Sei sulla pagina 1di 15

Le ultime notizie sulla guerra tra Israele e Hamas, in diretta

DEBITO PUBBLICO 
LE NUOVE PRIVATIZZAZIONI PER INCASSARE
DENARO? SONO LE ILLUSIONI DI STATO

di Ferruccio de Bortoli

     

[an error occurred while processing


this directive]

N essuno crede sia


possibile realizzare, in
soli tre anni, ulteriori
privatizzazioni per un
importo dell’uno per
cento del prodotto
interno lordo (Pil)
com’è scritto
nell’ultima Nota di
aggiornamento del
Documento di
economia e finanza
(NaDef). Forse non ci
crede nemmeno il
i i
ministro

dell’Economia,
Giancarlo Giorgetti.
Ma provarci è
d’obbligo. A
cominciare dalle
Ferrovie dello Stato. E
non sarebbe la prima
volta. Ma anche se ci
si riuscisse, separando
tanto per cominciare
Trenitalia da Rfi,
ovvero la Rete
ferroviaria, l’importo
massimo stimato —
come ha scritto
Alessandro Barbera su
La Stampa — sarebbe
intorno ai 5 miliardi,
un quarto della cifra
necessaria. E il resto?

L’ECONOMIA IN EDICOLA LUNEDÌ GRATIS


CON IL CORRIERE

Privatizzare? Da
trent’anni abbiamo
poche strategie e
troppe illusioni
di Isidoro Trovato

Non può certo venire


tutto dal rinnovo di
alcune concessioni
scadenza o dall’uscita
dal capitale del Monte
dei Paschi di Siena,
l l 2017
salvato nel 2017 e

costato finora ai
contribuenti 8
miliardi. La
minusvalenza è
assicurata. Saranno
forse più le occasioni
di un impegno forzato
dello Stato
nell’economia di
quelle in cui risulterà
conveniente
disinvestire per
ridurre — come
prevede la legge — il
debito italiano.Per
esempio: come si
comporterà il socio
pubblico in Acciaierie
Italiane, ex Ilva, se la
ricapitalizzazione non
verrà assicurata da
ArcelorMittal? Il
complesso siderurgico
di Taranto,
indispensabile
midollo industriale
italiano, non può
rischiare di chiudere.

Alleggerire le quote di
maggioranza relativa
di Eni, Enel, Leonardo
e Terna, specie con
operazioni dettate
dall’urgenza, potrebbe
deprimere il corso dei
titoli. Lungo questo
percorso si gioca poi
un’interpretazione
sempre più estensiva
(e non sempre
giustificata) del
cosiddetto golden
power. Un saggio
scritto da un
banchiere di lungo
corso, Pietro Modiano,
e dall’economista
Marco Onado per Il
Mulino, offre sul tema
delle privatizzazioni
straordinari elementi
di riflessione oltre a
una disamina
impietosa del declino
economico del Paese.
Errori ne sono stati
f i i i
fatti tanti, troppi.

Anche da chi
(scrivente compreso)
si è illuso che l’uscita
dello Stato creasse di
per sé gruppi privati
più forti e
internazionalizzati.
Non è stato così, salvo
pochissime eccezioni.
Abbiamo invece
tristemente assistito a
tanti industriali,
anche bravi nel loro
settore, che
parteciparono alle
privatizzazioni «non
tanto per portare
know how
imprenditoriale o per
assumere dimensioni
più consone alla
competizione globale
— scrivono Modiano e
Onado — quanto per
passare dal settore
manifatturiero a
quello dei servizi, cioè
per rifugiarsi in
attività non tradable,
al riparo dalla
concorrenza
internazionale o
comunque protette
dalla politica».
Il titolo del libro è
Illusioni perdute. Alla
Balzac. Questa
impietosa disamina
d ll i i i i
delle privatizzazioni,

avviate ormai
trent’anni fa, non
dovrebbe
ulteriormente
accendere trasversali
istinti statalisti —
nostalgie di Iri, Efim,
Federconsorzi, Egam
che crollarono onusti
di debiti e ormai preda
dei partiti — ma
spingere la classe
dirigente nel suo
complesso,
soprattutto quella
privata, a un esame di
coscienza. Un
approfondimento
finora mancato sul
perché, per esempio,
non abbiamo quasi
più grandi aziende
mentre speravamo
ardentemente di
crearne di nuove e
robuste proprio
attraverso le vendite
delle partecipazioni
statali.
Il principale gruppo
industriale non è più,
legittimamente,
italiano (Fiat oggi
Stellantis) ma il suo
esodo silenzioso non
ha suscitato alcuna
vera discussione.
Abbiamo certo, ottime
medie industrie,
spesso leader di
i di
segmenti di mercato

anche piccoli, di
rilevante valore. Un
orgoglio. Ma, come
notano gli autori, le
medie imprese
eccellenti —
escludendo quelle
appartenenti a gruppi
maggiori o a controllo
estero — coprono solo
il 2,4 per cento del Pil.
Vi è poi un universo di
oltre 4 milioni di
microimprese,
intrepide e
volenterose finché si
vuole, «ma incapaci di
crescere al di fuori dei
loro mercati locali,
molte delle quali per
stare in piedi devono
uscire dalle regole e
pagare il lavoro sotto
il livello di
sussistenza».
Il meccanismo

