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TORNARE ALLA CRESCITA

INTRODUZIONE
Il caso Italia è un fenomeno molto complesso, il dibattito pubblico è pieno di opinioni
discordanti sulla crisi dell’economia italiana, spesso infatti molti politici descrivono
la situazione del nostro paese come in ripresa, in crescita. La realtà è che l’Italia non
produce più di quanto produceva quindici anni fa, la disoccupazione è alta, la povertà
si estende, evasione fiscale, il debito pubblico spaventa i mercati. La storia ci dice che
l’Italia si sia arricchita i due occasioni: nell’età giolittiana e negli anni del miracolo
economico (1950-69); lo sviluppo era favorito dalla finanza pubblica in ordine,
investimenti in infrastrutture, risposta delle imprese alla concorrenza, progressi
culturali e delle istituzioni. L’esatto opposto è accaduto in altre fasi di crisi (Crispi,
Mussolini, ultimi 25 anni). Il momento chiave fu il 1992, il cedimento della lira;
tornò a prevalere tra le imprese l’idea di fare profitti grazie al cambio debole anziché
investire in impianti e ricerca. Il tasso di crescita record del 2000 (3,6%) fu un fuoco
di paglia, il nuovo secolo dovette registrare una crescita mediocre (1,3% in media)
fino al 2007; poi arrivarono le due grandi recessioni con conseguenze simili a cause
diverse: la prima crisi nel 2008-2009 vide il contrarsi il commercio mondiale
dell’11% ; nel 2012-2013 il debito pubblico venne investito dalla sfiducia dei mercati
finanziari, il governo fu affidato a Mario Monti, che dovette rispondere con misure di
bilancio molto severe per riconquistare la fiducia dei mercati. Le risposte della
politica sono state insufficienti in entrambe le recessioni, le poche risorse disponibili
sono state usate per sussidi, sgravi fiscali invece di essere investite in infrastrutture.
La colpa della lentissima crescita dell’economia è stata attribuita, nell’intento di
sottrarre politici e imprese dalle loro responsabilità, alle banche e alla moneta unica.
Il nostro sistema bancario ha invece tenuto meglio di quello degli altri paesi che
hanno avuto recessioni meno gravi; l’euro invece è una moneta che ha garantito
stabilità (ancora oggi politici molto influenti affermano che sarebbe meglio uscire
dell’euro e dell’Europa). Diverso invece è il discorso che riguarda i limiti della
politica europea, che comunque andrebbero rivisti per cercare più integrazione e non
il contrario. Quello che è fuori discussione è che la nostra economia vada rifondata
per garantire un contesto nel quale le imprese possano reagire e risollevarsi.

