ruhmkorff); si collegano le punte dello spinterometro,
tramite due cavi, al tubo con croce di Malta, con il polo negativo all’elettrodo posteriore ed il polo positivo
all’elettrodo anteriore. Si chiude l’interruttore dell’alimentatore e si osserva il comparire di una luminescenza
verdastra con la croce che forma un’ombra sul fondo del tubo. Quanto osservato depone per un andamento
rettilineo, dal catodo all’anodo, della radiazione.
Avvicinando il polo negativo di un magnete si nota, in questo caso, una deflessione del raggio. L’esperienza
indica che, le particelle della radiazione catodica hanno carica elettrica, e che questa è di segno negativo.

Tubo a mulinello:
Si collega, come fatto in precedenza, il tubo con mulinello; si chiude l’interruttore e si osserva che le pale
iniziano a ruotare secondo il verso della radiazione. Questo indica, chiaramente, una natura corpuscolare
della radiazione, le cui particelle, per poter muovere le pale del mulinello, devono essere dotate di una certa
massa. (la forza esercitata dalla particella è data da F= m • a, per cui se m è nulla, cioè se non vi è massa,
anche la forza sarà zero. Un raggio di luce, ad esempio, non riesce a muovere le pale).

Mulinello
Ombra Croce di Malta
Catodo

— Catodo Anodo

Anodo
+

a) b)

Tubi di Crooks: a) tubo a croce di Malta; b) tubo a mulinello


Esercitazioni di laboratorio a cura dei Proff. Raffaele Miranda e Francesco Della Gala

101
Velocità delle reazioni

Materiali occorrenti:
Permanganato di potassio sol. 0,020 M - Acido ossalico sol.0,10 M - Acido solforico 95 % - Cloruro di
manganese cristallino - Carbonato di calcio in polvere - Marmo - Acido cloridrico sol. 1:3 - Beckers da 100
mL – Piastra agitante – Ancorette magnetiche (o agitatori in vetro) - vetrino da orologio.

Cenni teorici:
Le reazioni avvengono per urti tra le particelle dei reagenti. Più grande è il numero di urti nell'unità di tempo,
più alto sarà il numero di particelle che si trasformano; di conseguenza, la velocità di reazione sarà più
elevata. In altre parole, si può dire che in una soluzione più concentrata maggiore è il numero delle particelle
per unità di volume, per cui maggiori sono anche le collisioni tra loro nell'unità di tempo, e maggiore sarà la
velocità. La velocità di una reazione, dunque, dipende dalla concentrazione dei reagenti.
Guldberg e Waage stabilirono che la velocità di reazione è proporzionale al prodotto delle concentrazioni,
espresse in moli/litro, delle sostanze che reagiscono, ognuna elevata a un numero, chiamato ordine della
reazione. In formula:

V = k [A]n • [B]m

ove V = velocità della reazione, k = costante cinetica, [A] e [B] le concentrazioni dei reagenti, n ed m ordini
della reazione.
La costante cinetica tiene conto dei fattori che possono influire sulla velocità, quali la natura dei reagenti, la
temperatura, la presenza di catalizzatori e lo stato di aggregazione dei reagenti. K è costante per una
determinata reazione, quando questa è condotta in identiche condizioni.
La presente esperienza vuole mettere in evidenza come variando le condizioni nelle quali si fa avvenire una
reazione, la sua velocità cambia. Per questo una stessa reazione, verrà condotta in differenti condizioni,
cambiando la temperatura, la concentrazione dei reagenti e la superficie di sviluppo dei reagenti, quando si
trovano in fase solida.
La reazione che si utilizza per questa esperienza è quella tra il permanganato di potassio (KMnO4) e
l’acido ossalico ((COOH)2), che è una reazione di ossido-riduzione, che viene di seguito riportata:

2KMnO4 + 5(COOH)2 + 3H2SO4 K2SO4 + 2MnSO4 + 10CO2 + 8H2O

La velocità di una reazione, però, può anche essere modificata dalla presenza di sostanze che, pur non
partecipando all’equazione di reazione (non compaiono tra i reagenti e neppure tra i prodotti), entrano nella
composizione del complesso attivato. Per questo modificano la velocità delle reazioni. Queste sostanze
sono chiamate catalizzatori.
I catalizzatori possono essere classificati in: Catalizzatori omogenei quando si trovano nello stesso stato
fisico dei reagenti e Catalizzatori eterogenei quando si trovano in uno stato fisico diverso da quello dei
reagenti. Per completare la panoramica sulla cinetica di una reazione si tratterà anche il caso di una catalisi,
per dimostrare che la presenza di un catalizzatore abbassa la velocità della reazione.