Persiste ben esteso e


radicato — ed è questa
è l’idea forte del
saggio — un vasto
«circolo vizioso, fra
comportamenti della
classe dirigente,
sistemi di potere
impropri e pezzi della
società civile, nocivo
per la democrazia e lo
sviluppo». Questo
progressivo disossarsi
della struttura
produttiva italiana è
ll’ i i d ll
all’origine della

caduta della
produttività totale dei
fattori e del lento e
inesorabile declino
del nostro tasso di
sviluppo. «Se solo
avessimo tenuto il
passo delle altre
economie della
moneta unica,
avremmo ciascuno 5
mila euro l’anno in
più a testa». Ogni
abitante. Un’altra tesi
che farà discutere — e
impone anche a gran
parte della
pubblicistica
(scrivente ancora una
volta compreso)
qualche ulteriore
moto di sincerità — è
che la flessibilità del
lavoro non ha
arrestato la caduta
della produttività, ma
l’ha accentuata.
La competitività non
si misurava (e non si
misura) solo con il
costo del lavoro. Gli
anni della
svalutazione della lira
hanno lasciato un
segno indelebile nel
comportamento degli
attori economici.
Tracce visibili ancora
oggi nella ricerca di
scorciatoie alla
ll
concorrenza, alla

quale non sono
refrattari solo tassisti
e balneari.
L’illusione che vi fosse
una sorta di «via
finanziaria allo
sviluppo», lastricata di
debiti, difese
corporative, rapporti
incestuosi con la
politica (fino
all’esplodere di Mani
Pulite) è definita, da
Modiano e Onado, la
tentazione di
Mefistofele. L’idea che
si potesse risolvere
sempre e tutto con il
debito pubblico o
privato. Tentazione di
stringente attualità, in
questi anni, anche se
giustificata (in parte)
dalle emergenze.
Le occasioni perdute
della grande impresa
privata, lungo la
strada impervia
dell’internazionalizzazione,
sono state numerose.
Pirelli, oggi in piena
sindrome cinese, che
fallisce le acquisizioni
di Firestone e
Continental; la
scomparsa Banca
commerciale respinta
sull’americana Irving;
il d i D
g
il «condottiero» De

Benedetti sconfitto
nell’assedio alla belga
Sgb. Montedison
aveva Hercules e un
indiscutibile primato
nella farmaceutica
prima di finire nel
gorgo debitorio della
vanità ravennate dei
Ferruzzi e di Gardini.
Con le privatizzazioni
ci si attendeva una
crescita dimensionale
all’insegna
dell’efficienza e
dell’innovazione e
non una generale
riluttanza al rischio
pacata solo dal
richiamo irresistibile
dell’affare. Un
episodio significativo
di questo
atteggiamento di
distacco (o timore) fu
— a giudizio degli
autori — il progetto
Guarino per la
costituzione di due
superholding con i
gruppi pubblici del
luglio del 1992.
Prevedeva una forte
partecipazione dei
privati. Dissero tutti
di no.
Mancanza di visione

Telecom, oggi Tim, era


un gioiello nazionale.
E l i d
E non lo psicodramma

attuale di una società
caricata di troppi
debiti dalla sciagurata
offerta pubblica dei
cosiddetti capitani
coraggiosi. Nel
famoso «nocciolino
duro» iniziale della
privatizzazione di
Telecom, il gruppo
Agnelli si impegnò
«micragnosamente»
per il solo 0,6 per
cento. L’Italia arrivò
all’appuntamento
delle privatizzazioni,
avviate dal negoziato
Andreatta-Van Miert,
con l’acqua alla gola
del debito pubblico e
delle imprese statali.
«Un accordo
indubbiamente severo
ma la testa nel cappio
ce la infilammo noi».
Non vi era alcuna
strategia. La
suggestione
ciampiana della public
company— studiata
per la Commerciale e
il Credito italiano —
venne bellamente
aggirata con la regia
della Mediobanca di
Cuccia.
Nel credito alcune
Fondazioni
i
mostrarono maggiore

lungimiranza — e
infatti oggi abbiamo
due giganti come
Intesa Sanpaolo e
Unicredit — anche se
non si è formato un
attore nazionale nel
risparmio gestito. E
paradossalmente sono
state di successo
quelle formule che
all’epoca sembravano
poco più che un
ripiego. Quelle in cui
lo Stato, accettando le
regole del mercato,
sceglieva di scendere
di peso senza farsi del
tutto da parte.
Quei pacchetti di Eni,
Enel, Terna, Leonardo
che rientrano
giocoforza
nell’ipotetico uno per
cento di
privatizzazione
promesse per tentare
di ridurre un debito
che non scende.
Quello da cui,
trent’anni fa, tutto è
malamente partito. La
tentazione di
Mefistofele, appunto.
Iscriviti alle
newsletter di
L'Economia
Wh i T k
Whatever it Takes

di Federico Fubini
Le sfide per
l’economia e i
mercati in un
mondo instabile
Europe Matters di
Francesca Basso e
Viviana Mazza
L’Europa, gli Stati
Uniti e l’Italia che
contano, con le
innovazioni e le
decisioni
importanti, ma
anche le piccole
storie di rilievo
One More Thing di
Massimo Sideri
Dal mondo della
scienza e
dell’innovazione
tecnologica le
notizie che ci
cambiano la vita
(più di quanto
crediamo)
E non dimenticare le
newsletter
L'Economia Opinioni e
L'Economia Ore 18

PRIVATIZZAZIONI

17 ott 2023
© RIPRODUZIONE RISERVATA

 TORNA SU
Copyright 2023 © Tutti i diritti riservati.
RCS Mediagroup S.p.a. - Via Angelo Rizzoli,8 - 20132 MIlano.
CF, Partita I.V.A. e iscrizione al Registro delle Imprese di Milano n.12086540155 | R.E.A. di Milano: 1524326 |
Capitale sociale 270.000.000,00 | P.IVA 12086540155 | ISSN 2499-0485

COOKIE POLICY E PRIVACY PREFERENZE SUI COOKIE GESTIONE ABBONAMENTO

CHI SIAMO THE TRUST PROJECT

Potrebbero piacerti anche