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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PALERMO

FACOLTA’ DI INGEGNERIA
Corso di Laurea in Ingegneria per l’Ambiente e il Territorio

Ingegneria Sanitaria-Ambientale
Prof. Ing. Gaspare Viviani

I parte

TRATTAMENTI DELLE ACQUE REFLUE

marzo 2012
G. Viviani
Ingegneria sanitaria-ambientale

Indice:
Cap.1 CARATTERISTICHE DELLE ACQUE REFLUE

1. GENERALITA' 7
1.1. Definizioni 7
1.2 Campionamento 7
2. CARATTERISTICHE FISICHE 8
2.1 Temperatura 8
2.2 Colore e odore 9
2.3 Contenuto solido 10
3. CARATTERISTICHE CHIMICHE 12
3.1 pH 12
3.2 Misure di carbonio organico 12
3.2.1 BOD (Domanda biochimica di ossigeno) 12
3.2.2 COD (Domanda chimica di ossigeno) 18
3.2.3 ThOD (Domanda teorica di ossigeno) 18
3.2.4 TOC (Carbonio organico totale) 18
3.3 Composti dell'azoto 18
3.4 Composti del fosforo 20
3.5 Grassi e oli 20
3.6 Tensioattivi 20
3.7 Composti inorganici 21
3.7.1 Cloruri 21
3.7.2 Composti dello zolfo 21
3.7.3 Metalli pesanti 22
3.8 Elementi e composti bioaccumulabili 22
4. CARATTERISTICHE MICROBIOLOGICHE 22
4.1 Microrganismi indicatori 22
4.2 Saggio di tossicità 23

Cap.2 IMPOSTAZIONE DI UN CICLO DI TRATTAMENTO

1. PREMESSE 24
2. LINEA ACQUE 24
2.1 Pretrattamenti 24
2.2 Trattamenti meccanici (o primari) 25
2.3 Trattamenti biologici (o secondari) 25
2.4 Trattamenti terziari 25
2.5 Trattamenti di affinamento 25
3. LINEA FANGHI 26
3.1 Ispessimento 26
3.2 Stabilizzazione 26
3.3 Disidratazione 26
3.4 Trattamenti termici 26
3.5 Smaltimento finale 27
4. ALTERNATIVE NELLA SCELTA DEL CICLO DI 27
TRATTAMENTO
5. RENDIMENTI DEPURATIVI 27
6. SISTEMI DI FOGNATURA E SCARICATORI DI PIENA 28
6.1 Sistemi di fognatura 28
6.2 Scaricatori di piena 31

Cap.3 TRATTAMENTI MECCANICI

1. GRIGLIATURA 34
1.1 Generalita' 34
1.2 Classificazione e tipologie delle griglie 35

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1.3 Dimensionamento delle griglie 38


1.4 Quantità di materiale grigliato 40
1.5 Trituratori 41
1.6 Criteri di scelta delle griglie 42
2. STACCIATURA 50
2.1 Generalita' 50
2.2 Stacci 50
2.3 Microstacci 52
3. DISSABBIATURA 55
3.1 Generalita' 55
3.2 Dissabbiatori a canale 57
3.2.1 Criteri generali di dimensionamento 57
3.2.2 Proporzionamento della sezione trasversale del dissabbiatore 58
3.2.3 Proporzionamento del modellatore a risalto 60
3.2.4 Vasche di dissabbiamento e modellatori a risalto di forma 63
semplice
3.2.5 Proporzionamento della lunghezza della vasca 63
3.3 Dissabbiatori centrifughi 64
3.4 Dissabbiatori aerati. 65
3.5 Estrazione e lavaggio delle sabbie 67
4. SEDIMENTAZIONE 77
4.1 Generalita' 77
4.2 Sedimentazione granulare 78
4.3 Sedimentazione fioccosa 84
4.4 Sedimentazione di massa e ispessimento 86
4.5 Criteri di dimensionamento dei sedimentatori 93
4.5.1 Sedimentatori primari 93
4.5.2 Sedimentatori secondari 95
4.6 Tipologia dei sedimentatori 97
4.6.1 Sedimentatori a flusso longitudinale (orizzontale) 97
4.6.2 Sedimentatori a flusso radiale (orizzontale) 101
4.6.3 Sedimentatori a flusso verticale 102
4.7 Sedimentatori lamellari 104
5. FLOTTAZIONE 126
5.1 Generalita' 126
5.2 Flottazione naturale 127
5.3 Flottazione per insufflazione d'aria 131
5.4 Flottazione a pressione differenziata 132
5.4.1 Impianti senza ricircolo 133
5.4.2 Impianti con ricircolo 135

Cap.3 TRATTAMENTI BIOLOGICI

1. PREMESSE 144
2. PRINCIPI GENERALI 144
2.1 Elementi di microbiologia 145
2.2 Elementi di biochimica 146
2.3 Confronto fra trattamenti aerobici e anaerobici 148
3. FORMULAZIONE MATEMATICA DEL METABOLISMO 150
BATTERICO
3.1 Crescita batterica 151
3.2 Rimozione del substrato 153
3.3 Fattori condizionanti i processi biologici 155
3.3.1 Temperatura 155
3.3.2 Elementi nutritivi 155
3.3.3 Disponibilità di ossigeno 156
4. CARATTERISTICHE IDRODINAMICHE DEI REATTORI 156
BIOLOGICI
4.1 Reattore discontinuo (batch) 157

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4.2 Reattore continuo con flusso a pistone (plug-flow) 157


4.3 Reattore continuo a miscelazione completa 157
4.4 Confronto fra i differenti tipi di reattore 158
4.5 Sistemi a miscelazione completa senza ricircolo cellulare 160
4.6 Sistemi a miscelazione completa con ricircolo cellulare 163
4.7 Determinazione sperimentale delle costanti cinetiche 165
5. IMPIANTI PER LA RIMOZIONE DEL CARBONIO ORGANICO 175
6. PROCESSO A FANGHI ATTIVI 175
6.1 Generalità sul processo 175
6.2 Dimensionamento razionale del reattore biologico 178
6.3 Dimensionamento semplificato del reattore biologico 178
6.4 Caratteristiche di sedimentabilità del fango 182
6.5 Concentrazione della biomassa e ricircolo del fango 183
6.6 Produzione del fango di supero 186
6.7 Calcolo dei sistemi di aerazione 189
6.7.1 Fabbisogno di ossigeno 189
6.7.2 Trasferimento di un gas in un liquido 192
6.7.3 Trasferimento dell'ossigeno nella miscela aerata 192
6.7.4 Calcolo della capacità di ossigenazione 195
6.7.5 Dimensionamento dei dispositivi di aerazione 198
6.8 Dispositivi di aerazione 199
6.8.1 Aerazione superficiale 199
6.8.2 Aerazione per insufflazione 202
6.8.3 Altri sistemi di aerazione 204
6.8.4 Confronto fra i sistemi di aerazione 205
6.9 Effetti della sedimentazione primaria sul trattamento biologico 221
6.10 Alternative di processo negli impianti a fanghi attivi 222
6.11 Processi a basso, medio e alto carico 222
6.11.1 Processo a basso carico 223
6.11.2 Processo a medio carico 224
6.11.3 Processo ad alto carico 225
6.12 Processo con flusso a pistone 225
6.13 Processo a carico distribuito 225
6.14 Processo a contatto e stabilizzazione 226
6.15 Processo pluristadio 226
6.16 Processo a bacino unico 228
6.17 Fosse di ossidazione 228
6.18 Processo ad alimentazione discontinua 229
6.19 Processo a ossigeno puro 229
6.20 Pozzo profondo 231
7. STAGNI BIOLOGICI 237
7.1 Fattori che influenzano il funzionamento di uno stagno biologico 238
7.1.1 Caratteristiche idrauliche 239
7.1.2 Caratteristiche fisiche 239
7.1.3 Caratteristiche chimiche 240
7.1.4 Caratteristiche biologiche 240
7.1.5 Fotosintesi algale 243
7.2 Caratteristiche operative e criteri di dimensionamento 244
7.2.1 Stagni aerobici 244
7.2.2 Stagni facoltativi 245
7.2.3 Stagni anaerobici 245
7.2.4 Stagni aerati 246
7.3 Caratteristiche costruttive 247
7.4 Produzione dei fanghi 249
7.5 Rendimenti di depurazione e trattamento degli effluenti finali 249
8. LETTI PERCOLATORI 250
8.1 Tipologie impiantistiche 251
8.2 Caratteristiche costruttive 251
8.2.1 Sistemi di alimentazione e distribuzione del liquame 252
8.2.2 Sistemi di drenaggio e aerazione 252

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8.2.3 Contenimento laterale 253


8.2.4 Materiali di riempimento 253
8.3 Criteri di dimensionamento 255
8.3.1 Letti percolatori a debole carico 256
8.3.2 Letti percolatori intensivi 256
8.4 Aspetti gestionali 257
9. DISCHI BIOLOGICI 265
9.1 Caratteristiche costruttive 265
9.2 Criteri di dimensionamento 266
9.3 Campi di applicazione ed aspetti operativi 266
10. FILTRI BIOLOGICI SOMMERSI 267
11. PROCESSI MISTI 268

Cap.4 TRATTAMENTI DI DISINFEZIONE

1. GENERALITA' 270
2. RICHIAMI DI IGIENE APPLICATA 271
3. FENOMENI DI SCOMPARSA BATTERICA NELLE ACQUE 272
4. GENERALITA' SUGLI AGENTI DISINFETTANTI 274
4.1 Fattori che influenzano la disinfezione 274
4.1.1 Natura del microrganismo 274
4.1.2 Natura del disinfettante 275
4.1.3 Condizioni al contorno 275
4.2 Meccanismi e modelli di disinfezione 275
5. I TRATTAMENTI DI DISINFEZIONE 278

5.1 Disinfezione con cloro e ipocloriti 278


5.2 Disinfezione con biossido di cloro 282
5.3 Vasche di contatto 283
5.4 Declorazione 285
5.5 Disinfezione con altri alogeni 285
5.6 Disinfezione con ozono 286
5.7 Disinfezione con raggi ultravioletti 286
5.8 Altri metodi di disinfezione 288
5.9 Considerazioni conclusive sull’uso dei disinfettanti 288

Cap.8 RIMOZIONE DEI NUTRIENTI

1. RIMOZIONE DELL'AZOTO 290


1.1 Generalità 290
1.2 Nitrificazione 291
1.3 Denitrificazione 292
1.3.1 Impiego di carbonio esterno 293
1.3.2 Post-denitrificazione (con carbonio interno) 294
1.3.3 Pre-denitrificazione (con carbonio interno) 294
2. RIMOZIONE DEL FOSFORO 295
2.1 Generalità 295
2.2 Pre-trattamento 296
2.3 Trattamento simultaneo 296
2.4 Post-trattamento 297

Cap.9 TRATTAMENTO DEI FANGHI

1. CARATTERISTICHE DEI FANGHI 301


1.1 Generalita' 301
1.2 Contenuto in sostanza secca e umidità 301
1.3 Peso specifico 302

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1.4 Putrescibilità 302


2. ISPESSIMENTO 303
2.1 Generalità 303
2.2 Schemi di impianto 303
2.3 Tipologia degli ispessitori 304
2.3.1 Ispessitore statico 304
2.3.2 Ispessitore dinamico 304
3. DIGESTIONE AEROBICA DEI FANGHI 308
3.1 Generalità 308
3.2 Dimensionamento dei digestori aerobici 308
3.2.1 Criteri empirici 308
3.2.2 Criterio dell’età del fango 309
3.3 Considerazioni costruttive sui digestori aerobici 312
4. DIGESTIONE ANAEROBICA DEI FANGHI 314
4.1 Descrizione del processo 314
4.2 Influenza della temperatura 316
4.3 Tipologia dei digestori anaerobici 317
4.3.1 Digestione a basso carico 317
4.3.2 Digestione ad alto carico monostadio 318
4.3.3 Digestione ad alto carico bistadio 320
4.4 Sistemi di miscelazione e riscaldamento 322
4.5 Sistemi per lo stoccaggio e l'utilizzo del biogas 324
4.6 Calcolo della produzione di biogas 324
4.7 Caratteristiche del fango stabilizzato e dell'acqua del fango 329
4.8 Vasche Imhoff 329
5. DISIDRATAZIONE DEI FANGHI 331
5.1 Generalità 331
5.2 Disidratazione naturale 331
5.3 Disidratazione meccanica 333
5.3.1 Filtropresse 333
5.3.2 Nastropresse 333
5.3.3 Filtri a vuoto 333
5.3.4 Centrifughe 334
5.3.5 Criteri di scelta e di dimensionamento 334
6. SMALTIMENTO FINALE DEI FANGHI 338

Bibliografia 340

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Cap.1

CARATTERISTICHE DELLE ACQUE REFLUE

1. GENERALITA'

1.1 Definizioni

I risultati delle analisi sono abitualmente espressi come concentrazione


(rapporto massa su volume), in mg/l o g/m3. Per sistemi a forte diluizione, come
possono considerarsi le acque sia naturali che di scarico, può senz'altro assumersi
una densità di 1 kg/l (e cioè di un milione di mg/l); le concentrazioni vengono
quindi spesso espresse in parti per milione (ppm) attraverso un rapporto di masse.
Espressioni diverse vengono utilizzate per talune determinazioni specifiche (solidi
sedimentabili, micro-organismi, pH, etc.) secondo quanto indicato in seguito.

Si definisce “carico” la massa di un inquinante scaricato nell'unità di tempo;


esso risulta espresso dal prodotto della portata e dalla concentrazione media nel
periodo preso in considerazione:

C=x ⋅ q

In campo urbano esso viene spesso riferito alla popolazione servita;


assume allora il significato di massa di inquinante scaricato per abitante nell'unità
di tempo ed è indicato come “apporto pro-capite” (o unitario). Abitualmente è
espresso in g/ab.giorno; esso può anche essere riferito all'unità di prodotto di
un'attività industriale.

1.2 Campionamento

La definizione delle caratteristiche di qualità delle acque naturali o reflue


richiede l’esecuzione di analisi, di cui solo poche possono essere eseguite
direttamente sul posto (analisi on-line), mentre la maggioranza di esse vanno
determinate in laboratorio, su campioni appositamente prelevati, che siano
significativi delle caratteristiche delle reali condizioni delle acque di cui si vuole
eseguire la caratterizzazione.
In particolare, è possibile procedere all’esecuzione di due diversi tipi di
campioni, in funzione delle modalità con cui essi sono eseguiti:
a) campione “istantaneo", rappresentativo delle condizioni in cui le acque si
trovano al momento stesso in cui avviene il campionamento; con successivi
campionamenti di questo tipo è possibile seguire nel tempo l'andamento dei
diversi parametri di inquinamento, evidenziandone le variazioni e le punte;
b) campione “medio" o "composito", rappresentativo delle condizioni medie delle
acque campionate per un periodo di tempo (di solito della durata di un giorno);
il campione medio può essere ottenuto con due modalità diverse:
ƒ mediante il prelievo di più campioni istantanei e la contemporanea misura
della portata della corrente idrica campionata (in corsi d’acqua o in
fognatura), a intervalli di tempo regolari; dopo aver determinato la

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concentrazione dell’inquinante ricercato in ciascuno dei campioni prelevati,


la sua concentrazione nel campione medio è valutabile con l’espressione:

∑ x i qi
x=
∑ qi
con:
x concentrazione media nell'intero periodo campionato;
xi concentrazione rilevata nell’i-esimo campione;
qi portata misurata durante l’i-esimo campionamento.

ƒ mediante il prelievo e la miscelazione in un unico recipiente di successivi


campioni di acqua, ciascuno dei quali avente volume proporzionale alla
portata defluente all'atto dei singoli campionamenti; il volume V dell’unico
campione così ottenuto risulta quindi:

V = Σ Vi = α . Σ qi

dove n è il numero di prelievi eseguiti per la costituzione del campione; è


facile dimostrare che la concentrazione del campione medio così costituito
risulta pari a quella determinata col metodo precedente:

x=
∑ x i Vi =
α ∑ x i qi
=
∑ x i qi
∑ Vi α ∑ qi ∑ qi
Va rilevato che è generalmente diversa da quella ottenuta come media
aritmetica dei valori rilevati negli n campioni prelevati, risultando a questa uguale
solo nel caso in cui la portata si mantenga costante per l’intero periodo di
campionamento.

Molto spesso nella progettazione degli impianti di depurazione non risulta


possibile effettuare rilevazioni dirette delle caratteristiche dagli scarichi da trattare.
E' questo ad esempio il caso di nuove industrie non ancora in attività o di centri
urbani non dotati di un'organica rete di fognatura la cui sistemazione o
completamento sia appunto prevista con la realizzazione dell'impianto. Si tratta di
casi assai frequenti in cui la molteplicità dei punti di scarico rende troppo onerosa
od insicura la rilevazione diretta dei dati.
E' allora necessario procedere a valutazioni indirette che nel settore
industriale derivano sempre dall'esame dei previsti cicli lavorativi, mentre in campo
urbano si rifanno ad indici parametrici, quali gli apporti pro-capite prima definiti.

2. CARATTERISTICHE FISICHE

2.1 Temperatura

La temperatura dei liquami domestici è solitamente lievemente superiore a


quella delle acque di approvvigionamento, da cui esse derivano; ciò a causa degli
scarichi caldi delle cucine e dei bagni.

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Di solito, si rilevano temperature pari a 18-20 °C, in condizioni estive, e, 14-


15 °C, in inverno.
La temperatura ha notevole influenza sui processi biologici di depurazione e
sulla solubilità dell'ossigeno.
Situazioni particolari si hanno nei centri di montagna con valori invernali
molto più bassi dovuti non tanto alla rigidità del clima, quanto alla presenza di
acque parassite fredde (piccoli corsi d'acqua, fontane e soprattutto acque di
fusione delle nevi). Le temperature si mantengono allora sui 5-8 °C fino al mese di
aprile.
In campo industriale sono assai numerosi gli esempi di scarichi caldi
(reparti di tripperia dei macelli, colonne di distillazione per la produzione di alcool
industriale, reparti di scottatura delle industrie conservierie, molte lavorazioni
chimiche, ecc).

2.2 Colore e odore

I liquami urbani si presentano come un liquido torbido, di colore grigiastro. Il


loro odore è caratteristico ma non particolarmente sgradevole, almeno finchè
perdurano condizioni di freschezza; diviene invece nauseabondo quando si
sviluppano fenomeni putrefattivi.
La colorazione delle acque può essere dovuta a sostanze sospese
(colorazione apparente) o a sostanze disciolte. Nel caso delle acque naturali, la
determinazione è abitualmente condotta per confronto con soluzioni di riferimento
aventi concentrazione nota di cloroplatinato di potassio (K2PtCl6), additivato con
cloruro di cobalto. L'unità di colore (Hazen) corrisponde ad 1 mg/l di platino.
L'influenza delle sostanze sospese è eliminata mediante centrifugazione
preliminare del campione. Nel caso degli effluenti tale procedura non è
convenientemente applicabile, data l'elevata presenza di sostanze sospese; il
colore viene allora espresso, sul campione tal quale, mediante il numero di
diluizioni necessario a non renderlo più percettibile su uno spessore d'acqua
prefissato (10 cm secondo le norme italiane).

L'odore degli scarichi urbani è in genere dovuto a miscele di gas di


putrefazione della componente biodegradabile (idrogeno solforato, mercaptani,
ammoniaca, scatolo, ammine etc). La misura dell'odore è espressa come numero
di diluizioni necessarie a raggiungere la MDTOC, definito come il livello di
diluizione necessario per raggiungere la soglia di percettibilità dell'odore (Minimum
Detectable Threshold Odor Concentration: concentrazione minima di percettibilità
dell'odore).
Il problema degli odori negli impianti di depurazione ha grossa rilevanza, sia
per il personale addetto, sia per l'impatto ambientale e quindi per la stessa
possibilità di localizzazione dell'opera. Gli odori si producono soprattutto nelle
sezioni iniziali dell'impianto, ove più facilmente si determinano condizioni
anaerobiche, sulla linea fanghi e in generale nei luoghi di accumulo di prodotti
fermentescibili non adeguatamente aerati. Ciò pone sempre più frequentemente
l'esigenza di realizzare coperture di tali zone con captazione e trattamento dell'aria
meleodorante.
2.3 Contenuto solido

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La misura globale dei solidi presenti nel liquame è data dal residuo totale,
per evaporazione della fase liquida a 105 °C. I solidi totali così determinati
comprendono sia il contenuto salino delle acque di approvvigionamento che i
diversi inquinanti introdotti, indipendentemente dal loro stato fisico (disciolti,
colloidali, sospesi).
I solidi presenti in un refluo possono essere distinti in:
• solidi disciolti, se di dimensioni inferiori a 0,45 μ; comprendono quindi i solidi
realmente disciolti, presenti in dispersione ionica o molecolare, e anche molti
colloidi;
• solidi sospesi, quelli trattenuti da una membrana filtrante di porosità di 0,45 μ.

I solidi sospesi si suddividono a loro volta in:


• solidi sospesi sedimentabili: quelli che sono rimossi per sedimentazione statica
in cono di Imhoff, della durata di 2 ore;
• solidi sospesi non sedimentabili: quelli che, dopo tale prova, rimangono ancora
in sospensione.

Ciascuna frazione dei solidi può essere suddivisa in volatile e non volatile (o
residuo fisso), a seconda che sia rimovibile o non, a seguito di incenerimento in un
forno a muffola a 600 °C; la frazione volatile viene solitamente identificata con
quella di natura organica, dato che a temperature inferiori a 550 °C la componente
organica viene ossidata e gassificata.

Nella seguente tabella è riportata la ripartizione delle varie frazioni dei solidi
(in gr/abxgiorno), per il caso dei liquami urbani:

solidi non volatili volatili totali


sospesi sedimentabili 20 40 60
sospesi non sedimentabili 10 20 30
disciolti 50 50 100
totali 80 110 190

In Fig.1 le precedenti classificazioni dei solidi sono messe a confronto con


le dimensioni dei solidi, il loro reale stato fisico e infine le possibilità di rimozione.

In Fig.2 è sintetizzata la procedura adottabile per la determinazione delle


varie frazioni dei solidi.

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Fig.1 – Classificazione fisica dei solidi, con indicazione delle dimensioni e delle
modalità di rimozione.

Fig.2 – Schema della procedura di determinazione dei solidi.

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3. CARATTERISTICHE CHIMICHE

3.1 pH

Il pH di un liquame urbano si mantiene in genere nel campo debolmente


alcalino (7,2-7,6); esso ha notevole influenza sulle reazioni chimiche e biochimiche
che intervengono nelle acque.

3.2 Misure di carbonio organico

L'inquinamento organico delle acque reflue è dovuto alla presenza di


proteine, carboidrati, oli e grassi, oltre che ad alcuni prodotti di sintesi, tra cui le
sostanze tensioattive dei detergenti; stante l'eterogeneità di tali prodotti, si fa di
solito riferimento a valutazioni globali, mediante misure dirette o indirette.

3.2.1 BOD (Domanda biochimica di ossigeno)

Tale parametro misura la quantità di ossigeno necessaria per il


metabolismo aerobico della sostanza organica presente nell'unità di volume di
refluo.
Infatti, la maggior parte delle sostanze organiche presenti nelle acque reflue
sono biodegradabili, cioè possono essere utilizzate dai microrganismi in esse
presenti (principalmente i batteri) come fonte di materia e di energia per la
produzione di nuove cellule. Ciò determina la progressiva demolizione dei
composti organici biodegradabili, che sono quindi trasformati in materia cellulare e
in composti stabili (cataboliti).
Nei corpi idrici, tale fenomeno costituisce il potere di autodepurazione
naturale delle acque.
In ogni caso, il metabolismo dei batteri aerobi presuppone un consumo di
ossigeno libero, in quantità proporzionale alla concentrazione di batteri e quindi
alla quantità di materiale organico biodegradabile presente nello scarico. La
misura dell'ossigeno consumato dai batteri aerobi può pertanto costituire un indice
dell'entità del carico inquinante presente in un'acqua naturale o in un effluente;
essa è nota come "domanda biochimica di ossigeno" o BOD (Biochemical Oxygen
Demand); quindi, dire che un liquame presenta un BOD di 500 mg/l significa che,
per ottenere la stabilizzazione per via aerobica delle sostanze organiche
biodegradabili contenute in un litro di tale liquame, è necessario il consumo di 500
mg di ossigeno. Per convenzione, tale misura è eseguita a 20 °C.

Nel calcolo del BOD, si ammette generalmente che le trasformazioni delle


sostanze organiche si sviluppano secondo una cinetica del primo ordine,
intendendoci con ciò che la loro velocità risulti proporzionale alla prima potenza
della concentrazione stessa. Può quindi scriversi:

dSt
= − k e St
dt

dove St rappresenta la concentrazione di sostanza organica (substrato) al tempo t


e ke (con dimensioni t-1) la costante di biodegradazione. Integrando tra 0 ed il
tempo generico t, si ha

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St = So e−k e t = So 10 −kt

dove:
So = concentrazione iniziale di substrato organico
St = concentrazione residua di substrato al tempo t
k = 0,4343 ke è la costante di biodegradazione modificata per tener conto del
cambiamento di base del logaritmo.

Indicando con BODtot la richiesta complessiva di ossigeno, corrispondente


alla sostanza organica inizialmente presente So e con BODt la richiesta di
ossigeno già consumata al generico tempo t, la quantità residua di sostanza
organica può essere indirettamente espressa attraverso il consumo di ossigeno
non ancora soddisfatto.
Pertanto risulta (vedi Figura 3):

St = BODtot – BODt

Le due precedenti espressioni possono quindi essere così riscritte:

d BOD t
= k e (BOD tot − BOD t )
dt

BODt = BODtot (1 – 10-kt)

In tali espressioni il BODtot rappresenta l'effettivo consumo di ossigeno


necessario per la completa biodegradazione della componente organica; esse
stabiliscono un legame tra il valore del BODtot e quello del BOBt a un generico
tempo t, in funzione del valore assunto dalla costante k.
Nel caso di liquami domestici, a 20 °C, in mancanza di determinazioni
dirette, può assumersi k = 0,1 giorni-1.

Fig.3 – Andamenti del substrato carbonaceo e del BOD nel tempo.

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E’ pertanto possibile, al fine di evitare analisi troppo prolungate nel tempo,


riferire le misure del BOD ad un intervallo di 5 giorni (BOD5), stante che i valori
assunti in tempi succesivi sono ricavabili grazie all’espressione prima riportata.
La valutazione dell'inquinamento organico può quindi essere
esaurientemente esaguita mediante il valore del BOD5 in condizioni di temperatura
costante stabilita per convenzione in 20 °C. Nel caso di liquami domestici (k=0,1
giorni-1), tale valore è così legato a quello del BODtot:

BOD5 = BODtot (1 - 10-0,1x5) = 0,684 BODtot

Ovviamente perchè le misure abbiano attendibilità occorre che siano


condotte su un liquame fresco, ove cioè la decomposizione della sostanza
organica non abbia ancora avuto inizio (o sia stata impedita conservando il
campione alla temperatura di 4 °C).
Quindi il BOD misurato dopo 5 giorni è pari a circa il 70% di quello totale,
necessario per la completa utilizzazione del carbonio organico; come detto, ciò
consente di limitare l'analisi di laboratorio a un periodo di 5 giorni.

Come già anticipato, la velocità delle reazioni biochimiche è fortemente


influenzata dalla temperatura. Per l'equazione di Vant'Hoff-Arrhenius può infatti
scriversi in generale:
dln k E
=
dT R T2
con:
k = costante di velocità caratteristica della reazione
T = temperatura in °K
R = costante dei gas ideali, pari a 8314 J/mole x °K (1987 Cal/mole . °K)
E = energia di attivazione caratteristica della reazione. Nel trattamento delle
acque essa è generalmente compresa tra 8.400 ed 84.000 J/mole.

Integrando tra due temperature T2 e T1, a cui corrispondono valori della


costante pari a k2 e k1, si ottiene:
k E (T2 − T1 )
ln 2 =
k1 R T1 T2

Nel campo delle temperature di comune interesse per i processi biologici,


E/R T2 T1 può essere considerata costante con T e può quindi scriversi:
k
ln 2 = cost (T2 − T1 )
k1
Esplicitando rispetto a k2 ed indicando ecost = ϑ, risulta in definitiva:

k2 = k1 ϑ (T2 -T1)

di comune impiego nel campo dei trattamenti biologici per valutare gli effetti della
temperatura sulla velocità delle reazioni. Il valore della costante ϑ varia da
processo a processo e può essere desunto valutando sperimentalmente il valore
della costante di velocità per due temperature note.

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La determinazione del BOD deve quindi essere condotta a temperatura


costante e definita (20 °C) per dare risultati confrontabili. La costante di
biodegradazione k consente comunque di valutare la velocità di degradazione del
substrato anche in situazioni diverse (ad esempio nei fenomeni di
autodepurazione naturale), richiedendo in tal caso una preventiva valutazione
degli effetti della temperatura, attraverso l’espressione ricavata a partire dalla
legge di Vant'Hoff-Arrhenius. A tal fine, per la degradazione del BOD ϑ può essere
assunta pari a 1,056 per temperature comprese tra 20 e 30 °C e pari a 1,135 per
temperature inferiori a 20 °C. I valori di ϑ applicabili nei principali processi di
depurazione biologica artificiale saranno riportati nei successivi capitoli.

Per le condizioni di vita europee, l'apporto pro-capite di BOD non presenta


sensibili variazioni; con riferimento agli scarichi urbani esso è
variabilenell’intervallo 54-60 g/abxgiorno. Con riferimento alla distinzione tra le
varie forme in cui la sostanza organica può essere presente nei reflui (disciolta,
sospesa non sedimentabile e sospesa sedimentabile, prima richiamata a proposito
del contenuto di solidi, si può assumere che su un totale di 60 g BOD/abxgiorno,
26 siano disciolti, 14 sospesi non sedimentabili e 20 sospesi sedimentabili; le
relative concentrazioni si calcolano immediatamente, in funzione degli apporti pro-
capite, mediante la semplice espressione:
A pc
C = 1000
αDOT
con:
C concentrazione dell’inquinante (mg/l)
Apc apporto pro-capite (g/abxgiorno)
DOT dotazione idrica (l/abxgiorno)
α coefficiente di disperdimento (circa 0,8)

Quindi, considerando una dotazione idrica compresa tra 150 e 300


l/abxgiorno e un’apporto pro-capite di BOD pari a 60 g/abxgiorno, si ricava una
concentrazione di circa 200-400 mg/l.

L'uso del BOD in campo industriale, ovviamente limitato al caso di


inquinanti organici biodegradabili, porta spesso a dati di dubbia interpretazione,
non sempre direttamente confrontabili con analoghe misure condotte su un
liquame urbano. Cause di ciò possono ritrovarsi nella carenza di biomassa o nella
presenza di sostanze tossiche o scarsamente biodegradabili o nella carenza di
sostanze nutritive (azoto, fosforo); tutti tali motivi possono essere causa di scarsa
attività batterica nella degradazione della sostanza organica e quindi di inefficacia
della sua misura col parametro BOD.

Pur con i limiti in precedenza sottolineati, la misura del BOD in campo


industriale consente di confrontare l'entità dell'inquinamento dovuto alle attività
produttive con quello attribuibile agli scarichi urbani. E’ possibile allora calcolare il
numero di “abitanti equivalenti” (AE) di un'industria come il numero di abitanti cui
essa corrisponde agli effetti dell'inquinamento organico espresso in termini del
BOD. Così ad esempio ad un'industria cui competa un carico organico, B, pari a
300 kg BOD/giorno, corrisponderà ad un numero di abitanti equivalenti pari a
(considerando un apporto unitario di BOD pari a 60 g/ab x giorno):

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B 300
AE = = = 5.000 ab eq.
b 0,06

E' evidente comunque che le valutazioni di equivalenza, basandosi su di


una misura di BOD, hanno un significato limitato all'inquinamento organico
biodegradabile e risentono di tutte le riserve già espresse a proposito del BOD
stesso in campo industriale.

Più utilmente, la valutazione dell'equivalenza può essere condotta su base


parametrica, facendo cioè riferimento ad un'unità di misura collegata alle
dimensioni dell'azienda (manodopera impiegata, produzione, impiego di materie
prime ecc.); se nell'esempio precedente l'industria avesse un'impiego di 750 unità,
si avrebbe una popolazione equivalente di 5.000/750 = 6,67 ab x eq/addetto. Così
procedendo possono individuarsi, per ciascun settore industriale responsabile di
inquinamento organico biodegradabile, valori specifici di popolazione equivalente;
essi consentono una sommaria valutazione dell'inquinamento industriale
attraverso dati facilmente disponibili e senza rendere necessarie lunghe e talvolta
laboriose indagini dirette.

In Tabella 1 sono riportati i coefficienti di popolazione equivalente per alcuni


settori industriali. Essi si intendono riferiti agli scarichi grezzi, a monte cioè di
qualsiasi trattamento depurativo aziendale. Sono parimenti indicati anche i
corrispondenti consumi di acqua.

I metodi di misura del BOD si basano sulla determinazione del consumo di


ossigeno nelle trasformazioni aerobiche. Negli effluenti tuttavia la domanda
biochimica di ossigeno risulta di norma assai più elevata della disponibilità di
ossigeno libero, sempre limitata a pochi mg/l. Per mantenere condizioni aerobiche
è quindi necessario fornire ossigeno libero dell'esterno.
A secondo della modalità con cui ciò avviene, si hanno due distinti metodi di
misura: per diluizione e respirometrico.

Metodo per diluizione - Il campione è diluito con acqua in modo che il BOD della
miscela così ottenuta risulti inferiore dell'ossigeno libero (O.D.) in essa
solubilizzabile all'inizio della prova mediante un'intensa aerazione. Misurata la
concentrazione di O.D. dopo aerazione(*), il campione è posto, in assenza d'aria, in
un contenitore ermeticamente chiuso ed è mantenuto a 20 °C per il tempo
stabilito. Si ripete quindi la misura dell'ossigeno disciolto ancora presente e si
calcola il consumo durante la prova. Noto il rapporto di diluizione impiegato è
possibile risalire al valore di BOD del campione originario.
Non essendo a priori noto il valore del BOD, è necessario procedere per tentativi
preparando diversi campioni a differente diluizione.

Metodo respirometrico - Il campione è introdotto in una cella chiusa


ermeticamente (ma in presenza di un'atmosfera d'aria), mantenuta a 20 °C e
continuamente agitata. Le trasformazioni aerobiche determinano la progressiva
solubilizzazione dell'ossigeno presente nell'atmosfera superiore e contemporanea
emissione di CO2 che può tuttavia essere fissata mediante una soluzione di idrato

(*)
Tale concentrazione risulta molto vicina al valore di saturazione, pari a 9,2 mg/l per acqua pulita a 20 °C.

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di potassio o altro idoneo composto alcalino. La misura dell'ossigeno consumato


può quindi essere indirettamente calcolata o attraverso la depressione che si
determina nella cella (respirometro di Warburg e derivati) o la quantità di ossigeno
che deve essere fornito dall'esterno per ristabilire la pressione iniziale
(respirometro di Sierp e derivati). Il metodo permette quindi di rilevare il BOD a
successivi intervalli di tempo con tracciamento, anche automatico, della relativa
curva.

Tab.1 – Abitanti equivalenti e portate di scarico delle principali attività produttive.

3.2.2 COD (Domanda chimica di ossigeno)

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In questo caso, pur eseguendo anche qui una misura indiretta del carbonio
organico, esso però viene rilevato in maniera chimica, mediante ossidazione. A
tale scopo è utilizzato il bicromato di potassio (K2Cr2O7), che in ambiente acido, ad
elevata temperatura ed in presenza di un catalizzatore (Ag2SO4) ossida la
sostanza organica.
La prova ha una durata complessiva di circa 5 ore, per cui è in pratica
possibile disporre della misura antro 1 giorno dal campionamento, a fronte dei 5
giorni necessari per il BOD.
Normalmente il rapporto COD/BOD5 , per i reflui urbani, è compreso tra 1,6
e 2,5.

3.2.3 ThOD (Domanda teorica di ossigeno)

La domanda teorica di ossigeno (ThOD) è data dalla quantità di ossigeno


stechiometricamente necessaria per la completa ossidazione dei composti
organici, come formazione di prodotti finali come CO2, H2O, SO4, NO3 etc.
La determinazione del ThOD richiede la conoscenza della struttura
molecolare dei composti presenti e delle corrispondenti reazioni di ossidazione.

3.2.4 TOC (Carbonio organico totale)

In questo caso si procede alla misura diretta del contenuto di carbonio


(anzichè a quella indiretta dell'ossigeno necessario per la sua trasformazione in
maniera biochimica o chimica).
La misura è condotta immettendo il campione in una cella di conbustione, in
presenza di un catalizzatore al platino; il carbonio organico è ossidato a CO2 ,
misurata con un analizzatore all'infrarosso.
La misura richiede poche decine di minuti; tuttavia, il costo dell'apparecchiatura
allo scopo necessaria ne ha frenato la diffusione; non va poi trascurato che tale
misura non è citata fra i parametri su cui sono applicati limiti di legge.

3.3 Composti dell'azoto

In natura e nel corso dei trattamenti depurativi l'azoto subisce


trasformazioni complesse, in ragione dei diversi stati di ossidazione che esso può
assumere per effetto di reazioni di natura biochimica (Figura 4).

L'azoto molecolare (N2) può essere direttamente utilizzato solo da alcuni tipi
di batteri e di alghe (oltre che dalle leguminose); più spesso è suscettibile di
un'utilizzazione indiretta, dopo essere stato ossidato ad anidride nitrica (N2O5) per
effetto delle scariche elettriche prodotte durante i temporali. Combinandosi con
l'acqua, l'anidride nitrica forma acido nitrico (HNO3) e sotto tale forma perviene
sulla superficie terrestre. Una seconda fonte di nitrati è data da alcuni processi
industriali (ad esempio produzione di fertilizzanti).

I nitrati sono utilizzati dai vegetali per produrre composti organici azotati
(proteine vegetali)(*); gli animali non sono capaci di un'utilizzazione diretta

(*)
Per tale funzione i vegetali possono anche utilizzare direttamente l'azoto ammoniacale.

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dell'azoto; per essi la fonte di azoto è costituita dalle proteine vegetali. Per i
fenomeni sopradescritti, il metabolismo animale e vegetale sottrae l'azoto
dall'ambiente, restituendolo poi per i fenomeni di morte e decomposizione
batterica cui è soggetta la materia vivente. Tali fenomeni portano alla produzione
di ammoniaca (NH3), a partire dall'azoto organico delle proteine. Agli stessi
processi di decomposizione batterica è anche soggetto l'azoto organico contenuto
nelle deiezioni animali. Nelle urine invece l'azoto è presente sotto forma di urea, la
quale subisce rapidamente processi di idrolisi, sotto l'azione di enzimi (ureasi), con
formazione finale, anche in questo caso, di ammoniaca.

L'azoto ammoniacale può essere direttamente utilizzato dai vegetali o può


subire un'azione ossidativa in ambiente aerobico, da parte di batteri nitrificanti
autotrofi, con formazione dapprima di nitriti e quindi di nitrati. Con ciò il ciclo si
chiude, rimettendo a disposizione dei vegetali l'azoto nitrico per la produzione di
nuovo materiale proteico.

In condizioni di anossia, molti batteri eterotrofi sono in grado di utilizzare


l'ossigeno contenuto nelle molecole dei nitrati e dei nitriti prima di convertirsi ad un
metabolismo anaerobico. Tali processi determinano la riduzione finale ad azoto
gassoso (generalmente senza passare ad ammoniaca) che, liberandosi
nell'atmosfera, viene sottratto all'ambiente acquatico.

Fig.4 – Ciclo naturale dell’azoto.

Nei liquami urbani l'azoto è presente sotto forma organica ed ammoniacale;


la misura complessiva di entrambe può aversi con la determinazione del TKN
(Total Kjeldahl Nitrogen).
Ulteriori forme di azoto presenti nei reflui possono essere i nitriti e i nitrati; il
primo è presente in basse concentrazioni negli scarichi, trattandosi di una forma
instabile, rapidamente convertibile in nitrati; tuttavia, entrambi sono generalmente
presenti in tracce nei reflui di origine domestica, stante la mancanza di ossigeno in

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fognatura, necessario per trasformare il TKN in nitriti e quindi in nitrati; a ciò fanno
eccezione i casi di reflui di origine produttiva, che contengano già nitrati.
L'azoto totale è costituito dalla somma di tutte le forme di azoto sin qui
citate; per i reflui urbani, il carico unitario di azoto è pari a circa 12 g/abxgiorno.

3.4 Composti del fosforo

Il fosforo è presente nelle acque in tre forme: ortofosfati, polifosfati e fosforo


organico; entrambe le due ultime forme tendono a trasformarsi in ortofosfato.
L'apporto pro-capite di fosforo nei liquami urbani si è ridotto a circa 2
g/abxgiorno, ciò grazie agli effetti di provvedimenti legislativi mirati alla limitazione
della presenza di fosfati nei detersivi.

3.5 Grassi e oli

I grassi e gli oli sono insolubili in acqua e tendono, per via della bassa
densità, ad accumularsi sulla superficie liquida creando problemi estetici ed
ostacolando la riossigenazione dei corpi idrici. A seguito di forte agitazione, e
soprattutto in presenza di agenti emulsionati quali ad esempio i tensioattivi, gli oli
possono formare nell'acqua sospensioni stabili, dette emulsioni.
Essi sono prodotti dall'attività domestica, dal traffico e da molte attività
industriali.
La loro lenta biodegradabilità crea problemi anche negli impianti di
depurazione.

3.6 Tensioattivi

I tensioattivi tendono a concentrarsi in corrispondenza dell'interfaccia tra le


diverse fasi non miscibili, determinando modifiche delle proprietà chimico-fisiche
della superficie (diminuzione della tensione superficiale, poter schiumogeno e di
imbibimento), oltre che capacità di stabilizzare le emulsioni oleose.
In considerazione del loro potere detergente hanno progressivamente
sostituito i saponi nei prodotti di lavaggio, sia domestici che industriali, rispetto ai
quali presentano il vantaggio di non formare precipitati insolubili in presenza di ioni
che danno durezza. Essi si distinguono in anionici, cationici e non ionici, di cui i
primi rappresentano la grande maggioranza dei prodotti usati nella detergenza.
La determinazione analitica dei detergenti anionici si basa sulla loro
capacità di reagire con il blu di metilene, a formare un composto solubile in
cloroformio, suscettibile di dosaggio colorimetrico (MBAS: sostanze attive con il
blu di metilene).

3.7 Composti inorganici

Non si dispone di misure globali, significative dell'inquinamento inorganico


delle acque; qualche indicazione a riguardo può essere fornita dal contenuto di
solidi disciolti non volatili e dalla conducibilità.

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Quest'ultima, definita come la conduttanza di una colonna d'acqua


compresa tra due elettrodi metallici da 1 cm di superficie e distanziati di un cm,
permette di valutare rapidamente la mineralizzazione globale di una soluzione
mediante la sua capacità di trasportare una corrente elettrica che varia con la
concentrazione e con la natura degli ioni in soluzione. Largamente applicata nel
campo delle acque potabili, risulta poco significativa nel caso degli effluenti anche
per la possibile interferenza di composti organici e di colloidi caricati
elettricamente.

La determinazione dei composti inorganici viene pertanto condotta


attraverso il dosaggio degli anioni e dei cationi più significativi, che variano a
seconda della provenienza dello scarico. Se ne considerano di seguito i principali,
con particolare riferimento al caso degli effluenti urbani.

3.7.1 Cloruri

Il metabolismo umano provoca lo scarico di circa 6 g di cloruri per abitante


al giorno (principalmente contenuti nelle urine) che si aggiungono a quelli presenti
all'origine nelle acque di approvvigionamento. Non risultando rimossi nè per
adsorbimento sul suolo, nè nei processi biologici di autodepurazione naturale, la
loro presenza in concentrazioni più elevate rispetto alle acque naturali della zona
può costituire un indice di un avvenuto scarico di effluenti anche ben trattati.
In tenori ragionevoli, i cloruri non producono inconvenienti neppure per
l’alimentazione umana; cominciano a conferire sapore all'acqua per concentrazioni
superiori ai 250 mg/l. La legislazione italiana pone un limite di scarico in acque
interne di 1200 mg/l, rispettato con larghissimo margine nel caso di fognature
urbane. Anomale concentrazioni di cloruri possono essere determinate da
massicce infiltrazioni di acque salmastre in fognatura (nelle zone costiere). In
alcuni importanti settori industriali (concerie, salumifici, trivellazioni metanifere,
alcune industrie chimiche) la presenza di cloruri in concentrazioni più elevate dei
limiti ammessi allo scarico pone gravi problemi: i soli trattamenti applicabili per la
loro rimozione dalle acque sono infatti quelli in uso per la dissalazione marina
(processi su membrane, evaporazione), con difficoltà aggiuntive dovute alla
concomitante presenza di altri inquinanti e con costi assai elevati.

3.7.2 Composti dello zolfo

La presenza di composti dello zolfo nelle acque reflue, provenienti sia dalle acque
di approvvigionamento, sia da apporti industriali, può porre problemi di cattivi odori
e di corrosione dei manufatti.
Il rischio di cattivi odori è collegato alla produzione di solfuri, che si producono in
condizioni anaerobiche, ed alla possibilità che essi si liberino nell'atmosfera sotto
forma di idrogeno solforato (H2S).

3.7.3 Metalli pesanti

Sono così convenzionalmente denominati i metalli ad elevato peso atomico,


quali nichel, manganese, piombo, cromo, rame, zinco, cadmio, ferro e mercurio,
spesso di elevata tossicità, presenti in numerosi scarichi industriali, in particolare
in quelli delle lavorazioni galvaniche di trattamento delle superfici. Purchè allo

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stato di ioni metallici bi o trivalenti e non di complessi, essi presentano la proprietà


comune di precipitare sotto forma di idrossidi o di carbonati in campi di pH ben
definiti e specifici per ciascuno di essi. Per le condizioni caratteristiche di un
liquame urbano (pH neutro o debolmente alcalino) la precipitazione è solamente
parziale. Si osserva al riguardo che anche il cromo esavalente, non direttamente
eliminabile per controllo del pH, viene in parte rimosso in presenza di
inquinamento organico dati i fenomeni di parziale riduzione alla forma trivalente
che intervengono.

Il controllo e l'eliminazione dei metalli pesanti richiede comunque interventi


specifici in ambito aziendale ad evitare effetti di intossicazione della popolazione
batterica nei trattamenti biologici, problemi di tossicità residua degli effluenti
depurati nonchè accumuli nei fanghi di depurazione.
Per questo tipo di inquinamento, in assenza di misure globali, si fa sempre
riferimento alla concentrazione dei diversi metalli.

3.8 Elementi e composti bioaccumulabili

Fra i parametri che caratterizzano la qualità delle acque rivestono


particolare importanza quelli che uniscono ad un marcato effetto tossico la
possibilità di accumularsi negli organismi e di trasferirsi da un livello trofico al
successivo. Per tale comportamento essi sono assoggettati a limitazioni rigorose.
La legislazione nazionale considera come particolarmente pericolosi per la loro
tossicità, persistenza e bioaccumulabilità i seguenti elementi (quasi tutti già definiti
come metalli pesanti): arsenico, cadmio, cromo (nella sua forma esavalente),
mercurio, nichel, piombo, rame, selenio, zinco, nonchè i seguenti composti
organici: fenoli, solventi organici aromatici, solventi organici azotati, olii minerali,
solventi clorurati, pesticidi clorurati, pesticidi fosforati.

4. CARATTERISTICHE MICROBIOLOGICHE

4.1 Microrganismi indicatori

La presenza di microrganismi negli scarichi va soprattutto attribuita alle


deiezioni umane ed animali. L'uomo elimina infatti una notevole quantità di
microrganismi intestinali; fra di essi, la maggioranza è costituita da batteri
soprafitici banali, cioè demolitori di sostanza organica morta, non patogeni;
accanto ad essi si ha la presenza di microrganismi patogeni intestinali: batteri (tifo,
paratifo, dissenteria, colera), virus (enterovirus, epatite) e uova di vermi (tenie,
ascaridi).
La determinazione diretta dei microrganismi patogeni si presenta difficile,
per via del loro numero relativamente ridotto e variabile nel tempo. Si preferisce
pertanto ricorrere a forme di valutazione indiretta di batteri saprofiti banali, la cui
presenza viene assunta come indice di inquinamento fecale e quindi di potenziale
presenza di patogeni. A tale scopo, come indicatori sono utilizzati i coliformi totali, i
coliformi fecali e gli streptococchi fecali.

In base alla metodica analitica utilizzata, tali microrganismi possono essere


espressi come "numero più probabile" (MPN = most probable number) di

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microrganismi, o come “unità formanti colonie” (UFC), in entrambi i casi riferiti a un


volume di 100 ml.
Nei liquami urbani grezzi, a secondo della diluizione e della freschezza,
possono aversi valori di 108-109 MPN/100ml per i coliformi totali, di 107-108
MPN/100ml per i coliformi fecali e gli streptococchi fecali.

4.2 Saggio di tossicità

Il saggio di tossicità fornisce una misura diretta degli effetti sulla vita
acquatica globalmente dovuti agli inquinanti presenti in uno scarico. Esso viene
condotto osservando la mortalità, su periodi prestabiliti, di adatte specie animali
poste in una serie di acquari di laboratorio in cui lo scarico da esaminare sia
presente in diversi rapporti di diluizione con acqua pulita. Negli acquari deve
essere assicurata sufficiente concentrazione di ossigeno disciolto che non deve
comunque influenzare la mortalità degli animali.

Come indice della tossicità acuta dello scarico viene abitualmente assunto il
limite medio di tolleranza (TLm), inteso come il rapporto di diluizione tra lo scarico e
l'acqua pulita cui corrisponde una mortalità pari al 50% durante il periodo preso in
considerazione (abitualmente 24 o 48 ore).

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Cap.2

IMPOSTAZIONE DI UN CICLO DI TRATTAMENTO

1. PREMESSE

La depurazione delle acque reflue è ottenuta attraverso una serie più o


meno complessa di operazioni, la cui scelta dipende tanto dalle caratteristiche
delle acque stesse, quanto dal livello di qualità richiesto per l'effluente trattato.
In generale, in un impianto di depurazione si può fare distinzione fra:
- la "linea acque", costituita da unità attraverso le quali dalla fase liquida dei reflui
vengono progressivamente rimossi gli inquinanti, con produzione di sedimenti
ad elevato contenuto di umidità, denominati "fanghi".
- la "linea fanghi", per il trattamento dei fanghi prodotti nella linea acque, al fine di
operarne la stabilizzazione e la disidratazione.

I tipi di trattamento utilizzati variano in base alla natura dei processi che in
essi si sviluppano. In particolare, si può fare distinzione tra:
a) trattamenti "meccanici" (grigliatura, sedimentazione, flottazione, filtrazione);
b) trattamenti "chimici” e “chimico-fisici": (flocculazione, precipitazione, ossido-
riduzione, disinfezione);
c) trattamenti "biologici" (fanghi attivi, letti percolatori, lagunaggi, digestione
aerobica e anaerobica);
d) trattamenti "termici" (essiccamento, incenerimento, pastorizzazione).

Il ciclo di trattamento appresso descritto fa specifico riferimento al caso dei


liquami urbani, caratterizzato da inquinanti organici biodegradabili e dalla presenza
di nutrienti e di microrganismi sia banali che patogeni.
Tuttavia esso è idoneo anche al caso di scarichi industriali, che presentino
un prevalente inquinamento organico biodegradabile.

2. LINEA ACQUE

Si articola sulla sequenza dei seguenti trattamenti (si omette di descrivere


l'eventuale sollevamento iniziale, che può essere posto in testa all'impianto o dopo
i pretrattamenti):

2.1 Pretrattamenti

Tali interventi sono previsti soprattutto a protezione delle successive fasi di


depurazione, per la rimozione di materiali che potrebbero produrre danni o
difficoltà di esercizio. I trattamenti previsti a tale scopo sono:
a) grigliatura: per la rimozione dei solidi grossolani, che possono intasare e
danneggiare apparecchiature e condotte;
b) dissabbiatura: mirata alla rimozione dei solidi sospesi sedimentabili di natura
inerte (sabbie), che possono determinare l'abrasione delle apparecchiature
delle unità di valle;

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c) disoleatura: spesso eseguita nella stessa unità che funge da dissabbiatura, è


mirata alla rimozione degli oli e delle altre sostanze galleggianti, che possono
sovraccaricare la sedimentazione ed essere di difficile biodegradabilità nei
trattamenti biologici della linea acque.

2.2 Trattamenti meccanici (o primari)

Con tale termine si comprende la sedimentazione primaria, mirata alla


rimozione dei solidi sospesi sedimentabili, di natura inerte (non intercettati dalla
dissabbiatura) e organica.
Va detto che talvolta fra i trattamenti meccanici possono essere compresi
anche i pretrattamenti, stante che entrambi fanno ricorso a processi di tipo fisico.

2.3 Trattamenti biologici (o secondari)

In questo caso si fa ricorso a processi biologici, in cui la sostanza organica


viene rimossa sfruttando il metabolismo di biomasse, generalmente in condizioni
aerobiche; ciò comporta la produzione di nuova materia cellulare, in forma
sospesa (e quindi rimovibile mediante sedimentazione) e di cataboliti stabili.
Quindi questi trattamenti devono essere seguiti da una fase di
sedimentazione finale (detta anche secondaria), con funzioni di separazione del
materiale cellulare prodotto; tale fase è di solito realizzata in un'unità diversa dal
reattore biologico.

2.4 Trattamenti terziari

Con tale termine vengono indicati differenti trattamenti, non sempre


necessari, mirati in ogni caso al miglioramento della qualità dell'effluente prodotto
coi trattamenti biologici:
a) disinfezione: tale trattamento è necessario nel caso in cui sia richiesto il
rispetto di particolari standard microbiologici per il corpo idrico ricettore (uso
balneare, mitilicoltura).
b) rimozione di nutrienti (azoto e fosforo): nel caso di scarico in corpi idrici a
debole ricambio (laghi, serbatoi), la presenza di nutrienti nei reflui può
comportare il pericolo di fenomeni eutrofici; la loro rimozione è possibile con
trattamenti di tipo biologico (è questo normalmente il caso della rimozione
dell'azoto) e/o di tipo chimico/fisico (in genere adottati per la rimozione del
fosforo).

2.5 Trattamenti di affinamento

Tali trattamenti, talvolta indicati anch'essi come "terziari", oppure "di quarto
stadio" (per meglio differenziarli da questi), non sono di norma previsti negli usuali
cicli di depurazione; essi sono in genere finalizzati al miglioramento delle
caratteristiche di qualità del refluo, già depurato con trattamenti secondari (o
anche terziari), principalmente per ridurre ulteriormente il contenuto di solidi
ancora in essi presente (e quindi degli inquinanti, organici e non, a questi
connessi).

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I trattamenti adoperabili sono simili a quelli normalmente usati per le acque


di approvvigionamento e possono essere di tipo fisico (microstacciatura,
filtrazione) e fisico-chimico (chiariflocculazione, adsorbimento su carboni attivi).

3. LINEA FANGHI

I fanghi prodotti nella depurazione dei liquami sono dei liquidi con tenori
relativamente elevati di solidi in sospensione (qualche decina di gr/l), spesso
caratterizzati da elevata putrescibilità. Il loro smaltimento nell'ambiente naturale
presuppone pertanto trattamenti di stabilizzazione e disidratazione.

3.1 Ispessimento

Ha lo scopo di aumentare la concentrazione dei solidi nei fanghi; può


essere previsto a monte della fase di stabilizzazione (preispessimento), al fine di
ridurre le dimensioni di questa, ma con lo svantaggio di trattare fanghi non ancora
stabilizzati, oppure a valle (postispessimento), conseguendo così la riduzione dei
volumi avviati alla disidratazione, con fanghi già stabilizzati.

3.2 Stabilizzazione

In questo caso sono utilizzati processi generalmente biologici (non


mancano però esempi di uso di processi fisico-chimici).
I trattamenti utilizzati possono essere di tipo aerobico o anaerobico. La
stabilizzazione anaerobica comporta la produzione di biogas, avente elevato
contenuto energetico e quindi utilizzabile per la produzione di energia termica e/o
elettrica; la maggiore complessità impiantistica e gestionale giustifica però il
ricorso a tale tipo di trattamento solo per impianti di potenzialità medio-grande
(oltre 50.00 abitanti circa).

3.3 Disidratazione

In genere, lo smaltimento finale del fango richiede la diminuzione del suo


contenuto di acqua (umidità), al fine sia di renderlo paleggiabile (e quindi smaltibile
unitamente ai rifiuti solidi), sia di ridurne il volume da avviare al trasporto e allo
smaltimento.
A tale scopo, possono essere adoperati sistemi naturali (letti di
essiccamento), o meccanici (filtropresse, nastropresse, filtri a vuoto, centrifughe);
in questo secondo caso, occorre sottoporre preventivamente il fango a
"condizionamento", aggiungendo reagenti coagulanti, al fine di migliorarne la
filtrabilità.

3.4 Trattamenti termici

Quando sia necessario ridurre drasticamente il volume finale dei fanghi, è


possibile fare ricorso a trattamenti termici di essiccamento (fino a 105 °C) o
incenerimento (fino a 550 °C); in entrambi i casi, il fango può essere
preventivamente stabilizzato; gli elevati consumi di energia a ciò necessari fanno
limitare il ricorso a tali interventi.

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3.5 Smaltimento finale

La forma più comune di smaltimento dei fanghi è in discarica, unitamente ai


rifiuti solidi urbani (RU), a cui questi possono essere assimilati. Non mancano però
esempi di utilizzi agricoli del fango.

4. ALTERNATIVE NELLA SCELTA DEL CICLO DI TRATTAMENTO

In Fig.1 è riportato lo schema di un impianto di depurazione "completo", in


cui è previsto il trattamento anaerobico dei fanghi; tale schema, si è detto essere
adatto al caso di impianti di potenzialità medio-alta; si può in questo caso
dimostrare che risulta opportuno realizzare la sedimentazione primaria, in quanto i
solidi sedimentabili ivi separati hanno un'elevata putrescibilità, con produzione di
biogas complessivamente superiore, rispetto al caso in cui non si realizzi la
sedimentazione stessa.
Percontro, nel caso in cui si preferisca adottare la digestione aerobica dei
fanghi (è questo il caso degli impianti di potenzialità medio-bassa) risulta superfluo
prevedere pure la sedimentazione primaria, stante che i solidi sedimentabili
possono essere più semplicemente intercettati nella sedimentazione finale. Lo
schema d'impianto che ne deriva è riportato in Fig.2.

5. RENDIMENTI DEPURATIVI

Nella seguente tabella è riportato il rendimento di rimozione dei principali


inquinanti conseguibile coi trattamenti prima descritti (i rendimenti riportati in
tabella sono riferiti all'intero ciclo di depurazione spinto fino al trattamento
indicato):

ciclo di trattamento BOD SST nutrienti batteri


pretrattamenti 10 10 0 0
tratt. meccanici 30 60 10 30
tratt. biologici 90 90 30 90
tratt. di rimozione N e P 90 90 90 90
disinfezione 90 90 30 99

L'esame della tabella consente di osservare quanto segue:


a) nei pretrattamenti, la rimozione degli inquinanti è insignificante, con la sola
eccezione dei solidi grossolani, delle sabbie e degli oli e grassi;
b) la sedimentazione primaria rimuove i solidi in forma sedimentabile; ciò
corrisponde alla rimozione di circa 1/3 dell'inquinamento organico, espresso in
termini di BOD, e di circa 2/3 dei solidi sospesi; modesta è invece la rimozione
dei composti del fosforo e soprattutto dell'azoto, prevalentemente presenti in
forma disciolta; infine sono pure rimossi i microrganismi associati ai solidi
sedimentabili;
c) i trattamenti biologici consentono una buona rimozione della componente
organica biodegradabile; gran parte del BOD ancora presente nello scarico può
essere associato alla presenza di solidi organici in sospensione sfuggiti alla
sedimentazione finale, che non consentono comunque di scendere a BOD

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inferiori a 15-20 mg/l. La rimozione dell'azoto e del fosforo è limitata a quanto


utilizzato dalla popolazione batterica nei fenomeni di sintesi e quindi eliminato
con il fango di supero.
d) i trattamenti terziari consentono di rimuovere il fosforo fino a concentrazioni
residue di 1 mg/l (0,5 mg/l nel caso di post-precipitazione) e l'azoto fino a pochi
mg/l; essi comportano in genere anche un aumento di rendimento nella
rimozione dell'inquinamento organico.
e) la disinfezione è il solo trattamento che possa incidere sull'inquinamento
microbiologico.

6. SISTEMI DI FOGNATURA E SCARICATORI DI PIENA

Le caratteristiche delle acque reflue urbane, che pervengono all'impianto di


depurazione, dipendono fortemente dal tipo di rete fognaria a servizio del centro
servito; infatti è ad essa che pervengono le acque di origine domestica e
produttiva, nonchè quelle di origine meteorica. In effetti però, tali due tipi di acque
possono essere drenate da un'unica rete fognaria o da due reti separate; segue
quindi che differente saranno, nei due casi, le caratteristiche di quantità e qualità
dei reflui avviati alla depurazione.

6.1 Sistemi di fognatura

A seconda delle modalità di drenaggio delle acque reflue "nere"


(domestiche e produttive) e "bianche" (di origine meteorica), è possibile fare
distinzione fra:
a) fognature a "sistema unitario": in questo caso (Fig.3a) le portate nere e bianche
sono veicolate da un'unica rete fognaria; tuttavia, al fine di limitare la portata
avviata all'impianto di depurazione, viene realizzato in fognatura un manufatto
("scaricatore di piena") mediante il quale la portata totale in fognatura, in arrivo
allo scaricatore di piena, è avviata tutta alla depurazione, se essa è non
superiore a rQn; nel caso contrario, la portata in eccesso è scaricata
direttamente nel corpo ricettore, mentre quella avviata all'impianto di
trattamento risulta costante e pari al valore massimo assunto (rQn); Qn è la
portata media nera ed r, detto "rapporto di diluizione", è in genere compreso fra
3 e 5.
b) fognature a "sistema separato": in questo caso (Fig.3b), le acque nere e
bianche sono veicolate in due reti di fognatura indipendenti, per cui tutte le
portate nere sono avviate all'impianto di depurazione, mentre quelle bianche, in
tempo di pioggia, sono totalmente scaricate nel corpo ricettore.

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Fig.3 – Sistemi di fognatura: (a) unitario; (b) separato

La scelta del rapporto di diluizione non può prescindere dalla conoscenza e


dal rispetto delle condizioni di funzionamento dell'impianto di depurazione;
quest'ultimo infatti può garantire un sufficiente rendimento di depurazione solo se
le variazioni di portata e concentrazione nel liquame ad esso avviato risultano
contenute entro limiti ristretti.
In generale, per scarichi di origine urbana, che non presentano forti
variazioni di concentrazione, valori normalmente adottati per r sono 5, per la
portata avviata ai trattamenti meccanici, e 2, per quella avviata ai trattamenti
biologici.
Non va infine trascurato che il valore di r deve essere scelto sempre non
inferiore a quello del coefficiente di punta delle acque nere, ciò al fine di non
determinare lo sfioro in tempo secco di parte delle portate nere.

6.2 Scaricatori di piena

Lo scaricatore di piena è un particolare manufatto atto a ripartire la portata


in maniera tale da limitare la frazione avviata a uno dei due canali che si dipartono
da esso a valori non superiori a una prefissata quantità.
L'esigenza di partizione e contemporanea limitazione delle portate è usuale
nelle fognature a sistema "unitario", nelle quali cioè vengono veicolate in un unico
canale le acque bianche e nere; essa deriva in primo luogo dalla necessità di
contenere la variazione della portata avviata all'impianto di depurazione,
condizione questa in genere necessaria per garantire un elevato rendimento di
trattamento dell'impianto.

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In più, va osservato che è in genere superfluo sottoporre a trattamento i


reflui, qualora si sia superato un fissato rapporto di diluizione, ciò per via del
modesto carico inquinante contenuto dalle acque di pioggia (a meno di quelle
denominate "di prima pioggia", che sono di solito fortemente inquinate).
Si può fare distinzione fra:
- canale immissario (o collettore): è il canale a monte dello scaricatore,
convogliante una portata Qi, variabile nel tempo, fino al valore massimo Qimax
che si raggiunge in tempo di pioggia;
- canale derivatore: avvia all'impianto di trattamento una portata Qd non superiore
a un prefissato valore Qdmax, per la quale lo scaricatore viene progettato;
- canale emissario: avvia al recapito, in genere senza alcun trattamento, la
rimanente portata Qe, pari ovviamente alla differenza Qi-Qd.

Risulta in particolare:
Q d = r Qn

dove r è il rapporto di diluizione, prima definito, e Qn la portata media nera.


Pertanto il progetto dello scaricatore di piena deve rispettate le seguenti
condizioni:

se Qi <= Qdmax Qd = Qi ; Qe = 0 (1)

se Qi > Qdmax Qd = Qdmax ; Qe = Qi - Qd (2)

Le tipologie degli scaricatori di piena sono molteplici; la loro scelta dipende


fondamentalmente dallo schema planoaltimetrico della rete fognaria in cui essi
vanno inseriti (in particolare dal dislivello disponibile).

Nelle Figg. 4 e 5 sono riportati due dei principali esempi di scaricatori di


piena adoperabili all’interno delle reti fognarie e a monte degli impianti di
depurazione. In particolare, in Fig. 4 è riportato un esempio di "sfioratore laterale",
che richiede modesti dislivelli geodetici fra collettore e derivatore, per cui esso
risulta idoneo al caso in cui siano disponibili modesti dislivelli geodetici (è questo il
caso che si verifica usualmente subito a monte degli impianti di depurazione); in
Fig. 5 è invece riportato un esempio di scaricatore “a salto di fondo”, che invece
richiede la disponibilità di maggiori dislivelli geodetici tra collettore e derivatore, ma
percontro comporta minori ingombri rispetto al caso precedente (ciò ne rende più
frequente l’uso all’interno delle reti fognarie).

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Fig. 4 – Sfioratore laterale

Fig. 5 – Scaricatore a salto di fondo

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Cap.3

TRATTAMENTI MECCANICI

Vengono appresso descritti i principali trattamenti meccanici adoperati in un


impianto di depurazione per liquami urbani, della cui linea acque tali operazioni
unitarie costituiscono, tutte o in parte, le fasi preliminari; per completezza, nel
prf.2, dedicato alla stacciatura, viene pure descritta la microstacciatura, che va
tuttavia considerato come un trattamento di affinamento.
Infine, va osservato che gli stessi trattamenti vengono utilizzati nell'ambito
degli impianti di potabilizzazione delle acque di approvvigionamento, pur con le
dovute differenze, tanto nei metodi di calcolo, quanto nelle tipologie costruttive.

1. GRIGLIATURA

1.1 Generalità

La grigliatura costituisce un'operazione di filtrazione meccanica grossolana,


mediante la quale vengono trattenuti i solidi grossolani, aventi cioè dimensioni di
almeno alcuni mm.

In generale, la funzione principale di una griglia non è quella di rimuovere il


carico inquinante dei reflui, quanto piuttosto quella di proteggere i successivi
trattamenti, il cui regolare funzionamento può risultare compromesso da accumuli
od ostruzioni provocati da materiali di grosse dimensioni (specie dell'ordine del
cm). Essa va quindi sempre di regola prevista in testa agli impianti di depurazione;
può fare eccezione il caso di alcuni effluenti di origine industriale, per i quali la
composizione dei reflui e il sistema di convogliamento all'impianto siano tali da
escludere la presenza, anche accidentale, di solidi grossolani. Percontro, altri
reflui, derivanti da attività produttive di tipo agroalimentare o zootecnico,
contengono solidi grossolani in elevata concentrazione; su questi la grigliatura
consente di ottenere notevoli rendimenti depurativi.
Scopo secondario della griglia è pure quello di rimuovere parte del carico
inquinante dei reflui; in particolare, il materiale grigliato, che può avere natura
inerte o organica, va smaltito nel rispetto delle norme valide per i rifiuti solidi
urbani, a cui esso è assimilabile grazie al modesto contenuto d'acqua. Va
osservato che il materiale grigliato è in parte putrescibile e certamente infetto,
contenendo circa il 5 % della carica batterica del liquame grezzo a cui è sottratto.
Solo eccezionalmente la grigliatura viene ad assumere la fisionomia di un
vero e proprio trattamento; ne è un esempio il caso degli emissari degli scaricatori
di piena delle fognature a sistema unitario, in cui l'interposizione di una griglia a
monte dello scarico nel corpo ricettore può consentire la riduzione del carico
inquinante sversato nel corso degli eventi meteorici; tale beneficio può essere
notevolmente aumentato, disponendo a valle della griglia uno staccio, come
meglio sarà detto appresso.

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1.2 Classificazione e tipologie delle griglie

Le griglie sono costituite da una serie di sbarre, aventi sezione circolare o


più spesso rettangolare, eventualmente con spigoli arrotondati, con l'asse
maggiore disposto nella direzione della corrente.
La loro installazione nel canale di adduzione dei reflui consente quindi di
trattenere tutti i solidi la cui dimensione media risulti maggiore della luce libera tra
le sbarre.
E' possibile classificare le griglie in funzione della spaziatura fra le sbarre e
delle modalità di pulizia della griglia stessa.

In funzione della spaziatura, si può distinguere fra:


a) griglie grossolane: in questo caso la luce libera fra le sbarre è compresa tra 50
e 100 mm; il loro uso viene previsto a monte di una seconda griglia avente
spaziatura inferiore, allo scopo di proteggerla dai materiali di grandi dimensioni;
essa è quindi superflua nelle fognature in cui non si preveda la presenza di
materiali di tali dimensioni, come nel caso di fognature urbane prive di collettori
o emissari a cielo aperto;
b) griglie medie: in questo caso la spaziatura fra le sbarre è compresa tra 20 e 50
mm;
c) griglie fini (o sottili): la distanza tra le sbarre è compresa tra 10 e 20 mm; il limite
inferiore è dovuto alla necessità di evitare pericoli di frequenti ostruzioni, che
comporterebbero l'entrata in funzione del canale di by-pass della griglia
(descritto appresso), circostanza questa che vanifica l'utilità della griglia stessa,
o peggio la possibile tracimazione del canale fognario di monte; tale tipo di
griglia è sempre previsto in un impianto di depurazione di reflui urbani.

Invece, in funzione delle modalità di pulizia della griglia, può farsi distinzione
fra g. a pulizia manuale e g. a pulizia meccanica.

La griglia a pulizia manuale (Fig.1) consiste in una serie di sbarre, rettilinee


e parallele, a giacitura inclinata; periodicamente (di solito alcune volte al giorno e
comunque mai meno di due), il materiale da essa trattenuto viene rimosso
manualmente, grazie all'intervento di un operatore che manovra dal basso verso
l'alto un rastrello i cui denti si inseriscono tra le sbarre. Per non rendere eccessivo
lo sforzo fisico necessario a trascinare il grigliato fino alla sommità della griglia, è
opportuno che l'inclinazione delle sbarre non superi di molto i 30 gradi
sull'orizzontale; una pendenza di 45 gradi può al riguardo essere considerata
come un limite da non superarsi.
In corrispondenza della griglia, il canale deve avere una sezione
rettangolare, per consentire che il rastrello possa giungere fin sul fondo di esso.
Al fine di non determinare la necessità di interventi troppo frequenti per
l'operatore e di ridurre la probabilità di intasamenti incontrollati, difficilmente si fa
ricorso a griglie fini, nel caso di pulizia manuale; la spaziatura tra le sbarre
normalmente adoperata in questo caso è infatti compresa nell'intervallo 30-50 mm.
La perdita di carico determinata dalla griglia va progressivamente
aumentando col grado di occlusione della griglia stessa, man mano che il
materiale si accumula sulle sbarre. Ne deriva un corrispondente aumento del
rigurgito nel canale di monte, che si traduce in un sensibile innalzamento del pelo
libero, in misura che dipende dalla quantità di materiale trattenuto e dalla

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frequenza degli interventi di pulizia. Nel caso delle griglie a pulizia manuale, a
vantaggio di sicurezza è bene prevedere che tale rigurgito possa raggiungere
anche 40 cm; ciò giustifica la previsione, in fase di progetto del canale, di un
franco almeno pari a tale valore.
In parallelo alla griglia va comunque sempre previsto un canale di by-pass,
alimentabile mediante una soglia di sfioro praticata in fregio al canale in cui è
realizzata la griglia stessa (Fig.1). L'entrata in funzione del canale di by-pass può
avvenire in due differenti casi: nel primo, essa avviene in maniera automatica, a
causa dell'ostruzione della griglia, una volta che il rigurgito, determinato
dall'eccessivo intasamento della griglia, abbia raggiunto la quota della soglia
sfiorante: ciò ha il vantaggio di evitare esondazioni dell'intero canale o eccessivi
rigurgiti verso monte. Un secondo caso di utilizzazione del canale di by-pass è
quello in cui il gestore debba eseguire interventi di manutenzione sulla griglia e
quindi occorra metterla fuori esercizio; al fine di consentire tale circostanza, è
necessario prevedere delle paratoie a monte e a valle della griglia stessa.
La quota della soglia di sfioro può essere quindi stabilita a partire dal
massimo rigurgito prevedibile, in funzione delle modalità di pulizia della griglia, e
aggiungendo un franco di 10-20 cm.
Sulla soglia sfiorante viene sempre prevista una griglia grossolana,
realizzabile mediante sbarre verticali, con spaziatura di circa 10 cm; è in tal modo
possibile trattenere i solidi di maggiori dimensioni (Fig.1).

In definitiva, le griglie a pulizia manuale presentano una notevole semplicità


di installazione e di esercizio; tuttavia, la necessità della presenza di un operatore
addetto alla pulizia e i rischi di intasamenti derivanti da improvvisi variazioni della
composizione dei reflui oppure da distrazioni dell'operatore, ha progressivamente
ridotto il campo di applicazione di tale soluzione, limitandone l'uso agli impianti di
depurazione a servizio di piccole comunità, come nel caso della soluzione riportata
in Fig.2.

Le griglie a pulizia meccanica hanno oggi un vastissimo campo di


applicazione, essendo disponibili tipologie adatte a impianti di potenzialità piccola,
media e grande.
In tutti i casi la pulizia della griglia è assicurata da un braccio ad
azionamento motorizzato, collegato a uno o più pettini, che provvedono
automaticamente a trascinare il materiale grigliato in una canaletta di raccolta; la
frequenza della corsa del braccio è regolabile, potendo essere costante nel tempo
o variabile in funzione del grado di intasamento della griglia.
Le tipologie in questo caso utilizzabili sono due:
a) griglie piane: in questo caso le barre giacciono su un piano, verticale (Fig.3) o
inclinato (Fig.4), come per il caso delle griglie a pulizia manuale; la soluzione
verticale è meno frequente, a causa della possibilità che parte del materiale
grigliato ricada nel canale durante le operazioni di pulizia; nel secondo caso,
sono invece possibili inclinazioni delle sbarre sull'orizzontale anche fino a 80
gradi e quindi decisamente superiori al caso prima esaminato delle griglie a
pulizia manuale; la pulizia è ottenuta mediante uno o più pettini, generalmente
messi in movimento da una coppia di catene mosse da un motore elettrico; il
grigliato viene in tal modo trascinato verso la sommità della griglia ed è quindi
fatto cadere in una canaletta di raccolta;

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b) griglie ad arco: in questo caso la griglia è configurata a superficie cilindrica, con


asse orizzontale o verticale; nel primo caso (Fig.5), che è anche il più frequente,
le sbarre sono costituite da archi di circonferenza, tangenti al fondo del canale e
disposti in piani verticali; la pulizia della griglia è ottenuta con un braccio rotante
coassiale alla griglia, munito di uno o due pettini pulitori alle estremità del
braccio stesso; la soluzione con due bracci è preferibile perchè garantisce una
più uniforme pulizia della griglia; le griglie ad asse verticale (Fig.6) sono
costituite da archi di circonferenza giacenti su piani orizzontali, mentre il pettine
pulitore si muove di moto rotatorio attorno ad un asse anch'esso verticale; il
materiale trattenuto non viene pertanto sollevato al di sopra del canale, come
nei casi analizzati in precedenza, ma è sospinto lateralmente contro uno dei
bordi e qui sminuzzato a mezzo di un trituratore (dei trituratori si parlerà in
seguito).

Il funzionamento del pettine pulitore può essere automatizzato, o mediante


temporizzatori, o mediante dispositivi in grado di rilevare la differenza di livello che
viene a stabilirsi tra monte e valle della griglia (p.e. coppie di galleggianti o
misuratori di livello a ultrasuoni). Questo secondo metodo è il più affidabile, in
quanto garantisce la pulizia della griglia, ogni qualvolta si raggiunga un prefissato
valore della perdita di carico (e quindi dell'intasamento), di norma stabilito intorno
ai 10 cm. Con i comandi a tempo la frequenza degli interventi resta invece
svincolata dal grado di intasamento; per essere certi di non provocare rigurgiti
eccessivi è perciò necessario fissare intervalli di pulizia non troppi ampli (e
comunque da stabilire caso per caso sulla base dell'esperienza che si acquisisce
su ogni singolo impianto, tenuto conto delle caratteristiche dell'effluente).
I dispositivi a galleggiante hanno quindi il vantaggio di ridurre al minimo il
numero dei cicli di pulizia nel rispetto di una perdita di carico prefissata. Si osserva
comunque che la potenza installata per una griglia è modesta (generalmente non
supera 1 kW) e che quindi i consumi di energia restano trascurabili, anche se il
numero degli interventi viene stabilito con larghezza.
In via orientativa si può assumere che i dispositivi di pulizia vengono
mantenuti in movimento per circa il 10% del tempo in cui l'impianto è alimentato
(per liquami domestici circa 2 ore al giorno).
Va ancora osservato che, nel caso di modeste quantità del materiale
grigliato (p.e. nei piccoli impianti), l'asservimento dell'azionamento della griglia al
dislivello può determinare eccessivi tempi di permanenza del grigliato sulla griglia,
circostanza che può dare adito a fenomeni di setticità; la soluzione migliore è
ovviamente quella di accoppiare un comando a galleggiante con uno
temporizzato, regolando il tempo di intervento una volta apprezzato con sufficiente
accuratezza la quantità di grigliato.

Anche nel caso delle griglie a pulizia meccanica, è opportuno prevedere un


canale di by-pass; infatti è sempre possibile un intasamento della griglia, per
mancato funzionamento del braccio pulitore (p.e. in assenza di corrente elettrica)
e in ogni caso per consentire interventi sulle apparecchiature. Non mancano
esempi in cui siano previste più griglie funzionamenti in parallelo, tali da consentire
la messa fuori esercizio soltanto di alcune di esse; anche in questo caso però è
opportuno prevedere il canale di by-pass, nella poco probabile, ma non
impossibile circostanza che siano inattive tutte le griglie.

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1.3 Dimensionamento delle griglie

Il dimensionamento delle griglie comprende il calcolo della larghezza del


canale in cui va inserita la griglia e quello delle perdite di carico della corrente
idrica nel passaggio attraverso la griglia stessa.
In particolare, occorre assegnare una larghezza al canale, in
corrispondenza della griglia, superiore a quella del canale di monte, al fine di
limitare il rigurgito causato dalla griglia stessa.
Il calcolo di tale larghezza va ripetuto per le portate minime e massime di
alimentazione dell'impianto; in particolare, per la portata minima Qmin può essere
utilizzata quella media in tempo secco, mentre la portata massima Qmax risulta
pari alla massima in tempo secco, nel caso di fognature nere a sistema separato,
o alla massima in tempo di pioggia, nel caso di fognature a sistema unitario.
Nel calcolo va tenuto conto che la velocità della corrente attraverso le
sbarre non deve essere nè troppo bassa, al fine di evitare fenomeni di
sedimentazione subito a monte della griglia, nè troppo elevata, altrimenti
verrebbero trascinati attraverso la griglia i solidi che si vuole intercettare con
questa, il cui rendimento risulterebbe quindi notevolmente ridotto; l'intervallo 0,5-
1,2 m/s appare ottimale.
Il calcolo della larghezza del canale può essere eseguito ipotizzando in
prima approssimazione che nel canale di monte permangano condizioni di moto
uniforme; è così nota, per ogni regime di portata, l'altezza di moto uniforme nel
canale stesso.
Si può condurre il calcolo a partire dalla condizione di massima portata in
arrivo Qmax; fissando la velocità attraverso la griglia pari al valore massimo voluto
Vmax (1,2-1,5 m/s) e imponendo che l'altezza idrica nel canale attraverso la griglia
hmax sia pari a quella nel canale di monte, si ricava la larghezza "utile" del canale
stesso, cioè al netto dello spazio occupato dalle sbarre, mediante l'equazione di
continuità:

Qmax
L= (1)
Vmax × hmax

Fissati quindi lo spessore delle sbarre b e la spaziature s, si ricava il


numero delle spaziature Ns e quello delle sbarre Nb:

L
Ns = Nb = Ns + 1
s

e infine la larghezza effettiva del canale Ltot, in corrispondenza della griglia:

L tot = L + Nb × b

E' da notare che i valori di b ed s vanno scelti consultando i cataloghi delle


Ditte produttrici delle griglie, nell'usuale caso in cui si voglia utilizzare
un'apparecchiatura già disponibile nel mercato.
Man mano che procede l'intasamento della griglia, il rigurgito da questa
provocato determina il progressivo innalzamento del pelo libero a monte e quindi
una diminuzione della velocità nel canale di adduzione: cresce quindi il rischio di
depositi e sedimenti nella zona a monte della griglia. Occorre quindi verificare che

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la velocità minima Vmin nel canale in cui è posta la griglia, subito a monte di
questa, non risulti inferiore a 0,50 m/s, nel caso di fognature miste (ove sono
presenti le sabbie), e a 0,30 m/s, nel caso di fognature nere di reti a sistema
separato.
Il valore di Vmin può ricavarsi a partire dalla portata minima Qmin e
dell'altezza di moto uniforme hmin:

Qmin
Vmin =
L tot × hmin

Come detto, tale valore deve essere superiore a quello minimo voluto per la
velocità (0,3-0,5 m/s); qualora non lo fosse, occorre restringere la larghezza del
canale, ripetendo il calcolo a partire dall'espressione (1), utilizzando un valore di
Vmax superiore a quello di primo tentativo.
Qualora non si riesca a rispettare la velocità minima a monte della griglia,
occorre almeno assicurare che per le condizioni di massima portata nera venga
raggiunta, nel tratto di canale subito a monte della griglia, una velocità non
inferiore a 0,70 m/s, in modo che, almeno una volta al giorno si abbia il
trascinamento del materiale sedimentato in condizioni di magra. Tale
trascinamento può essere favorito dall'aumento della pendenza del fondo del
canale, immediatamente a monte della griglia.

La perdita di carico attraverso la griglia può essere calcolata con la formula


di Kirschmer, valida per griglie piane e per condizioni di griglia pulita:

4
⎛b⎞ 3 V2
ΔH = K ⎜ ⎟ senα
⎝s⎠ 2g

ove b ed s sono lo spessore e la spaziatura delle sbarre, V è la velocità della


corrente attraverso la griglia, α l'inclinazione della griglia sull'orizzontale, g
l'accelerazione di gravità e K un coefficiente adimensionale che tiene conto della
forma della sezione delle sbarre; esso vale:
2,42 per sezioni rettangolari a spigoli netti
1,83 per sezioni rettangolari arrotondati a monte
1,79 per sezioni circolari
1,67 per sezioni rettangolari arrotondate a monte ed a valle.

A griglia pulita, che come detto è la situazione alla quale l'espressione si


riferisce, si ottengono valori delle perdite di carico contenuti entro pochi cm; tale
perdite vanno ovviamente aumentando man mano che procede l'intasamento della
griglia; al fine di limitarne il valore entro poche decine di cm, occorre garantire una
frequente pulizia della griglia, con intervento manuale o, meglio, meccanico.
Nel tracciare il profilo idraulico dell'impianto nelle condizioni più gravose,
non è corretto riferirsi ai valori ottenuti con formula di Kirschmer prima riportata, in
quanto in realtà si avranno i valori massimi determinati dalle condizioni di pulizia
della griglia. Le perdite di carico vanno quindi valutate in funzione della
presumibile frequenza delle operazioni di pulizia.
Per griglie a pulizia manuale, è bene assumere prudenzialmente valori non
inferiori a 0,40 m. Nel caso di griglie a pulizia meccanica la massima perdita di

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carico è assai più contenuta, data la maggior frequenza degli interventi del pettine
pulitore, che, si è visto, entra in funzione già per dislivelli attraverso la griglia
dell'ordine di 10 cm.
Al fine di limitare o perfino evitare il sopraelevamento del livello idrico a
monte della griglia, dovuto alla perdita di carico causata dalla sua progressiva
occlusione, può essere previsto, sul fondo del canale e in corrispondenza della
sezione in cui è istallata la griglia, un gradino di altezza pari a tale perdita.
Peraltro, tale gradino, seppure di modesta altezza (circa 0,1 m) è spesso
necessario per un corretto montaggio del telaio della griglia (Figg.3 e 5).

