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Autostrade, privatizzazione andata e ritorno1

di Laura Galvagni e Giovanni Valotti

Autostrade, la privatizzazione

La fine degli anni Novanta è un periodo chiave per l’Europa. Sta nascendo l’Unione monetaria: una
grande sfida che necessita di regole comuni e di un rilevante sforzo. Anche l’Italia deve fare la propria
parte e il compito non è dei più semplici. Anzi: per entrare nel perimetro dei “virtuosi” e dunque della
moneta unica, deve risanare il bilancio o quantomeno rimetterlo su un binario di sostenibilità. È
Bruxelles che lo chiede e il governo dell’epoca, siamo nel 1997, guidato da Romano Prodi non può fare
altrimenti. Il rapporto deficit/PIL va portato sotto la fatidica soglia del 3%. Per raggiungere l’obiettivo
viene messa in agenda una massiccia campagna di privatizzazioni, oltre alla famosa Eurotassa. In questo
contesto il governo decide anche la vendita di Autostrade, che all’epoca controllava circa 2.800
chilometri di rete, fatturava quasi 1,6 miliardi di euro l’anno e aveva un margine operativo lordo di poco
inferiore a 1 miliardo. Già nel 1997 dunque si comincia a ragionare su come cedere il controllo del primo
concessionario autostradale del Paese, che faceva capo all’IRI, l’Istituto per la ricostruzione industriale. Il
vero tema diventa semmai come rendere l’asset appetibile per i potenziali investitori con l’obiettivo di
massimizzare l’incasso. Il primo passaggio quindi è rivedere i termini della convenzione, cioè del
“contratto” stretto tra l’Ente concedente - l’ANAS, società di Stato nata nel 1946 per ricostruire la rete
viaria distrutta dalla guerra e poi referente pubblico per la gestione di tutte le arterie stradali – e il
concessionario, cioè Autostrade, responsabile della gestione della rete, della sua manutenzione e del
suo sviluppo attraverso nuovi investimenti. Nell’agosto di quell’anno, proprio questo contratto registra
due novità significative. Innanzitutto la concessione sarà più lunga, tanto che viene prorogata dal 2018 al
2038, diventando di 40 anni anziché di 20; in secondo luogo viene introdotto un nuovo algoritmo per il
calcolo degli adeguamenti tariffari, ossia la formula del cosiddetto “price cap”. Si tratta di un
meccanismo con più variabili che lega gli incrementi del pedaggio pagati dagli utenti al casello a tre
fattori: l’inflazione, la variazione della produttività e la qualità del servizio. In altre parole, la tariffa si
muove in sintonia con il “carovita”, l’andamento del traffico e lo stato della rete. Il piano economico
finanziario allegato alla concessione assicura un TIR (tasso interno di rendimento) netto di poco
superiore al 7%: previsioni fin troppo poco ottimistiche visto che poi a regime si supererà il 12%. Sulla
scorta delle condizioni di ingresso, sul tavolo del Governo arrivano 11 manifestazioni di interesse.
Tuttavia, non appena si passa alla richiesta di un’offerta vincolante, il quadro muta sensibilmente:
dall’altra parte del tavolo resta di fatto solo Schema28, ossia il veicolo finanziario controllato dalla
Edizione dei Benetton e partecipato da altri investitori tra i quali UniCredit e la Fondazione Cassa di
Risparmio di Torino. Il fuggi fuggi è dettato dall’incertezza regolatoria, ossia dal timore che lo Stato possa
cambiare le regole sui pedaggi negli anni successivi. Cosa che, nel caso, avrebbe modificato
sensibilmente la reddittività dell’operazione. I Benetton decidono però di andare avanti lo stesso e parte
la trattativa con l’IRI.

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Il presente caso didattico sintetizza quanto illustrato nel volume di L. Galvagni “Autostrade in frantumi. Il crollo
del ponte Morandi e non solo: tra finanza e politica. Una storia tipicamente italiana”, Ed. Rizzoli 2021.
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I Benetton unici offerenti