RISTAGNO E RECESSIONI DEL NUOVO SECOLO


Dal 1992, in particolare negli anni duemila l’Italia ha attraversato il peggior
andamento della sua economia in periodo di pace. Fra il terzo trimestre del 2007 e il
secondo del 2009 il PIL si è contratto del 7%. Lavoro e capitale erano disponibili ma
venivano sottoutilizzati o esportati; il freno alla crescita è imputabile anche alla
scarsa produttività del lavoro e dalla produttività totale dei fattori (Tfp). L’arresto
all’innovazione e del progresso tecnico si estendeva anche al settore manifatturiero
che fino agli anni novanta era cresciuto molto più degl’altri. La produttività del
lavoro era più bassa rispetto agli altri paesi dell’eurozona, dati i salari e il cambio
fisso ne derivava una perdita di competitività delle imprese italiane rispetto a quelle
europee, crollarono così le esportazioni. Nonostante i bassi d’interesse il debito della
Pa e il debito pubblico preoccupavano i mercati; la disoccupazione aumentava anche
al diminuire dei salari e all’aumentare della flessibilità del lavoro. Sarebbe spettato
allo stato, ai governi, risanare la finanza pubblica per superare le recessione; alle
imprese sarebbe spettato ritrovare efficienza e innovazione, in più la società civile
disimpegnata non ha saputo esprimere governi all’altezza.
Negli anni duemila (ancor di più dal 2008) occorreva un’azione coordinata di vasto
respiro, per promuovere la produttività, rilanciare la domanda, ridurre il debito
pubblico. La politica economica ha influito in negativo anche sulla produttività delle
imprese, per l’inadeguatezza delle infrastrutture e per la pressione tributaria punitiva
delle intenzioni di investimento. Un livello maggiore di investimenti pubblici si
sarebbe rispecchiato in aumento del rendimento degli investimenti privati. Un
ulteriore ostacolo alla produttività le imprese lo hanno trovato nell’arretratezza del
quadro giuridico-istituzionale: una riforma del diritto dell’economia avrebbe
innalzato i livelli del reddito pro capite, avrebbe anche dato un apporto decisivo al
credito del paese a livello internazionale con conseguente abbassamento del premio
sul rischio sul debito pubblico. In terzo luogo, il grado medio di concorrenza è
diminuito; la facilità con cui le imprese realizzavano utili ha offuscato il loro sforzo
alla ricerca di produttività. Quella facilità può essere ricondotta all’inefficienza
dell’antitrust, alla larghezza dei favori statali, cambio debole e salari moderati.
Dovendosi sostenere la domanda e insieme ridurre il disavanzo, si sarebbe dovuto
agire sulla composizione del bilancio pubblico: era il peso delle uscite che meno
influenzavano domanda e produzione a doversi ridurre, nella misura necessaria a
risanare il bilancio e favorire investimenti pubblici più utili alla produttività e idonei a
riattivare l’economia. Pur restringendosi il volume del bilancio, la domanda ne
avrebbe ricevuto un impulso, con conseguente miglioramento delle aspettative,
quindi maggiori investimenti e consumi privati. Dovevano ridursi le spese: il costo
del personale, il numero dei dipendenti pubblici poteva essere ridotto senza
licenziamenti (con mobilità e pensionamenti e meno assunzioni); tagli ad altre uscite
non essenziali, fonte di sprechi e corruzione, come trasferimenti alle imprese private
e pubbliche (NON a sanità e pensioni); per acquisti di beni o servizi, i fornitori
praticano speso alle Pa prezzi, che potrebbero essere ridotti dalla forza contrattuale
dello stato (spesso monopsonistica). Queste voci si sarebbero dovuto ridurre in
misura di 5/6 punti del Pil in modo da “finanziare” un risanamento dei conti della Pa,
investimenti pubblici e ridurre la pressione fiscale. Queste voci invece ne primo
decennio del secolo sono passate dal 20 al 23% del Pil. Nel novembre del 2011 il
governo venne affidato a Mario Monti; quel governo tecnico ha avuto il merito di
riequilibrare il bilancio e ripristinare parte della credibilità perduta. Sin dall’avvio
però il programma non univa ai provvedimenti restrittivi di pronto intervento (definiti
salva-Italia), un impegno nel contenimento delle tre voci di spesa pubblica
sopracitate; la pressione fiscale saliva e la spesa per investimenti pubblici toccò un
minimo storico (1,9% del prodotto). Il riequilibrio dei conti pubblici si realizzava con
costi sociali pesanti, quali crollo del Pil, livello di disoccupazione che non si
sperimentava da un quarto di secolo, questo nonostante una rinnovata erosione dei
salari reali.
È si mancata una politica economica volta alla promozione della concorrenza, una
riforma al diritto dell’economia, ma è anche mancata un’autonoma volontà e capacità
di risposta da parte dei produttori. La produttività rientra nel dominio delle imprese,
se è molto bassa ne risente la crescita e la competitività, basilare per un’economia
importatrice e trasformatrice come quella italiana. Nel ventennio tra il 1992 e il 2012
la produttività scendeva dall’84 al 63% rispetto ai livelli della Germania. Dopo la
crisi valutaria del 92, il grado di concorrenza tendenzialmente diminuiva. La cultura
media dell’impresa continuava a rifiutare la competizione, perché non impediva loro
di realizzare utile, che scaturiva dall’inefficacia dell’azione dell’antitrust, dalla
sottovalutazione del cambio, dalla larghezza della spesa pubblica per acquisti e
trasferimenti ai produttori, dagli spazi di elusione ed evasione fiscale. Il disimpegno
dalla ricerca della produttività è dipeso anche dallo scarso dinamismo delle imprese
italiane, poco propense alla crescita dimensionale (molte imprese di piccola
dimensione, poche medie aziende vivaci, rari gruppi di statura internazionale). A
differenza delle altre economie, in Italia è pressochè inesistente il mercato secondario
delle innovazioni; è molto raro il caso di acquisizione di medie aziende innovatrici da
parte di altre capaci di rendimenti crescenti. Imprese di grandi dimensioni, si
riflettono in investimento in R&S, che si traducono in alti livelli di produttività,
nonché guadagni. Storicamente, la grande impresa in Italia si identificava con le
maggiori società dell’Iri; lo conferma il fatto che l’attivo di bilancio delle società
dell’Iri è stato sempre nell’ordine del 20/30 % delle prime 200 entità produttive del
paese. Nessun gruppo ha mai avvicinato la dimensione dell’Iri; dopo la sua
liquidazione nel 2002 le grandi imprese private produttrici di beni commerciabili
internazionalmente erano pochissime, e praticamente nessuna di queste era impegnata
in attività ad alta innovazione tecnologica. Infatti dal 2000 al 2008 la produttività
cresceva a poco più dello 0,% rispetto al 3% del decennio precedente, questo
probabilmente è legato alla privatizzazione di molte imprese.