1.4 Quantità di materiale grigliato

La quantità del materiale trattenuto da una griglia dipende, oltre che dalla
natura del refluo, anche dalla spaziatura tra le sbarre e dalle modalità di pulizia.
Infatti, nel caso delle griglie manuali la minore frequenza degli interventi di
rimozione favorisce i fenomeni di trascinamento a valle; in pratica, ciò determina, a
parità di altre condizioni, la raccolta di una minore quantità di materiale grigliato.
Mentre per i reflui di origine industriale non è possibile fornire delle
indicazioni di carattere generale, invece per quelli urbani, di natura
prevalentemente domestica, si hanno volumi di alcuni litri per abitante all'anno,
secondo le indicazioni della Tab.1.
Sensibili scostamenti da tali valori possono determinarsi per situazioni locali
particolari: ad esempio l'esistenza di tratti scoperti nelle canalizzazioni causa
sempre un aumento di solidi grossolani per effetto dello sversamento abusivo di
materiali solidi. Inoltre, per fognature separate i valori della Tab.1 possono essere
ridotti; infatti un notevole contributo al trascinamento in fognatura dei materiali di
grosse dimensioni (rami, foglie, etc.) è dato dalle acque di pioggia. Ancora,
soprattutto nelle fognature unitarie, i quantitativi giornalmente raccolti possono
scostarsi anche di molto dalle medie annuali, con punte durante le piogge intense
e nella stagione autunnale, quando diventa sensibile la presenza delle foglie.

spaziatura tra pulizia manuale pulizia meccanica


le sbarre [mm] [l/ab x anno] [l/ab x anno]

16 5,0 6,0
20 4,0 5,0
25 3,0 3,5
30 2,5 3,0
40 2,0 2,5
50 1,5 2,0

Tab.1 - Quantità di materiale trattenuto dalle griglie nel caso di


fognature urbane a sistema unitario

Dopo gocciolamento, il materiale trattenuto dalle griglie (sempre nel caso di


reflui di origine domestica) ha un peso specifico di 0,7-0,9 kg/l, un'umidità
prossima all'80% e caratteristiche analoghe a quelle di un rifiuto solido di
provenienza urbana, a cui esso può essere assimilato. Occorre valutare però che,

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rispetto a quest'ultimo, esso può presentare una maggiore putrescibilità, dovuta


alla presenza di materiale fecale (tanto maggiore, quanto più piccola è la
spaziatura tra le sbarre).
E' quindi necessario procedere al suo allontanamento con buona frequenza
(quotidianamente o al massimo ogni due giorni).

1.5 Trituratori

Una soluzione alternativa alla raccolta e al successivo smaltimento del


grigliato consiste nell'adozione dei trituratori (comminutor). Si tratta di macchine
capaci di sminuzzare i materiali trattenuti fino a dimensioni in genere attorno ai 5
mm. In tal modo essi possono essere nuovamente inseriti nella corrente di
liquame, a valle della griglia stessa, e pervenire alle successive fasi di trattamento,
senza che si determinino gli inconvenienti collegati alla presenza di solidi
grossolani e senza che si crei un problema di smaltimento di rifiuti solidi.
Il recupero del materiale grigliato così triturato avverrà più a valle,
congiuntamente ai rimanenti solidi sedimentabili, nel sedimentatore primario,
oppure, in assenza di questo, nel sedimentatore finale.
Due esempi di trituratore sono rappresentati in Figg.7 e 8. In entrambi i
casi, si tratta di un cilindro rotante ad asse verticale provvisto di feritoie, installato
direttamente sul canale di alimentazione dell'impianto, subito dopo la griglia
grossolana. Il refluo in arrivo penetra all'interno del cilindro attraverso le feritoie e
viene quindi allontanato in direzione parallela od ortogonale a quella della corrente
in alimentazione. Il materiale grossolano di dimensioni maggiori a quelle delle
feritoie è invece trattenuto sulla superficie esterna del cilindro e, per effetto della
sua rotazione, viene trascinato contro un pettine fisso costituito da elementi
taglienti che operano lo sminuzzamento.

Una soluzione alternativa è quella in cui il trituratore non sostituisce la


griglia, ma si accoppia ad essa con la funzione di sminuzzare quanto trattenuto
sulle sbarre. Ne è un esempio l'installazione riportata in Fig.6, in cui il trituratore è
posto lateralmente alla griglia; il materiale grossolano viene raccolto dal pettine di
pulizia della griglia e quindi sospinto sul trituratore; il grigliato, una volta triturato, è
reimmesso nel canale a monte della griglia, dalla quale non viene più intercettato,
se è stato sminuzzato alle dimensioni volute.

I principali vantaggi e svantaggi offerti dai trituratori sono così riassumibili:


a) è risolto il problema dello smaltimento del materiale grossolano che, dopo
essere stato sminuzzato, viene inviato alle successive fasi di trattamento per
essere separato assieme ai fanghi, generalmente nel sedimentatore primario;
solo le parti pesanti, quali bulloni, pietre, etc., sfuggono alla triturazione e
devono essere periodicamente allontanati; si tratta però di volumi molto ridotti,
senza problemi di putrescibilità;
b) va tenuto in conto l'impegno di potenza e il conseguente consumo di energia;
per un funzionamento in continuo, la potenza impegnata va da 0,5 kW (con
portate di calcolo dell'ordine dei 10 l/s) a 3 kW (con portate di calcolo dell'ordine
del m3/s); nel caso invece di trituratori abbinati ad una griglia, il funzionamento
è discontinuo, in quanto accoppiato a quello del pettine pulitore;
c) sorgono dei problemi non trascurabili di manutenzione e, conseguentemente, di
continuità di funzionamento; sono infatti necessarie frequenti revisioni e

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sostituzioni delle parti soggette a usura; poichè l'arresto del trituratore


compromette l'operazione di grigliatura, come nei casi di Figg. 7 e 8, o per
trituratori abbinati a griglie a superficie cilindrica ad asse verticale (Fig.6), è
indispensabile prevedere un canale di by-pass con una griglia a pulizia
manuale, da utilizzare nei periodi di emergenza.

1.6 Criteri di scelta delle griglie

Sul mercato esistono numerosi tipi di griglie le cui caratteristiche, anche per
quanto riguarda gli schemi di installazione, possono essere ricavate dai cataloghi
dei costruttori. E' bene però fissare alcuni criteri di base da tenere presenti nella
scelta.
L'uso delle griglie a pulizia manuale resta limitato ai piccoli impianti (poche
migliaia di abitanti equivalenti ed anche meno), in cui sia modesta la quantità di
materiale grossolano da rimuovere e possa essere utile ridurre al minimo le
apparecchiature elettromeccaniche nell'impianto.
Tuttavia, anche in questi casi, la tendenza moderna è per il ricorso a griglie
meccanizzate, per la possibilità di ridurre gli oneri derivanti dalla presenza di
operatori, di cui in questo caso non è necessaria una presenza continua, ma
limitata a un controllo di poche ore al giorno.
La griglia a pulizia manuale è in ogni caso da evitare quando si abbia
motivo di temere una presenza particolarmente elevata di materiale grossolano,
per reflui di origine industriale, o anche di origine domestica, ma veicolati da
emissari aperti.
E' inoltre sempre opportuno ricorrere a griglie a pulizia meccanica quando
la quota di arrivo della fognatura sia notevolmente al di sotto del piano di
campagna; ciò sia per evitare un'operazione di pulizia non agevole, che
inevitabilmente sarebbe trascurata dall'operatore, sia per poter disporre la griglia
in posizione prossima alla verticale, in modo da ridurre le dimensioni ed il costo
dell'unità di grigliatura.

Nella scelta tra i vari tipi di griglia a pulizia meccanica occorre tener conto:
a) della potenzialità dell'impianto: negli impianti di piccola e media potenzialità
(cioè fino a poche decine di migliaia di abitanti equivalenti) per installazioni in
superficie risultano spesso convenienti le griglie curve (in particolare quelle ad
asse orizzontale); a parità di larghezza del canale, la superficie utile della griglia
è allora maggiore e il movimento dei dispositivi di pulizia è più semplice; nei
grossi impianti è invece sempre opportuna l'installazione di griglie piane, che
hanno un ingombro in pianta decisamente inferiore;
b) della profondità di installazione: è sempre bene che il materiale raccolto possa
essere allontanato senza che si richieda un intervento manuale per il
sollevamento fino al piano di campagna; da questo punto di vista, le griglie
curve risultano sfavorite nei confronti di alcuni tipi di griglie piane, nelle quali il
pettine può sospingere il grigliato anche di alcuni metri al di sopra del pelo
libero.

L'opportunità di installare sistemi di triturazione va valutata in relazione alle


possibilità di smaltimento del grigliato. Quando l'impianto può essere raggiunto dai
mezzi del servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti solidi urbani, la soluzione
migliore sta nell'allontanare il grigliato come rifiuto solido.

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Solo per impianti isolati o comunque difficilmente accessibili, l'installazione


di un trituratore può risultare conveniente per risolvere i problemi di smaltimento.
Tuttavia, sono da tener in conto non trascurabili problemi di manutenzione
del trituratore e, in certi casi, di conduzione delle fasi successive di depurazione.
Ad esempio, l'accumulo di materiale triturato, di dimensioni ancora considerevoli e
spesso di lenta biodegradabilità, può contribuire ai problemi di formazione del
cappello nei digestori anaerobici.

Fig.1 - Griglia a pulizia manuale con canale di by-pass

Fig.2 - Griglia a pulizia manuale per piccole comunità:


Legenda: 1) griglia; 2) vaschetta di raccolta del grigliato; 3) griglia
orizzontale rimovibile; 4) luce a stramazzo; 5) scarico materiale
grigliato (da Masotti, doc. Adams-Hydraulics)

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Fig.3 - Griglia piana verticale a pulizia meccanica (doc. Siderpol)

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Fig.4 - Griglia piana inclinata a pulizia meccanica (doc. Siderpol)

Fig.5 - Griglia ad arco ad asse orizzontale (a pulizia meccanica)


(doc. Siderpol) (segue)

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Fig.5 - Griglia ad arco ad asse orizzontale (a pulizia meccanica)


(doc. Siderpol)

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Fig.6 - Griglia ad arco ad asse verticale con rototrituratore (a pulizia meccanica) (doc.
Passavant)

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Fig.7 - Rototrituratore con scarico verticale (doc. Siderpol)

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Fig.8 - Rototrituratore con scarico in linea (doc. Siderpol)

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2. STACCIATURA

2.1 Generalità

Il principio di funzionamento degli stacci è concettualmente analogo a quello


delle griglie; tuttavia i primi presentano aperture di passaggio di minori dimensioni
(dell'ordine del mm), rispetto alle seconde, consentendo così di trattenere solidi
sospesi di dimensioni anche notevolmente inferiori; in tal senso la funzione di uno
staccio può essere considerata alternativa a quella di un sedimentatore primario,
anche se in genere il rendimento di rimozione dei solidi sospesi è inferiore rispetto
a quello garantito da quest'ultimo.
Quando l'effetto di stacciatura viene eseguito nei confronti dei solidi di
dimensioni dell'ordine del μm, si suole parlare di microstacciatura; essa è eseguita
con apparecchiature simili agli stacci, anche se il campo di utilizzazione è
differente (trattamenti di affinamento, impianti di potabilizzazione).

2.2 Stacci

La stacciatura consiste nella rimozione meccanica di materiali sospesi


mediante l'uso di tele filtranti, generalmente metalliche, costituite cioè in filo di
bronzo o di acciaio inossidabile.
Fra le numerose soluzioni impiantistiche adottabili, meritano di essere citati
gli stacci a tazza e quelli a tamburo; in entrambi le tele sono montate su un cilindro
rotante; cambia però, nei due casi, il verso di attraversamento delle tele da parte
del refluo e il sistema di pulizia di queste.
Negli stacci a tazza (Fig.1) il refluo ha una direzione d'ingresso coassiale al
cilindro, da cui esso fuoriesce attraversando la tela filtrante; così i solidi intercettati
aderiscono alla superficie interna del cilindro, da cui sono staccati grazie a getti
d'acqua (o dello stesso refluo trattato), che li fanno cadere in una canaletta posta
pure all'interno del cilindro, in prossimità della sua generatrice più alta, da cui i
solidi stessi vengono allontanati per gravità.
Invece negli stacci a tamburo l'asse del cilindro su cui sono montate le tele
è ortogonale a quello della corrente, che ne attraversa la superficie e fuoriesce o
attraverso una delle facce laterali del cilindro (Fig.2), oppure riattraversando la
parte inferiore della superficie filtrante (Fig.3). I solidi di dimensione superiori a
quelle utili delle maglie sono trattenuti sulla superficie esterna del tamburo; la
pulizia della tela filtrante può allora avvenire in maniera automatica, senza bisogno
di apporto di acqua di lavaggio, come nel caso degli stacci a tazza.
Nell'impianto di Fig.2, i solidi sono trascinati verso il fondo del canale per
effetto del moto rotatorio del cilindro, da cui essi si staccano nel semiperiodo di
risalita sulla superficie stessa; così essi sedimentano sul fondo a tramoggia della
vasca, da cui vengono allontanati mediante un elevatore a tazza (oppure un
idroeiettore). Invece, nel caso rappresentato in Fig.3 i solidi accumulati sulla
superficie esterna del cilindro sono rimossi da una lama raschiatrice, che ne
determina la caduta in una tramoggia a secco.
Non mancano comunque altre soluzioni costruttive, quali dischi rotanti,
tamburi verticali e vibrostacci.

Le prestazioni degli stacci dipendono soprattutto dalla luce delle maglie di


cui sono costituiti i teli. Per definirla, si adotta il termine mesh, di origine

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anglosassone, che indica il numero di maglie per pollice della tela. Ad esempio,
uno staccio da 40 mesh, presenta 40 maglie su una lunghezza di 25,4 mm.
Questa indicazione non consente però il calcolo esatto della dimensione utile della
maglia, salvo che non sia noto il diametro del filo che costituisce la tela;
nell'esempio precedente, l'apertura utile è infatti di 0,63 mm, meno il diametro del
filo. In teoria tale diametro dovrebbe essere fissato, in funzione della luce di
maglia, esistendo al riguardo delle norme di unificazione UNI che in pratica però
non sempre vengono seguite dai costruttori, che talvolta si rifanno ad analoghe
norme straniere (DIN tedesche, Standard americane, etc.).
Qualsiasi costruttore è comunque in grado di fornire per le proprie serie
commerciali le indicazioni necessarie; in Tab.1 ne è riportato un esempio.
Per il trattamento primario, le luci di maglia più frequentemente utilizzate
sono comprese tra 0,3 e 3 mm. La velocità effettiva attraverso le maglie è
dell'ordine di 0,35-0,40 m/s; la perdita di carico attorno a 20-30 cm.
Il campo di applicazione della stacciatura è limitato, dato che la sua
funzione può in genere essere svolta, peraltro con risultati migliori, da una vasca
di sedimentazione; percontro, non va trascurato il maggior ingombro di
quest'ultima unità, a parità di rendimento di rimozione dei solidi.

luce di luce di luce di


mesh maglia a mesh maglia a mesh maglia a
[μ] [μ] [μ]

6 3.327 0.57 35 417 0.40 120 120 0.31


8 2.362 0.52 40 380 0.36 130 115 0.31
10 1.651 0.46 45 351 0.34 140 109 0.35
12 1.397 0.52 50 280 0.28 150 104 0.37
14 1.168 0.51 60 246 0.21 160 96 0.36
16 991 0.53 70 190 0.23 170 88 0.35
20 833 0.44 80 175 0.31 180 82 0.35
24 701 0.47 90 159 0.25 200 74 0.34
28 589 0.40 100 147 0.30
30 495 0.37 115 124 0.30

Tab.1 - Corrispondenza tra mesh, luce di maglia (in μm) e rapporto tra superficie dei passaggi e
superficie totale (a) per una serie commerciale di stacci (Catalogo Green Bay Foundry
and Machine Works).

Un particolare impiego degli stacci è quello per il trattamento delle acque di


pioggia avviate ai corpi ricettori attraverso gli scaricatori di piena, al fine di limitare
il carico di inquinanti contenuto dalle acque stesse (in particolare i solidi grossolani
e quelli sospesi sedimentabili). Gli stacci utilizzati in questi casi hanno una luce di
maglia considerevole, dell'ordine cioè di 3 mm.
Come accennato, i rendimenti di depurazione ottenibili con gli stacci sono
inferiori a quelli di un sedimentatore; valori usuali sono 5-10 % per il BOD, 10 %
per i solidi sospesi, 10 % per la concentrazione batterica; rendimenti superiori
possono tuttavia ricavarsi utilizzando tele con luci di maglia inferiori al mm.

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Il materiale trattenuto da uno staccio in una fognatura domestica può


valutarsi pari a 15-25 l/ab x anno. Il contenuto di sostanza secca è compreso tra il
10 ed il 15%.

In campo industriale, la stacciatura può convenientemente sostituire la


sedimentazione, nel caso di scarichi discontinui e rapidamente biodegradabili.
L'uso del sedimentatore può infatti determinare l'instaurarsi di condizioni settiche,
a causa dei lunghi tempi di detenzione che vengono a prodursi tra uno scarico e
l'altro.
Si hanno esempi di applicazione degli stacci nelle industrie conserviere,
casearie, tessili e siderurgiche. Un caso tipico di applicazione si ha nei macelli (per
rimuovere il cibo non digerito estratto dagli animali) e negli allevamenti suinicoli
(per rimuovere la crusca).
Un pretrattamento condotto per stacciatura (in sostituzione quindi della
sedimentazione primaria) rende difficilmente proponibile un processo biologico
mediante letti percolatori con riempimento naturale (in pietrisco), per i quali la
rilevante frazione di solidi sospesi sfuggiti attraverso le maglie dello staccio può
determinare rischi di intasamento.

Per regolarità di esercizio, gli stacci vanno sempre fatti precedere da una
griglia media che trattenga le parti più grossolane.

2.3 Microstacci

La microstacciatura si ottiene in modo analogo a quello descritto per la


stacciatura, con la differenza però di fare uso di tele aventi luci di maglia inferiori ai
100 μ.
Il processo è comunque lo stesso e le installazioni utilizzate sono analoghe
a quelle descritte nel precedente paragrafo.
I campi di utilizzazione dei microstacci sono fondamentalmente due. Nella
depurazione delle acque di rifiuto, essi trovano applicazione come trattamento di
affinamento, generalmente a valle di un processo biologico a fanghi attivi o di
flocculazione chimica; è in tal modo possibile ottenere un effluente di
caratteristiche elevate, eliminando i fiocchi di più piccole dimensioni sfuggiti alla
sedimentazione finale. Si può in tal modo scendere a concentrazioni di solidi
sospesi dell'ordine di 6-10 mg/l partendo da valori iniziali di 20-25 mg/l,
conseguibili dopo un trattamento biologico ben condotto.
Ulteriore applicazione dei microstacci si ha nel trattamento delle acque di
approvvigionamento: in tal caso essi sono utilizzati per la rimozione dei solidi
sospesi (in particolare le biomasse algali presenti nelle acque superficiali di origine
lacustre) e istallati in genere in testa all'impianto di potabilizzazione, subito a valle
della grigliatura.

Nelle applicazioni di affinamento delle acque di rifiuto, le tele utilizzate nei


microstacci sono di materiale sintetico, tessuto non tessuto o, meno di frequente,
metallico; esse hanno luci di maglia in genere comprese tra 20 e 60 μm. Nella
tipologia rappresentata in Fig.1, la quantità di acqua di lavaggio, per la rimozione
del materiale intercettato, è pari a circa il 5% dell'effluente trattato; il carico
idraulico è dell'ordine di 6-25 m3/m2 x ora, da calcolarsi sulla base della superficie
immersa dello staccio.

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Nella conduzione, problemi possono derivare per la presenza di grassi nello


scarico, che possono determinare l'occlusione delle maglie, e da aumenti del
contenuto di solidi sospesi in ingresso. Ciò comporta infatti delle variazioni del
regime idraulico connesso alle maggiori perdite di carico, con conseguente
diminuzione della portata che può essere trattata. Per rimediare a tale irregolarità
è stato proposto da alcuni costruttori di aumentare la velocità di rotazione del
tamburo e la pressione dell'acqua di lavaggio quando la perdita di carico
raggiunga dei valori prestabiliti.

Fig.1 - Staccio a tazza (da De Martino, doc. Passavant)

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Fig.2 - Staccio a tamburo con tramoggia a umido

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Fig.3 - Staccio a tamburo con tramoggia a secco (doc. Passavant)

3. DISSABBIATURA

3.1 Generalità

Il liquame che giunge all'impianto di depurazione è carico, oltre che di


sostanze solide organiche putrescibili, anche di materiali più pesanti, inerti
(sabbie), o quasi inerti (gusci di uovo, polvere di caffè, semi, pezzi di legno,
noccioli, etc.); questi, qualora siano presenti in elevate concentrazioni, devono
essere rimossi, al fine di evitare problemi nelle successive unità di trattamento,
come, in particolare, l'abrasione delle parti mobili delle apparecchiature
meccaniche e l'intasamento di condotte e canali.

Una specifica operazione unitaria di dissabbiamento è necessaria solo negli


impianti a servizio di fognature a sistema unitario; infatti, nel caso delle fognature
nere a sistema separato, è limitata la quantità di materiali inerti presenti nei reflui e
tale da non giustificarne la rimozione in un'unità specifica; fanno eccezione i casi
in cui siano utilizzati i tritarifiuti ad uso domestico, che tuttavia non trovano
applicazione in Italia.

Lo scopo dei dissabbiatori è quindi quello di consentire la sedimentazione di


tutti i materiali inerti di diametro superiore a certi valori, che la pratica indica in 0,2

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- 0,5 mm, e, nello stesso tempo, contenere entro limiti quanto più modesti possibili
l'entità delle sostanze organiche che inevitabilmente decantano assieme a questi.
In effetti il problema non è di facile soluzione, per cui è praticamente
impossibile ottenere che dalla sedimentazione sia esclusa tutta la sostanza
organica, anche perchè questa, per sua stessa natura, facilmente aderisce ai
materiali inerti.
Va ricordato che la presenza di materiale organico, in uno con quello inerte,
nei solidi rimossi nelle unità di dissabbiatura (normalmente indicate col generico
termine di sabbie) rappresenta un problema in quanto questi non vengono
sottoposti a un trattamento di stabilizzazione, come invece accade per i fanghi di
supero delle unità di sedimentazione, ma sono avviati direttamente allo
smaltimento assieme ai rifiuti solidi di origine urbana; ciò evidentemente può
comportare pericoli di setticità delle sabbie stesse, tanto nella fase di accumulo
presso l'impianto di depurazione, quanto nella fase di smaltimento. Un
accorgimento adottabile per limitare la presenza di sostanze organiche nelle
sabbie consiste nel lavaggio di queste in vasche appositamente concepite, nelle
quali la frazione organica viene rimossa e riavviata nella linea acque dell'impianto;
la tipologia di tali vasche sarà ripresa appresso.
In ogni caso, un corretto dimensionamento del dissabbiatore, secondo i
criteri che verranno appresso descritti, limita i problemi sin qui accennati.

Le tipologie più comunemente adoperate in un impianto di depurazione


sono distinguibili in unità funzionanti a velocità costanti, quale il dissabbiatore a
canale, e unità a livello costante, quali il dissabbiatore centrifugo e quello aerato.
Il dissabbiatore a canale costituisce la soluzione più tradizionale; esso è
costituito essenzialmente da una o più vasche a flusso orizzontale, inserite in serie
nell'emissario, a valle della grigliatura.
Tale tipologia offre numerosi vantaggi, tra i quali il sicuro funzionamento
derivante dalla possibilità di fare totalmente a meno di organi meccanici e le
modeste perdite di carico cui dà luogo; non va poi trascurata la facilità con cui se
ne può all'occorrenza migliorare il funzionamento, bastando modificare la forma
della strozzatura (cioè del modellatore a risalto) che, come vedremo, occorre
sempre disporre alla fine del dissabbiatore, per poter variare opportunamente i
valori dei tiranti idrici, e quindi della velocità media della corrente nella vasca.
Percontro, il maggiore difetto del dissabbiatore a canale è quello di
raggiungere dimensioni longitudinali spesso troppo elevate, nel caso esso venga
utilizzato a servizio di impianti di potenzialità medio-grandi.
E' questa la principale ragione del ricorso ad altri tipi di dissabbiatori, quali
quelli centrifughi o quelli aerati, entrambi appresso descritti; dissabbiatori siffatti
presentano però l'inconveniente di funzionare per lo più a livello invariabile, sicchè,
se non vi è una disconnessione idraulica tra l'emissario e l'impianto di
depurazione, possono verificarsi, in corrispondenza delle portate minori, rigurgiti
nell'ultimo tronco dell'emissario, con conseguente sedimentazione di parte delle
solidi trasportati dal liquame. Per questo stesso motivo, sempre per le più piccole
portate, i quantitativi di materia organica putrescibile che, come già si è accennato,
si depositano nelle vasche di dissabbiamento assieme alle sostanze inerti,
possono assumere proporzioni rilevanti, il che rende necessario il preventivo
lavaggio dei materiali sedimentati prima che vengano inviati allo scarico.
3.2 Dissabbiatori a canale

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Come detto, il dissabbiatore a canale consta di una o più vasche, costituite


da un tronco di canale prismatico avente sezione trasversale di forma
normalmente trapezia, rettangolare o più complessa, lungo da 15 a 20 volte la
profondità della corrente, raccordato opportunamente a monte all'emissario e a
valle al canale che adduce il liquame alle altre unità dell'impianto (Fig.1).
Il fondo delle vasche ha forma a tramoggia, al fine di consentire l'accumulo
dei materiali sedimentati, che vengono poi rimossi manualmente, con semplice
paleggio o con getti d'acqua che spingono i materiali in canaletti trasversali dai
quali essi vengono convogliati in pozzetti di raccolta laterali e quindi rimossi e
mandati allo scarico; in impianti di potenzialità maggiori, la rimozione delle sabbie
può avvenire a mezzo di apparecchiature meccaniche (Fig.2).
Negli impianti con pulizia a mano, il dissabbiatore deve essere costituito per
lo meno da due vasche in parallelo, in maniera da consentire il funzionamento di
un'unità, quando si effettui la pulizia della seconda, cosicchè il dissabbiamento del
liquame non venga mai interrotto.

3.2.1 Criteri generali di dimensionamento

Il dimensionamento dei dissabbiatori a canale dovrebbe essere effettuato in


base alle leggi che regolano il meccanismo della sedimentazione.
Ciò richiederebbe la preventiva conoscenza della quantità e della qualità dei
materiali da far sedimentare: dati questi che non sono valutabili nella pratica,
variando molto da caso a caso in dipendenza di numerosi fattori, tra i quali il tipo di
pavimentazione delle strade cittadine, la densità di popolazione, le condizioni
climatiche, il tipo e il numero di industrie che scaricano nella fognatura cittadina, il
senso civico delle popolazioni, etc.
Non è difficile rendersi conto ad esempio che la concentrazione dei solidi
assuma i valori maggiori nei paesi che sorgono in zone ventose o soggette a
violenti nubifragi, oppure in climi molto rigidi, essendo in tal caso necessario
procedere frequentemente alla sabbiatura delle strade ghiacciate; o, infine, in quei
paesi in cui parte della rete stradale non sia pavimentata.
Di fronte a tali incertezze, si preferisce procedere al proporzionamento delle
vasche di dissabbiamento facendo uso di risultati di natura empirica, ricavati
dall'esperienza maturati in impianti già realizzati e in esercizio da tempo. In
particolare, il dimensionamento del dissabbiatore a canale viene eseguito con lo
scopo di garantire in esso una velocità costante, al variare della portata di
alimentazione; l'esperienza maturata soprattutto in U.S.A. e in Germania ha
evidenziato che, con velocità comprese tra 0,20-0,30 m/s, risultano minimi i
quantitativi di materiale organico che decantano nel dissabbiatore e di materiale
inerte che passa a valle nelle altre unità dell'impianto.
In sede di progetto, tale intervallo di velocità si modifica notevolmente
perchè, come già si è accennato, a seconda del grado di interrimento della
tramoggia, una stessa portata può defluire nel dissabbiatore con velocità differenti:
è evidente infatti che nei momenti in cui la vasca è completamente spurgata, l'area
della sezione trasversale della corrente è la massima possibile e la corrispondente
velocità la minima; accade naturalmente il contrario quando nella vasca si siano
accumulati forti quantitativi di sabbie.
Ne discende che, per ottenere che durante l'esercizio la velocità del
liquame nel dissabbiatore risulti effettivamente sempre contenuta nei limiti
precisati, occorre dimensionare l'opera facendo riferimento a un'opportuna

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situazione di interrimento e imponendo la condizione che la velocità stessa abbia


valore pressoché costante qualunque sia il valore della portata.
Tecnicamente, il garentimento di una velocità costante nel dissabbiatore, al
variare della portata di alimentazione, si ottiene introducendo a valle della vasca
una strozzatura di opportuna forma (modellatore a risalto o venturimetro per
canale). L'adozione di tale dispositivo consente pure la misura della portata e la
disconnessione idraulica del dissabbiatore dalle vasche che ad esse seguono
(sedimentazione primaria, trattamento biologico), le quali funzionano a livello
invariabile al variare della portata e quindi renderebbero impossibile l'ottenimento
della costanza della velocità nel dissabbiatore stesso.
Un ulteriore problema da tener presente nel proporzionamento del
dissabbiatore è che, nel caso non ci sia una disconnessione idraulica fra questo e
il canale emissario che lo alimenta (p.e. un salto di fondo, un impianto di
sollevamento, etc.), occorre allora garantire che non vi siano rigurgiti nel canale
stesso, per via del differente regime idraulico che si instaura fra questo e il
dissabbiatore stesso: infatti nel canale la velocità e i tiranti idrici variano in maniera
pressoché concorde con la scala di portata di moto uniforme valida per il canale
stesso, mentre nel dissabbiatore la velocità rimane costante al variare della
portata e i tiranti variano in funzione dei rigurgiti determinati dalla presenza del
modellatore a risalto.

Appresso verrà affrontato per primo il problema del controllo del rigurgito
nel canale emissario: esso si risolve assegnando un'opportuna sezione
trasversale al dissabbiatore; è chiaro che i calcoli a ciò finalizzati sono superflui,
come detto, nel caso esista una disconnessione idraulica fra l'emissario e il
dissabbiatore (in tale caso quindi si può scegliere una sezione trasversale
qualunque per il dissabbiatore); in quest'ultimo caso si può passare direttamente
al dimensionamento del modellatore a risalto, la cui presenza è invece sempre
necessaria, al fine di garantire la costanza della velocità nel dissabbiatore, al
variare della portata di alimentazione.
A vantaggio di sicurezza, il proporzionamento della vasca e del modellatore
deve essere effettuato nell'ipotesi che la cunetta disposta sul fondo del
dissabbiatore sia completamente occupata dalle sabbie e prendendo di
conseguenza a base dei calcoli il valore massimo ammissibile della velocità della
corrente nella vasca (0,3 m/s); occorrerà poi verificare che, in condizioni di vasca
spurgata, la velocità della corrente non risulti inferiore al valore minimo
ammissibile (0,2 m/s), al fine di limitare il deposito di materiale organico
putrescibile con le sabbie.

3.2.2 Proporzionamento della sezione trasversale del dissabbiatore

Riassumendo brevemente i concetti esposti nel paragrafo precedente, la


sezione trasversale di un dissabbiatore deve essere proporzionata in modo che i
tiranti idrici che in essa si instaurano, al variare della portata di alimentazione, non
determinino rigurgiti nell'emissario, nel quale vengono così garantite le altezze di
moto uniforme; ciò avviene nell'ipotesi che nel dissabbiatore la velocità della
corrente sia costante, al variare della portata di alimentazione. Quest'ultima
circostanza, come già accennato, è a sua volta garantita dalla presenza del
modellatore a risalto, i cui criteri di calcolo sono riportati appresso.

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Nota, dunque, la scala delle portate di moto uniforme dell'emissario (cioè il


legame funzionale tra la portata e l'altezza idrica, in condizioni di moto uniforme) e
fissato il valore della velocità che deve avere il liquame nel dissabbiatore (0,30
m/s), il calcolo della sezione va eseguito per tutto il campo di variabilità della
portata di alimentazione; quest'ultima si può considerare variabile da un valore
minimo Qmin, corrispondente alla portata media di tempo secco, a uno massimo
Qmax, pari alla portata massima di tempo secco, per le fognature a sistema
unitario, o a quella massima di tempo di pioggia, per il sistema unitario.
Il calcolo ha inizio quindi ponendo Qo=Qmin e determinando il
corrispondente valore dell'altezza con cui tale portata deve defluire nel
dissabbiatore, al fine di non determinare rigurgito nel canale emissario di monte.
Essa può ricavarsi dall'equazione del moto, che per maggiore completezza verrà
scritta tra la sezione della corrente a monte della griglia e la generica sezione del
dissabbiatore (ovviamente, la stessa equazione può essere scritta a partire dalla
sezione a valle della griglia); trascurando le modeste perdite di carico continue che
si hanno tra tali sezioni, l'equazione si scrive (Fig.3):

Vo2 Vd2
ho + = hdo + + ΔH − Δz (1)
2g 2g

con il seguente significato dei simboli:

ho altezza di moto uniforme nel canale emissario;


Vo2 2g altezza cinetica nell'emissario;
hdo profondità (incognita) della corrente nel dissabbiatore;
Vd2 2g altezza cinetica nel dissabbiatore;
ΔH perdita di carico nella griglia;
Δz (eventuale) differenza di quota tra le sezioni considerate.

La (1) costituisce allora un'equazione nell'incognita hdo; essa può essere


risolta ponendo ΔH pari al 5÷10% di ho e imponendo che la velocità nel
dissabbiatore sia costante e pari a 0,3 m/s, per cui risulta:

Vd
=
(0,30 ) = 0,0046 m
2 2

2g 2 × 9,81

Una volta dedotta l'altezza hdo dalla (1), si può ricavare la corrispondente
larghezza Lo del dissabbiatore, nell'ipotesi che la sezione occupata dal liquame
sia rettangolare; in tale ipotesi infatti risulta:

Qo Qo
Lo = = (2)
Vd hdo 0,30 hdo

Il calcolo procede fissando un nuovo valore della portata di calcolo Q1=Qo+


ΔQ e determinando, a mezzo di una espressione analoga alla (1), il
corrispondente valore dell'altezza hd1, per una sezione idrica data dalla
sovrapposizione di due rettangoli, di cui quello inferiore di larghezza Lo, già

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dimensionato in precedenza, e quello superiore di larghezza L1 incognita,


valutabile con l'espressione (Fig.3):

Q1 Q1
= = L ohdo + L1(hd1 − hdo ) (3)
Vd 0,30

Il calcolo procede in maniera analoga per un congruo numero di portate,


fino al valore massimo Qmax; si determina così la sezione completa del
dissabbiatore per sovrapposizione di tanti rettangoli aventi ciascuno larghezza Lo,
L1, L2, etc. (Fig.3).
Ovviamente, la sezione così ottenuta va sostituita con una trapezia, avente
la stessa superficie, in modo che la velocità media risulti sempre prossima a 0,30
m/s per le varie profondità della corrente.

3.2.3 Proporzionamento del modellatore a risalto

Come già detto, il rispetto dell'ipotesi di velocità costante nel dissabbiatore,


al variare della portata, è garantito dalla presenza del modellatore a risalto, posto
nella sezione terminale del dissabbiatore stesso e la cui forma è strettamente
legata a quella di quest'ultimo.
Rimandando ai trattati di idraulica per maggiori approfondimenti,
sull'argomento, si vuole soltanto ricordare che un modellatore a risalto è costituito
da un breve tronco di canale, in cui si susseguono un primo tratto convergente,
quindi uno prismatico (a sezione trasversale costante) e infine uno divergente
(Fig.4); in tal modo, la corrente, che è lenta nel tratto di monte, si trasforma in
veloce dopo essere passata attraverso le condizioni di stato critico in una delle
sezione del tratto prismatico (sezione di controllo). A valle del modellatore la
corrente da veloce si trasforma di nuovo in lenta, determinando la formazione di
un risalto che non consente alle condizioni idrometriche di valle di influenzare la
corrente di monte.
Si ricorda ancora che, affinchè il dispositivo possa funzionare regolarmente,
ossia che le due correnti a monte e a valle risultino tra loro indipendenti, occorre
che il dislivello tra il pelo libero della corrente lenta di valle e il fondo del tronco
prismatico di controllo (sommergenza) risulti inferiore a 0,8 H (limite
semimodulare), con H carico totale della corrente nel misuratore.

Anche per il dimensionamento della sezione di controllo del modellatore si


procede per passi, come già per la sezione trasversale del dissabbiatore; anche in
questo caso infatti si immagina la sezione costituita da tanti rettangoli sovrapposti,
per ciascuno dei quali si impone che il carico totale critico della corrente nel
modellatore eguagli quello nella vasca di dissabbiamento che, come già detto in
precedenza, è pari a quello relativo alla corrente uniforme di eguale portata
nell'emissario, a meno delle perdite nelle griglie e nel dissabbiatore.
Il calcolo ha inizio dunque dalla portata minima Qo=Qmin; nota la
corrispondente altezza hdo nel dissabbiatore, in precedenza determinata, e
l'altezza cinetica, pari a 0,0046 m in corrispondenza della velocità assunta
costante e pari a 0,30 m/s, si determina il carico totale Ho nel misuratore a risalto
che, trascurando le perdite di carico lungo il dissabbiatore, risulta pari a:

Ho = hod + 0, 0046 m

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Si ricorda che per una sezione di forma generica, in condizioni di stato critico
il carico totale nella sezione critica Hc e la relativa portata Qc sono legati alle
caratteristiche geometriche della sezione dalle seguenti espressioni:
1 σc
Hc = K +
2 Lc
σ
Qc = σ c g c
Lc

dove K è l'altezza di stato critico, σc l'area della sezione idrica corrispondente


all'altezza K ed Lc la larghezza della sezione in superficie (cioè all'altezza K).
Pertanto, indicando con Xo e Yo rispettivamente la larghezza e l'altezza (di
stato critico) della corrente nella sezione di controllo, corrispondenti alla portata
minima Qo e tenuto conto che per sezioni rettangolari (come quella di controllo del
modellatore) dalle due precedenti espressioni si ricava che il carico totale è pari ai
3/2 dell'altezza di stato critico Yo e la corrispondente velocità a gYo , si ha:

3
Ho = Yo
2

Q o = X o Yo gYo

e quindi:
2 2
Yo = Ho = (hdo + 0, 0046 ) m
3 3

Qo
Xo = m
2 2
(hdo + 0, 0046 ) g(hdo + 0, 0046 )
3 3

da cui si possono ricavare Xo e Yo.


Fissato un nuovo valore della portata Q1=Qo+ΔQ, si determina la
corrispondente sezione del modellatore pensandola costituita da due rettangoli
sovrapposti dei quali quello inferiore ha le dimensioni già calcolate Xo e Yo e
quello superiore dimensioni X1 e Y1 da determinare (Fig.4).
Il calcolo procede eguagliando il carico totale di monte H1 con quello nella
sezione critica; risulta allora:

X o Yo + X1Y1
H1 = hd1 + 0, 0046 = Yo + Y1 + m
2 X1

X Y + X1Y1
Q1 = ( X o Yo + X1Y1) g o o
X1

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dove hd1 è l'altezza d'acqua nel dissabbiatore corrispondente a Q1 (Fig.4)


Per il carico totale e la portata i-esimi, si scriverà, con ovvio significato dei
simboli:
i -1

i −1 Σ1 X j Yj + Xi Yi
Hi = h di + 0,0046 = Σ Yj + Yi +
0 2 Xi

i -1

i −1
g(Σ X j Yj + X i Yi )
Qi = (Σ X j Yj + Xi Yi ) 1

0 Xi

Tali espressioni consentono di ricavare l'altezza Yi e la larghezza Xi del


rettangolo i-esimo, una volta note l'altezza e la larghezza degli altri i-1 rettangoli.
Anche questa volta, la forma finale della sezione di controllo risulterà
costituita da tanti rettangoli sovrapposti e perciò occorrerà sostituire il contorno a
gradini, così risultante, con una linea media continua.
In effetti, la forma della sezione di controllo che così si ricava può risultare
di non agevole realizzazione pratica. In molti casi però, essa può essere sostituita
da altra che se ne discosti poco e che, naturalmente, presenti minori difficoltà
costruttive.
Una volta proporzionata la sezione di controllo, si procederà al disegno
completo del modellatore, nel rispetto delle norme pratiche che l'esperienza
suggerisce, affinchè il suo funzionamento idraulico risulti soddisfacente.
Converrà, a tale scopo, assegnare al tronco di controllo e a quello
convergente lunghezza pari almeno alla massima profondità della corrente nella
vasca di dissabbiamento; al tronco divergente dovrà essere assegnata una
lunghezza da 2 a 3 volte maggiore. Inoltre, per evitare il pericolo che il modellatore
possa essere sommerso da valle, il tronco divergente si farà terminare a quota
leggermente inferiore (15 ÷ 20 cm) rispetto a quella della sezione di controllo;
infine particolare cura deve essere posta nella realizzazione dei vari tronchi di
raccordo (Fig.4).
Particolari semplificazioni possono trovarsi nel caso dei dissabbiatori di
modeste dimensioni; in questo caso infatti è sufficiente assegnare alla sezione
terminale del canale la forma determinata per la sezione di controllo, facendo così
a meno dei tronchi convergente e divergente; stante la particolarità di tale forma, è
comodo realizzarla mediante una lastra metallica opportunamente sagomata.
La presenza della sezione di controllo consente pure di avere la misura
della portata; infatti essa può effettuarsi rilevando la profondità della corrente nella
vasca e utilizzando l'espressione, valida per i modellatori a risalto, della portata in
funzione dell'altezza di monte e delle caratteristiche del modellatore stesso. Un
metodo ancora più semplice, ma meno preciso, è quello di moltiplicare l'area della
sezione trasversale corrispondente all'altezza misurata (supponendo la cunetta
completamente piena) per il valore della velocità costante (0,30 m/s) fissata per il
proporzionamento del dissabbiatore.

3.2.4 Vasche di dissabbiamento e modellatori a risalto di forma semplice

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Si è visto nei paragrafi precedenti che le vasche di dissabbiamento e i


corrispondenti modellatori a risalto vanno proporzionati tenendo presente due
esigenze di base:
a) che la velocità del liquame nella vasca sia praticamente costante per qualunque
valore della portata;
b) che non si crei rigurgito apprezzabile nell'emissario che adduce il liquame
all'impianto di depurazione, in maniera da non alterarne le previste condizioni di
funzionamento idraulico.
La prima delle due esigenze è rispettata disponendo alla fine della vasca il
modellatore a risalto e calcolandone la forma idonea allo scopo; la seconda
esigenza è invece rispettata assegnando alla vasca una sezione trasversale tale
da non provocare rigurgiti a monte per qualunque portata in arrivo.

Come già accennato, quest'ultima esigenza può talvolta non sussistere,


come nel caso in cui esista una disconnessione idraulica tra emissario di monte e
dissabbiatore (p.e. quando l'alimentazione dell'impianto avviene per sollevamento
o quando vi sia un salto alla fine dell'emissario). In questi casi la vasca di
dissabbiamento potrà avere una forma qualunque e il modellatore a risalto dovrà
essere studiato rispettando la sola condizione della costanza della velocità nella
vasca stessa.
Segue quindi che la forma della sezione di controllo dipende
esclusivamente dal tipo di sezione trasversale della vasca, che può essere scelta
a priori; fra i casi di maggiore interesse e più semplice applicazione, le
corrispondenti forme delle sezioni di controllo e di quelle delle vasche di
dissabbiatura sono (Fig.5):
a) sezione di controllo iperbolica per vasca a sezione rettangolare;
b) sezione di controllo rettangolare per vasca a sezione parabolica o trapezia, in
cui l'area σ sia calcolabile con l'espressione σ=bxh1,5 (con b coeff. costante e h
altezza);
c) sezione di controllo parabolica per vasca a sezione triangolare.

3.2.5 Proporzionamento della lunghezza della vasca

Come si è detto all'inizio, la vasca di dissabbiamento deve avere lunghezza


L sufficiente affinchè i materiali inerti abbiano possibilità di sedimentare; in pratica
ciò si ottiene fissando tale lunghezza pari a 15-20 volte la massima profondità
della corrente nella vasca.
Una semplice dimostrazione di ciò si può ottenere facendo riferimento alla
Fig.6, che rappresenta la sezione longitudinale della vasca, fissando pari a 0,30
m/s la velocità V con cui la corrente defluisce.
Facendo riferimento alla situazione di particelle che sedimentano in maniera
granulare (vedi cap. 3.3), generalmente verificata per solidi di natura inerte in
correnti a regime pressoché laminare, segue che la velocità w con cui le particelle
stesse sedimentano è indipendente dal valore della velocità media V della
corrente.
Di conseguenza, la direzione del movimento delle particelle coinciderà con
la diagonale del parallelogramma della velocità, per cui, volendo assicurare che la
particella che si trova nel punto A si depositi sul fondo della vasca, occorre che sia
(Fig.6):

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L V

hd w

Fissando allora il valore della velocità V della corrente nella vasca pari a
0,30 m/s e nell'ipotesi che debbano sedimentare i solidi aventi diametro d
superiore a circa 0,2 mm e peso specifico di circa 2600 ÷ 2700 kg/m3, per i quali
si può ipotizzare una velocità di sedimentazione w pari a circa 0,02 m/s, la
precedente espressione diventa:

L
≥ 15
hd

Il valore della lunghezza così determinato è solo teorico; quello effettivo


dovrà essere superiore, al fine di tener conto dell'effetto di risospensione delle
particelle, dovuto alla circostanza che in realtà nella vasca il regime della corrente
non è laminare, ma turbolento.
La lunghezza effettiva L* può essere allora ottenuta moltiplicando il valore
teorico prima determinato per un coefficiente correttivo, che può essere stimato
facendo ricorso alla teoria messa a punto da Camp riguardo gli effetti della
turbolenza sulla sedimentazione; per gli usuali campi di variabilità di parametri e
variabili che compaiono in tale teoria, nel caso dei dissabbiatori a canale, si ricava
che tale coefficiente è pari a circa 1,5, per cui risulta:

L∗
= 1,5x15 = 22,5
hd

Tale valore conferma il campo di variabilità della lunghezza citato in


precedenza.

3.3 Dissabbiatori centrifughi

I dissabbiatori centrifughi (Fig.7) sono costituiti da vasche a sviluppo


prevalente verticale, poste in parallelo al canale emissario; la separazione delle
sabbie è agevolata dal moto rotatorio impresso alla corrente da un miscelatore a
pale rotanti.
Le sabbie che in tal modo si depositano sul fondo sono saltuariamente
estratte mediante una condotta di scarico posta al centro della vasca, alimentata
mediante una pompa ad aria (idroeiettore o air-lift); da questa esse sono scaricate
in piccolo bacino di raccolta, da cui sono successivamente allontanate, una volta
disidratate in maniera naturale.
Il volume della vasca può essere ottenuto fissando il tempo di detenzione da
30 s a 1 min, per la portata massima in tempo di pioggia. Le dimensioni
dell'impianto possono essere quindi determinate utilizzando apposite tabelle
predisposte dalle Ditte costruttrici, in cui, a partire dal volume così calcolato,
possono ricavarsi le principali caratteristiche delle vasche (diametro, potenza del
gruppo motore, portata d'aria, etc.) (Fig.7).
L'uso dei dissabbiatori centrifughi appare idoneo per impianti di potenzialità
medio-piccole, in alternativa quindi a quelli a canale; si ha così il vantaggio di un
minore ingombro planimetrico rispetto a questi ultimi; nel caso invece di

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potenzialità elevate, diviene problematica l'utilizzazione, oltre che dei dissabbiatori


a canale, perchè troppo lunghi, anche di quelli centrifughi, in quanto troppo
profondi.

3.4 Dissabbiatori aerati

Tale tipo di dissabbiatore ha vasta utilizzazione, tanto negli impianti di


depurazione di potenzialità media, in luogo dei centrifughi, quanto in quelli di
potenzialità elevata, nel qual caso essi costituiscono spesso l'unica soluzione
tecnica possibile, per sopperire a problemi di limitato spazio disponibile.
In questo caso, la separazione delle sabbie è agevolata dall'insufflazione
d'aria, immessa lateralmente alla vasca e a una profondità di circa 0,50 m dal
fondo; in tal modo la corrente di liquame in ingresso assume un moto
d'avanzamento elicoidale, nel quale viene agevolata la separazione verso il basso
delle particelle sospese più pesanti.
Si può dire che la corrente viene in linea teorica a percorrere una traiettoria
elicoidale, avente uno sviluppo in lunghezza confrontabile a quello che sarebbe
necessario in un dissabbiatore a canale che offra un eguale rendimento di
separazione delle sabbie; è evidente allora il risparmio conseguibile in termini di
lunghezza del manufatto e quindi di ingombro planimetrico.
Le sabbie che si depositano sul fondo della vasca vengono spinte in una
tramoggia realizzata in prossimità della zona di imbocco della vasca, a mezzo di
una lama trascinata in controcorrente da un ponte raschiatore a va e vieni, ad
azionamento meccanico automatico (Fig.8); ovviamente, prima dell'inizio della
corsa di ritorno in equicorrente, la lama si solleva al di sopra del pelo libero della
vasca. Si può osservare che in tutte le unità in cui si verifichi un fenomeno di
sedimentazione con flusso orizzontale longitudinale (quindi anche nei
sedimentatori che saranno descritti nei successivi capitoli) la tramoggia va sempre
prevista in prossimità della zona d'imbocco, e ciò per due ordini di motivi:
a) nella zona iniziale della vasca si deposita una quantità di solidi superiore a
quella che si trova nella parte finale, in quanto vengono subito a separarsi le
particelle dotate di maggiore dimensione e/o peso specifico, per cui la
percorrenza media delle particelle fino alla tramoggia è minimo, se questa è
prossima all'ingresso (e quindi pure minima è la probabilità di risospensione dei
solidi);
b) la realizzazione della tramoggia alla fine della vasca potrebbe determinare la
risospensione dei solidi per effetto del richiamo esercitato dall'efflusso dalla
vasca.

Il dissabbiatore aerato può avere pure la funzione di disoleatore; in tale caso


viene prevista una zona "di calma", lateralmente alla vasca (Fig.9), nella quale lo
stesso moto elicoidale impresso alla corrente consente l'accumulo di grassi e oli,
che vengono sospinti da una lama raschiatrice verso un pozzetto posto in
prossimità dell'estremità di valle della vasca; evidentemente, contrariamente a
quanto osservato per la lama raschiatrice delle sabbie, questa è immersa per una
decina di cm nella vasca, nella corsa in equicorrente, mentre è sollevata da
questa, nel moto di ritorno in controcorrente.
Tanto per consentire interventi di manutenzione, quanto per adeguare il
funzionamento delle vasche a eventuali variazioni di portata (p.e. a seguito di forti
variazioni stagionali) è frequente la realizzazione di vasche in parallelo, separate

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da una parete comune, sul ciglio della quale viene posta la condotta di
alimentazione dell'aria, che può essere unica per le due unità (Fig.10).

Le dimensioni del dissabbiatore possono ricavarsi fissando il tempo di


detenzione Tw pari a 3-4 min (al netto della zona di disoleatura) e un carico
idraulico Ci non superiore a 50 m3/m2 x ora, entrambi per la portata massima in
tempo di pioggia.
E' così possibile calcolare volume V e superficie orizzontale S della vasca
con le semplici espressioni:

V = Q × Tw

Q
S=
Ci

Le tre dimensioni della vasca sono quindi così valutabili:


a) altezza media: H=V/S
b) larghezza (B): si fissa in funzione della luce di corsa dei carroponti
c) lunghezza: L=S/B

In effetti, anche in questo caso un notevole aiuto nella scelta delle dimensioni
della vasca può ricavarsi dalla consultazione delle tabelle messe a punto dalle
Case produttrici, a partire dal volume calcolato fissando il tempo di detenzione
(Figg. 8 e 9).
La velocità della corrente nella vasca, risultante dai criteri di
dimensionamento prima citati, è generalmente inferiore a 0,30-0,50 m/s, per cui
non c'è pericolo di trascinamento dei solidi depositati sul fondo; invece occorre
prestare attenzione al dimensionamento delle zone di imbocco e sbocco, in cui la
velocità non deve superare 0,60-0,80 m/s; è usuale disporre in tali zone dei
deflettori, al fine di limitare a formazione di zone morte che comporterebbero la
diminuzione del tempo di detenzione idraulica.

La portata d'aria necessaria per la vasca può essere determinata applicando


i seguenti criteri alternativi e scegliendo il valore di portata che risulta maggiore:
a) portata specifica pari a 1-2 m3/ora d'aria per m3 di vasca;
b) 16 m3/ora per m di vasca (in lunghezza) per impianti alimentati con portata
inferiori a 50 l/s;
c) 0,4 m3 d'aria per m3 d'acqua trattata, nel caso sia prevista pure la funzione di
disoleatura.

La potenza W del compressore d'aria da utilizzare per l'alimentazione della


portata d'aria può essere calcolata mediante l'espressione:

28,21 × Qa × ln(Pa )
W= [W ]
η

con il seguente significato dei simboli:


Qa portata d'aria in m3/ora
Pa pressione assoluta in atm a cui si comprime l'aria;

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η rendimento del gruppo motore-compressore.

La pressione Pa si può calcolare a partire dalla profondità dei diffusori al di


sotto del pelo libero della vasca; infatti, nell'ipotesi che questa sia pari a 2,5 m,
risulterà Pa=(2,5+10)/10=1,25 atm. Infine, il valore del rendimento η può essere
cautelativamente posto pari a 0,6.

Per verifica, la potenza specifica Ws, definita come rapporto W/V, deve
risultare non inferiore a 10-20 W/m3, al fine di evitare fenomeni di sedimentazione
in vasca delle sostanze organiche.

3.5 Estrazione e lavaggio delle sabbie

L'estrazione delle sabbie dal fondo della tramoggia, nel caso non sia
realizzabile per gravità, necessita di sistemi di sollevamento che possono essere
soggetti ad abrasione da parte dei solidi contenuti nella miscela sollevata.
Un sistema spesso adoperato è quello denominato idroeiettore (o emulsore o
air-lift). Il suo principio di funzionamento è molto semplice (Fig.11): viene infatti
pompata aria sul fondo della vasca, in prossimità dell'imbocco della condotta di
scarico; la miscela acqua-solidi-aria che così viene a formarsi ha una densità
inferiore a quella della circostante miscela acqua-solidi e pertanto tende a risalire
lungo la verticale; la frazione di miscela che si introduce all'interno della condotta
di scarico viene così avviata al bacino di raccolta delle sabbie; l'apparecchiatura
ha il grande vantaggio di non presentare organi meccanici a contatto con le
sabbie, come nel caso delle comuni pompe, per cui non presenta pericoli di
abrasione.
Si può dimostrare che la massima altezza di sollevamento raggiungibile con
tale sistema è pressoché pari all'immersione dell'imbocco della condotta di scarico
(cioè, con riferimento alla Fig.11, H≅Ho).
Nella tabella allegata alla Fig.11 sono riportati, in funzione della
sommergenza, cioè del rapporto Ho/(H+Ho) in %) e del diametro della condotta di
scarico, la portata liquida sollevata e quella dell'aria.

Al fine di limitare il contenuto di sostanza organica nelle sabbie estratte,


circostanza questa limitabile, ma non eliminabile, si può ricorrere al lavaggio delle
sabbie; per tale soluzione, utilizzata di frequente negli impianti di potenzialità
medio-grandi, si può fare uso di appositi cassoni o silos (Fig.12), di solito in
lamiera metallica, nei quali viene impresso un moto circolare alla miscela acqua-
sabbia che agevola la separazione della frazione organica; le sabbie, più pesanti,
sedimentano sul fondo del cassone e vengono scaricate a mezzo di una paratoia
di fondo, mentre i solidi di natura organica, più leggeri, rimangono in sospensione
e vengono allontanati col surnatante, che viene reimmesso nell'impianto di
depurazione.

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Fig.1 - Dissabbiatore a canale per piccoli impianti (da Masotti, 1987)

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Fig.2 - Dissabbiatore a canale con ponte raschiatore

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Fig.3 - Schema di calcolo della sezione trasversale di un


dissabbiatore a canale

Fig.4 - Schema di calcolo della sezione di controllo di un dissabbiatore a canale

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Fig.5 - Sezioni di controllo per dissabbiatori a canale di forma semplice

Fig.6 - Schema di calcolo della lunghezza di un dissabbiatore a


canale

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Fig.7 - Dissabbiatore centrifugo (doc. Pista)

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Fig.8 - Dissabbiatore aerato (doc. Passavant)

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Fig.9 - Dissabbiatore-disoleatore aerato (doc. Passavant)

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Fig.10 - Dissabbiatore aerato con due vasche in parallelo

Fig.11 - Schema di funzionamento, portate sollevate Q (in m3/h) e portate d'aria (in Nm3/h)
di un idroeiettore

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Fig.12 - Silos per lavaggio delle sabbie (doc. Passavant)

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4. SEDIMENTAZIONE

4.1 Generalità

Il processo di sedimentazione consente di ottenere, per gravità, la


separazione dei solidi in sospensione aventi densità maggiore di quella del fluido
che li contiene. Ne deriva un effluente chiarificato e un sedimento ancora ad
elevato contenuto d'acqua, che, nel campo del trattamento delle acque, è indicato
come fango.
Le operazioni unitarie di un impianto di depurazione in cui si verificano
fenomeni di sedimentazione sono numerose: dissabbiatura, sedimentazione
primaria, sedimentazione finale, ispessimento sono gli esempi principali di
interventi finalizzati alla rimozione di solidi in sospensione.
In particolare, va ricordato che obiettivo della dissabbiatura è la
sedimentazione dei solidi (sospesi sedimentabili) di natura inerte; con la
sedimentazione primaria si mira invece alla rimozione di tutti i solidi sospesi,
organici e inorganici, già originariamente presenti in forma sedimentabile nei reflui;
con la sedimentazione finale (detta pure secondaria) vengono invece rimossi i
solidi che, originariamente presenti in forma sospesa non sedimentabile o
disciolta, sono divenuti sedimentabili grazie a processi di trattamento, di tipo
chimico o biochimico. Infine, l'ispessimento è un'operazione unitaria utilizzata nella
linea fanghi, con lo scopo di ottenere un fango più concentrato, oltre che il
surnatante chiarificato.
Non va poi trascurato che ulteriori fenomeni di sedimentazione si possono
verificare in altre unità di un impianto di depurazione, anche se spesso non
desiderati e quindi potenziali causa di non corretto funzionamento: basti pensare a
tutte le zone caratterizzate da elevati tempi di detenzione idraulica (canali,
pozzetti, etc.), in cui l'accumulo di sedimenti di natura organica può dare origine a
fenomeni di setticità.
Limitandosi ai casi in cui la sedimentazione sia l'obiettivo a cui mira
l'operazione unitaria in cui essa stessa si verifica, occorre precisare che differenti
sono i fenomeni che si possono riscontrare, pur se tutti riconducibili a un generale
processo di separazione solido-liquido di natura fisica, indicabile col generico
termine di sedimentazione.
Infatti, in base alla concentrazione iniziale dei solidi e alla loro natura,
possono essere distinti quattro differenti tipi di sedimentazione:
a) sedimentazione granulare (o libera);
b) sedimentazione fioccosa (o con flocculazione);
c) sedimentazione di massa (o a zone);
d) ispessimento (o sed. per compressione).

La sedimentazione granulare si riferisce al caso di particelle solide discrete


che decantano in maniera indipendente, cioè senza interferire fra loro, con velocità
costante nel tempo, anche se differente fra una particella e l'altra; è tipico il caso
dei solidi di natura inerte (sabbie), specie se a bassa concentrazione.
Invece, la sedimentazione fioccosa interessa particelle di natura fioccosa,
capaci di interferire e aggregarsi durante il moto di caduta; in questo caso, di
conseguenza, la velocità di sedimentazione di ogni particella cresce man mano

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che essa procede verso il basso, a causa della progressiva aggregazione con le
particelle contigue.
Nella sedimentazione di massa i solidi, in concentrazioni generalmente
elevate, mantengono la loro posizione relativa durante la caduta, grazie
all'intervento di forze interparticellari; quindi tutte le particelle sedimentano con la
stessa velocità, costante nel tempo e nello spazio, a prescindere dalla loro
dimensione.
Infine, l'ispessimento si verifica quando le particelle hanno una
concentrazione tale da costituire uno scheletro solido; in tali condizioni, la
sedimentazione avviene per espulsione dell'acqua, a seguito della compressione
dello scheletro solido.

In pratica, i quattro tipi di sedimentazione vengono spesso a coesistere


nelle varie operazioni unitarie; per ciascuna di esse, è però possibile individuare, il
tipo di sedimentazione di maggiore rilevanza, ai fini tanto del progetto dell'unità
stessa, quanto della sua gestione. In particolare, gli accoppiamenti che ne
derivano sono così sintetizzabili:

tipo di sedimentazione: operazione unitaria:

a) granulare dissabbiatura;
b) fioccosa sedimentazione primaria;
sed. finale, a valle dei processi a biomassa adesa
(letti percolatori, RBC);
c) di massa sed. finale, a valle dei processi a biomassa
sospesa (fanghi attivi);
d) ispessimento ispessitori della linea fanghi

Va infine osservato che ai quattro tipi di sedimentazione sin qui citati può
farsi seguire pure quello noto col termine di consolidazione, che tuttavia non verrà
appresso trattata, in quanto di interesse solo nel campo della meccanica dei
terreni.

4.2 Sedimentazione granulare

La sedimentazione di tipo granulare può essere studiata mediante l'analisi


del fenomeno in prove in batch, cioè in condizioni statiche; si può allora fare
riferimento alla ben nota legge di Stokes, i cui contenuti essenziali sono appresso
richiamati.
Si consideri un liquido in quiete, ad esempio in un cilindro da laboratorio, in
cui sia presente in sospensione una particella solida isolata. Essa è
sottoposta a due forze verticali di verso opposto: la forza peso, rivolta verso il
basso, e la spinta idrostatica esercitata dal fluido, verso l'alto. Il modulo della
risultante di tali due forze vale:

F = ( ρ s − ρ) g V
con:
ρs densità del solido
ρ densità del fluido
g accelerazione di gravità

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V volume della particella

Nel caso in cui ρs sia maggiore di ρ, tale forza è diretta verso il basso,
avendo lo stesso verso di g, e la particella è sottoposta a un fenomeno di
sedimentazione. In caso contrario, il moto è ascendente e si ha il fenomeno della
flottazione (che verrà trattata al cap. 3.5).
In entrambi i casi però il movimento della particella è contrastato dalla forza
resistente Fr esercitata dal mezzo liquido, che aumenta con il quadrato della
velocità, secondo l'espressione di Newton:
ρ v2
Fr = CdA
2
con:
A sezione della particella lungo un piano ortogonale alla direzione di moto
v velocità di sedimentazione
Cd coefficiente di Newton (o di "drag").

In condizioni di equilibrio F ed Fr si equivalgono, per cui la particella si


muove con una velocità costante, il cui valore può essere ottenuto eguagliando le
due forze. Essa vale:

2g (ρs − ρ) V
v= (1)
Cd ρ A

Ammettendo per semplicità che la particella abbia forma sferica, per cui
V/A=2/3 d (essendo d il diametro della particella), la (1) diviene:

4g (ρs − ρ) d
v= (2)
3 Cd ρ

Il coefficiente di Newton Cd varia in funzione del numero di Reynolds Re e


con la forma della particella; come è noto, Re è un numero adimensionale, definito
dalla seguente espressione:

ρvd
Re =
μ

dove μ è la viscosità del fluido e le rimanenti variabili hanno il significato già


indicato; in Fig.1 è riportato l'andamento di Cd con Re, per diverse forme della
particella. Per la forma sferica, l'andamento di Cd è ben approssimato dalla
seguente espressione, valida per Re<104:

24 3
Cd = + + 0,34 (3)
Re Re

Il campo che più interessa la sedimentazione è quello dei bassi numeri di


Reynolds (regime laminare), nel quale il secondo ed il terzo addendo della (3)
possono essere trascurati e può scriversi:

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24 24 μ
Cd = =
Re ρvd
Sostituendo nella (2), si ricava la seguente espressione, nota come legge di
Stokes:
g(ρs − ρ)d2
v= (4)
18 μ

Al di fuori del regime laminare (Re>2000), la semplificazione fatta non è più


valida. In particolare, nel regime di transizione (2000<Re<10000) i valori di Cd
possono essere ricavati direttamente dal diagramma di Fig.1; invece per il regime
di moto puramente turbolento (Re>10000) il valore di Cd diviene praticamente
costante e quindi indipendente da Re.

L'analisi dell'espressione (4) evidenzia che, nell'ipotesi di particelle sferiche


interessate da un fenomeno di sedimentazione granulare (cioè che sedimentano in
maniera indipendente l'una dall'altra), la velocità di sedimentazione v dipende dalle
caratteristiche della particella stessa (diametro e densità) e da quelle del fluido in
cui essa è immersa (densità e viscosità).
Quindi, particelle differenti, ma immerse in uno stesso fluido, sono
caratterizzate da velocità di sedimentazione differenti: secondo la (4), è maggiore
la velocità della particelle aventi maggiori densità e diametro.

Al fine di formulare i criteri di dimensionamento delle unità di un impianto di


trattamento in cui si verifichi la sedimentazione granulare, occorre passare
dall'esame del fenomeno in batch, sin qui analizzato, a quello in continuo, che
corrisponde alla situazione che realmente si verifica nelle unità stesse.
Infatti, se il liquido non è in quiete, la particella si muove con una velocità
che è determinata, istante per istante, dalla composizione vettoriale della velocità
di sedimentazione v, calcolata secondo i criteri prima visti (espressa cioè dalla
legge di Stokes), e dalla velocità di trasporto V dovuta al movimento del liquido.
A tale scopo può farsi riferimento alla teoria di Hazen, nella quale viene
esaminato il caso di una vasca ideale a pianta rettangolare, in cui l'alimentazione
della portata avviene da uno dei due lati minori, mentre da quello opposto si ha lo
scarico della portata chiarificata; in tali condizioni, il moto della corrente è
orizzontale e uniforme (cioè la velocità V è costante nello spazio e nel tempo.
Considerando la sezione longitudinale della vasca, si possono distinguere 4 zone
(Fig.2):
a) zona di ingresso: qui la sedimentazione è disturbata dalla vicinanza dei
dispositivi di immissione;
b) zona di uscita: anche qui la sedimentazione è disturbata, ma dagli effetti di
richiamo dei dispositivi di scarico;
c) zona del fango: è costituito dalla tramoggia, in cui si raccolgono le particelle
sedimentate;
d) zona di sedimentazione vera e propria: in questa zona valgono le ipotesi che la
velocità di avanzamento del liquido V sia costante e che nella sezione iniziale la
concentrazione e la distribuzione delle particelle siano uniformi.

In quanto segue si farà riferimento solo all'ultima zona, che è l'unica in cui
sia garantito con sufficiente precisione il rispetto delle leggi che regolano il

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fenomeno di sedimentazione, che verrà appresso analizzato. E' chiaro che, in fase
di progetto delle vasche, occorre porre particolare attenzione nel prevedere tutti gli
accorgimenti perché le zone di ingresso e di uscita siano le più piccole possibili,
cioè che sia modesta l'influenza sull'idrodinamica della vasca tanto delle modalità
di alimentazione di questa, quanto di prelievo del chiarificato; l'uso di idonei
deflettori e diffusori consente di raggiungere agevolmente tale obiettivo, come si
vedrà nei successivi paragrafi dedicati alla descrizione delle tipologie adoperabili.
Con riferimento allo schema di Fig.2, sia vo la velocità di sedimentazione
che, in base alla legge di Stokes, compete alla particella che, inizialmente nel
punto "a", si muova lungo la retta "af"; evidentemente tutte le particelle dotate della
stessa velocità vo sono intercettate dalla vasca.
Nell'ipotesi che i solidi abbiano la stessa densità, segue che le particelle
con dimensioni maggiori avranno, in base alla (4), velocità di sedimentazione
maggiore di vo, per cui da una analoga composizione vettoriale si ricava che
anch'esse potranno raggiungere la zona del fango, qualunque sia la posizione
(cioè la distanza dal fondo) da esse assunte nella sezione di ingresso della vasca;
infatti l'inclinazione della loro traiettoria rispetto all'orizzontale sarà superiore a
quella della particella avente velocità di sedimentazione vo, prima presa in
considerazione.
Invece, le particelle più piccole, dotate di una velocità di sedimentazione v
minore di vo, verranno intercettate solo se si trovano, nella sezione di ingresso, al
di sotto della retta passante per il punto "f" e avente la stessa direzione della
risultante dei vettori v e V (retta a tratteggio della Fig.2).

Se Q è la portata di alimentazione della vasca e B e H sono rispettivamente


la sua larghezza e altezza, risulta per continuità:

Q = V ×H×B

indicando con A la sezione orizzontale della vasca, dalla similitudine dei triangoli
che compaiono in Fig.2 si ottiene:

V L
=
vo H
e quindi:
Q = V × H × B = vo × L × B = vo × A
Pertanto si ricava:
Q
vo = = Ci (5)
A

Il parametro Ci, che ha le dimensioni di una velocità, viene definito carico


idraulico applicato alla vasca; l'espressione (5) indica che, per una determinata
portata, il valore della velocità vo e quindi le caratteristiche (dimensione e densità)
delle particelle intercettate dipendono esclusivamente dalla superficie orizzontale
della vasca e non dalla sua profondità; il processo non è così influenzato dal
volume della vasca e quindi dal tempo di permanenza (definibile come rapporto
volume/portata).
Tale risultato, apparentemente strano, è tuttavia facilmente giustificabile
osservando lo schema riportato in Fig.3; in esso è riportata la sezione
longitudinale di una vasca alimentata dalla portata Q e di sezione orizzontale A,

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entrambe uguali a quelle del caso sin qui trattato, ma avente un'altezza H' pari
alla metà di H. Queste nuove condizioni comportano un valore della velocità di
trasporto V' doppia rispetto a quella V della situazione precedente; analizzando il
moto di una particella avente la velocità di sedimentazione vo, si può osservare
che essa si sposta lungo la diagonale della sezione della vasca e quindi, anche in
questo caso, essa ricade all'interno della zona di sedimentazione; il carico
idraulico a cui è sottoposta la vasca, e quindi la velocità vo delle particelle che
sedimentano, rimangono infatti inalterati, come può dimostrarsi con la stessa
proporzione dei triangoli vista prima:

V' L
=
v o H'

Q = V ' ×H' ×B = v o × L × B = v o × A
e quindi:
Q
Ci = = vo
A

Tale calcolo può ripetersi per qualunque valore di H', a conferma quindi che
la profondità della vasca è ininfluente nel processo di sedimentazione.
Va sottolineato infine che, a parità di densità delle particelle, all'aumentare
di Ci aumenta pure vo e quindi la dimensione dei solidi che è possibile rimuovere
con la vasca; Ci assume quindi il ruolo di parametro di progetto per la vasca.

Invece, in fase di verifica, differenti situazioni possono aversi per una vasca
caratterizzata da un fissato valore di Ci, cioè avente sezione orizzontale A e
alimentata da una portata Q=AxCi. In tale caso, il comportamento della vasca può
essere valutato mediante il rendimento di sedimentazione h, definito come
rapporto tra la quantità di materiale rimosso e quello originariamente presente
nell'unità di volume della sospensione; risulta quindi:

Xo − Xf
η=
Xo

dove Xo e Xf sono rispettivamente le concentrazioni di solidi nelle portate influente


ed effluente.
A seconda della granulometria dei solidi presenti nella sospensione che
alimenta la vasca può farsi distinzione fra tre differenti casi:
a) caso di sospensioni monogranulari, con particelle aventi velocità di
sedimentazione v³Ci;
b) caso di sospensioni monogranulari, con particelle aventi velocità di
sedimentazione v<Ci;
c) caso di sospensioni a granulometria assortita, con particelle aventi velocità di
sedimentazione v<=>Ci.

Nel primo caso, tutte le particelle verranno intercettate nella zona di


sedimentazione e il rendimento risultante sarà pari a 1.
Per il secondo caso, invece, si può fare riferimento alla particella avente la
generica velocità di sedimentazione v (Fig.2); dalla composizione vettoriale di v e

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della velocità di avanzamento V risulta che, nell'ipotesi già richiamata che nella
sezione iniziale della zona di sedimentazione la concentrazione dei solidi sia
uniforme, solo le particelle che si trovano al di sotto del punto "b" sono intercettate
dalla vasca, mentre quelle al di sopra ne fuoriescono, per cui la frazione di solidi
intercettati risulta pari a bc/ac; inoltre, per la similitudine dei triangoli che
compaiono in Fig.2, si può scrivere:

bc v ac v o
= =
L V L V

e quindi, dividendo le due espressioni membro a membro:


bc v
=
ac v o

il valore del rendimento di sedimentazione risulta allora:

bc v v
η= = =
ac v o Ci

tale espressione è nota come legge di Hazen.

Infine, per il caso della granulometria assortita si può fare riferimento a un


ampliamento della teoria di Hazen, dovuta a Camp; in questo caso, occorre
conoscere la distribuzione delle particelle che sedimentano con velocità inferiore al
carico idraulico Ci; ciò è possibile in due modi:
a) si determina il residuo totale (a 105 °C), e da questo la distribuzione
granulometrica in peso delle particelle solide; allo scopo è necessario utilizzare
una serie di stacci, con dimensioni di maglia progressivamente crescenti, per
ciascuno dei quali può determinarsi la frazione Z, in peso, dei solidi di diametro
inferiore al passante dello staccio; infine, ammessa una densità dei solidi nota e
costante, è possibile calcolare, mediante la legge di Stokes, il valore della
velocità di sedimentazione v che compete alle particelle aventi dimensioni pari
al passante utilizzato per ciascuna frazione Z così individuata;
b) si fa uso di una colonna di sedimentazione (detta anche colonna di Camp),
costituita da un tubo alto 2-3 m, del diametro di circa 20 cm (occorre evitare la
formazione di un effetto parete), munita di prese a diverse altezze (ogni 50-60
cm); la sospensione in esame va alimentata nella colonna in modo da avere
una concentrazione iniziale dei solidi costante in tutta la colonna (ciò è possibile
alimentando la colonna dal basso); a differenti tempi e quote, vengono quindi
prelevati più campioni della sospensione, caratterizzati ovviamente da
concentrazioni dei solidi differenti, in funzione del tempo e della quota di
prelievo; indicando con Xo e X, rispettivamente, le concentrazioni di solidi
sospesi determinate nel campione della sospensione iniziale e in quello
prelevato al generico tempo t e alla quota H (misurata dal pelo libero della
colonna), risulta che la frazione di solidi sospesi Z=Xo/X ha una velocità di
sedimentazione v minore a H/t; ripetendo il campionamento per differenti H e t,
si ottiene una serie di coppie di valori Z e v, che consente di determinare
proprio la curva cercata (Fig.4).

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Con ciascuno dei due metodi prima descritti è quindi possibile determinare
l'andamento di Z con v; da questo si può passare al calcolo del rendimento di
sedimentazione della vasca. Infatti, fissato il carico idraulico Ci della vasca, sia Z*
la frazione in peso caratterizzata da una velocità di sedimentazione v<Ci e,
viceversa, 1-Z* quella per cui risulta v≥Ci. Segue che quest'ultima verrà totalmente
intercettata, mentre per le particelle cui compete una velocità v<Ci, la frazione
rimossa è pari v/Ci, per la legge di Hazen. Il rendimento totale di sedimentazione
vale quindi:

1 Z*
η = (1 − Z*) +
C1 ∫0 vdZ

La risoluzione dell'integrale può essere fatta procedendo alle differenze


finite, per intervalli discreti Z, ed utilizzando l'espressione:
z*
1
η = (1 − Z* ) +
Ci
∑ v ΔZ
0

ESEMPIO N.1
Problema:

Determinare il rendimento di sedimentazione di una vasca alimentata da una sospensione di solidi


di natura fioccosa con concentrazione iniziale Xo=222 mg/l e con carico idraulico di 1 m/ora.

Svolgimento:

Si utilizza in questo caso il metodo della colonna di Camp; in Fig.4b sono riportati i valori di Z e v
relativi ai campioni prelevati nel corso della prova, in tempi e quote differenti. Tali coppie di valori
sono stati diagrammati e interpolati in Fig.4a, dalla quale si ricava che, per il valore di Ci prescelto,
Z* è pari a 0,58: cioè il 42 % dei solidi hanno una velocità di sedimentazione maggiore di 1 m/ora
e sicuramente sedimentano, mentre per il rimanente 58 % occorre valutare la frazione che
sedimenta. Si può allora associare a intervalli discreti ΔX un valore medio di v e quindi ricavare la
sommatoria dei prodotti vΔZ (Fig.4c). Risulta allora:

1 1
η = (1 − Z *) +
Ci
∑ v ΔZ = 0,42 + 1 0,12 = 0,54
quindi il rendimento di sedimentazione è del 54 %.

4.3 Sedimentazione fioccosa

Come già accennato, le considerazioni prima svolte per la sedimentazione


granulare non sono più valide quando la natura delle sostanze sospese è fioccosa,
per cui si verificano facilmente fenomeni di agglomerazione in seguito ai contatti
tra particella e particella, resi possibili dalle differenti velocità di sedimentazione.
Nonostante le forze in gioco siano le stesse, l'andamento della
sedimentazione risulta allora profondamente modificato dalle variazioni di
dimensioni che le particelle assumono nel moto di caduta; di conseguenza,
l'effettiva velocità di sedimentazione risulta superiore a quella che può essere

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calcolata sulla base delle caratteristiche e delle dimensioni originarie delle singole
particelle.
A parità di caratteristiche del materiale sospeso, la tendenza
all'agglomerazione risulta tanto più alta quanto maggiore è la concentrazione dei
solidi, quanto più varie sono le loro dimensioni e quanto maggiore è la profondità
della vasca, tutti fattori questi che aumentano le possibilità di collisione.
La variazione di velocità durante la discesa impedisce di studiare il
fenomeno su basi teoriche, per cui è necessario procedere per via sperimentale.
Si fa uso allora di una colonna di sedimentazione, del tipo di quelle già
descritte nel precedente prf., in cui vengono simulati i fenomeni che si verificano
all'interno di una vasca.
Le colonne hanno diametro pari a circa 20 cm e sono dotate di prese a
differenti altezze, per il prelievo di campioni; è così possibile studiare l'andamento
del fenomeno nel tempo, al variare della profondità.
La sospensione da analizzare va introdotta nella colonna, in modo da
garantire una distribuzione iniziale delle particelle il più uniforme possibile (ciò è
possibile alimentando la colonna dal basso); ad intervalli di tempo determinati si
procede al prelievo dei campioni alle varie altezze e alla determinazione del
rendimento di sedimentazione ottenuto per i diversi campioni.
Ad un generico tempo t, tale rendimento diminuisce procedendo dalla
superficie verso il fondo; infatti gli strati superiori si chiarificano più rapidamente,
dato che essi sono attraversati da una minore quantità di sedimenti.
Riportando in un diagramma cartesiano, in ascissa, il tempo e, in ordinata,
l'altezza della colonna, è possibile associare ad ogni punto di tale diagramma,
caratteristico di un campione prelevato al tempo t e alla quota h, il rendimento di
sedimentazione in esso determinato; per interpolazione dei valori così determinati,
è in definitiva possibile tracciare le curve a rendimento costante (Fig.5).
Il rendimento globale di sedimentazione di un sedimentatore di altezza h ,
avente tempo di permanenza t , può essere calcolato come media ponderata tra i
rendimenti ottenuti alle diverse profondità, mediante l'espressione:

Δhi ηi + ηi +1
η=∑ ×
h 2

dove h è l'altezza della colonna (il cui valore va riportato a partire dal punto più
alto dell'asse delle ordinate di Fig.5) e Δhi ed ηi hanno il significato di cui alla
Fig.5.

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ESEMPIO N.2

Problema:

In Fig.5 sono riportati i risultati di una prova di sedimentazione, eseguita su una colonna. Si vuole
conoscere il rendimento globale di sedimentazione, in condizioni statiche, corrispondente al tempo
t ed alla profondità h .

Svolgimento:

Facendo la media ponderata dei rendimenti ottenuti ai diversi livelli, il rendimento globale di
sedimentazione risulta:

Δh1 η1 + η2 Δh2 η2 + η3 Δh3 η3 + η4 Δh4 η4 + η5


η= + + +
h 2 h 2 h 2 h 2
Utilizzando i valori tratti dalla Fig.5, si ricava:
Δhi ηi + ηi +1
η=∑ × = 0,744
h 2

4.4 Sedimentazione di massa e ispessimento

Per elevate concentrazioni di solidi sospesi (all'incirca oltre 500 mg/l) e in


funzione della natura stessa dei solidi (tipico è il caso del fango prodotto in impianti
a fanghi attivi), le modalità secondo cui si svolge il processo di sedimentazione
possono essere diverse da quelle in precedenza descritte.
Le particelle, fra loro abbastanza vicine per influenzare scambievolmente il
proprio moto di caduta, sedimentano tutte con la stessa velocità,
indipendentemente dalle proprie dimensioni; in più, tale velocità è inferiore a quella
che spetterebbe ad ogni singola particella isolata, in base alla legge di Stokes.
In condizioni statiche, il processo può essere seguito sperimentalmente in
un cilindro graduato (Fig.6). Inizialmente la concentrazione dei solidi è uniforme in
tutto il cilindro; le particelle cominciano quindi a decantare in massa, mantenendo
cioè immutate le loro posizioni relative.
Vengono così a formarsi tre distinte zone:
a) la zona del surnatante chiarificato (zona A), in cui la concentrazione dei solidi
può essere posta, in prima approssimazione, pari a zero;
b) la zona di sedimentazione di massa, in cui la concentrazione rimane costante e
pari al valore iniziale (zona B);
c) la zona di ispessimento, in cui si accumulano le particelle che man mano
raggiungono il fondo (zona C); in tale zona la concentrazione di solidi è
crescente, dal valore che si ha nella zona B fino a un massimo, in
corrispondenza del fondo del cilindro.

Sono così identificabili due interfacce, una tra le zone A e B ("AB") e l'altra
tra le zone B e C ("BC"). Seguendo il procedere del fenomeno nel tempo (Fig.6), si
osserva che l'interfaccia AB si abbassa con una velocità costante e così pure
costante è la velocità di risalita dell'interfaccia BC.

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Si può osservare che la velocità di sedimentazione di massa, con cui


l'interfaccia AB si muove verso il basso, è costante nel tempo e dipende soltanto
dalla concentrazione iniziale della sospensione; in particolare, essa è tanto
minore, quanto maggiore è la concentrazione iniziale.
Quanto ai profili di concentrazione rilevabili lungo il cilindro al passare del
tempo, si osserva (Fig.7) che si passa dalla situazione 1, che si verifica nell'istante
iniziale, in cui la concentrazione è costante lungo tutto il cilindro, alla generica
situazione 2, nella quale la concentrazione è nulla nella zona A, rimane costante e
pari al valore iniziale in tutta la zona B e infine è crescente lungo la verticale, a
partire da un valore iniziale pari a quello della zona B, per tutta la zona C.
In effetti, nella zona A si verifica ancora una sedimentazione granulare e/o
fioccosa per le particelle più piccole non intrappolate dai solidi che sedimentano in
massa, che verrà appresso trascurata.
Stante che le interfacce AB e BC si muovono con velocità costante, l'una
verso il basso, l'altra verso l'alto, segue che ci sarà un istante in cui esse si
incontreranno; in tale istante si ha la scomparsa della zona B. Da questo momento
in poi, la concentrazione è nulla, nella zona al di sopra dell'unica interfaccia,
mentre è crescente verso il basso, lungo la zona C al di sotto di essa. Al
procedere del tempo, l'unica interfaccia, così formatasi, si muove verso il basso
con velocità decrescente, mentre è crescente la concentrazione in corrispondenza
di essa (Fig.7).
Da quanto sin qui detto, si può osservare che, nel generico istante di
tempo, il massimo valore della concentrazione dei solidi, lungo la verticale, si
raggiunge nel punto più basso della colonna e che tale valore aumenta nel tempo.

A titolo di esempio, in Fig.8 sono riportati i risultati di prove di


sedimentazione condotte con sospensioni a diverse concentrazioni iniziali di
carbonato di calcio in acqua. Nella figura, il primo tratto rettilineo indica la
posizione assunta nel tempo dall'interfaccia AB; il tratto curvilineo corrisponde
invece all'unica interfaccia ABºBC. La tangente dell'angolo che il tratto rettilineo
iniziale forma con l'orizzontale rappresenta la velocità di sedimentazione di massa;
si può osservare che essa decresce all'aumentare della concentrazione iniziale; in
ogni caso, essa è inferiore a quella che si otterrebbe per le particelle in esame,
applicando la legge di Stokes.