In realtà la storia della privatizzazione della rete autostradale italiana era cominciata molto prima: verso
la fine degli anni Ottanta sul mercato era già stato collocato un pezzo del capitale della concessionaria, il
26,8% delle azioni privilegiate. Così, proprio in vista della grande asta, nel 1998 quel pacchetto viene
trasformato, con un concambio alla pari, in titoli ordinari equivalenti complessivamente al 13,4% di
Autostrade. In virtù di questo, l’anno successivo l’IRI avvia la seconda fase: vendere quel che resta in
Borsa tramite un’Offerta Pubblica di Vendita. Ma, prima di farlo, ha bisogno di accertarsi che almeno
una parte consistente delle azioni finisca in mani “amiche”, cioè in capo a una sorta di nocciolo duro che
tenga le redini e contrasti efficacemente le potenziali ambizioni straniere su un asset cruciale per il
Paese.
A livello politico, istituzionale ma anche manageriale, il pensiero corre subito ai Benetton. D’altra parte
la dinastia, assieme a Leonardo Del Vecchio, patron di Luxottica, aveva già partecipato con enorme
successo alla privatizzazione della SME, rilevando Autogrill e i supermercati GS. E’ altrettanto scontato
che Ponzano Veneto – dove Gilberto Benetton poteva contare sul braccio destro Gianni Mion e sul
fondatore di Tim, Vito Gamberale - prendesse in considerazione la cosa sebbene, almeno all’inizio, lo
spirito non fosse quello di giocare un ruolo da primattori ma di rilevare appena un 4% della
concessionaria. Poi però la famiglia decise di diventare l’azionista chiave del consorzio Schema28 al
quale, come detto, parteciparono la Fondazione CRT, socio forte di UniCredit, UniCredit stessa, le
Generali, Brisa, concessionaria autostradale portoghese, e Acesa (poi Abertis), gruppo autostradale
spagnolo che ritroveremo più avanti. La cordata rilevò il 30% di Autostrade e i Benetton si dichiararono
pronti a diluirsi non appena si fossero presentati nuovi investitori. Così non fu. Anche perché in sede di
collocamento quasi tutte le azioni non acquistate Schema28, ossia il 56,6% della società finito sul
mercato, fu assorbito dai piccoli azionisti. I grandi investitori istituzionali si mantennero assai defilati,
forse anche perché più interessati alla privatizzazione di ENI che procedeva, se non in parallelo,
comunque con tempistiche assai concomitanti.
Questo dimostra che, quando lo Stato decise di vendere Autostrade, non c’era la fila di soggetti pronti a
rilevare la società. Tutt’altro.

I conti della privatizzazione

Per comprendere a fondo quanto avverrà negli anni successivi, è necessario mettere bene a fuoco i
numeri e la ratio della vendita di Autostrade. Si è trattato di un’operazione realizzata in due mosse. Si
parte con il collocamento in Borsa del 56,6% che viene effettuato a dicembre 1999 a un prezzo di 6,75
euro ad azione, inferiore a quello che era il tetto massimo della forchetta di prezzo indicata dagli advisor
(7 euro) e anche al valore a cui quotava a Piazza Affari la società nei giorni precedenti l’offerta, ossia
circa 6,8 euro. Questo primo passaggio porta nelle casse dello Stato circa 4,4 miliardi di euro. A marzo
del 2000 si compie il secondo step, finalizzando l’accordo già raggiunto nell’ottobre del 1999 per
l’ingresso di Schema28. Cambia però il prezzo: al veicolo viene chiesto di pagare 7,09 euro per ciascun
titolo. Valore che significa un incasso per lo Stato di altri 2,5 miliardi di euro. In tutto, insomma, la
cessione del controllo di Autostrade ha fruttato alle casse pubbliche poco meno di 7 miliardi di euro.
I conti, precisi, li farà qualche anno dopo Gian Maria Gros-Pietro. Nel 2004 il manager-banchiere in quel
momento presidente di Autostrade dichiarò, come riportato da «Il Sole 24 Ore» del primo ottobre 2004,
che per la società ci fu «la più alta valutazione riconosciuta per un asset dello Stato italiano». Ai poco
meno dei 7 miliardi incassati dall’IRI andavano infatti sommati gli 1,1 miliardi della quota finita in
precedenza sul mercato. Insomma, circa 8 miliardi in tutto. «Questo valore corrisponde a un multiplo di
9,4 volte il margine operativo lordo (MOL) della società. Più bassi i multipli tra valorizzazione e MOL di

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altre dismissioni: 7,2 volte l’ENI su cinque tranche, 5,4 volte l’ENEL su due tranche, 3,4 volte per Telecom
Italia» disse.
La sua fu una presa di posizione netta, frutto della necessità di placare le voci di chi già al tempo
sosteneva che con la privatizzazione di Autostrade fosse stato fatto un regalo ai Benetton. Ma, con il
senno di poi, forse quel prezzo non era poi così a “sconto”. La cordata guidata da Cassa Depositi e
Prestiti (in cui figurano anche due grandi fondi internazionali come Blackstone e Macquarie) nel 2021 ha
raggiunto un accordo per rilevare Autostrade valorizzandone il 100% circa 9,3 miliardi. Certo, c’è un
rilevante “effetto Morandi” da scontare. Eppure se si guarda il bilancio 2018 della società, l’ultimo a
essere stato impattato solo parzialmente dagli effetti del disastro di Genova, l’azienda fatturava oltre 4
miliardi e aveva un margine operativo lordo appena inferiore ai 2 miliardi, valori che sono entrambi il
doppio rispetto al 2000.

