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COLLANA

SAGGISTICA

DIRETTA DA GIOVANNI ZENONE

28

Romano Amerio

Iota unum

Studio delle variazioni della Chiesa cattolica nel secolo xx

Prefazione di S.E. Mons. Luigi Negri

Testi di don Divo Barsotti e P. Giovanni Cavalcoli


Fede & Cultura

IOTA UNUM - Romano Amerio

© Fede & Cultura

ISBN: 978-88-6409-173-0

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memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale,
con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati
per tutti i Paesi. L’Editore resta a disposizione degli eventuali aventi diritto.
PREFAZIONE

Carissimi amici di Fede & Cultura,

con la riedizione in Italia di Iota Unum di Romano Amerio voi compite un


gesto realmente epocale: si chiude definitivamente − io spero − il tempo delle
damnatio memoriae, di cui Romano Amerio ha subito un peso rilevantissimo,
quasi incredibile, e penso che si riapra, perché questo è un dato della tradizione,
la capacità di incontro e di confronto e di dialogo che è stata invece radicalmente
messa in discussione dalle ideologie alternative. Il tradizionalismo esasperato e il
progressismo altrettanto esasperato hanno avvelenato il mondo ecclesiale, il
mondo teologico e il mondo culturale in Italia e non solo in Italia.

Romano Amerio è stato un mio indimenticabile maestro, espressione grande


della scuola dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Legato da vincoli di
profonda amicizia e reciproca stima con Gustavo Bontadini, Francesco Olgiati,
Sofia Vanni Rovighi, egli ha portato la cultura dell’Università Cattolica e la sua
rigorosa affermazione neoclassica nell’ambito della cultura europea,
cominciando da quel fertilissimo laboratorio culturale che è stato, durante gli
anni del suo insegnamento, il liceo classico cantonale di Lugano. Egli è stato
certamente il protagonista della storia della filosofia e della cultura di buona
parte del XX secolo. I suoi scritti sulla Rivista di Filosofia Neoscolastica sono
ancora, a distanza di decenni, punti di riferimento fondamentali. Da lui
personalmente sono stato introdotto all’incontro con Tommaso Campanella. Si
deve ad Amerio quella fondamentale inversione nella interpretazione
campanelliana che egli solo, con una serie enorme di studi, poté realizzare,
strappando Campanella al pensiero naturalistico-razionalistico, e quindi
laicistico, e riconsegnandolo alla tradizione cattolica come uno dei più vigorosi
teologi del XVI/XVII secolo, forse uno dei più grandi apologeti della chiesa
moderna. A lui devo appunto questa introduzione, questo poter camminare dietro
di lui passo a passo per introdurmi in un autore di straordinaria importanza e di
una cultura immensa. Ho rivisto Romano Amerio proprio per l’ultimazione del
volume che ho dedicato a Campanella a quasi vent’anni dalla discussione dalla
mia tesi di laurea quando, ormai quasi cieco, conservava ancora un vigore
intellettuale e morale di grandissimo rilievo. La sua cultura è una cultura
straordinaria: se Giovanni Paolo II usò per Hans Urs von Balthasar l’espressione
“il cristiano più colto del nostro tempo”, credo di non recare offesa ad alcuno
ritenendolo io uno dei più grandi uomini di cultura italiani del XX secolo. La sua
è una cultura sterminata, che abbraccia i campi della teologia, della storia della
Chiesa, della storia della filosofia, dell’antropologia culturale, dell’etica
sintetizzati nelle lettere classiche; fu la scoperta del mondo antico in dialogo
profondo e sinergico col mondo cristiano, quasi in parallelo con quello che stava
facendo quasi contemporaneamente Romano Guardini. Ogni riga di Amerio è
intessuta di citazioni, che soltanto chi ha una buona e grande conoscenza della
storia della filosofia o della letteratura o della teologia riesce a far emergere, al di
là della molteplicità quasi infinita delle note che corredano tutti i suoi scritti ed
in particolare Iota Unum.

Quello che voi fate è un fatto epocale, perché Romano Amerio ha cominciato
nei primissimi anni del post-concilio (ma il materiale era stato raccolto a partire
dagli anni ’30 con un rigore e con una precisione filologica straordinaria), a
vivere e a maturare quella che Benedetto XVI, nel 20051, ha definito come
l’ermeneutica della continuità (contro l’ermeneutica della rottura). Romano
Amerio ha posto delle questioni a partire dall’impianto della tradizione culturale
e teologica e filosofica; ha posto domande ai testi del Concilio, ma soprattutto ad
alcuni testi non dotati dell’autorevolezza magisteriale del Concilio, che
andavano pullulando, sia nella fase dell’inizio della sua interpretazione che nella
fase dell’attuazione. Ha posto legittime domande, anche se probabilmente
nell’impeto della polemica ha usato espressioni non tutte felicissime (ma non
sono più di due o tre nell’ambito di Iota Unum).

Questo testo è uno strumento prezioso per chi vuole attuare il progetto del
Papa di leggere una continuità sostanziale tra il magistero e la teologia prima del
concilio, il concilio e il post-concilio. Iota Unum è l’espressione di un realismo
del pensare cristiano e di un’assenza di pregiudizi nel tentativo di interpretare le
vicende e le dottrine e di confrontarsi su questo. L’incredibile – cui purtroppo
abbiamo assistito sgomenti − è che su questo autore e su questo libro è calato un
silenzio rigoroso e assoluto, una damnatio memoriae che ha agito come se
Romano Amerio non fosse mai esistito o come se, essendo esistito, fosse morto
nel silenzio e nel misconoscimento di tutti. Questa è una lezione sostanziale per
chi vuol capire gli avvenimenti, non soltanto ecclesiali ed ecclesiastici del XX
secolo, ma anche le grandi questioni antropologiche e culturali dell’oggi. Si può
dire di questo libro, come di pochissimi altri, che è un libro necessario, la cui
lettura è necessaria per la comprensione del tempo in cui viviamo, ma soprattutto
per la responsabilità che abbiamo nei confronti del futuro. La mia è quindi una
grande gratitudine che si fa incoraggiamento e benedizione perché questo testo
abbia finalmente, a distanza di decenni, quell’accoglimento che sarebbe stato
giusto gli fosse riservato quando è uscito e che la nequizia dei tempi e la
meschinità intellettuale di molti ha impedito.

† Luigi Negri,

Vescovo di San Marino − Montefeltro


INTRODUZIONE

Alla mia venerabile età, forse non prenderò più in mano la penna, o forse la
prenderò, non so. Però, anche se con grande fatica ormai, io vorrei approfittare
della bella occasione che mi si offre, e far conoscere in qualche tratto minimo il
mio pensiero su un cattolico vero a me caro come fu Romano Amerio […] che,
specialmente con il suo famoso Iota unum, tanto turbò le coscienze cattoliche.
[…] Parlare di Romano Amerio […] è parlare di un ordine della verità e della
carità, dove la prima è congiunta alla seconda, ma la precede.

Amerio dice in sostanza che i più gravi mali presenti oggi nel pensiero
occidentale, ivi compreso quello cattolico, sono dovuti principalmente ad un
generale disordine mentale per cui viene messa la caritas avanti alla veritas,
senza pensare che questo disordine mette sotto sopra anche la giusta concezione
che noi dovremmo avere della Santissima Trinità. La cristianità, prima che nel
suo seno si affermasse il pensiero di Cartesio, aveva sempre proceduto
santamente facendo precedere la veritas alla caritas, così come sappiamo che
dalla bocca divina del Cristo spira il soffio dello Spirito Santo, e non viceversa.

Nella lettera con cui Amerio presenta a Del Noce quello che sarà poi il
celebre Iota unum, egli spiega chiaramente il fine per cui lo ha scritto, che è «di
difendere le essenze contro il mobilismo e il sincretismo propri dello spirito del
secolo». Le «essenze», cioè le tre Persone della Santissima Trinità e le loro
processioni, che la teologia insegna avere un ordine inalterabile: “In principio
era il Verbo”, e poi, riguardo all’Amore, “Filioque procedit”: l’Amore procede
dal Verbo, e mai il contrario.

Di rimando, il filosofo Augusto Del Noce, evidentemente colpito dalla


profondità delle tesi di Amerio, annota: «Ripeto, forse sbaglio. Ma a me pare che
quella restaurazione cattolica di cui il mondo ha bisogno abbia come problema
filosofico ultimo quello dell’ordine delle essenze». Io vedo il progresso della
Chiesa a partire da qui, dal ritorno della santa Verità alla base di ogni atto. La
pace promessa da Cristo, la libertà, l’amore sono per ogni uomo il fine da
raggiungere, ma bisogna giungervi solo dopo avere costruito il fondamento della
verità e le colonne della fede.

Dunque, come dice Amerio, partire da Cristo, dalla sovrannaturale verità che
Lui solo insegna, per avere da Lui il dono dello Spirito Santo con cui sempre
Lui, il Signore, ci dà vita e forza, e salire a porre infine l’architrave della caritas.

Romano Amerio era un laico, un laico che ha conosciuto il Signore. Egli ha


conosciuto il Credo evangelico e ne è divenuto limpido testimone. Ho sempre
avuto l’impressione − pur non avendolo mai conosciuto di persona − di avere
visto in lui un vero cristiano, che non ha mai avuto paura di affrontare i temi pili
impegnativi della Rivelazione.

Quello che meraviglia − ed è la sua vera grandezza − è che pur essendo un


laico egli è un vero testimone. Non è un teologo, non è un uomo di religione, ma
uno che ha avuto da Dio il carisma di vedere quello che è implicito
nell’insegnamento cristiano. Egli lo sente, ed accetta questo suo ruolo. Mi sento
di poter dire: fa quanto il Signore gli ispira.

Tutta la cristianità ha motivo di ringraziare Dio per Romano Amerio, che in


questi tempi difficili ha parlato così chiaramente dei fondamenti della
Rivelazione.

Mi ha sempre meravigliato, ripeto, la conoscenza che Amerio ha del carisma


che Dio gli ha dato. Per questo carisma, e per il dono che egli umilmente ne fa,
Amerio rimane nella Chiesa una figura di primo piano.

Casa San Sergio − Settignano


14 gennaio 2005

Don Divo Barsotti

Fondatore

della Comunità dei Figli di Dio


NOTA ORIENTATIVA

È un ottima iniziativa quella di ripubblicare Iota unum, opera monumentale


nella quale l’illustre Autore denuncia le gravi deviazioni e i mutamenti
ingiustificati per non dire eretici − di carattere neomodernistico e filoprotestante
− avvenuti nella teologia postconciliare.

I pregi dell’opera in modo particolare sono i seguenti:

1. L’uso di un criterio di valutazione integralmente cattolico, con speciale


riferimento ai princìpi della dottrina di S.Tommaso d’Aquino, dei Padri
della Chiesa e degli autori ecclesiastici.

2. Il riferimento costante alla Tradizione cattolica in quanto fonte della


Rivelazione, prescindendo quindi da quelle tradizioni che ormai hanno
fatto il loro tempo. Questo criterio consente all’Amerio di giudicare come
falso ciò che muta questa Tradizione.

3. L’opera, frutto di una ricchissima cultura letteraria, filosofica e teologica,


prende in considerazione tutti i principali aspetti della dottrina e della
morale cattoliche, nonché della vita ecclesiale.

4. L’autore giustamente denuncia, dal punto di vista filosofico, la mentalità


nominalistico-empirista esistenzialista-storicista come responsabile della
cecità nei confronti dell’immutabilità dell’essenza in quanto elemento
intellegibile dell’ente, senza per questo escludere l’esistenza di realtà
mutevoli. Ma anche l’essenza di queste, in quanto oggetto
dell’intelligenza, è immutabile.
5. La gnoseologia che si fonda su questa metafisica, detta dall’Autore
“mutabilismo” o “neoterismo”, conduce inevitabilmente al fenomenismo,
all’agnosticismo, al relativismo e al nichilismo, che finiscono per
distruggere l’integrità e la purezza del dogma cattolico.

6. Il relativismo gnoseologico porta – ed altrimenti non potrebbe essere –


alla grave corruzione dei costumi e in special modo della vita cristiana
pubblica e privata, alla quale oggi assistiamo in un crescente
peggioramento.

7. Tuttavia l’Autore, da buon cattolico, forte nello sperare contra spem, sa


che portae inferi non praevalebunt, e che quindi la Chiesa di Cristo è in
cammino verso l’incontro pasquale col suo Signore.

8. Il libro può servire per un proficuo dialogo attualmente avviato tra la


S.Sede e il movimento lefevriano.

9. Il libro è scritto con consumata abilità letteraria e stile chiaro, sereno,


persuasivo ed avvincente. Non risparmia i toni severi, ma sempre con
finezza e signorilità. Si vede che la critica, pur tagliente, è ispirata dalla
carità

Insieme con le meritate lodi, sembra bene però necessario notare che
l’Autore:

1. Non sempre fa capire con chiarezza che le deviazioni postconciliari non


sono dovute alle dottrine del Concilio in se stesse, ma ad una loro falsa
interpretazione di tipo modernistico.
2. Dà a volte l’impressione che l’ecclesiologia conciliare abbia mutato
l’essenza della Chiesa, il che non è neppure pensabile per un cattolico,
giacché l’insegnamento dottrinale di un Concilio ecumenico − anche se
non contiene dogmi definiti − è infallibile (doctrina proxima fidei).

3. Insiste sul carattere pastorale degli insegnamenti conciliari e trascura che


esistono anche dati dottrinali. Il che può far pensare che l’Autore (al quale
non si nega la buona fede) prenda a pretesto questo supposto carattere
esclusivamente “pastorale” e quindi opinabile del Concilio, per
permettersi di dissentire dagli insegnamenti dottrinali (ci sono due
“costituzioni dogmatiche”!).

4. Sembra ignorare gli interventi della Chiesa postconciliare, specie della


Congregazione per la Dottrina della Fede, che hanno per oggetto la
condanna di quegli stessi errori criticati dall’Autore, anche se è
condivisibile il rilievo che egli fa circa la diffusa negligenza da parte delle
autorità di oggi nell’individuare e confutare gli errori, oggi sparsi
dovunque e che fanno sì che il termine “cattolico” sia diventato
profondamente equivoco.

5. L’Autore non mostra sufficientemente la continuità, messa in rilievo


anche dall’attuale Pontefice, tra l’insegnamento del Vaticano II e quello
dei concili precedenti. Sacro dunque è il dovere di conservare
l’insegnamento di questi, ma altrettanto sacro il dovere di accogliere gli
insegnamenti (almeno quelli infallibili) del Vaticano II, ovviamente non
nell’interpretazione dei modernisti ma in quella del Magistero e alla luce
della Tradizione.

6. L’Autore invece non pare vedere sufficientemente il Concilio come


esimio testimone di quella sacra Tradizione che giustamente gli sta a
cuore.


P. Giovanni Cavalcoli O.P.
CAPITOLO I LA CRISI

1. Precisazioni di lessico e di metodo. – La determinatezza dei vocaboli è sanità


del discorso. Discorso infatti è passaggio da un’idea all’altra, non comunque e per
nessi fantastici, ma regolatamente e per nessi logici. Perciò la preliminare
dichiarazione dei termini è principio di chiarezza, di coerenza e di legittimità
dell’argomentare.

Ho preferito nel frontespizio di questo libro il termine variazione a quello di crisi


per due ragioni. E prima, perché crisi, in forza del vocabolo, è un fatto puntuale,
incompatibile con la durata. I medici oppongono il giorno critico o decretorio alla
lisi che è un processo svolgentesi in una durata. Il fenomeno che è il soggetto di
questo libro è invece un fenomeno diacronico che attraversa decenni. Secondo,
perché crisi è un momento di decisione tra un’essenza e un’altra, tra uno stato e un
altro diverso per natura. Tali sono per esempio il passaggio tra vita e morte (in
biologia), tra innocenza e peccato (in teologia). Non è crisi invece la variazione
accidentale che avviene entro la medesima cosa. Il fatto che dà luogo allo zigote
vitale è una crisi, il trascolorare della foglia dal verde al bruno non lo è.

A parlare esattamente si dovrebbe quindi usare il termine di crisi solo quando


fosse assodato uno straordinario moto storico atto a partorire un cangiamento di
fondo e di essenza nell’umana vita. Una variazione può essere una crisi, ma che
quelle variazioni che si studiano nel libro si identifichino con delle crisi non
costituisce il presupposto della nostra ricerca. Noi tuttavia, secondando l’uso lessicale
comune, denomineremo crisi anche quei fenomeni che non avverano il concetto così
delineato della crisi, ma gli si approssimano.

Per sfuggire all’accusa che ci si potrebbe muovere di avere in tanta mole di prove
e di documentazioni operato una selezione, abbiamo fissato questo criterio. Dovendo
provare le variazioni della Chiesa, abbiamo fondato il nostro discorso non su una
qualunque parte della quasi infinita pubblicistica ad esse attinente, bensì soltanto su
documenti che più certamente annunciano la mente della Chiesa. Le nostre
allegazioni sono di testi conciliari, di atti della Santa Sede, di allocuzioni papali, di
dichiarazioni di cardinali e vescovi, di pronunciati di Conferenze episcopali, di
articoli dell’«Osservatore Romano». Ci sono nel nostro libro le manifestazioni
ufficiali o ufficiose del pensiero della Chiesa gerarchica. Certo abbiamo anche
citato, ma sempre in linea secondaria, libri e discorsi e atti fuori di questa cerchia,
ma solo come prova del prolungarsi ed espandersi di posizioni già espresse o
virtualmente, ma necessariamente, contenute nella prima categoria di allegazioni.
Il soggetto della nostra ricerca è parziale (quale non lo è?), ma la nostra veduta no.

2. Negazione della crisi. – Alcuni autori negano l’esistenza o la peculiarità del


presente smarrimento della Chiesa2, adducendo la dualità e l’antagonismo tra
Chiesa e mondo, tra regno di Dio e regno dell’uomo, antagonismo che è inerente
alla natura del mondo e alla natura della Chiesa. Ma tale negazione ci pare
difettosa, perché l’opposizione essenziale non è già tra il Vangelo e il mondo
inteso come totalità delle creature, la quale il Cristo viene a salvare, ma tra il
Vangelo e il mondo in quanto in maligno positus (I Ioann., 5, 19), intaccato dal
peccato e orientato al peccato, per il quale Cristo non prega (Ioann., 17, 9).
Quell’opposizione essenziale potrà ridursi o dilatarsi secondo che il mondo come
totalità convenga meno o più col mondo del maligno, ma non si deve mai perdere
la distinzione né mai credere essenziale una opposizione che è, con varia
estensione e intensione, soltanto accidentale.

3. Errore del Cristianesimo secondario. – Per questa varietà rimane esclusa


l’opinione di quelli che negano esserci stati tempi in cui la Chiesa abbia meglio
che in altri penetrato il mondo e in cui il Cristianesimo sia meglio riuscito, cioè
meglio uscito all’atto suo proprio. Tali sarebbero i tempi della Cristianità
medievale in rispetto a quelli appunto dell’evo moderno. Chi nega che esistano tali
secoli privilegiati si appoggia principalmente sul persistere ora e allora delle
guerre, della servitù, dell’oppressione dei poveri, della fame e dell’ignoranza,
tenute tutte per cose incompatibili con la religione di cui proverebbero anzi
l’inefficacia. Queste colpe furono e sono nel genere umano che dunque, pare, non
è redento né redimibile dal Cristianesimo. Forse però tale opinione cade in
quell’errore che noi chiamiamo Cristianesimo secondario: si giudica della
religione per i suoi effetti secondari e subordinati in ordine alla civiltà, facendoli
primeggiare e sovraordinandoli a quelli ultramondani che le sono propri. Qui batte
il concetto medesimo di civiltà e di progresso che si toccherà più in avanti (§§
207-8 e 218-20).

4. La crisi come inadattamento. – Più comune è la sentenza secondo la quale la


crisi della Chiesa è crisi di inadattamento alla progrediente civiltà moderna e il
superamento della crisi è da ricercare in una apertura o, secondo il motto di
Giovanni XXIII, in un aggiornamento dello spirito della religione, fatto cospirare
allo spirito del secolo.

Conviene al proposito osservare che la penetrazione del mondo ad opera della


Chiesa è congenita alla Chiesa, la quale è levame del mondo (Luc., 13, 21) e si
vede storicamente essere proceduta all’occupazione di tutti gli ordini della vita
temporale: non prescriveva persino il calendario e i cibi? L’occupazione montò a
tal misura che contro di essa si leva l’imputazione di avere usurpato sul temporale
e si accampa l’esigenza di una sua purgazione e separazione. In realtà
l’accomodazione della Chiesa nel mondo è una legge della religione, che pone un
Dio fatto uomo per condiscendenza, ed è una legge della storia, che mostra il
progressivo o regressivo, ma sempre in atto, appigliarsi della Chiesa alle cose del
mondo. Però l’accomodazione che è essenziale alla Chiesa non consiste nel
conformarsi al mondo: Rom., 12, 2: «nolite conformari huic seculo», ma nel
conformare la propria contrarietà al mondo secondo le varie attinenze storiche, e
nel variare, non nel deporre, quell’essenziale contrarietà. E così di fronte al
Paganesimo il Cristianesimo mise fuori una virtù opposta, rifiutando politeismo,
idolatria, servitù dei sensi, passione di gloria e di grandezza e sollevando insomma
tutto il terrestre a una mira teotropica, nemmeno subodorata dagli antichi. Eppure i
cristiani nell’attuare tale antagonismo al mondo, vivevano nel mondo come esseri
aventi un destino mondano. Nell’epistola a Diogneto essi appaiono indiscernibili
dai pagani in tutti gli usi della vita3.


5. Accomodazione della contrarietà della Chiesa al mondo. – Similmente di
fronte ai barbari la Chiesa non assunse la barbarie, ma si rivestì di civiltà; e nel
secolo XIII di fronte allo spirito di violenza e di cupidigia assunse lo spirito di
mansuetudine e di povertà col gran movimento francescano; e non assunse
l’aristotelismo rinascente, ma rigettò con forza la mortalità dell’anima, l’eternità
del mondo, la creatività della creatura, la negazione della provvidenza,
contrapponendosi così a tutto quel che era essenziale all’errore dei Gentili. E
poiché quelli sono gli articoli principali di Aristotele, si può chiamare la Scolastica
un aristotelismo disaristotelizzante. E questa operazione il Campanella vuole
adombrata allegoricamente nel mozzar chioma e unghie alla bella donna fatta
prigioniera (Deut., 21, 12). E più tardi al soggettivismo luterano non si accomodò
soggettivando Scrittura e religione, ma riformando, cioè formando di nuovo, il suo
principio di autorità. Infine alla temperie razionalistica e scientistica dell’Ottocento
non si attemperò risolvendo o circoncidendo il dato di fede, ma al contrario
condannando il principio dell’indipendenza della ragione. Anche l’impulso
soggettivale rinascente nel modernismo non lo accolse, ma lo contenne e lo
castigò.

In generale dunque si può dire che l’antagonismo del cattolicismo al mondo è


invariabile, ma che solo variano le modalità di esso, opponendosi espressamente in
quegli articoli e in quei momenti in cui lo stato del mondo appella che
l’antagonismo sia dichiarato e professato. La Chiesa infatti proclama la povertà
quando il mondo (ed essa medesima) si prosterna alla ricchezza, la mortificazione
quando il mondo segue le illecebre delle tre concupiscenze, la ragione quando il
mondo volge all’illogismo e al sentimentalismo, la fede quando il mondo
imbaldanzisce nella scienza.

La Chiesa contemporanea viceversa va cercando «alcuni punti di convergenza


tra il pensiero della Chiesa e la mentalità caratteristica del nostro tempo» (OR, 25
luglio 1974).

6. Ancora la negazione della crisi. – Non mancano, in verità sono rari, coloro
i quali negano l’attuale smarrimento della Chiesa e quelli che addirittura
riguardano questo articulus temporum come rinnovamento e fioritura. La
negazione della crisi potrebbe appoggiarsi su alcune allocuzioni di Paolo VI, ma
queste sono bilanciate e sovrabbondantemente superate da altrettante e più
parole che suonano in contrario. Singolare documento del pensiero papale è il
discorso 22 febbraio 19704. Dopo avere ammesso che la religione regredisce, il
Papa sostiene essere però «errore fermarsi all’aspetto umano e sociologico,
perché l’incontro con Dio può nascere da processi che esulano dai calcoli
puramente scientifici: l’avvenire sta al di fuori di ogni nostro preventivo». Qui
sembra che si confonda quello che Dio può, come dicono i teologi, di potenza
assoluta con quello che può di potenza ordinata, dentro l’ordine cioè di natura e
di salvezza da lui istituito con libero decreto e realmente esistente5. Per tale
confusione il problema della crisi viene eluso. Introducendo infatti il concetto di
un’azione che Dio farebbe fuori dell’ordine da lui di fatto voluto, quel che si
deplora nella religione storicamente considerata, la crisi appunto, diventa
impossibile deplorare. Che «l’incontro con Dio possa prodursi a dispetto
dell’attitudine refrattaria alla religione», questo è verissimo, ma nihil ad rem. Se
si riguarda quel che Dio può fare di potenza assoluta si trasgredisce alla
taumatologia. Allora si può avanzarsi sino a negligere la contraddizione e
sostenere, come fa il Papa in un’altra allocuzione, che «quanto più l’uomo
moderno è indisposto verso il soprannaturale, tanto più è disposto». Perché
infatti, considerando la potenza assoluta di Dio, non lo sarebbe?

7. Il Papa riconosce lo smarrimento. – In molti momenti in cui il suo spirito


ricusava il «loquimini nobis placentia» (Isai., 30, 10)6 Paolo VI scolpì con
formule drammatiche il declino della religione. Nel discorso al Seminario
lombardo in Roma del 7 dicembre 1968 egli disse: «La Chiesa si trova in un’ora
inquieta di autocritica, si direbbe meglio di autodemolizione. È come un
rivolgimento acuto e complesso che nessuno si sarebbe atteso dopo il Concilio.
La Chiesa quasi quasi viene a colpire sé stessa». Non insisto nel celebre discorso
del 30 giugno 1972 in cui il Papa afferma di avere la sensazione «che da qualche
parte sia entrato il fumo di Satana nel tempio di Dio». «Anche nella Chiesa»
proseguiva «regna questo stato di incertezza. Si credeva che dopo il Concilio
sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. È venuta invece
una giornata di nuvole, di tempesta, di buio». E la cagione del guasto generale,
in un ulteriore passo divenuto similmente celebre, il Papa la trovava nell’azione
del Diavolo, dell’energia del male che è persona di perdizione, riportando così
tutta la sua analisi storica nelle linee dell’etiologia ortodossa che proprio nel
princeps huius mundi (qui mundus è il termine dell’opposizione autentica)
ravvisa non una metafora del peccato puramente umano e del kantiano radikal
Böse, ma una persona realmente confliggente e cooperante all’umana volontà.
Nel discorso del 18 luglio 1975 il Papa passava poi dalla diagnosi e
dall’etiologia alla terapia del male storico della Chiesa, mostrando di ben capire
che più dell’assalto dall’esterno percuote la Chiesa l’interiore dissoluzione. Con
veemente affettuosa commozione egli ingiungeva: «Basta con il dissenso
interiore alla Chiesa. Basta con una disgregatrice interpretazione del pluralismo.
Basta con l’autolesione dei cattolici alla loro indispensabile coesione. Basta con
la disobbedienza qualificata come libertà».

Lo smarrimento continua ad essere attestato dai successori. Giovanni Paolo II


in occasione di un convegno per le Missioni al popolo descrisse in questi termini
la situazione della Chiesa (OR, 7 febbraio 1981): «Bisogna ammettere
realisticamente e con profonda e sofferta sensibilità che i cristiani, oggi, in gran
parte, si sentono smarriti, confusi, perplessi e perfino delusi; si sono sparse a
piene mani idee contrastanti con la Verità rivelata e da sempre insegnata; si sono
propalate vere e proprie eresie, in campo dogmatico e morale, creando dubbi,
confusioni, ribellioni; si è manomessa la Liturgia; immersi nel “relativismo”
intellettuale e morale, e perciò nel permissivismo, i cristiani sono tentati
dall’ateismo, dall’agnosticismo, dall’illuminismo vagamente moralistico, da un
cristianesimo sociologico, senza dogmi definiti e senza morale oggettiva».

8. Pseudo-positività della crisi. Falsa teodicea. – Ben oltre la negazione


della crisi si avanzano alcuni che tentano configurarla come un fenomeno
positivo. Si fondano a questo scopo su analogie biologiche, parlando di fermenti
e di crisi di crescenza. Sono circiterismi7 e metafore che non possono entrare in
un discorso logico e in un’analisi storica. Quanto ai fermenti, divenuti nella
letteratura postconciliare un luogo comune di chi vuole abbellire il brutto, si può
sì adoperare l’analogia biologica, ma bisogna distinguere fermenti produttivi di
vita e fermenti produttivi di morte. Non si confonda per esempio il
saccaromycetes aceti col saccaromycetes vini. Non ogni sostanza che fermenta
germina un plus o un meglio. Anche la putrefazione cadaverica è un pullulare
potente di vita ma implica il disfacimento di una sostanza superiore.

Quanto poi al dire che è una crisi di crescenza, si dimentica che anche le
febbri di crescenza sono un fatto patologico che si combatte, giacché il naturale
aumento di un organismo non conosce tali crisi né nel regno animale né nel
regno vegetale. Inoltre chi abusa di quelle analogie biologiche gira in un circolo
vizioso giacché non è in grado di provare che alla crisi conseguiti la crescita
(questa se mai si rivelerà in futuro) e non la corruzione.

In OR del 23 luglio 1972, introducendo un’altra analogia poetica, si scrive


che gli attuali gemiti della Chiesa non sono i gemiti di un’agonia, ma quelli di
un parto, quando sta per venire al mondo un essere nuovo, cioè una nuova
Chiesa. Ma può nascere una Chiesa nuova? Qui nell’invoglio di poetiche
metafore e nel miscuglio dei concetti, si cela l’idea di cosa impossibile ad
avvenire secondo il sistema cattolico, l’idea cioè che il divenire storico della
Chiesa possa essere un divenire di fondo, una mutazione sostanziale, un
trasferirsi da tutt’altra in tutt’altra. Secondo il sistema cattolico invece il divenire
della Chiesa consta di una vicissitudine in cui cangiano le accidentali forme e le
storiche congiunture, serbandosi identica e senza novazione la sostanza della
religione. La sola novazione che l’ecclesiologia ortodossa conosca è la
novazione escatologica con nuova terra e nuovo cielo, cioè la finale ed eterna
riordinazione dell’universa creatura, liberata dall’imperfezione, non del limite,
ma del peccato, mediante la giustizia delle giustizie nella vita eterna. Ci furono
in passato altri schemi in cui questa riordinazione è tenuta come un evento della
storia terrena e un’instaurazione del regno dello Spirito Santo, ma tali schemi
appartengono alle deviazioni ereticali. La Chiesa diviene, ma non muta. Non si
dà in essa novità radicale. Il cielo nuovo e la terra nuova, la nuova
Gerusalemme, il cantico nuovo, il nome nuovo di Dio medesimo non sono realtà
della storia del mondo, ma del sopramondo. Il tentativo di spingere il
Cristianesimo oltre sé stesso fino a «une forme inconnue de religion, une
religion que personne ne pouvait imaginer et décrire jusqu’ici», come non teme
di scrivere Teilhard de Chardin8, è un paralogismo e un errore religioso. È un
paralogismo, perché se la religione cristiana ha da mutarsi da tutt’altro in
tutt’altro da sé, diviene impossibile dare alle proposizioni del discorso l’identico
soggetto e perisce la continuità tra la presente Chiesa e la futura. È un errore
religioso, perché il regno che non si origina da questo mondo conosce mutazioni
nel tempo, che è una categoria accidentale, ma non già nella sostanza. Di questa
sostanza «iota unum non praeteribit». Nemmeno uno iota muterà. Teilhard non
può preconizzare un andare del Cristianesimo oltre sé stesso, se non perché
dimentica che andare oltre sé stesso, cioè passare il limite (ultima linea mors)9
significa morire e che così il Cristianesimo dovrebbe morire, anzi morire per non
morire. Ai §§ 53 e 54 ritorneremo sull’argomento.

9. Nuove confessioni della crisi. – L’entità di ciascun ente coincide con la sua
interna unità, sia esso un individuo fisico, sia esso un individuo sociale e morale.
Se si smembra e scinde l’organismo, l’individuo perisce e si tramuta in altro. Se
divergono e si dividono le persuasioni e le volontà delle menti associate, cessa
allora la cospirazione in unum delle parti e la comunità perisce. Dunque anche
nella Chiesa, che è indubbiamente società, l’interna dissoluzione produce intacco
dell’unità e conseguentemente dell’essere suo. Ora l’intacco all’unità viene
ampiamente riconosciuto nel discorso paolino del 30 agosto 1973 che piange «la
divisione, la disgregazione che purtroppo è entrata ora in non pochi ceti della
Chiesa», e addirittura proclama che «la ricomposizione dell’unità spirituale e
reale all’interno della Chiesa è oggi uno dei più gravi e urgenti problemi della
Chiesa». E nel discorso del 23 novembre 1973 il Papa tocca anche l’etiologia
dello smarrimento enorme e confessa l’errore proprio ammettendo che
«l’apertura al mondo fu una vera invasione del pensiero mondano nella Chiesa».
Questa invasione toglie alla Chiesa la forza opponente e le leva ogni specificità.
Ed è drammatico in questo discorso l’uso equivoco del pronome di prima
persona plurale. «Noi» dice «siamo forse stati troppo deboli e imprudenti» ecc. È
noi o Noi?

10. Interpretazione positiva della crisi. Falsa teodicea. – L’ottimismo spurio,


con cui si guarda al declino della fede, all’apostasia sociale, alla diserzione del
culto e alla depravazione morale, nasce da una falsa teodicea. Si dice10 che la
crisi è un bene, perché obbliga la Chiesa a una presa di coscienza e a ricercare
una soluzione. In queste asserzioni è implicita la pelagiana negazione del male.
Se è vero che i mali occasionano dei beni, essi restano però reduplicative dei
mali e non causano come tali alcun bene. La guarigione è indubitatamente un
bene, relativo alla malattia e da essa condizionato, ma non è un bene inerente ad
essa, né ha la sua causa nella malattia.

La filosofia cattolica non ha mai fatto tale confusione e san Tommaso


(Summa theol., I, II, q. 20, a. 5) insegna che «eventus sequens non facit actum
malum, qui erat bonus, nec bonum, qui erat malus»11. Soltanto per l’abito
mentale del circiterismo proprio del nostro secolo si può stimare positiva la crisi,
badando agli eventi buoni che siano per conseguirne. I quali appunto, come si
esprime avvertitamente san Tommaso, non sono effetti del male, a cui non
appartengono che difetti, bensì puramente eventi. Questi eventi sono effetti di
altre cause che del male. Le cause di eventuali conseguenze buone della crisi non
stanno nella linea causale della crisi, che è soltanto crisi, ma in un’altra linea di
causalità.

Qui è ovviamente implicata tutta la metafisica del male nella quale non ci
appartiene di internarci, ma è importante ribattere, contro l’ottimismo spurio, che
se alla crisi si legano eventi felici, come alla persecuzione il martirio, al
patimento l’ammaestramento (Eschilo), alla prova l’aumento del merito,
all’eresia la chiarificazione della verità, l’evento non è un effetto, ma un plus di
bene di cui il male è per sé incapace12. Attribuire alla crisi il bene, che è
estrinseco alla crisi e proviene da altro che dalla crisi, suppone un concetto
manchevole dell’ordine provvidenziale. In questo infatti bene e male restano
ciascuno con la sua intrinseca essenza (essere e nonessere, efficienza e
deficienza) ma rientrano in un sistema buono. Buono è il sistema, non i mali
entranti nel sistema, sebbene si possa allora per catacresi chiamarli mali buoni,
come fa il Tommaseo. Questa veduta dell’ordine provvidenziale fa vedere come
«al mondo di su quel di giù torni» (Par., IX, 108), cioè come anche lo sviarsi
della creatura dall’ordine (e persino la dannazione) la Provvidenza lo faccia
tornare nell’ordine finale, quello che costituisce il fine ultimo dell’universo, la
gloria di Dio e degli eletti.


11. Ancora della falsa teodicea. – L’evento buono che sia per seguire alla
crisi della Chiesa è dunque a posteriori e non muta la negatività di essa, né tanto
meno rende la crisi desiderabile, come alcuni si avanzano ad affermare.
L’ottimismo spurio pecca, perché assegna al male una fecondità che è invece
propria soltanto del bene. Sant’Agostino ha dato una formula felicissima della
dottrina in De continentia, 15 (P.L., 40, 358): «Tanta quippe est omnipotentia
eius ut etiam de malis possit facere bona, sive parcendo, sive sanando, sive ad
utilitatem coaptando atque vertendo, sive etiam vindicando: omnia namque ista
bona sunt»13. Non è il male che in un momento ulteriore generi da sé stesso il
bene, ma è solo una diversa e positiva entità (ultimamente Dio) che ha questa
potenza. Che poi, sebben ordinati dalla Provvidenza, i mali non possano mutarsi
in bene, appare segnatamente nell’ultimo dei casi menzionati da sant’Agostino:
la giustizia vendicativa. È un bene che i peccati siano puniti colla dannazione,
ma non per questo sono buoni i peccati puniti colla dannazione. Perciò, secondo
la teologia cattolica, i beati godono dell’ordine di giustizia in cui la Provvidenza
ha collocato i peccatori, non però dei loro peccati medesimi, che rimangono dei
mali. La dipendenza di certi beni da certi mali è una concatenazione su cui si
fondano alcune virtù che sono appunto condizionate da difetti. Così la penitenza
è condizionata dal peccato, la misericordia dalla miseria, il perdono dalla colpa.
Questo tuttavia non fa che peccato, miseria e colpa siano buoni come buona è la
virtù che essi condizionano.
CAPITOLO II SCHIZZO STORICO. LE CRISI DELLA CHIESA

12. Le crisi della Chiesa. Gerusalemme (anno 50). – È vezzo contemporaneo


rappresentare i fenomeni del nostro secolo come fenomeni del tutto nuovi, non
aventi riscontri, o per il loro genere o per la loro dimensione, coi fatti del
passato. Così la presente crisi non avrebbe analoghi nella storia della Chiesa e
parimenti non avrebbe analoghi il presente rinnovamento. Se il discorso regga
vedremo più avanti, ma qui gioverà accennare alle anteriori crisi della Chiesa
riconosciute dagli storiografi.

E in primo luogo crediamo doversi menzionare il Concilio di Gerusalemme


dell’anno 50. È la primordiale e fondamentale crisi, ossia separazione, che si
operò nella religione tra la Sinagoga e il Cristianesimo, e poiché ogni
separazione esclude l’opposto sincretismo, il famoso decreto recato da Giuda e
Sila alla comunità antiochena dei cristiani venuti dal Paganesimo tronca in sul
nascere il sincretismo che nella confusione del Vangelo con la Tora avrebbe tolto
originalità e trascendenza al nuovo verbo.

Ma il Concilio di Gerusalemme fu eminentemente critico anche sotto un’altra


ragione, perché separò per sempre il giudizio teoretico dal giudizio pratico,
quello che si porta sui principii e quello che si porta sulle applicazioni piegando,
non i principii, ma la mediazione dei principii alle pieghevoli situazioni,
piegatura che nella religione si fa sotto l’inspirazione della carità. Infatti il
celebre affrontamento di Paolo a Pietro seguito in Antiochia dopo che a
Gerusalemme i due Apostoli si erano trovati concordi nel ritenere la legge
giudaica antiquata cioè superata, si aggirava, come dice Tertulliano, su
«conversationis vitium, non praedicationis» (De praescript. haeret., 23), sulle
deduzioni dal principio, non sul principio. Fu la prassi di Pietro condiscendente
alla sensibilità rituale dei fratelli venuti dalla Sinagoga, prassi difforme da quella
del medesimo Pietro verso i fratelli venuti dall’idolatria, quella che fu riprovata
da Paolo e poi, come si vide, da Pietro e dalla Chiesa tutta. Sono dispareri sulla
condotta pratica e, se si vuole, errori derivati dal non vedersi sùbito o non
vedersi bene il nodo tra un principio e un concreto storico. Sono dispareri ed
errori quali si perpetuarono nella Chiesa, da Pasquale II, che disdice il
concordato sottoscritto con Enrico V, a Clemente XIV, che sopprime la
Compagnia di Gesù e rovescia il non possumus degli antecessori, a Pio VII che
ritratta gli accordi con Napoleone e si accusa pubblicamente di avere dato
scandalo alla Chiesa e da sé stesso si punisce astenendosi dal celebrare la Messa.
Questa distinzione della variabile sfera disciplinare, giuridica e politica da quella
invariabile del porro unum est necessarium è certamente iniziata nel Concilio di
Gerusalemme e costituisce la prima crisi della Chiesa: la sfera della storicità
viene definitivamente distinta da quella del dogma.

13. La crisi di Nicea (anno 325). – La crisi di Nicea significa la separazione


del dogmatico dal filosofico e l’indirizzo del Cristianesimo come religione
soprannaturale e del mistero. L’Arianesimo infatti fu il tentativo di deflorare
l’originalità del kerygma primitivo portandolo dentro il gran moto gnostico.
Questo, facendo della graduazione degli enti dall’Ile al Noo lo schema generale
della realtà, toglieva di mezzo la creazione e faceva cadere la trascendenza. Che
il Verbo fosse non consustanziale, ma consimile al Padre tranquillava le esigenze
dell’umana intelligibilità, ma toglieva di mezzo il proprio della fede, la quale
annuncia un individuo che può far da soggetto a queste due proposizioni: questo
individuo qui è uomo e: questo medesimo individuo qui è Dio. Con le definizioni
conciliari di Nicea e con quelle conseguenti di Efeso (431) e Calcedonia (451) la
Chiesa si stacca dalla concezione antica del dio come perfezione dell’uomo, e
della religione come culto di valori intramondani, escluso ogni extramondano.
Gesù Cristo non poteva essere dio alla maniera di Cesare o dei divi Augusti o
degli dèi di Epicuro immortali, perfetti e beati, ma di sostanza omogenea alla
sostanza dell’uomo. Non poteva insomma essere quello oltre il quale i filosofemi
non erano andati mai, ma proprio doveva essere quell’altro dell’altro ma non
estraneo, che niuna filosofia aveva imaginato oppure, fingendolo
nell’imaginazione, aveva riguardato come demenza. Dio insomma cessa di
essere il grado più inaccessibile di una perfezione comune all’uomo e al dio, ma
è una essenza supergradiente tutto l’umano. E il Cristo è chiamato uomo-Dio
non alla maniera gentilesca, per approssimazione massima alla perfezione di Dio
o per una sorta di intimità morale con Dio (Nestorio) e neppure alla maniera del
paradosso stoico secondo cui il sapiente è pari a Dio, anzi superiore a Dio, ché
questo è beato per natura, mentre il sapiente si fa da sé stesso beato. Il Cristo è
ontologicamente uomo e ontologicamente Dio e così la sua costituzione
teandrica ontologica è un mistero.

Che poi il mistero non contraddica alla ragione appare dal concetto
medesimo, che la nuova religione ha inaugurato, dell’essere divino come
Monotriade nel cui seno l’infinito pensa e ama sé stesso come infinito, e dunque
campeggia al di là dei limiti in cui opera l’intelletto creato. Si viola dunque il
diritto della ragione al soprannaturale, se si nega alla ragione di sottomettersi alla
Ragione. Anzi, negando una tale sottomissione, si nega propriamente alla
ragione di conoscere sé stessa, perché le si negherebbe di conoscersi come
limitata e di riconoscere quindi qualche cosa oltre il proprio limite.

La crisi di Nicea è dunque un vero momento decretorio nella storia della


religione e siccome ogni crisi da un canto separa un’essenza dall’eterogeneo e
dall’altro conserva all’essenza il proprio tipo, così è da dire che a Nicea si è
conservata simpliciter la religione cristiana.

14. Gli smarrimenti dell’età di mezzo. – Non furono vere crisi le molte e
gravi perturbazioni che la Chiesa patì nei secoli di mezzo, perché lì la Chiesa
non pericolò di mutare l’essenza sua e di sciogliersi in altro. La corruzione del
costume clericale, la cupidigia di ricchezza e di potenza sfigurano il volto della
Chiesa, ma non ne intaccano l’essenza dislocandola dalla sua base. E qui
conviene formulare la legge stessa della conservazione storica della Chiesa,
legge che è insieme il criterio supremo della sua apologetica. La Chiesa è
fondata sul Verbo incarnato, cioè su una verità divina rivelata. Certo le sono date
anche le energie sufficienti a pareggiare la propria vita a quella verità: che la
virtù sia possibile in ogni momento è un dogma di fede. La Chiesa però non va
perduta nel caso che non pareggiasse la verità, ma nel caso che perdesse la
verità. La Chiesa peregrinante è da sé stessa, per così dire, condannata alla
defezione pratica e alla penitenza: oggi la si dice in atto di continua conversione.
Ma essa si perde non quando le umane infermità la mettono in
contraddizione (questa contraddizione è inerente allo stato peregrinale), ma solo
quando la corruzione pratica si alza tanto da intaccare il dogma e da formulare in
proposizioni teoretiche le depravazioni che si trovano nella vita.

Perciò i moti che turbarono la Chiesa nei secoli di mezzo furono combattuti
dalla Chiesa, ma condannati soltanto quando, per esempio, il pauperismo
trapassò in teologia della povertà con squalificazione totale dei beni terreni. Non
fu perciò vera crisi lo scadimento del costume ecclesiastico contro il quale si
dispiegò gagliardamente il moto riformatorio del secolo undecimo. Né lo fu il
conflitto con l’Impero, sebbene la Chiesa mirasse ad affrancarsi dalla servitù
feudale cui restava legata la dominazione politica dei vescovi, e dalla servitù
implicita nel matrimonio dei preti. Né vera crisi fu quella dei moti dei Catari e
degli Albigesi, nel secolo XIII, e delle loro propaggini dei Fraticelli. Infatti
questi moti, provocati da vasti sobbollimenti sentimentali e commisti con
impulsi economici e politici, non si traducevano che raramente in formule
speculative. E quando pure si traducevano, come per esempio nella dottrina
regressiva preconizzante il ritorno alla semplicità apostolica, o nel mito
dell’uguaglianza dei fedeli ragguagliati tutti al sacerdozio, o nella teologia della
Terza Età dello Spirito Santo, subentrante a quella del Verbo, subentrata a sua
volta a quella del Padre, tutte queste deviazioni dogmatiche trovavano la Chiesa
gerarchica pronta e ferma nell’esercizio del suo officio didattico e correttivo,
sostenuta spesso in questo, secondo le strutture sociali di solidarietà, dalla
potenza temporale. Vi fu attacco ma non intacco delle verità di fede, e la
funzione magisteriale non mancò.

15. La crisi della secessione luterana. Ampiezza ideale del Cristianesimo. –


Il grande scisma d’Oriente lasciò intatto tutto il sistema della fede cattolica.
Neppure la dottrina della primazia del vescovo di Roma fu assalita in linea
principale dai Bizantini, tanto che nel 1439 si poté a Firenze firmare la riunione.
E anche i moti ereticali tendenti a una purgazione della Chiesa dagli amminicoli
mondani furono impotenti a far pericolare la Chiesa e traboccarla fuori della sua
natura in altro. La vera crisi venne con Lutero che mutò da cima a fondo la
dottrina ripudiandone il principio.
Il gran moto della rivoluzione religiosa di Germania è poco intelligibile nelle
sue ragioni storiche, se non lo si riguarda nelle attinenze che ha col
Rinascimento. Il Rinascimento viene spesso raffigurato come restaurazione del
principio pagano della assoluta naturalità e mondanità dell’uomo e quindi come
mentalità incompatibile col Cristianesimo che sarebbe disprezzo del mondo. Ma
a noi pare che una tale veduta per così dire monoculare non risponda alla natura
del Cristianesimo. Questo, principiato in un uomo-Dio restauratore e
perfezionatore, anziché restringere la mentalità del credente, la amplia a pigliare
ed elevare tutto che è conforme al disegno creativo, il cui fine è la glorificazione
di Dio e dell’uomo congiunto a Dio nel Cristo teandrico.

La civiltà medievale con la potenza del sentimento mistico ebbe certamente


espresso un momento essenziale della religione, ossia la relativizzazione di tutto
il mondano e la sua proiezione finalistica verso il cielo. Ma la forza con cui quel
momento fu vissuto dicono alcuni che prevaricasse oltre la misura, epocando e
mortificando valori che hanno da essere non mortificati ma coordinati tra loro e
subordinati al cielo. Lo dico anch’io. Così quei Medievali sembrano non aver
saputo concepire l’idea del cristiano se non incarnata nel frate di san Francesco14.
Se però non si dimentichi l’ampiezza dell’idea cristiana, appare chiaro che il
Rinascimento fu appunto un caso di ripresa di quell’ampiezza, grazie al quale la
religione intese la parentela che la univa con le civiltà morte, dentro le quali però
dormivano seppelliti i valori della naturale sapienza, dell’ideale bellezza e della
mondana milizia, giacevano il Fedone e la Metafisica, la Venere di Cnido e il
Partenone, Omero e Virgilio.

Molto più ampia infatti è la potenziale virtù della religione che non appaia
nelle singole storiche attuazioni sue: essa vien fuori successivamente con un
divenire che non si erge sempre per diritto, ma che, nel suo insieme, ha un
carattere proficiente e perfettivo. Questo d’altronde insinuano le formule
evangeliche del seme e quella paolina dell’organismo crescente sino alla misura
della perfezione.

E non è da credere che tale assimilazione della civiltà gentilesca sia


cominciata col Rinascimento e col fatto dei Greci fuggiaschi dall’Islam, perché
fu di gran lunga preceduta dalla conservazione degli autori greci e latini ad opera
dei monaci nel fondo dei tempi barbarici. Questo avvenne non perché in Virgilio
e Orazio trovassero i frati qualche incentivo o alimento alla loro pietà, ma
proprio per un istinto ideale, diverso dall’inspirazione ascetica, che tutto
pervadeva, istinto non ascetico, ma pure religioso anch’esso se, come dissi, il
Cristianesimo mentre indirizza al cielo avvalora anche la terra. D’altronde la
riunione della civiltà antica con l’idea cristiana era avvenuta prima del
Rinascimento nella forma primordiale dello svolgimento intellettuale, che è la
poetica, nel poema dantesco in cui miti e pensamenti e aspirazioni del
Gentilesimo sono potentemente aggregati alla mentalità cristiana in sintesi
audace. Il limbo degli adulti, per esempio, dove splende il lume della naturale
sapienza, che non salva ma preserva dalla dannazione, è una singolare
invenzione del genio medievale ben consapevole della spaziosità ideale della
religione che include, ma oltrepassa, il mondo ascetico del chiostro.

16. Ancora della ampiezza ideale del Cristianesimo. Suoi limiti. – Questa
ampiezza ideale del Cristianesimo, dovuta alle parti latenti destinate a
manifestarsi storicamente, scorre per tutta la speculazione e si riannoda
teologicamente all’unità tra il ciclo dell’atto creativo e il ciclo dell’Incarnazione:
nell’uno e nell’altro infatti è presente il medesimo Verbo. Ma senza salire alle
ragioni teologiche di cosiffatta ampiezza, bastano a palesarla le ragioni storiche,
poiché si trovano nello stesso spazio scuole e stili contrapposti. Così, per
esempio, Bellarmino e Suarez fondano teoreticamente la democrazia e la
sovranità popolare, mentre il Bossuet per contro giustifica l’autocrazia regia;
l’ascetismo francescano predica la spogliazione dai beni mondani, siano
temporali siano intellettuali, mentre il realismo gesuitico edifica città, organizza
Stati e mobilita ad maiorem Dei gloriam tutti i valori mondani. I Cluniacensi
ornano di colori, di ori e di gemme sino il pavimento delle chiese, mentre i
Cistercensi riducono l’edificio divino alla nudità dell’architettura. Molina
celebra la libertà e l’efficacia autonoma dell’umana volizione, capace di dare
scacco alla divina predestinazione, e abbassa la scienza divina alla dipendenza
dall’evento, mentre i Tomisti per contro esaltano l’efficacia assoluta del decreto
divino. I Gesuiti annunciano la via larga della salvezza, mentre i Domenicani il
piccolo numero. I casisti allargano le parti della coscienza individuale dirimpetto
alla legge, mentre i rigoristi fan torreggiare la legge sopra l’umana estimazione
dell’atto. Il francescanesimo stesso, con la benedizione data dal Fondatore a frate
Elia non meno che a fra Bernardo, contiene due spiriti diversi che spaziano e si
conciliano in una superiore inspirazione e che spiegano le interiori lotte
dell’Ordine15.

Se si perde di vista questa essenziale spaziosità, la distanza tra un’ortodossia


e l’altra si presenterà tanto grande che potrà sembrare distanza tra ortodossia ed
eterodossia. E tale appunto sembrava ai fautori delle opposte scuole
vicendevolmente accusantisi, non però al Magistero della Chiesa, che sempre
intervenne a vietare quelle vicendevoli accuse e a custodire la superiore altezza
della religione. E tale appunto sembrava similmente al Sainte-Beuve il quale,
perché quella larghezza gli sfuggiva, si meravigliava «que le même nom de
chrétien s’applique également aux uns et aux autres [intendeva ai lassisti e ai
rigoristi]. Il n’y a pas d’élasticité qui aille jusque là»16. Molto acutamente lo
Chesterton ha fatto di questa ampiezza il criterio principale della sua apologetica
del cattolicismo. E convien rifarsi al profetico motto di Giacobbe: «Vere
Dominus est in loco isto, et ego nesciebam» (Gen., 28, 16).