Da quanto sin qui esposto deriva che risulta fondamentale conoscere la


velocità di sedimentazione di massa v corrispondente a una prefissata
concentrazione iniziale del liquame x; la curva di sedimentabilità del fango, cioè la
legge di variazione di v con x, è una caratteristica del tipo di liquame in esame, per
cui occorre determinarla di volta in volta.
Il metodo più usuale per la valutazione della curva di sedimentabilità è
quello di eseguire una serie di prove in batch, in cilindri da laboratorio, a partire da
campioni della sospensione aventi diversa concentrazione iniziale (ottenuti per
successiva diluizione del campione originario).
In Fig.9a sono riportati i risultati di tale prova; ciascuna curva è relativa a
una differente concentrazione iniziale x ed è ottenuta riportando la posizione
dell'interfaccia acqua-fango AB in funzione del tempo; come prima evidenziato, la
velocità di sedimentazione di massa v può essere valutata come tangente
dell'angolo che il primo tratto rettilineo fa con l'orizzontale. Infine, in Fig.9b è

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riportata la curva di sedimentabilità, costruita a partire da un congruo numero di


coppie x-v, ciascuna delle quali determinata con una prova in cilindro.

In alternativa, può farsi ricorso a un metodo semplificato, che fa uso di una


sola prova in cilindro eseguita con concentrazione xo. Facendo riferimento alla
costruzione grafica di Fig.10, si dimostra che la velocità di sedimentazione di
massa v2 corrispondente a una concentrazione iniziale x2>xo è data
dall'espressione:
H − H2
v2 = 1
t2

mentre la concentrazione x2 è data dall'espressione:

x H
x2 = o o
H1

in pratica, occorre tracciare la tangente al punto di ascissa t2 e quindi leggere i


valori H1 e H2 sull'asse delle ordinate.
Da un punto di vista fisico, H1 rappresenta l'altezza dell'interfaccia qualora
nella zona C si avesse una concentrazione costante ai diversi livelli e pari a x2.
Questo metodo va tuttavia applicato con accortezza, per via dei possibili
errori di calcolo a cui esso può indurre.

Un'ulteriore valutazione della curva di sedimentabilità può ricavarsi facendo


ricorso a talune espressioni matematiche messe a punto sperimentalmente. Fra
esse, vanno ricordate quelle in cui la velocità è espressa da una funzione potenza
o mediante una funzione esponenziale.
Nel primo caso, l'espressione adoperabile risulta:

v = v o × x−α

i valori sperimentali di vo e a sono rispettivamente pari a 16,22 m/ora e 2,22.


L'espressione esponenziale risulta invece:

v = v o × e −αx

in questo caso, i valori di vo e a sono rispettivamente pari a 5,68 m/ora e 0,48.


La funzione potenza non è valida per bassi valori di x (generalmente
inferiori a 3 g/l), anche se il suo uso è nettamente più semplice di quello della
funzione esponenziale, che tuttavia ha una validità più generale.

L'analisi sin qui condotta fa riferimento al fenomeno di sedimentazione


statica, valutabile mediante prove in batch; per lo studio di un'unità di
sedimentazione, alimentata in continuo (è questa la situazione di reale interesse),
occorre fare riferimento allo schema di Fig.11, nella quale è riportata la sezione
diametrale (verticale) di una vasca a pianta circolare, alimentata da una portata
Q+QF, dalla quale viene derivata la portata chiarificata Q, mentre dalla tramoggia
di fondo è estratta la portata di fango QF.

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Si fa riferimento a condizioni di alimentazione stazionarie, per cui tutte le


portate sono costanti nel tempo.
Le concentrazioni dei solidi sono rispettivamente xo nella portata alimentata
e xF in quella del fango, mentre può essere posta pari a zero quella nel
chiarificato, praticamente trascurabile.
A regime, nella vasca vengono a determinarsi le tre zone A, B e C prima
esaminate. In particolare, si riscontra lo strato superiore di liquame chiarificato,
quello intermedio a concentrazione costante, in cui il fango sedimenta in massa, e
infine lo strato di ispessimento, in cui la concentrazione è crescente verso il basso,
fino al valore massimo xF raggiunto sul fondo della tramoggia.
In effetti, anche qui, così come nelle prove in cilindro, nella zona A si
verificano fenomeni di sedimentazione granulare e fioccosa, di cui però per
semplicità non si terrà conto in appresso.
Il movimento dei solidi all'interno della vasca può essere studiato facendo
ricorso alla teoria del flusso solido; con questo termine si indica la quantità di solidi
che attraversa l'unità di superficie della vasca, nell'unità di tempo. Secondo tale
teoria, il moto dei solidi va ascritto a due distinti fenomeni:
a) la sedimentazione di massa, analogamente a quanto avviene nella prova in
batch: il flusso solido ad essa corrispondente può essere calcolato, ad una
generica quota i dal fondo, come:
b)
(FS)1 = xi vi
con:
(FS)1 quantità di solidi che nell'unità di tempo attraversa un elemento di
superficie unitario [Kg/m2 x ora];
xi concentrazione alla quota i [Kg/m3];
vi velocità di sedimentazione di massa corrispondente a xi [m/ora];

b) l'estrazione del fango dal fondo, che produce in tutta la vasca un moto verso il
basso del liquame e quindi dei solidi in esso sospesi; la velocità di tale moto
(costante lungo la verticale, essendo la vasca di forma cilindrica), è:

QF
u=
A

dove A è la superficie orizzontale della vasca; ne consegue un flusso solido


aggiuntivo (FS)2, attraverso la superficie a generica quota "i":

QF
(FS)2 = uxi = xi
A

Pertanto, il flusso solido complessivo che attraversa l'unità di superficie a


quota "i" risulta:
FS = (FS)1 + (FS)2 = x i v i + x i u = x i (v i + u)

Dalle definizioni prima date segue che, mentre l'andamento di (FS)1


dipende dalle caratteristiche di sedimentabilità dei fanghi (e non può quindi essere
modificato con interventi di natura impiantistica), quello di (FS)2 è modificabile, sia
all'atto della costruzione della vasca (scegliendo opportunamente A), sia in fase di
esercizio (variando QF e quindi il valore di u).

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In Fig.12 sono riportati, in funzione di xi, gli andamenti di (FS)1 ed (FS)2 e


del flusso solido complessivo FS. L'andamento di (FS)1 è inizialmente crescente
con xi: infatti, per basse concentrazioni dei solidi, un aumento di xi prevale sulla
conseguente riduzione di velocità, che in tale fase è limitata; invece, per
concentrazioni più elevate, la velocità di sedimentazione di massa si riduce
drasticamente al crescere di xi, per cui anche (FS)1 tende ad annullarsi.
Invece (FS)2 cresce linearmente con xi, per cui nel piano di Fig.12 esso è
rappresentato da una retta, nella quale u è data dalla tangente dell'angolo che la
retta stessa forma con l'orizzontale.
Infine, il flusso solido complessivo FS ha un andamento crescente nel tratto
iniziale (di scarso interesse pratico perché relativo a valori di concentrazione
inferiori a quelli di usuale impiego) ed è caratterizzato da un valore minimo (FS)L,
definito flusso solido limite, in corrispondenza della concentrazione xL.
Il significato di (FS)L è fondamentale per il funzionamento della vasca; si è
detto infatti che il flusso di solidi che attraversa la vasca è variabile lungo la
verticale, in funzione della loro concentrazione e velocità; il flusso solido
rappresenta la capacità di trasporto che ogni strato della vasca ha di trasferire i
solidi nello strato sottostante: la teoria sin qui esposta evidenzia che esiste uno
strato, posto a una certa profondità, in corrispondenza del quale tale capacità
risulta minima; in corrispondenza di tale strato, la concentrazione dei solidi è xL e il
flusso solido massimo che lo può attraversare è (FS)L.
Nel caso in cui la vasca venga alimentata con un flusso superiore a (FS)L,
l'eccedenza di solidi non potrà procedere oltre la sezione in cui si determina la
concentrazione xL, attraverso la quale può infatti passare solo un flusso non
superiore a (FS)L. Tale sezione assume così il ruolo di un "collo di bottiglia", al di
sopra del quale l'eccedenza di solidi viene ad accumularsi, diminuendo così il
volume occupato dalle acque chiarificate e determinando la progressiva risalita
dell'interfaccia solido-liquido e, prima o poi, la fuoriuscita del fango dai dispositivi di
sfioro.
Il rispetto del non superamento del flusso solido limite rappresenta quindi
una condizione necessaria affinché sia garantito l'instaurarsi nella vasca di
condizioni stazionarie, in cui siano individuate stabilmente le tre zone, del
chiarificato (A), di sedimentazione di massa (B) e di ispessimento (C).
Un'ultima considerazione si vuole aggiungere sulla portata di spurgo
estratta: l'alimentazione di una portata costante nel tempo, e quindi di un flusso di
solidi altrettanto costante, determinerebbe, se non venisse estratta la portata di
fango, il progressivo accumulo di solidi sul fondo della vasca e quindi la graduale
risalita dell'interfaccia tra la zona di sedimentazione di massa e di ispessimento;
ciò determina quindi l'innesco di una situazione transitoria e, prima o dopo, il
raggiungimento del livello di sfioro da parte dell'interfaccia, con conseguente
scarico di solidi. Il regime stazionario può allora essere garantito solo estraendo
una certa portata di fango, il cui valore dipende dalla sua concentrazione, in
quanto si deve avere continuità tra i solidi alimentati in vasca e quelli estratti. La
teoria del flusso solido consente allora di determinare il valore della portata di
fango da estrarre, in corrispondenza di un certo valore della concentrazione del
fango sul fondo (cioè del grado di ispessimento ottenuto in vasca).
Il valore della concentrazione xF del fango estratto dal fondo della vasca
può essere ricavato mediante la costruzione riportata in Fig.12. A tal fine si
ammette che negli strati inferiori il trasporto solido sia tutto prodotto dal movimento
discendente del liquido, dovuto al richiamo dello scarico, e che pertanto sia

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trascurabile il contributo della sedimentazione di massa; è questa un'assunzione


ragionevole, se si considera che la velocità di sedimentazione di massa decresce
all'aumentare della concentrazione, che qui è massima. In tale ipotesi l'intero
flusso ammissibile (FS)L viene allontanato per effetto del movimento del liquido e
può quindi scriversi:

(FS)L = u xF

Dalla Fig.12 si osserva che xF è data dall'intercetta sull'asse delle ascisse


della verticale condotta dal punto di intersezione tra l'orizzontale per (FS)L e la
retta di inclinazione u.
In più, è possibile fare ricorso alla teoria di Kynch, con la quale si dimostra
che la tangente condotta alla curva (FS)1 in corrispondenza del punto di ascissa
xL ha un'inclinazione sull'orizzontale di tangente pari ad u e intercetta sugli assi
delle ascisse e delle ordinate rispettivamente xF ed (FS)L (Fig.12).

La teoria del flusso solido consente di procedere al progetto di una vasca di


sedimentazione, con la quale si voglia raggiungere un prefissato grado di
ispessimento del fango, cioè una data concentrazione xF; da questa è infatti
possibile risalire a (FS)L ed u, mediante i quali si può calcolare A e QF.
Ne consegue che, tracciata la curva (FS)1 in funzione di xi e stabilito il
valore di xF che si vuole ottenere, la tangente condotta a tale curva a partire da xF
individua nel punto di tangenza la concentrazione xL e, come intercetta sull'asse
delle ordinate, il valore (FS)L compatibile con la concentrazione del fango xF che
si vuole ottenere (Fig.13).
La portata di fango estratto può ricavarsi col bilancio di massa fra i solidi
entranti e uscenti dalla vasca; risulta infatti (Fig.11):

(Q + QF )x 0 = QF x F
da cui:
Qx0
QF =
xF − x0

Infine, la superficie della vasca necessaria a trattare la portata (Q + QF)


risulta quindi definita come rapporto tra la quantità di solidi alimentata nell'unità di
tempo ed il flusso solido limite (FS)L prima determinato:

(Q + QF ) xo
A=
(FS)L

Nel caso di sedimentatori finali posti a valle di impianti a fanghi attivi è


possibile ottimizzare il progetto del complesso aerazione+sedimentazione: infatti,
valori più elevati di xF, da un lato, determinano maggiori superfici del
sedimentatore, dall'altro, consentono una diminuzione dei volumi di aerazione,
come si vedrà in seguito a proposito dei trattamenti biologici.
Si fa rilevare che il metodo sin qui descritto necessita soltanto della
costruzione del flusso solido (FS)1; per fare ciò è tuttavia necessario disporre della
curva di sedimentabilità del fango, cioè della legge di variazione di vi con xi; a tale
scopo si può fare ricorso a uno dei metodi già descritti in precedenza. Tuttavia, nel

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caso dei liquami di origine domestica, qualora tale curva non sia disponibile, può
farsi ricorso a criteri di calcolo di natura empirica, basati sulla vasta esperienza
ormai accumulata in tale campo; di essi si dirà meglio al successivo prf.5.

Un'ulteriore applicazione della teoria del flusso solido si può avere in fase di
esercizio, al fine di verificare le conseguenze di variazioni dei parametri operativi.
Infatti, si è già osservato che, se una vasca dimensionata per un flusso solido
limite pari a (FS)L viene alimentata con un flusso (FS)*>(FS)L, si determinerà la
risalita del fango nella zona del chiarificato e, prima o dopo, la fuoriuscita del fango
stesso; per evitare ciò, occorre modificare i parametri operativi della vasca, in
modo da far sì che (FS)* rappresenti il nuovo flusso solido limite della vasca
stessa.
Per far ciò (Fig.13), è sufficiente condurre dal valore (FS)* la tangente alla
(FS)1; l'intercetta con l'asse delle ascisse costituisce il nuovo valore xF* della
concentrazione del fango estratto, la cui portata è calcolabile con le espressioni
riportate in precedenza. E' facile rendersi conto che l'aumento di flusso solido
limite, così operato, comporta l'estrazione di una maggiore portata di fango, ma
avente una minore concentrazione (cioè il fango è più diluito).

In definitiva, la teoria del flusso solido consente di calcolare la superficie del


sedimentatore necessaria ad assicurare il voluto livello di ispessimento del fango
estratto dalla tramoggia.
Oltre a tale funzione, come prima accennato, il sedimentatore deve pure
assolvere alla funzione di chiarificazione, evitando quindi il trascinamento di fiocchi
di fango nell'effluente chiarificato. Il rischio non sussiste per i solidi che
sedimentano in massa, il cui trascinamento è evitato dal rispetto delle condizioni
imposte per ottenere l'ispessimento; è invece possibile per le particelle presenti
nella zona del chiarificato, che sedimentano in maniera granulare o fioccosa, la cui
presenza in prima approssimazione è stata trascurata nella teoria esposta in
precedenza; sarebbe pertanto necessario dimensionare la zona occupata dal
liquame chiarificato (al di sopra cioè dell'interfaccia con i fanghi) secondo i criteri
già discussi per questo tipo di fango.
Un simile approccio non viene mai applicato, anche per le difficoltà di
determinazione sperimentale. Ci si limita in genere ad assegnare dei valori del
carico idraulico Ci (definito come rapporto tra la portata alimentata Q, al netto
quindi della portata estratta con i fanghi, e la superficie della vasca) indicati
dall'esperienza come capaci di evitare il trascinamento dei fiocchi isolati. Si
determina di conseguenza la superficie compatibile con i valori di carico idraulico
prescelti.
La superficie da assegnare alla vasca di sedimentazione sarà quindi la
maggiore fra le due fin qui calcolate: la prima, necessaria per la funzione di
ispessimento (determinata mediante l'applicazione della teoria del flusso solido), la
seconda, per quella di chiarificazione (calcolata fissando il carico idraulico).
Nel caso dei sedimentatori posti a valle degli impianti a fanghi attivi, le
condizioni più restrittive (e quindi le superfici maggiori) sono in genere richieste per
garantire la funzione di ispessimento.

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ESEMPIO N.3

Problema:

La fase biologica di un impianto a fanghi attivi è alimentata con una portata Q=125 l/s; nella vasca
di aerazione deve essere mantenuta una concentrazione di solidi xo=3,4 kg/m3. Si richiede il
dimensionamento della vasca di sedimentazione finale per un valore di xF=12 kg/m3.

Svolgimento:

Mediante una serie di prove di sedimentazione, condotte per diverse concentrazioni iniziali di
fango, si ottengono i valori di velocità di sedimentazione di massa (corrispondenti al tratto rettilineo
della curva) riportati nel grafico di Figura 14 (a).
Da tale grafico, si ottengono per interpolazione le velocità corrispondenti ad alcuni valori intermedi
di concentrazione, che sono tutti riportati nella tabella allegata alla citata figura, in cui sono
riassunti i valori di x, i corrispondenti valori di v e di (FS)1.
Può essere così costruito il grafico di Figura 14 (b), in cui è riportato l'andamento di (FS)1 con la
concentrazione. Dal valore xF=12 kg/m3 si traccia la tangente alla curva, che intercetta l'asse delle
ordinate in corrispondenza del valore (FS)L=3,6 kg/m2xora. Dall'inclinazione di tale retta si ricava il
valore u = 0,3 m/ora.
Sempre in Figura 14 (b) sono riportate la retta del flusso (FS)2 e, a tratteggio, la curva del flusso
solido totale (FS).
E' ora necessario calcolare la quantità di solidi alimentata nell'unità di tempo, data dal prodotto
della concentrazione xo per la portata di alimentazione della vasca. Quest'ultima è pari alla somma
della portata alimentata alla fase biologica Q e di quella di ricircolo QF. Dal bilancio di massa dei
solidi entranti e uscenti nel sedimentatore si ricava:
xo 3, 4
QF = Q = 125 = 49 l / s
xF − xo 12 − 3, 4

La quantità di solidi alimentata al sedimentatore vale quindi


3600
(Q + QF ) x0 = (125 + 49) 3,4 = 2130 kg / ora
1000
La superficie del sedimentatore necessaria ad assicurare l'ispessimento fino a xF risulta:
(Q + QF )x0 2130
A= = = 592 m 2
(FS)L 3,6

Il corrispondente carico idraulico risulta:

Q 125 × 3600
Ci = = = 0,76 m / ora
A 1000 × 592

Essa è compatibile con la esigenza di evitare il trascinamento di fiocchi isolati, dato che rispetta i
valori riportati al successivo paragrafo.

4.5 Criteri di dimensionamento dei sedimentatori

4.5.1 Sedimentatori primari

La concentrazione di solidi sospesi sedimentabili di acque reflue grezze


(eventualmente sottoposte ai soli pretrattamenti) è in genere relativamente bassa:
il processo di sedimentazione si svolge pertanto secondo le leggi della

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sedimentazione fioccosa, con modalità che possono essere seguite in laboratorio


come indicato al prf.3.
In impianti reali, i dati di dimensionamento ottenuti sperimentalmente vanno
sempre applicati con prudenza, stante che il processo di sedimentazione è qui
condotto in condizioni diverse da quelle teoriche.
Numerose possono essere le cause di tali differenze; in particolare:
a) l'immissione del liquame attraverso i dispositivi di ingresso non è mai in grado di
assicurare una perfetta ripartizione del flusso lungo tutta la sezione iniziale, di
modo che si creano facilmente delle differenze di velocità da punto a punto;
b) non è mai possibile eliminare completamente la turbolenza dovuta al liquame in
arrivo, dotato di energia cinetica notevolmente superiore a quella del liquido in
sedimentazione;
c) altrettanto può dirsi per l'effetto di richiamo esercitato dai dispositivi di scarico;
d) nelle vasche possono determinarsi stratificazioni dovute sia a differenza di
temperatura, che a diverso contenuto di solidi sospesi;
e) il vento può creare in superficie correnti orizzontali di velocità compresa tra l'1
ed il 3% di quella del vento stesso; ad esempio, un vento che spira a 10 km/ora
può produrre correnti che si muovono a 30-85 mm/s, e cioè a velocità molto più
alte della velocità di avanzamento del liquame nella vasca;
f) la temperatura atmosferica può essere causa di correnti convettive verticali.

E' quindi necessario modificare in senso prudenziale i dati ottenuti con i


metodi di calcolo prima descritti, che si basano su studi eseguiti in laboratorio;
possono a tale scopo adottarsi opportuni coefficienti di sicurezza, aumentando
superfici e volumi teorici del 25-50%.

Nel caso di liquami domestici, la sedimentazione primaria è un processo


ben conosciuto; non è quindi necessario, se non in casi eccezionali, procedere a
determinazioni dirette dei dati di dimensionamento, che sono invece forniti
dall'esperienza.
Il materiale sedimentabile contenuto in un liquame domestico grezzo ha
natura eterogenea; di solito prevalgono i solidi di tipo fioccoso, per quanto non
manchi una consistente frazione di materiale di tipo granuloso.
Il dimensionamento viene pertanto condotto sulla base del tempo di
permanenza e del carico idraulico.
Riferendosi alla portata di calcolo, si assume di norma un tempo di 2 ore,
che può essere ridotto ad 1,50 ore, quando il trattamento primario sia seguito da
una fase biologica a fanghi attivi. In questo caso infatti una leggera diminuzione di
rendimento non comporta grossi inconvenienti, dato che i solidi sfuggiti alla
sedimentazione primaria sono comunque rimossi in quella finale.
Nel caso di fognatura a sistema unitario, occorre pure verificare che la
portata di pioggia non faccia scendere il tempo di permanenza al di sotto di 30-40
minuti.
Il volume della vasca viene quindi stabilito semplicemente moltiplicando la
portata di calcolo per il tempo di permanenza. Tale volume si riferisce alla zona
destinata alla sedimentazione, con esclusione quindi della capacità corrispondente
alla tramoggia di raccolta dei fanghi, la cui funzione è solo quella di far confluire in
pochi punti di presa (spesso uno solo) i solidi sedimentati.
La superficie della vasca viene invece calcolata stabilendo il valore del
carico idraulico. Esso viene di norma fissato tra 1,4 e 1,8 m/ora, per la portata di

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calcolo; tale valore può aumentare fino a 4-4,5 m/ora, in corrispondenza della
portata in tempo di pioggia.
Con i criteri di dimensionamento, esposti è possibile ottenere un rendimento
di rimozione dei solidi sospesi compreso tra il 55 ed il 70%; quello del BOD risulta
inferiore e generalmente prossimo al 25-30% (ciò è dovuto alla differente
ripartizione della frazione organica fra i solidi disciolti e sospesi).
In Tab.1 sono riassunti i criteri di dimensionamento che si suggerisce di
adottare nel caso della sedimentazione primaria.

ESEMPIO N.4

Problema:

Dimensionare una vasca di sedimentazione primaria che debba trattare 8400 m3/giorno di
liquame, con una portata di calcolo Qc = 525 m3/ora. Essendo la fognatura a sistema unitario, in
tempo di pioggia viene alimentata una portata Qp pari a 5 volte la media di tempo secco. Il
sedimentatore precede una vasca a fanghi attivi.

Soluzione:

Il volume di sedimentazione, valutato per un tempo di permanenza di 1,50 ore su Qp, risulta:
V = t Qc = 1,5 x 525 = 787,5 m3

Per un carico idraulico (sempre su Qc) Ci = 1,8 m/ora, si ricava la seguente superficie:
Q 525
S= c = = 292 m 2
Ci 1,8

Tale dimensionamento tuttavia non soddisfa le condizioni in tempo di pioggia, quando la


portata sale a Qp=8400x5/24=1750 m3/ora. Ne risulterebbe infatti un tempo di permanenza di 0,45
ore ed un carico idraulico di 6 m/ora.
Allora, imponendo tp = 0,50 ore e (Ci)p = 4,5 m/ora, risulta:
V = tp Qp = 0,50 x 1750 = 875 m3
S = Qp/(Ci)p = 1750/ 4,5 = 389 m2

Si realizza quindi una vasca circolare di 22 m di diametro (S = 380 m2) e un'altezza media di
acqua di 2,30 m, con un lieve aumento del carico idraulico rispetto alle condizioni calcolate, per
poter utilizzare le serie commerciali dei ponti raschiatori.

4.5.2 Sedimentatori secondari

La natura dei solidi sospesi presenti in un sedimentatore secondario


dipende dal tipo di trattamento realizzato a monte e in particolare, nel campo dei
processi biologici, dal fatto che questi siano realizzati mediante letti percolatori o
col sistema a fanghi attivi.
Nei letti percolatori le pellicole di spoglio danno origine a un fango avente
caratteristiche fioccose. In questo caso, quindi, i criteri di dimensionamento da
utilizzare sono quelli che fanno riferimento alla teoria della sedimentazione
fioccosa; i metodi che ne derivano sono pertanto analoghi a quelli utilizzati per i
sedimentatori primari, pur con differenti valori dei parametri in gioco.
Il volume del sedimentatore può essere calcolato adottando un tempo di
permanenza di 1,5-2 ore, nel caso di percolatori a debole carico, e di circa 2 ore,

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nel caso di percolatori intensivi; in quest'ultimo caso però occorre eseguire il


calcolo per la somma della portata di alimentazione e di quella di ricircolo.
La superficie del sedimentatore va invece calcolata fissando il carico
idraulico, variabile tra 0,8 e 5 m/ora, secondo le indicazioni riportate in Tab.2.

Diverso è il caso dei sedimentatori finali previsti a valle delle vasche a


fanghi attivi; in questo caso, essi hanno la funzione, oltre che di fornire un
effluente ben chiarificato, anche di garantire il necessario ispessimento del fango
estratto dal fondo della vasca.
L'elevata concentrazione dei solidi e le loro caratteristiche (natura e
dimensioni dei fiocchi) fanno sì che il processo si sviluppi come una
sedimentazione di massa, per cui occorre fare riferimento ai criteri di
dimensionamento richiamati al prf.4
Spesso, però, all'atto del dimensionamento degli impianti non è possibile
disporre di curve di sedimentabilità, rilevate sperimentalmente, condizione questa
necessaria per procedere a un calcolo rigoroso.
Si fa allora ricorso a criteri empirici, derivati dalla notevole esperienza
maturata per i liquami di natura domestica; i valori di flusso solido limite (spesso
anche indicato come carico di sostanza secca) applicabili sono riportati in Tab.2.
Essi si intendono riferiti alla quantità di solidi effettivamente alimentati nella vasca
nell'unità di tempo, ottenuta quindi come prodotto tra la concentrazione di solidi in
ingresso e la somma delle portate di calcolo e di ricircolo.
La verifica sul carico idraulico è invece limitata alla portata di calcolo, la sola
che, risalendo in superficie, possa determinare il trascinamento dei fiocchi isolati.
Il volume viene calcolato fissando un tempo di permanenza di 1,5-2 ore
sulla portata effettiva (comprensiva del ricircolo). Per i rapporti di ricircolo di
comune impiego ciò corrisponde a un tempo di permanenza di 2,5-3 ore, riferito
alla sola portata di calcolo.

ESEMPIO N.5

Problema:

Si vuole dimensionare una vasca di sedimentazione finale di un impianto a fanghi attivi a medio
carico, per una portata di calcolo di 200 m3/ora. La concentrazione di solidi sospesi nella miscela
aerata è di 4 g/l; il rapporto di ricircolo è di 0,75; la fognatura è a sistema separato.

Soluzione:

Si fissa un tempo di permanenza di 3 ore (in considerazione dell'elevato rapporto di ricircolo) e si


calcola il volume:
V = 200 x 3 = 600 m3

La portata effettiva alimentata nella vasca di sedimentazione è 200 + (0,75) 200 = 350 m3/ora, con
una concentrazione di solidi di 4 Kg/m3. In totale alla vasca sono alimentati 4 x 350 = 1400 Kg/ora.
Assunto un flusso solido limite di 6 Kg/m2xora, ne deriva una superficie di 1.400/6 = 233 m2.
Per contro, imponendo un carico idraulico di 0,8 m/ora, la superficie necessaria è 200/0,8 = 250
m2.
Viene quindi assunto quest'ultimo valore, superiore a quello richiesto in base al flusso solido limite.

4.6 Tipologia dei sedimentatori

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I sedimentatori possono essere classificati a seconda delle modalità con cui


l'acqua si muove nella vasca. Si può così distinguere tra:
a) sedimentatori a flusso orizzontale:
a1) sedimentatori a flusso longitudinale: la corrente ha direzione e velocità
costanti in tutta la vasca, dalla sezione di ingresso a quella di uscita;
a2) sedimentatori a flusso radiale: la direzione della corrente, orizzontale anche
in questo caso, è radiale, per cui il moto avviene dal centro verso la
periferia della vasca;
b) sedimentatori a flusso verticale.: di pianta circolare, sono caratterizzati da una
velocità della corrente prevalentemente verticale.

Chiaramente, la classificazione prima riportata fa riferimento alle condizioni


teoriche di funzionamento della vasca, dalle quali evidentemente ci si potrà
discostare più o meno, in funzione delle reali caratteristiche del manufatto
(modalità costruttive degli organi di alimentazione e scarico, condizioni di
alimentazione, etc.)
Appresso non si farà cenno dei sedimentatori statici (funzionanti in
discontinuo), la cui utilizzazione è molto rara.

4.6.1 Sedimentatori a flusso longitudinale (orizzontale)

I sedimentatori di questo tipo hanno pianta rettangolare, con ingresso lungo


uno dei due lati più corti ed uscita sul lato opposto. A seconda delle modalità con
cui il fango viene raccolto, essi si dividono in meccanizzati e non meccanizzati.

Nei sedimentatori non meccanizzati (Fig.15) i solidi si raccolgono


direttamente, senza l'intervento di organi meccanici, entro tramogge a forma di
piramide rovesciata, realizzate lungo l'intera superficie della vasca. Le pareti delle
tramogge hanno un'inclinazione non inferiore ai 45° sull'orizzontale, in modo da
consentire alle particelle sedimentate di scivolare spontaneamente verso il fondo.
L'estrazione dei fanghi è possibile sfruttando il dislivello tra il pelo libero della
vasca e quello del pozzetto di scarico (come in Fig.15), oppure con un
idroestrattore, di cui si dirà appresso, o infine con una pompa.
La semplicità di costruzione e funzionamento e l'assenza di organi
meccanici in movimento sono i maggiori pregi di questo tipo di vasche. Tuttavia,
esse sono adatte per piccole installazioni, essendo il loro impiego non conveniente
nel caso di elevate portate; infatti, all'aumentare della superficie in pianta della
vasca, o si aumenta il numero delle tramogge, rendendo quindi laboriose le
operazioni di estrazione del fango, o se ne accresce la profondità e quindi il
volume che rimane praticamente inutilizzato.

In impianti di medie e grandi dimensioni si fa quindi sempre uso di


sedimentatori meccanizzati, costituiti da vasche a fondo piano dotate di dispositivi
meccanici per la raccolta dei fanghi. Questi sono costituiti da raschiatori, con una
o più lame che strisciano sul fondo; nella corsa di avanzamento in controcorrente,
essi sospingono i solidi sedimentati in una tramoggia, realizzata nella zona iniziale
della vasca, per l'intera sua larghezza.
Per favorire l'operazione di allontanamento dei solidi verso la tramoggia, il
fondo presenta di solito una leggera pendenza (attorno all'1%).

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Va osservato che la tramoggia viene sempre disposta nella parte iniziale


della vasca; ciò è giustificato dalla circostanza che la maggior parte delle sostanze
sedimentabili si separano nella fase iniziale di attraversamento della vasca,
ricadendo quindi in prossimità della tramoggia o direttamente in essa; in più, si
evita in tal modo l'effetto di richiamo che l'efflusso della portata chiarificata
potrebbe esercitare sui solidi sedimentati e accumulati nella tramoggia.
Le pareti della tramoggia vengono di solito previste con maggiore
inclinazione rispetto al caso delle vasche non meccanizzate, dato che non si
hanno qui limitazioni connesse alla necessità di ridurre al minimo gli scavi.
Numerosi sono gli esempi di raschiatori: il tipo "a catena" (Fig.16) è
costituito da una coppia di catene, parallele ai due lati maggiori della vasca,
mantenute in movimento con velocità costante. Esse sostengono un certo numero
di lame trasversali, poste a una distanza di circa 3 m l'una dall'altra, le quali
coprono l'intera larghezza della vasca.
La soluzione "a ponte" (Fig.17) prevede invece un ponte mobile
motorizzato, che trasla su una coppia di rotaie poste sui bordi della vasca, al di
fuori del contatto con l'acqua. La lama, in questo caso unica, è fissata a bracci
imperniati al ponte; al fine di evitare la risospensione dei solidi, essa è sollevata al
di sopra del pelo libero della vasca, nella corsa di ritorno in equicorrente.
Il raschiatore a catena offre la possibilità di una rimozione pressoché
continua dei solidi sedimentati; questo è un grosso vantaggio nel caso di
sedimentatori realizzati a valle di impianti a fanghi attivi, nei quali è opportuna la
rapida estrazione del fango biologico, che invece permane in vasca per un tempo
maggiore con i raschiatori a ponte. Il movimento rotatorio continuo delle catene
appare preferibile, in quanto più semplice da un punto di vista meccanico, rispetto
a quello traslatorio alternativo della soluzione a ponte.
Percontro, il metodo a catena presenta il difetto che le catene sono
disposte, almeno in parte, sotto il pelo libero; esse sono quindi soggette ad un più
rapido deterioramento. Con i dispositivi a ponte mobile invece gli organi meccanici
sono mantenuti al di fuori del contatto con l'acqua.
In ogni caso, la velocità di traslazione dei ponti raschiatori deve essere
molto bassa, al fine di non disturbare la sedimentazione e non riportare in
sospensione i solidi accumulati sul fondo della vasca. Generalmente si adottano
valori compresi tra 5 e 15 mm/s; tuttavia, nel caso dei sedimentatori finali, previsti
a valle delle vasche a fanghi attivi, conviene non superare 5 mm/s.

Le condotte di estrazione del fango accumulato nelle tramogge devono


avere un diametro non inferiore a 15÷20 cm, indipendentemente dalle portate da
smaltire, al fine di evitare fenomeni di occlusione.
L'estrazione del fango dalle tramogge è di norma effettuata sfruttando il
carico idrostatico (Fig.17); in questo caso, la tubazione di scarico presenta, ad un
livello di circa 1 m al di sotto del pelo libero, una derivazione munita di
saracinesca. Lo scarico del fango avviene quindi in un pozzetto laterale, ove, se la
conformazione del terreno lo richiede, viene installata la pompa di ripresa.

Le modalità di alimentazione della vasca devono garantire una situazione il


più possibile vicina a quella ideale, in cui, in tutta la sezione iniziale della vasca
stessa, la velocità di trasporto e la distribuzione dei solidi sedimentabili risultino
uniformi.

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Ingegneria sanitaria-ambientale

I dispositivi di ingresso quindi devono poter ripartire nel modo migliore la


portata in arrivo e diminuire fin che possibile i fenomeni di turbolenza. Ciò si può
ottenere con una canaletta di alimentazione che interessi l'intera larghezza della
vasca e da cui lo scarico fuoriesca in modo continuo (Fig.18) o attraverso aperture
disposte a brevi intervalli (Fig.19). Una soluzione spesso adoperata è quella che
prevede l'uso di "diffusori" metallici, di solito a forma circolare, istallati di fronte alle
luci praticate sulla canaletta di alimentazione, al fine di rendere più uniforme la
velocità della corrente nella sezione iniziale della vasca. In Figg.20 e 21 è riportato
il diffusore tipo "Stengel".
E' in ogni caso opportuno che l'immissione nel sedimentatore non avvenga
per sfioro dalle canalette di alimentazione, che potrebbe determinare in queste
fenomeni di sedimentazione durante le ore in cui la portata è minore. La canaletta
di alimentazione deve essere sempre accessibile con facilità per consentire le
operazioni di pulizia.
Nel caso la vasca venga alimentata attraverso una pompa, è conveniente
prevedere una cameretta di dissipazione per ridurre l'energia cinetica del liquame
in arrivo.
Può essere pure inserito un deflettore (Fig.16), a una distanza di 60-90 cm
dall'ingresso, fino a una profondità di 45-60 cm al di sotto del pelo libero
(eccessive profondità del setto possono generare elevate velocità di ingresso);
esso ha lo scopo di migliorare la distribuzione del liquame e di impedire che si
creino correnti superficiali e fenomeni di cortocircuito.

Lo scarico dell'effluente chiarificato viene effettuato attraverso una canaletta


alimentata per sfioro. In tal modo, è possibile raccogliere la portata in uscita in
prossimità della superficie, ove risulta minima la concentrazione di solidi sospesi
(Figg.16 e 17).
Per ridurre l'effetto di richiamo esercitato dai dispositivi di uscita sui fanghi
già sedimentati, occorre limitare la portata scaricata per ogni metro lineare di
soglia sfiorante. Tale limitazione non è particolarmente restrittiva nel caso di
sedimentatori primari, per i quali si sono applicati, senza inconvenienti, anche
carichi superiori a 1500 m3 di effluente per m di sfioro al giorno. Valori più bassi
vanno invece tenuti sui sedimentatori finali previsti a valle di vasche a fanghi attivi,
ove più facilmente si hanno fenomeni di richiamo. In pratica, si assumono carichi
non eccedenti 350 m3/mxgiorno, nel caso di vasche di grandi dimensioni, e 250
m3/mxgiorno in vasche medio-piccole. Tali valori vanno calcolati sulla Qc e sono
validi tanto per i sedimentatori a flusso longitudinale, quanto per quelli radiali,
descritti appresso.
Al fine di garantire che la soglia di sfioro sia tutta allo stesso livello, onde
evitare la formazione tanto di vie preferenziali di uscita del chiarificato, quanto di
zone di ristagno, con conseguente riduzione del tempo di permanenza effettivo,
possono essere adoperate delle soglie metalliche a sagoma triangolare, in pratica
costituiti da più stramazzi Thomson in serie (Figg.22 e 23); l'allineamento può
essere così eseguito con notevole precisione, al momento dell'installazione della
soglia sulle opere murarie della vasca. In più, il ricorso a canalette dotate di
stramazzi di questo tipo può consentire la realizzazione di una soglia sfiorante
notevolmente più lunga della parete finale della vasca e quindi la conseguente
riduzione della portata sfiorata per unità di lunghezza della soglia. La portata

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sfiorata attraverso la soglia può essere calcolata con la seguente espressione,


ricavabile modificando opportunamente l'espressione valida per lo stramazzo tipo
Thomson:

8 ⎡ m3 ⎤
q=n μh 2 2gh ⎢ ⎥
15 ⎣s × m⎦

q è la portata sfiorata per unità di lunghezza della lama, n il numero di stramazzi


per ogni metro di lama, μ il coefficiente di efflusso, che può porsi pari a 0,6 , e
infine h l'altezza idrica in m, misurata sul vertice inferiore dello stramazzo.

Allo scopo di trattenere i solidi galleggianti, deve essere previsto a monte


dei dispositivi di uscita un deflettore paraschiuma, profondo da 30 a 50 cm al di
sotto del pelo libero della vasca (Figg.17 e 23). Infatti, nei sedimentatori primari,
contemporaneamente alla separazione dei solidi sospesi, si ha la flottazione dei
grassi e delle particelle leggere che si raccolgono in superficie e che devono
essere periodicamente raccolte ed asportate (anche nel caso in cui l'impianto
comprenda un apposito disoleatore). Il deflettore paraschiuma di uscita è bene sia
previsto anche nelle vasche di sedimentazione finale, quanto meno come misura
precauzionale nel caso si verifichino affioramenti di fango (fenomeni di "rising" per
denitrificazione). La sua presenza è poi indispensabile quando l'impianto non
prevede la sedimentazione primaria.

L'allontanamento dei solidi intercettati dai deflettori avviene manualmente,


nelle vasche non meccanizzate, mentre è automatico, in quelle meccanizzate; in
particolare, nel caso si adoperino i raschiatori a ponte, l'allontanamento dei solidi
galleggianti è ottenuto a mezzo di una lama di superficie, collegata al ponte stesso
(Fig.16); invece, nei raschiatori a catena, tale funzione è svolta dalle stesse lame
utilizzate per i fanghi, nella corsa di ritorno.
In entrambi i casi, le lame, mantenendosi immerse di qualche centimetro,
ripuliscono la superficie e sospingono i solidi galleggianti contro il deflettore di
uscita. Da qui essi vengono eliminati attraverso un'apposita apertura.
Un dispositivo adoperabile per l'allontanamento dei solidi galleggianti è
rappresentato in Figg.16 e 24: esso è costituito da una condotta metallica, aperta
per circa 1/4 della sua sezione trasversale, istallato subito a monte della lama
paraschiuma; il dispositivo è immerso al di sotto del pelo libero per circa la metà
della sezione e normalmente assume una posizione tale da non essere tracimabile
dalle acque della vasca; grazie a un manovellismo comandato dallo stesso
raschiatore, quando questo è in prossimità della condotta, esso viene rovesciato in
modo tale da derivare i solidi accumulatisi subito a monte di esso.

La lunghezza delle vasche di sedimentazione rettangolari può arrivare


anche 90 m; normalmente non supera tuttavia 40 m. Il rapporto tra lunghezza e
larghezza è di solito compreso tra 2:1 e 5:1; la larghezza della vasca è limitata
dalla luce dei raschiatori, che di solito non supera 7-8 m.

4.6.2 Sedimentatori a flusso radiale (orizzontale)

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Le vasche di sedimentazione a flusso radiale hanno quasi sempre pianta


circolare. L'alimentazione della vasca avviene al centro, mentre il chiarificato sfiora
lungo il perimetro esterno; il fango sedimentato sul fondo è raccolto in una
tramoggia ricavata nella parte centrale, da cui è poi estratto per pompaggio o
sfruttando il carico idrostatico, secondo modalità analoghe a quelle già descritte
per le vasche a flusso longitudinale.
Rispetto a queste ultime, il processo di sedimentazione si svolge qui con
modalità diverse: infatti in un sedimentatore rettangolare la sezione di passaggio si
mantiene costante lungo tutto lo sviluppo longitudinale della vasca e quindi anche
la velocità di trascinamento dei solidi non varia nel moto di avanzamento verso la
sezione di uscita.
Invece, nelle vasche a pianta circolare la sezione di passaggio aumenta,
man mano che ci si sposta dal centro alla periferia, risultando costituita da una
superficie cilindrica di raggio pari alla distanza misurata dal centro. Per
conseguenza, la velocità di avanzamento va progressivamente decrescendo,
procedendo dal centro verso la periferia della vasca. La sedimentazione risulta
così più uniforme, rispetto al caso delle vasche a flusso longitudinale, per cui
maggiore è la quantità di fango raccolta dai raschiatori.
Un ulteriore vantaggio delle vasche circolari, rispetto a quelle rettangolari, è
che, come si vedrà appresso, in esse il movimento rotatorio dei dispositivi di
raccolta dei fanghi avviene senza che vi siano parti meccaniche immerse.

Per facilitare l'allontanamento del fango, il fondo della vasca viene costruito
con pendenza maggiori di quelle delle vasche a flusso longitudinale. Pendenze
troppo elevate sono però da evitare, in quanto deve essere assicurata
l'ispezionabilità del fondo del sedimentatore, per procedere alle operazioni di
pulizia e di manutenzione a vasca vuota. Di solito si adottano pendenze non
superiori al 10 %.
La raccolta del fango viene effettuata mediante dei raschiatori a ponte,
munite di lame che strisciano sul fondo, muovendosi in moto rotatorio. Per non
agitare i solidi sedimentati e non disturbare il fenomeno di sedimentazione, si
adottano velocità di rotazione piuttosto basse, in genere non superiori, in periferia,
a 10 mm/s.
Negli esempi riportati nelle Figg. 25 e 26a si fa ricorso a ponti raschiatori
con lama a spirale; nell'esempio in Fig.26b è invece previsto un raschiatore munito
di una serie di lame ad asse rettilineo, inclinate rispetto al supporto rotante
disposto radialmente. Il fango è così avviato in una tramoggia centrale, da cui è
estratto con modalità che non differiscono da quelle descritte per i sedimentatori a
flusso longitudinale; in genere, è necessaria una prevalenza maggiore, dato che è
più lungo il percorso della tubazione disposta sotto il fondo della vasca stessa.

Un differente sistema di estrazione dei fanghi è quello che prevede l'uso di


tubi rotanti ad asse orizzontale disposti radialmente in prossimità del fondo della
vasca; i tubi sono dotati di una serie di aperture, che durante la rotazione coprono
l'intera superficie del fondo. Attraverso tali aperture il fango viene aspirato, per
effetto del carico idrostatico, e scaricato in una canaletta (o in un pozzetto) di
raccolta. In tal modo non occorre prevedere la tramoggia centrale. Il metodo è
particolarmente indicato per le vasche di sedimentazione finale degli impianti a
fanghi attivi, in quanto consente una più rapida rimozione del fango stesso.

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In ogni caso, va prevista una passerella per l'ispezione della vasca, che può
essere fissa o girevole; in quest'ultimo caso, essa è imperniata al centro e ruota
mediante un carrello poggiato sulla parete periferica e, in maniera solidale col
raschiatore.
L'alimentazione della vasca avviene, come già accennato, al centro della
vasca, mediante una condotta posata sotto il fondo; onde evitare sedimenti in
condotta, è opportuno che in essa, per la portata di calcolo, la velocità non scenda
sotto i 0,40-0,50 m/s; velocità minori possono essere ammesse nei periodi di
bassa portata, in quanto i sedimenti che allora si determinano sono trascinati via
nelle ore di punta. Spesso nel tratto finale verticale della tubazione si adotta una
sezione via via crescente, allo scopo di ridurre l'energia cinetica.
Per ottenere una buona ripartizione della portata in ogni direzione si ricorre
generalmente ad un deflettore cilindrico, concentrico con la tubazione di
adduzione (Fig.25); tale deflettore ha un diametro che oscilla tra il 10 ed il 20% di
quello complessivo della vasca.
Anche in questo caso possono essere adottati diversi accorgimenti per
migliorare la distribuzione della portata entrante in vasca, al fine di rendere
uniforme la velocità in ogni direzione radiale; spesso usato è il sistema con
diffusori tipo Stengel, già descritti per le vasche a flusso longitudinale (Fig.21).

Lo scarico dell'effluente chiarificato avviene lungo la periferia della vasca; la


soglia di sfioro deve però trovarsi tutta allo stesso livello, in modo da non creare
vie preferenziali di uscita del liquame e zone di ristagno. Vengono a tale scopo
adoperate le soglie metalliche a sagoma triangolare, già descritte in precedenza,
che possono essere allineati con notevole precisione (Figg.22 e 23).

Allo scopo di trattenere i solidi galleggianti, occorre prevedere una lama


paraschiuma lungo tutto il perimetro della vasca, affondato di 20÷30 cm al di sotto
del pelo libero. Alla raccolta di tali sostanze provvede una apposita lama
schiumatrice, solidale al ponte rotante; essa spinge le parti galleggianti verso la
periferia; qui è realizzato un pozzetto (scum box), la cui imboccatura emerge di
qualche centimetro al di sopra del pelo libero e si trova al termine di un piano
inclinato; in pratica, la parte terminale della lama schiumatrice, in corrispondenza
al piano inclinato, è in materiale flessibile e può sospingere le parti galleggianti sul
piano inclinato e quindi nel pozzetto (Fig.27).

Le vasche di sedimentazione a pianta circolare possono raggiungere


diametri anche di 100 m; tali dimensioni sono comunque assolutamente
eccezionali e di rado il diametro supera 40-50 m.

4.6.3 Sedimentatori a flusso verticale

Nelle vasche di questo tipo il liquame si muove prevalentemente in


direzione verticale, dal fondo verso la superficie. Contrariamente ai sedimentatori
visti finora, l'azione di trascinamento esercitata sulle particelle sospese non ha
quindi una componente orizzontale, ma si esplica in direzione verticale, con verso
opposto a quello della forza peso.
Perchè quindi una particella isolata possa sedimentare, e cioè muoversi in
verso contrario a quello del liquame, è necessario che la sua velocità di

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sedimentazione v, calcolata con la legge di Stokes, risulti superiore alla velocità vo


di risalita del liquame in vasca.
Se quindi Q è la portata da trattare ed A è la sezione orizzontale della
vasca, risulta:
Q
vo =
A

Allora, i solidi dotati di velocità di sedimentazione v>vo possono essere


intercettati, mentre quelli per i quali risulta v<vo sono allontanati con l'effluente,
visto che per esso l'azione di trascinamento prevale sulla forza di gravità.
Nel caso in cui le due velocità si equivalgono, la particella non può nè
sedimentare sul fondo, né raggiungere la superficie, per cui essa si mantiene in
condizioni di equilibrio all'interno della vasca.

L'andamento del processo tuttavia si modifica, se non ci si limita a


considerare una particella isolata e se la natura del fango risulta, almeno in parte,
fioccosa.
Infatti, mentre i solidi cui compete una velocità di caduta superiore a vo
sedimentano e si raccolgono sul fondo, quelli che vengono a trovarsi in condizioni
di equilibrio, accumulandosi nella vasca, formano una zona in cui la
concentrazione di solidi sospesi risulta molto elevata (letto di fango). Tale zona
esercita una vera e propria azione filtrante nei confronti delle particelle più piccole
(per le quali risulta v<vo) che, essendo più leggere, sarebbero altrimenti trascinate
verso l'alto. Se, come si è ammesso, il fango ha natura fioccosa, si verificano dei
fenomeni di agglomerazione che conducono alla formazione di fiocchi che
ingrossandosi arrivano a dimensioni sufficienti, perchè l'azione della gravità possa
provocarne la sedimentazione sul fondo.

Il proporzionamento delle vasche viene fatto fissando la velocità


ascensionale del liquame; i valori generalmente adottati sono compresi tra 1,00 e
2,50 m/h.

I sedimentatori a flusso verticale hanno pianta quadrata o circolare; in


quest'ultimo caso, che è il più frequente, essi vengono costruiti sia cilindrici
(Fig.28), che troncoconici (Fig.29); questi ultimi essi vengono citati come "tipo
Dortmund".
In ogni caso, sotto la zona di sedimentazione è prevista una tramoggia per
il fango, di solito dimensionata in modo da consentire la raccolta e l'estrazione dei
sedimenti senza dover ricorrere a mezzi meccanici.
L'alimentazione della vasca avviene dal centro, attraverso una tubazione in
pressione ripiegata verso l'alto, che sfocia in vicinanza del pelo libero; un
deflettore cilindrico è disposto attorno al punto di sbocco. Il deflettore, che si
prolunga fin verso il fondo della vasca, imprime al liquame una velocità iniziale
rivolta verso il basso. Raggiunta l'estremità inferiore del deflettore, la corrente
inverte il verso del moto ed entra nella zona di sedimentazione vera e propria,
muovendosi quindi verso l'alto; lo sfioro del chiarificato avviene lungo la periferia
della vasca.
Il deflettore è immerso per una profondità pari al 70÷80% dell'altezza della
zona di sedimentazione; profondità maggiori sono da evitarsi per il rischio che il
flusso del liquame in arrivo determini un'agitazione nel fango che già si trova nella

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sottostante tramoggia. Il diametro del deflettore viene tenuto, nel caso di


sedimentatori cilindrici, tra 1/3 ed 1/4 del diametro della vasca e, nel caso di
sedimentatori troncoconici, tra 1/2 ed 1/3 del diametro minore.
La profondità della zona di sedimentazione deve essere sufficiente a
conferire al liquame un movimento diretto, almeno prevalentemente, in senso
verticale. In vasche cilindriche essa si tiene quindi non inferiore al raggio, mentre
in vasche troncoconiche è all'incirca pari al diametro minore.
L'estrazione dei fanghi avviene senza organi meccanici (in maniera simile al
caso prima esaminato dei sedimentatori non meccanizzati); pertanto, sulla
pendenza da dare al fondo valgono le medesime considerazioni prima svolte.
Adottando la forma cilindrica si ha il vantaggio che la tramoggia è conica e di
conseguenza che la pendenza risulta costante lungo tutte le generatrici.
Questo tipo di vasca si rivela particolarmente indicato per la
sedimentazione finale, a valle di impianti a fanghi attivi o di flocculazione chimica;
invece essa si presta poco, quando i solidi sospesi hanno caratteristiche
parzialmente granulari.

4.7 Sedimentatori lamellari

Si è già discusso dell'importanza che ha la superficie delle vasche sul


rendimento di sedimentazione. Nel caso di fango granulare tale superficie risulta
infatti inversamente proporzionale alla velocità vo. Per fango fioccoso, pur
mancando la possibilità di una previsione teorica del fenomeno, l'aumento della
superficie presenta in ogni caso il vantaggio che, a parità di volume della vasca,
diminuisce in proporzione il percorso che ciascun fiocco deve superare per
raggiungere il fondo.
In base a tali considerazioni, sono stati realizzati i cosiddetti sedimentatori
lamellari (detti pure a pacchi lamellari) In essi la zona di sedimentazione viene
riempita con elementi, generalmente in materiale plastico, configurati in modo da
suddividere il volume disponibile in unità elementari disposte in parallelo, di
geometria differente a seconda dei casi (tubi a sezione rettangolare o esagonale;
canali limitati da superfici variamente configurate e simili).
La portata da trattare si suddivide quindi tra le diverse unità elementari,
ciascuna delle quali può essere considerata come un sedimentatore autonomo, di
limitatissima profondità. Le particelle che sedimentano raggiungono la parete di
fondo di ciascun canale.
In Fig.30 è schematicamente rappresentato un tratto di canale. Assunta una
terna di riferimento con l'asse x orientato come il canale (quindi con inclinazione θ
sull'orizzontale) e indicata con V la velocità di trascinamento e con v quella di
sedimentazione (secondo la legge di Stokes), segue che la componente di velocità
lungo l'asse y, utile agli effetti della sedimentazione, vale:

vy = v cosθ

Con riferimento a tale componente utile e alla superficie complessiva dei


canali può essere svolta una trattazione del tutto analoga a quella riportata in
precedenza per i sedimentatori tradizionali.
Secondo una soluzione impiantistica, peraltro poco adatta alle acque di
rifiuto, i canali sono installati con disposizione pressoché orizzontale (Fig.31a): i
solidi non possono in questo caso essere allontanati per gravità, ma richiedono

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periodiche operazioni di pulizia con svuotamento delle vasche ed operazioni di


controlavaggio.
Un funzionamento continuo è invece possibile disponendo i canali con una
considerevole inclinazione sull'orizzontale (50-60 gradi). Il liquame è generalmente
alimentato dal basso e si muove in controcorrente rispetto alle particelle di fango
che, raggiunto il fondo del canale, scivolano per gravità, raccogliendosi in una
tramoggia (Fig.31b).

Fig.1 - Andamento del coeff. di Newton Cd con Re per differenti forme delle particelle

Fig.2 - Sedimentazione granulare in vasca rettangolare a flusso orizzontale

Fig.3 - Sedimentazione granulare in vasca rettangolare di altezza pari alla metà di


quella di Fig.2

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Fig.4 - Procedura di calcolo del rendimento di sedimentazione granulare (cfr.


Esempio n.1)

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Fig.5 - Procedura di calcolo del rendimento di sedimentazione fioccosa

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Fig.6 - Andamento teorico del processo di sedimentazione di massa in condizioni


statiche

Fig.7 - Andamento della concentrazione in prove di sedimentazione statica (1: situazione


iniziale; 2: situazione generica con tre zone; 3: situazione generica con due
zone)

Fig.8 - Esempio di curve di sedimentazione in condizioni statiche per sospensioni


di CaCO3 a differenti concentrazioni iniziali

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Fig.9 - Determinazione della curva di sedimentabilità

Fig.10 - Determinazione della curva di sedimentabilità a partire da una sola prova in


cilindro

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Fig.11 - Schema di alimentazione di un sedimentatore (sezione verticale diametrale)

Fig.12 - Andamento dei flussi solidi (FS)1, (FS)2 ed FS in funzione della concentrazione xi

Fig.13 - Determinazione del flusso solido massimo applicabile in un sedimentatore, in funzione


della livello di ispessimento richiesto

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Fig.14 - Procedura di calcolo della superficie di un sedimentazione, per la funzione di


ispessimento (cfr. Esempio n.3)

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Tempo di permanenza (per la portata massima di tempo secco Qc):

- impianti solo primari: 2 ore


- a monte di letti percolatori e dischi biologici: 2 ore
- a monte di vasche a fanghi attivi: 1,5 ore

Tempo di permanenza minimo (per la portata di tempo di pioggia Qp):

- impianti solo primari o a monte di vasche a fanghi attivi: 0,50 ore


- a monte di letti percolatori e dischi biologici: 0,67 ore

Carico idraulico massimo:

- sulla portata Qc: 1,8 m/ora


- sulla portata Qp: 4,5 m/ora

Tab. 1 - Criteri di dimensionamento dei sedimentatori primari

a) Impianti a fanghi attivi a medio carico:

- tempo di permanenza (su Qc): 2,5-3 ore


- carico idraulico in tempo secco (su Qc): 0,8 m/ora
- carico idraulico in tempo di pioggia (su Qp): 1,5 m/ora
- flusso solido (su Qc + Qr): 5-6 kg SS/m2xora

b) Impianti ad aerazione prolungata:

- tempo di permanenza (su Qc): 3 ore


- carico idraulico in tempo secco (su Qc): 0,6 m/ora
- carico idraulico in in tempo di pioggia (su Qp): 1,2 m/ora
- flusso solido (su Qc + Qr): 5 kg SS/m2xora

c) Impianti con percolatori intensivi:

- tempo di permanenza (su Qc + Qr): 2 ore


- carico idraulico (su Qc + Qr): 0,8 m/ora

d) Impianti con percolatori a basso carico:

- tempo di permanenza (su Qc): 1,5-2 ore


- tempo di permanenza (su Qp): 0,67 ore
- carico idraulico in tempo secco (su Qc): 2 m/ora
- carico idraulico in in tempo di pioggia (su Qp): 5 m/ora

Tab. 2 - Criteri di dimensionamento dei sedimentatori finali

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Fig.15 - Sedimentatore a flusso longitudinale non meccanizzato

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Fig.16 - Sedimentatore a flusso longitudinale meccanizzato, con raschiatore a catena (doc.


Siderpol)

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Fig.17 - Sedimentatore a flusso longitudinale meccanizzato, con raschiatore a ponte

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Fig.18 - Esempio di sistema di alimentazione di un sedimentatore longitudinale con luce sotto


battente

Fig.19 - Esempio di sistema di alimentazione di un sedimentatore longitudinale con canaletta di


distribuzione

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Fig.20 - Esempio di sistema di alimentazione di un sedimentatore longitudinale con


diffusori tipo Stengel

Fig.21 - Diffusori tipo Stengel per l'alimentazione di una vasca di sedimentazione: (a) sed.
longitudinale; (b) sed. radiale (doc. Passavant)

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Fig.22 - Soglia sfiorante con stramazzo triangolare tipo Thomson

Fig.23 - Esempio di installazione di una soglia sfiorante con stramazzo tipo Thomson e
lama paraschiuma

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Fig.24 - Esempio di dispositivo per l'allontanamento dei solidi flottanti da un sedimentatore


longitudinale (doc. Siderpol)

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Fig.25 - Sedimentatore a flusso radiale con raschiatore con lama a spirale (doc. Siderpol)

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(a)

(b)

Fig.26 – Viste di sedimentatori a flusso radiale con raschiatore a spirale (a) e a lame multiple (b)

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Fig.27 - Esempio di pozzetto di raccolta dei solidi galleggianti (scum box)

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Fig.28 - Sedimentatore a flusso verticale

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Fig.29 - Sedimentatore a flusso verticale tipo Dortmund

Fig.30 - Composizione vettoriale delle velocità in un sedimentatore lamellare

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Fig.31 - Esempi di applicazione di un sedimentatore lamellare in un impianto di coagulazione e


filtrazione; (a) sed. a debole inclinazione; (b) sed. a forte inclinazione

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5. FLOTTAZIONE

5.1 Generalità

La flottazione è un trattamento meccanico con cui si ottiene la separazione


di particelle sospese, solide o liquide, di peso specifico inferiore a quello
dell'acqua. In condizioni di quiete, tali particelle tendono a raccogliersi in
superficie, da cui possono essere rimosse manualmente o con mezzi meccanici.
Si tratta quindi di un processo sostanzialmente analogo alla sedimentazione, con
la differenza che in questo caso la risultante delle forze a cui la particella è
sottoposta, derivante dalla composizione della forza peso con la spinta idrostatica,
risulta diretta verso l'alto, determinando un movimento ascensionale.

Il tipo più semplice di flottazione è quello naturale, possibile solamente nel


caso in cui le particelle da rimuovere presentino un peso specifico proprio inferiore
a quello dell'acqua. In questo caso, i solidi sospesi leggeri tendono a risalire verso
la superficie, purchè vengano evitati fenomeni di turbolenza nella vasca.
Un miglior rendimento del processo può ottenersi ricorrendo alla flottazione
con insufflazione d'aria. Immettendo infatti nello scarico delle bolle d'aria che
aderiscano alle particelle da eliminare, è possibile ottenere la formazione di un
aggregato particella-aria, avente peso specifico "apparente" inferiore a quello del
materiale sospeso originariamente presente e pertanto più facilmente eliminabile.
Il rendimento di flottazione è tanto maggiore, quanto più piccolo è il diametro delle
bolle d'aria; con i sistemi tradizionali di insufflazione è però difficile scendere al di
sotto di diametri di bolla di qualche millimetro.
Dimensioni di bolla molto inferiori, dell'ordine cioè di qualche decina di
micron, possono essere ottenute con la flottazione a pressione differenziata. Essa
sfrutta la differenza di solubilità che l'aria, come qualsiasi altro aeriforme, presenta
al variare della pressione: portando lo scarico, già arricchito d'aria, ad una
pressione inferiore a quella di partenza, l'aria in esso presente viene a trovarsi a
una concentrazione superiore al tenore di saturazione corrispondente al nuovo
valore della pressione, per cui essa si libera in bolle finemente disperse, aventi
diametro compreso tra 30 e 120 μ. E' in tal modo possibile rimuovere anche
particelle aventi peso specifico superiore a quello dell'acqua.

Di norma, negli impianti di depurazione previsti per il trattamento di reflui di


origine urbana in prevalenza domestica, specie se di potenzialità medio-piccola, la
rimozione dei solidi galleggianti e di grassi e oli è ottenuta in unità per le quali la
flottazione non costituisce l'obiettivo primario (dissabbiatore, sedimentatore
primario). In particolare, i lunghi tempi di permanenza che si realizzano della
sedimentazione sono in grado di assicurare un sufficiente rendimento di
rimozione, per flottazione naturale. Solo nel caso di grandi impianti o quando si
preveda la presenza di oli e grassi in quantità elevate, è preferibile ricorrere a un
trattamento specifico di flottazione (detto anche di disoleatura), soprattutto per
evitare il sovraccarico dei dispositivi di rimozione dei solidi galleggianti nei
sedimentatori primari, facilmente soggetti a intasamento.
Nel caso di liquami urbani, l'apporto di grassi e oli può essere stimata
indicativamente in 5-10 kg/abxanno; nel campo industriale, ovviamente qualunque
stima necessita di entrare nel merito del tipo di attività e del ciclo produttivo
adoperato.

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In ogni caso, va ricordato che la presenza di grassi e oli, oltre che costituire
una forma di inquinamento talvolta grave (si pensi ad esempio al caso degli
scarichi a mare con i problemi estetici connessi alla presenza di materiale
galleggiante), possono comportare anche problemi nello stesso processo
depurativo. Aderendo alle pellicole biologiche dei percolatori ed ai fiocchi di fango
attivo, essi ostacolano il trasferimento di ossigeno e provocano un alleggerimento
dei fiocchi, peggiorando le caratteristiche di sedimentabilità del fango; nella linea
fanghi, la loro immissione in quantità rilevanti nei digestori anaerobici ne rallentano
il processo biologico, a causa della loro scarsa biodegradabilità, e vi favoriscono la
formazione della crosta superficiale. Da questo punto di vista sono pericolosi non
tanto gli oli ed i grassi di provenienza domestica, quanto gli oli minerali (lubrificanti,
combustibili, diluenti, etc.) lentamente biodegradabili, che vengono scaricati anche
abusivamente da industrie, autorimesse, stazioni di servizio.

Va infine ricordato che un refluo può contenere, oltre che grassi (allo stato
solido) e oli (allo stato liquido), entrambi in forma dispersa, anche oli in forma di
emulsioni; queste hanno le caratteristiche di sospensioni colloidali,
particolarmente stabili e separabili solo dopo trattamento fisico-chimico
(coagulazione e flocculazione). In questi casi, in assenza di tali trattamenti, i
rendimenti di disoleatura possono risultare bassi, pur adottando tutti i sistemi di
flottazione prima citati.

5.2 Flottazione naturale

Come già accennato, la flottazione naturale consente di rimuovere le


particelle che hanno un peso specifico proprio inferiore a quello dell'acqua. La
velocità con cui, in condizioni di quiete, le particelle risalgono verso la superficie è
ricavabile mediante la legge di Stokes, già incontrata in occasione della teoria
della sedimentazione:

1 g
v= (ρs − ρ)d2 (1)
18 μ
con:
g accelerazione di gravità
μ viscosità del fluido
ρs densità del solido
ρ densità del fluido
d diametro della particella

Come è noto, a seconda che la densità del fluido sia minore o maggiore di
quella della particella che in esso si trova, la velocità assume lo stesso segno di g
ed è quindi diretta verso il basso (fenomeno di sedimentazione), oppure è di
segno opposto, risultando diretta verso l'alto (fenomeno di flottazione).
Sulla base della velocità ascensionale data dalla (1), la superficie
orizzontale di una vasca di flottazione con alimentazione continua è quindi
calcolabile con la seguente espressione, analoga a quella già vista per i
sedimentatori:

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Q
A=c (2)
v

dove Q è la portata dello scarico da trattare e c un coefficiente correttivo, che tiene


conto delle effettive condizioni di moto all'interno della vasca. In Tab.1 sono
riportati i valori determinati, in via sperimentale, per il coefficiente c, nel caso di
vasche rettangolari; tali valori sono espressi in funzione del rapporto V/v, dove V è
la velocità orizzontale della corrente nella vasca.
Per non accrescere eccessivamente la turbolenza e quindi ostacolare il
processo di flottazione, V va mantenuta non superiore a 15 v, purchè in ogni caso
non si superi il valore di 1,5 cm/s (54 m/ora).
La (2) consente quindi di calcolare la superficie della vasca, quando siano
note le caratteristiche delle particelle che si vogliono separare e sia stata quindi
calcolata, attraverso la (1), la loro velocità ascensionale.
Nel caso delle vasche di flottazione utilizzate nelle raffinerie, l'esperienza
maturata sull'esercizio di vasche già costruite ha evidenziato l'opportunità di
procedere alla separazione di gocce di olio aventi diametro non inferiore a 0,015
cm. In base alla (1), la velocità ascensionale minima delle particelle che si
vogliono così separare risulta:

( ρ s − ρ)
v = 0, 443 (3)
μ

con:
v velocità di flottazione, in m/ora
ρs densità relativa della particella
ρ densità relativa dell'acqua
μ viscosità dell'acqua, in poise.

Per l'utilizzazione della (3) occorre conoscere il valore di ρs , ρ e μ, tutte


grandezze variabili con la temperatura e quindi da calcolare per tutte le condizioni
di esercizio prevedibili. Come noto, la densità relativa dell'acqua al di sopra di 4 °C
diminuisce con la temperatura, passando da 1,00 a 4 °C fino a 0,996 a 30 °C;
anche la viscosità diminuisce con la temperatura, da 0,019 poise a 0 °C fino a
0,009 poise a 30 °C. La densità relativa delle gocce d'olio va invece determinata di
volta in volta; essa può variare tra 0,83, per idrocarburi leggeri e scarichi molto
caldi (attorno a 45 °C), e 0,97, per idrocarburi pesanti in acqua a temperatura
prossima a 0 °C.

Stabilito V è pure possibile determinare la sezione trasversale della vasca,


mediante l'espressione:
Q
S= (4)
V

La sezione S può esse realizzata scegliendo i valori della larghezza B e


della profondità H (risulta infatti S=BxH). Possono essere utilizzati i seguenti
criteri:

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- la larghezza B non deve superarsi 6-8 m, ogni qualvolta sia prevista la


presenza di raschiatori meccanici;
- il rapporto H/B non deve essere inferiore a 0,3 e comunque la profondità H non
deve essere inferiore ad 1 m, al fine di evitare che il processo sia disturbato dal
moto dei raschiatori o da fattori esterni, quali il vento (secondo le norme A.P.I.-
American Petroleum Istitut, deve essere H/B>0,5).

Nel caso in cui non sia possibile soddisfare tutte le prescrizioni prima citata
con un'unica vasca, si può suddividere la portata da trattare su più unità
funzionanti in parallelo; peraltro, tale soluzione comporta evidenti vantaggi anche
dal punto di vista dell'elasticità dell'esercizio.

La flottazione naturale trova applicazioni non numerose, ma importanti nel


trattamento degli scarichi.
Nel caso dei reflui di origine domestica, in mancanza di trattamenti specifici
di disoleatura, fenomeni di flottazione naturale si verificano nei sedimentatori
primari (o, in assenza di questi, nei sedimentatori finali), dove gli oli e i grassi si
separano in superficie e da qui vengono rimossi periodicamente (cfr. cap.3.4); in
questo caso però la flottazione costituisce un fenomeno secondario, con esigenze
meno restrittive rispetto a quelle relative ai fenomeni di sedimentazione, che si
verificano contemporaneamente e sulle cui leggi pertanto si basano i criteri di
dimensionamento delle vasche.
L'uso di apposite unità di disoleatura è invece opportuno nel caso in cui si
preveda la presenza in fognatura di elevate quantità di grassi e oli. In Fig.1 è
riportato un tipo di disoleatore di semplice concezione, adoperabile per piccole
utenze; per maggiori potenzialità, è idonea la tipologia rappresentata in Fig.2,
adatta ad autofficine, stazioni di lavaggio, mense aziendali, etc.); nel caso di
stazioni di lavaggio, un criterio di dimensionamento è quello di prevedere un
volume minimo di 50-100 l, a cui va aggiunto un volume addizionale pari al
numero di lavaggi previsti fra due vuotamenti successivi, moltiplicato per un
volume specifico di 1-2 l per ogni lavaggio.
Una notevole riduzione di spazio si può ottenere facendo ricorso a vasche
dotate di pacchi lamellari (Fig.3), istallati in maniera analoga a quanto già visto per
i sedimentatori.
In campo industriale, esempi di flottazione si hanno nelle trappole per oli,
adoperate nelle autorimesse, nei recuperatori di grassi, utilizzati nei macelli e nelle
fabbriche di conserve alimentari, e soprattutto nei disoleatori impiegati nelle
raffinerie di petrolio. In Fig.4 è rappresentato un esempio di vasca di flottazione a
gravità, del tipo usato in raffineria; si nota, anche in questo caso, la notevole
somiglianza con le soluzioni adottate per la sedimentazione.

Infine, occorre rilevare che la flottazione naturale, date le condizioni di


quiete in cui il liquido viene mantenuto, si accompagna a fenomeni di
decantazione del materiale sedimentabile eventualmente presente, del quale deve
essere evidentemente prevista la rimozione.

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V/v c
20 1,45
15 1,37
10 1,27
6 1,14
3 1,07

Tab.1 - Valori del coefficiente c in vasche a pianta rettangolare

ESEMPIO N.1

Problema:

Si voglia trattare una portata di 240 m3/ora di una sospensione oleosa avente una temperatura di
40 °C; la densità relativa della sostanza oleosa sia di 0,935.

Svolgimento:

Per i valori di temperatura assegnati, la densità dell'acqua vale 0,995 e la viscosità 0,0065 poise.
La velocità minima ascensionale risulta quindi, per la (3), di 4,43 m/ora. Per la velocità di trasporto
V, la condizione più restrittiva deriva dalla limitazione a non superare 54 m/ora (infatti il valore di 15
v è pari a oltre 66 m/ora). Pertanto, la superficie trasversale della vasca risulta pari a:
Q 240
S= = = 4,4 m 2
V 54

tale valore si arrotonda per eccesso a 5 m2. Viene quindi stabilita una profondità H di 1,25 m e una
larghezza B di 4 m; in tal modo infatti risulta H/B>0,3.
L'effettivo valore di V risulta quindi pari a V=Q/S = 240/5=48 m/ora. Essendo V/v = 48/4,43 = 10,8,
dalla Tab.1 si ricava c=1,29; pertanto, la sezione orizzontale della vasca risulta pari a:
Q 240
A = c = 1,29 = 69,92 m 2
v 4,43

Infine, la lunghezza della vasca risulta 69,92/4=17,5 m.

ESEMPIO N.2

Problema:

Nella stessa ipotesi dell'esempio precedente, si debba dimensionare un impianto per trattare 1200
m3/ora.

Svolgimento:

Restano inalterati sia il valore di v (4,43 m/ora), sia quello di V (54 m/ora). Pertanto, la superficie
trasversale della vasca risulta:
1200
S1 = = 22,22 m 2
54

Si suppone che il tipo di raschiatori prescelto imponga di non superare per la larghezza della vasca
il valore di 6 m. Per far sì che il rapporto H/B sia compreso tra 0,3 e 0,5, occorre che H vari tra 1,8
e 3,0 m. Adottando il valore più elevato, la sezione trasversale risulta:
S2 = 6 × 3,0 = 18 m 2

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tale valore risulta inferiore a quello necessario, prima determinato. Occorre quindi suddividere la
portata su due unità da 600 m3/ora ciascuna; per ciascuna di esse, la sezione trasversale non
dovrà essere inferiore a:
600
S* = = 11,11 m 2
54

tale sezione può essere realizzata adottando una larghezza B di 5 m e una profondità H* pari a:
S * 11,11
H* = = = 2, 22 m
B* 5
In tal caso, il rapporto H*/B*=2,22/5=0,44 soddisfa la condizione di essere compreso tra 0,3 e 0,5).
La superficie di ciascuna vasca vale:
Q 600
A* = c = 1,32 = 180 m 2
v 4,43

Il valore di c è stato determinato dalla Tab.1, in corrispondenza del valore V/v=54/4,43=12,2. La


lunghezza di ciascuna vasca vale quindi:
A * 180
L* = = = 36 m
B* 5

5.3 Flottazione per insufflazione d'aria

Insufflando aria in posizioni opportune della vasca di disoleatura, è possibile


facilitare il processo di affioramento del materiale leggero. Le bolle d'aria, salendo
verso la superficie, aderiscono alle particelle solide, conferendole un peso
specifico "apparente" inferiore a quello reale; è in tal modo possibile ridurre
considerevolmente il tempo di detenzione altrimenti necessario con i sistemi
naturali, a parità di rendimento di flottazione.
In più, grazie alla turbolenza che si crea nella vasca, si può evitare il
deposito dei solidi sedimentabili eventualmente presenti; a differenza che per la
flottazione naturale può non essere necessario prevedere organi di rimozione dei
fanghi dal fondo.
In Fig.5 è riportato un esempio di disoleatore a flusso longitudinale; in
questo caso, la vasca, a pianta rettangolare, ha una sezione trasversale di forma
trapezia ed è munita di due setti longitudinali, sospesi al di sopra del fondo della
vasca, fino a una quota al di sotto del pelo libero. Essi dividono la vasca in tre
scomparti fra loro comunicanti per tutto il loro sviluppo, sia in superficie che sul
fondo. L'aria viene immessa sul fondo in corrispondenza dello scomparto centrale,
usando le stesse tecniche in uso nelle vasche a fanghi attivi; la portata influente e
quella trattata vengono rispettivamente immesse nel canale centrale e derivate da
questo.
La risalita delle bolle d'aria determina, nello scomparto centrale, un moto
ascensionale della corrente, che favorisce l'affioramento dei solidi più leggeri; ne
deriva un'azione di richiamo di acqua dagli scomparti periferici attraverso i
passaggi esistenti sul fondo. In ogni sezione trasversale della vasca si determina
così un doppio movimento circolare attorno ai setti, che si compone con il moto di
traslazione del liquame in senso longitudinale alla vasca, dall'estremità di entrata a
quella di uscita. Il materiale leggero affiorato nello scomparto centrale viene
sospinto in posizione laterale e trascinato verso l'estremità di uscita ove è

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trattenuto da deflettori e da cui viene periodicamente rimosso, manualmente o a


mezzo di organi meccanici.
Nel caso in cui il refluo abbia un rilevato contenuto di solidi sedimentabili, se
ne può prevedere la rimozione con la stessa unità utilizzata per la disoleatura; in
Fig.6 è riportato un esempio di vasca di disoleatura, munita di raschiatore di
superficie, per l'allontanamento dei grassi e oli, e di fondo, per i solidi
sedimentabili; è evidente la somiglianza con le unità esaminate a proposito dei
dissabbiatori aerati (cfr. cap.3.2).

Su principi analoghi si basano altri tipi di disoleatori, a pianta circolare; in


Fig.7 ne è riportato un esempio, nel quale il raschiatore a lame determina lo sfioro
dei solidi galleggianti nelle tre canalette disposte in superficie e l'allontanamento di
quelli sedimentabili attraverso la tramoggia centrale. La flottazione viene agevolata
dalla miscelazione della portata da trattare, immessa nella zona centrale mediante
dei tubi a U, con la portata di ricircolo, satura d'aria, diffusa uniformemente a
mezzo della tubazione circolare posta sul fondo.

Il dimensionamento dei disoleatori a insufflazione d'aria può essere


eseguito fissando il tempo di permanenza, pari a 3-5 minuti; la quantità d'aria
necessaria è di 0,4÷0,5 m3/m3 di liquame trattato.
Come già accennato, il rendimento di flottazione è tanto migliore, quanto
più piccole sono le dimensioni delle bolle d'aria immesse nella vasca. Bolle di
grosse dimensioni infatti, a causa dell'elevata velocità ascensionale e della minore
superficie di contatto (a parità di portata d'aria), aderiscono più difficilmente alle
particelle sospese e offrono una minor dispersione nel liquido, rispetto alle bolle
fini; sono così meno probabili i contatti tra le bolle e le particelle.

5.4 Flottazione a pressione differenziata

Si è già detto che il rendimento di flottazione aumenta al diminuire della


dimensione delle bolle d'aria; con il sistema a insufflazione d'aria, è difficile
scendere al di sotto del mm; una dispersione molto più sottile di bolle d'aria può
essere invece ottenuta con i sistemi a pressione differenziata. Ciò consente un
rendimento decisamente superiore del processo di flottazione, in quanto le bolle di
piccole dimensioni (30-120 μ) possono più facilmente aderire ai solidi che si vuole
portare in superficie, senza d'altro canto determinare, con la loro risalita,
un'eccessiva turbolenza nel liquido.
I processi a pressione differenziata si basano sulla legge di Henry, secondo
la quale, a temperatura costante, la solubilità in peso di un gas in un liquido è
proporzionale alla pressione parziale che il gas ha nella fase gassosa sovrastante
il liquido. Se quindi si opera la saturazione di un liquido con un gas (in particolare
con aria), ad una determinata pressione, e quindi si porta il sistema ad una
pressione meno elevata, a causa della diminuzione di solubilità che interviene,
parte del gas che inizialmente si era disciolto nella fase liquida si libera sotto forma
di piccole bolle omogeneamente disperse entro l'intera massa liquida.
Il principio ora esposto, può essere applicato secondo due diverse tecniche,
note come flottazione pressurizzata e flottazione sotto vuoto. Entrambe le
soluzioni infatti consentono di determinare una differenza di pressione tra le
condizioni in cui si opera la solubilizzazione dell'aria nel liquido e quella in cui
avviene la flottazione vera e propria.

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Nel primo caso, la solubilizzazione dell'aria avviene a pressione


relativamente elevata e la flottazione a pressione atmosferica; invece, nel
secondo, si passa da una fase di solubilizzazione a pressione atmosferica ad una
di flottazione sotto vuoto. Tuttavia, questa seconda soluzione viene utilizzata
piuttosto raramente, per ragioni facilmente comprensibili: innanzi tutto il salto di
pressione disponibile è in questo caso limitato a meno di un'atmosfera; in secondo
luogo si rende necessario prevedere una vasca di flottazione in depressione, di
difficile gestione.

Nel campo del trattamento delle acque di rifiuto, le più frequenti applicazioni
di questo processo si hanno nelle cartiere, per il recupero delle fibre, e in
raffineria, generalmente a valle di una fase di flottazione naturale, per migliorare il
rendimento di rimozione degli oli o per consentire, previa flocculazione,
l'eliminazione degli oli emulsionati.
Nel trattamento dei liquami urbani, di origine domestica, la flottazione a
pressione differenziata può essere utilizzata per l'ispessimento dei fanghi; in
questo caso essa offre il vantaggio di consentire la rimozione anche delle
particelle di piccole dimensioni, difficilmente separabili coi trattamenti meccanici
tradizionali.
Ulteriore applicazione si può avere nella rimozione degli oli e dei grassi di
reflui scaricati a mare, dopo un trattamento parziale, al fine di ridurre il pericolo di
impatto estetico, connesso alla presenza di sostanze galleggianti sulla superficie
marina.

Appresso verranno descritte le due possibili soluzioni impiantistiche


adoperabili per gli impianti a flottazione pressurizzata: quelli cioè senza ricircolo e
quelli con ricircolo dell'effluente.

5.4.1 Impianti senza ricircolo

Lo schema di un impianto senza ricircolo è rappresentato in Fig.8; in questo


caso, tutto la portata alimentata all'impianto viene pressurizzata ad una pressione
p, a mezzo di una pompa, e miscelata con aria. A valle della pompa, un polmone
assicura un tempo di permanenza di qualche minuto (generalmente 3-5 minuti),
per consentire la solubilizzazione dell'aria in acqua; la frazione che non viene
disciolta è direttamente allontanata a mezzo di uno sfiato, in modo da evitare di
introdurre nel flottatore bolle di grosse dimensioni che disturberebbero la
separazione dei solidi. Dal polmone, lo scarico ricco d'aria viene introdotto nel
flottatore a mezzo di una valvola di riduzione della pressione.

Il dimensionamento di un'unità di flottazione richiede la conoscenza tanto


del quantitativo di aria A che, sotto forma di bolle, deve essere messa a
disposizione dello scarico, quanto il valore della pressione p a cui occorre portare
lo scarico.
Il valore di A è funzione della concentrazione S dei solidi presenti nello
scarico; il rapporto A/S varia infatti da situazione a situazione entro limiti
abbastanza ampli (0,005÷0,060) e deve pertanto essere stabilito
sperimentalmente o sulla base dell'esperienza maturata in impianti funzionanti in
situazioni analoghe.

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Invece, la pressione p si può ricavare, a partire dal valore di A; infatti,


Indichiamo con Sa la solubilità di aria in acqua (misurata in l/m3), alla pressione
atmosferica; come è noto, essa varia con la temperatura, diminuendo al crescere
di questa, secondo i valori indicati in Tab.2. Tenendo conto che un litro di aria pura
secca, a pressione atmosferica e a 0 °C, pesa 1,293 g (arrotondabili a 1,3 g), ne
deriva che, a pressione atmosferica, la solubilità in peso dell'aria in acqua vale:

Ga = 1,3 Sa [g/m3]

A una pressione p, diversa da quella atmosferica patm (in particolare


superiore a questa), la quantità d'aria G che si solubilizza in un m3 d'acqua per la
legge di Henry vale:
p ⎡ g ⎤
G* = Ga = 1,3 S a p ⎢ m3 ⎥
p atm ⎣ ⎦

E' questo un valore teorico; nella pratica molto spesso non si raggiunge il
limite di solubilità e ci si accontenta di tenori di saturazione f nettamente inferiori e
generalmente compresi tra 0,60 e 0,85. In altre parole, la quantità d'aria G che
negli impianti reali viene solubilizzata alla pressione p risulta variabile fra il 60 e
l'85% di quella teorica. Pertanto risulta:

G = f G* = 1,3 f Sa p

Se a questo punto il fluido viene ricondotto alla pressione atmosferica, la


quantità d'aria in peso che si libera per effetto della diminuzione di solubilità vale:

A = ΔG = G-Ga = 1,3 Sa (f p - 1) [g/m3] (5)

Qualora si procedesse a una flottazione sotto vuoto, la precedente


relazione si trasformerebbe in:

A = Ga - G = 1,3 Sa (f-p) [g/m3]

ove tuttavia il valore di f (percentuale di saturazione a pressione atmosferica)


risulta prossimo all'unità.

In definitiva, il calcolo dell'impianto richiede che sia nota la concentrazione


S dei solidi presenti nello scarico. Determinato sperimentalmente o fissato il
rapporto A/S, è possibile stabilire la quantità d'aria che deve essere resa
disponibile A. Di conseguenza, se è nota la temperatura di esercizio (e quindi la
Sa), l'unica incognita nella (5) diviene la pressione p, che può pertanto essere
determinata.

Il sistema di flottazione senza ricircolo presenta talvolta degli inconvenienti,


soprattutto quando la natura dei solidi che si vogliono rimuovere renda opportuno
un trattamento preliminare di flocculazione che favorisca l'inglobamento delle
particelle in fiocchi a cui le bollicine d'aria aderiscano (un caso tipico al riguardo è
costituito dalla rimozione di oli emulsionati degli scarichi di raffineria di petrolio). La
pressurizzazione dello scarico a valle della flottazione comporta inevitabilmente un
grosso pericolo di rottura per i fiocchi già formati, con una conseguente

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diminuzione di rendimento. Inoltre il passaggio dello scarico grezzo attraverso la


girante della pompa può rendere le particelle più difficili da separare (tornando
all'esempio precedente, delle raffinerie, può favorire l'emulsione ulteriore degli oli).
Permane infine l'inconveniente di un facile imbrattamento dei dispositivi di
pressurizzazione.

