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Il Silenzio degli Angeli

Laura Maria Vassallo

Il Silenzio degli Angeli, il cui titolo originale è “Le Silence des anges. Terres et voix de
l’orient orthodoxe” è un docu-film girato nel 1998 da Olivier Mille e Jean-Francois
Colosimo. Il film è un viaggio tra le musiche, le liturgie, gli usi e i costumi dell’Oriente
Cristiano, che parte dalle lande di Kiji e attraversa l’Armenia, l’Etiopia, l’Egitto e la
Grecia, per poi tornare di nuovo in Russia.
Dell’Oriente Cristiano fanno parte realtà culturali molto diverse, collocate in luoghi
diversi, ma che interagiscono tra loro e che hanno qualcosa in comune, a partire
dall’origine. Per Oriente Cristiano infatti s’intendono tutte quelle comunità collocate
nella parte orientale dell’impero romano, ma anche oltre i confini di quest’ultimo.
Fattore di coesione politico-ecclesiastico tra queste aree era la lingua greca, ma dopo lo
sgretolamento dell’ecumene romano-bizantino, ciascuno assunse la propria lingua
locale sia nell’uso letterario che nella liturgia. Alla fine del III secolo infatti l’imperatore
Diocleziano ritenne opportuno suddividere il proprio impero in due distinte sfere
d’azione, la pars occidentalis e la pars orientalis, il cui governo fu affidato a due
Augusti affiancati da un Cesare. Della pars occidentalis facevano parte l’Italia, l’Europa
occidentale e l’Africa nord-occidentale, mentre la pars orientalis comprendeva gran
parte della penisola balcanica, l’Asia sud-occidentale e l’Egitto. In questa dinamica le
due pars si diversificano nettamente per ragioni ecclesiali e politico-culturali: dal punto
di vista ecclesiale, mentre in Occidente il primato rimaneva a Roma come capitale
apostolica, in Oriente erano diversi i centri che rivendicavano l’origine apostolica; dal
punto di vista socio-politico in Occidente tutte le popolazioni mantennero un’unità
anche dal punto di vista linguistico, visto che ovunque era parlato il latino, mentre in
Oriente coesistevano diverse civiltà che rivendicavano la propria identità nazionale,
soprattutto mantenendo le proprie lingue indigene. Ecco spiegato il motivo per cui
all’interno della parola Oriente Cristiano vi è una grande varietà di sfaccettature
culturali e linguistiche, che hanno pur sempre dei punti di contatto nell’azione liturgica.
Il viaggio del silenzio degli angeli inizia nell’isola russa di Kiji, una delle isole più
piccole dell’arcipelago del lago Onega. Il paesaggio innevato è caratterizzato dalla
presenza di chiese in legno, le cui cupole richiamano quelle d’oro e d’argento del
Cremlino. Nicolas Ozoline è il sacerdote del santuario più antico della Carelia, che si
colloca a qualche centinaio di chilometri da San Pietroburgo. In questa scena si vede la
celebrazione di un rituale per i defunti da parte di Padre Nicolas, alla sola presenza di
quattro donne. Ciò che subito salta all’occhio è la conformazione della chiesa: il
sacerdote infatti esce dall’iconostasi, una parete in legno ricoperta di icone che separa il
Santuario del Presbiterio dalla navata che accoglie i fedeli. Il segno della croce viene
fatto da destra verso sinistra e anche il sacerdote esegue tutti i movimenti in senso
antiorario, il che sta a simboleggiare il moto d’ascesa spirituale. La prima parte del rito
funebre comprende un kirie recitato in stile ecfonetico, vale a dire una declamazione
intonata in stile solenne, seguito da un canto polifonico a tre voci “memoria eterna”.
Tutta la celebrazione è caratterizzata dalla presenza della musica, la quale non è
accessoria, ma compone il rito stesso. Il cristianesimo arriva in Russia tramite l’influsso
dell’impero Bizantino, da Costantinopoli, per questo motivo i canti liturgici russi furono
sicuramente influenzati dalla musica bizantina.
Nella scena successiva ci troviamo tra le rovine di San Simeone, che comprendono una
delle più grandi chiese del mondo antico cristiano con annesso chiostro; le rovine si
trovano nell’odierna Siria, a circa 30 km da Aleppo. In questo contesto sentiamo Dimitri
Koutilla intonare il Simeròn kremate, un canto del Venerdì Santo che celebra la kenosi,
ovvero Dio che si svuota dalla sua divinità per accogliere in sé l’umanità.
Subito dopo ci spostiamo ad Aleppo, città ricca di storia e di culture che si intrecciano.