La finanziarizzazione dell’azienda e l’Opa a debito

L’acquisizione di Autostrade da parte della famiglia di Treviso va tuttavia incasellata tra le più classiche
operazioni a leva, ossia quelle che sfruttano il ricorso al debito e a un’articolata rete di società per
esercitare il controllo possedendo in sostanza una quota tutto sommato limitata dell’asset.
Il tutto – come detto – è avvenuto attraverso un veicolo, Schema28, che faceva capo per il 60% a
Edizione Holding (cioè la famiglia Benetton); e partecipato poi da Fondazione Cassa di Risparmio di
Torino con il 13,33%, UniCredit e Ina (Generali) entrambi con il 6,67%, e stranieri come Acesa (l’attuale
Abertis), con il 12,83%, e Brisa (concessionario portoghese) con lo 0,50%. Un primo passaggio chiave si è
realizzato il 24 novembre 1999, ossia a monte dell’acquisizione vera e propria di Autostrade. Quel giorno
i Benetton conclusero un piccolo riassetto in casa: trasferirono il 60% di Schema28 da Edizione Holding
alla lussemburghese Edizione Finance Sa. Sarà quest’ultima, nei mesi successivi, a sottoscrivere i due
aumenti di capitale necessari a Schema28 per l’acquisto del 30% di Autostrade, poi avvenuto il 9 marzo
2000. In tutto il veicolo sborsò 4870 miliardi di lire, circa 2,5 miliardi di euro, di cui 1,3 miliardi di mezzi
propri e 1,2 miliardi di prestiti concessi dalle banche. Ma quale fu l’impegno concreto di Edizione
Finance? Il 60% di 1,3 miliardi, dunque circa 800 milioni di euro. I Benetton, tuttavia, fecero a loro volta
un massiccio ricorso al debito, per circa 690 milioni di euro, limitando l’impiego di capitali a 110 milioni.
Il debito venne poi ripianato velocemente sfruttando la plusvalenza generata con la vendita, sempre nel
2000, dei supermercati GS, acquistati dallo Stato in asse con Leonardo Del Vecchio nel 1994, ai francesi
di
Carrefour. Quell’operazione generò in capo solo ai Benetton un guadagno netto di circa 1 miliardo di cui
una quota venne impiegata per rimborsare il debito contratto per entrare in Autostrade. Una
privatizzazione che in pratica ha finanziato un’altra privatizzazione, destinata a portare utili ancora
superiori. Perché, se la vendita di GS ha permesso di coprire interamente il fabbisogno per Autostrade,
lo stesso investimento nelle reti a pedaggio di fatto è stato recuperato nell’arco dei nove anni successivi.
Così, si può dire che nel 2009 i Benetton avevano già completamente spesato l’ingresso nella
concessionaria. Peraltro pur avendo inserito, nel mezzo, un’Offerta Pubblica di Acquisto che ha portato
Treviso al controllo totale del gruppo autostradale italiano.
Nel 2002 Autostrade cominciò infatti a suscitare l’interesse di altri investitori, tra cui anche alcuni hedge
fund, soggetti finanziari speculativi che sono a caccia di rendimenti elevati. Del resto, il controllo di
Autostrade, custodito in Schema28, veniva esercitato con una quota del 30% forse troppo risicata per
poter tenere salde le redini del gruppo e immaginare ambiziosi scenari di crescita all’estero. Serviva una
partecipazione più rotonda. Inoltre, Autostrade, stante il profilo reddituale garantito dalle tariffe,
avrebbe potuto far fronte senza particolari problemi a un indebitamento più elevato.
Così Ponzano Veneto decise di mettere al sicuro l’asset. Accadde nel 2003: attraverso un veicolo targato
Benetton, Newco28, venne lanciata un’Offerta Pubblica di Acquisto (Opa) su Autostrade. L’operazione

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ebbe successo: venne raccolto il 54,1% del capitale che, sommato al 29,7% già detenuto, portò l’insieme
ben oltre l’80%. Questo per un esborso complessivo di 6,5 miliardi di euro, tutti a debito. Archiviata
l’OPA c’era un secondo step, cruciale, da completare: andava “cancellato” l’indebitamento e
riorganizzata la struttura della società in modo tale da dare respiro “internazionale” alla compagnia. Il
primo passaggio fu realizzato con la fusione tra Newco28 e Autostrade: in questo modo tutti i denari
chiesti alle banche per finanziare l’offerta vennero scaricati nella società operativa che aveva margini e
profitti per ripagarli. Il secondo venne attuato con la separazione delle attività in concessione dal resto
del business: tutta la rete a pedaggio italiana venne trasferita in una nuova società, Autostrade per
l’Italia (Aspi), controllata al 100% dalla holding quotata denominata Autostrade (poi il 5 maggio 2007 il
CdA ne cambierà il nome in Atlantia), che a sua volta ora faceva capo a Schema28 per l’83,8%.
Tra il 2000 e il 2003 dunque Schema28, mettendo sul piatto concretamente 2,5 miliardi di euro, si
ritrovò a detenere oltre l’80% di una holding che aveva il 100% di Aspi. E quella holding, ora, poteva
guardare oltre i confini del Paese pur con un debito decisamente aumentato come conseguenza delle
manovre di riassetto. Non è tutto, a luglio 2004 il veicolo controllato dai Benetton vendette un primo
10% della nuova Autostrade incassando 893 milioni e a febbraio 2005 cedette un altro 2% per 262
milioni. Arrivarono dunque in cassa 1,155 miliardi di euro che, stando ai dati di R&S Mediobanca
dell’epoca, sommati ai dividendi incassati tra il 2000 e il 2009 da Schema28 (poco meno di 1,4 miliardi),
azzerarono di fatto l’esborso iniziale. In sostanza, in nove anni i Benetton si erano ripagati l’investimento
e controllavano Autostrade con una quota ben più rilevante rispetto all’inizio avendo trasferito buona
parte dei debiti contratti per completare il riassetto nella società operativa Autostrade per l’Italia.

