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I
requisiti
fondamentali
di
un
sistema
di
notazione
che
funzioni
sono
sostanzialmente
due:
che
indichi
con
chiarezza
l'altezza
assoluta
o
relativa
di
ogni
nota,
e
che
ne
determini
la
durata
precisa
(il
ritmo).
Questi
neumi-‐accenti
sono
in
grado
di
registrare
graficamente
l'andamento
del
canto
in
tutti
i
suoi
aspetti
ritmici
ed
espressivi.
Ogni
neuma
infatti
poteva
avere
una
serie
di
variazioni
grafiche
che
permettevano
una
maggiore
precisione
nell'esprimere
la
durata
temporale
di
ogni
nota
componente,
oppure
una
serie
di
sfumature
dinamiche
o
di
fraseggio.
Ad
esempio,
se
lo
stesso
neuma
assumeva
una
forma
più
angolata
rispetto
alla
sua
forma
standard
tondeggiante,
prescriveva
un'esecuzione
più
marcata;
oppure,
se
i
neumi
venivano
corredati
di
trattini
orizzontali,
chiamati
episemi,
il
suono
o
i
suoni
da
essi
interessati
acquistavano
un
prolungamento
di
durata
rispetto
a
quello
o
a
quelli
che
ne
erano
sprovvisti.
Inoltre
esistevano
dei
neumi
speciali
come
l'oriscus,
e
il
quilisma,
aggregati
ai
neumi
base
che,
per
quanto
riguarda
il
movimento
13
melodico
hanno
lo
stesso
significato
dei
neumi
già
descritti,
ma
che
assommano
ad
essi
particolari
significati
fraseologici,
espressivi
o
anche
ornamentali;
sono
neumi
difficili
da
interpretare,
che
spesso
creano
problemi
di
trascrizione
e
di
esecuzione,
ma
che,
nello
stesso
tempo,
dimostrano
l'enorme
ricchezza
e
varietà
ritmica,
dinamica
ed
espressiva
del
repertorio
gregoriano
e
quindi
della
sua
notazione.
Infatti
questa
ricchezza
complica
non
poco
il
problema
inerente
alla
sua
registrazione
grafica,
per
il
fatto
che
il
canto
gregoriano
non
ha
durate
misurabili
in
modo
esatto
attraverso
rapporti
aritmetici
fra
le
note,
come
invece
avrà
la
musica
a
partire
dal
tardo
medioevo
fino
all'epoca
moderna
(che
sarà
appunto
“mensurata”,
o
misurata):
non
può
dunque
essere
imbrigliato
in
un
andamento
ritmico
regolato
da
scansioni
periodiche
del
tempo.
Al
contrario
il
ritmo
del
canto
gregoriano
segue
strettamente
quello
del
testo
verbale
che
è
sempre
in
prosa
(dato
che
i
canti
liturgici
in
versi
non
fanno
parte
del
repertorio
gregoriano
ufficiale),
e
si
adegua
con
estrema
adattabilità
al
suo
andamento;
solo
la
notazione
neumatica
è
in
grado
di
esprimere
anche
le
più
piccole
sfumature
di
durata
di
questo
ritmo
gregoriano
che,
proprio
per
la
sua
analogia
con
quello
di
un
discorso
verbale
viene
definito
ritmo
'oratorio'.
14
ES.
2
5.
EVOLUZIONE
DELLA
NOTAZIONE
I
neumi-‐accenti
scritti
in
campo
aperto
erano
dunque
in
grado
di
indicare
15
infinite
sfumature
ritmiche
ed
espressive,
tuttavia
non
avevano
la
capacità
di
risolvere
con
esattezza
il
problema
diastematico
(diàstema
=
intervallo),
cioè
di
indicare
l'esatta
altezza
dei
suoni.
Più
tardi,
dal
X
secolo
in
poi,
iniziò
a
diffondersi
la
notazione
diastematica,
cioè
in
grado
di
indicare
con
sempre
maggiore
precisione
l'ampiezza
degli
intervalli.
Questo
accadde
quando,
alla
fine
del
IX
secolo,
si
capì
che
per
segnalare
un
intervallo
importante
si
doveva
occupare
sulla
pergamena
uno
spazio
maggiore.
Il
passo
successivo
in
questo
senso
fu
l'apparizione
del
“custos”
alla
fine
del
rigo,
cioè
un
segno
(una
piccola
nota)
posto
all'altezza
della
nota
con
cui
la
melodia
prosegue
nel
rigo
successivo.
Nella
seconda
metà
del
X
secolo
il
problema
diastematico
venne
risolto
(cfr.
più
avanti
la
notazione
aquitana
nel
paragrafo
2.12)
tracciando
sopra
il
testo
liturgico
una
linea
a
secco,
non
inchiostrata,
indicante
un
suono
di
riferimento
rispetto
al
quale
i
neumi,
diventati
graficamente
neumi-‐punti
(disgregati,
scomposti
nelle
singole
note
costitutive,
quindi
formati
da
un
numero
di
punti
equivalente
al
numero
dei
suoni
da
cui
il
neuma
era
formato),
venivano
disposti
in
proporzione
alla
distanza
intervallare:
sopra,
sotto
o
sulla
stessa
linea.
All'inizio
del
secolo
XI
troviamo
nella
notazione
beneventana
(cfr.
più
avanti
il
paragrafo
2.12)
due
linee
colorate
che
indicano
i
semitoni:
una
linea
rossa
per
il
fa,
e
una
linea
gialla
per
il
do,
e
la
presenza
delle
lettere-‐chiave:
C
=
do;
F
=
fa.
Infine,
nella
seconda
metà
del
sec.
XI
Guido
d'Arezzo
nel
suo
trattato
intitolato
Prologus
in
Antiphonarium,
codificò
il
tetragramma,
un
rigo
formato
da
quattro
linee,
aggiungendo
due
linee
nere
alle
due
linee
colorate.
Dovendo
essere
inserita
nelle
righe
o
negli
spazi
del
tetragramma,
l'antica
grafia
dei
neumi
accenti
che
con
un
solo
segno
indicava
più
note,
subì
una
completa
disgregazione
trasformandosi
nella
cosiddetta
notazione
quadrata,
usata
anche
nei
libri
liturgici
moderni
(cfr.
la
colonna
centrale
dello
schema
posto
nel
paragrafo
2.10).
Il
tetragramma
permette
solamente
successioni
diatoniche,
vale
a
dire
formate
da
intervalli
di
tono,
e
da
due
intervalli
di
semitono
posti
tra
il
mi-‐fa
e
il
si-‐do:
per
questa
ragione,
a
partire
dal
secolo
XI,
in
quasi
tutte
le
regioni
occidentali,
il
canto
gregoriano,
per
poter
essere
scritto
sul
tetragramma,
fu
diatonizzato,
cioè
furono
eliminati
gli
intervalli
inferiori
al
semitono.
Solo
in
alcune
regioni
della
Svizzera
e
della
Baviera
la
tradizione
melodica
fu
rispettata
fino
ai
secoli
XIII-‐XIV.
La
notazione
quadrata
risolve
definitivamente
il
problema
della
diastemazia,
ma,
al
contrario
delle
notazioni
neumatiche,
si
rivela
assolutamente
insufficiente
ad
esprimere
la
varietà
ritmica
e
la
ricchezza
16
espressiva
dei
canti
gregoriani.
La
sproporzione
numerica
e
qualitativa
esistente
tra
il
numero
elevato
dei
segni
che
compongono
una
qualsiasi
scrittura
neumatica,
e
i
pochi
segni
adottati
dalla
moderna
notazione
quadrata,
porta
alla
deduzione
che
per
una
conoscenza
anche
non
specialistica
del
canto
gregoriano
non
si
può
fare
a
meno
di
ricorrere
anche
alle
antiche
fonti
manoscritte
in
notazione
neumatica
(precedenti
la
notazione
quadrata),
la
sola
a
poter
esprimere
le
infinite
sfumature
ritmico-‐espressive
di
questo
repertorio.
5.1
Principali
famiglie
neumatiche
I
neumi
assunsero
caratteristiche
grafiche
differenti
nei
numerosi
centri
scrittori
delle
diverse
aree
geografiche,
che
risolsero
ognuno
in
modo
autonomo
i
problemi
inerenti
alla
registrazione
grafica
dei
canti,
privilegiando
di
volta
in
volta
la
resa
della
diastemazia
o
quella
della
ritmica
e
dell'espressione.
17
Ecco
un
quadro
riassuntivo
delle
notazioni
messe
a
punto
nei
principali
centri
scrittori
occidentali
e
le
loro
caratteristiche
notazionali,
scelte
tra
quelle
che
possono
contribuire
nel
modo
migliore
alla
ricostruzione
critica
18
del
patrimonio
gregoriano:
-‐
la
notazione
sangallese
(presso
i
centri
scrittori
dei
monasteri
di
S.
Gallo
e
Einsiedeln,
fine
sec.
IX
-‐
sec.
XI)
è
quella
che
ha
il
più
evidente
carattere
chironomico;
è
adiastematica
e
ha
grande
interesse
ritmico
sia
per
l'aggiunta
sui
neumi
di
lettere
alfabetiche
(litterae
significativae
come,
per
esempio,
la
c
che
significa
celeriter
o
la
t
che
vuol
dire
tenete,
ecc.),
sia
per
la
presenza
di
episemi
(trattini
orizzontali
posti
sui
neumi
che
indicavano
un
prolungamento
del
suono
o
dei
suoni
da
essi
interessati),
sia
infine
per
le
modifiche
nel
disegno
stesso
dei
neumi,
o
nel
diverso
raggruppamento
dei
segni,
ai
fini
di
esprimere
mutamenti
ritmici;
-‐
la
notazione
metense
(presso
i
centri
scrittori
dei
monasteri
di
Metz
e
Laon,
sec.
X)
presenta
molti
neumi
disgregati,
vale
a
dire
scomposti
nelle
singole
note
costitutive,
ciascuna
avente
un
proprio
segno
staccato
da
19
quelli
indicanti
le
altre
note.
Ha
una
diastemazia
imperfetta,
ma
presenta
grande
interesse
ritmico
perché
la
disgregazione
permette
di
indicare
il
valore
delle
singole
note;
come
la
sangallese,
utilizza
le
litterae
significativae,
e
insieme
a
quella
si
rivela
la
più
utile
per
conoscere
il
canto
riformato,
quello
che
sostituì
il
gallicano
nelle
regioni
centro-‐occidentali
dell'Europa
e
che
prese
il
nome
di
canto
“gregoriano”.
-‐
la
notazione
carnutense
(testimoniata
dal
manoscritto
del
secolo
X
conservato
a
Chartres
ma
proveniente
dalla
Bretagna)
ha
possibilità
simili,
anche
se
inferiori,
alla
metense;
-‐
la
notazione
aquitana
(fine
sec.
X
-‐
sec.
XI
ha
il
suo
centro
principale
nel
monastero
di
S.
Marziale
di
Limoges)
presenta
neumi
completamente
disgregati
che
indicano
esattamente
l'altezza
dei
suoni,
grazie
anche
alla
presenza
di
una
linea
a
secco
(tracciata
sulla
pergamena
con
un
punteruolo)
rispetto
alla
quale
i
neumi
erano
collocati
in
proporzione
alla
loro
distanza
dalla
nota
espressa
dalla
linea
stessa
(intervallo
di
seconda,
terza,
quarta,
ecc.).
Per
decifrare
l'altezza
assoluta
della
linea
a
secco
si
utilizzavano
neumi
particolari
che,
per
convenzione,
fungevano
da
chiavi.
Questa
notazione
non
ha
interesse
ritmico;
20
-‐
la
notazione
detta
'francese
comune'
(sec.
XI)
è
adiastematica
e
ha
scarso
valore
ritmico;
importante
è
però
in
questa
notazione
il
manoscritto
conservato
a
Montpellier
perché
riporta,
al
di
sopra
della
notazione
neumatica,
delle
lettere
alfabetiche
che
danno
l'esatta
altezza
delle
note;
-‐
la
notazione
beneventana
(Benevento
e
Puglia,
sec.
XI)
non
presenta
un
particolare
interesse
ritmico,
ma
in
molti
manoscritti
presenta
una
diastemazia
perfetta
perché
troviamo
in
essi
due
linee
colorate
con
inchiostro:
una
rossa
che
indica
l'altezza
del
Fa
e
una
gialla
che
indica
quella
del
Do;
inoltre
in
alcuni
manoscritti
le
due
linee
colorate
presentano,
nella
loro
estremità
sinistra,
lettere
della
notazione
alfabetica
che
ne
indicano
l'altezza:
la
c
per
il
Do
e
la
f
per
il
Fa,
lettere
che,
con
graduali
modifiche
grafiche,
diverranno
le
moderne
chiavi
(cfr.
il
paragrafo
2.13).
In
questa
notazione
ci
sono
pervenuti
alcuni
caratteristici
canti
che
non
appaiono
in
altre
fonti,
e
che
sono
molto
importanti
perché
costituiscono
un
prezioso
residuo
dell'antico
rito
beneventano;
-‐
La
notazione
di
Nonantola
(monastero
di
Nonantola,
Italia
settentrionale
sec.
XI)
presenta
neumi
disgregati
che
forniscono
una
diastemazia
imperfetta,
ma
che
hanno
un
grande
interesse
ritmico
dovuto
alle
diverse
21
possibilità
che
ogni
neuma
ha
di
passare
dalla
forma
rotonda
a
forme
gradualmente
sempre
più
angolate,
in
proporzione
all'aumento
del
loro
valore
temporale;
-‐
la
notazione
bolognese
(Bologna,
sec.
XI)
non
fornisce
informazioni
riguardo
l'altezza
dei
suoni,
e
non
è
interessante
dal
punto
di
vista
ritmico.
La
graduale
trasformazione
della
scrittura
musicale
da
neumatica
in
campo
aperto
(ricca
di
informazioni
ritmiche
ed
espressive)
a
neumatica
con
neumi
quadrati
(perfettamente
diastematica,
ma
priva
di
informazioni
ritmiche)
portò
alla
parallela
e
altrettanto
graduale
perdita
della
tradizione
ritmica,
dovuta
al
fatto
che
i
neumi
quadrati
non
avevano
altra
capacità
che
quella
di
indicare
l'altezza
esatta
delle
note.
Ma
questa
trasformazione
coincide
anche
con
un
effettivo
mutamento
stilistico
nell'ambito
della
prassi
esecutiva.
Infatti
il
canto
gregoriano,
assunta
in
età
carolingia
la
posizione
di
assoluto
prestigio
religioso
per
il
fatto
che
era
il
canto
'composto
da
S.
Gregorio
Magno',
perse
ogni
possibilità
di
rinnovamento
e
si
poneva
ormai
come
modello
assoluto
e
immutabile,
cristallizzato
in
questo
ruolo
sacrale.
Quindi,
per
evitare
il
pericolo
di
ogni
impercettibile
mutamento
nella
sua
lezione,
la
sua
esecuzione
subì
un
graduale
appiattimento
ritmico
dovuto
alla
resa
sempre
più
uniforme
dei
suoi
valori
di
durata.
Da
qui
anche
la
sua
definizione
di
«canto
piano»,
nel
senso
di
canto
dall'andamento
lento,
severo,
formato
da
note
dal
valore
sempre
più
uniforme,
che,
proprio
a
partire
da
questa
epoca,
fu
anche
inglobato
nelle
prime
forme
della
nascente
polifonia.
Dunque
per
poter,
oggi,
ricostruire
le
melodie
gregoriane
è
necessario
prendere
in
considerazione
sia
i
codici
scritti
in
notazione
quadrata
perfettamente
diastematica,
che
assicurano
la
lezione
melodica,
sia
quelli
coi
neumi
in
campo
aperto,
che
forniscono
indicazioni
sul
ritmo
e
sul
fraseggio.
La
ricostruzione
filologica
del
canto
gregoriano
basata
sullo
studio
e
sulla
collazione
delle
antiche
fonti
manoscritte
fu
intrapresa,
nella
seconda
metà
del
XIX
secolo
dai
monaci
benedettini
di
Solesmes,
in
Francia.
Furono
loro
a
classificare
i
neumi
e
ad
avviare,
più
che
altro,
la
ricostruzione
melodica
del
repertorio
gregoriano.
Questo
lavoro
scientifico
fu
garantito
anche
da
una
impresa
monumentale,
iniziata
nel
1888
da
Dom
André
Mocquereau
(1849-‐
1930),
che
sostituì,
nella
direzione
del
coro
di
Solesmes,
Dom
Joseph
Pothier,
uno
dei
primi
artefici
di
quest'opera
di
restaurazione:
la
pubblicazione
in
facsimile
delle
più
antiche
fonti
del
gregoriano,
la
Paléographie
Musicale,
il
cui
primo
22
fascicolo
uscì
nel
1889.
Anche
sulla
base
di
quest'opera
fondamentale,
lo
studio
del
canto
gregoriano,
e
soprattutto
la
sua
interpretazione
ritmica
ha
compiuto
notevoli
passi
avanti
dopo
la
metà
del
nostro
secolo.
5.2
Notazione
alfabetica
Nel
Medioevo
si
elaborarono,
sull'esempio
dei
teorici
greci,
vari
sistemi
di
notazione
in
lettere
alfabetiche
le
quali
però
non
uscirono
quasi
mai
dall'ambito
delle
opere
teoriche;
la
vera
notazione
pratica
era
quella
neumatica
destinata
ai
cantori;
essendo
la
notazione
alfabetica
puramente
teorica,
era
destinata
agli
studiosi
dell'
ars
musica,
ai
cosiddetti
musici
(cfr.
paragrafo
6.1).
Il
Medioevo
ereditò
dai
Greci
la
scala
di
due
ottave
in
minore
(probabilmente
da
la'
a
la''').
Fu
Boezio
a
introdurre,
all'inizio
del
VI
secolo,
nel
mondo
culturale
latino-‐cristiano,
l'uso
del
simbolismo
musicale
greco,
traslitterandolo
in
lettere
dell'alfabeto
latino,
e
facendo
corrispondere
ai
suoni
diatonici
da
La'
a
La'''
rispettivamente
le
lettere
alfabetiche
dalla
A
alla
P
in
successione;
si
trattò
comunque
di
un
sistema
di
denominazione
e
non
di
una
tecnica
di
scrittura.
In
seguito
la
nomenclatura
alfabetica
da
A
a
G
fu
fatta
corrispondere
alle
note
della
scala
diatonica,
per
cui
A
=
do
(ut
all'epoca:
cfr.
più
avanti
il
sistema
della
solmisazione
di
Guido
d'Arezzo
al
paragrafo
6.3),
B
=
re,
C
=
mi,
D
=
fa,
E
=
sol,
F
=
la,
G
=
si.
Nel
secolo
X
Oddone
di
Cluny
tornò
ad
applicare
la
serie
(o
notazione)
alfabetica
di
lettere
latine,
da
A
a
G,
al
sistema
perfetto
dei
greci
(formato
da
due
ottave),
per
cui
A
corrispondeva
al
la
grave,
e
differenziò
graficamente
le
ottave,
usando
le
sette
lettere
maiuscole
(da
A
a
G)
per
l'ottava
grave,
e
le
stesse
lettere
minuscole
(a-‐g)
per
l'ottava
successiva,
più
acuta.
Lo
stesso
Oddone
aveva
aggiunto
al
grave
la
lettera
greca
gamma
maiuscola
per
designare
il
suono
inferiore
al
primo
La,
il
Sol
grave:
da
qui
la
denominazione
'gamma'
fu
attribuita
anche
all'intera
successione
di
suoni.
Guido
d'Arezzo
aggiunse
delle
doppie
lettere
minuscole,
aa,
bb,
ecc.
(oggi
sostituite,
a
volte,
dalla
singola
lettera
minuscola
provvista
di
un
esponente)
ai
successivi
suoni
acuti
di
questa
scala.
Nelle
ottave
superiori
(acute)
la
scala
comprende,
oltre
al
si
bequadro
o
naturale,
anche
il
si
bemolle.
23
Questo
sistema
definitivo
di
nomenclatura
alfabetica
della
notazione
era
idoneo
a
identificare
i
suoni
nella
trattazione
teorica,
e
quindi
era
adatto,
come
si
è
già
detto,
all'insegnamento
dell'
ars
musica.
Tuttavia
costituì
anche
un
importante
riferimento
pratico,
come
vedremo,
nella
messa
a
punto,
da
parte
di
Guido
d'Arezzo,
del
sistema
della
solmisazione,
(cfr.
il
paragrafo
6.3)
atto
a
facilitare
ai
cantori
l'intonazione
e
l'apprendimento
del
repertorio.
5.3
Il
sistema
modale
Le
origini
del
sistema
modale
non
sono
ancora
state
chiarite;
ma
tra
l'VIII
e
il
IX
secolo
tutto
il
repertorio
gregoriano,
per
necessità
di
organizzazione
e
per
facilitarne
l'apprendimento
e
la
memorizzazione,
fu
classificato
in
base
al
sistema
dei
modi
ecclesiastici:
una
serie
di
otto
scale
diatoniche
ascendenti
composte
da
otto
suoni.
Ogni
scala
è
caratterizzata
dalla
diversa
posizione
dei
toni
e
dei
semitoni,
e
gravita
intorno
a
un
suono
fondamentale
denominato
finalis,
una
sorta
di
tonica,
sulla
quale
in
genere
termina
il
brano,
e
a
una
seconda
nota
caratteristica,
detta
repercussio,
una
specie
di
'dominante',
intorno
alla
quale
si
muove
la
melodia,
che,
nelle
formule
salmodiche,
(v.
più
avanti),
coincide
con
la
nota
di
recita,
detta
anche
tuba
o
tenor.
Questa
forma
definitiva
fu
raggiunta
nell'XI
secolo:
24
In
tale
sistema
si
individuano
quattro
modi
autentici
e
quattro
plagali;
ogni
modo
autentico
ha
in
comune
con
il
rispettivo
plagale
la
nota
finalis,
ma
diverge
nell'ambito
(o
estensione)
dell'ottava,
perché
ogni
scala
plagale
inizia
una
quarta
sotto
la
finalis
del
relativo
modo
autentico.
Si
può
individuare
facilmente
la
repercussio
di
ogni
modo,
tenendo
presente
che
nei
modi
autentici
si
trova
una
quinta
sopra
la
finalis,
e
nei
modi
plagali
una
terza
sotto
la
dominante
del
relativo
modo
autentico;
quando
però
la
repercussio
cade
sulla
nota
si,
viene
automaticamente
spostata
sul
do.
