SAGGISTICA
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Romano Amerio
Iota unum
Fede & Cultura
ISBN: 978-88-6409-173-0
Quello che voi fate è un fatto epocale, perché Romano Amerio ha cominciato
nei primissimi anni del post-concilio (ma il materiale era stato raccolto a partire
dagli anni ’30 con un rigore e con una precisione filologica straordinaria), a
vivere e a maturare quella che Benedetto XVI, nel 20051, ha definito come
l’ermeneutica della continuità (contro l’ermeneutica della rottura). Romano
Amerio ha posto delle questioni a partire dall’impianto della tradizione culturale
e teologica e filosofica; ha posto domande ai testi del Concilio, ma soprattutto ad
alcuni testi non dotati dell’autorevolezza magisteriale del Concilio, che
andavano pullulando, sia nella fase dell’inizio della sua interpretazione che nella
fase dell’attuazione. Ha posto legittime domande, anche se probabilmente
nell’impeto della polemica ha usato espressioni non tutte felicissime (ma non
sono più di due o tre nell’ambito di Iota Unum).
Questo testo è uno strumento prezioso per chi vuole attuare il progetto del
Papa di leggere una continuità sostanziale tra il magistero e la teologia prima del
concilio, il concilio e il post-concilio. Iota Unum è l’espressione di un realismo
del pensare cristiano e di un’assenza di pregiudizi nel tentativo di interpretare le
vicende e le dottrine e di confrontarsi su questo. L’incredibile – cui purtroppo
abbiamo assistito sgomenti − è che su questo autore e su questo libro è calato un
silenzio rigoroso e assoluto, una damnatio memoriae che ha agito come se
Romano Amerio non fosse mai esistito o come se, essendo esistito, fosse morto
nel silenzio e nel misconoscimento di tutti. Questa è una lezione sostanziale per
chi vuol capire gli avvenimenti, non soltanto ecclesiali ed ecclesiastici del XX
secolo, ma anche le grandi questioni antropologiche e culturali dell’oggi. Si può
dire di questo libro, come di pochissimi altri, che è un libro necessario, la cui
lettura è necessaria per la comprensione del tempo in cui viviamo, ma soprattutto
per la responsabilità che abbiamo nei confronti del futuro. La mia è quindi una
grande gratitudine che si fa incoraggiamento e benedizione perché questo testo
abbia finalmente, a distanza di decenni, quell’accoglimento che sarebbe stato
giusto gli fosse riservato quando è uscito e che la nequizia dei tempi e la
meschinità intellettuale di molti ha impedito.
† Luigi Negri,
INTRODUZIONE
Alla mia venerabile età, forse non prenderò più in mano la penna, o forse la
prenderò, non so. Però, anche se con grande fatica ormai, io vorrei approfittare
della bella occasione che mi si offre, e far conoscere in qualche tratto minimo il
mio pensiero su un cattolico vero a me caro come fu Romano Amerio […] che,
specialmente con il suo famoso Iota unum, tanto turbò le coscienze cattoliche.
[…] Parlare di Romano Amerio […] è parlare di un ordine della verità e della
carità, dove la prima è congiunta alla seconda, ma la precede.
Amerio dice in sostanza che i più gravi mali presenti oggi nel pensiero
occidentale, ivi compreso quello cattolico, sono dovuti principalmente ad un
generale disordine mentale per cui viene messa la caritas avanti alla veritas,
senza pensare che questo disordine mette sotto sopra anche la giusta concezione
che noi dovremmo avere della Santissima Trinità. La cristianità, prima che nel
suo seno si affermasse il pensiero di Cartesio, aveva sempre proceduto
santamente facendo precedere la veritas alla caritas, così come sappiamo che
dalla bocca divina del Cristo spira il soffio dello Spirito Santo, e non viceversa.
Nella lettera con cui Amerio presenta a Del Noce quello che sarà poi il
celebre Iota unum, egli spiega chiaramente il fine per cui lo ha scritto, che è «di
difendere le essenze contro il mobilismo e il sincretismo propri dello spirito del
secolo». Le «essenze», cioè le tre Persone della Santissima Trinità e le loro
processioni, che la teologia insegna avere un ordine inalterabile: “In principio
era il Verbo”, e poi, riguardo all’Amore, “Filioque procedit”: l’Amore procede
dal Verbo, e mai il contrario.
Dunque, come dice Amerio, partire da Cristo, dalla sovrannaturale verità che
Lui solo insegna, per avere da Lui il dono dello Spirito Santo con cui sempre
Lui, il Signore, ci dà vita e forza, e salire a porre infine l’architrave della caritas.
Fondatore
NOTA ORIENTATIVA
Insieme con le meritate lodi, sembra bene però necessario notare che
l’Autore:
P. Giovanni Cavalcoli O.P.
CAPITOLO I LA CRISI
Per sfuggire all’accusa che ci si potrebbe muovere di avere in tanta mole di prove
e di documentazioni operato una selezione, abbiamo fissato questo criterio. Dovendo
provare le variazioni della Chiesa, abbiamo fondato il nostro discorso non su una
qualunque parte della quasi infinita pubblicistica ad esse attinente, bensì soltanto su
documenti che più certamente annunciano la mente della Chiesa. Le nostre
allegazioni sono di testi conciliari, di atti della Santa Sede, di allocuzioni papali, di
dichiarazioni di cardinali e vescovi, di pronunciati di Conferenze episcopali, di
articoli dell’«Osservatore Romano». Ci sono nel nostro libro le manifestazioni
ufficiali o ufficiose del pensiero della Chiesa gerarchica. Certo abbiamo anche
citato, ma sempre in linea secondaria, libri e discorsi e atti fuori di questa cerchia,
ma solo come prova del prolungarsi ed espandersi di posizioni già espresse o
virtualmente, ma necessariamente, contenute nella prima categoria di allegazioni.
Il soggetto della nostra ricerca è parziale (quale non lo è?), ma la nostra veduta no.
5. Accomodazione della contrarietà della Chiesa al mondo. – Similmente di
fronte ai barbari la Chiesa non assunse la barbarie, ma si rivestì di civiltà; e nel
secolo XIII di fronte allo spirito di violenza e di cupidigia assunse lo spirito di
mansuetudine e di povertà col gran movimento francescano; e non assunse
l’aristotelismo rinascente, ma rigettò con forza la mortalità dell’anima, l’eternità
del mondo, la creatività della creatura, la negazione della provvidenza,
contrapponendosi così a tutto quel che era essenziale all’errore dei Gentili. E
poiché quelli sono gli articoli principali di Aristotele, si può chiamare la Scolastica
un aristotelismo disaristotelizzante. E questa operazione il Campanella vuole
adombrata allegoricamente nel mozzar chioma e unghie alla bella donna fatta
prigioniera (Deut., 21, 12). E più tardi al soggettivismo luterano non si accomodò
soggettivando Scrittura e religione, ma riformando, cioè formando di nuovo, il suo
principio di autorità. Infine alla temperie razionalistica e scientistica dell’Ottocento
non si attemperò risolvendo o circoncidendo il dato di fede, ma al contrario
condannando il principio dell’indipendenza della ragione. Anche l’impulso
soggettivale rinascente nel modernismo non lo accolse, ma lo contenne e lo
castigò.
6. Ancora la negazione della crisi. – Non mancano, in verità sono rari, coloro
i quali negano l’attuale smarrimento della Chiesa e quelli che addirittura
riguardano questo articulus temporum come rinnovamento e fioritura. La
negazione della crisi potrebbe appoggiarsi su alcune allocuzioni di Paolo VI, ma
queste sono bilanciate e sovrabbondantemente superate da altrettante e più
parole che suonano in contrario. Singolare documento del pensiero papale è il
discorso 22 febbraio 19704. Dopo avere ammesso che la religione regredisce, il
Papa sostiene essere però «errore fermarsi all’aspetto umano e sociologico,
perché l’incontro con Dio può nascere da processi che esulano dai calcoli
puramente scientifici: l’avvenire sta al di fuori di ogni nostro preventivo». Qui
sembra che si confonda quello che Dio può, come dicono i teologi, di potenza
assoluta con quello che può di potenza ordinata, dentro l’ordine cioè di natura e
di salvezza da lui istituito con libero decreto e realmente esistente5. Per tale
confusione il problema della crisi viene eluso. Introducendo infatti il concetto di
un’azione che Dio farebbe fuori dell’ordine da lui di fatto voluto, quel che si
deplora nella religione storicamente considerata, la crisi appunto, diventa
impossibile deplorare. Che «l’incontro con Dio possa prodursi a dispetto
dell’attitudine refrattaria alla religione», questo è verissimo, ma nihil ad rem. Se
si riguarda quel che Dio può fare di potenza assoluta si trasgredisce alla
taumatologia. Allora si può avanzarsi sino a negligere la contraddizione e
sostenere, come fa il Papa in un’altra allocuzione, che «quanto più l’uomo
moderno è indisposto verso il soprannaturale, tanto più è disposto». Perché
infatti, considerando la potenza assoluta di Dio, non lo sarebbe?
Quanto poi al dire che è una crisi di crescenza, si dimentica che anche le
febbri di crescenza sono un fatto patologico che si combatte, giacché il naturale
aumento di un organismo non conosce tali crisi né nel regno animale né nel
regno vegetale. Inoltre chi abusa di quelle analogie biologiche gira in un circolo
vizioso giacché non è in grado di provare che alla crisi conseguiti la crescita
(questa se mai si rivelerà in futuro) e non la corruzione.
9. Nuove confessioni della crisi. – L’entità di ciascun ente coincide con la sua
interna unità, sia esso un individuo fisico, sia esso un individuo sociale e morale.
Se si smembra e scinde l’organismo, l’individuo perisce e si tramuta in altro. Se
divergono e si dividono le persuasioni e le volontà delle menti associate, cessa
allora la cospirazione in unum delle parti e la comunità perisce. Dunque anche
nella Chiesa, che è indubbiamente società, l’interna dissoluzione produce intacco
dell’unità e conseguentemente dell’essere suo. Ora l’intacco all’unità viene
ampiamente riconosciuto nel discorso paolino del 30 agosto 1973 che piange «la
divisione, la disgregazione che purtroppo è entrata ora in non pochi ceti della
Chiesa», e addirittura proclama che «la ricomposizione dell’unità spirituale e
reale all’interno della Chiesa è oggi uno dei più gravi e urgenti problemi della
Chiesa». E nel discorso del 23 novembre 1973 il Papa tocca anche l’etiologia
dello smarrimento enorme e confessa l’errore proprio ammettendo che
«l’apertura al mondo fu una vera invasione del pensiero mondano nella Chiesa».
Questa invasione toglie alla Chiesa la forza opponente e le leva ogni specificità.
Ed è drammatico in questo discorso l’uso equivoco del pronome di prima
persona plurale. «Noi» dice «siamo forse stati troppo deboli e imprudenti» ecc. È
noi o Noi?
Qui è ovviamente implicata tutta la metafisica del male nella quale non ci
appartiene di internarci, ma è importante ribattere, contro l’ottimismo spurio, che
se alla crisi si legano eventi felici, come alla persecuzione il martirio, al
patimento l’ammaestramento (Eschilo), alla prova l’aumento del merito,
all’eresia la chiarificazione della verità, l’evento non è un effetto, ma un plus di
bene di cui il male è per sé incapace12. Attribuire alla crisi il bene, che è
estrinseco alla crisi e proviene da altro che dalla crisi, suppone un concetto
manchevole dell’ordine provvidenziale. In questo infatti bene e male restano
ciascuno con la sua intrinseca essenza (essere e nonessere, efficienza e
deficienza) ma rientrano in un sistema buono. Buono è il sistema, non i mali
entranti nel sistema, sebbene si possa allora per catacresi chiamarli mali buoni,
come fa il Tommaseo. Questa veduta dell’ordine provvidenziale fa vedere come
«al mondo di su quel di giù torni» (Par., IX, 108), cioè come anche lo sviarsi
della creatura dall’ordine (e persino la dannazione) la Provvidenza lo faccia
tornare nell’ordine finale, quello che costituisce il fine ultimo dell’universo, la
gloria di Dio e degli eletti.
11. Ancora della falsa teodicea. – L’evento buono che sia per seguire alla
crisi della Chiesa è dunque a posteriori e non muta la negatività di essa, né tanto
meno rende la crisi desiderabile, come alcuni si avanzano ad affermare.
L’ottimismo spurio pecca, perché assegna al male una fecondità che è invece
propria soltanto del bene. Sant’Agostino ha dato una formula felicissima della
dottrina in De continentia, 15 (P.L., 40, 358): «Tanta quippe est omnipotentia
eius ut etiam de malis possit facere bona, sive parcendo, sive sanando, sive ad
utilitatem coaptando atque vertendo, sive etiam vindicando: omnia namque ista
bona sunt»13. Non è il male che in un momento ulteriore generi da sé stesso il
bene, ma è solo una diversa e positiva entità (ultimamente Dio) che ha questa
potenza. Che poi, sebben ordinati dalla Provvidenza, i mali non possano mutarsi
in bene, appare segnatamente nell’ultimo dei casi menzionati da sant’Agostino:
la giustizia vendicativa. È un bene che i peccati siano puniti colla dannazione,
ma non per questo sono buoni i peccati puniti colla dannazione. Perciò, secondo
la teologia cattolica, i beati godono dell’ordine di giustizia in cui la Provvidenza
ha collocato i peccatori, non però dei loro peccati medesimi, che rimangono dei
mali. La dipendenza di certi beni da certi mali è una concatenazione su cui si
fondano alcune virtù che sono appunto condizionate da difetti. Così la penitenza
è condizionata dal peccato, la misericordia dalla miseria, il perdono dalla colpa.
Questo tuttavia non fa che peccato, miseria e colpa siano buoni come buona è la
virtù che essi condizionano.
CAPITOLO II SCHIZZO STORICO. LE CRISI DELLA CHIESA
Che poi il mistero non contraddica alla ragione appare dal concetto
medesimo, che la nuova religione ha inaugurato, dell’essere divino come
Monotriade nel cui seno l’infinito pensa e ama sé stesso come infinito, e dunque
campeggia al di là dei limiti in cui opera l’intelletto creato. Si viola dunque il
diritto della ragione al soprannaturale, se si nega alla ragione di sottomettersi alla
Ragione. Anzi, negando una tale sottomissione, si nega propriamente alla
ragione di conoscere sé stessa, perché le si negherebbe di conoscersi come
limitata e di riconoscere quindi qualche cosa oltre il proprio limite.
14. Gli smarrimenti dell’età di mezzo. – Non furono vere crisi le molte e
gravi perturbazioni che la Chiesa patì nei secoli di mezzo, perché lì la Chiesa
non pericolò di mutare l’essenza sua e di sciogliersi in altro. La corruzione del
costume clericale, la cupidigia di ricchezza e di potenza sfigurano il volto della
Chiesa, ma non ne intaccano l’essenza dislocandola dalla sua base. E qui
conviene formulare la legge stessa della conservazione storica della Chiesa,
legge che è insieme il criterio supremo della sua apologetica. La Chiesa è
fondata sul Verbo incarnato, cioè su una verità divina rivelata. Certo le sono date
anche le energie sufficienti a pareggiare la propria vita a quella verità: che la
virtù sia possibile in ogni momento è un dogma di fede. La Chiesa però non va
perduta nel caso che non pareggiasse la verità, ma nel caso che perdesse la
verità. La Chiesa peregrinante è da sé stessa, per così dire, condannata alla
defezione pratica e alla penitenza: oggi la si dice in atto di continua conversione.
Ma essa si perde non quando le umane infermità la mettono in
contraddizione (questa contraddizione è inerente allo stato peregrinale), ma solo
quando la corruzione pratica si alza tanto da intaccare il dogma e da formulare in
proposizioni teoretiche le depravazioni che si trovano nella vita.
Perciò i moti che turbarono la Chiesa nei secoli di mezzo furono combattuti
dalla Chiesa, ma condannati soltanto quando, per esempio, il pauperismo
trapassò in teologia della povertà con squalificazione totale dei beni terreni. Non
fu perciò vera crisi lo scadimento del costume ecclesiastico contro il quale si
dispiegò gagliardamente il moto riformatorio del secolo undecimo. Né lo fu il
conflitto con l’Impero, sebbene la Chiesa mirasse ad affrancarsi dalla servitù
feudale cui restava legata la dominazione politica dei vescovi, e dalla servitù
implicita nel matrimonio dei preti. Né vera crisi fu quella dei moti dei Catari e
degli Albigesi, nel secolo XIII, e delle loro propaggini dei Fraticelli. Infatti
questi moti, provocati da vasti sobbollimenti sentimentali e commisti con
impulsi economici e politici, non si traducevano che raramente in formule
speculative. E quando pure si traducevano, come per esempio nella dottrina
regressiva preconizzante il ritorno alla semplicità apostolica, o nel mito
dell’uguaglianza dei fedeli ragguagliati tutti al sacerdozio, o nella teologia della
Terza Età dello Spirito Santo, subentrante a quella del Verbo, subentrata a sua
volta a quella del Padre, tutte queste deviazioni dogmatiche trovavano la Chiesa
gerarchica pronta e ferma nell’esercizio del suo officio didattico e correttivo,
sostenuta spesso in questo, secondo le strutture sociali di solidarietà, dalla
potenza temporale. Vi fu attacco ma non intacco delle verità di fede, e la
funzione magisteriale non mancò.
Molto più ampia infatti è la potenziale virtù della religione che non appaia
nelle singole storiche attuazioni sue: essa vien fuori successivamente con un
divenire che non si erge sempre per diritto, ma che, nel suo insieme, ha un
carattere proficiente e perfettivo. Questo d’altronde insinuano le formule
evangeliche del seme e quella paolina dell’organismo crescente sino alla misura
della perfezione.
16. Ancora della ampiezza ideale del Cristianesimo. Suoi limiti. – Questa
ampiezza ideale del Cristianesimo, dovuta alle parti latenti destinate a
manifestarsi storicamente, scorre per tutta la speculazione e si riannoda
teologicamente all’unità tra il ciclo dell’atto creativo e il ciclo dell’Incarnazione:
nell’uno e nell’altro infatti è presente il medesimo Verbo. Ma senza salire alle
ragioni teologiche di cosiffatta ampiezza, bastano a palesarla le ragioni storiche,
poiché si trovano nello stesso spazio scuole e stili contrapposti. Così, per
esempio, Bellarmino e Suarez fondano teoreticamente la democrazia e la
sovranità popolare, mentre il Bossuet per contro giustifica l’autocrazia regia;
l’ascetismo francescano predica la spogliazione dai beni mondani, siano
temporali siano intellettuali, mentre il realismo gesuitico edifica città, organizza
Stati e mobilita ad maiorem Dei gloriam tutti i valori mondani. I Cluniacensi
ornano di colori, di ori e di gemme sino il pavimento delle chiese, mentre i
Cistercensi riducono l’edificio divino alla nudità dell’architettura. Molina
celebra la libertà e l’efficacia autonoma dell’umana volizione, capace di dare
scacco alla divina predestinazione, e abbassa la scienza divina alla dipendenza
dall’evento, mentre i Tomisti per contro esaltano l’efficacia assoluta del decreto
divino. I Gesuiti annunciano la via larga della salvezza, mentre i Domenicani il
piccolo numero. I casisti allargano le parti della coscienza individuale dirimpetto
alla legge, mentre i rigoristi fan torreggiare la legge sopra l’umana estimazione
dell’atto. Il francescanesimo stesso, con la benedizione data dal Fondatore a frate
Elia non meno che a fra Bernardo, contiene due spiriti diversi che spaziano e si
conciliano in una superiore inspirazione e che spiegano le interiori lotte
dell’Ordine15.
17. Negazione del principio cattolico nella dottrina luterana. – Si tratta
dunque di vedere come la dottrina di Lutero non poteva rientrare nell’àmbito
largo del sistema cattolico e come pertanto l’attacco metteva in forse non questo
o quel corollario, bensì proprio il principio del sistema.
Lutero invece pone la Bibbia e il senso della Bibbia nelle mani dell’individuo
credente, ricusa la mediazione della Chiesa e affida tutto al lume privato,
soppiantando all’autorità dell’istituzione l’immediatezza del sentimento a tutto
prevalente. La coscienza si sottrae al magistero della Chiesa e l’apprensione
individuale, massime se viva e irresistibile, fonda il diritto alla persuasione e il
diritto alla manifestazione di quel che si pensa, soprastando a ogni regola. Quello
che il pirronismo antico fa nel giro del conoscere filosofico, il pirronismo
protestantico fa nel giro del pensiero religioso. La Chiesa, che è l’individuo
storico e morale del Cristo uomo-Dio, viene spropriata della sua essenza
autoritativa, mentre quella vivezza dell’apprensione soggettiva viene chiamata
fede e fatta dono immediato di grazia. La supremazia della coscienza leva la base
a tutti gli articoli della fede poiché essi stanno o cadono secondo che vi consenta
o ne dissenta l’individuale coscienza. Così il principio del cattolicismo, che è
l’autorità divina, viene sterpato e con esso i dogmi di fede: non è infatti l’autorità
divina della Chiesa che li autorizza, bensì la soggettiva e individuale
apprensione. E se eresia è il tenere una verità rivelata non perché rivelata, ma
perché consentanea alla soggettiva percezione, si può dire che tutto il concetto di
fede si converte nel luteranesimo in quello di eresia, perché la parola divina è
accolta solo in quanto riceva la forma dell’individuale persuasione. Non la cosa
ingiunge l’assenso, ma l’assenso dà valore alla cosa. Che poi per interna logica
la critica del principio teologico dell’autorità divina diventi critica del principio
filosofico dell’autorità della ragione è cosa che si può inferire a priori per
esigenza logica e che è attestata a posteriori dallo svolgimento storico del
pensiero alemannico fino alle forme più intere del razionalismo immanenziale.
20. Perché la casistica non abbia fatto crisi nella Chiesa. – Non possiamo
trascorrere senza qualche parola il fenomeno della casistica che non fu una vera
crisi della Chiesa. Secondo il Gioberti e qualche autore contemporaneo essa fu
invece una vera crisi e anzi la matrice del declino del cattolicismo21.
La casistica non divenne crisi perché il principio, che la libertà può scegliere
la legge su cui determinarsi, non fu mai formulato espressamente. Perciò le
molte proposizioni condannate da Alessandro VII nel 1665 e nel 1666
contengono soluzioni di casi, ma non enunciano l’errore di principio. Dalla
riprovazione della casistica da parte della Chiesa non consegue pertanto che la
casistica fosse capace (come pensò Pascal) di introdurre nel cattolicismo un vero
e proprio stato di crisi.
23. La crisi della Chiesa nella Rivoluzione di Francia. – La Rivoluzione
popolare seguì a un’altra rivoluzione già operata dall’assolutismo regio che si
era francato dalla soggezione, almeno morale, alla Chiesa, aveva rinnovato il
dispotismo della lex regia, onde quidquid principi placet vigorem habet legis24, e
si era rafforzato prendendo gli spiriti della luterana libertà di coscienza. Da una
parte il nuovo Cesarismo aveva asserito l’indipendenza del principe dalle regole
della Chiesa, che invigorivano e insieme temperavano la potestà maiestatica a
protezione dei popoli. Dall’altra aveva assorbito privilegi, franchigie, immunità,
consuetudini immemorabili, guarentigie alla libertà dei sudditi. Quanto di pura
reazione dovuta alla meccanica sociale e quanto invece di aspirazione o
cospirazione dottrinale sia entrato nell’immenso commovimento della
Rivoluzione, pochi scrittori si attentano di definire. Ma i fatti furono immensi e
sbarbicarono principii e persuasioni come fa un ventus exurens et siccans:
defezioni e apostasia toccarono un terzo del clero, compensate invero da episodi
di resistenza invitta sino al martirio: preti e vescovi correre al matrimonio
(convalidato poi, ma non quello dei vescovi, dal concordato del 1801); chiese e
conventi profanati e distrutti (di trecento chiese a Parigi non ne rimasero che
trentasette); aborriti e dispersi o vietati i segni della religione (onde il Consalvi e
i suoi venuti a negoziare a Parigi stettero in abito laicale); libertinaggio nel
costume; riforme licenziose e stravaganti nel culto e nella catechesi, sacrileghe
confusioni del patriottico col religioso. In sostanza la Costituzione civile del
clero, votata nel luglio 1790, e condannata da Pio VI nel marzo dell’anno dopo,
conteneva un errore principiale, poiché secolarizzava la Chiesa, annullandola
come società priore e indipendente affatto dallo Stato. Se fosse riuscita a
sostenersi, anziché cadere come fece per il rifiuto di quasi tutto l’episcopato
seguito dalla soverchiante pluralità dei preti e per effetto della volontà del gran
mediatore dei due secoli, essa avrebbe fatto scomparire dalla faccia delle terre di
Francia ogni istituzione e ogni influsso del cattolicismo. La condanna della
Costituzione civile del clero è dunque un documento dottrinale che tocca la
sostanza della religione. Stupisce che il Denzinger l’abbia omesso.
La separazione totale della Chiesa dallo Stato sembrò un errore agli estensori
del Sillabo, ma pure lascia sussistere le due società, la teocratica e la
democratica, ciascuna nella propria natura e finalità. Come non sarà errore
esiziale quello che assorbe la Chiesa nello Stato e identifica questo con
l’universale società degli uomini? La Rivoluzione di Francia, ridotta alla sua
specie logica, fu una crisi vera e propria del principio cattolico poiché stabiliva,
pur senza riuscire a tradurlo nell’organismo civile, il principio dell’indipendenza,
che rimuove l’ordine religioso, l’ordine morale e l’ordine sociale dal loro centro
e spinge tendenzialmente alla dislocazione completa dell’organismo sociale, di
quello teocratico dapprima e di quello democratico di poi.
24. Il Sillabo di Pio IX. – Il celebre catalogo degli errori moderni annesso
all’enciclica Quanta cura dell’8 dicembre 1864 viene oggi ripudiato da una parte
dei teologi che a quegli errori tentano di combinare il principio cattolico. Oppure
vien pretermesso e fastidito da autori che, per non troppo dispiacere al mondo
cui il Sillabo dispiace, lo interpretano alla gagliarda, facendone addirittura un
prodromo degli ulteriori sviluppi di quegli errori la cui intrinseca anima di verità
avrebbero rivelata i passi in avanti fatti dal pensiero nel nostro secolo. Oppure
infine viene a fronte aperta ripudiato nella sua significazione dottrinale, cioè
permanente, e figurato come un momento caduco di un’erronea contrapposizione
della Chiesa al genio del secolo. Persino nell’OR del 31 maggio 1980 uno
storiografo gallicano mette quell’insigne documento dottrinale in relazione con
«una fiammata di clericalismo monarchico ultramontano». Non fallì il sensus
fidei o il sensus logicae al Denzinger e ai suoi successori che lo riportarono
nell’Enchiridion per intero.
Circa la portata del Sillabo in ordine alla verità cattolica sorse tosto disputa e
discrepanza. Mons. Dupanloup, vescovo di Orléans, ne restrinse il significato
condennatorio. La «Civiltà cattolica», allora molto autorevole, ne propose invece
un’interpretazione stringente ravvisando colpito in esso il principio di tutto il
mondo moderno. Opposero al Sillabo un rifiuto gli scrittori irreligiosi che in un
punto, ed essenziale, videro non meno acutamente dei Gesuiti, che cioè il Sillabo
contiene una riprovazione della civiltà moderna. È anche da considerare come
nella prassi morale certe proposizioni condannate davano luogo a dissenso. Così
per esempio la 75 sull’incompatibilità della potestà temporale con quella
spirituale, e la 76 pronosticante effetti salutari per la Chiesa dall’abolizione del
regno civile del Pontefice romano. Chi rifiutasse in quei punti il Sillabo, non era,
secondo la «Civiltà cattolica», suscettibile di assoluzione sacramentale. Lo era al
contrario secondo la decisione presa dal clero parigino sotto la presidenza di
quell’arcivescovo. Anche Antonio Rosmini in un’istruzione ai religiosi del suo
Istituto aveva, prima della promulgazione del Sillabo, tenuto la tesi
dell’assolvibilità25.
Degli 80 articoli del documento pochi sono salienti per chi cerchi gli
universali, ma questi pochi appunto sono decisivi.
Nell’insieme adunque il Sillabo appare assai più come una denuncia del
mondo moderno che come un sintomo di crisi della Chiesa, perché le
proposizioni che il documento raccoglie concernono non un’interna
contraddizione della Chiesa ai suoi principii (questa, come vedemmo sin
dall’inizio, è la definizione stessa della crisi), ma una contraddizione del mondo
al cattolicismo. Questo significato del Sillabo fu intuito utrinque, e dalla parte
del mondo e dalla parte della Chiesa. La condanna sintetica del pensiero
moderno si continua dal Sillabo al Vaticano I. Nello schema preparatorio de
doctrina catholica si osserva che il carattere del tempo è che non si attaccano
singoli punti lasciando illeso il principio primo della religione, ma che «homines
generatim a veritatibus et bonis supernaturalibus aversi fere in humana solum
ratione et in naturali ordine rerum conquiescere atque in his totam suam
perfectionem et felicitatem consequi se posse existimant»26.
Certo la condanna dello spirito del secolo, caratterizzato dagli errori qui
condannati, è innegabile e non è suscettiva di preterizione o di moderazione. Il
Sillabo non può essere spento dall’enorme silenzio che in seno alla Chiesa tenta
spegnere il papale documento del 1864 e grazie al quale si è tollerato che il
nome del Sillabo neppure una volta fosse citato nel Vaticano II, anzi diventasse
designazione di cosa o ridevole o abbominevole.