Il ruolo degli spagnoli e lo scontro col Governo

Un altro snodo chiave della storia di Autostrade è sicuramente rappresentato dal tentativo di fusione
con l’omologa spagnola Abertis, avvenuto tra il 2006 e il 2007. Il consiglio della società fu chiamato ad
approvare un’operazione che prevedeva l’integrazione tra i due gruppi secondo un concambio di 1 a 1,
ossia per ogni titolo della vecchia Autostrade sarebbe stata consegnata un’azione della nuova entità;
previo però il pagamento di un dividendo straordinario di 3,75 euro ad azione per i soci del gruppo
italiano.
Dall’aggregazione sarebbe nata una realtà che sulla scorta dei 6700 chilometri di rete (tra Italia, Spagna,
Francia e Sudamerica) in gestione sarebbe diventata il principale operatore del settore in
Europa. La società avrebbe potuto contare su 6 miliardi di euro di ricavi e 3,8 miliardi di margine
operativo lordo e 20.000 dipendenti sparsi in 16 Paesi, e avrebbe garantito 15 miliardi di investimenti di
cui 11 in Italia. Un progetto sulla carta industrialmente valido, che tuttavia generò prima disappunto tra i
vertici di Autostrade e poi l’ostruzionismo sia del governo in carica sia della politica italiana in generale.
L’accordo prevedeva infatti, oltre alla quotazione della società sia a Milano che a Madrid, il
trasferimento della sede legale della nuova compagnia a Barcellona: le tasse dunque, certo non quelle di
Autostrade per l’Italia che restava nel Paese, ma quelle della holding, sarebbero state versate lì. Come
nome, inoltre, era stato scelto quello della società spagnola, Abertis. Il vertice avrebbe avuto due
presidenti, Isidro Fainé e Gian Maria Gros-Pietro, un amministratore delegato, Salvador Alemany Mas, e
due vicepresidenti, tra cui uno sarebbe dovuto essere Vito Gamberale.
E poi il dettaglio del dividendo. L’integrazione, che aveva come nome in codice “Progetto Gaucho”,
tradendo anche qui un chiaro riferimento alla Spagna, valeva per la Edizione della famiglia Benetton una
cedola di 644 milioni. Un passaggio che in molti interpretarono in maniera univoca: a sei anni dalla
privatizzazione, con buona parte dell’investimento spesato (ha investito complessivamente poco più di
1,5 miliardi, ha ricavato 700 milioni dalle cessioni dei pacchetti e ora si prepara a raccoglierne altrettanti
con l’extra cedola, dopo averne già ricevuti 400 nel tempo intercorso), i Benetton vendevano agli
spagnoli Autostrade e in prospettiva avrebbero valorizzato anche quel che avrebbero ricevuto della
nuova entità.

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La struttura azionaria della fusione prevedeva infatti che Schema28 avrebbe avuto il 24,9% della nuova
Abertis contro il 61% detenuto in Autostrade che in quel momento era una realtà più rilevante del
concessionario spagnolo.
Da qui l’opposizione del Governo dell’epoca e in particolare del Ministro delle Infrastrutture Antonio Di
Pietro che fece finire l’operazione su un binario morto, riportando tuttavia l’attenzione sulla delicata
tematica dividendi-investimenti, ossia sul fatto che buona parte dei ricavi da pedaggi venivano impiegati
dalla società per premiare gli azionisti anziché per rinnovare la rete. La fine dello scontro tra governo e
concessionaria, che vide peraltro anche l’Europa protagonista poiché intervenne per imporre
all’esecutivo italiano, sulla scorta del principio del “pacta sunt servanda”, di non cambiare le carte in
tavola a svantaggio del concessionario, portò alla scrittura di un nuovo contratto di concessione, che
tuttavia – dopo le critiche di diverse Autorità di controllo – venne definitivamente sdoganato solo nel
2008 con il famoso decreto “Salva Benetton”. Tre i concetti chiave previsti dal nuovo quadro normativo.
Innanzitutto un meccanismo tariffario più vantaggioso per i concessionari che riconosceva incrementi
annui non inferiori al 70% dell’inflazione reale da sommare a parametri di remunerazione degli
investimenti (in precedenza si usava invece il meccanismo del price-cap). In secondo luogo comparse il
famoso articolo 9-bis, tornato prepotentemente d’attualità dopo il crollo del Ponte Morandi: esso regola
infatti la delicata questione della revoca della concessione e stabilisce, per il concessionario, un corposo
rimborso pari in sostanza ai guadagni che l’asset garantirebbe fino alla scadenza del contratto. Infine, il
concedente (cioè Anas e poi dal 2013-2014 il Ministero delle Infrastrutture) ricevette precise prerogative
– diritti e doveri – per verificare il rispetto degli obblighi previsti dalla concessione, a partire dal tema
degli investimenti sulla rete.

