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INTRODUZIONE
Il caso Italia è un fenomeno molto complesso, il dibattito pubblico è pieno di opinioni
discordanti sulla crisi dell’economia italiana, spesso infatti molti politici descrivono
la situazione del nostro paese come in ripresa, in crescita. La realtà è che l’Italia non
produce più di quanto produceva quindici anni fa, la disoccupazione è alta, la povertà
si estende, evasione fiscale, il debito pubblico spaventa i mercati. La storia ci dice che
l’Italia si sia arricchita i due occasioni: nell’età giolittiana e negli anni del miracolo
economico (1950-69); lo sviluppo era favorito dalla finanza pubblica in ordine,
investimenti in infrastrutture, risposta delle imprese alla concorrenza, progressi
culturali e delle istituzioni. L’esatto opposto è accaduto in altre fasi di crisi (Crispi,
Mussolini, ultimi 25 anni). Il momento chiave fu il 1992, il cedimento della lira;
tornò a prevalere tra le imprese l’idea di fare profitti grazie al cambio debole anziché
investire in impianti e ricerca. Il tasso di crescita record del 2000 (3,6%) fu un fuoco
di paglia, il nuovo secolo dovette registrare una crescita mediocre (1,3% in media)
fino al 2007; poi arrivarono le due grandi recessioni con conseguenze simili a cause
diverse: la prima crisi nel 2008-2009 vide il contrarsi il commercio mondiale
dell’11% ; nel 2012-2013 il debito pubblico venne investito dalla sfiducia dei mercati
finanziari, il governo fu affidato a Mario Monti, che dovette rispondere con misure di
bilancio molto severe per riconquistare la fiducia dei mercati. Le risposte della
politica sono state insufficienti in entrambe le recessioni, le poche risorse disponibili
sono state usate per sussidi, sgravi fiscali invece di essere investite in infrastrutture.
La colpa della lentissima crescita dell’economia è stata attribuita, nell’intento di
sottrarre politici e imprese dalle loro responsabilità, alle banche e alla moneta unica.
Il nostro sistema bancario ha invece tenuto meglio di quello degli altri paesi che
hanno avuto recessioni meno gravi; l’euro invece è una moneta che ha garantito
stabilità (ancora oggi politici molto influenti affermano che sarebbe meglio uscire
dell’euro e dell’Europa). Diverso invece è il discorso che riguarda i limiti della
politica europea, che comunque andrebbero rivisti per cercare più integrazione e non
il contrario. Quello che è fuori discussione è che la nostra economia vada rifondata
per garantire un contesto nel quale le imprese possano reagire e risollevarsi.
RISPOSTE INADEGUATE
L’economia italiana è da lustri affetta da due malanni congiunti: domanda globale
anemica e stallo della produttività; la prima frena la fuoriuscita dalla recessione
mentre la seconda frena la crescita di lungo periodo. Dopo la recessione del 2008-
2009, la nuova recessione è iniziata con le politiche restrittive del governo tecnico e
può dichiararsi “finita” nel primo semestre del 2015. La ripresa però, è molto lenta, la
crescita del Pil è prossima allo 0; sono stati erosi ingenti stock di capitale, capacità
produttiva inutilizzata, disoccupazione fino al 13%. Il crollo della domanda si è
riflesso sulle importazioni, mentre le esportazioni sono tornate ai livelli del 2007;
questo si riflette in un surplus della bilancia dei pagamenti, con cessioni al resto del
mondo di risorse ben più necessarie in patria. Oltre alla scarsa domanda non c’è
progresso tecnico. La produttività totale dei fattori si è ridotta del 6% dai primi anni
duemila; minore prodotto con le stesse risorse è un assurdo per un’economia
importante. Come sempre avvenute nelle crisi italiane, a risentirne in
misura ampiamente maggiore è il Mezzogiorno, che ha fatto registrare contrazioni
più marcate rispetto al centro-nord (tassi di disoccupazione al di sopra del 20%, Pil
pro capite poco più della metà di quello del cn…). La politica economica governativa
andrebbe riorganizzata per favorire domanda e produttività; la risposta sarebbe per
ambedue i problemi, investimenti pubblici. Questi possono imprimere una forte
spinta alla domanda (soprattutto nelle fasi di crisi), le infrastrutture pubbliche
potrebbero inoltre garantire un apporto diretto e indiretto alla produttività. In Italia
invece sono anni che non vanno né potenziate né mantenute (secondo il FMI quelle
italiane sono per qualità inferiori del 40%, rispetto ai paesi del G7). I governi che si
sono succeduti negli anni hanno invece che aumentato, tagliato gli investimenti
pubblici; preferendo trasferimenti e sostegni alle imprese.