Esecuzione delle esperienze:


Disporre due file di quattro beckers da 100 mL. Nei beckers della prima fila si pongono 10 mL di sol. 0,020 M
di permanganato di potassio (KMnO4); nei beckers della seconda fila versano 10 mL di acido ossalico
((COOH)2) sol. 0,10 M. e, con cautela, 2 mL di acido solforico 95 %.

Nota operativa: Al fine di avere un’omogenea agitazione nel corso delle varie fasi, se disponibile, si
raccomanda l'uso di un agitatore magnetico. Pertanto si immergono nei 4 beckers contenenti la soluzione di
permanganato di potassio 4 ancorette magnetiche in modo da averle pronte al momento della reazione;
contemporaneamente si predispone la piastra agitante sul tavolo di esercitazione. Qualora l'apparecchiatura
non fosse disponibile è possibile procedere manualmente con l'uso di una bacchetta in vetro, cercando di
agitare con velocità costante.
Esercitazioni di laboratorio a cura dei Proff. Raffaele Miranda e Francesco Della Gala

102
Influenza della concentrazione:
Si prende uno dei beckers contenente acido ossalico e acido solforico, e lo si versa in uno di quelli
contenenti il permanganato di potassio e l'ancoretta magnetica. Si pone il tutto sulla piastra, facendo partire
un cronometro. Alla completa decolorazione si annota il tempo di reazione impiegato, indicandolo con T1.
Si prendono altri due beckers delle due file e, a ciascuno di essi, si aggiungono 10 mL di acqua distillata. Le
due soluzioni divengono, così, più diluite, esattamente a titolo 0,010 M il permanganato di potassio e a titolo
0,050 M l'acido ossalico. Si procede come nel primo esperimento versando l’acido ossalico con l'acido
solforico, nel becker con il permanganato di potassio e l'ancoretta magnetica.
Si pone il sistema sulla piastra, facendo partire il cronometro fino al compimento della reazione, si annota
tempo impiegato, indicandolo con T2.
Si confrontano i tempi delle due reazioni e si osserva che T1 < T2; questo indica un’influenza delle
concentrazioni dei reagenti sulla velocità di reazione. La soluzione più concentrata, impiega meno tempo a
completare la reazione, per cui avviene con velocità maggiore.

Influenza della temperatura:


Si sottopongono a riscaldamento un becker della prima serie ed uno della seconda, fino ad una temperatura
di circa 50°C; si procede, quindi, nel modo consueto, annotando il tempo di reazione, che sarà quasi
istantaneo, tanto da non dover neppure porre il becker sull'agitatore. Il tempo rilevato si indica con T3;
confrontandolo con T1 (uguali concentrazioni dei reagenti) si osserva che T3 < T1, ovvero una notevole
influenza della temperatura sulla velocità di reazione.
Ad ulteriore conferma di ciò, può essere effettuata una prova con le soluzioni portate a temperatura di circa
5/10 °C; si osserva, in questo caso, un aumento del tempo di reazione, che possiamo indicare con T4, per cui
risulta T4 > T1.

Superficie dei reagenti:


Si prende un pezzo di marmo e sulla sua superficie ruvida si gocciola della soluzione 1:3 di acido cloridrico;
si osserva una effervescenza dovuta allo sviluppo di biossido di carbonio, secondo la reazione:

CaCO3 + 2HCI CaCI2 + CO2 + H2O

Si pone poi una spatolata di carbonato di calcio in polvere fine su un vetro da orologio aggiungendo alcune
gocce di acido cloridrico; si nota lo sviluppo di biossido di carbonio ma la reazione appare decisamente più
veloce. Questo significa che una maggiore area della superficie di reazione favorisce la velocità della stessa.