Fatturato, dividendi e investimenti

L’esito di tutto questo, ossia della prima convenzione scritta per favorire la privatizzazione e della
seconda “sistemata” per incentivare la realizzazione di grandi opere infrastrutturali e per placare, tra le
altre cose, i malumori dell’Unione europea dopo lo scontro su Abertis, può essere ben rappresentato da
tre semplici numeri di Autostrade: i ricavi da pedaggi, che nell’arco di tempo considerato, quindi 2000-
2019, sono stati complessivamente pari a 52 miliardi; gli investimenti, che nello stesso periodo sono
risultati pari a 14,4 miliardi; e infine i dividendi, cioè gli utili distribuiti agli azionisti, che si sono attestati a
10,128 miliardi.
Questi numeri sono cruciali per capire e interpretare la parabola di Autostrade. Sono dati esclusivi,
elaborati per “Autostrade in frantumi” da R&S Mediobanca, divisione dell’istituto di Piazzetta Cuccia
specializzata nell’analisi economico-finanziaria.
In pratica, le cedole valgono il 19,4% del giro d’affari prodotto negli anni presi in esame, mentre gli
investimenti il 27,7% del fatturato dello stesso periodo. Cifre importanti ma che, se analizzate
singolarmente, fanno comprendere ancora meglio quale sia stata l’involuzione del gruppo in termini di
interventi sulla rete e quanto invece sia cresciuta nel tempo la remunerazione dei soci.
Punto di partenza per comprendere meglio quello che si sta dicendo è osservare l’evoluzione dei ricavi
da pedaggio del gruppo Autostrade dal giorno della privatizzazione fino al 2019. Bene, quando i
Benetton sono diventati i primi azionisti, nel 2000, la compagnia generava grazie alle tariffe 1,745
miliardi di euro l’anno di giro d’affari. Diciannove anni dopo, la stessa società ha registrato 3,4 miliardi di
euro di fatturato grazie ai pagamenti al casello. Il motivo, stante il fatto che i chilometri di autostrade a
pagamento sono rimasti praticamente gli stessi, sta nella crescita del traffico ma soprattutto delle tariffe.
Rispetto al tema delle vetture in circolazione, come emerge dal libro di Giorgio Ragazzi, La svendita di
Autostrade, nel 2000 sulla rete della compagnia viaggiavano 41,8 milioni di veicoli per chilometro
all’anno. Se si guarda il bilancio 2019 di Autostrade per l’Italia quello stesso numero è salito a 51,4
milioni di vetture per chilometro. In pratica, in quest’arco temporale si può dire che il traffico sulla rete è
aumentato di circa il 23%. Un balzo importante ma che, da solo, non giustifica il raddoppio dei ricavi da