Tuttavia,
questa
codificazione
riguardante
la
repercussio,
rende
solo
in
parte
la
realtà
storica
e
musicale
del
canto
gregoriano,
perché
questa
'dominante',
più
che
rappresentare
la
nota
caratteristica
di
un
modo,
ha
un
ruolo
preminente
in
alcune
speciali
formule
melodiche
legate
a
ciascun
modo,
le
formule
su
cui
venivano
intonati
i
salmi,
dove
la
'dominante'
coincide
con
la
nota
(o
corda)
di
recita
chiamata
anche
tuba
o
tenor.
Dunque
un
modo
non
si
può
classificare
solo
in
base
alla
sua
finalis
e
all'ambito
melodico
in
cui
si
muove,
ma
anche
in
base
alla
individuazione
delle
formule
melodiche
tipiche
di
quel
modo.
I
modi
ecclesiastici
hanno
ricevuto
tre
tipi
di
denominazione:
gli
ordinali
greci
latinizzati,
protus,
deuterus,
tritus,
tetrardus,
autentici
e
plagali;
gli
ordinali
latini
dal
primo
all'ottavo;
i
nomi
'etnici',
dorico
e
ipodorico,
frigio
e
ipofrigio,
lidio
e
ipolidio,
missolidio
e
ipomissolidio.
Quest'ultima
nomenclatura,
derivata
dai
termini
che
denominavano
le
scale
modali
greche,
è
però
errata,
perché,
a
causa
di
una
sbagliata
interpretazione
25
della
teoria
musicale
greca
in
epoca
medievale,
le
denominazioni
applicate
ai
modi
medievali
non
coincidono
con
quelle
delle
scale
modali
greche
(cfr.
paragrafo
6.2).
6.
GLI
ASPETTI
TESTUALI
DEL
CANTO
GREGORIANO.
La
Liturgia
è
l'insieme
dei
riti,
delle
preghiere
e
dei
canti
della
Chiesa.
Il
26
repertorio
gregoriano
si
venne
formando
e
sviluppando
in
funzione
dei
testi
liturgici
organizzati
e
distribuiti
in
tutto
l'anno
liturgico,
che
è
l'insieme
delle
celebrazioni
dei
misteri
di
Cristo
nell'ambito
di
un
anno.
L'anno
liturgico
inizia
con
il
ciclo
di
Natale,
preparato
dalle
quattro
settimane
dell'Avvento,
e
culmina
nel
ciclo
di
Pasqua,
preceduto
dalla
Quaresima
e
dal
tempo
di
Passione;
si
conclude
cinquanta
giorni
dopo
la
Pasqua
con
la
Pentecoste,
ovvero
la
discesa
dello
Spirito
Santo.
Il
periodo
di
mezzo
tra
la
Pentecoste
e
il
nuovo
Avvento,
già
detto
delle
domeniche
dopo
Pentecoste
è
ora
definito
'tempo
ordinario
fra
l'anno'.
La
Chiesa
ha
aggiunto,
nel
tempo,
varie
feste
dedicate
alla
Madonna
e
ai
Santi
che
però
non
interferiscono
con
quelle
che
celebrano
la
vita
di
Cristo.
Queste
ultime
celebrazioni
formano
il
ciclo
Temporale,
mentre
le
feste
dei
Santi
costituiscono
il
ciclo
Santorale.
La
giornata
liturgica
comprende
la
liturgia
delle
ore,
o
Ufficio,
vale
a
dire
la
preghiera
ufficiale
della
Chiesa
romana
distribuita
nelle
varie
ore
del
giorno,
e
la
liturgia
dei
sacramenti
nella
quale
emerge
per
importanza
la
liturgia
Eucaristica,
detta
Messa,
che
prende
questo
nome
dalla
formula
finale
di
congedo
«Ite
missa
est»,
ovvero
il
memoriale
del
sacrificio
di
Cristo,
e
la
Comunione.
I
testi
dell'Ufficio
(Liturgia
delle
ore)
comprendono
150
salmi
con
le
relative
antifone,
i
cantici
(composizioni
di
carattere
poetico
prese
dall'Antico
e
dal
Nuovo
Testamento),
inni
(composizioni
poetiche
antiche
e
recenti,
cfr.
i
paragrafi
2.6
e
2.16),
litanie,
orazioni
e
letture
tratte
prevalentemente
dalla
Bibbia.
Schema
dell'Ufficio
delle
ore
liturgiche
Ore
Maggiori
Ore
minori
Mattutino
Laudi
(preghiera
del
mattino)
Prima
(oggi
soppressa)
Tertia
Sexta
Nona
Vespri
(preghiera
della
sera)
Compieta
(preghiera
personale
della
sera)
I
testi
della
messa
si
dividono
in
Ordinarium
missae,
il
cui
testo
è
invariabile
per
ogni
giorno
dell'anno,
e
nel
Proprium
missae,
il
cui
testo
cambia
in
base
al
calendario
liturgico.
27
Tale
repertorio
si
trova
in
libri
liturgici
medievali
che
possono
essere
variamente
classificati,
sia
dal
punto
di
vista
cronologico
che
del
contenuto:
qui
elenchiamo
i
principali.
Il
Liber
Sacramentorum,
o
Sacramentario,
è
il
più
antico
libro
della
liturgia
romana
che
conteneva
le
formule
di
preghiera
per
il
celebrante.
I
principali
libri
liturgici
che
contengono
i
testi
e
i
canti
dell'Ufficio
sono
due:
il
Breviarium,
che
comprende
solo
i
testi
per
i
vari
periodi
dell'anno
liturgico
(si
disse
Breviario
perché,
a
seguito
di
varie
riforme,
i
testi
apparivano
in
forma
abbreviata);
e
l'
Antiphonarium
officii,
contenente
i
canti.
I
principali
libri
liturgici
che
raccolgono
i
testi
e
canti
della
messa
sono:
l'Antiphonale
missarum
detto
anche
Liber
Gradualis,
o
Graduale,
contenente
i
canti
del
Proprio
della
Messa,
e,
in
appendice,
quelli
dell'Ordinario:
questi
ultimi
potevano
anche
essere
raggruppati
in
un
libro
a
parte
detto
Kyriale;
il
Lezionario,
che
conteneva
le
letture
per
la
Messa,
(epistole
e
vangeli);
il
Messale,
o
Missale
plenarium,
è
il
libro
liturgico
che,
a
partire
dai
secoli
X-‐XI,
contiene
le
preghiere,
i
canti
e
le
letture
per
la
Messa:
si
disse
plenarium
proprio
perché
i
diversi
repertori
di
preghiere
e
canti
sono
raccolti
in
un
unico
libro.
Inoltre
il
Liber
Usualis
comprende
i
canti
principali
della
messa
e
dell'Ufficio
per
tutte
le
domeniche
e
le
feste
più
importanti
dell'anno
liturgico.
28
6.1
Le
Forme
musicali
del
repertorio
gregoriano.
Tutti
i
canti
del
repertorio
gregoriano
classico
che
ci
sono
pervenuti
a
partire
dal
IX
secolo,
attraverso
la
notazione
neumatica,
possono
essere
catalogati
e
studiati
in
base
a
differenti
criteri:
1)
secondo
il
loro
uso
liturgico:
canti
dell'Ufficio
o
canti
della
Messa:
a
loro
volta
i
canti
della
Messa
possono
essere
suddivisi
in
canti
di
meditazione
o
canti
destinati
a
momenti
di
azione;
2)
secondo
il
loro
stile,
ovvero
in
base
al
rapporto
tra
note
e
sillabe,
per
cui
abbiamo
lo
stile
sillabico,
neumatico,
e
melismatico
e
cioè:
• sillabico
quando
ogni
nota
ha
una
sola
sillaba
da
cantare;
• melismatico
quando
su
una
sillaba
si
cantano
molte
note;
• neumatico
quando
si
verifica
un
compromesso
tra
i
suddetti
stili,
per
cui
ad
ogni
sillaba
corrispondono
poche
note.
Nell'ambito
di
un
canto
possono
alternarsi
stili
diversi.
3)
secondo
la
loro
forma
e
il
loro
modo
di
esecuzione:
• canti
antifonali,
quando
si
alternano
due
cori;
• canti
responsoriali,
quando
si
alternano
un
solista
e
il
coro;
• canti
diretti
o
direttanei,
quando
esegue
un
solista
senza
alternanza
con
il
coro;
4)
secondo
il
tipo
di
testo,
che
può
essere
biblico
o
non
biblico:
ognuna
di
queste
due
categorie
può
a
sua
volta
essere
suddivisa
tra
quelle
con
testi
in
prosa
e
quelle
con
testi
in
versi.
Prose
bibliche
sono
le
lezioni
dell'Ufficio,
l'Epistola
e
il
Vangelo;
testi
biblici
poetici
sono
i
salmi
e
i
cantici;
sull'altro
versante
i
testi
non
biblici
in
prosa
sono
per
esempio
il
Te
Deum
e
varie
antifone,
e
quelli
poetici
sono
gli
inni
e
le
sequenze.
Il
repertorio
musicale
gregoriano
comprende,
come
si
è
detto,
i
canti
della
Messa
e
quelli
dell'Ufficio.
i
canti
della
Messa
si
suddividono
in
canti
dell'Ordinario,
i
cui
testi
sono
immutabili
per
tutto
l'anno
liturgico,
e
in
canti
del
Proprio,
i
cui
testi
invece
variano
in
funzione
delle
diverse
feste.
Gran
parte
dell'Ufficio
consiste
nella
salmodia,
che
viene
solitamente
preceduta
e
seguita
dalle
Antifone,
e
nei
i
Responsori
del
Mattutino.
Anche
i
canti
del
Proprium
missae
(Introito,
Graduale,
Alleluia,
Tratto,
Offertorio
e
Comunione)
sono
il
prodotto
risultante
dall'evoluzione
della
salmodia,
29
dato
che
originariamente
in
quei
momenti
della
messa
si
intonavano
salmi.
Seguendo
il
criterio
dello
stile,
prima
di
prendere
in
considerazione
le
categorie
di
canti
più
importanti
tra
quelle
in
uso
nella
liturgia,
si
rende
necessaria
una
ulteriore
suddivisione
tra:
a)
forme
in
cui
la
musica
consiste
in
una
sorta
di
declamazione
intonata
(una
via
di
mezzo
tra
il
linguaggio
parlato
e
il
canto)
in
cui
è
la
parola
la
protagonista
assoluta;
b)
forme
che
si
avvalgono
di
una
musica
più
elaborata,
quindi
di
una
vera
e
propria
melodia.
Appartengono
alla
prima
categoria
(a):
1)
i
recitativi,
vale
a
dire
le
formule
per
gli
interventi
del
celebrante
(quindi
la
cantillazione
delle
orazioni,
del
prefazio,
del
Pater
noster);
per
gli
interventi
degli
altri
ministri
della
liturgia
(le
letture,
le
epistole);
e
per
le
risposte
dell'assemblea.
2)
le
formule
per
l'intonazione
dei
salmi,
o
toni
salmodici,
la
cui
struttura
consiste
in
uno
schema,
ripetuto
per
ogni
versetto
del
salmo,
che
prevede:
-‐
l'
initium,
o
intonatio,
una
formula
melodica
atta
a
raggiungere
la
corda
di
recita
detta
repercussio;
-‐
la
repercussio,
ossia
la
nota
ribattuta
sulla
quale
viene
intonata
la
maggior
parte
delle
sillabe
del
versetto;
questo
procedimento
viene
interrotto
saltuariamente
da
qualche
inflessione
discendente,
(note
dette
flexae),
ma
nel
caso
di
un
versetto
molto
lungo,
il
procedimento
viene
interrotto
da
una
cadenza
vera
e
propria
(detta
mediatio
=
cadenza
mediana)
che
si
inseriva
a
metà
del
versetto
o
in
corrispondenza
della
sua
punteggiatura;
-‐
la
terminatio,
ossia
la
cadenza
finale
che
conclude
l'intonazione
del
verso
stesso.
30
Nella
categoria
dei
canti
musicalmente
più
elaborati
(b)
possiamo
distinguere
quelli
in
stile
sillabico,
dove
a
ogni
sillaba
(o
a
gran
parte
di
esse)
corrisponde
una
nota,
in
stile
neumatico
quando
ad
ogni
sillaba
corrispondono
poche
note,
e
in
stile
melismatico
quando
su
ogni
sillaba
si
cantano
molte
note.
Naturalmente
questa
distinzione
non
è
mai
assoluta,
in
quanto
dei
canti
melismatici
possono
contenere
frasi
sillabiche,
e
viceversa
alcuni
canti
sillabici
contengono
a
volte
brevi
melismi.
I
canti
melismatici,
data
la
loro
difficoltà,
non
erano
affidati
all'assemblea
dei
fedeli,
ma
a
un
circoscritto
numero
di
cantori
professionisti
(Schola
cantorum,
la
cui
preparazione
durava
almeno
un
decennio),
o,
a
volte,
a
uno
solo
di
essi.
Le
Antifone
sono
brevi
melodie
che
precedono
e
seguono
l'intonazione
di
un
salmo.
Le
più
antiche
erano
destinate
a
un
gruppo
di
cantori
e
non
a
un
solista,
quindi
sono
sillabiche
o
poco
fiorite,
e
la
melodia
si
muove
per
gradi
congiunti
in
una
estensione
limitata
e
su
un
ritmo
semplice
(le
antifone
dei
cantici
sono
più
complesse).
Le
Antifone
più
recenti
non
sono
invece
legate
a
determinati
salmi,
ma
sono
brani
autonomi
impiegati,
tra
l'altro,
nelle
processioni.
Lo
stile
si
adattava
anche
alle
diverse
fasi
della
liturgia:
i
momenti
di
azione
si
avvalevano
di
uno
stile
meno
melismatico
di
quello
adoperato
per
i
momenti
di
meditazione
o
contemplazione.
Nel
Proprio
della
messa,
i
momenti
dinamici
sono
l'Introito,
il
Communio
e
l'Offertorio
e
i
loro
canti,
non
molto
fioriti,
sono
affidati
alla
schola,
mentre
i
momenti
statici
e
meditativi,
il
Graduale,
l'Alleluia
e
il
Tratto
essendo
prevalentemente
melismatici,
sono
affidati
a
un
solista.
L'Introito
e
il
Communio,
che
corrispondono
rispettivamente
all'entrata
degli
officianti,
e
alla
distribuzione
dell'Eucarestia,
derivano
dalla
salmodia
antifonale.
Il
31
loro
stile
è
moderatamente
ornato
(neumatico)
e
le
melodie
sono
quasi
sempre
originali.
L'Introito
conserva
dell'antica
salmodia
solo
l'antifona,
molto
ornata
e
affidata
alla
schola,
che
viene
alternata
a
un
versetto
di
un
salmo
affidato
al
solista.
Il
Communio
ha
una
struttura
simile,
ma
dal
secolo
XI
era
rimasto
privo
del
versetto,
conservando
solo
l'antifona.
(Il
Concilio
Vaticano
II
ha
ripristinato
l'uso
di
alternare
uno
o
più
salmi
all'antifona).
A
volte
è
sillabico
e
si
avvale,
rispetto
all'Introito,
di
melodie
meno
uniformi
e
instabili
dal
punto
di
vista
della
modalità.
L'Offertorio,
il
canto
eseguito
durante
la
processione
in
cui
si
portano
le
offerte
all'altare,
era
in
origine
in
forma
di
salmodia
antifonale;
durante
i
secoli
VIII
e
IX
si
diversificò
dagli
altri
canti
processionali
della
Messa
(Introito
e
Communio)
perché
da
canto
antifonale
si
trasformò
(caso
unico
nella
storia
del
gregoriano)
in
canto
responsoriale,
assumendo
uno
stile
più
melismatico
e
facendo
ripetere
l'antifona
dopo
ogni
versetto.
Fino
al
XII
secolo
conservò
l'alternanza
dell'antifona
con
due
o
tre
versetti,
che
poi
furono
abbandonati.
Altri
elementi
tipici
degli
Offertori
sono
la
singolare
estensione
dell'ambito
melodico,
e
le
frequenti
ripetizioni
di
parole
o
di
intere
frasi
che
conferiscono
ai
brani
grande
efficacia
espressiva
e
drammatica.
I
momenti
statici
e
meditativi
nel
Proprio
sono
il
Graduale,
l'Alleluia
e
il
Tratto,
e,
come
detto,
sono
accompagnati
da
canti
prevalentemente
melismatici,
affidati
ai
solisti.
Il
Tratto
è
un
canto
eseguito
dopo
il
Graduale,
in
sostituzione
dell'Alleluia
durante
la
Quaresima
e
in
altri
giorni
penitenziali.
Il
nome
deriva
forse
dall'espressione
«cantus
tractus»,
cioè
continuato,
senza
ripetizione:
deriva
infatti
dalla
salmodia
'diretta'
o
'continua'.
E'
un
canto
di
meditazione,
il
testo
è
preso
dai
salmi,
lo
stile
è
marcatamente
melismatico,
per
cui,
come
si
è
già
detto,
l'esecuzione
è
affidata
a
un
solista.
Quasi
tutti
i
pochi
esempi
di
tratto
rimasti
del
gregoriano
primitivo,
sono
costruiti
su
un
modello
melodico
comune
(melodia-‐tipo),
leggermente
variate
nei
vari
brani,
che
testimonia
e
conferma
il
tipo
di
tecnica
compositiva
impiegata
in
questo
repertorio:
la
manipolazione
e
l'adattamento
di
formule
melodiche.
Il
Graduale
è
il
più
antico
canto
di
meditazione;
deriva
la
sua
denominazione
forse
dal
fatto
che
si
cantava
sui
gradini
dell'ambone
o
del
presbiterio.
Nella
sua
forma
primitiva
dei
primi
secoli
cristiani
era
un
salmo
cantato
in
forma
responsoriale
(è
detto
anche
Responsorium).
Con
la
successiva
e
graduale
crescita
professionale
delle
scholae
cantorum,
cioè
32
dei
gruppi
corali
professionistici,
lo
stile
di
questo
salmo
divenne
sempre
più
ornato,
così
che
il
protrarsi
dei
melismi
e
della
durata,
portò
alla
riduzione
del
numero
dei
versetti
del
salmo.
La
forma
del
graduale
trasmessa
successivamente
dalla
scrittura
neumatica
comprende
due
sezioni:
un
responsorio
(risposta
corale)
e
un
versetto
per
il
solista.
Lo
stile
del
graduale
è
tra
i
più
ornati
del
repertorio
gregoriano,
con
melismi
che
arrivano
a
trenta
note
per
sillaba;
anche
in
esso
sono
frequenti
le
variazioni
su
melodie-‐tipo
mentre
l'ambito
modale
viene
spesso
dilatato
fino
a
raggiungere
l'intervallo
di
undecima
rispetto
alla
'tonica'
del
brano.
L'Alleluia
è
un
canto
di
acclamazione
o
jubilus
e
rappresenta
un
momento
di
contemplazione
lirica
dopo
il
Graduale
e
prima
del
Vangelo.
Dal
punto
di
vista
musicale
era
originariamente
una
breve
frase
melodica
che
in
seguito
si
trasformò
nella
forma
più
melismatica
del
repertorio
liturgico:
consiste
in
una
acclamazione
sulla
parola
«alleluia»,
molto
fiorita,
alla
quale
segue
un
versetto
di
un
salmo.
Si
esegue
due
volte
alternandola
a
un
versetto.
Anche
qui
l'ambito
melodico,
in
epoca
più
recente
rispetto
ai
più
antichi
esempi,
viene
ampliato
riguardo
alla
normale
estensione
del
loro
modo.
Tra
i
canti
dell'Ufficio,
le
Antifone
hanno
una
struttura
più
semplice
rispetto
a
quelle
della
Messa.
Al
contrario
sono
molto
elaborati
i
Responsori
del
Mattutino,
che
svolgono
una
funzione
analoga
a
quella
dei
Tratti
e
dei
Graduali
nella
Messa:
quella
di
canti
di
meditazione
dopo
le
letture.
Il
responsorio
che
fa
seguito
alle
letture
del
Mattutino
è
33
denominato
responsorium
prolixum,
e
diverge
da
quello
che
segue
le
letture
brevi
delle
Lodi
o
dei
Vespri,
detto
responsorium
breve.
La
struttura
formale
del
Responsorio
deriva
dalla
primitiva
salmodia
responsoriale
e
lo
stile
è
nettamente
melismatico.
Attualmente
consiste
in
un
responsorio
(la
risposta)
e
un
Versus,
dopo
il
quale
viene
ripetuta
la
risposta.
Anche
i
Responsori,
come
i
Tratti
e
i
Graduali,
ma
in
misura
minore,
si
sono
in
parte
formati
attraverso
processi
di
centonizzazione,
cioè
utilizzando
e
riorganizzando
materiale
melodico
preesistente.
Di
origine
più
recente
sono
i
cinque
canti
dell'Ordinario
della
messa,
il
cui
testo
è
invariabile
durante
tutto
l'anno
liturgico;
cominciarono
infatti
ad
apparire
solo
nei
codici
tardi
con
notazione
quadrata.
La
formazione
relativamente
tarda
delle
loro
melodie
fu
dovuta
forse
al
fatto
che
questi
canti
rimasero
a
lungo
semplici
melodie
sillabiche
affidate
all'assemblea
e
solo
a
partire
dal
IX
secolo
(fino
al
XV
secolo
e
oltre)
esse
furono
elaborate
in
adattamenti
più
ornati
e
affidati
alla
schola.
In
effetti
gran
parte
delle
intonazioni
musicali
dei
testi
dell'Ordinario
ha
caratteri
melodici
più
moderni.
Il
Credo
fu
introdotto
nella
messa
solo
a
partire
dall'XI
secolo;
insieme
al
Gloria
è
rimasto
sillabico
rispetto
alle
più
complesse
elaborazioni
degli
altri
canti.
Per
quanto
riguarda
gli
Inni,
la
cui
tradizione
risale,
come
abbiamo
detto,
ai
primi
secoli
del
cristianesimo
(cfr.
il
paragrafo
2.6),
essi
furono
ammessi
nella
liturgia
romana
solo
a
cominciare
dai
secoli
IX-‐X.
Ciò
avvenne
attraverso
la
tradizione
monastica
benedettina
il
cui
Innario,
dopo
essere
stato
adottato
da
diverse
chiese
particolari,
fu
accolto
anche
nelle
consuetudini
della
liturgia
romana.