PRODUTTIVITÀ O OCCUPAZIONE: UN FALSO DILEMMA


Iniziò tutto quando l’economista David Ricardo nel 1821 in suo scritto sostenne che
la produttività cresce possa ridurre l’occupazione, andando contro la teoria di Adam
Smith, la quale invece sosteneva che la produttività non riduca l’occupazione ma si
limita a riallocarla fra i settori. Il progresso tecnico (maggior output a parità di input)
è arrivato ad esprimere due terzi della crescita di lungo periodo del Pil nel
capitalismo moderno. Sarebbe impensabile tornare, al solo motore dello sviluppo
rappresentato dall’accumulazione di capitale attraverso il risparmio e l’investimento.
Esiste davvero una correlazione negativa tra progresso tecnico e occupazione?
Dipende da tanti altri fattori: basti pensare che negli Usa la Tfp continua anche
nell’ultimo decennio (seppur rallentando), mentre in Europa è praticamente ferma
(negativa per alcuni paesi, tra cui l’Italia); ci si aspetterebbe minore disoccupazione
in Europa, invece è l’esatto contrario. Il parametro che “comanda” è il livello della
domanda globale (più alto negli Usa); la produttività accresce i profitti e salari,
l’aumento dei redditi si traduce in maggiori consumi e investimenti. Keynes però ci
dice che, l’offerta può mancare di generare domanda sufficiente a dar lavoro a tutti,
può quindi esserci sottoccupazione; qui deve intervenire la domanda pubblica, con
maggiori investimenti, maggiori spese statali, minori imposte, fino a portare il
prodotto effettivo al pari di quello potenziale (innalzato dalla produttività).
Andrebbero evitate le recessioni, non ci si è riusciti nel 2008-2009; negli Usa, a
differenza dell’eurozona, si è reagito subito al duro colpo subito, con politica
monetaria e fiscale fortemente espansive senza badare troppo all’aumento del debito
pubblico; già nel 2010 la ripresa del Pil era trainata dalla domanda interna. In Europa
invece la risposta è stata meno decisa, con politica monetaria espansiva meno
continua, con regole troppo restrittive sul bilancio e debito pubblico, e ancor di più ha
influito il rigore che la Germania ha imposto a se stesso e ai propri partner, che non
hanno permesso di attuare una politica fiscale necessaria per la situazione che si era
creata. Quello che si evince è che con un’azione coordinata anche in Europa si
possono perseguire entrambi gli obiettivi: il progresso tecnico, per la crescita di lungo
periodo, il sostegno della domanda, per la piena occupazione.