Presenza di un catalizzatore:
Si prende l’ultima coppia di beckers di permanganato e acido ossalico e in quello contenente l’acido ossalico
si scioglie una punta di spatola di cloruro di manganese (MnCI2), che funge da catalizzatore. Si versa poi
il contenuto del becker in quello con il permanganato, nel quale è immersa l'ancoretta magnetica. Si pone, il
tutto sulla piastra agitante, rilevando, come prima, il tempo di reazione; questo viene indicato con T5.
Rapportando questo valore con quello del primo esperimento (uguali concentrazioni dei reagenti ed uguale
temperatura) si osserva che T5 < T1, a dimostrare che la presenza di un catalizzatore, rende la reazione più
veloce.
Esercitazioni di laboratorio a cura dei Proff. Raffaele Miranda e Francesco Della Gala

103
Verifica del principio di Le Chatlier

Materiali occorrenti:
Rame trucioli – Cromato di Potassio – Bicromato di Potassio – Acido cloridrico sol. 0.1 M – Idrossido di sodio
sol. 0.1 M – Acido nitrico sol. 65 % –tappo con di tubo di sviluppo – Pallone di reazione da 50 mL .

Cenni teorici:
Un equilibrio quando è perturbato reagisce in modo da minimizzare la perturbazione. E’ questo il
principio di Le Chatlier dell’equilibrio mobile. La perturbazione può essere introdotta variando la
concentrazione delle specie che partecipano alla reazione, oppure variando la temperatura o, anche, la
pressione, se l’equilibrio è in fase gassosa. In quest’ultimo caso, una variazione di pressione induce uno
spostamento dell’equilibrio, solo se il ∆n della reazione è diverso da 0, cioè la somma dei coefficienti di
reazione dei reagenti è diversa dalla somma dei coefficienti di reazione dei prodotti.
L’esercitazione vuole verificare l’assunto di Le Chatlier, in due dei tre casi descritti, cioè come varia un
equilibrio al variare della temperatura e al variare della concentrazione.

Spostamenti d'equilibrio al variare della temperatura:


Si pone del rame in trucioli in una provetta e si fa reagire con 1 o 2 mL di acido nitrico (HNO3) sol. 65 %; si
chiude velocemente la provetta con un tappo munito di tubo di sviluppo e si raccoglie il gas prodotto, di
colore bruno, in un palloncino, chiudendolo immediatamente con un tappo in gomma.
Il gas che si è formato è il biossido di azoto (NO2) derivante dalla reazione:

Cu + 4HNO3 Cu(NO3)2 + 2NO2 + 2H2O

Il biossido di azoto (NO2) è un gas di colore rosso-bruno, che occuperà tutto il palloncino.
Si pone quindi il palloncino in un freezer (o in un becker contenente ghiaccio) e lo si lascia raffreddare per
almeno 15 minuti. Dopo il raffreddamento lo si estrae e si osserva che il colore bruno è scomparso e si sono
formati dei cristalli azzurri di tetrossido di diazoto (N2O4). Nel palloncino, tornato alla temperatura ambiente
o riscaldato tenendolo tra le mani, si riforma il biossido di azoto (NO2), e si visualizzano di nuovo i vapori
rosso bruni.
Questo avviene perché nel palloncino si è instaurato l’equilibrio tra il tetrossido e il biossido:

N 2 O4 2NO2 ∆H = +13,7 Kcal/mol

La reazione è una reazione endotermica (il ∆H è positivo). Possiamo, quindi, ritenere che il calore sia un
reagente, perché la reazione assorbe calore. Riscaldando si aumenta uno dei reagenti e l’equilibrio tenderà
a togliere questo aumento spostandosi verso i prodotti, in questo caso aumenterà la concentrazione di NO2.
Raffreddando avviene il contrario, cioè si toglie uno dei reagenti (il calore) e l’equilibrio si sposta verso di
loro, aumentando la concentrazione di N2O4.

Spostamenti d'equilibrio al variare delle concentrazioni:


Si sciolgono in due provette contenenti 4 o 5 mL di acqua distillata ciascuna alcuni cristallini di cromato di
potassio (K2CrO4), nella prima e di bicromato di potassio (K2Cr2O7), nella seconda. La soluzione nella
prima provetta assume un colore giallo, mentre quella con il bicromato ha un colore arancio.
Si prende la provetta contenente lo ione cromato (CrO42) e ad essa si aggiungono poche gocce di acido
cloridrico (HCl) sol. 0,1 M. Si osserva una variazione del colore da giallo all'arancio (lo stesso colore della
soluzione di dicromato). A questa nuova soluzione si aggiungono alcune gocce di idrossido di sodio
(NaOH) sol. 0.1 M e si osserva che la soluzione ritorna al colore giallo.
Si prende, a questo punto, la provetta contenente ioni bicromato (Cr2O72) e ad essa si aggiungono alcune
gocce di idrossido di sodio sol. 0,1 M. Si osserva che il colore vira dall'arancio al giallo paglierino (lo stesso
colore della soluzione di cromato). Aggiungendo, infine, alcune gocce di acido cloridrico sol. 0,1 M il sistema
torna al colore arancio originario. Quanto visto dimostra che si è stabilito, nelle due provette, l’equilibrio tra gli
ioni cromato e gli ioni bicromato, che risente del pH della soluzione.