Per procedere come facemmo pel primo Sillabo, esamineremo alcuni articoli
principali per riconoscere nel documento la condanna di tale spirito. Nella
proposizione 59 è trafitto l’errore secondo cui l’uomo sottopone al suo
diveniente giudizio l’indivenibile verità rivelata subordinando la verità alla
storia. Tale riduzione della verità al progressivo sentimento umano, che viene
ponendo e riponendo il dato religioso come una sorta di inconoscibile noumeno,
viene rifiutata anche nell’articolo 20, perché leva ogni dipendenza del senso
religioso dall’autorità della Chiesa30. La Chiesa (lo si dice espressamente) viene
abbassata a funzioni di semplice registrazione e sanzione delle opinioni
dominanti nella Chiesa discente, in realtà non più discente. La proposizione 7,
negando che la verità rivelata possa produrre l’obbligazione di un assenso
interno, ovverosia della persona, e non soltanto del socio della Chiesa, pronuncia
per ciò stesso che vi è nell’individuo un intimo nucleo di indipendenza dalla
verità e che questa si impone come soggettivamente appresa, non come verità.
Non minore è il peso della 58: «veritas non est immutabilis plus quam ipse
homo, quippe quae cum ipso in ipso et per ipsum evolvitur»31. Qui sono
professate due indipendenze. Prima, quella dell’uomo storico dalla natura
dell’uomo, assorbita interamente nella storicità del primo. La proposizione
equivale a negare l’esistenza dell’idea eterna in cui sono esemplate le nature
reali, a negare cioè quell’elemento irrefragabile di platonismo senza il quale cade
l’idea di Dio. La seconda indipendenza professata è più in generale quella della
ragione dalla Ragione. La ragione umana, che è il maggior contenente da noi
conosciuto nel mondo32, è però essa stessa contenuta in un altro contenente che è
la mente divina. Quest’altro contenente è negato nella proposizione 58. È
dunque falso l’assunto dell’articolo proscritto, che la verità si svolga coll’uomo,
nell’uomo e per l’uomo. Si svolge a quel modo, ma non tutta. Non è vero che la
verità divenga nell’uomo diveniente: divengono gli intelletti creati, anche quelli
dei credenti, anche quelli del corpo sociale della Chiesa, i quali con atti propri,
varianti da individuo a individuo, da generazione a generazione, da civiltà a
civiltà, si terminano però all’identica verità. L’indipendenza della ragione dalla
verità immutabile porta a dare a tutto il contenuto e a tutto il contenente della
religione il carattere del mobilismo (vedi §§ 157-62).
Ricercando dunque le crisi della Chiesa abbiamo trovato che esse hanno
luogo soltanto allorché non nel mondo, ma nella Chiesa medesima sorge una
contraddizione con il principio che la costituisce e la regge. Tale contraddizione
all’elemento principiale è la costante (come dicono i matematici) di tutte le crisi.
E come la crisi preformata nel mondo fu denunciata dal primo Sillabo, e poi al
principio del secolo, quando cominciò a comunicarsi e ad internarsi alla Chiesa,
fu denunciata da Pio X, così fu denunciata da Pio XII nel terzo Sillabo quando, a
mezzo il secolo, si fu più diffusamente internata nella Chiesa. Il terzo Sillabo è
l’enciclica Humani generis del 12 agosto 1950 e coi testi del Concilio Vaticano
II costituisce il principale atto dottrinale della Chiesa dopo Pio X.
Certo vi sono nella formazione del sensus communis della Chiesa momenti di
memoria, che tengono sotto il fuoco dell’attenzione certe parti del deposito, e
momenti d’oblìo che sviano da quel fuoco e relegano nell’oscurità altre parti del
sistema cattolico33. Questo è un effetto della limitata intenzionalità dello spirito,
che non può essere sempre in tutto, e della conseguente dirigibilità
dell’attenzione, che è il gran vero su cui poggia l’arte educativa e, in ordine più
basso o bassissimo, l’arte della propaganda. Ed essendo essa una cosa necessaria
nell’umana natura non può né deplorarsi né eliminarsi. Bisogna però che questa
relativa oblivione in cui si fanno cadere alcuni articoli del sistema cattolico non
trapassi addirittura in espunzione di essi. È la storia che svolgendosi espone od
oscura ora questa e ora quella faccia, ma non è per il fatto di essere illuminata
che quella faccia esista nella coscienza della Chiesa né per il fatto di essere
oscurata che quella faccia si spenga del tutto.
28. La «Humani generis» (1950). – Nel titolo della enciclica solleva tosto
l’attenzione lo stile tetico e categorico che non usa le formule più riservate di
altri atti dottrinali. In luogo infatti della formula non videntur consonare o simili
(adoperate per altro anche qui a proposito del poligenismo) si enuncia in limine
che si prendono di mira false opinioni «quae catholicae doctrinae fundamenta
subruere minantur»34. È una minaccia ossia una prospettiva di eversione, ma la
minaccia è reale: non dice subruere videntur ma senza ambagi subruere
minantur. Gli errori offendono la verità cattolica anche se non ne consumano
l’eversione. Nel proemio dell’elenco si tocca un carattere della crisi che ne
arguisce il grado e ne esprime la novità. L’errore che veniva un tempo ab extra si
origina adesso ab intra della Chiesa, e non è più un esterno assalto, ma un guasto
intestino, non più tentativo di demolizione della Chiesa ma, secondo il motto
celebre di Paolo VI, autodemolizione della Chiesa. Eppure false opinioni non
dovrebbero aver luogo nella Chiesa, perché l’umana ragione, impregiudicata la
sua capacità naturale, si trova quivi sempre rafforzata e amplificata dalla
Rivelazione. Ma è proprio il postulato di indipendenza dalla Rivelazione il
πρῶτον ψεῦδος, e non sono che forme o più veramente denominazioni di esso gli
errori che l’enciclica vien descrivendo. Così il pirronismo essenziale alla
mentalità moderna porta che la nostra conoscenza non sia apprensione del reale,
ma puramente produzione di immagini sempre mutevoli di un reale sempre
sfuggente. La cognizione è indipendente dalla verità.
29. Il Concilio Vaticano II. La preparazione. – Sembra che Pio XI abbia per
un momento pensato a riprendere il Concilio Vaticano interrotto nel 1870 per
fatti violenti, ma è certo, per la testimonianza del cardinal Domenico Tardini, che
Pio XII ponderò l’opportunità di tale ripresa o di un nuovo Concilio e ne fece
librare le ragioni da un’apposita commissione. Questa concluse negativamente.
Forse sembrò che l’atto dottrinale della Humani generis fosse da sé stesso
sufficiente a raddrizzare quanto di torto appariva nella Chiesa. Forse parve non
doversi pregiudicare in alcun modo al carattere del governo papale al quale
l’autorità del Concilio potrebbe produrre diminuzione o sembrar produrla. Forse
si presentì l’aura democratica che avrebbe investito l’assemblea e se ne intuì
l’incompatibilità col principio cattolico. Forse il Papa secondò la sua
inclinazione verso una totalità di responsabilità la quale domanda una totalità
non divisibile di potere (onde alla sua morte, per tale accentramento, vacavano in
Curia offici importantissimi). Al beneficio che attualmente si suol ravvisare nella
reciproca cognizione e comunicazione tra i vescovi del mondo, che è un indizio
di propensioni democratiche, non si dava allora gran peso, non si credeva cioè
che basti mettere insieme gli uomini perché si conoscano e conoscano la cosa su
cui deliberano. La proposta di Concilio fu rimossa. È un’antica suspicione quella
che si libra sul Concilio di fronte al Seggio petrino. La formulò imaginosamente
il card. Pallavicino, lo storiografo del Concilio di Trento: «Nel cielo mistico
della Chiesa non si può immaginare congiunzione più difficile ad accozzare e
accozzata di più pericolosa influenza che un Concilio generale»35.
Le risposte dei vescovi già rivelano alcune delle tendenze che prevarranno in
Concilio e non raramente fanno trasparire l’incapacità di stare al punto per
extravagare a materie o impertinenti o futili. Anche per il Vaticano I non erano
mancate richieste extravaganti. Vi erano state alcune suggestioni in favore del
Rosmini o di san Tommaso, e qui la materia è certo di gran momento, ma,
accanto a queste, altre scendevano al problema delle domestiche cattoliche in
famiglie acattoliche, alla benedizione dei cimiteri e ad altre questioni di minuta
disciplina non certo proporzionate all’amplitudine di un Concilio ecumenico.
Come nel Tridentino secondo il Sarpi, così nel Vaticano II i fatti riuscirono
difformi dalla preparazione e, come oggi dicesi, dalle proiezioni. Non è che vene
di pensiero ammodernante non siano riconoscibili nella fase preparatoria42. Esse
però non impressero l’insieme degli schemi preliminari così profondamente e
distintamente come si stamparono poi nei documenti finali promulgati
conciliarmente. Così, ad esempio, la flessibilità della liturgia per studio di
accomodazione alle varie indoli nazionali era proposta nello schema della
liturgia, ma era ristretta ai territori di missione, e non si faceva menzione
dell’esigenza tutta soggettiva di una creatività del celebrante. La pratica
dell’assoluzione comunitaria, allargata a scapito della confessione individuale,
per studio di facilitazione morale, era proposta nello schema de sacramentis.
Perfino l’ordinazione presbiteriale di uomini uxorati (non però quella di
femmine) trovava luogo nello schema de ordine sacro. Lo schema de libertate
religiosa (card. Bea), uno dei più tormentati e contesi nell’assemblea ecumenica,
avanzava in sostanza la gran novità che venne infine adottata, facendo uscire
(sembra) la dottrina dalla via comune, canonizzata e perpetuamente professata
dalla Chiesa cattolica. Il principio della funzionalità è proprio del pragmatismo e
dell’attivismo moderno, che ravvisano il valore nella produttività (di cose o di
lavoro, che sia) e che disconoscono le operazioni intransitive e immanenti della
persona abbassandole sotto quelle transitive ed efficienti ad extra (§§ 216-7). Ma
era anch’esso formulato espressamente nello schema de disciplina cleri che
contemplava l’inabilitazione e la rimozione di vescovi e di presbiteri, toccata una
data età. Si sa che il frutto maturo di questa inclinazione all’attivismo è il motu
proprio Ingravescentem aetatem che colpisce di deminutio capitis i cardinali
ottuagenari. Un votum particolare circa la talare diede adito al costume di vestire
alla laicale dissimulando la differenza specifica del prete dal laico e facendo
cadere persino la prescrizione che faceva obbligo della talare durante le funzioni
ministeriali. Si affacciano nei lavori preparatorii anche opinioni particolari di
scuola teologica in senso largioristico. Si chiedeva per esempio di far passare
come dottrina del Concilio una disputabile posizione sul limbo dei bambini e
persino degli adulti. Questa materia, come troppo contigua al salebroso dogma
della predestinazione, taciuto dai decreti conciliari43, fu del tutto omessa, ma lo
spirito largioristico e pelagiano che essa supponeva investì il pensiero teologico
postconciliare, come più avanti mostreremo.
Anche circa la riunione dei cristiani non cattolici si fece sentire la voce di chi
pareggiava i protestanti, senza sacerdozio, senza gerarchia, senza successione
apostolica e senza o quasi senza sacramenti, agli ortodossi aventi invece quasi
tutto in comune coi cattolici, fuorché primato e infallibilità. Pio IX aveva fatto
nettissima distinzione: inviò messi apostolici a recare le lettere invitatorie ai
patriarchi orientali (che dichiararono tutti non potersi recare al Concilio), ma non
riconobbe come Chiese le varie confessioni protestanti, riguardate come pure
associazioni, e inviò un appello ad omnes protestantes, non affinché
intervenissero al Concilio, ma affinché tornassero all’unità da cui si eran scostati.
L’atteggiamento latitudinario affiorato nella preparazione poggia sopra
un’implicita parziale parità tra cattolici e acattolici, e riuscì minoritario nella fase
preparatoria, ma ottenne poi che si invitassero come osservatori i protestanti,
indistinti dagli ortodossi, e spiegò poi la sua influenza nel decreto de
oecumenismo (§§ 245-7).
Mette conto di riferire per disteso le critiche che un Padre della Commissione
centrale preparatoria opponeva alla descrizione troppo fiorita della situazione del
mondo e della situazione della Chiesa nel mondo. «Non placet hic cum tanto
laetamine descriptus status Ecclesiae magis in spem, meo iudicio, quam ad
veritatem. Cur enim auctum religionis fervorem ais, aut respectu cuius aetatis?
Nonne in oculis habenda est ratio statistica, quam dicunt, unde apparet cultum
Dei, fidem catholicam, publicos mores apud plerosque collabescere et paene
dirui? Nonne status mentium generatim alienus est a catholica religione, discissis
republica ab Ecclesia, philosophia a dogmatis fidei, investigatione mundi a
reverentia Creatoris, inventione artis ab obsequio ordinis moralis? Nonne inopia
operariorum in sacro ministerio laborat Ecclesia? Nonne multae partes Sanctae
Ecclesiae vel immanissime conculcantur a Gigantibus et Minotauris, qui
superbiunt in mundo, vel schismate labefactatae sunt, utpote apud Chinenses?
Nonne missiones nostras ad infideles, tanto zelo ac caritate plantatas ac rigatas,
vastavit inimicus homo? Nonne atheismus non amplius per singulos sed per totas
nationes (quod prorsus inauditum erat) celebratur et per reipublicae leges
instauratur? Nonne numerus noster quotidie proportionaliter imminuitur,
Mahumetismo ac Gentilismo immodice gliscentibus? Nos enim quinta pars
sumus generis humani, qui quarta fuimus paulo ante. Nonne mores nostri per
divortium, per abortum, per euthanasiam, per sodomiam, per Mammona
gentilizant?»44. Questa diagnosi (conclude) procede humano more e in linea di
considerazione storica, riservando quel che la Provvidenza di Dio sulla sua
Chiesa può operare «oltre la difension dei senni umani» e fuori della potenza
ordinata.
I testi del Sinodo Romano che furono promulgati il 25, 26 e 27 gennaio 1960
sono una reversione totale all’essenza propria della Chiesa, all’essenza,
intendiamo, non pure soprannaturale (questa non si può perdere), ma all’essenza
storica della Chiesa, un ritiramento (per dire con Machiavelli) dell’istituzione
verso i suoi principii.
In tutti gli ordini della vita ecclesiale infatti il Sinodo proponeva una
vigorosa restaurazione. La disciplina del clero era modellata sullo stampo
tradizionale, maturato nel Tridentino e fondato sui due principii sempre
professati e sempre praticati. Il primo è quello della peculiarità della persona
consacrata e abilitata soprannaturalmente a esercitare le operazioni del Cristo, e
quindi inconfusibilmente separata dai laici (sacro equivale a separato). Il
secondo principio, conseguente al primo, è quello dell’educazione ascetica e
della vita sacrificata, che differenzia il clero come ceto (anche nel laicato i
singoli possono vivere vita ascetica). Il Sinodo prescriveva quindi ai chierici
tutto uno stile di condotta nettamente differenziato dalle maniere laicali. Tale
stile esige l’abito ecclesiastico, la sobrietà del vitto, l’astensione dai pubblici
spettacoli, la fuga delle profanità. Della formazione culturale del clero era
similmente riaffermata l’originalità e si delineava il sistema che l’anno dopo il
Papa sanzionò solennemente nella Veterum sapientia. Il Papa ordinò anche che si
ripubblicasse il Catechismo del Concilio Tridentino, ma l’ordine non fu raccolto.
Soltanto nel 1981 per iniziativa privata se ne ebbe in Italia una traduzione (OR,
5-6 luglio 1982).
Non è chi non veda che una tale massiccia reintegrazione della disciplina
antica voluta dal Sinodo fu quasi in ogni articolo contraddetta e smentita dal
Concilio. E così il Sinodo Romano, che doveva essere prefigurazione e norma
del Concilio, precipitò in pochi anni nell’Erebo dell’oblìo ed è in verità tanquam
non fuerit46. Per dare un saggio di tale nullificazione osserverò che, avendo io
ricercato, in Curie e archivi diocesani, i testi del Sinodo Romano non ve li trovai
e dovetti estrarli da pubbliche biblioteche civili47.
Del valore della latinità diremo ai §§ 278-9. Qui vogliamo soltanto toccare il
divario che stiamo studiando tra l’ispirazione preparatoria data al Concilio e
l’effettuale risultato di esso.
Con la Veterum sapientia Giovanni XXIII intendeva operare un ritiramento
della Chiesa ai suoi principii, questo ritiramento essendo nella sua mente
condizione del rinnovarsi della Chiesa nella propria peculiare natura nel presente
articulus temporum.
I tre fini furono perseguiti anche dal Vaticano I: l’appello agli acattolici diede
luogo a una vasta letteratura e a un’ampia polemica. La causa unionis fu
deputata a una delle quattro grandi commissioni preparatorie e la causa
reformationis similmente, dando luogo a un pullulare di petizioni e di
suggestioni che basta da solo a provare come nessuna cosa si facesse, nemmeno
allora, in circoli ristretti e in camarillas. L’ampiezza assunta dalle aspettative è
indicata anche dalla varietà e audacia delle suggestioni. C’era alla metà
dell’Ottocento chi voleva vietata dal Concilio la pena di morte; chi proponeva si
quis bellum incipiat anathema sit50; chi domandava l’abolizione del celibato del
clero latino; chi stava per l’elezione dei vescovi a suffragio democratico. Più di
tutte le altre abbracciava l’aspirazione verso una organizzazione militante delle
masse cattoliche la proposta del cappuccino Antonio da Reschio51. Questi
auspicava che tutta la massa del popolo cattolico fosse scompartita in
congregazioni, dai fanciulli agli adulti, dai celibi ai coniugati: i membri di queste
congregazioni dovevano non contrarre né amicizia né matrimonio né
accompagnarsi in altro modo con quelli che non avevan parte in esse. Era in
sostanza la separazione non pure da quelli di fuori della Chiesa o di fuori della
Chiesa praticante, ma addirittura da quelli di dentro la Chiesa che non entrassero
in questa organizzazione massiccia, tanquam castrorum acies ordinata. Il
disegno del cappuccino ripigliava modelli o paganeggianti o gesuitici o utopici, e
ravvisava la perfezione sociale nell’esteriore ordinamento secondo schemi
razionali.
34. I fini del Vaticano II. La pastoralità. – Le tre cause tradizionali sono tutte
riconoscibili anche nelle finalità perseguite dal Vaticano II, sebbene variamente
enunciate e variamente rilevate, primeggiando ora l’una ora l’altra
nell’attenzione e nell’intenzione. Furono poi tutte avvolte in una qualificazione
che sembrò peculiare e che si espresse col termine di pastoralità.
Il terzo fine riprende la causa unionis. Il Papa dice che la causa «riguarda gli
altri cristiani» e che solo la Chiesa cattolica può loro offrire la perfetta unità di
Chiesa. Egli sembra così tenersi dentro la dottrina tradizionale: l’unione ha già il
suo centro definito in cui hanno da concentrarsi le parti dissite e staccate. Egli
aggiunge che «i movimenti recenti e tuttora in pieno sviluppo in seno alle
comunità cristiane da noi separate dimostrano che l’unione non si può
raggiungere che nell’identità della fede, nella partecipazione ai medesimi
sacramenti e nell’armonia organica di un’unica direzione ecclesiastica». E così
riafferma la necessità del triplice consenso, dogmatico, sacramentale e
gerarchico. Però suppone che l’aspirazione dei separati all’unità sia aspirazione
alla dogmatica, alla sacramentalità e alla autorità, quali si trovano nella Chiesa
cattolica. Invece i protestanti concepiscono l’unità come un mutuo
avvicinamento onde tutte le confessioni si muovono verso un unico centro,
interno forse alla comunità dei cristiani, ma non coincidente con il centro di
unità che la Chiesa Romana professa di essere, di possedere e di comunicare agli
altri (§§ 245 sgg.).
Il Papa concepisce il dialogo col mondo come identico col servizio che la
Chiesa deve prestare al mondo e talmente dilata l’idea del servizio, da dire
espressamente che i Padri non sono convocati per trattare le cose loro, cioè della
Chiesa, bensì quelle del mondo. L’idea che il servizio della Chiesa al mondo è
ordinato a far servire il mondo al Cristo, di cui l’individuo storico è la Chiesa, e
che il dominio della Chiesa non implica servitù dell’uomo, ma anzi elevazione e
signoria dell’uomo, viene qui scarsamente lumeggiata. Sembra che il Papa
voglia fugare ogni taccia o suspicione di dominio, di qualunque sorta
indistintamente, e contrapporre a servizio conquista, mentre è pure parola del
Cristo «ego vici mundum».
Nel discorso di apertura del secondo periodo Paolo VI discopre la scena del
mondo moderno, con le persecuzioni religiose, l’ateismo divenuto principio
della vita sociale, l’abbandono della scienza di Dio, l’avidità di ricchezza e di
piaceri. «A tal vista» dice il Papa «noi dovremmo essere spaventati piuttosto che
confortati, addolorati piuttosto che rallegrati». Ma, come si vede, il Papa adopera
un condizionale e non esplicita la protasi di quel discorso ipotetico. Egli seguiva
d’altronde i passi di Giovanni XXIII che nel discorso dell’11 ottobre 1962
prevedeva «universale irradiazione della verità, retta direzione della vita
individuale, domestica e sociale». E nel discorso di Paolo VI l’ottimismo non
soltanto colora la previsione, ma s’impianta vigorosamente nella contemplazione
del presente stato della Chiesa. Le parole, paragonate ad altre di senso opposto,
mostrano quanto ampio fosse l’excursus del papale pensiero tra gli estremi e
quanto grande la forza di dimenticanza quando si soffermava in uno di essi:
«Godiamo, fratelli: quando mai la Chiesa fu così consapevole di sé stessa,
quando mai così felice e così concorde e così pronta all’adempimento della sua
missione?».
CAPITOLO IV LO SVOLGIMENTO DEL CONCILIO
L’indebolimento del senso logico, proprio dello spirito del secolo, leva anche
alla Chiesa lo spavento per la contraddizione. Nel discorso inaugurale del
Concilio si celebra la libertà della Chiesa contemporanea nel momento stesso in
cui si confessa che moltissimi vescovi sono imprigionati per la loro fedeltà a
Cristo e in cui, per un accordo voluto dal Pontefice, il Concilio trovasi legato
all’impegno di non pronunciar condanna del comunismo. Questa contraddizione,
che è grande, rimane tuttavia minore rispetto alla contraddizione di fondo, per la
quale si poggia la rinnovazione della Chiesa sopra l’apertura al mondo e poi si
stralcia dai problemi del mondo il problema del comunismo, che ne è il
principalissimo, essenzialissimo e decisivo.
Ora tra il testo latino e la versione italiana del discorso inaugurale vi sono tali
discrepanze che il senso ne rimane mutato. È avvenuto inoltre che lo sviluppo
della letteratura teologica abbia seguito la traduzione anziché l’originale latino.
La discrepanza è tanta che sembra di aver sottocchio una parafrasi anziché una
traduzione. L’originale infatti reca: «Oportet ut haec doctrina certa et
immutabilis cui fidele obsequium est praestandum, ea ratione pervestigetur et
exponatur quam tempora postulant»62. La traduzione italiana recata dall’OR, 12
ottobre 1962, poi riprodotta in tutte le edizioni italiane del Concilio, suona:
«Anche questa però studiata ed esposta attraverso le forme dell’indagine e della
formulazione letteraria del pensiero moderno». Similmente la traduzione
francese: «La doctrine doit être étudiée et exposée suivant les méthodes de
recherche et de présentation dont use la pensée moderne».
Qui nel testo latino Giovanni XXIII ribadisce che la verità dogmatica
ammette molteplicità di espressione, ma la molteplicità concerne l’atto del
significare e giammai la verità significata. Il pensiero papale continua (è detto
espressamente) l’insegnamento che «splende negli atti conciliari del Tridentino e
del Vaticano I».
Certo con questo intervento che riformava d’un tratto la decisione del
Concilio e derogava al regolamento dell’assemblea si operò una rottura della
legalità, passando dal regime collegiale al regime monarchico. La rottura della
legalità significò anche un nuovo cursus non dico dottrinale, ma di orientamento
dottrinale. I postscenia del repentino mutamento dell’intenzione papale sono
oggi noti69, ma importano meno assai che l’elemento di potenza venuto a
sovrapporsi alla legalità conciliare. Il risultato della votazione poteva dal Papa
essere inficiato se fosse risultato un vizio nella legalità o se fosse preceduta al
voto una riforma della legge, quale seguì di fatto sotto Paolo VI che tornò alla
maggioranza semplice. Ma, nei termini in cui avvenne, l’intervento papale
costituisce una tipica sovrapposizione del Papa al Concilio, tanto più notevole in
quanto il Papa fu presentato allora come tutore della libertà del Concilio. Questa
sovrapposizione non è un motus proprius, ma conséguita a rimostranze e
sollecitazioni che trattando la maggioranza qualificata richiesta dal Regolamento
come una «finzione giuridica» le passava sopra per far riconoscere dal Papa il
principio puro della maggioranza.
Il gesto del card. Liénart fu riguardato dalla stampa come un colpo di forza
con cui il vescovo di Lille «infléchissait la marche du Concile et entrait dans
l’histoire»70. Ma tutti gli osservatori vi riconoscono un autentico discrimen nelle
sorti del Sinodo ecumenico, uno di quei punti cioè in cui si contrae in un istante
la storia che andrà poi devolvendosi. Lo stesso Liénart infine, nelle citate
memorie, conscio (almeno a posteriori) degli effetti di quel suo intervento e
preoccupato di escludere che fosse premeditato e concertato, lo interpreta come
un’ispirazione carismatica: «Je n’ai parlé que parceque je me suis trouvé
contraint de le faire par une force supérieure en laquelle je dois reconnaître celle
de l’Esprit Saint». Così il Concilio sarebbe stato comandato a Giovanni XXIII,
secondo la sua propria testimonianza, da una suggestione dello Spirito e il
Concilio da lui preparato avrebbe subito tosto una brusca voltata per una mossa
che lo stesso Spirito diede al cardinale francese. Del ripudio dell’indirizzo del
Concilio preparato abbiamo adesso in ICI, n. 577, p. 41 (15 agosto 1982) una
aperta confessione del p. Chenu, uno degli esponenti della corrente
ammodernante. L’eminente domenicano e il suo confratello p. Congar rimasero
sconcertati alla lettura dei testi della Commissione preparatoria, che apparivano
astratti, antiquati, estranei alle aspirazioni dell’umanità contemporanea, e
promossero un’azione per fare uscire il Concilio da questo campo chiuso e
aprirlo alle esigenze del mondo, inducendo l’Assemblea a manifestare la nuova
ispirazione in un messaggio all’umanità. Il messaggio (dice p. Chenu)
«impliquait une critique sévère du contenu et de l’esprit du travail de la
Commission officielle préparatoire». Il testo da proporre al Concilio fu
approvato da Giovanni XXIII, dai cardinali Liénart e Garrone, Frings e Döpfner,
Alfrink, Montini e Léger. Esso svolgeva questi motivi: che il mondo moderno
aspira al Vangelo, che tutte le civiltà contengono una virtualità che le spinge al
Cristo, che il genere umano è unità fraterna al di là delle frontiere, dei regimi e
delle religioni, che la Chiesa lotta per la pace, lo sviluppo e la dignità degli
uomini. Il testo, affidato al card. Liénart, fu poi modificato in alcune parti, senza
spogliare il carattere originario antropocentrico e mondano, ma le modificazioni
lasciarono insoddisfatti i suoi promotori. Fu votato il 20 ottobre da
duemilacinquecento Padri. Circa l’effetto dell’azione è rilevante la dichiarazione
di p. Chenu: «Le message saisit efficacement l’opinion publique par son
existence même. Les pistes ouvertes furent presque toujours suivies par les
délibérations et les orientations du Concile».
Conviene peraltro domandarsi se qui non si scambi con una cospirazione nel
senso politico quel naturale accomunarsi nell’azione assembleare di quei membri
che si trovano cospiranti per consenso nelle dottrine, per omogeneità di
interpretazioni storiche e per conseguente identità di intenti. Non è certo da
negare che qualunque corpo di individui adunati per lo stesso titolo ad assolvere
un officio sociale vada soggetto ad influssi. Senza tali influssi esso non può
costituirsi come vero corpo funzionante e passare dallo stato di moltitudine
atomistica a quello di assemblea organica. Tali influssi si esercitarono sempre sui
Concili e non sono un’accidentalità o un vizio, ma appartengono alla struttura
conciliare. Se poi tutti questi influssi siano stati sempre conformi alla natura di
un’assemblea conciliare o se alcuni siano venuti da fuori del Concilio per
usurpazione del politico, non importa qui decidere.
È l’idea stessa di assemblea, qualunque essa sia, che importa non solo la
liceità di tali influssi, ma la necessità loro. L’essere di assemblea, in quanto tale,
nasce infatti quando gli individui della collezione si fondono come un’unità. Ora
che cosa è che opera tale fusione se non l’azione dei reciproci influssi? Certo si
danno nella storia anche influssi violenti e anzi, secondo una scuola che noi
rifiutiamo, sono solo i violenti, cioè non propriamente gli influssi ma le rotture,
quelli che piegano il corso degli eventi. Ma, impregiudicata questa questione,
teniamo per certo che soltanto grazie alla cospirazione un numero di uomini
raccolti in assemblea può trascendere lo stato atomistico ed essere informato da
un pensiero. Un’assemblea conciliare, che è un ceto di uomini ragguardevoli per
virtù, dottrina e disinteressatezza, ha certo un dinamismo diverso che non la
massa popolare, quella che il Manzoni (Promessi Sposi, cap. XIII) chiamava un
corpaccio in cui entrano successivamente opposte anime a farlo muovere o verso
azioni atroci di ingiustizia e di sangue o verso gli opposti consigli della giustizia
e della pietà. Ma che ogni assemblea sia un organismo solo se intervenga quella
cospirazione a differenziare e organare la pluralità, ci pare verità di psicologia e
di storia. E la verità è così patente che il Regolamento interno del Concilio
raccomandava nel § 3 dell’art. 57 che i Padri consenzienti nelle vedute
teologiche e pastorali si associassero in Gruppi per sostenerle in Concilio o farle
sostenere da loro deputati.
44. L’azione papale nel Vaticano II. La «Nota praevia». – Con Giovanni
XXIII l’autorità papale apparve soltanto come desistenza dal preparato Concilio,
con l’effetto radicale che ne venne, e come condiscendenza al movimento che il
Concilio, rotta la continuità con la sua preparazione, volle darsi da sé stesso.