RISPOSTE INADEGUATE
L’economia italiana è da lustri affetta da due malanni congiunti: domanda globale
anemica e stallo della produttività; la prima frena la fuoriuscita dalla recessione
mentre la seconda frena la crescita di lungo periodo. Dopo la recessione del 2008-
2009, la nuova recessione è iniziata con le politiche restrittive del governo tecnico e
può dichiararsi “finita” nel primo semestre del 2015. La ripresa però, è molto lenta, la
crescita del Pil è prossima allo 0; sono stati erosi ingenti stock di capitale, capacità
produttiva inutilizzata, disoccupazione fino al 13%. Il crollo della domanda si è
riflesso sulle importazioni, mentre le esportazioni sono tornate ai livelli del 2007;
questo si riflette in un surplus della bilancia dei pagamenti, con cessioni al resto del
mondo di risorse ben più necessarie in patria. Oltre alla scarsa domanda non c’è
progresso tecnico. La produttività totale dei fattori si è ridotta del 6% dai primi anni
duemila; minore prodotto con le stesse risorse è un assurdo per un’economia
importante. Come sempre avvenute nelle crisi italiane, a risentirne in
misura ampiamente maggiore è il Mezzogiorno, che ha fatto registrare contrazioni
più marcate rispetto al centro-nord (tassi di disoccupazione al di sopra del 20%, Pil
pro capite poco più della metà di quello del cn…). La politica economica governativa
andrebbe riorganizzata per favorire domanda e produttività; la risposta sarebbe per
ambedue i problemi, investimenti pubblici. Questi possono imprimere una forte
spinta alla domanda (soprattutto nelle fasi di crisi), le infrastrutture pubbliche
potrebbero inoltre garantire un apporto diretto e indiretto alla produttività. In Italia
invece sono anni che non vanno né potenziate né mantenute (secondo il FMI quelle
italiane sono per qualità inferiori del 40%, rispetto ai paesi del G7). I governi che si
sono succeduti negli anni hanno invece che aumentato, tagliato gli investimenti
pubblici; preferendo trasferimenti e sostegni alle imprese.
L’INVESTIMENTO PUBBLICO
“Dovere del sovrano o della repubblica è creare e conservare le pubbliche istituzioni
e le opere pubbliche che, per quanto estremamente utile una grande società, sono però
di natura tale che il profitto non potrebbe mai rimborsarne la spesa a un solo
individuo o un ristretto numero di individui, sicchè non ci si può aspettare che un
individuo o pochi individui le creino e le conservino: le buone strade, i ponti, i canali
navigabili, i porti, etc.; le istituzioni per l'istruzione della gioventù, delle donne, del
popolo, degli uomini di ogni età”, queste le parole di Adam Smith. Uno studio del
FMI condotto da Olivier Blanchard, ha risposto con un convinto “sì” al quesito “is it
time for an infrastructure push?”
Lo stock di capitale delle infrastrutture pubbliche si è eroso, in volume e qualità,
negli stessi paesi avanzati che ne erano più dotati. Anche per questo la domanda
effettiva e l’attività economica ristagnano; l’analisi econometrica mostra che gli
investimenti in opere pubbliche hanno effetti importanti, di domanda nel breve-medio
periodo, di offerta nel più lungo termine. Gli effetti sul Pil di un investimento sono
poi più marcati in un periodo di recessione e quando quest’ultimo è considerato
efficiente. L’investimento è efficiente quando, i benefici economico-sociali sono
massimi e i costi di realizzazione sono minimi. Va inoltre sottolineata la superiore
capacità moltiplicativa degli investimenti, rispetto a quella di un aumento di consumi
e trasferimenti pubblici ad esempio; non solo grazie all’effetto del moltiplicatore
1
keynesiano 1−c 1 , ma grazie anche ad una maggiore propensione ad investire da
parte delle imprese, quando infrastrutture migliorate riducono costi del produrre e
favoriscono profitti.
Possiamo dedurre quindi che: sacrificare investimenti pubblici alla spesa corrente,
alla manovra delle imposte, al contenimento del debito e del disavanzo non ha
fondamento economico (sono state scelte fatte per non perdere consenso); un
significativo apporto all’economia può ottenersi agendo sulla composizione delle
voci del bilancio pubblico, a parità di saldo; non ha senso computare la spesa
pubblica per investimenti nei vincoli quantitativi di bilancio, come avviene da
Maastricht in poi in Europa; oltre ai suoi effetti strettamente economici,
l’investimento pubblico in Italia è necessario per drammatiche ragioni sociali, per
mettere in sicurezza un territorio molto vulnerabile (esposto a nubifragi, frane,
alluvioni, crolli etc.) per compensare danni che infligge al patrimonio, attività
produttiva, incolumità dei cittadini.