Cr2O72– + 2 OH¯ 2 CrO42– + H2O

Se, si aggiungono a questo equilibrio degli ioni H+, questi reagiranno con OH e toglieranno dall’equilibrio un
reagente. In questo caso l’equilibrio si sposta verso i reagenti e predomina lo ione bicromato. Viceversa, se
si aggiungono ioni OH aumenta uno dei reagenti, l’equilibrio si posta verso i prodotti e in soluzione
predominano gli ioni cromato.
Esercitazioni di laboratorio a cura dei Proff. Raffaele Miranda e Francesco Della Gala

104
Verifica sperimentale della legge di Lavoisier

Materiali occorrenti:
Cloruro di bario – Solfato di sodio – Carbonato di calcio in polvere – Acido cloridrico sol. 37 % – Bilancia
analitica – Tappi in gomma – Provette – Becker da 400 mL – Becker da 250 mL – Beuta da 500 mL.

Cenni teorici:
Nel 1775 Antoine Lavoisier con i suoi esperimenti osservò che “in una reazione chimica che avvenga in
un sistema chiuso la massa delle sostanze reagenti è uguale alla massa dei prodotti di reazione”.
Quanto enunciato è detto, appunto, legge di Lavoisier o legge della conservazione della massa.
Le esperienze, che faremo, hanno proprio lo scopo di verificare la validità di tale legge. Nella prima reazione,
che effettueremo, si trova che la massa è la stessa sia prima che dopo la reazione, non così nel secondo
caso. Sembrerebbe che la legge di Lavoisier non sia rispettata. In realtà ciò è dovuto al fatto che dopo la
reazione, la CO2 che si libera dal recipiente di reazione, non viene determinata. Se si raccoglie la CO2
sviluppata e se ne determina la massa e si somma a quella dei prodotti di reazione, si trova che non vi è
variazione di massa. A conferma di quanto esposto vi è la terza reazione, identica alla seconda, ma con la
CO2 che resta nel sistema, perché il tappo non permette la sua fuoriuscita, per la quale si trova una massa
dei reagenti e dei prodotti identica.

Reazione con formazione di un precipitato:


Si preparano due provette ben pulite ed asciutte; in una si pone una punta di spatola di cloruro di bario
(BaCl2) e nell’altra altrettanto solfato di sodio (Na2SO4). A ciascuna, con l’aiuto di una pipetta, si
aggiungono 5 mL di acqua distillata; si agitano le provette fino a completa solubilizzazione e le si dispongono
in un becker da 400 mL perfettamente pulito ed asciutto. Si porta il sistema sul piatto della bilancia si
procede alla determinazione accurata della massa, annotando il valore ottenuto. Si ritira il tutto dalla
bilancia e con cura, evitando ogni possibile fuoriuscita di liquidi, si versa il contenuto di una provetta
nell’altra; subito si forma un precipitato bianco, secondo la reazione:

BaCl2 + Na2SO4 2NaCl + BaSO4

a questo punto si dispone nuovamente il becker con le due provette sul piatto della bilancia e si procede a
una nuova determinazione della massa.
Se si è agito correttamente la massa dei prodotti di reazione risulta, nei limiti dell’errore sperimentale,
eguale a quella dei reagenti, in accordo con la legge di Lavoisier.

Reazione con sviluppo di un gas in un sistema aperto:


In un becker da 250 mL si pone una spatolata di carbonato di calcio (CaCO3) in polvere fine; si aggiungono
10 o 20 mL di acqua distillata. In una provetta asciutta si pongono 5 o 6 mL di HCI sol. 37% e si sistema la
provetta nel becker.
Si porta il sistema sul piatto della bilancia e si procede alla determinazione accurata della massa,
annotando il valore ottenuto. Si ritira, quindi, il becker dalla bilancia, con cura si versa al suo interno il
contenuto della provetta; l’acido a contatto con il CaCO3 darà la reazione:

CaCO3 + 2HCl CaCl2 + CO2 + H2O

L’anidride carbonica che si sviluppa si disperderà nell’ambiente, per cui, sottoponendo il tutto a una nuova
determinazione della massa, si ottiene un valore minore di quello iniziale.