5.4.2 Impianti con ricircolo

Per ovviare agli inconvenienti prima accennati, è possibile fare ricorso agli
impianti con ricircolo dell'effluente.
Lo schema di un impianto con ricircolo è rappresentato in Fig.9, dove è
prevista una fase preliminare di flocculazione dello scarico. Come si nota, lo
scarico non è direttamente sottoposto a pressurizzazione; tale operazione è
invece effettuata su una frazione dell'effluente trattato, al fine di evitare gli
inconvenienti ricordati.
Così facendo, naturalmente, la portata introdotta nel flottatore cresce della
frazione ricircolata e ciò fa aumentare le dimensioni della vasca.
Il funzionamento del processo è differente, rispetto al caso esaminato in
precedenza. La quantità d'aria necessaria viene ancora stabilita sulla base di S e
del rapporto A/S; tuttavia, essa deve essere resa disponibile, mediante il
passaggio, dalla pressione p a quella atmosferica, non più di tutta la portata da
trattare, ma della sola portata di ricircolo.
Indicando quindi con r il rapporto tra la portata di ricircolo qr e quella dello
scarico da trattare q, con il medesimo significato dei simboli in precedenza
impiegati, si potrà scrivere che la quantità d'aria liberata facendo passare da p a
patm la portata qr (anzichè la q) sarà:

A = 1,3 r Sa (f p - 1) [g/m3] (6)

tale valore è quindi riferito al m3 di acque di scarico addotto all'impianto, in quanto,


per ogni m3 di scarico, solo la frazione r viene sottoposta a pressurizzazione.

Pertanto, determinato il valore di A, occorre calcolare p ed r; quindi, si potrà


ottenere il risultato voluto (e cioè la liberazione di A) fissando una delle due
incognite e calcolando di conseguenza la rimanente.

temperatura [°C] solubilità [l/m3]


0 29,2
10 22,8
20 18,7
30 15,7

Tab.2 - Solubilità dell'aria in acqua al variare della temperatura (valori


riferiti a 0 °C e 760 mm Hg)

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ESEMPIO N.3

Problema:

Si deve trattare una portata di 100 m3/ora di uno scarico con un contenuto di solidi S = 800 mg/l; in
base a dati sperimentali, il rapporto ottimale tra A ed S sia 0,01; la temperatura dello scarico sia di
20 °C. Si richiede la pressione di pressurizzazione, per un impianto di flottazione a insufflazione
d'aria senza ricircolo, nell'ipotesi che il tenore di saturazione f valga 0,6.

Svolgimento:

Alla temperatura T = 20 °C si ha Sa =18,7 l/m3. In base ai valori noti di S e di A/S si ottiene che il
quantitativo d'aria (in peso) necessario è:

A = S x A/S = 800 x 0,01 = 8 g/m3

Dalla (5) risulta quindi:

8 = 1,3 . 18,7 (0,6 p - 1)

da cui si ricava p = 2,22 atm

ESEMPIO N.4

Problema:

Con gli stessi dati dell'esempio n.3, relativo al caso di impianto senza ricircolo, si dimensioni un
impianto di flottazione con ricircolo, fissando la pressione di esercizio pari a 4 atm.

Soluzione:

Applicando la (6) si ricava:

800 . 0,001 = 1,3 r 18,7 (0,6x4 - 1)

da cui r = 0,24 (cioè qr = 0,24 q). Generalmente i valori di r sono mantenuti tra 0,2 a 0,5 e i valori di
p tra 3 e 5 atm.

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Fig.1 - Pozzetto di disoleatura per piccole utenze

Fig.2 - Pozzetto di disoleatura per utenze medie

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Fig.3 - Schema di vasca di disoleatura a pacchi lamellari

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Fig.4 - Vasca di disoleatura a flottazione naturale

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Fig.5 - Vasca di disoletura a insufflazione d'aria

Fig.6 - Vasca di dissabbiatura e disoleatura a insufflazione d'aria

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Fig.8 - Schema di impianto di flottazione a pressione differenziata senza ricircolo dell'effluente

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Fig.9 - Schema di impianto di flottazione a pressione differenziata con ricircolo


dell'effluente

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Cap.6

TRATTAMENTI BIOLOGICI

1. PREMESSE

Nell'ambito degli impianti di depurazione dei reflui di origine urbana, il


ricorso ai trattamenti biologici è usuale, tanto per la rimozione del substrato
carbonioso (espresso in termini di BOD o di COD), quanto per quello dell'azoto,
quanto infine per la stabilizzazione dei fanghi; un'ulteriore applicazione si ha per la
rimozione del fosforo, anche se in questo caso è ancora oggi preferito il ricorso ai
trattamenti fisico-chimici.
Nell'ambito dei trattamenti biologici, è possibile fare distinzione fra differenti
forme di intervento; tale distinzione può risultare funzione tanto del tipo di
substrato che il trattamento consente di rimuovere (carbonio, azoto, fosforo),
quanto della forma in cui la biomassa è presente nel reattore (processi a biomassa
sospesa e adesa), quanto infine del tipo di metabolismo a cui la biomassa è
sottoposta (processi aerobici, anaerobici, anossici).
Appresso si darà una descrizione dei principali processi adoperati,
limitatamente a quelli utilizzati nella linea acque degli impianti di depurazione per
la rimozione del substrato carbonioso; si rimanda a successivi capitoli per i
trattamenti utilizzati per la rimozione di azoto e fosforo e per la linea fanghi.

Le note appresso riportate sono liberamente tratte dalle seguenti


pubblicazioni, che sono state opportunamente modificate e integrate:
a) L. Bonomo: Trattamenti biologici - Processi a fanghi attivi. Istituto di Ingegneria
Sanitaria del Politecnico di Milano;
b) C. Nurizzo: Processi a biomassa fissa: letti percolatori e dischi biologici (RBC).
Istituto di Ingegneria Sanitaria del Politecnico di Milano;
c) C. Nurizzo: Stagni biologici. Istituto di Ingegneria Sanitaria del Politecnico di
Milano.

In particolare, saranno discussi i principali trattamenti biologici in uso: fanghi


attivi, letti percolatori, dischi biologici, stagni biologici. La trattazione di tali
argomenti è fatta precedere da una discussione dei principi generali dei
trattamenti biologici.

2. PRINCIPI GENERALI

E' noto che i fenomeni di autodepurazione naturali sono essenzialmente di


tipo biologico. Attraverso essi il materiale organico biodegradabile subisce una
progressiva azione di demolizione, con formazione di composti via via più stabili
fino alla completa mineralizzazione.
I trattamenti biologici non rappresentano altro che la riproduzione, in
maniera accelerata e in ambiente controllato, dei fenomeni di degradazione
naturale. Peraltro, è talvolta difficile fare una netta distinzione tra le forme di

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depurazione naturale e artificiale: ne sono un esempio alcuni metodi di trattamento


biologico, come ad esempio gli stagni biologici, di cui si dirà più avanti.
I microrganismi coinvolti in tale azione sono numerosissimi e appartengono
tanto al regno animale (rotiferi, crostacei), quanto a quello vegetale (muffe, felci),
quanto infine a quello dei protisti (alghe, protozoi, funghi, lieviti, alghe azzurre,
batteri, virus). Sono in particolare i batteri ad assumere un ruolo fondamentale
nella depurazione biologica; questi utilizzano il materiale organico biodegradabile
come substrato nutritivo, traendo da esso il materiale occorrente alla sintesi di
nuove cellule e l'energia a tale scopo necessaria.
Le prime applicazioni dei trattamenti biologici possono ricondursi a parecchi
decenni fa. Il primo letto percolatore infatti venne costruito in Inghilterra sul finire
del secolo scorso, mentre un impianto a fanghi attivi venne per la prima volta
messo in esercizio, sempre in Inghilterra, nel 1914. Tuttavia, nel corso degli anni
si è avuto un progressivo miglioramento nella conoscenza dei fenomeni che ne
sono alla base e quindi nei criteri di dimensionamento e gestione degli impianti.

2.1 Elementi di microbiologia

I batteri sono protisti unicellulari, che si riproducono per scissione binaria in


un tempo (tempo di generazione), variabile tra 0,5 e 100 ore.
Le dimensioni di un singolo batterio sono dell'ordine dei micron; esso si
alimenta solo di sostanze in forma disciolta, le uniche capaci di attraversare la
membrana cellulare; segue quindi che la crescita batterica necessita della
presenza dell'acqua. L'assimilazione dei nutrienti avviene o per trasporto passivo
di tipo osmotico, o per trasporto attivo mediato da enzimi.

Notevoli differenze sono riscontrabili nella forma e dimensione delle varie


specie batteriche: si va infatti da alcune decine a pochi decimi di micron.
La morfologia di una cellula batterica può essere ricondotta a tre forme
(Fig.1):
a) sferica o quasi sferica (cocchi);
b) cilindrica, caratterizzata da un asse minore e uno maggiore (bacilli);
c) cilindrica ricurva, con una sola curvatura (vibrioni), con due curvature (spirilli) o
a elica (spirochete).
Le singole cellule, a seguito della riproduzione, vengono a formare
particolari raggruppamenti, denominati in maniera differente a seconda della loro
forma; in Fig. 1 ne sono riportati alcuni esempi.

Le principali caratteristiche della struttura di un batterio sono riportate in


Fig.2; in effetti occorre dire che solo alcuni degli elementi in essa indicati sono
comuni a tutte le cellule batteriche, mentre altri compaiono soltanto in alcuni
generi e specie (fra questi la capsula). Procedendo dall'esterno all'interno della
cellula, gli elementi di questa sono (Fig.2):
a) flagello e fimbrie: il flagello è un organo di locomozione costituito da delicate
appendici di tipo filamentoso; le fimbrie si ritrovano invece solo in alcuni tipi di
batteri ed hanno la funzione di agevolare l'adesione della cellula;
b) capsula: presente solo in alcuni batteri, è costituita da uno strato di materiale
gelatinoso aderente alla parete cellulare della cellula; essa è composta da
acqua (in gran parte) con un 2% circa di solidi (polisaccaridi, proteine); la

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capsula ha in genere una funzione difensiva di natura meccanica, specialmente


nei batteri patogeni;
c) parete cellulare: costituisce un contenitore rigido che racchiude la cellula; è
composta da materiale polimerico, con struttura piuttosto complessa, la cui
natura caratterizza fortemente i vari tipi di batteri (batteri Gram-positivi e Gram-
negativi);
d) membrana citoplasmatica: costituita da proteine (50-75%) e lipidi (20-35%),
rappresenta il 10% circa del peso secco della cellula; ha una funzione
fondamentale, in quanto regola gli scambi con l'ambiente esterno, selezionando
il passaggio delle sostanze nutritive, dall'esterno all'interno, e degli enzimi e
tossine, in senso inverso;
e) citoplasma: è una soluzione acquosa, in fase di gel, contenente prodotti
organici e inorganici in forma disciolta e numerosi piccoli granuli (inclusioni
cellulari);
f) nucleo: è costituito da una molecola di DNA, nella quale è quindi depositata
l'intera informazione genetica della cellula.

Va osservato che la componente principale di una cellula batterica è


l'acqua, che ne costituisce circa l'80% in peso, e il rimanente 20% di solidi, di cui il
90% circa è di natura organica (proteine, carboidrati e lipidi) e il 10% inorganica.
Un'espressione che tiene conto dei rapporti in peso dei principali
componenti di una cellula batterica (non va quindi intesa come una formula
chimica) è C5H7NO2; sono pure presenti in una cellula batterica o meglio, anche
se in tracce, fosforo, zolfo, sodio, calcio, magnesio, potassio, ferro, etc.; tutte
queste componenti costituiscono il protoplasma cellulare
I batteri si trovano in natura ovunque sia presente acqua, che costituisce un
elemento fondamentale per la loro alimentazione, stante la loro possibilità di
sintetizzare soltanto prodotti in forma disciolta.
Fortunatamente però solo una piccola parte dei batteri è patogena, cioè
apportatrice di malattie per gli organismi viventi, mentre la maggioranza è di tipo
banale, tale cioè da non comportare rischi igienici.

I batteri si differenziano anche in funzione della temperatura in cui essi


possono vivere; possono così distinguersi tre classi:
a) b. psicrofili (tra 2 e 20 °C);
b) b. mesofili (tra 20 e 45 °C);
c) b. termofili (tra 45 e 75 °C).
La temperatura ha notevole influenza sulla cinetica del metabolismo
batterico; in genere, i trattamenti biologici si svolgono in campo mesofilo, in cui la
velocità di reazione dei processi metabolici raggiunge un massimo a 31 °C.

2.2 Elementi di biochimica

La crescita dei microrganismi comporta una serie di reazioni chimiche,


globalmente costituenti il metabolismo degli organismi; questo può essere distinto
in due fasi fondamentali, praticamente simultanee: quella di sintesi di nuova
materia cellulare, a partire da molecole semplici, con consumo di energia
(anabolismo), e quella di respirazione, in cui avviene la degradazione delle
sostanze assimilate con produzione di molecole semplici e liberazione di energia
(catabolismo), necessaria per il processo di sintesi.

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Infatti, le reazioni che portano alla formazione di sostanze più complesse, a


partire da sostanze più semplici, sono endotermiche, con consumo quindi di
energia; percontro, quelle che conducono alla formazione di sostanze più semplici
da altre più complesse sono esotermiche, con produzione di energia. Le prime
sono tipiche della fase di sintesi di nuova materia cellulare (fase assimilativa),
mentre le seconde caratterizzano la fase di respirazione (fase disassimilativa).

E' possibile distinguere i microrganismi in funzione della fonte di nutrienti


utilizzata nella fase anabolica (in particolare di carbonio, che è il principale
composto cellulare) e di quella da cui essi traggono energia nella fase catabolica.
Vengono definiti autotrofi gli organismi che utilizzano il carbonio inorganico
(CO2), mentre sono eterotrofi quelli che utilizzano il carbonio organico.
Come fonte di energia, gli organismi possono fare ricorso all'energia solare,
mediante il processo fotosintetico (org. fotosintetici), oppure all'energia prodotta
mediante reazioni di ossido-riduzione di prodotti inorganici, quali ammoniaca, ferro
o zolfo (a. chemioautotrofi); il primo caso è tipico delle alghe. Ultima possibilità è
quella in cui gli organismi traggano l'energia da reazioni di ossido-riduzione dei
composti organici (org. chemiorganotrofi); nel caso in cui questi siano eterotrofi, si
ha allora che i composti organici vengono a costituire un'unica fonte per l'intero
metabolismo degli organismi stessi.

E' noto che i principali elementi nutritivi degli organismi viventi sono costituiti
da carboidrati (zuccheri), proteine e grassi.
I vegetali, organismi autotrofi fotosintetici, sono gli unici in natura capaci di
formare carboidrati, a partire da acqua e CO2, utilizzando l'energia solare
(processo di fotosintesi). Ugualmente, riescono a trarre tutte le sostanze organiche
necessarie al loro metabolismo da sostanze inorganiche semplici. Per tale motivo,
i vegetali sono detti produttori di sostanza organica.
Invece gli organismi eterotrofi, pur potendo sintetizzare carboidrati proteine
e grassi a partire da molecole organiche più semplici, tuttavia non possono
produrre queste ultime dai minerali, così come visto per i vegetali. Essi quindi
utilizzano la sostanza organica già esistente, che viene trasformata parte in nuova
materia cellulare (sintesi), parte in energia e molecole semplici inorganiche
(respirazione); queste ultime vengono così messe a disposizione dei vegetali. Ciò
giustifica che gli organismi eterotrofi vengono detti demolitori.

Di particolare interesse, ai fini della depurazione, è il meccanismo con cui


avviene la fase di respirazione. Secondo le più moderne teorie, essa consta di
reazioni di ossido-riduzione, nelle quali si ha un passaggio di elettroni da un
composto riducente (donatore di elettroni) a uno ossidante (accettore di elettroni).
Gli organismi eterotrofi sono capaci di ossidare le sostanze organiche (che sono
quindi donatori di elettroni), mentre gli autotrofi ossidano prodotti inorganici, quali
ammoniaca, zolfo, ferro, idrogeno molecolare.
L'energia è trasferita dal donatore di elettroni mediante una complessa serie
di reazioni enzimatiche. In particolare, essa è fissata principalmente in un
composto chimico che funge da trasportatore di energia, l'adenosintrifosfato
(ATP), che si forma per aggiunta (fosforilazione) di una molecola di fosforo
inorganico a partire dall'adenosindifosfato (ADP); viceversa, la defosforilazione
dell'ADP ad ATP implica la liberazione di energia; lo schema complessivo che ne
deriva è il seguente:

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ADP + Pinorg + energia → ATP


ATP → ADP + Pinorg + energia

La fase di respirazione può avvenire in presenza di ossigeno disciolto


(metabolismo aerobico), in assenza di questo (metabolismo anaerobico); infine, di
interesse per la depurazione è pure il caso in cui essa avvenga in presenza di
ossigeno combinato con azoto, cioè di nitrati (metabolismo anossico).
I batteri aerobi utilizzano l'ossigeno libero presente nell'acqua, come
accettore di elettroni; in termini qualitativi, la reazione che ne deriva è:

sostanza organica + O 2 + batteri aerobi → nuovi batteri + CO 2 + H2O

I batteri anaerobi invece si sviluppano in assenza di ossigeno libero e


utilizzano come accettore di elettroni l'ossigeno combinato nelle molecole
organiche, il carbonio, l'azoto e lo zolfo. Anche in questo caso, in forma qualitativa
può scriversi:

sostanza organica + batteri anaerobici → nuovi batteri + CO 2 + CH4 + H2O

Tuttavia la suddivisione tra batteri aerobi ed anaerobi non va intesa


rigidamente, dato che la maggior parte dei batteri può comportarsi
indifferentemente come aerobi o come anaerobi, a seconda delle condizioni
ambientali ed in particolare della disponibilità o meno di ossigeno libero. Tali
batteri, detti facoltativi, possono cioè utilizzare entrambi i meccanismi di
ossidazione prima ricordati, utilizzando in ogni caso, fra tutti gli accettori di
elettroni disponibili, quello che consente la massima produzione di energia; da ciò
deriva, che, in presenza di ossigeno libero, tali batteri fanno uso di un
metabolismo aerobico.
La differenza fondamentale tra metabolismo aerobico e anaerobico sta
nelle modalità secondo cui sono condotte le reazioni energetiche di ossidazione.
Nel primo caso infatti le sostanze organiche vengono decomposte in sostanze più
semplici, con produzione di un'elevata quantità di energia. Il metabolismo
anaerobico invece conduce alla formazioni di altre sostanze organiche, seppure
più semplici, ma in tempi maggiori e con una minore quantità di energia.

2.3 Confronto fra trattamenti aerobici e anaerobici

Le considerazioni svolte consentono di delineare i vantaggi e gli svantaggi


dei trattamenti aerobi e anaerobi. Si vedrà infatti meglio nei successivi capitoli. in
cui vengono approfonditi i trattamenti aerobici e anaerobici, che a favore dei primi
giocano la rapidità del processo e la più spinta utilizzazione del substrato organico
(il che in definitiva significa un miglior rendimento di depurazione). I trattamenti
anaerobi percontro non richiedono disponibilità di ossigeno libero; pertanto non
comportano le spese di energia, necessarie per l'alimentazione dei dispositivi di
aerazione; inoltre, a parità di ogni altra circostanza, la velocità di riproduzione dei
batteri in ambiente anaerobico è molto più bassa e quindi i volumi di fango
biologico da avviare a successivo trattamento sono più contenuti.

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In definitiva, il ricorso ai processi aerobici appare vantaggioso nel caso di


scarichi contenenti una bassa concentrazione di sostanza organica e con elevate
portate, per via della rapidità e della completezza del processo. I trattamenti aerobi
si esauriscono generalmente nel giro di poche ore e ciò consente di limitare il
volume delle vasche in cui il processo si svolge, mentre le spese di aerazione (che
come si vedrà non dipendono dalle portate in gioco ma dalla quantità di sostanza
organica da trattare e dalla sua biodegradabilità) restano contenute.
Invece, il trattamento anaerobico può essere conveniente per reflui
caratterizzati da piccole portate ed elevate concentrazioni di sostanza organica. In
questo caso infatti il risparmio di energia consentito dall'assenza di dispositivi di
aerazione è sensibile, mentre l'aumento dei volumi delle vasche non risulta
particolarmente elevato, a causa delle modeste portate in gioco, malgrado i
notevoli tempi di permanenza necessari.
In linea generale, il ricorso ai trattamenti aerobici appare più idoneo, per
reflui aventi valori di BOD non superiori a 2000-3000 mg/l; per concentrazioni
superiori, può invece divenire conveniente il trattamento anaerobico. Segue quindi
che, nel caso dei reflui urbani di origine domestica, i trattamenti biologici adoperati
nella linea acque sono in pratica solo quelli aerobici, nella varie versioni prima
accennate (processi a biomassa sospesa o adesa).
Il ricorso ai trattamenti anaerobici, all'interno della linea acque di un
impianto di depurazione, è tuttavia generalmente limitato, a causa delle seguenti
osservazioni:
a) i reflui con BOD superiori a 2000-3000 mg/l sono poco numerosi e
generalmente reperibili in campo industriale, agroalimentare o zootecnico;
b) in genere il trattamento anaerobico non consente di ottenere da solo un
effluente avente concentrazioni compatibili con gli standard richiesti per lo
scarico in acque superficiali (anche in considerazione degli alti BOD di
partenza): ciò a causa del basso rendimento di depurazione da esso garantito;
per tale motivo, il trattamento anaerobico è spesso previsto come fase
preliminare di depurazione, a cui fa seguito un'ulteriore fase di trattamento,
generalmente aerobica;
c) per effluenti molto concentrati (con BOD superiori ai 10 g/l), la convenienza del
processo anaerobico può venire a cadere di fronte ad altri metodi non biologici
(ad es. l'essiccamento, la concentrazione sotto vuoto, l'incenerimento, etc);
d) la conoscenza delle problematiche di progetto e gestione dei processi
anaerobici è decisamente più limitata di quelli aerobici.

Invece i trattamenti anaerobici hanno trovato vasta applicazione nella linea


fanghi degli impianti di depurazione, per il trattamento dei reflui di origine anche
domestica. In questo caso infatti, i fanghi da sottoporre a stabilizzazione sono
caratterizzati da portate piccole, ma con elevate concentrazioni di sostanza
organica. In più, la stabilizzazione per essi richiesta è solo parziale; infatti, il fango
stabilizzato ha ancora un elevato contenuto di sostanza organica, residuo di una
degradazione solamente parziale delle molecole presenti all'origine. Tali materiali
però non presentano più la putrescibilità dei fanghi freschi, ma vengono a
costituire un humus stabile (o meglio, solo lentamente decomponibile).

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3. FORMULAZIONE MATEMATICA DEL METABOLISMO BATTERICO

Un esame qualitativo dei processi che si verificano nel corso dell'attività


metabolica di una cellula batterica può trarsi da una prova in discontinuo eseguita
in laboratorio (prova in batch).
La formulazione matematica appresso riportata fa rigorosamente
riferimento al caso di una coltura pura di un singolo batterio; in effetti tale
situazione non corrisponde alla realtà riscontrabile nelle acque reflue, in cui è nota
la compresenza di numerose specie batteriche; pertanto, gli andamenti qualitativi
e i parametri che saranno richiamati appresso non fanno riferimento a un singolo
batterio, ma saranno considerati rappresentativi del comportamento medio
dell'intera popolazione batterica analizzata.

Si immagini quindi di introdurre una coltura mista di batteri, costituita cioè


da specie diverse, in un recipiente in cui sia contenuto un campione di liquame,
caratterizzato da un'elevata concentrazione di sostanza organica biodegradabile;
inoltre la sua composizione sia tale che non si determini una situazione di carenza
di elementi nutritivi minerali. Ciò comporta che lo sviluppo delle cellule batteriche
sarà limitato solo dalla disponibilità di substrato carbonioso e non da quella di altri
composti inorganici. Il recipiente è isolato dall'esterno, in modo tale da non avere
scambi di batteri o di materia organica con l'esterno.
In funzione del tempo, è allora possibile distinguere cinque fasi successive
nello sviluppo della concentrazione batterica iniziale xo (Fig.3):
a) fase di acclimatazione: i batteri si adattano alle nuove condizioni, generalmente
differenti da quelle di usuale sviluppo;
b) fase di crescita illimitata: in questa fase, i batteri cominciano a svilupparsi
rapidamente; la concentrazione S del substrato, inizialmente elevata, va
decrescendo, pur rimanendo disponibile in quantità superiore alle necessità
metaboliche dei batteri;
c) fase di crescita limitata: essendo il sistema chiuso, la crescita illimitata non può
continuare indefinitamente, per cui il substrato nutritivo, consumato senza
essere reintegrato, raggiunge concentrazioni via via decrescenti, sino a valori
che finiscono per essere limitanti la crescita batterica;
d) fase stazionaria: in questa fase, i fenomeni di scomparsa, che durante la fase di
crescita illimitata e all'inizio di quella limitata risultavano trascurabili, vanno
acquistando rilevanza sempre maggiore, tale che la crescita netta risulta nulla
(cioè si ha un compenso tra le nuove cellule e quelle morte); di conseguenza, la
concentrazione batterica nel sistema resta costante; la variazione della
concentrazione di substrato è ormai modesta;
e) fase endogena: procedendo nella fase stazionaria, avrà inizio un periodo in cui
la crescita netta risulterà negativa, per via della prevalenza delle cellule morte
su quelle nuove; quindi la concentrazione della biomassa comincia a diminuire,
mentre quella del substrato è trascurabile; in questa fase i microrganismi, in
estrema carenza di substrato, utilizzano il protoplasma cellulare dei batteri
morti, oltre che il substrato nutritivo accumulato entro le loro stesse cellule nei
periodi di forte disponibilità, prevalentemente sotto forma di lipidi e di glucidi di
riserva.

Come già accennato, in tali considerazioni si è sempre ammesso che


l'elemento limitante fosse costituito dal substrato organico. Considerazioni del tutto

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analoghe possono ripetersi per le situazioni, in verità meno frequenti, in cui la


crescita batterica sia condizionata dalla concentrazione di altre sostanze, quali ad
esempio i sali nutritivi minerali (azoto, fosforo, potassio, etc.).
Il processo metabolico, sin qui descritto solo in maniera qualitativa, sarà
appresso affrontato da un punto di vista matematica, sia per quanto riguarda la
crescita batterica, sia per la rimozione del substrato.

3.1 Crescita batterica

Prendendo in esame un sistema chiuso (batch), costituito da un campione


in cui sia presente la sostanza organica (substrato) e la popolazione batterica
(biomassa), si ha che la variazione della massa batterica (o del numero di batteri)
può essere così espressa:

dX dX dX
= ( )crescita - ( )scomparsa = μX - k d X = ( μ − k d )X (1)
dt dt dt

con:
X massa batterica presente al tempo t;
μ velocità di crescita batterica [T-1];
kd velocità di scomparsa batterica[T-1].

Dividendo per il volume del campione preso in esame, si può anche


scrivere:
dx
= (μ − k d ) x (1')
dt

dove x è la concentrazione batterica.


Nell'ipotesi che ci sia un unico fattore limitante per la crescita batterica, μ
può esprimersi con la seguente espressione, dovuta a Monod:

S
μ = μˆ (2)
ks + S

con:
μ̂ velocità di crescita massima, che si ha per concentrazioni di substrato
sufficientemente alte per non costituire fattore limitante per la crescita
batterica;
S concentrazione del substrato;
ks costante di semisaturazione.

La costante di semisaturazione rappresenta quel valore della


concentrazione del substrato, in corrispondenza della quale la velocità di crescita
batterica μ risulta pari alla metà di quella massima; infatti ponendo μ=0,5 μ̂ , risulta
ks=S.
In Fig.4 è riportato l'andamento di μ in funzione di S; si nota che, al
crescere di S, μ tende a μ̂ in quanto la frazione a secondo membro della (2) tende
all'unità.

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Introducendo la (2) nella (1') si ottiene la seguente espressione, nota come


equazione di Monod:

dx S
= (μˆ − kd) x (3)
dt ks + S

Come più volte detto, l'espressione prima ricavata deriva dall'ipotesi che ci
sia un unico fattore limitante la crescita batterica, che in generale è costituito dalla
concentrazione del substrato organico; è tuttavia possibile che si verifichi una
limitazione della crescita dovuta anche ad altri fattori (nutrienti, come fosforo
azoto, disponibilità di ossigeno, etc.).
E' pertanto possibile tenere conto della compresenza di più fattori limitanti,
modificando la (2) nel seguente modo:

S1 S2 Sn
μ = μˆ × × ... × (2' )
k s1 + S1 k s2 + S 2 k sn + Sn
con:
μ̂ velocità di crescita massima;
S1, S2, Sn concentrazioni dei substrati;
ks1, ks1, ksn costanti di semisaturazione.

Limitandoci per semplicità all'analisi della (2), si può osservare che tale
espressione riproduce bene tutte le fasi della crescita batterica, prima descritte in
maniera qualitativa. Fa eccezione la fase iniziale di acclimatazione, sulla cui
durata nulla si può dire, in quanto strettamente dipendente dalla differenza tra le
condizioni di vita dei batteri nella fase antecedente al loro prelievo e in quella che
essi trovano durante la prova in laboratorio.
Con riferimento ancora alla Fig.3 ed escludendo la fase iniziale di
acclimatazione, si osserva quanto segue:
a) fase di crescita illimitata: in questa fase, i batteri cominciano a svilupparsi
rapidamente secondo la (3); la concentrazione S del substrato è elevata
(S>>ks) per cui dalla (2) si ricava che μ può essere assunto pari a μ̂ ; dato che
kd è sempre molto minore di μ̂ , risulta:

dx
≅ μˆ x (4)
dt

come già visto, μ̂ esprime la velocità di crescita batterica in assenza di elementi


limitanti; essa è legata al tempo di generazione, che tuttavia, per popolazioni
eterogenee come quella considerata, perde un preciso riferimento con la realtà
fisica, venendo a costituire la media ponderata tra i tempi di generazione delle
diverse specie che costituiscono la popolazione batterica presente; il valore di tg
può essere ricavata integrando la (4); infatti, la concentrazione di batteri x
all'istante generico t risulta:

⎛ x ⎞
ln⎜⎜ ⎟⎟ = μˆ t (4' )
⎝ xo ⎠

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ricordando che per t = tg, x = 2 xo , si ottiene:

ln 2
μˆ = (4' ' )
tg

il valore di μ̂ può essere ricavato sperimentalmente come pendenza della retta


che si ottiene riportando la (4') in scala semilogaritmica, nel piano ln(x/xo) - t;
b) fase di crescita limitata: in questa fase il substrato raggiunge concentrazioni tali
che non si può più considerare S>>ks; la crescita batterica non segue più la (4),
ma la più generale legge espressa dalla (3); ne consegue un rallentamento
dello sviluppo, caratterizzato da una sempre più marcata riduzione nel tempo di
μ;
c) fase stazionaria: in questa fase, i fenomeni di scomparsa, che durante la fase di
crescita illimitata e all'inizio di quella limitata risultavano trascurabili (kd << μ e di
μ̂ ), vanno acquistando rilevanza sempre maggiore, tale che μ finisce per
eguagliare kd; di conseguenza, la concentrazione batterica nel sistema resta
costante;
d) fase endogena: procedendo nella fase stazionaria, si avrà che μ < kd, per cui la
concentrazione della biomassa comincia a diminuire.

3.2 Rimozione del substrato

La sostanza organica (substrato) viene utilizzata dai batteri come materiale


di sintesi per le nuove cellule e come fonte di energia per la stessa sintesi. Così il
substrato viene trasformato per via biochimica in materia organica vivente (nuove
cellule) e in prodotti finali stabili, prevalentemente gassosi.
In tal modo, i batteri trasformano la sostanza organica (non vivente)
presente nei liquami in cataboliti in forma organica e inorganica (non vivente) e in
nuove cellule batteriche (in cui è quindi presente sostanza organica vivente); i
cataboliti e le nuove cellule batteriche costituiscono un "fango organico", ancora
fortemente inquinante per via dell'elevato contenuto in sostanze organiche, che è
però rimovibile in buona parte con processi di natura fisica (sedimentazione).
In definitiva, si viene in tal modo a rimuovere buona parte dell'originario
contenuto organico dei liquami, che, essendo presente in forma non
sedimentabile, non sarebbe possibile eliminare con i processi fisici di
sedimentazione.

Si definisce coefficiente di crescita cellulare Y, il rapporto adimensionale tra


la nuova massa cellulare prodotta e il substrato utilizzato dai batteri per tale
produzione:
(dx / dt)crescita
Y= (5)
dS / dt

Per confronto con la (1), si può scrivere:

dS 1 ⎛ dx ⎞ μ
= ⎜ ⎟ = x=vx (5' )
dt Y ⎝ dt ⎠ crescita Y

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avendo indicato con v il rapporto μ/Y, definito come velocità di rimozione del
substrato.

Combinando le espressioni (2) e (5'), può anche scriversi:

dS μˆ S S
= x = v̂ x (5' ' )
dt Y ks + S ks + S

nota come equazione di Michaelis-Menten.

In merito alla velocità di rimozione del substrato, possono svilupparsi


considerazioni analoghe a quelle già discusse a proposito della crescita batterica
per sistemi chiusi, non alimentati dall'esterno (Fig.3). In particolare risulta:
S
v = v̂ (5' ' ' )
ks + S

L'andamento di v è quindi crescente con S e tende a un valore massimo,


pari a v̂ , che si raggiunge asintoticamente per elevati valori di S; tale andamento
è praticamente analogo a quello già visto per μ, riportato in Fig.4.
Per impianti ad alimentazione continua, una volta raggiunte le condizioni
di regime, si può porre costante la concentrazione batterica (x=cost); allora, nel
caso di alte concentrazioni del substrato (S>>ks), la frazione a secondo membro
della (5'') può essere posta pari a 1; può quindi scriversi:

dS
= v̂ x = k1 (6)
dt

la velocità di rimozione del substrato è quindi costante e indipendente dalla


concentrazione del substrato stesso; in tal caso, si dice che la reazione è di ordine
zero rispetto a S. E' questo un caso che non si verifica frequentemente nel
trattamento biologico delle acque di scarico; l'esempio più significativo si ha nei
processi di denitrificazione, in cui, essendo ks dell'ordine di 0.05÷0.1 mg/l di NO3,
bastano modeste concentrazioni di nitrati per verificare la condizione S>>ks.
Invece, se S è piccolo rispetto a ks, sempre nel caso di impianti ad
alimentazione continua, in cui si può porre x=cost, si ottiene dalla (5''):

dS S
= v̂ x = k2 S (7)
dt ks

la velocità di rimozione del substrato risulta quindi proporzionale alla


concentrazione del substrato stesso, crescendo linearmente con questa; in tal
caso si dice che la reazione è di primo ordine rispetto a S. Gran parte dei processi
biologici usati per la depurazione delle acque seguono una cinetica di questo tipo;
in particolare, essa è già stata utilizzata per la determinazione del BOD.

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3.3 Fattori condizionanti i processi biologici

La velocità massima di rimozione del substrato v̂ , introdotta nella (5''), è


stata definita come la quantità di substrato eliminabile nell'unità di tempo e per
unità di massa cellulare, in assenza di fattori limitanti; quindi v̂ dipende dalle
caratteristiche del refluo da trattare e aumenta con la sua biodegradabilità.
Si è anche già evidenziato che l'effettivo valore della velocità di rimozione v
risulta generalmente limitata dalla concentrazione del substrato presente ed è
quindi in genere inferiore a v̂ , salvo che per le reazioni di ordine zero.
Oltre alla biodegradabilità e alla concentrazione del substrato organico,
numerosi altri fattori hanno considerevole influenza sull'andamento dei processi
biologici. Essi dipendono dalla composizione dello scarico e dalle condizioni
ambientali in cui si opera; i principali fattori sono la temperatura, la presenza di
elementi nutritivi e, limitatamente ai processi aerobici, la disponibilità di ossigeno
libero.

3.3.1 Temperatura

I processi biologici risentono della temperatura di esercizio; l'incremento di


v̂ (o di v) all'aumentare di T può essere espresso dalla seguente relazione,
ricavabile da quella generale di Vant' Hoff:

v̂ T = v̂ 20 α(T − 20) (8)


con:
v̂ T velocità massima di rimozione del substrato alla temperatura T;
v̂ 20 velocità massima di rimozione del substrato alla temperatura di riferimento
di 20 °C;
T temperatura di esercizio [°C];
α costante caratteristica dei vari processi biologici (Tab.1).

Dall'esame dei valori di α, riportati in Tab.1, si ricava che l'influenza della


temperatura è limitata nel caso dei processi a fanghi attivi, ma diventa sensibile
per i letti percolatori e le lagune aerate (con un raddoppio di v̂ T per un incremento
di temperatura di 9 °C) e soprattutto per i processi di nitrificazione-denitrificazione,
dove il raddoppio si ha per incrementi di 5-6 °C.
La (8) tiene conto soltanto dell'influenza della temperatura sul metabolismo
batterico; altri effetti indiretti sui processi biologici si hanno a seguito di variazioni
della temperatura, come ad esempio sui meccanismi di trasferimento dell'ossigeno
nell'acqua e sui processi di sedimentazione (a causa delle variazioni di viscosità
dell'acqua).

3.3.2 Elementi nutritivi

Come già accennato, la presenza di elementi nutritivi minerali, e in primo


luogo dell'azoto e del fosforo, è indispensabile per un corretto metabolismo
batterico.
La valutazione dei fabbisogni di azoto può essere condotta tenendo conto
dei rapporti in peso dei vari composti costituenti la cellula batterica; facendo
ricorso alla richiamata formulazione empirica C5H7NO2 (come rapporto ponderale

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dei principali elementi che la compongono), si ricava che l'azoto costituisce 12,4%
del peso complessivo della cellula; tale percentuale per il fosforo si riduce a circa il
2%.
Si dimostra che è necessaria una proporzione fra i tre nutrienti così
espressa:
BOD : N : P = 100 : 5 : 1

Il contenuto dei tre nutrienti principali nelle acque reflue di origine domestica
è invece ricavabile dagli apporti pro-capite tipici di tale caso (60 grBOD/abxg, 12
gN/abxg, 2 gP/abxg); si ricava quindi la seguente proporzione dei tre composti
nelle acque reflue:

BOD : N : P = 100 : 20 : 8

Ciò evidenzia che, nel caso dei reflui di origine domestica, non si ha una
carenza dei due nutrienti (azoto e fosforo), che risultano presenti in quantità
superiori a quelle necessarie per la sintesi dell'intero substrato carbonioso.
Analoga osservazione può farsi per i rimanenti nutrienti (sodio, potassio,
calcio, ferro, etc), che, seppure presenti in modeste quantità nei reflui urbani,
risultano pursempre sufficienti per i fabbisogni del metabolismo batterico.
Altrettanto non può dirsi spesso per il trattamento dei reflui provenienti da
talune attività produttive, nei quali la carenza di uno o più nutrienti può determinare
il blocco dello sviluppo batterico.

3.3.3 Disponibilità di ossigeno

Nel caso dei processi aerobici, l'ossigeno disciolto deve essere presente in
concentrazione sufficiente per consentire un normale metabolismo aerobico (1,5-2
mg/l). Essendo tuttavia la popolazione batterica prevalentemente di tipo facoltativo
(cioè essa si adatta a condizioni aerobiche o anaerobiche), l'ossigeno disciolto non
viene ad assumere un ruolo strettamente limitante l'attività batterica, salvo che nei
processi di nitrificazione, a cui presiede una biomassa strettamente aerobica, per
la quale cioè la disponibilità di ossigeno disciolto è condizione necessaria per il
metabolismo.
Al contrario, la presenza di ossigeno disciolto impedisce lo sviluppo delle
specie batteriche strettamente anaerobiche; ne sono un esempio i batteri
metanigeni.

4 CARATTERISTICHE IDRODINAMICHE DEI REATTORI BIOLOGICI

Un'influenza particolarmente importante nei trattamenti biologici è data dalle


caratteristiche idrodinamiche del reattore in cui le reazioni si evolvono; si può fare
riferimento a tre tipi di reattori ideali, ai quali è possibile assimilare le situazioni di
più frequente impiego nel campo dei trattamenti biologici:

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4.1 Reattore discontinuo (batch)

In questo caso, il refluo viene introdotto nel reattore all'istante iniziale e vi


viene mantenuto per tutta la durata della reazione, senza nessuna nuova
alimentazione.
Il tempo di permanenza del refluo nel reattore è quindi uguale per tutte le
particelle ed è pari a quello intercorrente tra l'alimentazione e lo scarico del
reattore stesso.
I processi discontinui sono raramente applicati nella depurazione delle
acque. Trovano impiego in circostanze particolari, come ad esempio nel caso di
volumi di scarico piccoli o fortemente discontinui. Un tipico esempio si ha negli
stagni biologici ad accumulo, utilizzati per il trattamento dei reflui di lavorazioni a
carattere stagionale (zuccherifici, industrie conserviere e simili); in questo caso il
reattore non è del tipo a miscelazione completa. Un reattore discontinuo
completamente miscelato è invece rappresentato dalla cella utilizzata per la
determinazione del BOD con il metodo respirometrico.

4.2 Reattore continuo con flusso a pistone (plug-flow)

In questo tipo di reattore si fa l'ipotesi che la dispersione longitudinale sia


nulla, mentre si ammette una perfetta miscelazione in ogni sezione normale a tale
direzione; tale situazione è praticamente realizzata nel caso di vasche, in cui la
dimensione longitudinale sia prevalente rispetto alle rimanenti due.
L'effluente, alimentato con continuità nella sezione trasversale iniziale della
vasca, viene scaricato nella medesima successione con cui è entrato nel reattore;
durante il percorso, l'elemento di fluido mantiene la sua identità, con un tempo di
permanenza uniforme ed eguale a quello teorico di permanenza nella vasca, dato
tra rapporto tra volume V e portata introdotta q.
Tale comportamento può essere messo in luce introducendo un tracciante
conservativo (cioè non soggetto a fenomeni di trasformazione di natura fisica,
chimica o biochimica) nella corrente entrante (segnale) ed osservando la
concentrazione del tracciante all'uscita (risposta):
a) segnale a gradino (Fig.5a): introducendo il tracciante con una concentrazione
costante C , con inizio al tempo to, si osserva in uscita la medesima
concentrazione a partire dal tempo to + V/q, cioè dopo un intervallo pari al
tempo di attraversamento della vasca;
b) segnale ad impulso (Fig.5b): in questo caso, il tracciante è alimentato per un
tempo t e appare in uscita con la medesima concentrazione di alimentazione,
con un ritardo pari a V/q e sempre per un tempo t .

4.3 Reattore continuo a miscelazione completa

In questo caso le particelle che entrano nella vasca sono disperse in


maniera uniforme in tutto il suo volume, nel quale pertanto non ci sono gradienti di
concentrazione. Ad ogni istante di tempo, la concentrazione di qualunque
composto presente nel reattore è quindi costante e pari a quella nella portata
uscente.
Anche in questo caso, utilizzando un tracciante conservativo, possono
essere esaminati due casi:

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a) segnale a gradino (Fig.6a): il reattore viene alimentato con una portata q a


concentrazione Co, a partire dall'istante di tempo to; la concentrazione in vasca
(pari a quella della portata uscente) può essere calcolata mediante l'equazione
di bilancio di massa per il reattore, che esprime la condizione che la quantità di
tracciante entrante nell'unità di tempo deve essere uguale a quella in uscita più
le variazioni che si hanno all'interno della vasca, dovute al gradiente di
concentrazione (Co-C); si può allora scrivere:

dC
qC o = qC + V (9)
dt
con:
q portata entrante e uscente dal reattore;
V volume del reattore;
C concentrazione nella vasca, pari a quella nella portata uscente.

Dalla (9) si ricava:


dC q
= dt (9')
Co − C V

integrando tra l'istante iniziale to e il generico tempo t, si ottiene la seguente


espressione, che è rappresentata graficamente in Fig.6a:

C = Co (1 − e
( )
− t - t o / (V q)
) (9' ' )

b) segnale ad impulso (Fig.6b): in questo caso, la (9) vale solo nell'intervallo t di


alimentazione della vasca, mentre per un tempo successivo a quello di
alimentazione sarà valida una legge di esaurimento, desumibile anche in
questo caso dal bilancio di massa per il reattore:

dC
0 = qC + V (9''')
dt
la cui soluzione è:

C = C1(e
( )
− t − t o − t /(V/q)
) (9iv )

dove C1 è il valore della concentrazione raggiunta nel reattore alla fine


dell'impulso.

4.4 Confronto fra i differenti tipi di reattore

Si è già detto che, tranne eccezioni, il reattore discontinuo ha rare


applicazioni di tipo impiantistico.
Limitando allora l'analisi ai reattori funzionanti in continuo, si può osservare
quanto segue:
a) il reattore plug-flow si limita a traslare nel tempo il segnale, senza ridurne
l'entità, tanto nel caso del gradino, quanto di quello dell'impulso;
b) il reattore a completa miscelazione, nel caso dell'impulso, riduce l'entità del
segnale, in quantità tanto maggiore, quanto minore è la durata del segnale

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stesso; invece, nel caso del gradino, tale tipo di reattore si limita a ridurre l'entità
del segnale solo nella fase iniziale di alimentazione del reattore, finendo per
dare una risposta sempre più vicina al segnale stesso.

Tali osservazioni traggono spunto dall'esame del comportamento di un


tracciante conservativo; questa situazione trova pochi riscontri nel caso dei reflui
urbani, per i quali i composti principali sono fortemente soggetti a fenomeni di
trasformazione, di natura fisica, chimica o biochimica, che ne modificano la
concentrazione nel tempo; fanno eccezione taluni composti, per esempio di natura
tossica, la cui presenza in fognatura può essere del tutto occasionale; tale
situazione può allora ricondursi a quella del segnale a impulso (che infatti
rappresenta il caso di uno scarico che avviene per un periodo di tempo limitato, a
confronto con il tempo di permanenza del reattore): in questo caso allora solo il
reattore a completa miscelazione è capace di ridurre la concentrazione del
composto.
Invece si è visto che, nei processi biologici, la rimozione del substrato
segue la cinetica definita dall'equazione di Michaelis-Menten (5''). In particolare,
dall'esame della (5''') si ricava che la velocità di rimozione del substrato è tanto
maggiore, quanto più elevata è la concentrazione del substrato stesso. La scelta
del tipo di reattore ha allora importanti conseguenze nel dimensionamento del
reattore stesso, potendosi fare le seguenti considerazioni:
a) nei reattori a miscelazione completa, la concentrazione del substrato è uguale
in tutta la vasca e pari a quella nella portata scaricata, per cui la velocità di
rimozione risulta proporzionale a tale concentrazione;
b) nei reattori con flusso a pistone, la concentrazione del substrato è variabile
lungo la vasca e in particolare massima nella zona di ingresso e minima in
quella di scarico; così anche la velocità di rimozione risulterà variabile; a parità
di concentrazione del substrato uscente, è facile dedurre che la velocità di
rimozione sarà qui ovunque maggiore di quella ottenibile col reattore a
completa miscelazione, tranne che in prossimità della zona di uscita, dove le
due velocità saranno uguali; è altrettanto facile dedurre che ciò si ripercuote
nelle dimensioni dei due reattori.

Una situazione intermedia, che accoppia i vantaggi di entrambi i tipi di


reattore, può essere ottenuta con impianti pluristadio; in questo caso, si fa uso di
più reattori a miscelazione completa, posti in serie. In ciascuno stadio la velocità di
rimozione del substrato risulta progressivamente decrescente, passando dallo
stadio iniziale a quello finale, in proporzione con la concentrazione di substrato in
uscita da ogni reattore; inoltre essa risulta superiore (salvo che per lo stadio finale)
a quello del reattore monostadio che assicuri la stessa concentrazione di substrato
nell'effluente depurato (in pratica, questo reattore avrebbe un volume superiore a
quello derivante dalla somma dei volumi dei singoli reattori del pluristadio).

Nel caso della rimozione di substrati caratterizzati da una cinetica di ordine


zero, venendo a mancare la dipendenza della velocità di rimozione della
concentrazione del substrato, i volumi necessari secondo le varie soluzioni restano
gli stessi.

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Malgrado le considerazioni sin qui svolte, si osserva che la maggior parte


dei processi biologici viene eseguita in reattori monostadio a miscelazione
completa. I principali motivi di tale scelta sono così sintetizzabili:
a) le vasche monostadio a miscelazione completa garantiscono la dispersione
immediata della portata in arrivo nell'intero volume del reattore, per cui sono
conseguentemente attenuati gli effetti di eventuali presenze accidentali di
sostanze tossiche per la popolazione batterica (cfr. Fig.6b); nel sistema a
pistone, invece, mancando una rapida diluizione, sono più probabili fenomeni di
inibizione batterica;
b) l'adozione di processi pluristadio comporta notevoli complicazioni impiantistiche,
soprattutto nei casi in cui il reattore biologico sia del tipo a ricircolo cellulare
(cioè si adotti lo schema a fanghi attivi) e si voglia fare una sedimentazione
intermedia, fra stadio e stadio; tali complicazioni vengono a mancare invece nel
caso nei reattori senza ricircolo cellulare (p.e. i lagunaggi), nel qual caso i
processi pluristadio trovano vasta applicazione;
c) nel caso di processi pluristadio senza sedimentazione intermedia, la stessa
popolazione batterica passa da uno stadio all'altro, con possibili problemi di
acclimatazione a causa delle differenti condizioni ambientali che così può
trovare; tali difficoltà sono certamente attenuate, nel caso in cui ciascuno stadio
sia caratterizzato da elevati tempi di permanenza idraulica (p.e. nel caso del
lagunaggio);
d) il vantaggio di disporre di impianti pluristadio (o con flusso a pistone) è tanto
maggiore, quanto più marcata è la differenza tra la concentrazione del substrato
nel refluo da trattare e in quello da avviare allo scarico e cioè quanto maggiore
è il rendimento di trattamento che si richiede all'impianto; in effetti, tale
situazione può interessare gli scarichi di talune attività produttive
(agroalimentari, zootecniche, etc.), mentre per quelli di origine domestica tale
differenza è solo di un ordine di grandezza (in pratica si deve passare da alcune
centinaia ad alcune decine di mgBOD/l), per cui l'aumento della velocità di
rimozione (e la corrispondente diminuzione del volume del reattore) nel
passaggio dallo schema a miscelazione completa monostadio a quella
pluristadio o con flusso a pistone, è spesso non così rilevante da giustificare gli
aspetti negativi che essa comporterebbe (aumento di costo, per i pluristadio,
poca inerzia nei confronti dei tossici, per i reattori a pistone).

Data l'importanza dei reattori a miscelazione completa nel campo delle


acque di rifiuto, verrà appresso esaminato il loro comportamento nei processi
biologici, con o senza ricircolo cellulare.

4.5 Sistemi a miscelazione completa senza ricircolo cellulare

Si tratta di uno schema di processo di impiego limitato, ma il cui esame è


utile soprattutto come introduzione ai più diffusi sistemi con ricircolo cellulare. In
ogni caso, esso trova applicazione in alcuni schemi di impianto (lagunaggi).
Secondo tale schema (Fig.7), l'effluente in uscita dal sistema biologico ha le
medesime caratteristiche (in particolare la stessa concentrazione di substrato e di
biomassa) che si riscontrano nel reattore; tali caratteristiche possono calcolarsi
sulla base di un bilancio di massa del reattore stesso.

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In regime stazionario, nell'unità di tempo, la massa batterica uscente del


sistema è data dalla somma di quella entrante e di quella prodottasi nel reattore a
seguito delle trasformazioni biologiche:

qx = qx + V( μ − k )x (10)
e o d e
con:
q portata di alimentazione del reattore;
V volume del reattore;
(μ - kd) xe crescita batterica netta, ricavata dalla (1);
xo, xe concentrazioni di biomassa entrante e uscente dal reattore
(quest'ultima uguale a quella nel reattore, per l'ipotesi di
miscelazione completa).

Trascurando il prodotto qxo rispetto agli altri termini (risulta infatti xo<<xe) e
ricordando che V/q è uguale al tempo di permanenza idraulico t, si ricava:

t( μ − k ) = 1 (10')
d

ma per la (5') risulta:


Se
μ = vY = v̂Y
k s + Se

dove Se è la concentrazione di substrato in uscita dal reattore; sostituendo nella


(10'), si ricava:
Se
t(v̂Y − kd) = 1
k s + Se

da tale espressione è possibile ricavare Se:

k s (1 + k d t)
Se = (11)
t (Yv̂ - k d ) − 1

La (11) consente di calcolare la concentrazione di substrato in uscita dal


reattore, quando siano note le costanti cinetiche Y, v̂ , kd e ks e sia stato fissato il
tempo di permanenza idraulica nella vasca.
Si può osservare che il valore di Se, calcolato in base alla (11) risulta
indipendente dalla concentrazione di substrato in ingresso So; ciò costituisce
un'evidente illogicità ed è in contrasto con l'esperienza operativa degli impianti; il
modello proposto non risulta quindi pienamente soddisfacente e può venire
applicato solo per valori di So analoghi a quelli per cui sono state calcolate le
costanti cinetiche (le quali invece, in teoria, non dovrebbero essere influenzate da
So). Per superare tali contraddizioni sono stati recentemente formulati altri modelli
da considerarsi tuttavia ancora allo stadio di proposte.

In modo analogo, può essere ricavata la concentrazione xe della biomassa


nella portata uscente dal reattore; infatti, sempre nell'ipotesi di situazione
stazionaria, può scriversi il bilancio di massa per il substrato, secondo cui,

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nell'unità di tempo, il substrato entrante nella vasca è pari a quello uscente più
quello rimosso:

dS
q So = q Se + V (12)
dt

per la (5') risulta:


dS μ
= xe
dt Y

esplicitando rispetto ad xe si ricava:

(So − Se ) Y
xe = (12')
μt

Introducendo nella (12') il valore di μ che si ricava dalla (10'), si può scrivere:

(So − Se ) Y
xe = (13)
1 + kd t

Dalle considerazioni svolte, possono trarsi le seguenti conclusioni per un


sistema completamente miscelato senza ricircolo cellulare:
a) la concentrazione di substrato nella portata uscente dal reattore può essere
ricavata dalla (11); una volta definite le costanti cinetiche ks, kd, Y e v̂ , tale
concentrazione dipende solamente dal tempo di permanenza idraulico nella
vasca e non dalla concentrazione del substrato nella portata entrante;
b) la concentrazione di biomassa nella portata uscente può essere ricavata dalla
(13); tale concentrazione, definite le costanti cinetiche, dipende solo da t e da
So, in quanto Se, che appare nella formula, è a sua volta definito in funzione
delle costanti cinetiche e di t , come si nota dalla (11).

Si definisce rendimento di depurazione η il seguente rapporto:

So − Se
η=
So

esso è quindi indice del comportamento del processo; per confronto con la (11), si
ricava che, per fissato tipo del refluo (note cioè le costanti cinetiche e la
concentrazione So), η risulta funzione solo dal tempo di residenza idraulico t, che
è già stato così definito:
V
t=
q

Si definisce il tempo di residenza cellulare ϑ (o età del fango), il tempo


medio di permanenza in vasca delle cellule batteriche. Esso può venir calcolato
come rapporto tra la biomassa presente nel reattore e quella che si allontana con
l'effluente in uscita; nel caso del reattore senza ricircolo cellulare, risulta:

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Vxe
ϑ= =t (14)
qxe

la (14) indica quindi che in questo caso i tempi di residenza, idraulico e cellulare,
coincidono.

Nel caso in cui la rimozione del substrato segue una cinetica del primo
ordine, si può applicare la (7), anzichè l'espressione più generale di Michaelis-
Menten (5''); introducendo tale espressione nella (12), che esprime il bilancio di
massa per il substrato, si ricava:

q So = q Se + V k Se

da cui:
So
Se = (15)
1+ K t

L'uso della (15) è nettamente più semplice di quello della (11), in quanto
essa richiede la determinazione sperimentale della sola costante K, anzichè delle
quattro costanti cinetiche.

4.6 Sistemi a miscelazione completa con ricircolo cellulare.

Lo schema di un impianto con ricircolo cellulare è rappresentato in Fig.8; in


questo caso il reattore biologico è seguito da un'unità di sedimentazione, in cui la
biomassa viene separata dall'effluente trattato (tale separazione è ovviamente
possibile solo se i microrganismi si aggregano in colonie di consistenza sufficiente
a renderli sedimentabili).
Si ottengono così due risultati:
a) la concentrazione di solidi sospesi nella portata uscente dal sistema è inferiore
a quella in uscita dal reattore biologico, a causa della separazione ottenuta nel
sedimentatore;
b) la concentrazione della biomassa nel reattore può essere aumentata, rispetto al
caso trattato al paragrafo precedente, operando un ricircolo dei solidi separati
nel sedimentatore, che sono reintrodotti nel reattore stesso (portata di ricircolo);
l'aumento di tale concentrazione non può procedere oltre certi limiti, come
meglio si dirà appresso.

Per garantire il funzionamento a regime del sistema, una volta raggiunta la


voluta concentrazione di biomassa nel reattore, occorre provvedere all'estrazione
di parte del fango separato nel sedimentatore. L'estrazione di tale portata (portata
di supero) può essere eseguita in due modalità differenti:
a) spillando una portata qs a concentrazione x direttamente dal reattore;
b) derivando una portata qs a concentrazione xr dal circuito di ricircolo (Fig.8).
La seconda soluzione è quella più usuale, in quanto consente di allontanare
dalla linea fanghi una portata minore e più concentrata; tuttavia, così facendo, le
caratteristiche del fango di supero sono fortemente dipendenti dalle caratteristiche
di funzionamento del sedimentatore, circostanza che invece non si verifica,
qualora l'estrazione del fango avvenga direttamente dal reattore biologico.

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Nella trattazione che segue si faranno le seguenti ipotesi semplificative:


a) le trasformazioni biologiche si verificano solo nel reattore e non continuano nel
sedimentatore (come in realtà avviene, sia pure in misura limitata); tale ipotesi è
tuttavia lecita, in quanto si vedrà che, di norma, i tempi di permanenza della
biomassa nel reattore sono di un ordine di grandezza superiori a quelli nel
sedimentatore;
b) la quantità di biomassa presente nel sistema coincide con quella presente nel
reattore (si trascura quindi la biomassa accumulata nella tramoggia del
sedimentatore e nel circuito di ricircolo); anche tale ipotesi è normalmente
verificata.

Il tempo di residenza cellulare, già definito come il tempo medio di


permanenza della biomassa nel sistema, in presenza di ricircolo può essere
calcolato come rapporto tra la biomassa presente nel sistema (pari per l'ipotesi b)
a quella presente nel reattore Vx) e quella allontanata col fango di supero (qs xr) e
con l'effluente chiarificato; tale ultima quantità, pari a (q-qs)xe è decisamente
inferiore alla prima (infatti risulta xe<<xr), per cui appresso verrà trascurata; risulta
quindi:

Vx Vx
ϑ= ≅ (16)
qs xr + (q − qs ) xe qs xr

Dalla (16) si ricava quindi che, nei sistemi con ricircolo, i tempi di residenza
cellulare e idraulica non coincidono, come invece accadeva nel caso dei sistemi
senza ricircolo.

La concentrazione di substrato in uscita, e quindi il rendimento depurativo


del processo, può essere ricavato mediante un bilancio di massa per l'intero
sistema (reattore biologico + sedimentatore) per la biomassa, in maniera analoga
a quanto fatto per ricavare la (10):

q xo + V( μ − k d )x = (q − qs )xe + qs xr (10')

dove x ed xr sono rispettivamente le concentrazioni di biomassa nel reattore e nel


fango di ricircolo.
Trascurando i termini qxo e (q-qs) xe (infatti xo e xe risultano nettamente
inferiori a x e xr) e ricordando la (16), risulta:

ϑ (μ − k d ) = 1 (11')
e quindi:
k s (1 + k d ϑ)
Se = (11' ' )
ϑ (Yv̂ − k d ) − 1

tale espressione è analoga alla (11), in cui però al posto del tempo di residenza
idraulico compare quello cellulare; in questo caso quindi le caratteristiche della
portata scaricata dipendono, oltre che dalle costanti cinetiche, anche dal tempo di
residenza cellulare; esse non dipendono invece dal tempo di residenza idraulico t.
Il vantaggio di ciò è notevole; infatti, per confronto tra la (14) e la (16), si
nota che, nel caso dei sistemi con ricircolo cellulare, ϑ può essere regolato solo

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agendo sul volume del reattore, mentre nel caso in cui si faccia il ricircolo, ϑ può
essere variato pure (e si vedrà più convenientemente) agendo sulla portata e sulla
concentrazione del fango di supero.

4.7 Determinazione sperimentale delle costanti cinetiche

La determinazione delle costanti cinetiche può essere condotta in


laboratorio utilizzando apparecchiature del tipo di quella rappresentata in Fig.9b.
Si tratta di un piccolo reattore a miscelazione completa, dotato di uno
scomparto di sedimentazione, con fondo opportunamente sagomato in modo da
consentire il ricircolo diretto del fango sedimentato attraverso una fessura di
comunicazione con lo scomparto di aerazione. L'estrazione del fango di supero
viene in genere condotta direttamente dal reattore biologico; ciò consente una
maggiore precisione rispetto all'estrazione di fango dal fondo del sedimentatore,
che è la pratica eseguita negli impianti reali; infatti così la misura non dipende dal
grado di ispessimento raggiunto nel sedimentatore.
Per la determinazione sperimentale di v̂ e ks può farsi riferimento alla (5'''),
che si può riscrivere, elevando entrambi i membri a -1:

1 ks 1 1
= + (21)
v v̂ S e v̂

Così linearizzata, la (21) rappresenta una retta nel piano 1/v, 1/Se, di cui
1/ v̂ è l'intercetta sull'asse delle ordinate e ks/ v̂ il coefficiente angolare.
Inoltre, per la (5') risulta:

1 dS
v=
x dt
ed essendo:
dS
V = q (So − Se )
dt
risulta quindi:
q (So − Se )
v= (21')
Vx

Ricordando che V/q = t, si ottiene in definitiva:


1 xt
= (21'')
v So − Se

In pratica, il funzionamento dell'impianto pilota viene condotto facendo


variare, nelle diverse prove, o la concentrazione della biomassa x o il tempo di
detenzione idraulica t nella vasca di aerazione (t può essere variato
semplicemente agendo sulla portata di alimentazione). Conoscendo per ciascuna
prova So, Se, x e t, può ottenersi il corrispondente punto nel piano 1/v; 1/Se. La
retta di interpolazione dei punti sperimentali, ricavabile con il metodo dei minimi
quadrati, consente quindi di individuare v̂ e, conseguentemente, ks.

In modo analogo si procede per la determinazione di Y e di kd. La (11') si


può infatti riscrivere nel seguente modo:

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1
= Yv − k d (11'')
ϑ
tale espressione rappresenta nel piano 1/ϑ, v una retta di coefficiente angolare Y e
intercetta con l'asse delle ordinate -kd. Per il calcolo sperimentale di ϑ, in base alla
(16), deve essere nota la quantità di fango di supero allontanata ogni giorno.

ESEMPIO N.1
Problema:

Determinare le costanti cinetiche v̂ e ks di un refluo, mediante l'impianto pilota riportato in Fig.9b.

Svolgimento:

Nell'impianto pilota, da laboratorio, mantenuto alla temperatura di 20 °C, sono state condotte
cinque diverse prove, mantenendo costante la portata di alimentazione (e quindi il tempo di
detenzione idraulico t) e facendo variare la concentrazione di biomassa in aerazione x.
Per ciascuna prova sono stati rilevati (tabella in Fig.10):
a) la concentrazione di substrato in ingresso So, che presenta leggere variazioni per gli inevitabili
cambiamenti delle caratteristiche del liquame analizzato;
b) la concentrazione di substrato in uscita Se, con grosse variazioni da prova a prova, per i diversi
rendimenti di depurazione conseguiti;
c) la quantità di fango di supero su base secca Xs, estratta ogni giorno al fine di mantenere le
condizioni di regime; la conoscenza di Xs non è strettamente necessaria in questo esempio, ma
è ugualmente eseguita in quanto necessaria per lo svolgimento del successivo Esempio n.2.

Per ciascuna prova si possono cacolare i valori di 1/v ed 1/Se, riportati in Fig.10.
La retta di interpolazione dei punti sperimentali ha coefficiente angolare ks/ v̂ ed intercetta
sull'asse delle ordinate 1/ v̂ ; tali valori possono essere ricavati col metodo dei minimi quadrati e
valgono:

⎛ 1 ⎞⎛ 1 ⎞ ⎛ 1⎞ ⎛ 1 ⎞
n∑ ⎜ ⎟⎜⎜ ⎟⎟ − ∑ ⎜ ⎟∑ ⎜⎜ ⎟⎟
ks ⎝ v ⎠⎝ S e ⎠ ⎝ v ⎠ ⎝ Se ⎠
= = 41,02 mg/l × giorno
v̂ 2 2
⎛ 1 ⎞ ⎡ ⎛ 1 ⎞⎤
n∑ ⎜⎜ ⎟⎟ − ⎢∑ ⎜⎜ ⎟⎟⎥
⎝ Se ⎠ ⎣⎢ ⎝ S e ⎠⎦⎥

2
⎛ 1⎞ ⎛ 1 ⎞ ⎛ 1 ⎞ ⎛ 1 ⎞⎛ 1 ⎞
∑ ⎜⎝ v ⎟⎠∑ ⎜⎜ S ⎟⎟ − ∑ ⎜⎜ ⎟⎟∑ ⎜ ⎟⎜⎜ ⎟⎟
1
= ⎝ e ⎠ ⎝ Se ⎠ ⎝ v ⎠⎝ S e ⎠ = 0,413 giorni
v̂ 2 2
⎛ 1 ⎞ ⎡ ⎛ 1 ⎞⎤
n∑ ⎜⎜ ⎟⎟ − ⎢∑ ⎜⎜ ⎟⎟⎥
⎝ Se ⎠ ⎢⎣ ⎝ S e ⎠⎦⎥

dove n=5 è il numero di punti sperimentali. Risulta quindi:

v̂ =2,42 giorni-1
ks=41,02x2,42=99,3 mg/l

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ESEMPIO N.2
Problema:

Determinare le costanti cinetiche Y e kd dello stesso refluo analizzato nell'esempio n.1, sapendo
che la capacità della vasca di aerazione Vaer è pari a 10 l.

Svolgimento:

Per ogni prova è già stato calcolato il valore di 1/v ed è noto x. E' stata inoltre misurata la quantità
Xs = qs xr di fango di supero giornaliero (riportata nella tabella di Fig.11).
Per ciascuna prova si riportano in Tab.4 e in Fig.10 i valori v e 1/ϑ; quelli di 1/v sono già stati
calcolati nell'esempio precedente, mentre 1/ϑ si calcola mediante la (16) come:

1 Xs
=
ϑ x Vaer

La retta di interpolazione dei punti sperimentali ha coefficiente angolare e intercetta con l'asse
delle ordinate pari a Y e kd; utilizzando il metodo dei minimi quadrati, si ricava:

Y=0,94

kd=0,04 giorni-1

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Fig.1 - Forma e disposizione di varie cellule batteriche

Fig.2 - Rappresentazione schematica della struttura della cellula batterica

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Fig.3 - Sviluppo della concentrazione batterica in un sistema chiuso, limitato


solo dalla concentrazione di substrato

Fig.4 - Andamento della velocità di crescita batterica μ in funzione della


concentrazione di substrato S

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processo α
fanghi attivi 1,02
letti percolatori 1,08
lagune aerate 1,08
nitrificazione 1,12
denitrificazione 1,15

Tab.1 - Valori della costante α per i principali processi biologici

Fig.5 - Risposta di un reattore con flusso a pistone a segnali a gradino (a) e a


impulso (b)

Fig.6 - Risposta di un reattore a miscelazione completa a segnali a gradino (a) e a


impulso (b)

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Fig.7 - Sistema a miscelazione completa senza ricircolo cellulare

Fig.8 - Sistema a miscelazione completa con ricircolo cellulare

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Fig.9 - Impianti pilota per esperienze di laboratorio su processi biologici aerobici. (a)
senza ricircolo cellulare; (b) con ricircolo cellulare e prelievo del fango di supero
dalla vasca di aerazione

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Fig.10 - Procedura di calcolo delle costanti cinetiche v̂ e ks (cfr. Esempio n.1)

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Fig.11 - Procedura di calcolo delle costanti cinetiche Y e kd (cfr. Esempio n.2)

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5. IMPIANTI PER LA RIMOZIONE DEL CARBONIO ORGANICO

La rimozione del substrato carbonioso di origine organica (valutabile


mediante il BOD) è stata da sempre l'obiettivo primario dei trattamenti biologici;
come accenato in precedenza, tale rimozione avviene all'interno di reattori
biologici, ad opera di una biomassa di natura eterotrofa (cioè che utilizza il
carbonio organico per la sintesi cellulare). Nel caso dei processi a biomassa
sospesa, questa si sviluppa formando fiocchi mantenuti in sospensione nel
reattore; invece, nel caso dei processi a biomassa adesa, essa forma una
pellicola biologica adesa a un supporto solido di riempimento del reattore, che
viene ciclicamente dilavata dal refluo.

I principali esempi di impianti a biomassa sospesa sono quelli a fanghi attivi


(anche se si vedrà che con tale termine vengono comprese numerose alternative
impiantistiche fra loro differenti) e gli stagni biologici (o lagune). Invece, fra gli
impianti a biomassa adesa, vanno ricordati i letti percolatori, i biodischi e i biorulli
(questi ultimi due sono indicati col termine RBC = Rotating Biological Contactors).

La rimozione del substrato è causata da due fenomeni concomitanti: il


primo è dato dal metabolismo batterico con sintesi di nuova biomassa cellulare,
che comporta la rimozione della componente solubile del substrato. Il secondo
fenomeno, nel caso dei processi a biomassa sospesa, è dato dalla
bioflocculazione, con cui la componente sospesa del substrato, anche non
sedimentabile, viene aggregata all'interno dei fiocchi; invece, nel caso dei processi
a biomassa adesa, alla sintesi del substrato solubile si accoppia l'adsorbimento di
quello sospeso all'interno della pellicola biologica. In entrambi i tipi di processo, la
biomassa così formatasi viene rimossa nella sedimentazione finale, per
separazione o dei fiocchi (nel caso di biomassa sospesa), oppure della pellicola
biologica (nel caso di biomassa adesa).
In definitiva, i trattamenti biologici consentono così, da un lato, la
trasformazione del substrato organico in prodotti stabili, come cataboliti del
metabolismo batterico, dall'altro, l'aggregazione, in fiocchi o pellicole, del susbtrato
(non vivente) sospeso e della biomassa (vivente), già presente nel refluo o
sintetizzata nel corso dei processi metabolici.
La successiva fase di sedimentazione consente la separazione dei fanghi,
in cui si ritrovano, a seconda dei casi, i fiocchi o le pellicole; deriva ovviamente da
ciò tanto l'assoluta necessità di prevedere tale fase a valle di qualunque tipo di
trattamento biologico, quanto l'importanza di garantirne il corretto funzionamento.
Ulteriore conseguenza (pur con qualche eccezione) è la necessità di sottoporre i
fanghi, separati nel sedimentatore, a una ulteriore fase di stabilizzazione, stante
l'elevata percentuale di prodotti organici di cui questi sono costituiti.

6. PROCESSO A FANGHI ATTIVI

6.1 Generalità sul processo

Il processo a fanghi attivi fu messo a punto nel 1914 in Inghilterra da


Andern e Lockett; il nome che gli fu dato sottolineava l'attività dei fanghi, ricircolati
dal sedimentatore finale in testa al reattore biologico, in cui la biomassa in essi

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presente era "attiva" ai fini tanto della metabolizzazione del substrato organico
solubile, quanto della bioflocculazione di quello sospeso.
In effetti, nel corso degli anni con tale termine si è finito per indicare
numerose tipologie d'impianto oppure eguali tipologie, ma condotte con modalità
operative differenti; di tali varianti si dirà meglio appresso.
In ogni caso, come processo a fanghi attivi si definisce un trattamento di
tipo aerobico, condotto mediante una più o meno prolungata aerazione della
miscela aerata presente nel reattore biologico; in questo, la biomassa è mantenuta
sospesa, in forma di fiocchi aventi dimensioni variabili da qualche centinaio di μ
fino a pochi mm; tali fiocchi possono essere rimossi dal liquido per semplice
sedimentazione.
La biomassa è in effetti costituita non sono da batteri, ma anche da
numerosi altri microrganismi (protozoi, metazoi, rotiferi, larve di insetti, vermi, etc.)
legati gli uni agli altri da una catena alimentare. I fiocchi presentano inoltre
un'importante componente di materiale organico inerte e di materiale inorganico,
in conseguenza dei fenomeni di flocculazione e di inglobamento meccanico che si
determinano nei confronti del materiale disperso nel mezzo liquido.

Nella sua configurazione tradizionale, lo schema di un impianto a fanghi


attivi è quello rappresentato in Fig.12; esso consta di una vasca di aerazione, in
cui, in ambiente aerobico, viene mantenuto il contatto tra la popolazione batterica
preformata e lo scarico da trattare, introdotto con continuità; la miscela aerata
(mixed liquor) in uscita dalla vasca viene inviata alla sedimentazione, in cui i
fiocchi di fango attivo sono separati dall'effluente, che può quindi essere scaricato;
i fanghi accumulati nella tramoggia del sedimentatore vengono in parte ricircolati
nella vasca di aerazione (fango di ricircolo), al fine di mantenere un'elevata
concentrazione della popolazione batterica, e in parte avviati alla linea fanghi
(fanghi di supero), per la necessaria stabilizzazione e disidratazione.
In pratica, è facile notare che lo schema utilizzato per il processo a fanghi
attivi (almeno nella versione tradizionale rappresentata in Fig.12) è quella di un
reattore a completa miscelazione, con ricircolo cellulare.

Per comprendere l'andamento del processo, risulta utile esaminare la fase


di avviamento dell'impianto. Si faccia l'ipotesi che il refluo entrante nella vasca di
aerazione sia privo di solidi sedimentabili, o perchè già sottoposto a
sedimentazione primaria, o perchè ne sia privo fin dall'origine. Nella fase iniziale, il
substrato organico presente nel refluo non ha la possibilità di essere metabolizzato
in misura considerevole, dato che la popolazione batterica nella vasca di
aerazione è presente in concentrazioni modeste per poter consentire un elevato
rendimento di rimozione del substrato stesso, nel breve tempo di permanenza
dello scarico in vasca (dell'ordine di alcune ore); occorrono infatti numerosi giorni
per ottenere l'autodepurazione naturale di uno scarico organico.
A valle del sedimentatore quindi le caratteristiche dell'effluente non saranno
sensibilmente modificate rispetto a quelle del refluo in ingresso alla vasca di
aerazione; accanto ad una limitata degradazione biologica intervenuta per effetto
della popolazione batterica originariamente presente, si verificano pure fenomeni
di ossidazione chimica, dovuti all'abbondante presenza di ossigeno, fornito dai
sistemi di aerazione, e fenomeni di flocculazione meccanica di solidi sospesi non
sedimentabili, come conseguenza dell'intensa agitazione avvenuta nell'aerazione.
Nella tramoggia del sedimentatore si raccoglierà quindi una limitata quantità di

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fango, costituita dalle particelle flocculate; su di esse tendono a svilupparsi


preferenzialmente le colonie batteriche, che trovano abbondante disponibilità del
substrato nutritizio necessario al loro metabolismo.
Se il fango così raccolto sul fondo del sedimentatore, anzichè essere
avviato alla linea fanghi, viene rimandato nella vasca di aerazione, a mezzo di un
circuito di ricircolo dotato di impianto di sollevamento, la concentrazione di batteri
in vasca potrà aumentare progressivamente.
Per conseguenza, la quantità di fango che si verrà a raccogliere nella
tramoggia del sedimentatore crescerà in continuazione, sia per i fenomeni di
flocculazione meccanica dell'effluente via via introdotto nell'impianto, sia per lo
sviluppo delle colonie batteriche contenute nei fiocchi stessi, sia infine per i
fenomeni di inglobamento di solidi non sedimentabili nei fiocchi già formati.
In tutta la fase di avviamento quindi la popolazione batterica continua a
crescere nel sistema ed in particolare nella vasca di aerazione, fino a raggiungere
i valori voluti per il normale esercizio dell'impianto.
Il periodo di avviamento di un impianto dipende dalle caratteristiche del
substrato e soprattutto dal fatto che nello scarico sia già presente o meno una
popolazione batterica acclimatata; in linea generale si può ammettere che nel giro
di qualche settimana la fase di avviamento sia conclusa. Nella reale procedura di
avviamento di un impianto di depurazione, al fine di ridurre tale periodo a pochi
giorni (o anche meno) è usuale fare ricorso al riempimento della vasca di
aerazione con fango prelevato da altri impianti di depurazione già in esercizio.

Una volta raggiunte le condizioni di regime (cioè la voluta concentrazione di


batteri nella vasca di aerazione), le modalità di esercizio dell'impianto vanno
modificate; infatti, se non si vuole aumentare la quantità di fango accumulata nel
sedimentatore oltre i limiti prefissati per il corretto esercizio di questo, è necessario
sottrarre al sistema la quantità di fango in eccesso (fango di supero), le cui
caratteristiche fisiche e biologiche risultano per altro del tutto identiche a quelle del
fango di ricircolo. Ciò è possibile estraendo il fango di supero dalla tramoggia,
assieme al fango di ricircolo, oppure dalla vasca di aerazione (tale soluzione è
però poco frequente).

In definitiva quindi l'impianto a fanghi attivi consente di eliminare il materiale


organico biodegradabile (substrato), in forma disciolta o sospesa non
sedimentabile, trasformandolo in parte in materiale inerte (sali disciolti o gas) e
quindi stabile, in parte in fango di supero, separato nel sedimentatore; questo, di
natura prevalentemente organica, necessita in genere di un'ulteriore fase di
stabilizzazione prima di essere smaltito.

Va osservato che, nella pratica, non si fa mai riferimento alla massa ed alla
concentrazione batterica, la cui determinazione richiederebbe metodi analitici di
notevole complessità, non idonei ad un impiego tecnico. Come misura indiretta
della biomassa vengono piuttosto assunti i solidi sospesi volatili (oppure i solidi
sospesi totali, nell'implicita assunzione che ci sia un rapporto costante tra i solidi
sospesi volatili e quelli totali, per i reflui urbani generalmente pari a 0,7); in effetti
però tale assunzione è approssimata, in quanto la massa cellulare non costituisce
una frazione in peso dei solidi sospesi rigidamente costante, dipendendo oltre che
dalle caratteristiche del substrato anche dalle condizioni in cui si opera il processo.

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Pertanto, in tutta la trattazione che segue i simboli X ed x, che indicano una


misura della biomassa, corrispondono rispettivamente a misure di massa e
concentrazione dei solidi sospesi totali.

6.2 Dimensionamento razionale del reattore biologico

Come detto, il trattamento a fanghi attivi consiste in un processo biologico


con ricircolo cellulare; il calcolo del volume del reattore si può quindi eseguire
ricorrendo alla trattazione a questo relativa, riportata al prf.4.6.
In particolare, dal bilancio del substrato per il reattore si ricava la
concentrazione della biomassa in vasca:
(S − S e ) Y
x= o (17)
μt
si osserva che tale espressione è identica alla (12') ed è ricavabile dalla (12), in
quanto il citato bilancio è formalmente uguale per i due casi dei reattori con e
senza ricircolo cellulare.
Il valore di μ si può ricavare dalla (11'):
1
μ = + k d (18 )
ϑ

Sostituendo il valore di μ così ottenuto nella precedente relazione,


esplicitando il tempo di residenza idraulico e ricordanto che è t=V/q, si ricava:
qY (So − S e ) ϑ
V= (19)
1 + ϑk d x

parimenti, il tempo di residenza cellulare ϑ può essere valutato a partire dalla (11'):
1 Se
= Yv̂ − kd (20 )
ϑ k s + Se

La procedura da seguire per il calcolo del volume del reattore biologico può
allora essere così sintetizzata:
a) ove non già note, si valutano mediante prove di laboratorio (cfr. prf. 4.7) le
costanti cinetiche ks, kd, Y e v̂ relative al liquame di cui si vuole eseuire il
trattamento;
b) nota la concentrazione di BOD5 del liquame avviato al reattore biologico (So) e
quella del liquame depurato (Se), generalmente fissato in base ai limiti di legge
imposti per la protezione del recapito, si valuta ϑ con la (20);
c) note la portata di alimentazione q, si valuta V mediante la (19).

Quindi, a parità di costanti cinetiche, l'analisi della (19) evidenzia che il


volume del rettore dipende dal tempo di residenza cellulare ϑ.

6.3 Dimensionamento semplificato del reattore biologico

Il calcolo degli impianti a fanghi attivi sulla base della teoria


precedentemente esposta comporta la determinazione sperimentale delle costanti
cinetiche, mediante le prove di laboratorio descritte al prf. 4.7.

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Soprattutto nel caso di liquami domestici, la cui composizione è in genere


poco variabile da un caso all'altro, il dimensionamento del reattore biologico può
essere condotto sulla base di criteri empirici, desunti dalle esperienze maturate sui
numerosissimi impianti operanti nel settore. L'applicabilità di tali criteri è lecita solo
per situazioni analoghe a quelle in cui essi sono stati messi a punto; altrimenti essi
possono portare a valutazione errate (per esempio nel caso di liquami di origine
produttiva, caratterizzati da differenti caratteristiche del substrato, o per
temperature di funzionamento del reattore diverse).
I criteri empirici fanno uso di due parametri appresso definiti.

Si definisce carico del fango cf la quantità di sostanza organica


biodegradabile che nell'unità di tempo è messa a disposizione di una quantità
unitaria di biomassa; cf ha pertanto le dimensioni dell'inverso di un tempo e viene
generalmente espresso in kg di BOD applicato al sistema per kg di fango attivo
(su base secca) presente nella vasca di aerazione e per giorno (cioè in
kgBOD/kgSSxgiorno). Risulta quindi:

q So So
cf = = (22)
xV xt
con:
q portata di alimentazione del sistema, in m3/giorno;
So concentrazione della sostanza organica nella portata alimentata, in kg/m3;
x concentrazione della biomassa nel reattore biologico, in kg/m3;
V volume del reattore biologico, in m3;
t tempo di detenzione idraulico, in giorni.

Si definisce altresì carico volumetrico cv della vasca la quantità di sostanza


organica biodegradabile che nell'unità di tempo è messa a disposizione per ogni
metro cubo di capacità della vasca; cv viene generalmente espresso in kg di BOD
applicati al sistema per m3 di vasca e per giorno (cioè in kgBOD/m3xgiorno).
Risulta pertanto:

q So So
cv = = (22')
V t
quindi cv è legato a cf dalla seguente relazione:

c v = x cf (22'')

In base alla (22), segue che valori di cf bassi esprimono scarsa disponibilità
di substrato per la biomassa, a cui corrisponde un elevato rendimento di
depurazione. I batteri infatti tendono ad utilizzare nel modo più completo la
sostanza organica, disponibile in modesta quantità; inoltre la produzione di nuove
cellule batteriche è ridotta, cosicchè è limitata la quantità di fango di supero, che
deve essere estratta per mantenere nel sistema la voluta concentrazione batterica
(in Fig.3 queste condizioni corrispondono alla zona di crescita limitata o, per i più
bassi valori di cf, a quella di respirazione endogena).
All'aumentare di cf cresce la quantità di fango di supero, mentre il
rendimento di depurazione resta elevato fino a quando non si raggiungono
condizioni per cui il substrato nutritivo introdotto nel sistema supera i fabbisogni
della popolazione batterica presente. Quando ciò avviene, la frazione di sostanza

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G. Viviani
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organica immessa nel reattore, non utilizzata dalla biomassa, viene scaricata con
l'effluente, con una conseguente riduzione del rendimento di depurazione (è
questo il caso della zona di crescita illimitata della Fig.3).
Le considerazioni precedenti sono riassunte nelle curve riportate in Fig.13,
tutte di origine empirica; tali curve, dedotte da differenti autori, sono state tutte
ricavate a partire dall'esame delle caratteristiche dimensionali e di funzionamento
di reali impianti di depurazione per liquami di origine domestica. L'esame delle
curve evidenzia che rimozioni del BOD dell'ordine del 90% sono conseguibili fino a
quando cf non supera 0,5 kgBOD/kgSSxgiorno. Al di sopra di tale valore il
rendimento di depurazione subisce una rapida diminuzione, particolarmente
sensibile soprattutto in condizioni invernali.