NON È COLPA DELLE BANCHE

Pur avendo mutato il suo assetto nel corso degli anni, il sistema bancario italiano è
molto stabile; lo dimostra il fatto che, grazie anche alla supervisione della Banca
d’Italia, ha retto alle gravi crisi del 2008 e 2012, anche meglio di sistemi i altri paesi,
nonostante quest’ultimi abbiano avuto fenomeni recessivi meno gravi rispetto
all’Italia. Naturalmente sono possibili dei miglioramenti: la concentrazione può
aumentare senza pregiudizio per la concorrenza, la capitalizzazione può essere
innalzata; La crisi che ha portato l’industria finanziaria americana al tracollo, può
essere attribuita a vari fattori, ma uno dei principali è l’elevatissimo leverage degli
intermediari americani. Vanno inoltre smaltiti i 360 miliardi di crediti deteriorati che
la recessione ha fatto ricadere sulle banche (32 miliardi di sofferenze nel 2019).
Dopo il crollo del 1992 la quota delle sofferenze passò dal 5 al 10%; vennero però
riassorbite nel giro di qualche anno, questo è stato possibile perché l’economia
mondiale cresceva del 3% l’anno, i tassi superavano di circa 3 punti l’inflazione
dando spazio ai margini d’interesse bancari. Il contesto odierno è per alcuni versi
peggiore di quello degli anni novanta; i tassi prossimi allo zero non dipendono da un
eccesso del risparmio sull’investimento, ne dalle politiche monetarie delle banche
centrali, bensì dalle aspettative (quelle che keynes chiamava convenzioni). Su scala
mondiale la convenzione prevalente è stata di rischio deflattivo, non dovuto alla bassa
domanda, ma al cedimento dei costi, del lavoro e del petrolio. L’Eurozona cresce poi
a ritmi inferiori alla metà della media mondiale, la politica di bilancio espansiva
latita; la politica monetaria, la vigilanza, le regole sulle crisi bancarie agiscono in
modo contraddittorio. Il credo della vigilanza è quello di internalizzare i rischi entro
ciascuna banca; dalla età del 2013 è però precluso dall’ordinamento europeo ogni
intervento sugli intermediari in difficoltà. La capitalizzazione è considerata la
modalità principale di internalizzare i rischi; nel contesto in cui operano le banche
hanno difficoltà a conseguire utili e ricapitalizzarsi, sono indotte allora a diminuire le
attività contenendo i prestiti. In una situazione come quella descritta, la finanza non
ha molti spazi di manovra per cercare di dare una spinta alla domanda; quello che
possono fare è favorire il dinamismo d’impresa, poi cercare di finanziare in via
principale le imprese che realizzano i profitti grazie alla produttività. Solo il profitto
da produttività è solido e durevole nel lungo periodo, tale da garantire il pagamento
dell’interesse e il rimborso del prestito.