Reazione con sviluppo di un gas in un sistema chiuso:


In una beuta da 500 mL si pone 1 g di carbonato di calcio in polvere; si prende una provetta che possa
essere completamente contenuta nella beuta, ad esempio una provetta da centrifuga, e si versa in essa
acido clorìdrico (HCl) sol. 37 % fino ad un cm dal bordo. Con l'aiuto di una pinzetta si dispone la provetta in
piedi all'interno della beuta e si tappa quest'ultima con idoneo tappo in gomma munito di rubinetto di
sicurezza; se disponibile si sigilla con un pezzetto di “parafilm” per garantire la totale ermeticità.
Si porta il sistema sul piatto della bilancia e si procede alla determinazione accurata della massa,
annotando il valore ottenuto. Si ritira, quindi, la beuta dalla bilancia e la si inclina in modo da far uscire
l'acido dalla provetta ed entrare in contatto con il CaCO3. Una volta avvenuta la reazione si sottopone il tutto
a una nuova determinazione della massa. In questo caso si ottiene un valore eguale, nei limiti dell'errore
sperimentale, a quello iniziale.
Esercitazioni di laboratorio a cura dei Proff. Raffaele Miranda e Francesco Della Gala

105
Verifica dell'equilibrio chimico

Materiali occorrenti:
Cloruro stannoso – Cloruro ferrico – Acido cloridrico sol. 1:3 e sol. 37 % – Idrossido di sodio sol. 1 M –
Idrossido di ammonio sol. 25 % – Tiocianato di potassio – Ferricianuro di potassio – Solfuro di ferro – Tappo
con tubo di sviluppo – Beuta da 250 mL – Beckers da 200 mL – Provette.

Cenni teorici:
In una reazione di equilibrio sono presenti tutte le specie chimiche che partecipano alla reazione, cioè i
reagenti non si consumano mai completamente, ma sono in equilibrio con i prodotti che hanno originato.
L'esperienza vuole verificare che effettivamente quando si fanno reagire cloruro stannoso (CuCl2) e
cloruro ferrico (FeCl3) in soluzione si trovano sia i reagenti che i prodotti della reazione.
La reazione, in forma ionica, che avviene è tra lo ione stannoso (Sn2+) e lo ione ferrico (Fe3+), cioè:

Sn2+ + 2Fe3+ Sn4+ + 2Fe2+

In soluzione, quindi, si devono avere tutti gli ioni scritti nella reazione. Lo scopo dell’esercitazione è
verificare la loro presenza, per confermare che, effettivamente, vi sono sia i prodotti, che i reagenti.
Una volta avvenuta la reazione, la soluzione si divide in quattro porzioni e in ognuna si ricerca, con una
reazione selettiva, cioè che viene data solo dallo ione che si ricerca, uno dei quattro ioni.

Esecuzione dell’esperienza:
In due beckers da 200 mL si pongono 50 mL di acqua distillata e 2-3 mL di acido clorìdrico sol, 1:3; in uno
dei due becker si scioglie una punta di spatola di cloruro di stanoso (SnCl2), nell'altro altrettanto cloruro
ferrico (FeCI3); si versa quindi il contenuto di un becker nell'altro, agitando la soluzione risultante. Si
prendono, infine, quattro provette ed in ciascuna si versano 5 o 10 mL della massa di reazione, e, in ogni
provetta, si ricercano gli ioni che partecipano alla reazione.

Ricerca dello ione Sn2+ (ione stannoso):


Si prende una delle provette, e, in essa, si versano alcune gocce di idrossido di sodio (NaOH) sol. 1 M. Si
osserva il formarsi di un precipitato bianco gelatinoso d’idrossido stannoso (Sn(OH)2), secondo la
reazione:

Sn2+ + 2NaOH Sn(OH)2 + 2Na+

Questo conferma che in soluzione è presente lo ione stannoso.