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pedaggio. Su questi, ovviamente, come detto ha inciso in larga parte l’aumento delle tariffe e solo in
misura inferiore l’inflazione.
Nello stesso periodo esaminato, la dinamica degli investimenti è ben diversa. Nel corso dei vent’anni
di cui parliamo Autostrade ha prodotto, a fronte di 52 miliardi di ricavi, ben 24 miliardi di flussi di cassa,
ossia di cash flow. Quest’ultimo è un indicatore fondamentale per comprendere lo stato di salute di una
compagnia. Non a caso nel mondo anglosassone spesso si dice: «Turnover is vanity; profit is
sanity; cash is reality», ossia il fatturato è pura vanità, l’utile ragionevolezza, ma la cassa è realtà.
Non è raro infatti che molte imprese, pur generando ampi margini di profitto, si trovino poi in sofferenza
sul fronte della liquidità. Se nel 2000 a fronte di 1,7 miliardi di ricavi la cassa era di 708 milioni, con
un’incidenza dunque del 40%, nel 2019 il dato mostrava una tenuta importante ed era di fatto lo stesso:
1,361 miliardi su 3,4 miliardi, ossia il 39,9%. Nel corso degli anni Autostrade, peraltro, ha raggiunto vette
ben più importanti, come nel 2017 quando, a fronte di 3,2 miliardi di fatturato da pedaggi, ha generato
ben oltre 1,6 miliardi di flussi di cassa. Tutto questo per dire che la compagnia negli anni ha sempre
avuto una solidità indiscussa che le avrebbe permesso di poter impegnarsi in misura rilevante anche sul
fronte degli investimenti.
Su questo aspetto, però, va segnalata una politica di investimenti a due velocità, con un rallentamento
iniziato nel 2013. Come detto, in 19 anni Autostrade ha investito in attività materiali e in concessione
14,4 miliardi di euro. Nei primi anni successivi alla privatizzazione l’impegno per la manutenzione e
la modernizzazione della rete è andato via via aumentando. Si è passati dai 191 milioni del 2000 (l’11%
del fatturato da tariffe) agli 1,338 miliardi del 2011 (il 45,7% del giro d’affari). Quello è stato l’anno, in
assoluto, che ha visto la società spendere di più in investimenti, complice anche il fatto che in quel
periodo la carne al fuoco era parecchia, dalla costruzione della Variante di Valico (59 chilometri di
direttissima tra Bologna e Firenze), poi inaugurata nel 2015, all’ampliamento di buona parte della rete
con la realizzazione di terze e quarte corsie. Tanto che, tra il 2009 e il 2012, sono stati spesi ben 4,85
miliardi, ossia il 33% di quanto investito tra il 2000 e il 2019. Fino al 2012, di fatto, gli interventi di
Autostrade sono sempre andati in crescendo.
Il volume degli investimenti ha cominciato a diminuire dal 2013. All’inizio ha certamente pesato il fatto
che buona parte delle opere straordinarie fosse prossima al completamento. Ma poi si è arrivati a
investire addirittura meno di quanto era stato messo sul piatto nel 2005: nel 2017 sono stati spesi 511
milioni contro i 640 milioni di 12 anni prima. Nel 2018 si è fatto poco di più, ossia 530 milioni, per
scendere di nuovo nel 2019 a 525 milioni.
Eppure il cash flow cresceva, i soldi in cassa dunque c’erano. E non a caso, nell’arco dei 19 anni, i
dividendi non hanno mai subìto un taglio. Se non a valle del Morandi. Dalla privatizzazione al 2019 sono
state staccati da Autostrade prima e da Autostrade per l’Italia poi 10,128 miliardi di dividendi. Fino al
2003, di fatto, come già detto, esisteva una sola società; poi, con la creazione di Aspi sono stati definiti
due livelli: la società operativa in Italia e la holding (poi ridenominata Atlantia) che doveva rappresentare
il veicolo per lo sviluppo internazionale. Da quando le due realtà sono state separate, Autostrade per
l’Italia ha versato all’azionista di controllo circa 9,2 miliardi di euro, mentre a sua volta Atlantia ha girato
ai propri soci 8,25 miliardi di euro.
Insomma, buona parte delle cedole staccate dalla holding è certamente frutto dei denari incassati dalla
concessionaria italiana, nonostante l’allargamento del portafoglio investimenti oltre i confini del Paese.
E d’altra parte, scorrendo la progressione del corso degli anni si vede come con il crescere dei ricavi
siano salite anche le cedole, sebbene in misura tutt’altro che proporzionale. Nel 2000 il dividendo
pagato è stato di 189 milioni contro un giro d’affari di 1,745 miliardi, ossia il 10,8%; nel 2016, anno in cui
è stato pagato il dividendo più alto, 775 milioni a fronte di 3,22 miliardi (il 24%). E con un balzo della
cedola, che nell’arco di sedici anni è cresciuta del 310% contro il +244% degli investimenti, passati dai
191 milioni della privatizzazione ai 657 milioni del bilancio 2016.
Un dato sintetizza tutto: se nel 2008 gli investimenti valevano quasi il doppio delle cedole
(rispettivamente 929 milioni e 508 milioni), nel 2018 le cifre erano pressoché identiche, ossia entrambe
di poco superiori ai 500 milioni.

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La tragedia del Ponte Morandi