La
tradizione
occidentale
ha
poi
dato
vita
a
un
enorme
repertorio
di
testi
e
relative
intonazioni,
(i
cui
filoni
vanno
individuati
nelle
consuetudini
regionali)
che
si
diversificano
per
regioni
geografiche,
per
diversi
ordini
religiosi
(domenicani,
cistercensi,
francescani,
eccetera),
o
secondo
la
funzione
dell'inno
nell'ambito
della
liturgia
(liturgia
delle
Ore,
messa,
processioni,
eccetera).
7.
LE
INNOVAZIONI
LITURGICO-‐MUSICALI
DEI
SECOLI
IX-‐X
E
LORO
SVILUPPO
34
7.1
Fermenti
creativi
nell'età
carolingia
Come
si
è
già
detto,
nell'epoca
della
cosiddetta
rinascenza
carolingia,
a
partire
dalla
metà
dell'VIII
secolo,
fu
imposta
all'Impero
Franco
la
tradizione
liturgica
e
musicale
del
rito
romano;
anche
per
questo
fine
fu
messa
a
punto
la
notazione
neumatica,
per
dare
garanzia
di
autenticità
alla
trasmissione
che
precedentemente
avveniva
solo
per
via
orale.
Ma
la
rinascita
carolingia
mise
in
atto
anche
progetti
più
grandiosi.
Tra
il
IX
e
il
XII
secolo
i
grandi
monasteri
(soprattutto
le
abbazie
benedettine)
divennero
centri
propulsori
e
diffusori
di
cultura,
in
generale,
e
in
particolare
di
creatività
musicale,
che
trovava
nella
liturgia
il
campo
di
azione
privilegiato:
appartengono
a
questo
periodo
le
prime
sperimentazioni
nel
campo
della
polifonia,
e
la
creazione
e
diffusione
di
nuovi
generi
di
canti
inseriti
sia
all'interno
che
all'esterno
della
liturgia
ufficiale.
Prima
di
entrare
in
argomento,
è
necessario
fare
una
premessa.
L'opera
di
romanizzazione
della
liturgia
nell'impero
franco
non
riuscì
pienamente
nella
unificazione
dei
riti,
ma
conferì
comunque
al
repertorio
'gregoriano'
di
preghiere
e
canti
un'aura
di
trascendenza
perché
la
convinzione
che
tale
repertorio
fosse
opera
di
Gregorio
Magno
attraverso
l'ispirazione
suggerita
dallo
Spirito
Santo,
conferiva
ad
esso
un
carattere
sacrale
che
lo
rendeva
intoccabile:
il
motto
«ne
varietur»,
adottato
dalle
autorità
e
dagli
stessi
cantori,
lo
salvaguardava
da
contaminazioni.
Sul
piano
artistico
questa
operazione
portò
a
conseguenze
negative,
censurando
ogni
velleità
creativa,
e
portando,
per
paura
di
modificare
anche
lievemente
la
lezione
ortodossa,
ad
un
impercettibile
ma
costante
appiattimento
dei
valori
di
durata
delle
note,
che
causò
la
perdita
graduale
della
tradizione
ritmica
originale.
Questo
fu
anche
dovuto
al
fatto
che,
persa
gradualmente
l'abitudine
di
imparare
a
memoria
il
repertorio,
come
da
secoli
era
in
uso,
non
era
disponibile,
almeno
all'inizio,
una
scrittura
neumatica
che
potesse
sostituire
perfettamente
la
memoria
perché,
specialmente
nei
primi
tempi
del
suo
impiego,
la
notazione
non
possedeva
grandi
capacità
di
registrare
correttamente
le
infinite
sfumature
ritmiche
proprie
di
questo
repertorio
e
faceva
ancora
in
parte
affidamento
sulla
memoria
dei
cantori.
D'altra
parte
le
comunità
monastiche,
e
le
abbazie
benedettine
in
particolare,
non
si
rassegnarono
alla
semplice
ripetizione
del
repertorio
cristallizzato
dalla
nuova
scrittura
neumatica:
la
sua
intangibilità
indusse
ad
ampliare
il
repertorio
liturgico
con
nuovi
generi
di
canti.
Gli
spazi
che
rimanevano
aperti
alla
creatività
erano
quelli
della
35
produzione
innodica
e
delle
antifone
processionali
necessarie
allo
svolgimento
dei
maestosi
riti
nelle
abbazie.
Altri
spazi
furono
inventati
di
per
sé,
dal
nulla,
come
le
sequenze
e
i
tropi,
che
costituiscono
il
risultato
più
importante
scaturito
da
questa
esigenza
di
novità
che
caratterizza
musicalmente
il
periodo
della
rinascenza
carolingia.
7.2
Le
sequenze
Il
termine
sequentia
apparve
nella
prima
metà
del
IX
secolo,
e
inizialmente
stava
ad
indicare
la
melodia
(o
il
melisma)
con
cui
si
poteva
sostituire
facoltativamente
il
melisma
dell'Alleluia;
successivamente,
ma
sempre
nel
IX
secolo,
a
queste
melodie
furono
sottoposti
dei
testi
originali,
attraverso
i
quali
lo
stile
delle
melodie
veniva
trasformato
da
melismatico
a
sillabico:
la
sequenza
divenne
così
una
forma
poetica
e
musicale.
Una
testimonianza
sulla
genesi
della
sequenza
ci
è
fornita
dal
monaco
di
San
Gallo
Notker
Balbulus
(morto
nel
912),
il
quale
nella
premessa
al
suo
Liber
Hymnorum
racconta
come
la
sequenza
sia
nata
per
aiutare
la
memoria
nell'apprendimento
delle
melodie
gregoriane.
In
particolare
Notker
narra
come
da
giovane
avesse
molte
difficoltà
nel
ritenere
a
mente
le
lunghe
melodie
liturgiche;
ma
fortunatamente
un
monaco,
fuggito
da
Jumièges
(che
si
trova
ad
ovest
dell'impero
franco)
a
causa
delle
devastazioni
dei
Normanni,
aveva
portato
con
sé
un
Antifonario
nel
quale
alcuni
versi
(versetti)
erano
stati
sottoposti
alle
sequenze,
vale
a
dire
a
dei
melismi
sostitutivi
di
melismi
dell'Alleluia.
Notker,
incoraggiato
dai
suoi
maestri,
si
dedicò
alla
composizione
di
simili
testi
adattabili
ciascuno
ai
melismi
di
un
Alleluia,
così
che
ad
ogni
nota
del
melisma
corrispondesse
una
sillaba
del
testo,
allo
scopo
di
renderne
più
semplice
l'apprendimento.
I
componimenti
di
Notker
vennero
raccolti
nel
suo
Liber
Hymnorum,
anche
se
non
si
tratta
di
inni
perché
le
composizioni,
a
differenza
di
questi,
non
seguivano
le
regole
della
metrica,
e
non
seguivano
neanche
il
modello
giambico
delle
strofe
degli
inni
ambrosiani.
La
struttura
dei
testi
era
costituita
da
una
serie
di
frasi
libere
da
schemi,
disposte
secondo
cadenze
di
tipo
classico
oppure
secondo
espressioni
originali
ricche
di
corrispondenze
e
assonanze.
Questi
testi
furono
chiamati
prosae,
perché,
a
differenza
degli
inni,
erano
in
prosa;
la
struttura
dei
periodi
fu
modellata
sulle
frasi
melodiche
dei
melismi
gregoriani;
successivamente
furono
chiamate
sequenze,
e,
ponendo
la
parola
al
servizio
della
musica,
stravolsero
l'originario
rapporto
fra
questi
due
elementi,
tipico
del
gregoriano,
privilegiando
la
musica
rispetto
alla
parola.
Il
più
delle
volte
due
linee
di
testo
consecutive
cantano
la
stessa
frase
musicale
(quindi
ogni
36
frase
musicale
viene
ripetuta
due
volte
per
due
consecutive
frasi
del
testo),
così
il
testo
fu
organizzato
a
coppie,
dette
copulae,
diverse
per
lunghezza
l'una
dall'altra
e
a
volte
intercalate
da
frasi
singole,
non
accoppiate;
la
struttura
melodica
è
la
seguente:
A
B
B
C
C
D
D,
e
così
via.
Le
simmetrie
così
create,
unite
allo
stile
sillabico,
realizzavano
una
facilità
di
approccio
e
di
ascolto
che
non
aveva
il
gregoriano,
facilità
che
rendeva
le
sequenze
accessibili
non
solo
alla
schola,
ma
anche
al
popolo;
peraltro
la
musica
nelle
sequenze
ha
un
rilievo
maggiore
che
negli
inni,
dove
invece
la
ripetizione
della
stessa
melodia
per
ogni
strofa
mette
in
evidenza
più
che
altro
il
testo
letterario
delle
varie
strofe.
La
sequenza,
nella
sua
evoluzione,
contribuì
in
modo
determinante
al
passaggio
definitivo
dalla
metrica
quantitativa
alla
moderna
metrica
accentuativa
e
rimata,
perché
gradatamente
i
due
versi
di
ogni
coppia
(o
copula)
divennero
sempre
più
simili
fra
loro
riguardo
la
distribuzione
interna
degli
accenti
e
la
terminazione
dell'ultima
parola,
formando
così
la
rima;
e
fu
anche
importante
nel
mutamento
dei
principi
ritmici
della
musica,
nel
passaggio
dallo
scorrevole
ritmo
'oratorio'
del
gregoriano
alla
scansione
periodica
dei
ritmi
basati
sugli
accenti
delle
parole.
La
fortuna
della
sequenza
è
testimoniata
fra
i
secoli
XI
e
XIII
da
molti
manoscritti
liturgici
chiamati
'sequenziari';
questa
tradizione
infatti,
iniziata
nei
monasteri
di
S.
Gallo
e
di
S.
Marziale
di
Limoges,
si
diffuse
in
Francia,
Italia,
Germania,
Spagna
e
Inghilterra,
costituendo
anche
delle
premesse
per
la
nascita
delle
forme
poetiche
e
musicali
nelle
nuove
lingue
europee.
Venne
dunque
incrementata
la
produzione
di
sequenze:
se
ne
composero
per
tutti
i
giorni
dell'anno
liturgico
per
essere
eseguite
sempre
dopo
l'Alleluia
della
messa,
o
al
suo
posto
in
assenza
di
esso.
Le
melodie,
staccate
sempre
più
dai
modelli
gregoriani,
si
orientarono
verso
intonazioni
originali
o
prese
in
prestito
da
altre
composizioni
sia
sacre
sia
profane.
Anche
i
testi
si
emanciparono
dalla
liturgia
tradizionale
adottando
temi
e
stili
propri.
I
due
versi
della
copula
si
organizzarono
gradualmente
come
vere
e
proprie
strofe
composte
di
più
versi
ciascuna.
Ma
la
codificazione
della
sequenza
nella
sua
forma
più
compiuta
si
deve
ad
Adamo
da
S.
Vittore
(1110-‐1192),
monaco
agostiniano
in
quel
monastero
parigino.
Le
strofe
delle
sue
composizioni
sono
costituite
da
un
tetrametro
trocaico
(formato
da
otto
trochei
corrispondenti
nel
ritmo
a
due
versi
ottonari)
seguito
da
un
dimetro
trocaico
catalettico
(corrispondente
a
tre
trochei
e
mezzo,
vale
a
dire
un
moderno
senario
con
l'ultima
parola
sdrucciola),
chiamato
cauda
(coda).
Questo
tipo
di
sequenza
è
chiamata
'vittorina'
dal
nome
del
suo
autore.
37
Il
Concilio
di
Trento
(1545-‐63)
abolì
tutta
questa
abbondante
produzione
di
sequenze
e
ne
lasciò
nel
messale
solo
quattro
per
le
seguenti
occasioni
liturgiche:
per
la
Pasqua
Victimae
paschali
laudes
(sec.
X,
attribuita
a
Wipone,
monaco
nativo
di
Solothurn,
città
all'epoca
appartenente
all'impero
carolingio);
per
la
Pentecoste
Veni
Sancte
Spiritus
(sec.
XI);
per
il
Corpus
Domini
Lauda
Sion
Salvatorem
(sec.
XIII,
attribuita
a
S.
Tommaso
d'Aquino);
per
la
messa
dei
defunti
Dies
irae
(sec.
XIV,
attribuita
a
Tommaso
da
Celano).
Queste
due
ultime
sequenze
hanno
già
una
regolare
struttura
strofica
unita
al
ritmo
trocaico.
Nel
XVIII
secolo
fu
recuperata
nella
liturgia
la
sequenza
Stabat
Mater
dolorosa
(sec.
XIII,
attribuita
a
Iacopone
da
Todi).
7.3
I
tropi
Il
fenomeno
della
'tropatura'
nel
canto
liturgico
medievale
fu
molto
diffuso
a
partire
dai
secoli
IX-‐X,
fino
al
sec.
XIII,
ma
raggiunse
il
suo
culmine
nel
secolo
XI.
Il
termine
greco
'tropos'
in
un
primo
tempo
indicava
un
frammento
melismatico
destinato
ad
ampliare
la
melodia.
La
tradizione,
non
confermata
storicamente,
attribuisce
a
Tutilone,
(monaco
del
monastero
di
S.
Gallo
morto
nel
915),
l'invenzione
del
tropo
vero
e
proprio
che
consiste
nell'applicazione
di
un
testo
alle
parti
melismatiche
dei
canti
liturgici:
l'aggiunta
di
nuove
parole
sotto
i
melismi
trasformava
lo
stile
melismatico
in
stile
sillabico,
per
la
presenza
di
una
sillaba
sotto
ogni
nota
del
melisma.
Successivamente,
oltre
ad
aggiungere
un
testo
ad
una
precedente
melodia
che
ne
era
sprovvista,
si
compose
anche
nuova
musica
per
nuovi
testi,
così
che
quasi
tutte
le
forme
liturgiche
furono
'tropate',
vale
a
dire
introdotte,
interpolate
o
commentate
dalle
nuove
composizioni.
Tutto
ciò
fu
possibile
perché,
se
la
Chiesa
aveva
sancito
l'immutabilità
del
canto
gregoriano,
e
dunque
aveva
proibito
la
modificazione
dei
canti
liturgici,
lasciava
tuttavia
aperta
la
possibilità
di
aggiungere
nuovi
testi
e
nuove
melodie.
Questo
ampliamento
del
canto
liturgico,
chiamato
'tropo',
era
l'unica
strada
possibile
per
le
esigenze
creative
dei
monaci.
Questo
spiega
la
grande
diffusione
dei
tropi,
contenuti
nei
Tropari,
libri
contenenti
i
canti
liturgici
modificati
dalla
tropatura,
che
fu
praticata
soprattutto
nei
canti
dell'Ordinario
e
del
Proprio
della
messa,
ad
eccezione
del
Graduale
e,
per
ovvie
ragioni,
del
Credo.
Nell'ambito
dell'Ufficio
subirono
tropature
i
Responsori,
che
sono
le
uniche
composizioni
melismatiche
presenti
in
esso.
Anche
la
sequenza
dunque
appartiene
al
vasto
genere
dei
tropi
(cfr.
più
38
avanti
la
definizione
di
'tropo
di
adattamento)',
e
può
essere
definita
un
tropo
dell'Alleluia.
Sono
state
messe
a
punto
diverse
definizioni
e
codificazioni
dei
vari
tipi
di
tropo,
ma
nessuna
è
particolarmente
adeguata,
data
la
vastità
delle
loro
fisionomie
e
delle
loro
funzioni.
Quella
che
segue,
messa
a
punto
dallo
studioso
Jacques
Chailley,
è
tra
le
più
soddisfacenti
per
il
fatto
che
la
divisione
nelle
diverse
categorie
tiene
conto
anche
dell'ordine
cronologico
delle
tappe
successive
dell'evoluzione
del
tropo:
a)
tropo
di
adattamento:
è
la
primitiva
forma
di
tropatura,
che
consiste
nell'adattare
un
testo
a
una
melodia
preesistente,
senza
intervenire
sulla
musica;
ciò
provoca
un
cambiamento
di
stile,
da
melismatico
a
sillabico;
b)
tropo
di
sviluppo:
oltre
ad
aggiungere
nuove
parole,
si
comincia
a
intervenire
anche
sulla
melodia,
ampliandola
leggermente;
c)
tropo
di
interpolazione:
si
inserivano
nel
canto
liturgico
nuove
sezioni
aventi
sia
testo
che
musica
originali
e
che
erano
però
saldamente
integrati
e
agganciati
al
testo
e
alla
musica
del
canto
preesistente;
d)
tropo
di
inquadramento:
si
aggiungevano
brani
di
forma
compiuta
e
autonoma
che
fungevano
da
introduzione
o
da
postludio
al
canto
preesistente;
e)
tropo
di
complemento:
risulta
dallo
sviluppo
dei
tropi
d'inquadramento,
quando
questi
persero,
nel
loro
sviluppo,
ogni
attinenza
con
i
pezzi
liturgici
che
'inquadravano',
e
divennero
brani
autonomi
collocati
tra
due
momenti
liturgici
ufficiali.
Il
centro
musicalmente
più
attivo
in
questo
senso
fu
il
monastero
di
S.
Marziale
di
Limoges,
che
chiamò
queste
composizioni
versus,
in
un
primo
tempo
nel
senso
di
versetti,
e
più
tardi
nel
senso
di
composizione
in
versi,
poiché
erano
versificate.
Nel
sec.
XI,
si
introdusse
nei
versus
anche
la
lingua
volgare;
è
indicativo
il
fatto
che
contemporaneamente
e
nella
stessa
regione
iniziava
la
produzione
di
canti
trobadorici
che
peraltro
furono
designati
in
un
primo
tempo
proprio
con
il
termine
vers
(cfr.
il
paragrafo
5.1).
Dal
tropo
di
complemento,
che
faceva
da
raccordo
tra
i
diversi
momenti
della
liturgia
e
accompagnava
gli
spostamenti
dei
sacerdoti,
derivò
il
conductus,
un
canto
processionale
che
sarà
sviluppato
anche
nelle
forme
polifoniche.
f)
tropo
di
sostituzione:
costituisce
l'ultima
fase
dell'evoluzione
dei
tropi.
39
Qui
la
tropatura
non
si
limita
a
interpolare
e
arricchire,
ma
si
arriva
a
sostituire
il
testo
liturgico
ufficiale
con
nuovi
componimenti
(chiamati
il
più
delle
volte,
ancora,
versus),
limitandosi
a
conservare
del
testo
precedente
alcune
parole
in
funzione
di
richiamo
e
aggancio.
Famosi
sono
i
lunghi
versus
o
tropi
del
Benedicamus
Domino,
in
versi
e
a
più
strofe,
che
venivano
eseguiti
nell'ambito
dell'Ufficio,
e
dove
queste
due
parole
erano
completamente
inglobate
e
mascherate.
I
tropi
ebbero
grande
importanza
nella
genesi
delle
nuove
forme
musicali
sacre
e
profane,
e
costituirono
un
passaggio
fondamentale
che
servì
da
connessione
tra
il
canto
gregoriano
e
la
nuova
produzione
della
storia
della
musica
in
Occidente.
Ebbero
inoltre
influenza
anche
sul
canto
liturgico
ufficiale,
nella
formazione,
che
si
sa
essere
tarda,
delle
melodie
dell'Ordinario
della
messa.
Il
Concilio
di
Trento
abolì
dalla
liturgia
tutti
i
tropi.
7.4
Gli
uffici
metrici
Nel
periodo
carolingio,
dalla
seconda
metà
del
IX
a
tutto
il
X
secolo,
dobbiamo
registrare,
nella
Francia
nord-‐
orientale,
anche
la
produzione
dei
cosiddetti
uffici
metrici
e
uffici
drammatici.
Gli
uffici
metrici
consistevano
in
testi
nuovi
per
gli
uffici
delle
feste
dei
santi,
scritti
in
versi
(esametri)
invece
che
in
prosa;
l'altra
novità
rispetto
ai
formulari
liturgici
precedenti
(in
cui
antifone
e
responsori
non
erano
legati
da
connessioni
logiche,
ma
l'ordine
della
successione
poteva
mutare
senza
danno
nello
svolgimento
dell'Ufficio),
è
che
si
basavano
sull'elemento
narrativo,
che
sostituiva
quello
lirico-‐contemplativo,
per
cui
ogni
ufficio
formava
un
ciclo
letterariamente
compiuto.
e
per
questa
ragione
gli
uffici
metrici
furono
chiamati,
all'epoca,
historiae.
Come
per
le
sequenze,
spesso
venivano
usate
le
stessa
melodie
per
testi
diversi:
si
tratta
di
un
modo
di
fare
tipico
nel
periodo
medievale
postgregoriano,
che
denuncia
un
allentamento
dell'antico
legame
fra
la
parola
e
la
musica.
7.5
Gli
Uffici
drammatici
Gli
uffici
drammatici
traevano
spunto
dalle
parti
più
rappresentative
della
liturgia
cristiana,
che
fin
dall'inizio
si
era
configurata
coinvolgente
e
ricca
di
potenzialità
drammatiche.
Dal
VII
al
X
secolo
si
ebbe
una
graduale
'drammatizzazione'
di
alcuni
riti,
in
particolare
quelli
che
fornivano
40
evidenti
possibilità
di
rappresentazione
scenica
quali
le
funzioni
della
Settimana
Santa
e
della
Pasqua:
la
processione
delle
Palme,
la
lavanda
dei
piedi
il
Giovedì
santo,
gli
Improperii
del
Venerdì
santo
con
i
dialoghi
tra
Cristo
e
i
suoi
accusatori
e
la
parte
del
Vangelo
che
narra
la
Passione
di
Cristo,
la
cui
lettura
alternava
alla
narrazione
il
discorso
diretto
dei
vari
personaggi,
'interpretati'
da
altrettanti
lettori.
Gradualmente
la
drammatizzazione
divenne
sempre
più
specificata
e
organizzata,
anche
se
gli
'attori'
erano
ancora
i
celebranti
vestiti
dei
paramenti
liturgici
e
il
rito
si
svolgeva
senza
parti
dialogiche.
In
seguito
si
passò
ad
arricchire
l'ufficiatura
di
altre
festività
dell'anno,
come
il
ciclo
di
Natale,
l'Annunciazione,
l'Ascensione,
eccetera.
Un'ulteriore
evoluzione
della
drammatizzazione
liturgica
si
realizzò
con
l'inserimento
di
un
breve
dialogo
nell'ambito
del
tropo
Quem
quaeritis
in
sepulchro,
o
christicolae?-‐
Jesum
Nazarenum
crucifixum,
o
caelicolae,
ovvero
la
parte
del
Vangelo
in
cui
questa
domanda
(«Chi
cercate
nel
sepolcro,
o
seguaci
di
Cristo?»)
viene
rivolta
dall'angelo
alle
Marie
che
si
recavano
al
sepolcro
di
Cristo,
e
la
risposta
delle
tre
donne
(«Gesù
Nazareno
crocifisso,
o
abitatore
del
cielo»).