Ci troviamo in particolare nel quartiere cristiano, in cui in un’unica piazza sono presenti
la cattedrale greca, quella siriaca, quella maronita e quella armena. La moltitudine di
culture presenti nella città è evidenziata anche dalla presenza di insegne scritte in
armeno, arabo e inglese. Nella cattedrale per i martiri armeni si sta svolgendo una
liturgia alla presenza di un coro e anche dei fedeli. La musica dell’Oriente Cristiano e
soprattutto il repertorio siriaco è tramandato per la maggior parte secondo una tradizione
orale: Nouri Iskandar rappresenta uno dei maggiori conservatori di questo repertorio.
Assistiamo adesso all’esibizione di un coro di voci sia maschili che femminili che canta
un Gloria in aramaico; la melodia che ascoltiamo è pregna dell’intreccio tra culture che
caratterizza la città ed è esemplificativa della tradizione orale con cui si tramandano
questi canti. Sentiamo infatti un canto molto ripetitivo sia dal punto di vista ritmico che
melodico; le voci del coro si muovono per ottave parallele e la melodia è costruita su
scale composte anche da microtoni. Il fraseggio risulta di per sé molto musicale, e
questo, unitamente alla versificazione e al ritmo ripetitivo, favorisce sicuramente la
componente mnemonica.
Ci troviamo adesso in Etiopia, in un villaggio nei pressi di Lalibela. Assistiamo ad un
rito in cui sono presenti soli uomini. Chi svolge il rito canta e suona degli strumenti a
percussione; fanno parte del rito anche una serie di movimenti del corpo e il battito delle
mani che serve a scandire il tempo. L’uso di strumenti è un’eccezione poiché gli etiopi
seguono le scritture dei Salmi di David.
Per gli etiopi Lalibela è una meta di pellegrinaggio, il fiume che scorre viene chiamato
Giordano e i fedeli pregano Abramo, Isacco e Giacobbe, e sostengono di discendere da
Salomone e Saba. Secondo la leggenda gli angeli costruirono sulla collina più alta
undici chiese monolitiche.
Aforg è il dabtara, ovvero il maestro dei cantori di Lalibela, ed è considerato come il
guardiano delle memorie, poiché ha dedicato tutta la propria vita alla musica sacra.
Aforg spiega la differenza tra un dabtara ed un sacerdote: entrambi seguono Cristo,
stanno nel santuario insieme e conoscono le liturgie; il dabtara però al contrario del
sacerdote non amministra sacramenti, non compie gesti o rituali, egli è al servizio di
Cristo attraverso la musica. Prosegue dicendo che tutto ciò che viene cantato nei riti è
scritto; ci sono canti per ogni giorno dell’anno (Tipikòn). Gli etiopi utilizzano un tipo di
notazione paleo gregoriana, ma comunque i canti sono fissati nella memoria di chi li
esegue; in questo modo la memoria rappresenta una garanzia di non corruzione. Il ruolo
del daptara è quindi quello di perpetuare le melodie, trasmettendo tutto il proprio
sapere. È giusto ricordare che gli etiopi usano come lingua liturgica il ghéez, lingua che
divenne ufficiale già nel V secolo, quando si fecero in Etiopia le traduzioni dei testi
biblici e liturgici.
Gli etiopi sono i possessori delle tavole della legge di Mosè e festeggiano la teofania,
ovvero il battesimo di Cristo nel Giordano. Questa festa è molto sentita, molto più del
Natale perché rappresenta una rinascita, l’inizio di una nuova creazione spirituale. Il rito
inizia nel santuario al suono di uno shofar, uno strumento di origine ebraica simile ad un
corno naturale, e di strumenti a percussione. Dalla chiesa monolitica ha inizio la
processione che porta le tavole della legge attraverso una vallata fino alle sponde del
fiume. Qui sentiamo ancora suonare le percussioni e gli shofar, che tra l’altro sono gli
strumenti utilizzati nel Sinai da Mosè e Aronne per richiamare il popolo di Israele. Uno
degli officianti intona delle suppliche a cui rispondono i fedeli, poi delle croci vengono
immerse nelle acque del fiume, dove poco dopo si gettano i fedeli. Dopo questo rito di
purificazione spirituale e di rinascita, le tavole della legge sono riportate di nuovo al
santuario, e ad ogni stazione i diaconi eseguono delle danze rituali dai movimenti
coordinati; il rituale è caratterizzato da una musica che esprime l’estasi, alla presenza di
coro, tamburi, percussioni e sistri. Tornati presso il santuario i fedeli si lasciano andare
in una vera e propria danza estatica.