È tuttavia necessario precisare i limiti di questa veduta larga della religione


cattolica, che sembra a noi anche criterio storico decisivo. La veduta larga non
può condurre al pirronismo omnicomprensivo che divora e sincretizza non pure i
distinti ma i contraddittorii. Si può parlare di veduta larga, quando si vedono più
idee come un insieme coerente in cui c’è davvero pluralità di idee: in cui cioè
un’idea non è distrutta dalla contraddizione che abbia con altra. Ma è
impossibile alla mente umana, anzi a ogni mente, far stare insieme termini
contraddittorii, cioè il vero e il falso17. Questa coesistenza sarebbe possibile a
una condizione impossibile, se il pensiero non mirasse all’essere delle cose
oppure se l’essere e il nonessere equivalessero. Il cattolicismo prepone il logico
a ogni forma dello spirito e la sua larghezza abbraccia una pluralità di valori che
stanno tutti dentro la sua verità, ma non già una pluralità composta di valori e di
non-valori. Questo concetto spurio dell’ampiezza della religione conduce
all’indifferenza teoretica e all’indifferenza morale, cioè all’impossibilità di
ordinare la vita.


17. Negazione del principio cattolico nella dottrina luterana. – Si tratta
dunque di vedere come la dottrina di Lutero non poteva rientrare nell’àmbito
largo del sistema cattolico e come pertanto l’attacco metteva in forse non questo
o quel corollario, bensì proprio il principio del sistema.

Siccome è rifiuto del principio, l’eresia luterana è teologicamente


inconfutabile. Di fronte ad essa l’apologetica cattolica trovasi nella posizione
nettamente delineata da san Tommaso (Summa theol., I, q. I, a. 8): può sciogliere
le obiezioni dell’avversario, ma per dir così non all’avversario, giacché questo
rifiuta il principio dal quale si argomenta per confutarlo. Da Lutero infatti non
vien rifiutato questo o quell’articolo dell’organismo dogmatico del cattolicismo
(sebbene egli faccia naturalmente anche questo), ma appunto il principio di tutti
gli articoli, che è l’autorità divina della Chiesa. Bibbia e Tradizione non sono
autorità al credente se non perché la Chiesa ha il possesso dell’una e dell’altra;
non solo il materiale filologico possesso, ma il possesso del senso dell’una e
dell’altra, ed essa lo viene a mano a mano storicamente disvelando.

Lutero invece pone la Bibbia e il senso della Bibbia nelle mani dell’individuo
credente, ricusa la mediazione della Chiesa e affida tutto al lume privato,
soppiantando all’autorità dell’istituzione l’immediatezza del sentimento a tutto
prevalente. La coscienza si sottrae al magistero della Chiesa e l’apprensione
individuale, massime se viva e irresistibile, fonda il diritto alla persuasione e il
diritto alla manifestazione di quel che si pensa, soprastando a ogni regola. Quello
che il pirronismo antico fa nel giro del conoscere filosofico, il pirronismo
protestantico fa nel giro del pensiero religioso. La Chiesa, che è l’individuo
storico e morale del Cristo uomo-Dio, viene spropriata della sua essenza
autoritativa, mentre quella vivezza dell’apprensione soggettiva viene chiamata
fede e fatta dono immediato di grazia. La supremazia della coscienza leva la base
a tutti gli articoli della fede poiché essi stanno o cadono secondo che vi consenta
o ne dissenta l’individuale coscienza. Così il principio del cattolicismo, che è
l’autorità divina, viene sterpato e con esso i dogmi di fede: non è infatti l’autorità
divina della Chiesa che li autorizza, bensì la soggettiva e individuale
apprensione. E se eresia è il tenere una verità rivelata non perché rivelata, ma
perché consentanea alla soggettiva percezione, si può dire che tutto il concetto di
fede si converte nel luteranesimo in quello di eresia, perché la parola divina è
accolta solo in quanto riceva la forma dell’individuale persuasione. Non la cosa
ingiunge l’assenso, ma l’assenso dà valore alla cosa. Che poi per interna logica
la critica del principio teologico dell’autorità divina diventi critica del principio
filosofico dell’autorità della ragione è cosa che si può inferire a priori per
esigenza logica e che è attestata a posteriori dallo svolgimento storico del
pensiero alemannico fino alle forme più intere del razionalismo immanenziale.

18. Ancora l’eresia di Lutero. La bolla «Exsurge, Domine». – Il germe del


formidabile rovesciamento religioso cagionato da Lutero è tutto nei 41 articoli
condannati con la bolla Exsurge, Domine del 15 giugno 1520 da Leone X, certo
ignaro di quanto si sarebbe alzata la virga dell’umano pensiero. Veramente,
come già dicemmo, il principio del libero esame è implicito in ogni eresia e la
Chiesa, anche quando non lo trafigge esplicitamente, lo trafigge implicitamente
ogni volta che fulmina contro un particolare teologumeno contrario alla fede.
Qui però, almeno in un articolo, tra quelli condannati, il principio del libero
esame è formulato espressamente.

È difficile in questa serie di proposizioni condannate discernere quali


propriamente la bolla intenda colpire come eretiche, perché, all’uso della Curia
romana, dopo elencati i 41 articoli la bolla li condanna promiscuamente tutti e
singoli «tanquam respective haereticos, aut scandalosos, aut falsos, aut piarum
aurium offensivos, vel simplicium mentium seductivos»18. Questa promiscuità
rende difficile discernere come si distribuiscano le censure e apre il campo alle
contenzioni dei teologi: altra cosa è infatti un asserto eretico, che ferisce il
dogma, e tutt’altra una parola seduttiva dei semplici, che è peccato contro la
prudenza e la carità, ma non contro la fede.

Le proposizioni contengono, dispiegata, la dottrina della penitenza,


insegnando Lutero che tutta l’efficacia della penitenza sacramentale si rifonde
nel sentimento che il confitente abbia di essere assolto. Alcuni articoli infirmano
il libero arbitrio che vien mosso interamente dalla grazia e rimane de solo titulo.
Altri toccano la prevalenza del Concilio sul Papa, l’inanità delle indulgenze,
l’impossibilità di opere buone, la pena di morte per gli eretici giudicata contraria
alla volontà dello Spirito Santo.
Vi è però un articolo, il 29, in cui l’eresia, cioè lo spirito privato di elezione
delle credenze, è apertamente professato da Lutero. Questo articolo, enunciante
il vero principio di tutto il moto, diviene la sola tesi veramente memorabile: «Via
nobis facta est enervandi auctoritatem Conciliorum et libere contradicendi eorum
gestis et confidenter confitendi quidquid verum videtur»19. Qui appare la radice
più profonda e il criterio oltre il quale non è dato di andare: lo spirito privato che
dà forza a tutto quello che sembra. Dei due lati che ha l’atto della mente che
apprende l’essere oggettivo con un proprio atto soggettivo non è più l’essere
oggettivo appreso, ma l’apprendere stesso quello che sovrasta. Per esprimermi
coi termini della Scuola è id quo intelligitur che sovrasta a id quod intelligitur.
Se poi nell’articolo 27 Lutero leva dalle mani della Chiesa lo stabilire gli articoli
di fede e le leggi morali, questo non è che la traslazione dell’articolo 29
dall’àmbito individuale all’ordine sociale della religione.

In conclusione l’anima della secessione luterana non erano le indulgenze, la


Messa, i sacramenti, il Papato, il celibato dei preti, la predestinazione e la
giustificazione del peccatore: era un’insofferenza che il genere umano porta
attaccata e inerente ai precordi e che Lutero ebbe l’ardimento di manifestare
apertamente: l’insofferenza dell’autorità. La Chiesa, perché è il corpo storico
collettivo dell’uomo-Dio, ha la sua organica unità dal principio divino. Che cosa
può essere l’uomo in tal confronto se non la parte che vive nella congiunzione
col principio e nell’obbedienza al principio? Chi rompe tale vincolo non può che
perdere il principio informante della religione.

19. Il principio di indipendenza e gli abusi nella Chiesa. – Posta la questione


della crisi in questi termini, divien secondaria, benché importantissima, la
considerazione delle magagne morali dei prelati e della corruzione contingente
dell’istituzione, che furono il fomite storico della rivendicazione del libero
esame. Certo gli abusi del sacro ad opera dei ministri di Chiesa furono enormi e
si può citare come esempio mostruoso quello di Alessandro VI minacciante la
scomunica alla concubina sua se non tornasse ad vomitum20. Ma oltreché la
condanna dell’abuso non giustifica la reiezione della cosa abusata, rimane che la
riforma della Chiesa doveva avvenire ed avvenne di fatto per via ortodossa
grazie a uomini che, come l’Assisiate, san Domenico, la Senense e tutti i
fondatori di compagnie religiose dei secoli XIV e XV, pensarono sempre
impossibile per cattolici camminare dritto se non avessero l’approvazione e il
sigillo di quei medesimi uomini di Chiesa dei quali riconoscevano l’autorità e
flagellavano i vizi. E la ragione per cui la corruzione dei pastori non andò a
generare una crisi ma solo uno sperdimento, si è che la prevaricazione pratica
non fu eretta in dogma teoretico, come invece fece Lutero. Il dogma teoretico, al
contrario della pratica sempre limitata, è illimitato, giacché contiene nella sua
universalità una potenziale infinità di pratica. Onde salvato il dogma teoretico è
salvata in esso tutta la pratica e rimane illeso il principio della sanità.

20. Perché la casistica non abbia fatto crisi nella Chiesa. – Non possiamo
trascorrere senza qualche parola il fenomeno della casistica che non fu una vera
crisi della Chiesa. Secondo il Gioberti e qualche autore contemporaneo essa fu
invece una vera crisi e anzi la matrice del declino del cattolicismo21.

Non fu una vera crisi anzitutto perché il fondamento della casistica è


onninamente ragionevole, anzi necessario. Infatti come disciplina che indica
all’uomo come applicare all’azione individua la regola etica, che è di sua natura
universale, la casistica teologica ha officio analogo alla casistica giuridica e
nasce da cosa necessaria e perpetuamente in atto nella vita morale. Lo sviluppo
di essa fu effetto del Tridentino il quale, col sancire che nel sacramento della
penitenza il sacerdote esercita l’atto suo per modum iudicii, eccitò il bisogno di
una dottrina che traducesse in soluzioni pratiche, rivestite della concretezza del
caso individuo, la regola morale e il precetto della Chiesa. E in questo non si può
alla casistica appuntare niente di riprensibile.

Riprensibile per contro era la sua inspirazione a togliere asperità al dovere


morale rendendo facile l’osservanza della legge evangelica accomodata
all’umana infermità. Era parimenti riprensibile il principio, tutto filosofico e
razionale, della probabilità, che elevava il libero arbitrio e il giudizio individuale
sopra l’imperativo della legge. Così, secondo il Caramuel, chiamato da
sant’Alfonso «principe dei lassisti», si deve far luogo a una varietà di opinioni
circa il bene e il male, tutte ammissibili, purché abbiano un qualche grado di
probabilità, e tutte giovevoli, perché (sono parole sue) «divina bonitas diversa
ingenia hominibus contulit, quibus diversa inter se homines iudicia rerum
ferrent, et se recte gerere arbitrarentur»22. Qui è certamente adombrato un
resticciuolo del luterano lume privato contro il principio cattolico dell’autorità.

D’altronde questa teorica dei casisti, che faceva primeggiare l’apprensione


soggettiva nel determinare la propria scelta morale, veniva poi infirmata col
sottomettere la coscienza dei penitenti all’autorità del confessore e quindi in
qualche modo all’autorità della Chiesa. Era infatti la casistica assai più un
fenomeno del ceto clericale nella sua funzione di guida che non un diffuso
fenomeno di degradazione della coscienza popolare. La gran copia di libri di
casisti usciti in quel secolo sono infatti Praxis confessariorum e raramente
Praxis poenitentium. Era peraltro facile trapassare da un criterio benigno per
giudicar le azioni già compiute, quale fu in principio la casistica, a un criterio
rilassato per giudicare le azioni da compiere.

La casistica non divenne crisi perché il principio, che la libertà può scegliere
la legge su cui determinarsi, non fu mai formulato espressamente. Perciò le
molte proposizioni condannate da Alessandro VII nel 1665 e nel 1666
contengono soluzioni di casi, ma non enunciano l’errore di principio. Dalla
riprovazione della casistica da parte della Chiesa non consegue pertanto che la
casistica fosse capace (come pensò Pascal) di introdurre nel cattolicismo un vero
e proprio stato di crisi.

21. La Rivoluzione di Francia. – La Rivoluzione di Francia viene


giustamente identificata coi principii dell’Ottantanove checché sia dei fatti
violenti ed iniqui che la bruttarono. E quelli infatti non sarebbero principii, se
fossero soltanto la promulgazione di diritti. Sono per contro veri e propri
principii, assunzione di verità che non si lasciano giudicare e tutto giudicano.
Sono posizioni antitetiche al principio cattolico dell’autorità. Sotto questo
rispetto l’Ottantanove francese è impossibile a pensarsi storicamente, se non
fosse preceduta l’affissione delle tesi quella vigilia di Ognissanti nel 1517, non
perché eversive fossero quelle novantacinque tesi articolatamente prese, ma
perché lo era lo spiritus agitans molem. Questo spirito non per nequizia di
uomini, non per pervicacia di prelati corrotti, non per inettitudine di gerarchie,
ma per la più terribile delle energie motrici e regolatrici del pandaimonion
umano, intendo la necessità logica, era per partorire tutto quanto partorì.

Molti dicono che smisuratamente ricco e trabocchevole è il composto di idee


da cui venne fatto impeto contro il cattolicismo nella Rivoluzione di Francia e
che non tutte le cause furono filosofiche e religiose. Lo dico anch’io, come lo
dico della Riforma protestante. Tuttavia se concepisco il confliggere disordinato
delle idee non come un proelium mixtum, ma piuttosto come una psicomachia,
una pugna di essenze, mi converrà riconoscere che la Rivoluzione di Francia fu
un grandioso moto di fondo che, per riprendere la stupenda imagine lucreziana,
«funditus humanam... vitam turbat ab imo» (De rer. nat., III, 38)23.

La critica dei principii della Rivoluzione di Francia è l’assunto di tutti gli


autori cattolici del secolo XIX, compresi, e non nelle ultime file, quelli che si
suole ascrivere alla scuola liberale. La fa il Manzoni nel saggio Sulla
Rivoluzione francese, che la storiografia moderna tenta gittare al discredito e
all’oblìo. La fa il padre Francesco Soave nell’acuta opericciuola, anch’essa
dannata all’Erebo, sulla Vera idea della Rivoluzione di Francia (Milano 1793).
La fa il Rosmini nella Filosofia del diritto, §§ 2080-92, discorrendo del diritto
individuale e del diritto sociale entrati in collisione. So bene che anche da
pensatori cattolici, da uomini ragguardevoli del clero e da politici e pubblicisti di
insegna cattolica i principii della Rivoluzione francese furono forzati a
un’interpretazione benigna. Si dice che essi erano l’esplicamento di idee del
Cristianesimo che aspettavano l’esplicamento e che non furono sùbito
riconosciute come tali all’atto dell’esplicamento. Vi sono in proposito
dichiarazioni di grandi prelati di Chiesa e perfino di Pontefici contemporanei. Ne
toccheremo più avanti meno fuggevolmente che in questo celere prospetto
storico (§ 225). Ma è innegabile e parve per oltre un secolo innegabile che dalla
Rivoluzione di Francia mosse uno spirito nuovo, davvero principiale, che non è
possibile combinare a pari né sottomettere come subalterno al principio del
cattolicismo.

22. Il principio di indipendenza. La «Auctorem fidei». – Chi scorre il classico


Enchiridion può stupirsi che tra i documenti dottrinali del tempo in cui avvenne
quel gran commovimento convulso della francese Rivoluzione, non se ne trovi
nessuno che concerna direttamente i supposti teorici subiacenti alla legislazione
riformatrice delle varie Assemblee succedutesi sino al Consolato e all’Impero.
Delle sette costituzioni avvicendatesi il mediatore dei due secoli fece da ultimo
cadere le più tracotanti e incompatibili con la religione cattolica, lasciando
tuttavia nel fondo delle novità il principio informante del mondo moderno.
Questo principio, lo dissi ormai più volte, è l’instaurazione dei valori umani
praecisive come umani, indipendenti e sussistenti da sé medesimi e quindi la
correlativa destaurazione dell’autorità.

Libertà, uguaglianza e fraternità non è che non fossero valori riconosciuti


sin dall’antica sapienza greca e alzati a universale contrassegno nella religione
cristiana. Donde infatti sarebbero venuti? Ma gli Stoici li appendevano al Logo
naturale illuminante inefficacemente (la storia della schiavitù lo prova) ogni
uomo veniente nel mondo. Il Cristianesimo invece li appese al Logo
soprannaturale fatto uomo, illuminante ed efficacemente movente il cuore
dell’uomo. E poiché il Logo naturale non è reale, ma ideale, non può essere il
vero principio a cui appendere il tutto, né quindi essere riverito e obbedito
incondizionatamente. Il vero principio è un ente realissimo che include l’Idea e
che, nel Cristianesimo, si è fatto realtà creata mediante l’Incarnazione.

L’uomo-Dio, che è individuo ontologico, diviene individuo sociale nella


Chiesa. Questa, secondo il celebre insegnamento di san Paolo, è il corpo mistico
di lui, onde la dipendenza dal Cristo si riflette nella dipendenza dalla Chiesa.
Questo è il principio dell’autorità che regge tutto l’organismo teologico. Il
principio fu intaccato, come si disse, dalla rivoluzione luterana, perché alla
regola dell’autorità essa sostituì lo spirito privato nelle cose della religione. Il
correlativo dell’autorità è l’obbedienza e si può dire che il principio primo del
cattolicismo è l’autorità o equipollentemente che è l’obbedienza, come torna in
celebri testi paolini che dicono l’uomo-Dio essere stato obbediente, e obbediente
sino alla morte, cioè con la totalità della vita. E questo non precipuamente (come
pur si può dire) per salvare gli uomini, ma affinché la creatura si chinasse al
Creatore e gli prestasse l’ossequio intero e assoluto che è il fine stesso della
creazione. Perciò la Chiesa di Cristo tira sempre le persone a coordinarsi, per
virtù di obbedienza e di abnegazione, e fondersi nell’individuo sociale, che è il
mistico corpo di Cristo, togliendo via l’isolamento dell’individuo e dei suoi fatti
e abolendo ogni dipendenza non subordinata alla dipendenza da Dio.

Ma l’indipendenza politica dell’uomo che fu insegnata dalla Rivoluzione era


contenuta nell’indipendenza religiosa insegnata da Lutero e reinsegnata dai
Giansenisti. La Costituzione di Pio VI Auctorem fidei (1794), che la condanna,
ha per questo riguardo un’importanza che la pareggia all’enciclica Pascendi di
Pio X (1907). Mostravano di avere perspicace il senso della dottrina il gesuita
Denzinger e i suoi coautori, quando nel rinomato Enchiridion symbolorum
riproducevano per intero i due documenti. Anche nella Auctorem fidei sono solo
alcuni pochi gli articoli fondamentali e molti quelli di applicazione dei primi,
quasi parerga. I primi sono qualificati per eresie, mentre i secondi ricevono
qualificazioni inferiori all’eresia. E come Lutero trametteva tra la Parola e il
credente la apprensione soggettiva, estromettendo la Chiesa universale, così i
Pistoriensi vi tramettevano la Chiesa particolare operando una traslazione di
autorità dall’universale al particolare che la plurifica e la disperde un po’ meno,
ma non diversamente di quanto facesse lo spirito privato incoronato e mitriato da
Lutero.

Come conviene ad ogni appello di riforma i Pistoriensi allegavano la


generale oscurazione di verità religiose importanti che sarebbe intervenuta nella
Chiesa nel corso degli ultimi secoli (I proposizione). Questa proposizione era
contro la natura della Chiesa in cui la verità è in atto indefettibile né può
oscurarsi mai nel suo organo didattico. Ma a questa, che in fondo potrebbe
prendersi per una valutazione storica, seguono proposizioni proscritte come
eretiche, con cui si professa che l’autorità di comunicare i dogmi di fede e di
reggere la comunità ecclesiale risiede nella comunità medesima e che si
comunica dalla comunità ai pastori. Questa proposizione intronizza lo spirito
privato non più dell’individuo, ma della singola Chiesa: l’autorità universale è
surrogata da un’autorità sociale ancora, ma particolare. L’obbedienza alla parola
c’è ancora, ma mediata per dir così dal libero esame delle minori Chiese. Che il
Papa sia capo della Chiesa, ma come ministro della Chiesa onde dipende, e non
del Cristo, è un corollario che riceve pure in un altro articolo la qualifica di
eresia.


23. La crisi della Chiesa nella Rivoluzione di Francia. – La Rivoluzione
popolare seguì a un’altra rivoluzione già operata dall’assolutismo regio che si
era francato dalla soggezione, almeno morale, alla Chiesa, aveva rinnovato il
dispotismo della lex regia, onde quidquid principi placet vigorem habet legis24, e
si era rafforzato prendendo gli spiriti della luterana libertà di coscienza. Da una
parte il nuovo Cesarismo aveva asserito l’indipendenza del principe dalle regole
della Chiesa, che invigorivano e insieme temperavano la potestà maiestatica a
protezione dei popoli. Dall’altra aveva assorbito privilegi, franchigie, immunità,
consuetudini immemorabili, guarentigie alla libertà dei sudditi. Quanto di pura
reazione dovuta alla meccanica sociale e quanto invece di aspirazione o
cospirazione dottrinale sia entrato nell’immenso commovimento della
Rivoluzione, pochi scrittori si attentano di definire. Ma i fatti furono immensi e
sbarbicarono principii e persuasioni come fa un ventus exurens et siccans:
defezioni e apostasia toccarono un terzo del clero, compensate invero da episodi
di resistenza invitta sino al martirio: preti e vescovi correre al matrimonio
(convalidato poi, ma non quello dei vescovi, dal concordato del 1801); chiese e
conventi profanati e distrutti (di trecento chiese a Parigi non ne rimasero che
trentasette); aborriti e dispersi o vietati i segni della religione (onde il Consalvi e
i suoi venuti a negoziare a Parigi stettero in abito laicale); libertinaggio nel
costume; riforme licenziose e stravaganti nel culto e nella catechesi, sacrileghe
confusioni del patriottico col religioso. In sostanza la Costituzione civile del
clero, votata nel luglio 1790, e condannata da Pio VI nel marzo dell’anno dopo,
conteneva un errore principiale, poiché secolarizzava la Chiesa, annullandola
come società priore e indipendente affatto dallo Stato. Se fosse riuscita a
sostenersi, anziché cadere come fece per il rifiuto di quasi tutto l’episcopato
seguito dalla soverchiante pluralità dei preti e per effetto della volontà del gran
mediatore dei due secoli, essa avrebbe fatto scomparire dalla faccia delle terre di
Francia ogni istituzione e ogni influsso del cattolicismo. La condanna della
Costituzione civile del clero è dunque un documento dottrinale che tocca la
sostanza della religione. Stupisce che il Denzinger l’abbia omesso.

La separazione totale della Chiesa dallo Stato sembrò un errore agli estensori
del Sillabo, ma pure lascia sussistere le due società, la teocratica e la
democratica, ciascuna nella propria natura e finalità. Come non sarà errore
esiziale quello che assorbe la Chiesa nello Stato e identifica questo con
l’universale società degli uomini? La Rivoluzione di Francia, ridotta alla sua
specie logica, fu una crisi vera e propria del principio cattolico poiché stabiliva,
pur senza riuscire a tradurlo nell’organismo civile, il principio dell’indipendenza,
che rimuove l’ordine religioso, l’ordine morale e l’ordine sociale dal loro centro
e spinge tendenzialmente alla dislocazione completa dell’organismo sociale, di
quello teocratico dapprima e di quello democratico di poi.

Tuttavia, se non si dà crisi allorquando l’organismo mistico è intaccato nella


sua anima, per dir così, sensitiva, ma non già in quella intellettiva e mentale, e
allorquando il nucleo, che è quello fregiato del carisma di indefettibilità, rimane
illeso, sebbene lo smarrimento avanzi in tutti gli ordini fisiologici del corpo, sarà
legittimo dubitare se questo squasso del cattolicismo sia stato una crisi della
Chiesa.

24. Il Sillabo di Pio IX. – Il celebre catalogo degli errori moderni annesso
all’enciclica Quanta cura dell’8 dicembre 1864 viene oggi ripudiato da una parte
dei teologi che a quegli errori tentano di combinare il principio cattolico. Oppure
vien pretermesso e fastidito da autori che, per non troppo dispiacere al mondo
cui il Sillabo dispiace, lo interpretano alla gagliarda, facendone addirittura un
prodromo degli ulteriori sviluppi di quegli errori la cui intrinseca anima di verità
avrebbero rivelata i passi in avanti fatti dal pensiero nel nostro secolo. Oppure
infine viene a fronte aperta ripudiato nella sua significazione dottrinale, cioè
permanente, e figurato come un momento caduco di un’erronea contrapposizione
della Chiesa al genio del secolo. Persino nell’OR del 31 maggio 1980 uno
storiografo gallicano mette quell’insigne documento dottrinale in relazione con
«una fiammata di clericalismo monarchico ultramontano». Non fallì il sensus
fidei o il sensus logicae al Denzinger e ai suoi successori che lo riportarono
nell’Enchiridion per intero.

Circa la portata del Sillabo in ordine alla verità cattolica sorse tosto disputa e
discrepanza. Mons. Dupanloup, vescovo di Orléans, ne restrinse il significato
condennatorio. La «Civiltà cattolica», allora molto autorevole, ne propose invece
un’interpretazione stringente ravvisando colpito in esso il principio di tutto il
mondo moderno. Opposero al Sillabo un rifiuto gli scrittori irreligiosi che in un
punto, ed essenziale, videro non meno acutamente dei Gesuiti, che cioè il Sillabo
contiene una riprovazione della civiltà moderna. È anche da considerare come
nella prassi morale certe proposizioni condannate davano luogo a dissenso. Così
per esempio la 75 sull’incompatibilità della potestà temporale con quella
spirituale, e la 76 pronosticante effetti salutari per la Chiesa dall’abolizione del
regno civile del Pontefice romano. Chi rifiutasse in quei punti il Sillabo, non era,
secondo la «Civiltà cattolica», suscettibile di assoluzione sacramentale. Lo era al
contrario secondo la decisione presa dal clero parigino sotto la presidenza di
quell’arcivescovo. Anche Antonio Rosmini in un’istruzione ai religiosi del suo
Istituto aveva, prima della promulgazione del Sillabo, tenuto la tesi
dell’assolvibilità25.

Ma più ancora che l’atteggiamento preso dalla casistica circa l’obbligazione


che il Sillabo poneva ai fedeli, è da osservare un carattere ben professato nella
fronte stessa del documento papale. Esso intende noverare «praecipuos nostrae
aetatis errores». Ma questi errori nell’ultimo degli articoli (vera sintesi della
papale condanna) vengono identificati con la sostanza medesima della moderna
civiltà, la quale rimane condannata non in tutto, ma tutta, essendo condannati
quegli errori.

Con la scarsità di censure portate contro singoli articoli teologici e con


l’ampiezza della censura inflitta invece alle opinioni dominanti nel secolo
sembra quindi che il Sillabo sia una denuncia dello stato del mondo più assai che
della Chiesa, e che esso culmini sinteticamente nella condanna dello spirito del
secolo.

Degli 80 articoli del documento pochi sono salienti per chi cerchi gli
universali, ma questi pochi appunto sono decisivi.

Condannando la proposizione 3 si proscrive l’indipendenza della ragione


che, senza riferirsi a Dio, riconosce per legge soltanto quella da sé stessa posta
(autonomia) e non si appoggia su altra forza che sulla propria a lei immanente:
così essa si reputa capace di portare l’uomo all’adempimento dei fini dell’uomo
e del mondo. La proposizione 5 proscritta fa della ragione la norma assoluta e
del soprannaturale un prodotto del pensiero naturale e uno stadio di esso: nega
dunque la dipendenza del verbo creato dal Verbo increato, che sta in infinito
eccesso: la perfezione della divina rivelazione è nella coscienza umana del
divino e nella riduzione dei dogmi a teoremi razionali. Di pari rilievo, giacché
non è che il riflesso di questi errori nella ragion pratica, è la proposizione 58 che
proclama l’indipendenza della decisione etica dell’individuo da una Regola
regolante che oltrepassa la ragione individuale. Vien pure condannato nella 59 il
corollario giuridico della 58, che cioè sono i fatti dell’uomo, prescissa ogni
relazione alla legge morale, quelli che costituiscono il diritto: l’evento è la base
della giustizia e il principio non è l’Idea ma il contingente.

Nell’insieme adunque il Sillabo appare assai più come una denuncia del
mondo moderno che come un sintomo di crisi della Chiesa, perché le
proposizioni che il documento raccoglie concernono non un’interna
contraddizione della Chiesa ai suoi principii (questa, come vedemmo sin
dall’inizio, è la definizione stessa della crisi), ma una contraddizione del mondo
al cattolicismo. Questo significato del Sillabo fu intuito utrinque, e dalla parte
del mondo e dalla parte della Chiesa. La condanna sintetica del pensiero
moderno si continua dal Sillabo al Vaticano I. Nello schema preparatorio de
doctrina catholica si osserva che il carattere del tempo è che non si attaccano
singoli punti lasciando illeso il principio primo della religione, ma che «homines
generatim a veritatibus et bonis supernaturalibus aversi fere in humana solum
ratione et in naturali ordine rerum conquiescere atque in his totam suam
perfectionem et felicitatem consequi se posse existimant»26.

Perciò la differenza tra la situazione rispecchiata dal Sillabo e quella della


Chiesa nel presente smarrimento sta proprio nel fatto che quelle esigenze e
postulazioni del mondo, allora esterne alla Chiesa e oppugnate dalla Chiesa, si
sono internate nella Chiesa, lasciando cadere l’antagonismo o con tacerlo,
rinnovando il medievale tace et florebunt omnia, oppure con svigorirlo per
renderlo tollerabile, oppure (ed è la via più praticata) con svigorire la forza del
principio cattolico elevandolo a un punto di tale ampiezza da abbracciare non la
totalità del vero, ma la totalità sincretistica del vero e del falso.

Certo la condanna dello spirito del secolo, caratterizzato dagli errori qui
condannati, è innegabile e non è suscettiva di preterizione o di moderazione. Il
Sillabo non può essere spento dall’enorme silenzio che in seno alla Chiesa tenta
spegnere il papale documento del 1864 e grazie al quale si è tollerato che il
nome del Sillabo neppure una volta fosse citato nel Vaticano II, anzi diventasse
designazione di cosa o ridevole o abbominevole.

25. Lo spirito del secolo. Alessandro Manzoni. – Alessandro Manzoni nella


Seconda Parte della Morale cattolica27 in un capitolo intitolato appunto Spirito
del secolo, che è il più tormentato dell’opera, anzi il più tormentato di tutti gli
scritti suoi, si trova di fronte al medesimo nostro problema: se cioè lo spirito del
secolo sia compatibile o no con la religione cattolica. E trova la soluzione in
un’operazione analitica e discernitiva. Rifiutando la falsa sistematicità, che o
prende tutto o tutto riprova, il Manzoni esamina articolatamente le varie parti di
quel composto eterogeneo, fatto di idee vere, utili e giuste e di idee false,
irreligiose e nocive. Trattene fuori le parti buone egli mostra che esse derivano
dalla religione, e vi erano contenute, e fu colpa, se mai, il non avernele dedotte,
lasciando ai nemici della religione di dedurle. L’analisi dello spirito del secolo
poi, non si deve fare con lo spirito del secolo (né con quello del passato né con
quello del presente) ma col lume della verità religiosa che illumina, nel corso
delle generazioni, gli intelletti divenienti, ma essa non diviene e sovrasta a tutti i
tempi per una sorta di ucronia28. Paragonando le persuasioni dominanti in una
società in un dato tempo è possibile operare quella discretio spirituum, non
carismatica ma filosofica, che non rigetta o accetta in solidum tutto il composto,
ma discerne valori e disvalori con un criterio ultrastorico.

Ma qui sorge un dubbio. Lo spirito del secolo è forse un composto


scomponibile o è invece una quiddità (non sto a definirla) che tiene insieme le
parti del composto e dà a ciascuna un essere diverso da quello della parte? Lo
spirito non è forse quel quid che informando le parti le fa uscire dalla pluralità e
divisione e diventare appunto un’unità connotata inconfusibilmente, un
individuo appunto, indiviso in sé e diviso da ogni altro?

Rimane tuttavia assodato il punto che il Manzoni lumeggia in quelle pagine,


che cioè lo spirito del secolo dovrà essere giudicato non storicamente, ma
soltanto con un criterio ucronico, dalla religione cioè e non dalla storia. Questo
criterio non sarà certo ammesso da chi tiene un’assiologia senza valori veri e
noumenali, ma è il criterio cattolico con cui noi intendiamo qui riconoscere dove
sia la crisi. Tale criterio è dunque non solo legittimo, ma il solo legittimo.

Il giudizio appreziativo che circa una stessa cosa fanno il cattolicismo e i


sistemi ad esso avversi, per esempio circa il pregio e la rispettabilità della
persona, può sembrare identico, ma questa identità di giudizio non è che
apparente, perché la ragione di quella rispettabilità il cattolicismo la trova dove i
sistemi avversi non la trovano. Qui e là si ama l’uomo, ma qui l’uomo è amabile
per sé stesso, mentre là è per sé stesso inamabile e il principio superiore della sua
amabilità è un Amabile in sé che rende amabile l’uomo.

In questo esempio è possibile cogliere che cosa sia lo spirito di un’epoca, lo


spirito di una società, lo spirito di un sistema. È la ragione ultima, irreducibile a
un’ulteriorità, che rende intelligibile ogni momento del sistema e ogni momento
del secolo, il caput mortuum, cioè quell’ultimo pensiero in cui tutto si risolve e
non è viceversa risolubile in altro. Lo spirito del secolo non è dunque un
complesso di idee, ma quel che unifica il complesso e non è scomponibile. Lo
spirito del secolo è nella vita sociale l’analogo di quel che nella vita del singolo
la Bibbia chiama l’albero o il cuore (Matth., 7, 17 e 15, 18) donde salgono i
pensieri dell’uomo buoni o cattivi, di salvezza o di perdizione, e donde
provengono i frutti buoni o cattivi secondo che l’albero è buono o cattivo e
buono o cattivo il cuore. L’uomo infatti, secondo la religione, è tutto buono o
cattivo e il suo destino è in puncto. Per questo vedi il § 202.

26. La crisi modernista. Il secondo Sillabo. – La crisi denunciata nel Sillabo


fu crisi del mondo più che della Chiesa. Quella denunciata da quel posteriore
Sillabo, che è il decreto Lamentabili dell’8 luglio 1907 con l’enciclica Pascendi
dell’8 settembre 1907, denuncia al contrario una crisi della Chiesa. E il divario
tra il documento di Pio X e quello di Pio IX è manifesto sin dal titolo: Pio IX
elencava «praecipuos nostrae aetatis errores», Pio X denuncia «errores
modernistarum de Ecclesia, revelatione, Christo et sacramentis». Ogni filosofia
contiene virtualmente una teologia. Le materie prettamente teologiche
contemplate nell’insegnamento di Pio X sono il frutto maturato dalla filosofia
dell’indipendenza trafitta nel primo Sillabo. Al divario del titolo corrisponde la
diversa indole delle 65 proposizioni condannate. Esse non concernono più una
situazione spirituale propria del mondo ma ancora esterna alla Chiesa, bensì
proprio l’intacco del noo cattolico, non più parti smembrate di un sistema, ma
piuttosto lo spirito immanente a tutte.

Ciò si chiarisce anche nel fatto rilevato dall’enciclica, che cioè il


modernismo «plures agit personas ac velut in se commiscet»29, essendo insieme
storico, filosofico, credente, teologico, critico, apologetico, riformatore. Quella
pluralità di persone non credo che sia denunciata da Pio X come un
atteggiamento morale di duplicità o ipocrisia (pluralità di maschere), sebbene
qualche traccia di astuzia achitofellica possa forse vedersi in alcuni fautori di
quelle dottrine (ma non forse talora anche negli opponenti?). Credo piuttosto che
questa molteplicità di persone o faccie sia la prova che il documento condanna
appunto non membra sparte, ma proprio uno spirito, che è ultimamente spirito di
indipendenza.

Per procedere come facemmo pel primo Sillabo, esamineremo alcuni articoli
principali per riconoscere nel documento la condanna di tale spirito. Nella
proposizione 59 è trafitto l’errore secondo cui l’uomo sottopone al suo
diveniente giudizio l’indivenibile verità rivelata subordinando la verità alla
storia. Tale riduzione della verità al progressivo sentimento umano, che viene
ponendo e riponendo il dato religioso come una sorta di inconoscibile noumeno,
viene rifiutata anche nell’articolo 20, perché leva ogni dipendenza del senso
religioso dall’autorità della Chiesa30. La Chiesa (lo si dice espressamente) viene
abbassata a funzioni di semplice registrazione e sanzione delle opinioni
dominanti nella Chiesa discente, in realtà non più discente. La proposizione 7,
negando che la verità rivelata possa produrre l’obbligazione di un assenso
interno, ovverosia della persona, e non soltanto del socio della Chiesa, pronuncia
per ciò stesso che vi è nell’individuo un intimo nucleo di indipendenza dalla
verità e che questa si impone come soggettivamente appresa, non come verità.

Non minore è il peso della 58: «veritas non est immutabilis plus quam ipse
homo, quippe quae cum ipso in ipso et per ipsum evolvitur»31. Qui sono
professate due indipendenze. Prima, quella dell’uomo storico dalla natura
dell’uomo, assorbita interamente nella storicità del primo. La proposizione
equivale a negare l’esistenza dell’idea eterna in cui sono esemplate le nature
reali, a negare cioè quell’elemento irrefragabile di platonismo senza il quale cade
l’idea di Dio. La seconda indipendenza professata è più in generale quella della
ragione dalla Ragione. La ragione umana, che è il maggior contenente da noi
conosciuto nel mondo32, è però essa stessa contenuta in un altro contenente che è
la mente divina. Quest’altro contenente è negato nella proposizione 58. È
dunque falso l’assunto dell’articolo proscritto, che la verità si svolga coll’uomo,
nell’uomo e per l’uomo. Si svolge a quel modo, ma non tutta. Non è vero che la
verità divenga nell’uomo diveniente: divengono gli intelletti creati, anche quelli
dei credenti, anche quelli del corpo sociale della Chiesa, i quali con atti propri,
varianti da individuo a individuo, da generazione a generazione, da civiltà a
civiltà, si terminano però all’identica verità. L’indipendenza della ragione dalla
verità immutabile porta a dare a tutto il contenuto e a tutto il contenente della
religione il carattere del mobilismo (vedi §§ 157-62).

Di estremo interesse e richiedente molta riflessione mi sembra la


proposizione 65, se la si paragona con la penultima del Sillabo. Pio IX
pronunciava incompatibile il cattolicismo con la civiltà moderna. Pio X
condanna chi pronuncia incompatibile il cattolicismo con la scienza moderna.

La Chiesa cioè è sì inconciliabile con la civiltà moderna, ma la civiltà


moderna non si identifica con la scienza. La religione è compatibile col pensiero
umano, non nel senso che essa compatisca con tutte le determinazioni storiche
attraverso le quali esso cammina, talora erroneamente, ma nel senso che essa è
sempre conciliabile col vero a cui quelle determinazioni mirano. Il documento
esprime questa differenza proclamando che quella compatibilità è col sapere
vero. Comunque abbiamo due proposizioni condannate: il cattolicismo è
conciliabile con la civiltà moderna (Pio IX) e il cattolicismo è inconciliabile con
la vera scienza (Pio X). Dal paragone tra le due scaturisce la disequazione tra la
civiltà moderna e la vera scienza. La Chiesa separa civiltà moderna e vera
scienza, ma non abbandona la condanna dello spirito del secolo. Può esservi vero
sapere in una civiltà non vera, ma esso è investito allora dallo spirito non vero e
occorre, con una sorta di azione rivendicatoria, svestirnelo e rivestirlo della
verità che trovasi nel sistema cattolico, rimettendolo sotto il principio vero.

27. La crisi preconciliare e il terzo Sillabo. – In questo breve prospetto


storico ci siamo proposti di delineare summatim le crisi pregresse della Chiesa.
Noi abbandoniamo quasi del tutto le concomitanze politiche di tali crisi,
tacciamo dei contraccolpi sociali e solo sfioriamo le mutazioni disciplinari,
perché la disciplina della Chiesa discende dalla dottrina.

Ricercando dunque le crisi della Chiesa abbiamo trovato che esse hanno
luogo soltanto allorché non nel mondo, ma nella Chiesa medesima sorge una
contraddizione con il principio che la costituisce e la regge. Tale contraddizione
all’elemento principiale è la costante (come dicono i matematici) di tutte le crisi.
E come la crisi preformata nel mondo fu denunciata dal primo Sillabo, e poi al
principio del secolo, quando cominciò a comunicarsi e ad internarsi alla Chiesa,
fu denunciata da Pio X, così fu denunciata da Pio XII nel terzo Sillabo quando, a
mezzo il secolo, si fu più diffusamente internata nella Chiesa. Il terzo Sillabo è
l’enciclica Humani generis del 12 agosto 1950 e coi testi del Concilio Vaticano
II costituisce il principale atto dottrinale della Chiesa dopo Pio X.

Certo vi sono nella formazione del sensus communis della Chiesa momenti di
memoria, che tengono sotto il fuoco dell’attenzione certe parti del deposito, e
momenti d’oblìo che sviano da quel fuoco e relegano nell’oscurità altre parti del
sistema cattolico33. Questo è un effetto della limitata intenzionalità dello spirito,
che non può essere sempre in tutto, e della conseguente dirigibilità
dell’attenzione, che è il gran vero su cui poggia l’arte educativa e, in ordine più
basso o bassissimo, l’arte della propaganda. Ed essendo essa una cosa necessaria
nell’umana natura non può né deplorarsi né eliminarsi. Bisogna però che questa
relativa oblivione in cui si fanno cadere alcuni articoli del sistema cattolico non
trapassi addirittura in espunzione di essi. È la storia che svolgendosi espone od
oscura ora questa e ora quella faccia, ma non è per il fatto di essere illuminata
che quella faccia esista nella coscienza della Chiesa né per il fatto di essere
oscurata che quella faccia si spenga del tutto.

Quando il senso generale va nella massa della Chiesa verso l’oscurazione di


certi veri, occorre che la Chiesa docente li mantenga con forza conservando
intero il tuttinsieme del sistema cattolico, anche se questa o quella parte vien
poco toccata dal sentimento di essa massa. Così l’innegabile epocazione dei tre
Sillabi nel presente momento non può levare ai tre documenti il carattere
eminente che portano con sé. Non si può omettere a questo proposito di rilevare
che la continuità omogenea degli asserti papali costituisce agli occhi dei
neoterici il difetto principale di questa insistenza della Chiesa, che ripudierebbe
lo sviluppo. Ma la Chiesa sussiste in una verità intemporale ed è con quella che
essa giudica i tempi. La formula della Chiesa è bis in idem, anzi pluries in idem,
anzi semper in idem, perché essa è in relazione perpetua e indefettibile con il
principio e quando giudica le versatili contingenze storiche sulla scorta del
principio, questo, non quelle, le preme.

28. La «Humani generis» (1950). – Nel titolo della enciclica solleva tosto
l’attenzione lo stile tetico e categorico che non usa le formule più riservate di
altri atti dottrinali. In luogo infatti della formula non videntur consonare o simili
(adoperate per altro anche qui a proposito del poligenismo) si enuncia in limine
che si prendono di mira false opinioni «quae catholicae doctrinae fundamenta
subruere minantur»34. È una minaccia ossia una prospettiva di eversione, ma la
minaccia è reale: non dice subruere videntur ma senza ambagi subruere
minantur. Gli errori offendono la verità cattolica anche se non ne consumano
l’eversione. Nel proemio dell’elenco si tocca un carattere della crisi che ne
arguisce il grado e ne esprime la novità. L’errore che veniva un tempo ab extra si
origina adesso ab intra della Chiesa, e non è più un esterno assalto, ma un guasto
intestino, non più tentativo di demolizione della Chiesa ma, secondo il motto
celebre di Paolo VI, autodemolizione della Chiesa. Eppure false opinioni non
dovrebbero aver luogo nella Chiesa, perché l’umana ragione, impregiudicata la
sua capacità naturale, si trova quivi sempre rafforzata e amplificata dalla
Rivelazione. Ma è proprio il postulato di indipendenza dalla Rivelazione il
πρῶτον ψεῦδος, e non sono che forme o più veramente denominazioni di esso gli
errori che l’enciclica vien descrivendo. Così il pirronismo essenziale alla
mentalità moderna porta che la nostra conoscenza non sia apprensione del reale,
ma puramente produzione di immagini sempre mutevoli di un reale sempre
sfuggente. La cognizione è indipendente dalla verità.

Anche l’esistenzialismo poggia sul principio di indipendenza. Le cose


esistenti non hanno relazione ad essenze anteriori che partecipano l’assolutezza
dell’ente divino di cui sono i pensati. L’enciclica colpisce la mentalità moderna,
non in quanto moderna, ma in quanto pretenda staccarsi da quel firmamentum di
valori immutabili per versare tutta ed esclusivamente nell’esistenza. Questa
mentalità nemmeno con correzioni può comporsi col dogma cattolico
(DENZINGER, 2323).

I successivi articoli esplicano la figliazione degli errori ulteriori,


riallacciandoli tutti a quello dell’indipendenza creaturale. Lo storicismo essendo
la considerazione dell’esistenza staccata dall’essenza, non può trovare la realtà
che nel movimento e dà luogo a un universale mobilismo. Negato infatti
l’elemento transtemporale di ogni cosa temporale, costituito appunto dalle
essenze, l’essere si dissolve in divenire, fugato ogni substrato non dissolubile,
che sarebbe pur necessario per concepire il divenire medesimo (DENZINGER, ivi).

Anche la condanna del sentimentalismo (DENZINGER, 2324) è nient’altro che


una condanna del sentimento quando non sia riguardato nell’intero dell’uomo.
Nel fondo dell’uomo infatti v’è una relazione essenziale alla sua ragione, e in
fondo alla ragione v’è un’essenza creata sì ma partecipante l’assoluto. La
discendenza del pirronismo, dell’esistenzialismo, del mobilismo e del
sentimentalismo dal principio dell’indipendenza opposto al principio cattolico,
costituisce il nerbo teoretico del documento di Pio XII. La riprovazione di
singoli errori diramati dal πρῶτον ψεῦδος, quali il ripudio della metafisica
(tomistica o no), l’evoluzionismo generale, il criticismo scritturistico, il
naturalismo religioso e gli altri specifici errori teologici (tra i maggiori il rifiuto
della transustanziazione) sono puramente secondari e di accessione e se ne deve
fare un conto secondario quando si miri a stabilire dove è intaccato il principio
medesimo del cattolicismo. Questo principio è la dipendenza di tutto
l’antropologico dal divino, negata la quale dilegua il fondamento di ogni
assiologia, come pronuncia il documento (DENZINGER, 2323).
CAPITOLO III LA PREPARAZIONE DEL CONCILIO

29. Il Concilio Vaticano II. La preparazione. – Sembra che Pio XI abbia per
un momento pensato a riprendere il Concilio Vaticano interrotto nel 1870 per
fatti violenti, ma è certo, per la testimonianza del cardinal Domenico Tardini, che
Pio XII ponderò l’opportunità di tale ripresa o di un nuovo Concilio e ne fece
librare le ragioni da un’apposita commissione. Questa concluse negativamente.
Forse sembrò che l’atto dottrinale della Humani generis fosse da sé stesso
sufficiente a raddrizzare quanto di torto appariva nella Chiesa. Forse parve non
doversi pregiudicare in alcun modo al carattere del governo papale al quale
l’autorità del Concilio potrebbe produrre diminuzione o sembrar produrla. Forse
si presentì l’aura democratica che avrebbe investito l’assemblea e se ne intuì
l’incompatibilità col principio cattolico. Forse il Papa secondò la sua
inclinazione verso una totalità di responsabilità la quale domanda una totalità
non divisibile di potere (onde alla sua morte, per tale accentramento, vacavano in
Curia offici importantissimi). Al beneficio che attualmente si suol ravvisare nella
reciproca cognizione e comunicazione tra i vescovi del mondo, che è un indizio
di propensioni democratiche, non si dava allora gran peso, non si credeva cioè
che basti mettere insieme gli uomini perché si conoscano e conoscano la cosa su
cui deliberano. La proposta di Concilio fu rimossa. È un’antica suspicione quella
che si libra sul Concilio di fronte al Seggio petrino. La formulò imaginosamente
il card. Pallavicino, lo storiografo del Concilio di Trento: «Nel cielo mistico
della Chiesa non si può immaginare congiunzione più difficile ad accozzare e
accozzata di più pericolosa influenza che un Concilio generale»35.

L’annuncio della convocazione di un Concilio giunse al mondo del tutto


inopinato, dovuto, come disse Giovanni XXIII stesso, a una repentina
ispirazione. Al Vaticano I invece era andata avanti, sin dal 1864, un’inchiesta tra
i cardinali e costoro si erano in maggioranza pronunciati per la convocazione.
Alcuni pochi la avversavano o per non manifestare e quindi accrescere
divergenze, o per essere gli errori già anatemizzati, o per non potersi mutare le
condizioni della Chiesa mancando l’ausilio degli Stati36.

Non ci furono per il Vaticano II consultazioni previe circa la necessità e


opportunità di convocarlo, la decisione essendo venuta da Giovanni XXIII per
esercizio di carisma ordinario o forse per tocco di carisma straordinario37. Ma il
15 luglio 1959 il Papa costituì la Commissione centrale preparatoria in cui
entravano una maggioranza strabocchevole di cardinali e un numero di
patriarchi, arcivescovi e vescovi, scelti con un criterio indeterminato, onde non
appare se vi dovesse prevalere la dottrina o la prudenza di governo o il rapporto
fiduciale col Pontefice. Questa Commissione centrale diffuse all’episcopato di
tutto l’orbe un questionario circa i soggetti da trattare, ne raccolse e classificò i
pareri, istituì a sua volta minori commissioni ed elaborò gli schemi da proporre
all’assemblea ecumenica.

Le risposte dei vescovi già rivelano alcune delle tendenze che prevarranno in
Concilio e non raramente fanno trasparire l’incapacità di stare al punto per
extravagare a materie o impertinenti o futili. Anche per il Vaticano I non erano
mancate richieste extravaganti. Vi erano state alcune suggestioni in favore del
Rosmini o di san Tommaso, e qui la materia è certo di gran momento, ma,
accanto a queste, altre scendevano al problema delle domestiche cattoliche in
famiglie acattoliche, alla benedizione dei cimiteri e ad altre questioni di minuta
disciplina non certo proporzionate all’amplitudine di un Concilio ecumenico.

Il Vaticano II ebbe nell’insieme una preparazione che esprimeva una generale


omogeneità di ispirazione rispondente (pareva) all’intento del Papa38. La parte
opponente esplicò la sua azione, in questa fase preparatoria, con forza minore
dentro e con forza maggiore fuori, riservando di spiegare l’azione principale
nella fase plenaria dell’Assemblea.

30. Esito paradosso del Concilio. – Il Vaticano II ebbe un esito difforme da


quello cui preludeva il Concilio preparato e anzi, come si vedrà, la preparazione
fu sùbito e interamente posta in un canto39. Il Concilio nasce, per così dire, da sé
medesimo indipendentemente dalla preparazione che se ne è fatta. Per certi
rispetti il Vaticano II sarebbe riuscito simile al Tridentino, il quale, secondo il
Sarpi nell’esordio della sua Istoria, «ha sortito forma e compimento tutto
contrario al disegno di chi l’ha procurato e al timore di chi con ogni studio l’ha
disturbato»: contrario al disegno di chi caldeggiava una riforma cattolica che
riducesse la potenza della Corte Romana, contrario al timore di questa Corte
medesima40 che, a detta del Servita, ne attraversò in ogni maniera la riuscita. E di
qui traeva il Sarpi ed è possibile trarre una conclusione di teodicea e una
parenesi religiosa: l’esito paradosso dell’assemblea tridentina è «chiaro
documento per rassignare li pensieri in Dio e non fidarsi della prudenza
umana»41.