Alcuni decreti particolari, presi da Giovanni XXIII senza parteciparli
all’assemblea, hanno il carattere della singolarità. Tale è l’introduzione di san
Giuseppe nel canone della Messa, nel quale da san Gregorio Magno non s’era
fatta novità. L’introduzione fu tosto vivamente biasimata, sia per i prevedibili
effetti antiecumenici, sia per la sembianza che aveva di seguire una pura
preferenza personale del Pontefice, benché in effetto essa fosse invece
caldeggiata da lunga pezza da vasti ceti della Chiesa. Non ebbe che durata
effimera, precipitando anch’essa nell’Erebo dell’oblìo come altre cose di quel
Papa che dispiacquero al consensus conciliare.
Paolo VI, benché secondasse in generale il moto del Concilio nel senso
ammodernante annunciato nell’allocuzione inaugurale, si trovò a doversi
separare dai sentimenti in esso predominanti e a far uso dell’autonoma autorità
papale in alcuni punti del dibattito.
45. Ancora l’azione papale nel Vaticano II. Interventi sulla dottrina
mariologica. Sulle missioni. Sulla morale coniugale. – Il secondo intervento
papale è sul culto mariano. Come peculiarissimo alla religione cattolica il culto
mariano doveva essere trattato solo perfuntoriamente da un Concilio che aveva
ormai fatta preponderare alle altre la causa unionis. Doveva bastare un capitolo
sulla Madonna, e non occorreva uno schema peculiare, come aveva previsto la
commissione preparatoria. Fin dai primordi infatti il Sinodo si era trovato sotto
gli influssi delle scuole teologiche alemanniche influenzate dalla mariologia
protestante che non si voleva contraddire. Questa, come d’altronde l’Islam,
riserba alla Madonna un’osservanza di pura venerazione, ma respinge il culto
vero e proprio che la Chiesa presta in un grado specialissimo alla Madre di Gesù.
Tra i molti titoli di cui la pietà cattolica ha fregiato la Vergine alcuni, anzi i più,
procedono dalla fantasia poetica e dal vivido sentimento affettuoso delle plebi
cristiane; altri al contrario suppongono o producono un teorema teologico.
L’Incoronazione della Vergine, per esempio, è entrata in stupende creazioni
dell’arte, ma è rimasta fuori della teologia, laddove l’Assunzione è entrata nelle
figurazioni dell’arte e anche nella teologia, essendo infine dogmatizzata da Pio
XII nel 1950. Le ragioni del dogma dell’Assunta si trovano nelle profonde
connessioni ontologiche tra la persona della Madre e l’individuo teandrico.
Tra i molti titoli quello di Madre della Chiesa voleva Paolo VI che fosse
consacrato nello schema sulla Beata Vergine o per lo meno nel capitolo del de
Ecclesia a cui lo schema fu ridotto. Ma non lo voleva l’assemblea. Il titolo è
fondato sulla ragione teo-e antropologica: essendo Maria madre vera del Cristo
ed essendo il Cristo il capo della Chiesa e per così dire la Chiesa contratta (come
la Chiesa, se ci è lecito adottare il linguaggio del Cusano, è il Cristo espanso) il
passaggio da Madre di Cristo a Madre della Chiesa è irreprensibile. Ma la
maggioranza del Sinodo ritenne questo titolo non specificamente diverso da
quelli, ondeggianti tra il poetico e lo speculativo, che sono di incerto significato,
mancano di base teologica e ostano alla causa unionis, e rimostrò contro la
proclamazione. Il Santo Padre allora, con atto di autonoma autorità, procedette
alla proclamazione solenne nel discorso di chiusura della terza sessione il 21
novembre 1964, essendo accolto in silenzio da un’assemblea altrimenti
scorrevole all’applauso.
Poiché il titolo era stato dalla Commissione teologica espunto dallo schema
(nonostante un’imponente raccolta di suffragi in favore) e il vescovo di
Cuernavaca l’aveva addirittura impugnato in aula, l’atto del Papa eccitò vive
rimostranze. Dal fatto traspaiono le interne dissensioni del Concilio e gli spiriti
antipapali della frazione ammodernante. Né si può contro l’evidenza dei fatti
accettare la dichiarazione del card. Bea. Egli aveva ragione di rilevare che,
essendo mancato un voto esplicito dell’assemblea sull’attribuzione o no di quel
titolo alla Vergine, non era legittimo contrapporre la volontà non manifestata del
Concilio alla volontà del Papa autoritativamente espressa. Però, andando oltre
l’argomento, il cardinale tentava addirittura di stabilire consenso tra Papa e
Concilio, arguendo che tutta la dottrina mariologica sviluppata nella
Costituzione conteneva implicitamente il titolo di Mater Ecclesiae. Ma una
dottrina implicita è una dottrina potenziale e chi ricusa di esplicitarla, cioè di
trarla all’atto, dissente certamente da chi invece ne domanda l’esplicitazione. La
dichiarazione del Bea, che stava tra gli oppositori, è soltanto una forma di
ossequio e di riparazione nei confronti del Papa. Riposa su un’argomentazione
sofistica che pareggia l’implicito all’esplicito, e tenta togliere significato ai fatti.
Chi rifiuta di esplicitare una proposizione implicita non ha lo stesso sentimento
di chi la vuole esplicitata, giacché, non volendo esplicitarla, in realtà non la
vuole.
46. Sintesi del Concilio nel discorso di chiusura della quarta sessione.
Confronto con Pio X. Chiesa e mondo. – Il discorso di chiusura di tutto il
Concilio è in realtà quello pronunciato da Paolo VI il 7 dicembre 1965 al termine
della IV sessione, perché quello dell’8 dicembre è soltanto un’allocuzione
salutatoria e ceremoniale. Gli spiriti che avevano dominato appaiono più chiari
che nelle singole manifestazioni papali intercorrenti. Più vi si apprende di quanto
era nella mente di Paolo VI che non si apprenda dai testi conciliari medesimi. Il
documento ha un carattere ottimistico che lo ricongiunge all’allocuzione
inaugurale di Giovanni XXIII: la concordia tra i Padri è «meravigliosa», l’ora
della conclusione è «stupenda». In questa generale colorazione per così dire
eutimica (il Concilio «è molto e volutamente ottimista») si confondono le
singole parti della sinossi papale. Le parti nere, che pure si impongono
all’osservazione del Papa e non vengono taciute, sono investite dai riflessi dello
spirito eutimico. Così la diagnosi dello stato del mondo presente riesce
ultimamente e apertamente positiva. Il Papa riconosce la generale dislocazione
della concezione cattolica della vita e vede «anche nelle grandi religioni etniche
del mondo turbamenti e decadenze non prima sperimentate». In questa pericope
era forse da fare eccezione almeno per l’Islam che conosce in questo secolo
incrementi ed elevazioni nuove. Ma nel discorso appare manifesto il
riconoscimento della tendenza generale dell’uomo moderno alla citeriorità
(Diesseitigkeit) e il progressivo fastidio di ogni ulteriorità e trascendenza
(Jenseitigkeit). Ma, fatta questa esatta diagnosi del moderno vacillamento il Papa
la mantiene nell’ambito puramente descrittivo e non riconosce alla crisi il
carattere di un’opposizione principiale all’assiologia cattolica che è quella
dell’ulteriorità.
Qui vien fatto di domandarsi: rivolta per raggiungerlo o per attrarlo a sé?
Certo l’officio di verità che incombe alla Chiesa discende dall’officio suo di
carità verso il genere umano. Anche la crudezza della correzione dottrinale,
quale fu un tempo esercitata, diviene mostruosa se la si separa dalla carità,
giacché c’è caritas severitatis e caritas suavitatis. Ma la difficoltà consiste nel
non trasgredire la verità per ragione di carità e nell’accostarsi all’umanità
moderna che è in movimento antropotropico, non per secondarne il moto, ma per
invertirlo. Non si danno due centri del reale, ma un centro solo e degli epicicli. E
non so se in questo discorso Paolo VI abbia sufficientemente precisato il
carattere meramente mediativo dell’umanesimo cristiano, giacché la carità non
può far accettare come fine ultimo, nemmeno perfuntoriamente, quello che nella
veduta antropologica è invece proprio il fine ultimo: il trionfo e la teosi
dell’uomo.
Ma detto questo, divien chiaro che lo spirito del Concilio, cioè quello che
giace in fondo ai decreti conciliari e che è come l’apriori del Concilio, non si
identifica certo con la lettera del Concilio, ma neanche però è indipendente dalla
lettera del Concilio. In che cosa infatti si esprime un corpo deliberante se non nel
dispositivo e nel deliberato suo? Perciò l’appello allo spirito del Concilio,
massime da parte di quelli che intendono oltrepassare il Concilio, è un
argomento equivoco e quasi un pretesto per allogare nel Concilio lo spirito
proprio di novazione.
Qui è da osservare che essendo lo spirito niente più che il principio del
Concilio, ammettere in esso pluralità di spiriti equivarrebbe a porre una pluralità
di Concili, definita come ricchezza da alcuni autori. La supposizione che lo
spirito del Concilio sia molteplice può sorgere soltanto dall’incertitudine e dalla
confusionalità che viziano certi documenti conciliari e che occasionano la teoria
dell’oltrepassamento del Concilio ad opera del suo spirito.
Oltrepassamenti franchi sono pure quelli in cui, tenendo in non cale la lettera
del Concilio, si sviluppano le riforme in senso opposto alla volontà legislativa
del Concilio. L’esempio più cospicuo rimane quello della universale
eliminazione della lingua latina dai riti latini, la quale secondo l’articolo 36 della
Costituzione sulla liturgia si doveva conservare nel rito romano e che viceversa
fu di fatto proscritta, celebrandosi dappertutto la Messa nelle lingue volgari, sia
nella parte didattica sia nella parte sacrificale. Vedi §§ 277-83.
49. Ermeneutica neoterica del Concilio. Variazioni semantiche. Il vocabolo
“dialogo”. – La profondità della variazione operatasi nella Chiesa nel periodo
postconciliare si desume anche dagli imponenti cangiamenti intervenuti nel
linguaggio. Taccio della scomparsa dall’uso ecclesiale di taluni vocaboli come
inferno, paradiso, predestinazione, significativi di dottrine che non si trattano
nemmeno una volta negli insegnamenti conciliari. Poiché la parola consegue
all’idea, la loro scomparsa arguisce scomparsa o quanto meno ecclissazione di
quei concetti un tempo salienti nel sistema cattolico.
Alcuni vocaboli che non erano mai stati frequentati nei documenti papali e
stavano relegati in campi circoscritti, hanno acquistato nel baleno di pochi anni
una diffusione prodigiosa. Il più notevole è il vocabolo dialogo, prima ignoto
affatto alla Chiesa. Il Vaticano II lo adoperò invece ventotto volte e coniò la
formula celeberrima che indica l’asse e l’intendimento primario del Concilio:
«dialogo col mondo» (GS, 43) e «mutuo dialogo» tra Chiesa e mondo76. Il
vocabolo diventò un’universale categoria della realtà, esorbitando dall’ambito
della logica e della rettorica in cui era prima circoscritto. Tutto ebbe struttura
dialogica. Si avanzò sino a configurare una struttura dialogale dell’essere divino
(in quanto uno, non in quanto trino), una struttura dialogale della Chiesa, della
religione, della famiglia, della pace, della verità e via dicendo. Tutto diventa
dialogo e la verità in facto esse dilegua nel suo proprio fieri come dialogo. Vedi
più avanti i §§ 151-677.
Sempre nel Sinodo del 1980 sulla famiglia apparve nei gruppi neoterici l’uso
del vocabolo approfondimento. Mentre si ricerca l’abbandono della dottrina
insegnata da Humanae vitae, le si professa intera adesione, ma si domanda che la
dottrina venga approfondita, non cioè confermata con nuovi argomenti, ma
mutata in altra. La profondità consisterebbe nel ricercare e ricercare finché si
approda alla tesi opposta.
51. Caratteri del postconcilio. L’universalità del cangiamento. – Il primo
carattere del tempo postconciliare è quello di un cangiamento generalissimo che
investe tutte le realtà della Chiesa, sia ad intra, sia ad extra. Sotto questo aspetto
il Vaticano II espresse una forza spirituale così imponente da doversi porre in un
posto singolare nella serie dei Concili. Questa universalità della variazione
introdotta pone anche la questione: non si tratta forse di una mutazione
sostanziale, come dicemmo nei §§ 33-5, analoga a quella che in biologia
chiamasi idiovariazione? Si forma la domanda, se non stia attuandosi il
passaggio da una religione a un’altra, come molti, e del ceto chiericale e del ceto
laicale, non si peritarono di proclamare. Se così fosse, il nascimento del nuovo
importerebbe la morte del vecchio, come in biologia e in metafisica. Il secolo del
Vaticano II sarebbe allora un magnus articulus temporum, il colmo di uno dei
giri che lo spirito umano vien facendo nel suo perpetuo ravvolgersi in sé
medesimo. Si può anche porre la questione in altri termini: il secolo del Vaticano
II non darebbe forse la dimostrazione della pura storicità della religione
cattolica o, che è lo stesso, della non-divinità della religione cattolica?
L’ampiezza della variazione si può quasi dire esaustiva81. Delle tre classi di
atteggiamenti in cui si compendia la religione, circa cioè le cose da credere,
circa le cose da sperare e circa le cose da amare non ve ne è alcuna che non sia
stata toccata e tendenzialmente variata. Nell’ordine noologico la nozione di fede
da atto dell’intelletto vien trasposta ad atto della persona e da adesione a verità
rivelate diventa tensione di vita, trasgredendo così nella sfera della speranza (§
164). La speranza abbassa il suo oggetto, divenendo aspirazione e aspettazione
di una liberazione e trasformazione terrestre (§ 168). La carità che, come la fede
e la speranza ha un oggetto formalmente soprannaturale (§ 169), abbassa
similmente il proprio termine volgendosi all’uomo, e già vedemmo nel discorso
di chiusura del Concilio essere l’uomo proclamato condizione dell’amor di Dio.
E non anticipo qui quel che sarà da dire trattando delle novità nelle strutture
della Chiesa, negli istituti del diritto, nei nomi delle cose, nella filosofia e nella
teologia, nella coesistenza alla società civile, nella concezione del coniugio, nelle
attinenze infine della religione con la civiltà in genere.
Sì, ma conviene osservare tre cose. Primo: vi sono anche quelli che gli
Scolastici chiamavano accidenti assoluti, cioè accidenti che non si identificano
con la sostanza della cosa, ma senza dei quali la cosa non è. Tale è la quantità
nella sostanza corporea e tale è nella Chiesa la fede.
Secondo: benché nella vita della Chiesa vi siano parti accidentali, non tutte le
accidentalità possono indifferentemente essere assunte o deposte dalla Chiesa,
giacché come ogni cosa ha certi accidenti e non altri (una nave di cento stadi,
diceva Aristotele, non è più una nave) e come, per esempio, il corpo ha
l’estensione e non la coscienza, così la Chiesa ha certi accidenti e non altri, e ve
ne sono di quelli che non compatiscono con l’essenza sua e la distruggono. Il
perpetuo combattimento storico della Chiesa fu nel rigettare le forme accidentali
che le si venivano insinuando dentro o imponendo da fuori e che avrebbero
distrutto l’essenza sua. Per esempio, il monofisismo non era forse un modo
accidentale di intendere la divinità di Cristo? E lo spirito privato di Lutero non
era forse un modo accidentale di intendere l’azione dello Spirito Santo?
Terzo: le cose e i generi di cose, che dicemmo essere stati investiti dal
cangiamento postconciliare, sono bensì accidenti nella vita della Chiesa, ma gli
accidenti non si devono riguardare come indifferenti, che possano essere e non
essere, essere in un modo o essere in un altro, senza che ne resti mutata l’essenza
della Chiesa. Non è certo qui il luogo di introdurre la metafisica e richiamare il
De ente et essentia di san Tommaso. Pure è necessario ricordare che la sostanza
della Chiesa non sussiste che negli accidenti della Chiesa e che una sostanza
inespressa, cioè senza accidenti, è una sostanza nulla, un nonente. Tutta
l’esistenza storica di un individuo si raccoglie d’altronde dagli atti suoi,
intellettivi e volitivi: ora che cosa sono intellezioni e volizioni se non realtà
accidentali che accidunt, vengono e vanno, sorgono e dileguano? Eppure il
destino morale, di salvazione o perdizione, dipende proprio da quegli accidenti.
Dunque anche tutta la vita storica della Chiesa è la vita di lei nelle accidentalità e
contingenze. Come non riconoscere rilevanti e, si badi, sostanzialmente rilevanti
le accidentalità sue? E i cangiamenti che accadono nelle forme accidentali non
sono cangiamenti, accidentali e storici, dell’immutabile essenza della Chiesa? E
dove tutte tutte le accidentalità cangiassero, come potremmo riconoscere che non
cangiata è la sostanza medesima della Chiesa? Che cosa resta dell’umana
persona, quando tutto il suo rivestimento accidentale e storico vien mutato? Che
cosa resta di Socrate senza l’estasi di Potidea, senza i colloqui dell’agorà, senza i
Cinquecento e la cicuta? Che cosa resta del Campanella senza le cinque torture,
senza la cospirazione di Calabria, senza i tradimenti e i patimenti? Che cosa resta
di Napoleone senza il Consolato, senza Austerlitz e Waterloo? Eppure tutte
queste cose sono gli accidenti dell’uomo. I Platonici che separano le essenze
dalla storia le ritroveranno nell’iperuranio. Ma noi dove?
GS, 30, porta uno dei testi più straordinari a questo proposito. L’officio
morale che deve primeggiare nell’uomo di oggi (dice) è la solidarietà sociale
coltivata con l’esercizio e la diffusione della virtù, «ut vere novi homines et
artifices novae humanitatis exsistant cum necessario auxilio divinae gratiae»84.
Qui conviene rilevare che la teologia cattolica, anzi la fede cattolica, non
conosce che tre novità radicali capaci di innovare l’umanità e quasi
transnaturarla. La prima è difettiva, ed è quella per cui dallo stato di integrità e
soprannaturalità l’uomo decadde a cagione della colpa primordiale. La seconda è
restaurativa e perfettiva, ed è quella per cui la grazia del Cristo ripara lo stato
originario e lo solleva inoltre sopra la costituzione originaria. La terza è quella
completiva dell’ordine intero, per cui alla fine dei secoli l’uomo graziato viene
anche beatificato e glorificato in una assimilazione somma della creatura al
creatore, assimilazione che tanto in via Thomae quanto in via Scoti è il fine
stesso dell’universo. Non è dunque possibile figurare una umanità nuova che,
restando nell’ordine presente del mondo, oltrepassi la condizione di novità in cui
è trasferito l’uomo per la grazia del Cristo. Un tale oltrepassamento è dato sì, ma
nell’ordine della speranza, essendo destinato ad avverarsi nel novissimo
momento di tutte le creature, quando vi saranno una terra nuova e cieli nuovi.
Quarto, perché non si può scambiare l’uscita missionaria della Chiesa nel
mondo con l’uscita della Chiesa fuori di sé stessa. Quest’ultima infatti è un
passaggio dal proprio essere al proprio nonessere, mentre l’altra è l’espansione e
propagazione del proprio essere al mondo. È d’altronde storicamente incongruo
caratterizzare per missionaria la Chiesa contemporanea, che non converte più
nessuno, e negare un tal carattere a quella che in tempi a noi vicini convertì
Gemelli, Papini, Psichari, Claudel, Péguy ecc. Per tacere, naturalmente, delle
missioni di Propaganda fide fiorenti e gloriose sino ad epoca recente.
Il p. Congar ribatte che la Chiesa di Pio IX e Pio XII è finita. Come se fosse
un parlare cattolico il parlare della Chiesa di questo o quel Pontefice o della
Chiesa del Vaticano II, anziché della Chiesa universale ed eterna nel Vaticano II.
E mons. Polge, arcivescovo di Avignone, in OR del 3 settembre 1976, dice in
tutte lettere che la Chiesa del Vaticano II è nuova e che lo Spirito Santo non
cessa di trarla dalla staticità. La novità poi consiste, secondo il presule, in una
nuova definizione di sé, cioè nella scoperta della sua nuova essenza, e la nuova
essenza consiste nell’«aver ricominciato ad amare il mondo, ad aprirsi ad esso, a
farsi dialogo».
Abbiamo già toccato l’impossibilità del nuovo nella base della Chiesa e di
una rinascita della Chiesa che soppianti fondamento a fondamento. L’uomo è
rinato nel battesimo e la sua rinascita esclude una terza nascita che sarebbe un
epifenomeno della rinascita e una mostruosità. Antonio Rosmini la chiama
formalmente un’eresia. Il cristiano è un rinato e soltanto per lui anche la Chiesa
è rinata, e come non c’è per il cristiano ulteriore grado di vita che quello
escatologico, così non si dà per la Chiesa ulteriore grado che quello
escatologico88.
Che non vi siano nella Chiesa mutazioni della base, ma soltanto sulla base, è
suffragato anche dalla prova storica. Tutte le riforme che si operarono nella
Chiesa furono attuate sul fondamento antico e non tentarono un fondamento
nuovo. Tentare un fondamento nuovo è il sintomo essenziale dell’eresia, da
quella gnostica dei primi secoli a quelle catare e pauperistiche dei tempi di
mezzo a quella grandiosa d’Alemagna. Toccherò due casi.
È superfluo quindi allegare la diagnosi che della crisi della Chiesa fanno gli
uomini di fuori, i quali consuonano nel ritenere che la Chiesa abbia «selezionato
nella sua tradizione gli aspetti da porre in prima fila e quelli da modificare
radicalmente» componendosi col mondo moderno92. Questa composizione esige
una dislocazione che il Vaticano II avrebbe avviata, certo non volutamente, verso
l’immanenza, con l’abolizione tendenziale della legge in favore dell’amore, del
logico in favore dello pneumatico, dell’individuale in favore del collettivo,
dell’autorità in favore dell’indipendenza, del Concilio stesso in favore dello
spirito del Concilio93.
Il vescovo francese mons. Ancel addossa alle deficienze della Chiesa gli
errori del mondo moderno perché «aux problèmes réels nous ne fournissons que
des réponses insuffisantes»94. Innanzitutto occorrerebbe precisare di chi tiene le
veci quel pronome nous: noi cattolici? la Chiesa? noi pastori? In secondo luogo è
falso, nel sistema cattolico, che gli errori nascono per difetto di soluzioni
soddisfacenti, perché essi coesistono sempre e ai problemi e alle soluzioni vere
le quali, nelle cose essenziali al destino morale dell’uomo, la Chiesa possiede e
insegna perpetuamente. Ed è strano che quelli che dicono l’errore essere
necessario alla ricerca della verità, dicano poi bustrofedicamente che la ricerca
della verità sia impedita dall’errore. D’altronde l’errore ha la sua responsabilità
autonoma e non si deve caricarla a chi non è nell’errore.
Pierre Pierrard ripudia tutta la polemica sostenuta dai cattolici nel secolo XIX
contro l’anticlericalismo e scrive addirittura che il motto Le cléricalisme, voilà
l’ennemi, tenuto per infernale, i preti lo fanno oggi proprio, essendo quel passato
della Chiesa una negazione del Vangelo95.
Come il peccato dei battezzati non pregiudichi alla santità della Chiesa è
spiegato in Summa theol., III, q. 8, a. 3 ad secundum e nel tridentino
Catechismus ad parochos nella sezione del simbolo, ma rimane nozione
implessa che soltanto una distinzione rigorosa può render chiara. Conviene
infatti distinguere bene l’elemento naturale da quello soprannaturale che produce
la nuova creatura, l’elemento soggettivo da quello oggettivo, l’elemento storico
da quello soprastorico che vi opera dentro.
Queste ragioni e questi fatti non sgombrano però il campo da ogni obiezione.
Paolo VI concede ai denigratori che «la storia della Chiesa ha lunghe e molte
pagine punto edificanti» (OR, 6 giugno 1972), ma troppo debolmente discerne
tra santità oggettiva della Chiesa e santità soggettiva dei suoi membri. E in un
altro discorso usa questi termini: «La Chiesa dovrebbe essere santa, buona,
dovrebbe essere come l’ha pensata e ideata Cristo, e talora vediamo che non è
degna di questo titolo» (OR, 28 febbraio 1972). Sembra che il Pontefice muti in
soggettiva una nota oggettiva. Dovrebbero i cristiani essere santi, e lo sono
inquanto graziati, ma la Chiesa è santa. Non sono i cristiani che fanno santa la
Chiesa, ma la Chiesa i cristiani. D’altronde l’affermazione biblica della santità
irreprensibile della Chiesa «non habentem maculam aut rugam» (Ephes., 5, 27)
conviene solo in maniera parziale e incipiente alla Chiesa nel tempo, che pure è
santa. Tutti i Padri riferiscono infatti quella irreprensibilità assoluta non già allo
stato peregrinale e storico di essa, bensì alla finale purificazione escatologica.
59. La cattolicità nella Chiesa. Obiezione. La Chiesa come principio di
divisione. Paolo VI. – Un altro aspetto della denigrazione della Chiesa mi par
necessario non passare senza rilievo, perché fu toccato da Paolo VI il 24
dicembre 1965. «La Chiesa, con il suo dogmatismo così esigente, così
qualificante, impedisce la libera conversazione e la concordia fra gli uomini;
essa è nel mondo un principio di divisione anziché di unione. Ora la divisione, la
discordia, la contesa come sono compatibili con la sua cattolicità e santità?».
Pareggiare la varietà delle religioni alla varietà delle lingue, delle culture e
perfino dei mestieri abbassa la religione, che è il supremo dei valori, al grado di
valori che, benché superiori nel loro genere, sono di un genere inferiore. E
mentre non esiste un linguaggio vero né un’arte vera né un mestiere vero, cioè
assoluto, esiste invece una religione vera, cioè assoluta. E tuttavia anche
interpretando la divisione come pura distinzione, il Papa non riesce a rimuovere
la difficoltà che egli si obiettava e che già in logica gli si affacciava. Ogni
distinzione infatti può ridurre ma non eliminare l’elemento contraddittorio che
trovasi nei distinti: questo elemento esclude una comunanza perfetta tra i distinti
e include sempre qualche cosa che respinge un distinto dall’altro. Il Pontefice
passava perciò dall’ordine della fede, col suo dogmatismo esigente e
qualificante, all’ordine della carità, anzi della libertà, al «rispetto di quanto c’è di
vero e di onesto in ogni religione e in ogni umana opinione, nell’intento
specialmente di promuovere la concordia civile e la collaborazione in ogni sorta
di buone attività». Non mi addentro sul punto della libertà religiosa. Mi basta
osservare che in quel passo del messaggio il principio di unione tra gli uomini
non è più la religione, ma la libertà, e che quindi risorge illesa l’obiezione che il
Pontefice si proponeva di sciogliere, che cioè il cattolicismo sia principio di
divisione. Occorre infatti a produrre l’unione un principio veramente unitivo,
oltrepassante le divisioni religiose, e questo principio secondo Paolo VI è la
libertà.
60. L’unità della Chiesa postconciliare. – Noi discorriamo delle note della
Chiesa postconciliare avendo per regola di rannodare tutti i fenomeni di
incremento a quello che ci sembra il principio del cattolicismo, l’idea della
dipendenza, e tutti i fenomeni di decremento all’idea opposta di indipendenza.
Lo spirito di indipendenza genera la radicalità dei cangiamenti e la radicalità
coincide a sua volta con l’esigenza di creare un mondo nuovo e l’esigenza
creativa infine genera discontinuità dal passato e denigrazione della Chiesa
storica. Ci tocca adesso vedere gli effetti che lo spirito di indipendenza genera
circa l’unità della Chiesa.
Nel già citato drammatico discorso del 30 agosto 1973 Paolo VI piange su
«la divisione, la disgregazione che purtroppo s’incontra ora in non pochi ceti
della Chiesa» e dice addirittura che «la ricomposizione dell’unità spirituale e
reale all’interno della Chiesa è oggi uno dei più gravi e più urgenti problemi
della Chiesa». La situazione di scisma è tanto più grave, perché quelli che si
dividono pretendono non essersi divisi e quelli cui spetta di dichiarare che i
divisi son divisi aspettano invece che gli scismatici stessi si confessino tali. «Si
vorrebbe» dice il Papa «da costoro legalizzare con ogni pretesa tolleranza la
propria appartenenza ufficiale alla Chiesa, abolendo ogni ipotesi di scisma e di
autoscomunica».
Nel discorso del 20 novembre 1976 il Papa ritorna sulla situazione «dei figli
della Chiesa i quali, senza dichiarare una loro rottura canònica ufficiale con la
Chiesa, sono tuttavia in uno stato anormale nei suoi riguardi». Queste asserzioni
sembrano rivestire di soggettivismo un fatto che spetta alla Chiesa di stabilire,
giacché non basta il sentimento soggettivo di essere unito alla Chiesa per far
sussistere il fatto dell’unione. D’altronde c’è nella Chiesa un organo, con
funzione oggettiva, che sa quando l’unità è scissa e che deve, quando sia
necessario, dichiararlo e non già limitarsi a confermare la dichiarazione di chi si
sente scisso. Il Papa esprimendo il suo «grande dolore per il fenomeno che si
diffonde come un’epidemia nelle sfere culturali della nostra comunità
ecclesiale», usava certo una locuzione elusiva e diminuente, giacché il fenomeno
tocca in realtà anche la sfera gerarchica, e la formazione di gruppi isolati e
autocefali è consentita da vescovi e da conferenze episcopali. Il Papa deriva poi
la disunione della Chiesa dal pluralismo: questo dovrebbe contenersi nell’ambito
delle modalità onde si formula la fede, ma trapassa invece nell’ambito della
sostanza della fede; dovrebbe contenersi nell’ambito dei teologi, ma trapassa
invece ai vescovi tra loro dissenzienti. Nel medesimo discorso il Papa vede
anche distintamente essere impossibile che una Chiesa disunita faccia l’unione
tra tutti i cristiani o addirittura tra tutti gli uomini.