Il viaggio prosegue verso Alessandria in Egitto, città che conserva sia la memoria dei
Faraoni che dei Copti. Qui infatti si trova la sede della Chiesa Copta fondata nel I secolo
da San Marco. A tal proposito è giusto ricordare che la tradizione alessandrina
rappresenta una delle capostipiti dei Riti Orientali sorte nell’ambito dell’Impero
Romano, insieme a quella antiochena, armena, caldea e costantinopolitana.
Il canto liturgico Copto è caratterizzato da ripetizioni quasi ossessive di cellule
melodico ritmiche costruite sui testi. I canti sono maggiormente tramandati per via orale
e quindi imparati a memoria. La lingua liturgica copta ha subito nel corso dei secoli
molte variazioni: il copto come lingua ha origine nel II secolo sulla base dell’alfabeto
greco, ma in seguito alla conquista musulmana avvenuta nel VII secolo vi si introdusse
a poco a poco l’arabo. Il copto ad oggi viene considerato come una tradizione da
tramandare, quindi è usato solo come lingua liturgica, a cui si affianca la lingua più
moderna utilizzata nei contesti non sacri. Il canto liturgico nella lingua tradizionale è
accompagnato dall’utilizzo di strumenti a percussione, per lo più metallofoni, che
ricalcano ancora di più l’aspetto ritmico della musica.
Da Alessandria ci si sposta in un’altra città importantissima per la Chiesa Copta, Il
Cairo.
La chiesa cattolica d’oriente ha un proprio Papa, che fa un’udienza generale il mercoledì
presso la cattedrale di San Marco a il Cairo. Il monachesimo orientale nasce in Egitto,
da San Antonio da Alessandria. Egli nel IV secolo si ritira in meditazione nel deserto,
chiudendosi in una caverna. La sua salmodia nasce dal silenzio. “Tutti i canti di lamento
e di lode che risuoneranno negli eremi, nei conventi, nelle abbazie d’Oriente e
d’Occidente nel corso delle epoche saranno solo un’eco del mormorio di Antonio”.
Assistiamo quindi all’omelia del Papa presso la Cattedrale di San Marco, alla presenza
di una moltitudine di copti. Dopo l’omelia, il Papa risponde alle domande postegli per
iscritto e successivamente ci si alza in piedi per recitare il Padre Nostro. È giusto
ricordare che le uniche preghiere che nei riti orientali vengono recitate, e non cantate o
cantillate, sono il Padre Nostro e il Credo, in quanto sono preghiere fondative e si
devono distinguere dal resto delle liturgie.
Incontriamo adesso il Dottor Ragheb Meftah, che ha dedicato la sua vita al canto copto.
Nel 1927 ha invitato i musicologi europei ad aiutarlo nel suo lavoro di ricerca. Dopo la
guerra egli ha creato uno studio di registrazione e un’istituzione per la musica copta.
Meftah spiega l’origine della musica copta, partendo dalla predicazione di San Marco
nel I secolo; in quel tempo la musica dell’Egitto aveva una forte componente faraonica,
e la cristianizzazione ha permesso un’evoluzione della musica e della lingua che ci è
arrivata fino ai giorni nostri. La liturgia in tutte le sue forme riflette sempre il
patrimonio culturale originario di una nazione, così come la musica locale è sempre
influenzata della musica liturgica, ecco perché la musica copta si può considerare la
diretta continuazione della musica faraonica. La prova di ciò la si può vedere nella
prima forma di notazione musicale utilizzata dai copti e attestata dai manoscritti: si
tratta di una forma di notazione ecfonetica che affonda le sue radici nell’alfabeto greco
antico.
Entriamo in un'altra chiesa del Cairo, la chiesa della Vergine Maria, costruita nel luogo
del rifugio della Sacra Famiglia durante la loro fuga in Egitto: anche qui possiamo
assistere ad una funzione religiosa di cui la musica e il canto è parte integrante.
Il viaggio del silenzio degli angeli continua in Grecia, ad Atene e precisamente alla
Plaka, uno dei quartieri più antichi e caratteristici della città, che si estende ai piedi
dell’acropoli. Da una strada turistica, ricca di negozi e ristoranti, entriamo nella
Cattedrale bizantina di Santa Irene. Lycourgos Angelopoulos spiega che l’acustica delle
chiese è un fattore molto importante, perché tutti i riti sono interamente cantati; inoltre
nella cattedrale sono presenti due cori, uno destro e uno sinistro. Angelopoulos è un
artista, musicologo e maestro di coro, archeologo della musica Bizantina; egli considera
sé stesso come messaggero vivente della musica Bizantina. Ci dice perché la musica
Bizantina è considerata la musica degli angeli: Alexandros Papadiamantis scrisse “Non
so se è la musica dell’antica Grecia, ma è sicuramente quella degli angeli” riferendosi
alla musica Bizantina.