Come nel Tridentino secondo il Sarpi, così nel Vaticano II i fatti riuscirono
difformi dalla preparazione e, come oggi dicesi, dalle proiezioni. Non è che vene
di pensiero ammodernante non siano riconoscibili nella fase preparatoria42. Esse
però non impressero l’insieme degli schemi preliminari così profondamente e
distintamente come si stamparono poi nei documenti finali promulgati
conciliarmente. Così, ad esempio, la flessibilità della liturgia per studio di
accomodazione alle varie indoli nazionali era proposta nello schema della
liturgia, ma era ristretta ai territori di missione, e non si faceva menzione
dell’esigenza tutta soggettiva di una creatività del celebrante. La pratica
dell’assoluzione comunitaria, allargata a scapito della confessione individuale,
per studio di facilitazione morale, era proposta nello schema de sacramentis.
Perfino l’ordinazione presbiteriale di uomini uxorati (non però quella di
femmine) trovava luogo nello schema de ordine sacro. Lo schema de libertate
religiosa (card. Bea), uno dei più tormentati e contesi nell’assemblea ecumenica,
avanzava in sostanza la gran novità che venne infine adottata, facendo uscire
(sembra) la dottrina dalla via comune, canonizzata e perpetuamente professata
dalla Chiesa cattolica. Il principio della funzionalità è proprio del pragmatismo e
dell’attivismo moderno, che ravvisano il valore nella produttività (di cose o di
lavoro, che sia) e che disconoscono le operazioni intransitive e immanenti della
persona abbassandole sotto quelle transitive ed efficienti ad extra (§§ 216-7). Ma
era anch’esso formulato espressamente nello schema de disciplina cleri che
contemplava l’inabilitazione e la rimozione di vescovi e di presbiteri, toccata una
data età. Si sa che il frutto maturo di questa inclinazione all’attivismo è il motu
proprio Ingravescentem aetatem che colpisce di deminutio capitis i cardinali
ottuagenari. Un votum particolare circa la talare diede adito al costume di vestire
alla laicale dissimulando la differenza specifica del prete dal laico e facendo
cadere persino la prescrizione che faceva obbligo della talare durante le funzioni
ministeriali. Si affacciano nei lavori preparatorii anche opinioni particolari di
scuola teologica in senso largioristico. Si chiedeva per esempio di far passare
come dottrina del Concilio una disputabile posizione sul limbo dei bambini e
persino degli adulti. Questa materia, come troppo contigua al salebroso dogma
della predestinazione, taciuto dai decreti conciliari43, fu del tutto omessa, ma lo
spirito largioristico e pelagiano che essa supponeva investì il pensiero teologico
postconciliare, come più avanti mostreremo.

Più risentito fu nell’assemblea plenaria l’influsso, ben manifesto nella


preparazione, di chi voleva innovare nell’educazione del clero (schema de
sacrorum alumnis formandis). La pedagogia secolare della Chiesa, concretata
nel sistema dei seminari, implica doversi i preti formare secondo un principio
peculiare corrispondente alla peculiarità ontologica e morale del loro stato
consacrato. Nello schema si richiedeva al contrario una formazione del clero
assimilata quanto più è possibile alla formazione dei laici: perciò la ratio
studiorum dei seminari doveva esemplarsi su quella degli Stati e in generale la
cultura del clero smettere ogni originalità rispetto a quella dei laici. Il motivo di
questa novazione si ritenne essere quello che diventò il tema variamente
modulato dal Concilio, che cioè gli uomini di Chiesa si conformino al mondo per
esercitare sul mondo la loro operazione specifica di insegnamento e di
santificazione.

Anche circa la riunione dei cristiani non cattolici si fece sentire la voce di chi
pareggiava i protestanti, senza sacerdozio, senza gerarchia, senza successione
apostolica e senza o quasi senza sacramenti, agli ortodossi aventi invece quasi
tutto in comune coi cattolici, fuorché primato e infallibilità. Pio IX aveva fatto
nettissima distinzione: inviò messi apostolici a recare le lettere invitatorie ai
patriarchi orientali (che dichiararono tutti non potersi recare al Concilio), ma non
riconobbe come Chiese le varie confessioni protestanti, riguardate come pure
associazioni, e inviò un appello ad omnes protestantes, non affinché
intervenissero al Concilio, ma affinché tornassero all’unità da cui si eran scostati.
L’atteggiamento latitudinario affiorato nella preparazione poggia sopra
un’implicita parziale parità tra cattolici e acattolici, e riuscì minoritario nella fase
preparatoria, ma ottenne poi che si invitassero come osservatori i protestanti,
indistinti dagli ortodossi, e spiegò poi la sua influenza nel decreto de
oecumenismo (§§ 245-7).

Un ultimo tratto accomuna preparazione ed esito: il generale ottimismo che


colora le diagnosi e i pronostici della Commissione centrale preparatoria nella
sua minoranza. Che l’aumento della cognizione scientifica della natura, cioè il
regno della tecnica in cui si identifica la civiltà moderna, sia parimenti il regno
della dignità e della felicità umana, fu affacciato nello schema de Ecclesia al
capo 5 de laicis, ma impugnato dalla maggioranza che insisteva sul carattere
adiaforo dei progressi tecnici: questi estendono la possibile applicazione della
moralità, ma non la perfezionano intensivamente. Eppure questo motivo della
dominazione della terra per mezzo della tecnica verrà sacralizzato (§ 218) nei
documenti definitivi e investirà tutto il pensiero teologico postconciliare.
L’elevazione della tecnica a forza civilizzatrice e moralmente perfezionatrice
dell’uomo partoriva l’idea del progresso del mondo e congiuntamente un gran
vento di ottimismo. L’ottimismo infatti doveva poi presiedere a ogni prospettiva
dell’assemblea plenaria e oscurare la visione dello stato reale del cattolicismo.

Mette conto di riferire per disteso le critiche che un Padre della Commissione
centrale preparatoria opponeva alla descrizione troppo fiorita della situazione del
mondo e della situazione della Chiesa nel mondo. «Non placet hic cum tanto
laetamine descriptus status Ecclesiae magis in spem, meo iudicio, quam ad
veritatem. Cur enim auctum religionis fervorem ais, aut respectu cuius aetatis?
Nonne in oculis habenda est ratio statistica, quam dicunt, unde apparet cultum
Dei, fidem catholicam, publicos mores apud plerosque collabescere et paene
dirui? Nonne status mentium generatim alienus est a catholica religione, discissis
republica ab Ecclesia, philosophia a dogmatis fidei, investigatione mundi a
reverentia Creatoris, inventione artis ab obsequio ordinis moralis? Nonne inopia
operariorum in sacro ministerio laborat Ecclesia? Nonne multae partes Sanctae
Ecclesiae vel immanissime conculcantur a Gigantibus et Minotauris, qui
superbiunt in mundo, vel schismate labefactatae sunt, utpote apud Chinenses?
Nonne missiones nostras ad infideles, tanto zelo ac caritate plantatas ac rigatas,
vastavit inimicus homo? Nonne atheismus non amplius per singulos sed per totas
nationes (quod prorsus inauditum erat) celebratur et per reipublicae leges
instauratur? Nonne numerus noster quotidie proportionaliter imminuitur,
Mahumetismo ac Gentilismo immodice gliscentibus? Nos enim quinta pars
sumus generis humani, qui quarta fuimus paulo ante. Nonne mores nostri per
divortium, per abortum, per euthanasiam, per sodomiam, per Mammona
gentilizant?»44. Questa diagnosi (conclude) procede humano more e in linea di
considerazione storica, riservando quel che la Provvidenza di Dio sulla sua
Chiesa può operare «oltre la difension dei senni umani» e fuori della potenza
ordinata.

31. Ancora l’esito paradosso del Concilio. Il Sinodo Romano. – L’esito


paradosso del Concilio rispetto alla sua preparazione appare, oltre che dai
documenti finali comparati con quelli propedeutici, anche da tre fatti principali:
la fallacia delle previsioni fatte dal Papa e dai preparatori del Concilio; l’inanità
effettuale del Sinodo Romano I indetto da Giovanni XXIII come anticipazione
del Concilio; la nullificazione, quasi immediata, della Veterum sapientia che
prefigurava la fisionomia culturale della Chiesa del Concilio.

Papa Giovanni, che aveva ideato il Concilio come un grande atto di


rinnovamento e di adeguamento funzionale della Chiesa, riteneva di averlo
anche preparato come tale e vagheggiava di poterlo concludere entro pochi
mesi45, forse come il Laterano I sotto Callisto II nel 1123 quando trecento
vescovi lo finirono in diciannove giorni, o forse come il Laterano II sotto
Innocenzo II nel 1139 con mille vescovi che lo finirono in diciassette giorni. Fu
invece aperto l’11 ottobre 1962 e chiuso l’8 dicembre 1965 durando così
discontinuamente tre anni. Il rovesciamento delle previsioni nacque dall’essere
abortito il Concilio quale era stato preparato e dall’essersi successivamente
elaborato un Concilio difforme dal primo e per così dire generatosi da sé stesso
e, come dicevano i Greci, αὐτογενής.

Il Sinodo Romano I fu ideato e convocato da Giovanni XXIII come un atto


solenne previo alla grande assemblea, di cui doveva essere una prefigurazione e
una realizzazione anticipata. Così dichiarò testualmente il Pontefice stesso
nell’allocuzione al clero e ai fedeli di Roma il 29 giugno 1960. Ne veniva da tutti
rilevata l’importanza, oltrepassante per questa ragione l’àmbito della diocesi di
Roma e stendentesi a tutto l’orbe cattolico. La sua importanza veniva paragonata
a quella che rispetto alla grande assise tridentina avevano avuto i sinodi
provinciali celebrati da san Carlo Borromeo. Si rinfrescava l’antico adagio che
vuole comporsi tutto l’orbe cattolico sul modello della particolare Chiesa
romana. Che nella mente del Papa il Sinodo romano fosse destinato ad avere un
effetto esemplare grandioso appare anche dal fatto che egli ordinò subito che i
testi fossero tradotti in italiano e in tutte le principali lingue.

I testi del Sinodo Romano che furono promulgati il 25, 26 e 27 gennaio 1960
sono una reversione totale all’essenza propria della Chiesa, all’essenza,
intendiamo, non pure soprannaturale (questa non si può perdere), ma all’essenza
storica della Chiesa, un ritiramento (per dire con Machiavelli) dell’istituzione
verso i suoi principii.

In tutti gli ordini della vita ecclesiale infatti il Sinodo proponeva una
vigorosa restaurazione. La disciplina del clero era modellata sullo stampo
tradizionale, maturato nel Tridentino e fondato sui due principii sempre
professati e sempre praticati. Il primo è quello della peculiarità della persona
consacrata e abilitata soprannaturalmente a esercitare le operazioni del Cristo, e
quindi inconfusibilmente separata dai laici (sacro equivale a separato). Il
secondo principio, conseguente al primo, è quello dell’educazione ascetica e
della vita sacrificata, che differenzia il clero come ceto (anche nel laicato i
singoli possono vivere vita ascetica). Il Sinodo prescriveva quindi ai chierici
tutto uno stile di condotta nettamente differenziato dalle maniere laicali. Tale
stile esige l’abito ecclesiastico, la sobrietà del vitto, l’astensione dai pubblici
spettacoli, la fuga delle profanità. Della formazione culturale del clero era
similmente riaffermata l’originalità e si delineava il sistema che l’anno dopo il
Papa sanzionò solennemente nella Veterum sapientia. Il Papa ordinò anche che si
ripubblicasse il Catechismo del Concilio Tridentino, ma l’ordine non fu raccolto.
Soltanto nel 1981 per iniziativa privata se ne ebbe in Italia una traduzione (OR,
5-6 luglio 1982).

Non meno significante è la legislazione liturgica del Sinodo: si conferma


solennemente l’uso del latino, si condanna ogni creatività del celebrante, che
farebbe scadere l’atto liturgico, che è atto di Chiesa, a semplice esercizio di pietà
privata. Si urge la necessità di battezzare i parvoli quam primum, si prescrive il
tabernacolo nella forma e nel sito tradizionali, si comanda il canto gregoriano, si
sottopongono all’approvazione dell’Ordinario i canti popolari di nuova
invenzione, si allontana dalle chiese ogni profanità, vietando in generale che
dentro l’edificio sacro si eseguiscano spettacoli e concerti, si vendano stampati e
imagini, si dia campo ai fotografi, si accendano promiscuamente lumi (si dovrà
commettere al prete di farlo). Il rigore antico del sacro viene ristabilito anche
circa gli spazi sacri, vietando alle donne l’accesso al presbiterio. Infine gli altari
facciali sono concessi solo per eccezione che spetta al vescovo diocesano di
concedere.

Non è chi non veda che una tale massiccia reintegrazione della disciplina
antica voluta dal Sinodo fu quasi in ogni articolo contraddetta e smentita dal
Concilio. E così il Sinodo Romano, che doveva essere prefigurazione e norma
del Concilio, precipitò in pochi anni nell’Erebo dell’oblìo ed è in verità tanquam
non fuerit46. Per dare un saggio di tale nullificazione osserverò che, avendo io
ricercato, in Curie e archivi diocesani, i testi del Sinodo Romano non ve li trovai
e dovetti estrarli da pubbliche biblioteche civili47.

32. Ancora l’esito paradosso del Concilio. La «Veterum sapientia». – L’uso


della lingua latina è, non metafisicamente, ma storicamente, connaturato alla
Chiesa cattolica ed è, anche nella mentalità popolare, strettamente congiunto con
le cose di Chiesa. Esso costituisce inoltre un mezzo e un segno primario della
continuità storica della Chiesa. E siccome non vi ha interno senza esterno e tale
interno sorge, fluttua, si innalza, si abbassa insieme con l’esterno, è sempre stata
persuasione della Chiesa che l’esternità del latino si dovesse conservare
perpetuamente per preservare l’interno della Chiesa. Questo tanto più perché si
tratta di un fenomeno del linguaggio in cui il sìnolo di forma e sostanza, di
esterno e di interno è del tutto indissolubile. La rovina della latinità conseguita al
Vaticano II si accompagnò infatti a molti sintomi dell’autodemolizione della
Chiesa deprecata da Paolo VI.

Del valore della latinità diremo ai §§ 278-9. Qui vogliamo soltanto toccare il
divario che stiamo studiando tra l’ispirazione preparatoria data al Concilio e
l’effettuale risultato di esso.
Con la Veterum sapientia Giovanni XXIII intendeva operare un ritiramento
della Chiesa ai suoi principii, questo ritiramento essendo nella sua mente
condizione del rinnovarsi della Chiesa nella propria peculiare natura nel presente
articulus temporum.

Al documento il Papa attribuì un’importanza specialissima e le solennità di


cui ne volle rivestita la promulgazione (in San Pietro, al cospetto del collegio
cardinalizio e di tutto il clero romano) non hanno pari nella storia di questo
secolo. L’importanza eminente della Veterum sapientia non è annientata
dall’oblìo nel quale fu fatta cadere immediatamente (i valori non sono tali perché
accettati), né dal suo insuccesso storico. L’importanza consta dalla sua perfetta
consonanza con l’individualità storica della Chiesa.

L’enciclica è anzitutto un’affermazione di continuità. La cultura della Chiesa


si continua dal mondo ellenico e romano innanzitutto perché le lettere cristiane
sono, sin dai primordi, lettere greche e lettere latine. Gli incunaboli del Libro
Sacro son greci, i simboli di fede più antichi sono greci e latini, la Chiesa di
Roma dalla metà del secolo III è tutta latina, i Concili dei primi secoli non hanno
altro idioma che il greco. Questa è una continuità interna alla Chiesa onde si
concatenano tutte le epoche sue. Ma vi è poi una continuità per dir così esterna,
che travalica la cronologia dell’era cristiana e va a ripigliare tutta la sapienza
gentilesca. Non parleremo certo di sanctus Socrates, ma non potremo preterire la
dottrina che fu dei Padri greci e latini richiamata dal Pontefice con un testo di
Tertulliano, secondo la quale vi ha continuità tra il mondo di pensiero di cui
visse la sapienza antica, veterum sapientia appunto, e il mondo di pensiero
elaborato dopo la rivelazione del Verbo incarnato.

Il pensiero cristiano elaborò il contenuto soprannaturalmente rivelato, ma


sposò anche il contenuto rivelato naturalmente nel lume della creata razionalità.
Così il mondo classico non è estraneo alla religione. Questa ha per essenza una
sfera di verità irraggiungibili da lume naturale e sovrapposte ad esso, ma include
però la sfera di ogni verità umanamente conseguibile. La cultura cristiana è
dunque preparata e aspettata obbedienzialmente, come dissero i Medievali,
dalla sapienza antica, perché niuna verità, niuna giustizia, niuna bellezza le
rimane estranea. Essa è dunque non opposta ma consentanea alla cultura antica e
si è sempre sostenuta in essa, non solo, come si suol dire, facendola ancella e
giovandosene funzionalmente, ma portandola nel grembo, essa che già era, ma
che divenne maggiore di sé stessa essendo santificata. Io non vorrei qui
dissimulare che questo rapporto tra mondo antico e cristianesimo, come tra due
cose consentanee tra di loro, cela delicate aporie e richiede che si mantenga
ferma la distinzione tra razionale e sovrarazionale. La troppo vulgata formula di
Tertulliano anima naturaliter Christiana è impossibile mantenerla, giacché
varrebbe naturalmente soprannaturale. Qui occorrono passi guardinghi per non
far pericolare di naturalismo e di storicismo la religione cristiana che è
essenzialmente soprastorica e soprannaturale. Ma il concetto della sua continuità
nella distesa temporale e nella vicissitudine delle culture è concetto cattolico,
difficile, ma vero e necessario. Qui mi basterà pormi sotto il patrocinio di
sant’Agostino che tale continuità asserisce in modo assoluto e universale
scavalcando secoli e culti: «Nam res ipsa, quae nunc Christiana religio
nuncupatur, erat apud antiquos nec defuit ab initio generis humani» (Retract., I,
cap. 13)48.

La parte pratica e dispositiva della Veterum sapientia è di una fermezza che


fa esatto riscontro al cristallo della dottrina. I punti decisivi sono proprio quelli
che per la successiva papale desistenza ne determinarono poi la nullificazione.
Stabilisce infatti che la ratio studiorum ecclesiastica riacquisti la propria
originalità fondata sullo specifico dell’homo clericus; che conseguentemente si
risostanzii l’apprendimento delle discipline tradizionali, massime il latino e il
greco; che per ciò ottenere si espungano o si raccorcino le discipline del cursus
laicale, che per una tendenza assimilativa si erano andate introducendo o
ampliando. Prescrive che nei seminari le scienze fondamentali, come la
dogmatica e la morale, si professino in latino seguendo manuali parimenti latini;
che chi tra gli insegnanti apparisse incapace o renitente alla latinità si rimuova
entro un congruo tempo. A coronamento della Costituzione apostolica, destinata
a procurare una generale reintegrazione della latinità nella Chiesa, il Pontefice
decretava l’erezione di un Istituto superiore di latinità che avrebbe dovuto
formare latinisti per tutto l’orbe cattolico e curare un lessico del latino
moderno49.

La disintegrazione generale della latinità, seguita al progetto di generale


reintegrazione della fase preparatoria, porta ulteriore suffragio alla tesi dell’esito
paradosso del Concilio. La Veterum sapientia, come quella che toccava un punto
storicamente essenziale del cattolicismo, domandava una prestantissima virtù di
autorità e di rispondenza armonica in tutti gli organi di esecuzione. Occorreva
quella forza pratica che si era esercitata per esempio nella grande riforma della
scuola italiana ad opera del ministro Giovanni Gentile, riforma che sigillò la
ratio studiorum per mezzo secolo. Anche allora migliaia di insegnanti trovatisi
in una condizione analoga a quella in cui la Veterum sapientia gettava quelli di
lettere divine, furono in maniera immisericorde astretti a conformarsi o a
dimettersi. La riforma degli studi ecclesiastici invece, osteggiata da molti lati e
con vari motivi, massime nella provincia alemannica con un libro del Winninger
prefazionato dal vescovo di Strasburgo, fu in brevissimo tempo annichilata. Il
Papa, che prima instava, ordinò che non se ne esigesse l’esecuzione; quelli cui
sarebbe toccato per officio di renderla efficace, secondarono la fiacchezza papale
e la Veterum sapientia, di cui erano state così altamente esaltate opportunità e
utilità, fu del tutto abrasa e non è citata in alcun documento conciliare. In talune
biografie di Giovanni XXIII se ne tace del tutto come non fosse né fosse stata,
mentre i più protervi la menzionano soltanto come un errore. E non c’è nella
storia di tutta la Chiesa esempio di documento così solennizzato e così tosto
gettato alle Gemonie.

Resta soltanto il problema se la sua cancellazione de libro viventium sia stata


la conseguenza di un manco di saggezza nel promulgarla o l’effetto di un manco
di intrepidezza nell’esigerne l’esecuzione.

33. I fini del Concilio Vaticano I. – Da che la Chiesa usò di operare


conciliarmente (il che cominciò in età apostolica) insino al Vaticano I
l’ecumenica assemblea fu sempre convocata per tre scopi che si denominarono
causa fidei, causa unionis, causa reformationis. Nelle assemblee dei primi secoli
la seconda e la terza causa erano implicate nella prima e non si percepivano
distintamente, ma è manifesto che decidendo le questioni di fede (poniamo
quella dell’unione teandrica) si superava la divisione dottrinale rifacendo la
concordia sociale dentro la Chiesa. Per la connessione tra dogma e disciplina si
ristabiliva anche la regola dell’agire oltre quella del credere. Ma più tardi lo
scisma di Fozio e di Michele Cerulario e più tardi ancora la gran scissura di
Alemagna imposero in modo impellente la questione dell’unione. Essa diventò
preponderante al Concilio di Lione (1274) e al Concilio di Firenze (1439). Infine
la corruzione del costume della chieresia, lo strapotere secolaresco della Curia
Romana e il turgore crematistico del Papato proposero per secoli e imposero
finalmente nel Tridentino (1545-1563) anche la causa della riforma.

I tre fini furono perseguiti anche dal Vaticano I: l’appello agli acattolici diede
luogo a una vasta letteratura e a un’ampia polemica. La causa unionis fu
deputata a una delle quattro grandi commissioni preparatorie e la causa
reformationis similmente, dando luogo a un pullulare di petizioni e di
suggestioni che basta da solo a provare come nessuna cosa si facesse, nemmeno
allora, in circoli ristretti e in camarillas. L’ampiezza assunta dalle aspettative è
indicata anche dalla varietà e audacia delle suggestioni. C’era alla metà
dell’Ottocento chi voleva vietata dal Concilio la pena di morte; chi proponeva si
quis bellum incipiat anathema sit50; chi domandava l’abolizione del celibato del
clero latino; chi stava per l’elezione dei vescovi a suffragio democratico. Più di
tutte le altre abbracciava l’aspirazione verso una organizzazione militante delle
masse cattoliche la proposta del cappuccino Antonio da Reschio51. Questi
auspicava che tutta la massa del popolo cattolico fosse scompartita in
congregazioni, dai fanciulli agli adulti, dai celibi ai coniugati: i membri di queste
congregazioni dovevano non contrarre né amicizia né matrimonio né
accompagnarsi in altro modo con quelli che non avevan parte in esse. Era in
sostanza la separazione non pure da quelli di fuori della Chiesa o di fuori della
Chiesa praticante, ma addirittura da quelli di dentro la Chiesa che non entrassero
in questa organizzazione massiccia, tanquam castrorum acies ordinata. Il
disegno del cappuccino ripigliava modelli o paganeggianti o gesuitici o utopici, e
ravvisava la perfezione sociale nell’esteriore ordinamento secondo schemi
razionali.

Ma, nonostante tali stravaganze e le vene di pensiero ammodernante già


menzionate, la preparazione del Vaticano I riuscì a imprimere all’assemblea
ecumenica una netta direzione che assicurava nel secolo l’unità della Chiesa.
Quanto alla causa fidei furono, o esplicitamente o implicitamente, ricondannati
gli errori trafitti dal Sillabo. Quanto alla causa unionis fu riaffermata la necessità
che l’unione derivasse da una riunione o accessione delle confessioni acattoliche
alla Chiesa Romana, centro dell’unità. Quanto alla causa reformationis fu
rinnovato il principio della dipendenza di tutti i fedeli dalla legge naturale e dalla
legge divina possedute dalla Chiesa. A questa dipendenza pose il sigillo la
definizione dogmatica dell’infallibilità didattica del Papa.

34. I fini del Vaticano II. La pastoralità. – Le tre cause tradizionali sono tutte
riconoscibili anche nelle finalità perseguite dal Vaticano II, sebbene variamente
enunciate e variamente rilevate, primeggiando ora l’una ora l’altra
nell’attenzione e nell’intenzione. Furono poi tutte avvolte in una qualificazione
che sembrò peculiare e che si espresse col termine di pastoralità.

Nel decreto Presbyterorum ordinis, 12, il fine del Concilio è triplice: la


rinnovazione interna della Chiesa (questo fine sembra toccare insieme la fede e
la riforma), la diffusione del Vangelo nel mondo (questo sembra toccare ancora
la fede non servanda, sed propaganda) e infine il colloquio con il mondo
moderno (che sembra ancor de fide propaganda o, come oggi si suol dire, de
evangelizando mundo).

Paolo VI nel discorso di apertura del secondo periodo articolò al Concilio


quattro fini. Il primo è la presa di coscienza della Chiesa. Al Papa sembra che
«la verità circa la Chiesa di Cristo debba essere esplorata, ordinata ed espressa»
e che «debba definirsi, non peraltro con definizioni dogmatiche, quel che la
Chiesa pensa di sé». Qui si vede ombra di soggettivismo. In verità non importa
quel che la Chiesa pensa di sé, bensì quello che essa è.

Il secondo fine è la riforma, cioè lo sforzo di correggersi e riportarsi alla


conformità al suo divino modello (senza distinzione tra conformità essenziale e
costitutiva, che non può venir meno, e conformità accidentalmente
perfezionabile e perciò perfezionanda). Per il Papa tale riforma implica il
risveglio di energie spirituali già latenti nel seno della Chiesa: si tratta qui di
attuare e perfezionare la Chiesa nella sua storicità.

Il terzo fine riprende la causa unionis. Il Papa dice che la causa «riguarda gli
altri cristiani» e che solo la Chiesa cattolica può loro offrire la perfetta unità di
Chiesa. Egli sembra così tenersi dentro la dottrina tradizionale: l’unione ha già il
suo centro definito in cui hanno da concentrarsi le parti dissite e staccate. Egli
aggiunge che «i movimenti recenti e tuttora in pieno sviluppo in seno alle
comunità cristiane da noi separate dimostrano che l’unione non si può
raggiungere che nell’identità della fede, nella partecipazione ai medesimi
sacramenti e nell’armonia organica di un’unica direzione ecclesiastica». E così
riafferma la necessità del triplice consenso, dogmatico, sacramentale e
gerarchico. Però suppone che l’aspirazione dei separati all’unità sia aspirazione
alla dogmatica, alla sacramentalità e alla autorità, quali si trovano nella Chiesa
cattolica. Invece i protestanti concepiscono l’unità come un mutuo
avvicinamento onde tutte le confessioni si muovono verso un unico centro,
interno forse alla comunità dei cristiani, ma non coincidente con il centro di
unità che la Chiesa Romana professa di essere, di possedere e di comunicare agli
altri (§§ 245 sgg.).

Un’ambiguità di fondo intacca così l’ecumenismo conciliare, pendulo tra la


conversione come reversione al centro cattolico e la conversione come esigenza
comune di tutte le confessioni, cattoliche e acattoliche, verso un centro a tutte
ulteriore e superiore.

Il quarto fine del Concilio è di «lanciare un ponte verso il mondo


contemporaneo». Aprendo un tale colloquio la Chiesa «scopre e corrobora la sua
vocazione missionaria», cioè la sua essenziale destinazione a evangelizzare
l’umanità. L’uso del termine scoprire oltrepassa certo la concezione a cui il Papa
lo fa servire, giacché la Chiesa propagò sempre il Vangelo e quando viaggi e
peripli rivelarono nuovi paesi, nuovi costumi e nuove religioni, rimpicciolendo il
cristianesimo a essere, come dice il Campanella, non più che un’unghia del
mondo, la Chiesa fu tosto animata dall’impulso missionario, vi furono i primi
tentativi (del Campanella appunto) di teologia missionaria e comparata, e Roma
creò la congregazione apposita de propaganda fide.

Il Papa concepisce il dialogo col mondo come identico col servizio che la
Chiesa deve prestare al mondo e talmente dilata l’idea del servizio, da dire
espressamente che i Padri non sono convocati per trattare le cose loro, cioè della
Chiesa, bensì quelle del mondo. L’idea che il servizio della Chiesa al mondo è
ordinato a far servire il mondo al Cristo, di cui l’individuo storico è la Chiesa, e
che il dominio della Chiesa non implica servitù dell’uomo, ma anzi elevazione e
signoria dell’uomo, viene qui scarsamente lumeggiata. Sembra che il Papa
voglia fugare ogni taccia o suspicione di dominio, di qualunque sorta
indistintamente, e contrapporre a servizio conquista, mentre è pure parola del
Cristo «ego vici mundum».

35. Le aspettazioni intorno al Concilio. – Detto dei fini del Concilio


conviene fare un cenno alle aspettazioni e alle previsioni circa gli effetti che ne
uscirebbero. I fini sono della volontà, le previsioni invece sono del sentimento e
spesso del desiderio. Si inventò il termine trionfalismo per dipingere un supposto
atteggiamento della Chiesa del passato, senza accorgersi che quella dipintura era
contraddetta sia dai patimenti stessi della Chiesa, attaccata negli ultimi secoli
dallo Stato moderno, sia dalla accusa, che le si muoveva simultaneamente, di
isolarsi difensivamente e di separarsi dal mondo. Ma in realtà, nonostante alcuni
tratti realistici, la colorazione generale del pronostico è speranziata e ottimistica.
La speranza non è però la speranza teologica, che ha la sua causa in una certezza
soprannaturale, e mira a uno stato ultramondiale del mondo, ma la speranza
storica e mondana, che si regge sulle congetture e le previsioni uscenti dal
desiderio del pronosticante o da quanto si vede nell’uomo.

Nel discorso di apertura del secondo periodo Paolo VI discopre la scena del
mondo moderno, con le persecuzioni religiose, l’ateismo divenuto principio
della vita sociale, l’abbandono della scienza di Dio, l’avidità di ricchezza e di
piaceri. «A tal vista» dice il Papa «noi dovremmo essere spaventati piuttosto che
confortati, addolorati piuttosto che rallegrati». Ma, come si vede, il Papa adopera
un condizionale e non esplicita la protasi di quel discorso ipotetico. Egli seguiva
d’altronde i passi di Giovanni XXIII che nel discorso dell’11 ottobre 1962
prevedeva «universale irradiazione della verità, retta direzione della vita
individuale, domestica e sociale». E nel discorso di Paolo VI l’ottimismo non
soltanto colora la previsione, ma s’impianta vigorosamente nella contemplazione
del presente stato della Chiesa. Le parole, paragonate ad altre di senso opposto,
mostrano quanto ampio fosse l’excursus del papale pensiero tra gli estremi e
quanto grande la forza di dimenticanza quando si soffermava in uno di essi:
«Godiamo, fratelli: quando mai la Chiesa fu così consapevole di sé stessa,
quando mai così felice e così concorde e così pronta all’adempimento della sua
missione?».

E il card. Traglia, vicario di Roma, usciva dalla figura rettorica


dell’interrogazione e asseriva francamente: «Mai la Chiesa cattolica è stata così
unita, stretta intorno al suo Capo, mai ha avuto un clero così esemplare,
moralmente e intellettualmente, come adesso, né corre alcun rischio di rottura
del suo organismo. Non è già a una crisi della Chiesa che il Concilio dovrà
ovviare» (OR, 9 ottobre 1962). Non si può, per spiegare un tal giudizio, che
pensare a una grande commozione d’animo o a un gran difetto di cognizioni
storiche.

Da questa commozione d’animo deriva certo anche l’asserto di Paolo VI


nell’omelia del 18 novembre 1965: «Nessun altro Concilio nella storia della
Chiesa di Dio ha avuto proporzioni più ampie, lavori più assidui e tranquilli,
temi più vari e più largamente interessanti». Che il Vaticano II sia stato il
massimo dei Concili per frequenza di Padri, apparati organizzativi e risonanza
nell’opinione pubblica è indubitabile, ma queste sono circostanze, non valori di
un Concilio. Ad Efeso nel 431 erano duecento orientali e tre latini e il Tridentino
si aprì alla presenza di soli sessanta vescovi. Ma l’imponenza esteriore del
Vaticano II grazie all’enorme apparato moderno di informazione, che solo mira a
stampare negli animi impressioni, agitò largamente l’opinione mondiale e creò,
ben più importante del Concilio reale, il Concilio opinativo. In un’epoca in cui le
cose sono tali perché sono rappresentate, e tanto valgono quanto si riesce a
persuadere che valgano, il Concilio doveva necessariamente diventare un
fenomeno di opinione e per ciò stesso la grandiosità dell’opinione comunicava
grandezza al Concilio. Né da questa contaminazione di grandezza si
preservarono i Padri del Concilio né il Pontefice medesimo. Paolo VI infatti
ebbe a dichiarare (polemicamente è vero, in confronto di mons. Lefèbvre) nella
lettera del 29 giugno 1975 che il Vaticano II è un Concilio «qui ne fait pas moins
autorité, qui est même, sous certains aspects, plus important encore que celui de
Nicée».

La comparazione tra un Concilio e l’altro è perigliosa, dovendosi anzitutto


precisare sotto quale rispetto si istituisce la comparazione. Se infatti si bada
all’efficacia, si troverà per esempio che il Laterano V (1512-1517), che aveva
per principale la causa reformationis, fu quasi nullo, perché i suoi decreti di
riforma restarono lettera morta, ma rilevante per i decreti dogmatici che
troncarono il neoaristotelismo anatematizzando i fautori della mortalità
dell’anima. Il solo Tridentino pareggiò chiarificazione dottrinale ed efficacia
pratica, ma pure mancò interamente alla causa unionis, che ne aveva
primariamente determinato la convocazione.

Prescindendo peraltro da ogni comparazione tra Concilio e Concilio, è però


possibile comparare tipo di Concilio a tipo di Concilio, e allora appare chiaro
che il tipo dogmatico, che stabilisce la dottrina immutabile, prevale al tipo
pastorale, tutto dominato dalla storicità, che promulga invece decreti de
agibilibus passeggeri e riformabili. Ogni Concilio dogmatico ha d’altronde una
parte pastorale, cioè decretoria, fondata sulla dogmatica. Nel Vaticano II la
proposta di esporre prima la dottrina e poi la pastorale venne respinta52. Nel
Vaticano II non appare alcun pronunciato di genere dogmatico che non sia
replicazione di precedenti Concili. La Nota diramata il 16 novembre 1965 da
mons. Pericle Felici, segretario generale del Concilio, sulla qualificazione
teologica spettante alle dottrine enunciate dal Sinodo stabiliva: atteso il suo fine
pastorale «S. Synodus tantum de rebus fidei vel morum ab Ecclesia tenenda
definit quae ut talia aperte ipsa declaravit»53. Ora, non c’è pericope di testi
conciliari la cui dogmaticità sia asseverata, essendo peraltro sottinteso che, dove
si riafferma la dottrina già definita in passato, la qualificazione teologica non può
essere dubbia. Comunque, nella comparazione dei tipi che dicemmo, la priorità
del dogmatico è da tenere fermamente, perché essa discende da un vero
filosofico, che è anteriore a ogni proposizione teologica, ed è del resto propalato
nella Scrittura. La processione metafisica dell’ente fa la cognizione priore della
volizione, la teoresi della prassi: In principio erat Verbum (Ioann., 1, 1). L’atto
dispositivo e precettivo della disciplina ecclesiastica è senza fondamento se non
emana dalla conoscenza. Ma qui è toccata anche la tendenza pragmatica, che
arrise al Concilio in molti momenti suoi.

36. Le previsioni del card. Montini. Suo minimismo. – Una menzione


particolare convien fare delle previsioni del card. Giovanni Battista Montini,
arcivescovo di Milano, in una pubblicazione dedicata dall’Università Cattolica al
futuro Concilio. Il documento è singolare, se viene esaminato in sé, ma più
ancora se lo si prende come lume a riconoscere la continuità e la discontinuità
del pensiero papale, intendo la continuità innegabile di certe direzioni e la
discontinuità che si apre tra l’ottimismo e il pessimismo finale di questo
Pontificato. Il testo è il seguente: «Il Concilio deve indicare la linea del
relativismo cristiano, fin dove la religione cattolica deve essere ferrea custode di
valori assoluti e fin dove può e deve piegarsi all’accostamento, alla connaturalità
della vita umana quale storicamente si presenta» (OR, 8-9 ottobre 1962)54.

Alcuni difetti della dicitura come «piegarsi alla connaturalità» possono


rendere un po’ difficile l’ermeneutica di questa dichiarazione, ma il fondo di essa
è perspicuo. Il Concilio (sembra) non prepara un’espansione del cattolicismo, ma
lo proporziona in modo che sia ridotto al minimo il suo soprannaturale, e la
religione sia fatta combaciare al massimo con il mondano, considerato (se si
hanno da prendere i termini quali stanno) come connaturale ad essa. Non può
dunque la Chiesa, secondo l’imagine vulgata, essere lievito che monti la massa
né investire l’uomo, mutandone la base, ma piuttosto si farà essa impregnare dal
mondo perché così impregnata impregnerà il mondo.

Una dichiarazione come questa suppone che la Chiesa si trovi presentemente


in uno stato di necessità a transigere col mondo, stato di necessità analogo a
quello in cui essa parve trovarsi nel secolo XVIII a Clemente XIV quando si
trasse a sopprimere la Compagnia di Gesù. È una valutazione che viene da
prudenza guardinga, non da prudenza coraggiosa. Delinea inoltre un disegno di
azione conciliare movente da un supposto che sembra difficile da accettarsi dalla
religione. Il supposto è che l’uomo si debba accettare come è, mentre la religione
lo piglia sì come è, ma non lo accetta come è, perché egli è corrotto: la religione
ha sempre di mira come egli deve essere, per risanarlo appunto dalla corruzione
e salvarlo.

Ma la dichiarazione del 1962 diviene importante se, sorpassando i pronostici


del rifiorimento così famigliari a Montini Papa, la si ricongiunge con quella,
paradossale invero, che egli pronunciò il 18 febbraio 1976: «Non dovremo
temere un giorno d’essere forse in una minoranza, non arrossiremo
dell’impopolarità... non faremo caso di essere dei vinti, se saremo testimoni della
verità e della libertà dei figli di Dio». E la prospettiva di immiserimento e quasi
di inanizione, aperta alla Chiesa nel 1968, si annuncia ancor più nel gemito della
tragica invocazione nelle esequie di Aldo Moro: «Un sentimento di pessimismo
viene ad annientare tante speranze serene e a scuotere la nostra fiducia nella
bontà del genere umano». Qui geme l’uomo, ma più ancora geme il Pontefice,
prossimo alla linea dell’ombra, sopra il supposto che giace infranto di tutto il
pontificato suo55.

37. Le previsioni catastrofali. – Il termine è preso non nel senso sinistro ma


in quello neutro di rivolgimento radicale. Le aspettazioni sono quelle di chi
presagiva e perseguiva il mutamento radicale del cattolicismo. Mons. Schmitt,
vescovo di Metz, lo professa apertamente: «La situation de civilisation que nous
vivons entraîne des changements non seulement dans notre comportement
extérieur, mais dans la conception même que nous nous faisons tant de la
création que du salut apporté par Jésus Christ»56. La dottrina subiacente a tale
pronostico, benché confusionale, fu poi abbracciata, sia allo stato di diluizione
popolare, sia nelle forme di una serrata azione di gruppi organizzati che
impressero al Concilio moti importanti. Sono i fautori dell’indirizzo catastrofale
quelli che osano attribuire a Giovanni XXIII il disegno di «far saltare dal di
dentro il monolitismo staliniano della Chiesa cattolica» («Corriere della Sera»,
21 aprile 1967). Essi sono i discepoli del teocosmologismo confusionale e
poetico di Teilhard de Chardin: «Je pense que le grand fait religieux actuel est
l’éveil d’une Religion nouvelle qui fait, petit à petit, adorer le Monde et qui est
indispensable à l’humanité pour qu’elle continue a travailler. Il est donc capital
que nous montrions le Christianisme comme capable de diviniser le nisus et
l’opus naturels humains» (Journal, p. 220). Il monitorio del Santo Officio contro
le dottrine teilhardiane era infatti con Giovanni XXIII caduto in obsolescenza57.
Persuasi giustamente dell’irreformabilità essenziale della Chiesa, i novatori si
propongono di spingere questa Chiesa oltre sé medesima, alla ricerca di un
metacristianesimo, per adoperare il termine teilhardiano, perché una religione
rinnovata è una nuova religione. Il cristianesimo per non morire dovrebbe
attuare una mutazione nel senso genetico e teilhardiano. Ma se per non morire la
religione deve andare oltre sé stessa, la formula contiene una contraddizione,
perché viene a dire che deve morire per non morire. Ma già nel cattolicismo
francese d’anteguerra si manifestarono dottrine di un rivolgimento radicale della
Chiesa e il card. Saliège scriveva: «Vi sono stati cambiamenti biologici
improvvisi che hanno l’apparire di nuove specie. Non assistiamo forse ora a un
genere di cambiamenti che modificherà profondamente la struttura umana,
voglio dire la struttura mentale e psicologica dell’uomo? A questa domanda che i
filosofi giudicheranno impertinente si potrà rispondere fra cinquecento anni»58.


CAPITOLO IV LO SVOLGIMENTO DEL CONCILIO

38. Il discorso inaugurale: l’antagonismo col mondo e la libertà della


Chiesa. – Il discorso inaugurale del Concilio pronunciato da Giovanni XXIII
l’11 ottobre 1962 è un documento complesso, anche perché secondo probabili
indicazioni riflette la mente papale in una redazione su cui influì una mente non
papale. E già nella ricognizione stessa del testo il documento solleva problemi e
canonici e filologici. Per darne il succo ne rannoderemo tutta la sostanza intorno
ad alcuni capi.

In primo luogo il discorso si apre con un’energica affermazione dell’aut aut


ingiunto agli uomini dalla Chiesa cattolica la quale tra il mondo e la vita celeste
respinge neutralità ed utralità e tutte le cose del tempo ordina al destino eterno.
Oltre al testo profetico di Luc., 2, 34, che cioè il Cristo sarà segno contraddetto e
diventerà resurrezione e rovina di molti, il Papa cita l’altro più decisivo di Luc.,
11, 23: «Qui non est mecum, contra me est». Questi testi non furono poi mai
citati nei documenti conciliari, poiché l’assemblea cercò piuttosto i lati per cui il
mondo e la Chiesa combaciano e cospirano, che non quelli in cui si oppongono e
si urtano. La perfetta coerenza di questa parte dell’orazione inaugurale con la
mentalità cattolica appare anche dove si asserisce che «gli uomini hanno il
dovere di tendere al conseguimento dei beni celesti sia singolarmente presi, sia
socialmente uniti»: questo è il concetto tradizionale della signoria assoluta di
Dio la quale affetta la realtà umana non pure come persona individua, ma come
società, e sancisce l’obbligazione religiosa dello Stato.

Il secondo capo saliente del discorso è la condanna del pessimismo di coloro


che «nei tempi moderni non vedono che prevaricazione». Il Papa, osservando il
nuovo corso del mondo, riconosce una generale alienazione dalle sollecitudini
spirituali, ma trova tale alienazione bilanciata da questo vantaggio, che cioè «le
condizioni della vita moderna hanno tolto di mezzo quegli innumerevoli ostacoli
con cui un tempo i figli del secolo impedivano la libera azione della Chiesa» (n.
9). Il riferimento storico è duplice, rimanendo dubbio se il Papa avesse in mente
l’indebita ingerenza che Impero e Monarchie assolute esercitarono sulla Chiesa
in tempi in cui ultimamente tutto dipendeva dalla religione, o se pensasse invece
piuttosto alle vessazioni subite dalla Chiesa dal Settecento in qua ad opera dello
Stato liberale in tempi in cui la separazione della religione dalla sfera civile
preparava la presente condizione della civiltà. Sembra piuttosto il primo che il
secondo, ma sarebbe anche da notare che all’asservimento della Chiesa alla
potestà civile, massime nell’elezione dei Vescovi e nell’investitura dei beni
ecclesiastici, la Chiesa riluttò perpetuamente e in teoria e in pratica. Basterebbe
ricordare quanto lo deplorasse il Rosmini.

Anche il cosiddetto diritto di veto, che era in effetti puramente una


condiscendenza di fatto, fu più volte tenuto per nullo passandosi oltre il veto,
come avvenne nel conclave di Giulio III, di Marcello II, di Innocenzo X, e
persino in quello di Pio X, tutte le volte cioè che il coraggio seppe prevalere
all’intimidazione della ragion politica.

Il giudizio ottimistico del Pontefice circa l’attuale libertà della Chiesa


concorda certo coi fatti della Chiesa Romana sollevata dalla sarcina del dominio
temporale, ma è crudamente contraddetto dai fatti delle Chiese nazionali, molte
delle quali sono oggi incatenate. D’altronde, le vistose assenze di interi
episcopati impediti dai governi di accorrere al Concilio non poterono sfuggire
alla deplorazione del Papa, il quale professava di «provare un vivissimo dolore
per il fatto che moltissimi Vescovi fanno oggi sentire qui la loro mancanza,
perché imprigionati per la loro fedeltà a Cristo». Conviene inoltre rilevare che
quella lamentata servitù fu nei secoli passati un aspetto della compenetrazione
della vita religiosa nella società, compenetrazione dovuta all’imperfetta
distinzione di valori subordinati, religiosi e civili, che si prendevano come un
tutt’insieme informato dalla religione. La presente liberazione al contrario
procede dall’esautorazione della Chiesa negli spiriti del secolo, sopraffatti come
sono dall’aspirazione eudemonistica e dall’indifferenza dottrinale.

Ma il punto saliente e quasi segreto che è necessario toccare trattando della


libertà del Concilio è la legatura che di essa libertà aveva consentito pochi mesi
prima Giovanni XXIII, stringendo con la Chiesa ortodossa un accordo in forza
del quale il Patriarcato di Mosca avrebbe accolto l’invito papale di inviare
osservatori al Concilio, e il Papa dal canto suo assicurava che il Concilio si
sarebbe astenuto dal condannare il comunismo. La trattativa ebbe luogo
nell’agosto del 1962 a Metz e ne risultano tutti i particolari di tempo e di luogo
da una conferenza stampa fatta da mons. Schmitt, vescovo di quella diocesi59. Il
negoziato si concluse con un accordo firmato dal metropolita Nicodemo per la
Chiesa Ortodossa e dal cardinale Tisserant, decano del Sacro Collegio, per la
Santa Sede. La notizia dell’accordo fu data da «France nouvelle», bollettino
centrale del Partito comunista francese, nel numero 16-22 gennaio 1963 in questi
termini: «Parce que le système socialiste mondial manifeste d’une façon
incontéstable sa supériorité et qu’il est fort de l’approbation de centaines et
centaines de millions d’hommes, l’Eglise ne peut plus se satisfaire de
l’anticommunisme grossier. Elle a même pris l’engagement à l’occasion de son
dialogue avec l’Eglise orthodoxe russe, qu’il n’y aurait pas dans le Concile
d’attaque directe contre le régime communiste». Da parte cattolica il quotidiano
«La Croix» del 15 febbraio 1963 ragguagliava dell’accordo concludendo: «A la
suite de cet entretien Mgr. Nicodème accepta que quelqu’un se rende à Moscou
pour porter une invitation, à condition que soient données des garanties en ce
qui concerne l’attitude apolitique du Concile».

La condizione apposta da Mosca, che cioè il Concilio tacesse sul comunismo,


non rimase dunque segreta, ma l’isolata pubblicazione fattane non ebbe effetto
sull’opinione generale, non essendo stata ripresa dalla stampa né propalata, sia
per una larga apatia e anestesia dei ceti ecclesiali circa la natura del comunismo,
sia per una azione silenziatrice voluta e imperata dal Pontefice. Ma potente,
benché silente, ne fu l’effetto sullo svolgimento del Concilio, dove la richiesta di
rinnovare la condanna del comunismo fu rigettata per osservare la pattuita
preterizione.

La verità degli accordi di Metz ricevette recentemente un’impressionante


conferma da una lettera di mons. Georges Roche, che fu per trent’anni segretario
del cardinal Tisserant. Questo prelato romano, intervenuto a purgare il
negoziatore papale dalle taccie appostegli da Jean Madiran, conferma
interamente l’esistenza dell’accordo tra Roma e Mosca precisando che
l’iniziativa dei colloqui fu presa personalmente da Giovanni XXIII dietro
suggerimento del card. Montini e che Tisserant «a reçu des ordres formels, tant
pour signer l’accord que pour en surveiller pendant le Concile l’exacte
exécution»60.
Così il Concilio si astenne dal ricondannare il comunismo, negli Atti non se
ne trova nemmeno il vocabolo che tanto spesseggiava nei documenti papali sino
a quel momento61. La grande Assemblea si pronunciò specificatamente sul
totalitarismo, sul capitalismo, sul colonialismo, ma celò il suo giudizio sul
comunismo dentro il giudizio generico sulle ideologie totalitarie.

L’indebolimento del senso logico, proprio dello spirito del secolo, leva anche
alla Chiesa lo spavento per la contraddizione. Nel discorso inaugurale del
Concilio si celebra la libertà della Chiesa contemporanea nel momento stesso in
cui si confessa che moltissimi vescovi sono imprigionati per la loro fedeltà a
Cristo e in cui, per un accordo voluto dal Pontefice, il Concilio trovasi legato
all’impegno di non pronunciar condanna del comunismo. Questa contraddizione,
che è grande, rimane tuttavia minore rispetto alla contraddizione di fondo, per la
quale si poggia la rinnovazione della Chiesa sopra l’apertura al mondo e poi si
stralcia dai problemi del mondo il problema del comunismo, che ne è il
principalissimo, essenzialissimo e decisivo.

39. Il discorso inaugurale. Poliglossia e polisenso testuale. – Il terzo capo


del discorso papale tocca il cardine stesso su cui gira il Concilio: come la verità
cattolica possa comunicarsi al mondo contemporaneo «pura e integra senza
attenuazioni o travisamenti, ma insieme in modo tale che la mente dei
contemporanei sia facilitata nel dovere che le corre di assentire ad essa».

Qui lo studioso si trova di fronte a un improvviso intoppo. Nelle parole


papali il testo ufficiale che fa stato come espressione del papale pensiero è per
regola il solo testo latino. Nessuna traduzione, se non sia riconosciuta come
autentica, ha una tale autorità. Questa è la ragione per cui l’«Osservatore
Romano» facendo seguire al testo latino originale la versione italiana sempre
avverte che si porge una traduzione privata. Siccome peraltro il testo latino è
opera del collegio dei traduttori che voltano il testo originale redatto dal Papa in
italiano, sembrerebbe legittimo appellarsi alla dicitura originale, ove si
conoscesse, prendendola come criterio interpretativo del latino. Si rovescerebbe
così la poziorità fra i due testi, privilegiando la traduzione, che in realtà è
l’originale, sull’originale latino, che in realtà è una traduzione. Filologicamente
il rovesciamento è legittimo, ma canonicamente non lo è, perché massima della
Sede Apostolica è che la sua mente è contenuta solo nella dicitura latina.

Ora tra il testo latino e la versione italiana del discorso inaugurale vi sono tali
discrepanze che il senso ne rimane mutato. È avvenuto inoltre che lo sviluppo
della letteratura teologica abbia seguito la traduzione anziché l’originale latino.
La discrepanza è tanta che sembra di aver sottocchio una parafrasi anziché una
traduzione. L’originale infatti reca: «Oportet ut haec doctrina certa et
immutabilis cui fidele obsequium est praestandum, ea ratione pervestigetur et
exponatur quam tempora postulant»62. La traduzione italiana recata dall’OR, 12
ottobre 1962, poi riprodotta in tutte le edizioni italiane del Concilio, suona:
«Anche questa però studiata ed esposta attraverso le forme dell’indagine e della
formulazione letteraria del pensiero moderno». Similmente la traduzione
francese: «La doctrine doit être étudiée et exposée suivant les méthodes de
recherche et de présentation dont use la pensée moderne».

Le differenze tra originale e traduzioni non possono sfuggire. Altro è che


ripensamento ed esposizione della perpetua dottrina cattolica si facciano in
maniera appropriata ai tempi (concetto comprensivo e largo) e altro invece che si
facciano seguendo i metodi del pensiero cioè della filosofia contemporanea. Per
esemplificare: altro è presentare la dottrina cattolica in una maniera che sia
appropriata alla citeriorità (Diesseitigkeit) peculiare della mentalità
contemporanea e altro che essa si pensi e si esponga seguendo quella stessa
mentalità. Per essere corretto l’accostamento alla mentalità moderna non ha da
adottare i metodi, poniamo di analisi marxistica o di fenomenologia
esistenzialistica, bensì adattare a quella mentalità l’opposizione polemica del
cattolicismo.

Si tratta insomma del problema al quale passa il Pontefice nella successiva


sezione, «come cioè reprimere gli errori». Di questo discorriamo nel § seguente.
Ma non senza aver prima e di transenna fatto alcune osservazioni. Primo, che il
polisenso nascente dalla difformità delle traduzioni attesta la perdita di quella
acribia che fu già costume della Curia nella redazione dei suoi documenti.
Secondo, che il polisenso entrò poi in successive allocuzioni del Papa che citava
quella sua pericope dell’11 ottobre ora secondo il latino e ora secondo la
traduzione63. Terzo, che la varianza delle traduzioni, diffusa tosto a scapito della
lettera latina e presa come base di argomentazione, contraddice all’originale ma
le varianti consuonano tra di loro univocamente. Questa consonanza dà motivo
di congetturare una cospirazione o spontanea o organizzata per dare al discorso
un senso ammodernante che forse non era nella mente del Papa.