Paolo VI, sempre nel discorso del 29 novembre 1973, riferendosi a quelli che
pretendono farsi Chiesa (come sogliono dire) col solo credere di essere Chiesa,
fa della situazione scismatica questo giudizio leniente: «Alcuni difendono questa
ambigua posizione con ragionamenti per sé plausibili, cioè con intenzione di
correggere certi aspetti umani deplorevoli e discutibili della Chiesa, ovvero di far
progredire la sua cultura e la sua spiritualità, oppure di mettere la Chiesa al passo
con la trasformazione dei tempi, e così interrompono quella comunione alla
quale vogliono rimanere congiunti». Singolare è in questo passo paolino
l’identificazione dei ragionamenti plausibili con le intenzioni di emendare la
Chiesa, come se le intenzioni potessero rettificare un ragionamento falso quale è
quello di chi pretende essere nella Chiesa indipendentemente dalla Chiesa, e
come se ogni diserzione dall’unità ecclesiale dovesse essere consaputa e
convalidata dai disertori per produrre davvero scisma nella Chiesa. Non è
attitudine storicamente frequente che, in collisioni di questo genere, chi si separa
neghi di essere separato e anzi affermi di essere più unito con la Chiesa che la
Chiesa con sé stessa? Non appartiene lo scismatico alla Chiesa vera, come dice,
da cui la Chiesa cattolica in qualche modo si separa?
Mons. Riobé, vescovo di Orléans, nel 1974 prese apertamente le difese dei
cappellani catecumenali di Francia che la Conferenza episcopale e il card. Marty
avevano espressamente riprovati (ICI, n. 537, 1979, p. 49). Il card. Döpfner
avendo concesso la basilica monacense di San Bonifacio per rappresentarvi Ave
Eva oder der Fall Maria in vituperio della Madonna, ebbe pubblicamente
biasimi e proteste da mons. Graber, vescovo di Regensburg. Mons. Arceo,
vescovo di Cuernavaca, venne sconfessato dalla Conferenza episcopale del
Messico per aver sostenuto essere il marxismo una componente necessaria del
cristianesimo («Der Fels», agosto 1978, p. 252). Mons. Simonis, vescovo di
Rotterdam, abbandona la sessione del Terzo colloquio pastorale olandese, cui i
confratelli continuano ad assistere connivendo alle proposte di ordinare femmine
e uomini uxorati («Das neue Volk», 1978, n. 47), mentre mons. Gijsen, vescovo
di Roermond, si separa effettualmente dal resto dell’episcopato olandese
istituendo un seminario proprio e rifiutando la nuova pedagogia per la
formazione del clero. Avendo mons. Simonis dichiarato che l’affermazione,
secondo cui la Chiesa cattolica è soltanto una parte della Chiesa, è erronea,
mons. Ernst, vescovo di Breda, lo smentisce e mons. Groot afferma che la
dottrina di mons. Simonis «est carrément en opposition avec l’enseignement du
Vaticane II» (ICI, n. 449, 1974, p. 27).
Nelle attinenze con la politica i vescovi di una medesima nazione sono
spesso discordi. Così per le elezioni presidenziali del Messico del 1982 la
maggioranza raccomandava un candidato mentre una forte minoranza stava per
quello di un partito opposto (ICI, n. 577, 15 agosto 1982, p. 53).
L’episcopato tedesco, che era stato in genere per gli anticoncettivi, aderisce
all’insegnamento di Paolo VI, ma, argomentando dal carattere non infallibile del
documento, concede ai fedeli di dissentire in teorica e in pratica e rimanda
ultimamente al lume privato della coscienza, «purché il dissenziente si chieda in
coscienza se può permettersi un tal dissenso in modo responsabile davanti a
Dio»111. Secondo i vescovi tedeschi il rifiuto «non significa fondamentale rifiuto
dell’autorità papale». Non significa forse, osserviamo, rifiuto del fondamento
dell’autorità, ma senza dubbio rifiuto degli atti concreti di quell’autorità. Ma del
dissenso nella Chiesa della Germania si ebbe una manifestazione clamorosa al
Katholikentag di Essen nel settembre 1968: quell’assemblea discusse e votò a
schiacciante maggioranza (cinquemila contro novanta), alla presenza del legato
pontificio card. Gustavo Testa e di tutto l’episcopato nazionale, tra voci clamanti
le dimissioni del Papa, una risoluzione per la revisione dell’enciclica. Al grave
atto di rifiuto rispondeva OR del 9 settembre facendo noto un messaggio del
Papa che richiamava i cattolici tedeschi alla fedeltà e all’obbedienza (RI, 1968,
p. 878). Il rifiuto dell’enciclica si continuò tuttavia col Sinodo svizzero ‘72, col
sinodo germanico di Würzburg e colla Dichiarazione di Königstein. Il quotidiano
maggiore del cattolicismo elvetico «Das Vaterland» non dismette né rimette sino
ad oggi la contestazione. D’altronde la divisione dei cattolici di Germania tra di
loro e dalla Sede romana si continua e si appalesa sempre più. Il Katholikentag
del 1982 ebbe un contrapposto parallelo e simultaneo in un Katholikentag detto
di base, che riuniva cattolici dissenzienti. Questi cattolici rivendicano la
promiscuità eucaristica, il sacerdozio delle donne, l’abolizione del celibato dei
preti e celebrano una Messa diversa (ICI, n. 579, pp. 15 sgg, ottobre 1982.
Secondo la rivista ci sono in Germania due tipi di cattolici che credono di
costituire un solo tipo).
64. Lo scisma olandese. – La forma più acuta della disunione della Chiesa
presero i dissensi della Chiesa olandese115, partecipati dalla maggioranza di quei
vescovi e venuti a mettere in forse l’autorità del Papa quando non si eserciti
collegialmente. In generale dopo il Concilio la Chiesa allentò il vincolo unitario,
non solo là dove era troppo stretto, ma anche là dove, congiungendo a sé le
Chiese particolari, anche le congiungeva tra di loro. Essa disconobbe quel
grande assioma di tutta l’arte politica che vuole tanto più forte il momento
dell’autorità quanto più grande è la mole da reggere e quanto più diversificato è
il complesso in cui conservare l’unità. Questa massima principale della scienza
politica fu enunciata e praticata dagli antichi. Tacito, Hist., I, 16, fa dire a Galba,
nell’atto di adottare per successore Pisone, che la gran mole dell’impero non
poteva restare in equilibrio senza un unico reggitore. D’altronde la
giustificazione storica del passaggio di Roma dalla repubblica alla monarchia fu
generalmente ricavata da questa esigenza. Anche Paolo VI, all’apertura della
terza sessione del Concilio il 14 settembre 1964, dichiarò che «l’unità della
Chiesa è tanto più bisognosa di una guida centrale, quanto più vasta diventa la
sua estensione cattolica». Ma l’attuazione del difficile principio di collegialità
entrava in collisione con quello della centralità che unifica le varietà nell’atto
medesimo che le preserva e le fa sussistere là dove è il loro luogo, cioè
nell’organicità del corpo ecclesiale.
A una tale denuncia di errori toccanti qualche volta l’essenza della Chiesa,
come la negazione del sacerdozio sacramentale e del primato petrino, il Papa
mette come conclusione nell’originale francese queste parole: «Notre
responsabilité de Pasteur de l’Eglise universelle Nous oblige à vous demander en
toute franchise: que pensez-vous que Nous puissions faire pour vous aider, pour
renforcer votre autorité, pour vous permettre de surmonter les difficultés
présentes de l’Eglise en Hollande?». Certo l’antecedente denuncia fatta dal Papa
dell’attacco degli Olandesi, consenzienti o conniventi i vescovi, ad articoli
essenziali del sistema cattolico esigeva che i vescovi fossero invitati a
riaffermare la fede della Chiesa su quei punti, ma invece di esigere tale
riaffermazione Paolo VI offre ai vescovi olandesi il suo servizio per aiutarli a
rafforzare la loro autorità, mentre in effetti non la loro, ma la propria veniva
disconosciuta: per aiutarli (dice) a superare le difficoltà della Chiesa d’Olanda,
mentre si tratta di difficoltà della Chiesa universale. Le parole con cui il Papa si
rivolge al card. Alfrink converrebbero di più se fossero rivolte a un avversario
dello scisma. Un suono singolare rendono anche le parole con cui il Papa
conforta sé stesso dicendosi «corroborato dall’appoggio di tanti fratelli
dell’episcopato». Dura cosa è per il Papa non poter dire tutti e doversi
appoggiare soltanto sul gran numero, che non è un principio in nessun ordine di
valori morali.
Allo snervamento della sua potestà Papa Montini era inclinato da una
disposizione dell’indole sua, confessata nel suo diario intimo e confidata al
Sacro Collegio nel discorso del 22 giugno 1972 per il IX anniversario della sua
elevazione: «Forse il Signore mi ha chiamato a questo servizio non già perché io
vi abbia qualche attitudine, o perché governi e salvi la Chiesa dalle sue presenti
difficoltà, ma perché io soffra qualche cosa per la Chiesa e sia chiaro che Egli,
non altri, la guida e la salva». La confessione è notabile116. Esorbita da ogni
aspettazione, sia in linea storica sia in linea teologica, che Pietro, deputato da
Cristo a condurre la nave della Chiesa (governare infatti è un traslato dal nautico
pilotare), appaia ritroso a un tal servizio e si rifugi nel desiderio di patire per la
Chiesa. L’officio papale infatti prescrive un servizio di operazione e di governo.
L’atto del governare è estraneo all’indole e alla vocazione di Montini: l’uomo
non trova nel proprio fondo il modo per unire la sua anima al proprio destino:
«peregrinum est opus eius ab eo» (Isai., 28, 21)117. Inoltre nel lasciar prevalere le
propensioni dell’indole alle prescrizioni dell’officio il Papa sembra ravvisare un
maggior esercizio di umiltà nel patire che non nell’operare per l’officio. Non so
se un tal pensiero sia fondato: è certo che proporsi di patire per la Chiesa sia
maggior umiltà che accettare di operare per la Chiesa?
L’avere il Papa riguardato l’officio suo come quello di chi dà regole direttive,
ma non comanda con regole precettive, produce poi in lui la persuasione che
nell’assolvere il compito direttivo si assommi il compito di Pietro. Questo appare
distintamente nella lettera all’arcivescovo Lefèbvre (OR, 2 dicembre 1975). In
essa il Papa, riconosciuta la grave condizione della Chiesa travagliata dalla
caduta della fede, dalle deviazioni dogmatiche e dal rifiuto della dipendenza
gerarchica, riconosce parimenti che spetta anzitutto al Papa di «individuare ed
emendare» le deviazioni, e tosto proclama di non aver cessato mai di levare la
voce rifiutando tali sfrenati ed eccessivi sistemi teorici e pratici. Ed infine
protesta: «Re quidem vera nihil unquam nec ullo modo omisimus quin
sollicitudinem Nostram servandae in Ecclesia fidelitatis erga veri nominis
Traditionem testificaremur»118. Ora, tra le parti integranti del supremo officio
furono sempre noverati gli atti di governo, cioè di potestà iussiva ed obbligante,
senza dei quali l’insegnamento stesso delle verità di fede rimane pura
enunciazione teoretica e di scuola. Per mantenere la verità occorrono due cose.
Prima: rimuovere l’errore in sede dottrinale, il che si fa confutando gli
argomenti dell’errore e dimostrando che non concludono. Seconda: rimuovere
l’errante, cioè deporlo dall’officio, il che si fa per atto autoritativo della Chiesa.
Se questo servizio pontificale vien meno, sembrerebbe non potersi dire che tutti i
mezzi sono stati adoperati per mantenere la dottrina della Chiesa: si verifica una
breviatio manus Domini. Si diffonde allora, senza incontrare sufficiente
impedimento, un concetto minorato dell’autorità e dell’obbedienza, cui
corrisponde un concetto maggiorato della libertà e dell’opinabilità.
69. Carattere di Paolo VI. Autoritratto. Card. Gut. – Sul carattere di Paolo
VI si disputa in infinitum. Ad alcuni sembra che Papa Montini fosse un’indole
perplessa per soverchia ampiezza di vedute. Se l’atto della decisione, secondo la
profonda teorica di san Tommaso, è un atto di troncamento della contemplazione
che l’intelletto fa delle diverse possibilità di azione, è manifesto che quanto più
sono le possibilità contemplate, cioè quanto più ampia è la veduta dell’intelletto,
tanto più tardi sopravviene l’atto che decide, cioè taglia. Questa è, per esempio,
l’interpretazione che del carattere di Paolo VI dà Jean Guitton (op. cit., p. 14) e
riprenderebbe quella data da Giovanni XXIII. Ma secondo altri non di carattere
si tratta, ma di un ampio disegno perfettamente fermo nella mente del Papa.
Mirando a un’accomodazione della Chiesa allo spirito del secolo allo scopo di
prendere la direzione dell’intera umanità in un ordine puramente umanitario,
Paolo VI procederebbe cautamente ora volgendosi da un lato ora dall’opposto,
non coatto ma volente, e sempre nella direzione del prefisso fine. Secondo altri
infine sussiste nella mente del Papa il disegno che dicemmo, ma il procedere per
contrapposti sarebbe dovuto alla spinta delle circostanze. Tale interpretazione
sembrerebbe confermata dall’autoritratto che Paolo VI delineò il 15 dicembre
1969, ripigliando una similitudine nautica di san Gregorio Magno. Il Papa
rappresenta sé stesso come un pilota che ora taglia con la prora per diritto i
cavalloni, ora ne schiva l’assalto per obliquo, piegando il fianco della nave, e
sempre è turbato e forzato. Evidentemente anche in ciascuna di queste
interpretazioni l’azione papale è piegata dalle circostanze e contiene una frazione
di passività (come ogni umano operare), ma nella terza interpretazione questa
frazione è prevalente e sigilla il carattere del pontificato.
Il caso più evidente della frammentazione del rito cattolico per effetto della
desistente autorità è la quasi totale scomparsa delle rubriche precettive e lo
spesseggiare delle formule puramente raccomandative e desiderative, nonché la
moltiplicazione delle possibilità alternative: il celebrante farà un certo gesto o
non lo farà o ne farà un altro a seconda delle opportunità di tempo e di luogo,
che, tranne qualche caso, sono abbandonate al suo apprezzamento. Si aggiunga
che, essendo stato devoluto ai vescovi un gran numero di facoltà prima riservate
alla Santa Sede, essi sono arbitri del modo di applicarle, e così si generano nuove
discrepanze tra nazione e nazione, tra diocesi e diocesi e persino tra parrocchia e
parrocchia. Questa discrepanza si vede, per esempio, nell’uso
dell’autocomunione, licenziata con decreto generale, praticata in certe nazioni,
quasi imposta in altre, vietata viceversa in altre126.
Il sic della legge combinato col non della desistente autorità si configura
talvolta in forme paralogistiche, come si vede, per esempio, in «Notitiae»,
bollettino della Commissione per la riforma liturgica, del 1969, p. 351, che
pubblica contemporaneamente una Instructio vietante e un decreto permettente il
medesimo.
Tutta la riforma della disciplina cela il principio dello spirito privato che si
trova immediate di fronte alla legge, senza mediazione di autorità, e cui si
riconosce a priori quella maturità che secondo la disciplina antica era invece
proprio lo scopo della Chiesa in tutta la sua attività legislatrice. Ed è palese la
transizione fatta dall’ordine precettivo e proibitivo all’ordine puramente direttivo
ed esortativo che riprende l’errore, ma non riprende l’errante, supponendo, come
fu preconizzato nel discorso inaugurale del Concilio, che l’errore generi da sé
stesso dentro di sé la confutazione propria e la persuasione degli opposti veri.
Quanto allo scriver libri la Chiesa del postconcilio non credette di scendere
sino a una tale libertà e si riservò ancora di giudicare, in vista del bene pubblico,
dell’ortodossia degli scritti. Essa infatti oltre il dovere d’insegnare integra e pura
la dottrina, ha quello di preservare dall’errore i membri del consorzio ecclesiale.
Tale secondo dovere fu altamente proclamato nel discorso inaugurale (vedi §
40), ma fu fatto coincidere col primo: basta che la Chiesa insegni e il cristiano
preserverà sé stesso dall’errore, essendo egli reputato capace di dirigersi col suo
retto lume.
Le chiose che l’autore faccia al suo libro, una volta uscito, non mutano la
natura del libro. Quand’anche per impossibile la mutassero facendo risultare il
libro irreprensibile, non se ne dovrebbe tenere, quanto al libro, nessun conto. La
ragione è manifesta. Le chiose giustificanti fatte dall’autore post editum librum
non possono accompagnare il libro dovunque vada e questo corre il suo destino
senza compagnia: Parve sine me, liber, ibis in urbem129.
Ma per tornare alla riforma del Santo Officio, l’intenzione dell’autore non
può fare che le parole scritte, se esprimono l’errore, non esprimano l’errore. La
certezza del senso delle parole è il fondamento di ogni comunicazione tra
uomini. Non si tratta di giudicare lo stato di una coscienza, ma di conoscere il
senso delle parole. E non è punto vero che nell’esame che si faceva di un libro in
Santo Officio non si riguardasse ogni aspetto del libro. Ma appunto si riguardava
ogni aspetto del libro, non le intenzioni dell’autore. E non si oppongano le
lunghe replicate visite dell’Inquisizione a Giordano Bruno tra il 1582 e il 1600,
perché lì non si dialogava per conoscere il vero senso dei libri del filosofo, ma si
ricercava la penitenza e la ritrattazione di lui. Già Benedetto XIV (e credo che la
pratica durasse) volle che un consultore prendesse ex professo le difese del libro,
non già lumeggiando le intenzioni dell’autore, ma interpretando le parole del
testo nel loro proprio senso. Le accuse mosse dunque all’antica procedura
nascono dal misconoscere la natura oggettiva e in sé di ogni scritto e insomma
da un difetto di arte critica130.
Qui però il soggetto del nostro discorso è la variazione della Curia nel suo
funzionamento tecnico e formale. E in primo luogo è da notare la degradazione
della latinità curiale. Non occorre risalire allo stile adamantino e tagliente dei
documenti di Gregorio XVI o a quello elegante di Leone XIII, per avvertire nel
confronto la perdita di nobiltà, di perspicuità e di acribia dello stile curiale. Il
latino del Vaticano II fu sovente deplorato come miserando dai Padri che pure
approvavano il contenuto dei documenti. D’altronde qualcuno dei testi
principali, come la Gaudium et spes, fu in parte redatto primieramente in
francese violando il canone dello stile curiale, che tiene per originale e autentico
il testo latino, e generando quelle incertitudini dell’ermeneutica che già
toccammo al § 39.
Altrove, parlando del fortuito che tronca talora i disegni degli uomini, il Papa
citò dal cap. VII del Principe di Machiavelli le parole del Valentino il quale
(disse il Papa) «a tutto aveva pensato fuorché al caso che egli dovesse
inaspettatamente morire». Ora, l’imprevisto non fu che avesse egli a morire
(come avrebbe potuto narrarlo?), ma che egli si trovasse quasi moribondo (ma
non morì) proprio nei giorni in cui moriva Alessandro VI ed egli aveva divisato
di impadronirsi dello Stato.
In un altro discorso il Papa afferma che «al Concilio era parso bene di
riprendere il termine e il concetto di collegialità». Ora, quel termine non si trova
in nessun testo del Concilio132 e il Papa avrebbe bene potuto introdurvelo, ma
non può però fare che esso ci sia mentre invece non c’è. Nel discorso del 9
marzo 1972 il Papa parla del dono della libertà «che l’uomo a Dio fa simigliante
(cfr. Par., I, 105)», ma cade in un lapsus, perché in quel luogo Dante non parla
della libertà, ma dell’ordine del mondo che, essendo un’idea del divino intelletto
impressa nella creazione, rende il creato simile al creatore.
Di più, cosa che appare davvero strana, il circiterismo si estende anche alle
citazioni della Scrittura. Il 26 luglio 1970 il Papà citò Gal., 5, 6 come se dicesse
che «la fede rende operante la carità», mentre san Paolo dice l’opposto, che cioè
la carità rende operante la fede, come correttamente fu tradotto l’identico passo
in un altro discorso del 3 agosto 1978.
Il peso che questi circiterismi hanno a scemare la stima, che tuttavia si deve
alla Curia romana, non è certo da misurare agli apprezzamenti e alle inclinazioni
che ciascuno abbia verso quel rispettabile istituto del Papato. Ma il vero si è che
il contingente difetto riscontrato nei collaboratori che assistono il Papa, la cui
persona è in qualche modo l’intero organismo culturale della Chiesa cattolica, è
tanto più increscioso, quanto più irreprensibile dovrebbe essere la Sede suprema.
E giova rilevare che se Paolo VI non ebbe avvertite le non immaginarie
deficienze dei suoi collaboratori nello stendere documenti, nell’apparecchiare la
traccia e la selva dei discorsi e nel ricercare autori e citazioni, egli ebbe però
chiara l’idea della perfezione richiesta nel lavoro di chi collabora col Papa. Disse
infatti a Jean Guitton: «La moindre inexactitude, le moindre lapsus dans la
bouche d’un Pape ne peut se tolérer» (op. cit., p. 13).
75. La desistenza della Chiesa nei rapporti con gli Stati. – La desistenza
dell’autorità, che abbiamo indagata ad intra della Chiesa approfondendo la
riforma del Santo Officio, si manifesta altresì nei rapporti con gli Stati sotto
forma di una condiscendenza con cui la Chiesa partecipa al generale processo
che volge alla distensione internazionale. La cosa è manifesta, ma noi non ci
addentreremo in una materia che non spetta direttamente a un libro come questo
e che ci porterebbe a lumeggiare qualche fatto famoso. Alludiamo
massimamente alla rimozione del cardinale Giuseppe Mindszenty dalla sede
primaziale d’Ungheria, alla volontaria umiliazione della legazione pontificia
durante le celebrazioni del 1971 per l’insediamento del nuovo Patriarca
ortodosso, quando il card. Willebrands e tutta l’ambasceria papale ascoltarono
senza motto o atto di rimostranza le accuse mosse alla Chiesa romana.
Alludiamo infine alle dimostrazioni di simpatia di Paolo VI verso la Chiesa
cattolica scismatica della Cina, che Pio XII aveva invece condannato in due
lettere encicliche del 1956. Ci estenderemo però alquanto sul più sintomatico
degli atti che manifestano l’atteggiamento desistente della Chiesa verso lo Stato
moderno.
La revisione del Concordato italiano del 1929 è nei rapporti tra le due potestà
il fatto che più spiccatamente esprime la variazione fatta dalla Chiesa cattolica
nella sua filosofia e nella sua teologia. L’intacco dei principii era già stato
preannunciato nelle more del lungo negoziato in un articolo dell’OR del 3
dicembre 1976 in cui si dichiarava che per attestare la propria disponibilità la
Chiesa sarebbe calata sino a sacrificare i principii. I nuovi patti restringono in
soli 14 articoli le materie che quelli del 1929 contenevano in più di 40. Questo
assottigliamento arguisce di per sé stesso che molte materie di natura mista sono
state abbandonate alla potestà civile, rinunciando la Chiesa ad avervi voce. Le
variazioni decisive sono tre. La prima è fissata nell’art. I del Protocollo
addizionale e suona così: «Si considera non più in vigore il principio,
originariamente richiamato dai Patti lateranensi, della religione cattolica come
sola religione dello Stato italiano» (RI, 1984, p. 257). Questo dispositivo del
nuovo patto implica l’abbandono del principio cattolico secondo il quale
l’obbligazione religiosa dell’uomo oltrepassa l’àmbito individuale e investe la
comunità civile: questa deve, come tale, aver un riguardo positivo verso la
destinazione ultima dell’umana convivenza a uno stato di vita trascendente. Il
riconoscimento del Nume è un dovere non pure individuale, ma sociale. Anche
se si vuol respingere l’antico dettato come non consentaneo all’indole dei tempi,
restava sempre possibile la sua assunzione in linea storica. Anche cioè
prescindendo dal valore ultrastorico che la religione pretende, restava possibile
assumere quel valore come parte integrante e informante della vita storica della
nazione italiana alla stessa stregua della lingua, dell’arte e della cultura. È la tesi
insegnata da Paolo VI (§ 59) il quale fa della religione un carattere della società
civile non divisivo, ma distintivo. Conviene anche notare che a un così grande
consenso della Chiesa all’emancipazione dell’assiologia civile dai principii
religiosi una maggiore finezza della diplomazia vaticana avrebbe trovato modo
di dare un’espressione meno aperta. Si sarebbe potuto stabilire non già che quel
principio «si considera non più in vigore», bensì che «la Santa Sede prende atto
che lo Stato italiano dichiara di non considerarlo più in vigore». La variazione di
sostanza è manifesta: oggi la Chiesa chiama laicità quello che ieri chiamava
laicismo e condannava come agguagliamento illegittimo di atteggiamenti
diseguali.
79. La defezione dei sacerdoti. – Contro il fatto della defezione dei preti
statisticamente provato138 e dappertutto appariscente, non poté molto la
repugnanza paolina alla tristezza per i fatti tristi della Chiesa. In due discorsi
Paolo VI entrò nell’argomento spinoso e doloroso. Nell’allocuzione del giovedì
santo del 1971 rievocando il dramma pasquale dell’uomo-Dio, disertato dai
discepoli e tradito dall’amico, il Papa fece transizione da Giuda all’apostasia dei
preti. Premise che «bisogna distinguere caso da caso, bisogna comprendere,
bisogna compatire, bisogna perdonare, bisogna attendere, e sempre bisogna
amare». Ma poi chiamò i defezionanti o apostatanti «infelici o disertori», parlò
di «vili motivi terreni» che li guidano, deplorò la loro «mediocrità morale che
vorrebbe trovare naturale e logico infrangere una propria promessa lungamente
premeditata» (OR, 10 aprile 1971). Il cuore del Papa è affannato dall’evidenza
dei fatti e non potendo togliere reità all’apostasia, la decolora alquanto, dicendo
per esempio «infelici o disertori». Ma chi non vede che la diserzione non è in
alternativa con l’infelicità e che i lapsi sono infelici perché disertori?
La crisi del clero ha dato luogo a spiegazioni che prendono al solito non
causas pro causis adducendo il sociologico e lo psicologico in luogo del morale.
L’etiologia del fenomeno è infatti eminentemente spirituale e interessa un
duplice ordine. In primo luogo e in linea puramente naturale vi ha un
abbassamento del valore della libertà, ritenuta incapace di legarsi in modo
assoluto a qualche cosa di assoluto e capace al contrario di slegare ogni legame.
È, come si intende subito, non dico l’identico, ma l’analogo del divorzio. Anche
il divorzio si fonda sull’impossibilità della libertà umana di legare sé stessa
senza condizione, cioè sulla negazione dell’incondizionato.
E conviene rilevare per giunta che molti preti, sotto il coperto dell’autorità
che vien loro dall’ordinazione, predicano come kerygma evangelico e come
dottrina della Chiesa fluttuanti e meteore opinioni proprie, predicano cioè sé
stessi o qualcosa di sé stessi. Consumano in tal modo un abuso tipicamente
clericalesco e ben noto nella storia, esercitato un tempo per effetto di confusione
del politico col religioso, ma oggidì per effetto di distacco dalla dottrina e con la
mira di riformare il dogma e dislocare le strutture della Chiesa.
Non soltanto dunque hanno i preti l’autorità che loro compete in forza
dell’ordinazione, ma essi in actu exercito la ampliano oltre misura arrogando al
loro ministero un’autorità indebita con cui tentano rivestire le loro private
opinioni.
Conviene osservare inoltre che la rivendicazione del prete per una più ampia
facoltà «a determinare la propria situazione» (ma qual uomo mai lo può?)
arguisce una debilitazione della fede e del conseguente senso della dignità
sacerdotale. Chi ha il potere di produrre sacramentalmente il corpo del Signore e
di rimettere i peccati, mutando il cuore degli uomini, come può sentirsi minore e
non pienamente responsabile, senza patire oscurazione d’intelletto ed ecclissi
della fede? Questo sentimento di inferiorità nasce dall’essersi il prete spogliato
del senso essenziale del sacerdozio, che è di dare il sacro agli uomini, e dal
prendere lo stato sacerdotale alla stregua di ogni altro stato, come quello cioè in
cui l’uomo ricerca la propria realizzazione e la propria promozione nel mondo.
82. Critica della critica del sacerdozio cattolico. Don Mazzolari. – Dicono: il
prete soffre perché è in mezzo a un mondo indifferente e ostile che non si apre
alla sua azione e che gli passa accanto senza incontro. In verità il motto del
Salmista con cui fu inaugurato il Concilio Vaticano I non si conviene al prete
contemporaneo: «Euntes ibant et flebant mittentes semina sua, venientes autem
venient cum exsultatione portantes manipulos suos» (Ps., 125, 6)144. I preti del
presente secolo piangono seminando e piangono tornando, perché non ci sono
per loro i manipoli che allietano il cuore. Certo la posizione del prete è difficile,
ma è una difficoltà primordiale e costitutiva, né gli Apostoli ne ebbero altra né
altra fu promessa loro. Ed è cosa che stride il fare una querela speciale di questa
dissidenza tra il sacerdozio e il mondo, mentre poi si accusano di trionfalismo i
secoli di grande fede in cui tale dissidenza non era sentita a questo modo, non
perché non ci fosse, ma perché era assorbita nell’armonia generale del mondo
umano.
Don Mazzolari osserva che «il prete soffre di dover predicare parole che sono
più alte della sua vita e che lo condannano». Ma questa è la condizione
costitutiva non solo del prete, ma di ogni uomo, di fronte alla legge morale,
nonché alla legge evangelica. Basta riconoscere la distinzione tra l’ordine ideale
e l’ordine reale (necessaria alla moralità giacché la moralità è l’unione
tendenziale di quei due ordini) per riconoscere che nessuno può predicare le
verità morali a titolo personale; di nessuno la virtù pareggia l’altezza della
dottrina. Appoggiare la predicazione morale altrove che sul titolo della verità
supporrebbe di voler misurare la validità della predicazione dalla perfezione del
predicante (come portava l’eresia di Huss). Così la predicazione diventerebbe
impossibile. Se il titolo del prete per predicare fosse un’altezza morale
pareggiante la dottrina, ogni prete, anche il più santo, si asterrebbe dal predicare.