La
denominazione
di
'Uffici
drammatici'
è
recente,
coniata
nel
secolo
scorso;
nella
loro
epoca
tali
uffici
drammatici
erano
denominati
semplicemente
officia.
7.6
Il
dramma
liturgico
Con
il
dramma
liturgico
si
passa
dalle
ufficiature
drammatizzate
al
vero
e
proprio
spettacolo
teatrale,
quindi
a
una
forma
di
teatro
con
musica,
un'azione
drammatica
che
richiede
la
presenza
integrata
di
cantanti
solisti
impegnati
anche
nella
mimica.
Questa
evoluzione
parte
da
lontano,
dal
canto
liturgico
responsoriale
passando
attraverso
i
tropi
in
forma
dialogica.
Il
primo
dramma
liturgico
di
cui
si
ha
notizia,
la
Visitatio
sepulchri,
deriva
infatti
da
un
tropo
di
inquadramento
all'Introito
della
messa
di
Pasqua,
(lo
stesso
tropo
di
cui
si
è
detto
a
proposito
degli
uffici
drammatici),
che
risale
al
920
circa
e
che
proviene
dall'abbazia
di
S.
Marziale
di
Limoges,
quindi
fu
composto
probabilmente
in
Aquitania,
ma
fu
tramandato
dal
famoso
tropario
di
Winchester
che
risale
alla
fine
del
X
secolo.
Questo
dramma
consiste
in
un'unica
scena
basata
sul
dialogo
tra
l'angelo
e
le
pie
donne
e
inizia
con
il
testo
del
tropo,
ovvero
la
domanda
rivolta
dall'angelo
alle
Marie
che
si
recavano
al
sepolcro
di
Gesù
e
alla
loro
risposta:
Quem
quaeritis
in
sepulchro,
o
Christicolae?-‐
Iesum
Nazarenum
crucifixum,
o
caelicolae
(Chi
cercate
nel
sepolcro
o
seguaci
di
Cristo?-‐Gesù
Nazareno
crocifisso,
o
41
abitatore
del
cielo).
Dopo
questo
dialogo
il
dramma
prosegue
con
alcune
antifone
scelte
dal
repertorio
dell'ufficio
di
Pasqua
allo
scopo
di
formare
una
semplice
scena
tra
l'angelo
e
le
Marie:
l'angelo
invita
le
Marie
a
visitare
la
tomba
(«Venite
et
videte»),
e
a
informare
gli
apostoli
(«Cito
euntes»);
segue
l'antifona
«Surrexit
Dominus
de
sepulchro»,
con
cui
le
Marie
annunciano
la
resurrezione,
e
il
canto
del
«Te
Deum
laudamus»
con
il
quale
si
chiude
il
dramma.
Questa
prima
fase
del
dramma
liturgico
adopera
semplici
mezzi
e
un
repertorio
di
testi
e
canti
presi
dall'Ufficio,
per
cui
l'insieme
è
ancora
molto
vicino
alla
liturgia.
Abbiamo
molte
fonti
di
questa
prima
versione
del
dramma,
segno
della
sua
grande
diffusione
in
tutta
Europa,
e
tutte
conformi
nelle
parti
musicali,
segno
della
provenienza
di
questi
canti
dal
repertorio
ufficiale.
A
esempio
di
quanto
detto,
si
riporta
qui
di
seguito
una
descrizione
efficace
riguardante
le
modalità
di
svolgere
il
suddetto
dramma
liturgico
connesso
all'ufficiatura
del
mattino
di
Pasqua.
Si
tratta
di
una
pagina
della
Regularis
concordia,
ovvero
un
Liber
consuetudinarius
che
raccoglie
tradizioni
monastiche
continentali
a
uso
dei
monaci
benedettini
inglesi,
redatte
dal
vescovo
di
Winchester,
Ethelwold,
intorno
al
970
(la
traduzione
è
tratta
da
E.
CATTANEO,
Il
culto
cristiano
in
Occidente,
Roma,
C.L.V.-‐Edizioni
Liturgiche,
1978,
pp.
229-‐30):
«Mentre
si
recita
la
terza
lezione,
quattro
frati
si
vestano;
uno
di
loro,
in
abito
bianco,
si
faccia
avanti
come
preoccupato
di
fare
qualcosa,
si
rechi
di
nascosto
al
luogo
del
sepolcro,
e
si
metta
a
sedere
tenendo
in
mano
una
palma.
Poi
mentre
si
recita
il
terzo
responsorio,
vengano
avanti
gli
altri
tre
frati,
rivestiti
di
cappa,
recando
in
mano
turiboli
con
incenso,
e,
a
passi
lenti,
in
atteggiamento
di
chi
cerchi
qualche
cosa,
si
dirigano
al
luogo
del
sepolcro.
Questa
scena
è
fatta
per
rappresentare
l'Angelo
che
siede
sul
sepolcro
e
le
donne
che
giungono
con
aromi
per
ungere
il
corpo
di
Gesù.
Appena,
dunque,
il
frate
avrà
visto
avvicinarsi
gli
altri
tre,
in
atteggiamento
di
persone
titubanti
e
alla
ricerca
di
qualche
cosa,
cominci
a
cantare
dolcemente,
in
tono
medio
di
voce:
"Chi
cercate
nel
sepolcro,
o
cristiani?"
[o
seguaci
di
Cristo].
Alla
fine
del
canto
rispondano
i
tre
con
un'unica
voce:
"Gesù
Nazareno
crocifisso,
o
abitante
del
cielo".
Ed
egli
a
loro:
"Non
è
qui,
è
risorto
come
aveva
predetto.
Andate,
annunziate
che
è
risorto
da
morte".
Nell'udire
quel
comando
si
rivolgano
i
tre
al
coro
dicendo:
"Alleluia.
Il
Signore
è
risorto,
oggi
è
risorto
il
leone
forte,
il
Cristo
figlio
di
Dio".
42
Dopo
le
quali
parole,
di
nuovo
il
frate
seduto,
quasi
richiamandoli,
dica
il
ritornello:
"Venite
a
vedere
il
luogo
dove
era
posto
il
Signore,
alleluia!"
e
così
dicendo,
ritto
in
piedi,
alzi
il
velo
e
mostri
loro
il
luogo
[del
sepolcro]
senza
la
croce,
con
il
solo
sudario
nel
quale
la
croce
era
avvolta...Finita
l'antifona
il
priore,
a
significare
la
gioia
per
il
trionfo
del
nostro
Re,
risorto
dopo
aver
debellato
la
morte,
dia
inizio
al
canto
del
Te
Deum
laudamus
e
tutte
le
campane
suonino
insieme».
Successivamente
si
ebbero
molte
altre
versioni
del
dramma
pasquale,
sempre
più
ampie,
complesse
e
ricche
di
personaggi
e
spunti
drammatici;
comparvero
testi
di
nuova
invenzione,
spesso
in
versi,
e
non
più
limitati
solamente
alle
fonti
liturgiche
e
bibliche;
contemporaneamente
anche
la
musica
si
diversificò
nelle
varie
regioni
in
cui
il
dramma
veniva
coltivato.
Questa
evoluzione
che
è
simile
a
quella
delle
sequenze
e
dei
tropi,
si
protrasse
fino
al
XIV
secolo.
Al
ciclo
liturgico
pasquale
appartengono
anche
i
Planctus
Mariae
(Pianto
di
Maria
ai
piedi
della
croce),
e
il
Peregrinus
(Pellegrino:
narra
l'incontro
dei
due
discepoli
con
Cristo
sulla
strada
di
Emmaus),
tramandato
in
diverse
versioni.
Anche
per
il
ciclo
di
Natale
l'evoluzione
fu
simile
al
dramma
di
Pasqua,
perché
partì
da
un
tropo
all'Introito
della
terza
messa,
Quem
quaeritis
in
praesepe,
pastores?.
Da
qui
già
nel
XII
secolo
si
arrivò
alla
formazione
dell'Officium
pastorum
(Ufficio
drammatico
dei
pastori).
Ebbe
però
maggiore
diffusione
l'Officium
stellae
(per
la
festa
dell'Epifania)
detto
anche
Officium
Regum
trium,
in
cui
emerge
sempre
più
la
figura
di
Erode,
e
la
cui
musica
consiste
di
molte
parti
originali.
Nella
rappresentazione
dei
tre
Magi
è
in
genere
inclusa
la
scena
della
strage
degli
innocenti,
che
a
volte
fa
dramma
a
sé,
e
contiene
il
lamento
di
Rachele
sui
figli
morti
(Lamentatio
Rachelis).
Dall'Antico
e
dal
Nuovo
Testamento
sono
stati
tratti
diversi
episodi
per
altrettanti
drammi,
come
l'Ordo
prophetarum
(drammatizzazione
di
un
sermone
pseudoagostiniano),
la
Risurrezione
di
Lazzaro,
la
Conversione
di
S.
Paolo;
ma
furono
tratti
anche
da
vite
di
santi,
come
Il
figlio
di
Getrone,
del
sec.
XIII,
che
fa
parte
di
un
ciclo
di
drammi
sui
miracoli
di
S.
Nicola.
La
qualità
delle
musiche
varia
a
seconda
dei
drammi:
in
alcuni
viene
usata
la
stessa
melodia
per
tutte
le
strofe
e
per
tutti
i
personaggi,
altre
volte
(nel
Getronis
filius)
ad
ogni
personaggio
corrisponde
una
particolare
melodia,
quasi
un
Leitmotiv
(motivo
conduttore),
procedimento
che
precorre
i
tempi
e
che
ritroviamo
usato
dai
compositori
di
melodrammi
dell'Ottocento.
43
A
questo
proposito
vanno
citati
due
pregevoli
drammi
liturgici:
lo
Sponsus
(che
narra
la
parabola
delle
vergini
savie
e
delle
vergini
stolte)
che
risale
al
sec.
XII,
proviene
dal
monastero
di
S.
Marziale
di
Limoges,
ed
è
importante
per
la
simmetria
geometrica
della
sua
struttura,
composta
da
diversi
brani
musicali
rispondenti
ognuno
a
un
personaggio;
il
Ludus
Danielis
(dramma
del
profeta
Daniele)
che
risale
al
1140
circa,
proviene
dalla
Francia
settentrionale
(Beauvais),
ed
è
uno
dei
più
grandiosi
e
ampi
drammi
medievali,
importante
per
una
serie
di
elementi
innovativi
come
la
caratterizzazione
dei
personaggi,
la
cura
spettacolare
delle
scene,
e
una
discreta
varietà
dei
brani
musicali.
La
produzione
e
diffusione
di
drammi
liturgici
si
diffuse
in
tutta
Europa,
ma
non
in
maniera
omogenea;
oltre
ai
già
citati
monasteri
benedettini
di
S.
Gallo,
S.
Marziale
di
Limoges
e
Winchester,
altri
centri
furono
Padova,
Cividale
del
Friuli,
le
città
della
Catalogna
oltre
che
le
regioni
di
cultura
normanna
in
Inghilterra
in
Sicilia
e
soprattutto
in
Francia.
Proprio
nei
drammi
prodotti
in
Francia,
le
melodie,
anche
quelle
originali,
riportano
tracce
evidenti
dell'influenza
in
esse
dei
più
svariati
generi
di
musica
monodica
sia
sacra
sia
profana,
conseguenza
della
ricchezza
e
varietà
delle
esperienze
musicali
nella
Francia
dell'epoca.
Poco
alla
volta
venne
introdotta
nei
drammi
liturgici
anche
la
lingua
volgare,
consistente
in
vari
dialetti
francesi
o
provenzali,
dapprima
in
alternanza
con
la
lingua
latina
nell'ambito
della
stessa
opera,
successivamente
sostituendola
del
tutto.
La
tendenza
a
sviluppare
i
testi
letterari
portò
ad
avere
drammi
sempre
più
estesi,
e,
di
conseguenza,
ad
alternare
in
essi
i
brani
cantati
a
lunghi
brani
recitati;
in
questa
situazione
si
verifica,
in
modo
impercettibile,
il
passaggio
dal
dramma
liturgico
alla
'sacra
rappresentazione'
(tra
i
secoli
XIII
e
XIV),
in
cui
la
narrazione
sacra
viene
intramezzata
da
episodi
o
personaggi
profani.
Questa
nuova
forma
drammatica
assume,
nelle
diverse
lingue,
le
seguenti
denominazioni:
ludus,
miracle,
mystère,
miracle
play.
Anche
per
i
drammi
liturgici,
come
per
tutta
la
musica
monodica
medievale
sacra
e
profana,
rimangono
aperti
due
fondamentali
problemi,
quello
dell'interpretazione
ritmica,
dovuto
alla
mancanza
di
una
notazione
mensurale
chiara
e
completa,
e
la
questione
riguardante
l'eventuale
uso
di
strumenti
musicali
in
funzione
di
raddoppio
delle
voci.
Quest'ultima
ipotesi
sembrerebbe
avallata
da
vari
cenni
presenti
nei
testi
e,
soprattutto,
confermata
dall'iconografia
contemporanea.
8.
LA
MONODIA
PROFANA
MEDIEVALE
IN
LATINO
Come
sappiamo,
la
notazione
musicale
iniziò
a
svilupparsi
in
Occidente,
44
solo
a
partire
dal
IX
secolo,
quindi,
come
s'è
detto
a
proposito
della
musica
liturgica,
anche
della
musica
profana
anteriore
a
tale
periodo
non
abbiamo
testimonianze
scritte.
C'è
da
aggiungere
che
il
predominio
culturale
esercitato
dalla
Chiesa
nell'alto
Medioevo
confinava
le
forme
artistiche
profane
ad
un
livello
inferiore,
che
le
rendeva
spesso
indegne
di
approdare
alla
cultura
scritta.
Per
queste
ragioni,
fino
al
tardo
secolo
XI,
quindi
per
tutto
il
periodo
che
precede
la
produzione
poetica
e
musicale
nelle
lingue
nazionali,
le
fonti
della
musica
profana
sono
scarse.
Vennero
scritte
solo
quelle
che
furono
ritenute
importanti
e
quindi
degne
di
essere
incluse
in
un
codice
la
cui
confezione
richiedeva
allora
una
certa
cura
e
un
notevole
esborso
finanziario.
L'esistenza
e
la
pratica
consueta
della
musica
profana
è
però
testimoniata
da
numerose
fonti
indirette
(documenti
letterari,
testi
storico-‐giuridici
e
di
provenienza
ecclesiastica),
che
non
sono
però
in
grado
di
trasmetterci
dati
riguardanti
i
caratteri
strettamente
musicali
di
questi
canti.
La
produzione
profana
non
consisteva
solamente
in
un
repertorio
popolare
di
canzoni
e
danze,
ma
anche
di
musica
colta
basata,
per
esempio,
sul
canto
di
testi
poetici
di
autori
classici
latini
provenienti
dal
mondo
scolastico.
Data
l'unitarietà
della
cultura
nel
mondo
medievale,
per
cui
il
sacro
e
il
profano,
l'ambiente
della
Chiesa
e
quello
della
scuola
spesso
si
intersecavano,
non
possiamo
che
ricondurre
la
produzione
profana
alla
comune
matrice
che
negli
stessi
secoli
aveva
dato
vita
ai
tropi,
alle
sequenze
e
ai
drammi
liturgici;
dunque
i
compositori
furono
gli
stessi
del
canto
gregoriano,
monaci
o
clerici,
discepoli
delle
scuole
annesse
ai
monasteri
e
alle
cattedrali,
ai
quali
in
seguito
si
aggiunsero
anche
i
frequentatori
delle
prime
università,
detti
goliardi
o
clerici
vagantes.
Gran
parte
della
poesia
cosiddetta
'mediolatina'
(così
viene
denominata
la
produzione
letteraria
medievale
in
latino)
che
è
arrivata
a
noi
provvista
di
notazione
musicale,
rappresenta
un
importante
precedente
della
più
tardiva
produzione
monodica
nelle
lingue
volgari
(neolatine),
perché
ne
sperimenta
con
anticipo
alcune
delle
forme
caratteristiche.
Tra
le
fonti
più
antiche
della
musica
profana
medievale,
quindi
già
dal
IX
secolo,
si
conservano
un
certo
numero
di
canti
profani:
si
tratta
di
intonazioni
di
poesie
di
Orazio,
Virgilio
(Eneide)
e
Boezio,
e
soprattutto
una
serie
di
composizioni
epico-‐storiche,
tra
cui
i
planctus,
vale
a
dire
i
compianti
per
la
morte
di
personaggi
famosi.
La
loro
notazione
neumatica,
che
è
stata
aggiunta
nel
X
secolo,
è
ancora
rudimentale,
per
cui
non
è
facile
ricostruire
le
melodie,
che
tuttavia
nello
stile
presentano
affinità
con
il
canto
gregoriano.
45
Famoso
è
il
Planctus
Caroli,
composto
per
la
morte
di
Carlo
Magno
(Planctus
de
obitu
Caroli):
è
in
versi
in
metrica
accentuativa,
e
alterna
un
ritornello,
Heu
mihi
misero!,
a
una
serie
di
distici
che
esortano
tutte
le
contrade
dell'impero
a
piangere
la
morte
del
grande
sovrano.
Da
segnalare
anche
composizioni
su
altri
soggetti
come,
per
esempio,
il
Canto
delle
scolte
(sentinelle)
modenesi.
Frequente
in
questo
repertorio
è
l'uso
del
Contrafactum,
vale
a
dire
l'utilizzo
di
una
melodia
per
testi
differenti,
e
spesso
contrastanti;
questo
procedimento
a
volte
testimonia
la
comunicazione
tra
la
tradizione
musicale
liturgico-‐religiosa
e
quella
profana;
a
questo
proposito
vedremo
come
l'esperienza
del
canto
sacro
riemerge
anche
nella
composizione
di
alcune
musiche
trovadoriche
in
lingua
volgare.
Famoso
a
questo
proposito
è
il
contrafactum
O
admirabile
Veneris
idolum,
di
provenienza
veronese
che
risale
al
X
secolo:
si
tratta
del
saluto
di
un
maestro
a
uno
scolaro
in
partenza,
la
cui
melodia
si
ritrova
in
un
canto
di
pellegrini
in
cammino
verso
Roma,
O
Roma
nobilis.
Altra
testimonianza
della
lirica
profana
si
colloca
nella
Renania
dell'
XI
secolo,
ed
è
un
codice
che
raccoglie
i
cosiddetti
Carmina
Cantabrigentia
(perché
sono
conservati
a
Cambridge),
una
serie
di
composizioni
in
forma
di
sequenza,
cioè
formate
da
coppie
strofiche,
che
trattano
vari
temi,
giocosi,
amorosi
ed
elogi
di
imperatori.
Altro
importante
monumento
della
lirica
profana
medievale
sono
i
sei
planctus
del
filosofo
Pietro
Abelardo
di
Nantes
(1079-‐1142),
in
cui
il
tradizionale
genere
poetico
del
compianto,
dietro
la
rievocazione
di
episodi
biblici,
nasconde
tematiche
amorose
riguardanti
il
suo
sfortunato
amore
per
Eloisa.
Sono
scritti
in
varie
forme
ispirate
a
quella
della
sequenza
intesa
in
senso
lato:
la
versificazione,
organizzata
in
una
ritmica
sillabica
o
determinata
da
un
procedimento
accentuativo,
sperimenta
varietà
di
ritmi,
alternando
per
esempio
il
ritmo
binario
con
il
ternario,
e
li
organizza
in
diverse
e
nuove
strutture
strofiche
basate
su
combinazioni
di
rime
e
assonanze.
Musicalmente
questi
planctus
furono
'notati'
un
secolo
più
tardi;
i
neumi
sono
in
campo
aperto
con
una
diastemazia
non
perfetta,
per
cui
non
è
facilmente
determinabile
il
disegno
melodico
della
monodia.
Aperto
rimane
anche
il
problema,
comune
a
tutta
la
produzione
monodica
medievale,
dell'interpretazione
ritmica
di
tali
composizioni,
nonostante
le
numerose
teorie
formulate
a
questo
proposito
da
diversi
studiosi.
Se
il
planctus
di
Abelardo
deriva
da
quello
latino
e
lega
ad
esso
tematiche
amorose,
a
sua
volta
il
planctus
di
Abelardo
influenza
quelli
liturgici,
i
planctus
Mariae.
Gli
ultimi
monumenti
profani
di
poesia
per
musica
in
latino
sono
contenuti
46
in
un
codice
redatto
alla
fine
del
XIII
secolo,
che
raccoglie
circa
cinquanta
canti
dei
goliardi
o
scholares,
cioè
dei
membri
delle
prime
associazioni
universitarie.
Essi
sono
denominati
Carmina
Burana,
perché
sono
contenuti
in
un
manoscritto
proveniente
dall'abbazia
di
Benediktbeuren.
Nonostante
il
periodo
tardo
in
cui
fu
compilato
il
codice,
la
sua
notazione
neumatica
risulta
intraducibile;
tuttavia
alcune
fonti
manoscritte
più
recenti
che
contengono
alcuni
brani
presenti
in
quel
canzoniere
aiutano
l'opera
di
trascrizione
melodica.
Questi
canti
sperimentano
tutte
le
esperienze
tematiche
e
formali
della
produzione
letteraria
medievale
in
latino,
detta
appunto
'mediolatina',
tra
le
cui
forme
più
complesse
troviamo
quelle
dell'innodia
e
delle
sequenze.
Dopo
i
Carmina
Burana
le
tematiche
profane
furono
in
seguito
appannaggio
delle
lingue
nazionali.
9.
LA
MONODIA
NELLE
LINGUE
NAZIONALI
9.1
I
trovatori
47
I
trovatori
e
i
trovieri
furono
i
poeti
e
musicisti
che
operarono
in
Francia,
rispettivamente
a
sud
e
a
nord
della
Loira,
in
piena
epoca
feudale
e
cavalleresca.
Più
precisamente
i
trovatori,
troubadours,
operarono
dalla
fine
dell'XI
secolo
alla
seconda
metà
del
secolo
XIII
nella
Francia
meridionale
che
all'epoca
non
dipendeva
dal
re
di
Francia
e
viveva
una
fiorente
stagione
culturale
e
artistica;
i
trovieri,
trouvères,
invece,
furono
attivi
nella
Francia
settentrionale
dalla
fine
del
XII
secolo
alla
fine
del
XIII.