40. Il discorso inaugurale: nuovo atteggiamento di fronte all’errore. – La


medesima incertitudine genera il passo del discorso che distingue tra
l’immutabile sostanza dell’insegnamento cattolico e la variabilità delle sue
espressioni. Il testo ufficiale suona così: «Est enim aliud ipsum depositum fidei,
seu veritates, quae veneranda doctrina nostra continentur, aliud modus quo
eaedem enuntiantur eodem tamen sensu eademque sententia. Huic quippe modo
plurimum tribuendum est et patientia si opus fuerit in eo elaborandum, scilicet
eae inducendae erunt rationes res exponendo, quae cum magisterio, cuius indoles
praesertim pastoralis est, magis congruant»64. La traduzione suona: «Altra è la
sostanza dell’antica dottrina del depositum fidei e altra è la formulazione del suo
rivestimento ed è di questo che devesi con pazienza tener gran conto, tutto
misurando nella forma e proporzione di un magistero a carattere
prevalentemente pastorale».

Il divario è così grande che ammette solo due supposizioni: ovvero il


traduttore italiano ha inteso di fare una parafrasi, ovvero la traduzione è in realtà
il testo primo. La redazione italiana sarebbe apparsa implessa e imprecisa (che
cos’è infatti «la formulazione del suo rivestimento?») e per conseguenza il
latinista si sarebbe studiato di coglierne il senso generale, lasciandosi sfuggire,
signoreggiato come era dai concetti tradizionali, quanto di novità la redazione
originale conteneva. Vistosa oltre modo è l’omissione delle parole «eodem
tamen sensu eademque sententia» che citano implicitamente un testo classico di
Vincenzo Lirinense e alle quali è attaccato il concetto cattolico del rapporto tra la
verità da credere e la formula con cui essa si esprime.

Qui nel testo latino Giovanni XXIII ribadisce che la verità dogmatica
ammette molteplicità di espressione, ma la molteplicità concerne l’atto del
significare e giammai la verità significata. Il pensiero papale continua (è detto
espressamente) l’insegnamento che «splende negli atti conciliari del Tridentino e
del Vaticano I».

È invece una novità, ed è annunciata apertamente come novità nella Chiesa,


l’atteggiamento da assumere di fronte agli errori. La Chiesa (dice il Papa) non
depone né indebolisce la sua opposizione all’errore, ma «al giorno d’oggi
preferisce far uso della medicina della misericordia piuttosto che delle armi della
severità»65. Essa osta all’errore «mostrando la validità della sua dottrina piuttosto
che con le condanne». Questo annuncio del principio della misericordia
contrapposto a quello della severità sorvola il fatto che, nella mente della Chiesa,
la condanna stessa dell’errore è opera di misericordia, poiché, trafiggendo
l’errore, si corregge l’errante e si preserva altrui dall’errore. Inoltre verso l’errore
non può esservi propriamente misericordia o severità, perché queste sono virtù
morali aventi per oggetto il prossimo, mentre all’errore l’intelletto repugna con
un atto logico che si oppone a un giudizio falso. La misericordia essendo,
secondo S. theol., II, II, q. 30, a. 1, dolore della miseria altrui accompagnato dal
desiderio di soccorrere, il metodo della misericordia non si può usare verso
l’errore, fatto logico in cui non vi può essere miseria, ma soltanto verso
l’errante, a cui si soccorre proponendo la verità e confutando l’errore. Il Papa
peraltro dimezza un tale soccorso, perché restringe tutto l’officio esercitato dalla
Chiesa verso l’errante alla sola presentazione della verità: questa basterebbe per
sé stessa, senza venire a confronto con l’errore, a sfatare l’errore. L’operazione
logica della confutazione sarebbe omessa per dar luogo a una mera didascalia
del vero, fidando nell’efficacia di esso a produrre l’assenso dell’uomo e a
distruggere l’errore.

Questa dottrina del Pontefice costituisce una variazione rilevante nella


Chiesa cattolica e si sostiene sopra una veduta singolare dello stato intellettuale
dei moderni. I moderni sono penetrati così profondamente di opinioni fallaci e
funeste massime in re morali, che (dice paradossalmente il Papa) «ormai gli
uomini da sé stessi [cioè senza confutazioni e condanne] sembra che siano
propensi a condannarle ed in ispecie quei costumi di vita che disprezzano Dio e
la sua legge». Che l’errore puramente teoretico possa risanarsi da sé medesimo
poiché nasce da cagioni puramente logiche, è certo ammissibile, ma che l’errore
pratico circa le azioni della vita, che dipende invece da un giudizio in cui gioca
la parte libera del pensiero, si risani da sé stesso, è proposizione difficile da
intendere. E oltre che difficile in linea dottrinale quell’interpretazione ottimistica
dell’errore, che ormai si riconoscerebbe e si correggerebbe da sé stesso, è
crudamente smentita dai fatti. Al momento in cui il Papa parlava, questi fatti
venivano maturando, ma nel decennio successivo essi furono interamente
partoriti. Gli uomini non si ricredettero da quegli errori, ma anzi vi si
confermarono e diedero loro vigore di legge. La pubblica e universale adozione
di questi errori morali divenne palese con l’adozione del divorzio e dell’aborto.
Il costume dei popoli cristiani ne fu interamente mutato e le loro legislazioni
civili, fino a poco fa esemplate essenzialmente sul diritto canonico, furono
mutate in legislazioni puramente profane senza più ombra di sacro. Questo è un
punto in cui la chiaroveggenza papale è inconfutabilmente venuta meno66.

41. Reiezione del Concilio preparato. La rottura della legalità conciliare. –


Come già dicemmo, caratteristica del Vaticano II è la riuscita paradossa onde
tutto il lavoro preparatorio, che suole indirizzare i dibattiti, improntare
l’orientamento e prefigurare gli esiti di un Concilio, venne reso irrito e fu sin
dalla prima sessione rigettato, subentrando inspirazione a inspirazione e
tendenza a tendenza67. Ora, una tale deviazione dal concetto originario avvenne
non per un atto interno del Concilio medesimo svolgentesi nella sua regolarità
legale, ma per un fatto di rottura della legalità conciliare, che poco appare dalle
narrazioni, ma che è oggimai conosciuto nei suoi tratti indubitabili.

Venendo in discussione nella XXIII congregazione lo schema de fontibus


Revelationis apprestato dalla commissione preparatoria e già cribrato per molte
consultazioni di vescovi e di periti, la dottrina espostavi eccitò un vivo contrasto.
I Padri più legati alla formula del Tridentino, che cioè la Rivelazione si contiene
in libris scriptis et sine scripto traditionibus (sess. IV) presi come due fonti, si
trovarono discordi da quelli più solleciti di riaffermare la dottrina cattolica in
termini meno ostici ai fratelli separati che rifiutano la Tradizione. La contenzione
molto vivace tra le due parti condusse a una proposta avanzata il 21 novembre
affinché si troncasse la discussione e si rimaneggiasse interamente lo schema68.
Raccolti i voti si trovò che la proposta di sospensione non raccoglieva quella
maggioranza qualificata dei due terzi che il Regolamento del Concilio esigeva
per tutte le questioni di procedura. Il segretario generale significò dunque: «I
risultati della votazione sono stati tali per cui l’esame dei singoli capitoli dello
schema in discussione si proseguirà nei prossimi giorni». Ma all’inizio della
congregazione XXIV, all’indomani, fu annunciato, in quattro lingue oltre che in
latino, che considerata la discussione piuttosto laboriosa e prolungata che si
prevedeva, il Santo Padre aveva deciso di far rifondere lo schema da una nuova
commissione, per renderlo più breve e per far meglio spiccare i principii generali
definiti dal Tridentino e dal Vaticano I.

Certo con questo intervento che riformava d’un tratto la decisione del
Concilio e derogava al regolamento dell’assemblea si operò una rottura della
legalità, passando dal regime collegiale al regime monarchico. La rottura della
legalità significò anche un nuovo cursus non dico dottrinale, ma di orientamento
dottrinale. I postscenia del repentino mutamento dell’intenzione papale sono
oggi noti69, ma importano meno assai che l’elemento di potenza venuto a
sovrapporsi alla legalità conciliare. Il risultato della votazione poteva dal Papa
essere inficiato se fosse risultato un vizio nella legalità o se fosse preceduta al
voto una riforma della legge, quale seguì di fatto sotto Paolo VI che tornò alla
maggioranza semplice. Ma, nei termini in cui avvenne, l’intervento papale
costituisce una tipica sovrapposizione del Papa al Concilio, tanto più notevole in
quanto il Papa fu presentato allora come tutore della libertà del Concilio. Questa
sovrapposizione non è un motus proprius, ma conséguita a rimostranze e
sollecitazioni che trattando la maggioranza qualificata richiesta dal Regolamento
come una «finzione giuridica» le passava sopra per far riconoscere dal Papa il
principio puro della maggioranza.

42. Ancora la rottura della legalità conciliare. – La preminente volontà


ammodernante dell’assemblea ecumenica, onde tutto il triennale lavoro
preparatorio, condotto sotto la presidenza di Giovanni XXIII, andò rigettato, era
peraltro apparsa già sin dalla primissima congregazione nell’incidente del 13
ottobre. L’assemblea avrebbe quel giorno dovuto eleggere i membri di sua
spettanza (sedici su ventiquattro) delle dieci commissioni deputate a esaminare
gli schemi redatti dalla commissione preparatoria. La segreteria del Concilio
aveva distribuito le dieci schede, ciascuna con gli spazi bianchi in cui inscrivere i
nomi eletti. Aveva insieme provveduto a far conoscere la lista dei componenti le
commissioni preconciliari da cui erano usciti gli schemi. Il procedimento era
destinato ovviamente a mettere continuità organica tra la fase degli abbozzi e la
fase della redazione definitiva. Questo è conforme al metodo tradizionale.
Risponde anche a una quasi necessità giacché la presentazione di un documento
da nessuno può essere fatta meglio che da chi l’ha studiato, cribrato e redatto.
Infine non pregiudicava alla libertà degli elettori che avevano facoltà di
prescindere interamente dalle commissioni preconciliari nel comporre le
conciliari. La sola obiezione possibile a sollevarsi era che, essendo il terzo dì
dall’apertura del Sinodo, l’elezione poteva apparire viziata da precipitanza e non
sufficientemente consigliata, mal conoscendosi tra di loro i membri della plurima
ed eterogenea assemblea.

Il procedimento parve invece a una parte cospicua dei Padri un tentativo di


coartazione e suscitò vivo risentimento. In apertura della congregazione il card.
Achille Liénart, uno dei nove presidenti dell’assemblea, se ne fece dunque
l’interprete. Avendo chiesto al presidente card. Tisserant di poter parlare ed
essendogli stata negata la parola, conformemente al regolamento, giacché la
congregazione era convocata per votare e non per decidere se votare o no, il
presule francese, rompendo la legalità (tra gli applausi invero del consesso)
afferrò il microfono e lesse una dichiarazione: essere impossibile venire ai voti
senza previa informazione sulla qualità degli eligendi, senza previo concerto tra
gli elettori e senza previa consultazione delle conferenze nazionali. La votazione
non ebbe luogo, la congregazione fu sciolta e le commissioni furono poi formate
con larga immissione di elementi estranei ai lavori preconciliari.

Il gesto del card. Liénart fu riguardato dalla stampa come un colpo di forza
con cui il vescovo di Lille «infléchissait la marche du Concile et entrait dans
l’histoire»70. Ma tutti gli osservatori vi riconoscono un autentico discrimen nelle
sorti del Sinodo ecumenico, uno di quei punti cioè in cui si contrae in un istante
la storia che andrà poi devolvendosi. Lo stesso Liénart infine, nelle citate
memorie, conscio (almeno a posteriori) degli effetti di quel suo intervento e
preoccupato di escludere che fosse premeditato e concertato, lo interpreta come
un’ispirazione carismatica: «Je n’ai parlé que parceque je me suis trouvé
contraint de le faire par une force supérieure en laquelle je dois reconnaître celle
de l’Esprit Saint». Così il Concilio sarebbe stato comandato a Giovanni XXIII,
secondo la sua propria testimonianza, da una suggestione dello Spirito e il
Concilio da lui preparato avrebbe subito tosto una brusca voltata per una mossa
che lo stesso Spirito diede al cardinale francese. Del ripudio dell’indirizzo del
Concilio preparato abbiamo adesso in ICI, n. 577, p. 41 (15 agosto 1982) una
aperta confessione del p. Chenu, uno degli esponenti della corrente
ammodernante. L’eminente domenicano e il suo confratello p. Congar rimasero
sconcertati alla lettura dei testi della Commissione preparatoria, che apparivano
astratti, antiquati, estranei alle aspirazioni dell’umanità contemporanea, e
promossero un’azione per fare uscire il Concilio da questo campo chiuso e
aprirlo alle esigenze del mondo, inducendo l’Assemblea a manifestare la nuova
ispirazione in un messaggio all’umanità. Il messaggio (dice p. Chenu)
«impliquait une critique sévère du contenu et de l’esprit du travail de la
Commission officielle préparatoire». Il testo da proporre al Concilio fu
approvato da Giovanni XXIII, dai cardinali Liénart e Garrone, Frings e Döpfner,
Alfrink, Montini e Léger. Esso svolgeva questi motivi: che il mondo moderno
aspira al Vangelo, che tutte le civiltà contengono una virtualità che le spinge al
Cristo, che il genere umano è unità fraterna al di là delle frontiere, dei regimi e
delle religioni, che la Chiesa lotta per la pace, lo sviluppo e la dignità degli
uomini. Il testo, affidato al card. Liénart, fu poi modificato in alcune parti, senza
spogliare il carattere originario antropocentrico e mondano, ma le modificazioni
lasciarono insoddisfatti i suoi promotori. Fu votato il 20 ottobre da
duemilacinquecento Padri. Circa l’effetto dell’azione è rilevante la dichiarazione
di p. Chenu: «Le message saisit efficacement l’opinion publique par son
existence même. Les pistes ouvertes furent presque toujours suivies par les
délibérations et les orientations du Concile».

43. Conseguenze della rottura della legalità. Se ci sia stata cospirazione. –


Gli eventi scaturiti dagli incidenti del 13 ottobre e del 22 novembre portarono
effetti imponenti: rimaneggiamento delle dieci Commissioni conciliari ed
eliminazione di tutto il lavoro preparatorio, onde di venti schemi non avanzò che
quello della Liturgia. Si mutarono l’inspirazione generale dei testi e persino il
genere stilistico dei documenti che abbandonarono la struttura classica in cui alla
parte dottrinale seguiva il decreto disciplinare. Il Concilio diventava in certo
modo autogenetico, atipico e improvviso.
A questo punto accade allo studioso di domandarsi se questa inopinata
inflessione del corso conciliare sia dovuta a una cospirazione pre-ed
extraconciliare, ovvero sia l’effetto del naturale dinamismo dell’assemblea. La
prima sentenza è tenuta dai seguaci della concezione tradizionale e curiale. Essi
avanzano sino a rievocare il latrocinium di Efeso: l’essersi fatto il Concilio dopo
annientata la sua propedeusi sembrò spiegabile solo con un concerto bene
preordinato di volontà vigorose. La cospirazione sembrerebbe anche provata da
quanto racconta l’accademico di Francia Jean Guitton71 per confidenze del card.
Tisserant. Il decano del Sacro Collegio mostrandogli un quadro, eseguito su una
fotografia e rappresentante sei porporati attorno al Tisserant stesso, disse: «Ce
tableau est historique ou plutôt il est symbolique. Il représente la réunion que
nous avions eu avant l’ouverture du Concile où nous avons décidé de bloquer la
première séance en refusant des règles tyranniques établies par Jean XXIII».
L’organo principale della cospirazione degli ammodernanti, tessuta da tedeschi,
francesi e canadesi, sarebbe stata l’alleanza dei Padri di quelle regioni
ecclesiastiche, mentre l’organo antagonista fu il Coetus internationalis Patrum,
in cui primeggiavano Padri dell’orbita latina.

Conviene peraltro domandarsi se qui non si scambi con una cospirazione nel
senso politico quel naturale accomunarsi nell’azione assembleare di quei membri
che si trovano cospiranti per consenso nelle dottrine, per omogeneità di
interpretazioni storiche e per conseguente identità di intenti. Non è certo da
negare che qualunque corpo di individui adunati per lo stesso titolo ad assolvere
un officio sociale vada soggetto ad influssi. Senza tali influssi esso non può
costituirsi come vero corpo funzionante e passare dallo stato di moltitudine
atomistica a quello di assemblea organica. Tali influssi si esercitarono sempre sui
Concili e non sono un’accidentalità o un vizio, ma appartengono alla struttura
conciliare. Se poi tutti questi influssi siano stati sempre conformi alla natura di
un’assemblea conciliare o se alcuni siano venuti da fuori del Concilio per
usurpazione del politico, non importa qui decidere.

Nel Tridentino si sa quanto potessero Imperatore e prìncipi e quanto efficace


l’influsso papale, onde il Sarpi diceva con scherno amaro che «lo Spirito Santo
veniva da Roma in valisa». Anche nel Vaticano I Pio IX esercitò un influsso
potente e anche doveroso, se come capo vicariale della Chiesa egli è anche capo
vicariale del Concilio.

È l’idea stessa di assemblea, qualunque essa sia, che importa non solo la
liceità di tali influssi, ma la necessità loro. L’essere di assemblea, in quanto tale,
nasce infatti quando gli individui della collezione si fondono come un’unità. Ora
che cosa è che opera tale fusione se non l’azione dei reciproci influssi? Certo si
danno nella storia anche influssi violenti e anzi, secondo una scuola che noi
rifiutiamo, sono solo i violenti, cioè non propriamente gli influssi ma le rotture,
quelli che piegano il corso degli eventi. Ma, impregiudicata questa questione,
teniamo per certo che soltanto grazie alla cospirazione un numero di uomini
raccolti in assemblea può trascendere lo stato atomistico ed essere informato da
un pensiero. Un’assemblea conciliare, che è un ceto di uomini ragguardevoli per
virtù, dottrina e disinteressatezza, ha certo un dinamismo diverso che non la
massa popolare, quella che il Manzoni (Promessi Sposi, cap. XIII) chiamava un
corpaccio in cui entrano successivamente opposte anime a farlo muovere o verso
azioni atroci di ingiustizia e di sangue o verso gli opposti consigli della giustizia
e della pietà. Ma che ogni assemblea sia un organismo solo se intervenga quella
cospirazione a differenziare e organare la pluralità, ci pare verità di psicologia e
di storia. E la verità è così patente che il Regolamento interno del Concilio
raccomandava nel § 3 dell’art. 57 che i Padri consenzienti nelle vedute
teologiche e pastorali si associassero in Gruppi per sostenerle in Concilio o farle
sostenere da loro deputati.

Che poi nella determinazione di un intero corso di eventi si trovi un momento


saliente e privilegiato in cui è virtualmente contenuto il futuro, quali furono
l’atto del card. Liénart il 13 ottobre e la rottura della legalità il 22 novembre del
1962, è verità di storia e di teodicea che altri potrà cercare dove l’abbiamo
trattata72 applicandola a un evento storico famoso.

44. L’azione papale nel Vaticano II. La «Nota praevia». – Con Giovanni
XXIII l’autorità papale apparve soltanto come desistenza dal preparato Concilio,
con l’effetto radicale che ne venne, e come condiscendenza al movimento che il
Concilio, rotta la continuità con la sua preparazione, volle darsi da sé stesso.
Alcuni decreti particolari, presi da Giovanni XXIII senza parteciparli
all’assemblea, hanno il carattere della singolarità. Tale è l’introduzione di san
Giuseppe nel canone della Messa, nel quale da san Gregorio Magno non s’era
fatta novità. L’introduzione fu tosto vivamente biasimata, sia per i prevedibili
effetti antiecumenici, sia per la sembianza che aveva di seguire una pura
preferenza personale del Pontefice, benché in effetto essa fosse invece
caldeggiata da lunga pezza da vasti ceti della Chiesa. Non ebbe che durata
effimera, precipitando anch’essa nell’Erebo dell’oblìo come altre cose di quel
Papa che dispiacquero al consensus conciliare.

Paolo VI, benché secondasse in generale il moto del Concilio nel senso
ammodernante annunciato nell’allocuzione inaugurale, si trovò a doversi
separare dai sentimenti in esso predominanti e a far uso dell’autonoma autorità
papale in alcuni punti del dibattito.

Il primo punto è il principio della collegialità, che sembrò al Papa doversi


esplicare, essendo sinora implicito nell’ecclesiologia cattolica, e dovendo
diventare poi uno dei criteri maggiori della riforma della Chiesa. Sia per la
novità di tale esplicazione, sia per l’inopinatezza dell’argomento di cui la
Commissione preparatoria aveva taciuto, sia per la delicatezza del rapporto tra il
primato di Pietro e la detta solidarietà collegiale, il testo conciliare riuscì monco.
Allora Paolo VI volle che quanto sulla collegialità aveva detto la Costituzione
Lumen gentium si chiarisse e determinasse in una Nota praevia della
Commissione teologica. I termini del chiarimento furono tali che il principio
cattolico del primato potestativo e didattico del Papa sopra tutta la Chiesa e
sopra tutti i membri di essa singillatim riuscisse sartum tectum e non
questionabile. Come aveva stabilito il Vativano I le definizioni papali riguardanti
le cose di fede e di morale sono irreformabili ex sese, non autem ex consensu
Ecclesiae e neanche dunque ex consensu dei vescovi costituiti in collegio.

La Nota praevia respinge della collegialità l’interpretazione classica, secondo


la quale il soggetto della suprema potestà nella Chiesa è solo il Papa che la
condivide, quando voglia, con l’universalità dei vescovi da lui chiamati a
Concilio. La potestà somma è collegiale solo per comunicazione ad nutum del
Papa. La Nota praevia respinge parimenti la dottrina neoterica, secondo la quale
il soggetto della suprema potestà nella Chiesa è il collegio unito col Papa e non
senza il Papa che ne è il capo, ma in guisa tale che quando il Papa esercita, anche
solo, la suprema potestà, la esercita in quanto capo appunto del collegio e quindi
come rappresentante del collegio che egli ha l’obbligazione di consultare per
esprimerne il senso. È la teorica improntata a quella dell’origine moltitudinaria
dell’autorità, difficilmente compatibile con la costituzione divina della Chiesa.
Rifiutando l’una e l’altra di queste due teorie la Nota praevia tiene fermo che la
potestà suprema è sì nel collegio dei vescovi unito al loro Capo, ma che il Capo
può esercitarla indipendentemente dal Collegio, mentre il Collegio non può
indipendentemente dal Capo.

L’inclinazione del Vaticano II a sciogliersi dalla stretta continuità colla


tradizione e a crearsi forme, modalità e procedure atipiche, non si sa se sia da
attribuire allo spirito ammodernante che lo investì e diresse, oppure alla mente e
all’indole di Paolo VI. Probabilmente l’inclinazione è da rifondere pro rata tanto
al Concilio quanto al Pontefice. Il risultato fu un rinnovamento o meglio una
novazione dell’essere della Chiesa che toccò strutture, riti, linguaggio,
disciplina, atteggiamenti, aspirazioni, la faccia insomma della Chiesa destinata a
presentarsi al mondo nuova. Qui peraltro non è da preterire la singolarità, anche
formale, della Nota praevia. In primo luogo nella storia dei Concili non v’è
esempio di un glossema di tal fatta apposto a una Costituzione dogmatica quale è
la Lumen gentium e ad essa organicamente allegato. In secondo luogo sembra
inesplicabile che nell’atto medesimo in cui promulga un documento dottrinale, il
Concilio, dopo tante consultazioni, emendamenti, cribrazioni, accoglimenti e
reiezioni di modi, emani un documento così imperfetto da dovervi accompagnare
una chiosa esplicativa. Infine una curiosa singolarità di questa Nota praevia: si
dovrebbe leggere prima della Costituzione a cui è allegata e viceversa si legge
stampata dopo di essa.

45. Ancora l’azione papale nel Vaticano II. Interventi sulla dottrina
mariologica. Sulle missioni. Sulla morale coniugale. – Il secondo intervento
papale è sul culto mariano. Come peculiarissimo alla religione cattolica il culto
mariano doveva essere trattato solo perfuntoriamente da un Concilio che aveva
ormai fatta preponderare alle altre la causa unionis. Doveva bastare un capitolo
sulla Madonna, e non occorreva uno schema peculiare, come aveva previsto la
commissione preparatoria. Fin dai primordi infatti il Sinodo si era trovato sotto
gli influssi delle scuole teologiche alemanniche influenzate dalla mariologia
protestante che non si voleva contraddire. Questa, come d’altronde l’Islam,
riserba alla Madonna un’osservanza di pura venerazione, ma respinge il culto
vero e proprio che la Chiesa presta in un grado specialissimo alla Madre di Gesù.
Tra i molti titoli di cui la pietà cattolica ha fregiato la Vergine alcuni, anzi i più,
procedono dalla fantasia poetica e dal vivido sentimento affettuoso delle plebi
cristiane; altri al contrario suppongono o producono un teorema teologico.
L’Incoronazione della Vergine, per esempio, è entrata in stupende creazioni
dell’arte, ma è rimasta fuori della teologia, laddove l’Assunzione è entrata nelle
figurazioni dell’arte e anche nella teologia, essendo infine dogmatizzata da Pio
XII nel 1950. Le ragioni del dogma dell’Assunta si trovano nelle profonde
connessioni ontologiche tra la persona della Madre e l’individuo teandrico.

Tra i molti titoli quello di Madre della Chiesa voleva Paolo VI che fosse
consacrato nello schema sulla Beata Vergine o per lo meno nel capitolo del de
Ecclesia a cui lo schema fu ridotto. Ma non lo voleva l’assemblea. Il titolo è
fondato sulla ragione teo-e antropologica: essendo Maria madre vera del Cristo
ed essendo il Cristo il capo della Chiesa e per così dire la Chiesa contratta (come
la Chiesa, se ci è lecito adottare il linguaggio del Cusano, è il Cristo espanso) il
passaggio da Madre di Cristo a Madre della Chiesa è irreprensibile. Ma la
maggioranza del Sinodo ritenne questo titolo non specificamente diverso da
quelli, ondeggianti tra il poetico e lo speculativo, che sono di incerto significato,
mancano di base teologica e ostano alla causa unionis, e rimostrò contro la
proclamazione. Il Santo Padre allora, con atto di autonoma autorità, procedette
alla proclamazione solenne nel discorso di chiusura della terza sessione il 21
novembre 1964, essendo accolto in silenzio da un’assemblea altrimenti
scorrevole all’applauso.

Poiché il titolo era stato dalla Commissione teologica espunto dallo schema
(nonostante un’imponente raccolta di suffragi in favore) e il vescovo di
Cuernavaca l’aveva addirittura impugnato in aula, l’atto del Papa eccitò vive
rimostranze. Dal fatto traspaiono le interne dissensioni del Concilio e gli spiriti
antipapali della frazione ammodernante. Né si può contro l’evidenza dei fatti
accettare la dichiarazione del card. Bea. Egli aveva ragione di rilevare che,
essendo mancato un voto esplicito dell’assemblea sull’attribuzione o no di quel
titolo alla Vergine, non era legittimo contrapporre la volontà non manifestata del
Concilio alla volontà del Papa autoritativamente espressa. Però, andando oltre
l’argomento, il cardinale tentava addirittura di stabilire consenso tra Papa e
Concilio, arguendo che tutta la dottrina mariologica sviluppata nella
Costituzione conteneva implicitamente il titolo di Mater Ecclesiae. Ma una
dottrina implicita è una dottrina potenziale e chi ricusa di esplicitarla, cioè di
trarla all’atto, dissente certamente da chi invece ne domanda l’esplicitazione. La
dichiarazione del Bea, che stava tra gli oppositori, è soltanto una forma di
ossequio e di riparazione nei confronti del Papa. Riposa su un’argomentazione
sofistica che pareggia l’implicito all’esplicito, e tenta togliere significato ai fatti.
Chi rifiuta di esplicitare una proposizione implicita non ha lo stesso sentimento
di chi la vuole esplicitata, giacché, non volendo esplicitarla, in realtà non la
vuole.

Anche l’intervento papale del 6 novembre 1964 per raccomandare la spedita


accettazione del documento sulle missioni, avversato principalmente dai vescovi
d’Africa e dai Superiori delle congregazioni missionarie, palesò la dissensione
tra il corpo e il capo del Concilio. Lo schema infatti fu respinto, si dovette
riscrivere e tornò nella IV sessione.

Più deciso e più grave fu l’intervento di Paolo VI nella dottrina del


matrimonio. Essendo risonate in aula, anche per bocche cardinalizie (Léger e
Suenens), teoriche nuove che abbassavano il fine procreativo del coniugio e
aprivano il varco alla sua frustrazione, mentre elevavano a pari o a maiore il suo
fine unitivo e di donazione personale, Paolo VI fece pervenire alla commissione
quattro emendamenti, con ordine di inserirli nello schema. Si doveva
espressamente insegnare l’illiceità dei mezzi anticoncettivi contrannaturali. Si
doveva similmente dichiarare che la procreazione non è un fine accessorio o
parallelo del matrimonio, rispetto all’espressione dell’amor coniugale, ma
necessario e primario. Tutti gli emendamenti erano appoggiati a testi della Casti
connubii di Pio XI che si sarebbero dovuti inserire. Gli emendamenti furono
ammessi, ma i testi di Pio XI no.

La questione degli anticoncettivi veniva nel frattempo demandata a una


commissione papale e fu poi decisa con l’enciclica Humanae vitae del 1968 di
cui diremo ai §§ 62-3. La commissione conciliare escluse dunque i testi di Pio
XI, ma Paolo VI li fece aggiungere d’imperio nello schema che il Concilio
approvò poi nella IV sessione.

46. Sintesi del Concilio nel discorso di chiusura della quarta sessione.
Confronto con Pio X. Chiesa e mondo. – Il discorso di chiusura di tutto il
Concilio è in realtà quello pronunciato da Paolo VI il 7 dicembre 1965 al termine
della IV sessione, perché quello dell’8 dicembre è soltanto un’allocuzione
salutatoria e ceremoniale. Gli spiriti che avevano dominato appaiono più chiari
che nelle singole manifestazioni papali intercorrenti. Più vi si apprende di quanto
era nella mente di Paolo VI che non si apprenda dai testi conciliari medesimi. Il
documento ha un carattere ottimistico che lo ricongiunge all’allocuzione
inaugurale di Giovanni XXIII: la concordia tra i Padri è «meravigliosa», l’ora
della conclusione è «stupenda». In questa generale colorazione per così dire
eutimica (il Concilio «è molto e volutamente ottimista») si confondono le
singole parti della sinossi papale. Le parti nere, che pure si impongono
all’osservazione del Papa e non vengono taciute, sono investite dai riflessi dello
spirito eutimico. Così la diagnosi dello stato del mondo presente riesce
ultimamente e apertamente positiva. Il Papa riconosce la generale dislocazione
della concezione cattolica della vita e vede «anche nelle grandi religioni etniche
del mondo turbamenti e decadenze non prima sperimentate». In questa pericope
era forse da fare eccezione almeno per l’Islam che conosce in questo secolo
incrementi ed elevazioni nuove. Ma nel discorso appare manifesto il
riconoscimento della tendenza generale dell’uomo moderno alla citeriorità
(Diesseitigkeit) e il progressivo fastidio di ogni ulteriorità e trascendenza
(Jenseitigkeit). Ma, fatta questa esatta diagnosi del moderno vacillamento il Papa
la mantiene nell’ambito puramente descrittivo e non riconosce alla crisi il
carattere di un’opposizione principiale all’assiologia cattolica che è quella
dell’ulteriorità.

Anche Pio X nell’enciclica Supremi pontificatus aveva riconosciuto, con


diagnosi identica a quella di Paolo VI, che lo spirito dell’uomo moderno è spirito
d’indipendenza, che dedica a sé stesso tutto il creato e mira alla propria teosi. Ma
Papa Sarto aveva parimenti riconosciuto il carattere principiale di questa
mondanità e perciò aveva nettamente accusato l’antagonismo (oggettivo
s’intende, prescisso dalle illusioni e intenzionalità soggettive) per cui viene
necessariamente a cozzare col principio cattolico: questo infatti pone tutto da
Dio a Dio, quello invece tutto dall’uomo all’uomo. Fanno dunque i due Papi
un’identica diagnosi dello stato del mondo, ma divergono nel giudizio di valore.
Come Pio X, citando san Paolo (II Thess., 2, 4), vedeva l’uomo moderno farsi
dio e pretendere l’adorazione, così Paolo VI dice espressamente che «la religione
del Dio che si è fatto uomo s’è incontrata con la religione (perché tale è)
dell’uomo che si fa Dio». E tuttavia egli, trapassando il carattere principiale
dell’affrontamento, pensa che, grazie al Concilio, l’affrontamento abbia prodotto
non un urto, non una lotta, non un anatema, ma una simpatia immensa,
un’attenzione nuova della Chiesa ai bisogni dell’uomo. E andando incontro
all’obiezione, che piegando verso il mondo e quasi rincorrendolo la Chiesa
defletta dalla sua via, per così dire, teotropica, e batta la strada antropologica, il
Papa oppone che così facendo la Chiesa non è deviata nel mondo, ma si è rivolta
al mondo.

Qui vien fatto di domandarsi: rivolta per raggiungerlo o per attrarlo a sé?
Certo l’officio di verità che incombe alla Chiesa discende dall’officio suo di
carità verso il genere umano. Anche la crudezza della correzione dottrinale,
quale fu un tempo esercitata, diviene mostruosa se la si separa dalla carità,
giacché c’è caritas severitatis e caritas suavitatis. Ma la difficoltà consiste nel
non trasgredire la verità per ragione di carità e nell’accostarsi all’umanità
moderna che è in movimento antropotropico, non per secondarne il moto, ma per
invertirlo. Non si danno due centri del reale, ma un centro solo e degli epicicli. E
non so se in questo discorso Paolo VI abbia sufficientemente precisato il
carattere meramente mediativo dell’umanesimo cristiano, giacché la carità non
può far accettare come fine ultimo, nemmeno perfuntoriamente, quello che nella
veduta antropologica è invece proprio il fine ultimo: il trionfo e la teosi
dell’uomo.

L’imprecisione del discorso appare anche dall’adozione di due formule


contrarie, che cioè «per conoscere l’uomo bisogna conoscere Dio» e che «per
conoscere Dio bisogna conoscere l’uomo». Vi sono, secondo la dottrina
cattolica, una conoscenza di Dio possibile per via naturale a tutti gli uomini e
una conoscenza di Dio solo soprannaturalmente rivelata. E similmente due
conoscenze dell’uomo. Ma il dire senza distinzione che per conoscere l’uomo
bisogna conoscere Dio e, viceversa, per conoscere Dio bisogna conoscere
l’uomo, costituisce non già il circolo solido che, data quella distinzione, si
ravvisa nella formula cattolica, ma un diallelo vizioso, per cui lo spirito non
troverebbe un vero inizio onde muovere e per conoscere l’uomo e per conoscere
Dio. Tutto il discorso circa uomo e Dio si può poi estendere dalla cognizione
all’amore. Infatti il Papa dice che per amare Dio bisogna amare gli uomini, ma
tace che è Dio che rende amabile l’uomo e che il motivo del doversi amare
l’uomo è il doversi amare Dio.

In conclusione il succo del discorso finale è il nuovo rapporto della Chiesa


al mondo. Sotto questo rispetto il discorso finale del Concilio è un documento di
estrema importanza per chi voglia indagare le variazioni del Concilio e la sua
sostanza riposta e potenziale che gli sviluppi postconciliari andranno attuando e
scoprendo. Questi sviluppi sono commisti a quelli delle opposte e coesistenti
tendenze che operavano nel Concilio. Le andremo adesso rintracciando nel
complesso, turbato e ambiguo viluppo della Chiesa postconciliare.
CAPITOLO V IL POSTCONCILIO

47. L’oltrepassamento del Concilio. Lo spirito del Concilio. – Il Concilio,


come abbiamo visto, ruppe con tutta la sua preparazione e si svolse come
oltrepassamento del Concilio preparato. Ma dopo che fu chiuso, il periodo
postconciliare che avrebbe dovuto portare la realizzazione del Concilio, ne portò
invece l’oltrepassamento. Che questo oltrepassamento sia avvenuto è lamento
frequente anche nei discorsi papali e Paolo VI, per esempio, lo disse
espressamente il 31 gennaio 1972 accennando a «piccole minoranze, ma audaci
e fortemente dissolvitrici». È provato anche dalle non poche voci che,
riguardando le novità conciliari come insufficienti, appellano a un Vaticano III:
questo dovrebbe far dare alla Chiesa il passo in avanti che essa riluttò o esitò a
fare nelle prime assise.

Gli oltrepassamenti sono particolarmente palesi nell’ordine liturgico, dove la


Messa si trovò mutata da tutt’altra in tutt’altra; nell’ordine istituzionale che fu
investito da uno spirito democratico di consultazione universale e di perpetuo
referendum; e più ancora nell’ordine della mentalità apertasi a comporsi con
dottrine aliene dal principio cattolico.

Questo oltrepassamento avvenne sotto l’insegna di una causa complessa,


anfibologica, varia e confusionale, che si denominò spirito del Concilio. Così il
Concilio oltrepassò, anzi rimosse la sua propria preparazione e lo spirito del
Concilio oltrepassò il Concilio medesimo.

L’idea di spirito del Concilio è un’idea né chiara né distinta, ma una


metafora: significa propriamente il soffio del Concilio. Ricondotta al logico, essa
si rannoda all’idea di quel che è principale in un uomo e lo muove in tutte le
operazioni sue. La Bibbia parla di spirito di Mosè e narra che Dio prese lo spirito
di Mosè e lo trasportò nei settanta seniori (Num., 11, 25). Lo spirito di Elia entrò
nel suo discepolo Eliseo (IV Reg., 2, 15). Cento volte poi menziona lo spirito del
Signore. In tutti questi passi lo spirito è quel che in un uomo precede ogni atto e
presiede a tutti gli atti come primum movens. I settanta seniori che prendono a
profetare quando Dio trasporta in loro lo spirito di Mosè, hanno per ideale e per
movente supremo quel medesimo che aveva Mosè. Lo spirito di Elia in Eliseo è
l’idealità di Elia diventata propria di Eliseo. Lo spirito del Signore è il Signore
medesimo divenuto ragione e motivo di operazione in tutti quelli che hanno lo
spirito del Signore. Allo stesso modo lo spirito del Concilio è il principio ideale
che motiva ed avviva le operazioni del Concilio e per dirla alla maniera stoica τὸ
ἡγεμονικόν del Concilio.

Ma detto questo, divien chiaro che lo spirito del Concilio, cioè quello che
giace in fondo ai decreti conciliari e che è come l’apriori del Concilio, non si
identifica certo con la lettera del Concilio, ma neanche però è indipendente dalla
lettera del Concilio. In che cosa infatti si esprime un corpo deliberante se non nel
dispositivo e nel deliberato suo? Perciò l’appello allo spirito del Concilio,
massime da parte di quelli che intendono oltrepassare il Concilio, è un
argomento equivoco e quasi un pretesto per allogare nel Concilio lo spirito
proprio di novazione.

Qui è da osservare che essendo lo spirito niente più che il principio del
Concilio, ammettere in esso pluralità di spiriti equivarrebbe a porre una pluralità
di Concili, definita come ricchezza da alcuni autori. La supposizione che lo
spirito del Concilio sia molteplice può sorgere soltanto dall’incertitudine e dalla
confusionalità che viziano certi documenti conciliari e che occasionano la teoria
dell’oltrepassamento del Concilio ad opera del suo spirito.

48. L’oltrepassamento del Concilio. Carattere anfibologico dei testi


conciliari. – In realtà l’oltrepassamento del Concilio che si fa appellandosi allo
spirito del Concilio talvolta è oltrepassamento franco della lettera, talaltra invece
è estensione e distrazione di termini.

È oltrepassamento franco tutte le volte che il postconcilio ha sviluppato


come conciliari temi che non trovano appoggio nei testi conciliari e di cui i testi
conciliari non conoscono nemmeno il termine. Per esempio, il vocabolo
pluralismo non vi si trova che tre sole volte e sempre riferito alla società civile73.
Similmente l’idea di autenticità come valore morale e religioso di un
atteggiamento umano non appare in nessun documento, giacché se la voce
authenticus ricorre otto volte, il suo senso è sempre quello filologico e canonico,
riferito alle Scritture autentiche, al magistero autentico, alle tradizioni autentiche
e mai invece a quel carattere di immediatezza psicologica che viene oggi
celebrato come indizio certo di valore religioso. Infine il vocabolo democrazia
coi derivati non si trova in nessun punto del Concilio, benché si trovi negli indici
di edizioni del Concilio approvate. Eppure l’ammodernamento della Chiesa
postconciliare è in gran parte un processo di democratizzazione.

Oltrepassamenti franchi sono pure quelli in cui, tenendo in non cale la lettera
del Concilio, si sviluppano le riforme in senso opposto alla volontà legislativa
del Concilio. L’esempio più cospicuo rimane quello della universale
eliminazione della lingua latina dai riti latini, la quale secondo l’articolo 36 della
Costituzione sulla liturgia si doveva conservare nel rito romano e che viceversa
fu di fatto proscritta, celebrandosi dappertutto la Messa nelle lingue volgari, sia
nella parte didattica sia nella parte sacrificale. Vedi §§ 277-83.

Tuttavia all’oltrepassamento franco prevale quello che si opera, appellandosi


allo spirito del Concilio, introducendo l’uso di nuovi vocaboli destinati a portare
come messaggio una particolare concezione e giovandosi a questo scopo
dell’incertitudine medesima degli enunciati conciliari74. A questo proposito è
sommamente importante il fatto che, avendo il Concilio giusta la consuetudine
lasciato dietro di sé una commissione per l’interpretazione autentica dei suoi
decreti, questa commissione non abbia mai emanato esplicazioni autentiche e
non si trovi citata mai. Così il tempo postconciliare anziché di esecuzione, fu di
interpretazione del Concilio. Mancando un’interpretazione autentica, i punti in
cui apparisse incerta e questionabile la mente del Concilio, tale definizione fu
gettata alle dispute dei teologi con quel grave pregiudizio dell’unità della Chiesa
che Paolo VI deplorò nel discorso del 7 dicembre 1969. Vedi § 7. Il carattere
anfibologico dei testi conciliari75 dà così un fondamento tanto all’ermeneutica
neoterica quanto a quella tradizionale e partorisce tutta un’arte ermeneutica così
importante che non è possibile dispensarsi dal farne qui un breve cenno.


49. Ermeneutica neoterica del Concilio. Variazioni semantiche. Il vocabolo
“dialogo”. – La profondità della variazione operatasi nella Chiesa nel periodo
postconciliare si desume anche dagli imponenti cangiamenti intervenuti nel
linguaggio. Taccio della scomparsa dall’uso ecclesiale di taluni vocaboli come
inferno, paradiso, predestinazione, significativi di dottrine che non si trattano
nemmeno una volta negli insegnamenti conciliari. Poiché la parola consegue
all’idea, la loro scomparsa arguisce scomparsa o quanto meno ecclissazione di
quei concetti un tempo salienti nel sistema cattolico.

Anche la trasposizione semantica è un gran veicolo di novità. Così, per


esempio, chiamare operatore pastorale il parroco, Cena la Messa, servizio
l’autorità e ogni altra funzione, autenticità la naturalezza anche disonesta,
arguisce novità nelle cose prima significate con quei secondi vocaboli.

Il neologismo, per lo più filologicamente mostruoso, qualche volta è


destinato a significare idee nuove (per esempio, coscientizzare), ma più spesso
nasce dalla cupidità del nuovo, come si vede nel dir presbitero invece di prete, o
diaconia invece di servizio, o eucaristia invece di Messa. Anche in questa
sostituzione di neologismi ai termini antichi si cela però sempre una variazione
di concetti o per lo meno una diversa colorazione.

Alcuni vocaboli che non erano mai stati frequentati nei documenti papali e
stavano relegati in campi circoscritti, hanno acquistato nel baleno di pochi anni
una diffusione prodigiosa. Il più notevole è il vocabolo dialogo, prima ignoto
affatto alla Chiesa. Il Vaticano II lo adoperò invece ventotto volte e coniò la
formula celeberrima che indica l’asse e l’intendimento primario del Concilio:
«dialogo col mondo» (GS, 43) e «mutuo dialogo» tra Chiesa e mondo76. Il
vocabolo diventò un’universale categoria della realtà, esorbitando dall’ambito
della logica e della rettorica in cui era prima circoscritto. Tutto ebbe struttura
dialogica. Si avanzò sino a configurare una struttura dialogale dell’essere divino
(in quanto uno, non in quanto trino), una struttura dialogale della Chiesa, della
religione, della famiglia, della pace, della verità e via dicendo. Tutto diventa
dialogo e la verità in facto esse dilegua nel suo proprio fieri come dialogo. Vedi
più avanti i §§ 151-677.

50. Ancora l’ermeneutica neoterica del Concilio. Circiterismi. Uso della


avversativa “ma”. L’approfondimento. – Un procedimento comune
all’argomentare dei neoterici è il circiterismo. Esso consiste nel riferirsi, come a
cosa quieta in causa e già assodata, a un termine indistinto e confusionale, e da
quello ricavare o escludere l’elemento che importa ricavare o escludere. Tale è
per esempio il termine spirito del Concilio o addirittura Concilio. Io ricordo
come sin nella prassi pastorale preti neoterici, che violavano le norme più certe e
nemmeno dopo il Concilio mutate, rispondessero ai fedeli stupiti dei loro arbitrii
rimandando al Concilio.

Non nascondo certo che da un canto la limitazione della intentio intellettiva,


incapace di contemplare simultaneamente tutti i lati di un oggetto complesso, e
data d’altro canto l’esistenza di un esercizio libero del pensiero, il conoscente
non può che volgersi successivamente alle varie parti del complesso. Ma dico
che questa naturale operazione intellettiva non si può confondere con
l’intenzionale obliquazione che la volontà può imprimere all’atto intellettivo
affinché, come si dice nel testo evangelico, non veda quello che pur vede e non
riconosca quello che pur conosce (Matth., 13, 13). La prima operazione trovasi
anche nella ricerca genuina, che è di sua natura progressiva pedetentim, mentre
alla seconda conviene un nome che non è quello di ricerca: soprammette infatti
alle cose un quid nascente dalla propensione soggettiva di ciascuno.

Si suole anche parlare di messaggio e di codice con cui si legge e decifra il


messaggio. La nozione di lettura ha soppiantato quella di cognizione della cosa,
sostituendo la pluralità possibile di letture alla forza obbligante della cognizione
univoca. Un identico messaggio può essere letto (dicono) in chiavi diverse e se è
ortodosso, si può decifrare in chiave eterodossa, e se è eterodosso in chiave
ortodossa. Un tale metodo dimentica però che il testo ha un suo senso primitivo,
inerente, ovvio e letterale, che deve essere inteso prima di ogni lettura e che
talora non ammette il codice con cui sarà letto e decifrato nella seconda lettura.
Così i testi del Concilio, come ogni altro testo, hanno, indipendentemente dalla
lettura che se ne faccia, una leggibilità ovvia e univoca, cioè un senso letterale
che è il fondamento di tutti gli altri che vi si leggeranno. La perfezione
dell’ermeneutica consiste nel ridurre la seconda lettura alla prima, che dà il
senso vero del testo. La Chiesa d’altronde non ha mai proceduto altrimenti.

Il metodo praticato dai neoterici nel periodo postconciliare consiste dunque


nel lumeggiare e oscurare, rubricare e nigricare singole parti di un testo o di una
verità. Esso non è che l’abuso dell’astrazione che la mente fa necessariamente,
quando esamina un complesso qualunque. Tale infatti è la condizione del
conoscere discorsivo che si attua nel tempo, a differenza dell’intuito angelico.

A questo si allaccia l’altro metodo, proprio dell’errore, che consiste nel


nascondere una verità dietro un’altra verità per poi procedere come se la verità
nascosta non solo fosse nascosta, ma simpliciter non fosse. Quando per esempio
si definisce la Chiesa popolo di Dio in cammino, si nasconde l’altra verità, che
cioè la Chiesa comprende anche la parte già in termino dei beati che è d’altronde
la parte più importante di essa, essendo quella in cui il fine della Chiesa e
dell’universo è adempiuto. In un ulteriore passo quel che stava ancora nel
messaggio, ma epocato, finirà per essere espunto dal messaggio, con il rifiuto del
culto dei Santi.

Il procedimento che abbiamo descritto si attua frequentemente in uno schema


caratterizzato dall’uso dell’avversativa ma. Basta peraltro conoscere il senso
pieno dei vocaboli per riconoscere a un tratto l’intendimento riposto degli
ermeneuti. Per attaccare, ad esempio, il principio della vita religiosa si scrive:
«Le fondement de la vie religieuse n’est pas remis en question, mais son style de
réalisation». Così per eludere il dogma della verginità della Madonna in partu si
dice che son possibili dei dubbi, «non d’ailleurs sur la croyance elle-même dont
nul ne conteste les titres dogmatiques, mais sur son objet exacte, dont il ne serait
pas assuré qu’il comprenne le miracle de l’enfantement sans lésion corporelle»78.
E per attaccare la clausura delle moniali si scrive: «La cloîture doit être
maintenue, mais elle doit être adaptée selon les conditions des temps et des
lieux»79.

Si sa che la particella mais equivale a magis, da cui deriva, e perciò


coll’apparenza di mantenere il proprio posto alla verginità della Madonna, alla
vita religiosa e alla clausura, si dice in realtà che più del principio contano i modi
di realizzarlo secondo tempi e luoghi. Ma che cosa è mai un principio se sta sotto
e non sopra le realizzazioni sue? E come non vedere che esistono stili di
realizzazione che invece di esprimere distruggono il fondamento? A questa
stregua si può dire: il fondamento del gotico non si discute, bensì il modo di
realizzazione del gotico. E poi si toglie di mezzo l’arco acuto.

Questa formula del ma si riscontra sovente negli interventi dei Padri


conciliari, i quali pongono nell’asserto principale qualche cosa che viene poi
distrutto con il ma nell’asserto secondario, in guisa che quest’ultimo diventa il
vero asserto principale. Ancora nel Sinodo dei Vescovi del 1980 il Gruppo di
lingua francese B formula: «Il Gruppo aderisce senza riserve alla Humanae
vitae, ma bisognerebbe superare la dicotomia tra la rigidità della legge e la
duttilità pastorale». Così l’adesione all’enciclica diviene puramente vocale,
perché più di essa importa il flettersi della legge all’umana debolezza (OR, 15
ottobre 1980). Più aperta è la formula di chi vuole l’ammissione di divorziati
all’eucaristia: «Il ne s’agit pas de renoncer à l’exigence évangelique, mais de
reconnaître la possibilité pour tous d’être réintégrés dans la communion
ecclésiale» (ICI, n. 555, 13 ottobre 1980, p. 12).

Sempre nel Sinodo del 1980 sulla famiglia apparve nei gruppi neoterici l’uso
del vocabolo approfondimento. Mentre si ricerca l’abbandono della dottrina
insegnata da Humanae vitae, le si professa intera adesione, ma si domanda che la
dottrina venga approfondita, non cioè confermata con nuovi argomenti, ma
mutata in altra. La profondità consisterebbe nel ricercare e ricercare finché si
approda alla tesi opposta.

Ancor più rilevante è il fatto che il metodo del circiterismo fu adoperato


talvolta nella redazione stessa dei documenti conciliari. Il circiterismo fu allora
imposto intenzionalmente affinché l’ermeneutica postconciliare potesse poi
rubricare o nigricare quelle idee che le premevano. «Nous l’exprimons d’une
façon diplomatique, mais après le Concile nous tirerons les conclusions
implicites»80. È una stilistica diplomatica, cioè, secondo la forza della parola,
doppia, in cui la lettera viene formata in vista dell’ermeneutica, rovesciando
l’ordine naturale del pensare e dello scrivere.


51. Caratteri del postconcilio. L’universalità del cangiamento. – Il primo
carattere del tempo postconciliare è quello di un cangiamento generalissimo che
investe tutte le realtà della Chiesa, sia ad intra, sia ad extra. Sotto questo aspetto
il Vaticano II espresse una forza spirituale così imponente da doversi porre in un
posto singolare nella serie dei Concili. Questa universalità della variazione
introdotta pone anche la questione: non si tratta forse di una mutazione
sostanziale, come dicemmo nei §§ 33-5, analoga a quella che in biologia
chiamasi idiovariazione? Si forma la domanda, se non stia attuandosi il
passaggio da una religione a un’altra, come molti, e del ceto chiericale e del ceto
laicale, non si peritarono di proclamare. Se così fosse, il nascimento del nuovo
importerebbe la morte del vecchio, come in biologia e in metafisica. Il secolo del
Vaticano II sarebbe allora un magnus articulus temporum, il colmo di uno dei
giri che lo spirito umano vien facendo nel suo perpetuo ravvolgersi in sé
medesimo. Si può anche porre la questione in altri termini: il secolo del Vaticano
II non darebbe forse la dimostrazione della pura storicità della religione
cattolica o, che è lo stesso, della non-divinità della religione cattolica?