Invece «è necessario che molti, che tutti predichino una morale superiore ai loro
fatti. Il ministero... fa che uomini deboli e che in fatto cedono talvolta alle
passioni, predichino una morale austera e perfetta. Nessuno può tacciarli di
ipocrisia, perché parlano per missione e per convincimento, e confessano
implicitamente e talvolta esplicitamente d’essere lontani dalla perfezione che
insegnano... Accade purtroppo talvolta che la predicazione discende al livello dei
costumi, ma questo è un inconveniente: senza il ministero sarebbe un
sistema»145. L’inadeguanza dunque che è nella vita del sacerdote è solo un caso
dell’inadeguanza che è nella vita di tutti gli uomini rispetto all’ideale. E la
conseguenza che se ne deve trarre è l’umiltà, non l’angoscia della superbia.
84. Critica dell’adagio “il prete è un uomo come tutti gli altri”. – Ma la
confusione teologica è diventata un luogo comune della opinione popolare,
causa in parte e in parte effetto delle dottrine di taluni autori molto diffusi.
Questa opinione tiene che il prete è un uomo come tutti gli altri. L’asserto è
superficiale e falso tanto in linea teologica quanto in linea storica. In linea
teologica, perché urta contro il dogma del sacramento dell’ordine, che alcuni
cristiani ricevono e altri no, differenziandoli ontologicamente e, per
conseguenza, funzionalmente. In linea storica, nella comunità civile non tutti gli
uomini sono eguali, tranne che nell’essenza quando la si riguardi in astratto e
non in concreto dove essa trovasi differenziata. Dire: il prete è un uomo come
tutti gli altri (non preti) è altrettanto anzi molto più falso che dire: il medico è un
uomo come tutti gli altri (non medici). No, non è un uomo come tutti gli altri, è
un uomo-prete. Non tutti sono uomini-preti come non tutti sono uomini-medici.
Basta badare a quel che la gente fa, per accorgersi che tutti fanno differenza tra
un medico e un non-medico, tra un prete e un non-prete. In qualche frangente
chiamano il medico, in qualche altro il prete. I neoterici fissandosi sull’identità
astratta della natura umana rigettano il carattere soprannaturalmente speciale che
il sacerdozio introduce nella specie umana e per il quale il prete è separato:
«Segregate mihi Saulum et Barnabam» (Act., 13, 2).
Che il prete sia segregato dal mondo è lamento infondato. In primo luogo
perché egli è separato, come il Cristo separò gli apostoli suoi, proprio per essere
mandato nel mondo. E il plus che l’ordinazione sacramentale mette nell’uomo
separato era fino a tempi recenti così noto a tutti che fin le locuzioni popolari, in
lingua e in vernacolo, lo attestano. Distinguono infatti l’uomo-sacerdote dal suo
sacerdozio e si guardano dall’offendere il sacerdote anche quando vogliono
offendere l’uomo e tengono separato l’uomo dalla veste (presa come segno del
sacerdozio) e da «quello che egli ministra», il sacro appunto.
In secondo luogo la separazione del clero dal mondo nel senso lamentato dai
neoterici non trova nessun suffragio nella storia. Tanto il clero detto secolare
quanto quello regolare sono separati dal mondo ma dentro il mondo. E a provare
vittoriosamente che quella separazione dal mondo non rende il clero estraneo al
mondo basta il fatto che proprio il clero regolare, cioè quello più separato dal
secolo, l’uomo del chiostro, è quello che più potentemente operò l’influenza
religiosa non solo, ma l’influenza civile nel mondo. Informò la civiltà per secoli,
anzi addirittura la partorì, avendo nel suo grembo originato le forme della cultura
e del vivere civile, dall’agricoltura alla poesia, dall’architettura alla filosofia,
dalla musica alla teologia. Per riprendere l’immagine abusata e collocarla nel suo
significato legittimo, il clero è il fermento che lievita la pasta ma non però si fa
pasta. Anche secondo i chimici gli enzimi contengono un principio antagonistico
verso la sostanza che fanno fermentare.
CAPITOLO VIII LA CHIESA E LA GIOVENTÙ
Nella filosofia, nella morale, nell’arte e nel senso comune, ab antiquo sino ai
nostri tempi, la gioventù fu riguardata come una età d’imperfezione naturale e
d’imperfezione morale. Sant’Agostino che nel sermone Ad iuvenes scrive «flos
aetatis, periculum tentationis» (P.L., 39, 1796), insistendo poi sull’imperfezione
morale, giunge a chiamare stoltezza e follia il desiderio di repuerascere. Per la
labilità della non rassodata ragione il giovane è «cereus in vitium flecti» (Orazio,
Ars poet., 163)148 e la sua minorità chiama un reggitore, un ammonitore e un
maestro. Gli occorre infatti un lume per riconoscere la destinazione morale della
vita e un soccorso pratico per trasformarsi e modellare la naturale inclinazione
della persona sull’ordine razionale. Questo concetto misero a fondamento della
pedagogia cattolica tutti i grandi educatori da Benedetto di Norcia a Ignazio di
Loyola, da Giuseppe Calasanzio a Giovanni Battista de Lasalle e a Giovanni
Bosco. Il giovane è un soggetto in possesso della libertà e deve essere formato
ad esercitare la libertà in guisa che, eleggendo l’adempimento del dovere (la
religione non dà alla vita altro scopo), si determini da sé stesso a quell’unum per
eleggere il quale appunto è data la libertà. La delicatezza dell’azione educativa
deriva dall’avere come oggetto un essere che è un soggetto e come fine la
perfezione di esso soggetto. È insomma un’azione sopra la libertà umana che
non limita, ma produce libertà. Per questo rispetto l’azione educativa è
un’imitazione della causalità divina la quale, secondo la teorica tomistica149,
produce l’azione libera dell’uomo proprio inquanto libera.
86. Carattere della gioventù. Critica della vita come gioia. – La profonda
teorica tomistica della potenza e dell’atto scorta lo studioso dei fatti umani anche
nel punto della gioventù, sorreggendolo nella ricerca delle note essenziali di
questa età della vita e preservandolo dallo sviamento a cui spingono le opinioni
dominanti.
Il terzo è «la necessità di essere sé stessi». Ma non si chiarisce qual è l’Io che
il giovane deve attuare e in cui riconoscersi: ve n’è infatti una pluralità in una
natura libera, trasmutabile in tutte guise. L’Io vero esige non che il giovane si
realizzi comunque, ma che egli si trasformi e diventi persino un altro da sé.
D’altronde la parola del Vangelo non ammette chiosa: «abneget semetipsum»
(Luc., 9, 23). Il Papa medesimo aveva il giorno prima esortato alla metanoia.
Dunque: realizzarsi o trasformarsi?
La semiologia della gioventù che il Papa fece nel discorso del 3 gennaio
1972 è ancora più scopertamente antitetica a quella tradizionale cattolica. Vi
sono descritti come qualità positive il naturale distacco dal passato, il facile
genio critico, l’antiveggenza intuitiva. Questi caratteri non convengono punto
alla vera psicologia della gioventù, e non sono positivi. Lo staccarsi dal passato è
un’impossibilità morale, storica e religiosa: basta dire che per il cristiano tutta la
vita e l’impegno di vita dipendono dal battesimo, che è un antecedente, e il
battesimo dalla famiglia, che è un antecedente, e la famiglia dalla Chiesa, che è
un antecedente massimo. Che la gioventù abbia genio critico, cioè giudizio
discernitivo, è difficile sostenere, se si riconosce il divenire nella formazione
dell’uomo, se si distingue il momento immaturo da quello maturo, e se si
ammette che il soggetto si trova primitivamente in una situazione in cui deve
divenire quello che ancora non è. L’antiveggenza infine è cosa novissima nella
psicologia, la quale ha sempre ravvisato nel giovane un «tardus provisor»
(Orazio, Ars poet., 164), uno cioè che vede tardivamente non pure gli eventi del
mondo, ma anche l’utile proprio. Infatti «temeritas est florentis aetatis, prudentia
senescentis» (Cicerone, De senectute, VI, 20).
Non è difficile scorgere nel discorso giovineggiante di Paolo VI alla Città dei
ragazzi un singolare rovesciamento delle nature, onde chi deve seguire è seguito
e l’immaturo è di esempio al maturo. L’attribuzione alla gioventù di un senso
innato della giustizia non ha riscontro in nessuna semiologia cattolica. Certo la
commozione dell’animo, contagiato dalla temperie giovanile, fece declinare il
Papa verso una sorta di dossologia della gioventù. È questa stessa declinazione
all’entusiasmo efebico che in altra occasione lo trasse a mutar la lettera del sacro
testo, leggendo «i giovani» dove sta scritto «i fanciulli» (Matth., 21, 15) in
appoggio all’asserto che «è la gioventù che intuì la divinità di Cristo» (OR, 12
aprile 1976).
L’impossibilità del sacerdozio di donne fu, come ogni altro principio della
fede e del costume, confermato con forza da Paolo VI nella lettera al Primate
anglicano (OR, 21 agosto 1971), ma per quella breviatio manus che dicemmo
caratterizzare il pontificato paolino (§ 65), la rivendicazione femministica non fu
né avversata né contenuta efficacemente. Il III Congresso mondiale per
l’apostolato dei laici svoltosi a Roma in ottobre 1967, tra altre istanze
dottrinalmente erronee e dissimulate dal giornale della Santa Sede come
«costatazione di fatto del sentimento dei laici», formulò il voto «perché un serio
studio dottrinale determinasse il posto della donna nell’ordine sacramentale»
(OR, 21 ottobre 1967). In Francia una Association Jeanne d’Arc persegue come
scopo il sacerdozio della donna, mentre negli Stati Uniti sussiste e opera, senza
scandalo dell’episcopato, una Convenzione nazionale delle religiose americane
che domanda l’ordinazione di femmine. La protervia del movimento si palesò,
con stupore del mondo, in occasione della visita di Giovanni Paolo II in
America, quando suor Teresa Kane, presidente della Convenzione, affrontò
all’improvviso il Sommo Pontefice rivendicando il diritto delle donne al
sacerdozio e invitando i cristiani a cessare ogni aiuto alla Chiesa finché tale
diritto non sia riconosciuto (ICI, n. 544, 1979, p. 41). Anche alla Conferenza
internazionale della donna tenutasi a Copenhagen il vescovo Cordes, delegato
della Santa Sede, dichiarò che «la Chiesa cattolica si rallegra ormai della sete di
una vita pienamente umana e libera che è all’origine del gran movimento di
liberazione della donna», lasciando intendere che «dopo duemila anni di
cristianesimo questa vita pienamente umana le era stata troppo spesso rifiutata.
Infatti non si può ancora dire che la donna sia accolta come il Creatore e il Cristo
l’hanno voluta, cioè per sé stessa, come una persona umana pienamente
responsabile» (OR, ed. francese, 12 agosto 1980). La vena femminista ripullula
nella Chiesa in ostentazioni anche clamorose come quella della presidente della
Gioventù cattolica della Baviera, la quale durante la visita di Giovanni Paolo II
rinnovò il gesto dell’americana (RI, 1980, p. 1057).
94. Apologia della dottrina e della prassi della Chiesa circa la donna. – Per
far giudizio di queste presunte inferiorità della donna nella Chiesa convien
tenere presenti due considerazioni.
95. Elevazione della donna nel cattolicismo. – Tralascio le sante donne a cui
nelle sue lettere san Paolo presta nominatamente tanto onore. Tralascio la
preminenza della Maddalena nell’evangelizzare la Resurrezione. Non mi
addentro in un discorso che sarebbe pressoché infinito: quello dell’ordine delle
vergini e delle vedove nella comunità ecclesiale, ordine di cui celebrano l’altezza
morale e religiosa con scritti appositi tutti i Padri da Tertulliano ad Agostino. Il
discorso oltre che infinito riuscirebbe difficile, perché la mentalità moderna non
ha ali per sollevarsi a quel punto di vista in cui il pregevole è pregiato e la
squisitezza della virtù ammirata.
L’elevazione più grande a cui porta la donna il Medio Evo cristiano si ebbe
con la poesia cortese, alla quale fa riscontro l’opera teorica di Andrea
Cappellano. La poesia cortese riflette tutto un complesso di sentimenti e di
costumi, che si fondano sopra la delicatezza dei pensieri, il rispetto e la fedeltà.
L’amor cortese si traviò talvolta in forme di dilezione disincarnata o dell’opposta
passione erotica, ma rimane nell’insieme una prova degli alti sensi che genera
nella civiltà medievale la contemplazione del femminino. Un fastigio ancora più
alto toccò il motivo della donna angelicata nella scuola poetica siciliana e nel
dolce stil nuovo. La Divina Commedia poi esalta il femminino con Maria e
Beatrice e le «donne benedette» del preludio come il tramite eccelso
dell’elevazione spirituale dell’uomo e come la virtù che gli concilia la salvezza.
È impossibile, se non si ignora il valore della poesia di quei secoli, disconoscere
la dignificazione e magnificazione della donna fatta dalla religione. Certo, la
separazione dell’amore dalla relazione sponsale e dal coniugio, determinata
dall’esaltamento del femminino in sé, inclinava alla deviazione neoplatonica
incompatibile col realismo cristiano, ma il fenomeno attesta irrefragabilmente
che il cattolicismo si serbò fedele alla duplice verità che viene invece
contraffatta dal moderno femminismo: che cioè la donna è assiologicamente e
finalisticamente uguale all’uomo, e che essa è insieme diseguale, dovendo vivere
quell’uguaglianza assiologica secondo la propria diversità.
Una riprova della parità che il cattolicismo riconobbe tra i due sessi si ricava
dall’influsso che sul governo della Chiesa, sugli orientamenti religiosi, sugli
eventi di rinnovazione e di riforma esercitarono femmine di alto intelletto e di
veemente afflato mistico. Non occorre andare oltre i nomi di Caterina da Siena,
di Giovanna d’Arco, di Caterina da Genova, di Teresa d’Avila per conseguire
una dimostrazione sovrabbondante di questa prestanza del femminino nella
Chiesa. E si tralasciano le moltissime donne di gran tempra attiva che fondarono
ordini e compagnie religiose o anche soltanto indussero i Romani Pontefici a
imprese di importanza universale, come nel secolo passato quella mademoiselle
Tamisier che promosse sotto Pio IX i congressi eucaristici. Per tacere di tante
donne che la Chiesa onorò di canonizzazione e di quelle che fregiò perfino del
titolo di dottore della Chiesa universale, come avvenne di Caterina senese e di
Teresa spagnuola.
96. Lo scadimento del costume. – Affine alla deviazione circa la natura della
donna è la deviazione circa gli atti della sessualità. Per farne retto giudizio
conviene avvertire che in ogni genere dell’operare umano, ma nel costume
specialmente, rileva certo la frequenza dei fatti maggiore o minore (senza tale
frequenza non c’è costume), ma primariamente importa quel che i fatti
divengono nella mente, cioè il modo in cui la pubblica coscienza li giudica.
Quanto alla frequenza nessuno impugna che l’inverecondia sia più divulgata che
in passato, quando gli eccessi erano fenomeno di ristretti ceti e, cosa ancor più
importante, andavano a nascondersi e non osavano l’ostentazione. Oggi è la
faccia delle nostre città. Si può dire che la pudicizia fu il carattere generale dei
secoli addietro, mentre l’impudicizia lo è del nostro, e basta percorrere i trattati
d’amore, i libri sul reggimento delle donne, le disposizioni civili e canoniche e le
Praxeis confessariorum (primarie fonti in questo campo) per averne certezza.
Oggi al contrario le intimità hanno perduto l’antico purpureo velo del pudore e
vengono propalate, ostentate, comunicate sin nelle rubriche dei rotocalchi, di cui
si pasce il volgo. Lo spettacolo, massime cinematografico, ha come tema
d’elezione le cose della venere e l’estetica, che vi dà un appoggio teoretico,
giunge a stabilire che la prevaricazione del limite morale sia una condizione
dell’arte. Di qui una puramente meccanica progressione dell’osceno in infinitum:
dalla fornicazione semplice all’adulterio, dall’adulterio alla sodomia, dalla
sodomia all’incesto, dall’incesto all’incesto sodomitico, alla bestialità, alla
coprofagia e via tacendo. Anche il fatto assodato del coito pubblico, per trovare
il quale occorre risalire ai Cinici e che sant’Agostino giudicava impossibile,
persino per ragioni fisiologiche, è forse la riprova estrema dei fatti della lussuria
contemporanea. Se pure non è superato dalle mostre internazionali di oggetti
erotici, come quella famosa di Copenhagen nel 1969, e la mostra internazionale
di arte pornografica inaugurata nel 1969 ad Amburgo dal ministro della cultura.
Ma, come dicemmo, prevalgono ai fatti il significato che essi hanno nella
mente degli uomini e le persuasioni profonde e tacite da cui muovono i giudizi.
Ci conviene dunque addentrarci alquanto nel fenomeno del pudore per
dimostrare che anche il presente scadimento del costume rampolla dalla
negazione delle nature e delle essenze.
Il pudore è una specie del genere vergogna: è la vergogna circa le cose della
venere. La vergogna in genere poi è il sentimento che accompagna la percezione
di un difetto, e poiché il difetto ora è della natura ora è della persona, così c’è
una vergogna naturale e una vergogna morale. La natura si vergogna dei propri
difetti perché ogni natura ha da corrispondere alla propria idea e se per fallo,
ingenito o sopravvenuto, defeziona dalla sua idea, essa avverte il difetto e
l’avvertenza del difetto si accompagna a un sentimento di vergogna per quel
difetto. Siccome poi non si dà natura reale se non in un individuo e perciò
neppure natura difettosa se non in un individuo difettoso, così la vergogna della
natura difettosa diviene vergogna dell’individuo difettoso.
98. La vergogna della persona. Reich. – Ma più profondo del pudore della
natura è il pudore della persona che è la vergogna per il difetto morale di cui la
persona è causa. La sua forma morale non è più puro sentimento ma un atto
libero di cognizione del proprio difetto e di detestazione volontaria del
volontario difetto cioè della colpa.
Anche la lettera pastorale dei vescovi della Germania (OR, 18 luglio 1973)
muove da un’antropologia che non è cattolica perché afferma che «la sessualità
informa tutta la nostra vita e, per il fatto che corpo e anima sono un’unità, la
nostra sessualità determina anche la sua sensibilità e fantasia, il nostro pensiero e
le nostre decisioni». Nel giudicare queste enunciazioni dei vescovi alemannici,
desiderando io non aggravare le loro parti, intendo tener conto del generale
circiterismo teologico del moderno episcopato e perciò non prendo in rigore i
termini usati. Ma l’antropologia qui subiacente è lontana dall’antropologia
cattolica (di qualunque scuola) per la quale «sexus non est in anima», Summa
theol., Suppl., q. 39, a. 1. Non è infatti la sessualità la forma di tutta la vita,
sibbene la razionalità. La definizione classica, assunta nel Concilio Laterano IV
è: «anima rationalis est forma substantialis corporis», è cioè il principio primo
che dà l’essere a tutto l’individuo umano. Dire poi che la sessualità determina il
pensiero e le decisioni della volontà è asserto avverso alla spiritualità dell’uomo.
Questa consiste proprio nell’esservi nell’anima informante il corpo un’attualità
che non si esaurisce nell’informare il corpo, ma sussiste come forma. È da
questa facoltà emergente dalla materia che viene la facoltà dell’universale e con
questa l’elezione libera spaziante appunto nell’universale del bene, e non astretta
nei termini del particolare. Se la sessualità determina la decisione, la decisione
non può essere libera169.
V’è poi un passo del documento in cui si rovesciano l’etica e l’ascetica della
pudicizia ed è quello in cui, trattando delle relazioni prematrimoniali, che
vengono condannate, si abbandona la cautela, tanto predicata in passato, circa le
occasioni prossime del peccato e si difende la famigliarità tra i sessi, quasi che il
mettersi nella tentazione fosse sintomo di maturità morale. «Anche se sussiste il
pericolo che questi incontri sfocino in rapporti sessuali e portino a un legame
prematuro, non è giusto respingere o cercare di evitare questo necessario gradino
nella maturazione della capacità d’amore degli uomini». Qui sono
implicitamente elusi due principii della morale della Chiesa. Il primo è
teologico: che cioè la natura, avendo perduto l’integrità per il guasto originale, e
quindi la parte egemonica dell’uomo avendo perduto la signoria, la labilità alla
sopraffazione sessuale è la condizione stessa dell’uomo. Il secondo punto è
propriamente morale: l’approssimarsi al peccato senza cadervi non significa
certo cadere in quel peccato e per questo riguardo non è colpevole, eppure è
peccato per riguardo alla superbia e alla presunzione di non cadere implicite
nella condotta di chi si arroga una forza morale capace di contrappesare ogni
impulso contrario alla legge. La massima salus mea in fuga che presiedette
all’ascetica cattolica sembra qui dimenticata e posposta all’idea della maturità
personale e dell’educazione all’amore.
CAPITOLO X SOMATOLATRIA E PENITENZA
Nella tradizione della pedagogia cattolica la cura del corpo andava sotto la
virtù di esercizio e di alacrità confondendosi, sotto l’aspetto medico, con
l’igiene. Nel diffusissimo Manuale dell’educazione umana (Milano 1834)
dell’abate Antonio Fontana, direttore generale della pubblica istruzione nel
Lombardo-Veneto, questa indistinzione è ancora percettibile: vi si dedica uno
intero dei quattro libri dell’opera all’educazione fisica, ma sotto questo titolo
vengono trattate le materie del cibo, del sonno, della nettezza e un solo capitolo
Degli esercizi della persona versa intorno all’educazione fisica.
Qui osserverò di transenna come sia falso che l’esercizio del corpo produca
di per sé sanità morale. La falsità è già denunciata dagli antichi. Il motto di
Giovenale, che è passato monco nel parlare comune, mens sana in corpore sano,
è in realtà una confutazione del senso che gli si attribuisce. Non dice infatti che
in corpo sano c’è mente sana, ma che bisogna pregare gli Dei affinché ci diano e
l’uno e l’altra: «Orandum est ut sit mens sana in corpore sano» (Sat., X, 356).
Lo sport è soggetto alla legge ascetica che vuole ordinato dalla ragione il
tutto dell’uomo e l’uso intensivo del vigore fisico non può essere il fine dello
sport: se si emancipa dall’austerità, cioè dal dominio dello spirito sulle membra,
lo sport disfrena gli istinti, sia con la forza violenta, sia con le seduzioni della
sensualità. La coscienza della propria forza corporale e la riuscita nella
competizione non sono l’elemento principale dell’attività umana, sebbene siano
dei soccorsi apprezzabili ma non indispensabili, né un bisogno morale assoluto
né tantomeno un fine della vita. Eppure la disformazione generale dei giudizi
nella massa era su questo punto tale che il Papa ritenne doveroso riaffermare:
ogni uomo, anche se è inetto allo sport, non è minorato nella sua realtà di uomo.
Non si può parlare di personalità fisica e di personalità spirituale, la persona
essendo una e definita dalla parte suprema di essa. Anche il non sportivo
adempie a pari un individuale misterioso disegno di Dio175.
Analizzando infatti l’allocuzione papale si trova che delle quattro qualità con
cui il Pontefice apostrofa la gioventù nessuna, e men che tutte la bellezza,
esprime un valore morale, cioè una virtù. Che, in secondo luogo, la gioventù
sembri «inebriata del proprio giuoco» non può essere soggetto di soddisfazione,
perché la religione esclude ogni dismisura e ogni ebrietà, se non sia quella sobria
dello Spirito. E quell’abbassamento del lavoro incatenato (parrebbe) alle leggi
utilitarie sembra dimenticare che il lavoro è un’attività essenzialmente morale in
cui si esplicano molte virtù. D’altronde il prendere lo sport come attività fine a
sé stessa non capisce nella concezione cattolica in cui non si dà alcuna attività
dell’uomo fine a sé stessa, perché l’uomo non è fine a sé stesso. Né vi capisce
l’identificare la felicità dei giovani in un cammino saliente, né si può vedere nel
progresso nello sport un progresso umano, ma se mai (giusta la distinzione di
san Tommaso) un progresso dell’uomo. Né lo sport può superandosi raggiungere
livelli trascendenti, giacché esso non può uscire dall’essenza propria e non si
trova sulla linea dello sviluppo spirituale dell’uomo. E infine è del tutto vera la
proposizione dell’epilogo, che cioè lo sport non è il tutto della vita né una
religione. Però con questa negazione non è più possibile riconoscere allo sport
una qualunque peculiarità morale: tutte le attività della vita, in quanto capaci di
entrare nella finalità morale ad opera della volontà, sono, come lo sport, grado
alla perfezione: ma appunto non da sé stesse, ma ad opera della volontà morale.
Si badi a non confondere le essenze e a non prendere lo sport come una forma di
spiritualità. Non vi badò l’OR del 1 gennaio 1972 dove si legge: «Lo sport
beneficia del mistero pasquale e diventa strumento di elevazione». Siccome non
c’è nella Rivelazione nessunissimo possibile riferimento a una attività sportiva di
Cristo, si tenta almeno, con un’operazione confusionale e circiterizzante, di
tirare lo sport nel mistero pasquale.
103. La somatolatria nei fatti. – Alla dossologia dello sport, propria del
mondo moderno e partecipata, se non proprio toticipata, dalla Chiesa, inflissero
una cruda contraddizione gli eventi della Olimpiade monacense del 1972
segnatamente in punto agli spiriti di filantropia e di amore internazionali che
esso farebbe crescere negli uomini176. In realtà in quei ludi prevalsero sui
sentimenti di filantropia e di umanità le due passioni della sopraffazione
agonistica e degli odii nazionali. Lascio di osservare che nell’istituzione
originale del barone Coubertin le Olimpiadi erano una gara tra individui e non
tra Stati, mentre qui si agogna e si glorifica la vittoria dell’atleta sempre come
vittoria di Russia o America o Italia e via dicendo. Allo svolgimento delle gare
le folle urlanti, fischianti o peanizzanti dividono gli animi e arguiscono animi
divisi. Quanto alla lealtà, diciotto giudici furono destituiti essendo stati convinti
di parzialità per gli atleti della parte favorita e molti atleti esclusi dalle gare per
avere usato mezzi chimici proibiti di stimolazione e di corroboramento.
Paolo VI nel discorso del dì delle Ceneri del 1967 a Santa Sabina ribadì
l’insegnamento della Chiesa, che cioè la penitenza è necessaria alla metanoia, la
natura essendo corrotta, e alla riparazione dei peccati. Il digiuno però non è
soltanto un perfezionamento della virtù naturale di sobrietà, conosciuta anche dai
Gentili, ma è un fatto proprio della religione cristiana, la quale, avendo reso
l’uomo consapevole dei suoi mali profondi, ha pure proporzionato ad essi i
rimedi. I piaceri della gola (ché di questa parte della concupiscenza si tratta) si
possono certamente conciliare con la sobrietà, ma la religione ravvisa in essi una
tendenza sensuale che svia dalla vera destinazione e, conformemente alla
percezione che essa ha di quel che è dell’uomo nell’uomo, osta a quella tendenza
al male prima che il male sia principiato.
Ma il fatto notabile del presente stato della Chiesa è che tale spirito di
superficialità, che disistima la mortificazione del senso e la ridicolizza, si è
comunicato anche al clero che del precetto ha perduto il sapore e la sapienza. Per
citare un solo dei moltissimi esempi da me raccolti, nel Bollettino della
Cattedrale di San Lorenzo di Lugano dell’ottobre 1966 si buffoneggiava con
basso parlare sul nessun divario tra sogliola e bistecca e tra frittata e salametto.
Qui viene disconosciuto il delectus ciborum conosciuto dalla legge di Mosè e da
quella della Chiesa. In qualche modo viene estesa anche ai cibi la parificazione
delle essenze.
Le ragioni della discrezione dei cibi, che è di diritto positivo, essendo stata
desunta dalle cognizioni fisiologiche di tempi andati, sono soggette a variazione
e, dopo l’espansione extraeuropea del cattolicismo, l’astinenza da certi cibi di
cui sono affatto prive certe nazioni, era incongrua e chiamava una riforma della
disciplina. Ciononostante la Chiesa non ha da vergognarsi della sua legislazione
né la sua dottrina è esposta al ridicolo, perché essa era ragionevolissima, fondata
su natura, comandata dal Cristo, sanzionata dall’obbedienza di generazioni non
più rozze, ma più riflessive, non meno fragili, ma meno sensuali delle presenti.
In questa nuova dottrina, vanno perduti tre valori. Primo, quello del fare per
obbedienza alla Chiesa nel modo da essa prescritto quello che il dovere della
penitenza impone. Secondo, quello che viene dal fare l’atto penitenziale non solo
individualmente, ma ecclesialmente, come la liturgia del Vetus ordo dichiarava, e
rimettendo alla Chiesa la determinazione modale della sostanza di quel dovere.
Terzo, il merito che viene dall’abdicare alla volontà propria circa il modo della
penitenza, la quale abdicazione circa il modo è essa stessa una penitenza. Ma
questi valori dipendenti dal fatto che la volontà è legata alle modalità e ai tempi
prescritti, non sono più tenuti in pregio come ai tempi in cui si pesavano a oncie
i cibi permessi e si aspettavano i segni campanari per rompere il digiuno. Infatti
la Congregazione romana al dubbio se l’obbligazione grave di osservare i dì
penitenziali si riferisca ai singoli giorni o al complesso, rispose che si riferisce al
complesso (OR, 9 marzo 1967). Questo responso restituisce alla libertà dei
credenti tempi e modalità della corporale mortificazione e rende mobile anche il
carattere sacro che sembrava affisso al dì delle Ceneri e alla Parasceve della
Settimana Santa.