L’INVESTIMENTO PUBBLICO
“Dovere del sovrano o della repubblica è creare e conservare le pubbliche istituzioni
e le opere pubbliche che, per quanto estremamente utile una grande società, sono però
di natura tale che il profitto non potrebbe mai rimborsarne la spesa a un solo
individuo o un ristretto numero di individui, sicchè non ci si può aspettare che un
individuo o pochi individui le creino e le conservino: le buone strade, i ponti, i canali
navigabili, i porti, etc.; le istituzioni per l'istruzione della gioventù, delle donne, del
popolo, degli uomini di ogni età”, queste le parole di Adam Smith. Uno studio del
FMI condotto da Olivier Blanchard, ha risposto con un convinto “sì” al quesito “is it
time for an infrastructure push?”
Lo stock di capitale delle infrastrutture pubbliche si è eroso, in volume e qualità,
negli stessi paesi avanzati che ne erano più dotati. Anche per questo la domanda
effettiva e l’attività economica ristagnano; l’analisi econometrica mostra che gli
investimenti in opere pubbliche hanno effetti importanti, di domanda nel breve-medio
periodo, di offerta nel più lungo termine. Gli effetti sul Pil di un investimento sono
poi più marcati in un periodo di recessione e quando quest’ultimo è considerato
efficiente. L’investimento è efficiente quando, i benefici economico-sociali sono
massimi e i costi di realizzazione sono minimi. Va inoltre sottolineata la superiore
capacità moltiplicativa degli investimenti, rispetto a quella di un aumento di consumi
e trasferimenti pubblici ad esempio; non solo grazie all’effetto del moltiplicatore
1
keynesiano 1−c 1 , ma grazie anche ad una maggiore propensione ad investire da
parte delle imprese, quando infrastrutture migliorate riducono costi del produrre e
favoriscono profitti.
Possiamo dedurre quindi che: sacrificare investimenti pubblici alla spesa corrente,
alla manovra delle imposte, al contenimento del debito e del disavanzo non ha
fondamento economico (sono state scelte fatte per non perdere consenso); un
significativo apporto all’economia può ottenersi agendo sulla composizione delle
voci del bilancio pubblico, a parità di saldo; non ha senso computare la spesa
pubblica per investimenti nei vincoli quantitativi di bilancio, come avviene da
Maastricht in poi in Europa; oltre ai suoi effetti strettamente economici,
l’investimento pubblico in Italia è necessario per drammatiche ragioni sociali, per
mettere in sicurezza un territorio molto vulnerabile (esposto a nubifragi, frane,
alluvioni, crolli etc.) per compensare danni che infligge al patrimonio, attività
produttiva, incolumità dei cittadini.
Pur avendo mutato il suo assetto nel corso degli anni, il sistema bancario italiano è
molto stabile; lo dimostra il fatto che, grazie anche alla supervisione della Banca
d’Italia, ha retto alle gravi crisi del 2008 e 2012, anche meglio di sistemi i altri paesi,
nonostante quest’ultimi abbiano avuto fenomeni recessivi meno gravi rispetto
all’Italia. Naturalmente sono possibili dei miglioramenti: la concentrazione può
aumentare senza pregiudizio per la concorrenza, la capitalizzazione può essere
innalzata; La crisi che ha portato l’industria finanziaria americana al tracollo, può
essere attribuita a vari fattori, ma uno dei principali è l’elevatissimo leverage degli
intermediari americani. Vanno inoltre smaltiti i 360 miliardi di crediti deteriorati che
la recessione ha fatto ricadere sulle banche (32 miliardi di sofferenze nel 2019).
Dopo il crollo del 1992 la quota delle sofferenze passò dal 5 al 10%; vennero però
riassorbite nel giro di qualche anno, questo è stato possibile perché l’economia
mondiale cresceva del 3% l’anno, i tassi superavano di circa 3 punti l’inflazione
dando spazio ai margini d’interesse bancari. Il contesto odierno è per alcuni versi
peggiore di quello degli anni novanta; i tassi prossimi allo zero non dipendono da un
eccesso del risparmio sull’investimento, ne dalle politiche monetarie delle banche
centrali, bensì dalle aspettative (quelle che keynes chiamava convenzioni). Su scala
mondiale la convenzione prevalente è stata di rischio deflattivo, non dovuto alla bassa
domanda, ma al cedimento dei costi, del lavoro e del petrolio. L’Eurozona cresce poi
a ritmi inferiori alla metà della media mondiale, la politica di bilancio espansiva
latita; la politica monetaria, la vigilanza, le regole sulle crisi bancarie agiscono in
modo contraddittorio. Il credo della vigilanza è quello di internalizzare i rischi entro
ciascuna banca; dalla età del 2013 è però precluso dall’ordinamento europeo ogni
intervento sugli intermediari in difficoltà. La capitalizzazione è considerata la
modalità principale di internalizzare i rischi; nel contesto in cui operano le banche
hanno difficoltà a conseguire utili e ricapitalizzarsi, sono indotte allora a diminuire le
attività contenendo i prestiti. In una situazione come quella descritta, la finanza non
ha molti spazi di manovra per cercare di dare una spinta alla domanda; quello che
possono fare è favorire il dinamismo d’impresa, poi cercare di finanziare in via
principale le imprese che realizzano i profitti grazie alla produttività. Solo il profitto
da produttività è solido e durevole nel lungo periodo, tale da garantire il pagamento
dell’interesse e il rimborso del prestito.