Il calcolo del volume della vasca di aerazione può essere allora così
condotto:
a) noti il valore del BOD5 del liquame influente alla vasca e quello del liquame
depurato (anche in questo caso determinabile in base al rispetto dei limiti fissati
per il rispetto del recapito), si puo ricavare il valore del rendimento richiesto al
trattamento biologico, così definito:

So − Se
ηb = (23)
So
b) in base al valore di ηb si può ricavare il corrispondente valore di cf, utilizzando
una delle curve della Fig.13;
c) fissata la concentrazione x dei solidi nella vasca di aerazione (è spesso indicata
col simbolo SSMA = Solidi Sospesi nella Miscela Aerata), si ricava il valore del
carico volumetrico cv mediante la (22'');
d) si può così ricavare il volume della vasca utilizzando la seguente espressione,
ovviamente derivata dalla (22'):
q So
V= (22' ' ')
cv

L'esame della (22''') evidenzia che, a parità della quantità di substrato qSo
introdotto nel sistema (misurata in kg BOD/giorno), il volume V del reattore
biologico sarà tanto minore, quanto maggiore è il valore assunto per il carico
volumetrico cv. Compatibilmente con le esigenze del processo, conviene quindi
che cv risulti il più possibile elevato, in modo da ridurre al minimo il volume della
vasca di aerazione.
Per la (22''), ciò può ottenersi agendo sia su cf che su x; tuttavia il valore di
cf determina il rendimento di depurazione conseguibile nonchè, come si vedrà
meglio in seguito, la produzione e il grado di stabilità dei fanghi, il consumo di
ossigeno e il livello di nitrificazione. In impianti per liquami domestici, sulla base
delle indicazioni della Fig.13, elevati rendimenti di depurazione (superiori cioè a
0,85 anche in condizioni invernali) sono conseguibili per cf dell'ordine di 0,4-0,5 kg
BOD/kgSSxgiorno. Nella pratica tuttavia è bene mantenersi su valori meno elevati,
pari a 0,2-0,3 kgBOD/kgSSxgiorno, sia per assicurare al processo un sufficiente
margine di sicurezza, sia per tener conto delle punte giornaliere di carico, sia infine
per la possibilità che scarichi non strettamente domestici possano alterare le
caratteristiche di biodegradabilità del substrato organico.

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G. Viviani
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Anche la scelta del valore di x è limitata; essa deve infatti tener conto delle
caratteristiche di sedimentabilità del fango, che non consentono di superare
determinate concentrazioni per il fango di ricircolo e, di conseguenza, per la
miscela aerata presente nella vasca di aerazione.

Tali considerazioni portano quindi a semplificare ulteriormente la procedura


di progetto prima descritta; infatti, stante gli elevati rendimenti che valori di cf non
superiori a 0,3 kgBOD/kgSSxgiorno riescono a garantire (in pratica sempre non
inferiori al 90%) e che tali valori sono in genere sufficienti per la depurazione dei
reflui di origine domestica, si può saltare il passo a), fissando direttamente il valore
di cf e procedendo così come prima descritto.

Infine va osservato che è possibile legare il carico del fango con le costanti
cinetiche, prima introdotte; infatti, dal bilancio di massa per il substrato nel reattore
biologico risulta:
dS
q (So − Se ) = V = Vxv
dt

dividendo entrambi i membri per qSo, si ricava:

(So − Se ) Vxv txv


= =
So qSo So

introducendo quindi il rendimento di depurazione ηb e ricordando la (22'), in


definitiva si ricava:
v = ηb cf (23')

quindi, a meno del rendimento ηb, cf coincide con la velocità di rimozione del
substrato.
La (23') stabilisce pertanto un legame tra il criterio di dimensionamento
razionale e quello empirico.

ESEMPIO N.3
Problema:

In base al valore di v̂ e di ks calcolati nell'Esempio n.1, desumere il carico del fango applicabile in
un processo a fanghi attivi alimentato con BOD = 410 mg/l, in cui si voglia ottenere un BOD in
uscita di 35 mg/l. Si ammetta che la temperatura di esercizio possa scendere fino a 10 °C.

Svolgimento:
Dall'Esempio n.2 si sono ottenuti i seguenti risultati: v̂ = 2,42 giorni-1; ks = 99,3 mg/l. L'effettiva
velocità di rimozione del substrato v, in condizioni di miscelazione completa ed a 20 °C, risulta:

Se 35
v 20 = vˆ = 2,42 = 0,63 giorni−1
k s + Se 99,3 + 35

Il valore da applicare nel dimensionamento dell'impianto deve tener conto dell'effettiva temperatura
di esercizio nelle condizioni più critiche (10 °C). Risulta quindi per la (8):

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v = v 20 α (T − 20) = 0,63 ⋅ 1,02(10 − 20) = 0,516 kg BOD / kg SS × giorno.

Il rendimento di depurazione al processo deve essere:

So − Se 410 − 35
ηb = = = 0,914
So 410

Conseguentemente, per la (23'):

c f = v / ηb = 0,516 / 0,914 = 0,565 kg BOD / kg SS × giorno

6.4 Caratteristiche di sedimentabilità del fango

La sedimentabilità dei fanghi biologici può essere valutata attraverso l'indice


di Mohlman, normalmente indicato con la notazione SVI (Sludge Volume Index),
definito come segue.
L'indice di Mohlman è dato dal rapporto tra il volume (in ml) di fango, che si
deposita, in condizioni statiche, sul fondo di un cilindro graduato riempito con un
campione di 1 litro di miscela aerata e lasciato sedimentare per 30', e la
concentrazione (in g) di solidi sospesi contenuti all'origine nel campione di miscela
aerata. Risulta cioè:

VF ⎡ ml ⎤
SVI = (24)
x ⎢⎣ g ⎥⎦
con:
VF volume del fango, in ml/l;
x concentrazione di SS, in g/l.

Da un punto di vista fisico, lo SVI costituisce il volume (in ml) occupato da 1


g di solidi sospesi (su base secca) della miscela aerata, dopo sedimentazione
statica per 30'; pertanto bassi valori di esso indicano una buona sedimentabilità
del fango, che si concentra in un piccolo volume; invece, valori elevati
corrispondono a un sedimento molto ricco di acqua; tale situazione si determina
se nella popolazione batterica si riscontra una predominanza di batteri filamentosi,
che, pur attivi nell'eliminazione del substrato, presentano scarsa tendenza alla
bioflocculazione; tale fenomeno, noto come rigonfiamento dei fanghi (bulking), da
origine a fiocchi con cattiva sedimentabilità; esso può essere prodotto da
numerose cause, quali bassi valori di cf o di ossigeno disciolto (non superiori a
circa 0,5 mg/l), improvvise variazioni delle condizioni ambientali (temperatura, pH,
salinità, etc.); in ogni caso, il bulking è un fenomeno di cui ancora oggi non sono
del tutto chiare nè le cause, nè i provvedimenti correttivi atti a limitarne le
conseguenze; esso è frequente in tutti i sistemi biologici a biomassa sospesa, di
cui costituiscono forse la causa di disfunzione più ricorrente.

Fra i fattori che influenzano lo SVI, di particolare interesse appare cf; infatti
si è riscontrato che la migliore sedimentabilità si verifica per cf compreso tra 0,15 e
0,50 kg BOD/kgSSxgiorno e quindi nel campo di più comune applicazione dei
processi a fanghi attivi (Fig.14). Ciò può spiegarsi con le considerazioni seguenti:

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a) per bassi valori di cf, la popolazione batterica è portata a condizioni prossime


alla respirazione endogena, con conseguente parziale metabolizzazione delle
proteine e dell'acido ribonucleico contenuto nel citoplasma; il residuo del
metabolismo endogeno è prevalentemente costituito dalle membrane esterne;
ciò fa diminuire la capacità di bioflocculazione, contribuendo alla dispersione dei
fiocchi anche in seguito alla sovra-aerazione, tipica di impianti a basso cf; il
fenomeno è talvolta indicato come fanghi a testa di spillo (pin point);
b) per altri valori di cf, si verifica una predominanza di batteri filamentosi, con i
conseguenti fenomeni di rigonfiamento prima descritti; si osserva che da questo
punto di vista i reattori a miscelazione completa presentano il vantaggio di un
carico del fango costante, mentre, nel caso di flusso a pistone o di
alimentazione discontinua, cf risulta particolarmente elevato in prossimità
dell'ingresso (o nel primo periodo dopo l'alimentazione). Ciò favorisce uno
sviluppo iniziale di batteri filamentosi la cui presenza difficilmente viene ridotta
nel seguito del processo, determinando di conseguenza una cattiva
sedimentabilità del fango.

Si ricorda comunque che il valore dello SVI dipende non solo da cf, ma
anche da altri fattori in precedenza richiamati, non sempre facilmente prevedibili.
In sede progettuale è pertanto opportuno ammettere valori di SVI più elevati di
quelli teorici, il che significa far conto su di una peggiore sedimentabilità dei fanghi.

ESEMPIO N.4
Problema:

Determinate il valore dello SVI per la miscela aerata di un impianto a fanghi attivi.

Svolgimento:

Dopo aver prelevato un campione di miscela aerata dalla vasca di areazione, si determinano la
concentrazione dei solidi sospesi SS e il volume dei fanghi VF in sedimentazione statica in cilindro
per 30'; risulta:
SS = 3000 mg/l
VF = 360 ml
Lo SVi risulta quindi pari a:
SVI = 360/3 = 120 ml/g

6.5 Concentrazione della biomassa e ricircolo del fango

La stima della concentrazione del fango di ricircolo xr può essere ricavata a


partire dallo SVI, a cui essa può considerarsi correlata. Infatti, se in prima
approssimazione si ammette che xr possa essere assunta pari alla concentrazione
media del fango dopo sedimentazione statica per 30', può scriversi:
xr × VF = x × 1000 (25)

e, ricordando la (24):

1000 VF 1000
xr = = (26)
VF SVI SVI

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In effetti tale relazione va applicata con cautela, in quanto nella realtà, a


parità di caratteristiche di sedimentabilità, il valore di xr varia con le dimensioni
adottate per la sedimentazione finale.

Per definire il valore della concentrazione dei solidi nella miscela aerata x, si
consideri lo schema di Fig.8, in cui è rappresentato un impianto a fanghi attivi
(vasca di aerazione e sedimentatore finale). A regime x è mantenuto costante
ricircolando nella vasca di aerazione il fango separato nel sedimentatore finale (a
meno della frazione eliminata come fango di supero). Con un bilancio della
biomassa nel reattore (biomassa entrante + biomassa prodotta = biomassa
uscente), può scriversi:

dx
q xo + qr xr + V = (q + qr ) x (27)
dt

Trascurando l'apporto di biomassa, presente nel liquame alimentato al


sistema (qxo) e gli effetti della sintesi (V dx/dt), rispetto alla biomassa ricircolata (qr
xr), e risolvendo rispetto ad x, risulta:

qr
x= xr (28)
q + qr

La (28) stabilisce un legame tra x ed xr; il rapporto qr/(q + qr) è sempre


minore dell'unità e tende a 1 quando qr tende a infinito; pertanto x è sempre
minore di xr, a cui può avvicinarsi solo per portate di ricircolo molto elevate rispetto
a quelle di scarico.

Il mantenimento della voluta concentrazione di biomassa x nella vasca di


aerazione si ottiene quindi mediante il ricircolo della portata qr, il cui valore è
facilmente calcolabile a partire dalla (28):

x
qr = q (29)
xr − x

In realtà xr presenta sempre delle variazioni nel corso dell'esercizio


dell'impianto, a causa delle possibili modificazioni delle caratteristiche di
sedimentabilità dei fanghi; in più, l'impossibilità di prevedere con esattezza le
caratteristiche di sedimentabilità dei fanghi non consente di definire con
precisione, in fase di progetto e facendo uso della teoria della sedimentazione di
massa, il valore di xr in funzione del carico di sostanza secca applicato nella
sedimentazione finale; conseguentemente anche qr richiede delle verifiche e degli
adattamenti. E' pertanto opportuno dimensionare con larghezza il circuito di
ricircolo, anche per valori di xr superiori quelli derivanti dalla (29) ed
eventualmente parzializzando la portata con l'inserimento di una perdita di carico
localizzata o con un funzionamento discontinuo asservito ad un temporizzatore.
Per impianti a fanghi attivi convenzionali, dimensionati per valori del carico
del fango compresi tra 0,15 e 0,40 kgBOD/kgSSxgiorno, xr è bene che venga
previsto non superiore a 8-10 g/l. Conseguentemente, per la (28), x assume valori
di qualche gr/l, in funzione del valore scelto per qr. A tale riguardo va tenuto

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presente che la convenienza ad aumentare qr è limitata dal maggior


dimensionamento sia del circuito del ricircolo, sia soprattutto del sedimentatore
finale la cui superficie deve essere calcolata in base alla portata dei solidi in essa
alimentati, pari a (q +qr) x.
Per impianti piccoli e medi, di tipo tradizionale, è usuale prevedere una
portata di ricircolo pari al 100% della portata alimentata; per grossi impianti ci si
limita in genere al 70-80%. Ne derivano valori di x di norma compresi tra 3 e 5 g/l.
Di conseguenza, per la (22'') e tenuto conto delle limitazioni imposte a cf, il carico
volumetrico cv risulta pari a 1,0-1,2 kgBOD/m3xgiorno.

ESEMPIO N.5
Problema:

Un impianto è stato dimensionato per un carico volumetrico di 1,2 kgBOD/m3xgiorno e un carico


del fango di 0,3 kgBOD/kgSSxgiorno; la concentrazione di solidi che si vuole mantenere nella
vasca di aerazione è pari a 4 kgSS/m3.
Si vuole conoscere il valore della portata di ricircolo, nell'ipotesi che il fango estratto dal
sedimentatore finale abbia una concentrazione xr pari a 9,5 kgSS/m3.

Svolgimento:

In base alla (29), la portata di ricircolo risulta pari a:

4
qr = q = 0,73 q
9,5 − 4

Tuttavia, il circuito di ricircolo viene dimensionato per una portata massima di ricircolo pari al 100%
di quella alimentata; il valore prima calcolato può allora essere ottenuto, ad esempio,
temporizzando il funzionamento delle pompe di ricircolo e facendole funzionare per il 73% del
tempo.
Nel caso in cui la concentrazione del fango di ricircolo si riduca, risultando pari a 7 kgSS/m3,
sempre per la (29) la nuova portata di ricircolo necessaria per mantenere x = 4 kgSS/m3 risulta:

4
qr = q = 1,33 q
7−4

Tale portata di ricircolo non risulta realizzabile, in quanto l'impianto è stato realizzato per qr=q;
ricircolando il massimo valore di portata disponibile, per la (28) la concentrazione massima che si
può mantenere nella vasca di aerazione risulta:

q
x= xr = 3,50 kgSS / m 3
2q

In questo caso, stante che il valore di cv non varia, segue che il minimo valore di cf che può
essere mantenuto in aerazione risulta:

c v 1,2
cf = = = 0,344 kgBOD / kgSS × giorno .
x 3,5

L'esempio dimostra quindi l'opportunità di mantenere criteri prudenziali nella scelta dei parametri di
dimensionamento, in modo da poter assicurare condizioni di processo adeguate ad un buon livello
di depurazione, anche quando la sedimentabilità del fango risulti peggiore di quanto previsto in
sede progettuale.

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6.6 Produzione del fango di supero

Come già visto in precedenza, l'estrazione di fango di supero deriva dalla


necessità di mantenere costante nel sistema la concentrazione della biomassa,
una volta raggiunte le condizioni di regime. In un intervallo di tempo, il fango di
supero da eliminare è quindi dato dalla quantità di solidi sospesi prodotto nel
sistema nello stesso intervallo, per effetto della crescita batterica e dei fenomeni di
flocculazione.
La portata ponderale di fango di supero Xs equivale, per la (16), a:

Vx
X s = xr qs = (30)
ϑ

ricordando la definizione del tempo di detenzione cellulare (o età del fango) data
dalla (11'), si ricava:

X s = Vx (Yv − k d ) (31)

Utilizzando la (21') e introducendovi il rendimento di rimozione del


trattamento biologico ηb e ancora indicando con Bb la quantità di substrato
alimentato nell'unità di tempo (Bb=qSo) e con X la biomassa complessivamente
presente nel reattore (X=Vx), si ricava la seguente espressione della velocità di
rimozione del substrato v:

q(So − Se ) (So − Se ) 1
v= = qSo = ηb Bb (32)
X So X X

Sostituendo la (32) nella (31), si ricava la portata ponderale (su base secca)
del fango di supero prodotto nell'unità di tempo:

X s = ηb Y Bb − k d X (33)

Infine, dividendo entrambi i membri della (33) per la quantità di substrato


rimosso ηbBb = q(So - Se), si ricava la quantità di fango di supero specifica,
prodotta nell'unità dio tempo, per unità di substrato rimosso:

Xs k X k
= Y− d = Y− d (34)
ηb Bb ηb Bb v

Va evidenziato che la (34) rappresenta la quantità di fango prodotta per


effetto del metabolismo batterico, e quindi di natura biologica; essa non va quindi
confusa con quella che può prodursi nel sedimentatore finale per via dei fenomeni
di separazione dei solidi sospesi sedimentabili, già presenti nel refluo a monte del
trattamento biologico.

L'esame della (34) evidenzia che, per Yv<kd, essa porta a produzioni di
fango negative (e cioè ad una diminuzione dei solidi sospesi presenti nel sistema).

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Tale situazione si può avere per ridotte alimentazioni del substrato, in cui la
produzione di nuovo fango non è sufficiente a compensare i fenomeni di
scomparsa batterica. In reattori batch, ciò corrisponde alla fase endogena; un
esempio di impianti reali, alimentati in continuo, in cui si realizza tale condizione è
data dai digestori aerobici.

Per l'uso della (34) è necessario determinare le costanti cinetiche Y e kd,


secondo la metodologia già illustrata al paragrafo 4.7.
Tuttavia, per i liquami domestici preliminarmente sottoposti a
sedimentazione, in mancanza di determinazioni dirette, sono in genere utilizzabili i
valori seguenti

Y = 1 kgSS/kgBOD

kd = 0,05 giorni-1

Nel caso di impianti dotati di sedimentazione primaria, l'utilizzazione della


(34) con l'inserimento di tali coefficienti porta tuttavia ad una leggera sottostima del
fango di supero prodotto, rispetto ai valori effettivamente riscontrati; ciò può
essere attribuito all'intrappolamento nel fiocco di materiale inerte sedimentabile,
sfuggito alla decantazione primaria. Al fine di compensare tale sottostima, si può
introdurre un coefficiente correttivo, determinato sperimentalmente, pari a
(1,20 − 0,28 c f ) ; tale coefficiente, maggiore di 1, è funzione del carico del fango, in
quanto è intuitivo che la quantità di materiale inerte vada percentualmente
diminuendo, all'aumentare della produzione di biomassa e quindi di cf.
Introducendo il coefficiente correttivo e i due valori prima indicati per Y e kd, la
(34) diventa:

Xs 0,05
= (1,20 − 0,28 c f ) (1 − ) (34')
ηb Bb ηb c f

in tale espressione cf è espresso in kgBOD/kgSSxgiorno e Xs/ηbBb in


kgSS/kgBOD rimosso. La (34') non è applicabile per valori di cf inferiori a 0,1
kgBOD/kgSSxgiorno, nè, per qualunque valore di cf, in assenza di sedimentazione
primaria.
Dalla (34'), assunti per ηb i valori delle curve di Wuhrman di Fig.13, si
ricavano le produzioni specifiche di fango di supero riportate in Tab.2; un loro
esame evidenzia che, per gli usuali rendimenti richiesti, tali produzioni si aggirano
intorno a valori di poco superiori.a 1 kgSS/kgBOD rimosso.

Nel caso di impianti non dotati di sedimentazione primaria (e quindi di


liquami non chiarificati), alla produzione di fango biologico, ricavabile con la (34),
deve assere aggiunta quella dei solidi sospesi di natura inerte presenti nel liquame
grezzo (pari a circa un terzo della quantità complessiva di solidi sospesi). La
produzione di fango di supero può venire allora calcolata mediante la (34), senza
l'introduzione del coefficiente correttivo prima citato e utilizzando i valori numerici
di Y ed kd già assunti per il liquame chiarificato; ad essi va aggiunta la quantità di
solidi dovuta all'intrappolamento del materiale inerte, che può esserre calcolata
separatamente.
Per il caso di impianti non dotati di sedimentazione primaria, risulta allora:

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Xs 0,05 0,33(x o − x e )
= (1 − )+ (34' ' )
ηb Bb ηb c f ηb Bb

dove xo e xe sono rispettivamente le concentrazioni di solidi sospesi nel refluo


grezzo e in quello in uscita dal sedimentatore finale.

In mancanza di più precise determinazioni, la produzione di fango di supero


in impianti privi di decantazione primaria può ricavarsi dalla Tab.2.

Si osserva infine che dalle espressioni (11') e (23') si ricava un legame tra
l'età del fango ed il carico del fango:

1
= ηb cf − 0, 05 (35)
ϑ

in essa si sono introdotti i valori prima richiamati per le costanti Y e kd.


Nel caso invece di reflui domestici già chiarificati, avendo calcolato la
produzione di fango di supero in base alla (34'), si ottiene:
1
= (1,20 − 0,28 cf )( ηb cf − 0,05) (35')
ϑ

dove le unità di misura sono le stesse di quelle già indicate per la (34'); quindi, in
base alle espressioni (35) e (35'), il valore di ϑ risulta decrescente al crescere di
cf.

ESEMPIO N.6
Problema:

In un impianto a fanghi attivi, con sedimentazione primaria, sono alimentati 2550 m3/giorno di
liquame, aventi concentrazione di BOD e di solidi sospesi rispettivamente pari a So = 275
mgBOD/l e xo = 380 mgSS/l. Il carico del fango è cf = 0,25 kgBOD/kgSSxgiorno; le concentrazioni
di BOD e di solidi sospesi nel liquame in uscita sono Se = 30 mgBOD/l e xe = 60 mgSS/l. Si chiede
di calcolare la produzione di fango di supero.

Svolgimento:

Il carico organico alimentato all'impianto vale:

Bb = 0,275 x 2550 = 701,25 kg BOD/giorno

Il rendimento di rimozione risulta:


So − Se 275 − 30
ηb = = = 0,89
So 275

La produzione specifica di fango, dovuta alla componente biodegradabile, può essere valutata
mediante la (34):
X's 0,05
= 1− = 0,775 kgSS / kgBOD rimosso
ηb B b 0,89 ⋅ 0,25

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corrispondente a:
X's
X's = ηbBb = 0,775 × 0,89 × 701,25 = 484,18 kgSS / giorno
ηb Bb

La produzione di fango di supero dovuto al materiale inerte, assunto pari al 33% dei solidi sospesi,
vale:
X''s = 0,33 (xo − xe ) q = 269,28 kgSS / giorno

complessivamente quindi risulta:


X s = X's + X''s = 753,46 kgSS / giorno

pari a
Xs 753,46
= = 1,21 kgSS / kgBOD rimosso
ηb Bb 624,75

6.7 Calcolo dei sistemi di aerazione

La quantità di ossigeno da fornire nella vasca di aerazione, al fine di


mantenere le condizioni per il metabolismo aerobico (che si è detto garentito da
almeno 0,5 mg/l di ossigeno disciolto), può essere calcolato a partire, da un lato,
dal fabbisogno di ossigeno necessario per il metabolismo stesso, dall'altro, dalla
capacità di trasferimento di ossigeno da parte del particolare sistema di aerazione
adottato.

6.7.1 Fabbisogno di ossigeno

La quantità di ossigeno consumata dalla popolazione batterica può essere


valutata con l'espressione:

ΔO 2 = a'(So − Se )q + b' Vx (36)


con:
ΔO2 quantità di ossigeno utilizzata nell'unità di tempo;
a' coefficiente adimensionale, detto di respirazione attiva;
b' coefficiente, avente le dimensioni di t-1, detto di respirazione endogena;

Il primo addendo a secondo membro della (36), proporzionale alla quantità


di substrato rimosso, costituisce il consumo dei batteri nelle reazioni di sintesi, a
seguito delle quali viene prodotto nuovo materiale cellulare (respirazione attiva). Il
secondo addendo, proporzionale alla biomassa presente nel sistema, tiene invece
conto della respirazione endogena. Un ulteriore consumo di ossigeno è legato ai
processi di nitrificazione, ove questi avvengano; in questa fase si farà l'ipotesi che
tale fenomeno non si verifichi.

La determinazione dell'ossigeno utilizzato può essere condotta


sperimentalmente in una vasca a fanghi attivi, arrestando i dispositivi di aerazione
e misurando, mediante una sonda, la diminuzione della concentrazione di
ossigeno disciolto che si verifica subito dopo l'arresto. Noto ΔO2, i coefficienti a' e
b' possono essere calcolati riscrivendo la (36) come:

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ΔO 2 (S − Se )
= a' o + b' (36')
xV xt

tale espresssione nel piano ΔO2/xV (So - Se)/xt rappresenta una retta di
coefficiente angolare a' e di intercetta con l'asse delle ordinate b'.

In mancanza di determinazioni sperimentali, per liquami domestici alla


temperatura di 20 °C, a' può essere assunto pari a 0,5 e b' pari a 0,10 giorni-1. Il
valore di b' risulta fortemente influenzato dalla temperatura; può infatti assumersi:
b' = b'20 1,084T-20

dove b' indica il valore della costante alla temperatura generica T e b'20 alla
temperatura di 20 °C. Le variazioni di a' con la temperatura sono invece
trascurabili.
Dividendo la (36) per (So-Se)q=ηbBb e ricordando che (So-Se)/xt=ηbcf, si
ottiene:

ΔO 2 b'
= a' + (37)
ηb Bb ηb c f

tale espressione evidenzia il legame tra il consumo di ossigeno per unità di BOD
rimosso e il carico del fango applicato al sistema. Si osserva che tale consumo
specifico diminuisce all'aumentare di cf; ciò si spiega con il fatto che per alti valori
di cf una più elevata percentuale di materiale, comunque adsorbito nel fiocco, non
viene ossidato nella fase di aerazione, ma è rimosso con i fanghi di supero (che
infatti risultano più ricchi di materiale volatile); esso va essere eliminato in altre fasi
del ciclo di trattamento (digestione aerobica o anaerobica, processi termici e
simili). In Tab.3 sono indicati i valori ricavabili dalla (37) per a' = 0,5 e b' = 0,1
giorni-1.

Dei due addendi che contribuiscono al consumo di ossigeno, il secondo,


relativo alla respirazione endogena, non subisce variazioni di breve periodo dato
che, con buona approssimazione, la biomassa presente nel sistema può essere
considerata costante. Il termine relativo alla respirazione attiva è invece
proporzionale al substrato biodegradabile rimosso e può subire, nell'arco della
giornata, variazioni anche sensibili rispetto ai valori medi.
Al fine di evitare che, in corrispondenza dei più elevati valori orari di
substrato rimosso, si possano verificare situazioni di carenza di ossigeno disciolto,
con attivazione di metabolismo anaerobico e quindi produzione di gas
maleodoranti, occorre introdurre nella (36) il valore della portata di punta oraria;
per liquami domestici, le punte orarie addotte all'impianto, rispetto alla media
giornaliera, sono tanto maggiori, quanto più piccolo è il centro servito. Per
funzionamento a medio carico del fango, la portata di punta può essere posta pari
a 2 volte quella media giornaliera, nel caso di piccoli e medi centri (fino a circa
50.000 abitanti) e a 1,8-1,6 volte, per grandi centri (oltre 50.000 abitanti).
Per impianti ad aerazione prolungata (cioè funzionanti a basso carico del
fango) il maggior volume della vasca, e quindi il maggiore tempo di detenzione
idraulico, comporta una maggior disponibilità di ossigeno disciolto nella vasca di
aerazione, con una conseguente più elevata elasticità del sistema a fronte delle
variazioni delle condizioni di alimentazione. Per tale motivo il dimensionamento dei

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sistemi di aerazione può essere condotto conteggiando punte di respirazione


attiva inferiori a quelle della portata alimentata (dell'ordine cioè di 1,5-1,6).

Infine si sottolinea che il fabbisogno di ossigeno qui calcolato deve essere


reso disponibile in forma disciolta, che è l'unica realmente utilizzabile dalla
popolazione batterica per il metabolismo aerobico; pertanto l'ossigeno introdotto
nelle vasche mediante i dispositivi di aerazione deve essere calcolato tenendo
conto dei rendimenti di solubilizzazione e delle quantità che fuoriescono dal
sistema in soluzione nell'effluente depurato.

ESEMPIO N.7
Problema:

Determinare il valore dei coefficienti a' e di b' in un processo a fanghi attivi utilizzato per il
trattamento di un effluente industriale.

Svolgimento:

Per la determinazione di a' e di b' viene utilizzato un impianto pilota, avente un volume di aerazione
V pari a 100 l.
Si effettuano quattro prove, con diversi tempi di permanenza t nella vasca. Le condizioni operative
riscontrate in ciascuna prova sono riassunte nella tabella di Fig.15; viene inoltre misurata, per tutte
le prove, la velocità con cui diminuisce l'ossigeno disciolto nella vasca, rilevandone la
concentrazione all'arresto dei dispositivi di aerazione (O.D.)o, e dopo 30'' (O.D.)1.

Per ciascuna prova sono stati calcolati i valori (So-Se)/xt e ΔO2/xV; la retta di interpolazione dei
valori sperimentali, ottenuta con il metodo dei minimi quadrati, ha l'espressione:

ΔO2/xV = 0,648 (So-Se)/xt + 0,158

conseguentemente risulta a' = 0,648 e b' = 0,158 giorni-1

ESEMPIO N.8
Problema:

Calcolare il fabbisogno di ossigeno in condizioni di punta in un impianto a fanghi attivi, funzionante


con cf = 0,20 kgBOD/kgSSxgiorno, alimentato con una portata q = 15.000 m3/giorno, avente So =
240 mg BOD/l (dopo sedimentazione primaria) ed Se = 35 mg BOD/l. Si assume a' = 0,5; b' (a 20
°C) = 0,10 giorni-1.
La temperatura estiva è di 18 °C e quella invernale di 10 °C; la punta oraria di carico organico è
pari a 1,6.

Svolgimento:

Risulta:
(b')est = b'20 1,08418-20 = 0,085 giorni-1

(b')inv = b'20 1,08410-20 = 0,044 giorni-1

Il substrato giornalmente rimosso risulta:

pag. 191
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Ingegneria sanitaria-ambientale

ηb Bb = (So-Se) q = 3075 kg BOD/giorno

con una punta oraria, per un coefficiente di 1,6:


η B
ηb Bb = 1,6 b b = 205 kgBOD / ora
24

La biomassa presente Vx si calcola con l'espressione:


B S q
Vx = b = o = 18.000 kgSS
cf cf

Il fabbisogno orario di punta risulta quindi, in condizioni estive:

ΔO2 = a' (So-Se) q + b' Vx = 0,5x205 + 0,085x18.000/24 = 166 kg02/ora

mentre in condizioni invernali risulta:

ΔO2 = 0,5x205 + 0,044x18.000/24 = 135 kg02/ora

6.7.2 Trasferimento di un gas in un liquido

Secondo la legge di Fick, la velocità di trasferimento di un gas in un liquido


è data dall'espressione:

dm
= k g A (c s − c) (38)
dt

dove dm/dt è la massa di gas trasferita nell'unità di tempo, kg il coefficiente di


diffusione del gas, A la superficie di scambio, cs e c le concentrazioni del gas nel
liquido, rispettivamente a saturazione e nelle condizioni reali.
Dividendo per il volume del liquido V e notando che d(m/V)/dt è la
variazione di concentrazione nel tempo dc/dt, la (38) può essere scritta come:

dc
= (k L a) T (c s − c) (38')
dt

in tale espressione, (kLa)T rappresenta il coefficiente globale di trasferimento alla


temperatura T, pari a kgA/V; esso ha dimensioni t-1 e dipende dalle modalità
secondo cui il gas è introdotto nel liquido (turbolenza, miscelazione e soprattutto
superficie specifica di scambio, essendo A inglobata in tale coefficiente), oltre che
dalle caratteristiche del liquido stesso.
Si osserva che, in base alla (38), a parità di ogni altra condizione, la velocità
di trasferimento è proporzionale al deficit, valutato rispetto alla concetrazione a
saturazione nel liquido; la solubilizzazione è cioè tanto più facile quanto più bassa
è la concentrazione del gas disciolto. Il valore della solubilità a saturazione è
calcolabile in base alle leggi di Dalton e di Henry, che in seguito sono brevemente
richiamate.

a) Legge di Dalton: la pressione totale di una miscela di gas è uguale alla somma
delle pressioni parziali dei suoi componenti, essendo queste ultime definite come

pag. 192
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la pressione che ciascun componente eserciterebbe se da solo occupasse l'intero


volume della miscela. La legge di Dalton, rigorosamente valida solo per i gas
ideali, può essere applicata alle miscele di gas reali, sufficientemente lontane da
condizioni di condensazione, in pratica per pressioni di poche atmosfere alle
temperature di interesse nel trattamento delle acque. Per gas in presenza di
acqua, o di altri liquidi volatili, occorre anche tener conto della pressione parziale
esercitata dal vapore. In condizioni di saturazione; essa corrisponde alla tensione
di vapore ed è funzione della temperatura, essendo indipendente dalla natura e
dalla pressione del gas. I valori corrispondenti per il vapor d'acqua sono riassunti
in Tab.4. Nell'atmosfera, la pressione parziale esercitata dal vapor d'acqua è
calcolabile dalla corrispondente tensione di vapore e dall'umidità relativa, intesa
come rapporto tra la presenza reale di vapore e quella a saturazione.

b) Legge di Henry: per gas debolmente solubili, la concentrazione a saturazione in


un liquido è proporzionale alla pressione parziale del gas nella miscela gassosa
sovrastante la soluzione. Detta xg la frazione molare del gas a saturazione
(rapporto tra le moli di gas disciolto e la somma delle moli di gas e di acqua),
risulta

pg = H xg (39)

con:
pg pressione parziale del gas;
H costante di Henry, avente dimensioni di una pressione;
xg frazione molare del gas a saturazione.

La costante H dipende dalla temperatura e dalla natura del liquido e del gas. I suoi
valori, per i casi di pratico interesse, sono riassunti in Tab.5.
La frazione molare xg è esprimibile come:

ng
xg = (40)
nH2O + ng

dove ng e nH2O rappresentano le grammi moli per litro di soluzione,


rispettivamente del gas e dell'acqua. Essendo il peso molecolare dell'acqua
uguale a 18, nH2O vale 1000/18 = 55,6 gmoli/litro. Nel denominatore del termine
frazionario a secondo membro, ng è trascurabile rispetto a nH2O; di conseguenza
risulta:
xg = ng /55,6 (40')

Per il calcolo della solubilità di un gas a saturazione è pertanto necessario


dapprima valutare la sua pressione parziale nella miscela gassosa e
successivamente applicare la (39). Per bassi valori di temperatura, l'effetto della
presenza del vapor d'acqua è senz'altro trascurabile.

ESEMPIO N.9
Problema:

pag. 193
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Ingegneria sanitaria-ambientale

Calcolare la pressione parziale di metano nel gas di un digestore termofilo (T = 50°, p = 1,065
atm), avente la seguente composizione ponderale: CH4 = 0,44, C02 = 0,52, H2S = 0,03, N2 =
0,01.

Svolgimento:

Alla temperatura di 50 °C, la tensione del vapor d'acqua è di 0,122 atm (Tab.4); la somma delle
pressioni parziali dei diversi costituenti la miscela gassosa vale quindi:

Pg = Σp g = 1,065 − 0,122 = 0,943 atm

Tale pressione va suddivisa in base alla legge di Dalton, che presuppone la conoscenza della
composizione volumetrica della miscela. A tal fine si consideri che il numero n di grammomolecole
di un costituente, contenuto in un peso unitario di miscela secca, vale:

n = (% p)/pm

ove (% p) è la percentuale in peso e pm il peso molecolare del costituente stesso. Per l'ipotesi di
Avogadro, il volume occupato da un gas è proporzionale al numero di grammomolecole. La
percentuale volumetrica di un costituente (% vol) della miscela vale quindi:

(% p) / pm
(% vol) =
Σ (% p) / pm

Ricordando i pesi molecolari dei costituenti (CH4 = 16, C02 = 44, H2S = 34, N2 = 28), risulta
per il metano:
0,44 : 16
(% vol) = = 0,678
0,44 0,52 0,03 0,01
+ + +
16 44 34 28

ed, analogamente, 0,291 per la C02, 0,022 per la H2S, 0,009 per la N2. Infine, per la legge di
Dalton e la legge di Boyle (p.v = cost, a temperatura costante), risulta:

0,678 . pg = 1,00 . pCH4

La pressione parziale di metano pCH4 vale quindi:

pCH4 = 0,678 . 0,943 = 0,639 atm

ESEMPIO N.10
Problema:

Calcolare la solubilità a saturazione dell'ossigeno e dell'azoto in acqua esposta all'aria alla


pressione di 1atm e alla temperatura di 10 °C. Si ammetta, semplificando, che l'aria sia composta
per il 79% da azoto e per il 21% da ossigeno (in volume).

Svolgimento:

Secondo quanto visto al precedente esempio, le pressioni parziali dell'azoto e dell'ossigeno


risultano rispettivamente di 0,79 e di 0,21 atm (avendo trascurato la tensione del vapor d'acqua,
che alla temperatura di 10 °C è dell'ordine di un centesimo di atmosfera).
Le frazioni molari di azoto e di ossigeno a saturazione sono (Tab.5):

pag. 194
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pN 0 .79
xN = = = 11,83 × 10 6
HN 6,68 ⋅ 10 4
p 0.21
x0 = 0 = = 6,42 × 10 6
H0 3,27 ⋅ 10 4

La concentrazione a saturazione (in grammimoli per litro), vale quindi per la (40'):

nN = 55,6 . xg = 55,6 . 11,83 . 10-6 = 6,58 . 10-4

n0 = 55,6 . xo = 55,6 . 6,42 . 10-6 = 3,57 . 10-4

Le corrispondenti concentrazioni in mg/l valgono:

CN = nN . pmN = 6,58 . 10-4 . 28 . 10-3 = 18,42 mg/l

C0 = n0 . pm0 = 3,57 . 10-4 . 32 . 10-3 = 11,42 mg/l

6.7.3 Trasferimento dell'ossigeno nella miscela aerata

Nel caso del trasferimento di ossigeno all'interno della miscela aerata,


occorre tener conto delle particolari condizioni in cui il mezzo liquido si trova.
In particolare, il valore della costante H, riportata in Tab.5, è valida per
acqua distillata; in presenza di sali disciolti, la solubilità dell'ossigeno diminuisce
leggermente. Di tale diminuzione si tiene conto con l'introduzione di un coefficiente
β minore di 1, definito come rapporto tra la solubilità in presenza di sali cs e quello
in acqua distillata cs*. Nei casi di pratico interesse β può essere senz'altro assunto
pari ad 1, salvo che in presenza di acqua salmastra o salata (Tab.6).
Ancora, l'applicazione della legge di Henry per il calcolo della solubilità a
saturazione dell'ossigeno deve tener conto delle variazioni che la pressione
atmosferica subisce, al variare della quota sul livello del mare; con buona
approssimazione si può assumere la seguente legge di variazione:

p = p* (1-0,13 h . 10-3) (40)

dove h è la quota (in m) sul livello del mare, p* e p le pressioni rispettivamente al


livello del mare e alla quota h. L'influenza della quota è senz'altro trascurabile in
situazioni di pianura, mentre può divenire sensibile in località collinari o montane.
A titolo d'esempio, a 1000 m s.l.m. p = 0,87 p*.

Il coefficiente globale di trasferimento (kLa)T, di cui all'equazione (38'), è


soprattutto funzione della superficie di scambio specifica liquido-gas (riferita cioè
all'unità di volume liquido); nel caso che l'aria venga insufflata, essa dipende
pertanto dalle dimensioni delle bolle di gas introdotte. L'influenza della
temperatura (che agisce sia sulla diffusività che sulla viscosità del mezzo) può
essere data dall'espressione:

(k L a) T = (k L a)20 ⋅ 1,024 T − 20 (41)

ove (kLa)20 è il coefficiente di trasferimento alla temperatura di riferimento a 20 °C


e (kLa)T a quella generica T.

pag. 195
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Effetti meno importanti hanno l'intensità di miscelazione e la geometria delle


vasche.

La natura dei solidi sospesi e disciolti presenti nell'acqua (in particolare il


contenuto di detergenti e di biomassa sospesa) altera, talvolta in modo sensibile, il
trasferimento dell'ossigeno; (kLa)T viene pertanto abitualmente riferito ad acqua
pulita, con l'introduzione di un coefficiente correttivo α per tener conto della reale
natura del liquido da aerare. Risulta cioè:

(k L a) T = α (k L a) T * (42)

essendo (kLa)T* il valore relativo ad acqua pulita. Nel caso di aerazione di


sospensioni di fanghi attivi, α dipende soprattutto dalla concentrazione di
biomassa nella miscela aerata, come rappresentato dalla curva di Fig.16, ricavata
sperimentalmente.

La determinazione sperimentale del coefficiente (kLa)T può essere


effettuata operando in un piccolo bacino, in cui l'acqua (o lo scarico) venga
preliminarmente deossigenata mediante l'introduzione di sostanze riducenti. Allo
scopo può essere usato del solfito di sodio, che, in presenza di un catalizzatore
(cloruro di cobalto), reagisce con l'ossigeno:

Na2 SO 3 + 21 O 2 ⎯ CoC1
⎯⎯ 2
→ Na2 SO 4

Il consumo teorico di solfito di sodio, in base alla stechiometria della


reazione, è di 7,9 g per g di ossigeno (il riducente viene comunque introdotto con
un eccesso del 10-20%); il cloruro di cobalto deve essere presente nella vasca in
concentrazioni di circa 1,5 mg/l.
A deossigenazione avvenuta, si mettono in funzione i dispositivi di
aerazione, misurando nel tempo il progressivo aumento della concentrazione di
ossigeno disciolto (l'eccesso di riducenti introdotti può far si che la concentrazione
si mantenga inizialmente nulla, cominciando ad aumentare solo dopo che se ne
sia completata l'ossidazione). Integrando la (38') tra il tempo t1, in cui si sia già
osservata presenza di ossigeno disciolto con una concentrazione c1, e il tempo
generico t, con una concentrazione c, si ottiene:

cs − c
ln = −(k L a) T (t − t1 ) (38'')
c s − c1

In un piano semilogaritmico, la (38'') rappresenta una retta di coefficiente


angolare -(kLa)T. Per la sua determinazione è pertanto necessario riportare i valori
sperimentali, ottenendone la retta di interpolazione.

ESEMPIO N.11
Problema:

pag. 196
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Ingegneria sanitaria-ambientale

Determinare i valori di (kLa)20 e di α per un sistema di aerazione di uno scarico industriale.

Svolgimento:

Con la procedura descritta si è operato dapprima con acqua pulita e successivamente sullo scarico
industriale, ottenendo nei due casi, in funzione del tempo, le concentrazioni di ossigeno riportate
nella tabella di Fig.17. Le prove sono state svolte alla temperatura di 15 °C, a cui corrisponde un
valore di cs di 10,2 mg/l; si trascurano le piccole differenze di cs per l'acqua e per lo scarico
industriale, dovute alla variazione di solubilità connessa alla diversa salinità.
Assunto come riferimento (tempo t1) i valori di concentrazione c1 riscontrati dopo 5 minuti di
aerazione, si dispongono i dati sperimentali nel piano semilogaritmico di Fig.17; i coefficienti
angolari della retta di interpolazione (a tratteggio per l'acqua pulita e continua per lo scarico
industriale) forniscono rispettivamente (kLa)15 = 3,91 ore-1 e (kLa)15* = 5,24 ore-1. Il valore di (kL
a)20 si calcola mediante la (41):

(kLa)20 = (kLa)15 . 1,02420-15 = 4,39 ore-1

Il coefficiente α vale per la (42):

α = (kLa)15/(kLa)15* = 3,91/ 5,24 = 0,75

6.7.4 Calcolo della capacità di ossigenazione

Viene definita capacità di ossigenazione O.C. (Oxigen Capacity) di un


sistema di aerazione la massa di ossigeno che esso è in grado di trasferire in
soluzione nel liquido, in un tempo unitario e nelle reali condizioni operative.
Dalla (38), indicando con V il volume di liquido interessato dall'azione
dell'aeratore, risulta:

O.C. = (kLa)T (cs-c) V (43)

tale espressione può essere riscritta, con riferimento alle grandezze valide per
acqua pulita e alla temperatura di 20 °C:

O.C. = α (kLa)20* 1,024T-20 (β cs*-c) V (43')

Per uno stesso sistema di aerazione, O.C. assume valori diversi in funzione
delle condizioni operative, risultando influenzato dalle caratteristiche dello scarico
(che determinano α e β), dalla temperatura (da cui dipende cs*), dalla pressione
(da cui dipende pure cs*), dalla concentrazione di ossigeno nel liquame. E'
pertanto opportuno che la capacità di ossigenazione venga riferita a condizioni
normalizzate (condizioni standard), in modo da disporre di indicazioni ripetibili e tra
di loro confrontabili. Le condizioni standard prevedono:
a) acqua pulita (di acquedotto), per la quale α e β risultano unitari;
b) temperatura di 20 °C (alcuni costruttori si riferiscono a prove condotte a
temperature diverse);
c) pressione di 1 atm (760 mm Hg);
d) concentrazione di ossigeno disciolto nulla (c = 0).

In tali condizioni risulta quindi

pag. 197
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(O.C.)st = (kLa)20* c* V (43'')

avendo indicato con c* la solubilità a saturazione dell'ossigeno a 20 °C, alla


pressione di 1 atm e per acqua pulita. Confrontando la (43') con la (43''), può
scriversi:
⎡ βc * −c ⎤
O.C. = (O.C.)st ⋅ ⎢α 1,024 T − 20 ( s )⎥ (44)
⎣ c* ⎦

con:
c concentrazione di ossigeno nella vasca nelle condizioni operative;
cs* concentrazione di ossigeno a saturazione relativa ad acqua pulita e alla
temperatura e pressione di reale esercizio;
c* concentrazione di ossigeno a saturazione relativa ad acqua pulita, alla
temperatura di 20 °C e alla pressione di 1 atm; essa vale 9,17 mg/l.

La (44) è rigorosamente applicabile nel caso di aeratori di superficie, per i


quali la diffusione di ossigeno nel liquido avviene per le condizioni di pressione
atmosferica corrispondenti alla localizzazione dell'impianto. Una situazione
differente si ha, a rigore, nei sistemi ad insufflazione, in cui le bolle d'aria sono
introdotte sotto il pelo libero, a una pressione che è più elevata in corrispondenza
degli ugelli dei diffusori e che va man mano diminuendo lungo il percorso di risalita
delle bolle verso la superficie.
In tal caso, cs* assume i valori corrispondenti alla pressione atmosferica
solo sul pelo libero, risultando altrimenti tanto più elevata, quanto maggiore è
l'affondamento dei diffusori. Sono stati proposti metodi di correzione di cs* tra cui
anche semplicemente quello di fare riferimento alla pressione media nella bolla
durante il suo percorso. Si osserva comunque che assumendo per cs* il valore
corrispondente alla pressione atmosferica si opera in modo cautelativo,
ricavandosi con la (44) una capacità di aerazione inferiore a quella reale.
Comunque, per le abituali profondità di insufflazione, tale differenza può essere
trascurata.

6.7.5 Dimensionamento dei dispositivi di aerazione

Il dimensionamento dei dispositivi di aerazione può essere eseguito


eguagliando il fabbisogno di ossigeno nell'ora di punta, calcolato con le
espressioni riportate al prf. 6.7.1, con la capacità di ossigenazione
complessivamente necessaria nelle reali condizioni operative; da questa,
attraverso la (44), si ottiene il corrispondente valore in condizioni standard, che,
per i diversi macchinari, è possibile ricavare dai cataloghi dei costruttori.

In alternativa alla procedura sin qui descritta, è possibile adottare un


metodo di calcolo, valido però per valutazioni di prima approssimazione della
capacità di ossigenazione; in questo caso si assegna direttamente, in base a valori
desunti dell'esperienza, la quantità di ossigeno standard che deve essere resa
disponibile in condizioni di punta in rapporto al BOD medio introdotto (e non quindi
rimosso) nella fase biologica.
Tale rapporto viene indicato con il termine di O.C./load (capacità di
ossigenazione per carico unitario); per i motivi già esposti in precedenza, esso
aumenta al diminuire del carico del fango, secondo le indicazioni di cui alla Tab.7.

pag. 198
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Moltiplicando i valori dell'O.C./load per l'apporto medio orario di BOD nelle 24 ore
si ottiene la capacità di aerazione di punta, direttamente riferita a condizioni
standard.
Si osserva tuttavia che tale metodo approssimato può portare a errori,
anche gravi, soprattutto quando le condizioni operative degli impianti si scostino
da quelle di comune impiego per cui sono stati ottenuti i valori empirici di Tab.7.
Esso infatti non tiene conto esplicitamente di aspetti assai importanti del processo
(temperatura di esercizio, entità delle punte di carico, effettivi valori delle costanti
a' e b', reali condizioni di trasferimento dell'ossigeno).
Si sconsiglia quindi l'adozione di tale procedura nel dimensionamento dei
dispositivi di aerazione; essa è stata qui ricordata per il suo diffuso impiego nella
letteratura tecnica e soprattutto nella progettazione degli impianti.

ESEMPIO N.12
Problema:

Un aeratore ha una capacità di ossigenazione standard di 14 kg 02/ora. Calcolare la capacità di


ossigenazione reale in una vasca a fanghi attivi in cui la concentrazione di biomassa x è di 4 g/l, la
concentrazione di ossigeno disciolto di 2 mg/l, la temperatura 10 °C. La vasca si trova a 900 m
s.l.m.

Svolgimento:

Dalla Fig.16 si ricava α = 0,86; β può essere assunto unitario. La concentrazione di ossigeno a
saturazione per acqua pulita, a 10 °C ed alla pressione di 1 atm vale 11,42 mg/l (dall'Esempio
n.10). A 900 m s.l.m., per la (40) p = 0,883 atm. Conseguentemente, per la legge di Henry, cs* =
11,42 . 0,833 = 10,08 mg/l. Dalla (44) si ricava:
⎡ 1× 10,08 − 2 ⎤
O.C. = 14 ⎢0,86 × 1,02410 − 20 ⎥ = 14 × 0,598 = 8,37 kg0 2 /ora
⎣ 9,17 ⎦

ESEMPIO N.13
Problema:

Per la situazione di cui all'Esempio n.8, calcolare con il metodo dell'O.C./load la capacità di
ossigenazione necessaria in condizioni standard.

Svolgimento:

Il carico organico alimentato all'impianto vale:

Bb = So q = 0,240 x 15.000 = 3.000 kg BOD/giorno

con una media oraria pari a:


3.000
Bb = = 125 kgBOD / ora
24

Per cf = 0,2 kgBOD/kgSSxgiorno, può assumersi O.C./load=1,6 kg02/kgBOD. Conseguentemente


risulta:

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(O.C.)st = 1,6 x 125 = 200 kg02/ora

6.8 Dispositivi di aerazione

L'alimentazione della voluta portata di ossigeno in vasca di aerazione può


essere eseguita mediante alimentazione di aria, nella quantità corrispondente a
quella dell'ossigeno, oppure fornendo direttamente ossigeno.
Nel primo caso, che è quello più usuale, si può fare ricorso a dispositivi di
aerazione superficiale, in cui in pratica, mediante sistemi meccanici, si agevola il
passaggio dell'aria dall'atmosfera all'acqua, oppure a dispositivi a insufflazione
d'aria, in cui percontro viene insufflata aria in pressione all'interno della massa
d'acqua.

6.8.1 Aerazione superficiale

Nel caso degli aeratori superficiali, il trasferimento di ossigeno avviene


principalmente attraverso la superficie della massa liquida, per effetto del
movimento prodotto da un rotore dotato di idonee pale di agitazione che, creando
una rilevante superficie di contatto tra l'aria e l'acqua, favoriscono la diffusione
dell'ossigeno. A ciò si aggiunge un fenomeno di aspirazione dell'aria nel liquido, a
valle delle pale di agitazione.
Ne deriva un forte arricchimento di ossigeno negli strati superiori della
vasca e la sua successiva dispersione nell'intera massa liquida per effetto della
circolazione prodotta dall'aeratore stesso.
Gli aeratori di superficie si suddividono in tre principali tipologie, appresso
descritte.

a) Aeratori ad asse verticale (turbine): hanno bassa velocità di rotazione e sono


costituiti da un rotore (ruota a palette, cono rovescio alettato e simili), realizzato
in acciaio, leghe leggere o in materiale sintetico (ad esempio poliestere
rinforzato da fibre di vetro) accoppiato al motore attraverso un riduttore che
consente di mantenere basse velocità di rotazione, dell'ordine cioè di alcune
decine di giri al minuto, corrispondente a velocità periferiche del rotore di 4-6
m/s. Sono abitualmente montati su supporti fissi, costituiti da passerelle di
sostegno; trovano applicazione soprattutto nelle vasche di aerazione degli
impianti a fanghi attivi, in cui la bassa velocità di rotazione assicura un miglior
mantenimento delle dimensioni del fiocco (Fig.18).
Soprattutto nel caso di vasche profonde (altezze superiori a 4 m), tali turbine
possono essere equipaggiate con un cilindro coassiale fisso, installato poco al
di sotto del pelo libero e mantenuto inferiormente in comunicazione con il resto
della vasca. In tale cilindro, per azione della girante, viene a crearsi una
colonna liquida in movimento ascendente. Conseguentemente, alla base del
cilindro si ha un richiamo dalle zone esterne della vasca con positivi effetti sul
livello di miscelazione (Fig.19).

b) Aeratori ad asse verticale veloci: in questo caso si ha un accoppiamento diretto


tra la girante e il motore, con una velocità di rotazione assai più elevata, rispetto

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al caso precedente (da 750 a 1500 giri/minuto, a seconda della polarità del
motore). L'eliminazione del riduttore consente una notevole semplificazione
costruttiva; tali turbine sono pertanto preferite per installazioni galleggianti,
soprattutto nel caso di lagunaggio aerato (Fig.20). Per questo tipo di impianti
infatti, come per i digestori aerobici, non esistono preoccupazioni connesse alla
salvaguardia del fiocco. Infatti i fiocchi di fango attivo presentano una naturale
tendenza alla flocculazione; anche nel caso di rottura del fiocco nella vasca di
aerazione di norma intervengono rapidamente fenomeni di agglomerazione
durante la fase di sedimentazione di massa, senza quindi che il processo risulti
nel suo complesso danneggiato. Per tale motivo si sostiene talvolta l'inutilità di
usare turbine lente anche nelle vasche a fanghi attivi. La rottura del fiocco può
tuttavia risultare pericolosa quando la biomassa presenti una spontanea
tendenza alla de-flocculazione, come spesso si riscontra in presenza di tossici.

c) Aeratori ad asse orizzontale (spazzole): sono costituiti da un albero tubolare


montato in posizione orizzontale, poco al di sopra del pelo libero. Su di esso
sono fissate delle corone di lamelle parzialmente immerse nel liquido durante la
rotazione, così da provocare una violenta agitazione (Fig.21). Si tratta di un
rotore a basso numero di giri con gruppo motoriduttore di azionamento.
Possono essere installati sia longitudinalmente che trasversalmente alle
vasche.

I cataloghi dei costruttori riportano, per i vari tipi di aeratori, la capacità di


ossigenazione in condizioni standard (Fig.22). Per una stessa macchina essa può
essere fatta variare, entro limiti piuttosto ampli, giocando sull'affondamento delle
palette nel liquame. Per una maggiore immersione, cui corrisponde un più elevato
assorbimento di potenza, l'agitazione si fa più intensa ed aumenta quindi il
trasferimento di ossigeno nel liquido.
Tale risultato viene in genere ottenuto mantenendo fissa la posizione del
rotore e variando il pelo libero della vasca mediante uno stramazzo motorizzato di
scarico, il cui posizionamento può essere regolato automaticamente sulla base
delle indicazioni di una sonda di misura dell'ossigeno disciolto (Fig.23). Tale
sistema di regolazione, in teoria molto preciso, incontra spesso delle difficoltà
pratiche per i frequenti fenomeni di staratura delle sonde che possono verificarsi
per effetto della loro esposizione nella miscela aerata. Soprattutto in piccoli
impianti, ove più carente è la gestione, è spesso preferibile programmare la
posizione della soglia, e quindi la quantità di ossigeno fornita, in base alla misura
della portata o mediante dispositivi a tempo che tengano conto delle prevedibili
variazioni giornaliere della richiesta. Assai meno di frequente la capacità di
ossigenazione viene fatta variare agendo sulla velocità di rotazione della
macchina.
Nella scelta dell'aeratore deve anche tenersi conto della necessità di
assicurare ovunque una sufficiente circolazione, con velocità che non scendano
sotto i 20 cm/s. Viene definita potenza specifica la potenza per unità di volume
necessaria allo scopo; essa dipende dalla concentrazione di biomassa sospesa e
diminuisce all'aumentare del volume della vasca di aerazione ed al diminuire del
rapporto tra profondità e larghezza del bacino. In Fig.24 è dato un esempio di tale
dipendenza per uno dei principali tipi di turbina disponibili sul mercato italiano.
Indicativamente essa può essere assunta pari a 20 W/m3.

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6.8.2 Aerazione per insufflazione

L'ossigenazione del liquame può anche essere ottenuta per insufflazione


d'aria nella massa liquida. Il rendimento di ossigenazione, inteso come rapporto
tra l'ossigeno solubilizzato (in condizioni standard) e quello insufflato, dipende
allora anche dalle dimensioni delle bolle con cui l'aria è introdotta nella vasca e
dalla profondità di insufflazione (cui sono rispettivamente collegati la superficie di
scambio e il tempo di contatto aria-liquido).
In funzione delle dimensioni delle bolle, si possono distinguere tre situazioni
differenti, appresso descritte.

a) Sistemi a bolle fini: le dimensioni medie delle bolle sono inferiori a 3 mm; esse
sono ottenute per diffusione d'aria attraverso corpi porosi, in materiale plastico
(poliestere espanso ad alta densità, politene poroso e simili) o in ossidi di
alluminio o di silicio sintetizzati in una matrice ceramica. Essi vengono realizzati
in forma di candele o di dischi; in quest'ultimo caso sono alloggiati in sedi di
metallo o di plastica disposte sul fondo della vasca. Ne sono forniti degli esempi
in Fig.25 e 26.
Per un corretto funzionamento è necessario che l'aria, alimentata attraverso un
sistema di tubazioni, sia esente da polvere o da altre impurità che potrebbero
produrre intasamenti. Tale rischio va comunque sempre tenuto presente, anche
per la possibilità che, in caso di arresto dei sistemi di aerazione, si verifichino
accumuli di fango sul fondo. Pertanto, è in genere opportuno che questo tipo di
diffusore venga installato con modalità che ne consentano una semplice
estrazione per le operazioni di ordinaria manutenzione. Un esempio è dato in
Fig.27, in cui un gruppo di diffusori tubolari è alimentato attraverso due
tubazioni a snodo, che ne consentono il sollevamento senza che sia necessario
svuotare la vasca.
Soluzioni analoghe sono possibili anche con diffusori a dischi.

b) Sistemi a bolle medie: le dimensioni medie delle bolle sono comprese tra 3 e 5
mm. Spesso si basano su elementi messi in vibrazione dalla portata d'aria in
uscita, che consentono una ripartizione relativamente buona dell'aria diffusa,
pur alimentata attraverso passaggi di considerevoli dimensioni. La minor
superficie specifica delle bolle comporta rendimenti di ossigenazione inferiori,
rispetto ai sistemi con corpi porosi. Hanno tuttavia il vantaggio di non richiedere
la filtrazione dell'aria e di consentire un funzionamento discontinuo del sistema
di aerazione, fatti questi che li rendono adatti soprattutto nel caso di piccoli e
medi impianti.

c) Sistemi a bolle grosse: in quest'ultimo caso le bolle hanno dimensioni medie


superiori a 5 mm, generalmente ottenute mediante insufflazione attraverso tubi
forati.

In linea indicativa, con riferimento alle condizioni standard, i rendimenti di


ossigenazione, per una profondità di insufflazione di 3 m, possono assumersi pari
a:
a) sistemi a bolle fini 0,14 - 0,20
b) sistemi a bolle medie 0,08 - 0,14
c) sistemi a bolle grosse 0,04 - 0,08

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G. Viviani
Ingegneria sanitaria-ambientale

E' comunque sempre opportuno fare riferimento alle curve di rendimento,


direttamente ottenute per ciascun tipo di diffusore; in Fig.28 ne è fornito un
esempio per un diffusore tubolare a bolle fini. All'aumentare della portata d'aria
insufflata la superficie specifica delle bolle tende a diminuire per effetto dei
fenomeni di agglomerazione, che più facilmente si determinano; ciò si traduce in
una diminuzione del rendimento di ossigenazione. Un comportamento opposto
può verificarsi nel caso di sistemi a bolle grosse, ove la maggior agitazione può
favorire una successiva suddivisione delle bolle nella vasca stessa.
In mancanza di determinazioni dirette, l'influenza della profondità di
insufflazione (h) sulla capacità di ossigenazione di un aeratore può calcolarsi
attraverso la formula:

h
(O.C.)1 = (O.C.)2 ( 1 )0,7 (45)
h2

Le modalità di installazione hanno tuttavia una considerevole influenza sul


rendimento. Con un'idonea collocazione dei diffusori in rapporto alla sezione della
vasca è ad esempio possibile ottenere condizioni di miscelazione atte a trattenere
più a lungo le bolle d'aria a contatto con il liquido, favorendo quindi la diffusione
dell'ossigeno (Fig.29).
Su un principio analogo si basa l'utilizzazione di diffusori a bolle grosse,
ubicati a bassa profondità in vasche dotate di un deflettore sommerso. Si favorisce
così un moto rotatorio del liquido nella sezione, per effetto del movimento
ascendente che viene a determinarsi nella zona di insufflazione a causa della
minor densità della miscela aria-acqua (Fig.30).
Nei sistemi ad insufflazione l'esigenza di assicurare la miscelazione nella
vasca risulta soddisfatta per una portata d'aria di 1,2-1,8 m3/m3 di vasca all'ora.

ESEMPIO N.14
Problema:

In una vasca a fanghi attivi, equipaggiata con i diffusori d'aria di cui alla Fig.27, è necessario
trasferire in condizioni di punta 200 kg02/ora. I diffusori sono installati ad una profondità di 3,5 m; la
temperatura del liquido è di 15 °C, con salinità trascurabile. Sono noti:
- i coefficienti α = 0,80 e β = 1;
- la concentrazione di O.D. in vasca, pari a 1,5 mg/l;
- la solubilità dell'ossigeno a 15 °C, pari a 10,15 mg/l.

Si richiede la portata d'aria che deve essere immessa attraverso i diffusori.

Svolgimento:

Un m3 di aria, in condizioni normali, contiene 0,280 kg02. Di essi, in condizioni standard, vengono
solubilizzati per insufflazione ηsx0,280 kg02, essendo ηs il rendimento di ossigenazione ottenibile
dal grafico di Fig.28, in funzione della portata d'aria alimentata per ciascun diffusore. Fissata
quest'ultima in 10 m3/ora, per una profondità di vasca di 3 m, risulta ηs = 0,135. Ad essa
corrisponde una capacità di ossigenazione standard unitaria (riferita cioè ad un diffusore) pari a:

(O.C.)st = 0,280 ηs . 10 = 0,378 kg 02/ora x unità

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La capacità di ossigenazione unitaria, in condizioni operative e per l'effettiva profondità di


insufflazione, si calcola, in base alla (44) e alla (45):

⎡ (βc s * −c) ⎤ h1 0,7


(O.C.) = (O.C.) st ⎢α 1,024 T − 20 ⎥( h ) =
⎣ c* ⎦ 2
⎡ 1× 10,15 − 1,5 ⎤ 3,5 0,7
= 0,378 ⎢0,80 × 1,02415 − 20 ⎥( 3,0 ) =
⎣ 9,17 ⎦

= 0,378 × 0,67 × 1,11 = 0,281 kg0 2 / ora × unità

Per il trasferimento di 200 kg 02/ora sono quindi necessari:

200
n= = 712 aeratori
0,281

con una portata complessivamente erogata di 7120 m3 di aria all'ora.

6.8.3 Altri sistemi di aerazione

I sistemi, precedentemente descritti, di aerazione superficiale e per


insufflazione sono quelli normalmente in uso per l'ossigenazione delle acque o
della miscela aerata negli impianti a fanghi attivi. Si ricordano di seguito
brevemente altre tecniche che trovano soprattutto applicazione per esigenze
particolari (trasferimento di elevate quantità di ossigeno, grande profondità di
installazione e simili).

a) Turbine sommerse (Fig.31): l'aria viene insufflata in profondità e qui suddivisa e


dispersa, in bolle grosse, mediante una turbina sommersa con bassa velocità di
rotazione. Il sistema si presta particolarmente a trasferire grosse quantità di
ossigeno (anche molte centinaia di mg/lxora) e risulta quindi adatto per scarichi
aventi BOD assai elevato. Presenta inoltre ottime possibilità di regolazione della
fornitura di ossigeno in funzione delle richieste.

b) Aeratori statici (bubble gun) (Fig.32): sono costituiti da tubazioni verticali,


ancorate sul fondo della vasca in cui sono internamente incorporati dei
deflettori. Alla base del tubo viene immessa aria compressa che, risalendo
all'interno attraverso i passaggi determinati dai deflettori, si miscela all'acqua
con un elevato contatto interfacciale ed in condizioni di alta turbolenza.
All'interno del tubo, l'acqua aspirata dal fondo risale assieme all'aria ed è
continuamente ricambiata. L'effetto della miscelazione resta comunque meno
intenso rispetto ad altri tipi di aerazione; il sistema risulta pertanto adatto
soprattutto nel caso di lagunaggio aerato (bassa concentrazione di biomassa);
nel caso dei fanghi attivi richiede un'attenta disposizione degli aeratori. Si ha
percontro il vantaggio di assenza di rischi di intasamento nel sistema di
insufflazione (che è operata a bolle relativamente grosse) e della possibile
realizzazione di vasche di considerevole profondità. Un'altra frequente
applicazione di questo sistema di areazione si ha, per impianti di depurazione di
potenzialità medio-grande per l'areazione delle zone dell'impianto in cui siano

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temibili fenomeni settici dovuti ad elevati tempi di detenzione (canalette di


alimentazione e scarico delle vasche, pozzetti, etc.)

6.8.4 Confronto fra i sistemi di areazione

Si può ritenere che non sussistano grosse differenze tra le prestazioni degli
aeratori superficiali ed i sistemi ad insufflazione d'aria a bolle fini.
La quantità di ossigeno trasferibile, in condizioni standard, è in entrambi i
casi dell'ordine di 2,0-2,2 kg02/kWh, mentre scende decisamente per l'aerazione a
bolle medie (1,5 kg02/kWh) e per quello a bolle grosse (1,2 kg02/kWh).
A favore degli aeratori superficiali gioca un'indubbia semplicità di
installazione. Il sistema si basa infatti su di un numero limitato di macchine che
non richiedono la rete di adduzione e di distribuzione d'aria e l'elevato numero di
diffusori necessari con l'insufflazione. Anche l'esercizio ne è notevolmente
semplificato, a fronte delle periodiche operazioni di pulizia dei diffusori, che
devono essere programmate per evitarne l'intasamento e il conseguente calo di
prestazioni nel tempo. Percontro i sistemi a insufflazione d'aria garantiscono una
migliore possibilità di regolazione e, se insonorizzati, danno minori problemi di
rumorosità.
Appresso vengono messi a confronto i due sistemi di aerazione citati:

a) Controllo della temperatura della miscela areata: in condizioni invernali,


soprattutto quando siano previsti prolungati tempi di permanenza idraulici
(fanghi attivi a basso carico, digestione aerobica) è possibile che si verifichi un
considerevole abbassamento della temperatura del liquido. Con i sistemi ad
insufflazione la temperatura può essere mantenuta notevolmente più elevata
per effetto della compressione e del conseguente riscaldamento dell'aria. E'
questo un aspetto importante soprattutto quando il processo biologico risulta
molto influenzato dalla temperatura, come ad esempio nel caso della
nitrificazione. In località a clima rigido l'aerazione superficiale può anche
incontrare difficoltà di tipo meccanico, con sviluppo di formazioni di ghiaccio.

b) Rumorosità: i compressori e le soffianti utilizzati per alimentare i diffusori nei


sistemi ad insufflazione, anche se presentano in genere livelli di rumorosità
maggiori di quelli prodotti dai sistemi superficiali, possono tuttavia essere
insonorizzati mediante istallazione alll'interno di un locale macchine realizzato
con materiale fonoassorbente. Con l'aerazione superficiale il rumore è invece
essenzialmente dovuto allo sciacquio dell'acqua, violentemente agitata; gli
interventi di insonorizzazione sono in questo caso praticamente impossibili.

c) Formazione di aerosol: la formazione di aerosol, con rischio connesso alla


diffusione di agenti patogeni, è sicuramente assai maggiore con i sistemi ad
aerazione superficiale. Essi sono pertanto da sconsigliare in impianti ubicati in
prossimità di abitazioni o realizzati al chiuso, come talvolta richiesto per ragioni
di inserimento paesaggistico.

d) Maggiore facilità di regolazione della quantità di ossigeno trasferita: nei sistemi


ad insufflazione, in cui l'aria viene sempre fornita attraverso più compressori o
soffianti disposte in parallelo; ciò consente di assicurare una buona possibilità di
regolazione e di disporre comunque di unità di riserva (basta infatti suddividere

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la portata d'aria in più unità e prevedere un ulteriore numero di unità aggiuntive,


uguali alle prime.

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Fig.12 - Rappresentazione schematica del processo a fanghi attivi

Fig.13 - Curve di rendimento di rimozione del BOD in funzione del carico del fango Cf

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Fig.14 - Andamento dell'indice di volume del fango (SVI) in funzione del carico del fango Cf
applicato

Tab.2 - Produzione specifica del fango (in kgSS/kgBOD rimosso)per differenti valori del carico
del fango; la tabella è vaida per liquami di origine domestica

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Tab.3 - Consumo di ossigeno in processi a fanghi attivi per liquami domestici


a 20 °C (a'=0,5 e b'=0,1 giorni-1)

Fig.15 - Risultati delle prove sperimentali di cui all'esempio 7

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Tab.4 - Valori della tensione di vapore acqueo in funzione della


temperatura

Tab.5 - Valori della costante di Henry, in 104 atm, relativi ad alcuni gas poco solubili in acqua

Tab.6 - Valori del coefficiente β in funzione della salinità, espressa in


gNaCl/l

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Fig.16 - Valori del coefficiente α in funzione della concentrazione di


biomassa sospesa nella miscela aerata

Fig.17 - Risultati delle prove sperimentali di cui all'esempio11

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Tab.7 - Valori di O.C./load per diversi valori del carico del fango

(a)

(b)

Fig. 18 - Turbina di aerazione installata in una vasca a fanghi attivi;


a) sezione verticale, b) vista della passerella si sostegno
della turbina

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Fig.19 - Turbina di aerazione munita di cilindro coassiale, al fine di favorire


la miscelazione nella vasca

Fig.20 - Turbina galleggiante a bassa velocità

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Fig.21 - Sistema di aerazione ad asse orizzontale (spazzola) (da catalogo Passavant)

Fig.22 - Andamento della capacità di ossigenazione, in funzione della


profondità di immersione della turbina, per spazzole di differente
lunghezza L (da catalogo Passavant)

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Fig.23 - Regolazione del livello nella vasca di aerazione a mezzo di stramazzo


mobile. Le posizioni 1 e 2 sono quelle estreme dello stramazzo (da catalogo
Dorr-Oliver)

Fig.24 - Andamento della potenza specifica, necessaria per assicurare la completa


miscelazione della vasca di aerazione, al variare del volume della vasca e
del rapporto tra profondità e larghezza del bacino (da catalogo Siaf-
Koppers)

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Fig. 25 - Diffusori a "candele", per l'insufflazione dell'aria in vasche a fanghi attivi. (a) elemento
diffusore; (b) vista d'assieme (1: condotta di adduzione dell'aria compressa; 2: collettori
di distribuzione dell'aria; 3. diffusori dell'aria; 4. arganello per il sollevamento della
rampa di aerazione) (da catalogo Nokia)

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Fig.26 - Diffusori a "dischi". (a) elemento diffusore; (b) esempio di rete di distribuzione
dell'aria

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Fig.27 - Esempio di installazione di dissufori a candele con sistema a


snodo (da catalogo Nokia)

Fig.28 - Andamento del rendimento di ossigenazione di un sistema di


diffusione a bolle in funzione della portata d'aria erogata, al
variare della profondità d'immersione, in condizioni standard
(da catalogo Ames-Crosta)

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G. Viviani
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Fig.29 - Esempio di installazione di difffusori, atta a prolungare il tempo di


contatto delle bolle d'aia in acqua (da catalogo Cellpox)

Fig.30 - Esempio di installazione di diffusori d'aria a bassa pressione (da


catalogo Inka)

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Fig.31 - Sistema misto d'aerazione, costituito da


una turbina sommersa e da insufflazione
d'aria sul fondo

Fig.32 - Aeratore statico (a), con esempio di installazione per una laguna aerata
(b) (catalogo Abeco)

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6.9 Effetti della sedimentazione primaria sul trattamento biologico

Occorre fare qualche considerazione sull'opportunità o meno di prevedere


la sedimentazione primaria, a monte del trattamento biologico.

In presenza di una consistente componente organica in forma


sedimentabile, come nel caso di liquami urbani, la sedimentazione primaria
consente la rimozione di una frazione del carico inquinante da avviare al
trattamento a f.a.
Tale risparmio perde molto del suo significato, nell'economia globale del
trattamento, quando la stabilizzazione separata dei fanghi venga condotta per via
biologica aerobica; infatti, gli oneri che tale tipo di stabilizzazione comporta sono
praticamente comparabili con quelli che si avrebbero qualora la stessa quantità di
fango venisse avviata al trattamento a f.a.

Percontro, il ricorso al trattamento anaerobico dei fanghi risulta conveniente


solo per impianti di potenzialità medio-grandi; tuttavia il limite di convenienza dei
due differenti tipi di stabilizzazione non sono definibili con precisione, data la
rapida evoluzione dei costi dell'energia (che si consuma nei processi aerobici, per
via dei sistemi di aerazione, e che si ricava in quelli anaerobici, dovuta al recupero
di biogas ad elevato contenuto di metano).
Nel caso in cui sia conveniente il ricorso alla digestione anaerobica dei
fanghi, si può dimostrare che è conveniente estrarre il fango a monte del
trattamento biologico, mediante la sedimentazione primaria; infatti il fango primario
consente una maggiore produzione di gas biologico, rispetto a quello secondario,
per via della propria composizione (in particolare del maggiore valore assunto dal
rapporto carbonio/azoto). Tutto ciò comporta l'opportunità di prevedere la
sedimentazione primaria, quando si voglia eseguire la digestione anaerobica del
fango.

Per i liquami urbani si può ritenere conveniente l'applicazione del processo


completo (con sedimentazione primaria e digestione anaerobica) per potenzialità
superiori ai 30.000 abitanti serviti. Invece appare maggiormente conveniente il
ricorso allo schema semplificato (senza sedimentazione primaria e con
stabilizzazione aerobica dei fanghi) per potenzialità inferiori a 10.000 abitanti; i
maggiori costi di esercizio, dovuti all'elevato consumo d'energia, sono allora
compensati dal minore costo di costruzione dell'intero impianto e dalla maggiore
semplicità di gestione.
Per potenzialità intermedie occorre ovviamente procedere a un'attenta
valutazione economica di caso in caso.

Infine, nel caso di potenzialità molto ridotte (non superiori ai 5.000 abitanti
serviti) è molto diffuso il ricorso a impianti a basso carico (di cui si dirà nel
successivo prf.), in cui la fase di digestione aerobica ha modestissime dimensioni
o è perfino assente (per via dell'elevato grado di stabilizzazione già raggiunto dai
fanghi nel reattore a f.a.).

In definitiva, i tre schemi di impianto qui delineati sono così sintetizzabili


(limitatamente alle fasi di sedimentazione, trattamento biologico e digestione dei
fanghi):

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Ingegneria sanitaria-ambientale

potenzialità: linea acque: linea fanghi:


a) medio-grandi sed. primaria + f.a. a medio carico + sed. finale dig. anaerobica
b) medio-piccole f.a. a medio carico + sed. finale dig. aerobica
c) piccole f.a. a basso carico + sed. finale dig. aerobica
(eventuale)

6.10 Alternative di processo negli impianti a f.a.

Lo schema di processo sin qui analizzato (Fig.12) è costituito da un reattore


biologico a miscelazione completa con ricircolo cellulare, seguito da un'unità di
sedimentazione, dalla quale vengono estratti il liquame chiarificato e il fango.
In effetti, a partire da tale schema, sono stati nel tempo messi a punto
numerose alternative di processo, differenziate dalla soluzione originaria solo per il
valore assunto da taluni parametri di funzionamento (carico del fango), oppure
anche per sostanziali differenze nella tipologia impiantistica (caratteristiche
idrodinamiche, modalità di alimentazione del liquame influente e/o dell'apporto di
ossigeno, etc.). Gli schemi più noti sono:
a) processo a basso carico (ad aerazione prolungata);
b) processo a medio carico (convenzionale);
c) processo ad alto carico;
d) processo con flusso a pistone (plug-flow);
e) processo con carico distribuito (step aeration);
f) processo a contatto e stabilizzazione;
g) processo pluristadio;
h) processo a bacino unico;
i) fosse di ossidazione;
l) processo ad alimentazione discontinua (SBR);
m) processo a ossigeno puro;
n) pozzo profondo.

Appresso si da una breve descrizione di ciascuno di tali schemi; i primi tre


saranno trattati assieme, per via della comune tipologia impiantistica che essi
hanno.

6.11 Processi a basso, medio e alto carico

Dalla trattazione svolta nei precedenti paragrafi è emersa l'importanza del


rapporto tra substrato e biomassa, normalmente espresso attraverso il carico del
fango, che determina il rendimento di depurazione del trattamento biologico
(Fig.13).
La scelta di cf è d'altra parte collegata a quella del carico volumetrico e, di
conseguenza, al volume della vasca di aerazione. Sembrerebbe quindi ovvia la
convenienza di mantenere il valore di cf il più alto possibile, compatibilmente con il
rispetto del rendimento di depurazione desiderato. Tuttavia l'influenza di cf
coinvolge altri aspetti, che si sono man mano esaminati e che è qui opportuno
riassumere.

a) Aumentando la disponibilità di substrato, si accresce la produzione di fango di


supero che deve essere estratto dal sistema per mantenere le condizioni di

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regime, secondo quanto espresso dalla (34). Aumenta inoltre la sua


putrescibilità, a causa della rilevante frazione di sostanza organica trattenuta
nel fiocco, ma non ancora metabolizzata dalla popolazione batterica. Solo per
valori di cf molto bassi, e quindi per tempi di detenzione cellulare elevati, il
fango è già sufficientemente stabile per poter essere smaltito, senza richiedere
un ulteriore processo di stabilizzazione.

b) Il consumo di ossigeno dovuto alla respirazione endogena aumenta al diminuire


di cf, come può rilevarsi dalla (36), in conseguenza della maggior quantità di
biomassa presente. Aumentano pertanto i consumi di energia per l'aerazione.

Quindi, l'adozione di elevati valori di cf, se da un lato consente dei risparmi


nelle spese di costruzione delle vasche di aerazione e nei consumi di energia,
richiede maggiori oneri per la stabilizzazione dei fanghi e rende comunque più
delicata la gestione del processo, a causa dei minori margini di sicurezza
disponibili (per via del bassi tempi di residenza idraulico e cellulare).
In ogni caso, la scelta del valore di cf deve pure tenere in conto la necessità
che il tempo di permanenza idraulica t nella vasca di aerazione sia tale da
garantire un sufficiente effetto di omogeneizzazione di eventuali composti non
biodegradabili contenuti nel refluo in ingresso; per ottenere tale effetto, t non deve
essere inferiore a 1,5-2 ore. La relazione tra t e cf può essere ricavata mediante la
relazione:

V So S
t= = = o (46)
q c v cf ⋅ x
Dal suo esame si ricava che normalmente, per gli usuali valori di So, sono
garantiti tempi di residenza idraulica di alcune ore. Però, quando la concentrazione
So risulta molto bassa, come per taluni effluenti industriali e, in campo civile, per
valori di dotazione idrica elevati in modo anomalo, t può risultare insufficiente.
Allora, in tali casi, la scelta del valore di t diventa condizione limitante per il
dimensionamento della vasca di aerazione (che si ricava quindi per fissato valore
di t , con conseguente diminuzione di quello di cf).
In funzione del valore assunto per cf, si può fare distinzione fra tre tipi di
processi a f.a., appresso descritti.

6.11.1 Processo a basso carico

Questo processo, detto anche ad aerazione prolungata o ad ossidazione


totale (anche se tale ultima espressione è impropria e utilizzabile solo nel caso in
cui non sia necessaria la stabilizzazione dei fanghi), è caratterizzato da bassi
valori del carico di fango (inferiori a 0,1 kgBOD/kgSSxgiorno).

Il principale vantaggio di tale processo è che la modesta produzione di


fango di supero, conseguente al rallentamento della sintesi cellulare, comporta
una notevole stabilità del fango stesso, che può essere tale da essere avviato
direttamente alla disidratazione, senza una stabilizzazione intermedia; a ciò si
aggiunge una notevole inerzia del reattore nei confronti di possibili variazioni
qualitative e quantitative del refluo (ricorrenti nei piccoli impianti).
Percontro, i bassi valori di cf adottati comportano una grande capacità delle
vasche e un'elevata richiesta di ossigeno per unità di BOD rimosso.

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In teoria, per la (34) e in assenza di inerti, la produzione di fango di supero


potrebbe essere del tutto annullata, in corrispondenza di valori di v, e quindi di cf,
sufficientemente bassi. Nella realtà, la presenza di inerti, che accumulandosi nei
fiocchi ne costituiscono la frazione non degradabile e quindi non utilizzabile nella
fase endogena, determina la produzione di quantità non trascurabili di fango.
Gli impianti ad aerazione prolungata vengono di solito dimensionati per un
valore di cf di 0,08 kgBOD/kgSSxgiorno; esso garantisce un sufficiente livello di
stabilizzazione in condizioni estive. In quelle invernali, il rallentamento dell'attività
biologica dovuto alle basse temperature richiederebbe un'ulteriore diminuzione di
cf, anche fino a 0,05 kgBOD/kgSSxgiorno; tali valori sono tuttavia raramente
utilizzati in sede progettuale, a causa delle considerevoli dimensioni delle vasche
di aerazione che ne deriverebbero; si preferisce pertanto accettare una
stabilizzazione incompleta nel periodo invernale, in cui peraltro le condizioni
climatiche ne rendono meno gravi le conseguenze.

Per contenere i volumi di aerazione, il carico volumetrico può essere


aumentato, mantenendo concentrazioni di biomassa più elevate di quelle in uso
per impianti a medio carico; sono abituali valori di 5-6 kgSS/m3. Di conseguenza il
carico volumetrico è dell'ordine di 0,4-0,5 kgBOD/m3xgiorno. Concentrazioni
maggiori non risultano in genere convenienti, a causa delle implicazioni che esse
avrebbero sul dimensionamento del sedimentatore finale. Come può calcolarsi
dalla (46), i tempi di permanenza idraulica risultano dell'ordine di almeno 12 ore
(più frequentemente tra 16 e 24 ore); ciò consente notevoli margini di sicurezza,
anche quando si verifichino variazioni considerevoli di portata o di carico nel corso
della giornata.

Si osserva che, in aggiunta a quanto già detto al prf. 6.9, nel caso in cui non
sia necessaria una linea di stabilizzazione separata dei fanghi biologici, non è
conveniente effettuare la sedimentazione primaria per evitare la produzione di
fanghi putrescibili.

Un ulteriore vantaggio degli impianti a basso carico è data dallo loro


notevole elasticità di esercizio; infatti, in presenza di forti variazioni stagionali dei
carichi da trattare (quali possono verificarsi per talune industrie o nei centri
turistici), tale processo può anche essere periodicamente trasformato in un
impianto a medio carico (di maggiore potenzialità), aumentando il valore di cf
applicato e rendendo disponibile una fase di stabilizzazione separata del fango, da
far funzionare solamente nei periodi di punta. In modo analogo può essere
concepita una fase di ampliamento di un impianto ad aerazione prolungata, già
esistente.

6.11.2 Processo a medio carico

E' il metodo di trattamento più diffuso per impianti di potenzialità medio-


grandi (infatti è spesso detto convenzionale); viene dimensionato per valori di cf di
0,2-0,3 kgBOD/kgSSxgiorno, in grado quindi di assicurare un elevato rendimento
di depurazione, con abbondanti margini di sicurezza nei confronti di punte
giornaliere di carico o di temporanee variazioni del livello di biodegradabilità del
substrato.

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I fanghi di supero prodotti sono fortemente putrescibili, richiedendo quindi


una successiva fase di stabilizzazione.
Per la descrizione delle sue caratteristiche di funzionamento, vale in pratica
quanto già detto in precedenza sui sistemi a f.a.