Nel secolo XIX i partiti politici, privi di organizzazione, non avevano quasi
altra base che la questione religiosa. Tutto il secolo del liberalismo fu
caratterizzato dalla dualità: un partito caldeggiava la separazione della vita civile
dalle cose religiose, rimesse alla coscienza individuale e riguardate come niente
afferenti alla pubblica prosperità; l’altro resisteva considerando al contrario la
religione non solo come parte della vita storica nazionale, ma anche,
sovrapoliticamente e sovrastoricamente, come una necessità morale della vita
consociata. La contesa tra la Chiesa e lo Stato moderno, il quale vien
costituendosi in valore autonomo e perciò si sradica dal ceppo religioso su cui
era pullulato, spiega come le lotte politiche implicassero i valori religiosi e si
presentassero come un impegno o per mantenerli nel corpo sociale o per
circoscriverli alla sfera dell’individuale libertà.
109. Scomparsa o trasformazione dei partiti cattolici. – I partiti cattolici
hanno perciò subito tutti una riduzione o una decolorazione dei contenuti per cui
erano sorti, oppure sono scomparsi dal teatro della vita nazionale. Scomparso
affatto è il Mouvement républicain populaire sorto in Francia dopo la guerra ad
opera di Maurice Schumann184. In Isvizzera il partito conservatore cattolico
depose l’antica denominazione che troppo rilevava il carattere originario
chiamandosi adesso Partito democratico cristiano e inspirò il programma a una
generica idealità cristiana che assume tutti i principii della filosofia politica
liberale. Nel Ticino, per esempio, è divenuto Partito popolare democratico,
denominazione in cui oltre all’incongrua replicazione dell’idea di popolo, cessa
ogni espressa qualificazione cattolica. D’altronde il partito, seguendo le direttive
del vescovo diocesano, accolse e promosse la trasformazione costituzionale del
Cantone cattolico in Cantone di mista religione. In Germania un analogo
processo portò la Christliche demokratische Partei, succeduta al celebre
Zentrum, e abbracciante cattolici e protestanti, a volgersi alla dottrina politica del
liberalismo. La Spagna, durata per un quarantennio in un sistema politico che
escludeva i partiti, ha visto dopo la morte del generale Franco sorgere movimenti
di inspirazione cattolica sincretizzata con le massime dello Stato moderno. Nel
Belgio e in Olanda i movimenti cattolici che già ebbero un’organizzazione
serrata e potente, subirono la medesima dissalazione, venute meno le ragioni
dell’inveterato antagonismo al liberalismo dello Stato moderno. Anche
l’antagonismo verso il comunismo cedette a una supersolidarietà con la classe
operaia, ed epocate le condanne dei due Pii, il partito e il movimento sociale
cattolico si portarono su posizioni digradanti verso il liberalismo e il comunismo.
La Chiesa, sin dalla celebre dichiarazione di Papa Gelasio nel secolo V, poi
confermata da Bonifacio VIII, riconosce la propria incompetenza nelle materie
politiche, in cui laici e sacerdoti sono soggetti al sovrano temporale, ma
rivendica l’intero dominio nelle cose spirituali e in quelle che abbiano un lato
spirituale, nelle quali viceversa laici e sacerdoti le sono assoggettati. E se si
conserva estranea all’azione politica, che è un mezzo al fine morale dell’uomo,
può però entrare a giudicare le leggi della comunità politica quando impediscano
quel fine e violino la giustizia naturale e i diritti medesimi della Chiesa. Che se
la sovranità, come nei regimi moderni, appartiene al corpo intero dei cittadini, la
Chiesa può resistere alle leggi inique prescrivendo la condotta che i cattolici
inquanto cittadini devono tenere usando del loro diritto politico, fuori di ogni
spirito di odio e di sedizione. Questa dottrina fu confermata da Giovanni XXIII
nella Pacem in terris che fa coincidere il dovere religioso col dovere civile: il
bene della giustizia, oggetto della virtù morale, è infatti un costitutivo del bene
comune, oggetto della virtù politica. Per questa coincidenza i Romani Pontefici
in alcuni frangenti della storia poterono annullare le leggi dello Stato. L’ultimo
esempio fu Pio XI che annullò le leggi irreligiose del Messico nel 1926. Ma
prescindendo dalla nullità di una legge iniqua per decreto pontificio, rimane
certo il diritto dei cattolici, in regimi in cui partecipano del potere legislativo, di
opporsi alle leggi offensive del diritto naturale e il dovere per la Chiesa di
attaccarle suscitando e regolando l’azione civile del laicato.
110. La desistenza della Chiesa nella campagna italiana sul divorzio e
sull’aborto. – Del fenomeno della desistenza che contrasta con l’asseveranza
combattiva dell’anteriore movimento cattolico, recherò due soli esempi e li
appoggerò, secondo il metodo che professo, su documenti della gerarchia e non
su privati opinamenti.
Le più importanti sono senza dubbio il decreto del Santo Officio 28 giugno
1949 e quello aggravante del 25 marzo 1959 sotto Giovanni XXIII. Il primo
dichiara incorsi nella scomunica quei fedeli che professano la dottrina
comunista, atea e materialistica, e condanna come illecito l’appoggio recato al
partito. Il secondo condanna chi dà il suffragio al partito comunista o a partiti
appoggianti il partito comunista. L’aggravamento del secondo è manifesto. La
prima condanna dava luogo alla distinzione tra il comunista professante la
dottrina (condannata nella Divini redemptoris di Pio XI) e il comunista
praticante, ma non professante (e i più son tali). Il secondo decreto invece
prescinde dall’animus del cittadino e percuote l’atto, per così dire, esterno del
dare il suffragio al partito. Colpisce inoltre anche le coalizioni che un partito non
condannato stringesse, per amministrare la cosa pubblica, col partito condannato,
mettendo in forse tutto il giuoco politico delle nazioni democratiche dove la
pluralità dei partiti rende necessaria la cooperazione di disparate forze politiche.
L’intervento della Chiesa in Italia provocò anche conflitti aperti tra vescovi e
autorità civili. Il più grave e clamoroso fu quello di mons. Fiordelli, vescovo di
Prato, che per avere pubblicamente condannato come concubinato il matrimonio
civile di un comunista, fu querelato, condannato e poi assolto. All’annuncio della
condanna il card. Lercaro ordinò nella sua diocesi il suono ferale delle campane
e Pio XII disdisse la celebrazione per l’anniversario dell’incoronazione. Ad
Aosta, per essersi fatta un’alleanza elettorale coi comunisti, il vescovo sospese la
processione teoforica del Corpus Domini; in Sicilia il card. Ruffini entrò nelle
elezioni regionali a combattere il candidato democristiano e a Bari l’arcivescovo
mons. Niccodemo rifiutò la presenza del sindaco comunista della città
giudicandola incompatibile con l’azione sacra. In queste manifestazioni
episcopali mi sembra non essersi osservata la norma che distingue la persona
privata dalla persona pubblica e anche l’ente morale, che è la città nel suo
complesso, dalla maggioranza che in un dato momento la regge e la rappresenta.
È massima di diritto costituzionale che i deputati non rappresentano la frazione
che li ha eletti, ma la totalità dei cittadini. D’altronde i Papi ammettono
annualmente la visita della Giunta capitolina anche quando è di maggioranza
comunista.
Inoltre, dopo aver fallacemente trovato lo Spirito Santo e Gesù Cristo (n. 47)
nel dinamismo del mondo operaio e posto l’opzione socialista a pari
coll’impegno cristiano, il documento si spinge a un’altra ed ultima confusione,
sentenziando addirittura che il travaglio dei cristiani comunisti per maggior
giustizia, maggior fraternità e maggior uguaglianza, quando attinga quel fondo
accomunante che dicemmo, incontra «une forme réelle de contemplation et de
vie missionaire» (n. 54). La prassi marxistica e la lotta di classe usurpano così il
luogo della contemplativa che, come si sa, è il luogo supremo.
Ma la defezione più perspicua dalla dottrina sociale cattolica è quella per cui
la lotta per la giustizia viene identificata con la lotta di classe, supponendo che la
giustizia non possa realizzarsi che oltrepassando la giustizia e sia una sorta di
controingiustizia. Tale supposizione suppone a sua volta che l’ordine sociale sia
indipendente dall’ordine morale e che occorra trascendere questo per instaurare
quello. La lotta di classe è in effetti un’azione di guerra condotta entro la
compagine delle singole società civili e tendente, secondo la dottrina di Lenin e
di Stalin non mai sconfessata, a trasferirsi, quando lo dettino le circostanze, nella
compagine della società etnarchica diventando guerra di tutta la classe operaia
del mondo contro tutta la classe non operaia del mondo.
Ma per tornare al marxismo, le varie specie del genere non possono allargare
il principio, in guisa che ne comprenda uno opposto, né spezzarlo né alterarlo. E
d’altronde il partito, cioè la forza storicamente efficace, ha sempre ripudiato
l’attacco portato al principio dalle varianti. Georges Marchais, segretario
generale del Partito comunista francese, intervistato dal giornale «La Croix»
dichiarava senza ambagi: «Nous ne voulons pas créer d’illusions sur ce point:
entre le marxisme et le christianisme il n’y a pas de conciliation possible, pas de
convergence idéologique possible». Questa dichiarazione consuona interamente
con quella del presidente Mitterrand, capo del governo socialcomunista di
Francia, nel libro Ici et maintenant, Paris 1980, che è una dichiarazione aperta
contro la religione. Vi si afferma la perfetta Diesseitigkeit del comunismo che
alla destinazione ultramondana dell’uomo sostituisce la veduta di una felicità da
conseguire qui (nel mondo) e adesso (non nella vita futura). Che se si risale alle
fonti dottrinali del movimento, si trova il testo di Lenin citato in OR, 5-6 luglio
1976: «I comunisti che si alleano coi socialisti democratici e coi cristiani non
cessano di essere rivoluzionari, perché coordinano tali collaborazioni al fine, che
è la distruzione della società borghese». Questo richiamo al principio comunista
è parallelo a quello fatto al principio cattolico da Paolo VI nella Lettera
apostolica del 14 maggio 1971 al card. Roy: «Il cristiano non può aderire a
sistemi o ideologie che si oppongono radicalmente e in punti sostanziali alla sua
fede e alla sua concezione dell’uomo». Singolare la negazione che del divario tra
cristianesimo e marxismo fa OR, 1 settembre 1982, in un articolo intitolato
Cultura, pluralismo e valori. Con tesi nuovissima vi si nega l’opposizione
insegnata da Pio XI. «V’è addirittura da chiedersi se ancora persista la griglia di
analisi che distingueva tra cultura cattolica e cultura marxistica». L’autore
sembra quasi modo genitus infans che ignora Divini Redemptoris e tutti i
documenti pontifici.
Sembra dunque che l’enciclica trascuri il nesso dialettico sempre urgente tra
quel che le masse pensano (certo meno distintamente che i teorici) e quel che le
masse fanno, senza più connessione coll’ideologia che solo avrebbe per funzione
di dare inizio al movimento. La precessione del pensiero alla prassi vien qui
trascurata e sembra che le ideologie siano figliate dai movimenti anziché
figliarli. Certo le ideologie risentono le fluttuazioni proprie degli uomini fluenti
nella storia, ma la questione che si impone rimane questa, se cioè i movimenti
che mutano continuino o no a inspirarsi al principio sotto il quale nacquero.
Giova anche osservare che quegli elementi positivi che si ravvisano nel
movimento sono nell’enciclica considerati come propri dell’ideologia
comunistica, laddove sono primariamente valori della religione (inglobativi
quelli di giustizia naturale) e che essi acquistano il loro significato e la loro forza
interi solo quando siano rimessi nel complesso delle idee religiose. Sembra
dunque che non basti riconoscerli, ma che occorra riconoscerli come frazione di
verità intera e rivendicarli alla religione per restituire loro la competente
interezza. Ma questa azione di rivendica, che estorce al movimento, come non
suo, e restituisce alla religione quel che in esso appare di giusto e di ragionevole,
manca nella Pacem in terris. L’enciclica perora piuttosto il riconoscimento di
valori che si troverebbero a pari nel movimento e nel cristianesimo e che quindi
rimandano a un valore anteriore e comune che avvalorerebbe movimento e
religione. Quale sia un tale valore, che sarebbe il vero autentico valore
principiale, non appare dall’enciclica né potrebbe apparire senza che il valore
della religione, che è il primum, si degradasse a mezzo di quel primo comune
valore.
La coerenza astratta delle idee logicamente incatenate e svolgentisi una
dall’altra senza possibilità di arresto, è assai più forte della coerenza fattizia che
gli uomini si forzano di mettere tra idee che si respingono. Così dall’opzione dei
cristiani per il marxismo, il quale contiene nelle viscere la guerra di classe,
culminante nella rivoluzione, doveva germogliare una teologia della liberazione.
Il fenomeno citato nel § precedente, che cioè il fine che prevale tira a sé il fine
dell’altro cooperante, incompatibile col primo, si è verificato esattamente nel
passaggio dall’opzione comunistica alla teologia della liberazione.
Anche più scolpito è il pensiero del celebre padre Curci nell’opera intitolata
Di un socialismo cristiano (1885) tutta informata all’idea dell’attitudine sociale
del cristianesimo tuttora implicita. Il Curci richiama l’idea cristiana della
ricchezza, che importa una quantità di beni condivisa, e l’idea cristiana della
comunità sociale, che vuol pareggiati, non in modo aritmetico ma proporzionale,
tutti i membri del corpo sociale. Il fondo della questione può esprimersi nel
verso oraziano: «Cur indiget indignus quisquam te divite?» (Sat., II, II, 103)193.
Qui è mantenuto il concetto di giustizia, ma contro questo indignus i ricchi fanno
valere la calunnia profetata da Amos, 4,1: «vaccae pingues quae calumniam
facitis egenis»194. E il Curci coglie acutamente la delicatezza specialissima della
riforma sociale, riguardata con senso cattolico. La riforma deve eliminare
l’ingiustizia consumata contro una parte del corpo sociale senza sviluppare
l’odio contro le altre parti. Se infatti si sviluppa l’odio, la giustizia non essendo
più un portato dell’amore sociale e diventando al contrario una semplice
controingiustizia, tutta l’azione sociale ne rimane corrotta.
Come si vede, questo socialismo cristiano del Curci, non meno che quello del
Toniolo, respinge il principio marxistico della guerra di classe, ricerca la riforma
sociale non come effetto di un urto violento e nemmeno primariamente per opera
delle leggi civili, bensì come frutto di uno sviluppo morale della cristianità.
Occorre infatti tener fermi due articoli essenziali del sistema cattolico. Primo: il fine
del genere umano è ultramondano: qui servizio, poi fruizione del valore assoluto.
Secondo: l’opera dell’uomo non può prevaricare la giustizia alla quale nessun fatto e
nessuna utilità può prevalere.
La dottrina che si delinea nel libro intacca la dottrina della Chiesa in più
punti e aggiunge la denigrazione della Chiesa storica sotto la spinta di uno zelo
amaro e acrimonioso.
Il primo intacco alla verità cattolica è nel modo di concepire la fede. Questa
viene presa come un sentimento di comunione con Dio, ossia come
un’esperienza del divino, scissa da ogni giustificazione razionale e da ogni
espressione di formule teoreticamente vere.
Lasciamo di notare che qui è implicato l’errore primo del comunismo: alcuni
uomini li destina alla liberazione, quelli cioè che saranno sotto il sole quando sia
avvenuta la liberazione temporale; sacrifica invece le presenti generazioni alle
future come se non ciascun uomo ma solo qualcuno fosse ordinato al suo fine. In
secondo luogo la vita futura ultramondana, che non si può raggiungere prima che
sia instaurato il mondo terreno, lascia la Chiesa inane e inerte nel presente della
storia. Più ancora, se la Chiesa, in forza della sua essenza soprannaturale e
ucronica, esercitasse nel nostro tempo il suo officio di predicare la verità, di
richiamare l’ultramondano e di edificare l’uomo nuovo, il destino dell’uomo ne
sarebbe impedito. Siccome la perfezione umana è la condizione della liberazione
spirituale, subordinare o anche solo coordinare il temporale allo spirituale è cosa
rovinosa per il genere umano. Il p. Montuclard lo professa senza anfibologie:
«Non, les ouvriers n’ignorent pas le christianisme. Les paroles chrétiennes que
de fois ne les ont-ils pas entendues. Mais ces paroles leur ont paru des
attrapenigauds. Et maintenant que l’on parle de l’enfer, du renoncement, de
l’Eglise ou de Dieu ils savent qu’en fait tout cela tend à leur arracher des mains
les outils de leur propre libération».
Qui viene adottato il pensiero proprio dei Giacobini, che la religione possa
apparire alla mente spassionata come un’impostura mirante a disarmare la
giustizia. Appare anche il motivo incompatibile col cattolicismo, che il regno
prospettato nel Vangelo sia l’instaurazione dell’uomo nella pienezza naturale
dell’uomo e non invece una nuova creatura.
121. Esame della dottrina di mons. Fragoso. – Qui appare chiaro il passaggio
dall’opzione marxistica alla negazione della religione. In primo luogo mons.
Fragoso confonde i due ordini assegnando alla Chiesa, non già come compito
indiretto e consecutivo, ma diretto e primario la promozione di un certo ordine
sociale. Egli misura perciò dalla riuscita di un tale ordine la riuscita del proprio
ministero di vescovo, cioè di sacerdote. In secondo luogo considera come un
successo, sebbene parziale, il lasciar perdere al suo popolo la fede, quando
questa perdita sia compensata dalla coscientizzazione, cioè dalla conversione dei
popoli all’ideale della civitas hominis. Questa è dunque un valore positivo anche
fuori e contro la religione. In terzo luogo come può aversi autentica
coscientizzazione, se non si abbia, almeno in confuso, la cognizione di Dio?
Invano mons. Fragoso si riserva di predicare ai suoi popoli Dio dopo costituita la
civivitas hominis.
Sino alla seconda guerra alcuni paesi, come la Germania, avevano scuole
pubbliche differenziate per confessione; altri, come il Canton Ticino, scuole
pubbliche di inspirazione agnostica: accoglievano nella ratio studiorum la
religione come insegnamento costitutivo e obbligatorio ma ne concedevano la
dispensa in ossequio al principio costituzionale della libertà di coscienza; altri
infine, come la Spagna, integravano l’insegnamento religioso alla pedagogia
come parte eminente della coscienza nazionale e della tradizione culturale del
paese. Ne facevano quindi un obbligo non dispensabile senza riguardo ai
convincimenti intimi degli allievi. Era un relitto dei sistemi politici invalsi nelle
monarchie assolute che incorporavano nelle obbligazioni degli educandi oltre
che i doveri civili anche quelli religiosi. Questi sistemi levavano spesso
all’adempimento quell’elemento di libertà che è il portatore del valore morale
della condotta.
126. Rifiuto cattolico della scuola cattolica. Mons. Leclercq. − Se la
motivazione della scuola cattolica nel seno della società moderna sembra ad
alcuni incerta, per altri è del tutto nulla. Qui vi sono fatti e dottrine.
Ma non meno rilevanti dei fatti sono gli apprezzamenti teorici circa la
presente inutilità e insignificanza della scuola cattolica. Mons. Leclercq, emerito
di teologia morale nell’Università cattolica di Lovanio, ravvisa nelle università
cattoliche una generale incompatibilità con la civiltà contemporanea improntata
dal pluralismo e avversa a ogni ghetto. Questa incompatibilità la priva di ogni
ragion d’essere. Ma l’argomento di mons. Leclercq non conclude e si taglia da sé
medesimo per contraddizione. Appunto in un mondo pluralistico diventa
normale la presenza di un’università cattolica: non si può volere il pluralismo,
cioè semplicemente la pluralità di dottrine, e rifiutare la pluralità delle dottrine
pretendendo che una dottrina qualunque non possa entrare come elemento della
pluralità.
Il vero si è che il rifiuto che si fa della scuola cattolica lungi dall’essere una
semplice variante di filosofia politica è il corollario, avvertito o inavvertito, di
persuasioni difformi dal pensiero cattolico. Si leva alla scuola cattolica la base
propria e si mette la sua essenza fuori di sé, condizionandola al pluralismo e al
nullismo culturale. Il programma elaborato a Friburgo in Elvezia per la riforma
dei seminari ripudia la ratio studiorum tradizionale e prescrive che «fin
dall’inizio si deve dare una nozione globale affrontando i problemi posti
dall’esistenza di altre credenze e dalla miscredenza in guisa che lo studente eviti
il rischio dell’autosufficienza cristiana» (ICI, n. 279, p. 20, 1 gennaio 1967)207.
Qui occorre richiamare tre punti maggiori della pedagogia cattolica. Il primo
è metafisico: la distinzione di potenza ed atto ossia la non creatività delle facoltà
umane. Il secondo è assiologico: la superiorità assiologica di chi sa rispetto a chi
non sa. Il terzo è gnoseologico: il primato della conoscenza rispetto
all’esperienza morale, che cioè tale è, ceteris paribus, la vita morale dell’uomo
quale è il suo pensiero, cioè il giudizio che egli porta sui fini e sugli atti
dell’essere suo.
La crisi della scuola cattolica è nel suo fondo una degradazione della
razionalità in confronto dell’esperienza e un caso di quel vitalismo proprio del
mondo contemporaneo che apprezza non quel che è vero e può contraddire alla
vita bensì quel che è vivo e misura esso la verità: vivo, ergo sum.
Né il Sinodo dei vescovi del 1977, che discusse la nuova catechesi, portò
raddrizzamenti efficaci manifestando il dissenso dei Padri anche circa i principii,
una generale mancanza di forza logica e soprattutto l’incapacità di stare al punto
messo in discussione. Eppure lo stare al punto è la regola delle regole in ogni
disputa e basta attenervisi perché la disputa approdi. Nel Sinodo infatti la
catechesi trasgredì nella sociologia, nella politica, nella teologia della
liberazione. Bastino pochi esempi. Per il vescovo di Saragozza la catechesi
«deve promuovere la creatività degli allievi, il dialogo, la partecipazione attiva,
senza dimenticare che è azione della Chiesa». Ma la creatività è un assurdo
metafisico e morale, e quando non lo fosse, non potrebbe essere il fine della
catechesi, giacché l’uomo non può autofinalizzarsi, il fine gli è dato ed egli deve
solo volerlo. Per padre Hardy «la catechesi deve portare all’esperienza del
Cristo», che è proposizione confondente ideale e reale e trapassante al
misticismo. La catechesi è per sé e formalmente cognizione, non esperienza,
benché sia ordinata all’esperienza, cioè alle azioni della vita. Secondo il cardinal
Pironio «la catechesi si sprigiona dall’esperienza profonda di Dio nell’umanità
cristiana ed è una più profonda assimilazione dell’amore e della fede» (OR, 16
ottobre 1977). Vi sono sentori modernisti in tali asserti. La catechesi è dottrina e
non si sprigiona dall’esperienza esistenziale dei credenti, perché vi sono
contenuti soprannaturali che quell’esperienza non contiene.
Essa discende dall’insegnamento divino e non è prodotta, ma produce
l’esperienza religiosa. Infine un vescovo del Kenia dichiara che «la catechesi
deve impegnarsi a denunciare le ingiustizie sociali... e difendere le iniziative di
liberazione sociale dei poveri» (OR, 7 ottobre 1977), e così degrada la parola di
vita eterna a un intendimento economico e sociale.
I due caratteri della nuova catechesi, l’essere cioè ricerca anziché dottrina e il
mirare a produrre risposte esistenziali anziché una persuasione intellettuale, si
rispecchiano nella soluzione data al problema della pluralità dei catechismi e
della memorizzazione218. Dove non si dà contenuto dogmatico a cui assentire non
può esservi un unico catechismo universale non essendovi formule di fede adatte
a tutta la Chiesa in forza appunto di quell’unico contenuto. Si abbandona dunque
l’uso antico iniziato coi primordi della Chiesa e continuato coi catechismi del
Tridentino, del Bellarmino, del Canisio su su sino al Rosmini e a Pio X.
Un’emozione ancor più viva eccitò il libro Dieu est-il dans l’hostie? di
Léopold Charlot, sacerdote responsabile del Centre régional d’enseignement
religieux d’Angers, venduto anche nelle vetrinette parrocchiali. Il libro ha per
soggetto «la manière dont il faut penser aujourd’hui l’Eucharistie comme
présence réelle». Il succo, di cui l’autore non misura il senso, è che c’è un modo
differente da tempo a tempo di intendere tale presenza e che il modo proprio del
nostro tempo è di intendere tale presenza reale come una presenza non reale, ma
immaginativa e metaforica, identica a quella onde diciamo che Beethoven è
presente in una sua suonata e nel sentimento di chi la ascolta. Charlot insegna ai
catecumeni che l’eucaristia fu istituita non da Cristo nell’ultima cena, ma dalla
comunità cristiana primitiva. Pane e vino restano sostanzialmente pane e vino e
sono soltanto il segno convenzionale della presenza di Cristo nel popolo dei
fedeli. Perciò è assurdo che si consacrino e si conservino in vista
dell’adorazione. Anzi Léopold Charlot consiglia alle madri di stare ritte coi loro
figli davanti al tabernacolo per inculcare che il sacramento non è adorabile.
136. Antitesi della nuova catechesi alle direttive di Giovanni Paolo II Card.
Journet. − La mentalità del clero apparsa nel convegno è tanto più notabile
perché sta in chiara opposizione con l’Esortazione apostolica di Giovanni Paolo
II (OR, 26 ottobre 1979). La nuova catechesi è di stampo esistenziale e
promuove un’esperienza di fede, e il Papa invece afferma il carattere
intellettuale della catechesi e vuole che i catecumeni siano penetrati di certezze
semplici ma ferme «quibus ad Dominum magis magisque conoscendum
adiuventur»222. La nuova catechesi vuole l’adattamento della fede alle singole
storiche culture, e il Papa invece (n. 52) vuole che la fede trasformi le singole
culture: «non esset catechesis si Evangelium ipsum mutaretur cum culturas
attingit»223. La nuova catechesi ripudia il principio di autorità e quindi il classico
metodo amebeo e quindi l’esercizio della memoria, e il Papa invece ribadisce (n.
55) che è necessario possedere durevolmente, cioè nella memoria, le parole di
Cristo, i principali testi biblici, le formule di fede, il decalogo, le preghiere
comuni224, i testi liturgici. La nuova catechesi procede con un dialogo paritario,
euristico, fondato sulla aspecificità del vero, e il Papa invece (n. 56) rifiuta come
pericoloso quel dialogo che «saepe ad indifferentismum omnia exaequantem
delabitur»225. La nuova catechesi si propone di guidare il catecumeno a
un’esperienza del divino e del Cristo, e il Papa invece definisce la catechesi (n.
18) come «institutio doctrinae christianae», istruzione che mira a far sempre
meglio conoscere e sempre più fermamente assentire alla verità divina, non già a
far sempre più svilupparsi e affermarsi la persona del catecumeno.
Gérard Soulages227 reca alcune lettere drammatiche del cardinal Journet sul
presente stato della catechesi. Il cardinale lo riguarda esattamente come un
effetto dello smarrimento della gerarchia e dell’interiore dissoluzione della
Chiesa: «Il serait catastrophique que les évêques, successeurs des Apôtres, soient
à la dérive de commissions et de poussées limitées à l’ajustement du monde et au
service d’une déchristianisation du peuple chrétien».
La grave censura mossa dal card. Ratzinger al catechismo francese non perde
affatto del suo valore teoretico dottrinale anche se il cardinale, che l’aveva
esposta in un discorso stampato poi in venti pagine, la ritrattò in una
dichiarazione di venti righe concordata coi vescovi francesi. Rimandiamo ai §§
60-65 sulla desistenza dell’autorità.
CAPITOLO XIV GLI ORDINI RELIGIOSI
139. Gli ordini religiosi nella Chiesa postconciliare. − Siccome gli ordini e
gli istituti religiosi assumono la parte supererogatoria o di consiglio della
religione, è ovvio che lo smarrimento che ha investito la parte comune della
religione abbia dato un assalto speciale alla parte speciale della Chiesa. Per la
legge del loquimini nobis placentia, onde si abbellisce il proprio male e si colora
vivamente la propria perfezione, il grave scadimento intervenuto negli ordini
religiosi fu generalmente dissimulato, adottando la prospettiva ottimistica di
Giovanni XXIII e scambiando variazione e mobilismo per sintomi di vitalità.
140. L’alterazione dei principii. La stabilità. − La crisi dei religiosi, come di
tutte le altre parti del corpo ecclesiale, è una conseguenza dell’immodica
assimilazione al mondo di cui si prendono le posizioni, poiché si dispera di
acquistarlo agendo dalle posizioni proprie. È un’alienazione per perdita
tendenziale di essenza e una trasgressione ad altro. Non ultima né insignificante
è la mutazione dell’abito dei religiosi e delle religiose, sempre informata al
desiderio di non più differenziarlo dall’abito dei secolari. E mentre è un sintomo
della perdita dell’essenza o per lo meno degli accidenti propri dell’essenza, è
anche un sintomo di servilità. Non si deve infatti dimenticare che la singolarità
(talora stravagante) della veste religiosa era destinata a indicare la singolarità
dello stato religioso ed era inoltre un segno importante della libertà della Chiesa,
indipendente da fogge e da mode. Dal disprezzo dell’abito ecclesiastico usuale si
scende poi al disprezzo di quello liturgico, e si vedono oggi nelle
concelebrazioni sacerdoti officianti in abito prettamente laicale («Esprit et Vie»,
1983, p. 190, che deplora la dormitanza dei vescovi su questo punto)237.