NON È COLPA DELL’EURO

L’Italia è stato un paese fondatore dell’Ue (anche della CEE e CECA negli anni 50),
è parte viva dell’Europa, se quest’ultima si unisce, l’Italia aderisce. L’Italia aderisce
per ragioni di sicurezza, mettere fine a guerre europee, per evitare isolamenti in un
mondo di giganti. Aderendo all’UE e alla moneta unica, scaturiscono dei vantaggi
economici, quali, la stabilità di una moneta unica, minori costi di transazione, tassi
d’interesse minori, una maggiore integrazione commerciale e finanziaria. L’Italia
riuscì a rispettare i parametri per entrare nell’Eurozona proprio in extremis: la Banca
d’Italia riuscì ad abbattere l’inflazione, abbassò i tassi d’interesse, pose fine alla
debolezza del cambio (facendo rientrare la lira nel SME); il governo Prodi riuscì ad
abbattere il disavanzo pubblico dal 7 alla fatidica soglia del 3% in un solo anno! La
nuova moneta infatti diede subito i frutti sperati; ma la politica monetaria non è
riuscita ad unire alla stabilità dei prezzi, progresso dell’attività produttiva necessario
per raggiungere la piena occupazione. Nell’Euroarea la crescita del Pil non ha mai
raggiunto il 3% e la disoccupazione non è mai scesa al di sotto dell’8% con punte al
12%.
In Italia c’è chi ancora è convinto che uscire dall’euro e dall’UE sia utile per far
riprendere l’economia italiana, ignorando tutti i costi che questa scelta
comporterebbe: la nuova “lira” si deprezzerebbe (errano quelli che pensano che una
svalutazione sarebbe positiva per l’Italia, lo dimostra il crollo della lira nel 92); il
cedimento del cambio porterebbe ad una elevata inflazione, conseguente erosione del
valore reale del risparmio monetario, degli stipendi, delle pensioni. L’euro va
ribadito, è un’ottima moneta, che garantisce stabilità, è domandata anche
internazionalmente. Il limite dell’Ue non è nella moneta, ma nel governo
dell’economia europea, condizionato dalla Germania; con cui bisogna tornare a
trattare seriamente sul piano strategico.

LA VIA D’USCITA

Il trend di crescita dell’economia italiana è mediocre. Il vuoto di domanda è


rispecchiato da un tasso di disoccupazione molto alto, superiore al 10%. Aver
migliorato la bilancia commerciale non riflette un guadagno di competitività. Tornare
alla crescita presuppone 7 condizioni:
1. Riequilibrio del bilancio
2. Investimenti pubblici
3. Nuovo diritto dell’economia
4. Profitto da produttività
5. Perequazione distributiva
6. Una strategia per il sud
7. Una diversa politica europea
Queste condizioni dipendono sia dall’azione di politica economica, sia dalla
autonoma risposta dei produttori. Sino ad ora sono state entrambe insufficienti.

Riequilibrio del bilancio: l’indebitamento netto della Pa è dal 2013 inferiore al 3%


del Pil. Il disavanzo strutturale si situa tra i più bassi fra i paesi del G7 (esclusa la
Germania che è in surplus), l’equilibrio non è lontano e va raggiunto; il debito
pubblico invece è il più elevato d’Europa (130% del Pil), escluso quello greco
(180%), superando di 40 punti la media europea. Deve crearsi nel bilancio lo spazio
per accrescere gli investimenti; con il bilancio in tendenziale pareggio il debito
pubblico resterebbe invariato, con un Pil nominale in crescita del 4% (come più che
possibile), il debito diminuirebbe in 5 anni al 110% del Pil; la tendenza a diminuire
risolverebbe il problema agli occhi dei mercati, aprendo ulteriori margini di bilancio.
Vi è spazio per ulteriori risparmi nelle uscite di parte corrente, l’evasione fiscale è
alta e facilmente riducibile.
La ricomposizione del bilancio e l’abbattimento graduale del debito costituiscono il
presupposto principale per rilanciare l’economia.
Investimenti pubblici: Gli investimenti della Pa sono crollati al di sotto del 2% del
Pil, non bastano nemmeno a conservare l’esistente. Le infrastrutture sono inadeguate,
la protezione dei beni e delle persone da alluvioni, terremoti, crolli etc. è gravemente
manchevole. Investimenti pubblici scelti secondo priorità ed efficacemente realizzati
avrebbero un impatto moltiplicativo sulla domanda globale, almeno il doppio di
quelli generati da maggiori spese correnti o trasferimenti a famiglie e imprese.
D’altro canto la produttività delle imprese, gli investimenti di quest’ultime ne
otterrebbero un beneficio.