Ritardi negli investimenti, livelli di manutenzione insoddisfacenti, grandi snodi ancora fermi. Il male del
sistema infrastrutturale del Paese, nel 2006, ruotava già tutto attorno a questi tre elementi. In quasi
quindici anni nulla è mutato, come dimostrano anche i numeri forniti da R&S Mediobanca. Da un lato,
infatti, l’inerzia dello Stato, alimentata dalla macchina burocratica, e dall’altro, una strategia aziendale
che nel tempo non ha saputo bilanciare interesse pubblico e privato hanno generato un costante ritardo
nello sviluppo della rete italiana. A scapito, peraltro, anche della sicurezza dei suoi utilizzatori.
Tutto questo è ben fotografato se si mettono a confronto due documenti chiave, datati rispettivamente
2006 e 2018: il primo è un’analisi realizzata dall’Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici chiamata a
indagare sulle ragioni dei ritardi negli investimenti sulle vie a pedaggio del Paese; il secondo è la perizia
dei consulenti del GIP Angela Maria Nutini sul crollo del Ponte Morandi che mette a fuoco come, a
partire da un vizio di costruzione, si sia giunti ai tragici fatti del 14 agosto 2018 nonostante i monitoraggi
e gli interventi di manutenzione effettuati negli anni.
Sono due documenti cruciali perché, sebbene di epoche diverse e nati per ragioni ben differenti, fanno
comprendere come da tempo i malanni delle autostrade italiane fossero sotto gli occhi di tutti, o
quantomeno dei decisori del Paese: la burocrazia che soffocava in culla i nuovi progetti, un controllore
che non controllava adeguatamente e un controllato (Autostrade) libero di operare nell’inerzia generale.
«La convenzione andrebbe rinegoziata prevedendo meccanismi per i quali l’interesse pubblico alla
corretta gestione e al potenziamento della rete autostradale gestita da Autostrade per l’Italia non debba
essere subordinato all’interesse privato del gruppo Autostrade», poi divenuto Atlantia. In questa frase
lapidaria è condensata la conclusione dell’indagine sulle convenzioni autostradali stipulate tra ANAS e
Autostrade svolta dall’Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici datata giugno 2006, prendendo in
esame il periodo tra il 1997 e il 2005. Il risultato: in questo lasso di tempo, «per il quale i piani finanziari
prevedevano investimenti per circa 4,1 miliardi di euro, se ne sono avuti per circa 2,2 miliardi», in
sostanza la metà.
Ma di chi sono le principali responsabilità? Di tutti e di nessuno. Tuttavia, al di là delle mancanze di
Autostrade e di ANAS, emerge un terzo fattore, il tallone d’Achille del Paese: la burocrazia. Che, per la
realizzazione di un’opera infrastrutturale implica «notevoli ritardi nella fase di concertazione con gli enti
locali in sede di conferenza dei servizi» e «abnormi tempi delle procedure autorizzative», si sottolinea. In
altre parole, «il prolungamento dei tempi e la lievitazione dei costi di esecuzione è ascrivibile per buona
parte a fattori esterni sia all’ANAS che ad Autostrade».
Ecco un caso di scuola. Il primo progetto della Variante di Valico, che oggi ha ridotto i tempi di
percorrenza sulla Bologna-Firenze del 30% circa, risale al 1982. L’opera venne inserita nella nuova
Convenzione del 1997 ma nel 2001 di fatto era ancora ferma e l’ultima autorizzazione amministrativa
per lo sviluppo dell’opera arrivò nel 2006. Il nuovo snodo appenninico venne poi effettivamente
inaugurato solo nel 2015. Le responsabilità di ciascuno si mettono nuovamente in fila nell’agosto 2018,
quando il Ponte Morandi collassa portandosi via la vita di 43 persone. Perché è crollato? I consulenti del
GIP ne sono sicuri e lo mettono nero su bianco nella perizia consegnata al giudice: «La causa scatenante
è il fenomeno di corrosione a cui è stata soggetta la parte sommitale del tirante Sud-lato Genova della
pila 9; tale processo di corrosione è cominciato sin dai primi anni di vita del ponte ed è progredito senza
arrestarsi fino al momento del crollo, determinando una inaccettabile riduzione dell’area della sezione
resistente dei trefoli che costituivano l’anima dei tiranti, elementi essenziali per la stabilità dell’opera».
In altre parole, come viene spiegato in un passaggio successivo, le ragioni della tragedia vanno ricercate
nelle varie fasi della vita del ponte che partono dalla progettazione e arrivano fino al crollo. E in questo
lasso temporale si è sommata una serie di concause che hanno condotto alla tragedia: i vizi di
costruzione, i controlli e gli interventi manutentivi che, «se fossero stati eseguiti correttamente, con
elevata probabilità avrebbero impedito il verificarsi dell’evento. La mancanza e/o l’inadeguatezza dei
controlli e delle conseguenti azioni correttive costituiscono invece gli anelli deboli del sistema; se essi,
laddove mancanti, fossero stati eseguiti e, laddove eseguiti, lo fossero stati correttamente, avrebbero
interrotto la catena causale e l’evento non si sarebbe verificato».