Oggi la stabilità locale è scomparsa. Non già che in tutti gli ordini religiosi il
superiore non abbia da secoli variato il domicilio dei sudditi. Anzi il diritto
canonico contemplava espressamente questa instabilità imperata dai superiori. È
che la mobilità è entrata nella vita interna delle singole comunità. Non soltanto a
cagione della maggiore mobilità generale degli uomini anche dai conventi
escono i frati per viaggi, per vacanze, per diporti spesso coperti con intenti
culturali o di apostolato, ma i membri di una medesima comunità prendono
domicilio in sedi separate dividendosi e nel luogo e nella convivenza dai
confratelli. L’istituto della exclaustratio che era una singolarità è divenuta una
forma normale della vita religiosa. In luogo di una dimora cenobitica si ha una
sorta di diaspora in cui vanno dispersi i valori che dicemmo della stabilità e
perisce la vita comunitaria.
Non voglio qui cadere in un erroneo giudizio come chi, per difetto di
cognizioni storiche, ragguaglia tutti i tempi e tutti i costumi. Nel portare il
giudizio misto storico-morale sulla virtù monastica si tenga fermo il criterio
della virtù, ma non si dimentichino le relatività storiche. Quelle feroci
mortificazioni dell’istinto dell’ingluvie onde va celebre l’ascetica orientale erano
un modo per staccarsi dal comune vitto degli uomini già tanto men ricco e men
vario che non sia oggidì. La privazione mortificante deve essere calcolata pro
rata parte in guisa che il vitto mortificante si differenzii dal vitto comune. In
epoca in cui i più si cibavano di pan di segale (per stare alla condizione dei paesi
insubrici), per di più raffermo di settimane e di mesi, oppure di castagne, la
temperanza monastica domandava che si tagliasse ancora qualcosa in quel già
gramo vitto arrivando ad austerità oggi inconcepibili. Il vitto monastico deve
oggi tagliare in un regime alimentare incomparabilmente più lauto. Ma pure
deve tagliare. Nelle relatività mutevoli di secolo in secolo rimane l’esigenza
fondamentale, che cioè il vitto dei consacrati si tenga al di qua del regime
comune e possa essere riconosciuto come tale. Anche nel vitto il religioso non è
un uomo come tutti gli altri.
Qui sotto vocaboli che rimangono fissi si vedono correre concetti di tutt’altro
genere. L’obbedienza non è punto una ricerca dialogale della volontà a cui
sottomettersi, bensì una sottomissione alla volontà del Superiore. Essa non
importa un riesame del comando del Superiore da parte dell’obbediente.
L’obbedienza cattolica non ammette quindi di fondarsi sopra l’esame del
comando o della qualità del Superiore. È falsa la sentenza del Delegato
apostolico in Inghilterra che «l’autorità ha solo il valore dei suoi argomenti»
(OR, 24-5 ottobre 1966). Questo è vero nella disputa, dove prevale la forza
logica, ma non già nell’autorità di governo. Si noti inoltre che la teoria
dell’obbedienza assoluta è propria dei dispotismi e non è dottrina cattolica. La
religione fa obbligo di disobbedire a chi comanda opera manifestamente illecita.
Questo obbligo di disobbedire è alla base del martirio. L’obbedienza inoltre non
ricerca affatto una coincidenza di volontà tra suddito e Superiore. Questa
coincidenza, che nell’obbedienza tradizionale si ottiene col fare propria l’altrui
volontà, qui si ottiene con un accostamento delle due volontà utrinque.
L’obbedienza come tale è allora interamente soggettivata e la via del
consentimento non è più quella del sacrificio della propria volontà modellata
sull’altrui volontà. Nella via della concordanza chi si assoggetta si assoggetta
ultimamente a sé stesso. Il principio dell’indipendenza che abbiam visto
produrre l’autogoverno, l’autodidattica, l’autoeducazione e persino
l’autoredenzione, non poteva non investire la vita religiosa togliendo
all’obbedienza quella che è l’essenza sua: far scomparire tendenzialmente il
soggetto per elevare l’oggetto. Il principio dell’obbedienza religiosa cede del
tutto di fronte allo spirito di indipendenza e all’emancipazione egualitaria.
Ostentazioni clamorose di tale ὕβρις si ebbero negli Stati Uniti in occasione della
visita del Papa che fu pubblicamente affrontato da suor Teresa Kane, presidente
della Federazione delle suore di quel paese. Quando poi la Santa Sede rimosse
suor Mary Mansour, direttrice di un centro statale per l’interruzione della
gravidanza, mille religiose convenute a Detroit insorsero contro la Santa Sede,
accusandola di essere un potere mascolinista, di violare i diritti della persona, di
soffocare la libertà di coscienza e persino di trasgredire il diritto canonico.
146. Obbedienza e vita comunitaria. − L’obbedienza avendo come oggetto la
Regola e la Regola essendo la norma unificante che «mentes fidelium unius
efficit voluntatis»247, l’indebolimento dell’obbedienza partorisce indebolimento
dello spirito di comunità. Nell’OR del 22 dicembre 1972 un articolo sulla
secolarizzazione della vita religiosa menziona un Capitolo di riforma di una
Congregazione «che ha spazzato via dalle Costituzioni del Fondatore tutte le
pratiche di pietà (Messa quotidiana, lettura spirituale, meditazione, esame di
coscienza, ritiro mensile, rosario ecc.), tutte le forme di mortificazione, e ha
messo in discussione anche il valore del voto di obbedienza, concedendo al
religioso il diritto di obiezione di coscienza per i casi in cui voglia sottrarsi agli
ordini dei Superiori». L’articolo afferma giustamente che «qui siamo davanti
all’annientamento della vita religiosa». Ma poi, per la consueta accomodazione,
piega a concedere che in questa sovversione e annichilazione della vita religiosa
vi sia pure qualche cosa di positivo che avrebbe «una funzione catartica». Io in
verità non vedo come una tendenza definita distruttiva della vita religiosa si
possa poi qualificare come purificazione della medesima.
Per ultima conclusione di questa analisi diremo che anche la crisi della vita
religiosa germina dall’adozione fatta del principio di indipendenza e dal
dissolvimento dei valori nella soggettività. La comunità ritorna alla moltitudine
disorganica: Chacun dans sa chacunière. Dalla libertà di giudicare il Superiore si
cade alla libertà di scegliere ogni cosa e, come vedevamo, persino il domicilio.
Non per nulla in qualche monastero è abolito l’officio del frate portinaio. Non
dico che queste riforme non si mantellino con qualche ragione, dico che il
mantello è corto.
CAPITOLO XV IL PIRRONISMO
La crisi della Chiesa, come si confessa e come abbiamo indicato nei paragrafi
iniziali di questo libro, è crisi di fede, ma il vincolo esistente tra la costituzione
naturale dell’uomo e la vita soprannaturale, che le viene non giustapposta ma
intrinsecata, impone allo studioso cattolico di ricercare l’etiologia della crisi in
un ordine più profondo che quello filosofico.
Se il pensiero non ha una relazione essenziale con l’essere, allora non subisce
la legge delle cose e non è misurato, ma misura. Il motto dell’abderita Protagora
scolpisce bene l’indipendenza del pensiero dalle cose: l’uomo è la misura di tutte
le cose (DIELS, 74 B 1). E le tre proposizioni di Gorgia di Leontini sentono il
rifiuto di andare all’oggetto e la protervia della mente che sé stessa in sé stessa
rigira: Niente esiste. Se qualcosa esistesse sarebbe inconoscibile. Se fosse
conoscibile, non sarebbe esprimibile (DIELS, 76 B 3)248.
148. Il pirronismo nella Chiesa. Card. Léger. Card. Heenan. Card. Alfrink.
Card. Suenens. − Il fondo dell’attuale smarrimento, mondiale ed ecclesiale, è il
pirronismo, cioè la negazione della ragione. Superficiale è la taccia data
comunemente alla civiltà moderna di sovraestimare la ragione. Se per ragione si
intende la facoltà calcolatrice e costruttiva del pensiero, a cui dobbiamo la
tecnica e il dominio delle cose, la qualificazione può correre. Ma tale facoltà è
un grado inferiore, e si trova, dicono, nei ragni e nelle api. Ma se per ragione si
prende, quale è, la facoltà di cogliere l’essere delle cose e il loro senso, e di
aderirvi col volere, allora l’età contemporanea è molto più debitrice all’alogismo
che al razionalismo. D’altronde Pio XII nel terzo Sillabo tornò a rivendicare
contro lo spirito del secolo «verum sincerumque cognitionis humanae valorem
ac certam et immutabilem veritatis assecutionem»249 (DENZINGER, 2320). E Paolo
VI in OR, 2 giugno 1972, affermò altamente: «Noi siamo i soli a difendere il
potere della ragione». Il Vaticano II nella Costituzione dottrinale LG, 6, riprese il
testo antipirroniano del Vaticano I: «Deum omnium rerum principium et finem
naturali humanae rationis lumine certo cognosci posse»250. In GS, 19, sono
condannati quelli che «non ammettono più alcuna verità assoluta».
Molti assurdi logici e religiosi sono radunati nel libro. Se l’autore intende
affermare che una cosa non può essere creduta se è veduta, dice cosa ovvia e
trita in filosofia. Ma se egli pretende che non si possa avere certezza di una cosa
creduta, egli cammina fuori della dottrina cattolica. Che la fede sia certezza è
dogma cattolico e che questa certezza non sia privilegio di anime mistiche e di
anime semplici, ma lume comune a tutti i credenti, pure. In secondo luogo il
Sullivan sovverte ogni gnoseologia, quando pone in ragione inversa la certezza e
l’approfondimento delle conoscenze. La certezza è invece lo stato soggettivo del
conoscente proprio in quanto conoscente; l’ignoranza è un manco di conoscenza
e il dubbio un minus di conoscenza. L’opinione del Sullivan risente della
calunnia irreligiosa celebrata tra noi dal Bruno in pagine memorabili dei
Dialoghi sulla santa asinità. La calunnia è compagna dell’altro e definitivo
errore secondo cui la certezza e la fede troncherebbero la possibilità dell’azione
e, come dice l’autore con paradossi di vile conio, «vivre c’est perdre la foi».
Ogni stabilità nel pensiero renderebbe impossibile la comunione con gli altri
spiriti, dovendo essere il nostro spirito in ogni momento trasmutabile in tutte
guise.
La vena pirronistica non si è inaridita nel tempo del postconcilio a noi più
prossimo, ma pullula in dichiarazioni ufficiali e officiose. Il colloquio svoltosi a
Trieste in gennaio 1982 al Centro di teologia e cultura, di cui gli Atti sono
pubblicati con introduzione di quel vescovo, si concluse su questa tesi: «Non
esiste una ragione assoluta di stampo idealista o marxista [né di qualunque altro
stampo] dispiegantesi nella storia dell’umanità nel suo concreto divenire, bensì
una ragione storicamente data le cui forme mutano al variare dei contesti
culturali. Non si tratta di riproporre una concezione metafisica, filosofica e
teologica totalizzante» (OR, 8 luglio 1983). Qui è scopertamente invalidata la
ragione, ripudiata la Provvidenza, negata la metafisica, epocato Dio.
È anche da notare che l’Ecclesiam suam, dopo aver posto l’equazione tra
evangelizzare e dialogare, pone invece disequazione tra evangelizzare la verità e
il condannare l’errore e identifica condanna e costrizione. Ritorna il motivo
dell’orazione inaugurale toccato al § 38: «Anche la nostra missione» dice
l’enciclica «è annuncio di verità indiscutibili e di salute necessaria; non si
presenterà armata di esteriore coercizione, ma solo per le vie legittime
dell’umana educazione». Il concetto di Paolo VI è del tutto tradizionale e lo
prova il fatto che, subito dopo la promulgazione dell’enciclica, il segretario del
Consiglio ecumenico Wisser Hooft si affrettò a notificare che il concetto papale
di dialogo come comunicazione di verità senza reciprocanza non era conforme al
concetto ecumenico (OR, 13 settembre 1964).
V’è inoltre un abbaglio circa l’onere della prova. Si suppone che il dialogo
debba e possa soddisfare a tutte le obiezioni del contraddicente. Ora, che un
uomo si offra a un altro uomo per procurargli un’intera soddisfazione
intellettuale sopra un punto qualunque della religione, arguisce un vizio morale.
È infatti temerità quella di chi dopo affermato un vero si espone alla discussione
generale, estemporanea e onnimoda. Ogni soggetto presenta mille lati; egli ne
conosce solo pochi o uno solo. Eppure si espone come se egli si sentisse pronto
ad ogni obiezione, impossibile a sorprendere, e come se egli avesse, per così
dire, prevenuti tutti i pensieri possibili a sorgere su quel soggetto.
Anche Antonio Rosmini nel primo libro della Teodicea, da lui chiamato
logico, insegna che l’individuo non può commettere al proprio intelletto la
soluzione delle aporie della divina Provvidenza: nessun individuo infatti è certo
che la propria forza intellettuale sia pari alla forza delle obiezioni che si
muovono contro. Questo elemento della forza intellettuale di cui la misura è
incognita, è quello che Cartesio trascurava nel suo metodo supponendo che
questa forza della ragione fosse uguale in tutti gli individui e in tutti gli individui
egualmente esercitabile.
153. Inidoneità del dialogo. − Nella Scrittura, come dicemmo, il metodo
dell’evangelizzazione è l’insegnamento e non il dialogo. Nell’imperativo che
sigilla la missione del Cristo con la missione degli Apostoli il verbo adoperato è
μαθητεύσατε che letteralmente vale fate discepoli tutti i popoli, come se l’opera
degli Apostoli consistesse nel ridurre i popoli alla condizione di ascoltatori e
discepoli e come se μαθητεύειν fosse un grado previo a διδάσκειν259.
Questa via dell’ignoranza utile è lecita nella religione cattolica, è fondata sul
principio teoretico spiegato sopra ed è d’altronde il fatto dello stragrande numero
dei credenti261. È dunque inaccettabile l’opinione espressa in OR, 15-6 novembre
1965, che «chi rinuncia al dialogo è un fanatico, un intollerante che finisce
sempre per essere infedele a sé stesso prima che alla società di cui fa parte. Chi
invece dialoga rinuncia all’isolamento, alla condanna». Dialogare senza
cognizione è prova di temerità e di quel fanatismo che scambia la propria forza
soggettiva per la forza oggettiva della verità.
154. I fini del dialogo. Paolo VI. Il Segretariato per i non credenti. −
Notevole è il divario tra dialogo tradizionale e dialogo moderno, quando si
considera il fine assegnato al dialogo. Il dialogo, dicono, non ha per fine la
confutazione dell’errore né la conversione del collocutore262. La mentalità
neoterica aborre dalla polemica, tenuta per incompatibile con la carità, mentre al
contrario ne è un atto. Il concetto di polemica è invero indissolubile dal
contrapposto tra il vero e il falso. La polemica mira appunto ad abbattere
l’uguaglianza che si tentasse di mettere tra una posizione vera e una posizione
falsa. Sotto questo rispetto la polemica è connaturale al pensiero il quale, anche
se non abbatte il falso in un avverso dialogante, lo abbatte però nell’interno
processo monologico.
Il fine del dialogo dal canto del dialogante cattolico non può essere euristico,
perché egli, quanto alle verità religiose, è in possesso e non in ricerca. Neppure
può essere eristico, cioè di carattere contenzioso, perché ha per motivo e per
obiettivo la carità. Il dialogo è invece inteso a dimostrare un vero, a produrre in
altri una persuasione e ultimamente una conversione. Questa finalità metanoetica
del dialogo cattolico fu insegnata chiaramente da Paolo VI nel discorso del 27
giugno 1968: «Non basta avvicinare gli altri, ammetterli alla nostra
conversazione, confermare ad essi la nostra fiducia, cercare il loro bene. Bisogna
inoltre adoperarsi affinché si convertano. Occorre predicare perché ritornino.
Occorre recuperarli all’ordine divino che è uno solo». La dichiarazione papale
acquista una rilevanza singolarissima, perché il dialogo di cui discorreva il
Pontefice è il dialogo ecumenico e la rilevanza specialissima di quelle parole era
confermata persino dalla diversificazione tipografica (vero ἅπαξ) usata per
quella pericope dall’OR.
Il mobilismo è descritto come uno dei caratteri della civiltà moderna in GS,
5: «Ita genus humanum a notione magis statica ordinis rerum ad notionem magis
dynamicam atque evolutivam transit»264. E nel cap. 42 lo stesso documento,
rifacendosi alla rivendicazione di diritti dell’uomo moderno, stima il dinamismo
positivo e conforme al Vangelo: «Ecclesia ergo iura hominum proclamat et
hodierni temporis dynamismum haec iura undique promoventem, agnoscit et
magni aestimat»265. La seconda formula riguarda in ispecie il dinamismo sociale,
ma la prima abbraccia la totalità della vita umana e investe la questione
dell’ordine morale il quale sembra qui assoggettato alla legge della mobilità,
laddove la religione lo tiene per immobile e partecipe dell’immutabilità divina.
Certo se il vocabolo dinamismo equivale a perfezionamento il pensiero del
Concilio rientra nella concezione tradizionale secondo la quale tutto è
perfezionabile e perfezionando dentro un ordine che prescrive la perfezione ma
non si perfeziona.
158. Critica del mobilismo. Ugo Foscolo. Kolbenheyer. − Come appare dalla
storia della filosofia, il mobilismo è la mentalità che stima il divenire sopra
l’essere, il moto sopra la quiete, l’azione sopra il fine. Esso è un contrassegno
del pensiero moderno. Eraclito di Efeso (secolo VI a. C.) insegnò che la realtà è
scorrimento, ma lo scorrimento è retto da un’inviolabile legge che è il Logo.
Tutta la filosofia cristiana concepì il divenire come un accidente delle sostanze
finite mentre solo Dio è indivenibile. Che il mutamento coincida con la vita e
che quindi il valore dello spirito consista nel cercare la verità anziché nel
possederla, fu sentenza anche del Romanticismo italiano, nella misura in cui
imitò il tedesco. Il Foscolo, per esempio, nel Discorso Dell’origine e dell’ufficio
della letteratura vuole che la vita consista nell’agitazione delle passioni e nel
continuo variare dei pensieri dell’animo aspirante a vedere tutto il vero. Ma egli
tiene che il perpetuo aspirare abbia maggior valore che il conseguire: «Misero,
se ei lo vedesse! Non troverebbe più forse ragione di vivere». Il Faust di Goethe
è il poema dell’uomo che sogna di appagarsi in un’infinità di esperienze
successive; egli desidera e raggiunto il desiderato nuovamente desidera e mai
riposa in un bene raggiunto.
La prima pagina del giornale vaticano contiene tutte le tesi del mobilismo
esistenzialistico inconciliabili con la fede cattolica e dalla fede cattolica sempre
rigettate.
Ma la teoria del Trapè, già anticipata con ben altra forza filosofica dal
Gioberti nella Filosofia della Rivelazione, è erronea, perché, secondo la Chiesa,
la condizione dell’uomo comprensore differisce affatto da quella dell’uomo
viatore. Negare la differenza equivale a levar di mezzo quella speciale durata
diversa dal tempo in cui vive la creatura «liberata dalla vanità» cui è soggetta
(cfr. Rom., 8, 20-1). quella appunto del divenire e del nonessere. Equivale anche
a chiudere la creatura nella temporalità, fare della vita eterna una continuazione
del tempo, scancellare la trascendenza divina e insieme con essa anche la nostra
analogica. Dio non cerca sé stesso, ma si possiede, e similmente la creatura
beatificata non lo cercherà più, ma lo possiederà. Per questo rispetto la
concezione della vita eterna come infinita prosecuzione della vita nel tempo è
una regressione agli Elisii dei Pagani. Questi seppero immaginare la beatitudine
ultramondana solo come la continuazione imperturbata dei diletti del mondo.
Ovidio dipinge la beatitudine degli Elisii come «antiquae imitamina vitae»
(Metam., IV, 445). Nella catabasi dell’Eneide la beatitudine è giuochi atletici,
canti, musiche e persino merende su prati verdeggianti (Aen., VI, 656 sgg.). Il
mobilismo applicato all’escatologia induce dunque all’immanentismo pretto che
interna in Dio il divenire e che per di più leva la trascendenza del fine
proiettando in infinito la presente vita e disconoscendo il saltus a «novi caeli et
nova terra».
CAPITOLO XVIII LA VIRTÙ DELLA FEDE
Nel Congresso dei teologi italiani tenutosi a Firenze nel 1968 il cardinal
Gabriele M. Garrone faceva risalire la crisi della fede all’incapacità (cui però
sfuggì Teilhard de Chardin) di offrire all’uomo contemporaneo una nozione di
Dio che abbia senso per lui [cioè una nozione conforme al suo fastidio per la
ragionevolezza e per la verità]. Sua Eminenza ravvisava nella teologia cattolica
un soverchio di teoreticità, un’intemperanza della ragione, una sorta di
filosofismo. I termini precisi sono questi: «Au siècle dernier les théologiens
avaient été amenés à affirmer la capacité de la raison humaine à prouver
l’existence de Dieu... Les théologiens ont abandonné Dieu entre les mains des
philosophes. Nous devons reconnaître que nous nous sommes trompés, car nous
avons demandé à la philosophie ce qu’elle ne pouvait pas donner... Nous devons
retrouver les attributs de Dieu, non pas les idées abstraites de la philosophie,
mais les noms, les vrais noms de Dieu. Nous avons mission de prêcher non pas
des idées, mais la foi».
Il discorso del cardinale è riferito in ICI, n. 305 (1 febbraio 1968), pp. 12-3.
Avendo io domandato alla direzione di quel periodico se non fosse per avventura
caduto in errore nel riferire e avendo significato al cardinale stesso la domanda
da me fatta alla rivista, questi mi rispose: «Ce texte des ICI ne m’avait pas
échappé et j’ai pris avec les responsables le contact qui convient en leur
remettant le texte authentique de cette conférence. Je n’ai pas besoin de vous
dire que le ton était tout autre». La cosa essendomi parsa degna di prosecuzione
e avendo io insistito presso ICI perché pubblicasse il testo autentico, codesta mia
insistenza provocò un colloquio a Roma di due redattori della rivista con il
cardinale. Mons. Garrone dichiarò allora «préférer ne pas poursuivre
l’affaire»270.
Non occorre addentrarsi. Non si può però non vedere (basta leggere i testi)
che il parlare di mons. Garrone è la contraddittoria del Vaticano I come non
essere capace è la contraddittoria di essere capace. Superfluo poi far risaltare
che il tono, con diesis o bemolle che sia, non muta il tema musicale e che il
sentimento con cui si enuncia un giudizio non può mutare né il significato dei
termini né il valore del giudizio (§ 72). Superfluo similmente è rilevare la
scaturigine modernistica della sentenza cardinalizia, giacché è proprio del
modernismo fondare la credenza sopra un sentimento e un’esperienza del divino,
anziché su una preambola certezza razionale, e tenere che la ragione «nec ad
Deum se erigere potis est nec illius exsistentiam, utut per ea quae videntur,
agnoscere»271 (Enciclica Pascendi, DENZINGER, 2072).
Nel settimanale «Amica» del 7 luglio 1963 nella rubrica La posta dell’anima
mons. Ernesto Pisoni scrive: «La ragione umana può certamente da sola
dimostrare la possibilità dell’esistenza di Dio e provare quindi la credibilità
dell’esistenza di Dio». Questa posizione è proprio a puntino il contrario della
dottrina della Chiesa. La ragione infatti prova non soltanto la possibilità
dell’esistenza di Dio, ma la realtà di tale esistenza. Si può forse anche dire che
l’esistenza di Dio è possibile (ma sant’Anselmo scorge immediatamente
l’esistenza), e che sia possibile si prova mostrando che non implica
contraddizione. La non contraddittorietà è infatti la condizione della possibilità
di una cosa. Però la Chiesa non insegna che l’esistenza di Dio è possibile, ossia
non è assurda, sibbene che essa è reale. «L’esistenza di Dio non ripugna alla
ragione» dice mons. Pisoni non accorgendosi che così egli applica alle verità
naturali la tesi che si pone invece per le verità soprannaturali. Di fronte alle
verità naturali, le quali sono il suo proprio oggetto intelligibile, la ragione
apprende e vede. Di fronte invece alle verità soprannaturali la ragione non
apprende, ma ha per officio di dimostrare che non ripugnano alla ragione.
165. Critica della fede come ricerca. Lessing. − Per la teologia neoterica
invece la nota della fede anziché la stabilità dell’assenso è la mobilità della
perpetua ricerca. Si giunge a dire che una fede autentica deve entrare in crisi,
traversare la tentazione, lontanarsi quanto è possibile da uno stato di riposo. Si
giunge a proclamare desiderabile la moltiplicazione delle obiezioni che
stimolano «a rivedere e riconquistare di continuo le proprie certezze
dell’annuncio cristiano» (OR, 15-6 gennaio 1979).
La parte erronea di questa concezione sta nel prendere per umiltà una
disposizione d’animo che è invece di squisita superbia. Chi infatti alla verità
preferisce la ricerca della verità che cosa preferisce? Preferisce il proprio moto
soggettivo e l’agitazione vitale dell’Io a quel valore per fermarsi nel quale il
moto soggettivo gli è dato. Vi è insomma una posposizione dell’Oggetto al
soggetto e un presupposto antropotropico inconciliabile con la religione, la quale
vuole la sottoposizione della creatura al Creatore e insegna che così sottoposta la
creatura trova il proprio appagamento e la propria perfezione. L’errore per cui si
stima più la ricerca che il possesso della verità è una forma dell’indifferentismo.
Giovanni Paolo II lo ha trafitto in questi termini: «Indifferentismo verso la verità
è ancora di ritenere più importante per l’uomo cercare la verità che raggiungerla,
giacché questa in definitiva gli sfugge irrimediabilmente» (OR, 25 agosto 1983).
A questo errore consegue quello di «confondere il rispetto dovuto ad ogni
persona, qualunque siano le idee che professa, con la negazione dell’esistenza di una
verità obiettiva».
166. Critica della fede come tensione. I vescovi francesi. − La fede, si dice, consiste
in una tensione dell’uomo verso Dio. Tale dottrina è patrocinata nel documento dei
vescovi francesi dopo la loro riunione plenaria del 1968. A p. 80 il documento
ripudia espressamente la definizione della fede come adesione dell’intelletto alle
verità rivelate e ravvisa nella fede un’adesione esistenziale e un atto vitale:
«Longtemps on a présenté la foi comme une adhésion de l’intelligence éclairée par
la grâce et appuyée par la parole de Dieu. Aujourd’hui on en est revenu à une
conception plus conforme à l’ensemble de l’Ecriture. La foi se présente alors
comme une adhésion de tout l’être à la personne de Jésus-Christ. Elle est un acte
vital et non plus seulement intellectuel, un acte qui s’adresse à une personne et non
plus seulement à une vérité théorique... et de ce fait elle ne saurait être mise en péril
par des difficultés théoriques en détail». Poiché la fede è tale tensione vitale, essa
sussiste, indipendentemente da quel che si crede, purché sussista la tensione.
Tale dottrina si scosta dalla tradizione della Chiesa. Certo la religione è una
disposizione dell’intera persona e non soltanto dell’intelletto, ma l’atto di fede è
un atto che la persona fa specificamente mediante l’intelletto. Non si devono
confondere le primalità confondendo poi per necessaria conseguenza le virtù
teologali. La fede è una virtù dell’uomo del genere del conoscere, non del
tendere. La religione si integra sì di tutte tre le virtù teologali ma il suo
fondamento è la fede, non la tensione cioè la speranza. Che la religione si possa
riguardare in genere come un tendere a Dio, io non contendo. Che però consista
per sé in una tensione, è falso. Prima di tutto una tale tensione si confà a qualunque
esperienza religiosa del genere umano, compresa quella di chi adora sterchi e
scarabei e offre sacrifici umani. In secondo luogo tale tensione si confà al
titanismo, dove lo sforzo umano si volge non a riverire il Nume ma a sfidarlo e
abbatterlo. La tensione anzi si confà in sommo grado all’esperienza religiosa di
Satana il quale tendeva con tutte le sue forze a Dio, non per adorarlo, ma per
esserlo. La nota vera della religione è la soggezione e il principio che la costituisce
è il riconoscimento della dipendenza. Il principio della tensione è invece un principio
di autoposizione e di indipendenza.
167. Motivo e certezza della fede. Alessandro Manzoni. − Anche circa il motivo
della credenza religiosa i neoterici discordano dalla dottrina della Chiesa. Dicono
infatti che il motivo del credere è l’integrazione perfetta della persona umana e
l’interezza dell’appagamento ricercato dall’uomo. Questo motivo è legittimo e ben
riconosciuto dalla teologia cattolica, ma non già come motivo primo e
determinante, giacché il fine della religione non è l’appagamento dell’uomo, ma
l’adempimento del fine della creazione, il quale fine è Dio stesso. Qui la spinta
antropotropica del pensiero neoterico riappare. Il fine che Dio assegna all’uomo è
l a giustizia274, cioè l’adesione alla volontà divina, ma proprio in questo fine si
nasconde il fine che Dio si propone nell’assegnare all’uomo come fine la giustizia ed
è di condurlo alla beatitudine. Nella prospettiva dell’uomo il primum deve essere la
giustizia. La beatitudine consiste nell’essere perfettamente giusto, secondo la parola
di Cristo: «Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno satollati
[di giustizia]» (Matth., 5, 6). L’elemento soggettivo della beatitudine deve ridursi
affinché trionfi l’Oggetto.
Anche il fondamento della certezza di fede sta tutto fuori del soggetto. Questa
certezza è per il credente la più incrollabile delle certezze e supera l’inintelligibilità
della cosa rivelata e ogni condizionamento storico. Essendo la cosa rivelata tale
che la mente umana non può né trovarla né verificarla, la sola maniera possibile di
fondare quella certezza è di ricevere quel vero, puramente riceverlo senza mescolarvi
alcunché dal canto nostro, spostare insomma interamente dal lato del soggetto al
lato dell’Oggetto i motivi della certezza. La certezza infatti che il credente ha dei
dogmi della fede non si poggia sugli argomenti storicamente trovati della loro
verità e nemmeno, come già dissi, sulla confutazione delle obiezioni che si
oppongono ad esso. Essa poggia sopra un principio che oltrepassa tutte le
condizioni, tutte le presupposizioni e persino tutte le eventualità storiche.