L’Italia è stato un paese fondatore dell’Ue (anche della CEE e CECA negli anni 50),
è parte viva dell’Europa, se quest’ultima si unisce, l’Italia aderisce. L’Italia aderisce
per ragioni di sicurezza, mettere fine a guerre europee, per evitare isolamenti in un
mondo di giganti. Aderendo all’UE e alla moneta unica, scaturiscono dei vantaggi
economici, quali, la stabilità di una moneta unica, minori costi di transazione, tassi
d’interesse minori, una maggiore integrazione commerciale e finanziaria. L’Italia
riuscì a rispettare i parametri per entrare nell’Eurozona proprio in extremis: la Banca
d’Italia riuscì ad abbattere l’inflazione, abbassò i tassi d’interesse, pose fine alla
debolezza del cambio (facendo rientrare la lira nel SME); il governo Prodi riuscì ad
abbattere il disavanzo pubblico dal 7 alla fatidica soglia del 3% in un solo anno! La
nuova moneta infatti diede subito i frutti sperati; ma la politica monetaria non è
riuscita ad unire alla stabilità dei prezzi, progresso dell’attività produttiva necessario
per raggiungere la piena occupazione. Nell’Euroarea la crescita del Pil non ha mai
raggiunto il 3% e la disoccupazione non è mai scesa al di sotto dell’8% con punte al
12%.
In Italia c’è chi ancora è convinto che uscire dall’euro e dall’UE sia utile per far
riprendere l’economia italiana, ignorando tutti i costi che questa scelta
comporterebbe: la nuova “lira” si deprezzerebbe (errano quelli che pensano che una
svalutazione sarebbe positiva per l’Italia, lo dimostra il crollo della lira nel 92); il
cedimento del cambio porterebbe ad una elevata inflazione, conseguente erosione del
valore reale del risparmio monetario, degli stipendi, delle pensioni. L’euro va
ribadito, è un’ottima moneta, che garantisce stabilità, è domandata anche
internazionalmente. Il limite dell’Ue non è nella moneta, ma nel governo
dell’economia europea, condizionato dalla Germania; con cui bisogna tornare a
trattare seriamente sul piano strategico.
LA VIA D’USCITA
Profitto da produttività: Dal crollo della lira, i profitti si sono realizzati anche senza
produttività; perché questi venivano favoriti dal cambio deprezzato, salario moderato,
margini di evasione fiscale ed altri aiuti statali. Ma la produttività è l’unica in grado
di sostenere una crescita di lungo periodo, va quindi sollecitato il ricercare il profitto
per questa via; le imprese devono accettare la concorrenza e fronteggiarla.
Una diversa politica europea: Il problema in Europa non è l’euro. Uscire dalla
moneta unica non sarebbe conveniente per nessun paese (porterebbe inflazione,
distruzione valori patrimoniali, impoverimento). Il problema economico europeo è
problema di governo intelligente, coordinato, della domanda globale, restando le
riforme strutturali affidate a ciascun paese membro. Occorre una nuova banca
centrale, sul modello della Banca d’Italia o del Fed. La svolta sarebbe passare a un
rigore di bilancio alla Keynes, l’investimento è anche a livello europeo la chiave. Va
ammessa e praticata la golden rule, che al di là del breve periodo non implica debito;
come Keynes ha chiarito, gli investimenti realizzati in maniera efficiente, che
generano reddito, nel tempo si autofinanziano; solo una composizione della spesa
pubblica orientata in conto capitale, non corrente, può stabilizzare e sostenere lo
sviluppo di un’economia.
Il paese principale invece, la Germania; ha volto, dal 2013, in surplus un bilancio che
era in deficit tagliando al 2% del prodotto gli investimenti pubblici. L’economia
tedesca è quindi cresciuta meno del suo potenziale; con l’eccesso di risparmio
sull’investimento ha cedute preziose risorse reali al resto del mondo. Di riflesso, è
stata lesa la domanda dell’intera eurozona. Il “rigore Keynesiano”, che è stato
respinto deve affermarsi; il rischio è che con la prosperità dell’Europa messa a
rischio, si frantumi il sogno degli STATI UNITI D’EUROPA.