6.11.3 Processo ad alto carico

Tale processo è caratterizzato da valori di cf compresi tra 0,5 e 3


kgBOD/kgSSxg; di conseguenza, esso garantisce rendimenti di rimozioni del BOD
non superiori al 60-70%, a fronte del 90 % generalmente raggiungibile coi sistemi
a basso e medio carico; il suo impiego è quindi limitato a una fase di sgrossatura e
va integrato con ulteriori forme di trattamento, a monte o a valle (p.e. sistemi
pluristadio costituiti da più rettori aerobici posti in serie, oppure da reattori
anaerobici seguiti da altri aerobici).

6.12 Processo con flusso a pistone

Fra i processi a biomassa sospesa, si è detto che il sistema a miscelazione


completa (Fig.33a) è, da un punto di vista idrodinamico, quello generalmente più
usato; esso infatti garantisce un effetto volano, nei confronti di eventuali sostanze
non biodegradabili o tossiche presenti nel refluo. Tuttavia, esso è poco
vantaggioso da un punto di vista cinetico, per via della modesta velocità di
rimozione del substrato carbonioso, la quale risulta proporzionale alla
concentrazione del substrato nel refluo effluente dal reattore (per ulteriori
informazioni sulle caratteristiche idrodinamiche delle vasche, si rimanda a quanto
detto nel prf.4).

Il sistema con flusso a pistone (o plug-flow) (Fig.33b) garantisce una


velocità media di rimozione del substrato (e quindi un rendimento di rimozione)
superiore a quella ottenibile con la miscelazione completa (a parità di volume del
reattore); tale velocità risulta infatti variabile fra un valore massimo, in prossimità
della zona di ingresso della vasca, fino a uno minimo, nella zona di uscita;
quest'ultimo valore è pari a quello ovunque raggiunto nel sistema a miscelazione
completa. Tale circostanza ovviamente comporta che sono sufficienti volumi del
reattore inferiori a quelli necessari nel caso di miscelazione completa, a parità di
rendimento di rimozione richiesto.
Tuttavia, i reattori con flusso a pistone presentano il difetto di non garantire
la diluizione di eventuali sostanze tossiche, che vengono così scaricate con
l'effluente a concentrazioni pari a quelle in ingresso, anche se traslate di un tempo
pari a quello di attraversamento del reattore. In più, da un punto di vista
impiantistico, occorre prevedere un sistema di distribuzione dell'aria che tenga
conto della maggiore richiesta di ossigeno in corrispondenza delle zone iniziali del
reattore.

Tale tipo di reattore è poco adoperato, per il trattamento dei reflui di origine
urbana; infatti in tale caso la concentrazione del substrato carbonioso
biodegradabile nel refluo grezzo è superiore a quello del refluo trattato solo di un
ordine di grandezza, per cui la velocità di rimozione risulta di poco inferiore a
quella mediamente ottenibile col flusso a pistone (e quindi modesta è la riduzione
di volume con questo conseguibile, a parità di rendimento di rimozione).

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Altrettanto non può dirsi nel caso di reflui di origine produttiva (p.e. scarichi di
attività agroalimentari o zootecniche), in cui tale differenza raggiunge anche da
due a quattro ordini di grandezza, per cui il ricorso a soluzioni a flusso a pistone
può consentire una notevole riduzione delle dimensioni delle vasche.

6.13 Processo a carico distribuito

Il processo a carico distribuito (o step aeration) (Fig.33c) è costituito da un


reattore con flusso a pistone, nel quale però l'influente viene alimentato
progressivamente lungo la vasca, mentre la portata di ricircolo è immessa
totalmente in testa ad essa; in tal modo, si sopperisce al problema prima
evidenziato per i reattori con flusso a pistone, dell'elevata richiesta d'ossigeno
nella zona iniziale del reattore.

6.14 Processo a contatto e stabilizzazione

Tale processo segue lo schema riportato in Fig.33d; in questo caso, lo


scarico da trattare, mescolato al fango di ricircolo, viene aerato in una vasca (detta
di contatto) con un tempo di detenzione di 20-40 minuti e una concentrazione di
biomassa pari a 3-4 kg/m3. Il substrato organico sospeso e parte di quello in
soluzione vengono così rimossi dal liquame per fenomeni di bioadsorbimento nel
fiocco.
Il fango estratto dal sedimentatore viene inviato ad una fase di aerazione
(detta di stabilizzazione), dimensionata per un tempo di detenzione dell'ordine di
2-5 ore e una concentrazione di biomassa pari a 7-8 kg/m3. Il termine di
stabilizzazione non deve indurre in errore, in quanto in effetti in essa il fango viene
solo riaerato e non stabilizzato; così si completa la degradazione aerobica della
sostanza organica bioadsorbita, con la restituzione di una biomassa nuovamente
disponibile per agire nella fase di contatto.
La capacità complessiva delle due vasche, di contatto e di stabilizzazione,
risulta inferiore a quella dell'unica vasca a f.a. necessaria, a parità di rendimenti,
con un impianto convenzionale.
Il sistema si presenta idoneo al trattamento di reflui ricchi di substrato
organico in forma sospesa e colloidale, particolarmente sensibile alla
bioflocculazione.

6.15 Processo pluristadio

Il processo pluristadio rappresenta una soluzione intermedia, tra quello a


miscelazione completa e quello a pistone; esso è infatti costituito da più reattori in
serie, ciascuno dei quali a miscelazione completa (Fig.33e).
Si è già accennato ai vantaggi che tale soluzione presenta nel caso in cui la
rimozione del substrato segua una cinetica di ordine diverso da zero. Esso però
comporta una complicazione impiantistica, derivante dalla necessità di prevedere
più reattori.
Il ricorso a un processo pluristadio può essere conveniente nel caso di
scarichi industriali, caratterizzati da elevate concentrazioni di substrato organico
biodegradabile. In questo caso è possibile aumentare la velocità di rimozione del
substrato, proporzionale alla concentrazione di questo. Tuttavia, nel
dimensionamento va tenuto conto che le caratteristiche dell'effluente si modificano

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da stadio a stadio, con progressiva diminuzione della biodegradabilità del


substrato; le costanti cinetiche vanno quindi determinate separatamente per
ciascuno stadio.
Invece, nel caso in cui la concentrazione di substrato nel refluo da trattare
non sia particolarmente elevata, tipico dei liquami urbani, i trattamenti bistadio
perdono di convenienza, risultando onerosa la realizzazione di più reattori in serie,
in luogo di uno soltanto; in questo caso, qualche applicazione si ritrova per il
trattamento di nitrificazione, ove si voglia favorire la crescita in maniera separata
della biomassa eterotrofa (che rimuove il substrato carbonioso) e di quella
autotrofa (nitrificante).

Al fine di consentire una maggiore elasticità di esercizio, è in genere


opportuno che i diversi stadi su cui si articola il processo siano tra di loro uguali.
Ciò può ottenersi imponendo la condizione che la biomassa presente in ogni
stadio sia uguale (ne deriva infatti il medesimo dimensionamento, sia per i
sedimentatori finali che per le vasche di aerazione, purchè la concentrazione di
biomassa sia la stessa nei diversi stadi).
In tale ipotesi, l'applicazione della (21') al caso di un trattamento bistadio,
privo di sedimentazione dopo lo stadio primario, comporta la seguente condizione
(risulta infatti V1 = V2 e x1 = x2 e quindi V1x1 = V2x2):

q (So − S1 ) q (S1 − Se )
= (47)
v1 v2

dove q è la portata da trattare, So, S1 ed Se rappresentano la concentrazione di


substrato rispettivamente all'ingresso del primo stadio, all'ingresso del secondo
stadio ed allo scarico finale, v1 e v2 le velocità di rimozione del substrato nei due
stadi. Esplicitando i valori di v, mediante la (5'''), risulta:

Se S1
vˆ 2 (So − S1 ) = vˆ 1 (S1 − Se ) (47')
(K s )2 + Se (K s )1 + S1

tale espressione può essere risolta rispetto all'incognita S1, mediante la quale può
essere individuata la condizione che rende eguali i due stadi di trattamento.
I valori delle costanti cinetiche v̂ e Ks vanno determinati sperimentalmente,
su ciascuno degli effluente che alimentano i due stadi; va osservato che i valori di
v̂ 2 e, anche se in misura minore, di (K s )2 dipendono dal livello di depurazione
conseguito nel primo stadio e sono quindi funzione di S1. Di conseguenza, la loro
determinazione andrebbe ripetuta più volte, secondo tale procedura iterativa: si
può iniziare con valori di v̂ 2 e (K s )2 pari a quelli del primo stadio, determinando
così il valore di S1 di primo tentativo (mediante la (47')); quindi valutare i nuovi
valori di v̂ 2 e (K s )2 e quindi di S1 (sempre mediante la (47')) di secondo tentativo;
il calcolo procede finchè i valori di S1 valutato nell'ultimo tentativo è poco differente
da quello del tentativo precedente.

La fase di sedimentazione può essere realizzata a valle di ciascun reattore


(Fig.33e), oppure solo a valle dell'ultimo reattore.

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6.16 Processo a bacino unico

Per impianti di dimensioni molto piccole (nel caso di liquami domestici al di


sotto di 1000 abitanti) il processo a basso carico può essere ulteriormente
semplificato, rispetto a quello già descritto in precedenza, con un'ulteriore
economia nelle spese di installazione, che tuttavia questa volta si traduce anche in
una diminuzione di rendimento.
A valle dei pretrattamenti e in assenza di una sedimentazione primaria, tutto
il trattamento depurativo, compresa la sedimentazione finale, è infatti condotto in
un'unica vasca, del tipo rappresentato in Fig.34.
Il funzionamento della vasca, discontinuo e a livello variabile, avviene nel
seguente modo, supponendo di partire dal livello minimo:
a) lo scarico della vasca è chiuso; il liquame in arrivo fa di conseguenza
aumentare il livello in vasca, mentre la turbina è mantenuta in funzione;
b) raggiunto un prefissato livello del pelo libero, la turbina si arresta e la vasca
funge da bacino di sedimentazione, in cui si separano il liquame chiarificato,
nella parte superiore, e il fango, in quella inferiore;
c) dopo circa un'ora, si apre lo scarico della vasca, sempre a turbina ferma,
consentendo così la fuoriuscita del liquame chiarificato, fino a raggiungere
nuovamente il livello minimo; a questo punto, viene nuovamente chiuso lo
scarico e riavviata la turbina, iniziando così un nuovo ciclo.

Per via della posizione variabile del pelo libero, l'aerazione della vasca è
realizzata con una turbina galleggiante (Fig.20), che consente di seguire
l'escursione del livello; non è invece consigliabile il ricorso a sistemi a insufflazione
d'aria, che potrebbero incorrere in frequenti intasamenti, rimanendo inglobati
all'interno del fango sedimentato.
Lo scarico della vasca può essere realizzato con una pompa, o con uno
stramazzo motorizzato o ancora con una valvola a comando automatico.
Il fango depositatosi sul fondo viene allontanato saltuariamente e non
necessita di stabilizzazione.

A parità di cf, il rendimento di depurazione di tale processo è più modesto,


rispetto a quello dei sistemi dotati di sedimentazione finale; infatti va osservato
che, durante l'arresto dei dispositivi di aerazione, il liquame continua ad essere
introdotto nella vasca, subendo in tale fase una semplice sedimentazione.
La capacità della vasca viene fissata sulla base di valori di cf pari a 0,05-
0,06 kgBOD/kgSSgiorno e cv di 0,30-0,50 kgBOD/m3xgiorno; tale valore va riferito
al volume corrispondente al livello minimo in vasca.

6.17 Fosse di ossidazione

Le fosse di ossidazione (o bacini tipo Pasveer) (Fig.35) sono costituite da


reattori aventi forma in pianta ad anello; in esse il liquame è mantenuto in
movimento a una velocità non inferiore a 0,3 m/s, al fine di evitare fenomeni di
sedimentazione in vasca. A tale scopo sono utilizzati sistemi di aerazione e
miscelazione ad asse orizzontale, a spazzola o a disco (spazzole Kessener, rotori
Mammut) (Fig.21). Le fosse funzionano a basso carico; tale circostanza,
unitamente al flusso pressoché a pistone che in esse si realizza, può comportare

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che in vasca si alternino zone aerobiche, in cui si ha nitrificazione, e zone


anossiche, di denitrificazione (Fig.36).

Il funzionamento di una fossa di ossidazione può anche essere del tipo "a
bacino unico", prima descritto. In questo caso, lo scarico del liquame depurato, il
funzionamento degli aeratori e l'estrazione del fango di supero avvengono in
maniera intermittente, secondo un ciclo analogo a quello descritto al prf. 6.16.

6.18 Processo ad alimentazione discontinua

Nel processo ad alimentazione discontinua (detto pure SBR: sequencing


batch reactor) (Fig.37) le fasi di aerazione e di sedimentazione avvengono in uno
stesso reattore, ma in periodi differenti; in pratica, in successione temporale si ha il
riempimento della vasca; poi, a vasca piena, la fase di reazione, in cui, interrotta
l'alimentazione, ma ad aerazione funzionante, si realizza gran parte della
degradazione del substrato carbonioso; quindi la fase di sedimentazione, ad
aerazione spenta; infine lo scarico dell'effluente chiarificato e quello del fango
sedimentato.
Nel caso in cui la produzione del refluo sia continua nel tempo, occorre
prevedere più vasche in parallelo, al fine di evitare che ciascuna di esse venga
alimentata anche nelle fasi successive alla prima.
Va sottolineata la differenza tra i sistemi SBR e i reattori biologici a bacino
unico, descritti nel prf. 6.16; in quest'ultimo caso infatti l'alimentazione delle vasche
avviene in maniera continua, anche nella fase di reazione, con un conseguente
minor rendimento di trattamento.

6.19 Processo a ossigeno puro

Nei sistemi a ossigeno puro (Fig.38) l'aerobiosi del metabolismo batterico


viene garantito mediante fornitura di ossigeno, anziché di aria come nel caso dei
rimanenti sistemi di trattamento; è in tal modo possibile raggiungere elevate
concentrazioni di ossigeno disciolto in vasca (anche 6 mg/l).
Infatti, operando in un ambiente arricchito di ossigeno è possibile
aumentarne la solubilità in acqua, proporzionalmente alla pressione parziale
applicata. Ad esempio, a 20 °C e alla pressione totale di 1 atm, la solubilità
dell'ossigeno aumenta da 9,3 mg/l in presenza d'aria (pressione parziale = 0,21
atm), ad oltre 44 mg/l in atmosfera di ossigeno puro (pressione parziale = 1 atm).
Nei processi a fanghi attivi ciò consente di mantenere una concentrazione
di ossigeno disciolto nella miscela aerata assai più alta che non operando con
aria, pur assicurando, in base alla (38'), una velocità di trasferimento dell'ossigeno
assai elevata. Ne derivano alcune importanti conseguenze, appresso sintetizzate.

a) E' facilitata la diffusione dell'ossigeno all'interno del fiocco, che può allora
essere totalmente mantenuto in condizioni aerobiche; tuttavia, in reattori a
miscelazione completa caratterizzati da una bassa concentrazione del
substrato, la diffusione dell'ossigeno nel fiocco è di norma assai più rapida che
non quella del substrato organico, data la considerevole differenza dei rispettivi
pesi molecolari; ciò comporta che l'ossigeno non esercita una azione limitante
sull'attività batterica, in quanto la sua penetrazione nel fiocco resta comunque
maggiore di quella del substrato. Situazione opposta si può invece avere nel

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caso di elevate concentrazioni del substrato (p.e. in impianti pluristadio o a


miscelazione completa, ma alimentati da scarichi industriali ad elevato
contenuto organico); in questo caso l'aumento della concentrazione di ossigeno
disciolto nella miscela aerata può evitare che esso diventi l'elemento limitante
dell'intero processo, consentendo di conseguenza un aumento della velocità di
rimozione del substrato.

b) Sono nettamente migliorate le caratteristiche di sedimentabilità dei fiocchi. Ciò


in parte va collegato alle loro maggiori dimensioni, rese possibili dal minor livello
di agitazione che deve essere mantenuto nella vasca per consentire il
trasferimento dell'ossigeno. Ulteriore motivo può essere dato da una minor
presenza di batteri filamentosi nel fiocco, la cui crescita è maggiore per basse
concentrazioni di ossigeno disciolto.

c) L'elevata disponibilità di ossigeno nella vasca di aerazione può consentire di far


fronte ad improvvisi aumenti dei consumi, quali possono determinarsi per effetto
di sovraccarichi organici di breve durata.

L'ossigenazione della miscela viene realizzata in vasche coperte, in cui, al


di sopra del pelo libero, è mantenuta una fase gassosa (con una pressione di 50-
100 mm H2O) assai ricca di ossigeno; essa deve essere sottoposta a periodici
sfiati, per evitare un eccessivo arricchimento in azoto (che si libera dal liquame
influente, come conseguenza della diminuita pressione parziale di tale gas rispetto
all'atmosfera esterna) e in anidride carbonica, prodotta dal metabolismo batterico.
Ciò anche per evitare il rischio di un abbassamento del pH nella fase liquida,
dovuto alla solubilizzazione di H2CO3 in equilibrio con la CO2, in eccesso rispetto
all'alcalinità propria del sistema.

L'elevata concentrazione di ossigeno disciolto in aerazione, mantenuta


attorno ai 6 mg/l, consente di mantenere elevati carichi del fango in alimentazione
(da 0,4 fino a 1 kgBOD/kgSSxg).
Date le buone caratteristiche di sedimentabilità, nel ricircolo sono
raggiungibili concentrazioni di biomassa dell'ordine di 15-25 kgSS/m3; anche con
limitati rapporti di ricircolo può quindi aversi in aerazione una miscela molto più
concentrata rispetto agli impianti convenzionali (4-8 kgSS/m3).
E' prudenziale però verificare che il carico volumetrico sia tale da garantire
un sufficiente tempo di detenzione idraulico; per i reflui urbani, i valori più
frequentemente adottati sono dell'ordine di 2-3 kgBOD/m3xgiorno.

I processi ad ossigeno puro si prestano soprattutto al trattamento di scarichi


relativamente concentrati, per i quali possono essere appieno sfruttati i vantaggi in
precedenza ricordati. Trovano pure una buona applicazione quando esistono
problemi di localizzazione connessi a vincoli paesaggistici o a scarsità di superficie
disponibile (le vasche di aerazione e di sedimentazione sono meno ingombranti; le
prime, inoltre, sono coperte) o quando l'effluente da trattare presenti sensibili
variazioni di carico in alimentazione. La maggior complessità tecnologica,
connessa all'approvvigionamento dell'ossigeno ed ai controlli, ne sconsiglia invece
l'adozione nel caso di piccoli impianti.

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La fornitura di ossigeno può essere realizzata con uno dei seguenti metodi:
a) gasdotto, collegante l'impianto di depurazione a un centro esterno di produzione
di ossigeno; ove applicabile, è la soluzione più favorevole per le economie di
scala derivanti dall'utilizzazione di un grosso impianto di produzione; esso
consente la massima flessibilità e richiede la realizzazione solo di un serbatoio
di accumulo con funzione di riserva (avente capacità corrispondente al
fabbisogno di 1-3 giorni) e di una cabina di decompressione;
b) impianto criogenico, operante per liquefazione dell'aria a bassissima
temperatura e successiva separazione dell'ossigeno dall'azoto per rettifica
(processo Linde); si tratta di un processo di notevole complessità,
convenientemente applicabile solo per grosse produzioni di ossigeno (almeno
20-30 t/giorno, corrispondenti ai fabbisogni di impianti di depurazione di
potenzialità prossima al milione di persone);
c) impianti a setacci molecolari, costituiti da cristalli sintetici di silicati di alluminio,
in grado di adsorbire selettivamente molecole di diverse dimensioni, trattenendo
in particolare l'azoto, che viene successivamente rilasciato durante la fase di
rigenerazione del letto; il grado di purezza dell'ossigeno così ottenuto è
relativamente basso (90-94%), ma comunque adeguato al tipo di utilizzazione
richiesta in un impianto di depurazione; per la facilità di controllo e di
manutenzione e per la flessibilità di funzionamento, viene in genere oggi
preferito al metodo criogenico (salvo che per impianti di grandissime
dimensioni), trovando campo di applicazione tra 1 e 25 t/giorno di ossigeno.

6.20 Pozzo profondo

Il sistema a pozzo profondo prevede la realizzazione di un pozzo, avente


profondità anche superiore a 100 m e diametro di alcuni metri; in esso il refluo
compie un moto a "U", per effetto dell'inserimento di un setto centrale (Fig.39a) o
di un una condotta coassiale (Fig.39b); le elevate pressioni idrostatiche agevolano
la solubilità dell'ossigeno, cosicchè si raggiungono rendimenti di rimozione del
BOD anche del 90 %, pur con modesti tempi di detenzione idraulica.

ESEMPIO N.15
Problema:

Si deve trattare, con un processo a due stadi, uno scarico industriale da un BOD iniziale di 800
mg/l (So) ad un BOD finale di 40 mg/l (Se). Si richiede di individuare la condizione che rende
uguali i due stadi.

Svolgimento:

Mediante prove di laboratorio si sono determinati i valori delle costanti cinetiche. La dipendenza di
v̂ da S, individuata per interpolazione di valori ottenuti su effluenti pretrattati a diverso livello, è
esprimibile da:
v̂ = 0,52 + 0,0018 S

(essendo v̂ espresso in giorni-1 ed S in mg/l); Ks vale 128 mg/l nel primo stadio e 146 mg/l nel
secondo (senza sensibili variazioni in funzione di S1, nell'ambito dei valori di possibile
alimentazione nel secondo stadio).
Risulta quindi:

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v̂ 1 = 0,52 + 0,0018 So = 1,96 giorni-1

v̂ 2 = 0,52 + 0,0018 S1 giorni-1


e dalla (7'):
40 S1
(0,52 + 0,0018 S1 ) (800 − S1 ) = 1,96 (S1 − 40)
146 + 40 128 + S1

da cui:
3 2
0,002 S1 + 0,925 S1 − 98,55 S = 5840

Risulta quindi S1=5,4 mg/l.

Si osserva che operando su due stadi di uguale capacità, la quantità di substrato rimossa, B, è
molto maggiore nel primario, che non nel secondario. Risulta infatti:

ΔB1 = q (So − S1 ) = 0,6546 q kgBOD / giorno


ΔB 2 = q (S1 − Se ) = 0,1054 q kgBOD / giorno

(avendo espresso q in m3/giorno). Tale risultato si spiega in parte con la migliore biodegradabilità
del substrato alimentato nel primo stadio, ma soprattutto con l'accelerazione del processo
collegata ai più elevati valori di concentrazione di substrato ivi mantenuti. Le rispettive velocità di
rimozione valgono infatti:

S1 145,4
v1 = v̂1 = 1,96 = 1,042 giorni −1
(K s )1 + S1 128 + 145,4
Se 40
v 2 = v̂ 2 = 0,78 = 0,168 giorni −1
(K s )2 + S e 146 + 40

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Fig.33 - Alternative impiantistiche per processi a biomassa sospesa con ricircolo cellulare

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Fig.34 - Impianto ad aerazione prolungata a bacino unico

Fig.35 - Fossa di ossidazione

Fig.36 - Distribuzione delle zone aerobiche e anossiche in processi simultanei di denitrificazione

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Fig.37 - Sistema SBR

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Fig.38 - Sistema a ossigeno puro

Fig.39 - Sistema a pozzo profondo: (a) con setto centrale; (b) con tubo coassiale

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7. STAGNI BIOLOGICI

Con la denominazione di stagni biologici o di lagune vengono


genericamente indicati particolari tipi di bacini, in cui le acque reflue,
temporaneamente stoccate, subiscono un'azione depuratrice. Le caratteristiche di
tali bacini sono altamente diversificate, in funzione del tipo di metabolismo che in
essi si verifica e delle modalità di riempimento.
In ogni caso, essi hanno in comune una notevole semplicità di costruzione
e gestione; inoltre, si può affermare che il loro funzionamento può essere
ricondotto a quello di un reattore a biomassa sospesa, senza ricircolo cellulare, di
cui si è trattato nei precedenti paragrafi.

La principale classificazione degli stagni è quella In funzione del tipo di


metabolismo prevalente nello stagno, strettamente legato alle sue modalità di
aerazione; il parametro caratterizzante tale classificazione è il carico organico,
espresso in kgBOD/m2xg (c.o. superficiale) o come kgBOD/m3xg (c.o.
volumetrico). Si può allora fare distinzione tra:
a) stagni aerobici: vengono cosi definiti perché il metabolismo batterico che si
instaura al loro interno è di tipo aerobico, sia lungo la colonna d'acqua, sia
all'interno dello strato di fango sedimentato; l'ambiente aerobico viene
mantenuto grazie alla riaerazione atmosferica e, in special modo, all'effetto
fotosintetico; poichè quest'ultimo è strettamente legato alla penetrazione della
luce nella colonna d'acqua, segue che tali stagni hanno una profondità molto
limitata, richiedendo così grandi superfici, maggiori di quelli appresso citati, a
parità di condizioni di alimentazione; a ciò si aggiunge che il tipo di processo
consente di operare con carichi organici modesti;
b) stagni facoltativi: in questo caso, gli effetti della riaerazione atmosferica e
dell'ossigenazione fotosintetica non si risentono nell'intera colonna d'acqua; di
conseguenza, l'azione depuratrice si sviluppa in due modi distinti: negli strati
superiori dello stagno, I'ambiente è ancora aerobico; invece sul fondo, e quindi
negli strati profondi della fase liquida e nei fanghi, il metabolismo è anaerobico;
questi stagni sono caratterizzati da altezze d'invaso superiori a quelle del caso
precedente, anche se operano con carichi organici limitati, richiedendo pertanto
anch'essi notevoli superfici;
c) stagni anaerobici: qui la colonna d'acqua e i fanghi sedimentati sono interessati
da un ambiente prevalentemente anaerobico, risultando trascurabile lo strato
d'acqua superficiale, interessato dai fenomeni di riaerazione atmosferica; ciò è
principalmente dovuto all'elevata profondità di questo tipo di stagni, che
consente di contenere le superfici necessarie;
d) stagni aerati: in questo caso, i bacini, che possono avere anche un'elevata
profondità, sono mantenuti completamente aerobici a mezzo di aerazione
artificiale; a tale scopo sono generalmente adoperate turbine galleggianti, che
possono essere dimensionate anche per mantenere la completa miscelazione
del bacino;
e) stagni ad alto carico (HRAP: High-rate Algal Pond): si tratta di stagni
generalmente aerati, in cui viene agevolata un'elevata produzione di biomassa
algale, mediante miscelazione meccanica; ciò consente di ottenere elevati
rendimenti di depurazione con elevati carichi superficiali e modesti tempi di
detenzione idraulica;

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f) stagni di maturazione (o di affinamento): di tipo aerobico o facoltativo, sono


utilizzati per il trattamento terziario di reflui già parzialmente depurati, allo scopo
di ridurre il contenuto di nutrienti e, principalmente, la carica batterica;

Invece, in funzione delle modalità di riempimento, si può fare distinzione fra:


a) stagni ad accumulo: in questo caso, si ha una prima fase in cui lo stagno viene
riempito, senza derivare da esso alcuna portata; terminata l'alimentazione dello
stagno, ha inizio una seconda fase, avente una durata pari a un prefissato
tempo di detenzione, trascorso il quale lo stagno viene svuotato; pertanto, la
capacità dello stagno viene calcolata per contenere l'intero volume dello
scarico, sversato nel periodo di riempimento, a meno delle perdite per eva-
porazione; il campo di impiego degli stagni ad accumulo è limitato a quei casi in
cui lo scarico è discontinuo; essi risultano quindi adatti a trattare gli effluenti di
attività produttive a carattere stagionale, specialmente se le condizioni
climatiche e meteorologiche sono favorevoli;
b) stagni a flusso continuo: in questo caso, tanto la portata entrante, quanto quella
derivata sono continue nel tempo, per cui il funzionamento dello stagno è solo
parzialmente influenzato dalla evaporazione; tale soluzione è quella piú
largamente diffusa, per il trattamento degli scarichi sia civili, sia industriali;
c) stagni in serie: al fine di sfruttare al meglio le caratteristiche di ciascun tipo di
stagno, differenziato secondo i vari tipi di metabolismo prima descritto, può
risultare spesso opportuno accoppiare in serie più stagni (di solito due o tre);
tipiche soluzioni sono quelle che prevedono un primo stagno anaerobico,
avente funzione di sgrossatura, seguito da un secondo stagno aerobico e,
talvolta, da un terzo stagno, con funzione di finissaggio; ulteriore esempio è
dato dall'accoppiamento in serie/parallelo di più stagni aerobici e facoltativi; in
tutti questi casi, è spesso previsto il ricircolo dei reflui in testa ai primi stagni
della serie, al fine di aumentare in questi la concentrazione delle biomasse
algali e batteriche.

Gli stagni biologici, nelle differenti alternative sin qui brevemente richiamate,
trovano impiego sia per i liquami civili, sia per quelli industriali; in quest'ultimo
campo viene sfruttata appieno la notevole capacità dimostrata dagli stagni
nell'omogeneizzare ed equalizzare gli scarichi aventi caratteristiche fortemente
variabili nel tempo.
Rimane tuttavia il problema, spesso non superabile, delle elevate superfici
necessarie, non sempre disponibili, in ogni caso superiori a quelle degli altri
trattamenti biologici.

7.1 Fattori che influenzano il funzionamento di uno stagno biologico

All'interno di uno stagno biologico si svolgono numerosi fenomeni,


dipendenti dalle sue caratteristiche fisiche, chimiche e biologiche; in quest'ultimo
caso, un ruolo fondamentale è svolto dai batteri, dalle alghe e dagli organismi
superiori.
Tali fenomeni sono comuni a quelli che si ritrovano negli stagni naturali, con
la fondamentale differenza però che l'attività metabolica che si attua all'interno di
uno stagno biologico, che porta alla demolizione e trasformazione della materia
organica, è nettamente più intensa rispetto a quella di uno stagno naturale; ciò
discende dalla maggiore disponibilità di nutrienti e dalla presenza

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quantitativamente più rilevante, e soprattutto più specializzata, di popolazioni attive


in tale senso.

7.1.1 Caratteristiche idrauliche

I fattori idraulici, vale a dire le portate in ingresso e in uscita, l'evaporazione,


I'infiltrazione, la precipitazione meteorica e la percolazione, hanno importanza sia
per definire il tipo di stagno biologico, e il suo volume, sia per valutare eventuali
inconvenienti che possono ripercuotersi nell'ambiente circostante.
Il bilancio idraulico di uno stagno biologico può essere espresso mediante la
seguente espressione:

dV
Q e + P = Qu ± I + E +
dt
con:
Qe portata entrante
P precipitazione atmosferica
Qu portata uscente
I infiltrazione
E evaporazione
V volume del bacino
t tempo

Il termine I può essere di solito trascurato, in quanto il suo valore è spesso


non significativo, specie se le pareti dello stagno garantiscono un elevato grado di
impermeabilità (possono a tale scopo utilizzarsi rivestimenti con manti sintetici).
L'esame dell'espressione prima citata conduce ad alcune considerazioni:
a) in condizioni stazionarie (dV/dt=0) e in tempo secco (P=0), si ricava:
Q e = Qu + E
in pratica, le portate alimentate e derivate sono pressoché uguali, a meno delle
perdite per evaporazione;
b) in tempo secco (P=0) e se Qu=0 (stagno ad accumulo), si ricava:
dV
Qe = E +
dt
quindi l'alimentazione dello stagno comporta l'aumento del volume invasato, a
meno della perdita per evaporazione, che nel caso di climi caldi può essere
significativa.

7.1.2 Caratteristiche fisiche

I principali fenomeni fisici che si verificano in uno stagno sono costituiti dalla
sedimentazione e dalla flottazione; gli eventuali effetti di disturbo, dovuti ad
irregolarità della forma del bacino e quindi a campi di velocità orizzontali variabili
lungo la superficie dello stagno, tali da indurre la possibilità di correnti di corto
circuito, sono ampliamente compensati dai lunghi tempi di detenzione, che sono
almeno dell'ordine dei giorni.
Sia la flottazione che la sedimentazione possono essere influenzate dai
parametri biologici; vi è infatti, da un lato, la possibilità di affioramento di alghe,
che può provocare problemi, dall'altro, un miglioramento della sedimentazione per
effetto dei fenomeni di bioflocculazione che intervengono all'interno del bacino.

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Una notevole influenza sul funzionamento di uno stagno hanno sia la


temperatura dell'ambiente esterno, sia quella del liquame; entrambe infatti
accelerano la velocità dei processi biologici.
La temperatura ottimale per il processo fotosintetico si aggira intorno a
20°C, anche se il campo utile varia tra 4 e 35 °C. Bisogna però sottolineare che i
valori più alti di temperatura danno luogo a processi competitivi, per effetto della
predominanza batterica.

7.1.3 Caratteristiche chimiche

I principali nutrienti che interessano uno stagno sono il carbonio, l'azoto e il


fosforo.
I nutrienti sono utilizzati per il metabolismo della biomassa batterica e di
quella vegetale. La prima, di tipo eterotrofo, determina un consumo del carbonio
organico (quindi la riduzione del BOD), oltre che di azoto e fosforo. La seconda, di
tipo autotrofo, utilizza il carbonio inorganico, la cui sorgente principale è la CO2
(più raramente i bicarbonati); anche in questo caso si rileva un consumo di azoto e
fosforo.
Quindi, il trattamento di lagunaggio consente una rimozione dei carichi
organici contenuti nel refluo, oltre che di azoto e fosforo; in particolare, per l'azoto
notevole importanza assumono i fenomeni di nitrificazione, di volatilizzazione in
atmosfera e di precipitazione (per valori elevati del pH).
Ultima considerazione va quindi fatta sull'opportunità di garantire un giusto
rapporto fra i nutrienti, affinchè questi non costituiscano un fattore limitante lo
sviluppo delle biomasse batteriche e vegetali; è sufficiente un rapporto C:N:P: pari
a 100:5:1, situazione in genere verificata negli scarichi di origine urbana
domestica.

Un condizionamento del funzionamento di uno stagno biologico può


derivare dalla presenza di sostanze tossiche o comunque inibenti lo sviluppo
batterico e/o algale all'interno dello stagno e dal pH.
Quest'ultimo ha importanza in quanto, come avviene per la temperatura,
valori troppo bassi o troppo elevati possono disturbare o ridurre l'efficacia del ritmo
biologico dello stagno, anche se in alcuni casi pH molto elevati possono provocare
un fenomeno di flocculazione e sedimentazione e quindi una depurazione della
fase liquida.
Per quanto riguarda la presenza di sostanze tossiche nel liquame, pur
essendo notevole la capacità di equalizzazione di uno stagno biologico, è bene
tenere presente la possibilità di accumulo di tali sostanze e provvedere ad una loro
rimozione preventiva, se le concentrazioni risultassero troppo elevate.

7.1.4 Caratteristiche biologiche

La sostanza organica contenuta nel refluo accumulato in uno stagno


biologico è sottoposta a reazioni biochimiche, che portano alla sua trasformazione
in nuova materia cellulare e in cataboliti stabili; la prima, terminato il proprio ciclo
vitale, sedimenta sotto forma di fango.
Questo, una volta depositatosi, viene decomposto dai batteri aerobi, nel
caso in cui sul fondo sia disponibile ossigeno disciolto, subendo una completa

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ossidazione; se invece non vi è tale disponibilità, il fango viene decomposto solo


parzialmente in condizioni anaerobiche.
Oltre alla flora batterica di natura aerobica e/o anaerobica, nello stagno
possono essere presenti anche le alghe e i predatori. Le prime traggono energia
dalla luce solare e utilizzano CO2, PO43- e NH3 (prodotti dalla decomposizione
batterica delle molecole organiche piú complesse), per sintetizzare nuove cellule
algali, con produzione di O2 gassoso come catabolita di rifiuto, che contribuisce a
mantenere l'ambiente liquido in condizioni aerobiche. Gli organismi predatori fanno
invece principalmente parte dello zooplancton, costituito da piccoli animali che si
nutrono di batteri ed alghe, producendo CO2 come catabotita gassoso.
In questo modo si attua un sistema ciclico, attraverso il quale la sostanza
organica biodegradabile viene in parte convertita in materiale organico cellulare
insolubile e sedimentabile e in parte gassificata (Fig.40).

Due sono le fonti di energia presenti in uno stagno: l'energia solare, che
costituisce la fonte maggiore di energia che entra nel sistema; essa in parte
produce calore, in parte è utilizzata dalle cellule algali; la seconda fonte di energia
è costituita dalle sostanze organiche contenute nel liquame, che vengono in parte
utilizzate da batteri, alghe e predatori.
In definitiva, i processi fondamentali che possono avere luogo negli stagni
biologici sono: I'ossidazione aerobica, la decomposizione anaerobica, la
fotosintesi algale e l'azione fagotrofa dei predatori. Tali processi, sintetizzati in
Fig.41, si riscontrano spesso nei processi depurativi sia naturali che artificiali; in
particolare, l'azione fotosintetica algale e quella fagotrofa dei predatori sono
caratteristiche degli stagni biologici.
L'esame della Fig.41 evidenzia che, in base alle caratteristiche della laguna
(profondità, intensità di radiazione solare, etc.) si può avere una condizione
aerobica nell'intera colonna d'acqua ed anche nei sedimenti (laguna aerobica),
oppure solo nello strato superficiale, al di sotto del quale si passa a condizioni
anaerobiche (laguna facoltativa o aerobica, a seconda dell'incidenza dello strato
superficiale sull'intera colonna d'acqua); la figura si riferisce proprio al caso di una
laguna facoltativa.

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Fig.40 - Ciclo del metabolismo algale e batterico in uno stagno biologico

Fig.41 - Schema dei principali fenomeni che si verificano in uno stagno

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7.1.5 Fotosintesi algale

Le alghe sono organismi fotosintetici, traggono cioè l'energia necessaria al


loro sviluppo dalla luce solare, utilizzando per la sintesi cellulare il carbonio
inorganico (CO2), prodotto prevalentemente dai metabolismo batterico.
Il processo di fotosintesi à così sintetizzabile:

fotos int esi


6 CO 2 + 6H2O ⎯ ⎯⎯⎯⎯→ C 6H12O 6 + 6 O 2

Tale reazione evidenzia la capacità, esclusiva per gli organismi vegetali, di


produrre nuova materia cellulare (glucosio, nel caso dell'esempio) e ossigeno; in
effetti, simultanea all'attività fotosintetica, finalizzata alla cattura di energia
luminosa, si sviluppa l'attività di respirazione, con la quale vengono forniti sia
l'energia chimica, necessaria per il metabolismo della cellula, sia composti organici
da sintetizzare come nuova materia cellulare; questa fase è così sintetizzabile:
C 6H12O 6 + 6 O 2 → 6 CO 2 + 6H2O

tale reazione comporta quindi un consumo di ossigeno. Nel periodo notturno,


l'attività di fotosintesi si ferma, mentre continua quella di respirazione; tuttavia, il
bilancio giornaliero comporta complessivamente una produzione di ossigeno.

La produzione di ossigeno varia da un minimo invernale di 25


kgO2/haxgiorno a un massimo estivo di 95 kgO2/haxgiorno; a tale produzione
lorda occorre detrarre il consumo per respirazione, stimabile in 30-50
kgO2/haxgiorno; in definitiva, si ricava una produzione netta massima di 45-50
kgO2/haxgiorno; tale valore è fortemente influenzato dall'insolazione (quindi dalla
latitudine) e dalle caratteristiche del refluo invasato, che incidono sulla profondità
di estinzione dell'energia solare, di cui si dirà appresso.

Le condizioni essenziali necessarie all'attuazione del processo fotosintetico


sono: l'illuminazione, la temperatura e le sostanze nutrienti
L'energia solare utile per la fotosintesi ha una lunghezza d'onda compresa
tra 4000 e 7000 A, cioè operante per la maggior parte nel campo del visibile, che
costituisce il 40% circa dell'energia totale trasmessa per radiazione solare; in
colonna d'acqua, l'intensità luminosa si riduce, seguendo la legge di Lambert-
Beer:
Ih = Ioe−kCh
con:
k coefficiente di assorbimento;
C concentrazione algale, in mg/l;
h profondità, in m;
Ii intensità luminosa alla profondità h, in lumen/m2;
Io intensità luminosa in superficie, in lumen/m2.

La profondità di estinzione dell'intensità luminosa (cioè quella alla quale Ii è


circa l'1% di Io) è funzione quindi delle caratteristiche del refluo invasato nella
laguna (da cui dipende k) e dallo sviluppo di biomassa vegetale; la concentrazione
algale è di solito compresa tra 15 e 30 mg/l. Normalmente la penetrazione della

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luce non supera 0,7 m di profondità, che si detto essere quella media delle lagune
aerobiche.

7.2 Caratteristiche operative e criteri di dimensionamento

Come si è già accennato in precedenza, gli stagni biologici possono essere


suddivisi in diverse categorie, a seconda delle modalità operative e del tipo di
metabolismo da cui sono interessati.
Ciò comporta la necessità di adoperare criteri differenti, a seconda dei casi;
in particolare, è usuale il ricorso a metodi di natura empirica, in cui viene fissato il
carico organico specifico (per unità di superficie e/o di volume) e da questo si
ricavano le dimensioni dello stagno; fanno eccezione gli stagno aerati, in cui la
miscelazione indotta dai sistemi di aerazione consentono di poter applicare la
teoria di Monod, descritta al prf.3, assimilando lo stagno al caso di un reattore a
completa miscelazione senza ricircolo cellulare.
Appresso si riportano alcuni criteri di dimensionamento degli stagni aerobici,
facoltativi, anaerobici e aerati.

7.2.1 Stagni aerobici

Questo tipo di stagno biologico è caratterizzato dal fatto che esso è


completamente aerobico per l'intera colonna d'acqua e a livello dei sedimenti.
Tali condizioni sono garantite dall'effetto combinato, da un lato, della
riaerazione atmosferica, dall'altro, dall'ossigenazione prodotta dalla fotosintesi
algale. Quest'ultima condizione, che è prevalente rispetto alla prima, richiede la
penetrazione dell'energia luminosa.
Da ciò risulta chiara l'importanza rivestita dalla luce nel funzionamento dello
stagno aerobico e come questo parametro influenzi la profondità del bacino, dato
che la luce deve arrivare fino al fondo dello stagno. La profondità di questi stagni
varia perciò tra 0,20 e 0,70 m e ciò porta evidentemente alla necessità di
superficie molto elevate, anche per tempi di detenzione brevi.

Il dimensionamento degli stagni aerobici si ricava fissando il carico organico


superficiale, pari a 25-30 kgBOD/haxgiorno; oltre tali valori, è probabile che il
funzionamento dello stagno divenga di tipo facoltativo.
I rendimenti di depurazione così raggiungibili sono elevati (anche 95%), per
cui tale tipo di stagno è particolarmente adatto al trattamento di liquami poco
concentrati e al finissaggio di effluenti pretrattati.

Affinché anche i fanghi sedimentati siano sottoposti a una completa


trasformazione aerobica, è opportuno prevedere il periodico rimescolamento dei
reflui invasati nello stagno. Tale operazione viene normalmente eseguita con
frequenza giornaliera, per almeno 3 ore/giorno, ed è effettuata mediante ricir-
colazione della fase liquida a mezzo di pompe a forte portata e bassa prevalenza,
che debbono essere in grado di provocare nello stagno correnti aventi velocità
dell'ordine di 0,50 m/s. A tale velocità i fanghi rientrano in sospensione e quindi in
intimo contatto con l'ossigeno contenuto nell'ambiente fortemente aerobico.
Questa operazione non provoca danni per ciò che riguarda la penetrazione della
luce, dato che già 15 minuti dopo la fine del rimescolamento l'80% del fango è già
risedimentato, consentendo in tal modo nuovamente il passaggio della luce.

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7.2.2 Stagni facoltativi

Si tratta di stagni biologici a funzionamento misto, e cioè aerobico ed


anaerobico. Infatti negli strati superiori, in cui penetra la luce, la riaerazione
atmosferica e la fotosintesi garantiscono una concentrazione di ossigeno disciolto
sufficiente per il metabolismo aerobico dei batteri; invece negli strati inferiori,
mancando tale condizione, si attiva un metabolismo di tipo anaerobico.
E' chiaro che la zona aerobica risulterà più estesa e più ricca di ossigeno
disciolto durante il giorno e nelle giornate di sole, che non durante la notte (quando
si ha un notevole impoverimento di ossigeno causato dalla modifica dell'azione
clorofilliana delle alghe e dal consumo di O2 da parte dei batteri).
La forte ossigenazione diurna provoca un effetto secondario e cioè
l'aumento del pH, che può raggiungere valori prossimi a 10 nel corso delle ore
pomeridiane, mentre è su valori minimi nelle prime ore del mattino. L'ambiente
basico non porta a particolari conseguenze negative nel processo depurativo; anzi
può contribuire a ridurre il pericolo di eventuali odori molesti provenienti dalla zona
anaerobica, per il fatto che l'idrogeno solforato risulta dissociato già a pH 8,5.

Gli stagni facoltativi sono dimensionati per carichi organici superficiali Cs


pari a 25-70 kgBOD/haxgiorno; tali valori consentono di operare senza che si svi-
luppino odori sgradevoli. Altrimenti è possibile operare anche con carichi prossimi
a 150 kgBOD/haxgiorno.
La loro profondità varia mediamente tra 0,90 e 1,50 m, con tempi di
detenzione che si aggirano in genere tra 20 e 60 giorni.
Il rendimento è elevato, potendosi raggiungere, a regime, rendimenti di
rimozione del BOD anche superiori al 90%.

7.2.3 Stagni anaerobici

Gli stagni biologici di tipo anaerobico hanno lo scopo di degradare e


stabilizzare la materia organica, piuttosto che quello di depurare il liquame; essi
possono pertanto essere paragonati a digestori monostadio, non riscaldati e non
sottoposti a miscelazione. Questa affermazione porta a definire sia le loro ca-
ratteristiche morfologiche, che il loro campo di impiego prevalente.

Si tratta infatti di bacini aventi profondità delI'ordine di alcuni metri (e quindi


con un rapporto area/volume piuttosto basso rispetto agli altri tipi di stagno) che
vengono impiegati prevalentemente per il trattamento dì scarichi liquidi ad elevato
contenuto organico.
Il loro dimensionamento può essere eseguito fissando un carico organico
volumetrico Cv pari a 0.015-0,025 kgBOD/m3xgiorno. La profondità può variare tra
2,50 e 4,00 m; considerando un valore medio di 3,00 m, si ricava un valore di
carico organico superficiale Cs di 450-750 kgBOD/haxgiorno (quindi molto
superiore a quello dei rimanenti tipi di stagno).

Gli stagni anaerobici possono essere utilizzati sia con funzione di


sgrossatura, a monte di una successiva fase di trattamento generalmente
aerobica, sia come unica fase di depurazione. Nel primo caso, che è il più diffuso,
i tempi di detenzione sono dell'ordine dei giorni, nel secondo dei mesi.

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Uno stagno anaerobico, una volta avviato il processo biologico e in assenza


di fattori inibenti, presenta una notevole stabilità di alimentazione, che gli consente
di assorbire bene condizioni anomali di funzionamento, garantendo rendimenti di
rimozione del BOD dell'ordine del 70-80%.

Un problema molto spesso sentito nell'esercizio di stagni biologici di tipo


anaerobico è quello della produzione di odori molesti. Tale fenomeno è dovuto allo
sviluppo di fermentazioni acide, con produzione di idrogeno solforato e di altre
sostanze maleodoranti.

7.2.4 Stagni aerati

Gli stagni aerati si discostano dai tipi prima descritti, in quanto, pur
avendone le caratteristiche fondamentali, il loro funzionamento non è piú basato
su fattori naturali, ma dipende principalmente dall'apporto artificiale di ossigeno.
Si tratta di bacini di elevata profondità, fra 2 e 4 m, in cui la richiesta di
ossigeno è soddisfatta artificialmente, dato che I'azione fotosintetica algale e la
riaerazione atmosferica hanno in questo caso un peso irrilevante.
Il loro funzionamento dipende dal grado di turbolenza e di miscelazione
mantenuto nel bacino, il che consente di operare in modo simile a quello di un
processo ad ossidazione totale senza ricircolo dei fanghi, quindi a debole
concentrazione della biomassa.
L'ossigeno viene fornito preferibilmente mediante turbine, galleggianti o
fisse, che, consentono, oltre che l'aerazione del liquame, anche il suo
rimescolamento, che può essere ritenuto completo per potenze impegnate di
almeno 6 W/m3.
Il rimescolamento del refluo invasato comporta che l'effluente scaricato sia
ricco di solidi sospesi; ciò può essere accettabile, stante che tali solidi sono
costituiti da fanghi già stabili; qualora si voglia un effluente privo di sostanze
sospese, occorre prevederne la sedimentazione; ciò si può ottenere, p.e.,
costituendo un comparto finale dello stagno, separato dal resto di questa mediante
un setto superficiale; i solidi qui sedimentati dovranno essere periodicamente
rimossi.

L'impiego di questi bacini è piú diffuso nel campo dei liquami industriali, che
non di quelli domestici; esso ha dato risultati soddisfacenti, con rendimenti di
rimozione del BOD fino al 90%, tempi di detenzione inferiori a 10 giorni e carichi
organici superficiali Cs dell'ordine di 500 kgBOD/haxgiorno.

Poichè, come già detto, il funzionamento di tale tipo di stagno è assimilabile


a quello di un reattore a completa miscelazione senza ricircolo cellulare, può
applicarsi, per il suo dimensionamento la teoria di Monod; in particolare, stante la
modesta concentrazione di biomassa dovuta all'assenza di ricircolo, si può
adoperare la cinetica di primo ordine, espressa dalla (15), che per comodità qui si
riporta:
So
Se =
1 + Kt
con:
Se concentrazione di BOD nella portata uscente, in mg/l;
So concentrazione di BOD nella portata entrante, in mg/l;

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K costante cinetica, in giorni-1;


t tempo di detenzione idraulica, in giorni.

La costante K dipende dalla temperatura T (in °C), secondo l'espressione:


K = 1, 2 × 1, 085 T − 35 giorni-1
Il calcolo del sistema di aerazione può essere condotto con le stesse
modalità viste per i sistemi a fanghi attivi, calcolando il fabbisogno di ossigeno
mediante la (36).

7.3 Caratteristiche costruttive

Gli stagni biologici sono bacini aventi, a seconda del tipo, profondità
variabile tra poche decine di centimetri fino a qualche metro; la pianta è
generalmente rettangolare o quadrata ad angoli arrotondati. Possono peraltro
riscontrarsi altre forme, dovute alla convenienza di adattare la forma dello stagno
alle condizioni morfometriche del terreno. Questa possibilità di avere bacini di
forma irregolare non riduce però l'efficacia operativa dello stagno biologico.
La semplicità è una delle caratteristiche degli stagni biologici e pertanto la
loro costruzione non presenta problemi particolari, ma è in ogni caso opportuno
rispettare alcune regole, per evitare possibili inconvenienti nel corso dell'esercizio.

La superficie laterale dello stagno deve garantire buone caratteristiche di


impermeabilità, al fine di evitare problemi di inquinamento delle falde. Pertanto,
qualora il terreno di base non sia idoneo a tale scopo, può risultare necessario
fare ricorso a tecniche di impermeabilizzazione artificiale (manti in PEAD, PVC,
etc.).
Le sponde devono avere una pendenza interna variabile tra 6:1 e 2:1
(base/altezza); valori di 1:1 sono ammessi solo nel caso di argini cementati; la
pendenza esterna si aggira intorno ad un valore di 3:1; il fatto che all'interno si
preferiscano pendenze piú dolci è giustificato dalla necessità di offrire una
maggiore resistenza all'azione erosiva delle onde. Il moto ondoso infatti, piú
sensibile negli stagni di grande superficie, è comunque già concretamente rileva-
bile per superfici dell'ordine dell'ettaro e può provocare in breve tempo difficoltà, se
gli argini non sono stati realizzati correttamente.
Per quanto riguarda le dimensioni degli argini, essi debbono risultare
sopraelevati sul pelo libero di almeno 0,60 m, per stagni aventi superficie inferiore
a 0,5 ha, e di 0,90 m per stagni di superficie maggiore. E' comunque opportuno
che per stagni di grosse dimensioni si considerino altezze sul pelo libero superiori
al metro ed in ogni caso commisurate all'altezza presumibile delle onde che si
possono formare.

L'alimentazione degli stagni biologici avviene generalmente a gravità, se le


caratteristiche altimetriche del terreno lo permettono, o mediante l'ausilio di
pompe, aventi normalmente modeste prevalenze.
L'immissione del liquame avviene di norma lontano dagli argini e
generalmente dal centro dello stagno, qualora esso sia di piccole dimensioni
(superficie inferiore a 2 ha). Nel caso di stagni di grande superficie è consigliabile
mantenere una distanza di almeno 50 m dall'argine piú vicino e tenersi il piú
lontano possibile dalla zona di efflusso.

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Prescindendo dalla dimensione dello stagno e dalla localizzazione


dell'ingresso, la tubazione di carico può essere sia orizzontale che verticale (rivolta
verso l'alto). Nel primo caso, essa deve essere sollevata di almeno 20 cm dal
fondo dello stagno e sotto di essa deve essere prevista una piattaforma di
cemento per evitare erosioni del fondale; nel secondo caso, ferma restando
l'altezza sul fondale, non è però necessaria la piattaforma. Non vi sono particolari
limiti di impiego per ambedue le soluzioni; normalmente la bocca di carico
orizzontale è impiegata nel caso di flusso a gravità, mentre quella verticale è piú
usata qualora a monte sia installato un gruppo di sollevamento.

Le modalità di scarico da uno stagno biologico sono molto semplici e gli


accorgimenti da osservare pochi, ma tali da influenzare il rendimento dello stagno.
Lo scarico infatti può avvenire in molti modi (mediante uno o piú canali a
pelo libero alimentati da stramazzi, mediante tubazioni sotto il pelo libero interrate
nell'argine, etc.), ma è fondamentale che siano previsti deflettori immersi (analoghi
ai paraschiuma delle normali vasche di sedimentazione), che hanno la funzione di
trattenere tutte le sostanze galleggianti e in particolare le alghe in superficie.
Oltre alle opere di scarico, utilizzate per l'ordinaria derivazione dell'effluente
trattato, devono esserne previste altre in grado di consentire sia variazioni di
livello, sia lo svuotamento totale dello stagno.

Nella realizzazione di uno stagno biologico, oltre a quelli precedentemente


esposti, vanno presi in considerazione altri accorgimenti, che per quanto marginali
non sono privi di importanza.
Un primo accorgimento è quello di far sì che allo stagno non pervengano
acque, di origine meteorica, attraverso li bordo delle sponde; ciò al fine di
contenere la presenza di detriti solidi e di non modificare i tempi di permanenza
del refluo nello stagno.
E' poi opportuno che lo stagno sia munito di una recinzione continua, con
cancello di accesso e di segnali di preavviso nell'area circostante; infine essi
vanno realizzati a una distanza dalla piú vicina abitazione, che, a seconda dei casi
e del tipo di stagno, può variare da un minimo di 30 m ad un massimo di 300 m,
tenendo presente che è conveniente tenere lo stagno sottovento rispetto al piú
vicino centro abitato.
Quest'ultima raccomandazione trae la sua giustificazione non solo dalla
possibilità che lo stagno produca odori molesti, ma anche da quella che esso
divenga sede di popolazioni di insetti, quali mosche, moscerini e zanzare. Tale
situazione deve essere opportunamente controllata mediante irrorazioni di
insetticidi che non inibiscano lo sviluppo biologico oppure mediante creazione di
colture ittiche di specie resistenti, quali carpe e pesci gatto, che si cibano delle
larve degli insetti. Tali allevamenti, sperimentati con successo fin dall'antichità,
sono evidentemente ristretti ai soli stagni aerobici e facoltativi.

Un ultimo accenno merita la possibilità di realizzare più stagni in serie, di cui


si è fatto cenno in premessa; in questo caso, la soluzione piú diffusa è quella di
una linea costituita da 2 o 3 stagni in serie di cui il primo è uno stagno anaerobico
sottoposto a elevato carico organico volumetrico, il secondo uno stagno
facoltativo(o un aerobico) e il terzo, eventuale, sempre aerobico.

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In questo modo si possono ottenere risultati soddisfacenti con un minor


dispendio di superficie (data la presenza dello stagno anaerobico), rispetto alla
soluzione costituita da un unico stagno.
Una soluzione concettualmente simile, seppur diversa costruttivamente, è
quella di realizzare un unico stagno la cui parte iniziale sia costituita da una serie
di canali profondi funzionanti anaerobicamente, mentre la seconda è un normale
stagno facoltativo o aerobico.

Oltre alla realizzazione di più stagni in serie, è possibile fare ricorso alla
realizzazione di più vasche in parallelo; tale soluzione si presta bene ad assorbire
forti variazioni nella portata influente (p.e. nel caso di reflui di origine anche
meteorica); in questo caso può essere opportuno collegare idraulicamente le varie
vasche, al fine di aumentare la flessibilità dell'impianto e facilitare l'eventuale
ricircolo dei reflui, che può rivelarsi utile se si effettua tra stagni diversi, per
sopperire a condizioni sfavorevoli, quali carenza di nutrienti e di alghe,
concentrazioni di ossigeno e pH troppo elevati o troppo bassi.

7.4 Produzione dei fanghi

La produzione dei fanghi è dovuta a diversi fattori: la sedimentazione dei


solidi sospesi contenuti nel refluo grezzo e quello dei fiocchi che si producono in
vasca. Alla formazione di questi ultimi contribuisce la bioflocculazione, dovuta
all'inglobamento di solidi organici all'interno dei fiocchi batterici.
I fenomeni di sedimentazione sono agevolati dai lunghi tempi di detenzione
idraulica e dall'assenza di turbolenza, che non si verifica però negli stagni aerati.
I lunghi tempi di detenzione in gioco negli stagni biologici comportano la
completa stabilizzazione del fango, che non necessita quindi un successivo
trattamento. E' tuttavia opportuno, anche se con frequenza molto bassa (anche 5-
10 anni), procedere all'asportazione del fango accumulato sul fondo, che, seppure
già mineralizzato, determina una riduzione del volume utile dello stagno.

7.5 Rendimenti di depurazione e trattamento degli effluenti finali

Si è prima accennato ai rendimenti di depurazione che i vari tipi di stagni


possono garantire: per il BOD (in forma disciolta), i valori più elevati (superiori al
90%) si ottengono coi sistemi aerobici, aerati e anche facoltativi; rendimenti minori
(mediamente pari al 70%) si hanno con gli stagni anaerobici.
Altrettanto non può dirsi per il BOD in forma sospesa, il cui valore, negli
effluenti da uno stagno, può rimanere elevato per via dl contributo che alla
richiesta di ossigeno può essere data dalla sostanza organica di natura algale, di
cui tale effluente è ricco; ciò peraltro comporta in genere un elevato valore dei
solidi sospesi nello stesso effluente, anche più elevato di quello nel refluo
influente. Tenendo quindi conto della componente sospesa, in genere non è
possibile ottenere rendimenti superiori al 50%, per il BOD, e al 70%, per i solidi.
Fanno eccezione gli stagni anaerobici, in cui lo sviluppo della biomassa algale è
contenuto.
Rendimenti sempre elevati (anche del 99%) si ricavano, per tutti i tipi di
stagno, per la rimozione dei batteri patogeni, uova di elminti, virus, dovuta
all'azione combinata dei raggi UV, dei fagotrofi predatoti, della sedimentazione,
etc.; ciò evidenzia l'idoneità di tale intervento per l'affinamento dei reflui già trattati.

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G. Viviani
Ingegneria sanitaria-ambientale

Un netto miglioramento delle caratteristiche dei reflui effluenti dagli stagni si


può avere sottoponendo questo a un trattamento atto a rimuovere i solidi sospesi,
di natura principalmente algale, in questi contenuti; gli interventi possibili sono
molteplici: sedimentazione, filtrazione, chiariflocculazone, microstacciatura; tali
interventi consentono di sfruttare al meglio l'azione degli stagni; infatti l'azione
depuratrice in questi esplicata, nei confronti del BOD disciolto, dei nutrienti, dei
microrganismi, viene opportunamente completata con la rimozione della
componente sospesa, di natura principalmente algale, che, per via della natura
essenzialmente colloidale, rimane in sospensione anche negli stagni privi di
turbolenza (stagni aerobici e facoltativi).

8. LETTI PERCOLATORI

Come accennato in precedenza, i letti percolatori costituiscono il


trattamento più diffuso, nell'ambito dei sistemi di depurazione a biomassa adesa.
Tale tipo di intervento, seppure meno adoperato rispetto a quelli a
biomassa sospesa (in particolare i fanghi attivi), ha egualmente numerosi esempi
di applicazione in campo urbano e industriale, specialmente nell'ambito degli
impianti di ridotta o media potenzialità.
Infatti, come si dirà in seguito, la semplicità e la regolarità di funzionamento,
le limitate necessità di manutenzione e sorveglianza e i modesti consumi ne
consigliano l'uso per tali potenzialità, anche se non mancano, soprattutto
all'estero, esempi di realizzazioni pure per potenzialità medio-grandi.
In particolare, la diffusione dei letti percolatori è tuttora consistente in
U.S.A., Repubblica Federale Tedesca e, soprattutto, Regno Unito. In Italia,
l'interesse per i letti percolatori rimane ancora complessivamente limitato, fatto
questo non sempre ben giustificabile dal punto di vista tecnico.

Come è noto, il processo a letti percolatori opera la depurazione biologica


per il tramite di colonie batteriche che si sviluppano, in ambiente aerobico, su
appositi materiali di supporto inerti, interessati da un ruscellamento di liquame
(quasi sempre già chiarificato in sedimentazione primaria) avente caratteristiche
tali da non provocare la sommersione (ponding) del supporto stesso e, quindi,
della biomassa. Essa rimane pertanto nel reattore biologico finchè fenomeni
connessi al metabolismo batterico o alle caratteristiche idrauliche di alimentazione
non ne provocano il distacco dal supporto.
La biomassa attiva si presenta sotto forma di pellicola biologica di
considerevole spessore (fino a 3-4 mm in taluni casi) e questo fatto condiziona in
modo rilevante la velocità di trasformazione della sostanza organica. Infatti la
pellicola viene attraversata (penetrazione), dall'esterno verso l'interno, dai
composti in forma solubile costituenti il substrato e dall'ossigeno, e, in senso
inverso, dai cataboliti prodotti dalle reazioni biologiche (Fig.42). Ne consegue che
la velocità di reazione globale (cioè riferita all'intera biomassa distribuita lungo lo
spessore della pellicola) può essere diversa da quella puntuale all'interno della
pellicola, ciò a causa di effetti limitanti sia fisici che biologici dovuti alla
penetrazione della pellicola stessa.
Tale situazione rende difficile la modellizzazione del processo e soprattutto
la pratica utilizzazione dei modelli già proposti (basati sulle cinetiche di Monod e

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G. Viviani
Ingegneria sanitaria-ambientale

Michaelis-Menten). Tutto ciò ha fatto sì che i criteri di dimensionamento siano a


tutt'oggi di natura empirica, stante la difficoltà di ricorrere a criteri razionali, che si è
visto invece essere applicabili ai sistemi a biomassa sospesa.

8.1 Tipologie impiantistiche

Un letto percolatore è costituito da una vasca, di solito di forma cilindrica,


riempita di materiale, di natura inerte o sintetica, che costituisce il supporto per la
pellicola biologica (Figg. 43 e 44).
La vasca è in genere realizzata in calcestruzzo armato ed è priva di
copertura.

La soluzione più tradizionale è costituita dai letti percolatori a debole carico;


essi sono realizzati in genere con riempimento in pietrisco e sono in grado di
fornire un effluente di buona qualità con un solo passaggio del liquame chiarificato
e di produrre basse quantità di fanghi complessivamente stabili.
Lo schema di impianto (Fig.45a) prevede in questo caso l'inserimento del
letto a valle del sedimentatore primario, necessario per evitarne l'occlusione, e a
monte del sedimentatore finale, in cui si separano l'effluente chiarificato dalle
pellicole biologiche.

Una soluzione alternativa è quella costituita dai letti percolatori intensivi (o


con ricircolo); in questo caso, per incrementare il carico organico alimentato, per
unità di volume del letto, senza ridurre il rendimento di depurazione, si ricorre al
ricircolo del liquame già parzialmente depurato biologicamente, che viene
miscelato con il liquame in arrivo al percolatore.
Lo schema di impianto che ne consegue (Fig.45b) prevede quindi anche in
questo caso l'interposizione del letto fra il sedimentatore primario e quello finale; a
ciò si aggiunge il circuito ricircolo del chiarificato in testa al letto percolatore. Si
sottolinea la differenza tra il ricircolo qui eseguito (di refluo chiarificato) e quello di
un sistema a fanghi attivi (di fango sedimentato).

In Fig.46 sono riportati due schemi di funzionamento rispettivamente a


debole carico e con ricircolo; è interessante osservare che nel primo caso
l'impianto non necessita di sollevamenti, grazie all'andamento favorevole del
terreno.

Le prestazioni di un impianto a letti percolatori sono complessivamente


paragonabili a quelle degli altri sistemi biologici di depurazione (evidentemente in
funzione dei carichi volumetrici applicati) e sono ottenute con minor dispendio di
energia rispetto al processo a fanghi attivi, nonostante i maggiori oneri di
sollevamento che si presentano operando su terreni pianeggianti o quando è
previsto il ricircolo.

8.2 Caratteristiche costruttive

Gli aspetti costruttivi di maggiore importanza di un letto percolatore sono: il


sistema di alimentazione e distribuzione del liquame, il sistema di drenaggio e
quello di ventilazione, i materiali di riempimento; importanza minore ha il

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G. Viviani
Ingegneria sanitaria-ambientale

contenimento laterale, stante che si riscontrano realizzazioni che ne sono


praticamente prive.

8.2.1 Sistemi di alimentazione e distribuzione del liquame

La distribuzione del liquame viene di norma ottenuta con l'ausilio di un


sistema a bracci (due o, più raramente, quattro), rotanti per reazione idraulica
(Figg. 43 e 44); ciò giustifica l'opportunità di realizzare strutture a pianta circolare,
anche se non mancano esempi di realizzazioni a pianta quadrata.
La rotazione dei bracci è però garantita solo per portate non inferiori al 20-
30% di quella media giornaliera, ciò al fine di superare l'attrito degli organi di
rotazione; per ovviare che nelle ore notturne e in tempo secco la rotazione si
fermi, con una possibile sommersione di alcune zone del letto e il danneggiamento
della pellicola biologica nelle zone non irrigate, si devono prevedere funzionamenti
intermittenti regolati da una stazione di sollevamento o, più spesso,
dall'interposizione, tra sedimentatore primario e percolatore, di un pozzetto di
carico, con sifone di cacciata, in grado di fornire per alcuni minuti ogni mezz'ora
una portata superiore alla portata minima di rotazione; altra soluzione possibile,
anche se poco usata, è quella di munire il sistema di distribuzione di un motore di
trascinamento.
Nei letti percolatori ad alto carico, dotati di ricircolo, tale problema
evidentemente non si pone.

Per ottenere una ripartizione quanto più possibile uniforme del liquame, i
bracci di distribuzione sono dotati di luci opportunamente spaziate tra di loro e
spesso munite di piattelli distributori. Le luci devono avere dimensioni tali da
evitare il pericolo di intasamento (di solito si fanno non inferiori al cm); in più, i
bracci devono essere dotati di una luce terminale cieca rimovibile, da utilizzare per
le operazioni di pulizia.

In alternativa ai sistemi di distribuzione rotanti, può farsi ricorso a sistemi


fissi, utilizzabili nel caso degli impianti di piccole dimensioni a riempimento
sintetico (Fig.47).

8.2.2 Sistemi di drenaggio e aerazione

La parte inferiore della struttura del letto deve essere in grado di garantire:
- il sostegno del materiale di riempimento;
- l'uniforme raccolta del liquame ossidato per evitare parzializzazioni degli strati
profondi del letto;
- il ricambio dell'aria all'interno del letto.

Vengono a tale scopo comunemente utilizzati appositi elementi forati o a


giunti aperti (Fig.48), aventi complessivamente un'area libera superiore al 15%
della superficie del percolatore, ancorati alla struttura di supporto; attraverso
questi il liquame ossidato e le pellicole di spoglio cadono nelle canalette di
raccolta, aventi pendenza pari all'1-2%, che coprono l'intera platea di base e
vengono convogliate al canale di allontanamento (Fig.44); quest'ultimo ha
solitamente giacitura diametrale, mentre non sono opportune soluzioni che
prevedono una canaletta perimetrale, che potrebbe essere sede di deposito di

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G. Viviani
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solidi. Nelle canalette di raccolta, in corrispondenza della sezione di testa,


prossima al perimetro esterno del letto, sono praticati le luci di aerazione del letto,
che consentono, oltre che la sua ventilazione, anche la possibilità di eseguire
interventi di pulizia delle canalette (Fig.44).
Le luci devono essere poste a un livello superiore a quello massimo
raggiungibile dal liquame (di solito pari al 50% dell'altezza massima, nei letti a
debole carico, a 2/3, in quelli intensivi).

L'aerazione del letto è governata dalla differenza tra la temperatura esterna


e quella interna, molto prossima a quella del liquame. D'inverno, la temperatura
interna è superiore a quella esterna, per cui si genera un flusso ascensionale
(infatti l'aria calda interna, più leggera, tende a risalire e a richiamare aria fredda
dall'esterna); viceversa, d'estate si forma un flusso discendente, per via dell'aria
interna più fresca, che tende a discendere e a richiamare dall'alto l'aria calda
esterna.
I sistemi di ventilazione artificiale non sono di norma necessari dal punto di
vista funzionale (già una differenza di temperatura di 2 °C consente un
abbondante rifornimento di ossigeno), tranne che nei casi in cui, per motivi
ambientali (temperature invernali molto rigide) o estetici, venga realizzata una
copertura del letto.

8.2.3 Contenimento laterale

Come si è detto, il tamponamento perimetrale non è sempre richiesto,


anche se tale soluzione non è comune e impone in ogni caso un maggior diametro
del letto rispetto al sistema di distribuzione, per evitare il ruscellamento esterno del
liquame.
Di norma la struttura perimetrale viene realizzata con materiali lapidei o in
getto (fanno eccezione i tamponamenti leggeri dei riempimenti sintetici, peraltro
sempre necessari) con un'altezza tale da proteggere dall'azione del vento i bracci
distributori; per consentire la loro pulizia dovranno essere quindi previste apposite
feritoie perimetrali.

8.2.4 Materiali di riempimento

Come si è in precedenza accennato, i materiali di riempimento utilizzabili


come supporto per la pellicola biologica possono essere di origine sia naturale che
artificiale; mentre i primi vengono impiegati alla rinfusa, per i secondi è spesso
comune l'uso di strutture preformate.

I materiali naturali sono i supporti tradizionalmente usati, di origine


prevalentemente naturale: pietrisco di frantumazione e ghiaie, anche se sono stati
utilizzati materiali quali il coke e certe scorie metallurgiche (Fig.49a).
Le caratteristiche principali a cui devono rispondere questi materiali sono: la
pezzatura, da cui dipendono la superficie specifica As (cioè la superficie per unità
di volume) e il grado di vuoto Gv (cioè il rapporto tra volume dei vuoti e volume
totale), la forma, il tipo di superficie, il grado di impurezze, le caratteristiche
meccaniche e l'inerzia chimica e biologica.

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a) Pezzatura
Il materiale prescelto dovrebbe consentire il massimo attecchimento della
pellicola biologica (quindi anche l'impiego di elevati carichi volumetrici) e
contemporaneamente garantire un elevato flusso d'aria e la sicurezza del non
verificarsi di intasamenti; in più la pezzatura dovrebbe essere rigorosamente
omogenea per consentire l'uniforme distribuzione del liquame. Tutte queste
esigenze possono essere difficilmente soddisfatte da parte dei materiali di
riempimento tradizionali, fatta forse eccezione per l'uniformità. Infatti se da un lato
converrebbe ridurre la pezzatura per incrementare la superficie specifica As,
dall'altro la corrispondente riduzione del grado di vuoto Gv porterebbe a ridurre
l'apporto di aria e favorirebbe gli intasamenti del letto.
Viene comunemente accettata perciò una soluzione di compromesso che
prevede l'impiego di dimensioni nominali dell'ordine di 50÷60 mm (da aumentare a
80÷100 mm per lo strato di fondo ed eventualmente per quello superficiale).

b) Forma e superficie
La forma ideale è chiaramente quella sferica con superfici lievemente
scabre; sono pertanto da scartare i materiali troppo piatti o allungati che, oltre a
diminuire la superficie specifica, possono impilarsi in modo da parzializzare i flussi,
favorendo gli intasamenti.

c) Grado di impurezze
Il materiale deve essere quanto più possibile libero da impurezze
superficiali (sabbia, argilla, terricci, etc.) che potrebbero provocare problemi di
esercizio; particolare attenzione va data, nei materiali da frantumazione, ai piccoli
detriti tuttora aderenti al materiale e in generale alla pulizia dei mezzi impiegati per
il trasporto.

d) Caratteristiche meccaniche e inerzia chimica e biologica


Il materiale di supporto deve essere in grado di resistere alle sollecitazioni
meccaniche durante il riempimento e l'esercizio e soprattutto non deve essere
attaccato dall'azione combinata del liquame e delle colonie batteriche; sono
pertanto da scartare, ad esempio, i materiali di riempimento calcarei, scarsamente
resistenti in ambienti ricchi di CO2, mentre sono idonei i pietrischi di materiali
vulcanici. La resistenza del materiale a tutte queste sollecitazioni può essere
verificata con una prova ciclica di durabilità, da effettuarsi in laboratorio su un
campione rappresentativo.

I materiali sintetici, come si è già accennato, sono costituiti da diversi


prodotti di polimerizzazione; essi sono realizzati sia per un impiego alla rinfusa che
in strutture organizzate (Fig.49). Le caratteristiche comuni a tali prodotti sono:
- la superficie specifica spesso più elevata di quella dei supporti tradizionali e il
grado di vuoto sempre molto elevato;
- una notevole leggerezza associata ad una buona resistenza meccanica;
- un'inerzia chimica e biologica sicuramente molto elevate;
- caratteristiche dimensionali costanti.

In Tab.8 sono riportati i dati più caratteristici (peso specifico relativo al


materiale pulito in opera, superficie specifica media e grado di vuoto) di alcuni

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materiali di riempimento sintetici; a titolo di paragone sono riportati anche due


materiali naturali.

Il basso peso specifico dei materiali sintetici consente di non superare,


anche ad impianto operante, solitamente un peso specifico di circa 300 kg/m3; ciò
consente di realizzare, facendo ricorso ai materiali a struttura organizzata
autoportante, altezze del letto dell'ordine di 6-7 m, senza dover ricorrere a supporti
di rinforzo intermedio.
Un altro vantaggio connesso con la leggerezza del materiale riguarda le
strutture di supporto e di contenimento laterale, che possono essere molto
leggere; non va però dimenticato che, se da questo punto di vista è possibile
realizzare non trascurabili risparmi sulle spese di impianto, il costo dei materiali
sintetici di riempimento è tuttora piuttosto elevato rispetto a quello dei materiali
naturali.
Va inoltre considerata la possibilità, connessa agli alti gradi di vuoto
disponibili, di ridurre le dimensioni della vasca di sedimentazione primaria, se non
addirittura di sostituirla con una stacciatura (con passanti di 0,75-3 mm).
Un'ultima osservazione deve essere fatta a proposito dell'influenza del
riempimento sulle temperature di esercizio: da questo punto di vista le torri di
percolazione ad alto grado di vuoto sembrano presentare una maggiore
dispersione termica in condizioni di funzionamento invernale, con una certa
influenza sulla velocità di processo.

8.3 Criteri di dimensionamento

Come si è detto in premessa, l'approccio razionale di tipo cinetico, se da un


lato consente una migliore comprensione dei meccanismi di processo, dall'altro
non è ancora elaborato al punto da permettere un dimensionamento diretto,
sufficientemente semplice ed affidabile.
Per tale motivo i criteri di progetto fanno tuttora riferimento a formulazioni di
tipo empirico, derivate da ampie elaborazioni statistiche condotte su impianti
esistenti. Tali formulazioni generalmente conducono alla determinazione del carico
organico specifico da applicare al letto; in particolare, può farsi distinzione tra:
a) carico idraulico superficiale:
Q
Ci = m3 / m2 × giorno
S
b) carico organico volumetrico:
QSo
Cv = kgBOD / m3 × giorno
V
con:
Ci carico idraulico superficiale
Cv carico organico volumetrico
Q portata del refluo influente, in m3/giorno
So concentrazione di BOD nel refluo influente, in kg/m3
S superficie orizzontale del letto, in m2
V volume del letto, in m3

La procedura generalmente seguita consiste nel determinare il valore di Cv,


necessario per garantire un voluto rendimento di depurazione biologico ηb; quindi,

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una volta noto il volume del letto V, si ricava la superficie S di questo, fissando il
carico idraulico superficiale Ci.

8.3.1 Letti percolatori a debole carico

Le espressioni utilizzate più di frequente sono quella del National Research


Council (NRC), impiegata comunemente in USA, e quella di Schreiber, utilizzata in
Europa.
a) Formula NRC:
100
ηb =
1 + k' C v
Tale espressione, in cui k'=0,443, fornisce in genere valori decisamente
prudenziali, soprattutto se il liquame ha temperatura elevata.

b) Formula di Schreiber:
ηb = 0,93 - k'' Cv

Essa è stata ricavata rielaborando i dati di altre formule, tra cui quella dell'NRC;
ponendo k''=0,17, essa conduce a un dimensionamento valido nel caso di
elevata temperatura di esercizio, mentre porta ad un certo
sottodimensionamento se T < 10 °C; in tal caso è opportuno aumentare il valore
di k'' fino a 0,25-0,35, al fine di ottenere un buon rendimento di depurazione,
anche in condizioni sfavorevoli.

Una volta calcolato il volume, si deve verificare la capacità del flusso di


allontanare le pellicole che si distaccano periodicamente dal supporto; tale
risultato viene normalmente ottenuto per Ci = 2÷5 m3/m2xgiorno (il valore più
elevato si riferisce al caso di fognature miste). Fissato il carico idraulico il letto, si
può ricavare la superficie del letto e quindi, noto il volume, la conseguente altezza;
quest'ultima risulta solitamente compresa tra 1,8 e 3 m.

Come si potrà in ogni caso rilevare, per ottenere rendimenti elevati (ηb >
80%) anche in condizioni invernali, occorre applicare carichi organici volumetrici
inferiori (Cv < 0,35 kg BOD5/m3xgiorno) a quelli di un impianto a fanghi attivi a
medio carico, ma confrontabili con quelli di un impianto ad aerazione prolungata.
La produzione di fanghi è decisamente inferiore, rispetto ai fanghi attivi, sia
in peso che in volume; inoltre essi sono alquanto stabilizzati, non richiedendosi
digestione dei fanghi secondari per Cv < 0,1 kg BOD5/m3xgiorno.

8.3.2 Letti percolatori intensivi

In questo caso, tipico dei letti percolatori a riempimento sintetico, il ricircolo


del liquame già parzialmente depurato biologicamente, miscelato con il liquame in
arrivo al percolatore, determina l'incremento del carico organico volumetrico; ciò
porta a un maggiore sviluppo della pellicola biologica, che deve perciò essere
rimossa più frequentemente, al fine di non provocare fenomeni di intasamento
degli strati inferiori del letto.
Ne consegue la necessità di applicare carichi idraulici superficiali
nettamente più elevati (Ci = 15-35 m3/m2xgiorno in tempo secco); la produzione di

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fanghi aumenta e così pure la loro putrescibilità (si richiede pertanto un processo
di stabilizzazione).
Il rapporto di ricircolo r è così definito:
Q
r= r
Q
con:
Qr portata dell'effluente chiarificato ricircolata dal sedimentatore secondario
Q portata dell'influente da sottoporre a trattamento

Si definisce numero di passaggi R la quantità:

R = 1+ r

in pratica esso rappresenta il numero di volte in cui la portata attraversa il letto


percolatore.
Occorre allora tener conto del fatto che, all'aumentare di R, diminuisce la
capacità di biodegradazione del substrato, in quanto, dopo ogni passaggio, nel
refluo sarà presente la frazione di substrato meno biodegradabile. Di ciò si può
tenere conto mediante il numero di passaggi efficace F, definito come quel numero
di passaggi fittizio che determina lo stesso rendimento complessivo di quello
ottenuto in realtà, ma con un rendimento per singolo passaggio costante e pari a
quello del primo passaggio (ovviamente uguale al rendimento che avrebbe lo
stesso letto qualora non avesse ricircolo); il valore di F è stato ricavato
sperimentalmente dal NRC ed è ricavabile con la seguente relazione:

1+ r
F=
(1 + 0,1 × r)2

L'esame di tale espressione evidenzia che F raggiunge un massimo di circa


2,5 , per valori di R compresi tra 6 e 8; in pratica però non si superano valori di R
di 2-3, al fine di evitare eccessive dimensioni del sedimentatore finale e
dell'impianto di sollevamento intermedio.
Infine, il rendimento globale del letto percolatore ηb è legato a quello ηb,
relativo ad un solo passaggio sul letto dalla relazione:

ηb = 1 − (1 − ηb )F

il dimensionamento del letto procede quindi nel seguente modo:


a) si fissa il rendimento globale ηb , in funzione delle concentrazioni di BOD nella
portata influente e di quella che si vuole garantire per l'effluente;
b) per fissato valore di F, si ricava ηb;
c) si determina, in funzione di ηb, il valore di Cv, adoperando una delle espressioni
prima richiamate; in tal modo si determina il volume del letto; la superficie si
ricava, fissando il carico idraulico.

8.4 Aspetti gestionali

Un impianto a letti percolatori è complessivamente più semplice di uno a


fanghi attivi, in particolare per i sistemi senza ricircolo. Ne consegue che il loro

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esercizio è pure molto semplificato, sia per quanto riguarda la manutenzione


ordinaria, sia per i problemi di regolazione e controllo.

Uno dei possibili problemi che possono presentarsi durante l'esercizio di un


impianto a letti percolatori è costituito dalla sommersione (anche parziale) del
letto, dovuta a un cattivo riempimento (pezzatura troppo piccola), o alla
inefficienza (o persino assenza) della sedimentazione primaria, o ancora a un
enorme spoglio della pellicola (p.e. dovuta a fenomeni di tossicità acuta), o infine
al sovraccarico del letto.
I rimedi in tali casi possibili vanno dall'impiego di getti d'acqua sotto forte
pressione, all'esclusione del letto per almeno un giorno per consentirne il
drenaggio, all'uso di massicce dosi di cloro; talora, purtroppo, gli interventi non
sono risolutivi ed è necessario sostituire il riempimento.
I fenomeni di intasamento sono talvolta da imputare, soprattutto nelle
regioni a clima caldo, a sviluppi eccessivi di macrofauna parassita (insetti,
lumache, etc.); in tal caso le soluzioni sono di ricorrere ad elevati tassi di
ricircolazione, alternati con dosaggi di cloro molto forti (oltre 10 mg/l) per alcune
ore.

Altro inconveniente può essere dato dalla presenza di moscerini: tale


inconveniente, prevalentemente estivo, è dovuto allo sviluppo di Psychoda,
favorito da ambienti ad umidità variabile; questi insetti, anche se dotati di un raggio
d'azione limitato, possono causare un certo fastidio. I rimedi più comunemente
applicati utilizzano periodici incrementi del flusso per mantenere più umido
l'ambiente. Nei casi più ostinati si ricorre a dosaggi di cloro ogni 10 giorni circa;
tale prassi deve essere attentamente seguita, per evitare di danneggiare il
processo biologico. Attenzione ancora maggiore è richiesta, per il rischio di
danneggiare anche l'effluente, qualora si decida di far ricorso ad insetticidi.

La produzione di cattivi odori, normalmente impedito da un corretto sviluppo


del processo in campo aerobico, può essere determinato da accumuli di
biomassa; in tal caso, è necessario intervenire operando un'ispezione
straordinaria di tutte le parti del percolatore, seguita da periodici incrementi del
carico idraulico (per ricircolazione) ed eventualmente da clorazione. In alcuni casi
particolari, ad esempio quando l'impianto è inserito all'interno del tessuto urbano,
può essere richiesta, come misura di sicurezza preventiva, la copertura dei letti,
che dovrà essere munita di un sistema artificiale di ventilazione con
deodorizzazione degli effluenti gassosi.

Nel periodo invernale, le basse temperature, oltre a ridurre l'efficienza del


processo, possono provocare gravi problemi di esercizio, connessi alla formazione
di ghiaccio sulla superficie del letto, nei bracci di distribuzione e nelle vasche di
carico. In questi casi conviene ridurre il tasso di ricircolo (il liquame ricircolato è più
freddo), sistemare schermi provvisori antivento e rimuovere con frequenza le
formazioni di ghiaccio.