Furono
i
primi
poeti
in
lingua
volgare:
la
lingua
dei
trovatori
era
quella
d'oc
(particella
affermativa
del
provenzale),
risultante
dall'insieme
dei
dialetti
antichi
della
Francia
meridionale;
la
lingua
dei
trovieri
era
quella
d'oil
(particella
affermativa
del
francese
antico),
formata
dai
dialetti
del
nord,
da
cui
si
sarebbe
sviluppato
il
francese
moderno.
Grazie
a
loro
la
musica
profana
entrò
a
far
parte
dell'arte
colta,
e,
sempre
per
merito
loro,
in
Occidente
si
iniziò
ad
individuare
le
prime
figure
di
compositori
di
musica.
Non
a
caso
il
termine
'trovatore'
,
trobador
in
provenzale,
deriva
dal
verbo
trovare
(trobar),
che
a
sua
volta
deriva
dal
verbo
latino
tropare,
cioè
'fare
dei
tropi':
il
trovatore
sarebbe
dunque
un
'tropatore',
cioè
uno
che
fa
dei
tropi,
che
inventa
un
testo
nuovo
e
una
musica
nuova.
Tuttavia
bisogna
precisare
che
la
notorietà
da
loro
acquisita
fu
dapprima
legata
solo
alla
loro
produzione
poetica:
bisognerà
attendere
epoche
posteriori
per
vedere
emergere
la
figura
del
musicista
che
passa
alla
storia
per
la
sola
composizione
della
musica.
Si
conservano
circa
5000
testi
poetici
trobadorici
e
trovierici,
numero
spropozionato
rispetto
a
quello
delle
melodie
giunte
fino
a
noi,
che
ammontano
a
circa
un
terzo
di
questa
cifra;
riguardo
alla
produzione
specifica
dei
trovatori
abbiamo
2542
testi
e
solo
264
melodie.
Altro
dato
da
notare
è
che,
se
l'evoluzione
della
poesia
provenzale
va
collocata,
come
detto,
a
partire
dalla
fine
dell'XI
secolo,
nessuna
fonte
manoscritta
depositaria
di
melodie
è
anteriore
alla
metà
del
XIII
secolo,
mentre
alcune
sono
attribuite
addirittura
al
secolo
XIV.
Queste
datazioni
indicano
che
la
trasmissione
delle
canzoni
trobadoriche
più
antiche
è
avvenuta
dapprima
oralmente,
subendo,
probabilmente,
delle
trasformazioni
anche
solo
parziali
rispetto
al
prodotto
originale.
Ciò
non
toglie
comunque
valore
storico
e
artistico
alle
fonti
in
nostro
possesso.
L'attribuzione
delle
melodie
è
problematica,
sia
per
la
diversità
delle
assegnazioni
a
noi
pervenute,
sia
perché
a
volte
di
uno
stesso
testo
esistono
versioni
musicali
differenti;
inoltre
non
sappiamo
con
precisione
quali
trovatori-‐poeti
abbiano
scritto
anche
la
melodia
per
i
loro
testi.
48
Infatti
i
trovatori
non
erano
necessariamente
musicisti
oltre
che
poeti,
e
non
vanno
neanche
confusi
con
un'altra
categoria,
quella
degli
esecutori
delle
loro
musiche,
chiamati
in
francese
jongleurs
(dal
latino
ioculator,
da
cui
deriva
giullare
in
italiano),
anche
se
alcuni
trovatori
erano
essi
stessi
jongleurs.
Va
infatti
precisato
che
il
termine
trovatore
si
riferisce
propriamente
all'autore
dei
versi
e
della
musica,
mentre
la
parola
jongleur
designa
l'interprete,
spesso
itinerante,
che
diffondeva
le
creazioni
trobadoriche
di
corte
in
corte.
Le
uniche
informazioni
a
tale
riguardo
sono
fornite
dalle
vidas
(vite),
dei
brevi
profili
biografici
dei
trovatori
più
noti,
tra
i
quali
si
annoverano
anche
alcune
donne,
redatti
nel
XIII
e
nel
XIV
secolo
in
lingua
d'oc;
spesso
sono
racconti
romanzati
perché
associano
verità
storica
e
fantasia.
Le
vidas
ci
informano
sulla
condizione
sociale
dei
trovatori
e
sul
tipo
di
vita
che
conducevano.
Dei
cento
trovatori
di
cui
abbiamo
la
vita,
almeno
la
metà
di
essi
erano
di
nobili
origini;
tuttavia
l'ascendenza
aristocratica
non
era
indispensabile,
perché
in
ogni
caso
un
buon
trovatore
era,
grazie
alla
sua
arte,
un
personaggio
di
spicco,
che
poteva
intrattenere
rapporti
di
amicizia
con
i
feudatari
loro
protettori,
o
addirittura
rapporti
d'amore
con
le
loro
mogli.
Le
vidas
sono
in
gran
parte
costruite
su
elementi
estrapolati
dalla
stessa
poesia
trobadorica,
quindi
ci
introducono
in
pieno
mondo
cavalleresco,
ricolmo
di
ideali
e
di
amori
cortesi
(dove
l'aggettivo
'cortese'
significa
'di
corte').
In
esse,
elementi
di
ambienti
e
personaggi
di
diversa
natura
convivono
naturalmente:
il
sacro
e
il
profano,
la
vita
monastica
e
la
vita
di
corte,
i
cavalieri
e
i
pellegrini,
l'amore
ideale
e
l'amore
terreno.
I
dati
più
interessanti
per
gli
studiosi
sono
quelli
che
riferiscono
dell'attività
specifica
dei
vari
trovatori,
che
non
sempre
possedevano
tutte
e
tre
le
capacità
di
versificare,
comporre
la
musica
ed
eseguirla,
ma
emergevano
più
o
meno
nell'una
o
nell'altra
attività,
o
in
tutte,
secondo
la
propria
natura.
Per
quanto
riguarda
l'esecuzione
deduciamo
dalle
vidas
che
circa
un
terzo
dei
trovatori
era
anche
jongleur,
quindi
erano
in
grado
di
eseguire
le
loro
composizioni;
viceversa
di
alcuni
si
rivela
l'incapacità
nell'esecuzione
o
addirittura
di
comporre
la
musica.
Sappiamo,
per
esempio
che
Marcabruno
era
insieme
poeta
e
musico
(«Fetz
Marcabru
los
motz
e
l
so»),
e
che
Raimbaut
d'
Aurenga
era
in
grado
anche
di
eseguire
(«Una
chansoneta
fera,/voluntiers
l'aver'a
dir»,
dove
faire
=
trobar
vers
e
dir
=
chantar
so).
Al
contrario,
riguardo
ad
altri
trovatori
abbiamo
notizia
dei
loro
limiti.
Per
esempio
Aimeric
de
Peguilhan
sapeva
comporre,
ma
cantava
male
(«apres
canzos
e
sirventes,
mas
molt
mal
cantava»),
e
anche
Gaucelm
Faidit
era
un
buon
poeta
e
un
buon
musico,
ma
non
sapeva
49
cantar
bene
(«fetz
molt
bos
sos
e
bos
motz»
ma
«cantava
peiz
d'ome
del
mon»);
al
contrario
Peire
Vidal
cantava
bene
(«cantava
meils
d'ome
del
mon»)
e
Elias
Cairel
era
un
pessimo
esecutore,
ma
sapeva
scrivere
bene
parole
e
musica
(«mal
cantava
e
mal
trovava
e
mal
violava
e
peichs
parlava»,
ma
«ben
escrivia
motz
e
sons»).
(Cfr.
il
contributo
di
Aurelio
Roncaglia
in
L'Ars
Nova
italiana
del
Trecento,
IV,
Comune
di
Certaldo
1978,
p.
368).
Diamo
di
seguito
la
traduzione
di
due
vidas
riguardanti
due
dei
più
noti
e
rappresentativi
trovatori:
Jaufre
Rudel
e
Bernard
de
Ventadorn
(tratto
da:
G.
CATTIN,
La
monodia
nel
Medioevo,
Torino,
EDT,
1991,
pp.234-‐236):
Vita
di
Jaufre
Rudel
Jaufre
Rudel
di
Blaia
fu
uomo
molto
nobile
e
principe
di
Blaia.
E
s'innamorò
della
contessa
di
Tripoli
senza
vederla,
ma
solo
per
il
bene
che
di
lei
udì
raccontare
dai
pellegrini
provenienti
da
Antiochia;
e
fece
su
di
lei
parecchie
canzoni
con
buone
melodie
ma
povere
parole.
E
volendo
vederla,
si
fece
crociato
e
si
mise
in
mare.
E
in
nave
lo
colse
una
malattia
molto
grave,
sicché
coloro
che
erano
con
lui
credettero
che
morisse
sulla
nave,
ma
tanto
fecero
che
lo
condussero
in
albergo
a
Tripoli
quasi
come
morto.
E
lo
fecero
sapere
alla
contessa
ed
ella
andò
da
lui,
al
suo
letto,
e
lo
prese
tra
le
sue
braccia.
Ed
egli
conobbe
ch'era
la
contessa
e
ricuperò
d'un
tratto
la
vista,
l'udito
e
la
parola;
e
lodò
Dio
e
lo
ringraziò
perché
gli
aveva
conservato
la
vita
sino
a
poterla
vedere;
e
così
morì
tra
le
braccia
della
sua
donna.
Ed
ella
lo
fece
seppellire
onoratamente
nella
sede
dei
Templari;
e
poi,
quel
giorno
stesso,
si
fece
monaca
per
il
dolore
ch'ebbe
di
lui
e
della
sua
morte.
Vita
di
Bernard
di
Ventadorn
Bernard
di
Ventadorn
fu
del
Limosino,
del
castello
di
Ventadorn.
Fu
uomo
povero
di
nascita,
figlio
d'un
servitore
ch'era
fornaio
e
scaldava
il
forno
per
cuocere
il
pane
del
castello
di
Ventadorn.
E
crebbe
bell'uomo
e
destro,
e
sapeva
scrivere
belle
canzoni
e
cantarle,
ed
era
cortese
e
istruito.
E
al
visconte
di
Ventadorn,
suo
signore,
piacquero
molto
lui,
le
sue
canzoni
e
il
suo
canto;
e
gli
rese
grande
onore.
E
il
visconte
di
Ventadorn
aveva
una
moglie
bella
e
gaia
e
giovane
e
gentile;
ed
ebbe
caro
ser
Bernard
e
le
sue
canzoni
e
s'innamorò
di
lui
e
lui
di
lei,
così
che
fece
i
suoi
canti
e
le
sue
canzoni
per
lei,
per
l'amore
che
le
portava
e
per
il
valore
della
sua
signora.
Il
loro
amore
durò
a
lungo
prima
che
il
visconte,
marito
della
signora,
e
50
l'altra
gente
se
ne
accorgessero.
E
quando
il
visconte
se
n'accorse,
allontanò
Bernard
e
fece
rinchiudere
e
custodire
la
moglie.
Inoltre
costrinse
la
signora
ad
accomiatare
Bernard
e
gli
fece
dire
di
partire
e
di
allontanarsi
da
quella
regione.
Ed
egli
se
ne
partì
presso
la
duchessa
di
Normandia,
ch'era
giovane
e
di
gran
valore
e
molto
si
intendeva
di
pregio
e
onore;
e
lo
lodò
con
belle
espressioni.
E
tanto
le
piacquero
i
vers
e
le
canzoni
di
ser
Bernard,
ch'ella
lo
ricevette
e
l'onorò
e
l'accolse
e
gli
fece
piaceri
assai
grandi.
Rimase
a
lungo
alla
corte
della
duchessa
e
se
ne
innamorò
e
la
signora
s'innamorò
di
lui
e
per
questo
amore
ser
Bernard
compose
molte
e
belle
canzoni.
Ma
il
re
Enrico
d'Inghilterra
la
prese
per
moglie
e
la
strappò
dalla
Normandia
e
la
condusse
in
Inghilterra,
e
ser
Bernard
rimase
di
qua
triste
e
dolente;
e
si
partì
dalla
Normandia
e
venne
al
buon
conte
Raimondo
di
Tolosa
e
rimase
da
lui,
alla
sua
corte,
fino
a
quando
il
conte
morì.
E
quando
il
conte
fu
morto,
ser
Bernard
abbandonò
il
mondo,
le
poesie
e
il
canto
e
il
sollazzo
del
secolo
e
poi
entrò
nell'ordine
[abbazia]
di
Dalon
e
là
finì
la
sua
vita.
E
tutto
ciò
che
vi
ho
detto
di
lui
mi
fu
narrato
e
detto
dal
visconte
ser
Ebles
di
Ventadorn,
il
quale
fu
figlio
della
viscontessa
che
ser
Bernard
tanto
amò.
Il
tema
principale
della
poesia
trobadorica
è
quello
dell'amor
cortese,
che
viene
svolto
con
maniere
e
atteggiamenti
tipici
del
mondo
cavalleresco;
questo
mondo
viene
reso,
a
volte,
con
sofisticate
analisi
psicologiche
non
prive
di
allusioni
sensuali.
Importante
nel
repertorio
trobadorico
oltre
al
tema
dell'amor
cortese
è
quello
dell'amore
ambientato
in
ambito
popolaresco,
ma
troviamo
anche
temi
politici,
satirici
e
moraleggianti;
frequente
è
il
riferimento
alla
natura.
L'arte
trobadorica,
nata
per
intrattenere
i
membri
della
società
feudale
aristocratica,
e
diffusa
nelle
varie
corti
dagli
esecutori
nomadi
(jongleurs),
fu
un
importante
mezzo
di
comunicazione
sia
delle
idee
sia
dei
sentimenti
personali,
all'interno
di
quell'ambiente.
A
seconda
del
messaggio
da
comunicare,
si
svilupparono
gradualmente
stili
diversi
nel
poetare:
lo
stile
semplice
e
diretto
(trobar
leu),
lo
stile
sintatticamente
complesso
che
tendeva
alla
sperimentazione
nel
versificare
(trobar
ric),
e
lo
stile
del
cosiddetto
poetare
chiuso
(trobar
clus),
per
le
occasioni
in
cui
il
messaggio
era
riservato,
per
cui
veniva
usato
un
linguaggio
quasi
cifrato,
non
privo
di
metafore
e
comunque
di
espressioni
oscure,
per
renderlo
incomprensibile
a
chiunque
non
fosse
il
destinatario.
Ancora
aperta
è
la
questione
che
riguarda
le
origini
della
poesia
trobadorica
perché
le
ipotesi
formulate
sono
diverse
e
contrastanti.
Una
51
di
queste
chiama
in
causa
l'influenza
araba,
che
risulta
plausibile
sia
per
i
contatti
del
mondo
franco-‐provenzale
con
la
penisola
iberica
sia
a
causa
delle
crociate:
tale
ipotesi
non
è
dimostrabile
almeno
dal
punto
di
vista
musicale,
data
la
mancanza
di
esempi
scritti
di
musica
araba.
In
contrapposizione
a
questa
ipotesi
appare
più
concreta
l'affinità
con
i
temi
poetici
e
le
sperimentazioni
formali
e
strutturali
presenti
nella
nuova
poesia
musicale
religiosa
(sequenze,
tropi,
drammi
liturgici)
e
profana
in
lingua
latina,
soprattutto
nella
regione
aquitana.
Infatti
il
primo
trovatore
conosciuto
è
Guglielmo
IX
(1071-‐1126)
conte
di
Poitiers
e
duca
di
Aquitania
il
cui
unico
frammento
musicato
rimasto
è
un
vers,
la
più
antica
forma
trobadorica,
strettamente
collegata
col
versus
liturgico
che,
come
abbiamo
già
detto,
era
un
tropo
di
complemento
molto
diffuso
in
Aquitania
(cfr.
il
paragrafo
3.3).
Il
vers
aveva
una
struttura
aperta,
priva
di
ripetizioni
di
sezioni.
La
struttura
delle
poesie
trobadoriche
presenta
schemi
di
versi
che
variano
sia
per
numero
che
per
lunghezza
in
ciascuna
strofa,
detta
cobla
in
provenzale.
I
componimenti
musicali
adottano
in
genere
la
forma
strofica
(simile
a
quella
degli
inni),
con
una
struttura
metrica
e
melodica
che
rimane
invariata
in
tutte
le
strofe.
La
più
importante
forma
trobadorica
fu
la
cansò
(canzone),
il
veicolo
privilegiato
della
poetica
dell'amor
cortese:
comprende
un
numero
variabile
di
strofe,
dette
coblas,
ognuna
di
sei
o
sette
versi,
che
intonano
tutte
la
stessa
melodia.
Il
termine
cobla
sembra
derivare
da
copula,
che
indicava
la
coppia
strofica
delle
sequenze
(cfr.
il
paragrafo
3.2).
Le
coblas
potevano
avere
dal
punto
di
vista
poetico
diversi
schemi
e
combinazioni
ritmiche
e
di
rime,
che
dimostrano
la
grande
abilità
e
raffinatezza
degli
autori.
Le
strutture
musicali
erano
condizionate
dalla
varietà
formale
delle
coblas,
e
anche
l'uso
della
ripetizione
e
del
ritornello
nello
sviluppo
melodico
varia
da
una
canzone
all'altra,
o
è
del
tutto
assente.
Una
tipica
intonazione
musicale
della
cansò
è
composta
di
due
frasi
musicali
(A
e
B),
di
cui
la
prima
è
spesso
ripetuta
(A
A
B):
la
prima
frase
musicale
intona
i
primi
due
versi
e
viene
ripetuta
per
il
terzo
e
quarto
verso
(i
primi
quattro
versi
sono
denominati
pedes),
la
seconda
frase
musicale
intona
i
rimanenti
due
o
tre
versi
(che
sono
denominati
cauda)
secondo
il
seguente
schema:
Versi
poetici:
1
2
3
4
5
6
(7)
Frasi
musicali:
A
A
B
Un
altro
tipo
di
iterazione
si
ha
con
la
ripetizione
melodica
delle
due
prime
frasi,
secondo
lo
schema
AB-‐AB-‐
CDEF.
Dal
punto
di
vista
strutturale,
quindi,
il
corpus
della
musica
provenzale
può
52
essere
diviso
in
due
gruppi:
le
composizioni
che
prevedono
l'iterazione
e
quelle
che
ne
sono
prive.
Sulla
struttura
delle
composizioni
trobadoriche
discorre
anche
Dante
in
un
importante
passo
del
secondo
libro
del
De
vulgari
eloquentia
che
chiarisce
anche
i
rapporti
esistenti
tra
musica
e
poesia
sul
piano
morfologico:
La
canzone
null'altro
è
se
non
un'opera
compiuta
di
chi
compone
con
arte
parole
tali
da
poter
ricevere
su
di
sé
un'intonazione
musicale
[…].
La
canzone
per
eccellenza
è
un
collegamento
in
tragico
stile
di
stanze
uguali,
senza
ripresa,
per
un
pensiero
espresso
in
unità,
come
io
mostro
quando
canto
«Donne,
che
avete
intelletto
d'amore».
Se
dico
«collegamento
in
tragico
stile»
è
perché
quando
questo
collegamento
sia
fatto
nel
comico
noi
lo
chiamiamo,
con
diminutivo,
«cantilena».
[…]
La
stanza
(stantia)
è
un
insieme
di
versi
e
di
sillabe
individuato
da
una
determinata
melodia
e
da
una
determinata
struttura
generale
[…]
Dico
dunque
che
ogni
stanza
è
composta
in
modo
tale
da
poter
ricevere
una
certa
melodia.
Ma
secondo
il
modo
in
cui
le
stanze
fanno
questo,
esse
appaiono
differenziate,
poiché
alcune
restano
sotto
un'unica
melodia
sino
alla
fine,
cioè
senza
ripetizioni
di
alcuna
frase
musicale
e
senza
diesis
(chiamo
«diesis»
un
passaggio
che
volge
da
una
ad
altra
melodia).
Altre
invece
presentano
il
diesis,
e
non
può
esservi
il
diesis,
secondo
il
senso
che
si
dà
a
questa
parola,
se
non
si
ripeta
la
stessa
frase
musicale,
o
prima
del
diesis,
o
dopo,
o
in
entrambe
le
sezioni.
Ora,
quando
la
ripetizione
si
faccia
prima
del
diesis,
si
dice
che
la
stanza
ha
i
«piedi»
(pedes);
e
conviene
che
ne
abbia
due,
benché
talora
se
ne
facciano
tre
(ma
molto
raramente).
Quando
invece
la
ripetizione
si
faccia
dopo
il
diesis,
allora
si
dice
che
la
stanza
ha
le
«volte»
(versus).
Quando
prima
non
si
faccia
ripetizione,
si
dice
che
la
stanza
ha
la
«fronte»
(frons);
quando
non
la
si
faccia
dopo,
si
dice
che
ha
la
«sirma»
ovvero
«coda»
(cauda).
Da
ciò
può
essere
sufficientemente
chiarito
in
qual
modo
l'arte
della
canzone
abbia
fondamento
nella
divisione
della
melodia
in
sezioni.
L'esempio
poetico
che
segue,
è
la
cansò
di
Jaufre
Rudel
Lanquan
li
jorn
son
lonc
en
may,
in
cui
l'autore
si
attiene,
come
nelle
altre
sue
canzoni
a
noi
pervenute,
al
tipo
morfologico
con
diesis,
(o
stacco,
ossia
con
iterazione).
I
primi
quattro
versi
della
cobla,
rimati
alternativamente
(A
B
A
B),
hanno
due
frasi
melodiche,
una
per
i
versi
dispari,
l'altra
per
i
versi
pari(
quindi
lo
schema
di
rime
coincide
con
lo
schema
melodico);
nel
passaggio
alla
53
seconda
parte,
anch'essa
di
quattro
versi,
la
melodia
si
svolge
continuata,
più
libera
da
ripetizioni.
schema
melodico
1.
Lanquan
li
jorn
son
lonc
en
may
A
M'e
belhs
dous
chans
d'auzelhs
de
lonh
B
E
quan
mi
suy
partitz
de
lay
A
Remembra.m
d'un'amor
de
lonh.
B
Vau
de
talan
embroncx
e
clis
C
Se
que
chans
ni
flors
d'albespis
D
No.m
platz
plus
que
l'yverns
gelatz
B
2.
Be
tenc
lo
Senhor
per
veray
A
Per
qu'ieu
veirai
l'amor
de
lonh
B
Mas
per
un
ben
que
m'en
eschay
A
N'ai
dos
mals,
quar
tan
m'es
de
lonh.