L’ampiezza della variazione si può quasi dire esaustiva81. Delle tre classi di
atteggiamenti in cui si compendia la religione, circa cioè le cose da credere,
circa le cose da sperare e circa le cose da amare non ve ne è alcuna che non sia
stata toccata e tendenzialmente variata. Nell’ordine noologico la nozione di fede
da atto dell’intelletto vien trasposta ad atto della persona e da adesione a verità
rivelate diventa tensione di vita, trasgredendo così nella sfera della speranza (§
164). La speranza abbassa il suo oggetto, divenendo aspirazione e aspettazione
di una liberazione e trasformazione terrestre (§ 168). La carità che, come la fede
e la speranza ha un oggetto formalmente soprannaturale (§ 169), abbassa
similmente il proprio termine volgendosi all’uomo, e già vedemmo nel discorso
di chiusura del Concilio essere l’uomo proclamato condizione dell’amor di Dio.

Ma non solo queste tre classi di umani atteggiamenti, che concernono la


mente, bensì anche, per così dire, il sensorio dell’uomo religioso e credente è
stato toccato dalla novità. Al sensorio visivo sono mutate le forme delle vesti,
della suppellettile sacra, degli altari, delle architetture, delle lumiere, dei gesti.
Al sensorio tattile la novità grande è data dal poter palpare quello che la
riverenza al Sacro rendeva intoccabile. Al sensorio gustativo è concessa la
bibizione del calice. All’olfattivo per contro son preclusi o quasi gli odoriferi
incensi che santificavano vivi e morti nei sacri riti. Il sensorio auditivo poi ha
conosciuto la più profonda ed estesa novità, che in fatto di linguaggio si sia mai
operata sulla faccia della terra, avendo la riforma liturgica mutato il linguaggio a
mezzo miliardo di uomini. Ha inoltre cangiate le musiche da melodiche a
percussive, ed esiliato dalla Chiesa il gregoriano che da secoli molceva agli
uomini «le figlie dei cantici» e vinceva i cuori.

E non anticipo qui quel che sarà da dire trattando delle novità nelle strutture
della Chiesa, negli istituti del diritto, nei nomi delle cose, nella filosofia e nella
teologia, nella coesistenza alla società civile, nella concezione del coniugio, nelle
attinenze infine della religione con la civiltà in genere.

Qui si innesta il difficile discorso del rapporto tra l’essenza e le parti


accidentali di una cosa, tra l’essenza della Chiesa e i suoi accidenti. Non
possono forse tutte quelle cose e generi di cose che elencammo venir riformate
nella Chiesa e la Chiesa rimanere identica?

Sì, ma conviene osservare tre cose. Primo: vi sono anche quelli che gli
Scolastici chiamavano accidenti assoluti, cioè accidenti che non si identificano
con la sostanza della cosa, ma senza dei quali la cosa non è. Tale è la quantità
nella sostanza corporea e tale è nella Chiesa la fede.

Secondo: benché nella vita della Chiesa vi siano parti accidentali, non tutte le
accidentalità possono indifferentemente essere assunte o deposte dalla Chiesa,
giacché come ogni cosa ha certi accidenti e non altri (una nave di cento stadi,
diceva Aristotele, non è più una nave) e come, per esempio, il corpo ha
l’estensione e non la coscienza, così la Chiesa ha certi accidenti e non altri, e ve
ne sono di quelli che non compatiscono con l’essenza sua e la distruggono. Il
perpetuo combattimento storico della Chiesa fu nel rigettare le forme accidentali
che le si venivano insinuando dentro o imponendo da fuori e che avrebbero
distrutto l’essenza sua. Per esempio, il monofisismo non era forse un modo
accidentale di intendere la divinità di Cristo? E lo spirito privato di Lutero non
era forse un modo accidentale di intendere l’azione dello Spirito Santo?
Terzo: le cose e i generi di cose, che dicemmo essere stati investiti dal
cangiamento postconciliare, sono bensì accidenti nella vita della Chiesa, ma gli
accidenti non si devono riguardare come indifferenti, che possano essere e non
essere, essere in un modo o essere in un altro, senza che ne resti mutata l’essenza
della Chiesa. Non è certo qui il luogo di introdurre la metafisica e richiamare il
De ente et essentia di san Tommaso. Pure è necessario ricordare che la sostanza
della Chiesa non sussiste che negli accidenti della Chiesa e che una sostanza
inespressa, cioè senza accidenti, è una sostanza nulla, un nonente. Tutta
l’esistenza storica di un individuo si raccoglie d’altronde dagli atti suoi,
intellettivi e volitivi: ora che cosa sono intellezioni e volizioni se non realtà
accidentali che accidunt, vengono e vanno, sorgono e dileguano? Eppure il
destino morale, di salvazione o perdizione, dipende proprio da quegli accidenti.
Dunque anche tutta la vita storica della Chiesa è la vita di lei nelle accidentalità e
contingenze. Come non riconoscere rilevanti e, si badi, sostanzialmente rilevanti
le accidentalità sue? E i cangiamenti che accadono nelle forme accidentali non
sono cangiamenti, accidentali e storici, dell’immutabile essenza della Chiesa? E
dove tutte tutte le accidentalità cangiassero, come potremmo riconoscere che non
cangiata è la sostanza medesima della Chiesa? Che cosa resta dell’umana
persona, quando tutto il suo rivestimento accidentale e storico vien mutato? Che
cosa resta di Socrate senza l’estasi di Potidea, senza i colloqui dell’agorà, senza i
Cinquecento e la cicuta? Che cosa resta del Campanella senza le cinque torture,
senza la cospirazione di Calabria, senza i tradimenti e i patimenti? Che cosa resta
di Napoleone senza il Consolato, senza Austerlitz e Waterloo? Eppure tutte
queste cose sono gli accidenti dell’uomo. I Platonici che separano le essenze
dalla storia le ritroveranno nell’iperuranio. Ma noi dove?

52. Ancora del postconcilio. L’uomo nuovo. GS 30. Profondità del


cangiamento. – Ricercando lungo tutti i secoli i moti che agitarono la Chiesa,
progressivi o regressivi, si trovano spesseggiare quelli catastrofali, che
intendono cioè rimutare ab imis la Chiesa e, per il suo tramite, l’intera umanità.
Sono un effetto dello spirito di indipendenza che vuole sciogliere i legami col
passato per lanciarsi in avanti senza riguardo (in senso etimologico). Non
dunque una riforma entro i limiti trovati nella natura medesima della Chiesa e
secondo certe istituzioni ricevute come primarie, bensì un movimento
palingenetico che inventa l’essenza della Chiesa e dell’uomo dando loro un’altra
base e altri limiti. Non più il nuovo nell’istituzione, bensì nuove istituzioni. Non
più indipendenza relativa di uno sviluppo che germogli organicamente nella
dipendenza dal passato, dipendente a sua volta da un fondamento dato semel pro
semper, bensì l’indipendenza pura e semplice e, come si dice oggi, creativa.

Vi sono precedenti di un tal conato. Per non lontanarmi troppo nelle


allegazioni e andare a prenderle nelle escatologie terrestri ereticali della terza età
dello Spirito Santo, mi basterà ricordare i tratti che il rinnovamento cattolico
prendeva nel secolo scorso nell’acceso pensiero del Lamennais nelle lettere
inedite pubblicate dal Périn82. Secondo l’abate bretone era impossibile che la
Chiesa non fosse per subire grandi riforme e profonde trasformazioni; queste
trasformazioni come erano certissime, così erano anche imprevedibili nei loro
contorni: instava comunque un nuovo stato della Chiesa e un’era nuova di cui
Dio stesso con una nuova manifestazione getterebbe il fondamento. Né mi
dilungo a dimostrare che questa creazione di un uomo nuovo, propria della
Rivoluzione moderna, coincide esattamente con quella professata nella forma
esoterica dal nazismo hitleriano. Secondo Hitler il ciclo solare dell’uomo volge
al termine e già si annuncia l’uomo nuovo che calcherà l’umanità antica
sorgendo con una nuova essenza83.

GS, 30, porta uno dei testi più straordinari a questo proposito. L’officio
morale che deve primeggiare nell’uomo di oggi (dice) è la solidarietà sociale
coltivata con l’esercizio e la diffusione della virtù, «ut vere novi homines et
artifices novae humanitatis exsistant cum necessario auxilio divinae gratiae»84.

Il vocabolo novus trovasi duecentododici volte nel Vaticano II con frequenza


sproporzionatamente maggiore che in ogni altro Concilio. In questo gran numero
novus ricorre spesso nel senso ovvio di novità relativa, che affetta le qualità o le
categorie accidentali della cosa. Così vi si parla (è ovvio) di Nuovo Testamento,
di nuovi mezzi di comunicazione, di nuovi impedimenti alla pratica della fede, di
nuove situazioni, di nuovi problemi e via dicendo. Ma nel testo citato (e forse
anche in GS, i «nova exsurgit humanitatis condicio»), il vocabolo è preso nel
senso più stretto e rigoroso. È una novità in forza della quale non sorge
nell’uomo una qualità o una perfezione nuova, ma vien mutata la sua stessa base
e si ha una nuova creatura in senso propriissimo.
Paolo VI ha ripetutamente proclamato la novità del pensiero conciliare: «Le
parole importanti del Concilio sono novità e aggiornamenti... La parola novità ci
è stata data come un ordine, come un programma» (OR, 3 luglio 1974).

Qui conviene rilevare che la teologia cattolica, anzi la fede cattolica, non
conosce che tre novità radicali capaci di innovare l’umanità e quasi
transnaturarla. La prima è difettiva, ed è quella per cui dallo stato di integrità e
soprannaturalità l’uomo decadde a cagione della colpa primordiale. La seconda è
restaurativa e perfettiva, ed è quella per cui la grazia del Cristo ripara lo stato
originario e lo solleva inoltre sopra la costituzione originaria. La terza è quella
completiva dell’ordine intero, per cui alla fine dei secoli l’uomo graziato viene
anche beatificato e glorificato in una assimilazione somma della creatura al
creatore, assimilazione che tanto in via Thomae quanto in via Scoti è il fine
stesso dell’universo. Non è dunque possibile figurare una umanità nuova che,
restando nell’ordine presente del mondo, oltrepassi la condizione di novità in cui
è trasferito l’uomo per la grazia del Cristo. Un tale oltrepassamento è dato sì, ma
nell’ordine della speranza, essendo destinato ad avverarsi nel novissimo
momento di tutte le creature, quando vi saranno una terra nuova e cieli nuovi.

La Scrittura adopera per la grazia il verbo creare in senso propriissimo,


perché l’uomo riceve dalla grazia non una potenza o una qualità nuova, sibbene
una nuova esistenza e qualcosa che tocca l’essenza sua. Come infatti la
creazione è il passo dal nonessere all’essere naturale, così la grazia è il passo dal
nonessere all’essere soprannaturale, discontinuo dal primo e affatto originale, in
guisa da costituire una nuova creatura (II Cor., 5, 17) e un uomo nuovo (Ephes.,
4, 24)85. Questa novità, innestata durante la vita mondana nell’essenza
dell’anima, investe tutta la vita mentale e investirà anche la vita corporale nella
metamorfosi finale del mondo. Ma fuori di questa novità che conferisce
all’uomo una nuova esistenza non pure morale, ma ontologica (per quel qualche
cosa di divino reale che si fa nell’Io dell’uomo), la religione cattolica non
conosce né novazione né rigenerazione né addizione di essere. Onde è da
concludere che i novi homines del Concilio sono da intendere non nel senso forte
di un cangiamento di essenza, ma nel senso debole di una grande restaurazione
di vita nel corpo della Chiesa e della umana società. La formula invece è stata
sovente intesa in quel senso stretto inammissibile e ha fatto alitare sul
postconcilio un’aura di anfibologia e di utopia.

53. Impossibilità di variazione radicale nella Chiesa. – Ecco infatti che


dall’episcopato si levano voci indubbie di un cangiamento di fondo. Sembra che
la crisi della Chiesa non sia una sofferenza da sostenere per conservarsi, ma una
sofferenza che genera un altro essere. Secondo il card. Marty, arcivescovo di
Parigi, la novità consiste in un’opzione fondamentale per cui «l’Eglise est sortie
d’elle même pour dire le message» e quindi farsi missionaria. Mons. Matagrin,
vescovo di Grenoble, non è meno esplicito e parla di «révolution copernicienne,
par laquelle [l’Eglise] s’est décentrée d’elle-même, de ses institutions, pour se
centrer sur Dieu et sur les hommes» (ICI, n. 586, p. 30, 15 aprile 1983). Ma
centrarsi su due centri, Dio e uomo, può essere una formula verbale, non è un
concetto. L’asserita opzione fondamentale, cioè per un altro fondamento, è
cattolicamente assurda. Primo, perché l’uscire della Chiesa dalla Chiesa
significa propriamente apostasia. Secondo, perché, come dice I Cor., 3,1,
«nessuno può porre un fondamento diverso da quello che è stato posto, che è
Cristo Gesù»86. Terzo, perché non è possibile rifiutare la Chiesa nel suo essere
storico, che nella sua continuità fu apostolica, costantiniana, gregoriana,
tridentina, e saltare programmaticamente i secoli, come confessa di voler fare il
p. Congar: «le dessein est d’enjamber quinze siècles».

Quarto, perché non si può scambiare l’uscita missionaria della Chiesa nel
mondo con l’uscita della Chiesa fuori di sé stessa. Quest’ultima infatti è un
passaggio dal proprio essere al proprio nonessere, mentre l’altra è l’espansione e
propagazione del proprio essere al mondo. È d’altronde storicamente incongruo
caratterizzare per missionaria la Chiesa contemporanea, che non converte più
nessuno, e negare un tal carattere a quella che in tempi a noi vicini convertì
Gemelli, Papini, Psichari, Claudel, Péguy ecc. Per tacere, naturalmente, delle
missioni di Propaganda fide fiorenti e gloriose sino ad epoca recente.

Il p. Congar ribatte che la Chiesa di Pio IX e Pio XII è finita. Come se fosse
un parlare cattolico il parlare della Chiesa di questo o quel Pontefice o della
Chiesa del Vaticano II, anziché della Chiesa universale ed eterna nel Vaticano II.
E mons. Polge, arcivescovo di Avignone, in OR del 3 settembre 1976, dice in
tutte lettere che la Chiesa del Vaticano II è nuova e che lo Spirito Santo non
cessa di trarla dalla staticità. La novità poi consiste, secondo il presule, in una
nuova definizione di sé, cioè nella scoperta della sua nuova essenza, e la nuova
essenza consiste nell’«aver ricominciato ad amare il mondo, ad aprirsi ad esso, a
farsi dialogo».

Questa persuasione di una novità intervenuta nella Chiesa e attestata già


dall’universale variazione, che va dalle idee alle cose e ai nomi, diviene palese
anche nel riferimento continuo che si fa alla fede del Concilio Vaticano II
abbandonando quello alla fede una e cattolica che è la fede di tutti i Concili87.
Diviene non meno palese nel richiamo fatto da Paolo VI all’obbedienza dovuta a
lui e al Concilio, anziché a quella dovuta ai suoi predecessori e a tutta la Chiesa.
Non nascondo che la fede di un Concilio posteriore è la fede di tutti gli anteriori
e li assomma tutti. Però non si deve distaccare e isolare quel che è congiunto, né
dimenticare che la Chiesa è una nello spazio, ma ancor più è una nel tempo: essa
è l’individuo sociale del Cristo nella storia.

Concludendo si può dire, con l’esattezza soltanto relativa di tutte le analogie


storiche, che la situazione della Chiesa nel nostro secolo è l’inverso di quella in
cui essa si trovò nel Concilio di Costanza: allora si avevano più Papi e una sola
Chiesa, oggi al contrario un solo Papa e più Chiese, quella del Concilio, e le altre
del passato, da epocare ed esautorare.

54. Ancora l’impossibilità della novità radicale. – L’idea di una variazione


radicale proposta con ogni sorta di metafore e di circiterismi, in cui,
probabilmente per vizio di stile, non si significa quel che si vorrebbe, è
naturalmente legata all’idea della creazione di una nuova Chiesa. Infatti,
disconosciuta la continuità del divenire ecclesiale fondata su un fondamento non
diveniente, la vita della Chiesa appare per forza come un’incessante creazione e
un processo ex nihilo. Nel Convegno ecclesiale italiano del 1976 mons.
Giuseppe Franceschi, arcivescovo di Ferrara, in una delle relazioni principali
dice: «Il problema vero è inventare il presente e trovare in esso le vie di sviluppo
di un futuro che sia dell’uomo». Ma «inventare il presente» è un composto di
parole che non rende senso ragionevole e se si inventa il presente, che bisogno
c’è di trovarvi le vie di sviluppo del futuro? Si inventi subito anche il futuro. La
creazione non ha né supposti né linee di sviluppo: ex nihilo fit quidlibet. Ma
certo trattare rigorosamente, in grammatica e in logica, simili affermazioni
circiterizzanti non produce nessun utile nello scioglimento di una questione, ma
solo fa riconoscere il circiterismo generale dell’episcopato.

Abbiamo già toccato l’impossibilità del nuovo nella base della Chiesa e di
una rinascita della Chiesa che soppianti fondamento a fondamento. L’uomo è
rinato nel battesimo e la sua rinascita esclude una terza nascita che sarebbe un
epifenomeno della rinascita e una mostruosità. Antonio Rosmini la chiama
formalmente un’eresia. Il cristiano è un rinato e soltanto per lui anche la Chiesa
è rinata, e come non c’è per il cristiano ulteriore grado di vita che quello
escatologico, così non si dà per la Chiesa ulteriore grado che quello
escatologico88.

Che non vi siano nella Chiesa mutazioni della base, ma soltanto sulla base, è
suffragato anche dalla prova storica. Tutte le riforme che si operarono nella
Chiesa furono attuate sul fondamento antico e non tentarono un fondamento
nuovo. Tentare un fondamento nuovo è il sintomo essenziale dell’eresia, da
quella gnostica dei primi secoli a quelle catare e pauperistiche dei tempi di
mezzo a quella grandiosa d’Alemagna. Toccherò due casi.

Il Savonarola operò nel popolo fiorentino quel poderoso sollevamento di


spirito religioso che rompeva con la corruzione del secolo. Non rompeva però
col vivere di cittadini, non però colle bellezze dell’arte, non però con la cultura
intellettuale. Il moto da lui iniziato fu certamente profondo ed esteso ma il frate,
pure erettosi contro il Pontefice Romano, ebbe nitida la coscienza di non
promuovere nella religione una novità radicale o un saltus in aliud genus. La
radice è quella che è e il fondamento è stato posto. Sono decisive le parole delle
prediche su Ruth e Michea: «Si ha da rinnovare, dico io. Ma non muterà fede,
non lo credere, non muterà la legge evangelica, non potestà ecclesiastica»89.

Una congiuntura analoga si produsse nel primo Seicento a séguito delle


novità del sapere naturale, quando un incongruo nesso tra fede e filosofia era
creduto sussistere da uomini di Chiesa troppo aperti al sapere del tempo. Poté
allora sembrare ad alcuni che la profonda variazione nella concezione
dell’universo fisico importasse una variazione radicale dell’uomo e una
reiezione della certezza religiosa con incipiente profanamento del mondo. Ma
questa interpretazione catastrofale del cangiamento culturale fu smentita dagli
autori medesimi del cangiamento, da Galileo, dal padre Castelli, dal Campanella
e da quanti seppero tenere la distinzione tra filosofia e teologia: il vero frutto di
quel conflitto è la riduzione della teologia alla sua teologalità. Il Campanella
dalle novità astronomiche, dalle anomalie celesti (come egli credeva) e dalla
scoperta di nuove terre e nuove nazioni traeva argomento per un’universale
riforma dello scibile e della vita, ma pure manteneva il rinnovamento dentro
l’orbita del cattolicismo, anzi dentro l’àmbito della Chiesa papale romana. E
Galileo rivolgeva questa monizione a chi, come modernamente Bertoldo Brecht
nel suo dramma, credeva che la rivoluzione astronomica cominciasse una
rivoluzione di tutta la vita: «A quelli che si perturbano per avere a mutare tutta la
filosofia mostrare come non è così, e che resta la medesima dottrina dell’anima,
della generazione, delle meteore, degli animali»90. Le grandi riforme, e nel
sapere e nella religione, non respingono dunque la base dell’uomo, anzi
professano l’esistenza di qualche cosa che resiste alla mutazione e poggiandosi
sulla quale l’uomo edifica la novità autentica del proprio momento storico.

I teologi del Centre des pastorales des sacrements, organo dell’episcopato di


Francia, scrivono: «L’Eglise ne peut être universellement signe de salut qu’à la
condition de mourir en elle-même... d’accepter de voir des institutions, qui ont
fait leurs preuves, devenir caduques... de voir une formulation doctrinale
remaniée» e stanziano che «lorsqu’il y a conflit entre les personnes et la foi c’est
la foi qui doit plier»91. Qui l’enunciazione del cangiamento catastrofale investe il
teoretico, ma data l’ufficialità di cui è rivestito quel Centro, concerne anche il
magistero della Chiesa, scoprendo un guasto che non rientra più soltanto nelle
categorie della licenziosità e della stravaganza dottrinale dei privati.

È superfluo quindi allegare la diagnosi che della crisi della Chiesa fanno gli
uomini di fuori, i quali consuonano nel ritenere che la Chiesa abbia «selezionato
nella sua tradizione gli aspetti da porre in prima fila e quelli da modificare
radicalmente» componendosi col mondo moderno92. Questa composizione esige
una dislocazione che il Vaticano II avrebbe avviata, certo non volutamente, verso
l’immanenza, con l’abolizione tendenziale della legge in favore dell’amore, del
logico in favore dello pneumatico, dell’individuale in favore del collettivo,
dell’autorità in favore dell’indipendenza, del Concilio stesso in favore dello
spirito del Concilio93.

55. La denigrazione della Chiesa storica. – Il presente fenomeno della


denigrazione del passato della Chiesa ad opera di clero e laici fa un vivo
contrapposto con l’atteggiamento di fortezza e di fierezza che il cattolicismo
ebbe nei secoli passati di fronte ai suoi avversari. Si riconosceva infatti esistere
degli avversari e persino dei nemici della Chiesa e i cattolici esercitavano
insieme la guerra all’errore e la carità verso il nemico. E dove la verità impediva
di difendere troppo umani mancamenti, la riverenza comandava di coprire le
vergogne, come Sem e Japhet al padre Noè. Posta invece la novità radicale nella
Chiesa e la conseguente rottura della sua continuità storica, rispetto e riverenza
verso la Chiesa storica vengono meno, subentrando in loro vece impulsi di
censura e di ripudio verso il passato.

Rispetto e riverenza infatti si originano dal sentimento di una dipendenza


verso chi è in qualche modo principio a noi o dell’essere, come i genitori e la
patria, o di qualche beneficio nell’essere, come gli educatori. Quei sentimenti
implicano coscienza di una continuità tra chi rispetta e chi è rispettato, onde
quelle cose che veneriamo sono qualche cosa di noi medesimi e ad esse, sotto
qualche riguardo, dobbiamo l’essere nostro. Ma se la Chiesa ha da morire a sé
stessa e rompere con il suo passato sorgendo in nuova creatura, è manifesto che
il passato non si ha da ripigliare e rivivere, ma al contrario staccare e ripudiare, e
così cesserà di essere guardato con rispetto e riverenza. Le parole medesime di
rispetto e riverenza includono l’idea di un guardare indietro, che non ha più
luogo per una Chiesa proiettata verso il futuro e per la quale la distruzione del
suo passato appare come condizione del suo rinascere. Una certa pusillanimità
nel difendere il passato della Chiesa, vizio opposto alla constantia pagana e alla
fortezza cristiana, aveva già dato sintomi nel Concilio, ma la sindrome si
sviluppò poi celermente. Tralascio quanto appare dalla storiografia dei neoterici
su Lutero, sulle Crociate, sull’Inquisizione, su san Francesco. I grandi Santi del
cattolicismo sono tirati ad essere precursori delle novità o nulla. Vengo alla
denigrazione della Chiesa e all’esaltazione di quelli di fuori.

La denigrazione della Chiesa è un luogo comune nei discorsi del clero


postconciliare. Per circiterismo mentale combinato con accomodazione alle
opinioni del secolo, si dimentica che il dovere della verità si deve esercitare non
solo verso l’avversario, ma anche verso sé stessi e che non occorre essere
ingiusti con sé stessi per essere giusti con gli altri.

Il vescovo francese mons. Ancel addossa alle deficienze della Chiesa gli
errori del mondo moderno perché «aux problèmes réels nous ne fournissons que
des réponses insuffisantes»94. Innanzitutto occorrerebbe precisare di chi tiene le
veci quel pronome nous: noi cattolici? la Chiesa? noi pastori? In secondo luogo è
falso, nel sistema cattolico, che gli errori nascono per difetto di soluzioni
soddisfacenti, perché essi coesistono sempre e ai problemi e alle soluzioni vere
le quali, nelle cose essenziali al destino morale dell’uomo, la Chiesa possiede e
insegna perpetuamente. Ed è strano che quelli che dicono l’errore essere
necessario alla ricerca della verità, dicano poi bustrofedicamente che la ricerca
della verità sia impedita dall’errore. D’altronde l’errore ha la sua responsabilità
autonoma e non si deve caricarla a chi non è nell’errore.

Pierre Pierrard ripudia tutta la polemica sostenuta dai cattolici nel secolo XIX
contro l’anticlericalismo e scrive addirittura che il motto Le cléricalisme, voilà
l’ennemi, tenuto per infernale, i preti lo fanno oggi proprio, essendo quel passato
della Chiesa una negazione del Vangelo95.

Il francescano Nazzareno Fabretti in «Gazzetta del popolo» del 23 gennaio


1970, parlando con molti circiterismi teologici del celibato ecclesiastico, grava
di un’accusa criminale tutta la storia della Chiesa, scrivendo che verginità,
celibato e sacrificio della carne «come sono stati imposti per secoli solo
d’autorità senza altrettanta persuasione e possibilità oggettiva di scelta a milioni
di seminaristi e di sacerdoti, rappresentano uno dei maggiori plagi che la storia
ricordi». Mons. G. Martinoli, vescovo di Lugano, sostiene che la religione è
responsabile del marxismo e che se i cattolici avessero operato altrimenti, il
socialismo ateo non sarebbe venuto96. E lo stesso mons. Martinoli: «La religione
cristiana si presenta con un nuovo volto: non è più fatta di piccole pratiche, di
esteriorità, di grandi feste e di molto rumore: la religione cristiana è
essenzialmente nel rapporto con Gesù Cristo»97. Mons. G. Leclercq vuole che i
responsabili delle defezioni delle masse siano i preti che le hanno battezzate98.

Infine il card. Garrone in OR del 12 luglio 1979 pronuncia: «Se il mondo


moderno è scristianizzato, non è perché rifiuti Cristo, ma perché non glielo
abbiamo dato». Al Convegno ecclesiale italiano del 1976, la conclusione del
relatore principale prof. Bolgiani sul recente passato della Chiesa in Italia fu
tutta negativa: nullità dell’episcopato, compromissione col potere politico,
chiusura a ogni rinnovamento (OR, 3-4 novembre 1976). Il card. Léger,
arcivescovo di Montréal, in un’intervista a ICI, n. 287 (1 maggio 1967) avanzava
addirittura che «si la pratique religieuse décroît, ce n’est pas un signe qu’on perd
la foi car, a mon humble avis, on ne l’avait jamais eue, j’entends une foi
personnelle». Secondo il cardinale non c’era in passato nel popolo cristiano fede
vera. Che falso concetto di fede soggiaccia a queste dichiarazioni sarà chiarito
più innanzi. Da ultimo S. Barreau autore del libro La reconnaissance ou qu’est-
ce que la foi scrive: «Pour ma part je crois que depuis le XIII siècle il y a peu
d’évangelisation dans l’Eglise» (ICI, n. 309, 1 aprile 1968).

56. Critica della denigrazione della Chiesa. – Questa tesi accusatoria,


subentrata all’apologetica o quanto meno alla declinatoria propria della
tradizione cattolica, è innanzi tutto superficiale, perché suppone che la causa
dell’errore di un uomo si trovi determinatamente ed efficientemente nell’errore
di altri uomini. Vi è in tale tesi una palliata negazione della libertà e della
responsabilità personali. La tesi è inoltre erronea, perché quelli a cui si imputa la
colpa dell’errore degli altri, sarebbero i soli protagonisti e tutti gli altri
deuteragonisti, anzi pura materia per gli altri, della storia. La tesi infine è
irreligiosa e partorisce una conseguenza che urta contro verità teleologiche e
teologiche. Applicando infatti questo criterio accusatorio, si viene ad addossare
al Cristo stesso la responsabilità del rifiuto oppostogli dagli uomini,
incolpandolo di non essersi bene e sufficientemente manifestato, di non avere
interamente dissipato il dubbio circa la sua divinità, di non avere insomma
adempiuto il suo dovere di salvatore del mondo. Dalla Chiesa insomma l’accusa
rimbalza sul Cristo, dall’individuo sociale sull’individuo singolare del suo
fondatore. Il vero si è che la riuscita della Chiesa non è un fatto della storia, ma
della religione e della fede, e non si può riguardare l’azione della Chiesa, che è
essenzialmente spirituale e ultramondana (anche quando è temporale), come se
valessero per lei le leggi di un negozio tutto umano. La tesi accusatoria risente
della superficialità teologica dei neoterici i quali, avendo interamente epocato il
dogma della predestinazione, non possono più cogliere né la profondità della
libertà umana, fatta dipendere contraddittoriamente dall’altrui libertà, né la
profondità del mistero di redenzione. Giovanni Paolo II nel messaggio natalizio
del 1981 (OR, 26-7 dicembre 1981) ha ben mostrato questa profondità teologica
del mistero cristiano. Il mistero cristiano è certo la nascita dell’uomo-Dio venuto
nel mondo, ma identico mistero è che il mondo, sin dalla natività del Salvatore,
non lo ha accolto, e continua a non accoglierlo. Il mistero della non-accoglienza
del Verbo è il mistero profondo della religione ed è aridità religiosa quella che va
a cercarne la causa nelle colpe della Chiesa.

Il Cristo, prefigurato in Isai., 5, 4 e riecheggiato nel mirabile officio della


feria sesta in Parasceve, interpella il genere umano: «Quid est, quod debui ultra
facere, et non feci?»99. Ma i moderni sembrano opporre: «Ultra, ultra debuisti
facere et non fecisti». Al lamento del Cristo essi ribattono: «appensus es in
statera et inventus es minus habens» (Dan., 5, 27)100. La predicazione
miracolizzante del Cristo lasciò moltissimi nell’incredulità, molti nel peccato,
tutti nella propensione al peccato. Forse che la redenzione fu per questo monca?
Gli accusatori della Chiesa non solo ignorano la psicologia della libertà con il
suo mistero e la teologia della predestinazione con il suo arcano, ma anche la
legge maggiore della teodicea che ravvisa nel disegno della manifestazione di
Dio ad extra un fine che si riconduce alla gloria di Dio ad intra. La distinzione
lessicale tra suadere e persuadere101 è sufficiente d’altronde a giustificare la
storia della Chiesa: Ecclesia veritatem suadet, non autem persuadet, perché la
storia è il teatro insieme della predestinazione divina e dell’umana libertà.

57. Falsa retrospettiva sulla Chiesa dei primordi. – Un effetto paradosso


della denigrazione della Chiesa ad opera della storiografia neoterica102 è
l’esaltazione sconsiderata della Chiesa primitiva, alla quale si pretende attingere
spirito e modi. La Chiesa primitiva viene rappresentata come una comunità di
perfetti, ispirata alla carità e praticante ad amussim i precetti evangelici.

Il vero si è al contrario che la Chiesa fu in ogni tempo una massa mista, un


campo di frumento e di loglio, un sincretismo di buoni e malvagi. Le
testimonianze cominciano da san Paolo. Basta ricordare gli abusi dell’agape, le
fazioni tra i fedeli, le defezioni morali, le apostasie nella persecuzione. Al tempo
di san Cipriano (secolo III) le moltitudini cristiane si precipitavano all’apostasia
al primo annuncio della persecuzione, prima ancora che cominciasse il pericolo
reale. «Ad prima statim verba minantis inimici maximus fratrum numerus [cioè
la maggioranza] fidem suam prodidit... Non expectaverunt saltem ut ascenderent
apprehensi, ut interrogati negarent... ultro ad forum currere» etc. (De lapsis, 4 e
5)103. D’altronde non è forse dei primi secoli cristiani quella grandiosa
pullulazione di eresie e di scismi, di cui sant’Agostino nel De haeresibus ad
Quodvultdeum novera ben ottantasette forme, da quelle più vaste e profonde,
come arianismo, pelagianismo e manicheismo, a quelle locali e stravaganti,
come Caiani ed Ofiti? (P.L., 42, 17-50).

L’esaltazione retrospettiva del cristianesimo precostantiniano, sulla quale


poggiano le prospettive di rinnovamento della Chiesa, è dunque storicamente
infondata, giacché il cristianesimo è in ogni suo momento quella mistura figurata
nella parabola della zizzania. Volberone abate di San Pantaleo giunge a scrivere
che la Chiesa contiene la città di Dio e la città del diavolo104, credo con errore,
perché, come insegna sant’Agostino, è il mondo, non la Chiesa, che contiene le
due città.

Né con questo noi professiamo l’impossibilità di distinguere epoca da epoca:


accanto a «Nolite iudicare» (Luc., 6, 37) si legge: «Nolite iudicare secundum
faciem, sed iustum iudicium iudicate» (Ioann., 7, 24)105. Tanto le azioni degli
individui quanto quelle di generazioni sono la materia di un tal difficile giudizio.
E il giudizio ha per criterio l’immobile della religione a cui si conformano in
grado diverso le mobilità degli uomini. Né in questo il giudizio storico sulla
religione differisce, per esempio, dal giudizio estetico. Come le opere di bellezza
sono misurabili al tipo e, misurate al tipo cui tendono (lo attesta il travaglio
dell’artista che sa quando si avvicina all’ideale e quando no), sono anche
misurabili tra loro, così le varie epoche del cristianesimo sono misurabili al
principio della religione e misurate a questo modo sono poi anche misurabili tra
di loro. Onde un periodo di crisi della Chiesa è quello in cui il suo lontanarsi dal
principio avanza sino a farla pericolare. Ma, si badi, non prenderemo come
misura misurante di un momento storico un altro momento storico
arbitrariamente privilegiato e non giudicheremo per esempio lo stato presente
della Chiesa confrontandolo con la Chiesa medievale, ma tutti misureremo al
principio di tutti che è soprastorico e immutabile, combaciando con
l’immutabilità divina.
CAPITOLO VI LA CHIESA POSTCONCILIARE. PAOLO VI

58. Santità della Chiesa. Il principio dell’apologetica. – È dogma di fede, e


sta nel simbolo, che la Chiesa è santa, ma ardua è la definizione teologica di tale
santità. Né qui si questiona del concetto di santità canonizzata, il quale
certamente variò nei secoli: la santità di sant’Enrico II imperatore differisce
indubbiamente da quella di san Giovanni Bosco e la santità di Giovanna d’Arco
da quella di Teresa di Lisieux. Inoltre, non combaciano certo le virtù in grado
eroico canonizzate e la santità che è inerente a tutti i graziati inquanto tali.

Come il peccato dei battezzati non pregiudichi alla santità della Chiesa è
spiegato in Summa theol., III, q. 8, a. 3 ad secundum e nel tridentino
Catechismus ad parochos nella sezione del simbolo, ma rimane nozione
implessa che soltanto una distinzione rigorosa può render chiara. Conviene
infatti distinguere bene l’elemento naturale da quello soprannaturale che produce
la nuova creatura, l’elemento soggettivo da quello oggettivo, l’elemento storico
da quello soprastorico che vi opera dentro.

In primo luogo la Chiesa è oggettivamente santa perché è il corpo di cui il


capo è l’uomo-Dio. Congiunta al capo diviene essa pure teandrica: non si può
infatti concepire in un sìnolo qualunque corpo profano di un capo santo.

In secondo luogo è oggettivamente santa perché possiede l’eucaristia che è il


Santissimo per essenza e il Santificante per essenza: tutti i sacramenti sono una
derivazione eucaristica.

In terzo luogo è santa perché possiede in modo infallibile e indefettibile la


verità rivelata. E in questo è da collocare il principio medesimo dell’apologetica
cattolica: la Chiesa non può esibire nel suo corso storico un’irreprensibile
sequela di azioni conformi alla legge evangelica, ma può allegare un’ininterrotta
predicazione della verità: la santità della Chiesa è da ricercare in questa, non in
quella. Perciò gli uomini che appartengono alla Chiesa predicano sempre una
dottrina superiore ai loro fatti. Nessuno può predicare sé stesso, sempre
deficiente e prevaricatore, ma soltanto reinsegnare la dottrina insegnata
dall’uomo-Dio, anzi la persona stessa dell’uomo-Dio. Anche la verità dunque è
un costitutivo della santità della Chiesa perpetuamente attaccata al Verbo e
perpetuamente contraddicente alla corruttela, compresa la propria.

La santità della Chiesa si rivela, in una maniera che si potrebbe dire


soggettiva, anche nella santità dei suoi membri, cioè di tutti quelli che vivono
nella grazia come membra vive del corpo mistico. In modo eminente ed evidente
appare poi nei suoi membri canonizzati, che la grazia e le opere proprie spingono
ai gradi verticali della virtù. E qui tornerò a notare che tale santità non venne
meno neppure nei periodi di maggiore corruzione della società cristiana e del
ceto clericale, giacché, per fare esempi, nel secolo della depravazione
paganeggiante del Papato fiorirono Caterina da Bologna († 1464), Bernardino da
Feltre († 1494), Caterina dei Fieschi († 1510), Francesco da Paola († 1507),
Giovanna di Valois († 1503) oltre a molti riformatori come Girolamo Savonarola
(† 1498).

Queste ragioni e questi fatti non sgombrano però il campo da ogni obiezione.
Paolo VI concede ai denigratori che «la storia della Chiesa ha lunghe e molte
pagine punto edificanti» (OR, 6 giugno 1972), ma troppo debolmente discerne
tra santità oggettiva della Chiesa e santità soggettiva dei suoi membri. E in un
altro discorso usa questi termini: «La Chiesa dovrebbe essere santa, buona,
dovrebbe essere come l’ha pensata e ideata Cristo, e talora vediamo che non è
degna di questo titolo» (OR, 28 febbraio 1972). Sembra che il Pontefice muti in
soggettiva una nota oggettiva. Dovrebbero i cristiani essere santi, e lo sono
inquanto graziati, ma la Chiesa è santa. Non sono i cristiani che fanno santa la
Chiesa, ma la Chiesa i cristiani. D’altronde l’affermazione biblica della santità
irreprensibile della Chiesa «non habentem maculam aut rugam» (Ephes., 5, 27)
conviene solo in maniera parziale e incipiente alla Chiesa nel tempo, che pure è
santa. Tutti i Padri riferiscono infatti quella irreprensibilità assoluta non già allo
stato peregrinale e storico di essa, bensì alla finale purificazione escatologica.


59. La cattolicità nella Chiesa. Obiezione. La Chiesa come principio di
divisione. Paolo VI. – Un altro aspetto della denigrazione della Chiesa mi par
necessario non passare senza rilievo, perché fu toccato da Paolo VI il 24
dicembre 1965. «La Chiesa, con il suo dogmatismo così esigente, così
qualificante, impedisce la libera conversazione e la concordia fra gli uomini;
essa è nel mondo un principio di divisione anziché di unione. Ora la divisione, la
discordia, la contesa come sono compatibili con la sua cattolicità e santità?».

Alla difficoltà il Papa risponde che il cattolicismo è un principio di


distinzione tra gli uomini, ma non di divisione. E la distinzione (dice il Papa) «è
come quella che importano la lingua, la cultura, l’arte, la professione». E poi,
correggendosi: «È vero che il cristianesimo può essere motivo di separazione e
di contrasti derivanti da ciò che di bene conferisce all’umanità: la luce splende
nelle tenebre e diversifica così le zone dello spazio umano. Ma non è suo genio
lottare contro gli uomini, ma se mai per gli uomini». Il motivo apologetico
appare debole e rischioso.

Pareggiare la varietà delle religioni alla varietà delle lingue, delle culture e
perfino dei mestieri abbassa la religione, che è il supremo dei valori, al grado di
valori che, benché superiori nel loro genere, sono di un genere inferiore. E
mentre non esiste un linguaggio vero né un’arte vera né un mestiere vero, cioè
assoluto, esiste invece una religione vera, cioè assoluta. E tuttavia anche
interpretando la divisione come pura distinzione, il Papa non riesce a rimuovere
la difficoltà che egli si obiettava e che già in logica gli si affacciava. Ogni
distinzione infatti può ridurre ma non eliminare l’elemento contraddittorio che
trovasi nei distinti: questo elemento esclude una comunanza perfetta tra i distinti
e include sempre qualche cosa che respinge un distinto dall’altro. Il Pontefice
passava perciò dall’ordine della fede, col suo dogmatismo esigente e
qualificante, all’ordine della carità, anzi della libertà, al «rispetto di quanto c’è di
vero e di onesto in ogni religione e in ogni umana opinione, nell’intento
specialmente di promuovere la concordia civile e la collaborazione in ogni sorta
di buone attività». Non mi addentro sul punto della libertà religiosa. Mi basta
osservare che in quel passo del messaggio il principio di unione tra gli uomini
non è più la religione, ma la libertà, e che quindi risorge illesa l’obiezione che il
Pontefice si proponeva di sciogliere, che cioè il cattolicismo sia principio di
divisione. Occorre infatti a produrre l’unione un principio veramente unitivo,
oltrepassante le divisioni religiose, e questo principio secondo Paolo VI è la
libertà.

Forse la soluzione dell’aporia tra l’universalità del cattolicismo e la sua


determinatezza onde oppone e divide si ha da cercare non in un principio di
filosofia naturale, quale è la libertà o la filantropia, ma in un principio di teologia
soprannaturale. Non si può dimenticare che nel sacro testo il Cristo è annunciato
come bersaglio di contraddizione (Luc., 2, 34) e che la vita del cristiano e quella
della Chiesa sono descritte come una situazione di combattimento. Conviene
perciò rifarsi alla superiore teodicea della predestinazione la quale è ab initio
usque ad consummationem un mistero di divisione, di separazione, di elezione
(Matth., 25, 31-46). E questa contrapposizione, che sta nell’ordine della
giustizia, non contraddice né al fine dell’universo né alla gloria di Dio, purché
non si reputi fallito il disegno divino quando sia fallito il particolare destino di
alcuni uomini. Credere fallito quello, quando sia fallito questo, è possibile
soltanto se si confonda il fine dell’universo col fine di tutti gli uomini in
particolare; soltanto se si dice, come dice GS, 24, che l’uomo è una creatura che
Dio vuole per sé stessa, e non per sé stesso, soltanto se insomma si indulga alla
propensione antropotropica della mentalità moderna e si abbandoni, per usare
termini teologici, la distinzione tra predestinazione antecedente, che prende
l’umanità in solidum, e predestinazione conseguente, che prende gli uomini
divisim.

60. L’unità della Chiesa postconciliare. – Noi discorriamo delle note della
Chiesa postconciliare avendo per regola di rannodare tutti i fenomeni di
incremento a quello che ci sembra il principio del cattolicismo, l’idea della
dipendenza, e tutti i fenomeni di decremento all’idea opposta di indipendenza.
Lo spirito di indipendenza genera la radicalità dei cangiamenti e la radicalità
coincide a sua volta con l’esigenza di creare un mondo nuovo e l’esigenza
creativa infine genera discontinuità dal passato e denigrazione della Chiesa
storica. Ci tocca adesso vedere gli effetti che lo spirito di indipendenza genera
circa l’unità della Chiesa.
Nel già citato drammatico discorso del 30 agosto 1973 Paolo VI piange su
«la divisione, la disgregazione che purtroppo s’incontra ora in non pochi ceti
della Chiesa» e dice addirittura che «la ricomposizione dell’unità spirituale e
reale all’interno della Chiesa è oggi uno dei più gravi e più urgenti problemi
della Chiesa». La situazione di scisma è tanto più grave, perché quelli che si
dividono pretendono non essersi divisi e quelli cui spetta di dichiarare che i
divisi son divisi aspettano invece che gli scismatici stessi si confessino tali. «Si
vorrebbe» dice il Papa «da costoro legalizzare con ogni pretesa tolleranza la
propria appartenenza ufficiale alla Chiesa, abolendo ogni ipotesi di scisma e di
autoscomunica».

Nel discorso del 20 novembre 1976 il Papa ritorna sulla situazione «dei figli
della Chiesa i quali, senza dichiarare una loro rottura canònica ufficiale con la
Chiesa, sono tuttavia in uno stato anormale nei suoi riguardi». Queste asserzioni
sembrano rivestire di soggettivismo un fatto che spetta alla Chiesa di stabilire,
giacché non basta il sentimento soggettivo di essere unito alla Chiesa per far
sussistere il fatto dell’unione. D’altronde c’è nella Chiesa un organo, con
funzione oggettiva, che sa quando l’unità è scissa e che deve, quando sia
necessario, dichiararlo e non già limitarsi a confermare la dichiarazione di chi si
sente scisso. Il Papa esprimendo il suo «grande dolore per il fenomeno che si
diffonde come un’epidemia nelle sfere culturali della nostra comunità
ecclesiale», usava certo una locuzione elusiva e diminuente, giacché il fenomeno
tocca in realtà anche la sfera gerarchica, e la formazione di gruppi isolati e
autocefali è consentita da vescovi e da conferenze episcopali. Il Papa deriva poi
la disunione della Chiesa dal pluralismo: questo dovrebbe contenersi nell’ambito
delle modalità onde si formula la fede, ma trapassa invece nell’ambito della
sostanza della fede; dovrebbe contenersi nell’ambito dei teologi, ma trapassa
invece ai vescovi tra loro dissenzienti. Nel medesimo discorso il Papa vede
anche distintamente essere impossibile che una Chiesa disunita faccia l’unione
tra tutti i cristiani o addirittura tra tutti gli uomini.

Paolo VI, sempre nel discorso del 29 novembre 1973, riferendosi a quelli che
pretendono farsi Chiesa (come sogliono dire) col solo credere di essere Chiesa,
fa della situazione scismatica questo giudizio leniente: «Alcuni difendono questa
ambigua posizione con ragionamenti per sé plausibili, cioè con intenzione di
correggere certi aspetti umani deplorevoli e discutibili della Chiesa, ovvero di far
progredire la sua cultura e la sua spiritualità, oppure di mettere la Chiesa al passo
con la trasformazione dei tempi, e così interrompono quella comunione alla
quale vogliono rimanere congiunti». Singolare è in questo passo paolino
l’identificazione dei ragionamenti plausibili con le intenzioni di emendare la
Chiesa, come se le intenzioni potessero rettificare un ragionamento falso quale è
quello di chi pretende essere nella Chiesa indipendentemente dalla Chiesa, e
come se ogni diserzione dall’unità ecclesiale dovesse essere consaputa e
convalidata dai disertori per produrre davvero scisma nella Chiesa. Non è
attitudine storicamente frequente che, in collisioni di questo genere, chi si separa
neghi di essere separato e anzi affermi di essere più unito con la Chiesa che la
Chiesa con sé stessa? Non appartiene lo scismatico alla Chiesa vera, come dice,
da cui la Chiesa cattolica in qualche modo si separa?

61. La Chiesa disunita nella gerarchia. – Al carattere uno della Chiesa,


lodato o biasimato, come quello di una rupe, è subentrato nella Chiesa
postconciliare il carattere della disunione, parimenti lodato o biasimato. Della
disunione nella dottrina della fede tratteremo più avanti. Qui alleghiamo i fatti
della disunione nella gerarchia.

Mons. Gijsen, vescovo di Roermond, riferendosi al pluralismo nella Chiesa


olandese, dichiara che è impossibile il confronto nella Chiesa, quando questo
confronto significa che altri vuol aderire a una Chiesa e altri a un’altra. Sarebbe
(dice) confronto tra Chiese e non dentro la Chiesa. E a chi gli domandava se le
divergenze fra i vescovi olandesi siano così grandi da dover parlare di Chiese
diverse, risponde «certamente» e spiega che i suoi confratelli nell’episcopato
d’Olanda pretendono la Chiesa Romana essere una Chiesa a pari con l’olandese,
negano cioè il dogma cattolico del primato di Pietro e dei successori suoi106. La
diagnosi del vescovo cattolico risponde a puntino a quella delle comunità
evangeliche: «In realtà non ci troviamo più di fronte a un cattolicesimo, ma a
diversi tipi di cattolicesimo»107.

Il significato di queste testimonianze circa l’intestina discordia del


cattolicismo diventerà più manifesto, se si rifletta come la solida concordia della
Chiesa Romana sia sempre stata contrapposta, o per lodarla o per biasimarla, alla
pluralità del protestantesimo. La frammentazione che il principio del lume
privato generò nel protestantesimo costituiva sino al Concilio un luogo comune
dell’apologetica cattolica.

Un vero pluralismo episcopale appare in pronunciamenti opposti circa i


medesimi punti. Così, per esempio, nel 1974 i postulati del sinodo di Würzburg
circa la sacramentabilità dei divorziati bigami e la partecipazione degli
eterodossi all’eucaristia sono sconfessati dall’episcopato germanico, ma proposti
identicamente dal Sinodo e approvati dall’episcopato elvetico. Anzi, nel grembo
stesso di una medesima Conferenza episcopale un membro fa atti di dissenso e
di separazione. Questo è l’effetto del regime collegiale che, deliberando a
maggioranza, esautora ciascun vescovo della minoranza, senza peraltro che sia
precisato il grado di sottomissione e donde sorga l’obbligazione di sottomettersi.
Così ogni vescovo viene da un canto esautorato, dall’altro è licenziato a
giudicare non pure la propria Conferenza, ma tutti gli altri vescovi e tutte le altre
Conferenze108.

Mons. Riobé, vescovo di Orléans, nel 1974 prese apertamente le difese dei
cappellani catecumenali di Francia che la Conferenza episcopale e il card. Marty
avevano espressamente riprovati (ICI, n. 537, 1979, p. 49). Il card. Döpfner
avendo concesso la basilica monacense di San Bonifacio per rappresentarvi Ave
Eva oder der Fall Maria in vituperio della Madonna, ebbe pubblicamente
biasimi e proteste da mons. Graber, vescovo di Regensburg. Mons. Arceo,
vescovo di Cuernavaca, venne sconfessato dalla Conferenza episcopale del
Messico per aver sostenuto essere il marxismo una componente necessaria del
cristianesimo («Der Fels», agosto 1978, p. 252). Mons. Simonis, vescovo di
Rotterdam, abbandona la sessione del Terzo colloquio pastorale olandese, cui i
confratelli continuano ad assistere connivendo alle proposte di ordinare femmine
e uomini uxorati («Das neue Volk», 1978, n. 47), mentre mons. Gijsen, vescovo
di Roermond, si separa effettualmente dal resto dell’episcopato olandese
istituendo un seminario proprio e rifiutando la nuova pedagogia per la
formazione del clero. Avendo mons. Simonis dichiarato che l’affermazione,
secondo cui la Chiesa cattolica è soltanto una parte della Chiesa, è erronea,
mons. Ernst, vescovo di Breda, lo smentisce e mons. Groot afferma che la
dottrina di mons. Simonis «est carrément en opposition avec l’enseignement du
Vaticane II» (ICI, n. 449, 1974, p. 27).
Nelle attinenze con la politica i vescovi di una medesima nazione sono
spesso discordi. Così per le elezioni presidenziali del Messico del 1982 la
maggioranza raccomandava un candidato mentre una forte minoranza stava per
quello di un partito opposto (ICI, n. 577, 15 agosto 1982, p. 53).

Piccante è la contrapposizione tra i vescovi francesi e gli italiani circa il


comunismo. Gli italiani pronunciano l’incompatibilità tra l’essere cristiani e
l’aderire al marxismo ateo: la libertà di opzione nelle cose politiche è limitata da
questa oggettiva incompatibilità. I vescovi francesi nella loro conferenza del
1975 al contrario ritirano la missione a tutti i movimenti giovanili e di azione
cattolica e operaia e decidono di «donner liberté aux mouvements de faire les
options politiques qu’ils désirent». I movimenti sociali specificamente cattolici
vengono soppressi perché «aucun mouvement ne peut jamais exprimer en lui
seul la plénitude du témoignage chrétien évangelique» (ICI, n. 492, 1975, p. 7).
Qui oltre la discrepanza di dottrina dei due episcopati109 è rilevante la
motivazione dei francesi. Suppongono che tutte le forme di testimonianza siano
soltanto specie equivalenti del medesimo genere e che non si diano specie
opposte al genere. Inoltre accusano per obliquo di difettività la Chiesa cattolica,
cui occorrerebbe il marxismo per dare una testimonianza integrale, e
preconizzano un sincretismo della socialità in cui i contrapposti delle idee
vengono del tutto obliterati ed estinti. Vedi §§ 111-3.