Ricerca dello ione Sn4+ (ione stannico):


Si pongono in una beuta 2 pezzetti di solfuro di ferro (FeS), si aggiungono 10 o 20 mL di acqua distillata e
20 o 30 mL di acido cloridrico (HCl) sol. 37 %; si chiude con un tappo munito di tubo di sviluppo e si fa
gorgogliare l'acido solfidrico (H2S), che si produce, nella seconda provetta, dove si vuole confermare la
presenza dello ione Stannico (Sn4+). In pochi secondi si osserva il formarsi di un precipitato giallo chiaro di
solfuro stannico (SnS2), ottenuto dalla reazione:

Sn4+ + 2H2S SnS2 + 4H+

La formazione del precipitato conferma che in soluzione è presente anche lo ione stannico.

Nota: Se dovesse formarsi un precipitato bruno, aggiungere qualche mL di acido cloridrico sol. 1:3. Questo
perché se l’ambiente non è molto acido in presenza dello ione stannoso può aversi un precipitato di solfuro
stannoso (SnS), di colore bruno, che non si forma in ambiente molto acido.
Esercitazioni di laboratorio a cura dei Proff. Raffaele Miranda e Francesco Della Gala

106
Ricerca dello ione Fe2+ (ione ferroso):
Si prende la terza provetta contenente la soluzione in esame e ad essa si aggiunge una punta di spatolina di
ferricianuro di potassio (K3Fe(CN)6); si agita ed in breve si osserva la formazione di un precipitato blu-
azzurro di ferricianuro ferroso (Fe3[Fe(CN)6]2), detto azzurro di Turnbull, secondo la reazione:

2K3Fe(CN)6 + 3Fe2+ Fe3lFe(CN)6]2 + 6K+

La formazione del precipitato blu indica che in soluzione vi è lo ione ferroso.

Ricerca dello ione Fe3+ (ione ferrico):


Si prende l'ultima provetta e alla soluzione si aggiunge una punta di spatolina di tiocianuro di potassio
(KCNS); si agita e si osserva il formarsi di un precipitato color rosso-sangue di tiocianuro ferrico
(Fe(CNS)3), dovuto alla reazione:

3KCNS + Fe3+ Fe(CNS)3 + 3K+

che conferma la presenza in soluzione dello ione ferrico.

A questo punto possiamo affermare, visto che abbiamo provato la contemporanea presenza degli ioni, che la
reazione è effettivamente di equilibrio.
Esercitazioni di laboratorio a cura dei Proff. Raffaele Miranda e Francesco Della Gala

107
Vulcano in eruzione

Materiali occorrenti:
Permanganato di potassio in polvere – Glicerina - Aceto (o acido acetico) – Alluminio in polvere –Mortaio di
vetro o porcellana – capsula di porcellana

Cenni teorici:
Il permanganato di potassio (KMnO4) è un forte ossidante, che mostra un forte potere ossidante, in
ambiente acido. Per questo la reazione, della nostra esperienza, si conduce in presenza di acido acetico, il
quale, però, non è molto forte (pH intorno a 3), per cui la reazione avviene con velocità non eccessiva, nel
qual caso potrebbe diventare pericolosa. La glicerina, come tutti gli alcool, viene ossidata dal permanganato,
con una reazione fortemente esotermica. Il calore che si produce dalla reazione è sufficiente a bruciare la
glicerina, che non ha ancora reagito, e l’alluminio, presente nella massa di reazione. Per la vivacità della
reazione, i frammenti di alluminio, resi incandescenti, saranno “catapultati” fuori dal recipiente di reazione,
con un effetto simile a un’eruzione vulcanica.

Esecuzione dell’esperienza:
In un mortaio di vetro o porcellana si mescolano circa 500 mg di permanganato di potassio con una punta di
spatola di polvere d'alluminio (Al).
Si mette la miscela ottenuta in una capsula di porcellana abbastanza grande, formando un monticello (il
nostro vulcano), alla cui sommità, con l’aiuto di una spatola o una bacchettina in vetro, si fa un foro
abbastanza profondo (la bocca eruttiva).
Si mettono nella cavità ottenuta 2-3 gocce di glicerina pura e si aggiungono due gocce di acido acetico (o di
aceto).
Inizialmente, si ha l’impressione che non succeda nulla, ma dopo breve tempo, compaiono i primi fumi e la
miscela comincerà a sfrigolare, fino a che non si produrrà una vivace fiamma, con lancio attorno di "lapilli"
incandescenti, che sono dei granelli di alluminio infiammati.
Dopo pochi istanti la fiamma si attenuerà e la miscela rimarrà incandescente per qualche istante, per poi
spegnersi definitivamente.

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