Credere di fede cattolica è sapere fermissimamente che contro le verità credute
non vale argomento trovato o trovabile; è sapere che non solo sono insussistenti,
false e solubili le obiezioni accampate contro di esse, ma che saranno
insussistenti, false e solubili quelle che potranno essere accampate in tutto il
corso dell’avvenire in secula seculorum sotto qualunque estensione dei lumi del
genere umano.
Si può forse dire che la fede è esperienza di Dio e lo dissero in senso non
retto i modernisti, dimenticando che esperienza di Dio non si dà in questa vita
che per grazia particolare la quale fonda la teologia mistica. Ma lo si può dire, se
si prenda l’esperienza in senso lato di atti consaputi e verificabili, quali sono tutti
gli atti conoscitivi. Anche Giovanni Paolo II, parlando ai teologi, insegnò che
«l’uomo trascende i limiti della conoscenza puramente naturale e fa
un’esperienza di Dio che gli sarebbe altrimenti preclusa». Ma spiegò subito
dopo, richiamandosi a san Tommaso, che l’esperienza di fede è un fatto
essenzialmente intellettivo: «l’uomo può raggiungere una qualche intelligenza
dei misteri soprannaturali grazie all’uso della ragione, ma solo in quanto essa si
appoggia sul fondamento incrollabile della fede, che è partecipazione alla
conoscenza stessa di Dio e dei beati comprensori» (OR, 17 ottobre 1979). Ora
chi dirà che l’uomo mentre è in via ha l’esperienza dei beati comprensori?
La ragionevolezza signoreggia tutti gli atti della religione cattolica che non si
appoggia mai sull’uomo, creatura e dipendente, ma su Dio e sull’indipendente277.
CAPITOLO XX LA VIRTÙ DELLA CARITÀ
Per questa ragion di mezzo che le caratterizza fede e speranza sono caduche,
mentre «Caritas nunquam excidit» (I Cor., 13, 8). La fede cessa quando Dio è
veduto e la speranza quando è raggiunto, mentre la carità si continua nello stato
escatologico, soltanto svestendo l’imperfezione che ebbe nella vita del tempo.
Ma l’eccellenza della carità deriva oltre che dal non essere mezzo, ma atto
dell’uomo che si termina e si eterna in Dio, anche da una ragione teologica più
profonda. Gli enti finiti, in quanto sono nel pensiero di Dio, non possono non
essere, l’ordine ideale essendo una processione naturale interna all’essenza
divina. Questa rosa, per esempio, potrebbe non essere, ma l’idea di questa rosa è
impossibile che non sia; Martino poteva non essere, ma l’idea di Martino non
già. Le cose reali invece, col loro atto di esistenza, potrebbero non essere e
soltanto dall’amore divino son fatte essere.
170. La vita come amore. Ugo Spirito. − Nell’opera di Ugo Spirito La vita
come amore questa risoluzione di tutti i valori, e massime dei logici, nella
categoria dell’amore è teorizzata con coerenza inflessibile e qualificata come il
tramonto della civiltà cristiana, troppo signoreggiata dal Logo. La tesi dello
Spirito implica infatti, come dicemmo già tante ma non troppe volte, la
negazione del Verbo, cioè dell’organismo triadico, cioè di Dio. L’autore sostiene
che il Logo sia incompatibile con l’agape e che si possa giungere all’amore
soltanto eliminando la dualità e opposizione di bene e male e conseguentemente
il giudizio di valore da cui l’opposizione è espressa. Per poter amare occorre
un’acrisia assoluta che levi ogni discretio spirituum e che degradi insomma il
principio di contraddizione in forza del quale il male non è il bene e deve essere
odiato, mentre il bene va amato. Secondo Ugo Spirito la crisi del mondo è
propriamente e formalmente effetto del giudizio onde l’uomo è diviso tra valori
e disvalori, tra cose amabili e cose odibili.
È superfluo osservare che la teoria della vita come amore aborre da giudizi
assoluti e perciò rigetta il giudizio assoluto che nell’etica chiamasi inferno. E
questo non perché si dica che tutti sono salvati, i giusti dalla giustizia e i malvagi
dalla misericordia di Dio, ma perché virtù e crimine sono uno nell’amore che si
situa al di là di ogni contrapposto278.
Non pochi teologi cattolici professano280 che il divieto dell’aborto sia non
un’esigenza immutabile della legge morale, bensì un’esigenza della legge
evangelica e che questa non possa imporsi alla società civile fondata sulla libertà
di opzione per i valori.
Contro le dottrine che inforsano la saldezza della legge naturale si levò Paolo
VI (OR, 31 agosto 1972): «La norma morale, nei suoi principii costanti, quelli
della legge naturale e anche quelli evangelici, non può subire cambiamento. Noi
ammettiamo però che essa possa soffrire incertezze per quanto si tratta
dell’approfondimento speculativo di tali principii ovvero si tratta del loro
sviluppo logico e delle loro applicazioni pratiche». Il Pontefice ripropone la
dottrina classica della grande tradizione filosofica greco-romana e della teologia
cattolica da sant’Agostino al Rosmini, e quasi negli stessi termini. La norma
morale è assoluta essendo un’espressione dell’ordine eterno delle essenze
presente alla divina ragione: «lex naturalis est participatio legis aeternae et
impressio divini luminis in creatura rationali qua inclinatur ad debitum actum et
finem» (Summa theol., I, II, q. 91, a. 2).
La legge naturale dunque è un dettame della ragion pratica, cioè della ragione
giudicante il dover essere delle azioni umane, e sta in parallelo con la ragion
speculativa giudicante l’essere delle cose (Summa theol., I, II, q. 94, a. 2). Perciò,
come dai principii della ragione speculativa si deducono tutti i veri particolari
circa le cose non agibili, così dai principii della ragion pratica si deducono tutti i
giudizi sulle particolari cose agibili; e come in quelli così in questi intervengono
possibilità di errore a mano a mano che il processo deduttivo si allontana dai
principii ed entra nella complicatissima e variegata regione dei fatti contingenti.
La teologia cattolica ha infatti sempre distinto tra le deduzioni prossime che si
traggono dai principii e che sono certe, e le deduzioni remote che tanto più
decrescono in certezza quanto più si allontanano dai principii. Paolo VI nel
citato discorso ripropone questo insegnamento. V’è qualcosa di indefettibile e
incrollabile nell’imperativo morale e v’è qualcosa di mutevole nel mondo delle
azioni umane che devono essere modellate sull’assoluto dell’imperativo morale.
Questa conformità è spesso difficile da riconoscere ed è sempre difficile da
volere. Ma è chiaro che la difficoltà di una conoscenza non leva la assolutezza e
la validità del suo oggetto.
La maestà della legge morale procede dal suo indefettibile vigore che si
identifica in Dio con l’essere di Dio. Essa ne partecipa il carattere di
intemporalità e di assolutezza ed è estranea affatto all’idea di creazione. La legge
naturale infatti è ingenita come Dio e la tradizione teologica della Chiesa ha
sempre escluso che essa sia una creazione: il mondo è creato, ma la legge morale
è increata. È vero che la scuola volontaristica culminante in Guglielmo di Occam
vuole che anche la legge naturale sia un effetto creato contingente ma,
nonostante le interpretazioni attenuative, una tale dottrina rende contingente la
moralità e in sostanza la leva di mezzo. Si può infatti secondo Occam supporre
senza contraddizione un altro ordine morale, liberamente voluto da Dio come
questo, nel quale il bene fosse il male del presente ordine. L’assolutezza importa
invece che l’azione malvagia sia malvagia non pure in questo mondo creato, ma in
qualunque mondo possibile. La legge naturale è dunque impersonale, non già nel
senso che essa non riguardi la persona: la riguarda in sommo grado, ma appunto la
riguarda e non è un’emanazione di essa.
CAPITOLO XXII IL DIVORZIO
L’inimicizia dello Stato moderno verso la Chiesa non si era congiunta mai
all’impugnazione del diritto naturale, di cui è principal presidio la Chiesa. Ma in
età postconciliare la defezione nel 1974 dell’Italia e nel 1981 della Spagna ha
consumato la pienissima emancipazione della società europea dalla sua base
religiosa.
La Chiesa non ha per fine peculiare la rimozione del dolore. Essa rifugge
dalla tracotanza del filosofo antico che sentenziava: «nihil accidere bono viro
mali potest» e da quella del moderno: «Quando si parla di un’azione buona
accompagnata da dolore si dice cosa contraddittoria»288. Gli uomini devono adoperarsi
per rimuovere e punire l’ingiustizia, ma ciascuno vi è esposto indipendentemente dal
suo stato morale. Gli uomini soffrono perché sono uomini, non perché siano
personalmente malvagi. Non entro nel discorso teologico che mostra ogni male umano
dipendere originariamente dalla colpa. La religione non prende scandalo dalla
sofferenza del giusto e non vi ravvisa un’ingiustizia, ma la vede sempre nell’ordine
totale del destino e sempre associata a un sentimento prevalente di gaudio dato dalla
speranza della beata immortalità: «feliciter infelices» secondo la formola di
sant’Agostino risuonante testi paolini289. Il Patriarca invece prende il dolore come
un’ingiustizia, anziché esperienza della virtù, partecipazione al Cristo, purificazione ed
espiazione per i propri e per gli altrui peccati, e per di più trasloca la responsabilità
dell’ingiustizia dal colpevole alla Chiesa incolpevole.
L’aspetto della questione dell’aborto che qui importa rilevare è quello in cui
appare la storicità relativa del precetto morale. Il giudizio circa la liceità di un
atto è la conclusione di un sillogismo vaio, di cui la maggiore è assoluta, la
minore è contingente e la tesi è una verità in cui il contingente è collocato
nell’assoluto. Nella materia dell’aborto il sillogismo è così formato: La vita
dell’uomo innocente è inviolabile. L’embrione è un uomo innocente. Dunque la
sua vita è inviolabile. V’è dunque nel sillogismo che decide della liceità di un
atto una non piccola latitudine nell’apprezzamento del fatto che è il contenuto
della minore. Qui è il punto di incrocio tra la legge e la scelta pratica che il
soggetto fa nell’hic et nunc del suo operare. È anche il punto in cui le cognizioni
scientifiche soccorrono necessariamente alla valutazione morale stabilendo il
fatto che è espresso nella minore. Se l’embrione è in quello stadio uomo o no,
non tocca alla teologia stabilire, ma alla scienza biologica. Questa infatti, come
ogni altra scienza, è subordinata alla teologia, non perché la teologia prescrive
alla biologia le tesi biologiche, ma perché di queste tesi, costituite in modo
autonomo dalla biologia, si serve nel proprio ordine la teologia.
I teologi cattolici tennero per secoli che l’aborto del feto animato del
principio sensitivo ma non ancora del razionale, fosse lecito e in qualche
frangente persino obbligatorio296. Il giudizio circa la status humanus
dell’embrione di donna era comandato dalla teorica aristotelica dei tre principii
di vita (vegetativo, sensitivo, razionale) dei quali solo l’ultimo porta al vivente
l’attualità di uomo. San Tommaso nella Summa theol., II, II, q. 64 sull’omicidio,
non fa uno speciale discorso sull’aborto e Dante in Purg., XXV insegna che
l’anima razionale, la quale fa essere uomo, subentra alla sensitiva solo nel
momento in cui «l’articular del cerebro è perfetto».
Si suppone che vi sia diversità di valore umano tra il feto e la madre così da
poter immolare quello a questa302.
Abbiamo detto in questi paragrafi quel che dicemmo in ogni altro paragrafo e
che è il nerbo del presente libro e il πρῶτον ἀληθές per cui lo scrivemmo. La
crisi del mondo contemporaneo è il rifiuto delle nature o essenze e il credere che
l’uomo possa dare oltre che l’esistenza anche l’essenza delle cose. Per tornare
alla questione, l’uomo è certo causa dell’esistenza del concepito, ma il concepito
è sotto la legge della propria natura e la sua struttura assiologica si impone a
ogni creatura razionale. La questione, come dicevamo, è prima di filosofia che di
diritto. La Corte costituzionale tiene che il feto, che essa riconosce soggetto di
diritti, non sia però persona, perché esso non è né attualmente cosciente né
attualmente volente, identificando così l’esistenza della persona coll’esercizio
attuale dei suoi atti. L’identificazione è fallace: a questa stregua nemmeno il
comatoso, nemmeno il dormiente sarebbero persona, mentre sono
universalmente riconosciuti come tali.
Io credo che questo punto salebroso della dottrina si possa districare solo con
la teoria di potenza e atto. Tertulliano nel cap. 4 dell’Apologeticus chiama
l’aborto homicidii festinatio, giacché «non refert natam quis eripiat animam an
nascentem disturbet: homo est et qui futurus est»304. La formola è un paradosso e
un paralogo ed è conforme a uno schema stilistico prettamente tertullianeo305.
Infatti chi già è attualmente uomo non può cominciare ad esserlo in un momento
ulteriore: già lo è. Ma questa incongruenza tra essere e insieme non essere uomo
scompare se si introduce a interpretarla la teorica tomistica di atto e potenza
secondo cui è identica la sostanza nel momento in cui essa è nello stadio di
virtualità e nel momento in cui essa è attuata in actu exercito. L’uomo è uomo
anche quando non esercita attualmente le operazioni umane, come il medico è
medico anche quando non medica (come quando, poniamo, dorme e lo svegliano
perché può medicare e affinché medichi). Così si vede che la soluzione di un
problema morale può dipendere certo da quel che circa un fatto ha assodato la
scienza, ma che in ultima analisi ogni soluzione che se ne proponga nasconde
nelle sue viscere un supposto che racchiude u n πρῶτον ἀληθές o un πρῶτον
ψεῦδος. Il supposto falso nella sua devoluzione ultima è l’indipendenza della
creatura da sé medesima. Il supposto vero invece è la dipendenza della creatura
da sé medesima, cioè dall’essenza propria che solo Dio le ha data
irrevocabilmente nell’esistenza finita.
187. La pena di morte. − Vi sono delle istituzioni della società che derivano
dai principii del diritto naturale e che come tali godono in varie forme di
perpetuità: tali sono lo Stato, la famiglia, il sacerdozio; e ve ne sono di quelle
che, partorite da un certo grado di riflessione su quei principii e da circostanze
storiche, devono cadere quando la riflessione passi a un grado ulteriore o quelle
circostanze cessino: tale, per esempio, la schiavitù. La pena di morte fu sino a
tempi recenti e giustificata teoreticamente e praticata in tutte le nazioni come
l’estrema sanzione con cui la società percuote il malvagio col triplice scopo di
riparare l’ordine della giustizia, di difendersi e di distogliere altrui dal delitto.
La variazione operata si palesa su due punti. Nella nuova teologia penale non
si fa alcuna considerazione di giustizia e tutta la questione gira sull’utilità della
pena e sull’idoneità di essa a recuperare, come si dice, il reo alla società. Qui il
pensiero neoterico si ricongiunge, come in altri punti, all’utilismo della filosofia
giacobina. L’individuo è essenzialmente indipendente e lo Stato può difendersi
dal delinquente, ma non castigarlo perché abbia infranto la legge morale, cioè
perché sia moralmente colpevole. Tale incolpevolezza del reo si trasfonde poi in
una minore considerazione della vittima e perfino in una preferenza accordata al
reo sopra l’innocente. In Isvezia l’ex-detenuto è privilegiato nei concorsi a
pubblici impieghi in confronto del cittadino incensurato. La considerazione della
vittima ecclissa davanti alla misericordia per il malvagio. L’assassino Buffet
salendo alla ghigliottina grida la sua speranza «di essere l’ultimo ghigliottinato
di Francia». Doveva gridare quella di essere l’ultimo assassino. La pena del
delitto sembra più detestabile del delitto e la vittima cade nell’oblìo. La
restaurazione dell’ordine morale violato con la colpa viene rifiutata come atto di
vendetta. Eppure essa è un’esigenza di giustizia che si deve perseguire anche se
non si può annullare il male preterito e se è impossibile l’emendamento del reo.
Lasciamo di rilevare che questo ferisce il concetto medesimo della giustizia
divina la quale percuote di pena i dannati fuori di ogni speranza o possibilità di
ravvedimento (§ 316). Ma il concetto stesso di redenzione del reo è ridotto a una
mutazione di ordine sociale. Secondo OR del 6 settembre 1978, la redenzione è
«la consapevolezza di tornare a rendersi utile ai fratelli» e non già, come vuole
il sistema cattolico, la detestazione della colpa e il raddrizzamento della volontà
ricondotta alla conformità con l’assoluto della legge morale.
E quando poi si argomenta non potersi troncare la vita di un uomo perché gli
si sottrarrebbe la possibilità dell’espiazione, si neglige la gran verità che la pena
capitale medesima è un’espiazione. Certo nella religione dell’uomo espiazione è
primariamente il convertirsi dell’uomo agli uomini. Bisogna quindi concedere il
tempo a questa conversione e non abbreviarlo. Nella religione di Dio espiazione
è primariamente invece riconoscimento della maestà e signoria divina la quale,
conformemente al principio della puntualità della vita morale (§ 202), si deve
riconoscere in ogni momento, e si può.
190. Inviolabilità della vita. Essenza della dignità umana. Pio XII. −
L’argomento precipuo della nuova teologia penale rimane però quello
dell’inviolabile e imprescrittibile diritto alla vita che resterebbe offeso quando lo
Stato irroga la pena capitale. «Alla coscienza moderna» dice il citato articolo
«aperta e sensibile ai valori dell’uomo, alla sua centralità e al suo primato
nell’universo, alla sua dignità e ai suoi diritti inviolabili e inalienabili la pena di
morte ripugna come un provvedimento antiumano e barbaro». A questo testo che
riunisce tutti i motivi dell’abolizionismo conviene anzitutto fare una chiosa di
fatto. L’accenno dell’OR alla «coscienza moderna» è consimile alla premessa del
documento dei vescovi francesi, secondo i quali «le refus de la peine de mort
correspond chez nos contemporains à un progrès accompli dans le respect de la
vie humaine». Ma tale asserto nasce da propensione viziosa della mente a
compiacersi delle idee piacenti e a foggiare le idee sul desiderio, giacché gli
atroci sterminii di innocenti perpetrati in Germania nazista e in Russia sovietica,
la diffusa violenza contro le persone usata come strumento ordinario da governi
dispotici, la legittimazione e persino l’obbligatorietà dell’aborto trapassate in
legge, l’incrudelire della delinquenza e del terrorismo malamente raffrenati dai
governi, infliggono una cruda smentita all’asserto irrealistico.
E che il diritto alla vita che è inviolabile nell’innocente, non lo sia nel reo,
che l’ha scemato in sé stesso con la depravazione della volontà, appare anche se
si riguardi il parallelo diritto alla libertà: esso pure è innato, inviolabile e
imprescrittibile: tuttavia il diritto penale riconosce legittima la privazione anche
perpetua della libertà per sanzione del delitto e il costume di tutte le nazioni la
pratica. Non c’è dunque diritto incondizionato ad alcuno dei beni della vita
temporale, e l’unico diritto veramente inviolabile è quello al fine ultimo, cioè
alla verità, alla virtù e alla felicità e ai mezzi necessari. Questo diritto non è
toccato nemmeno dalla pena di morte.
La guerra non può essere l’estremo dei mali, tranne per chi adotta la veduta
irreligiosa che ravvisa nella vita, e non nel fine trascendente della vita, il bene
supremo, ed equipollentemente nel piacere il destino dell’uomo. La guerra è
certo un male e la Chiesa lo mette con la fame e la peste tra i flagelli da cui vuole
preservati gli uomini. Leone XIII nell’enciclica Praeclara congratulationis del
1894 denuncia l’inutilità delle guerre e preconizza una Società dei popoli e un
nuovo diritto internazionale. Di Benedetto XV sono memorabili le deplorazioni
dell’«orrenda carneficina» e del «suicidio dell’Europa» nonché la denuncia
dell’«inutile strage» nella Nota del 1 agosto 1917.
192. Pacifismo e pace. Card. Poma. Paolo VI. Giovanni Paolo II. − Della
Chiesa dunque è proprio non il pacifismo assoluto, che assolutizza la vita, ma il
pacifismo relativo, che condiziona la pace alla giustizia e la guerra pure. Ma il
più gagliardo fautore del pacifismo, Erasmo da Rotterdam, nella Querela pacis e
nella parafrasi del Pater noster, insegna al contrario che «non c’è pace ingiusta
che non sia preferibile alla più giusta delle guerre». E diffuse correnti di
opinione hanno sposato l’irenismo assoluto e possono invocare suffragi
autorevoli. Il card. Poma, arcivescovo di Bologna, in OR del 4 maggio 1974,
scriveva: «Nulla più che la guerra è contrastante col Cristianesimo. In essa, che è
la sintesi di tutti i peccati, la superbia s’incontra con lo scatenarsi degli istinti
inferiori». Ma asserzioni così mancanti di distinzioni e di senso storico sono
contrarie a secoli di Cristianesimo, alla riconosciuta santità di guerrieri, come
Giovanna d’Arco, e alla celebrazione che della guerra giusta fece Paolo VI in un
documento speciale per il quinto centenario della morte dello Scanderbeg. Lo
stesso Paolo VI, ricordando in un discorso la visita di Pio XII al popolo di Roma
dopo i bombardamenti del 1943 e il grido di un giovane: «Papa, Papa, meglio la
schiavitù che la guerra! Liberaci dalla guerra!», qualificò un tal grido di «folle»
(RI, 1971, p. 42). Il gran facitore di libertà e di pace che fu Gandhi per poco non
taccia di viltà il pacifismo assoluto: «Il est déjà noble de défendre son bien, son
honneur et sa religion à la pointe de l’épée. Il est encore plus noble de les
défendre sans chercher à faire du mal au malfaiteur. Mais il est antimoral et
déshonorant d’abandonner son partner et pour sauver sa peau de laisser son bien,
son honneur et sa religion à la merci des malfaiteurs».
Qui noterò che già nel Vaticano I fu proposto di stabilire «Qui bellum
incipiat, anathema sit», ma un tale assioma non entrava nel merito morale e non
è certo la priorità cronologica del guerreggiare che dà la qualità. Viene
condannata la micidialità degli atti bellici, perché nega la differenza delle
essenze e fa la guerra essere altro che non sia. Mentre infatti in passato le nazioni
guerreggiavano con l’azione specifica di uno specifico organo, l’esercito
appunto, oggi le nazioni guerreggiano con la totalità dell’organismo sociale e
tutto viene militarizzato: si hanno guerra politica, guerra commerciale, guerra
diplomatica, guerra di propaganda, guerra chimica, guerra biologica e persino
guerra meteorologica317: non più il solo Marte, bensì Marte, Minerva, Mercurio e
quant’altre sono deità dell’Olimpo moderno.
194. Le aporie della guerra. − La moralità della guerra è dunque soggetta a due
condizioni: che sia giusta, e non c’è uso giusto della forza che quando sia usata a
propulsare un’aggressione; e che sia moderata, e non v’è diritto di guerreggiare
che non soggiaccia all’obbligo della moderazione. Non entreremo qui a esaminare
la teoria di don Sturzo nell’opera La comunità internazionale e il diritto di guerra
(Parigi 1932), secondo il quale la guerra non ha rapporto essenziale e necessario con
la natura umana, ma soltanto contingente e quindi evolutivo, possibile ad eliminarsi
come si eliminarono la poligamia e la schiavitù. Osserveremo soltanto che l’uso della
forza, e quindi il principio della guerra, è essenziale alla società civile: questa ordina
la comunità al bene comune mediante la legge, ma anche reprime i violatori e nel
reprimerli (senza consentire con Hobbes) è da riconoscere il suo compito primario. Se
dunque, come insegna la filosofia cattolica dell’etnarchia, i popoli del mondo hanno
da discendere dalla pretesa di sovranità e assoggettarsi a un’autorità supernazionale
(vedi il Vaticano II citato al § precedente), è impossibile tale assoggettamento se
quell’autorità non abbia potere di reprimere efficacemente i violatori, cioè di
guerreggiare contro il socio ribelle. Come nell’attuale organizzazione imperfetta della
convivenza internazionale la guerra è lecita ai singoli stati soltanto per respingere
l’offesa al diritto proprio di essi Stati, così alla società etnarchica la guerra è lecita
soltanto per reprimere l’attacco ai diritti di essa etnarchia.
Secondo alcuni la nazione che guerreggia per legittima difesa compie un atto di
giustizia vendicativa (tra questi il Gaetano), così che il belligerante che ha la giustizia
personam gerit iudicis criminaliter agentis. Secondo altri invece quella guerra è un
atto di giustizia commutativa con cui si ricerca la riparazione e la restituzione di
un bene mal tolto. Non monta decidere la questione in questo luogo. La sentenza
del Gaetano è però conforme al principio cattolico della difesa degli innocenti
accolto nel Sillabo contro quella del non intervento. Ma se la società
internazionale non sia ancora costituita come società perfetta provvista delle tre
funzioni, legislativa, governativa e giudiziale, rimane difficile chiarire la
giustizia di una guerra e portar sanzioni contro il belligerante ingiusto,
esercitando per così dire un officio di tribunale universale. Anche la guerra
giusta è sempre una tristizia per due motivi. Primo, perché essa è un fratricidio
e, se combattuta tra cristiani, è anche una sorta di sacrilegio, dato il carattere
sacro dell’uomo battezzato. Secondo, in guerra l’attività di una parte non può
essere buona senza che l’opposta sia malvagia. La guerra difensiva di chi ha
ragione è giusta, ma può essere tale soltanto se l’attaccante è ingiusto. Per questa
duplice tristizia il Kant, Zum ewigen Frieden, dice che il giorno della vittoria
dovrebbero vinti e vincitori vestir gramaglie; e nel coro del Carmagnola del
Manzoni sono «cori omicidi» a innalzare «grazie ed inni che abomina il Ciel».
195. L’aporia della guerra moderata. Voltaire. Pio XII. Impossibilità finale
della guerra moderna. − La moderazione appare dunque l’esigenza ineccepibile
del guerreggiare con giustizia. E non soltanto verso il nemico deve la guerra
essere moderata, bensì anche dal canto del belligerante giusto. È dunque
proscritta la difesa ad oltranza, che è senza speranza di vittoria e con certezza di
olocausto vano320.
Che la soluzione dell’aporia della moderna guerra sia possibile solo col
riconoscimento di un’autorità etnarchica insegna Giovanni Paolo II nel
messaggio per la Giornata della pace (OR, 21 dicembre 1981), ma il Papa vede
la società delle nazioni come un istituto di dialogo e di trattative (già lo è),
mentre tace della forza, che è invece il nerbo essenziale dell’autorità. Non
sembra peraltro che il Papa proscriva la guerra difensiva, giacché se la
proscrivesse si inaugurerebbe una vacatio legis per la quale il mondo sarebbe
abbandonato all’iniziativa dei malvagi. Le parole del Papa a Coventry non
condannano la guerra difensiva non condannata dal Concilio, bensì l’iniziativa di
chi prende le armi, atomiche o convenzionali che siano, coll’intento di risolvere
da sé stesso le controversie. Chi invece attaccato si difende, usa la forza con
pieno diritto. Tuttavia a cagione dell’obbligo della moderazione, l’aporia
sussiste.
Più importante è però trafiggere l’errore nascosto nel concetto di creatività della
coscienza il quale è contraddittorio in terminis328. La coscienza è il sentimento
dell’alterità e dell’assoluta imponenza della legge, alla quale l’uomo non può dare o
togliere alcunché tranne l’ossequio della sua libertà. Se la coscienza creasse, proprio
in tale suo creare sarebbe immorale, perché la moralità è l’armonia della volontà
con l’ordine ideale che nemmeno in Dio è creato o creabile. Perciò se la
coscienza fosse creazione anziché ricognizione non avrebbe norma cui
armonizzarsi e solennizzerebbe l’arbitrio. La morale è riconoscimento pratico
della verità e una sorta di veracità onde l’uomo profferisce a sé stesso la verità:
profferisce, non partorisce.
Si dirà che la vita morale è pure un’attività, anzi la suprema attività dello
spirito. Lo dico anch’io. Ma non è affatto creazione di regole, bensì attuazione di
una regola che è data e che l’uomo ha soltanto da ricevere. Uno dei pensatori
cattolici che più altamente riconobbero la posizione dell’uomo di fronte alla
legge è il Rosmini: «Il principio obbligante» dice «affetta e lega tutto intero il
soggetto uomo: se dunque questo soggetto tutto intero è affettato e legato, non
c’è niente in lui che non sia passivo: non resta dunque in lui principio alcuno che
sia attivo, cioè che possa aver la virtù di obbligare». «L’uomo è meramente
passivo verso la legge morale: egli riceve in sé questa legge ma non la forma: è
un suddito a cui la legge si impone, non è un legislatore che la impone»329.
La morale di situazione, come appare dai citati testi del card. Etchégaray e
del padre Schillebeeckx, introduce pure, sordamente e surrettiziamente, il
concetto di intenzione retta. Non c’è infatti né retto né torto dove la coscienza,
per così dire, solitaria e slegata dalla norma, è indipendente dalla legge.
Si può insomma dire che «la morale evangelica liberando dalla legalità
trasferisce nell’interno dell’uomo la radice della morale»? Si può dirlo e lo disse
Paolo VI (OR, 17 giugno 1971), ma interpretando rettamente parole facili a
cadere nell’anfibologia. Non è possibile che le radici della morale umana siano
nell’uomo che non è un essere radicale e non può quindi essere radice di morale.
La morale infatti è un ordine assoluto e l’uomo invece un ente contingente e
relativo cui l’assoluto è presente e si impone, ma non ha certo le proprie radici in
lui.
201. La morale della globalità. − La teoria della vita morale come globalità e
del conseguente deprezzamento dei singoli atti non credo abbia precedenti nella
storia della morale ed è la novità saliente della scuola neoterica. Essa si sviluppò
attorno al problema degli anticoncettivi negli anni di grave incertitudine che
corsero tra la decisione del Vaticano II di rimettere al Papa la definizione di
questo punto e la promulgazione della Humanae vitae che decise la disputa in
favore della sentenza tradizionale.
Il punto è arduo, ma si può dire che l’i