62. La Chiesa disunita circa «Humanae vitae». – La celebre enciclica


Humanae vitae del 25 luglio 1968 diede luogo alla più generale, importante e,
per certi versi, tracotante manifestazione del dissenso intestino alla Chiesa. Su di
essa pubblicarono documenti quasi tutte le Conferenze episcopali, quali
annuendo e quali dissentendo. Documenti episcopali in occasione di
insegnamenti o decisioni del Papa non sono una novità nella Chiesa, e basti
ricordare quante lettere di vescovi ai loro diocesani uscirono sotto Pio IX. Nuovo
però è che tali lettere esprimano non un giudizio di consenso, ma un giudizio di
sindacato, come se fosse caduto il principio che Prima Sedes a nemine iudicatur.
Nessuno ignora quanto vivace sia stata l’opposizione, sia sul fondo sia
sull’opportunità storica, al dogma dell’infallibilità, e come si sia esercitata tanto
nella controversia storico-teologica quanto nei dibattiti del Concilio. I vescovi
tedeschi, per esempio, non si trovarono concordi circa le opere del Döllinger,
condannate da mons. Ketteler, vescovo di Magonza, ma dimesse da altri. Come
però il dogma fu definito, tutti gli opponenti nel giro di pochi mesi (tranne lo
Strossmayer che tardò sino al 1881) vi aderirono. Le definizioni papali non solo
infatti fissavano i termini (fines) della verità disputata, ma anche ponevano fine
alla disputa, essendo assurdo che la dottrina della Chiesa abbia a trovarsi in
regime di perpetuo referendum.

Avendo invece il Vaticano II statuito il principio della collegialità in ispecie,


e in genere della corresponsabilità di tutti in tutto, l’enciclica di Paolo VI
divenne un testo suscettivo di disparate letture secondo l’ermeneutica di cui dissi
al § 50. E non pure i vescovi, ma i teologi, i Consigli pastorali, i sinodi nazionali,
la massa degli uomini, credenti o miscredenti, entrarono a dibattere
l’insegnamento papale e a censurarlo.

Non citerò le innumerevoli pubblicazioni sull’enciclica e mi limiterò al


dissenso episcopale. Certo, pronunciando come pronunciò, contro la
maggioranza dei periti pontificii, contro il consenso dei teologi, contro la
mentalità del secolo, contro l’aspettazione destata da dichiarazioni autorevoli e
dal suo stesso atteggiamento, contro (a detta di alcuni) la stessa sentenza da sé
tenuta come doctor privatus110, Paolo VI compì l’atto più importante del suo
pontificato. E questo non solo perché la dottrina antica e perpetua, fondata in
verità naturali e soprannaturali, fu riesposta nella sua identità essenziale, ma
anche perché la sentenza papale, cadendo sopra l’intestino dissenso della Chiesa
e mettendolo in meridiana luce, fu un atto della papale autorità didattica
esercitata manifestamente, per usare i termini del Vaticano I, ex sese, non autem
ex consensu Ecclesiae.

Il dissenso fu grave, esteso e pubblico, palesandosi oltre che in documenti


episcopali in una miriade di pubblicazioni che avevano per soggetto come
leggere e applicare l’enciclica, ma che in effetti tiravano l’enciclica al significato
preferito.

L’enciclica fu impugnata e difformata nelle rubriche religiose delle riviste per


il gran pubblico. Merita menzione speciale la difformazione fattane in discorsi e
in scritti dell’autorevole p. Giacomo Perico S.J. In «Amica», il grande
settimanale stampato in settecentomila esemplari, 12 agosto 1969, egli scriveva:
«Non è esatto parlare di nuovi orientamenti in senso assoluto. Si può dire invece
che certi uomini di Chiesa hanno in passato dato interpretazioni troppo restrittive
della morale coniugale. È stato un errore». Qui si rovesciano le parti: non alcuni
uomini di Chiesa, ma la Chiesa, tutti i Papi compreso Paolo VI, e tutta la
tradizione tennero la sentenza restrittiva. Alcuni uomini di Chiesa che tengono
l’opposta furono condannati. P. Perico sostenne la difformazione di HV in corsi
di aggiornamento per il clero e in «Giornale del popolo» del 22 marzo 1972. La
sua sentenza fu da me discussa in due articoli dello stesso giornale, 8 aprile e 29
aprile. Secondo il celebrato gesuita «la norma relativa all’uso degli
anticoncezionali contenuta nell’enciclica è precisa: i coniugi non dovrebbero mai
ricorrere alle tecniche contraccettive». No, l’enciclica insegna che non devono.
Mutando l’imperativo del Papa in un condizionale, l’enciclica è contraffatta.

Le obiezioni fatte all’enciclica riguardano sia il valore autoritativo della


promulgazione pontificia, sia la dottrina. Il card. Döpfner, arcivescovo di
Monaco, fautore degli anticoncettivi, dichiara: «Adesso mi metterò in relazione
con gli altri vescovi per vedere come sia possibile offrire aiuto ai fedeli»
(«Corriere della sera», 30 luglio 1968). Sembra che per il monacense i fedeli si
debbano aiutare contro l’enciclica e che questa sia un atto di ostilità verso il
genere umano. In America, dove, anticipando ingannevolmente il decreto
papale, sembra che i vescovi avessero messo in opera un programma di
assistenza anticoncettiva, la reazione fu aspra. L’Università cattolica di
Washington, impugnando il proprio vescovo card. O’ Boyle, in una dichiarazione
appoggiata da duecento teologi, non solo rifiuta la dottrina, ma impugna
l’autorità papale per aver respinto il parere della maggioranza e per non aver
consultato il collegio episcopale (ICI, n. 317-8, 1968, suppl., p. XIX).

L’episcopato tedesco, che era stato in genere per gli anticoncettivi, aderisce
all’insegnamento di Paolo VI, ma, argomentando dal carattere non infallibile del
documento, concede ai fedeli di dissentire in teorica e in pratica e rimanda
ultimamente al lume privato della coscienza, «purché il dissenziente si chieda in
coscienza se può permettersi un tal dissenso in modo responsabile davanti a
Dio»111. Secondo i vescovi tedeschi il rifiuto «non significa fondamentale rifiuto
dell’autorità papale». Non significa forse, osserviamo, rifiuto del fondamento
dell’autorità, ma senza dubbio rifiuto degli atti concreti di quell’autorità. Ma del
dissenso nella Chiesa della Germania si ebbe una manifestazione clamorosa al
Katholikentag di Essen nel settembre 1968: quell’assemblea discusse e votò a
schiacciante maggioranza (cinquemila contro novanta), alla presenza del legato
pontificio card. Gustavo Testa e di tutto l’episcopato nazionale, tra voci clamanti
le dimissioni del Papa, una risoluzione per la revisione dell’enciclica. Al grave
atto di rifiuto rispondeva OR del 9 settembre facendo noto un messaggio del
Papa che richiamava i cattolici tedeschi alla fedeltà e all’obbedienza (RI, 1968,
p. 878). Il rifiuto dell’enciclica si continuò tuttavia col Sinodo svizzero ‘72, col
sinodo germanico di Würzburg e colla Dichiarazione di Königstein. Il quotidiano
maggiore del cattolicismo elvetico «Das Vaterland» non dismette né rimette sino
ad oggi la contestazione. D’altronde la divisione dei cattolici di Germania tra di
loro e dalla Sede romana si continua e si appalesa sempre più. Il Katholikentag
del 1982 ebbe un contrapposto parallelo e simultaneo in un Katholikentag detto
di base, che riuniva cattolici dissenzienti. Questi cattolici rivendicano la
promiscuità eucaristica, il sacerdozio delle donne, l’abolizione del celibato dei
preti e celebrano una Messa diversa (ICI, n. 579, pp. 15 sgg, ottobre 1982.
Secondo la rivista ci sono in Germania due tipi di cattolici che credono di
costituire un solo tipo).

63. Ancora la Chiesa disunita circa l’enciclica papale. – Una profonda


divisione si manifestò anche nella Chiesa d’Inghilterra, dove mons. Roberts, già
arcivescovo di Bombay, si oppose alla radio a mons. Beck, arcivescovo di
Liverpool, vivacemente impugnando l’enciclica. «The Tablet», la maggiore
pubblicazione cattolica inglese, generalmente fedele all’ortodossia, sorprese con
una protesta contro l’enciclica, rivendicando «il diritto e il dovere di protestare
quando la coscienza lo richiede» (ICI, n. 317-8, 1968, suppl., p. XIV): qui la
coscienza interrogata sotto il lume privato è fatta regola regolante della moralità.

Nella Chiesa olandese, che trovavasi in istato di contestazione, di


indipendenza e di sperimentazione prescismatica, l’opposizione alla HV fu netta
e generale. Il card. Alfrink professava che, l’enciclica non essendo infallibile, «la
coscienza individuale rimane la norma più importante», sebbene non tacesse del
tutto l’obbligazione del credente di conformarla all’insegnamento del Magistero.
Il vicario generale della diocesi di Breda dichiara alla televisione che i fedeli
debbono continuare a regolarsi secondo la propria coscienza. La Commissione
del Consiglio pastorale per la famiglia qualifica l’enciclica di «incomprensibile e
deludente» e annuncia di voler continuare sulla propria strada. Tutti convengono
che la questione definita dal Papa rimane aperta e disputabile.

La stessa forza ultimativa della coscienza individuale è il motivo dominante


dei vescovi canadesi. Essi introducono inoltre il concetto di conflitto tra doveri,
il quale presentandosi con l’ecceità di situazioni solo dai coniugi interamente
conoscibili, può parimenti solo da loro essere apprezzato e deciso (ed. ICAS cit.,
pp. 92, 94 e 118).

Più manifesta è la separazione dall’insegnamento papale dei vescovi francesi.


Contro la dottrina di HV, § 10, che cioè non è mai lecito volere un atto
intrinsecamente malvagio e conseguentemente indegno della persona umana,
anche se si ha l’intenzione di salvaguardare un bene individuale o famigliare, i
vescovi (§ 16) sostengono che in un conflitto di doveri la coscienza può
«rechercher devant Dieu quel devoir en l’occurrence est majeur». Ma certo essi
contraffanno la teorica tradizionale e papale che quel bilanciamento di scelte
ammette soltanto quando non entra in questione un atto intrinsecamente
disordinato, quale è l’atto anticoncettivo: ciò che è intrinsecamente illecito sotto
nessuna condizione diviene lecito. In realtà il conflitto di doveri è soltanto
soggettivo e psicologico, non mai oggettivo e morale. D’altronde insegnare che
il dovere cede tutte le volte che incontri una difficoltà «umanamente»
insopportabile è l’errore sempre combattuto dalla religione per la quale nessun
dolore pregiudica al dovere.

La posizione dell’episcopato francese fu indirettamente biasimata da una


notificazione dell’OR del 13 settembre 1968 che smentiva essere stata approvata
dalla Santa Sede la posizione di quei vescovi. Sebbene per l’abituale ipocorismo
il 13 gennaio 1969 il giornale stampasse che «nessun episcopato ha messo in
discussione le basi dottrinali richiamate dal Papa»112, era poi costretto a
confessare che «alcune espressioni dei vescovi potevano destare preoccupazioni
circa il vero senso delle dichiarazioni»113.

In Italia la resistenza a HV fu più sorda ma non meno estesa. Citerò la presa


di posizione contro l’enciclica di «Famiglia cristiana», il settimanale dei Paolini
diffuso in edizione di un milione e mezzo di copie in tutte le parrocchie. Quivi
nei fascicoli del 23 maggio e del 20 giugno 1976 il padre B. Häring difendeva la
contraccezione affiancandosi alla posizione dei vescovi francesi. L’OR 14 luglio
1976 lo attaccava e confutava, ma quel religioso continuò a insegnare contro
l’enciclica114.

64. Lo scisma olandese. – La forma più acuta della disunione della Chiesa
presero i dissensi della Chiesa olandese115, partecipati dalla maggioranza di quei
vescovi e venuti a mettere in forse l’autorità del Papa quando non si eserciti
collegialmente. In generale dopo il Concilio la Chiesa allentò il vincolo unitario,
non solo là dove era troppo stretto, ma anche là dove, congiungendo a sé le
Chiese particolari, anche le congiungeva tra di loro. Essa disconobbe quel
grande assioma di tutta l’arte politica che vuole tanto più forte il momento
dell’autorità quanto più grande è la mole da reggere e quanto più diversificato è
il complesso in cui conservare l’unità. Questa massima principale della scienza
politica fu enunciata e praticata dagli antichi. Tacito, Hist., I, 16, fa dire a Galba,
nell’atto di adottare per successore Pisone, che la gran mole dell’impero non
poteva restare in equilibrio senza un unico reggitore. D’altronde la
giustificazione storica del passaggio di Roma dalla repubblica alla monarchia fu
generalmente ricavata da questa esigenza. Anche Paolo VI, all’apertura della
terza sessione del Concilio il 14 settembre 1964, dichiarò che «l’unità della
Chiesa è tanto più bisognosa di una guida centrale, quanto più vasta diventa la
sua estensione cattolica». Ma l’attuazione del difficile principio di collegialità
entrava in collisione con quello della centralità che unifica le varietà nell’atto
medesimo che le preserva e le fa sussistere là dove è il loro luogo, cioè
nell’organicità del corpo ecclesiale.

La postema, come dicevano i medici, si apre con il Concilio pastorale


olandese, grande assemblea rappresentativa di tutti i ceti della Chiesa, presente
l’episcopato. Questa assemblea, alla maggioranza di nove su dieci, votò per
l’abolizione del celibato dei presbiteri, per la conservazione dei preti spretati
negli offici pastorali, per la collazione degli ordini alle femmine, per la
partecipazione deliberativa dei vescovi ai decreti del Pontefice e dei laici a quelli
dei vescovi.

Per rispondere «al desiderio di molti che chiedevano quale fosse


l’atteggiamento della Santa Sede in merito al Concilio olandese» l’OR del 13
gennaio 1970 pubblicò la lettera autografa di Paolo VI all’episcopato olandese.
Si vede nella lettera il carattere proprio di quel pontificato: l’occhio vede il
guasto e l’errore, ma la mano né con medicina, né con cauterio, né con coltello si
accosta al male per combatterlo e sanarlo. Paolo VI «non può nascondere
[traduciamo] che certi progetti-rapporti ammessi dall’episcopato come base di
discussione e certe affermazioni dottrinali che vi figurano lo lasciano perplesso e
gli sembrano meritare serie riserve». Il Papa esprime poi «fondate riserve circa il
criterio di rappresentatività dei cattolici olandesi a questa assemblea plenaria».
Egli è «profondamente impressionato» dal fatto che il Vaticano II vi è
«rarissimamente citato» e i pensieri e i progetti dell’assemblea olandese «non
sembrano punto armonizzare con gli atti conciliari e papali. In particolare la
missione della Chiesa vi è rappresentata come puramente terrestre, il ministero
sacerdotale come un officio conferito dalla comunità, il sacerdozio dissociato dal
celibato e attribuito alle femmine, e non si fa parola del Papa che per
minimizzare la sua carica e i suoi poteri confidatigli dal Cristo».

A una tale denuncia di errori toccanti qualche volta l’essenza della Chiesa,
come la negazione del sacerdozio sacramentale e del primato petrino, il Papa
mette come conclusione nell’originale francese queste parole: «Notre
responsabilité de Pasteur de l’Eglise universelle Nous oblige à vous demander en
toute franchise: que pensez-vous que Nous puissions faire pour vous aider, pour
renforcer votre autorité, pour vous permettre de surmonter les difficultés
présentes de l’Eglise en Hollande?». Certo l’antecedente denuncia fatta dal Papa
dell’attacco degli Olandesi, consenzienti o conniventi i vescovi, ad articoli
essenziali del sistema cattolico esigeva che i vescovi fossero invitati a
riaffermare la fede della Chiesa su quei punti, ma invece di esigere tale
riaffermazione Paolo VI offre ai vescovi olandesi il suo servizio per aiutarli a
rafforzare la loro autorità, mentre in effetti non la loro, ma la propria veniva
disconosciuta: per aiutarli (dice) a superare le difficoltà della Chiesa d’Olanda,
mentre si tratta di difficoltà della Chiesa universale. Le parole con cui il Papa si
rivolge al card. Alfrink converrebbero di più se fossero rivolte a un avversario
dello scisma. Un suono singolare rendono anche le parole con cui il Papa
conforta sé stesso dicendosi «corroborato dall’appoggio di tanti fratelli
dell’episcopato». Dura cosa è per il Papa non poter dire tutti e doversi
appoggiare soltanto sul gran numero, che non è un principio in nessun ordine di
valori morali.

La debolezza dell’atteggiamento di Paolo VI risulta anche a posteriori,


poiché il 30 gennaio, cioè dopo l’invio della lettera papale, il card. Alfrink,
riferendosi ai principali punti biasimati dal Pontefice, ancora dichiarava al
«Corriere della sera» che la questione doveva essere risolta non da un’autorità
centrale «ma secondo il principio della collegialità, cioè dal collegio episcopale
del mondo intero, di cui è capo il Papa». Dimenticava il presule che il collegio è
consultivo e che la sua autorità, anche così limitata, vien dal Papa. Quando poi
dichiarava che «uno scisma si può avere solo in materia di fede», cadeva in un
formale errore, scambiando scisma con eresia, giacché scisma è la separazione
dalla disciplina e il rifiuto dell’autorità. San Tommaso ne tratta come di un
peccato contro la carità, mentre l’eresia è contro la fede (Summa theol., II, II, qq.
11 e 39).

65. La desistenza dell’autorità. Una confidenza di Paolo VI. – La disunione


della Chiesa, visibile nella disunione dei vescovi tra di loro e dal Papa, è il fatto
ad extra. Il fatto ad intra che lo produce è la desistenza dell’autorità papale
medesima, dalla quale si propaga la desistenza di ogni altra autorità.

L’autorità, di qualunque specie sia la società in cui si esercita, è funzione


necessaria (secondo alcuni addirittura costitutiva) della società, la quale è
sempre una moltitudine di voleri liberi che si hanno da unificare. Questa
unificazione, che non è riduzione ad unum di tutto, ma coordinamento di tutte le
libertà in un’unione intenzionale, è lo scopo dell’autorità. Essa deve volgere le
libertà degli uomini associati al fine sociale, prescrivendo i mezzi, cioè l’ordine,
per conseguirlo. Perciò l’atto dell’autorità è duplice: è puramente razionale in
quanto scopre e promulga la regola dell’operare sociale; è invece pratico in
quanto comanda un tale ordine, disponendo le parti dell’organismo sociale
secondo quell’ordine. Questo secondo atto dell’autorità è il governare.
Ora, il carattere singolare del pontificato di Paolo VI è la propensione a
spostare l’officio pontificale dal governo alla monizione e, per adoperare i
termini adoperati nella Scolastica, a restringere il campo della legge precettiva,
la quale origina una obbligazione, e allargare quello della legge direttiva, la
quale formula una legge ma non vi annette obbligazione di eseguirla. In questo
modo il governo della Chiesa risulta dimidiato e, per dirla biblicamente, rimane
abbreviata la mano di Dio (Isai., 59, 1). La breviatio manus può dipendere da più
ragioni: o da una cognizione imperfetta dei mali, o da manco di forza morale, o
anche da un calcolo di prudenza la quale non pone mano ai rimedi dei mali
veduti, perché stima che così aggraverebbe i mali anziché guarirli.

Allo snervamento della sua potestà Papa Montini era inclinato da una
disposizione dell’indole sua, confessata nel suo diario intimo e confidata al
Sacro Collegio nel discorso del 22 giugno 1972 per il IX anniversario della sua
elevazione: «Forse il Signore mi ha chiamato a questo servizio non già perché io
vi abbia qualche attitudine, o perché governi e salvi la Chiesa dalle sue presenti
difficoltà, ma perché io soffra qualche cosa per la Chiesa e sia chiaro che Egli,
non altri, la guida e la salva». La confessione è notabile116. Esorbita da ogni
aspettazione, sia in linea storica sia in linea teologica, che Pietro, deputato da
Cristo a condurre la nave della Chiesa (governare infatti è un traslato dal nautico
pilotare), appaia ritroso a un tal servizio e si rifugi nel desiderio di patire per la
Chiesa. L’officio papale infatti prescrive un servizio di operazione e di governo.
L’atto del governare è estraneo all’indole e alla vocazione di Montini: l’uomo
non trova nel proprio fondo il modo per unire la sua anima al proprio destino:
«peregrinum est opus eius ab eo» (Isai., 28, 21)117. Inoltre nel lasciar prevalere le
propensioni dell’indole alle prescrizioni dell’officio il Papa sembra ravvisare un
maggior esercizio di umiltà nel patire che non nell’operare per l’officio. Non so
se un tal pensiero sia fondato: è certo che proporsi di patire per la Chiesa sia
maggior umiltà che accettare di operare per la Chiesa?

L’avere il Papa riguardato l’officio suo come quello di chi dà regole direttive,
ma non comanda con regole precettive, produce poi in lui la persuasione che
nell’assolvere il compito direttivo si assommi il compito di Pietro. Questo appare
distintamente nella lettera all’arcivescovo Lefèbvre (OR, 2 dicembre 1975). In
essa il Papa, riconosciuta la grave condizione della Chiesa travagliata dalla
caduta della fede, dalle deviazioni dogmatiche e dal rifiuto della dipendenza
gerarchica, riconosce parimenti che spetta anzitutto al Papa di «individuare ed
emendare» le deviazioni, e tosto proclama di non aver cessato mai di levare la
voce rifiutando tali sfrenati ed eccessivi sistemi teorici e pratici. Ed infine
protesta: «Re quidem vera nihil unquam nec ullo modo omisimus quin
sollicitudinem Nostram servandae in Ecclesia fidelitatis erga veri nominis
Traditionem testificaremur»118. Ora, tra le parti integranti del supremo officio
furono sempre noverati gli atti di governo, cioè di potestà iussiva ed obbligante,
senza dei quali l’insegnamento stesso delle verità di fede rimane pura
enunciazione teoretica e di scuola. Per mantenere la verità occorrono due cose.
Prima: rimuovere l’errore in sede dottrinale, il che si fa confutando gli
argomenti dell’errore e dimostrando che non concludono. Seconda: rimuovere
l’errante, cioè deporlo dall’officio, il che si fa per atto autoritativo della Chiesa.
Se questo servizio pontificale vien meno, sembrerebbe non potersi dire che tutti i
mezzi sono stati adoperati per mantenere la dottrina della Chiesa: si verifica una
breviatio manus Domini. Si diffonde allora, senza incontrare sufficiente
impedimento, un concetto minorato dell’autorità e dell’obbedienza, cui
corrisponde un concetto maggiorato della libertà e dell’opinabilità.

Questa breviatio manus ha certamente origine dal discorso inaugurale del


Concilio che annunciò la rinuncia al metodo della condanna dell’errore (§ 40) e
fu praticata da Paolo VI in tutto il suo pontificato. Egli si attenne come dottore
alle formule tradizionali contenenti l’ortodossia, ma come pastore non impedì
che corressero le formule eterodosse, pensando che da sé stesse si
sistemerebbero in formule ortodosse conformi alla verità. Gli errori furono da lui
denunciati e la fede cattolica mantenuta, ma la disformazione dogmatica non fu
condannata negli erranti e la situazione scismatica della Chiesa venne
dissimulata e tollerata (§ 64).

All’incompiutezza del reggimento papale cominciò a portar riparo soltanto


Giovanni Paolo II, sia condannando nominatim e rimovendo i maestri di errore,
sia ristabilendo i principii cattolici nella Chiesa d’Olanda mediante il Sinodo
straordinario dei vescovi di quella provincia convocati a Roma.

Paolo VI preferì il metodo ortatorio e monitorio che richiama, ma non


condanna; fa attento, ma non obbliga; dirige, ma non comanda. Anche nella
solenne Esortazione apostolica Paterna dell’8 dicembre 1974 a tutto l’orbe
cattolico il Papa denuncia quelli che «tentano di abbattere la Chiesa dal di
dentro» (confortandosi ipocoristicamente che siano proporzionalmente pochi); si
diffonde sul rifiuto di obbedienza all’autorità accusata di «custodire un sistema e
un apparato di potenza ecclesiastica»; deplora il pluralismo teologico insorgente
contro il Magistero; protesta altamente «adversus talem agendi modum
perfidum»; giunge ad appropriarsi la rivendicazione che della propria autorità
episcopale fece il Crisostomo: «Quamdiu in hac sede sedemus, quamdiu
praesidemus, habemus et auctoritatem et virtutem, etiamsi simus indigni»119. Il
Papa si addolora, denuncia, rivendica, accusa, ma nell’atto stesso di rivendicare
l’autorità la immedesima in un monitorio: come se nella causa egli non fosse che
una parte anziché giudice, assume di accusare, ma non condanna.

Il più generale effetto della desistenza dell’autorità è la disistima e


inosservanza in cui cade da parte di quelli che le soggiacciono, non potendo il
suddito avere dell’autorità una nozione superiore a quella che l’autorità ha di sé
medesima. Un arcivescovo francese proclama: «Aujourd’hui l’Eglise n’a plus à
enseigner, à commander, à condamner, mais à aider les hommes à vivre et à
s’épanouir»120. E per scendere dal Palatino alla Suburra, in una tavola rotonda di
preti indetta dal giornale «L’Espresso» nel 1969 si sostenne che il Papa è come i
laici, e precisamente come il vigile che sul disco sta più alto degli altri per
regolare la circolazione. E l’universale contestazione che rende la Chiesa attuale
così diversa dalla Chiesa storica e preconciliare, anziché fenomeno patologico e
anomalo sembra essere il proprio della religione autentica e sintomo di vitalità
ecclesiale. Non c’è documento papale di fronte al quale gli episcopati del mondo
non prendano posizione e, dietro ad essi, ma indipendentemente da essi e
reciprocamente contraddicendosi, teologi e laici. Si ha così una molteplicità di
documenti manifestanti una varietà che non è quella dell’ordine, giacché in essi
l’autorità moltiplicandosi si annulla.

66. Un parallelo storico. Paolo VI come Pio IX. – La disgiunzione che


abbiam rilevato in Paolo VI tra il supremo officio pastorale e l’esercizio
dell’autorità ha un antecedente nel pontificato di Pio IX, non perché questo Papa
scorciasse la funzione spirituale escludendo il metodo della condanna, ma perché
scorciava il proprio principato civile riluttando all’esercizio di certi atti che gli
sono invece inerenti. E il rimprovero che Antonio Rosmini moveva a Pio IX
nella sfera politica in una lettera al card. Castracane del maggio 1848121, è
applicabile nella sfera religiosa alla politica di Paolo VI. «Un principe che non
impedisce l’anarchia e neppure fa alcuno sforzo per impedirla, che lascia fare
tutto ciò che dichiara di non volere e che indirettamente asseconda ciò che si fa
contro le sue espresse dichiarazioni, non sembra che soddisfaccia ai doveri
annessi al principato». Il Rosmini aveva in contemplazione la politica estera di
Pio IX che, per alto riguardo al suo proprio officio di universale pastore,
rifuggiva da quelle alleanze di guerra che il suo dovere di principe, e di principe
italiano, gli prescriveva. Ma la situazione psicologica e morale dei due Pontefici
è analoga. L’una mostra la contraddizione che l’unione del primato spirituale con
il principato civile ingerisce nella sfera propria del principato civile. L’altra
palesa la contraddizione tra il reggimento spirituale del Papa e il desistere
dall’autorità inerente a quel reggimento. E poiché il sacerdozio cattolico
sembrava impedire nel Papa la perfezione del principato civile, così non restava
altra elezione che o dimettere il principato o esercitarlo pienamente. Similmente,
poiché l’esercizio dell’autorità sembrava a Paolo VI non ben compatire col
pastorale ministero, non gli restava altra elezione che o dimettere il supremo
reggimento (e vi ebbero segni di una tale possibilità)122 o ripristinare l’intero
esercizio dell’autorità. La differenza tra i due casi giace nel fatto che per Pio IX
la parte rinunziata era un’estrinseca soma, in passati tempi proficua allo
spirituale, ma che potevasi deporre senza intrinseco danno dello spirituale,
laddove per Paolo VI la parte rinunziata è intrinseca al reggimento spirituale e
rinunziandovi si dissesta l’intimo organismo della Chiesa, fondata sul principio
di dipendenza e non su quello di libertà. Pio IX, mancando nel temporale,
pericolava di abusare dello spirituale nelle cose politiche: infatti non
guerreggiava, ma scomunicava i guerreggianti. Paolo VI al contrario, spogliato o
quasi di potere temporale, si rimetteva giustamente tutto allo spirituale, ma
questo dimidiava per tema di usarlo in maniera non spirituale; di fronte all’errore
il comando e la pena sarebbero quasi un abuso, ripugnerebbero intimamente alla
natura della Chiesa, terrebbero più del temporale che dello spirituale123.

67. Governo e autorità. – Conviene peraltro stabilire che la desistenza


dell’autorità non importa per Paolo VI la desistenza dai principii dogmatici, che
egli ha anzi affermati con forza nelle grandi encicliche dottrinali come la
Humanae vitae sul matrimonio o la Mysterium fidei sull’eucaristia. Anche il
principio stesso della pienissima potestà papale di iudicare omnia fu rivendicato
da Paolo VI nel discorso del 22 ottobre 1970 riferendosi espressamente alla
famosa bolla Unam sanctam di Bonifacio VIII: ogni cosa è soggetta alle chiavi
di Pietro. Quella desistenza significa solo che le affermazioni di fede vengono
separate dall’esercizio dell’autorità di precetto e di sanzione la quale, secondo la
tradizione della Chiesa, è in servizio di quelle. Rimane nell’uomo l’obbligazione
di obbedire, ma a questa obbligazione dell’uomo non corrisponde nella Chiesa
un qualche titolo per esigerla. Per questo rispetto è come se l’uomo non fosse
socialmente organizzato, ma lasciato nell’isolazione del suo lume privato:
l’autorità della Chiesa non diventa mai motivo ultimo della determinazione del
cristiano.

Nel discorso del 18 giugno 1970 Paolo VI parlò diffusamente dell’autorità


papale secondo il concetto cattolico e, sebbene collochi il primato petrino sotto
la categoria del servizio, dichiara però: «Il fatto che Gesù Cristo ha voluto che la
sua Chiesa fosse governata in ispirito di servizio non vuol dire che la Chiesa non
debba avere una potestà di governo gerarchico: le chiavi conferite a Pietro
dicono qualche cosa». Il Papa ricorda che il potere degli Apostoli non è altro che
il potere stesso del Cristo a loro trasmesso, e non tace che esso è potestà in virga,
e anche punitivo, e anche di consegnare a Satana. È dunque innegabile che la
desistenza dell’autorità si accompagna in Paolo VI all’affermazione dell’autorità
senza breviatio manus e che questa è un carattere dello stile paolino, ma non
della Chiesa. Che se anche l’autorità viene sottoposta al servizio, questo
risponde al sistema cattolico che tutto configura come servizio: l’uomo infatti,
secondo il catechismo, è nato «per conoscere, amare e servire Dio». Perciò non
deve parere singolare che l’autorità medesima sia un servizio. E quando il Papa
ricorda il titolo di servus servorum Dei assunto da san Gregorio Magno per
designare le Somme Chiavi, si ha da badare che la formula servus servorum non
porta un genitivo oggettivo, quasi si intendesse che il Pontefice è colui che serve
i servi di Dio, sibbene un genitivo ebraico che conferisce senso superlativo,
come in secula seculorum, virgo virginum, caeli caelorum e via dicendo. La
formula significa dunque che il Papa è il più servo dei servi di Dio, è il servo di
Dio per eccellenza, non già il servo di quelli che son servi di Dio. Se così fosse
la formula insinuerebbe un servizio dell’uomo e non di Dio e, per di più, il solo
Papa non sarebbe servo di Dio, e tutti gli altri sì.

Conviene infine rilevare che se l’autorità è un servizio reso a quelli su cui si


esercita, l’essere servizio non le toglie quell’elemento di disuguaglianza che la
costituisce e per la quale chi comanda, in quanto tale, è da più di chi sottostà al
comando. È quindi impossibile collocare autorità e ubbidienza in un sistema di
perfetta uguaglianza. D’altronde il vocabolo medesimo di autorità (da augere,
aumentare) indica che nell’autorità vi è un elemento che accresce la forza della
persona, che ne è rivestita, oltre il valore della persona, così da richiamare a una
relazione trascendente, che fu sempre riconosciuta nella filosofia cattolica.

68. Ancora la desistenza dell’autorità. L’affare del catechismo francese. – La


desistenza dell’autorità anche nella sfera della dottrina, inaugurata da Giovanni
XXIII, seguita da Paolo VI, continuò con Giovanni Paolo II. Il nuovo
catechismo promulgato dall’episcopato francese, oltre che allontanarsi dal
metodo tradizionale, discorda in punti capitali dal dogma cattolico, come
mostreremo nel § 136. Il card. Ratzinger in un discorso tenuto a Lione e a Parigi
in gennaio 1983 riprovò diffusamente l’inspirazione non corretta del catechismo
francese. Sembrò un monito e un raddrizzamento. Ma la desistenza dell’autorità,
già manifesta nel caso del catechismo olandese e nella tenue condanna di Hans
Küng, al cui ἑτεροδοξεῖν non fu opposto alcun limite, fece al card. Ratzinger
ritrattare quasi subito la critica e diede modo ai vescovi di Francia di proclamare
la ritrattazione in un documento pubblicato da «La croix» il 19 marzo 1983. Vi si
legge che il cardinale «entendait traiter de la situation globale de la catéchèse, et
non désavouer le travail catéchétique en France. Nous avons pu de vive voix
vérifier récemment notre accord avec lui sur tous les points».

La ritrattazione del card. Ratzinger mostra a qual punto la forza dell’autorità


romana si ritira di fronte all’emancipazione episcopale. Benché il nuovo codice
di diritto canonico al can. 775 stabilisca che le Conferenze episcopali non
possano promulgare catechismi per il loro territorio senza previa approvazione
della Santa Sede, i vescovi francesi promulgarono il loro senza approvazione e
anzi proibirono l’uso di ogni altro testo, rimanendo così proibiti persino il
catechismo del Concilio di Trento e quello di Pio X. Ratzinger, che nel suo
discorso aveva parlato di «misère de la catéchèse nouvelle» e di
«désagrégation», sembra ora concorde coi vescovi di Francia nell’apprezzare e
lodare una tale miseria e una tale disgregazione. E nemmeno il naturale
risentimento dell’uomo di Curia per il disprezzo dell’autorità romana o quello
della personale coerenza hanno potuto spingere a un atto di fortezza. La fortezza,
come insegna san Tommaso, oltre che una virtù speciale, il cui atto principale è
il resistere, è anche la forma generale di tutte le virtù, in quanto essa è fermezza
d’animo. Abbiamo toccato al § 65 la breviatio manus che consiste nel ridurre
l’officio dell’autorità alla sola monizione. Bisognerebbe almeno che le
monizioni fossero coerenti e aliene da ogni pieghevolezza di opportunità.
Sembra invece che tutto si riduca a manifestazione puramente vocale e che la
voce della Chiesa sia divenuta pura Eco riflettente le variazioni del mondo. Per
questo rispetto la ritrattazione del card. Ratzinger, prefetto della Congregazione
per la dottrina della fede, arguisce un abito della Chiesa postconciliare e
manifesta i fenomeni maggiori che la travagliano: scadimento dell’autorità
papale, emancipazione degli episcopati, disunione della Chiesa, declino della vis
logica e dell’attaccamento alle verità dogmatiche.

A manifestare lo sbassamento dell’autorità nella Chiesa e l’incoerenza degli


atti suoi, accomodati alla volubilità dei tempi, gioverebbe menzionare i propositi
di Papa Luciani nell’effimero pontificato suo. Egli dichiarava di «voler
conservare intatta la grande disciplina della Chiesa» e si rivolgeva ai suoi
collaboratori «chiamati» diceva «a una stretta esecuzione della volontà del
Pontefice e all’onore di un’attività che li impegna a santità di vita, a spirito di
obbedienza, ad opere di apostolato e ad esemplare fortissimo amore alla Chiesa»
(OR, 29 settembre 1983). Ciascuno vede quale risposta abbiano dato gli sviluppi
ulteriori ai propositi di questo Papa.

Né la desistenza dell’autorità è il contingente e saltuario flettersi di un


principio alla forza delle storiche situazioni: è essa stessa un principio. Lo
enunciò il card. Silvio Oddi, prefetto della Congregazione del clero, durante la
visita negli Stati Uniti nel luglio 1983 nella conferenza tenuta ad Arlington a
ottocento membri della Catholics United for the Faith. Il cardinale ammise la
disgregazione della fede: molti catechisti oggi selezionano nel depositum fidei
alcuni articoli da credere mentre discredono tutti gli altri. Dogmi come la
divinità di Cristo, la verginità della Madre di Dio, il peccato originale, la
presenza reale nell’eucaristia, l’assolutezza dell’imperativo morale, l’inferno, il
primato di Pietro vengono pubblicamente rifiutati dai pulpiti e dalle cattedre, da
teologi e da vescovi. Fu al prefetto della Congregazione del clero domandato
pressantemente perché mai la Santa Sede non rimuove questi seminatori di
errore, come il padre Curran che da anni impugna a visiera alzata la Humanae
vitae e insegna la liceità della sodomia. Come mai non corregge e sconfessa quei
non pochi vescovi, come mons. Gerety, che sviano dalla retta dottrina e stendono
l’ala della loro protezione sui corruttori della fede? Il card. Oddi, con manifesti
segni di angustia, rispondeva che anche i vescovi sono uomini della fibra di
Adamo e che egli non crede che essi intendano porsi davvero contro le verità di
fede. «La Chiesa» dichiarava «non infligge più pene. Essa spera invece di poter
persuadere gli erranti». E ha scelto questa condotta «forse perché non ha la
cognizione esatta delle diverse situazioni di errore, forse perché pensa
inopportuno procedere con misure energiche, forse anche perché non vuole
eccitare uno scandalo ancor più grande intorno alla disobbedienza. La Chiesa
ritiene che sia meglio tollerare certi errori nella speranza che, superate certe
difficoltà, il prevaricatore abiuri l’errore e torni alla Chiesa»124.

Qui è confessata la breviatio manus di cui dicemmo ai §§ 65-7 e professata la


novità annunciata nel discorso inaugurale del Concilio (§§ 38-40): l’errore
contiene in sé medesimo il principio del proprio emendamento né occorre dargli
aiuto: basta lasciarlo devolversi perché da sé stesso risani. L’idea della carità si
fa coincidere con quella della tolleranza, si fa prevalere la via dell’indulgenza su
quella della severità, si trascura il bene della comunità ecclesiale per rispetto
all’abusata libertà del singolo, si perdono il sensus logicus e la virtù di fortezza
propri della Chiesa. La Chiesa infatti ha da preservare e difendere la verità con
tutti i mezzi di una società perfetta.

69. Carattere di Paolo VI. Autoritratto. Card. Gut. – Sul carattere di Paolo
VI si disputa in infinitum. Ad alcuni sembra che Papa Montini fosse un’indole
perplessa per soverchia ampiezza di vedute. Se l’atto della decisione, secondo la
profonda teorica di san Tommaso, è un atto di troncamento della contemplazione
che l’intelletto fa delle diverse possibilità di azione, è manifesto che quanto più
sono le possibilità contemplate, cioè quanto più ampia è la veduta dell’intelletto,
tanto più tardi sopravviene l’atto che decide, cioè taglia. Questa è, per esempio,
l’interpretazione che del carattere di Paolo VI dà Jean Guitton (op. cit., p. 14) e
riprenderebbe quella data da Giovanni XXIII. Ma secondo altri non di carattere
si tratta, ma di un ampio disegno perfettamente fermo nella mente del Papa.
Mirando a un’accomodazione della Chiesa allo spirito del secolo allo scopo di
prendere la direzione dell’intera umanità in un ordine puramente umanitario,
Paolo VI procederebbe cautamente ora volgendosi da un lato ora dall’opposto,
non coatto ma volente, e sempre nella direzione del prefisso fine. Secondo altri
infine sussiste nella mente del Papa il disegno che dicemmo, ma il procedere per
contrapposti sarebbe dovuto alla spinta delle circostanze. Tale interpretazione
sembrerebbe confermata dall’autoritratto che Paolo VI delineò il 15 dicembre
1969, ripigliando una similitudine nautica di san Gregorio Magno. Il Papa
rappresenta sé stesso come un pilota che ora taglia con la prora per diritto i
cavalloni, ora ne schiva l’assalto per obliquo, piegando il fianco della nave, e
sempre è turbato e forzato. Evidentemente anche in ciascuna di queste
interpretazioni l’azione papale è piegata dalle circostanze e contiene una frazione
di passività (come ogni umano operare), ma nella terza interpretazione questa
frazione è prevalente e sigilla il carattere del pontificato.

A questo proposito non possono essere passate in silenzio le dichiarazioni


circa gli arbitrii nella liturgia fatte dal card. Gut, prefetto della Congregazione
per il culto divino. «Beaucoup de prêtres ont fait ce qui leur plaisait. Ils se sont
imposés. Les initiatives prises sans autorisation on ne pouvait plus bien souvent
les arrêter. Dans sa grande bonté et sa sagesse le Saint Père a alors cédé, souvent
contre son gré»125. Viene ovvio di osservare che cedere a chi viola la legge non è
né bontà né saggezza, se cedendo non si rilutta e non si mantiene, almeno
protestando, la legge. La saggezza poi è discernimento pratico dei mezzi per
conseguire il fine e mal si concilia con l’abbandono del fine. Il consentire
l’abbandono della legge potrebbe anche riguardarsi come un consentire con la
parte che si è accertata essere la maggiore nell’insieme della società ecclesiale.
Potrebbe equivalere a volontà di riformare la legge nel senso voluto dai più, per
renderla più accetta e più agevole a seguire. Questo atteggiamento è plausibile
trattandosi di disposizioni disciplinari, ma lo diventa meno quando il cedere
contro la legge viene a secondare una minoranza riottosa contro una
maggioranza obbediente.
È quanto avvenne circa la facoltà di prendere la Comunione nella mano,
contro la quale si erano pronunciati i due terzi dell’episcopato. La facoltà fu
tuttavia concessa prima ai soli francesi, che l’avevano per abuso introdotta, e fu
poi preteso che fosse allargata all’universa Chiesa. Che l’abuso diventi criterio
per abrogare una legge non sembra essere stato ammesso mai né mai stimato
ammissibile. Tuttavia è quel medesimo che avvenne anche circa il modulo di
riforma della Messa, proposto ai Padri del Concilio e da essi rigettato, il quale,
sotto influssi potenti, fu poi adottato e promulgato come rito universale.

70. Sic et non nella Chiesa postconciliare. – La desistenza dell’autorità porta


come effetto l’incertezza e la flussibilità del diritto. Recedendo infatti da sé
medesima l’autorità si smentisce e si incontraria dando luogo a un sic et non nel
quale vanno perdute la certezza dottrinale e la sicurezza pratica. L’antico effato
lex dubia non obligat, applicato alla situazione che abbiamo descritta, cagiona
l’adesione dell’autorità desistente alle successive imposizioni della volontà
resistente divenuta in tal modo fonte di diritto.

L’incertezza della norma, nascente dalla esitazione dell’autorità, è lampante


nella riforma liturgica promossa tumultuariamente con ritrattazione di divieti,
con allargamenti successivi di facoltà e con maniere di procedere ad
experimentum. Ne è venuta, oltre che per l’introduzione del principio di
creatività del celebrante, la più variegata pluralità di celebrazioni: mentre il rito
ufficiale non ammetteva che quattro canoni, si vide invece il canone immillarsi e
uscire libri su libri che propongono nuovi canoni, elaborati da commissioni
liturgiche diocesane, e anche da privati, talora con approvazione della Santa
Sede. Questa moltitudine di forme rituali è lamentata dagli approvatori della
riforma e accusata dai riprovatori suoi.

Il caso più evidente della frammentazione del rito cattolico per effetto della
desistente autorità è la quasi totale scomparsa delle rubriche precettive e lo
spesseggiare delle formule puramente raccomandative e desiderative, nonché la
moltiplicazione delle possibilità alternative: il celebrante farà un certo gesto o
non lo farà o ne farà un altro a seconda delle opportunità di tempo e di luogo,
che, tranne qualche caso, sono abbandonate al suo apprezzamento. Si aggiunga
che, essendo stato devoluto ai vescovi un gran numero di facoltà prima riservate
alla Santa Sede, essi sono arbitri del modo di applicarle, e così si generano nuove
discrepanze tra nazione e nazione, tra diocesi e diocesi e persino tra parrocchia e
parrocchia. Questa discrepanza si vede, per esempio, nell’uso
dell’autocomunione, licenziata con decreto generale, praticata in certe nazioni,
quasi imposta in altre, vietata viceversa in altre126.

Il sic della legge combinato col non della desistente autorità si configura
talvolta in forme paralogistiche, come si vede, per esempio, in «Notitiae»,
bollettino della Commissione per la riforma liturgica, del 1969, p. 351, che
pubblica contemporaneamente una Instructio vietante e un decreto permettente il
medesimo.

Non meno ostensibile è l’incostanza nella disciplina circa la successione dei


due sacramenti della Penitenza e dell’Eucaristia nella Prima Comunione dei
fanciulli. Alcune Conferenze nazionali infatti serbarono il costume antico di far
precedere la confessione sacramentale alla recezione dell’eucaristia, altre invece
innovarono invertendo quell’ordine per ragioni psicologiche poco probanti. Se il
fanciullo infatti è immaturo (come si dice) per percepire il proprio peccato, come
sarà maturo per discernere la presenza reale nel sacramento? Anzi, una
medesima Conferenza episcopale, la alemannica, professò prima, col card.
Döpfner, doversi i fanciulli ammettere all’eucaristia senza previa confessione e,
pochi anni dopo, col card. Ratzinger, successore di Döpfner, stabilì al contrario
che la Prima Comunione deve essere preceduta dalla confessione.

È ovvio che l’incertezza della legge, divenuta mutevole e subordinata


nell’applicazione all’apprezzamento di più persone tra di loro discrepanti,
rafforza il sentimento del valore del privato arbitrio e produce pluralità di scelte
nella quale si eclissa e scompare l’unità organica della Chiesa.

71. Ancora la desistenza dell’autorità. La riforma del Santo Officio. – Non si


può a questo punto trapassare senza una parola la riforma del Santo Officio,
promulgata col Motu proprio Integrae servandae del 7 dicembre 1964 e con la
successiva Notificazione Post litteras apostolicas del 4 giugno 1965. La
Notificazione esprime, in un modo che più esplicito non si potrebbe, la
desistenza dell’autorità che non intende più obbligare mediante una legge, ma
rimette all’obbligazione che lega la coscienza alla legge morale. Dichiara infatti
che «l’Indice dei libri proibiti rimane moralmente impegnativo, ma non ha più
forza di legge ecclesiastica con le annesse censure». Il supposto di tale
disobbligazione è che nel popolo cristiano sussista quella maturità intellettuale e
religiosa per cui l’uomo è lume a sé stesso. Infatti (si legge nel documento) «la
Chiesa confida esistere nel popolo cristiano una tale maturità». Ma lo storico
dovrà verificare se tale supposta maturità sussista e fondi sufficientemente
l’abrogazione del divieto. La Chiesa ripone inoltre «la più ferma speranza nella
sollecitudine vigile degli Ordinari, cui spetta di esaminare e prevenire la
pubblicazione di libri nocivi e, quando sia il caso, di riprendere gli autori e di
ammonirli». È troppo manifesto che questo supposto della vigilanza dottrinale
dei vescovi è un modus irrealis127, giacché né ferma né concorde né, talora, sana
è la dottrina dell’episcopato, né d’altronde possono gli Ordinari prevenire la
pubblicazione di libri nocivi, se non è data loro alcuna facoltà di esigere che si
sottopongano preventivamente al giudizio loro. In realtà infatti, come appare dal
decreto 19 marzo 1975, la Chiesa si limita a enixe commendare ai preti di non
pubblicare senza licenza dei vescovi; ai vescovi di invigilare sulla fede e di
esigere che i libri su cose di fede siano loro sottomessi dagli autori (che
viceversa non hanno l’obbligo di sottometterli). Infine domanda che anche tutti i
fedeli cooperino in questo ai pastori.

Tutta la riforma della disciplina cela il principio dello spirito privato che si
trova immediate di fronte alla legge, senza mediazione di autorità, e cui si
riconosce a priori quella maturità che secondo la disciplina antica era invece
proprio lo scopo della Chiesa in tutta la sua attività legislatrice. Ed è palese la
transizione fatta dall’ordine precettivo e proibitivo all’ordine puramente direttivo
ed esortativo che riprende l’errore, ma non riprende l’errante, supponendo, come
fu preconizzato nel discorso inaugurale del Concilio, che l’errore generi da sé
stesso dentro di sé la confutazione propria e la persuasione degli opposti veri.

La libertà che la Chiesa riconosce ai fedeli di fronte all’imperativo morale


circa il leggere libri, è la libertà comune che spetta all’uomo di fronte alla legge
morale. Ora, può una tale libertà riconoscersi anche circa lo scrivere libri, posto
che allora non si tratta più di un atto privato e transeunte, ma di un atto pubblico,
che si fissa e produce un effetto distaccato ormai dalla sua causa e sfuggente ad
essa? Certo lo Stato, che si regge sopra un principio diverso da quello della
Chiesa, e non propriamente religioso, deve ammetterlo assolutamente. Ma per la
Chiesa da principio diverso scendono conseguenze diverse. L’abolizione
dell’Index librorum prohibitorum è un atto di desistenza dell’autorità: essa
mantiene il divieto anteriore della legge morale, ma non entra a particolarizzarlo
in concreto: rimette cioè la coscienza dei fedeli ai principii universali affinché ne
facciano da sé medesimi l’applicazione particolare.

Quanto allo scriver libri la Chiesa del postconcilio non credette di scendere
sino a una tale libertà e si riservò ancora di giudicare, in vista del bene pubblico,
dell’ortodossia degli scritti. Essa infatti oltre il dovere d’insegnare integra e pura
la dottrina, ha quello di preservare dall’errore i membri del consorzio ecclesiale.
Tale secondo dovere fu altamente proclamato nel discorso inaugurale (vedi §
40), ma fu fatto coincidere col primo: basta che la Chiesa insegni e il cristiano
preserverà sé stesso dall’errore, essendo egli reputato capace di dirigersi col suo
retto lume.

Nell’istituzione originaria di Paolo III nel 1542 il fine della Congregazione


era di «combattere le eresie e conseguentemente reprimere i delitti contro la
fede». Ora a Paolo VI «sembra meglio che la difesa della fede avvenga
attraverso l’impegno di promuovere la dottrina, per cui mentre si correggono gli
errori e gli erranti vengono richiamati dolcemente a migliore consiglio, gli
annunciatori del Vangelo ricevono nuove forze». Come nel discorso inaugurale,
il metodo dell’amore si appoggia sopra un duplice supposto: primo, che l’errore,
purché si lasci devolversi, riesca da sé stesso alla verità; secondo, che l’uomo, o
per la sua costituzione naturale, o per il punto di civiltà in cui trovasi, sia in tale
stato di maturità che «i fedeli seguano più pienamente e con più amore il
cammino della Chiesa... se viene dimostrata la materia della fede e la natura dei
costumi».

72. Critica della riforma del Santo Officio. – Ho già toccato ai §§ 40 e 41 le


attinenze di tale posizione con una mentalità antropotropica e ancora ne toccherò
più avanti. Qui vorrei soltanto rilevare il qui pro quo giuridico e psicologico che
giace al fondo della riforma. Si trattava di Index librorum prohibitorum e non già
di Index auctorum prohibitorum. La differenza si continua a trascurare nelle
dispute intorno alla riforma come si trascurò nell’attuazione stessa della riforma.
È forse iniquità, come si asserisce, portar giudizio su un libro senza ascoltare le
spiegazioni dell’autore del libro? Sì, se il senso di uno scritto si dovesse
desumere dalle intenzioni dell’autore o dalle spiegazioni che egli ne dà, e non
invece dallo scritto medesimo. Il libro è una cosa in sé che porta inerente, anzi
che è il proprio significato. È un composto di parole, e le parole sono più
dell’uomo che le profferisce e recano impresso un verbo oggettivo. Bisogna che
lo scrittore sappia far combaciare il suo verbo soggettivo col verbo oggettivo del
linguaggio. Si può voler dire quello che non si dice, e perciò il contrassegno
dello scriver bene, cioè del vero scrivere, è il dire davvero quel che si vuole. Il
contrassegno dello scriver male è invece il dire quel che non si vuole. Perciò un
libro può professare l’ateismo e l’autore credere di essere teista128.

Le chiose che l’autore faccia al suo libro, una volta uscito, non mutano la
natura del libro. Quand’anche per impossibile la mutassero facendo risultare il
libro irreprensibile, non se ne dovrebbe tenere, quanto al libro, nessun conto. La
ragione è manifesta. Le chiose giustificanti fatte dall’autore post editum librum
non possono accompagnare il libro dovunque vada e questo corre il suo destino
senza compagnia: Parve sine me, liber, ibis in urbem129.