B
Ai!
car
me
fos
lai
pelegris,
C
Si
que
mos
fustz
e
mos
tapis
D
Fos
pels
sieus
belhs
huelhs
remiratz!
B
1.
[Quando
le
giornate
sono
lunghe,
a
maggio,
M'è
grato
il
dolce
canto
d'uccelli
di
lontano,
E
quando
mi
sono
partito
di
là,
Mi
ricordo
d'un
amore
di
lontano.
Vado
con
animo
imbronciato
e
depresso,
Sì
che
canto
né
fiore
di
biancospino
Più
non
mi
piace
dell'inverno
gelato.
2.
Ben
tengo
il
Signore
per
verace
E
perciò
vedrò
l'amore
di
lontano;
Ma
per
un
bene
che
me
ne
viene
Ne
ho
due
mali,
poiché
tanto
m'è
lontano.
Ah!
ch'io
fossi
là
pellegrino,
Così
che
il
mio
bordone
e
il
mio
saio
Dai
suoi
begli
occhi
fossero
ammirati!]
Oltre
ai
già
citati
vers
e
e
cansò,
le
forme
più
frequenti,
in
base
al
contenuto
del
testo,
sono
le
seguenti:
-‐
il
planh,
corrispondente
al
mediolatino
planctus,
di
argomento
doloroso
o
54
di
compianto,
quindi
di
carattere
mesto
e
lamentoso.
E'
privo
di
una
propria
struttura
musicale;
-‐
l'enueg,
(noia)
di
argomento
satirico,
in
cui
il
poeta
enumerava
ciò
che
più
gli
dispiaceva
(letteralmente,
lo
annoiava),
al
mondo;
-‐
il
sirvèntes,
che
tratta
argomenti
politici,
morali
o
eroici,
satirici
e
anche
religiosi.
Come
il
planh,
non
ebbe
una
forma
musicale
propria,
la
si
doveva
cantare
su
una
melodia
già
conosciuta;
-‐
la
Tenso,
che
ha
per
tema
una
disputa
che
si
svolge
in
forma
di
dialogo
su
questioni
politiche,
morali,
o
anche
galanti;
-‐
la
pastourelle,
il
cui
tema
è
l'incontro
tra
un
cavaliere,
o
comunque
un
nobile,
e
una
giovane
pastorella,
e
il
conseguente
corteggiamento
da
parte
del
signore.
L'incontro,
nelle
varie
composizioni,
evolve
in
diverse
situazioni
e
conclusioni;
-‐
l'alba,
che
descrive
la
situazione
in
cui
l'amico
di
una
coppia
di
amanti
clandestini
veglia
su
di
loro
e
poi
li
avverte
del
sopravvenire
dell'alba,
che
pone
fine
al
convegno
amoroso.
55
Seguono
due
delle
sei
coblas
(la
prima
e
la
terza)
di
cui
è
formata
questa
alba:
56
1.
Reis
glorios,
verai
lums
e
clartatz,
Deus
poderos,
senher,
si
a
vos
platz,
Al
meu
companh
sias
fizels
aiuda,
Qu'eu
non
lo
vi
pos
la
noitz
fo
venguda,
Et
ades
sera
l'alba!
[Re
glorioso,
luce
verace
e
splendore,
Dio
poderoso,
Signore,
se
a
voi
piace,
Siate
fedele
aiuto
al
mio
compagno,
Ch'io
non
l'ho
visto
da
quando
venne
la
notte,
E
tra
poco
spunterà
l'alba!]
3.
Bel
companho,
en
chantan
vos
apel;
Non
dormatz
plus,
qu'eu
auch
chantar
l'auzel
Que
vai
queren
lo
jorn
por
lo
boschatge,
Et
ai
paor
quel
gilos
vos
assatge,
Et
ades
sera
l'alba
[Bel
compagno,
io
vi
chiamo
cantando;
Non
dormite,
ch'io
odo
cantare
l'augello
Il
quale
va
cercando
il
giorno
nel
boschetto,
E
temo
che
il
geloso
vi
assalti.
E
tra
poco
spunterà
l'alba!]
Queste
ultime
due
forme,
l'alba
e
la
pastorella,
conoscono
una
notevole
diffusione
nella
tradizione
popolare,
ma
è
difficile
stabilire
da
quale
versante
parta
il
processo
di
influenza,
se
da
quello
popolare
o
da
quello
popolare.
Tra
le
varie
centinaia
di
trovatori,
i
più
noti
in
ordine
cronologico,
dopo
il
già
citato
Guglielmo
IX,
settimo
conte
di
Poitiers
e
IX
duca
d'Aquitania,
sono,
nella
prima
metà
del
XII
secolo,
Jaufre
Rudel
(autore
della
cansò
Lan
quant
li
jorn
son
lonc
en
mai)
e
Marcabru
(la
pastorella
L'autrier
just'una
sebissa);
seguono
Bernart
de
Ventadorn
(Can
vei
la
lauzeta
mover)
e
Bertran
de
Born.
A
cavallo
tra
il
XII
e
il
XIII
secolo
operarono
Guiraut
de
Borneilh
(autore
dell'alba
Reis
glorios,
verais
lums
e
clartatz),
e,
di
seguito
Peire
Vidal,
Folquet
de
Marseilha,
Arnaut
Daniel
e
Raimbaut
De
Vaqueiras
(autore
quest'ultimo
del
famoso
Kalenda
maia
=
primo
giorno
di
maggio,
dall'andamento
danzante).
Nella
seconda
metà
del
XIII
secolo,
infine,
si
colloca
Guiraut
Riquier.
Proprio
nel
secolo
XIII
la
produzione
trobadorica
decadde
soprattutto
nelle
57
regioni
in
cui
il
genere
era
nato,
ma
proseguì
in
altri
siti
geografici.
Questa
decadenza
fu
dovuta
alla
crisi
politica
e
culturale
che
subì
la
Provenza
in
seguito
alla
crociata
contro
gli
Albigesi.
Le
fonti
manoscritte
che
riportano
melodie
trobadoriche
sono,
come
si
è
detto,
tarde
rispetto
al
periodo
di
produzione.
Nella
trascrizione
in
notazione
moderna
esse
non
pongono
difficoltà
nello
stabilire
l'altezza
dei
suoni,
poiché
il
sistema
di
notazione
è
quello
neumatico
quadrato
in
cui
l'utilizzo
del
tetragramma
e
delle
chiavi
rende
possibile
una
sicura
trascrizione
del
disegno
melodico.
Il
problema
più
rilevante
che
pongono
le
fonti
manoscritte
è
invece
relativo
alla
interpretazione
ritmica
dei
suoni,
perché
riguardo
alle
indicazioni
di
tempo
e
di
durata,
la
semiografia
non
consente
una
traduzione
certa.
Esistono
a
questo
proposito
diverse
ipotesi
riconducibili
ad
altrettanti
studiosi
che
non
giungono
però
a
una
soluzione
condivisa.
Uno
dei
modi
per
risolvere
questo
problema
è
stato
il
tentativo
di
applicare
alle
melodie
i
'modi
ritmici'
usati
nel
repertorio
polifonico
francese
del
XIII
secolo,
ma
i
risultati
non
sono
mai
giunti
alla
uniformità,
così
come
fallirono
diversi
altri
esperimenti
basati
sulle
più
varie
ipotesi,
da
quelle
che
fanno
riferimento
alla
metrica
testuale,
a
quelle
che
suggeriscono
di
attribuire
alle
note
valori
uguali.
Va
dunque
tenuto
presente
che
nelle
trascrizioni
e
nelle
esecuzioni
di
canti
trobadorici
è
importante
la
soluzione
soggettiva
dell'elemento
ritmico.
I
risultati
più
soddisfacenti
si
sono
ottenuti
sviluppando
criteri
che
facessero
coincidere
il
più
possibile
il
ritmo
musicale
con
quello
del
testo
poetico,
che
è
proprio
ideato
insieme
alla
musica
e
in
funzione
di
questa.
Lo
stile
melodico
delle
canzoni
trobadoriche
presenta
un
andamento
accurato
e
raffinato,
lontano
dallo
stile
gregoriano
e
dalla
sua
modalità.
Influenze
della
musica
liturgica
più
arcaica
sono
invece
individuabili
nei
semplici
andamenti
sillabati
su
note
ribattute.
Frequenti
sono
i
melismi,
che
compaiono
per
di
più
alla
fine
di
frasi
o
semifrasi,
e
soprattutto
nelle
cadenze
finali.
Le
differenti
lezioni
dei
tracciati
melodici
di
tali
melismi
che
si
riscontrano
nelle
diverse
fonti
manoscritte,
suggeriscono
l'ipotesi
che
nelle
esecuzioni
estemporanee
era
ammessa
e
quindi
prevista
l'improvvisazione.
Riguardo
l'opinione
per
cui
i
canti
trobadorici
fossero
accompagnati
nell'esecuzione
da
strumenti
musicali,
sebbene
tutti
gli
esempi
musicali
a
noi
pervenuti
riportino
esclusivamente
il
profilo
melodico
del
canto,
tuttavia
l'iconografia
e
alcuni
passi
letterari
dell'epoca
testimoniano
l'utilizzo
di
vari
strumenti
musicali
ad
arco
(viella,
ribeca),
a
fiato,
a
corde
e
58
a
percussioni.
La
loro
funzione
nell'esecuzione
era
probabilmente
quella
di
raddoppiare
all'unisono
o
all'ottava
la
parte
vocale,
ma
forse
anche
di
preludio,
interludio
o
postludio
al
brano
cantato.
9.2
I
trovieri
Per
quanto
riguarda
la
produzione
dei
trovieri,
vale
quanto
già
detto
per
la
produzione
dei
trovatori;
tuttavia
bisogna
precisare
che
nella
loro
chanson
con
struttura
musicale
A
A
B
della
strofa
(che
abbiamo
visto
a
proposito
della
cansò),
la
sezione
A
termina
una
prima
volta
con
una
formula
detta
ouvert,
aperta,
per
permettere
il
ritornello
della
stessa
sezione
A,
che
la
seconda
volta
termina
invece
con
una
formula
detta
clos
o
di
chiusura
della
sezione.
Questo
procedimento
si
ritrova
nelle
forme
della
futura
ars
nova
francese
del
XIV
secolo.
Il
rondeau
è
un'altra
forma
trecentesca
che
troviamo
già
nella
produzione
dei
trovieri
(con
lo
schema
musicale
AB,
AA,
AB,
AB);
altre
forme
specifiche
dei
trovieri
erano
il
lai,
con
struttura
simile
alla
sequenza,
basata
sulla
coppia
strofica,
e
il
jeu
parti,
in
forma
dialogica
tra
due
interpreti
che
intonano
la
stessa
melodia.
Importante
fu
l'opera
di
Chrétien
de
Troyes,
il
primo
dei
trovieri
conosciuti,
autore
del
Perceval
le
Gallois.
Alla
fine
del
secolo
XII
si
collocano
invece
Conon
de
Béthune
e
Blondel
de
Nesle.
Nel
Duecento
operarono
Gautier
de
Coinci,
Thibaut
de
Champagne
e
Adam
de
la
Halle
(1237ca.-‐1286/7),
il
più
importante
tra
i
trovieri,
autore
tra
l'altro
del
celebre
Jeu
de
Robin
et
de
Marion,
azione
scenica
composta
forse
per
la
corte
napoletana
di
Carlo
d'Angiò.
E'
una
sorta
di
dramma
profano
monodico
di
carattere
popolaresco,
dove
si
alternano
sezioni
recitate
a
sezioni
cantate
e
danzate
che
utilizzano
anche
adattamenti
di
musiche
preesistenti,
non
solo
dello
stesso
suo
autore.
Adam
scrisse
anche
mottetti
polifonici
subendo
così
l'influsso
della
contemporanea
fioritura,
nella
Francia
settentrionale,
della
musica
a
più
voci.
10.
LA
MONODIA
IN
GERMANIA
L'influenza
della
lirica
trobadorica
e
trovierica
nei
Paesi
di
lingua
tedesca
59
diede
origine
al
movimento
del
Minnesang
(da
Minne=amor
cortese
e
Sang=canto):
Minnesänger
furono
denominati
i
poeti-‐musici
tedeschi
che
operarono
tra
la
seconda
metà
del
XII
secolo
e
la
metà
del
secolo
XIV.
I
contatti
tra
la
cultura
franco-‐provenzale
e
quella
tedesca
(la
cui
produzione
più
rilevante
è
costituita
dai
canti
goliardici),
furono
favoriti
dalle
Crociate
e
ufficializzati
dal
matrimonio
di
Beatrice
di
Borgogna
e
l'imperatore
Federico
Barbarossa,
avvenuto
nel
1156,
perché,
al
seguito
della
sposa,
viaggiava
il
troviere
Guiot
de
Provins.
In
un
primo
tempo,
almeno
fino
all'inizio
del
secolo
XIII,
la
produzione
tedesca
dipese
completamente
dai
modelli
franco-‐provenzali,
perché
le
musiche
sono
adattamenti
di
melodie
trobadoriche,
e
il
repertorio
è
attestato
da
fonti
francesi
che
contengono
canti
trobadorici
con
testi
in
tedesco.
Successivamente
la
produzione
dei
Minnesänger
assunse
aspetti
musicali
più
caratteristici,
anche
se
continuò
in
parte
l'influenza
francese
per
quanto
riguarda
i
contenuti,
le
forme
e
le
melodie;
il
corpus
principale
della
produzione
dei
Minnesänger
è
conservato
in
due
codici
piuttosto
tardivi:
il
canzoniere
di
Jena,
del
secolo
XIV,
con
91
melodie,
e
quello
di
Colmar,
del
secolo
XV,
con
107
melodie.
I
contenuti
poetici
frequentati
dai
Minnesänger
furono
anzitutto
l'amor
cortese,
teso
però
ad
accentuare
la
dimensione
idealistica
e
spirituale
dei
rapporti
amorosi,
gli
argomenti
politici,
morali,
religiosi,
e
l'esaltazione
della
natura.
Anche
la
corrispondenza
terminologica
tra
i
generi
letterari
sottolinea
analogie
evidenti:
il
Lied
equivale
alla
cansò
trobadoica
e
alla
chanson
trovierica,
il
Tagelied
all'alba
e
all'aube,
il
Leich
al
lai,
lo
Spruch
al
sirventes,
eccetera.
La
struttura
poetico-‐musicale
più
frequentemente
adottata
dai
Minnesänger
fu
la
Bar
form
(Bar
=
poema,
canzone),
corrispondente
alla
cansò
trobadorica.
Consiste
in
uno
schema
tripartito
del
tipo
A
A
B,
che
si
articola
in
due
Stollen
(piedi),
e
un
Abgesang
(chiusa):
la
prima
sezione
A
è
costituita
da
due
Stollen
(a,
b),
la
seconda
sezione
A
è
la
ripetizione
della
prima
(a,
b),
mentre
la
terza
sezione
B
è
formata
da
tre
o
più
piedi
(c,
d,
e...),
di
cui
l'ultimo
corrisponde
spesso
al
piede
b
della
prima
sezione.
La
notazione
musicale
è
neumatico-‐quadrata,
sprovvista
di
indicazioni
ritmico-‐metriche,
quindi
anche
per
i
Minnelieder,
si
pongono
gli
stessi
problemi
di
interpretazione
ritmica
che
riguardano
i
canti
trobadorici.
Ma
a
differenza
delle
lingue
franco-‐provenzali,
la
versificazione
germanica
si
basa
sul
numero
degli
accenti
forti
e
non
pretende
l'uguaglianza
numerica
delle
sillabe
non
accentate.
Questa
diversità
rende
impossibile
la
sistematica
applicazione
della
teoria
modale
nelle
trascrizioni
di
questo
60
repertorio.
Tra
i
più
importanti
Minnesänger
sono
da
segnalare
Walther
von
der
Vogelweide
(ca.
1170
-‐
ca.
1230);
Wolfram
von
Eschenbach
(fine
del
XII-‐
inizio
del
XIII
secolo);
Heinrich
von
Meissen,
(fine
del
XIII-‐inizio
del
XIV
secolo)
detto
Frauenlob
(lode
alla
signora),
perché
in
una
contesa
di
cantori
sostenne
il
termine
Frau
(signora)
al
posto
di
Wip
(donna);
Oswald
von
Wolkenstein
(fine
del
XIV-‐metà
del
XV
secolo).
Con
la
rinascita
delle
città
e
la
conseguente
ascesa
della
borghesia,
nei
secoli
XV
e
XVI,
i
Minnesänger,
legati
all'ambiente
di
corte
e
alla
società
feudale,
lasciarono
il
posto
ai
Meistersänger
(maestri
cantori),
che
operavano
nel
contesto
borghese
e
cittadino.
Erano
organizzati
in
corporazioni,
una
sorta
di
scuole
artigiane
relative
alle
varie
arti
e
mestieri,
con
struttura
gerarchica.
Organizzavano
veri
e
propri
tornei
di
composizione,
per
partecipare
ai
quali
bisognava
adottare
rigorose
norme,
da
loro
stabilite,
per
la
creazione
poetica
e
musicale.
La
prima
scuola
fu
fondata
dal
già
citato
Frauenlob
a
Magonza;
successivamente
la
scuola
più
importante
divenne
quella
di
Norimberga,
per
merito
di
Hans
Sachs
(1494-‐1576).
Anche
in
un'epoca
così
avanzata,
dominata
ormai
dal
linguaggio
polifonico,
i
Meistersänger
continuarono
a
frequentare
il
linguaggio
monodico
da
loro
codificato
in
quel
particolareggiato
sistema
di
regole
che
fu
oggetto
di
satira
nell'opera
di
Wagner
Die
Meistersinger
von
Nürnberg.
Sono
da
menzionare
nell'Europa
settentrionale
anche
i
Geisslerlieder,
(canti
dei
flagellanti),
un
repertorio
fiorito
nel
XIV
secolo
a
imitazione
dei
canti
penitenziali
italiani,
simili
alle
laude,
durante
la
grande
epidemia
di
peste
del
1349:
essi
anticipano
chiaramente
alcuni
tratti
del
corale
luterano.
11.
LA
MONODIA
IN
SPAGNA
La
vicinanza
geografica
della
Francia
con
la
penisola
iberica
determinò
la
61
diffusione
dell'esperienza
lirica
franco-‐provenzale
anche
in
Spagna
e
Portogallo.
Numerosi
trovatori,
tra
cui
Peire
Vidal,
Guiraut
de
Bornelh,
Marcabru,
viaggiarono
in
questi
paesi,
e
operarono
nelle
corti
di
Catalogna,
Castiglia
e
Aragona;
conseguentemente
molti
signori
spagnoli
si
cimentarono
nell'arte
del
'trobar'.
In
Portogallo
invece
si
affermarono,
fino
all'estinzione
della
dinastia
di
Borgogna
(1383),
eccellenti
trovatori
autoctoni.
La
più
antica
testimonianza
di
canti
d'amore
in
lingua
gallego-‐portoghese
è
opera
del
joglar
(giullare)
Martin
Codàx,
che
all'inizio
del
secolo
XIII
compose
le
sette
Cantigas
de
amigo,
canti
nostalgici
di
una
donna
il
cui
amato
era
lontano,
alle
crociate.
Tuttavia
il
nucleo
più
rilevante
della
monodia
iberica
è
costituito
dalle
Cantìgas
de
Santa
Maria,
un
repertorio
raccolto
da
Alfonso
X
«el
Sabio»,
re
di
Castiglia
e
di
Leòn,
tra
il
1252
e
il
1284;
è
formato
da
più
di
quattrocento
canzoni
(cantigas
era
il
termine
con
cui,
nella
lingua
gallego-‐portoghese,
si
designavano
composizioni
tanto
sacre
che
profane)
che
celebrano
prevalentemente
i
miracoli
della
Vergine.
Queste
canzoni
hanno
un
precedente
nei
Miracles
de
Notre
Dame,
composte
dal
troviere
Gautier
de
Coinci,
perché
anch'esse
realizzano
l'intenzione
di
onorare
la
Madonna
con
le
forme
proprie
della
poesia
profana.
La
forma
che
prevale
in
queste
cantigas
è
simile
a
quella
della
ballata
italiana
e
del
virelai
francese:
una
struttura
strofica
in
cui
un
ritornello,
detto
estrabillo,
precede,
intercala
e
conclude
le
diverse
strofe
che
mutano.
Si
è
ipotizzato
che
questa
forma,
che
troviamo
anche
in
liriche
mediolatine,
abbia
subito
l'influsso
dello
zagial,
una
composizione
arabo-‐
andalusa
con
schema
strofico
(aaax,
bbbx,
eccetera),
la
cui
musica
si
differenzia
dalle
altre
monodie
europee
per
le
sue
originali
inflessioni.
Il
codice
conservato
nella
Biblioteca
dell'Escurial
che
contiene
le
Cantigas
de
Santa
Maria
è
famoso
per
il
ricco
apparato
iconografico
formato
da
splendide
miniature
raffiguranti
strumenti
musicali
medievali
e
costituisce
quindi
una
sorta
di
manuale
organologico
utile
non
solo
alla
conoscenza
degli
strumenti
del
Medioevo,
ma
anche
della
coeva
prassi
esecutiva.
12.
LA
MONODIA
IN
ITALIA:
LE
LAUDE.
In
Italia
la
lirica
provenzale
ebbe
notevole
accoglienza,
e
diversi
trovatori
62
come
Raimbaut
de
Vaqueiras,
Gaucelm
Faidit,
Peire
Vidal,
soggiornarono
nelle
corti
italiane;
la
conoscenza
della
lingua
provenzale
era
diffusa
tra
i
poeti
italiani,
e
lo
stesso
Dante
nel
canto
XXVI
del
Purgatorio
rende
omaggio
al
trovatore
Arnaud
Daniel
in
lingua
d'oc.
La
letteratura
provenzale
esercitò
una
certa
influenza
sulle
prime
forme
della
letteratura
italiana,
e
lo
dimostrano
anche
le
denominazioni
di
alcune
forme
poetiche
come
la
ballata,
la
tenzone,
il
sirventese,
chiaramente
derivate
da
quelle
francesi.
Non
sono
però
rimaste
testimonianze
che
attestino
un
accompagnamento
musicale
per
la
poesia
cortese
italiana,
così
come
ne
abbiamo
per
l'analoga
poesia
francese,
tedesca
e
spagnola.
Al
contrario
esistono
documenti
che
dimostrano,
in
Italia,
una
netta
separazione
tra
i
ruoli
del
letterato
e
del
musico:
a
quest'ultimo
veniva
affidato
il
testo
poetico,
composto
precedentemente
dal
poeta,
per
rivestirlo
di
musica.