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Ma che cosa è successo esattamente nella famosa pila 9, il pilastro che ha innescato il crollo del
Morandi? «Il punto di non ritorno, oltre il quale l’incidente si è sviluppato inevitabilmente, è da
individuarsi nel momento in cui, per effetto della corrosione, si è innescato un fenomeno evolutivo che
ha determinato un elevato tasso giornaliero di rottura dei fili che avrebbe portato inevitabilmente al
collasso della struttura anche per effetto dei soli carichi permanenti”. Complice il fatto che nel corso
degli anni non sono state svolte le dovute indagini ispettive. Un’inchiesta pubblicata su “l’Espresso” ha
rivelato, per esempio, che a febbraio 2018 almeno sette tecnici, cinque dello Stato e due di Autostrade,
sapevano della corrosione delle pile 9 e 10. Più in generale, sulla base di varie testimonianze raccolte,
emerge che negli ultimi 20 anni nessun ispettore dello Stato abbia mai chiesto di presenziare ad alcuna
verifica compiuta dagli ingegneri della Spea, la società di Autostrade a cui era demandato il controllo
della rete. A sua volta, come rivelato da un’indagine interna promossa da Atlantia nel 2019 e affidata
alle società di consulenza Kpmg e Sgs, i controlli sui viadotti effettuati dalla stessa Spea fornivano
riscontri di fatto inutilizzabili: non erano indicati giorno e data dell’ispezione né da alcuna fotografia; le
singole opere non erano identificabili e soprattutto non esistenza un manuale d’ispezione. Una
situazione specchio, per certi versi, anche della governance di Atlantia e della controllata Autostrade
fino al settembre 2019, quando il Ceo Giovanni Castellucci fu costretto a passare la mano dopo 18 anni.
Un amministratore che trasformò sì la holding nel primo operatore infrastrutturale mondiale grazie
all’acquisizione di Abertis, avvenuta paradossalmente due mesi dopo il crollo del Morandi. Ma che, negli
ultimi anni del suo mandato, azionò le leve della società con un elevato grado di autonomia (a fronte di
un ampio mandato del cda e degli azionisti), agendo a tratti con “spregiudicatezza e incurante del
rispetto delle regole”, ispirandosi a “una logica strettamente commerciale e personalistica, anche a
scapito della sicurezza collettiva”, ha scritto il Gip di Genova.

La bagarre politica e il ritorno allo Stato

Il dramma del Morandi ha acceso anche la bagarre politica. Un tutti contro tutti in cui il fine ultimo, il più
delle volte, non è trovare la soluzione più adeguata al rilancio e alla messa in sicurezza di Autostrade ma
scaricare sugli avversari la responsabilità di quanto avvenuta. La parola più in voga, soprattutto per gli
esponenti del Movimento 5 Stelle, è stata la revoca: un atto unilaterale con cui togliere ad Autostrade la
concessione alla luce delle gravi (ma pur sempre presunte, sarà la magistratura a emettere il proprio
verdetto) inadempienze legate al crollo del Ponte di Genova. Una soluzione che tuttavia sarebbe costata
allo Stato oltre 20 miliardi di euro, prima che il Governo – attraverso il famoso Decreto Milleproroghe di
inizio 2020 – riducesse il possibile indennizzo per la concessionaria a un valore inferiore al debito
finanziario della stessa.
Alla fine, tuttavia, ha preso corpo lo scenario della ri-statalizzazione, con la cordata composta da Cassa
Depositi e Prestiti, Blackstone e Macquarie che ha raggiunto un accordo – dopo quasi un anno di
trattative – per rilevare l’88% di Autostrade in mano ad Atlantia. Il passaggio di testimone consentirà
anche di sbloccare il nuovo Piano Economico e Finanziario della concessionaria al 2038 che, tra i propri
elementi cruciali, vede 14,5 miliardi di nuovi investimento e 7 miliardi di manutenzioni, oltre a 3,4
miliardi di euro di risorse compensative a seguito della tragedia di Genova – di cui 1,2 miliardi di
investimenti non remunerati – che rimarranno a carico della stessa Autostrade.
In questo modo Autostrade manterrà elevata la spesa in manutenzione: se prima della tragedia di
Genova si attestava attorno ai 280-300 milioni annui, nel 2019 è diventata di 400 milioni, nel 2020 di 655
milioni, mentre per il 2021 sarà di circa 650 milioni. Tutto questo a fronte di una tariffa che dovrebbe
crescere dell’1,64% annuo. Se la nuova convenzione, abbinata a procedure aziendali totalmente riviste e
migliorate, possa essere considerata la base per una gestione efficiente di una delle infrastrutture chiave
del Paese lo si potrà dire solo in futuro. Una cosa è certa: negli ultimi vent’anni si è perso parecchio
tempo e le ragioni di tutto questo riflettono, per certi versi, i grandi peccati capitali dell’Italia.

Spunti per la discussione

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1. La privatizzazione era necessaria?


2. Quali sono stati gli esiti del processo di privatizzazione per i principali stakeholder (lo Stato, gli
azionisti dell’impresa, i cittadini)?
3. Quali sono i principali punti deboli dell’operazione di privatizzazione realizzata?
4. Che impatto ha avuto l’operazione sulla capacità di colmare il gap infrastrutturale del paese?
5. Il processo di ri-statalizzazione era necessario? Quali effetti potrà produrre?
6. Il nuovo modello, pubblico in partnership con il privato può funzionare?
7. Come valutate la scelta dello Stato di due partner finanziari piuttosto che di un partner
industriale?
8. Quale dovrebbe essere in un concessionario il giusto equilibrio tra investimenti e profitti?
9. Come potrebbe lo Stato esercitare un ruolo più incisivo di controllo?
10. Il crollo del ponte Morandi: poteva essere evitato? Se si’ come?

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