Qui si tratta di distinguere cosa da cosa, e una persona da un libro. Si tratta


di riconoscere, come già Platone riconobbe (Prot., 329 A), che un libro non è
come una persona dialogante la quale si volge di qua e di là per farsi capire a chi
la interroghi, e chiarisce e precisa e spiega: il libro risponde sempre il medesimo,
risponde quello che le parole usate esprimono, prese nel loro significato proprio,
e basta.

Né si dica che in un idioma i vocaboli non hanno un significato proprio: non


lo hanno quando stanno nei vocabolari, ma l’hanno certamente nel concreto di
un parlato. D’altronde che cosa fanno i critici di tutto il mondo? Forse che si
astengono dal fare giudizio di un’opera fintantoché non abbiano dialogato con
l’autore? Chiedono all’autore il senso della sua opera o lo ricavano da essa?
Senza dire che grandi capolavori, e i maggiori di ogni nazione che sono come la
fonte di tutta la poesia, anzi di tutta la civiltà di un popolo, sono adespoti e di
un’impersonalità sovrumana. Eppure nessuno pensò mai che il loro valore ci
sfugga perché non si conosce nulla del loro autore. E non solo l’intendere
un’opera non dipende dalla cognizione che si abbia dell’individuo autore, che è
talora oscuro affatto, come Omero (se pure fu individuo, come nega il Wolf) e
Shakespeare, ma addirittura si può sostenere con Flaubert che la soggettività
dell’autore non deve entrare nell’opera e che la perfezione di uno scrittore
consiste nel far credere ai posteri di non essere esistito.

Ma per tornare alla riforma del Santo Officio, l’intenzione dell’autore non
può fare che le parole scritte, se esprimono l’errore, non esprimano l’errore. La
certezza del senso delle parole è il fondamento di ogni comunicazione tra
uomini. Non si tratta di giudicare lo stato di una coscienza, ma di conoscere il
senso delle parole. E non è punto vero che nell’esame che si faceva di un libro in
Santo Officio non si riguardasse ogni aspetto del libro. Ma appunto si riguardava
ogni aspetto del libro, non le intenzioni dell’autore. E non si oppongano le
lunghe replicate visite dell’Inquisizione a Giordano Bruno tra il 1582 e il 1600,
perché lì non si dialogava per conoscere il vero senso dei libri del filosofo, ma si
ricercava la penitenza e la ritrattazione di lui. Già Benedetto XIV (e credo che la
pratica durasse) volle che un consultore prendesse ex professo le difese del libro,
non già lumeggiando le intenzioni dell’autore, ma interpretando le parole del
testo nel loro proprio senso. Le accuse mosse dunque all’antica procedura
nascono dal misconoscere la natura oggettiva e in sé di ogni scritto e insomma
da un difetto di arte critica130.

73. Variazione della Curia romana. Difetto di acribia. – La foga di


innovazione investì l’intera Curia, non solo riordinando l’antico, come aveva
fatto Pio X nel 1908 sull’esempio di molti antecessori suoi, ma anche mutando la
funzione delle Congregazioni antiche e deputando nuove funzioni ad organismi
nuovi. I nomi poi furono tutti mutati. La Congregazione de Propaganda Fide,
per esempio, diventò quella per l’Evangelizzazione dei popoli e quella del
Consistoro diventò quella dei Vescovi. Furono inoltre create altre Congregazioni
col titolo moderno di Commissioni o Consigli o Segretariati: una per l’unione
dei cristiani, una per le religioni non cristiane, una per i non credenti, una per le
comunicazioni sociali, una per l’apostolato dei laici e via dicendo. La variazione
dei nomi non è senza significato. La Propaganda infatti insinuava l’idea di
un’espansione del cattolicismo in popoli infedeli, laddove il concetto di
evangelizzazione è generico e già si viene applicando all’azione pastorale tra
genti già evangelizzate, anzi all’atto stesso della vita cristiana, confondendosi
così la specie col genere.

Un’inveterata opinione, incline a concepire l’andamento delle cose sul


modulo del parallelogramma delle forze meccaniche, ritiene che la Curia
Romana abbia esercitato nel periodo postconciliare un’azione avversa
all’intendimento riformatore del Concilio e del Papa. Senza osservare che la
Curia, come attuazione del governo papale, fu in ogni tempo l’organo del
divenire ecclesiale, è certo al contrario che tutte le trasformazioni operatesi e
operanti nel cattolicismo del secolo XX ebbero per organo la Curia. La riforma
del Santo Officio, significativa e produttiva della novissima mentalità
postconciliare, porta la firma del card. Ottaviani, prefetto di essa Congregazione,
nel quale i neoterici ravvisano invece l’incarnazione dello spirito preconciliare.
Anzi, come vedemmo al § 69, i moti stessi di disobbedienza alle norme romane
ebbero la loro forza dalla successiva ratificazione della Curia che si disdisse
erigendo in legge gli abusi.

Qui però il soggetto del nostro discorso è la variazione della Curia nel suo
funzionamento tecnico e formale. E in primo luogo è da notare la degradazione
della latinità curiale. Non occorre risalire allo stile adamantino e tagliente dei
documenti di Gregorio XVI o a quello elegante di Leone XIII, per avvertire nel
confronto la perdita di nobiltà, di perspicuità e di acribia dello stile curiale. Il
latino del Vaticano II fu sovente deplorato come miserando dai Padri che pure
approvavano il contenuto dei documenti. D’altronde qualcuno dei testi
principali, come la Gaudium et spes, fu in parte redatto primieramente in
francese violando il canone dello stile curiale, che tiene per originale e autentico
il testo latino, e generando quelle incertitudini dell’ermeneutica che già
toccammo al § 39.

Un caso insigne di tale incertitudine, passato dall’ordine grammaticale


all’ordine giuridico, è la Costituzione apostolica del 3 aprile 1969. Nella
pericope finale si legge: «Ex his quae hactenus de novo Missali Romano
exposuimus, quiddam nunc cogere et efficere placet», cioè: «Ci piace raccogliere
una certa conclusione», giacché cogere et efficere è una locuzione ciceroniana
per concludere. Ma le traduzioni subito fattene e correnti danno alla frase questo
senso: «Nous voulons donner force de loi à tout ce que Nous avons exposé»
(«Documentation catholique», n. 1541, p. 517). E la traduzione italiana:
«Vogliamo dare forza di legge a quanto abbiamo esposto» (OR, 12 aprile 1969),
oppure: «Quanto abbiamo qui stabilito e ordinato vogliamo che rimanga valido
ed efficace ora e in futuro» (Messale romano edito dalla Conferenza episcopale
italiana, Roma 1969). Noi non intendiamo filologare sul testo curiale, anzi
pontificale, ma ci conviene osservare come la perspicuità e il rigore dello stile
curiale siano andati perduti in un passo di tanto momento. Protestandoci incapaci
di decidere una controversia filologica, ci limitiamo ad asserire quello che ci
sembra incontrovertibile, che cioè la pessima latinità (o inconsueta, se la frase ha
il senso di Cicerone) impedisce la percezione immediata del senso inteso dal
legislatore, e così ha aperto la via a letture contrastanti: l’una, che trova in quella
formula niente più che una clausola (ma non si trova poi qual sia in concreto la
conclusione perché seguono sùbito data e firme del documento); l’altra che vi
ravvisa invece l’intendimento di dar forza di legge a tutte le cose esposte (ma
quiddam non vale punto come quidquid supposto invece dalle traduzioni). Una
sequela necessaria del circiterismo e dell’incertitudine con cui fu condotto tutto
il negozio è il fatto increscioso che dell’edizione tipica della Costituzione ci sono
tre forme diversificate tra loro da addizioni e da omissioni.

74. Ancora la variazione della Curia romana. Cultura difettosa. – Ma oltre


che per bassa latinità e per difetto di acribia appare incolpabile la Curia per la
difettosa cultura subiacente ai testi pontificali che si gloriarono per secoli di una
perfezione mirabilmente irreprensibile. Un discorso speciale riserbiamo all’art. 7
della Costituzione Missale romanum recante della Messa una definizione
difforme dalla concezione cattolica (la Messa viene chiamata un’assemblea,
mentre è un atto sacrificale) che fu dovuta riformare dopo pochi mesi per la
palese aberrazione dalla dottrina della Chiesa. Vedi §§ 273-4. Qui portiamo
invece alcuni esempi perspicui di difettose cognizioni, di colpevole negligenza e
anche di scarsa attenzione dei servitori del Papa al cui prestigio non devono mai
derogare gli atti pontificali, massime quando siano didattici e solenni.
Nel discorso del 2 agosto 1969 a Kampala in Nigrizia Paolo VI esaltò la
Chiesa africana di Tertulliano, di san Cipriano e di sant’Agostino come se fosse
Chiesa di Nigrizia131, mentre era chiesa prettamente latina. Inoltre nominò tra i
grandi della Chiesa d’Africa un «Ottavio di Mileto» che non esiste affatto e che
d’altronde, se esistesse, non sarebbe africano. Esiste invece un Ottato di Milevi,
ma è uno scrittore secondario e di incerta ortodossia.

Altrove, parlando del fortuito che tronca talora i disegni degli uomini, il Papa
citò dal cap. VII del Principe di Machiavelli le parole del Valentino il quale
(disse il Papa) «a tutto aveva pensato fuorché al caso che egli dovesse
inaspettatamente morire». Ora, l’imprevisto non fu che avesse egli a morire
(come avrebbe potuto narrarlo?), ma che egli si trovasse quasi moribondo (ma
non morì) proprio nei giorni in cui moriva Alessandro VI ed egli aveva divisato
di impadronirsi dello Stato.

In un altro discorso il Papa afferma che «al Concilio era parso bene di
riprendere il termine e il concetto di collegialità». Ora, quel termine non si trova
in nessun testo del Concilio132 e il Papa avrebbe bene potuto introdurvelo, ma
non può però fare che esso ci sia mentre invece non c’è. Nel discorso del 9
marzo 1972 il Papa parla del dono della libertà «che l’uomo a Dio fa simigliante
(cfr. Par., I, 105)», ma cade in un lapsus, perché in quel luogo Dante non parla
della libertà, ma dell’ordine del mondo che, essendo un’idea del divino intelletto
impressa nella creazione, rende il creato simile al creatore.

Di più, cosa che appare davvero strana, il circiterismo si estende anche alle
citazioni della Scrittura. Il 26 luglio 1970 il Papà citò Gal., 5, 6 come se dicesse
che «la fede rende operante la carità», mentre san Paolo dice l’opposto, che cioè
la carità rende operante la fede, come correttamente fu tradotto l’identico passo
in un altro discorso del 3 agosto 1978.

Senza addentrarci nella generale contraddizione che il pensiero ottimistico


del Papa trova nello stato generale del mondo e della Chiesa, si trovano
enunciazioni circa singoli fatti, che sono smentite da quei fatti. Nel discorso del
27 novembre 1969 sull’introduzione del Novus ordo della Messa il Papa,
giustificando la dimissione del latino dalla liturgia, disse che il latino «resta negli
atti ufficiali e nell’insegnamento ecclesiastico». Ora, in quasi tutte le Università
ecclesiastiche e in tutti i seminari l’insegnamento si svolge adesso nelle lingue
nazionali, al Concilio gli idiomi volgari furono ammessi negli interventi orali e
negli scritti, al Sinodo dei Vescovi l’assemblea, dopo la sessione plenaria, si
divide in Circuli minores secondo le parlate nazionali. Anche la Curia è ormai
mistilingue e sta tra le mie carte una lettera del card. Wright, prefetto della
Congregazione del clero, che porta nell’intestazione Congregation of the Clergy.
Evidentemente nella redazione del citato discorso una pericope uscita da altra
penna che la papale ha trasmodato nell’uso del verbo restare.

Il peso che questi circiterismi hanno a scemare la stima, che tuttavia si deve
alla Curia romana, non è certo da misurare agli apprezzamenti e alle inclinazioni
che ciascuno abbia verso quel rispettabile istituto del Papato. Ma il vero si è che
il contingente difetto riscontrato nei collaboratori che assistono il Papa, la cui
persona è in qualche modo l’intero organismo culturale della Chiesa cattolica, è
tanto più increscioso, quanto più irreprensibile dovrebbe essere la Sede suprema.
E giova rilevare che se Paolo VI non ebbe avvertite le non immaginarie
deficienze dei suoi collaboratori nello stendere documenti, nell’apparecchiare la
traccia e la selva dei discorsi e nel ricercare autori e citazioni, egli ebbe però
chiara l’idea della perfezione richiesta nel lavoro di chi collabora col Papa. Disse
infatti a Jean Guitton: «La moindre inexactitude, le moindre lapsus dans la
bouche d’un Pape ne peut se tolérer» (op. cit., p. 13).

I lapsus, di cui abbiamo recato alcuni saggi, non indicano forse


manchevolezze culturali di fondo, ma annunciano certo un difetto di diligenza e
di esattezza che non lascia senza nota il Papa stesso. L’operatore principale non
può fare fidanza per la eccellenza di ogni prestazione dei suoi ministri inferiori,
ma la qualità ordinaria dei collaboratori di cui si serve non può non implicare il
suo discernimento medesimo. Tutti gli atti degli strumenti dell’autorità sono atti
dell’autorità e ne mantengono o ne scemano il prestigio. Non sono ancora
dimenticati i clamori che si levarono quando un capo di governo in un veramente
storico discorso citò un motto di Protagora attribuendolo ad Anassagora.

75. La desistenza della Chiesa nei rapporti con gli Stati. – La desistenza
dell’autorità, che abbiamo indagata ad intra della Chiesa approfondendo la
riforma del Santo Officio, si manifesta altresì nei rapporti con gli Stati sotto
forma di una condiscendenza con cui la Chiesa partecipa al generale processo
che volge alla distensione internazionale. La cosa è manifesta, ma noi non ci
addentreremo in una materia che non spetta direttamente a un libro come questo
e che ci porterebbe a lumeggiare qualche fatto famoso. Alludiamo
massimamente alla rimozione del cardinale Giuseppe Mindszenty dalla sede
primaziale d’Ungheria, alla volontaria umiliazione della legazione pontificia
durante le celebrazioni del 1971 per l’insediamento del nuovo Patriarca
ortodosso, quando il card. Willebrands e tutta l’ambasceria papale ascoltarono
senza motto o atto di rimostranza le accuse mosse alla Chiesa romana.
Alludiamo infine alle dimostrazioni di simpatia di Paolo VI verso la Chiesa
cattolica scismatica della Cina, che Pio XII aveva invece condannato in due
lettere encicliche del 1956. Ci estenderemo però alquanto sul più sintomatico
degli atti che manifestano l’atteggiamento desistente della Chiesa verso lo Stato
moderno.

La revisione del Concordato italiano del 1929 è nei rapporti tra le due potestà
il fatto che più spiccatamente esprime la variazione fatta dalla Chiesa cattolica
nella sua filosofia e nella sua teologia. L’intacco dei principii era già stato
preannunciato nelle more del lungo negoziato in un articolo dell’OR del 3
dicembre 1976 in cui si dichiarava che per attestare la propria disponibilità la
Chiesa sarebbe calata sino a sacrificare i principii. I nuovi patti restringono in
soli 14 articoli le materie che quelli del 1929 contenevano in più di 40. Questo
assottigliamento arguisce di per sé stesso che molte materie di natura mista sono
state abbandonate alla potestà civile, rinunciando la Chiesa ad avervi voce. Le
variazioni decisive sono tre. La prima è fissata nell’art. I del Protocollo
addizionale e suona così: «Si considera non più in vigore il principio,
originariamente richiamato dai Patti lateranensi, della religione cattolica come
sola religione dello Stato italiano» (RI, 1984, p. 257). Questo dispositivo del
nuovo patto implica l’abbandono del principio cattolico secondo il quale
l’obbligazione religiosa dell’uomo oltrepassa l’àmbito individuale e investe la
comunità civile: questa deve, come tale, aver un riguardo positivo verso la
destinazione ultima dell’umana convivenza a uno stato di vita trascendente. Il
riconoscimento del Nume è un dovere non pure individuale, ma sociale. Anche
se si vuol respingere l’antico dettato come non consentaneo all’indole dei tempi,
restava sempre possibile la sua assunzione in linea storica. Anche cioè
prescindendo dal valore ultrastorico che la religione pretende, restava possibile
assumere quel valore come parte integrante e informante della vita storica della
nazione italiana alla stessa stregua della lingua, dell’arte e della cultura. È la tesi
insegnata da Paolo VI (§ 59) il quale fa della religione un carattere della società
civile non divisivo, ma distintivo. Conviene anche notare che a un così grande
consenso della Chiesa all’emancipazione dell’assiologia civile dai principii
religiosi una maggiore finezza della diplomazia vaticana avrebbe trovato modo
di dare un’espressione meno aperta. Si sarebbe potuto stabilire non già che quel
principio «si considera non più in vigore», bensì che «la Santa Sede prende atto
che lo Stato italiano dichiara di non considerarlo più in vigore». La variazione di
sostanza è manifesta: oggi la Chiesa chiama laicità quello che ieri chiamava
laicismo e condannava come agguagliamento illegittimo di atteggiamenti
diseguali.

Da ultimo conviene osservare che se i patti firmati il 12 febbraio 1984


riformano il Concordato del 1929, come tutti riconoscono, essi intaccano però
anche il Trattato che regolava la sovranità e indipendenza temporale del Papato.
La possibilità di far cadere il Concordato restando immutato il Trattato, che
Mussolini aveva prospettata in un discorso al Parlamento, fu prontamente
esclusa da Pio XI che proclamò: simul stabunt aut simul cadent. Non so quale
sia la legittimità di un procedimento che abroga in un patto la clausola di un altro
patto senza citarlo, ma il fatto (poco avvertito nei discorsi e nella stampa), è che
l’art. I del Protocollo addizionale firmato il 18 febbraio 1984 abroga tacitamente
gli articoli 1 e 2 del Trattato del 1929 che stabiliscono: «L’Italia riconosce e
riafferma il principio pel quale la religione cattolica, apostolica, romana è la sola
religione dello Stato». Per conseguenza l’art. 13 del nuovo Concordato che dice:
«Le disposizioni precedenti costituiscono modificazioni del Concordato
lateranense» è erroneo per reticenza: esse costituiscono una modificazione anche
del Trattato.

76. Ancora la revisione del Concordato. – La seconda variazione concerne il


regime matrimoniale. Col Concordato del 1929 l’Italia riconosceva gli effetti
civili al matrimonio canonico obbligatoriamente trascritto nell’anagrafe civile.
Ma già coll’introduzione del divorzio il regime fu unilateralmente variato: al
coniuge di una persona divorziata lo Stato ritira lo status di coniuge che la
Chiesa invece le conserva in perpetuo. Inoltre l’art. 8 del patto del 1984 rinnova
sì il riconoscimento degli effetti civili al matrimonio canonico, ma dà allo Stato
la facoltà di negarlo quando le condizioni del diritto canonico non rispondono in
casu alle norme del diritto civile.

La terza variazione tocca il regime scolastico. In luogo dell’obbligo sancito


dal Concordato del 1929 di seguire l’insegnamento della religione cattolica,
l’articolo 9 del nuovo stabilisce: «La Repubblica italiana riconoscendo il valore
della cultura religiosa e tenendo conto che i principii del cattolicesimo fanno
parte del patrimonio storico del popolo italiano, continuerà ad assicurare
l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole. È riconosciuto a ciascuno il
diritto di scegliere se avvalersi o non avvalersi di tale insegnamento». Questo
diritto di scelta lo esercitano «gli studenti o i loro genitori». Al regime
dell’obbligazione, temperato dal diritto di dispensa derivato dalla libertà di
coscienza, subentra dunque un regime opzionale per cui la istruzione nella
religione cattolica è rimessa alla libertà individuale. La religione cattolica non fa
più parte dell’assiologia della società italiana e non la obbliga più (i valori
legano). Non è più la religione cattolica inquanto cattolica che lo Stato
riconosce, bensì la religione cattolica inquanto essa è una forma storicamente
rilevante della religiosità. È la tesi della religione naturale come nucleo di tutte
le religioni da cui tutte le religioni hanno valore. È il fondo, come tante volte
dicemmo, dello spirito del secolo presente.

Neppure su un punto vitale della politica scolastica i negoziatori della Santa


Sede abbandonarono la linea della condiscendenza e della rinunzia. La richiesta
di sovvenzioni dello Stato alle scuole private o alle famiglie che si avvalgono
delle scuole private non fu difesa né divenne un punto cardinale della trattativa,
benché i cattolici italiani avessero in numerose manifestazioni rivendicato un
tale diritto come conseguenza del pluralismo, e domandato che l’ordinamento
italiano si conformasse a quello di molte democrazie in Europa e nel mondo.

La revisione del Concordato diede luogo a un ampio fenomeno di


dissimulazione e di ipocorismo che mascherava la novazione introdotta nella
dottrina coprendola con una fittizia continuità storica, continuità ottenuta
trasformando l’uso dei vocaboli e indebolendo la vis logica del discorso
ecclesiale. La novazione viene riconosciuta per contro dagli osservatori più
spassionati. Citerò per tutti RI, 1984, p. 246: «Il Concordato è troppo differente
dal vecchio perché si possa mettere in dubbio la sua novità: è un corso nuovo la
cui evoluzione non è prevedibile». L’autore ricorda poi la dottrina di Pio XI circa
la superiorità obiettiva dei fini della Chiesa e conclude che «appare chiaro
quanto profondamente la Chiesa cattolica sia cambiata in questi anni».

Tutto l’opposto è il pensiero dell’organo vaticano del 19 febbraio per il quale


«il nuovo Concordato è il solido e radicato frutto dei Patti del 1929». Questa
dichiarazione sarebbe vera se si invertisse il senso dei vocaboli e se mutare i
principii, come si confessa di aver fatto, equivalesse a svilupparli, farli
fruttificare e «mantenere il Concordato nella sua integrità». Che se poi si afferma
che «restano intatti i principii della religione cattolica», è ovvia la distinzione:
restano intatti in sé e prescindendo dal Concordato (come restano intatti di fronte
all’errore e nella persecuzione), ma non restano certo intatti nella legge, nel
costume e nella vita sociale dello Stato che professa e pratica il loro contrario. Il
Papa stesso non si astenne da questo tentativo di mutare le cose mutando senso
alle parole e di cercare in formule verbali la soddisfazione che la realtà non
concede. Disse infatti nel discorso del 20 febbraio: «La revisione del Concordato
è segno di rinnovata concordia tra Stato e Chiesa in Italia». Ma il divorzio non
discorda dall’indissolubilità?

E l’aborto non contravviene, per la Chiesa, al divieto di uccidere intimato


dalla morale naturale? E l’indifferentismo della scuola pubblica verso
l’istruzione religiosa non stride contro il dovere cattolico di istruirsi nella propria
religione? Il vero si è che nell’assiologia della Repubblica italiana hanno luogo
l’alfabetizzazione, la cultura fisica, la sanità, il lavoro, la sicurezza sociale, le arti
e le lettere, ma quel valore che giusta la dottrina cattolica è il valore originario e
tutti li consuma, ne è invece escluso e abbassato alla sfera privata sotto la
protezione della libertà133.

Geno Pampaloni in un articolo intitolato Il Tevere più stretto («Il Giornale», 6


gennaio 1984) lumeggia la crescente convergenza tra Stato e Chiesa in Italia, ma
la considera erroneamente come effetto di «una flessione della laicità», mentre al
contrario essa è dovuta a uno scoloramento nel cattolicismo di quanto è peculiare
del cattolicismo: non è lo Stato che pende alla religione, è la religione che pende
allo Stato e, per dir così, si sreligiona. Questo processo il Pampaloni lo denomina
con un termine del lessico politico italiano «compromesso storico». Nella sua
ampiezza e profondità esso è però la variazione di fondo che prepara la
cosmopoli umanitaria e l’universale teocrasia134.

77. La Chiesa di Paolo VI. I discorsi di settembre 1974. – La disposizione


propria di Paolo VI a dissimulare le difficoltà della Chiesa non poté continuare
nella mente del Papa, giacché tale disposizione costituisce in qualche modo uno
stato violento, e noi già vedemmo al § 7 le denuncie apertissime fatte di quelle
difficoltà. Queste denuncie culminano peraltro nei due discorsi dell’11 e del 18
settembre 1974, che resero attonita l’opinione mondiale, furono accolte nel testo
integrale dai maggiori organi di studi storici e politici (RI, 1974, p. 932) ed
ebbero un largo commento nell’OR per la penna del suo direttore.

Il dato emergente da Occidente e da Oriente è «la massiccia avanzata del


secolarismo scristianizzatore». Dopo aver riconosciuta l’inimicizia teorica e
pratica del mondo moderno con la religione in genere e col cattolicismo in
ispecie, il Papa, abbandonandosi a un moto di spirituale tristizia, confessa non
solo che la religione sembra non avere prospera esistenza in un tale mondo, ma
che «a chi osserva le cose superficialmente, la Chiesa sembra impensabile ai
nostri giorni e anzi sembra destinata a spegnersi e a lasciarsi sostituire da una
più facile e sperimentabile concezione razionale e scientifica del mondo, senza
dogmi, senza gerarchie, senza limiti al possibile godimento dell’esistenza, senza
la Croce di Cristo». La Chiesa (dice il Papa) rimane tuttora una grande
istituzione, «ma apriamo gli occhi: essa è ora, per certi riguardi, in gravi
sofferenze, in radicali opposizioni, in corrosive contraddizioni». E il Papa mette
in dubbio se il mondo bisogni ancora della Chiesa per apprendere i valori di
carità, di rispetto dei diritti, di solidarietà, dal momento che «tutto questo, e pare
assai meglio, lo fa il mondo», e che la riuscita del mondo in questi valori sembra
giustificare l’abbandono delle osservanze religiose da parte di intere popolazioni,
l’irreligiosità del laicismo, l’emancipazione dalla legge morale, la defezione dei
preti e «dei fedeli che non temono più di essere infedeli». Il Papa avanza
insomma l’idea della superfluità del cristianesimo e della vacanza della religione
nel mondo contemporaneo: è l’avvento, possiamo dire, dell’uomo microteo.
Una nota importante della presente crisi il Papa ravvisa giustamente nel fatto
che la Chiesa vacilla per l’assalto di forze non esterne, ma interne alla propria
compagine. Questo è il criterio medesimo da noi assunto per stabilire dove, nella
storia della Chiesa, è la crisi e dove invece non è (§§ 2, 12 e 19). «Grande parte
di essi mali non assale la Chiesa dal di fuori, ma l’affligge, l’indebolisce, la
snerva dal di dentro. Il cuore si riempie di amarezza». La novità non consiste nel
sorgere dei mali dal ceto clericale, ché sempre in passato di lì ebbero origine i
mali. La novità bene intuita dal Papa è quella che nel celebre discorso al
Seminario Lombardo egli definì autodemolizione. L’espressione è
dogmaticamente insostenibile, e difatti non fu più mai ripetuta dal Papa, perché
la Chiesa è essenzialmente costruttiva e non demolitrice, ma storicamente intesa
essa è aggiustata.

Venendo al quesito del superamento della crisi, se il Papa si mantenesse nel


campo dei fatti e delle ragionevoli congetture che essi consentono egli si
troverebbe «infra le forfici». Perciò, concludendo, egli passa dal piano storico in
cui la Chiesa risulta sofferente e declinante, al piano di fede in cui l’animo del
credente si sostiene nel divino «non praevalebunt» (Matth., 16, 18). Questo
passaggio al cosiddetto discorso di fede è frequente nell’apologetica
postconciliare. Ma è dubbio che sia un reale passaggio. La diagnosi infatti che ha
individuato nell’alienazione da Dio, nella dissacrazione e nella totale
Diesseitigkeit il male radicale del mondo è già un discorso di fede. È solo la fede
che apprende come ruina quello che invece appare come perfezionamento e
progresso del genere umano a chi non ha la fede.

78. Irrealismo intermittente di Paolo VI. – Il superamento della tristezza


nascente dalla contemplazione della Chiesa contemporanea avviene nella mente
di Paolo VI in due maniere. Quella legittima, necessaria e tradizionale consiste
nell’introdurre l’interpretazione filosofica e teologica propria del cattolicismo, e
sotto quel lume riguardare i fatti di cui non si misconosce la natura. Quella
illegittima è fondata sulla gran legge psicologica del gratissimus mentis error,
onde lo spirito ripugna a riconoscere quel che pure conosce, perché gli riesce
spiacente. Lo sente quindi nel contatto con il reale, ma non lo dice a sé stesso e
non lo dice agli altri. Del fenomeno sono pieni gli scrittori morali e i Profeti
biblici, ai quali grida «loquimini nobis placentia» il popolo, ma anche ciascun
individuo a sé stesso. Forse le parole di una lettera giovanile di Montini rivelano
i sintomi primaticci di questa cotale prevalenza della facoltà ideativa sopra la
percezione del concreto: «Sono convinto che un pensiero mio, un pensiero della
mia anima vale per me più di qualunque cosa al mondo».

È soggetto di meraviglia soltanto per chi poco conosce le agostiniane


latebrae o il manzoniano guazzabuglio del cuore umano, anche pontificale, il
trovare nel medesimo discorso di Paolo VI contigui e cuciti insieme la tristezza,
che consuona alla realtà, e il trionfalismo, che sfuma o trasfigura o addirittura
inverte il reale. Per esempio, nel discorso del 16 novembre 1970 il Papa ha
vivamente pitturato lo stato improspero della Chiesa postconciliare. All’esterno è
«il legalismo oppressore di tanti paesi» che incatena la Chiesa: essa «soffre,
lotta, come può, sopravvive, perché Dio l’assiste». All’interno poi «è per tutti
motivo di stupore, di dolore, di scandalo vedere che proprio dal didentro della
Chiesa nascono inquietudini e infedeltà e spesso da parte di chi dovrebbe, per
impegno professato e per carisma ricevuto, essere più aderente e più esemplare».
E poi «le aberrazioni dottrinali», «l’affrancamento dall’autorità della Chiesa», il
generale libertinaggio nel costume, «la spregiudicatezza disciplinare» del clero.

Eppure, nonostante l’onus grave annunciato così articolatamente, il Papa


vede in idea qualcosa di positivo nella situazione e anzi addirittura «segni
meravigliosi di vitalità, di spiritualità, di santità». Li vede, ma indistintamente, e
indistintamente li annuncia, trasportato com’è dai moti della sua facilità ideativa.
Sin nelle viscere degli errori dogmatici, che egli pur trafigge vigorosamente
nell’enciclica Mysterium fidei, il Papa travede ragioni di relativo plauso, giacché
per entro l’eresia stessa negatrice della presenza reale gli appare «il desiderio
lodevole di scrutare così gran mistero ed esplorarne le inesauribili ricchezze». La
propensione papale a non spegnere il lucignolo fumante qui trasmoda sino a
trovar lodevole l’assaggio di chi mira a ristringere e a disciogliere il mistero.

Ma anche in altre allocuzioni la propensione irrealistica fa che Paolo VI


prenda il figurato del suo pensiero per il consistente dei fatti. Per una sorta di
generale sineddoche qualche parcella, anche minuta e irrilevante, è affetta da un
valore esponenziale illusorio e vien riportata a una scala maggiore divenendo
indizio di fatti generali. È come, dice Arnobio, se si negasse il terroso della
montagna, perché vi si trova affondata una pepita d’oro, o il morbo di un uomo
malato, tutto marcido e dolorante, perché c’è un’unghia sana.

La maggiore testimonianza del gratissimus error è forse per altro


l’allocuzione del 23 giugno 1975 per il duodecimo anniversario
dell’incoronazione. Dopo aver detto che «il Vaticano II ha iniziato davvero una
nuova era nella vita della Chiesa del nostro tempo» il Papa esalta «la
grandissima consonanza di tutta la Chiesa col suo supremo pastore e con i propri
vescovi»; e questo proprio mentre quasi tutti gli episcopati del mondo giudicano
le encicliche papali e hanno dottrine particolari. E questo dopo che il
Katholikentag di Essen ebbe fatto gli atti di cui narrammo al § 62. D’altronde il
Papa soccombeva a un ictus d’oblìo di tale «grandissima consonanza» tre
settimane dopo quando, come vedemmo, ingiungeva: «Basta con il dissenso
interiore alla Chiesa, basta con una disgregatrice interpretazione del pluralismo,
basta con l’autolesione dei cattolici alla loro indispensabile coesione» (OR, 18
luglio 1975). Similmente il dire che «il Concilio ha fatto comprendere la
dimensione verticale della vita» suppone che la Chiesa preconciliare si volgesse
al mondo anziché al vertice e contraddice inoltre all’intento precipuo e
professato dal Concilio sin dal suo inizio che fu appunto di correggere, se mai,
l’indirizzo del cattolicismo attemperandolo all’orizzonte della storia. Dice ancora
il Papa che «i frutti della riforma liturgica appaiono oggi nel loro splendore», ma
poche settimane innanzi la cattedrale di Reims subiva, consenziente il vescovo,
una tale profanazione, che ne venne richiesta la riconsacrazione, e intanto in
Francia si moltiplicavano a dismisura le liturgie arbitrarie e pullulavano a
centinaia, in dispregio delle norme romane, i canoni illegittimi, e la Missa cum
pueris eccitava le più vive rimostranze del mondo cattolico. Infine, con una
generalità di pronunciato che a pena converrebbe a secoli di vera unità spirituale,
il Papa dichiarava che «gli insegnamenti del Concilio sono entrati nella vita
quotidiana e son divenuti sostanza corroborante del pensiero e della vita
cristiana». Se il Papa intende per vita cristiana quei ristretti circoli in cui essa si
è rattratta ritirandosi, secondo il vaticinio suo antico (§ 36), dal gran corpo
sociale, l’asserto regge, e così deve essere135. Ma se la diagnosi papale concerne
l’intero mondo e la Chiesa odierni, allora troppo si oppongono a quelle parole il
degradamento del costume, la violenza civile che rifà selva la città136, la
costituzionalizzazione dell’ateismo (fenomeno novissimo nell’umana storia), il
cinico disprezzo del diritto delle nazioni, il divorzio, l’aborto e l’eutanasia.
Vi ha nel discorso anniversario un velo di acrisia che copre la realtà storica e
talora la inverte, chiamando semplici ombre il nero fondo del quadro. E questa
visione monocolare della situazione vien ripresa dal giornale della Santa Sede,
che non potendo chiudere gli occhi ricorre alla distinzione tra «salute di fondo» e
fenomeni visibili (OR, 24 dicembre 1976). Ma se così fosse, la diagnosi dello
stato della Chiesa sarebbe funzione di un giudizio per così dire esoterico, di cui è
incapace il senso comune della Chiesa e del mondo. Ora, se è vero che il
substrato della Chiesa è un principio invisibile che opera azioni per sé invisibili
nel fondo delle coscienze, è altresì vero che quell’invisibile essendo nella storia,
apparisce nell’ordine dei fatti. La Chiesa, in quanto è nel mondo, è nell’ordine
del visibile, è come il regno di Francia, diceva il Bellarmino. Io non dirò certo
della Chiesa contemporanea quel che del mondo romano marcescente diceva
Tacito (Germ., 19), che cioè «corrumpere et corrumpi seculum vocatur»137, ma
nemmeno farò quel che le bibliche origi le quali, sin cadute dentro le reti,
tenevano animo confidente ignorando volenti la propria prigione (Isai., 51, 20).
CAPITOLO VII LA CRISI DEL SACERDOZIO

79. La defezione dei sacerdoti. – Contro il fatto della defezione dei preti
statisticamente provato138 e dappertutto appariscente, non poté molto la
repugnanza paolina alla tristezza per i fatti tristi della Chiesa. In due discorsi
Paolo VI entrò nell’argomento spinoso e doloroso. Nell’allocuzione del giovedì
santo del 1971 rievocando il dramma pasquale dell’uomo-Dio, disertato dai
discepoli e tradito dall’amico, il Papa fece transizione da Giuda all’apostasia dei
preti. Premise che «bisogna distinguere caso da caso, bisogna comprendere,
bisogna compatire, bisogna perdonare, bisogna attendere, e sempre bisogna
amare». Ma poi chiamò i defezionanti o apostatanti «infelici o disertori», parlò
di «vili motivi terreni» che li guidano, deplorò la loro «mediocrità morale che
vorrebbe trovare naturale e logico infrangere una propria promessa lungamente
premeditata» (OR, 10 aprile 1971). Il cuore del Papa è affannato dall’evidenza
dei fatti e non potendo togliere reità all’apostasia, la decolora alquanto, dicendo
per esempio «infelici o disertori». Ma chi non vede che la diserzione non è in
alternativa con l’infelicità e che i lapsi sono infelici perché disertori?

Parlando al clero romano in febbraio del 1978 delle defezioni sacerdotali il


Papa disse: «Le statistiche ci opprimono, le casistiche ci sconcertano, le
motivazioni ci impongono sì riverenza e compassione, ma ci procurano un
dolore immenso. La forza dei deboli che hanno trovato la forza di disertare il
loro impegno ci confonde». E il Papa parla di «mania di laicizzazione» la quale
«ha sconsacrato la figura tradizionale del sacerdozio» e con un processo che ha
qualche cosa di inverosimile «ha divelto dal cuore di alcuni la sacra riverenza
dovuta alla loro stessa persona» (OR, 11 febbraio 1978).

Lo sgomento del Papa deriva in parte dall’ampiezza statistica del fenomeno e


in parte dalla profondità del corrompimento che il fenomeno arguisce. Né si
tratta precipuamente del corrompimento del costume sacerdotale, in quanto violi
il celibato, giacché esso si corruppe anche in altre epoche ma senza apostasia,
bensì dell’altro corrompimento che consiste nel rifiuto delle essenze e nel
tentativo prepostero di fare del sacerdote un altro da sé, cioè un non-sacerdote,
arrogandosi tuttavia il nuovo stato l’identità del primo. È manifesto infatti che
alterando l’essenza l’identità rimane puramente vocale.

Quanto alle statistiche conviene ricordare che l’abbandono del sacerdozio


(che, come sacramentalmente ordinato, è inamissibile) avviene in due forme: o
per dispensa della Santa Sede o per arbitraria e unilaterale rottura. Questa
seconda forma non è punto una novità nella Chiesa. Nella Rivoluzione di
Francia tra il clero assermenté ventiquattromila preti su ventinovemila e ventun
vescovi su ottantatré apostatarono e dieci di questi si sposarono139. Sotto Pio X
non pochissimi deposero la talare per ragioni di fede o per desiderio di
indipendenza. Ma fino al Concilio il fenomeno rimase sporadico, ciascun caso
eccitava interesse o scandalo, e il défroqué diveniva soggetto di letteratura.

La peculiarità della defezione nella Chiesa postconciliare non è data dalla


strabocchevole moltitudine dei casi, ma dalla legalizzazione che ne ha fatto la
Santa Sede concedendo larghissimamente la dispensa pro gratia. Questa toglie al
prete di esercitare il ministero, ma lo lascia in tutti i diritti e le funzioni che
appartengono al laico, rendendo inattivo e insignificante il carattere indelebile
della ricevuta ordinazione. Se rara era la riduzione di un prete allo stato laicale
inflitta per ragion di pena, rarissima era quella concessa pro gratia per ragion di
mancato consenso, affine al defectus consensus del diritto matrimoniale. Esempi
di vescovi apostati, oltre quelli della Rivoluzione di Francia, scarseggiano nella
storia della Chiesa. Sono casi celebri il Vergerio, vescovo di Capo d’Istria, al
tempo del Tridentino; il De Dominis, arcivescovo di Spalato, sotto Paolo V; il
Seldnizky, vescovo di Breslavia, sotto Gregorio XVI e, dopo più di un secolo,
mons. Mario Radavero, ausiliario di Lima, già padre nel Vaticano II (OR, 23
marzo 1969).

80. La legittimazione canonica della defezione sacerdotale. – La novità del


fenomeno della defezione sacerdotale non sta tanto nel numero grande,
sproporzionatissimo a quello del periodo preconciliare, quanto nella variazione
del modo con cui esso vien riguardato e trattato dalla Chiesa140. Nessun fatto
invero è nella storia che, nella sua fattualità, non si trovi già nel passato. Onde
secondo un detto del commediografo latino si può ben dire Nihil est iam factum
quod non factum sit prius. Ma l’elemento rilevante e innovante è la stima morale
che ne fa la mente e soltanto questa stima è indizio dell’andamento reale della
storia.

Certo anche numericamente le defezioni sgomentano il Papa, ma la pratica


delle dispense, fattasi abituale dopo essere stata lungamente quasi nulla, ha dato
un’altra configurazione, morale e giuridica, al disimpegno sacerdotale,
levandogli il carattere di defezione che ebbe un tempo. Un altissimo personaggio
della Curia Romana, al quale toccava per officio di maneggiare tali pratiche, mi
confidava che quelle riduzioni allo stato laicale, che tra il 1964 e il 1978 si
fecero annualmente a migliaia, furono un tempo così insolite che molti, anche tra
il clero, ignoravano persino l’esistenza di un tale istituto canonico. Dalla
Tabularum statisticarum collectio del 1969 e dall’Annuarium statisticum
Ecclesiae del 1976, editi dalla Segreteria di Stato, appare che nell’orbe cattolico
in quei sette anni i sacerdoti scemarono da quattrocentotredici a
trecentoquarantatremila e i religiosi da duecentoottomila a
centosessantacinquemila. Le defezioni risultano dal medesimo Annuarium
statisticum del 1978 essere state di tremilaseicentonovanta nel 1973 e di
duemilatrentasette nel 1978. Le dispense cessarono però quasi del tutto
dall’ottobre 1978 per ordine di Giovanni Paolo II141. Se le defezioni hanno
falciato le schiere, la loro gravità risiede però nella legittimazione fattane con
quella abbondante largizione della dispensa. Il diritto canonico (can. 211-4)
stabiliva che per la riduzione allo stato laicale il chierico perde offici, benefici e
privilegi clericali, ma rimane astretto all’obbligo del celibato. Da quest’obbligo
sono sciolti (can. 214) quelli soltanto la cui ordinazione sia provata invalida per
mancanza di consenso. Ma, per quanto appare, la mancanza di consenso vien
desunta nella giurisprudenza attuale della Santa Sede non più dalle disposizioni
del soggetto nel momento dell’ordinazione, ma dalle successive esperienze di
inettezza o di scontento morale dispiegatesi nella vita del prete ordinato. È il
criterio che tentarono di introdurre nelle cause di nullità matrimoniale i Tribunali
diocesani degli Stati Uniti e che fu riprovato e troncato da Paolo VI nel 1977.
Seguendo un tale criterio il fatto medesimo che un prete chieda, in un momento
della sua vita, di ritornare allo stato laicale diviene la prova che egli era
immaturo e incapace di consenso valido già nel momento in cui si impegnò.
Rimane anche esclusa quella convalidazione del consenso invalido prevista dal
can. 214 la quale impedirebbe la concessione della dispensa. Qui come nella
giurisprudenza delle Officialità americane, è un rifiuto palliato del valore di ogni
singolo atto morale di fronte all’assoluto della legge e un’adozione inconfessata
del principio della globalità (§§ 201-3). Si spogliano di responsabilità i singoli
momenti della volontà per investirne la loro somma. Forse lo scemare delle
vocazioni sacerdotali che accompagna il crescere delle defezioni dipende, nelle
sue più profonde ragioni, da questa frivolizzazione dell’impegno che toglie al
sacerdozio quel carattere di totalità e di perpetuità che piace, coll’amaro e col
duro, alla parte più nobile dell’umana natura. Certo si è che, come disse
Giovanni Paolo II, queste defezioni sono «un anti-segno e un’anti-testimonianza
che sono stati tra i motivi di arretramento delle speranze del Concilio» (OR, 20
maggio 1979).

La crisi del clero ha dato luogo a spiegazioni che prendono al solito non
causas pro causis adducendo il sociologico e lo psicologico in luogo del morale.
L’etiologia del fenomeno è infatti eminentemente spirituale e interessa un
duplice ordine. In primo luogo e in linea puramente naturale vi ha un
abbassamento del valore della libertà, ritenuta incapace di legarsi in modo
assoluto a qualche cosa di assoluto e capace al contrario di slegare ogni legame.
È, come si intende subito, non dico l’identico, ma l’analogo del divorzio. Anche
il divorzio si fonda sull’impossibilità della libertà umana di legare sé stessa
senza condizione, cioè sulla negazione dell’incondizionato.

In secondo luogo, oltre all’indebolimento della libertà come virtù che


assolutizza il proposito e mette nell’uomo una coerenza indefettibile, vi è, in
linea soprannaturale, la flessione della fede, cioè la dubitazione circa l’assoluto
cui il sacerdote si dedica e a cui non c’è dedicazione autentica se non è de iure
assoluta. Questa flessione, che potrebbe raddrizzarsi o essere raddrizzata, venne
invece secondata in conseguenza della dispensa accordata dal Superiore. Si cade
in un circolo vizioso, credendo che la virtù venga a mancare proprio a cagione di
quello che al contrario la sosterrebbe e la reggerebbe. La pratica indultiva e
largheggiante faceva scandalo in sé medesima come sintomo di debolezza
morale e di scemato senso della dignità personale, e faceva scandalo anche
paragonata alla condizione dei laici annodati all’indissolubilità del matrimonio.
La pratica fu tosto troncata da Giovanni Paolo II. Inoltre la Congregazione per la
dottrina della fede con un documento in data 14 ottobre 1980, pubblicato in
«Documentation catholique», n. 566, ottobre 1980, oltre che in «Esprit et vie»,
1981, p. 77, promulgò una disciplina restrittiva che riduce a due soli capi i
motivi di dispensa, cioè il difetto di consenso all’atto dell’ordinazione e l’errore
del Superiore nell’atto di ammettere all’ordinazione.

81. Tentativi di riforma del sacerdozio cattolico. – I molteplici tentativi di


riformare il sacerdozio, risonanti nel gigantesco apparato di megafoni
dell’opinione pubblica, non hanno nemmeno un fumus di novità, poiché
ricorrono del continuo nella storia della Chiesa, proposti generalmente con
consapevole spirito eterodosso, dai Catari agli Hussiti a Lutero, ma talora con
ingenua aberrazione di fede, come nel celebre cardinale Angelo Mai, minor
teologo che filologo142, il quale avrebbe voluto concessa a tutto il clero la facoltà
di chiedere lo scioglimento dall’ordine sacro a ogni età. Tutti i motivi subiacenti
alla riforma del sacerdozio si risolvono nel rifiuto delle essenze e nella spinta a
trasgredire il limite che circoscrive le essenze e, circoscrivendo, le determina e le
fa essere.

Si lamenta che il sacerdote viva in uno stato di inferiorità e di imperfetta


responsabilità e si chiede di «restituirgli la facoltà di determinare la propria
situazione» concedendogli, per esempio, la facoltà di contrarre matrimonio, di
lavorare in officina, di pubblicare libri, di manifestare le proprie opinioni143.
Quest’ultima rivendicazione nega i fatti, giacché la parresia del clero cattolico
non è mai stata così ampia e facile e risonante. Possono i preti pubblicare libri
(senza previa licenza del loro vescovo), emanare dichiarazioni, tenere convegni
di contestazione, parlare alla radio e alla televisione, scendere nelle strade a
manifestare contro i decreti del Papa, mescolarsi con i miscredenti e figurare a
pari nelle loro adunanze. L’allentamento della disciplina canonica è diventato
sùbito attuoso e fruttuoso.

E conviene rilevare per giunta che molti preti, sotto il coperto dell’autorità
che vien loro dall’ordinazione, predicano come kerygma evangelico e come
dottrina della Chiesa fluttuanti e meteore opinioni proprie, predicano cioè sé
stessi o qualcosa di sé stessi. Consumano in tal modo un abuso tipicamente
clericalesco e ben noto nella storia, esercitato un tempo per effetto di confusione
del politico col religioso, ma oggidì per effetto di distacco dalla dottrina e con la
mira di riformare il dogma e dislocare le strutture della Chiesa.

Non soltanto dunque hanno i preti l’autorità che loro compete in forza
dell’ordinazione, ma essi in actu exercito la ampliano oltre misura arrogando al
loro ministero un’autorità indebita con cui tentano rivestire le loro private
opinioni.

Conviene osservare inoltre che la rivendicazione del prete per una più ampia
facoltà «a determinare la propria situazione» (ma qual uomo mai lo può?)
arguisce una debilitazione della fede e del conseguente senso della dignità
sacerdotale. Chi ha il potere di produrre sacramentalmente il corpo del Signore e
di rimettere i peccati, mutando il cuore degli uomini, come può sentirsi minore e
non pienamente responsabile, senza patire oscurazione d’intelletto ed ecclissi
della fede? Questo sentimento di inferiorità nasce dall’essersi il prete spogliato
del senso essenziale del sacerdozio, che è di dare il sacro agli uomini, e dal
prendere lo stato sacerdotale alla stregua di ogni altro stato, come quello cioè in
cui l’uomo ricerca la propria realizzazione e la propria promozione nel mondo.

82. Critica della critica del sacerdozio cattolico. Don Mazzolari. – Dicono: il
prete soffre perché è in mezzo a un mondo indifferente e ostile che non si apre
alla sua azione e che gli passa accanto senza incontro. In verità il motto del
Salmista con cui fu inaugurato il Concilio Vaticano I non si conviene al prete
contemporaneo: «Euntes ibant et flebant mittentes semina sua, venientes autem
venient cum exsultatione portantes manipulos suos» (Ps., 125, 6)144. I preti del
presente secolo piangono seminando e piangono tornando, perché non ci sono
per loro i manipoli che allietano il cuore. Certo la posizione del prete è difficile,
ma è una difficoltà primordiale e costitutiva, né gli Apostoli ne ebbero altra né
altra fu promessa loro. Ed è cosa che stride il fare una querela speciale di questa
dissidenza tra il sacerdozio e il mondo, mentre poi si accusano di trionfalismo i
secoli di grande fede in cui tale dissidenza non era sentita a questo modo, non
perché non ci fosse, ma perché era assorbita nell’armonia generale del mondo
umano.
Don Mazzolari osserva che «il prete soffre di dover predicare parole che sono
più alte della sua vita e che lo condannano». Ma questa è la condizione
costitutiva non solo del prete, ma di ogni uomo, di fronte alla legge morale,
nonché alla legge evangelica. Basta riconoscere la distinzione tra l’ordine ideale
e l’ordine reale (necessaria alla moralità giacché la moralità è l’unione
tendenziale di quei due ordini) per riconoscere che nessuno può predicare le
verità morali a titolo personale; di nessuno la virtù pareggia l’altezza della
dottrina. Appoggiare la predicazione morale altrove che sul titolo della verità
supporrebbe di voler misurare la validità della predicazione dalla perfezione del
predicante (come portava l’eresia di Huss). Così la predicazione diventerebbe
impossibile. Se il titolo del prete per predicare fosse un’altezza morale
pareggiante la dottrina, ogni prete, anche il più santo, si asterrebbe dal predicare.
Invece «è necessario che molti, che tutti predichino una morale superiore ai loro
fatti. Il ministero... fa che uomini deboli e che in fatto cedono talvolta alle
passioni, predichino una morale austera e perfetta. Nessuno può tacciarli di
ipocrisia, perché parlano per missione e per convincimento, e confessano
implicitamente e talvolta esplicitamente d’essere lontani dalla perfezione che
insegnano... Accade purtroppo talvolta che la predicazione discende al livello dei
costumi, ma questo è un inconveniente: senza il ministero sarebbe un
sistema»145. L’inadeguanza dunque che è nella vita del sacerdote è solo un caso
dell’inadeguanza che è nella vita di tutti gli uomini rispetto all’ideale. E la
conseguenza che se ne deve trarre è l’umiltà, non l’angoscia della superbia.

D’altronde anche la parte dell’uomo che è prete non scompare, giacché


nell’esercizio del ministero si dispiegano senza impedimento tutti i talenti, tutto
lo zelo, tutti i valori dell’individuo, tutto quello insomma che costituisce il
merito. Non sono forse nella storia della Chiesa infinite escogitazioni di
bellezza, imprese di carità, opere di dottrina, che danno uno spazio larghissimo
all’attuazione della persona, anche se non le è dato di predicare sé stessa? Dove
è accaduto così frequentemente come nella Chiesa che dal nome di un individuo
venissero a chiamarsi intere corporazioni di uomini accomunati nelle
persuasioni, nei fini, nelle opere?

83. Sacerdozio universale e sacerdozio ordinato. – Il πρῶτον ψεῦδος della


critica che si muove al sacerdozio storico della Chiesa, che è poi il sacerdozio
come tale, consiste nel misconoscere le essenze e tutto ricondurre a funzione di
puro tipo umano. Il dogma cattolico ravvisa nel sacerdozio una differenza non
solo funzionale ma di essenza tra il prete e il laico, differenza ontologica dovuta
al carattere impresso nell’anima dal sacramento dell’ordine. La teologia
neoterica invece, ravvivando antiche istanze ereticali confluite poi
nell’abolizione luterana del sacerdozio, occulta il divario esistente tra il
sacerdozio universale dei fedeli battezzati e il sacerdozio sacramentale dei soli
preti. Nel battesimo l’uomo viene aggregato al corpo mistico di Cristo e
consacrato al culto divino mediante partecipazione al sacerdozio di Cristo, il solo
che prestò a Dio il debito culto in modo perfettissimo. Ma sopra il carattere
battesimale il prete riceve nell’ordinazione un ulteriore carattere che è come la
reimpressione del primo. Grazie all’ordinazione egli diventa capace di atti in
persona Christi, di cui i laici sono incapaci. Primi fra tutti sono l’atto che
produce la presenza eucaristica e l’atto che rimette i peccati. Ora la tendenza
della teologia neoterica è il dissolvimento del secondo sacerdozio nel primo e la
riduzione del prete allo statuto comune del cristiano. Il prete ha, secondo i
neoterici, una funzione speciale come l’ha ciascun cristiano nella differenziata
compagine della Chiesa. Questa funzione speciale è deputata al prete dalla
comunità e non implica nessuna differenza ontologica rispetto al laico, «né il
ministero deve essere considerato come qualche cosa di superiore» (CIDS, 1969,
p. 488). Allora «la dignità del prete consiste nell’essere stato battezzato come
ogni altro cristiano» (CIDS, 1969, p. 227). Si nega così la distinzione delle
essenze, rifiutando il sacerdozio sacramentale e facendo del corpo organico e
differenziato della Chiesa un corpo omogeneo e informe146.