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ESEMPIO N.15
Problema:

Calcolare il rendimento di depurazione di un letto percolatore con ricircolo. Si assumano le


seguenti caratteristiche dimensionali e di alimentazione del l.p.:
- carico organico alimentato Bb=1.200 kgBOD/g
- volume del l.p. V=1.500 m3
- rapporto di ricircolo r=1,5
- F=0,12

Svolgimento:

Il numero di passaggi R è pari a:

R = 1 + r = 2,5
Il numero di passaggi efficace F risulta invece:

1+ r 1 + 1,5
F= 2
= = 1,89
(1 + 0,1× r) (1 + 0,1× 1,5)2

Il carico volumetrico di alimentazione del l.p. è pari a:

B b 1.200 kgBOD
CV = = = 0,8
V 1.500 m3 g

quindi il rendimento calcolato per 1 passaggio è pari a:

ηb = 0,93 − KC V = 0,93 - 0,28x0,8 = 0,71

il rendimento con R passaggi (F efficaci) è invece pari a:

ηb = 1 − (1 − ηb )F = 1 − (1 − 0,706 )
1,89
= 0,90

Quindi mediante il ricircolo si ottiene l’aumento del rendimento di rimozione del l.p. dal 71 % al 90
%.

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Fig.42 - Meccanismi di formazione e distacco della pellicola biologica in un processo a


biomassa adesa (a) e schema dei meccanismi di diffusione nel film liquido a
contatto col materiale di supporto (b)

Fig.43 - Vista assonometrica di un letto percolatore, con sistema di distribuzione a due


bracci (catalogo Dorr-Oliver)

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G. Viviani
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Fig.44 - Pianta e sezione diametrale di un letto percolatore. 1/2: sifone di cacciata; 3:


braccio di distribuzione; 4/5: materiale di riempimento; 6: elementi di fondo;
7:canale centrale di raccolta; 8:canalette laterali di raccolta; 9: tenditore di
registrazione; 10: luci di aerazione (da catalogo Passavant)

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Ingegneria sanitaria-ambientale

Fig.45 - Schemi di impianto con letto percolatore: (a) a basso carico; (b) con ricircolo
dell'effluente chiarificato

Fig.46 - Schemi di installazione di letti percolatori: (a) senza ricircolo; (b) con ricircolo
(da catalogo Passavant)

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Fig.47 - Letto percolatore a riempimento sintetico con ricircolo

Fig.48 - Elementi prefabbricati utilizzati per il sistema di drenaggio dei letti percolatori

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Fig.49 - Esempi di materiali utilizzati per il riempimento dei letti percolatori; (a) inerti;
(b) (c) (d) (e) materiali sintetici strutturati )pacchi lamellari); (f) materiali
sintetici alla rinfusa

Fig.50 - Principali caratteristiche dei materiali, naturali e sintetici, utilizzati per il


riempimento dei letti percolatori

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9. DISCHI BIOLOGICI

Con tale termine vengono compresi alcuni interventi a biomassa adesa, in


cui questa si forma su di un supporto rotante, che ciclicamente si trova immerso
nel refluo (quindi a contatto con la biomassa), o emerso da questo (quindi a
contatto con l'atmosfera); in pratica, in tal modo la pellicola biologica è
alternativamente interessata dalla diffusione del substrato e da quella
dell'ossigeno (Fig,50).
In effetti tutto ciò può essere realizzato, oltre che con supporti a forma di
dischi (biodischi o dischi biologici propriamente detti), anche con qualunque altro
corpo solido rotante, di forma cilindrica ad asse orizzontale (biorulli), caratterizzato
dall'andamento ciclico prima descritto.
A tale scopo, tutti questi essi sono ormai più correttamente indicati come
RBC (Rotating Biological Contactors).

9.1 Caratteristiche costruttive

Come si è già accennato gli RBC sono costituiti da moduli a dischi o a


struttura preformata in materiale sintetico (PS, PEAD, PP PVC, ecc.), rotanti a
bassa velocità (n = 1÷2 giri/minuto) parzialmente immersi nel liquame; il grado di
immersione può variare tra il 40% dei sistemi propriamente a dischi ed il 60% dei
sistemi a bobina canalizzata (Fig.51).
I diametri di più comune impiego vanno da 2 a 3,5 m. Lo spessore della
biomassa non supera solitamente i 3 mm, con velocità periferiche di rotazione di
circa 0,3 m/s; ciò che porta ad avere presente in vasca una concentrazione di
biomassa che può raggiungere, nei sistemi ad elevata superficie specifica, 50
gSS/l.
Lo schema realizzativo prevalente è quello pluristadio, di norma a 2 o 4
stadi, con alimentazione sia perpendicolare che parallela all'asse di rotazione; la
prima soluzione è preferita nei sistemi più propriamente a dischi, mentre la
seconda è richiesta da quelli a struttura canalizzata longitudinale.
Per quanto concerne i materiali di supporto, le tendenze attuali sono di fare
sempre più riferimento a quelli ad alta resistenza, per ridurre l'ingombro del
supporto e massimizzare la superficie utile di attecchimento; per lo stesso motivo
si va incrementando la diffusione delle strutture preformate (tra l'altro di più
economica realizzazione), che presentano, nei confronti dei dischi veri e propri,
superfici specifiche anche doppie. Sempre meno diffuso è il ricorso ai dischi in
polistirolo, anche per le intrinseche caratteristiche di fragilità del supporto.
Il sistema di trascinamento consueto dei rulli è quello con la trazione diretta
da motore elettrico tramite motoriduttore, anche se sono prodotti alcuni particolari
tipi di dischi a trazione pneumatica, che utilizzano cioè getti di aria compressa per
far ruotare il rullo, con l'ausilio di appositi deflettori perimetrali; questo sistema, che
ha il vantaggio di fornire un surplus di aria al liquame, consentendo anche lo
sviluppo di una frazione sospesa di biomassa, si è rilevato complessivamente
meno regolare di quello tradizionale e alquanto più complesso. E' in ogni caso
conveniente che ogni rullo sia dotato di un sistema di rotazione di emergenza,
anche manuale, per far fronte a possibili interruzioni sulla rete elettrica, che
provocherebbero danni rilevanti alla biomassa, sia emersa, che immersa.

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Ingegneria sanitaria-ambientale

Una delle caratteristiche tipiche degli impianti RBC è quella di richiedere la


copertura dei rulli, allo scopo di ridurre gli effetti negativi del funzionamento
invernale, di eliminare la possibilità di dilavamento della pellicola in caso di forti
precipitazioni e di limitare la crescita algale. Vengono realizzate sia coperture
singole, in materiale sintetico o metalliche, che coperture globali dell'insieme dei
rulli; la prima soluzione è sicuramente più economica, non richiedendo sistemi di
ricambio artificiale dell'aria per evitare i problemi connessi alla presenza di una
eccessiva umidità, ma comporta maggiori difficoltà di manutenzione del rullo.
Per quanto concerne l'allocazione dei rulli all'interno delle vasche, alcuni
aspetti hanno perso importanza rispetto al passato; non viene infatti più richiesta
la separazione tra i diversi stadi in serie e i rulli sono semplicemente installati in
vasche a sviluppo longitudinale.
A monte degli RBC occorre prevedere una sedimentazione di sgrossatura,
che può essere sostituita con una grigliatura molto spinta o una stacciatura.
La produzione di fanghi è complessivamente limitata (circa 0,6 l/abxgiorno)
e ciò ha portato a prendere recentemente in considerazione, soprattutto per
impianti piccoli e medi, la sostituzione della sedimentazione finale con sistemi di
rotostacciatura fine.

A parità di rendimento, l'uso degli RBC richiede un impegno di superficie


inferiore a quello degli altri metodi biologici, sia per quanto concerne la sola fase
biologica (circa il 10% in meno rispetto agli impianti a fanghi attivi), che soprattutto
per l'intero impianto, specie ove si utilizzi la rotostacciatura in luogo della
sedimentazione finale.
Un ulteriore aspetto da considerare è quello della modularità del sistema,
che consente al progettista una certa libertà nell'impostazione del layout di
impianto e nel suo potenziamento nel tempo.

9.2 Criteri di dimensionamento

Come si è già avuto modo di accennare, i criteri comunemente adottati


nella pratica per il dimensionamento degli RBC fanno tuttora riferimento a
formulazioni di carattere empirico.
Esse legano comunemente il carico organico superficiale Cs al rendimento
depurativo richiesto, consentendo di ricavare da questo la superficie A del
supporto.
Normalmente sono disponibili rappresentazioni grafiche del legame fra il
rendimento ηb e il carico organico superficiale Cs, valide per una data
configurazione degli RBC (biodischi, biorulli, più elementi in serie o in parallelo) e
per fissata concentrazione dei reflui trattati.
In prima approssimazione, si può affermare che sono necessari circa 2 m2
per abitante servito, al fine di ottenere un rendimento di circa il 90%.
Nel dimensionamento occorre tenere in conto l'influenza che sul processo
hanno la temperatura di esercizio, il numero di stadi e le punte di carico organico.

9.3 Campi di applicazione ed aspetti operativi

Come è noto, il campo di applicazione giudicato ottimale per gli RBC è


quello degli impianti piccoli e medi, anche se esistono impianti di notevoli
dimensioni, sia in Italia che all'estero.

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Per quanto riguarda gli aspetti più propriamente operativi possono essere
fatte le seguenti considerazioni:
- gli oneri di manutenzione sono molto ridotti, richiedendo una limitata presenza di
personale; ciò è possibile poichè, analogamente a quanto avviene per i letti
percolatori, non si hanno problemi di ricircolo dei fanghi, fenomeni di bulking,
schiume, etc.;
- il rendimento depurativo subisce una riduzione, se la concentrazione di solidi
sospesi è rilevante; di ciò bisogna tener conto soprattutto in presenza di apporti
industriali;
- occorre essere sicuri della durata dei materiali di supporto, specie per via della
commercializzazione di numerose nuove soluzioni (tanto per i materiali, quanto
per le tipologie di impianto), su cui non è stata ancora raggiunta una sufficiente
esperienza;
- il sistema a finora dimostrato problemi di manutenzione limitati, se si eccettuano
alcune rotture iniziali dei supporti e, per certo tipi di produzione, problemi di
cedimento degli alberi;
- limitati sono, in campo civile, i casi di malfunzionamento depurativo del sistema,
anche se vengono talora segnalati problemi di difficile aderenza tra pellicole e
supporto, soprattutto in fase di avviamento avanzato.

Fig.50 - Esempio di installazione di dischi biologici (da catalogo Ames-Crosta)

Fig.51 - Rettori biologici a supporto rotante (RBC): (a) convenzionale; (b) sommerso

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10. FILTRI BIOLOGICI SOMMERSI

I filtri biologici sommersi (o biofiltri), pur non avendo ancora una vasta
applicazione, presentano delle interessanti caratteristiche (non occorre ricircolare
nè i fanghi, nè il chiarificato, non ci sono problemi di bulking), che li rendono idonei
anche per i trattamenti di rimozione dei nutrienti.
Essi possono essere distinti in:
a) filtri biologici sommersi a letto fisso (packed-bed) (Fig.52): in questo caso, il
reattore è riempito con materiale solitamente plastico; il flusso di liquame può
essere ascendente o discendente;
b) filtri biologici sommersi fluidizzati (fluidized-bed): per ovviare alle resistenze
diffusive provocate dalle pellicole biologiche, può farsi ricorso a riempimenti di
piccole dimensioni (di solito sabbia del diametro inferiore al mm), che viene
mantenuta in sospensione grazie all'elevata velocità ascensionale del refluo
alimentato; l'aerazione del liquame può avvenire o con una sua
preossigenazione, o mediante insufflazione d'aria nel reattore.

11. PROCESSI MISTI

Mediante l'accoppiamento di sistemi aerobici a biomassa sospesa e adesa,


sono stati messi a punto differenti sistemi biologici di trattamento, al fine di
ottenere i principali vantaggi di entrambi i sistemi: resistenza agli incrementi di
carico organico, per i sistemi a biomassa adesa, ed elevata qualità dell'effluente
trattato, per quelli a biomassa sospesa.
Esistono numerosi esempi di applicazione, differenziati dal tipo di reattori
utilizzati e dalla sequenza con cui sono accoppiati; alcuni degli schemi messi a
punto sono riportati in Fig.53.

Fig.52 - Schema di filtro biologico sommerso a letto fisso; (1) e (3): mezzo di
riempimento; (2): griglia di aerazione; (4): accumulo delle acque di lavaggio;
(5): accumulo dei fanghi estratti nel ciclo di lavaggio

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Fig.53 - Esempi di processi misti, costituiti con l'accoppamento di letti percolatori e


vasche a fanghi attivi

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Cap.7

TRATTAMENTI DI DISINFEZIONE

1. GENERALITA'

I trattamenti di disinfezione interessano sia la potabilizzazione delle acque


primarie, sia la depurazione delle acque reflue. Nel primo caso, tali trattamenti
sono indispensabili, ai fini di garantire il rispetto degli standard microbiologici
richiesti per il consumo umano dell’acqua. Nel secondo caso, la necessità di
procedere alla disinfezione delle acque reflue dipende principalmente dall’uso a
cui il corpo idrico ricettore è destinato, da cui deriva l’eventuale rispetto di standard
più o meno restrittivi sui parametri microbiologici; in particolare, sono gli usi
destinati alla balneazione e alla molluschicoltura, rispettivamente regolati dal
D.P.R. 470/99 e dal D.lgs. 131/92, quelli per i quali è specificatamente previsto il
rispetto di limiti per tali parametri; dei due usi, certamente di maggiore interesse è
il primo, stante la pressoché totale destinazione balneare delle coste italiane; in tal
caso, il limite previsto è pari a 100 colifecali/100 ml.
Il rispetto di tale limite richiede l’aggiunta, a valle dei trattamenti primari e
secondari, anche di un trattamento terziario di disinfezione, oppure lo scarico
lontano dalla linea di costa, a mezzo di condotte sottomarine, sfruttando così i
fenomeni di dispersione dei reflui nelle acque di mare; tale secondo intervento è
peraltro usuale nel caso dei centri costieri, in quanto evita il pericolo della
formazione di sottoprodotti della disinfezione dannosi per l’ambiente, specie nel
caso in cui si faccia ricorso al cloro e ai suoi composti.
In ogni caso, la necessità di un intervento aggiuntivo, rispetto agli usuali
trattamenti primari e secondari di un impianto di depurazione, è facilmente
giustificabile: infatti, facendo riferimento alla concentrazione di colifecali tipica dei
reflui grezzi di origine domestica (compresa tra 107 e 108 microrganismi/100 ml) e
anche tenendo conto del rendimento globale di rimozione ottenibile con tali
trattamenti (anche del 99%), non è possibile garantire il rispetto del limite previsto
dalla norma (100 microrganismi/100 ml), per il quale occorrerebbe una resa di
rimozione persino del 99,9999%.
Infine, si osserva che, anche nel caso in cui si faccia ricorso allo scarico al
largo, la disinfezione delle acque reflue è sempre prevista in coda alla linea acque
e quindi prima della restituzione delle acque stesse nel corpo ricettore; in tale
caso, tuttavia, essa è effettivamente utilizzata solo in condizioni di emergenza,
cioè quando non siano utilizzabili i normali trattamenti previsti nell'impianto (per
guasti o manutenzioni dell’impianto di depurazione e/o della condotta
sottomarina), oppure quando particolari situazioni di carenza igienico-sanitaria
(p.e. insorgenza di epidemie) renda opportuna la massiccia riduzione del
contenuto in microrganismi dei reflui.

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2. RICHIAMI DI IGIENE APPLICATA

E' noto che l'insorgenza delle malattie e a maggior ragione delle epidemie,
dipende dalla diffusione degli agenti infettanti e dalla loro trasmissione diretta o
indiretta da un individuo all'altro; l’acqua costituisce una forma di trasmissione
preferenziale per le patologie infettive e per questo motivo il controllo della sua
qualità è uno dei principali obiettivi del trattamento delle acque potabili e reflue.
Va detto che in natura il numero di microrganismi presenti è altissimo; essi
possono essere saprofiti (demolitori di sostanza organica) o parassiti, che vivono
invece a carico di organismi viventi; la maggior parte degli organismi portatori di
malattie appartengono a tale seconda categoria.
Tuttavia, la presenza di un germe patogeno non è di per sè sufficiente a
determinare l'insorgerza della malattia; perché ciò si verifichi devono essere
soddisfatte tre condizioni essenziali: (i) il germe deve essere patogeno e virulento;
(ii) esso deve essere presente in una dose minima infettante; (iii) l'individuo
aggredito deve essere recettivo all'azione del germe stesso.
Quindi, la capacità di attivare l’infezione dipende da:
a) la virulenza del germe, che è la misura della sua attività patogena, variabile da
una specie all’altra;
b) la dose minima infettante, data dal numero minimo di germi presenti
nell'organismo, perché si determini l'infezione;
c) la recettività, che rappresenta la capacità dell’individuo a contrarre l’infezione e
dipende da fattori ereditari, nutrizionali, metabolici, stagionali, climatici, etc.

L'insorgenza di una malattia è perciò il risultato dell'azione di diversi agenti


virulenti che agiscono su un individuo recettivo. Dei tre fattori citati, due sono
incontrollabili (la virulenza del germe e la recettività dell'individuo) e quindi da
considerarsi sempre fattori attivi, mentre il terzo (il numero dei patogeni) può
essere controllato attraverso un’efficace serie di interventi.
I microrganismi presenti nelle acque e nei liquami possono essere
naturalmente presenti o provenire dalle deiezioni umane e animali; a titolo
indicativo in Tab.1 si riporta un ordine di grandezza della carica batterica totale
(quindi fecale e non) per acque di diverso tipo.

Tipo di acqua Carica batterica totale (n./100 ml)


Acqua potabile trattata 1
Acqua di fiume pulito 104
Acqua di fiume inquinato 106
Acqua di fognatura 109
Tab. 1 - Ordine di grandezza della carica batterica totale di acque di diversa natura

L'uomo elimina, con le feci, un’enorme quantità di microrganismi intestinali,


anche se solo in piccola parte patogeni; quelli saprofiti costituiscono quindi la
maggioranza dei microrganismi evacuati; alcuni di essi, costantemente presenti e
abbondanti nelle feci, sono stati assunti come indicatori dell'inquinamento fecale
(ne sono esempi il Bacterium coli fecale (Escherichia coli), con concentrazioni pari
a 105-105/g feci, e lo Streptococcus fecalis, che raggiunge concentrazioni di 103-
105/g feci.
L'apporto giornaliero di colifecali per abitante è pari a circa 1010 - 1012
microrganismi/abxgiorno, con un rapporto colifecali/streptococchi intorno a 4-5.

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La presenza di batteri fecali indicatori permette perciò di dare un giudizio di


inquinamento batteriologico di origine umana o animale nelle acque. Infatti, il
riscontro di organismi saprofiti fecali rende probabile la presenza di microrganismi
patogeni intestinali, quali batteri (tifo, paratifo, dissenteria, colera), virus
(enterovirus, epatite A), uova di vermi intestinali (tenie, ascaridi), etc. La presenza
dei patogeni è strettamente correlata alle condizioni epidemiogiche della
popolazione; pur se in numero molto variabile, essi sono quantitativamente molto
inferiori ai saprofiti intestinali.

3. FENOMENI DI SCOMPARSA BATTERICA NELLE ACQUE

In corrispondenza del loro scarico in ambienti diversi in cui essi hanno origine, i
microrganismi trovano condizioni che possono essere anche lontane da quelle
idonee alla loro crescita. Ciò vale particolarmente per i microrganismi intestinali
(batteri patogeni e virus), incapaci di riprodursi al di fuori dell'organismo ospite.
Per effetto quindi di numerosi fattori, di tipo fisico, chimico e biologico, si verifica
una progressiva rarefazione e scomparsa dei microrganismi; tali fattori agiscono
attivamente tanto all’interno dei processi di trattamento delle acque, quanto nei
corpi idrici naturali dolci o salini.
In particolare, la sopravvivenza dei microrganismi nelle acque reflue e naturali è
condizionata dai seguenti fattori:
- diluizione/dispersione: le condizioni idrodinamiche del mezzo ricettore
comportano la riduzione della concentrazione dei microrganismi e quindi della
loro carica infettiva nei confronti degli individui;
- sedimentazione: qualora presenti in forma sospesa (o adsorbita su particellato)
in correnti dotati di velocità di deflusso modeste, i microrganismi possono
depositarsi sul fondo dei canali, naturali o artificiali;
- predominanza vitale: i microrganismi sono soggetti a fenomeni di selezione, per
via della differente capacità di adattamento delle varie specie, della
competizione con altri organismi presenti nel ricettore in cui essi vengono a
trovarsi e infine della predazione da parte di alcuni di questi;
- temperatura: la resistenza dei batteri diminuisce all'aumentare della
temperatura;
- salinità: la resistenza delle specie patogene o enteriche decresce
significativamente all'aumentare della concentrazione di sali (il tempo di
scomparsa batterica in acque di mare è da 5 a 10 volte minore che in acqua
dolce);
- pH: i valori ottimali per lo sviluppo dei microrganismi sono compresi entro un
intervallo abbastanza ristretto (ad. es. tra 5 e 6,4 per la S. typhi), anche se la
sopravvivenza si mantiene in un campo molto più ampio;
- radiazioni solari: le radiazioni ultraviolette contenute nella luce solare hanno un
potere disinfettante, anche se il limite di penetrazione dei raggi UV nell'acqua è
variabile in funzione della sua trasparenza e in ogni caso dell’ordine di poche
decine di cm;
- presenza di sostanze tossiche: la presenza di numerosi composti chimici, che
possono trovarsi nelle acque superficiali (tensioattivi anionici, sali dei metalli
pesanti, cianuri, fenoli, etc.) possono ridurre la sopravvivenza dei microrganismi.

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Il complesso di tutti questi fenomeni comporta la riduzione della


concentrazione dei diversi microrganismi, che può essere rappresentata con una
cinetica del primo ordine del tipo:

dN
= −kN (1)
dt

la risoluzione della (1) conduce alle espressioni:

N
ln = −kt (2)
No

N = No e−kt (3)

La relazione (3), nota anche come legge di Chick (1908), lega tra loro il
numero N di microrganismi al generico tempo t con quello No al tempo t=0. La
costante k prende il nome di coefficiente di scomparsa batterica; il suo valore
dipende sia dalle caratteristiche del microrganismo, sia di quelle del mezzo in cui
esso si trova.
Facendo riferimento ai logaritmi su base 10, la (3) diviene:

N = No 10−k1t (3')

Introducendo il coefficiente T90, definito come il tempo necessario per la


scomparsa del 90% dei microrganismi (a seguito del quale quindi la
concentrazione si riduce a 1/10 del valore iniziale), la (3’) si trasforma nel
seguente modo:
N = No 10− t T90 (3'')

E’ facile dimostrare che le costanti k, k1 e T90 sono legate dalle seguenti


relazioni:
2,3 1
T90 = k1 =
k T90

In Tab.2 sono riportati alcuni valori del T90, rilevati in acque superficiali, in
differenti condizioni di temperatura e per diversi tipi di microrganismo.

Microrganismo Tipo di acqua Temp.[°C] T90 [ore]


acqua potabile (L) 20 60
estate 47
E.coli fiume Ohio (C)
inverno 51
fiume Sacramento (C) estate 32
0 172
fiume Tamigi (L) 5 108
S. typhi 10 77
4 24
acqua superficiale (L)
22 12
S. paratyphi acqua potabile (L) 4 120

Tab. 2 – Valori del T90 per microorganismi enterici in acqua potabile e di fiume a varie temperature
estive e invernali (C = valori ricavati in campo; L = valori ricavati in laboratorio)

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Infine, va rilevato che la relazione di Chick tiene conto dell’effetto cumulato


dei diversi fattori che concorrono alla riduzione della concentrazione dei
microrganismi, quindi anche di quella prodotta da eventuali agenti disinfettanti,
appositamente introdotti per il loro controllo; pertanto, come meglio si dirà
appresso, essa può essere opportunamente adoperata anche per lo studio della
disinfezione.

4. GENERALITA' SUGLI AGENTI DISINFETTANTI

In un processo di disinfezione, numerose sono le caratteristiche importanti


che l'agente disinfettante dovrebbe possedere; il disinfettante ideale dovrebbe
infatti essere:
- efficace a dosi molto limitate e con largo spettro d'azione sui vari microrganismi;
- dotato di azione molto rapida, richiedendo così brevi tempi di contatto e quindi
vasche di contatto di piccole dimensioni;
- persistente nel tempo, in modo da mantenere un’azione residua nei confronti di
forme di inquinamento che l’acqua potrebbe incontrare dopo il trattamento;
- privo di tossicità residua (diretta e indiretta) nei confronti dei comparti ambientali
in cui l’acqua viene riversata dopo il trattamento e, più in particolare, degli
utilizzatori dell'acqua trattata;
- privo di effetti peggiorativi dei caratteri organolettici;
- facilmente dosabile in acqua e a lunga conservabilità sotto forma di reattivo
concentrato;
- di impiego facile e sicuro, in modo da consentire l’esercizio automatizzato
dell'impianto, senza rischi per gli operatori;
- utilizzabile per piccole e grandi portate, senza necessità di particolari
accorgimenti;
- economico in fase sia di produzione, sia di gestione all’interno dell'impianto di
trattamento.

Evidentemente i disinfettanti comunemente impiegati possiedono solo


alcune delle caratteristiche del disinfettante ideale e spesso anche quelli che più vi
si avvicinano sono privi di alcune delle sue doti fondamentali.

4.1 Fattori che influenzano la disinfezione

Il processo di disinfezione è significativamente influenzato da diversi fattori,


che verranno rapidamente elencati qui di seguito.

4.1.1 Natura del microrganismo

Il tipo e lo stato del microrganismo (ad esempio capsulato o non, allo stato
vegetativo o insporato) possono condizionare fortemente i risultati della
disinfezione.
Alcuni microrganismi sono più facilmente attaccabili rispetto ad altri o più
sensibili a determinati agenti. Anche il loro numero e la loro distribuzione incide sul
risultato finale, così come il fatto che i microrganismi colonizzino i solidi sospesi
presenti nell'acqua.

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4.1.2 Natura del disinfettante

Il tipo, la concentrazione, la distribuzione del disinfettante e la formazione di


sottoprodotti attivi sono fattori di grande importanza da valutare caso per caso; un
piccolo aumento di concentrazione o una migliore miscelazione iniziale
consentono di incrementare di molto l'efficacia del processo.

4.1.3 Condizioni al contorno

Una volta individuati i microrganismi indicatori e scelto l'agente disinfettante,


i parametri ambientali che condizionano il processo sono diversi:
- pH: può influire sia sui micoorganismi, che sulle attività del disinfettante
prescelto, ad esempio modificandone il grado di ionizzazione o promuovendone
reazioni di trasformazione;
- temperatura: l'efficacia del processo è influenzata sensibilmente dalla
temperatura, che, come in ogni reazione, ha un effetto catalitico della reazione
incrementandone la cinetica;
- tempo di contatto: è insieme alla concentrazione del disinfettante il parametro più
importante del processo (un suo incremento consente infatti di ridurre la dose di
disinfettante);
- presenza di altre sostanze: la presenza di solidi sospesi o di sostanza organica
può influenzare negativamente il risultato della disinfezione;
- livello di miscelazione: una buona miscelazione iniziale consente di distribuire
uniformemente il disinfettante nell'acqua e di migliorarne l’efficacia;
- tipo di contatto: nel caso dei disinfettanti persistenti (in pratica quelli chimici),
dopo un'energica miscelazione iniziale, la cinetica di primo ordine che
contraddistingue il decadimento dei microrganismi rende opportuno utilizzare
bacini di contatto con flusso a pistone (plug-flow), quali canali a serpentina.

4.2 Meccanismi e modelli di disinfezione

Nonostante ormai numerosissimi siano gli studi condotti sui processo di


disinfezione e sugli agenti utilizzabili a tale scopo, va detto che non ancora del
tutto definiti sono i fenomeni che ne sono alla base. In sintesi, l’azione degli agenti
disinfettanti può essere ricondotta a uno o più dei seguenti meccanismi:
- decodifica e/o blocco dell'attività enzimatica: il cloro e i suoi composti e l’ozono
riescono a superare le difese naturali dei microrganismi, presentando caratteri
apparentemente simili a quelli di sostanze nutrienti, riuscendo così a passare
oltre le membrane cellulari (“effetto chiave”);
- alterazione del protoplasma cellulare: cloro, cloroderivati e ozono sono in grado
di ossidare i radicali e di denaturare i legami proteici; i raggi UV provocano la
loro rottura o distorsioni nella struttura del DNA; l'argento altera
progressivamente l'attività enzimatica cellulare;
- ossidazione diretta: l'ozono è in grado di attaccare i microrganismi di minori
dimensioni (ad esempio i virus) mediante demolizione diretta;
- altri effetti: il calore provoca la coagulazione del protoplasma con conseguente
morte della cellula, mentre un'elevata salinità altera l'equilibrio osmotico
cellulare.

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Per esprimere analiticamente l’effetto di un disinfettante sulla


concentrazione dei microrganismi si può fare ricorso alla legge di Chick, prima
citata a proposito del decadimento negli ambienti naturali.
L’uso di tale espressione vale nelle seguenti ipotesi:
- unica specie di microrganismi;
- unico agente disinfettante, che eserciti un'azione costante nel tempo senza
interferire con altri fattori;
- temperatura costante;
- assenza di sostanze che consumino prioritariamente il disinfettante.

La legge di Chick può essere utilizzata per rappresentare il legare tra la


scomparsa dei microrganismi, la dose di disinfettante e il corrispondente tempo di
contatto necessari per raggiungere il richiesto rendimento di disinfezione.
A tale scopo può essere utilizzato il seguente legame matematico, dovuto a
Watson (1908), tra la costante di decadimento k, che compare nella legge di
Chick, e la concentrazione di disinfettante C:

k = αCβ (4)

dove α ed β sono definite rispettivamente costanti di inattivazione e di diluizione.


In definitiva, sostituendo la (4) nella (2), si ricava la legge di Chick-Watson:

N
ln = −αCβ t (5)
No

Per fissato valore del rendimento di disinfezione (cioè per N/No=cost.), la


(5) sostanzialmente coincide con la seguente espressione, di natura empirica,
dovuta ad Allen:
Ca m t c n = K m (6)

dove Ca è la concentrazione del disinfettante realmente attiva sui microrganismi, al


netto della parte consumata da eventuali sostanze nei confronti dei quali esso
abbia maggiore affinità, tc il tempo di contatto, necessario per ottenere un certo
abbattimento percentuale della carica microrganica, n ed m coefficienti di influenza
della concentrazione e del tempo di contatto, caratteristici di un certo disinfettante,
e infine Km una costante tipica dell’effetto del disinfettante su un certo tipo di
microrganismo. Ad esempio per HClO e per un abbattimento del 99% dell’E. coli,
risultano m=1, n=0,86 e Km=0,24.

Per T e pH fissati, in un diagramma doppio-log la (6) è rappresentata da


una retta, valida per un certo microrganismo e diversi disinfettanti (o per lo stesso
disinfettante e vari microrganismi).
A titolo di esempio, in Fig.1 è riportato il caso dell’HClO, per abbattimento
del 99% di diversi microrganismi. In Fig.2 sono invece riportati gli andamenti
relativi a differenti disinfettanti, per la rimozione del 99% di uno stesso
microrgamismo.

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Fig. 1 – Esempio di grafico rappresentativo, per diversi microrganismi, della relazione (6) per
HclO e per un’efficienza del 99%.

Fig. 2 – Confronto dell’efficacia di disinfezione di diversi agenti con scomparsa del 99,9% di E.
coli (con pH = 7,5, T = 12°C)

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5. I TRATTAMENTI DI DISINFEZIONE

I trattamenti di disinfezione possono essere così distinti, sulla base del tipo
di agente disinfettante adoperato:
a) disinfezione con agenti chimici (cloro e suoi composti, ozono, acqua
ossigenata, bromo, iodio, etc.);
b) disinfezione con agenti fisici (calore, raggi UV, etc.)
Appresso si da una breve descrizione dei sistemi più adoperati per le acque
primarie e reflue.

5.1 Disinfezione con cloro e ipocloriti

La disinfezione con cloro è possibile in vari modi; è possibile infatti


adoperare tanto il cloro in forma di gas (clorogas), quanto suoi composti, quali gli
ipocloriti (di sodio o di calcio) e il biossido di cloro.
Va detto che non tutti i composti del cloro hanno proprietà disinfettanti;
viene definito a tale scopo “cloro attivo” la parte del cloro o dei suoi composti che
risulta efficace ai fini della disinfezione. Per esempio, le preparazioni commerciali
di ipoclorito di calcio hanno un titolo in cloro-attivo del 25 - 28%, mentre quelle di
ipoclorito di sodio intorno al 10 - 13%.

Il clorogas in acqua viene rapidamente idrolizzato, formando acido cloridrico


(totalmente dissociato) e acido ipocloroso:

Cl2 + H2O ⇔ H+ + Cl− + HClO (7)


HClO ⇔ H+ + ClO− (8)

Delle varie forme di cloro così presenti in acqua, è l'acido ipocloroso (HClO)
ad avere azione battericida.
Va rilevato che la dissociazione di HClO in acqua procede all’aumentare del
pH, che quindi comporta uno spostamento verso destra della (8); in Fig.3 sono
riportati i valori percentuali delle proporzioni di cloro molecolare disciolto, acido
ipocloroso indissociato e ione ipoclorito presenti in un'acqua clorata, in funzione
del pH; si osserva che a pH=1,7 il cloro è presente per metà allo stato molecolare
e per metà sotto forma di acido ipocloroso; per valori di pH compresi fra 4 e 6
l'equilibrio è a favore della quantità di acido ipocloroso presente; a pH=7,4 la
soluzione contiene uguali quantità di acido ipocloroso indissociato e di ione
ipoclorito; infine a pH > 9,5 il cloro è praticamente presente solo come ipoclorito.
Quindi, nel caso dei valori di pH usuali per le acque reflue, solo il 50% circa del
cloro è in forma di HClO.
Ulteriore influenza ha la temperatura sulla ripartizione tra le varie forme di
cloro, anche se in misura inferiore rispetto al pH.

L’uso degli ipocloriti (di sodio o di calcio) porta a reazioni di equilibrio simili a
quelle prima richiamate per il clorogas; anche qui si giunge infatti alla formazione
di acido ipocloroso, a sua volta dissociato secondo la (8):
NaClO + H2O ⇔ Na+ + OH− + HClO (9)
Ca ( ClO )2 + 2H2O ⇔ Ca ++ + 2OH− + 2HClO (10)

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Fig. 3 – Rappresentazione delle diverse specie del cloro in soluzione in funzione del pH

In effetti, al fine di comprendere gli effetti disinfettanti derivanti dall’aggiunta


di clorogas o ipocloriti in acqua, occorre ricordare che il cloro possiede un'elevata
attività chimica che comporta lo sviluppo in acqua anche di altre reazioni, oltre a
quella di idrolisi prima riportata per lo studio della disinfezione; in particolare, fra
tali reazioni le più importanti sono:
- l'ossidazione di composti organici e inorganici;
- la combinazione diretta con sostanze di natura organica.

La presenza di sostanza organica, di ione ammonio e di sostanze ossidabili


(anche inorganiche) in grado di reagire con il cloro per formare prodotti
analiticamente titolabili come cloro residuo, provoca una situazione particolare
descritta dalla “curva di break-point” (Fig.4); infatti, riportando in un diagramma
cartesiano il “cloro residuo” ClR in funzione della quantità di cloro dosata in
soluzione ClD (“cloro dose”), si avrebbe un andamento rettilineo a 45° nel caso di
acqua con cloro richiesta nulla, priva cioè di composti nei confronti dei quali il cloro
esercita un’azione ossidante .
Nella realtà, a seguito del dosaggio del cloro, si può osservare una fase
iniziale (fino ad A in Fig.4), in cui tutta la clorodose viene rapidamente consumata
senza produrre cloro residuo; subito dopo (da A a B) inizia la reazione con l'azoto
ammoniacale e con altri composti organici eventualmente presenti (ad esempio
fenoli, tannini, etc.), con produzione di cloro-composti: clorammine, clorofenoli,
etc). In particolare la formazione delle clorammine avviene secondo le seguenti
reazioni:
(monoclorammina) NH3 + HClO ⇔ NH2Cl + H2O (11)
(diclorammina) NH3 + 2HClO ⇔ NHCl2 + 2H2O (11')
(triclorammina) NH3 + 3HClO ⇔ NCl3 + 3H2O (11'')

La (11) può avvenire in un campo sufficientemente ampio di pH, mentre per


le (11’) e (11”) questo si riduce (in pratica per pH=8 si trovano solo tracce di
NHCl2 e NCl3 è assente).
Pertanto nell’intero tratto AB si produce cloro residuo combinato, in pratica
in forma di monoclorammina; aumentando ulteriormente la clorodose, il cloro
aggiunto finisce per reagire con i clorocomposti instabili (quali le clorammine)
demolendoli progressivamente (tratto BC), pur non attaccando quelli stabili (ad

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esempio i clorofenoli). Si rileva pertanto una progressiva riduzione del cloro


residuo combinato, in corrispondenza della quale la curva assume il tipico
andamento a "ginocchio”. In corrispondenza del punto C (punto di “break-point”) il
cloro residuo è costituito solo dagli eventuali clorocomposti stabili; da questo punto
in poi ogni ulteriore aggiunta di cloro porta ad un equivalente aumento del cloro
residuo, come cloro residuo libero.

La curva del break point, riportata in Fig.4, consente di fare alcune


importanti osservazioni:
- le clorammine presenti nell'acqua sono lentamente idrolizzate, dando luogo alla
formazione di HClO; pertanto la loro presenza in un'acqua clorata porta ad un
effetto disinfettante per la continua liberazione del cloro;
- i clorocomposti stabili non sono attaccati dal cloro, per cui, una volta formati, essi
permangono in acqua non contribuendo al processo di disinfezione;
- la presenza di cloro residuo libero, piuttosto che di cloroammine, conferisce al
processo una cinetica di disinfezione molto più rapida; pertanto, a parità di
clororesiduo, differente sarà l’efficacia della disinfezione, a seconda della forma
di cloro effettivamente disponibile (combinato come cloroammina o libero); ciò si
traduce in differenti valori dell’esponente “m” nell’espressione (6);
- si può quindi fare distinzione tra clorazione marginale e superclorazione, a
seconda che la dose di cloro sia tale da non superare il punto di break point o
viceversa da andare oltre tale punto; nel secondo caso, per quanto già detto
prima, l’efficacia del cloro residuo è nettamente maggiore;
- va infine citata la cosiddetta clorazione al break point, che deve essere intesa
come una modesta superclorazione in cui il dosaggio di cloro è tale da superare
lievemente il punto C; la sua effettiva applicabilità deve essere valutata con
prudenza, a causa delle possibili variazioni di configurazione della curva a
ginocchio al variare delle caratteristiche delle acque (concentrazioni dei
composti ossidabili e in particolare delle forme di azoto organico e/o
ammoniacale), che potrebbero comportare, a parità di cloro dose, la formazione
di cloro residuo in quantità corrispondenti a punti ben più a sinistra o a destra
della quantità relativa al punto C.

Quindi, i quantitativi di cloro solitamente dosati in acqua in una normale


operazione di disinfezione dipendono dalle caratteristiche dell'acqua.
Orientativamente, nel caso di acqua priva di sostanze che esercitano una
domanda di cloro, è sufficiente un dosaggio molto limitato (da 0,2 a 0,5 mg/l) per
ottenere un cloro residuo libero compreso tra 0,1 e 0,3 mg/l; percontro, in acque
fortemente inquinate e con alto contenuto organico, per ottenere gli stessi livelli di
cloro residuo libero sono necessarie dosi ben superiori (parecchi mg/l).

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Fig.4 – Curva di break point

Il clorogas viene fornito allo stato liquido sotto pressione (8 atmosfere), in


bombole di acciaio aventi capacità da 15 a 100 kg. Quando però il consumo di
cloro è notevole, alle bombole si sostituiscono serbatoi in pressione, che possono
contenere fino ad 1 tonnellata di cloro.
Trattandosi di un gas tossico il cui uso presenta notevoli pericoli,
l'utilizzazione del clorogas richiede specifiche cautele, quali ad esempio rivelatori
di cloro in aria; il personale addetto deve essere abilitato per l'impiego di sostanze
tossiche e la zona di stoccaggio deve essere rapidamente allagabile in caso di
pericolo.
Il cloro può venire aggiunto all'acqua direttamente in forma gassosa oppure
come soluzione concentrata (“acqua di cloro”) preparata in precedenza; il metodo
in soluzione è preferito per la maggiore semplicità e affidabilità, in quanto la
diffusione diretta di clorogas in acqua porta a rischi di accumulo di gas non
disciolto (con problemi di corrosione), rivelandosi difficile e non troppo sicura.
Sempre più spesso, quindi, si preferisce ottenere soluzioni concentrate di
cloro (talora anche sature); l'acqua di cloro viene immessa a concentrazione nota
nel flusso da trattare. In Fig.5 è riportato uno schema di impianto di dosaggio di
clorogas.

Fig.5 – Schema di impianto di dosaggio di clorogas

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Per la loro facile reperibilità e per la semplicità del loro impiego gli ipocloriti
di calcio e di sodio hanno avuto una notevole diffusione nella pratica della
clorazione delle acque.
L'ipoclorito di sodio NaClO è il composto maggiormente impiegato, in
quanto più stabile; esso si trova disponibile sul mercato in soluzione contenente il
12-15% di cloro attivo. La soluzione si decompone nel tempo, specie per effetto
dell’esposizione alla luce e al calore (si rilevano perdite del 10% circa già dopo 10
giorni); per tali motivi è opportuno che il suo stoccaggio avvenga in luoghi freschi e
in contenitori resistenti alla corrosione. In Fig.6 è riportato uno schema di impianto
di dosaggio di ipoclorito di sodio.

Fig.6 – Schema di impianto di dosaggio di ipoclorito di sodio

L'ipoclorito di calcio Ca(ClO)2 si trova in commercio sia in forma liquida


(soluzioni con concentrazione di cloro disponibile del 70% circa), sia solida (in
polvere. granuli o tavolette) prontamente solubile in acqua. Anche in questo caso
lo stoccaggio va fatto in ambienti freschi e asciutti e in contenitori resistenti alla
corrosione. L’uso dell’ipoclorito di calcio è solitamente limitato agli impianti di
piccola potenzialità.

5.2 Disinfezione con biossido di cloro

Il biossido di cloro presenta delle caratteristiche particolari, che ne


conferiscono effetti di disinfezione diversi rispetto a quelli ottenibili col clorogas o
con gli ipocloriti, prima citati.
Infatti, nel campo di pH tipico delle acque naturali il biossido di cloro:
- ha capacità disinfettanti rapide, efficaci, persistenti e in grado di non formare
composti organoletticamente sgradevoli;
- non reagisce con lo ione ammonio per formare clorocomposti azotati (pertanto
non presenta una curva di break-point);
- non reagisce con i precursori organici per formare trialometani (THM);
- resta presente in acqua sotto forma molecolare (non idrolizza) ed è quindi
possibile eliminarlo per strippaggio mediante moderata aerazione, anche a
causa della sua mediocre solubilità;
- è dotato di un potere ossidante superiore a quello del cloro, ma solo a pH acido;
a pH neutro o debolmente basico la sua capacità ossidante è invece inferiore,
mentre l'efficacia disinfettante è quasi stabile per pH da 6 a 10.

Nonostante queste caratteristiche, che conferiscono complessivamente al


biossido di cloro un potere disinfettante molto più efficace rispetto a quello del

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cloro e degli ipocloriti, il suo uso presenta alcune difficoltà, che ne ne limitano
molto l'applicazione, specie negli impianti di depurazione in cui il ricorso alla
disinfezione sia saltuario.
Infatti, il biossido di cloro è un gas instabile, soprattutto in presenza di
particolari sostanze organiche, e può dar luogo a fenomeni esplosivi, soprattutto
ad alta temperatura ed in presenza di luce. Per questi motivi è di difficile
conservazione e viene prodotto sul luogo di impiego, subito prima del dosaggio e
con notevoli cautele, per il rischio di esplosione in caso di miscelazione
accidentale e incontrollata dei composti usati per la sua produzione.
Esso può essere prodotto facendo reagire clorito sodico (NaClO2) con cloro
molecolare oppure con acido cloridrico, secondo le seguenti reazioni:

2NaClO2 + Cl2 → 2NaCl + 2ClO2 (12)


Oppure:
5NaClO2 + 4HCl → 4ClO2 + 5NaCl + 2H2O (13)

In Fig.7 è riportato lo schema di produzione e dosaggio di biossido di cloro.

Fig.7 – Schema di impianto di dosaggio di biossido di cloro

Infine, va detto che benché il biossido di cloro non presenti molti degli
inconvenienti del cloro (formazione di THM, problemi organolettici, etc.), tuttavia
esso può dare seguito a effetti tossici, dovuti alla formazione di clorito residuato
dalle reazioni di produzione o che avvengono in acqua, dopo il dosaggio.

5.3 Vasche di contatto

Ai fini di favorire il contatto tra disinfettante e acqua, è opportuno che


l’immissione dell'acqua di cloro, della soluzione di ipocloriti o del biossido sia
eseguita in una prima vasca di miscelazione rapida, che può essere omessa nel
caso di acque di elevata qualità e con bassa richiesta di cloro. A questa deve fare
seguito la vasca di contatto del tipo a canale con inversioni di flusso a 180° (a
“serpentina”).

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Infatti, l’efficacia della disinfezione richiede oltre che la scelta della "dose"
opportuna di disinfettante, anche il mantenimento di un sufficiente "tempo di
contatto", fra il disinfettante stesso e i microrganismi (vedi Fig.1).

Il volume della vasca di miscelazione rapida, dotata di mixer meccanico,


può essere ricavato fissando un tempo di detenzione idraulico di 30 sec per la
portata massima di tempo secco (Fig.8).
Invece il volume della vasca di contatto può essere ricavato fissando un
tempo di 20 min, per la portata massima di tempo secco, che non deve scendere
sotto 5 min, per la portata massima di tempo di pioggia.
Noto quindi il volume, pari al prodotto della portata per il tempo di contatto,
e fissata l'altezza della vasca (in genere 1,5-2 m), si ricava così la superficie
orizzontale del bacino; questa viene suddivisa in canali, al fine di agevolare un
flusso "a pistone" all'interno di essa, che ottimizza il decadimento dei
microrganismi; la lunghezza di ciascun canale viene fissata nel rispetto della
seguente regola empirica:
L = 18 x W

dove L è la lunghezza di un singolo canale e W la sua larghezza (fissata pari a


0.5-1 m). Il numero complessivo dei canali risulta ovviamente pari a S/(LxW).

Fig.8 – Sezione verticale di una vasca di miscelazione rapida

Fig.9 – Pianta di una vasca di contatto, preceduta da quella di miscelazione rapida

Al fine di procedere alla misura del cloro residuo, può essere utilizzato un
clororesiduometro, la cui installazione è indispensabile se si vuole asservire
automaticamente il dosaggio del cloro alla richiesta di cloro dell'acqua stessa. In

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questo caso, la misura del cloro residuo nella portata uscente dalla vasca di
contatto consente di variare opportunamente il dosaggio del cloro, in testa alla
vasca stessa.

5.4 Declorazione

Ove si faccia ricorso a un sovradosaggio di cloro (come nel caso della


superclorazione con clorogas e ipocloriti), la presenza di clororesiduo in quantità
eccessive (> 0,2 mg/l) può comportare il peggioramento delle caratteristiche
organolettiche (nel caso delle acque di approvvigionamento) e più in generale
rischi ambientali connessi con la formazione di composti organoclorurati. A tale
problema può farsi fronte prevedendo, a valle della disinfezione, un intervento di
declorazione, eseguito dosando in acqua sostanze riducenti quali anidride
solforosa (SO2), solfito di sodio (Na2SO3), bisolfito di sodio (NaHSO3), oppure
mediante adsorbimento su carbone attivo.
Ad esempio, nel caso di uso di SO2 la dose teorica è di 0,9 mg/l di SO2 per
ogni mg/l di cloro residuo libero da rimuovere, secondo la seguente reazione:

Cl2 + SO2 + 2H2O → 2HCl + H2SO4 (14)

Invece il solfito e il bisolfito di sodio reagiscono col cloro dando luogo alla
formazione di solfato e bisolfato di sodio e ad acido cloridrico, con una riduzione
dell'alcalinità dell'acqua, a seguito delle modeste quantità di acido prodotte, più
limitata di quella che si ha adoperando l'anidride solforosa.
La filtrazione su carboni attivi ai fini della declorazione si diffonde sempre di
più; infine, l’aerazione dell’acqua, atta a favorire la liberazione del cloro libero, se
impiegata come intervento autonomo risulta poco efficace; una sua utilizzazione è
invece possibile a valle della filtrazione su carboni attivi.

5.5 Disinfezione con altri alogeni

Come il cloro e i suoi composti, anche gli altri alogeni sono in grado di
esercitare sia un'azione ossidante, che disinfettante, ma la loro pratica
utilizzazione nel campo del trattamento delle acque risulta tuttora marginale.
Lo iodio è complessivamente più efficace del cloro, ma, a parte il suo
maggior costo, molti dubbi sono stati avanzati a proposito della sicurezza igienica
di utilizzare acque iodate per usi potabili.
Il bromo, finora usato solo sporadicamente nel settore del trattamento delle
acque di raffreddamento, è stato proposto come agente disinfettante per acque di
piscina e per acque di scarico, sia da sole, che miscelate con cloro. Risultati di un
certo interesse sono riportati in letteratura, anche per gli aspetti economici, mentre
molto poco ancora è stato investigato a riguardo dei problemi connessi con
l'impiego per acque ad uso potabile, soprattutto per i possibili rischi igienici e di
tossicità.
Numerose sono invece le esperienze di applicazione del fluoro nel settore
acquedottistico, soprattutto negli Stati Uniti. Lo scopo dell'aggiunta di fluoro
all'acqua non è però quello di ottenere effetti disinfettanti o di ossidare certi
inquinanti, bensì quello di migliorare le capacità di resistenza dei denti alla carie e,
più genericamente, di favorire i processi di resistenza dell'apparato osseo. Va però
rilevato che, mentre piccole dosi di fluoro sono utili, in particolare nei bambini, la

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presenza di concentrazioni elevate (superiori a 1,5 mg/l) può determinare fluorosi,


con formazione di macchie sui denti e, nei casi più gravi, ingrossamenti anomali
delle ossa.

5.6 Disinfezione con ozono

L'ozono O3 è una forma allotropica dell'ossigeno, costituito da una molecola


triatomica instabile presente in natura sotto forma gassosa in basse
concentrazioni a seguito dell'azione ionizzante esercitata sull'ossigeno atmosferico
da un campo elettrico, derivante da una forte differenza di potenziale.
La produzione industriale dell'ozono si ottiene facendo passare un flusso di
aria o di ossigeno attraverso batterie di elettrodi, tra i quali si crea una forte
differenza di potenziale. La reazione di produzione dell'ozono è la seguente:

3 O2 + energia ⎯⎯→ 2 O3 + calore + luce (15)

L'ozono è un gas tossico ad alte concentrazioni in aria, anche se meno di


altri gas usati per la disinfezione, con odore caratteristico, abbastanza solubile in
acqua (circa 10 volte più dell'ossigeno, ma 10 volte meno del cloro) e dotato di
una forte reattività diretta, che pare derivare dalla produzione del cosiddetto
“ossigeno nascente” O°, secondo la reazione:

O2 ⎯→ O2 + O° (16)

oltre che dalla formazione di sottoprodotti di reazione molto instabili.


Accanto alle diverse reazioni di decomposizione e trasformazione da cui
dipende l'efficacia dell'ozono, se ne possono tuttavia sviluppare altre a carattere di
decomposizione parassita (che portano cioè ad un deperimento di concentrazione
dell'ozono senza risultati utili) del tipo:

O3 + 2OH- ⎯→ 2O2 + H2O (17)

Oltre ad essere un disinfettante molto efficace (in confronto al cloro è 25


volte più efficiente nell'abbattere i coliformi e rispettivamente 40 volte, 5 volte e 10
volte più efficiente nei riguardi di spore, virus e parassiti), l'ozono ossida molti ioni
e composti chimici, trasformando, per esempio, sulfuri e solfiti in solfati, nitriti in
nitrati, cloruri in cloro; demolisce inoltre le molecole dei fenoli, di molti pesticidi, dei
precursori (quindi non produce THM), etc.; non reagisce invece praticamente con
l'ammoniaca. L'ozono migliora le caratteristiche organolettiche dell'acqua trattata,
rimuove il colore (specie se di origine organica) e facilita le operazioni di
chiariflocculazione in presenza di ioni metallici, con minori consumi e quindi anche
con produzione di fanghi.
Percontro l’ozono non da nessuna pratica persistenza ed è sicuramente più
costoso del cloro; ad oggi ancora piuttosto incerta è la conoscenza dei
sottoprodotti di reazione e dei loro possibili rischi per la salute.

5.7 Disinfezione con raggi ultravioletti

Le radiazioni ultraviolette utilizzate per la disinfezione delle acque sono


generate da lampade a vapori di Hg, a bassa e a media pressione. Le prime

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forniscono la radiazione nel campo più specifico di lunghezza d'onda (255 nm),
mentre le seconde, pur avendo una maggiore dispersione della lunghezza d’onda,
possono tuttavia disporre di una maggiore intensità di radiazione.
I raggi UV, per lunghezze d'onda comprese tra 240 e 280 nm, sono in grado
di danneggiare irreparabilmente gli acidi nucleici cellulari; a parità di tempo di
esposizione, il grado di scomparsa batterica dipende dall'intensità di irraggiamento
(μW/cm2). Gran parte dei batteri e dei virus decadono per dosi complessivamente
ridotte; ad esempio per avere rimozioni dell'ordine del 90% sono spesso sufficienti
poche migliaia di µW⋅s/cm2.
Le caratteristiche della disinfezione con raggi UV sono così riassumibili:
- è in grado di fornire eccellenti rendimenti di rimozione per batteri e virus (minori
per cisti, protozoi e spore);
- è capace di operare con bassi tempi di contatto e quindi con impianti
abbastanza compatti;
- può essere impiegato sia in serbatoi chiusi di contatto, che in canali a pelo
libero;
- presenta una durata piuttosto elevata delle lampade (anche 8.000-10.000 ore
per alcuni tipi) e questo risultato consente costi di esercizio piuttosto
interessanti;
- richiede acqua molto limpida (quindi sottoposta a precedenti trattamenti con
elevati rendimenti di chiarificazione) e la continua pulizia del sistema radiante;
- anche se inizialmente applicata preferibilmente alle piccole utenze, oggi è
diffusamente utilizzata anche in impianti di media e grande potenzialità;
- non introduce composti indesiderati nell'acqua, né ha sinora evidenziato pericoli
di formazione di sottoprodotti pericolosi per la salute;
- non modifica i caratteri organolettici dell'acqua;
- non fornisce alcun tipo di residuo, richiedendo quindi, come nel caso dell’ozono,
una clorazione di copertura.

In Fig. 10 è riportata una vista di vasca di contatto con installazione di lampade


UV.

Fig.10 – Vista di vasca di contatto con installazione di lampade UV

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5.8 Altri metodi di disinfezione

Oltre ai metodi citati, esistono molte altre possibilità di trattamento, pur se


caratterizzate da diffusione marginale per motivi diversi (insufficienza di dati
sperimentali probanti, adattabilità modesta, efficienza ridotta o troppo specifica,
etc.). Fra tutti. meritano di essere citati i metodi appresso riportati, trascurando
quelli per i quali la documentazione è al momento tuttora poco consistente ed i
sistemi di pura emergenza, quali l'impiego del calore.

a) Acqua ossigenata: è attualmente in fase di accentuata promozione industriale


benchè gli effetti disinfettanti di H202 siano da considerarsi complessivamente
blandi, come dimostrato da esperienze condotte anche con dosaggi elevati (>10
mg/l). Recenti esperimenti hanno invece dimostrato l’idoneità del suo uso come
intervento di preossidazione, negli impianti di potabilizzazione di acque di fiume
contenenti precursori, con una minore produzione di THM.

b) Permanganato di potassio: anche in questo caso valgono a grandi linee le


considerazioni fatte per l'acqua ossigenata; il permanganato di potassio è un
efficacissimo ossidante, ma un disinfettante non altrettanto valido. Sono richiesti
infatti dosaggi piuttosto consistenti, che possono portare a qualche inconveniente
secondario.

c) Metodi oligodinamici: in questo caso si fa ricorso a soluzioni molto diluite di


metalli nobili, in particolare l'argento, in grado di esercitare una lenta ma
persistente inibizione delle funzioni enzimatiche cellulari. Tale effetto può essere
ottenuto sciogliendo sali di Ag in dosi molto ridotte in acqua (0,05-0,1 mg/l) e
mantenendo il contatto per alcune ore; i metodi oligodinamici sono di applicazione
marginale e riservati a piccole portate.

d) Ultrasuoni: le onde sonore ad alta frequenza, oltre ad infastidire molti animali,


che hanno un campo uditivo decisamente più ampio di quello umano, possono
provocare danni cellulari anche notevoli, attribuibili a fenomeni di microcavitazione
dei fluidi cellulari. I dati disponibili non sono molto numerosi e non si hanno notizie
di applicazioni su larga scala.

e) Raggi gamma: è ben noto che le radiazioni possono provocare irreparabili danni
di natura biologica; tra tutte le sorgenti di radiazione, quelle gamma sono le più
pericolose ed efficaci; esperienze nel campo della disinfezione, anche se a scala
sperimentale, hanno dato risultati molto significativi, utilizzando però sorgenti
molto potenti e quindi d'intrinseca pericolosità. Anche se in fase sperimentale,
sono allo studio applicazioni di sorgenti meno pericolose, quali ad esempio i raggi
beta.

5.9 Considerazioni conclusive sull’uso dei disinfettanti

In Tab.3 sono riassunte alcune delle principali caratteristiche dei diversi


disinfettanti esaminati. L’esame della tabella evidenzia che, a fronte di una
comparabile notevole efficacia del cloro e dell’ozono, tuttavia solo il primo
garantisce caratteristiche di persistenza, che conferiscono all’agente disinfettante
capacità di azione anche a distanza dal punto di dosaggio dell’agente stesso.

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Tale vantaggio tuttavia si paga in termini di pericolo di formazione di


sottoprodotti, che cresce all’aumentare del dosaggio e al ridursi del grado di
purezza dell’acqua disinfettata.
Per sopperire a tale circostanze che non consentono quindi l’individuazione
di un unico disinfettate con caratteristiche migliori rispetto agli altri, si può
prevedere un intervento congiunto in cui si faccia ricorso a più di una forma di
disinfezione disposte in serie (p.e.: ozono + cloro; UV + cloro, etc.).
Si evidenzia che, di solito, è sempre prevista una clorazione finale, con
funzione di copertura; in questo caso però, l’efficace ossidazione prodotta dal
primo disinfettante riduce notevolmente il pericolo di formazione di cloroderivati,
sia per la riduzione dei precursori di natura organica, sia per il minore dosaggio di
disinfettante così necessario.

CARATTERISTICHE Cloro libero Clorammine Cl02 Ozono Raggi UV


Efficacia su batteri ottima moderata ottima ottima buona
Efficacia su virus ottima bassa ottima ottima buona
Efficacia su spore molto bassa nulla molto bassa discreta non rilevata
Residuo in rete si si si no no
Formazione THM si rara funzione della purezza no no
Altri sottoprodotti si non noti cloriti, clorati aldeidi, chetoni non noti
Dosi tipiche (mg/l) 2-10 0,5-3 1-5 1-5 -
Esercizio e rischi alta cautela normale forti cautele cautela normale
Tab.3 - Confronto tra i principali disinfettanti

ESEMPIO N.1
Tema:

Dimensionare un impianto di disinfezione con ipoclorito di sodio.

Svolgimento:

Dati di dimensionamento:
- portata massima di tempo secco Qmaxn
- portata massima di tempo di pioggia Qmaxp
- dose di cloro attivo D [mg/l]
- percentuale di cloro attivo nella soluzione di NaClO: 12% in volume
- percentuale di cloro attivo nella soluzione dosata: 3% in volume

Dimensionamento impianto:
- portata di cloro attivo: QCl = Qmaxp x D
- portata della soluzione commerciale di NaClO: QNaClO = QCl /0,12
- portata di NaClO da dosare: QNaClO = QCl /0,03

Esempio di calcolo:
- Qmaxp = 250 m3/ora
- dose D = 5 mg/l
- portata ponderale di cloro attivo da dosare: QCl = 250 x 5 = 1.250 g/ora
- portata di soluzione commerciale: QNaClO = 1.250 / (1000 x 0,12) = 10,42 l/ora
- portata pompa dosatrice: 10 -15 l/ora
- consumo mensile di NaClO: 10,42 x 24 x 30 / 1000 = 7,5 m3/mese

Quindi, adoperando un serbatoio di capacità di 10 m3, la frequenza di ricarica risulta pari a 10/7,5 =
1,3 mesi.

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Cap.8

RIMOZIONE DEI NUTRIENTI

1. RIMOZIONE DELL'AZOTO

1.1 Generalità

E' noto che l'azoto può causare inconvenienti di varia natura nei corpi
ricettori; tra di essi il più noto è l'eutrofizzazione dei corpi idrici a debole ricambio,
in cui peraltro è in genere il fosforo ad esercitare il ruolo di reale fattore limitante la
crescita algale. Altri problemi connessi alla presenza di azoto possono così
riassumersi:
- abbassamento del tenore di ossigeno disciolto nei ricettori, da collegarsi ai
consumi dovuti all'ossidazione batterica dell'azoto ammoniacale ad azoto
nitroso e nitrico;
- tossicità dell'azoto ammoniacale per la fauna ittica, quando esso sia presente in
forma di ammoniaca gas (NH3), per concentrazioni superiori a 0,01 mg/l di N-
NH3;
- limitazioni agli usi idropotabili per i rischi connessi alla presenza di nitrati nelle
acque di falda, che riducendosi a nitriti nell'apparato digerente e combinandosi
con l'emoglobina del sangue vi bloccano il meccanismo di trasporto
dell'ossigeno (cianosi infantile).

Nei liquami urbani, negli scarichi zootecnici, ed in molti effluenti industriali,


l'azoto è prevalentemente presente sotto forma organica (proteine) e come urea,
contenuta nelle urine; in entrambi i casi esso subisce un rapido processo di
trasformazione ad azoto ammoniacale.
Per tale motivo in seguito non si farà distinzione tra l'azoto organico ed
ammoniacale entrambi compresi nella determinazione del TKN.
Negli abituali processi di depurazione, il rendimento di rimozione dell'azoto
non è elevato. Infatti, per i liquami domestici, la sedimentazione primaria consente
un abbattimento di circa il 10%; nelle fasi biologiche, le quantità trattenute per
assimilazione batterica (processi di sintesi) sono direttamente correlate al carbonio
rimosso e valutabili nel 5% del BOD eliminato. Una depurazione più spinta
richiede trattamenti specifici; accanto a processi di natura chimica e chimico-fisica
(clorazione al punto di rottura, strippaggio dell'ammoniaca, scambio ionico
dell'azoto ammoniacale e nitrico) peraltro di limitata applicabilità, la via oggi più
matura per applicazioni su scala reale (soprattutto in campo urbano) è quella
biologica, attraverso una fase ossidativa di "nitrificazione", con formazione di nitriti
e quindi di nitrati, seguita da una fase riduttiva di "denitrificazione", con produzione
di azoto molecolare, che per la bassa solubilità si libera in aria.
Appresso sono descritte le principali caratteristiche dei processi biologici di
rimozione dell'azoto.

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G. Viviani
Ingegneria sanitaria-ambientale

1.2 Nitrificazione

Per nitrificazione si intende l'ossidazione dei composti inorganici dell'azoto


allo stato ridotto, svolta da batteri autotrofi, in grado cioè di utilizzare per la sintesi
cellulare carbonio inorganico (CO2) e di trarre l'energia, necessaria alla crescita ed
al metabolismo, dell'ossidazione di composti inorganici facilmente ossidabili (nella
fattispecie ammoniaca e nitriti) usando l'ossigeno libero come accettore di
elettroni. Nel trattamento delle acque, risultano di pratico interesse i batteri del
genere Nitrosomonas, per l'ossidazione dell'ammoniaca a nitriti, e del genere
Nitrobacter per l'ossidazione dei nitriti a nitrati.
Le reazioni di ossidazione, da cui i batteri traggono l'energia loro
necessaria, possono esprimersi per il Nitrosomonas come:

NH4 + + 1,5 02 ⎯⎯→ 2 H+ + H2 0 + NO2

e per il Nitrobacter:

NO2 + 0,5 02 ⎯⎯→ NO3

Complessivamente pertanto le reazioni di ossidazione dell'ammoniaca a nitrati


risultano:

NH4 + + 2 02 ⎯⎯→ NO3 + 2 H+ + H2 0

Complessivamente, le attività di sintesi cellulare e di respirazione possono


essere rappresentate con la seguente reazione di bilancio:

NH4+ + 1,83O2 + 1,98HCO3 ⎯⎯→ 0,98NO3− + 0,021C5H7NO2 + 1,041H2O + 1,88H2CO3

L’esame della precedente espressione, confermata anche dalle


osservazioni di laboratorio, evidenzia che il fenomeno complessivo di nitrificazione
dell'ammoniaca a nitrati ha le seguenti caratteristiche:
- limitata sintesi di organismi nitrificanti, in rapporto ai quantitativi di ammoniaca
ossidati;
- elevato fabbisogno di ossigeno disciolto (il consumo è stimabile in 4,18 g di 02
per ogni g di NH4+ ossidato);
- distruzione di alcalinità con produzione di acido carbonico; conseguentemente
si ha una tendenza all'abbassamento del pH, quando l'alcalinità iniziale delle
acque da trattare non sia sufficientemente elevata per tamponare l'acidità
prodotta durante la nitrificazione.

La velocità di ossidazione dell'ammoniaca, dovuta al Nitrosomonas, in


assenza di fattori limitanti (velocità massima di ossidazione) è assai minore che
non la corrispondente velocità di ossidazione dei nitriti a nitrati per azione dei
Nitrobacter. Nelle condizioni di reale funzionamento, l'ossidazione a nitriti limita
pertanto la velocità dell'intero processo, per cui non si determinano accumuli di
nitriti.

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G. Viviani
Ingegneria sanitaria-ambientale

La nitrificazione biologica con colonie sospese può essere condotta


secondo i due seguenti schemi alternativi:
- processo ossidativo monostadio (Fig.1), in cui in un'unica fase aerobica viene
realizzata sia l'ossidazione dell'azoto ammoniacale ed organico che la
rimozione del substrato organico biodegradabile, ad opera di una popolazione
batterica mista, ove tuttavia, per le abituali caratteristiche dei reflui urbani,
esiste una predominanza assoluta della biomassa eterotrofa su quella
autotrofa. Un adeguato livello di nitrificazione è in questo caso possibile solo
per bassi valori del rapporto tra substrato organico e microrganismi, compatibili
quindi con l'accumulo nel sistema di una sufficiente biomassa autotrofa. E'
quanto si verifica nei processi ad aerazione prolungata;
- processo ossidativo a due stadi (Fig.2), di cui il primo, condotto ad elevato
carico, è finalizzato solamente alla parziale rimozione del substrato organico
senza apprezzabile ossidazione dell'azoto ammoniacale (la cui concentrazione
peraltro diminuisce per effetto dei fenomeni di sintesi). E' in questo modo
possibile ottenere, in ingresso allo stadio secondario, un valore del rapporto
BOD/TKN assai più basso che non all'origine e quindi più favorevole allo
sviluppo di una biomassa arricchita in batteri nitrificanti.

In entrambi i casi, con un corretto dimensionamento, è possibile ottenere


una nitrificazione pressoché completa; il processo a due stadi, che generalmente
consente un'economia dei volumi complessivi di aerazione, rende tuttavia
necessaria la realizzazione di due distinte fasi di decantazione, anche con una
maggiore complessità di impianto. Tale soluzione viene pertanto adottata solo
quando si prevedono temperature invernali molto rigide in cui il mantenimento nel
secondo stadio di una popolazione batterica ricca di organismi nitrificanti, può
risultare indispensabile per contenere in valori accettabili la biomassa
complessivamente necessaria.

1.3 Denitrificazione

La rimozione dell'azoto nitrico (e nitroso) può essere condotta per via


biologica da popolazioni batteriche di tipo eterotrofo, già abbondantemente
presenti nella biomassa degli abituali impianti biologici, in uso per la rimozione del
substrato organico. Ferma restando l'utilizzazione del carbonio organico nei
processi di sintesi, per la respirazione tali batteri sono in grado di utilizzare come
accettore di elettroni sia l'ossigeno libero disciolto sia, in alternativa, i nitrati (ed i
nitriti), potendo quindi passare, senza difficoltà di acclimatazione, da condizioni
aerobiche a condizioni anossiche. In presenza contemporanea di entrambi gli
accettori, viene comunque preferito un metabolismo aerobico, più favorevole in
termini energetici; conseguentemente la denitrificazione può svilupparsi solo per
condizioni rigorosamente anossiche nel micro-ambiente circostante i batteri.
Rimandando la discussione sui substrati carboniosi di possibile
utilizzazione, e facendo per ora riferimento al metanolo, CH3OH, come donatore di
elettroni, le reazioni da nitrati ad azoto gas possono essere così espresse:

6 NO3 + 2 CH3 OH ⎯⎯→ 6 NO2 + 2 CO2 + 4 H2 O


6 NO2 6 H+ + 3 CH3 OH ⎯⎯→ 3 N2 + 3 CO2 + 9 H2 O

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Alla rimozione dell'azoto concorrono anche i processi di sintesi di nuove


cellule; il fabbisogno da questi derivante può essere calcolato come una frazione
(circa il 5%) del BOD rimosso.
Per lo sviluppo delle reazioni di denitrificazione è indispensabile la
disponibilità di un substrato organico biodegradabile che fornisca il carbonio
necessario alla sintesi e che funga da donatore di elettroni nei processi
dissimilativi di respirazione. Nel caso di liquami urbani, risulta naturale il ricorso
all'elevato contenuto di sostanze organiche in esso presenti (tale fonte di carbonio
è detta "interna"), con il risultato di ottenere, contestualmente alla denitrificazione,
la rimozione di una parte dell'inquinamento organico biodegradabile. Lo
svantaggio del rallentamento della cinetica del processo rispetto ai valori
conseguibili con l'utilizzazione di substrati organici specificatamente introdotti
risulta abbondantemente compensato dalla disponibilità gratuita della fonte di
carbonio.
A soluzioni diverse può farsi ricorso solo in condizioni particolari:
- quando, anche in presenza di una fonte interna di carbonio, sia necessario
ottenere livelli di denitrificazione particolarmente elevati. Il completamento del
processo può in quel caso essere ottenuto utilizzando il carbonio "endogeno" che
comprende la sostanza organica immagazzinata nella cellula batterica e quella
costituente la stessa biomassa.
- quando si debbano trattare effluenti industriali in cui il carbonio interno manchi o
sia carente rispetto ai fabbisogni. In tal caso è necessario introdurre una fonte
"esterna" di sostanza organica: viene generalmente usato metanolo o, più
raramente, acido acetico, glucosio, saccarosio o altri substrati organici ben
biodegradabili.
Nel caso più usuale in cui venga utilizzato carbonio interno, il suo consumo
può essere stimato in 4-4,5 mgBOD/mgNO3-N rimosso; ciò evidenzia gli elevati
fabbisogni di carbonio organico, che hanno importanti implicazioni impiantistiche
sulla scelta dei processi di denitrificazione.

Vengono di seguito prese in esame le principali alternative di processo oggi


disponibili per la rimozione biologica dell'azoto. L'uso di fonti di carbonio esterne
(essenzialmente il metanolo), frequentemente proposto in passato, è da
considerarsi oggi del tutto abbandonato quando nello scarico da trattare sia già
presente, in sufficiente concentrazione, un substrato organico biodegradabile.

1.3.1 Impiego di carbonio esterno

Per i motivi sopra specificati, questo tipo di processo è limitata ad effluenti


industriali in cui manchi una sufficiente componente organica e per i quali pertanto
l'introduzione di una fonte esterna di carbonio (metanolo) è indispensabile. Lo
schema di trattamento è rappresentato in Fig.3.
Il reattore biologico è mantenuto in condizioni anossiche; in esso pertanto la
necessaria miscelazione tra la biomassa eterotrofa e lo scarico è in genere
assicurata mediante lenta agitazione meccanica, con dispositivi analoghi a quelli in
uso per la flocculazione. La chiarificazione dell'effluente in uscita, ed il recupero
del fango biologico, viene ottenuto in un sedimentatore finale, da cui viene
realizzato un ricircolo di biomassa secondo uno schema analogo a quello già visto
per i fanghi attivi. Tra la vasca di denitrificazione ed il sedimentatore è a volte

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inserita una fase di aerazione per favorire lo strippaggio dell'azoto gassoso


prodottosi e migliorare quindi la decantabilità dei fiocchi di fango.

1.3.2 Post-denitrificazione (con carbonio interno)

Nel caso di liquami urbani, o comunque di scarichi contenenti una


componente organica biodegradabile, l'evidente convenienza di utilizzare il
carbonio interno urta contro la difficoltà che l'azoto è presente quasi tutto in forma
organica o ammoniacale così da richiedere una preventiva ossidazione a nitrati
per essere disponibile ad un trattamento di denitrificazione biologica. In tale
trattamento di nitrificazione tuttavia, è inevitabile l'ossidazione con elevato
rendimento della sostanza organica originariamente presente, con conseguente
indisponibilità di carbonio interno per il successivo stadio di denitrificazione.
Esclusa, come detto, l'introduzione di metanolo a valle della nitrificazione
per l'incongruità di un'aggiunta di sostanza organica biodegradabile di
considerevole costo, dopo un trattamento in cui altra sostanza organica,
naturalmente disponibile, è stata ossidata, la sola fonte di carbonio disponibile in
denitrificazione rimane il carbonio endogeno. Il trattamento comporta tuttavia
velocità di denitrificazione così basse da risultare concretamente inapplicabile.
L'uso della post-denitrificazione è invece possibile quando venga richiesta
una rimozione solo parziale dell'azoto e si accetti presenza di ammoniaca nello
scarico finale. Si può allora operare secondo lo schema di Fig.4. Solo una parte
del liquame in arrivo viene sottoposto ad ossidazione e solo l'azoto in essa
contenuto può quindi essere rimosso nel successivo trattamento di
denitrificazione. La restante portata viene direttamente alimentata alla fase
riduttiva, in modo da rendere disponibile il carbonio interno necessario alla
denitrificazione; come già visto il processo riduttivo richiede la disponibilità di 4-4,5
mg di BOD per mg di nitrati eliminati.

1.3.3 Pre-denitrificazione (con carbonio interno)

Nel processo di pre-denitrificazione i nitrati vengono ridotti in un primo


stadio anossico utilizzando la sostanza organica del liquame grezzo come fonte di
carbonio; in un successivo stadio aerobico si svolge l'ossidazione della sostanza
organica residua e la nitrificazione dell'azoto ammoniacale. Dato che abitualmente
i nitrati sono assenti dallo scarico grezzo, la loro alimentazione alla fase di pre-
denitrificazione è resa possibile dal ricircolo di consistenti portate dall'ossidazione,
in parte comunque necessarie per il recupero della biomassa dal sedimentatore
finale.
Lo schema del processo è rappresentato in Fig.5: esso prevede, in
successione e senza sedimentazione intermedia, un reattore di denitrificazione ed
uno di nitrificazione, del tipo già descritto al punto precedente. Alla sedimentazione
finale è inviata solamente una frazione della sospensione in uscita dalla
nitrificazione, corrispondente alla portata che deve essere scaricata e da cui va
separata e recuperata la biomassa. Le ulteriori portate che è necessario ricircolare
per assicurare il voluto rendimento al processo vengono invece direttamente
riprese, a valle del reattore aerobico, mantenendo in sospensione i fiocchi di
fango.
La frazione di nitrati complessivamente ridotta dipende dal rapporto tra la
portata ricircolata, rispetto a quella scaricata. Dell'ammoniaca ossidata in

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nitrificazione infatti solo quella contenuta nelle portate di ricircolo viene


denitrificata, mentre l'altra viene scaricata, sotto forma di nitrati, nell'effluente
trattato. L'aumento della portata complessiva di ricircolo, che può arrivare anche a
5 o 6 volte quella di alimentazione, consente progressivi miglioramenti di
rendimento; per le modalità stesse di processo, la rimozione dell'azoto non può
comunque mai essere completa. Il conseguimento di livelli di denitrificazione
particolarmente elevati può eventualmente ottenersi con una successiva fase di
post-denitrificazione che utilizzi il carbonio endogeno.

Si osserva che, in tutti i processi di denitrificazione per liquami urbani che


utilizzano una fonte interna di carbonio, è opportuno venga evitata la
sedimentazione primaria per non rischiare carenze di BOD in rapporto alla
quantità di nitrati da ridurre. Nei liquami il carbonio è teoricamente presente in
eccesso rispetto al fabbisogno (gli apporti pro-capite valgono infatti 60 g/ab x
giorno per il BOD e 12 g/ab x giorno per l'azoto); la sedimentazione primaria
rimuoverebbe in misura maggiore il BOD (circa al 25%) che non l'azoto (circa al
10%), alterando il rapporto BOD/N dal valore iniziale di cinque a circa quattro,
pericolosamente vicino al valore limite che consente la corretta denitrificazione,
anche per le variazioni orarie che possono determinarsi rispetto ai valori medi
giornalieri.

L'inopportunità della sedimentazione primaria (con relativa produzione di


fanghi putrescibili) si collega anche al fatto che i lunghi tempi di permanenza
cellulare complessivamente necessari per la nitrificazione e la denitrificazione,
assicurano ai fanghi di supero biologici un discreto livello di stabilizzazione che
semplifica, o addirittura annulla, la necessità di un processo di digestione
separata.

2. RIMOZIONE DEL FOSFORO

2.1 Generalità

La rimozione del fosforo dalle acque reflue può essere condotta facendo
ricorso a trattamenti sia chimici, sia biologici.
I trattamenti chimici si basano su una reazione di precipitazione delle forme
disciolte di fosforo presente nel liquame realizzata per mezzo dell'aggiunta di sali
di ferro, di alluminio o di calce idrata.
Accanto alla reazione di precipitazione, agiscono anche meccanismi di
rimozione di tipo chimico-fisico, quali adsorbimento, coagulazione e flocculazione
con funzione integrativa della rimozione dovuta alla sola reazione di
precipitazione.
I trattamenti biologici fanno uso di ceppi batterici specifici, detti Poli-P (in
particolare l’Acinetobacter), che, se sottoposti in modo sequenziale alla
permanenza in ambienti anaerobici e successivamente aerobici (ciò è possibile
inndue reattori diversi posti inb serie, o in uno stesso reattore in due fasi temporali
successive) sono capaci di accumulare all’interno della cellula notevoli quantità di
fosfati, che quindi possono essere rimossi nella sedimentazione finale.
I trattamenti chimici sono tutt’oggi più frequenti, sia per la maggiore
semplicità dello schema d’impianto necessario, sia per i maggiori rendimenti di

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rimozione conseguibili; tuttavia sono sempre più numerosi gli esempi di


applicazione in piena scala di quelli biologici, anche in accoppiata con eventuali
trattamenti chimici, al fine di contenere il consumo di reagenti .
Appresso saranno descritti solo i trattamenti chimici, con riferimento ai tre
schemi operativi adoperabili, distinti in base al punto in cui si esegue il dosaggio
dei reagenti.

2.2 Pre-trattamento

In questo caso, l'immissione dei reagenti chimici viene eseguita a monte


della sedimentazione primaria (Fig.6a); è a tale scopo necessaria un'unità per il
contatto chimico fra reagenti e liquame, oltre ovviamente alle apparecchiature per
la preparazione, lo stoccaggio e il dosaggio dei reagenti.
L'aspetto più risaltante del pre-trattamento chimico consiste nella possibilità
di rimuovere in maniera rilevante il fosforo e di pari tempo realizzare una
rimozione del BOD anche del 60%. Quest'ultimo aspetto consente la riduzione del
bacino di aerazione per il conseguimento del medesimo rendimento di
depurazione del BOD. Oltre a questo aspetto, il pre-trattamento chimico è
convenientemente applicabile per il livellamento delle punte di inquinamento
provocate dalla eventuale commistione dei liquami industriali coi liquami domestici,
per la rimozione parziale o totale di inquinanti non biodegradabili o tossici per la
flora batterica, presenti nel liquame, in forma sospesa o disciolta.
Per quanto concerne la rimozione del fosforo, il trattamento chimico, sia
esso realizzato con sali di ferro, di alluminio o con calce idrata, consente la
rimozione degli ortofosfati, mentre è soltanto parziale la rimozione dei polifosfati e
del fosforo organico.
Complessivamente, la rimozione del fosforo è stimabile nell'ordine del 90%
con una concentrazione di fosforo residuo raramente inferiore a 0,6-0,8 ppm.
L'aspetto maggiormente limitante del pre-trattamento chimico è la possibilità
di una carenza di fosforo nel trattamento biologico successivo. Se dunque per un
verso l'obiettivo può essere quello di realizzare il massimo effetto depurativo per
fosforo e altri parametri, di contro è indispensabile limitare tale trattamento per non
incorrere nel rischio di carenza di fosforo nel trattamento biologico. A salvaguardia
del trattamento biologico, il pre-trattamento chimico deve pertanto essere
realizzato con obiettivi meno spinti di quelli effettivamente conseguibili.

2.3 Trattamento simultaneo

Nel trattamento simultaneo i reagenti sono immessi direttamente nello


stadio biologico, che deve essere del tipo a fanghi attivi; anche in questo caso non
è necessaria un'unità operativa supplementare (Fig.6).
Rispetto al pre-trattamento, il trattamento simultaneo gode del vantaggio di
una maggiore disponibilità di fosforo come ortofosfato, per effetto delle
trasformazioni biochimiche e idrolitiche di polifosfati e fosforo organico. Infatti la
percentuale di ortofosfato sul fosforo totale passa dal 27-30% nel liquame grezzo,
all'80-85% nell'effluente dello stadio biologico. Inoltre la presenza di altre
percentuali di solidi fioccosi, quale si ha nei bacini a fanghi attivi, facilita la
flocculazione dei precipitati di fosforo formatisi in seguito all'azione chimica dei
reagenti introdotti nella vasca di ossidazione.

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Poichè la precipitazione simultanea determina un incremento nel carico di


solidi sul sedimentatore finale, particolare cura va posta nel dimensionamento di
questa unità al fine di evitare la fuoriuscita, con l'effluente finale, di solidi sospesi
che pregiudicherebbe il rendimento globale di rimozione.

2.4 Post-trattamento

Nel post-trattamento i reagenti sono immessi dopo la sedimentazione


secondaria, con effetto quindi sul fosforo contenuto nell'effluente trattato
biologicamente. In questo caso occorre prevedere un'apposita unità operativa
anche per la sedimentazione del precipitato (Fig.6c).
Rispetto al pre-trattamento chimico e al trattamento simultaneo, il
trattamento chimico terziario ha dei vantaggi sostanziali sotto il profilo tecnico,
classificabili come segue:
- migliori risultati finali in termini di BOD e SS: in effetti il trattamento chimico
finale consente la rimozione fine dei solidi sospesi, sino a valori minimi di 5-10
ppm, rimuovendo di pari tempo il BOD ad essi associato. Come risultato finale
si possono stimare valori di BOD di 5-15 ppm;
- rimozione spinta del fosforo, con rendimenti superiori al 90% e risultati finali
inferiori a 0,5 ppm. In effetti la post-precipitazione, in sede di progettazione di
impianto, è l'unica, tra le alternative prospettate, atte a garantire in ogni caso la
costante osservanza di questo limite;
- possibilità di trattare il fango chimico separatamente dal fango organico,
evitando in tal modo inutili sovraccarichi e interferenze in fase di digestione;
- non interferenza col trattamento biologico.
La produzione di fango, maggiore che in altri casi per via del maggior
dosaggio di reattivo richiesto, si può stimare nell'ordine del 3-5% del volume di
liquame trattato (pari a 1,3 -2,2 volte circa, le quantità di fango prodotto nel solo
impianto a fanghi attivi).

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Fig.1 – Schema di processo di nitrificazione monostadio

Fig.2 – Schema di processo di nitrificazione a due stadi

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Fig.3 - Denitrificazione con carbonio esterno (metanolo)

Fig.4 - Post-denitrificazione con carbonio interno

Fig.5 - Pre-denitrificazione con carbonio interno

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Fig.6 - Schemi di rimozione chimica del fosforo:


a) pre-trattamento;
b) trattamento simultaneo;
c) post-trattamento

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Cap.9

TRATTAMENTO DEI FANGHI

1. CARATTERISTICHE DEI FANGHI

1.1 Generalita'

Col termine "fanghi" sono indicate le sospensioni concentrate, rimosse nei


processi della linea acque degli impianti di depurazione. Per via della loro elevata
putrescibilità, i fanghi devono essere sottoposti a trattamenti di stabilizzazione; in
più, il loro smaltimento congiunto coi rifiuti solidi necessita di una disidratazione, al
fine di ridurne l'umidità a valori compatibili con quella dei rifiuti stessi.