Nuovo diritto dell’economia: Nonostante le parziali correzioni introdotte negli


ultimi anni, il nostro ordinamento giuridico dell’economia è decisamente obsoleto.
Sia il livello che il tasso di crescita del prodotto verrebbero innalzati se il diritto
venisse riformato. Il diritto all’impresa è chiamato a valorizzare la funzione
imprenditoriale, orientata al progresso tecnico; va favorito il superamento delle forme
d’impresa più elementari, che promuova l’ascesa dimensionale delle numerosissime
mini-aziende italiane. Solo se l’impresa si riprenderà, verranno tutelati i creditori
(non come adesso, con recuperi inferiori al 20% sui crediti chirografari, in tempi
biblici). Il numero dei procedimenti civili sono è diminuito, ma solo di poco, e
comunque i tempi di risoluzione di contenziosi, anche solo nel primo grado, si
attestano sui mille giorni. Il contenuto delle nuove norme, richiede poi, qualità e
chiarezza, nonché semplicità di applicazione.

Profitto da produttività: Dal crollo della lira, i profitti si sono realizzati anche senza
produttività; perché questi venivano favoriti dal cambio deprezzato, salario moderato,
margini di evasione fiscale ed altri aiuti statali. Ma la produttività è l’unica in grado
di sostenere una crescita di lungo periodo, va quindi sollecitato il ricercare il profitto
per questa via; le imprese devono accettare la concorrenza e fronteggiarla.

Perequazione distributiva: La ripartizione delle risorse tra i cittadini italiana è


iniqua, il 30% delle famiglie è a rischio povertà. L’indice di Gini (che va da 0 ad 1),
quando sal segnala una sperequazione nella distribuzione dei redditi; in Italia è 0,33
(0,35 al sud), superiore alla media europea (0,3). Al di là del profilo morale, la
crescita dell’economia viene ostacolata dal lato della produttività; si riducono le
possibilità per la fascia più povera della popolazione, di contribuire al meglio alle
attività produttive. All’ irrinunciabile funzione perequatrice, che la fiscalità è
chiamata a svolgere dalla Costituzione, deve unirsi uno sforzo per offrire opportunità
di studio, formazione a chi ne è impossibilitato.

Una strategia per il Sud: La questione meridionale è molto complessa, va affrontata


senza ulteriori ritardi; in alcune aree del Sud la disoccupazione supera il 20%! Quanto
detto nei punti precedenti vale per tutto il paese, ma in particolar modo per il
meridione. Probabilmente una delle cause principali della situazione del sud è la
criminalità organizzata, che va combattuta con ogni mezzo. L’investimento in
infrastrutture, materiali e immateriali, dove quelle basi per trasporti e logistica
(ferrovie, strade etc.) sono carenti, è cruciale. È questa l’unica politica realizzabile
per cercare di creare un contesto favorevole all’iniziativa dei privati.

Una diversa politica europea: Il problema in Europa non è l’euro. Uscire dalla
moneta unica non sarebbe conveniente per nessun paese (porterebbe inflazione,
distruzione valori patrimoniali, impoverimento). Il problema economico europeo è
problema di governo intelligente, coordinato, della domanda globale, restando le
riforme strutturali affidate a ciascun paese membro. Occorre una nuova banca
centrale, sul modello della Banca d’Italia o del Fed. La svolta sarebbe passare a un
rigore di bilancio alla Keynes, l’investimento è anche a livello europeo la chiave. Va
ammessa e praticata la golden rule, che al di là del breve periodo non implica debito;
come Keynes ha chiarito, gli investimenti realizzati in maniera efficiente, che
generano reddito, nel tempo si autofinanziano; solo una composizione della spesa
pubblica orientata in conto capitale, non corrente, può stabilizzare e sostenere lo
sviluppo di un’economia.
Il paese principale invece, la Germania; ha volto, dal 2013, in surplus un bilancio che
era in deficit tagliando al 2% del prodotto gli investimenti pubblici. L’economia
tedesca è quindi cresciuta meno del suo potenziale; con l’eccesso di risparmio
sull’investimento ha cedute preziose risorse reali al resto del mondo. Di riflesso, è
stata lesa la domanda dell’intera eurozona. Il “rigore Keynesiano”, che è stato
respinto deve affermarsi; il rischio è che con la prosperità dell’Europa messa a
rischio, si frantumi il sogno degli STATI UNITI D’EUROPA.

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