La
musica
invece
era
molto
presente
nelle
consuetudini
popolari,
sia
nell'ambito
delle
feste
religiose
che
di
quelle
profane:
tali
correlazioni
tra
la
musica
e
la
vita
sociale,
tra
la
sfera
religiosa
e
quella
laica,
vengono
puntualmente
documentate.
Fu
soprattutto
san
Francesco
d'Assisi
con
i
frati
suoi
seguaci,
da
lui
spronati
ad
essere
ioculatores
Domini
(giullari
del
Signore),
a
operare
in
questo
senso,
a
unire
le
due
dimensioni
utilizzando
nella
musica
un
linguaggio
mondano
e
popolare
per
esprimere
il
sentimento
religioso:
ciò
accade
nelle
sue
Laudes
creaturarum,
il
Cantico
delle
creature,
o
«lodi
delle
creature»
del
1225,
che
originariamente
erano
accompagnate
dalla
musica,
come
testimonia
la
presenza
nel
manoscritto
di
Assisi
(codice
338)
di
righi
musicali
rimasti
sfortunatamente
in
bianco.
Proprio
nell'ambito
della
rinascita
spirituale
del
XIII
secolo,
sollecitata
dagli
ordini
mendicanti
(francescani,
domenicani,
servi
di
Maria)
e
orientati
verso
una
religiosità
caritatevole
e
penitenziale,
si
realizza
in
Italia
l'unione
tra
poesia
e
musica
dando
luogo
alla
lauda,
un
nuovo
genere
di
canto
religioso
extra
liturgico,
in
versi
in
lingua
volgare,
e
di
carattere
popolare,
destinata
alle
confraternite
laiche
che
allora
si
andavano
formando.
In
seguito
vennero
fondate
delle
confraternite
specifiche,
dette
dei
Laudesi,
che
avevano,
come
scopo
principale,
il
canto
delle
laude,
così
come
altre
confraternite
eseguivano
pubblicamente
atti
penitenziali
(i
Flagellanti,
i
Battuti,
etc.).
La
prima
confraternita
dei
Laudesi
operò
a
Siena,
dove
fu
fondata
nel
1267,
diffondendo
le
laude
liriche,
i
cui
temi
si
adeguavano
di
volta
in
volta
al
calendario
liturgico.
In
seguito,
un'altra
confraternita,
quella
dei
Disciplinati
di
Perugia,
sviluppò
la
lauda
drammatica,
che
nel
XIV
secolo
portò
a
creare
forme
di
teatro
religioso
denominate
'rappresentazioni'.
63
Le
confraternite
dei
Laudesi
incrementarono
la
produzione
delle
laude
dando
loro
una
sempre
più
precisa
struttura
letteraria
e
musicale.
Altro
scopo
dei
Laudesi
era
quello
di
perfezionare
le
esecuzioni,
per
cui
si
rese
necessario
provvedere
alla
compilazione
di
codici
notati.
Sono
giunti
a
noi
due
fonti
manoscritte
integre,
provviste
di
notazione
musicale:
il
codice
Cortonese,
e
il
codice
Magliabechiano,
che
deriva
questa
denominazione
dalla
biblioteca
fiorentina
che
lo
conservava.
Il
primo
fu
redatto
presumibilmente
prima
del
1297,
appartenne
alla
confraternita
di
Santa
Maria
delle
Laude
presso
la
Chiesa
di
San
Francesco
in
Cortona,
contiene
44
melodie,
più
due
aggiunte,
ed
è
ora
conservato
nella
Biblioteca
comunale
di
Cortona.
Il
secondo
è
stato
datato
tra
il
1310
e
il
decennio
1330-‐40,
appartenne
nella
prima
metà
del
XIV
secolo
alla
Confraternita
di
Santa
Maria
di
Firenze,
con
sede
presso
gli
Agostiniani
di
Santo
Spirito,
e
poi
alla
confraternita
detta
degli
Umiliati
d'Ognissanti.
Contiene
97
laude,
di
cui
20
sono
in
comune
con
il
codice
Cortonese,
ed
è
ora
conservato
nella
Biblioteca
Nazionale
di
Firenze.
Le
strutture
musicali
delle
laude
si
rifanno
a
vari
schemi
melodici.
A
volte
la
forma
deriva
dal
repertorio
liturgico
(sequenza,
inni..),
ma
più
spesso
le
laude
sono
modellate
sullo
schema
strofico
della
ballata
profana,
che,
alternando
il
ritornello
alle
strofe
o
stanze,
fa
pensare
a
esecuzioni
in
cui
si
alternano
il
solista
e
il
coro.
Le
melodie
delle
laude,
forse
di
derivazione
arabo-‐ispana,
sono
semplici,
hanno
un
andamento
sillabico
e
procedono
prevalentemente
per
gradi
congiunti,
superando
raramente
l'intervallo
di
terza;
andamenti
melismatici
sono
però
presenti
nel
codice
magliabechiano.
Nella
loro
semplicità,
data
anche
dalla
frequente
presenza
di
note
ribattute,
le
melodie
rivelano
una
certa
originalità
rispetto
agli
altri
repertori
monodici
medievali
e
grande
capacità
espressiva
nella
resa
di
testi
altrettanto
coinvolgenti.
La
notazione
musicale
di
questi
codici
è
la
neumatica
quadrata
su
tetralineo
amensurale,
per
cui
anche
per
le
laude
si
ripropone,
in
sede
di
trascrizione,
il
problema
della
interpretazione
ritmica,
questione
tuttora
aperta
per
tutta
la
produzione
monodica
medievale.
13.
LA
TEORIA
MEDIEVALE
13.1
Ars
musica
e
pratica
musicale
64
I
principali
scritti
teorico-‐musicali
medievali
sono
pubblicati,
in
edizione
moderna,
nell'opera
Scriptores
ecclesiastici
de
musica
curata
da
Martin
Gerbert,
3
volumi,
S.
Blasii,
1784;
l'opera
di
Gerbert
fu
continuata
e
completata
con
una
successiva
edizione
intitolata
Scriptores
de
musica
Medii
Aevi
curata
da
Edmond
de
Coussemaker,
4
volumi,
Parigi,
1864-‐76.
Allo
scopo
di
renderli
accessibili
agli
studiosi
moderni,
essi
furono
ulteriormente
ristampati
in
edizione
anastatica.
Le
opere
teoriche
medioevali
che
trattano
di
musica
possono
essere
distinte
in
due
fondamentali
categorie:
quelle
in
cui
prevale
l'aspetto
propriamente
teorico
e
speculativo,
e
quelle
che
si
occupano
anche
della
pratica
musicale.
Lo
stesso
concetto
di
Musica,
e
quindi
il
suo
significato,
veniva
scisso
nei
due
aspetti
sopradetti,
quello
teorico
e
quello
pratico.
L'uno
veniva
definito
ars
musica,
e
in
questa
accezione
consisteva
in
una
disciplina
teorica,
speculativa,
erede
e
continuatrice
delle
tradizioni
della
teoria
greca,
che,
insieme
all'aritmetica,
la
geometria
e
l'astronomia,
apparteneva
al
Quadrivium.
Le
arti
del
Quadrivium
costituivano,
insieme
alle
arti
del
Trivium
(Grammatica,
Retorica
e
Dialettica),
le
materie
di
insegnamento
nelle
università
europee
nel
Medioevo.
Questa
collocazione
della
musica
accanto
alle
altre
arti
del
Quadrivium
si
spiega
in
base
al
fatto
che
tutte
e
quattro
quelle
arti
si
occupavano
dei
numeri
nelle
loro
varie
applicazioni,
e
l'ars
musica
consisteva
nello
studio
dei
numeri
applicati
ai
suoni;
da
questa
premessa
scaturisce
l'impostazione
scientifica
e
filosofica
nello
studio
della
teoria
musicale,
comprensivo
dell'acustica,
degli
intervalli,
del
ritmo
verbale
(prosodia
e
metrica),
della
modalità.
L'altro
aspetto
riguardava
la
formazione
e
la
pratica
musicale
vocale-‐
strumentale
e
l'insegnamento
del
canto
liturgico,
e
trovava
il
proprio
spazio
naturale
nelle
scholae
delle
cattedrali
e
dei
monasteri.
Da
questa
suddivisione
scaturisce
anche
la
differenziazione
tra
la
figura
del
Musicus,
termine
con
il
quale
si
designava
il
teorico,
il
dotto
studioso
che
si
occupava
di
teoria
musicale,
quindi
dell'ars
musica,
e
la
figura
del
Cantor,
termine
che
si
riferiva
invece
al
musico
pratico.
La
distinzione
fra
Musicus
e
Cantor
è
anche
all'origine
del
profondo
divario,
esistente
fra
le
opere
dei
teorici
e
la
produzione
musicale
contemporanea,
che
caratterizza
i
secoli
fin
qui
trattati;
i
riferimenti,
nelle
opere
teoriche,
alla
pratica
e
alla
musica
del
tempo
erano
molto
scarsi
o
mancavano
del
tutto.
13.2
I
principali
teorici
della
monodia
medievale
65
Il
primo
dei
dotti
cristiani
è
S.
Agostino
(354-‐430),
uno
dei
quattro
grandi
dottori
della
Chiesa
Occidentale,
il
quale,
pur
essendo
in
perfetta
sintonia
con
l'impostazione
della
trattatistica
classica,
fu
anche
l'iniziatore
di
quel
lungo
processo
che
portò,
nei
secoli
successivi,
al
progressivo
avvicinamento
della
teoria
alla
pratica
nella
musica
occidentale.
In
molti
suoi
scritti,
infatti,
sono
presenti
accenni
alla
pratica
musicale
contemporanea;
tuttavia,
delle
due
opere
strettamente
musicali
da
lui
progettate,
l'una
sulla
metrica
del
linguaggio
e
l'altra
sugli
intervalli,
completò
solo
la
prima,
intitolata
De
musica
libri
sex,
che
si
occupa
principalmente
dell'aspetto
teorico
e
filosofico
della
musica.
In
particolare
nel
sesto
libro,
Agostino
definisce
il
suo
concetto
di
numero,
che
è
alla
base
della
musica
e
ne
costituisce
la
natura
profonda,
elevandola
a
scienza
divina.
I
teorici
medievali
successivi
ad
Agostino,
cioè
Boezio
(480-‐524),
Cassiodoro
(485-‐580)
e
sant'Isidoro
di
Siviglia
(559-‐636),
si
limitano
a
riprendere
i
temi
speculativi
della
teoria
classica,
senza
far
nessun
accenno
alla
musica
liturgica
del
loro
tempo.
Severino
Boezio
(480-‐524)
funge
da
mediatore
tra
la
cultura
musicale
dell'antichità
classica,
da
lui
assimilata
attraverso
i
neopitagorici
e
neoplatonici,
e
il
mondo
medievale.
La
sua
opera
più
importante,
concernente
la
teoria
musicale,
si
intitola
De
instituzione
musica,
e
fu
scritta
un
secolo
dopo
S.
Agostino
(circa
500-‐507).
La
teoria
boeziana
afferma
che,
nella
musica,
la
percezione
sensibile
deve
sempre
essere
sottomessa
alla
ragione,
perché
solo
questa
può
comprenderne
il
reale
significato.
Da
qui
nasce
la
netta
divisione
tra
musico
ed
esecutore:
solo
il
musico
possiede
gli
strumenti
intellettuali
per
giudicare
«modi,
ritmi
e
generi
delle
cantilene».
Gli
esecutori
sono
invece
dei
servi
perché
letteralmente
'servono'
all'esecuzione
della
musica,
senza
però
apportare
alcun
elemento
razionale.
Tutta
la
trattatistica
medievale,
almeno
fino
agli
inizi
del
XIV
secolo
si
uniforma
a
questa
concezione
che
è
strettamente
congiunta
con
l'altra
famosa
distinzione
boeziana
della
musica
in
tre
specie:
mundana,
humana,
instrumentalis.
La
prima,
prodotta
dal
rapido
movimento
dei
corpi
celesti,
non
è
udibile,
e
si
rifà
al
concetto
di
armonia
piuttosto
che
a
quello
di
suono;
la
humana,
che
congiunge
armoniosamente
anima
e
corpo,
può
essere
udita
da
chiunque
sappia
discendere
in
sé
stesso,
e
possiamo
definirla
come
una
sorta
di
armonia
psichica;
la
terza,
quella
prodotta
dagli
strumenti,
è
il
genere
inferiore,
essendo
appannaggio
degli
strumentisti
che
sono
schiavi
('servi')
dell'esecuzione
musicale.
Questo
trattato
ebbe
grande
fortuna
durante
tutto
il
Medioevo
e
improntò
la
speculazione
66
teorica
della
musica
fino
al
Rinascimento.
Cassiodoro
(Squillace,
ca.490
-‐
Vivarium
[oggi
Stalettì,
Catanzaro],
ca.
583),
con
il
suo
De
Institutione
Musicae,
si
affianca
all'opera
di
Boezio
nella
funzione
di
tramite
fra
la
teoria
antica
e
il
Medioevo.
Importanti,
per
la
teoria
musicale
sono
l'Expositio
in
psalterium
(ca.
540)
e
le
Institutiones
divinarum
et
humanarum
rerum,
dove
Cassiodoro
tratta
la
teoria
musicale
unificando
l'opera
di
Gaudenzio
e
di
Alipio.
Pur
riprendendo
la
teoria
greca,
propone
una
divisione
originale
della
musica,
in
tre
parti:
harmonica,
rhythmica,
metrica.
Scrisse
le
sue
opere
anche
per
scopi
pratici
come
l'educazione
al
canto
dei
giovani
ammessi
nel
suo
monastero
di
Vivarium
in
Calabria.
Successivamente
Isidoro,
vescovo
di
Siviglia
(560ca.-‐636)
pur
seguendo
nelle
sue
opere,
le
celebri
Etymologiae
e
il
De
ecclesiasticis
officiis,
i
canoni
teorici
tradizionali,
ad
esempio
l'esposizione
della
teoria
delle
sette
arti
liberali
del
Trivium
e
del
Quadrivium,
procede
mantenendo
sempre
il
riferimento
alla
pratica
del
canto
liturgico;
questo
emerge
ad
esempio
quando
definisce
la
musica
non
solo
in
rapporto
alla
scientia,
ma
anche
alla
peritia.
Inoltre
egli
disquisisce
del
ritmo
nell'ambito
della
grammatica
e
della
prosodia:
se
ne
deduce
che
per
Isidoro
non
esistesse
alcun
rapporto
tra
il
ritmo
della
melodia
ecclesiastica
e
la
quantità
del
latino
classico.
D'altro
lato
una
sua
frase
(già
citata
nel
paragrafo
2.1
di
questa
trattazione)
ci
fa
capire
inequivocabilmente
quanto
si
fosse
lontani
anche
dai
primi
passi
della
notazione:
«Nisi
enim
ab
homine
memoria
teneantur,
soni
pereunt,
quia
scribi
non
possunt»
(Se
non
sono
fissati
nella
memoria,
i
suoni
si
perdono,
perché
non
possono
essere
scritti).
Infine
gli
strumenti
musicali
sono
da
lui
descritti
più
per
doverosa
completezza
che
per
reale
interesse,
quasi
che
la
musica
strumentale
non
esistesse.
Dopo
Isidoro
bisogna
attendere
il
periodo
carolingio
per
incontrare
altri
teorici.
In
questi
secoli
si
venne
gradualmente
a
definire
e
a
codificare
la
struttura
tonale
delle
melodie
liturgiche
che
furono
adattate
ai
canoni
dell'oktoechòs
bizantino,
il
sistema
degli
otto
'modi'
usati
dalla
musica
ecclesiastica
(cfr.
paragrafo
2.14).
Questo
graduale
processo
è
stato
complicato,
nel
suo
percorso,
da
malintesi
terminologici
e,
di
conseguenza,
semantici,
che
ne
hanno
resa
difficile
la
comprensione.
In
sintesi,
la
nomenclatura
dei
modi
medievali
è
stata
applicata
utilizzando
la
terminologia
delle
scale
modali
greche,
ma,
proprio
per
un'errata
interpretazione
della
teoria
musicale
greca,
è
stata
fraintesa
la
nomenclatura,
per
cui
le
denominazioni
applicate
ai
modi
medievali
non
coincidono
con
quelle
delle
scale
modali
greche.
E'
quindi
tuttora
errata
l'abitudine
di
designare
i
modi
della
cultura
occidentale
con
67
la
terminologia
greca.
I
primi
teorici
che
parlano
dei
modi
ecclesiastici
riferendosi
alla
musica
contemporanea
appartengono
all'epoca
carolingia.
Il
primo
accenno
lo
troviamo
in
un
frammento
di
un
trattato
anonimo
(erroneamente
attribuito
ad
Alcuino,
organizzatore
degli
studi
presso
la
corte
di
Carlo
Magno)
dell'inizio
del
IX
secolo:
enuncia
quattro
modi
liturgici
caratterizzati
ognuno
dalla
nota
finale.
Successivamente
altri
due
teorici
dell'età
carolingia,
Aureliano
di
Réome,
della
prima
metà
del
secolo
IX,
e
Reginone
di
Prüm
(842-‐915),
descrissero
le
peculiarità
modali
del
canto
gregoriano,
senza
connessioni
con
la
teoria
classica.
Queste
connessioni
furono
espresse
dapprima
da
Hucbald
di
Saint-‐
Amand
(840-‐930),
che
permise
così
ai
contemporanei
di
ravvisare
quanto
avessero
in
comune
con
la
teoria
greca:
una
scala
di
sette
suoni
'naturali',
con
l'aggiunta,
al
bisogno,
del
si
bemolle.
Fu
invece
l'ignoto
autore
del
trattato
intitolato
Alia
musica
(titolo
derivato
dalle
parole
iniziali),
scritto
forse
nella
prima
metà
del
X
secolo,
che,
definendo
i
modi
liturgici
come
specie
di
ottava,
attribuì
ad
essi
i
nomi
etnici
delle
scale
modali
greche,
sbagliando
però
nell'attribuzione
dei
nomi
ai
rispettivi
modi.
Successivamente
poi
il
tedesco
Ermanno
il
Contratto
(1013-‐
1054)
definì
l'assetto
dell'octòechos
che
sarebbe
rimasto
immutato
nella
teoria
musicale
occidentale
fino
al
Rinascimento.
14.
GUIDO
D'AREZZO
Fondamentale
è
l'opera
teorica
e
didattica
di
Guido
d'Arezzo,
monaco
68
benedettino
attivo
nella
prima
metà
dell'XI
secolo.
Iniziò
la
sua
attività
a
Pomposa
e
successivamente
si
trasferì
ad
Arezzo
dove
insegnò
teologia
e
musica
nella
scuola
annessa
alla
cattedrale.
La
sua
opera
tende
a
codificare
e
divulgare
i
precedenti
tentativi
di
dare
risoluzione
pratica
ai
problemi
legati
alla
lettura
e
alla
esecuzione
musicale.
Nel
suo
Prologus
in
Antiphonarium
espone
il
suo
sistema
di
notazione
pratica
che
risolve
definitivamente
il
problema
della
diastemazia
con
l'adozione
di
un
tetragramma
e
di
chiavi
poste
all'inizio
di
esso,
nel
quale
vengono
disposti
i
neumi
divenuti
ormai
quadrati
(cfr.
il
paragrafo
2.11).
Nel
Micrologus
è
illustrata
invece
una
notazione
alfabetica
(cfr.
il
paragrafo
2.13)
idonea
a
identificare
i
suoni
nella
trattazione
teorica,
e
quindi
adatta
all'insegnamento
della
sola
ars
musica.
Tuttavia
questa
notazione
alfabetica
costituì
anche
un
importante
riferimento
pratico
nella
messa
a
punto,
da
parte
di
Guido,
del
sistema
della
solmisazione
che
verrà
illustrato
di
seguito.
Nella
sistemazione
di
questa
notazione,
Guido,
come
già
esposto
al
paragrafo
2.13,
aveva
ripreso
il
tipo
di
codificazione
proposto
da
Oddone
di
Cluny,
il
quale
aveva
applicato
la
serie
alfabetica
di
lettere
latine
da
A
a
G
al
sistema
perfetto
greco
(formato
da
due
ottave),
per
cui
la
lettera
A
corrispondeva
a
la;
aveva
inoltre
differenziato
graficamente
le
ottave,
usando
le
sette
lettere
maiuscole
(A-‐G)
per
indicare
la
prima
ottava
(dei
suoni
più
gravi)
e
le
stesse
lettere
minuscole
(a-‐g)
per
la
seconda
ottava
(dei
suoni
più
acuti).
(Lo
stesso
Oddone
aveva
anche
aggiunto
al
basso
la
lettera
greca
gamma
maiuscola
per
designare
il
suono
inferiore
al
primo
la,
il
sol
grave:
da
qui
la
denominazione
'gamma'
attribuita
anche
all'intera
successione
di
suoni).
Guido
d'Arezzo
aggiunse
delle
doppie
lettere
minuscole,
aa,
bb,
ecc.,
(oggi
a
volte
sostituite
dalla
singola
lettera
minuscola
provvista
di
un
esponente)
ai
successivi
suoni
acuti
di
questa
scala.
A
questo
proposito
si
può
confrontare
lo
schema
completo
della
notazione
alfabetica
posto
nel
paragrafo
2.13).
Due
capitoli
del
Micrologus
trattano
anche
della
polifonia,
che
viene
denominata
da
Guido
diaphonia
o
organum,
ed
è
questo
uno
dei
più
antichi
riferimenti
a
una
pratica
vocale
che
stava
rinnovando
il
canto
liturgico
e
che
avrebbe
fatto
progredire
di
molto
la
struttura
e
la
scrittura
musicale,
oltre
che
la
prassi
esecutiva.
Nell'Epistola
ad
Michaelem
de
ignoto
cantu
troviamo
invece
una
originale
innovazione
di
Guido
d'Arezzo
legata
alla
sua
attività
di
didatta:
l'elaborazione
di
un
sistema
pratico,
destinato
non
ai
musici,
studiosi
dell'ars
musica,
ma
ai
cantores,
i
musicisti
pratici,
per
facilitare
loro
69
l'intonazione
e
quindi
l'
apprendimento
delle
melodie
da
cantare.
Tale
sistema,
che
per
la
sua
efficacia
rimase
nella
pratica
didattica
fino
al
Rinascimento,
è
denominato
solmisazione.