Assistiamo adesso ad una dimostrazione di un coro guidato appunto da Angelopoulos:
egli in quanto direttore si sofferma sull’aspetto ritmico del canto. Il ritmo dei canti non è
trascrivibile, o comunque non attraverso un metro ben preciso; questo perché ciò che
comanda il ritmo nel canto bizantino è il testo. Gli accenti musicali seguono di pari
passo la metrica testuale, la quale non segue degli schemi sillabici men precisi.
Riguardo alla scrittura musicale dal punto di vista metrico, Angelopoulos ci dice che la
lingua greca antica ha influenzato l’innografia, nel senso che i primi testi dei tropai
liturgici e i primi inni sono stati scritti proprio in quella lingua; le generazioni
successive estrapolarono gli accenti da questi testi per usarli nella musica, quindi gli
accenti e le loro combinazioni rappresentano i movimenti musicali.
Ci dirigiamo adesso al monastero delle suore di Timos Prodromose, che si trova sempre
in Grecia, al confine con la Bulgaria. Le suore vivono la propria fede in silenzio, e
usano uno strumento a percussione di legno chiamato simandron che ha la stessa
funzione delle campane, quello di richiamare i fedeli alla preghiera. Nella mattina del
Sabato Santo le suore richiamano i fedeli con i simandron, ma al momento del canto
liturgico gli strumenti vengono riposti fuori dalla chiesa; questo perché gli unici
“strumenti” ammessi alla gloria del Signore sono quelli divini, cioè gli uomini e le
donne che cantano. Le suore preparano la chiesa per la celebrazione della Pasqua:
assistiamo quindi ad una liturgia caratterizzata da un canto il cui stile prende il nome di
ifos, vale a dire la nasalizzazione del timbro, utilizzato come ornamento.
Adesso l’autore del docu-film fa una riflessione sulla musica liturgica orientale: la
musica orientale vive attraverso la voce, perché la voce incarna l’uomo. Il canto è la via
per arricchire lo spirito, una forma di ascetismo, una iniziazione angelica. Quando
l’uomo canta, esso diventa uno strumento del Divino.
A Tessalonica, nella notte del Sabato Santo, i fedeli affollano il Monastero di Vlatades,
in attesa che venga proclamata la risurrezione. Il vescovo tiene in mano il dicerio e sul
tricerio, delle candele che rappresentano rispettivamente la natura umana e divina di
cristo e la trinità; accende queste candele dal cero pasquale e i fedeli accendono le
proprie candele da quelle del vescovo. Poi il vescovo esce dalla chiesa guidato dal canto
dei fedeli “Christòs Anesti” (Cristo è risorto).
Giungiamo adesso a Patmos, isola greca nel Mar Egeo, famosa poiché luogo in cui
Giovanni Evangelista scrisse l’Apocalisse; in questo luogo inoltre erano presenti molti
monasteri e scuole di musica in cui veniva anche insegnata la notazione musicale.
Visitiamo la biblioteca, che rappresenta il reliquario di Patmos, in quanto custodisce rari
manoscritti greci, tra cui oltre mille trattano di musica bizantina. Questi ultimi mostrano
lo sviluppo della scrittura musicale, dalla tradizione orale alla forma classica che si è
cristallizzata a Costantinopoli. I manoscritti sono stati codificati e differenziati in base al
giorno, l’officio o la celebrazione. I primi manoscritti della musica bizantina risalgono
al XII secolo, ma molti sono andati perduti, e la biblioteca custodisce manoscritti che si
collocano tra il XII e il XX secolo. Ci viene mostrato un esempio di manoscritto che
probabilmente proviene proprio da Patmos: le indicazioni e il capolettera sono scritte in
rosso, mentre il testo è scritto in nero; gli accenti che segnano il ritmo sono scritti in
rosso, mentre quelli che segnano il livello (cioè l’altezza dei suoni e gli intervalli) sono
scritti in nero.
Un monaco del luogo spiega che il loro stile musicale non è così severo e ieratico come
a Costantinopoli, ma è molto più leggero e libero, poiché è influenzato dai canti
popolari; vi è infatti un’influenza reciproca tra i due stili.
Il viaggio si conclude dove è cominciato, in Russia, ma questa volta la tappa è Mosca.