1.2 Contenuto in sostanza secca e umidità

La valutazione della produzione di fango su base secca (a 105 °C) può


essere ottenuta con considerazioni teoriche e prove di laboratorio.
Nel caso di liquami domestici, la produzione pro-capite di fango può essere
calcolata sulla base degli apporti unitari in fognatura; i valori usuali, relativi ai
principali schemi d'impianto adoperabili, sono riportati nella tabella seguente. In
essa compaiono pure i valori tipici dell'umidità dei fanghi (definita come
percentuale in peso d'acqua nei fanghi); essa può oscillare da valori dell'ordine del
99% per fanghi molto diluiti, come quelli che si ottengono da un processo biologico
a fanghi attivi, fino all'80% nel caso di taluni processi chimici di precipitazione.

tipo di fango prod. specifica in SS umidità


[g/abxg] [%]
fanghi primari 54 95
fanghi di supero da impianti a fanghi attivi senza 40 - 90 99
sedimentazione primaria
fanghi di supero da impianti a fanghi attivi con 30 - 45 99
sedimentazione primaria (*)
fanghi combinati (primari + biologici) estratti dalla 70 - 100 96 - 98
sedimentazione primaria
(*) solo fango biologico

La conoscenza dell'umidità è fondamentale, al fine di determinare il peso


del fango (inteso come somma del peso della sostanza secca e dell'acqua);
peraltro, il contenuto d'acqua, seppure variabile da trattamento a trattamento, è
sempre largamente preponderante rispetto a quello della sostanza secca.

La portata ponderale di fango PF può essere calcolata a partire da quelle


della sostanza secca SS e dell'acqua PA (PA = PFxU/100); risulta quindi:

U
PF = SS + PA = SS + PF
100
da cui

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G. Viviani
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SS ⎡ kg ⎤
PF = ⎢g⎥
U ⎣ ⎦
1−
100

Tale espressione mette in evidenza l'influenza dell'umidità sul peso (e


quindi sul volume) del fango. Riferendosi a una portata unitaria in sostanza secca
(SS = 1 kg/g), PF vale 100 kg/g, per U = 0,99; esso si riduce a 50 kg/g per U =
0,98 (cioè solo per una variazione di umidità dell1%, facilmente ottenibile con
l'ispessimento del fango).
La portata volumetrica del fango QF può essere facilmente ricavata,
ipotizzando che il suo peso specifico sia in pratica pari a quello dell'acqua (1.000
kg/m3); tale ipotesi è accettabile, solo per valori di umidità corrispondenti a fanghi
anche stabilizzati, ma non ancora disidratati; risulta allora:

SS ⎡ m3 ⎤
QF = ⎢ ⎥
⎛ U ⎞ ⎢⎣ g ⎥⎦
1000⎜ 1 − ⎟
⎝ 100 ⎠

1.3 Peso specifico

Il peso specifico del fango può essere calcolato come quello di una miscela
eterogenea, costituita da acqua, solidi volatili (di natura organica) e solidi non
volatili (di natura inorganica); con buona approssimazione, si può stimare che il
peso specifico di un fango non disidratato sia pari a quello dell'acqua (1.000
kg/m3), mentre quello del fango già stabilizzato e disidratato raggiunga 1.150-
1.200 kg/m3.
Nella seguente tabella sono riportati i valori ricavabili per umidità,
percentuale di solidi volatili (valutata sui totali) e peso specifico dei fanghi, prima e
dopo le fasi di digestione e disidratazione:

a monte di digestione e a valle di digestione e


disidratazione disidratazione
SSV/SST 0,7 0,4
umidità [%] 96 - 99 60 - 75
peso specifico [kg/m3] 1.000 1.150 - 1.200

1.4 Putrescibilità

I fanghi sono caratterizzati da un elevato contenuto di solidi volatili, di


natura organica, che possono provocare fenomeni putrefattivi, a seguito delle
trasformazioni biologiche di tipo anaerobico che in essi possono instaurarsi.
Per una valutazione del grado di stabilità, possono adoperarsi differenti
criteri quantitativi; il metodo più comunemente usato è costituito dalla
determinazione del "contenuto di solidi volatili", cioè del rapporto tra solidi sospesi
volatili (SSV) e solidi sospesi volatili (SST); per i fanghi primari e quelli di supero
(provenienti da impianti biologici) tale rapporto è pari a circa 0,7; con i processi di
stabilizzazione biologica esso si riduce a circa 0,4.

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Tuttavia, il contenuto di solidi volatili non è necessariamente indicativo della


stabilità del fango, che può essere ottenuta anche arrestando le trasformazioni
biologiche mediante inibitori dell'attività batterica (ad esempio adoperando elevati
quantitativi di calce).

2. ISPESSIMENTO

2.1 Generalità

Scopo dell'ispessimento è l'aumento del contenuto in SS dei fanghi (e


quindi la riduzione dell'umidità di questi); tale obiettivo è raggiunto sottoponendo i
fanghi a sedimentazione, in appositi bacini detti "ispessitori".
In effetti, tale operazione si può verificare anche in altre unità della linea
fanghi (digestori), in cui la sospensione dell'aerazione (come nel caso dei digestori
aerobici), oppure l'arresto o l'assenza della miscelazione (è questo il caso dei
digestori anaerobici) consente di ottenere nei digestori stessi l'ispessimento del
fango; su tale circostanza però si tornerà meglio appresso, a proposito della
digestione dei fanghi.
L'effetto di ispessimento, sia esso ottenuto in appositi ispessitori, oppure
negli stessi digestori, non comporta tuttavia sostanziali variazioni dell'umidità del
fango, che rimane dopo tale operazione ancora non "paleggiabile" (cioè non
assimilabile a rifiuti solidi come stato fisico), per via dell'elevatissimo contenuto di
acqua.
Si vedrà però che la pur modesta variazione di umidità ottenuta con
l'ispessimento consente già di avere una sensibile riduzione nella portata
volumetrica avviata alle unità poste a valle dell'ispessimento stesso, le cui
dimensioni ne risultano così ridotte.
Nel caso degli impianti di potenzialità medio-piccola, un ulteriore obiettivo
ottenibile con la realizzazione degli ispessitori è quello di costituire un accumulo
dei fanghi, che fa da volano fra la loro produzione, pressoché continua nel tempo,
e il loro trattamento di disidratazione, solitamente limitato ad alcune ore al giorno e
ai soli giorni feriali.

2.2 Schemi di impianto

A seconda della potenzialità del centro servito e del tipo di operazioni


unitarie previsto nella linea fanghi, è solitamente possibile fare distinzione fra due
differenti schemi di impianto, in cui diversa è la collocazione dell'ispessitore nella
sequenza delle unità facenti parte della linea fanghi e così pure differente è la
funzione da questo assolta.
La principale differenza fra i vari schemi è costituita dalla collocazione
dell'ispessitore a monte o a valle della fase di digestione; i vantaggi e gli svantaggi
di tali alternative sono così sintetizzabili:
a) se l'ispessitore è posto a monte della fase di digestione ("pre-ispessimento"), si
ha il vantaggio di ridurre le dimensioni tanto dei digestori, quanto dell'unità di
disidratazione (in quanto entrambe a valle dell'ispessitore stesso); però così
facendo si accumula nell'ispessitore fango non ancora stabilizzato (in quanto
non ancora sottoposto a digestione), circostanza questa che può determinare la
produzione di fenomeni di putrescibilità del fango all'interno dell'ispessitore e
quindi la produzione di cattivi odori;

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b) se l'ispessitore è posto a valle della digestione del fango ("post-ispessimento"),


evidentemente si ha una riduzione delle dimensioni solo della fase di
disidratazione (infatti la digestione in questo caso avviene a monte
dell'ispessimento); però così facendo il fango accumulato nell'ispessitore è stato
già sottoposto a stabilizzazione, per cui vengono meno i pericoli di putrefazione
prima accennati.

Si è già detto che può in effetti individuarsi un terzo ed ultimo caso di


ispessimento, che è quello in cui esso sia ottenuto non in un'apposta unità, ma in
bacini aventi diversa finalità, le cui modalità di funzionamento tuttavia consentono
pure di ottenere l'ispessimento del fango. Tale caso, detto di "ispessimento
contemporaneo", si può verificare nei digestori.

La scelta fra le tre possibilità prima richiamate dipende dallo schema


d'impianto adottato e quindi dalla sua potenzialità.

Negli impianti di potenzialità medio-piccola, si è visto che lo schema


d'impianto solitamente adottato è quello che prevede la digestione aerobica del
fango. Stante la modesta dimensione dei digestori, commisurata alla potenzialità
dell'impianto, è generalmente conveniente in questi casi prevedere il post-
ispessimento, in unità a cui è quindi avviato fango già stabilizzato; l'ispessitore
assolve così alla duplice funzione di ridurre la portata di fango avviata alla fase
finale di disidratazione e di garantire un accumulo temporaneo, nei periodi di sosta
della disidratazione stessa.
Negli impianti di potenzialità medio-grandi è invece spesso adoperato lo
schema che prevede la digestione anaerobica dei fanghi, con digestori mono o
bistadio; in questo caso, la grande dimensione e la complessità strutturale e
impiantistica di tali unità rende opportuno il ricorso al pre-ispessimento, grazie al
quale si riducono le dimensioni dei digestori stessi, oltre che ovviamente quelle
della fase finale di disidratazione; per fare fronte alla frequente produzione di
cattivi odori, che in tal caso possono generarsi nell'ispessitore, si può prevedere la
copertura degli ispessitori e il trattamento di deodorizzazione dell'aria da essi
estratta.

2.3 Tipologia degli ispessitori

Le tipologie adottabili per i bacini di ispessimento sono sostanzialmente


due:
a) ispessitore statico;
b) ispessitore meccanico.

2.3.1 Ispessitore statico

Nel caso dell'ispessitore statico (Fig.1), il bacino ha forma cilindrica, nel


tratto superiore, e tronco-conica, in quello inferiore; le sue modalità di
funzionamento sono discontinue: il bacino viene riempito col fango prelevato dalla
sedimentazione e lasciato ispessire per un sufficiente periodo; all'interno del
bacino si ottengono così due zone, una superiore di "surnatante" chiarificato e una
inferiore di fango ispessito; lo svuotamento del digestore avviene estraendo prima
il surnatante e quindi il fango ispessito; alla fine di tale operazione è possibile

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riempire nuovamente il bacino, procedendo a un nuovo ciclo di ispessimento. Al


fine di limitare il richiamo di fango ispessito, nel corso dell'estrazione del
surnatante, è opportuno dotare il bacino di dispositivi che consentano l'estrazione
progressiva, a partire dai livelli superiori, fino a quelli inferiori; a tale scopo
possono essere utilizzate valvole "telescopiche", oppure condotte "a canne
d'organo" (Fig.1a) o infine condotte basculanti (Fig.1b).
Il volume del bacino è ricavata fissando un tempo di detenzione idraulico
del fango di 1-2 giorni.
Con tale tipo di ispessitore si può ottenere una riduzione di umidità del
fango di circa il 3%, che quindi passa da un valore prossimo al 99%, nel fango di
supero estratto dal sedimentatore, al 96%, nel fango ispessito.
Utilizzando la relazione prima riportata, fra la portata volumetrica di fango
QF, la sua portata ponderale in SS e l'umidità U, e applicando tale relazione tanto
al fango alimentato, avente portata QF1 e umidità U1, quanto a quello ispessito,
con portata QF2 e umidità U2, nell'ipotesi verosimile che il contenuto di solidi
originario si ritrovi tutto nel fango ispessito (cioè che il surnatante sia privo di
solidi), applicando a entrambi la relazione prima riportata e dividendo membro a
membro, si ricava:
QF1 100 − U2
=
QF2 100 − U1

La portata di surnatante risulta ovviamente:

QS = QF1 − QF2

Il surnatante va ricircolato all'interno dell'impianto, in quanto ancora carico


di inquinanti.

ESEMPIO N.1

Un ispessitore è alimentato con una portata di fango di 100 m3/g, avente umidità del 99%;
calcolare la portata di fango ispessito e di surnatante, nell'ipotesi che nell'ispessitore si raggiunga
un'umidità del 96%.

Risulta:
VF1 = 100 m3/g U1 = 0,99 U2 = 0,96
da cui:
100 − U1 100 − 99 m3
QF2 = QF1 = 100 = 25
100 − U2 100 − 96 g
m3
QS = QF1 − QF2 = 100 − 25 = 75
g

I risultati dell'esempio evidenziano quindi la notevole riduzione della portata di fango ottenuta,
anche se a fronte di una modesta riduzione di umidità.

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Fig.1 - Ispessitore statico

2.3.2 Ispessitore dinamico

In questo caso il funzionamento del bacino di ispessimento avviene in


continuo, con alimentazione del fango di supero proveniente dalla linea acque ed
estrazione del surnatante chiarificato, che sfiora in una canaletta di superficie, e
del fango ispessito, prelevato dal fondo del bacino stesso.
La configurazione dell'ispessitore ricorda quindi quella di una vasca di
sedimentazione, da cui differisce però notevolmente, tanto nel rapporto
dimensionale superficie/volume (infatti, rispetto ai sedimentatori, gli ispessitori
hanno, a parità di volume, una superficie nettamente inferiore), quanto nel tipo di
apparecchiatura di cui sono dotati (i ponti raschiatori degli ispessitori hanno forma
totalmente diversa da quella adoperata per i sedimentatori).

In Fig.2 è riportato un esempio di ispessitore a pianta circolare (tale forma è


quella comunemente adoperata, anche se non mancano esempi di vasche a
pianta quadrata); la vasca ha forma cilindrica ed è munita di tramoggia di fondo, in
cui si accumula il fango ispessito e da cui questo viene estratto.
Il fango è alimentato dal centro e distribuito uniformemente mediante un
cilindro distributore coassiale con la vasca; il surnatante è estratto per sfioro dalla
soglia di superficie (a tale scopo si adoperano stramazzi tipo Thomson, quali quelli
già descritti per i bacini di sedimentazione); il fango ispessito è estratto dal fondo.

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L'ispessitore è munito di un ponte raschiatore rotante "a pettine", la cui forma


agevola la separazione solido-liquido e l'accumulo del fango sul fondo.
La superficie A della vasca si ricava fissando il "flusso solido limite"
massimo alimentato FSL, posto pari a 30-50 kgSS/m2xg:

SS ⎡ 2 ⎤
A= m
FSL ⎢⎣ ⎥⎦

dove SS è la portata ponderale di SS, in kgSS/g.


Il volume V della vasca si ricava invece fissando il tempo di detenzione
idraulico T sufficiente a garantire la funzione di accumulo (di solito pari a 1 giorno):

V = QF × T ⎡m3 ⎤
⎢⎣ ⎥⎦

dove QF è la portata volumetrica di fango alimentata, in m3/g.

Fig.2 - Ispessitore dinamico (doc. Ecoplants)

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3. DIGESTIONE AEROBICA DEI FANGHI

3.1 Generalità

Se il fango di supero di un impianto biologico o quello proveniente dalla


sedimentazione primaria vengono sottoposti ad aerazione, in un ambiente in cui
manchi alimentazione di liquame, il solo substrato organico disponibile per il
metabolismo della biomassa è rappresentato dalle sostanze organiche costituenti
le stesse cellule batteriche, contenute nei fanghi stessi, che sono misurabili come
solidi volatili dei fanghi.
Se il rapporto tra sostanze volatili e biomassa è mantenuto abbastanza
basso, cioè se si adottano tempi di detenzione idraulica delle vasche
sufficientemente elevati, nel digestore possono essere realizzate condizioni di
respirazione endogena, per cui, ottenuta la mineralizzazione della sostanza
volatile morta inclusa nel fango, interviene anche una diminuzione della stessa
massa batterica.
Il processo che così si ottiene è simile a quello "a ossidazione totale",
utilizzabile nella linea acque, con la differenza che qui il fango viene stabilizzato
nel digestore aerobico dopo essere stato separato dal liquame depurato, anzichè
nella vasca di aerazione della linea liquami.
Da un punto di vista costruttivo, il digestore è del tutto analogo ad una
vasca di aerazione; esso è infatti costituito da una vasca, generalmente
completamente miscelata, munita di sistemi di aerazione analoghi a quelli
adoperati nelle vasche a fanghi attivi (turbine o sistemi a insufflazione d'aria; in
quest'ultimo caso sono preferiti però i sistemi a bolle medio-grandi, per limitare i
pericoli di occlusione dei diffusori, possibili per via dell'elevata concentrazione di
solidi in vasca).

3.2 Dimensionamento dei digestori aerobici

3.2.1 Criteri empirici

I metodi semplificati adoperabili per il calcolo del volume di un digestore


aerobico si basano sul tempo di digestione idraulico T e sul carico volumetrico CV
(valutato come kg di SSV introdotti in un giorno, per m3 di volume della vasca); coi
due criteri, il volume è ricavabile con le semplici espressioni:

V = QF × T
QSSV
V=
CV

dove QF è la portata giornaliera di fango (in m3/g) e QSSV la portata di solidi


sospesi volatili alimentata (in kgSSV/g). Il volume del digestore viene assunto pari
al maggiore tra quelli risultati dei due criteri sopra esposti; valori usualmente
adoperati per T e CV sono rispettivamente pari a 20 g e 1,6 kgSSV/m3xg.
Valori inferiori per T e superiori per Cv si possno adottare, nel caso dei di
gestori alimentati anche con fango primario (p.e. a servizio di impianti a letti
percolatori), dotati di maggiore putrescibilità.

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3.2.2 Criterio dell’età del fango

I criteri empiri, prima citati, non tengono conto delle caratteristiche del fango
introdotto nei digestori, distinguendo soltanto tra fanghi attivi e fanghi misti.
Tuttavia la putrescibilità del fango, e quindi le sue esigenze di stabilizzazione,
dipendono dal tipo di trattamento biologico in cui esso si è prodotto. Così fanghi
provenienti da impianti ad ossidazione totale sono già stati stabilizzati nella vasca
a fanghi attivi, mentre fanghi da un trattamento ad alto carico risultano fortemente
putrescibili.
Per un corretto calcolo del digestore aerobico occorre pertanto considerare
il processo biologico nel suo insieme. Ciò è possibile quando la linea liquami
preveda un trattamento a fanghi attivi; è quanto avviene quasi sempre in impianti
dotati di digestore aerobico. Nella descrizione dei processi ad ossidazione totale,
si è già detto che un trattamento di aerazione può assicurare una sufficiente
stabilizzazione del fango se il carico del fango CF viene mantenuto abbastanza
basso e cioè se l'età del fango è abbastanza elevata.
Nel caso di impianti con digestione aerobica separata, le stesse condizioni
devono essere rispettate per l'insieme costituito dalla vasca a fanghi attivi e da
quella di stabilizzazione (digestore).
Pertanto, fissato il valore dell'età del fango compessivo, compatibile con il
grado di stabilizzazione voluto, si calcola l'età del fango corrispondente al tipo di
processo a fanghi attivi prescelto e si ottiene l'età del fango necessaria nel
digestore come differenza tra i due precedenti valori. Vale cioè:

θdig = θtot - θaer

con:
θdig età del fango nel digestore aerobico
θaer età del fango nel processo a fanghi attivi
θtot età del fango complessiva nei reattori biologici (fanghi attivi + digestione).

Per la scelta di θtot si ricorda che in impianti ad ossidazione totale CF non


deve superare 0,08 - 0,1 kg BOD/kg SSxgiorno. Il corrispondente valore dell'età
del fango può essere ricavato dalla Tab.1, che riporta valori ottenuti
sperimentalmente in impianti in esercizio. Dalla Tabella 1 si ricava che a CF = 0,08
kg BOD/kg SS x giorno, corrisponde un'età del fango di 27,5 giorni. In realtà negli
impianti con digestione aerobica separata ci si accontenta generalmente di valori
di θtot più contenuti, spesso dell'ordine di 22-25 giorni. Operando con tali valori
dell'età del fango, la stabilizzazione può non essere del tutto soddisfacente in
condizioni invernali.

CF [kgBOD/kgSSxgiorno] θaer [giorni]


0,10 20
0,08 27
0,06 36
0,05 40

Tab.1 - Corrispondenza tra i valori di CF e di θaer ottenuta


sperimentalmente per bassi valori del carico

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Una volta determinato il valore di θdig, il dimensionamento del digestore


può essere eseguito ricercando il volume di questo che garantisca proprio il voluto
valore di θdig in corrispondenza della portata di fango alimentata.

L'età del fango nel digestore θdig è pari al rapporto:

(SS) dig
θ dig =
Δ SS dig Δ t
con:
(SS)dig sostanza secca presente nel digestore
Δ SSdig/Δ t sostanza secca estratta nell'unità di tempo con i fanghi digeriti

Si osserva che il valore di θdig coincide con il tempo di permanenza


idraulico (cioè con il rapporto tra il volume della vasca e la portata estratta ogni
giorno) solo quando durante la digestione non venga operato un ispessimento,
con estrazione di acqua del fango; se ciò avviene il tempo di permanenza dei
solidi è maggiore di quello idraulico e va calcolato con la precedente espressione,
che quindi ha validità generale.
La quantità ΔSSdig/Δt equivale alla quantità di fango alimentata nel
digestore nell'unità di tempo, diminuita della frazione di solidi volatili eliminata con
la digestione:

Δ SS dig Δ SNV ΔSV Δ SS


= + (1 − r) = (1 − v ) + Δ SS v (1 − r ) = Δ SS (1 − vr )
Δt Δt Δt Δt Δt Δt

con:
ΔSNV/Δt portata ponderale di solidi non volatili, non modificata dalla digestione
del fango;
ΔSV/Δt portata ponderale di solidi volatili nel fango alimentato alla vasca, ridotta
a seguito della digestione del fango;
ΔSS/Δt portata ponderale di solidi totali alimentata alla vasca di digestione;
v rapporto tra solidi volatili e solidi totali nel fango non digerito;
r frazione di solidi volatili rimossa per effetto della digestione.

Per reflui di origine urbana si può porre v=0,7 e r=0,4; di conseguenza si


ricava:
Δ SS dig Δ SS
= 0,72
Δt Δt
Il valore di ΔSS/Δt è già noto, in quanto ricavato in occasione del
dimensionamento della linea acque (corrisponde alla portata ponderale del fango
di supero, eventualmente sommata a quella del fango primario, nel caso in cui sia
stata prevista anche la sedimentazione primaria).
Quindi la massa di sostanza secca (SS)dig può essere valutata come
prodotto di θdig per la portata di fango digerito estratta dalla vasca nell’unità di
tempo:
Δ SS dig
(SS)dig = θ dig [kgSS]
Δt

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Infine, il volume della vasca (o meglio dei fanghi presenti in vasca) può
essere valutato come rapporto tra il peso di fango Pf e il suo peso specifico γf; a
sua volta, il peso di fango in vasca può essere ricavato a partire da quello della
sostanza secca mediante la ben nota relazione che lega entrambe a mezzo
dell’umidità u del fango:
Vdig =
Pf
γf
=
(SS) dig
γ f (1 − u)
[m ]
3

In definitiva, sostituendo le espressioni prima riportate, si ricava il seguente


legame tra il volume della vasca di digestione e la portata di fango ad essa
alimentata:
Vdig =
0,72 θ dig Δ SS
γ f (1 − u) Δ t
[m ]
3

In situazioni particolari, quando si abbiano a temere temperature invernali


particolarmente rigide (ad esempio in località montane), è opportuno aumentare il
volume dei digestori. Il processo è infatti sensibile alla temperatura ed i lunghi
tempi di permanenza determinano un raffreddamento dei fanghi.

ESEMPIO N.2

Problema:

Calcolare con il metodo dell'età del fango, il volume di digestione aerobica di un impianto a fanghi
attivi (senza sedimentazione primaria) in cui vengono alimentati 1320 kg BOD/giorno.

Sono noti:
- il carico del fango sulla linea liquami (CF = 0,25 kg BOD/kg SS x giorno)
- la produzione specifica di fango (Δ SS/ΔN = 0,88 kg SS/kg BOD abbattuto, in base alla 1)
- la frazione di solidi volatili sul secco in entrata al digestore (Δ SV/Δ SS = 0,7)
- la percentuale di solidi volatili eliminata con la digestione (100 r = 40%).Il contenuto di acqua
medio dei fanghi nel digestore (u = 0,98).

L'età del fango complessiva viene prestabilita in 22 giorni (rinunciando con ciò ad una buona
stabilizzazione in condizioni invernali).

Svolgimento:

Dal calcolo d dimensionamento del reattore a fanghi attivi, si ricava θaer = 5,1 giorni; di
conseguenza θdig = θtot - θaer = 22 - 5,1 = 16,9 giorni.

La portata di fanghi alimentata giornalmente al digestore è pari a

Δ SS Δ SS Δ N
= = 0,88 x 1320 = 1161 kg SS/giorno
Δt ΔN Δ t

di cui i solidi non volatili sono:

Δ SNV Δ SS
= (1 − 0,7) = 348 kg SNV/giorno
Δt Δt

pag. 311
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ed i solidi volatili sono:

Δ SV Δ SS Δ SNV
= − = 1161 − 348 = 813 kg SV/giorno
Δt Δt Δt

La quantità di solidi estratti giornalmente con il fango digerito risulta data dall’espressione:

Δ SS dig Δ SNV Δ SV Δ SS
= + (1 − r) = (1 − v ) + Δ SS v (1 − r) [kgSS/giorno]
Δt Δt Δt Δt Δt

cioè:
Δ SS dig
= 1161x[0,3 + 0,7x(1 − 0,40)] = 836 kgSS/giorno
Δt

la sostanza secca che deve essere mediamente presente nel digestore, al fine di garantire un'età
del fango in digestione di 14,9 giorni, è pari a:

Δ SS dig
(SS)dig = θ dig = 16,9 x 836 = 14.128 kgSS
Δt

Essendo l’umidità media dei fanghi nel digestore pari al 98%, il volume del digestore risulta (γf = 1
kg/dm3):
Pf (SS)dig 14.128
Vdig = = = = 706 m3
γ f γ f (1 − u) 1 x 1000 (1 − 0,98)

3.3 Considerazioni costruttive sui digestori aerobici

Per impianti di piccola potenzialità, a monte del di gestore si omette di


realizzare un pre-ispessitore; in questo caso, infatti, il digestore funziona in
maniera discontinua, fermando periodicamente i sistemi di aerazione e
consentendo così l'ispessimento all'interno della stessa vasca di digestione; una
volta estratti il fango ispessito e il surnatante chiarificato (ricircolato all'interno
dell'impianto), il digestore viene nuovamente caricato col fango temporaneamente
accumulato nelle tramogge del sedimentatore.
Per impianti di potenzialità maggiore, è più opportuno ricorrere a un
funzionamento continuo del digestore, per cui l'unica operazione di ispessimento
può ottenersi con un pre-ispessitore, appositamente previsto, oppure con un post-
ispessitore.
In ogni caso, sono conseguibili concentrazioni medie di SST nel fango
digerito variabile fra il 2,5 e il 4%.

La riduzione di SSV ottenibile con la digestione aerobica è dell'ordine del


40%; tale riduzione consente di ottenere un fango non putrescibile. Va osservato a
tal proposito che l'effetto della digestione del fango è quindi ben lontana da una
"mineralizzazione" del fango stesso, come talvolta erroneamente viene indicato;
tale ultimo effetto può ottenersi solo con trattamenti diversi (incenerimento) ed è in
ogni caso superfluo, solo ai fini dello smaltimento finale del fango.

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Il fabbisogno di ossigeno, necessario per la stabilizzazione aerobica (che


quindi deve essere solubilizzato per risultare disponibile alla popolazione batterica)
è dell'ordine di 0,10 kgO2/kgSSVxg, riferiti alla massa di SSV presenti nella vasca.
Occorre inoltre verificare che i sistemi di aerazione (costituiti da diffusori a bolle
medie, turbine o spazzole) siano in grado di garantire la completa miscelazione
della vasca; tale condizione è generalmente verificata per una potenza specifica di
20-30 W/m3 per concentrazioni dei fanghi fino al 2%; nel caso di ispessimento
particolarmente elevato, possono essere anche necessari 40-50 W/m3; tale
verifica va debitamente tenuta in conto, in quanto è frequente il caso in cui i
fabbisogni energetici per assicurare la miscelazione del digestore siano superiori a
quelli necessari per il fabbisogno di ossigeno.

ESEMPIO N.3

Problema:

Un digestore aerobico è alimentato con 1200 kg/giorno di solidi di cui il 70% volatili. La
concentrazione dei solidi è pari al 2%; la vasca è dotata di un sistema di aerazione superficiale,
funzionante 24/24 ore, che ne garantisce la completa miscelazione. Il tempo di permanenza dei
solidi è di 16 giorni e la temperatura di esercizio di 16 °C.
Calcolare:
a) la produzione giornaliera di solidi digeriti;
b) la potenza dei dispositivi di aerazione del digestore.

Svolgimento:

Ammettendo una riduzione di solidi volatili del 40% e una percentuale di solidi non volatili pari al
30% dei totali, che non vengono eliminati con la digestione; si ricava una quantità di solidi totali nel
fango digerito pari a:

SSdig = 0,3 x 1200 + 0,7 x 1200 (1-0,40) = 864 kg/giorno

La frazione di solidi volatili nel fango digerito è pari a

864 − 0,3 x 1200


= 0,583
864

La massa di solidi complessivamente contenuta nel digestore è pari a:

SS = θ x SSdig = 16 x 864 = 13.824 kgSS

di cui il 58,3% costituito da solidi volatili, come prima calcolato.

SV = 0,583 x SS = 0,583 x 13.824 = 8.059 kgSV

Essendo la concentrazione di secco pari al 2% e ammettendo per il fango una densità unitaria, il
volume di fango presente nella vasca di digestione risulta:

SS 13.824
V= = 10 − 3 = 691 m3
1− u 1 − 0,98

Il fabbisogno di ossigeno, stimato a partire da un fabbisogno specifico di 0,1 kg O2/kgSVxgiorno,


risulta:

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02 = 0,1 x SV = 806 kgO2/giorno

Supposta una capacità di ossigenazione di 1,6 kg O2/kWh, in condizioni di reale esercizio, il


consumo di energia risulta:

806 kWh
E= = 504
1,6 giorno

la potenza corrispondente alla situazione di funzionamento continuo del sistema di aerazione è


invece pari a:
504
W1 = = 21 kW
24

Infine, occorre verificare che la potenza così valutata sia sufficiente per garantire la completa
miscelazione della vasca; in particolare, per la concentrazione di solidi ipotizzata in vasca, è
necessaria una densità di energia (o potenza specifica) di 25 W/m3. Supposto che il rendimento
del gruppo motore-riduttore sia pari a 0,8, la potenza richiesta agli aeratori risulta quindi:

25 x 691
W2 = = 22 kW
0,8 x 1000

Segue quindi che la scelti degli aeratori deve essere eseguita in funzione di W2, risultando tale
valore di potenza superiore, seppur di poco, a quello W1.

4. DIGESTIONE ANAEROBICA DEI FANGHI

4.1 Descrizione del processo

Il processo anaerobico si presta bene alla stabilizzazione dei fanghi


organici, per via dell'elevata concentrazione e delle limitate portate dei fanghi
stessi. Esso si compie attraverso stadi successivi, ad opera di distinti ceppi
batterici con metabolismo specifico; per seguire l'andamento delle trasformazioni
anaerobiche, si consideri un processo di digestione condotto in discontinuo, su un
campione di fango fresco, mantenuto isolato dall'aria. Le fasi che si verificano in
successione sono così sintetizzabili:
a) fase "idrolitica": in essa si ha la solubilizzazione dei solidi organici in forma
sospesa, ad elevato peso molecolare (che non possono essere metabolizzate
dai batteri, in quanto incapaci di attraversare la loro membrana cellulare); ciò è
svolto a mezzo di batteri facoltativi, naturalmente presenti nelle acque di rifiuto
(e quindi nei fanghi), per azione di enzimi extracellulari prodotti dai batteri
stessi; nel corso di tale fase, i carboidrati sono trasformati in zuccheri semplici,
le proteine in amminoacidi, i grassi in glicerolo e in acidi grassi;
b) fase di "fermentazione acida": anch'essa si svolge per l'azione di batteri
facoltativi e comporta un'ulteriore degradazione delle molecole organiche, con
produzione di acidi organici a basso peso molecolare (acidi volatili), quali l'acido
l'acetico, il butirrico e il propionico; ciò determina l'abbassamento del pH da
valori prossimi a 7 (tipici dei fanghi freschi) a circa 5; altri prodotti di
degradazione sono l'ammoniaca, i mercaptani, l'idrogeno solforato, lo scatolo
etc., ai quali soprattutto vanno attribuiti i cattivi odori caratteristici delle

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trasformazioni putrefattive; il gas che si sviluppa in questa fase è


prevalentemente costituito da anidride carbonica;
c) fase "metanigena": gli acidi volatili prodottisi nelle prime fasi della digestione
costituiscono il substrato nutritizio per lo sviluppo di batteri, detti "metanigeni",
anaerobi obbligati (quindi si sviluppano sono in condizioni di rigorosa
anaerobiosi); il loro metabolismo comporta la trasformazione degli acidi organici
in metano e anidride carbonica, con forte sviluppo di gas (detto più
propriamente "biogas"), secondo la reazione:

a b n a b n a b
C n Ha O b + (n − − ) H2 O ⎯⎯→ ( − + ) CO 2 + ( + − ) CH 4
4 2 2 8 4 2 8 4

Ad esempio per l'acido acetico può scriversi:


batteri anaerobici
CH 4 COOH ⎯⎯ ⎯⎯⎯⎯ ⎯→ CO 2 + CH 4 .

L'avvio a regime della fase metanigena richiede tempi lunghi (anche alcuni
mesi), in quanto i batteri metanigeni sono presenti in numero molto limitato nei
fanghi freschi, per via della indisponibilità del substrato a loro necessario (acidi
organici) e dell'effetto tossico prodotto dalla presenza di ossigeno libero.
Ciò comporta pure che la velocità con cui procede la fase acida è
nettamente superiore a quella della fase metanigena; i bassi valori di pH che
vengono rapidamente ad instaurarsi per l'accumulo degli acidi volatili rallenta
ulteriormente lo sviluppo dei metanigeni (questi crescono in un campo ottimale di
pH compreso tra 6,8 e 7,5); tale effetto viene però tamponato dalla regressione
acida dovuta alla produzione di ammoniaca, che avviene subito dopo la fese
acida.
Per una digestione completa è pertanto necessaria la successione delle
diverse fasi, ciascuna strettamente necessaria al compimento di quella
successiva; tale considerazione sottolinea la particolare delicatezza del processo,
rispetto a quello che si sviluppa in condizioni aerobiche.

In un impianto reale, le condizioni operative sono alquanto diverse da quelle


finora considerate. Si ha in questo caso un'alimentazione regolare di fango fresco
(introdotto alcune volte al giorno nel digestore, in funzione delle estrazioni di fango
di supero dai sedimentatori) ed uno scarico di fango digerito. Di conseguenza in
un digestore regolarmente avviato, in cui sia stata precostituita la necessaria
popolazione metanigena, le diverse fasi, precedentemente descritte in
successione temporale, vengono a coesistere. In un determinato istante cioè vi
saranno particelle di fango, da poco introdotte, agli inizi della degradazione e
come tali sottoposte all'azione dei batteri formatori di acidi. Contemporaneamente
però gli acidi volatili prodottisi nei giorni e nelle settimane precedenti, a partire da
fango di più vecchia introduzione, subiscono l'azione dei batteri metanigeni e
quindi la degradazione fino ai prodotti finali stabili. Perchè il processo possa
proseguire con regolarità occorre che si stabilisca un equilibrio tra la fase acida e
quella metanigena; è cioè necessario che la quantità di acidi volatili che via via si
producono non superi la capacità di degradazione della popolazione metanigena
presente nel sistema. In caso contrario l'accumulo di acidi volatili, determinati dalla
differenza tra quelli che si producono e quelli che vengono demoliti, comporta una

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G. Viviani
Ingegneria sanitaria-ambientale

progressiva diminuzione del pH, che esalta lo squilibrio per via dell'effetto inibente
per la popolazione metanigena.
Essendo la velocità della fase metanigena comunque inferiore a quella della
fase acida, la prima costituisce il fattore limitante l'intero processo; questo può
quindi risultare squilibrato dall'introduzione di quantitativi giornalieri di fango fresco
superiori alla capacità di demolizione dei corrispondenti acidi volatili da parte dei
batteri metanigeni.
La messa a regime, e quindi il raggiungimento delle condizioni di equilibrio
prima descritte, richiede un periodo piuttosto lungo (anche 4-6 mesi); tale periodo
può abbreviarsi, qualora l'avviamento del digestore avvenga previo riempimento
dello stesso con fango già digerito, ricco quindi di batteri metanigeni, prelevato da
un altro digestore già in regolare esercizio.

4.2 Influenza della temperatura

E' noto che tutti i processi di natura biologica sono accelerati dall'aumento
della temperatura; nel caso della digestione anaerobica è possibile, oltre che
tecnicamente opportuno, aumentare artificialmente la temperatura di esercizio del
digestore, sfruttando il contenuto energetico del biogas prodotto.
Va ricordato che i batteri possono essere distinti in funzione dell'intervallo di
temperatura idoneo al loro sviluppo:
a) batteri psicrofili, con campo di attività tra 4 e 25 °C (valore ottimale 15-20 °C);
b) batteri mesofili, con campo di attività tra 10 e 40 °C (valore ottimale 35 °C);
c) batteri termofili, con campo di attività tra 45 e 70 °C (valore ottimale 55 °C).

I corrispondenti tempi di digestione (necessari cioè per la stabilizzazione del


fango) variano notevolmente, per i tre casi (da molti mesi, per il campo psicrofico,
a poche settimane, per quello termofilo) (Fig.3); il campo generalmente utilizzato
per la digestione anaerobica è quello mesofilo, che meglio degli altri consente di
giungere a un compromesso fra la necessità di limitare i tempi di digestione (e
quindi i volumi dei reattori a tale scopo necessari) e i consumi di energia per il
riscaldamento dei reattori stessi; a ciò si aggiunge che la delicatezza del processo
aumenta con la temperatura, per cui attualmente si hanno esempi di reattori
funzionamenti in campo termofilo sono a livello sperimentale; ciò non riduce però
l'interesse nei confronti dei digestori termofili, per via della notevolissima riduzione
dei volumi dei reattori in tal modo ottenibile; ciò è tanto più importante, se si pensa
che i digestori anaerobici costituiscono, nell'ambito di impianti di potenzialità
elevata, le opere di più elevato impegno costruttivo e di maggiore impatto visivo.

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Fig.3 – Tempi di digestione in funzione della temperatura

4.3 Tipologia dei digestori anaerobici

La digestione anaerobica dei fanghi può essere condotta secondo schemi


di processo differenti, tanto per il tipo di reattore utilizzato, quanto per le sue
modalità di conduzione; in generale, si può fare distinzione fra tre schemi diversi:
a) digestione a basso carico (monostadio);
b) digestione ad alto carico monostadio;
c) digestione ad alto carico bistadio.

4.3.1 Digestione a basso carico

In questo caso, la digestione avviene a temperatura ambiente (quindi in


pratica in condizioni psicrofile e, solo in climi caldi, mesofile); il tipo di reattore
utilizzato, schematizzato in Fig.4, è costituito da una vasca cilindrica chiusa con
fondo a tramoggia conica, priva di dispositivi di miscelazione e riscaldamento.
Il fango è alimentato nella zona centrale, dove si sviluppano i principali
processi biologici; il fango già digerito tende a separarsi, accumulandosi sul fondo,
per via del maggiore peso specifico (è infatti caratterizzato da una maggiore
percentuale di solidi inerti); nella zona superiore si separa il surnatante; in
superficie si accumula uno strato di sostanze galleggianti (detto "cappello"),
costituito sia da oli e grassi, sia da particelle trascinate verso l'alto dalle bolle di
gas che risalgono attraverso la massa in digestione.
L'introduzione del fango fresco avviene in maniera discontinua (una o più
volte al giorno), con estrazione del surnatante e del fango digerito.
Tale tipo di digestore ha il pregio della semplicità impiantistica, che lo rende
idoneo alle piccole applicazioni, specie se in climi caldi. Percontro esso presenta
diversi problemi, così riassumibili:
a) manca un'adeguata miscelazione che metta a contatto in modo uniforme la
sostanza organica fresca con il fango in digestione ricco di batteri metanigeni;
pertanto è necessario alimentare il digestore con bassi carichi di SSV, al fine di

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non provocare, nella zona di introduzione e di più intensa digestione, squilibri


tra la fase acida e quella metanigena;
b) le bolle di gas che risalgono verso la superficie, trascinando particelle sospese
verso l'alto, tengono in agitazione la massa in digestione, non consentendo una
buona separazione del fango digerito dal surnatante, che è caratterizzato da
un'elevata concentrazione di materiale sospeso.

Il calcolo del volume del digestore può essere eseguito con diversi criteri,
tutti di natura empirica:
a) fissando un tempo di detenzione di 30-60 giorni;
b) con un carico organico volumetrico di 0,5-1,0 kgSSV/m3xg;
c) con un volume specifico di 0,1-0,15 m3/ab. servito.
La variabilità dei parametri dipende ovviamente dalle temperature di
funzionamento del digestore, per cui i volumi maggiori sono adottati in
corrispondenza dei climi più freddi.

4.3.2 Digestione ad alto carico monostadio

In questo caso, il digestore è corredato da accorgimenti che accelerano i


tempi di digestione e quindi riducono il volume del digestore stesso (Fig.5):
a) riscaldamento del digestore, in modo da assicurare che la temperatura del
fango si mantenga in campo mesofilo, con valori ottimali nell'intervallo 30-35 °C;
b) miscelazione del fango, al fine di favorire il contatto tra fanghi freschi e batteri
metanigeni; essa va tuttavia periodicamente sospesa, al fine di ottenere anche
in questo caso la separazione fra surnatante e fango digerito.

Il volume del digestore può essere ricavato fissando uno dei seguenti
parametri:
a) tempo di detenzione di 10-20 giorni;
b) carico organico volumetrico di 2-5 kgSSV/m3xg;
c) volume specifico di 0,05-0,12 m3/ab. servito.

Per confronto coi valori relativi alla digestione a basso carico, prima
descritta, si rileva che i volumi necessari in questo caso sono nettamente inferiori;
in effetti però anche in questo caso è opportuno mantenere sufficienti margini di
sicurezza nel dimensionamento, per i seguenti motivi:
- in un digestore monostadio occorre arrestare periodicamente i dispositivi di
miscelazione, al fine di consentire la separazione e l'eliminazione del surnatante
e l'ispessimento del fango;
- non è conveniente diminuire eccessivamente il volume di digestione, al fine di
poter disporre di una capacità di riserva con funzioni di accumulo dei fanghi a
monte dei sistemi di disidratazione naturale o artificiale, così da svincolare tali
processi da un'eccessiva rigidità di gestione.

Per tali motivi, valori prudenzialmente adottati sono:


a) carico organico volumetrico:
2,0 kg SSV/m3 x g nel caso di fanghi primari;
1,5 kg SV/m3 x g nel caso di fanghi misti;
b) tempo di detenzione:
15 giorni, nel caso di grandi impianti, con limitati apporti industriali;

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20 giorni, nel caso di piccoli impianti, con forti apporti industriali;


c) volume specifico:
20 l/ab nel caso di fanghi solo primari;
40 l/ab nel caso di fanghi misti.

Un diverso criterio di dimensionamento si basa sulla seguente formula di


tipo sperimentale, dovuta a Pöpel:

V = Qf x 175 10-0,03 T
con:
V volume del digestore (m3)
Qf portata giornaliera di fango fresco (m3/giorno)
T temperatura di digestione (°C).

Nell'applicazione della precedente espressione è bene prudenzialmente


non prevedere temperature superiori a 32 °C.

ESEMPIO N.4

Problema:

Calcolare il volume di un digestore (in condizioni mesofile) per il trattamento dei fanghi primari di
un centro di 50.000 abitanti equivalenti nell'ipotesi di un'umidità iniziale u = 0,95. Si ammette un
apporto unitario di 62 g SS/ab x giorno, di cui 38 di SV.

Svolgimento:

La quantità giornaliera di solidi totali è di 65 x 50.000 x 10-3 = 3.250 kg/giorno di cui 38 x 50.000 x
10-3 =1900 di SV. La portata di fango è di 3.250 : (1 - 0,95) x 10-3 = 65 m3/giorno.

Assunto un carico di 2 kg SV/ab x giorno, ne deriva un volume del digestore di 1900 : 2 = 950
m3/giorno. Il corrispondente tempo di permanenza è di 950 : 65 = 14,6 giorni.
Tenuto conto delle limitate dimensioni dell'impianto è bene che il tempo di permanenza non
scenda sotto i 18 giorni. Di conseguenza il volume risulta di 1170 m3 con un carico di 1900 : 1170
= 1,62 kg SV/m3 x giorno (23,4 l/abitante).

ESEMPIO N.5

Problema:

Ripetere il calcolo precedente, nel caso di un impianto completo di fase biologica, in cui la
produzione specifica di sostanza secca sia di 97 g SS/ab x giorno e quello di sostanze volatili di 66
g SV/ab x giorno. L'umidità iniziale sia u = 0,96.

Svolgimento:

La quantità giornaliera di solidi totali è di 97 x 50.000 x 10-3 = 4.850 kg/giorno e quella di solidi
volatili di 3.300 kg SV/giorno. La portata è di 4.850 : (1-0,96) 10-3 = = 121 m3/giorno.
Assunto un carico di 1,5 kg SV/m3 x giorno, ne deriva un volume del digestore di 3.300 : 1,5 =
2.200 m3 (44 l/abitante). Il corrispondente tempo di permanenza è di 2.200 : 121 = 18,18 giorni.

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ESEMPIO N.6

Problema:

Ripetere il calcolo dei due precedenti esempi, utilizzando la formula di Pöpel per il calcolo del
volume del digestore. Si consideri una temperatura di digestione di 32 °C.

Svolgimento:

Nel caso di trattamento primario il volume risulta:

V = 65 . 175 . 10-0,03 x 32 = 1.247 m3


Per fanghi misti:

V = 121 . 175 . 10-0,03 x 32 = 2.321 m3

4.3.3 Digestione ad alto carico bistadio

L'eliminazione degli inconvenienti prima evidenziati, per il digestore


monostadio ad alto carico, può ottenersi con il ricorso alla digestione a due stadi.
In questo caso, la digestione si sviluppa in due reattori collegati in serie, di
cui il primo (digestore "primario") è riscaldato (a 33-35 °C) e miscelato; in esso
quindi risulta intensa l'attività biologica e la produzione di biogas, anche se la
miscelazione e la risalita del biogas stesso non consentono la separazione del
surnatante; il secondo (digestore "secondario") è alimentato col fango uscente dal
primario, già parzialmente digerito; esso è privo di riscaldamento e di
miscelazione; ciò consente la separazione del surnatante, che risulta peraltro poco
disturbata dalla risalita del biogas, la cui produzione è parecchio ridotta, in quanto
il fango ha già subito un'avanzata stabilizzazione.
L'alimentazione di fango fresco avviene solo nel digestore primario;
l'estrazione del fango digerito avviene invece dal fondo del digestore secondario,
da cui è prelevato pure il surnatante; il biogas è prelevato da entrambi i digestori.
In alcuni casi, i due digestori possono essere pure collegati con una linea di
ricircolo del fango, al fine di aumentare la concentrazione di batteri metanigeni nel
digestore primario, che nel secondario è elevata.

Il miglioramento delle condizioni di funzionamento, rispetto al caso del


digestore monostadio, consente di dimensionare tale tipo di digestore per valori
del carico organico volumetrico anche pari a 3 kgSSV/m3xg e tempi di
permanenza di 15 giorni; ugualmente può farsi ricorso alla formula di Pöpel, già
citata per i di gestori monostadio. In tutti i casi, il volume complessivo calcolato va
suddiviso per 2/3 al primario e 1/3 al secondario.
Non mancano tuttavia esempi in cui ai due digestori viene assegnata la
stessa capacità, pari a 2/3 del volume totale calcolato, al fine di consentire una
maggiore elasticità di funzionamento complessiva, tale da consentire il
funzionamento di ciascuno dei due digestori come primario o secondario; in tali
casi si dota pure il secondo digestore di dispositivi di riscaldamento e
miscelazione, anche se solo in uno dei due essi sono mantenuti in funzione.

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Fig.4 - Schema di un digestore a basso carico

Fig.5 - Digestore ad alto carico monostadio

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Fig.6 – Schema di digestore ad alto carico bistadio

4.4 Sistemi di miscelazione e riscaldamento

La miscelazione del fango, quando prevista, può essere ottenuta in vari


modi:
a) sistemi meccanici: pompe elicoidali mantenute in agitazione in corrispondenza
del pelo libero (vedi Fig.5) e disposte assialmente ad una tubazione centrale, in
cui il moto rotatorio dell'elica determina un effetto di richiamo con movimento
ascensionale del fango;
b) ricircolo del fango all'esterno del digestore; tale sistema è applicabile, specie
quando sia previsto uno scambiatore esterno per il riscaldamento del fango;
c) ricircolo del biogas, che viene compresso ed immesso sul fondo della vasca
sotto forma di grosse bolle, aventi anche l'effetto di rottura del cappello.

I sistemi più adoperati per il riscaldamento dei digestori sono:


a) uso di scambiatori di calore interni alle vasche; l'acqua calda impiegata per il
riscaldamento deve avere temperatura non superiore ai 55-65 °C, per evitare
eccessivi depositi sulla superficie esterna dello scambiatore; per lo stesso
motivo non può essere usato vapore; sono generalmente adoperate fasci tubieri
o serpentine disposte lungo le pareti o al centro dei di gestori (Fig.5); questo
sistema ha l'inconveniente di richiedere la messa fuori esercizio del digestore e
il suo svuotamento, almeno parziale, quando si richiedono interventi di pulizia o
di manutenzione;
b) uso di scambiatori di colore esterni, talvolta in combinazione con scambiatori
interni: in questo caso, il fango viene pompato all'esterno del digestore ed
avviato ad uno scambiatore di calore costituito da tubi concentrici in cui acqua e
fango si muovono in controcorrente (Figg. da 6 a 8); è così possibile aumentare
considerevolmente la temperatura dell'acqua (fino ad 80-100 °C) ed anche
sostituirla con vapore; il rischio di depositi nelle tubazioni è infatti in questo caso
diminuito dal fatto che il fango a contatto con la parete di scambio di muove con
velocità considerevole; inoltre l'eliminazione di eventuali incrostazioni è resa

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molto semplice dall'accessibilità dello scambiatore e dal fatto che i singoli


elementi possono essere facilmente smontati.

Fig.7 - Scambiatore di calore esterno (doc. Ecoplants)

Fig.8 - Schema di impianto di digestione anaerobica ad alto carico (doc. Promach)

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4.5 Sistemi per lo stoccaggio e l'utilizzo del biogas

Lo stoccaggio temporaneo del biogas prodotto durante la digestione è


possibile con due modalità differenti:
a) realizzazione di digestori con copertura mobile: la variazione di livello della
cupola consente l'accumulo del biogas a pressione costante, regolata dal peso
della stessa cupola (Fig.9);
b) realizzazione di gasometri, a cui il biogas prodotto nei digestori viene avviato
(Fig.10); in questo caso i digestori sono a copertura fissa (vedi Fig.5), per cui
occorre evitare che, durante le operazioni di estrazione del fango, il digestore
vada in depressione, con conseguente rischio che si introduca aria dall'esterno
a formare col metano una miscela esplosiva o che si abbia il collasso nelle
strutture; tale depressione può essere evitata consentendo il richiamo di gas dal
gasometro all'interno del digestore. In genere la capacità dei gasometri
corrisponde alla produzione giornaliera per i piccoli e medi impianti; al 65-75%
della produzione giornaliera, nelle installazioni maggiori. La pressione cui il gas
è mantenuto è molto bassa, generalmente pari a 0,25-0,40 m di colonna
d'acqua. E' anche necessario installare sulle coperture dei digestori a contatto
con il gas valvole di sicurezza, opportunamente tarate contro le sovrapressioni.

Il biogas viene normalmente utilizzato per la produzione di energia termica,


sfruttata per il riscaldamento del digestore; l'eventuale surplus di biogas può
essere utilizzato per la produzione di ulteriore energia termica o, previa
trasformazione, di energia elettrica, che può essere sfruttata per gli "autoconsumi"
dell'impianto di depurazione (alimentazione compressori, pompe, illuminazione,
etc.) o, qualora in esubero rispetto a questi, ceduta a utenze esterne all'impianto.
Prima della sua utilizzazione in motori a gas o simili, occorre che il biogas
sia sottoposto a un preventivo trattamento per l'eliminazione dell'H2S, sempre
presente come prodotto di riduzione dei composti contenenti zolfo, al fine di
evitare la produzione, durante la combustione, di SO2 ed SO3 che
determinerebbero problemi di aggressività.
Infine, va in ogni caso prevista l'installazione di una torcia, a cui avviare il
biogas prodotto, nel caso in cui non sia opportuno o possibile il suo utilizzo a
scopo energetico.

4.6 Calcolo della produzione di biogas

Quando il processo è correttamente avviato, la stabilizzazione della


sostanza organica si accompagna ad un'abbondante produzione di gas, per circa
il 65-70% costituito da metano e per il 25-30% da anidride carbonica. Costituenti
minori sono l'azoto (2-5%), l'idrogeno solforato e l'idrogeno.
Poichè il potere calorifico inferiore del metano è di 8550 kcal/m3, segue che
il biogas raggiunge valori di 5000-6000 kcal/m3, in funzione della sua
composizione.
Di solito, la produzione di gas, riferita alla quantità di solidi volatili introdotta
nel digestore, risulta compresa fra 0,5 e 0,8 m3/kgSSV; ciò corrisponde a circa 35-
50 l/abxg, coi valori più alti per impianti funzionanti coi maggiori valori del carico
del fango.

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Fig.9 - Digestore con copertura mobile (doc. Ames Crosta)

Fig.10 - Gasometro (doc. Promach)

Una valutazione più precisa dei quantitativi di gas che si producono con la
digestione anaerobica può essere condotta ricordando che il volume occupato in
condizioni normali da una grammomolecola di qualsiasi gas è pari a 22,415 litri.
Sia la molecola dell'anidride carbonica che quella del metano hanno un solo
atomo di carbonio (peso atomico 12); in entrambi i casi la grammomolecola
contiene quindi 12 g di C. Pertanto miscele di questi due gas, in qualsiasi rapporto,
presentano un volume di 22,415/12 = 1,866 litri di gas per grammo di C (o m3 di
gas/kg di C).

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G. Viviani
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Le considerazioni precedenti consentono di determinare il volume di gas di


digestione, mediante il seguente bilancio di massa del carbonio:

CTOT = CC + CG + CS
con:
CTOT carbonio totale alimentato al di gestore
CC carbonio utilizzato per la sintesi cellulare dei batteri
CG carbonio gasificato
CS carbonio perso con l’acqua del fango in forma disciolta

Tale bilancio vale nell’ipotesi di trascurare la presenza, per altro assai


limitata, di costituenti minori della miscela; è inoltre possibile trascurare anche la
parte di carbonio persa in soluzione con l’acqua del fango; esprimendo il bilancio
in termini di frazioni riferite al carbonio nel fango fresco, è possibile ricavare quella
relativa al biogas prodotto:

cG = 1 - cC
con:
cG frazione di carbonio gasificato
cC frazione di carbonio utilizzato per la sintesi cellulare dei batteri

La quantità di carbonio utilizzato dai batteri per la sintesi di nuove cellule


diminuisce all'aumentare della temperatura, secondo l’espressione:

cC = 0,775 10-xT
con:
T temperatura di digestione in °C
x funzione del rapporto azoto/carbonio (No/Co) nel fango fresco

La frazione di carbonio gasificato cG è quindi pari a:

cG = 1 – cC = 1 - 0,775 x 10-xT

ricordando che per ogni kg di carbonio gasificato si produce 1,866 m3 di gas, si


può scrivere:

g = 1,866 (1 - 0,775 . 10-xT)

dove g rappresenta il volume di gas in Nm3/kg di carbonio presente nel fango


fresco. La quantità così stimata è da ritenere teorica, in quanto nella realtà la
produzione di biogas è sempre inferiore, sia per limiti nel grado di completezza del
processo di digestione, sia per effetto delle perdite con l'acqua del fango, prima
trascurate. Cautelativamente si applica quindi un coefficiente riduttivo K1 che può
essere assunto pari a:
0,70 per digestori monostadio non agitati
0,75 per digestori monostadio con agitazione
0,85 per digestori a due stadi con forte agitazione.

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La valutazione di g richiede la conoscenza del rapporto No/Co. Per via


sperimentale si è rilevato che, nei campo di No/Co di pratico interesse, x decresce
all’aumentare di tale rapporto. In particolare, per impianti biologici alimentati da
reflui urbani, funzionanti in condizioni di medio carico, il rapporto No/Co può essere
assunto pari a 0,102 e 0,207 rispettivamente per i fanghi primari e secondari (per
questi ultimi infatti il valore No/Co aumenta, per effetto della maggiore riduzione di
Co rispetto a quella di No nel passaggio attraverso il reattore biologico della linea
acque). I corrispondenti valori di x, ricavati per via sperimentale, sono pari a
0,0186 e 0,0094 °C-1.
Segue quindi che il volume di biogas prodotto da fanghi primari è superiore,
a quello dei fanghi secondari, a parità di sostanza secca (quindi di carbonio
organico). In pratica. È questo il motivo per cui è opportuno prevedere la
sedimentazione primaria nella linea acque, qualora si voglia fare ricorso alla
digestione anaerobica dei fanghi.

L’espressione prima riportata consente il calcolo della quantità totale g di


biogas prodotto a seguito della biodegradazione di una quantità unitaria di
carbonio. In effetti, la produzione di biogas cresce nel tempo, man mano che il
processo di degradazione della sostanza organica procede, tendendo al valore
finale g. L’andamento nel tempo di tale produzione può essere rappresentato con
la seguente espressione:

gt = K1 (1-10-aRt) g

dove gt è la produzione di biogas al tempo t e g la produzione massima teorica. Il


coefficiente a, adimensionale, tiene conto del contatto fango fresco/batteri e può
essere assunto pari a 0,0150 per digestori a due stadi, con ricircolo dell'inoculo dal
secondario, e a 0,0094 per digestore monostadio. Il coefficiente R, che ha le
dimensioni dell'inverso del tempo, dipende invece dalla temperatura cui viene
condotta la digestione (che, come visto, è accelerata da un aumento di
temperatura) (Tab.2).

T [°C] R [giorni-1]
10 2,00
15 2,87
20 4,04
25 5,65
30 7,72
35 10,04

Tab.2 – Valore di R a differenti temperature di digestione

Complessivamente quindi la produzione reale di gas (in m3/kg di C


presente nel fango fresco) per un tempo di digestione di t giorni può calcolarsi con
l’espressione:

gt = 1,866 K1 (1 - 0,775 . 10-xT) (1 - 10-aRt)

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G. Viviani
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ESEMPIO N.7

Problema:

Calcolare la quantità di biogas per abitante servito prodotto in un digestore monostadio, mantenuto
alla temperatura di 30 °C con un tempo di permanenza di 20 giorni, alimentato con solo fango
primario.
Si consideri un apporto di materiale sedimentabile di 40 gSV/ab x giorno, costituiti per il 56,7% da
carbonio.

Svolgimento:

Per un rendimento di sedimentazione del 90%, nei fanghi primari si ha una quantità di carbonio
pari a:

0,90 x 40 x 0,567 = 20,41 g C/ab x giorno

Per un rapporto No/Co = 0,102 il coefficiente x è pari a 0,0186 °C; i rimanenti parametri per il
calcolo di gt si pongono pari a:
K1 = 0,75
a = 0,0094
t = 20 giorni
R = 7,72 giorni-1

Il valore di gt così ottenibile è ari a:

gt = 1,866 . 0,75 (1 - 0,775 10-0,0186 x 30) (1 - 10-0,0094 x 7,72) = 0,977 l/g di C.

La produzione pro-capite, riferita all'abitante, è quindi pari a:

0,977 x 20,41 = 19,94 l/ab x giorno

ESEMPIO N.8

Problema:

Calcolare la quantità per abitante servito del biogas prodotta in un di gestore monostadio
alimentato solo con fanghi secondari prodotti in un impianto e fanghi attivi alimentato con un carico
del fango CF = 0,30 kg BOD/kg SS x giorno, con un rendimento η=0,92. La temperatura di
esercizio del digestore è pari a 30 °C, con tempo di permanenza di 20 giorni.
Si ammette un apporto di BOD di 54 g/ab x giorno, di cui 19 sedimentabili con un rendimento di
sedimentazione primaria pari al 90%.

Svolgimento:

Nelle condizioni fissate si può considerare una produzione di fanghi di 0,9 kg SS/kg BOD rimosso.
Per una percentuale di solidi volatili del 70% e un contenuto di carbonio nella sostanza volatile del
55% la quantità di carbonio nei fanghi di supero risulta:

(54 - 0,9 x 19) x 0,92 x 0,9 x 0,70 x 0,55 = 11,76 g C/ab x giorno.

Per un rapporto No/Co = 0,207 il coefficiente x è pari a 0,0094 °C-1.:


Utilizzando quindi gli stessi valori di K1, a, t e R dell'esempio precedente, risulta:

gt = 1,866 x 0,75 (1 - 0,775 + 10-0,0094 x 30) (1 - 10-0,0094 x 7,72 x 20) = 0,803 l/g di C

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La produzione riferita all'abitante è quindi pari a:

0,803 x 11,76 = 9,44 l/ab x giorno

Dal confronto con l'esempio 4, si osserva che in un impianto a fanghi attivi per liquami domestici il
gas prodotto della digestione dei fanghi secondari è circa la metà di quello prodotto dai fanghi
primari.

4.7 Caratteristiche del fango stabilizzato e dell'acqua del fango

Il processo di digestione comporta le seguenti trasformazioni del fango:


a) diminuzione del rapporto SSV/SST (solidi sospesi volatili/solidi sospesi totali) e
quindi della putrescibilità del fango;
b) aumento della concentrazione dei solidi, a seguito dell'ispessimento ottenuto
nel digestore e della conseguente estrazione di surnatante (possono ottenersi
valori di umidità pari al 90-92%, per fanghi solo primari, al 92-94% per fanghi
misti primari e da letti percolatori, del 93-95% per fanghi misti primari e da
impianti a fanghi attivi); quindi, a seguito della riduzione dei solidi totali e
dell'umidità, il volume di fango digerito subisce una netta diminuzione, rispetto
alla quantità alimentata;
c) miglioramento delle caratteristiche igieniche del fango; tuttavia la digestione non
è in grado di assicurare la completa distruzione degli agenti patogeni presenti,
anche se le condizioni esistenti nel digestore sono sfavorevoli al loro sviluppo.

Il surnatante separato nel corso della digestione (detto "acqua del fango") è
fortemente inquinato, soprattutto nel caso di impianti dotati di fase biologica; in
esso si possono infatti raggiungere valori di solidi sospesi, COD e BOD di parecchi
g/l, oltre che forti concentrazioni di ammoniaca e fosfati.
Ovviamente, il surnatante deve essere ricircolato nella linea acque, al fine
di venire sottoposto a trattamento depurativo; la piccola portata che lo
contraddistingue consente di non tenerne conto in fase di dimensionamento delle
unità di tale linea. Il punto di immissione del surnatante nella linea acque va scelto
tenendo presente la sua elevata putrescibilità; per limitare i possibili cattivi odori è
spesso consigliabile che la sua immissione avvenga direttamente nelle fasi
biologiche, ove è assicurato l'apporto di ossigeno.

4.8 Vasche Imhoff

Un caso particolare di digestione anaerobica del fango si ha nelle "vasche


Imhoff"; queste sono unità a due comparti, di cui il primo, superiore, assolve alla
funzione di sedimentazione, il secondo, inferiore, a quello di digestione del fango
ivi sedimentato (Fig.11).
Costruttivamente, i due comparti sono separati da un setto a V, munito di
feritoie, al fine di consentire la continuità idraulica dei comparti stessi; il refluo
passa nel comparto superiore, chiarificandosi lungo il percorso; i solidi che in tale
fase si separano scivolano lungo le pareti del setto, raggiungendo il comparto
inferiore attraverso le feritoie di cui il setto è dotato; uno dei due lati del setto (o
entrambi) è configurato in maniera tale da impedire la risalita delle bolle di biogas

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fino all'interno del comparto di sedimentazione (che sarebbe quindi disturbato


dalla risalita stessa), obbligandone la deviazione lateralmente al setto stesso; il
comparto inferiore di digestione ha il fondo a tramoggia, al fine di consentire
l'accumulo e il prelievo del fango stabilizzato.
Il dimensionamento del comparto di sedimentazione viene eseguito con gli
stessi criteri già visti per i sedimentatori (fissando un tempo di detenzione idraulico
di circa 2 ore). Il comparto di digestione viene dimensionato fissando il volume
specifico per abitante servito: sono usuali capacità di circa 40-50 l/ab, nel caso di
impianti di sola sedimentazione, e di 100 l/ab, quando la vasca funga da
sedimentatore finale, a valle di un trattamento biologico (letto percolatore); occorre
in ogni caso verificare che il livello massimo di fanghi sia almeno 40 cm inferiore
alla quota delle feritoie, al fine di evitare il rischio di risalita di fango nel comparto
superiore.
Le vasche Imhoff trovano vasta applicazione nel trattamento dei reflui
prodotti da case sparse o piccole comunità; in questi casi esse fungono da
sedimentatori primari, per cui i rendimenti da esse garantito sono commisurabili a
tale tipo di operazione.
Non mancano però esempi di utilizzazioni di vasche Imhoff all'interno di veri
e propri impianti di depurazione, con la funzione sia di sedimentatori primari, sia di
sedimentatori finali; in entrambi i casi, i fanghi in esse prodotti sono stabilizzati
nella stessa vasca, per cui la linea fanghi che ne deriva è estremamente
semplificata; non va però trascurato che tale sistema non è adottabile per i
trattamenti a fanghi attivi, in quanto non consentono di operare il ricircolo del
fango.
I lunghi tempi di detenzione del fango nel comparto di digestione ne
garantiscono la completa stabilizzazione; è tuttavia necessario procedere alla sua
periodica estrazione, con frequenza di 1-2 volte l'anno, per le piccole applicazioni,
o maggiore, qualora le vasche siano inserite all'interno di impianti di depurazione.

Fig.11 - Vasca Imhoff a pianta rettangolare

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5. DISIDRATAZIONE DEI FANGHI

5.1 Generalità

Scopo della disidratazione è la riduzione dell'umidità del fango, al fine di


conferirgli una consistenza "paleggiabile", tale cioè da essere movimentabile con
pale (manuali o preferibilmente meccaniche); in pratica, tale condizione di
raggiunge riducendo l'umidità dai valori prossimi al 95%, tipici del fango già
stabilizzato, al 60-70%, poco superiore quindi a quella di un terreno agrario o di un
rifiuto solido.
Le modalità di disidratazione sono riconducibili a due tipologie differenti:
a) naturale: fa uso di processi naturali, in cui l'acqua è separata sia per filtrazione
di un letto di sabbia, sia per evaporazione;
b) meccanica: in questo caso si sottopone il fango a filtrazione, sotto un gradiente
di pressione, o a centrifugazione, che consentono la separazione dell'acqua dai
solidi in tempi brevi.
In linea di massima, si può dire che i sistemi naturali presentano numerosi
vantaggi: semplicità, economia, elevata efficienza di disidratazione; tuttavia essi
richiedono grandi superfici, che li rendono inapplicabili per gli impianti di
potenzialità medio-grande. Va detto anzi che c'è oggi la tendenza ad abbandonare
la disidratazione naturale anche negli impianti di potenzialità inferiori, al fine di
ridurre al minimo l'ingombro degli impianti stessi. Percontro, una buona abitudine è
quella di prevedere tale sistema col ruolo di emergenza, nel caso di impossibilità di
utilizzare il trattamento meccanico.

5.2 Disidratazione naturale

Quando esiste la disponibilità di aree sufficientemente ampie, la


disidratazione con sistemi naturali risulta notevolmente vantaggiosa. In questo
caso vengono realizzati "letti di essiccamento", costituiti da bacini rettangolari, con
fondo impermeabile, al di sopra del quale è formato un letto drenante, costituito da
pietrisco di varia pezzatura (dell'altezza di 30-40 cm) e sabbia (15-30 cm), sul
quale il fango viene disposto a strati di 15-30 cm (Fig.11). La superficie totale
necessaria è ricavata realizzando più letti, fra loro contigui, funzionanti in parallelo.
Il tempo necessario per raggiungere la consistenza paleggiabile varia da
poche settimane ad alcuni mesi, a seconda del tipo di fango e, soprattutto, delle
condizioni climatiche.
La rimozione dell'acqua avviene in due fasi: nella prima, che dura pochi
giorni, l'acqua viene drenata attraverso il letto, mentre nella seconda prevale
l'evaporazione dalla superficie del fango; è pure possibile prevedere la copertura
dei letti, al fine di proteggerli dalle acque piovane.
In genere, se il fango è stato sottoposto a una corretta fase di
stabilizzazione, non sono da temere pericoli di sviluppo di cattivi odori.
Il fango disidratato viene asportato dalla superficie dei letti ed avviato allo
smaltimento finale (di solito in discarica); tale operazione, specie se eseguita con
pala meccanica, comporta l'asportazione di uno strato superficiale del letto
drenante, che va quindi periodicamente ripristinato.

Il dimensionamento dei letti di essiccamento può essere eseguito


applicando criteri di tipo empirico; fra i più adoperati ci sono quello che fa

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riferimento alla superficie specifica del letto, per abitante servito, e quello in
funzione del carico di sostanza secca applicato su base annua per unità di
superficie del letto (vedi Tab.3).

Tipo di fango Superficie specifica [m2/ab] Carico di s.s. [kgSS/m2xanno]


Fango primario 0,10 - 0,15 120 - 200
Fango primario + secondario 0,15 - 0,25 60 - 100

Tab.3 – Criteri di dimensionamento dei letti di essiccamento

La procedura di dimensionamento può essere così sintetizzata:


a) calcolo della superficie totale necessaria STOT:

S TOT =
SS
CF
[m ] 2

b) calcolo spessore totale teorico del fango HTOT:

VF
HTOT = [m]
S TOT

dove VF è il volume di fango da disidratare (già stabilizzato), calcolabile con la


seguente espressione, in cui SS è la portata di sostanza secca alimentata
giornalmente e u l’umidità del fango non ancora disidratato (≈ 0,9):

SS
VF =
1000(1 − u)

c) si fissa lo spessore H di una applicazione di fango (circa 0,30 m);


d) si calcola il numero di applicazioni per anno N:

HTOT
N=
H

e) si verifica che la durata dell’applicazione sia compatibile con i tempi necessari


per la disidratazione (funzione delle caratteristiche meteoclimatiche del sito
dell’impianto); se così non fosse, si aumenterà tale durata, riducendo il numero
di applicazione (in pratica aumentando lo spessore della singola applicazione o
la superficie complessiva dei letti).
f) si calcola infine il volume dei fanghi disidratati VD e dell’acqua di fango VA da
ricircolare all’interno dell’impianto, con le seguenti espressioni in cui ud è
l’umidità del fango disidratato (≈ 0,6):

Pf SS
VD = = VA = Vf − Vd
γ f 1000(1 − u d )

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5.3 Disidratazione meccanica

La disidratazione meccanica dei fanghi può aver luogo per filtrazione o


centrifugazione; appresso sono descritte le principali tecnologie utilizzabili a tale
scopo.
In ogni caso, il fango va preventivamente sottoposto a "condizionamento",
mediante l'aggiunta di agenti chimici coagulanti, quali cloruro ferrico, con o senza
calce, alluminio cloridrato o polielettroliti; ciò comporta un aumento di circa il 10%
del peso del fango da sottoporre a disidratazione e successivo smaltimento.

5.3.1 Filtropresse

Una filtropressa (Fig.12) è costituita da una serie di piastre metalliche


coassiali, aventi sagoma tale da consentire la formazione di una camera, fra due
piastre contingue; quando le piastre sono fra loro accostate, il fango viene
pompato a pressione (fino a 20 atm) all'interno delle camere; qui, per effetto
dell'elevata pressione, si ha la separazione dei solidi, che rimangono intrappolati
nelle camere, e la fase liquida, che filtra attraverso le tele che rivestono le piastre
e viene espulsa tramite canali di drenaggio, aperti nelle piastre stesse; terminata
la fase di compressione del fango, si passa all'apertura delle piastre e al distacco
degli strati di fango ("panelli"), aventi spessore di alcuni cm, rimasti intrappolati fra
le piastre stesse; infine si procede al lavaggio delle tele filtranti, per evitare la loro
progressiva occlusione.
L'operazione di filtrazione avviene quindi in discontinuo, con successive
cariche di fango nelle filtropresse; ciascun ciclo ha una durata di alcune ore.

5.3.2 Nastropresse

La disidratazione mediante nastropressa ha notevole applicazione, specie


negli impianti di potenzialità medio-piccola, dove ha progressivamente sostituito la
disidratazione naturale.
In una nastropressa (Fig.13) la disidratazione avviene in due fasi: nella
prima, il fango appena versato al di sopra della tela è sottoposto a drenaggio
(talvolta anche leggermente sottovuoto), con un aumento della concentrazione di
solidi di 2-3 volte (con contenuto di SS anche del 10%); nella seconda fase, il
fango viene compresso fra le due tele (con pressioni non superiori a 1-1,5 atm),
con un ulteriore notevole aumento della concentrazione di solidi; nel tratto finale, il
fango ormai disidratato è sottoposto ad un'azione di taglio, dovuta al movimento
relativo e alla curvatura delle due tele.
Il liquido separato dal fango, filtrato dalle tele, ricade in una tramoggia al di
sotto della macchina, dove viene raccolto e smaltito; anche in questo caso,
occorre procedere al periodico lavaggio delle tele, per evitare l'intasamento.

5.3.3 Filtri a vuoto

Nella filtrazione sotto vuoto la forza motrice è costituita dalla depressione a


cui è sottoposta una delle due facce del telo filtrante, che è montato su un tamburo
rotante immerso per circa 1/3 del diametro (Fig.14); diverse sono le modalità per
applicare tale depressione, in genere prossima a 0,5 atm, con e senza celle di
aspirazione.

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5.3.4 Centrifughe

Tale tecnica ha trovato larga diffusione, grazie al modesto ingombro delle


macchine utilizzate, che presentano pure il vantaggio di essere totalmente chiuse
(Fig.15).
Il fango è alimentato all'interno di un cilindro rotante ad elevata velocità (da
1.400 a 3.000 giri/min); la centrifugazione del fango consente la separazione
dell'acqua di fango ("centrato") dai solidi che si depositano sulla parte periferica
del tamburo, da cui vengono sospinti al di fuori del tamburo a mezzo di una coclea
anch'essa rotante a velocità lievemente superiore a quella del tamburo.

5.3.5 Criteri di scelta e di dimensionamento

Si è già detto che il ricorso al trattamento meccanico dei fanghi tende ad


essere applicato sempre più, anche in campi di intervento ove sarebbe possibile
fare ricorso ai sistemi naturali; è infatti così possibile ridurre gli spazi occupati
dall'impianto di depurazione e conseguire maggiori garanzie di contenimento di
odori.
Nel campo delle potenzialità d'impianto medio piccole (qualche migliaio di
abitanti, fino al alcune decine di migliaia) è frequente l'uso di nastropresse e
centrifughe; le filtropresse sono invece più idonee per impianti di potenzialità
medio-grandi, dove peraltro è più sentito il problema di ridurre il volume dei fanghi
da smaltire, che in questo caso risulta minimo, grazie alla maggiore efficienza di
disidratazione delle filtropresse.
I filtri a vuoto sono oggi meno usati, per la maggiore delicatezza di tali
macchine e per l'elevata tecnoclogia raggiunta nelle soluzioni a queste alternative.

Il dimensionamento di ciascuna apparecchiatura viene in genere eseguita


facendo ricorso a coefficienti specifici di natura empirica, che tengono conto della
portata di fango (o del carico di solidi) alimentabile per unità di superficie (per
filtropresse e filtri a vuoto) o di larghezza del telo filtrante (per la nastropressa); per
le centrifughe si può fare invece riferimento alla potenza della macchina.

Nella seguente tabella sono riportatati valori tipici dell'umidità, del carico
specifico alimentabile e del consumo specifico, per ciascun tipo di macchina:

umidità [%] carico specifico consumi [Wh/hìkgSST]


filtropressa 60 - 65 3 -5 kgSST/m2xora 30 -60
nastropressa 65 - 75 100 - 300 kgSST/mxora 10 - 20
filtro a vuoto 70 - 80 5 - 30 kgSST/m2xora 40 - 80
centrifuga 75 - 80 - 30 - 60

Elementi di confronto, che possono indirizzare nella scelta fra le varie


tipologie di trattamento, sono:
a) un elevato tenore di secco (comparabile con quello dei sistemi naturali) è
ottenibile solo con le filtropresse; rendimenti inferiori (fra loro simili) sono
garantiti dalle rimanenti soluzioni;
b) le centrifughe si prestano bene ove sia rilevante il problema dell'ingombro della
macchina (p.e. nel potenziamento di impianti esistenti) e dell'isolamento del
fango dall'esterno;

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c) le nastropresse si presentano di facile manutenzione e basso consumo; ciò


giustifica la loro fequente applicazione anche per piccoli impianti.

(a)

(b)

(c)

Fig.12 - Letti di essiccamento; viste (a, b) e sezione trasversale (c)


(Legenda: 1ghiaia; 2 sabbia; 3 dreno; 4 fango)

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Fig.13 - Filtropressa

Cndizionamento Drenaggio Pressaggio e taglio


chimico per gravità

Zona 1 Zona 2 Zona 3

Fango condizionato
(a)
Fango Doccetta di lavaggio

Fango
disidratato
Polimeri
Filtrato

Acqua di lavaggio

(b)

Fig.14 – Nastropressa. (a) sezione-tipo con schema di funzionamento; (b)


veduta fotografica (doc. Della Toffola)

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Intelaiatura interna
Tela filtrante
Indicatori di pressione
Doccette di lavaggio

Uscita del filtrato

Valvola di sfiato
Tamburo

Fango disidratato
Livello del fango Motore agitatore
Tramoggia Agitatore

Fig.15 - Filtro a vuoto

Fig.16 - Centrifuga

Infine, va osservato che la portata di fango da adottare per il


dimensionamento del sistema di disidratazione meccanico è superiore a quella del
fango digerito; infatti occorre tener conto sia dell’aumento di sostanza secca
dovuta all’aggiunta di coagulanti per il condizionamento del fango, che si ritrovano
quindi nel fango da disidratare, sia dei reali tempi di funzionamento delle
apparecchiature. In particolare, queste sono solitamente messe in funzione in
presenza di addetti, per cui il loro tempo di funzionamento va ricavato a partire dal
numero di turni (giornaliero e settimanale) del personale di gestione dell’impianto,
al netto dei tempi necessari per le attività di esercizio e manutenzione delle
apparecchiature stesse (lavaggio dei teli, avvio delle pompe, etc.).
In pratica, la portata del fango alimentata può essere ricavata con la
seguente espressione:
24 7 ⎡ kgSS ⎤
SSD = αSS ⎢ ora ⎥
Nh Ng ⎣ ⎦
con:

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SS portata ponderale di sostanza secca alimentata al sistema di disidratazione,


in kg/ora;
α coefficiente di incremento per tener conto dell’aggiunta degli agenti
coagulanti (≈1,1);
Nh numero di ore/giorno di funzionamento effettivo del sistema di disidratazione
(per 1 turno/giorno di lavoro Nh≈6 ore/giorno);
Ng numero di giorni/settimana di utilizzazione del sistema di disidratazione (per
1 turno/giorno di lavoro Ng=5 giorni/settimana).

6. SMALTIMENTO FINALE DEI FANGHI

La modalità più frequente di smaltimento finale dei fanghi prodotti in un


impianto di depurazione è quella che prevede il loro conferimento in discarica, in
cui essi sono confinati. Nettamente minori sono le forme di smaltimento previo
trattamento termico (essiccazione o incenerimento).
Nel caso dello smaltimento in discarica, sono utilizzabili quelle per “rifiuti
non pericolosi” (ex discariche di 1a categoria), termine con cui sono definite
dall’attuale normativa (D.lgs. 36/2003) le discariche idonee allo smaltimento dei
rifiuti urbani (RU) e/o dei rifiuti a questi assimilabili (RUA), fra cui la norma
individua per l’appunto anche i fanghi di depurazione.
Tuttavia, se da un lato la composizione dei fanghi rende questi comparabili
coi RU, percontro la loro consistenza (specie in termini di umidità, spesso
superiore a quella dei RU) può comportare problemi di gestione della discarica,
per via delle potenziali soluzioni di continuità che lo smaltimento alternato di fanghi
e RU potrebbe generare all’interno del corpo della discarica, con possibili pericoli
di stabilità di questa; per tale motivo, è opportuno, qualora sia previsto lo
smaltimento combinato dei fanghi e dei RU, prevedere una loro miscelazione, a
monte della sistemazione in discarica; ovviamente tale problema è trascurabile,
qualora i fanghi costituiscano solo un’aliquota trascurabile dei RU.

In alternativa allo smaltimento finale, è possibile fare ricorso all'utilizzo dei


fanghi di depurazione, generalmente a scopo agricolo. A tale scopo il fango può
essere utilizzato già stabilizzato, o in forma liquida (cioè senza disidratazione),
oppure già disidratato; è invece da escludere la possibilità di uso di fango non
stabilizzato, per i problemi di carattere igienico e ambientale (inquinamento,
produzione di cattivi odori, etc.) che esso potrebbe provocare.
L'uso di fango liquido, se da un lato presenta il vantaggio di una maggiore
assimilabilità dei nutrienti da parte dei vegetali e della possibilità di prevedere
sistemi di distribuzione in pressione, dall'altro risulta poco adoperato, per le
difficoltà di distribuzione a lunga distanza e per le migliori garanzie igieniche in
genere raggiungibili con fango disidratato; di solito, quest'ultimo caso appare di
maggiore interesse applicativo.

In generale, l'uso agricolo dei fanghi di depurazione ha per obiettivo lo


sfruttamento del contenuto di sostanza organica e di micro e macronutrienti in
questi presenti; ciò consente il miglioramento delle caratteristiche dei terreni e la
riduzione del ricorso a fertilizzanti convenzionali anche di natura chimica.
Percontro, la composizione dei fanghi può comportare problemi, per
carenza di taluni nutrienti. In particolare, per quanto riguarda i principali nutrienti

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(azoto, fosforo e potassio), va detto che i fanghi di depurazione presentano una


elevata presenza di azoto (circa 3% in peso sul secco), a fronte di modeste
quantità di potassio (circa 0,5%); valori intermedi si riscontrano per il fosforo
(1,8%); per tale motivo il fango di depurazione è generalmente classificato come
“ammendante” dei terreni, mentre per poterlo considerare un “fertilizzante” occorre
procedere a una sua additivazione mediante l'aggiunta di composti nutrienti
(potassio e anche fosforo).
Ulteriore problema può derivare dalla presenza nel fango di composti che,
se dosati in quantità elevate, possono comportate pericoli sia per i vegetali, sia per
lavoratori o consumatori. La presenza di metalli pesanti (cromo, nichel, cadmio,
rame, zinco, mercurio, etc.) può comportate effetti di fitotossicità nelle piante,
nonchè di bioaccumulazione (negli animali); è pertanto necessario un controllo
tanto della loro concentrazione nei fanghi (specie se questi derivano dalla
depurazione di reflui di natura anche produttiva), quanto delle quantità
complessivamente somministrate al terreno agrario (infatti l'effetto di accumulo
deriva dal superamento della capacità assimilativa delle piante, per le quali tali
composti, se in piccole quantità, costituiscono elementi nutrienti).

Le quantità annue generalmente applicabili sul terreno agrario variano fra 5


e 50 t/haxanno (in termini di sostanze secche), rispettivamente per applicazioni
estensive e intensive. Ciò corrisponde a una quantità di fango applicata variabile
tra 15 e 150 kg/haxanno, per umidità del fango stesso comprese tra il 60 e il 70%.

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Bibliografia:

Bonomo L. (2008) Trattamenti delle acque reflue. Ed. McGraw-Hill.

Eckenfelder W.W. jr. (1993) Tecnologie di trattamento dei reflui industriali. Ed.
Etaslibri.

Masotti L. (1987) Depurazione delle acque. Ed. Calderini, Bologna.

Metcalf & Eddy (1991) Wastewater engineering: treatment, disposal, reuse.


McGraw-Hill Int. Editions.

Negulescu M. (1985) Municipal waste water treatment. Developments in water


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Passino R. (1980) La conduzione degli impianti di depurazione delle acque di


scarico. Ed. ESAC, Roma.

Vismara R. (1982) Depurazione biologica. Ed. Hoepli, Milano.

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