Esso
si
basa
sulla
memorizzazione,
da
parte
dei
cantori,
di
un
esacordo,
una
scala
di
sei
suoni
formata
al
suo
interno
dai
seguenti
intervalli:
Tono-‐Tono-‐Semitono-‐
Tono-‐Tono;
il
semitono
è
collocato
in
posizione
centrale.
I
suoni
che
compongono
questa
successione
sono
derivati
dalle
note
iniziali,
con
relative
sillabe,
di
ognuno
dei
sei
emistichi
(mezzi
versi)
che
compongono
la
prima
strofa
dell'
inno
a
San
Giovanni,
molto
famoso
all'epoca,
il
cui
testo
è
il
seguente:
Ut
quaeant
laxis
/
Resonare
fibris
Mira
gestorum
/
Famuli
tuorum,
Solve
polluti
/
Labii
reatum,
Sancte
Ioannes.
[Affinché
possano
i
tuoi
devoti
esaltare
con
la
voce
le
meraviglie
delle
tue
opere,
cancella
il
peccato
dall'impuro
labbro,
o
san
Giovanni.]
L'esacordo
guidoniano
è
costituito
dalle
sillabe
e
note
iniziali
di
ogni
versetto
dell'inno:
in
esso,
l'unico
semitono
è
denominato
con
le
sillabe
mi-‐fa:
70
ut
re
mi
fa
sol
la
=
esacordo
naturale
T
T
ST
T
T
La
nomenclatura
odierna
delle
note
è
rimasta
quella
delle
sillabe
iniziali
dei
sei
emistichi
che
compongono
questo
inno,
con
la
differenza
che
l'ut
iniziale
fu
sostituito
dalla
sillaba
Do
(pare
ad
opera
di
Giovanni
Battista
Doni,
che,
nella
prima
metà
del
XVII
secolo
la
trasse
dalle
prime
due
lettere
del
suo
cognome),
e
che
venne
aggiunto
il
si
(formato
dalle
iniziali
dell'invocazione
Sancte
Johannes)
nel
1482,
dal
teorico
Ramis
(Ramos)
de
Pareja.
Questo
esacordo
si
chiamò
'naturale'
perché
era
incentrato
sul
semitono
naturale,
formato
da
due
suoni
non
alterati.
La
memorizzazione
di
questo
schema
melodico
imprimeva
nella
mente
dei
discepoli
cantori
la
successione
intervallare
'naturale'
dei
toni
e
semitono,
e
rendeva
automatica
l'intonazione
di
quest'ultimo,
l'intervallo
più
difficile
da
intonare.
Ma
i
semitoni
previsti
nell'ambito
dei
modi
diatonici
gregoriani
erano
tre:
oltre
al
mi-‐fa,
c'erano
il
si
bequadro
(o
naturale)-‐
do,
e
il
la-‐si
bemolle;
dunque
era
possibile
ricavare
altri
due
tipi
di
esacordi
incentrati
su
questi
due
semitoni,
esacordi
in
cui
rispettivamente
il
si-‐do
e
il
la-‐si
bemolle
fossero
preceduti
e
seguiti
da
due
toni
interi.
Partendo
dalla
nota
sol,
invece
che
dalla
nota
ut,
si
aveva
l'esacordo
duro
(perché
il
semitono
coinvolge
il
si
bequadro);
partendo
invece
dal
fa
si
aveva
l'esacordo
molle
(perché
il
semitono
coinvolge
il
si
bemolle).
In
questo
modo
Guido
aveva
creato
un
modello
stabile,
adatto
a
qualsiasi
contesto
modale:
sol
la
si
ut
re
mi
=
esacordo
duro
(con
il
si
bequadro);
T
T
ST
T
T
fa
sol
la
sib
ut
re
=
esacordo
molle
(con
il
si
bemolle).
T
T
ST
T
T
Il
cantore,
memorizzando
l'esacordo
naturale
e
le
relazioni
intervallari
in
esso
contenute,
assimilava
un
modello
intonativo
applicabile
ai
diversi
contesti
modali.
L'importante,
nell'intonazione,
era
di
denominare
sempre,
in
tutti
e
tre
i
casi,
l'intervallo
di
semitono
con
le
sillabe
mi-‐fa,
(e,
di
conseguenza,
i
toni
precedenti
Do-‐Re
e
Re-‐Mi,
e
quelli
successivi
Fa-‐Sol
e
Sol-‐La),
anche
in
presenza
dei
semitoni
si-‐do
e
la-‐si
bemolle.
Così
le
sillabe
usate
designano
un
rapporto
intervallare
e
non
l'altezza
assoluta
dei
suoni
71
intonati.
Prima
di
intonare
le
note
di
una
melodia,
si
doveva
quindi
avere
consapevolezza
del
suo
ambito
melodico
e
dunque
individuare
il
semitono,
per
poi,
intonandolo,
chiamarlo
comunque
mi-‐fa.
Mutazione
era
il
termine
che
designava
il
passaggio
da
un
esacordo
all'altro.
La
denominazione
di
solmisazione
riferito
a
questo
sistema
deriva
dal
fatto
che
nella
mutazione,
quindi
nel
passaggio
dall'esacordo
naturale
a
quello
molle,
si
passa
dal
sol
al
mi
(solmisazione-‐solmifazione).
Questo
meccanismo
mnemonico
aiutava
i
cantori
ad
avere
una
sicura
intonazione
nella
lettuta
dei
canti,
e
forniva
loro
maggiore
consapevolezza
musicale.
Applicato
alla
scala-‐tipo,
cioé
all'estensione
dello
spazio
musicale
in
cui
i
compositori
medievali
operavano,
(che
lo
stesso
Guido
d'Arezzo
aveva
contribuito
a
sistemare
nella
sua
nomenclatura,
dal
sol
grave
identificato
con
la
lettera
greca
Gamma
maiuscola,
fino
al
mi'),
ogni
nota
veniva
denominata,
oltre
che
dalla
sua
lettera,
anche
dalle
sillabe
relative
alla
posizione
occupata
all'interno
dell'esacordo
o
degli
esacordi
di
cui
faceva
parte
per
sovrapposizione.
Il
seguente
schema
riporta,
in
fase
definitiva,
il
sistema
degli
esacordi
sovrapposti
applicati
alla
scala-‐tipo
(la
cosiddetta
gamma
dei
suoni):
72
Proprio
a
causa
della
parziale
sovrapposizione
di
questi
esacordi,
uno
stesso
suono,
per
esempio
a
(=
la),
poteva
essere,
in
diversi
esacordi,
rispettivamente
la
(nell'esacordo
naturale),
mi
(nell'esacordo
molle)
e
re
(nell'esacordo
duro).
Così,
il
nome
completo
di
un
suono
nella
intera
successione
della
scala-‐
tipo,
si
ottiene
partendo
dalla
seconda
linea
da
sinistra
dello
schema
dell'ES.
13,
che
riporta
le
lettere
della
notazione
alfabetica,
e,
proseguendo
verso
destra,
enunciando
progressivamente
le
differenti
denominazioni
che
lo
stesso
suono
assume
all'interno
dei
diversi
esacordi.
Nell'esempio
appena
citato,
il
nome
completo
del
suono
espresso
dalla
lettera
a
è:
a
la
mi
re.
Un
ulteriore
sussidio
didattico
alla
solmisazione,
era
la
famosa
cosiddetta
'mano
guidoniana',
erroneamente
attribuita
a
Guido
d'Arezzo,
che
ritroviamo
presente
in
quasi
tutti
i
trattati
musicali
del
Medioevo
e
del
Rinascimento.
Ogni
falange
della
mano
sinistra
aperta
indicava
uno
dei
venti
gradi
che
formavano
la
scala-‐tipo
suesposta.
Le
altre
note
come
il
fa
diesis
o
il
mi
bemolle
ne
erano
escluse.
Purtroppo
i
particolari
riguardanti
la
sua
applicazione
alla
pratica
musicale
non
sono
stati
tramandati
dalle
73
fonti
in
maniera
uniforme.
Allo
scopo
di
chiarire
ulteriormente
il
meccanismo
della
solmisazione
si
riporta
qui
di
seguito
la
spiegazione
dello
stesso
Guido
contenuta
nella
sua
Epistola
ad
Micaelem
de
ignoto
cantu:
Al
beatissimo
e
amatissimo
fratello
Michele,
Guido
abbattuto
e
pur
irrobustito
tra
molte
vicissitudini.
O
i
tempi
sono
difficili
o
sono
oscure
le
disposizioni
del
divino
volere,
poiché
la
veracità
è
calpestata
dalla
falsità
e
la
carità
dall'invidia,
che
raramente
abbandona
il
nostro
Ordine.
Con
tali
mezzi
la
malvagità
degli
Israeliti
è
punita
dalla
congiura
dei
Filistei,
perché
l'anima
che
confida
in
se
stessa
non
perisca
qualora
vediamo
verificarsi
tutto
ciò
che
vogliamo.
Infatti
le
nostre
azioni
sono
veramente
buone
quando
attribuiamo
al
Creatore
tutto
ciò
che
siamo
capaci
di
realizzare.
[…]
Io
pertanto,
guidato
dalla
carità
ispiratami
da
Dio,
con
la
massimo
premura
e
sollecitudine,
non
solo
a
te
ma
anche
a
quanti
altri
mi
fu
possibile,
ho
messo
a
disposizione
il
dono
datomi
da
Dio
pur
essendone
del
tutto
indegno;
così
che
i
posteri,
imparando
con
grande
facilità
i
canti
ecclesiastici
che
io
e
tutti
i
miei
predecessori
imparammo
con
enorme
fatica,
implorino
l'eterna
salvezza
per
me,
per
te
e
per
gli
altri
miei
aiutanti,
ci
sia
concessa
per
misericordia
di
Dio
la
remissione
dei
peccati,
o
almeno
offrano
per
noi
una
breve
preghiera
in
cambio
di
così
grande
beneficio.
Infatti,
se
intercedono
devotamente
presso
Dio
a
favore
dei
loro
maestri
coloro
che
fino
ad
oggi
poterono
a
stento
in
un
decennio
acquisire
una
imperfetta
conoscenza
del
canto,
che
cosa
pensi
che
sarà
fatto
per
i
nostri
aiutanti
e
per
noi
che
riusciamo
a
fare
un
perfetto
cantore
nello
spazio
d'un
anno
o
al
massimo
di
due?
E
qualora
l'abituale
miseria
degli
uomini
si
mostri
ingrata
a
coaì
grandi
benefici,
forse
che
il
giusto
Dio
non
ci
darà
la
ricompensa
per
la
nostra
fatica?
O
forse,
poiché
Dio
fa
tutto
e
noi
senza
di
lui
non
possiamo
nulla,
non
avremo
alcun
premio?
Non
può
essere.
Anche
l'Apostolo
infatti,
pur
essendo
per
grazia
di
Dio
quello
che
è,
scrive:
«Ho
combattuto
la
buona
battaglia,
ho
portato
a
compimento
la
corsa,
ho
serbato
la
fede:
ora
mi
aspetta
il
premio
della
vittoria»
[2
Tim.
4,7].
Perciò
con
sicura
speranza
nella
ricompensa,
dedichiamoci
a
completare
un'opera
di
così
grande
utilità;
e
poiché
dopo
molte
tempeste
è
tornato
il
sereno,
riprendiamo
felicemente
il
cammino.
Tuttavia,
poiché
nella
tua
condizione
di
prigioniero
diffidi
della
tua
libertà,
ti
esporrò
l'ordine
dei
fatti.
Il
papa
Giovanni
[XIX],
che
ora
governa
la
chiesa
di
Roma,
udendo
la
fama
della
nostra
scuola
e
meravigliandosi
che
74
con
i
nostri
Antifonari
i
ragazzi
riescono
a
cantare
delle
melodie
mai
prima
ascoltate,
con
tre
ambascerie
mi
invitò
presso
di
sé.
Mi
recai
dunque
a
Roma
con
il
reverendo
abate
dom
Grunwald
e
con
dom
Pietro
preposito
dei
canonici
della
chiesa
di
Arezzo,
uomo
coltissimo
per
i
tempi
nostri.
Il
Pontefice
si
rallegrò
assai
del
mio
arrivo,
mi
parlò
a
lungo
e
mi
pose
vari
quesiti;
e
sfogliando
ripetutamente
il
nostro
Antifonario
come
se
fosse
un
miracolo
e
riflettendo
sulle
regole
scritte
all'inizio,
non
cambiò
argomento
o
non
si
mosse
dal
luogo
ove
sedeva
finché
non
realizzò
il
suo
desiderio
imparando
a
cantare
un
versetto
che
non
aveva
mai
udito,
così
da
riconoscere
rapidamente
vero
per
sé
stesso
ciò
che
a
mala
pena
credeva
negli
altri.
Che
debbo
dirti
di
più?
Per
poca
salute
non
potevo
fermarmi
a
Roma
neppure
un
poco,
dato
che
il
caldo
estivo
mi
minacciava
fino
a
morire
in
quei
luoghi
prossimi
al
mare
e
paludosi.
Infine
ci
accordammo
che
io
vi
sarei
ritornato
nel
successivo
inverno
per
esporre
la
nostra
opera
al
Pontefice
che
ne
aveva
avuto
un
saggio
e
al
suo
clero.
Dopo
pochi
giorni,
mosso
dal
desiderio,
feci
visita
a
dom
Guido
abate
di
Pomposa
padre
vostro
e
mio,
uomo
per
virtù
e
saggezza
carissimo
a
Dio
e
agli
uomini
e
parte
dell'anima
mia.
Egli,
uomo
com'è
di
acuto
ingegno,
appena
vide
il
nostro
Antifonario
lo
approvò
immediatamente
e
ci
credette
e
si
pentì
di
aver
prestato
fede
un
tempo
ai
nostri
rivali
e
mi
supplicò
di
andare
a
Pomposa,
sostenendo
che
io
come
monaco
dovevo
preferire
i
monasteri
ai
vescovadi,
Pomposa
prima
d'ogni
altro,
che
per
grazia
di
Dio
e
per
l'attività
del
reverendo
Guido
è
primo
ora
in
Italia
quanto
allo
studio.
Piegato
dunque
dalle
preghiere
di
tanto
padre
e
accogliendo
le
sue
indicazioni,
desidero
innanzi
tutto
dare
splendore
con
quest'opera
a
un
così
famoso
monastero
e
farmi
conoscere
dai
monaci
come
monaco,
tanto
più
che,
essendo
quasi
tutti
i
vescovi
condannati
per
simonia,
non
vorrei
avere
a
che
fare
con
loro.
Poiché
tuttavia
ora
non
posso
venire,
ti
mando
intanto
un'ottima
sintesi
del
metodo
che
conduce
alla
scoperta
di
un
canto
sconosciuto:
un
dono
da
poco
elargitoci
da
Dio
e
rivelatosi
utilissimo
alla
pratica.
[…].
Per
imparare
un
canto
sconosciuto,
o
beatissimo
fratello,
la
regola
prima
e
la
più
comune
è
di
suonare
sul
monocordo
le
lettere
(note)
appartenenti
a
ciascun
neuma:
ascoltandole
dallo
strumento
le
potrai
imparare
come
da
un
maestro.
Ma
questa
regola
è
buona
per
i
fanciulli
e,
se
è
valida
anche
per
chi
comincia,
è
pessima
per
coloro
che
hanno
fatto
qualche
progresso.
Ho
visto
acutissimi
filosofi
che
per
lo
studio
di
quest'arte
cercarono
maestri
non
solo
Italici,
ma
anche
Galli
e
Germani
e
perfino
Greci,
ma
poiché
si
affidarono
solo
a
questo
metodo,
non
riuscirono
mai
a
diventare
non
dico
musici,
ma
nemmeno
cantori,
né
sarebbero
capaci
di
imitare
i
75
nostri
fanciulli
salmisti.
Per
imparare
una
melodia
sconosciuta
non
dobbiamo
quindi
ricorrere
sempre
alla
voce
d'un
uomo
o
al
suono
d'uno
strumento,
così
da
sembrare
incapaci
di
avanzare
senza
una
guida
come
i
ciechi.
Dobbiamo
invece
fissare
nel
profondo
della
memoria
le
differenze
e
le
proprietà
distintive
di
ciascun
suono
e
di
ogni
discesa
ed
elevazione
della
voce.
Avrai
a
disposizione
un
facilissimo
e
sperimentato
metodo
per
imparare
una
melodia
nuova
se
c'è
qualcuno
che
sappia
insegnare
non
solo
con
lo
scritto,
ma
meglio
a
voce,
con
una
conversazione
familiare,
secondo
la
nostra
abitudine.
Infatti,
quando
cominciai
a
insegnare
questo
metodo
ai
ragazzi,
prima
di
tre
giorni
alcuni
di
essi
riuscirono
a
cantare
facilmente
melodie
sconosciute,
cosa
che
con
altri
sistemi
non
poteva
verificarsi
neppure
in
molte
settimane.
Se
vuoi
dunque
fissare
nella
memoria
un
suono
o
un
neuma
in
modo
che
quando
tu
vuoi,
in
qualunque
canto
noto
o
sconosciuto,
esso
ti
possa
immediatamente
venire
in
mente
(nel
senso
che
riesci
a
cantarlo
subito
senza
incertezze),
devi
individuare
proprio
quel
suono
o
quel
neuma
all'inizio
d'una
melodia
che
ti
sia
notissima;
inoltre
per
ritenere
nella
mente
ogni
suono,
devi
tenere
pronta
la
frase
melodica
che
comincia
con
la
medesima
nota.
Un
esempio
è
dato
dalla
melodia
seguente,
di
cui
mi
servo
da
principio
alla
fine
per
l'insegnamento
ai
ragazzi:
C
D
F
DE
D
D
D
C
D
E
E
Ut
que-‐
ant
la-‐
xis
re-‐
so-‐
na-‐
re
fi-‐
bris
EFG
E
D
EC
D
F
G
a
G
FED
D
Mi-‐
ra
ge-‐
sto-‐
rum
fa-‐
mu-‐
li
tu-‐
o-‐
rum,
GaG
FE
F
G
D
a
G
a
F
Ga
a
Sol-‐
ve
pol-‐
lu-‐
ti
la-‐
bi-‐
i
re-‐
a-‐
tum,
GF
ED
C
E
D
San-‐
cte
Jo-‐
an-‐
nes.
Vedi
come
questa
melodia
comincia
nelle
sue
sei
frasi
con
suoni
diversi?
Pertanto,
se
con
l'esercizio
riuscirai
a
riconoscere
l'inizio
di
ciascuna
frase
in
modo
da
cantare
subito
senza
esitazioni
una
qualunque
di
esse,
potrai
facilmente
intonare
secondo
le
loro
proprietà
quei
sei
suoni
dovunque
li
incontrerai.
Anche
quando
ascolti
un
neuma
senza
vederlo
scritto,
osserva
quale
di
queste
frasi
si
adatti
meglio
alla
nota
finale
del
neuma,
così
che
la
76
nota
finale
del
neuma
e
quella
iniziale
della
frase
siano
all'unisono.
Sta
sicuro
che
il
neuma
termina
con
quella
nota
con
cui
comincia
la
frase
ad
esso
corrispondente.
Se
invece
cominci
a
cantare
una
melodia
sconosciuta
posta
per
iscritto,
bisogna
che
tu
faccia
molta
attenzione
a
terminare
correttamente
ogni
neuma,
così
che
la
sua
nota
finale
si
colleghi
bene
con
la
nota
iniziale
di
quella
frase
che
comincia
con
la
stessa
nota
con
cui
il
neuma
finisce.
Questa
regola
ti
sarà
di
grandissimo
aiuto
per
cantare
con
esattezza
melodie
mai
udite
appena
tu
le
vedi
scritte
e
per
distinguere
bene
quelle
che
ascolti
senza
vederle
scritte,
allo
scopo
dio
scriverle
speditamente.
In
seguito
applicai
delle
brevissime
melodie
alle
singole
note:
se
tu
ne
guardi
attentamente
le
frasi,
ti
sarà
gradito
scoprire
all'inizio
delle
stesse
frasi
in
successione
ordinata
tutti
i
movimenti
di
discesa
e
di
ascesa
propri
di
ciascuna
nota.
Se
poi
riuscirai
ad
affrontare
l'intonazione,
a
tua
scelta,
di
ogni
frase
dell'una
o
dell'altra
melodia,
ciò
significa
che
con
una
brevissima
e
facile
regola
hai
appreso
le
varietà
molteplici
e
assai
difficili
di
tutti
i
neumi.
Tutti
ciò
può
essere
meglio
insegnato
con
un
semplice
colloquio,
mentre
a
fatica
riusciamo
in
qualche
modo
a
spiegarlo
per
lettera.
Come
per
ogni
scrittura
si
hanno
24
lettere,
così
per
ogni
canto
abbiamo
solo
sette
note.
Infatti,
come
vi
sono
sette
giorni
nella
settimana,
così
vi
sono
sette
suoni
nella
musica.
Le
altre
note
che
si
aggiungono
alle
sette,
sono
le
medesime
e
suonano
nello
stesso
modo,
tranne
che
doppiano
il
suono
più
in
alto.
Perciò
sette
le
chiamiamo
gravi
e
sette
acute.
Le
sette
lettere
non
si
scrivono
due
volte
uguali,
ma
si
distinguono
così:
Chi
poi
desidera
farsi
un
monocordo
con
il
quale
discernere
la
qualità,
la
quantità,
le
somiglianze
e
le
differenze
dei
suoni
o
dei
toni,
si
sforzi
di
capire
le
pochissime
regole
che
qui
indichiamo
[…]
Queste
poche
nozioni
scritte
in
versi
e
in
prosa
come
prologo
all'Antifonario,
riguardanti
la
forma
dei
modi
e
i
neumi,
ti
apriranno
in
breve
e
forse
in
misura
sufficiente
la
parte
dell'Ars
Musica.
Chi
invece
vuol
saperne
di
più,
cerchi
il
nostro
libretto
intitolato
Micrologus
e
legga
con
attenzione
anche
l'Enchiridion
composto
in
modo
eccellente
dal
reverendo
abate
Odone
[di
Cluny].
Dal
suo
esempio
mi
sono
77
allontanato
soltanto
nella
forma
delle
note,
perché
ho
voluto
adeguarmi
al
livello
dei
ragazzi,
non
seguendo
in
questo
Boezio,
il
cui
trattato
non
è
utile
ai
cantori,
ma
solo
ai
filosofi.
Tratto
da
G.
CATTIN,
La
monodia
nel
Medioevo,
Torino,
EdT,
1991,
pp.
227-‐
231.