In Russia il cristianesimo si è diffuso nel IX secolo. È giusto ricordare però che la
Chiesa Ortodossa ha vissuto per settanta anni in uno stato di soppressione. Il regime
nato dalla rivoluzione del 1917 ha voluto sostituire il Regno proclamato in Chiesa con
un altro regno senza Dio. Negli anni ‘30 la persecuzione diviene totale; soltanto negli
anni ‘40 inizia ad esserci una tolleranza, fino al 1964, quando la chiesa può esistere, ma
soggetta a diverse discriminazioni. È soltanto con la caduta del regime e dell’URSS, nel
1991, che potrà esserci la libertà religiosa.
Giungiamo a Santa Caterina, dove assistiamo ad un coro di donne diretto da Andrei
Kotov; quest’ultimo ha dedicato la sua vita a far rivivere i canti del passato. Il coro
intona un inno alla Vergine in antico slavone, la lingua liturgica del mondo slavo che si
assesta intorno al IX-X secolo. Il canto liturgico è un canto polifonico, in genere a
quattro parti, ma esistono anche canti antichi monodici e caratterizzati da una melodia
altamente dissonante, che prendono il nome di znamemi. Il linguaggio musicale
liturgico slavo abbraccia i territori che vanno dall’Adriatico fino agli Urali. Il repertorio
si fonda su melodie sistematicamente dissonanti, ma che risolvono sempre all’unisono;
inoltre i canti sono sicuramente influenzati dalla musica rinascimentale europea, in
quanto caratterizzati dalla presenza di quinte parallele e del contrappunto. Possiamo
quindi sostenere che questi canti siano una commistione tra la polifonia bulgara e quella
rinascimentale.
Ci spostiamo in una zona rurale della Russia, vicino Mosca. Anatoly Gridenko, come
Angelopoulos, dedica il suo lavoro a far rivivere la musica ortodossa ed è contro
l’occidentalizzazione di questa musica, auspicando un ritorno alle origini e alla purezza
del canto. Gridenko sostiene che per comprendere pienamente un inno liturgico, lo si
deve ascoltare nel contesto per il quale è stato creato. Assistiamo quindi ad una parte del
rito d’ingresso della liturgia, detto Grande Introito, che avviene quando il celebrante
esibisce il calice e il pane che poi verranno consacrati; il tutto è accompagnato e
sottolineato dall’Inno Cherubico. L’Inno è parte integrante del rito religioso, e il canto è
intrinseco nell’azione religiosa. L’Inno Cherubico recita “Noi che misticamente
rappresentiamo i Cherubini”, quindi rappresenta il canto di adesione dell’assemblea a
questo rito d’ingresso. Gridenko spiega che gli angeli cantano contemplando la Trinità,
ed è lo stesso che avviene durante la celebrazione, quando l’assemblea canta
contemplando il mistero che sta avvenendo. È tramite la contemplazione quindi, che
l’inno acquista una forma.
Nella scena finale è spiegato il senso del titolo del docu-film: il silenzio degli angeli
avviene durante l’incarnazione di Dio. Le scritture dicono che i cori angelici, da sempre
ininterrotti nella continua liturgia e lode all’Altissimo, non si sono mai fermati se non
quando vedendo Dio incarnarsi per prendere corpo mortale e andare verso il dolore e la
morte, ammutolirono per lo stupore: durante questo momento la Vergine Maria
cominciò a cantare. Il canto Bizantino rappresenta proprio la memoria di quel momento,
in cui il canto di una persona mortale, Maria per l’appunto, riempì il silenzio degli
angeli.
Il viaggio del “Silenzio degli angeli” è allo stesso tempo un viaggio musicale, teologico
e antropologico, che scava nelle origini millenarie dei popoli, il cui canto è strettamente
legato con la storia che li contraddistingue. Il più grande nodo che il viaggio affrontato
nel film fa emergere è quello delle differenze tra il cristianesimo cattolico-romano e
quello ortodosso: non si tratta di meri fattori esteriori o dogmatici, ma piuttosto
riflettono realtà culturali eterogenee, differenze radicali e anche ontologiche.

Sitografia di riferimento

https://www.giornaledistoria.net/ultimi-aggiornamenti/contrappunto/christianisme-sans-
letre-ou-de-lorthodoxie-silenzio-degli-angeli-canta-lesinanizione-del-figlio-dio/

https://www.simmetriainstitute.com/it/arte-e-mousike/817-la-liturgia-russo-ortodossa-il-
canto-come-contemplazione-divdordolo.html

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