Nel libro di R. S. Bunnik, che bene manifesta il pensiero dominante nella


Chiesa olandese e nei suoi istituti di formazione teologica147, la tesi è svolta ex
professo. «Il sacerdozio universale si impone come una categoria di base del
popolo di Dio, mentre il ministero particolare non è che una categoria
funzionale», ed è «una necessità sociologica emanante dal basso». Dall’essere il
sacerdozio universale la base del particolare (lo è, perché l’ordinando deve
essere battezzato) il teologo olandese passa a negare che l’ordinazione metta
nell’uomo un’altra base da cui emanano atti impossibili alla base battesimale, la
quale per certi atti dà una capacità attiva, ma per certi altri soltanto una capacità
passiva, come quella di ricevere l’eucaristia e l’ordine sacro.
Il paralogismo circa il sacerdozio si gemina col paralogismo circa la
posizione della Chiesa nel mondo. Infatti «la Chiesa del Concilio» dice «scopre
progressivamente che in ultima istanza la Chiesa e il mondo compongono una
sola e medesima realtà divina». Ecco le essenze disciolte e poi confuse: prima
quella di sacerdozio ordinato confusa con quella del sacerdozio battesimale, poi
quella della Chiesa soprannaturale teandrica confusa con la società universale
del genere umano indifferenziato.

84. Critica dell’adagio “il prete è un uomo come tutti gli altri”. – Ma la
confusione teologica è diventata un luogo comune della opinione popolare,
causa in parte e in parte effetto delle dottrine di taluni autori molto diffusi.
Questa opinione tiene che il prete è un uomo come tutti gli altri. L’asserto è
superficiale e falso tanto in linea teologica quanto in linea storica. In linea
teologica, perché urta contro il dogma del sacramento dell’ordine, che alcuni
cristiani ricevono e altri no, differenziandoli ontologicamente e, per
conseguenza, funzionalmente. In linea storica, nella comunità civile non tutti gli
uomini sono eguali, tranne che nell’essenza quando la si riguardi in astratto e
non in concreto dove essa trovasi differenziata. Dire: il prete è un uomo come
tutti gli altri (non preti) è altrettanto anzi molto più falso che dire: il medico è un
uomo come tutti gli altri (non medici). No, non è un uomo come tutti gli altri, è
un uomo-prete. Non tutti sono uomini-preti come non tutti sono uomini-medici.
Basta badare a quel che la gente fa, per accorgersi che tutti fanno differenza tra
un medico e un non-medico, tra un prete e un non-prete. In qualche frangente
chiamano il medico, in qualche altro il prete. I neoterici fissandosi sull’identità
astratta della natura umana rigettano il carattere soprannaturalmente speciale che
il sacerdozio introduce nella specie umana e per il quale il prete è separato:
«Segregate mihi Saulum et Barnabam» (Act., 13, 2).

Da questo errore discendono i corollari pratici più appariscenti. Il prete deve


oggi applicarsi al lavoro manuale, perché soltanto nel lavoro può compiere la
propria individuale destinazione e inoltre prendere conoscenza dell’umana realtà
in cui leggere il disegno di Dio sul mondo. Qui si prende il lavoro come fine
dell’uomo o condizione sine qua non del fine, abbassando la contemplazione e il
patimento sotto la produttività utilistica. Il sacerdote inoltre, essendo un uomo
come tutti gli altri, rivendicherà il diritto al matrimonio, alla libertà del vestito,
alla partecipazione attiva alle lotte sociali e politiche; così entrerà nella lotta
rivoluzionaria che prende il fratello, sia pure ingiusto, come un nemico contro
cui lottare.

Che il prete sia segregato dal mondo è lamento infondato. In primo luogo
perché egli è separato, come il Cristo separò gli apostoli suoi, proprio per essere
mandato nel mondo. E il plus che l’ordinazione sacramentale mette nell’uomo
separato era fino a tempi recenti così noto a tutti che fin le locuzioni popolari, in
lingua e in vernacolo, lo attestano. Distinguono infatti l’uomo-sacerdote dal suo
sacerdozio e si guardano dall’offendere il sacerdote anche quando vogliono
offendere l’uomo e tengono separato l’uomo dalla veste (presa come segno del
sacerdozio) e da «quello che egli ministra», il sacro appunto.

In secondo luogo la separazione del clero dal mondo nel senso lamentato dai
neoterici non trova nessun suffragio nella storia. Tanto il clero detto secolare
quanto quello regolare sono separati dal mondo ma dentro il mondo. E a provare
vittoriosamente che quella separazione dal mondo non rende il clero estraneo al
mondo basta il fatto che proprio il clero regolare, cioè quello più separato dal
secolo, l’uomo del chiostro, è quello che più potentemente operò l’influenza
religiosa non solo, ma l’influenza civile nel mondo. Informò la civiltà per secoli,
anzi addirittura la partorì, avendo nel suo grembo originato le forme della cultura
e del vivere civile, dall’agricoltura alla poesia, dall’architettura alla filosofia,
dalla musica alla teologia. Per riprendere l’immagine abusata e collocarla nel suo
significato legittimo, il clero è il fermento che lievita la pasta ma non però si fa
pasta. Anche secondo i chimici gli enzimi contengono un principio antagonistico
verso la sostanza che fanno fermentare.
CAPITOLO VIII LA CHIESA E LA GIOVENTÙ

85. Variazione della Chiesa postconciliare di fronte alla gioventù.


Delicatezza dell’opera educativa. – Anche altre parti della realtà umana guarda
la Chiesa dopo il Concilio con sguardo diverso. Della nuova considerazione che
essa fa dell’età giovanile era già un segno indiretto la deminutio capitis inflitta
all’età senile nella Ingravescentem aetatem di Paolo VI. Ma altri documenti
esprimono direttamente la nuova veduta.

Nella filosofia, nella morale, nell’arte e nel senso comune, ab antiquo sino ai
nostri tempi, la gioventù fu riguardata come una età d’imperfezione naturale e
d’imperfezione morale. Sant’Agostino che nel sermone Ad iuvenes scrive «flos
aetatis, periculum tentationis» (P.L., 39, 1796), insistendo poi sull’imperfezione
morale, giunge a chiamare stoltezza e follia il desiderio di repuerascere. Per la
labilità della non rassodata ragione il giovane è «cereus in vitium flecti» (Orazio,
Ars poet., 163)148 e la sua minorità chiama un reggitore, un ammonitore e un
maestro. Gli occorre infatti un lume per riconoscere la destinazione morale della
vita e un soccorso pratico per trasformarsi e modellare la naturale inclinazione
della persona sull’ordine razionale. Questo concetto misero a fondamento della
pedagogia cattolica tutti i grandi educatori da Benedetto di Norcia a Ignazio di
Loyola, da Giuseppe Calasanzio a Giovanni Battista de Lasalle e a Giovanni
Bosco. Il giovane è un soggetto in possesso della libertà e deve essere formato
ad esercitare la libertà in guisa che, eleggendo l’adempimento del dovere (la
religione non dà alla vita altro scopo), si determini da sé stesso a quell’unum per
eleggere il quale appunto è data la libertà. La delicatezza dell’azione educativa
deriva dall’avere come oggetto un essere che è un soggetto e come fine la
perfezione di esso soggetto. È insomma un’azione sopra la libertà umana che
non limita, ma produce libertà. Per questo rispetto l’azione educativa è
un’imitazione della causalità divina la quale, secondo la teorica tomistica149,
produce l’azione libera dell’uomo proprio inquanto libera.

L’atteggiamento della Chiesa verso la gioventù non può dunque prescindere


dall’opposizione dei correlativi che sono l’imperfetto di fronte al perfetto
(relativamente, s’intende), dell’insciente e perciò discente di fronte allo sciente
(relativamente, s’intende). Non può insomma mettere da un canto la differenza
tra le cose e trattare i giovani come maturi, i proficienti come perfetti, i minori
come maggiori e in ultima analisi (ritorna il πρῶτον ψεῦδος) il dipendente come
indipendente.

86. Carattere della gioventù. Critica della vita come gioia. – La profonda
teorica tomistica della potenza e dell’atto scorta lo studioso dei fatti umani anche
nel punto della gioventù, sorreggendolo nella ricerca delle note essenziali di
questa età della vita e preservandolo dallo sviamento a cui spingono le opinioni
dominanti.

La gioventù essendo la vita incipiente, bisogna che essa si rappresenti e che


le venga rappresentato l’intero della vita, cioè il fine in cui la virtualità
dell’incipiente deve adempirsi, la forma in cui la potenza ha da spiegarsi. La vita
è difficile o, se si vuole, seria. In primo luogo perché l’uomo è una natura
debole, urtante con la sua finitudine nel finito degli altri uomini e nel finito delle
cose, che tendono ad invadersi vicendevolmente. In secondo luogo (e questo è
un dato di fede cattolica) l’uomo è guasto e incline al male. E le propensioni
malvagie fanno che la condizione dell’umana vita, tirata da opposti motivi, sia
una condizione di milizia, anzi di guerra, anzi di assediati. La vita è difficile e le
cose difficili sono le cose interessanti, perché interessante è quello che sta dentro
l’essenza (interest) che è data come potenza e che vuol venir fuori ed esplicarsi.
L’uomo non deve, come si suol dire, realizzarsi, ma realizzare i valori per cui è
fatto e che esigono che egli si trasformi. Ed è curioso che mentre la teologia
postconciliare frequenta il vocabolo metànoia, che vuol dire trasformazione della
mente, faccia poi tanta forza sulla realizzazione di sé stesso. Seguire la pendenza
è dolce, osteggiare il proprio io per modellarlo è aspro. Tale asprezza fu
riconosciuta nella filosofia, nella poesia gnomica, nella politica, nel mito. Ogni
bene si acquista o si conquista a prezzo di fatica. Gli dèi, dice il sapiente greco,
hanno messo il sudore tra noi e la virtù, e Orazio: «multa tulit fecitque puer,
sudavit et alsit» (Ars poet., 413)150. Che l’umana vita è combattimento e fatica,
era un luogo comune dell’educazione antica e ne divenne il simbolo la lettera
ipsilon, non quella dai due bracci ugualmente declivi, ma quella pitagorica con
un braccio erto e l’altro flessuoso ( ). L’antichità ne formò anche la favola
divulgatissima di Ercole al bivio.

Oggi la vita è presentata ai giovani irrealisticamente come gioia, prendendo


la gioia in isperanza, che serena l’animo in via, per la gioia piena che la appaga
soltanto in termino. La durezza dell’umano vivere, dipinto un tempo nelle
orazioni più frequentate come valle di lacrime, viene negata o dissimulata. E
poiché con quello scambio la felicità viene figurata come lo stato proprio
dell’uomo e dunque dovuto all’uomo, l’ideale è di preparare ai giovani una
strada «secura d’ogn’intoppo e d’ogni sbarro» (Purg., XXXIII, 42). Perciò ai
giovani pare ingiustizia ogni ostacolo da saltare e lo sbarro è riguardato non
come prova, ma come scandalo. Gli adulti hanno ripudiato l’esercizio
dell’autorità per voler piacere, giacché credono non potere essere amati se non
carezzino e non piacciano. Conviene loro il monito del Profeta: «Vae quae
consuunt pulvillos sub omni cubito manus et faciunt cervicalia sub capite
universae aetatis» (Ezech., 13, 18)151.

87. I discorsi di Paolo VI ai giovani. – Tutti i motivi di questo giovenilismo


del mondo contemporaneo, partecipato dalla Chiesa, si uniscono nel discorso di
aprile 1971 a un gruppo di hippies concorsi a Roma a manifestare per la pace. Il
Papa rileva con lode «i valori segreti» che i giovani vanno cercando e li
enumera. E primo la spontaneità, che al Papa non sembra in contraddizione con
la ricerca, benché una spontaneità ricercata cessi di essere spontaneità. Non gli
sembra molto in contraddizione nemmeno con la moralità, benché questa,
essendo intenzionalità consaputa, si sovrapponga alla spontaneità e possa
contraddirle. Il secondo valore della gioventù è «la liberazione da certi vincoli
formali e convenzionali». Il Papa non precisa quali siano. D’altronde le forme
sono l’apparire delle sostanze, sono la sostanza medesima nel suo apparire, cioè
nel suo entrare nel mondo. E le convenzionalità sono le convenienze, cioè i
consensi, e sono buone se sono consensi in cose buone.

Il terzo è «la necessità di essere sé stessi». Ma non si chiarisce qual è l’Io che
il giovane deve attuare e in cui riconoscersi: ve n’è infatti una pluralità in una
natura libera, trasmutabile in tutte guise. L’Io vero esige non che il giovane si
realizzi comunque, ma che egli si trasformi e diventi persino un altro da sé.
D’altronde la parola del Vangelo non ammette chiosa: «abneget semetipsum»
(Luc., 9, 23). Il Papa medesimo aveva il giorno prima esortato alla metanoia.
Dunque: realizzarsi o trasformarsi?

Il quarto è lo slancio «a vivere e interpretare il proprio tempo». Il Papa


tuttavia non porge ai giovani la chiave interpretativa del proprio tempo e non
rileva che, per la religione, nell’effimero del proprio tempo l’uomo ha da
ricercare il non effimero, cioè il fine ultimo che permane attraverso tutto
l’effimero. Così, avendo svolto il discorso senza alcuna esplicitazione religiosa,
Paolo VI conclude un po’ inopinatamente: «Noi pensiamo che in questa vostra
interiore ricerca voi avvertiate il bisogno di Dio». Certo il Papa parla qui
opinativamente e non magistralmente.

La semiologia della gioventù che il Papa fece nel discorso del 3 gennaio
1972 è ancora più scopertamente antitetica a quella tradizionale cattolica. Vi
sono descritti come qualità positive il naturale distacco dal passato, il facile
genio critico, l’antiveggenza intuitiva. Questi caratteri non convengono punto
alla vera psicologia della gioventù, e non sono positivi. Lo staccarsi dal passato è
un’impossibilità morale, storica e religiosa: basta dire che per il cristiano tutta la
vita e l’impegno di vita dipendono dal battesimo, che è un antecedente, e il
battesimo dalla famiglia, che è un antecedente, e la famiglia dalla Chiesa, che è
un antecedente massimo. Che la gioventù abbia genio critico, cioè giudizio
discernitivo, è difficile sostenere, se si riconosce il divenire nella formazione
dell’uomo, se si distingue il momento immaturo da quello maturo, e se si
ammette che il soggetto si trova primitivamente in una situazione in cui deve
divenire quello che ancora non è. L’antiveggenza infine è cosa novissima nella
psicologia, la quale ha sempre ravvisato nel giovane un «tardus provisor»
(Orazio, Ars poet., 164), uno cioè che vede tardivamente non pure gli eventi del
mondo, ma anche l’utile proprio. Infatti «temeritas est florentis aetatis, prudentia
senescentis» (Cicerone, De senectute, VI, 20).

Ma l’entusiasmo per Ebe spinge il Pontefice a proclamare che «i giovani


sono all’avanguardia profetica della causa congiunta della giustizia e della
pace», perché «prima e più degli altri hanno il senso della giustizia», e «gli
adulti sono con loro», questi come triarii, i giovani come πρόμαχοι.

Non è difficile scorgere nel discorso giovineggiante di Paolo VI alla Città dei
ragazzi un singolare rovesciamento delle nature, onde chi deve seguire è seguito
e l’immaturo è di esempio al maturo. L’attribuzione alla gioventù di un senso
innato della giustizia non ha riscontro in nessuna semiologia cattolica. Certo la
commozione dell’animo, contagiato dalla temperie giovanile, fece declinare il
Papa verso una sorta di dossologia della gioventù. È questa stessa declinazione
all’entusiasmo efebico che in altra occasione lo trasse a mutar la lettera del sacro
testo, leggendo «i giovani» dove sta scritto «i fanciulli» (Matth., 21, 15) in
appoggio all’asserto che «è la gioventù che intuì la divinità di Cristo» (OR, 12
aprile 1976).

88. Ancora del giovenilismo nella Chiesa. I vescovi svizzeri. – A dimostrare


che il culto di Ebe non è un fatto papale soltanto, ma diffuso in tutti gli ordini
della Chiesa, non citerò opere di chierici e di laici, che sono quasi infinite, bensì
un documento della Conferenza episcopale elvetica per la festa nazionale del
1969. Vi si dice che «la contestazione giovanile porta avanti valori di autenticità,
di disponibilità, di rispetto dell’uomo, di insofferenza della mediocrità, di
denuncia dell’oppressione, valori che a ben guardare si incontrano col Vangelo».

È facile notare che i vescovi elvetici peccano di indeterminatezza logica.


L’autenticità, in senso cattolico, non consiste già nel porsi come naturalmente si
è, ma nel farsi come si deve essere, cioè ultimamente nell’umiltà. La
disponibilità poi è per sé adiafora e si qualifica come buona soltanto dal bene cui
l’uomo si rende disponibile. Il rispetto dell’uomo esclude il disprezzo del
passato dell’uomo e il ripudio della Chiesa storica. L’insofferenza della
mediocrità, oltre che mancare di determinatezza (mediocrità in che cosa?) è
contro la saggezza antica, contro la virtù di contentamento e contro la povertà di
spirito. Che poi «siamo in presenza di nuovi traguardi umani e religiosi» è
affermazione che privilegia il nuovo perché nuovo e dimentica non esserci altra
creatura nuova oltre quella ri-fondata dall’uomo-Dio, né altri traguardi che quelli
da lui prescritti. Vedi i §§ 53 e 54. Quando poi i vescovi si avanzano a indicare i
giovani «come un segno dei tempi e come la voce stessa di Dio» all’intera
cristianità contemporanea, quel composto di parole è assurdo per la smisuratezza
dell’adulazione ed ancor più assurdo che vox populi vox Dei, perché fa di un
moto per gran parte irriflesso un organo della divina volontà e quasi un testo
della divina Rivelazione. Anche il lodare «che i giovani vogliano essere
protagonisti» urta contro il principio cattolico dell’umiltà e dell’obbedienza,
giacché la Chiesa non è dei soli giovani né tutti possono primeggiare: questo
protagonismo misconosce la parte degli altri. Riconoscere gli altri è il principio
della religione nonché della giustizia.

Concludendo questa analisi dell’atteggiamento nuovo del mondo e della


Chiesa verso la gioventù, noteremo che anche qui si è consumata un’alterazione
semantica e che i termini paterno e paternalistico son diventati termini di
disprezzo, come se l’educazione del padre, come padre, non fosse esercizio
eccellente di saggezza e di amore, e come se non fosse paterna tutta la pedagogia
con cui Dio educò il genere umano nella via della salvezza. Ma chi non vede che
in un sistema, in cui il valore si fa poggiare sull’autenticità e sul rifiuto di ogni
imitazione, il primo rifiuto è il rifiuto della dipendenza paterna? Il vero,
oltrepassando gli ipocorismi di chierici e di laici, si è che la gioventù è uno stato
di virtualità e di imperfezione che non si può possedere come stato ideale né
prendere come modello. Inoltre la gioventù vale come avvenire e speranza
dell’avvenire, talmente che realizzandosi l’avvenire essa scema e si perde. La
favola di Ebe si converte nella favola di Psiche. Anzi, se si divinizza la gioventù,
la si getta al pessimismo, perché le si fa desiderare di perpetuarsi, mentre non si
può. La gioventù è un progetto di non-gioventù e l’età matura non deve
modellarsi su di essa, ma sulla saggezza maturata. Del resto nessuna età della
vita ha per modello al proprio divenire un’età della vita, né la propria né l’altrui.
Il modello infatti di ciascuna è dato dall’essenza deontologica dell’uomo, la
quale è da ricercare e vivere, identica, in ciascuna età della vita. Anche qui lo
spirito di vertigine fa voltare il dipendente verso l’indipendenza e l’insufficiente
verso l’autosufficienza.
CAPITOLO IX LA CHIESA E LA DONNA

89. Chiesa e femminismo. – L’accomodazione della Chiesa al mondo


manifestatasi nell’idoleggiare la gioventù, si manifesta pure nel secondare il
femminismo che si pone, quale fu negli esordii, come sistema di emancipazione
e agguagliamento integrale della donna rispetto all’uomo. Il secondamento non
poté però andare sino alla parità nel sacerdozio per ragioni che restano
propriamente dogmatiche, giacché la tradizione (che è fonte dogmatica)
perpetuamente la esclude e l’esclusione è di diritto positivo divino. Sul punto
della promozione della donna il messaggio del Concilio alle donne dell’8
dicembre 1965 era stato molto riservato. Asseriva bensì «essere venuta l’ora in
cui la vocazione della donna si compirà nella pienezza», ma questa vocazione
era delineata nel modo tradizionale come «cura del focolare, amore della vita,
senso della culla». Il messaggio esortava addirittura: «Trasmettete ai vostri figli e
alle vostre figlie le tradizioni dei vostri padri». Era molto chiaro il merito della
Chiesa la quale «è fiera di avere esaltato e liberato la donna, d’aver fatto
risplendere nel corso dei secoli, nella diversità dei caratteri, la sua eguaglianza
fondamentale cogli uomini». Lo sviluppo postconciliare uscì in generale da
questi termini plaudendo non più alla conservazione dei valori tradizionali, bensì
agli impulsi di emancipazione e di eguaglianza.

L’impossibilità del sacerdozio di donne fu, come ogni altro principio della
fede e del costume, confermato con forza da Paolo VI nella lettera al Primate
anglicano (OR, 21 agosto 1971), ma per quella breviatio manus che dicemmo
caratterizzare il pontificato paolino (§ 65), la rivendicazione femministica non fu
né avversata né contenuta efficacemente. Il III Congresso mondiale per
l’apostolato dei laici svoltosi a Roma in ottobre 1967, tra altre istanze
dottrinalmente erronee e dissimulate dal giornale della Santa Sede come
«costatazione di fatto del sentimento dei laici», formulò il voto «perché un serio
studio dottrinale determinasse il posto della donna nell’ordine sacramentale»
(OR, 21 ottobre 1967). In Francia una Association Jeanne d’Arc persegue come
scopo il sacerdozio della donna, mentre negli Stati Uniti sussiste e opera, senza
scandalo dell’episcopato, una Convenzione nazionale delle religiose americane
che domanda l’ordinazione di femmine. La protervia del movimento si palesò,
con stupore del mondo, in occasione della visita di Giovanni Paolo II in
America, quando suor Teresa Kane, presidente della Convenzione, affrontò
all’improvviso il Sommo Pontefice rivendicando il diritto delle donne al
sacerdozio e invitando i cristiani a cessare ogni aiuto alla Chiesa finché tale
diritto non sia riconosciuto (ICI, n. 544, 1979, p. 41). Anche alla Conferenza
internazionale della donna tenutasi a Copenhagen il vescovo Cordes, delegato
della Santa Sede, dichiarò che «la Chiesa cattolica si rallegra ormai della sete di
una vita pienamente umana e libera che è all’origine del gran movimento di
liberazione della donna», lasciando intendere che «dopo duemila anni di
cristianesimo questa vita pienamente umana le era stata troppo spesso rifiutata.
Infatti non si può ancora dire che la donna sia accolta come il Creatore e il Cristo
l’hanno voluta, cioè per sé stessa, come una persona umana pienamente
responsabile» (OR, ed. francese, 12 agosto 1980). La vena femminista ripullula
nella Chiesa in ostentazioni anche clamorose come quella della presidente della
Gioventù cattolica della Baviera, la quale durante la visita di Giovanni Paolo II
rinnovò il gesto dell’americana (RI, 1980, p. 1057).

Due tratti del pensiero neoterico si delineano chiaramente nel movimento:


primo, l’adozione di vocaboli propri del femminismo; secondo, la denigrazione
della Chiesa storica.

Giovanni Paolo II parlando a un vasto uditorio femminile condivide la veduta


storica propria del femminismo: «È triste vedere come la donna nel corso dei
secoli sia stata tanto umiliata e maltrattata» (OR, 1 maggio 1979). E poiché
queste parole investono (sembra) anche i secoli cristiani, l’OR del 4 maggio
entrava a tentare una distinzione difensiva, addossando non alla Chiesa, ma
all’incoerenza dei cristiani quella asserita ingiustizia e vessazione contro la
donna. L’effugio peraltro non riesce, giacché in secoli in cui l’intera civiltà era
informata allo spirito e alle prescrizioni della Chiesa, non si può togliere a questa
la responsabilità dei fatti di quei secoli (dico dei fatti generali), come invece si
può legittimamente togliergliela oggi, quando la società nel suo insieme ha
defezionato dalla religione e la impugna. Ed è cosa singolare che mentre si vuol
discolpare la Chiesa di cose ree del passato, la si incolpi invece di una crisi che è
nata proprio dalla defezione del mondo moderno dalla Chiesa (§ 55).
La verità storica vieta di secondare la denigrazione della Chiesa, anzi obbliga
a impugnarla. Il primo grande movimento muliebre organizzato fu nel nostro
secolo l’Azione cattolica femminile suscitata da Benedetto XV che nell’udienza
datale nel 1917 ne delineava con perspicuità le ragioni e i fini: «Le mutate
condizioni dei tempi hanno allargato il campo dell’attività muliebre: un
apostolato in mezzo al mondo è succeduto per la donna a quell’azione più intima
e ristretta che essa prima svolgeva tra le pareti domestiche».

Dirimpetto a tutte le civiltà antiche, le quali col dispotismo maschile, la


prostituzione sacra, il ripudio quasi ad libitum, tenevano la donna nell’abiezione,
solo il cristianesimo emancipò la donna da quelle esecrabili servitù, santificando
e rendendo inviolabili le nozze, sancendo la parità soprannaturale di maschio e
femmina, elevando insieme la verginità e il matrimonio e infine (fastigio
inimmaginabile all’uomo) mitriando e incoronando la specie umana sopra sé
stessa nell’esaltazione della donna madre di Dio.

Il diritto perpetuo e inviolabile della donna nel matrimonio, diritto emanante


dall’indissolubilità, fu difeso dai Romani Pontefici contro il dispotismo
mascolino in occasioni clamorose. Che nelle celebri cause di Lotario imperatore,
di Filippo Augusto (è memorabile il grido di Ingeburga «Mala Francia, mala
Francia! Roma, Roma!»), di Enrico IV di Francia, di Enrico VIII d’Inghilterra,
di Napoleone, accanto alla principal ragione religiosa dell’indissolubilità
operassero concorrentemente e subordinatamente o controoperassero riguardi
politici io non lo negherò. Ma erano appunto concause subordinate, ad esse
sempre sovrastava il principio fortissimo della parità dei sessi nel coniugio. Non
vi ha nella storia esempio alcuno, fuori della Chiesa romana, di sacerdozio
insorgente con tutta la sua morale potenza a difesa del diritto di una donna.

90. Critica del femminismo. Il femminismo come mascolismo. – Vi è una


parte della variazione avvenuta nel costume e nell’assetto del mondo moderno,
la quale, come necessaria conformazione del principio cattolico alle mutevoli
accidentalità storiche, non può non ribattersi sulla vita della Chiesa: sempre ogni
variazione nelle circostanze si ribatté nel costume, nella mentalità, nei riti, nelle
esteriorità della Chiesa: ma sono appunto variazioni circostanziali, cioè di atti e
modi che stanno attorno all’essenza della vita cristiana, che cangiano proprio per
conservare l’identico e che non possono intaccarlo.

Quanto dei cangiamenti, che sbocciano in un dato momento storico, intacchi


il principio e quanto per contro lo applichi e lo svolga, è arduo discernere (§ 25)
ed è officio della Chiesa preservare e insieme sviluppare il principio, temperando
lo spirito esistenziale di novità con lo spirito essenziale di conservazione, come
insegnò Paolo VI definendo la Chiesa «conservatrice intransigente» (OR, 23
gennaio 1972). Essa infatti non può estirpare o essiccare la sua radice per
impiantarsi su un’altra.

Anche nel femminismo il punto è nel principio di dipendenza che si vuole


indebolire per emancipare e svincolare quello che e nella natura e nella
Rivelazione è dato come dipendente e vincolato. Il cattolicismo rifiuta ogni
dipendenza di uomo da uomo. La dipendenza che professa è quella dell’uomo
dalla propria essenza, quella insomma che esclude il principio di creatività.
Essendo le essenze, come tali, forme divine increate e, come esistenze,
partecipazioni di quelle, uscite all’atto per creazione, questa dipendenza è
ultimamente una dipendenza dall’Essere primo. L’uomo che si fa consapevole di
questa dipendenza e la assume, fa un atto di obbedienza morale all’essere divino.

Perciò il fondo dell’errore del femminismo moderno consiste in questo, che


misconoscendo la peculiarità della creatura femminile, non ha preso a
rivendicare alla donna quello che, guardando alla natura umana, si trova spettarle
in forza della natura umana, ma quello che alla natura umana sembra appartenere
guardando all’uomo mascolino. Il femminismo si risolve dunque in
un’imitazione del mascolino con perdita di quei caratteri che la natura umana
prende nella dualità dei generi. Sotto questo rispetto il femminismo è un caso
cospicuo dell’abuso dell’astrazione da cui si genera l’egualitarismo: pretende
svestire la persona dei lineamenti che le sono impressi per natura. È in ultima
analisi non l’esaltazione della donna, bensì l’obliterazione del femminino e la sua
riduzione totale al mascolino. La sua devoluzione ultima, e già lo si vede, è la
negazione del matrimonio e della famiglia, che quella dualità solennizzano.
L’uguaglianza naturale dei sessi non leva dunque la peculiarità della donna e
mantiene la primaria deputazione di lei alla vita interna della famiglia e a
funzioni che non possono comunicarsi all’altro sesso. L’Esortazione Apostolica
Familiaris consortio del 15 dicembre 1981 di Giovanni Paolo II, nella quale
sono riassunti gli orientamenti prescritti dal Sinodo dei vescovi per la famiglia,
al n. 23 dice doversi sradicare la mentalità per cui «censetur honor mulieris
magis ex opere foris facto oriri quam ex domestico»152. E al n. 25 dichiara che la
società deve essere ordinata in guisa «ut uxores matresque re non cogantur opus
foris facere, necnon ut earum familiae possint digne vivere ac prosperari etiam
cum illae omnes curas in propriam familiam intendunt»153. Il Papa riprende qui il
pensiero che aveva toccato nell’indire preghiere per il Sinodo dei vescovi sulla
famiglia: «Est profecto ita! Necesse est familiae nostrae aetatis ad pristinum
statum revocentur»154. E lo riprende similmente suor Teresa di Calcutta in
un’intervista al «Giornale nuovo» del 29 dicembre 1980: «La donna è il cuore
della famiglia. E se oggi abbiamo grossi problemi è per il fatto che la donna non
è più il cuore della famiglia, e quando il bambino torna a casa non trova più la
madre a riceverlo».

Il femminismo è dunque in realtà un mascolismo che sbaglia la direzione del


proprio movimento e prende come modello non il prototipo suo, ma la
mascolinità. Così, per esempio, quando si parla di emancipazione della donna
dall’uomo non si intende di far rispettare la donna dall’uomo obbligando l’uomo
alla fedeltà e alla castità coniugali, bensì di portarla al libertinaggio che è il
costume dell’uomo. E nella forma delirante la rivendicazione emancipatrice
sforza l’egualitarismo contrannaturale sino al ripudio non pure delle immaginate
inferiorità, ma persino dei vantaggi che la civiltà riconosce al genere femminile.
Così vengono rifiutati come indizio di disparità i riguardi prescritti dalla legge
verso le donne incinte e le puerpere, il divieto di imporre alle donne lavori
pesanti, le rendite sociali alle vedove (i vedovi non hanno rendite) e in generale
qualunque protezione speciale delle madri di famiglia. Tutto questo per la
ragione che «questa ripartizione tradizionale dei compiti e doveri tra uomo e
donna indebolisce la donna sul mercato del lavoro»155. L’uguaglianza dei
diseguali urta contro la varietà dell’essere creato, rompe cioè contro il principio
di contraddizione, ma è fondata su una situazione di superbia che rifiuta il
proprio bene quando sia determinato da una disparità, tenuta per umiliante,
laddove è invece originalità e ricchezza.

91. La teologia femminista. – La perdita dei veri vocaboli delle cose, lo


sperdimento dottrinale, il circiterismo storico, la generale cupidità di secondare
lo spirito del secolo hanno prodotto anche una teologia femminista. Questa
teologia, smentita dal vocabolo stesso che suona discorso intorno a Dio, mette
nell’oggetto teologato il soggetto teologante e fa della donna il lume sotto il
quale son da vedere le cose della donna. Nella teologia autentica invece la donna
è veduta sotto il lume della Rivelazione e in relazione a Dio, che è l’oggetto
formale della teologia. Il giornale della Santa Sede non schivò una tale teologia
femminista. Tralascio il tentativo di eliminare il concetto di paternità
dall’orazione dominica. Il tentativo deriva dalla repugnanza al grammaticale
genere mascolino, privilegiato comunemente ad esprimere eccellenza. Per
un’analoga repugnanza la Conferenza episcopale degli USA ha sostituito nella
liturgia la voce gente alla voce uomo. Menziono invece l’OR del 1 dicembre
1978 dove vien denigrata la Chiesa storica a cui i valori femminili sarebbero
stati rivelati dopo due millennii dal femminismo contemporaneo e dove il
postulato della donna cristiana è configurato come «richiesta di venir
considerata quale persona156 e conseguentemente di poter agire come tale, come
essere che realizza ed esprime sé stesso». Evidentemente non sempre il pensato
precede il detto e perciò non sempre quel che si dice riesce anche pensabile. Ma
che la Chiesa abbia, durante due millennii, onorati, catechizzati, sacramentati,
fatti soggetti di diritti e anche canonizzati degli esseri, a cui negava l’essere di
persona, è un puro composto di parole, da cui se qualcosa è possibile decifrare, è
l’inscizia dell’autrice circa quel che è persona, quel che è libertà, quel che è il
fine del cristiano e quel che è Chiesa157.

Ancor più temerario è il tentativo di una suora in «Seminari e teologia»,


aprile 1979, di introdurre il genere femminile nella SS. Monotriade facendo
dello Spirito Santo una Spirita Santa. L’inscizia storica incoraggia l’autrice
all’insolenza, facendole chiamare «stranissima anomalia» e «madornale
equivoco» la teorica trinitaria della teologia cattolica, la quale non avrebbe
veduto che la terza persona della Monotriade è la Spirita Santa. Infatti la voce
ebraica tradotta in greco con un neutro e in latino con un maschile è invece
femminile, e lo Spirito Santo della nostra vulgata sarebbe in effetti un Dio-
madre, una Spirita Santa158.
In linea storica è soltanto l’inscizia che può trovare nuova la stravaganza
della Spirita Santa. Essa trovasi notata già in Agobardo (P.L., 104, 163) e
d’altronde gli eretici nominati Osceni facevano femmina la terza persona e la
adoravano incarnata nella Guglielmina Boema. In linea teoretica poi ributtano le
mostruosità logiche e biologiche nascenti dalla stravaganza. La Beata Vergine in
Matth., 1, 18 sarebbe obumbrata da un ente di genere femminile e così Gesù
nascerebbe da due femmine. Che se la terza persona è la Madre, siccome essa
procede dal Figlio, si avrebbe l’assurdo di una madre originata dal figlio suo.
Come si vede da questi teologumeni della suora, il non scrivere è per lei molto
più difficile dello scrivere.

Conviene peraltro notare che l’introduzione della donna nella divina


Monotriade aveva preso occasione (non data) e creduto trovar suffragio in un
discorso di Papa Luciani che aveva detto, giusta un passo di Isaia, che Dio è
madre. Ma quel passo verte sulla misericordia divina e dice che Dio è come
madre, anzi è più che madre, perché «anche se la madre dimenticasse il figlio
delle sue viscere, non però il Signore si scorderà di Israele» (Isai., 49, 15). Si
tratta di una figura poetica bellissima, sotto la quale non c’è la femminilità di
Dio, ma la smisuratezza della misericordia divina, sulla quale Giovanni Paolo II
scrisse poi l’enciclica Dives in misericordia.

Giovanni Testori, un letterato convertito, ma non spogliatosi del vezzo di


tutto amplificare e tirare all’effetto di stupire, giunse a scrivere che «la Madonna
era entrata nella Trinità». Ma è manifesto in conclusione che la teologia
femminista equivoca gli attributi ad intra con gli attributi ad extra e affigge alla
Monotriade un carattere di sessualità che trovasi soltanto nell’ordine della
creatura e che trasportato all’ordine trinitario dà predicati meramente equivoci.

92. La tradizione egualitaria della Chiesa. Subordinazione e


sovraordinazione della donna. – Il pareggiamento della donna all’uomo, spinto
sin dentro l’organismo trinitario, è meno accettabile che la superiorità asserita
dai Giacobini che la deducevano dal racconto della Genesi dove la donna è
creata dopo l’uomo, come creatura più perfetta che suppone un grado di attività
creativa più avanzato159.

Ma ogni femminismo urta contro l’ordine naturale che differenzia i due


generi, non unilateralmente, ma reciprocamente subordinandoli. Questa
differenza armonizzata non è, come alcuni biologi si son fatti a sostenere, un
effetto puramente sociale che scomparirebbe o si invertirebbe, scomparendo e
invertendosi la forza sociale. È invece una differenza inerente alla natura umana.
Questa senza di essa non sarebbe intera, essendo archetipicamente ideata in
quella dualità. Il senso della solitudine di Adamo è il senso profondo del proprio
essere appellante all’intero.

Io non mi internerò nell’aspetto metafisico della dualità sessuale, che è di due


ordinati all’uno, né rievocherò il mito dell’androgino, che è un adombramento
dell’unione coniugale. Mi basterà ricordare che ciascuno dei sessi essendo
coordinato all’altro, quella qualunque subordinazione che vedesi innegabilmente
in linea naturale nell’atto coniugale160 non leva che l’identità del fine (o
procreazione o dono della persona, che si intenda) metta tra i due un’uguaglianza
assoluta. Quella subordinazione non leva parimenti che le funzioni naturalmente
differenziate dei due rispetto alle sequele e all’effetto di quell’atto unitivo siano
moralmente e socialmente di eguale valore. La dottrina dell’inferiorità della
donna come masculus occasionatus cioè maschio mancato non è dottrina
cattolica, mentre dottrina cattolica è quella della coordinazione dei due diseguali
nell’unità agguagliante. E nell’unità dei diseguali, oltre la subordinazione
fisiologica della donna, è innegabile la sovraordinazione psicologica in senso
inverso nell’ordine dell’attrazione, poiché non l’uomo ma la donna getta il
polline della seduzione e se l’uomo è attivo nel coniugale congressus lo è dopo
essere soggiaciuto alla sollecitazione nella fase dell’aggressus. Per questa
reciprocanza di subordinazione perde ogni senso l’antica controversia,
frequentata dalla letteratura, circa la maggior forza amatoria dell’uno o dell’altro
sesso e diventano pura aneddotica il fatto di Messalina, quello contrapposto del
mitologico Ercole e il placito famoso della regina d’Aragona161. Quando i fatti
fossero veri, essi rifletterebbero soltanto singolarità peloriche che non alterano
quella reciprocanza di influssi che dicemmo.

La sovraordinazione della donna si attua in maniera peculiare nell’ambito


strettamente domestico e Giovanni Paolo II si è distanziato esplicitamente dalle
vedute neoteriche nell’importante documento promulgato come Carta dei diritti
della famiglia nel 1983. Il Papa insegna che il luogo naturale in cui si esplica la
persona della donna è la famiglia e il compito suo è l’educazione dei figli. Il
lavoro fuori di casa è un disordine da correggere. L’art. 10 che tratta della
rimunerazione del lavoro stabilisce infatti che essa «dovrebbe essere tale da non
costringere le madri a lavorare fuori casa, con detrimento della vita famigliare e
specialmente dell’educazione dei figli». E nell’indire preghiere per il Sinodo dei
vescovi sulla famiglia il Pontefice sembra auspicare una restaurazione
dell’assetto famigliare antico: «Est profecto ita! Necesse est familiae aetatis
nostrae ad pristinum statum revocentur. Necesse est Christum consectentur». Ma
l’insegnamento papale fu tosto apertamente contraddetto dal Congresso delle
donne cattoliche che proclama la tesi neoterica: «Nessuna donna ritiene positivo
rinunciare all’esperienza del lavoro extradomestico, né alcuna programma di fare
la casalinga tutta la vita» (OR, 1 aprile 1984).

93. La subordinazione della donna nella tradizione cattolica. – In linea


religiosa l’uguaglianza dei due generi entra in un ordine soprannaturale e la
subordinazione pure. Secondo il racconto della Genesi (2, 21-2), richiamato da
san Paolo (I Cor., 11, 8), la donna fu tratta dall’uomo per toglier l’uomo
dall’esperienza della solitudine, sicché, emergendo dal sonno mandatogli da Dio,
egli si trovasse «maschio e femmina». La donna è dunque secondaria all’uomo
in linea di creazione. Essa è soggetta all’uomo, ma non perché l’uomo sia il fine
della donna. Il fine di entrambi è ugualissimo e sovraordinato ad entrambi. San
Paolo dice con forza che rispetto al fine «non c’è né maschio né femmina» (Gal.,
3, 28) come non c’è né Giudeo né Gentile, né libero né schiavo. Non già che non
esistano con le loro differenze quelle qualità, ma tutti i battezzati son rivestiti del
medesimo Cristo e inquanto tali vien levata loro ogni differenza. Non c’è
nell’ordine della grazia accezione o eccezione di persona. Tutti sono fatti
membri di Cristo e informati di un’unità di vita. Eppure san Paolo prescrive la
subordinazione della donna ripigliando così l’ordinazione primitiva della Genesi:
«Mulieres, subditae estote viris sicut oportet in Domino» (Col., 3, 18), dove il
verbo dell’originale è forse meno ben tradotto con un predicato nominale che
con uno verbale riflessivo, perché il senso più aderente al greco ὑποτάσσεσθε è
assoggettatevi da voi stesse162. Ed è notevole che il testo indichi anche la
modalità e il limite della soggezione, la quale ha da essere in Domino, cioè ha da
avere per norma la servitù dovuta a Dio, che è servitù liberante. Che se in
Domino si riattacca a subditae estote, allora è indicata la ragione suprema
dell’assoggettarsi al marito, la quale non è certo il marito, ma appunto il
principio primo di ogni obbedienza. La libertà cristiana non è affrancamento da
ogni ordine e subordinazione, ma elezione dell’ordine al quale assoggettarsi. E,
come spiega Eph., 5, 22, quella soggezione ai mariti è una soggezione al
Signore163.

La subordinazione della donna all’uomo è difficile tirare a contingenze


puramente storiche, come si usa fare, seguendo schemi di storiografia
marxistica, per ogni punto e istituzione cattolica che dispiaccia al secolo. Non
soltanto infatti essa si origina dalla legislazione divina degli umani primordii.
Non soltanto è fondata nella diversità della natura nei due sessi, l’uno recante lo
stampo delle virtù di reggimento e mosso dall’istinto della filogonia, l’altro
recante lo stampo della dirigibilità e dell’adesione al marito. Essa viene anche
rincalzata dalla Rivelazione nel testo di I Cor., 11, 3, nel quale la soggezione non
servile è assicurata a una gradazione di entità teologiche, dicendo l’Apostolo che
ciò avviene perché «di ogni uomo il capo è Cristo, il capo poi della donna è
l’uomo, il capo di Cristo è Dio». La subordinazione dunque si trova scolpita
nella natura, se si riguarda la natura non nell’astrazione generica, ma la si
riconosce nello stampo dei due sessi. Il negarne la consistenza è ancora una volta
l’effetto di un’astrazione viziosa e fallace la quale, dopo aver svestito gli esseri
delle loro note specificanti e individuanti, si trova davanti un’essenza generica e
la prende come un fatto. Essa è sì un fatto, ma non con quella forma astratta,
bensì con la forma individuata e concreta. E prendendo per fatto l’astrazione se
ne derivano i titoli di diritto, che derivano al contrario dai fatti reali: il diritto per
esempio dell’operaio al salario non deriva dall’essere uomo ma dall’essere
operaio circostanziatamente.

Si potrà opporre che storicamente la posizione della donna nella Chiesa fu


talora di subordinazione come di serva anziché di socia. Si potranno così addurre
alcuni giudizi vilificanti di Padri della Chiesa, massime greca, e talune
discriminazioni della liturgia. Tra le prime è il celebre passo di Clemente
Alessandrino, Paedagogus, 2: «Ogni donna dovrebbe morire di vergogna al
pensiero di essere donna». Tra le seconde non si può inserire l’esclusione dal
sacerdozio, perché è di diritto positivo divino. Erano invece tra le
discriminazioni più visibili e note la esclusione delle donne dallo spazio del
santuario, che durò sino alla recente riforma liturgica, ma che non può
considerarsi come una discriminazione riguardante il sesso, giacché fu
mantenuta, per esempio da san Carlo, perfino in confronto di sovrani: esprimeva
quindi il contrapposto tra sacerdoti e laici, non quello tra maschi e femmine.
Discriminazioni riguardanti certamente il sesso sono invece quella che nella
tariffa penitenziale aggravava in lontani secoli per l’identico peccato più la
donna che l’uomo e quella che allontanava la donna dall’eucarestia in certi
tempi. Ma certune di queste discriminazioni sono connesse all’idea (accolta
anche nel Vecchio Testamento) dell’impurità prodotta da certi fatti fisiologici,
stimati inseparabili da un’impurità morale. In questa impurità sono d’altronde in
certi casi accomunati maschi e femmine.

94. Apologia della dottrina e della prassi della Chiesa circa la donna. – Per
far giudizio di queste presunte inferiorità della donna nella Chiesa convien
tenere presenti due considerazioni.

La prima considerazione è che la disuguaglianza naturale, di cui dicemmo al


§ 93, può motivare un diverso riconoscimento dei diritti spettanti ai due, e questo
senza lesione alcuna di quella superiore eguaglianza, che dallo stesso Clemente
Alessandrino viene così perspicuamente esaltata: «Non c’è che una sola e
identica fede per maschio e per femmina, c’è per entrambi una sola Chiesa, una
sola temperanza, un solo pudore. Uguale è il cibo, uguali il coniugio, il respiro,
la vista, l’udito, la conoscenza, la speranza, l’obbedienza, l’amore, la grazia, la
salvezza, la virtù» (Paedagogus, 1, 10). I diritti particolari di ciascun soggetto
non derivano dall’essenza astratta (quelli comuni sì) ma dall’essenza concreta e
circostanziata esistenzialmente, cioè dai fatti.

Conviene inoltre considerare la storicità della Chiesa e il perfezionamento


suo tanto per rispetto alle cose da credere quanto per rispetto all’agibile.
L’ortodossia e l’ortoprassia sono date in un principio immutabile, ma vengono a
determinarsi, a esplicarsi e a specificarsi in una moltitudine di applicazioni che
formano un processo temporale. Quanto all’ortodossia, per esempio, è manifesto
che la nozione chiara e piena della dignità e immacolatezza della Madonna è
posteriore alla nozione indistinta e imperfetta che ne ebbe la Chiesa primitiva e
che ne ebbero gli Apostoli medesimi164. E tralascio di parlare del dogma della
grazia, dell’infallibilità pontificia, dell’Assunzione e di tanti altri punti di fede
che la Chiesa del secolo XX possiede in forma molto più spiegata e distinta che
non la Chiesa antica.

E come avviene per l’ortodossia avviene non meno per l’ortoprassia. La


Chiesa cattolica ha sempre tenuto il principio dell’uguaglianza assiologica e
finalistica dei due generi, grazie alla quale il divario naturale (quello naturale,
non quello cagionato dalla corruzione e dalla concupiscenza) e la congrua
subordinazione si risolvono nell’uguaglianza. Questo è l’elemento immobile
della dottrina. Ma le conseguenze di cui il principio è pregno escono in luce per
effetto di uno sviluppo storico della mente e le deduzioni che se ne debbono
derivare defluiscono a grado a grado, attraverso more e sviamenti, massime se
sono deduzioni remote, tanto più difficili a ritrovare quanto più alto era il
principio. La schiavitù, per esempio, è trascesa dall’egualissima destinazione
morale e dalla filiazione spirituale dei cristiani, anche se la schiavitù sussista
nelle leggi civili. Ma l’esigenza immanente a quella uguaglianza vuole che non
sussista. E di fatto la religione tolse a grado a grado alla schiavitù anche la
sussistenza nelle leggi civili.

L’opinione dell’abiezione e avvilimento della donna ad opera della religione


è divenuta un luogo comune della pubblicistica neoterica ed è largamente
condivisa da chi concede senza prova (né storica né filosofica) che la donna
abbia nei secoli passati avuto uno status di oggetto; che sia stata privata della
persona e che, per di più, abbia essa medesima la colpa di non aver riflettuto
sopra la propria servitù e di averla accettata165. Il vero si è che qui come in molte
altre parti del pensiero contemporaneo si è usata una sineddoche storiografica,
isolando una parte e prendendola come il tutto. Vi sono dei tempi nel ciclo
storico della Chiesa in cui, oscurandosi i principii, titubano anche le deduzioni
logiche che si hanno da trarre dai principii. Allora prima la prassi e poi, in minor
grado, le teorie cadono a deduzioni illegittime che il principio respinge e
condanna. Ma bisogna a un principio chiedere conto delle conseguenze
legittime, non di quelle che le passioni dell’uomo ne cavano per arbitrio. Ora, i
secoli in cui più vigoreggiò la religione sono parimenti i secoli in cui la dignità
della donna viene riconosciuta e in cui la sua influenza sul mondo si dispiega più
largamente.

95. Elevazione della donna nel cattolicismo. – Tralascio le sante donne a cui
nelle sue lettere san Paolo presta nominatamente tanto onore. Tralascio la
preminenza della Maddalena nell’evangelizzare la Resurrezione. Non mi
addentro in un discorso che sarebbe pressoché infinito: quello dell’ordine delle
vergini e delle vedove nella comunità ecclesiale, ordine di cui celebrano l’altezza
morale e religiosa con scritti appositi tutti i Padri da Tertulliano ad Agostino. Il
discorso oltre che infinito riuscirebbe difficile, perché la mentalità moderna non
ha ali per sollevarsi a quel punto di vista in cui il pregevole è pregiato e la
squisitezza della virtù ammirata.

Menzionerò invece la parte grande che ebbero nell’evoluzione del mondo


cristiano e in Oriente e in Occidente donne virtuose sul soglio imperiale, come
Elena e Teodora II. Più tardi, nel tempo in cui fu fatta mansueta e civile la
barbarie, donne come Teodolinda, Clotilde, Radegonda esercitarono un tale
influsso quale nessuna donna nell’evo moderno166.

A un grado singolare giunse il perfezionamento della donna nei monasteri di


Francia e d’Alemagna tanto nell’ordine della cultura intellettuale quanto nel
reggere la comunità. Durante la fioritura carolingia non un uomo, ma una donna,
Duoda, scrisse il primo trattato di pedagogia. Più tardi nei grandi monasteri,
dove germogliarono tutte le forme della civiltà, la cultura pervenne ad alta
perfezione, anche per opera di femmine. Eloisa (secolo XII), badessa dello
Spirito Santo, apprende alle sue moniali greco ed ebraico, rinnovando il
didascaleo di Gerolamo in Roma e a Betlemme; Ildegarda, badessa di Bingen
(secolo XII), scrive di storia naturale e di medicina; Rosvita, badessa di
Gandersheim, compone commedie latine e le fa rappresentare. Sono tutte prove
di una elevazione paritaria della condizione femminile non punto sporadica.

Speciale attenzione merita la partecipazione della donna alle assemblee


medievali dove esse ebbero gran parte nel promuovere l’addolcimento delle
ostilità guerresche e l’introduzione della tregua di Dio. Quanto poi avanzato
fosse l’agguagliamento spicca in modo singolare nel fatto che nei monasteri
gemini di uomini e di femmine più di una volta il reggimento unitario della
comunità era affidato a donne167. Benché vincolato a titoli di censo, come era
vincolato quello degli uomini sino al nostro secolo, la partecipazione delle donne
alle assemblee di comune (che erano le sole assemblee popolari del passato, i
grandi affari nazionali essendo maneggiati dai sovrani) non fu rara fino al secolo
XIX. È solo l’avvilimento della condizione femminile, cagionato dall’avvento
dell’economia utilistica e industriale e dal concomitante sreligionamento delle
masse, che portò con sé la riduzione della partecipazione politica della donna.
Ma conviene ricordare che le donne avevano diritto di suffragio nelle comunità
locali in Austria, in Isvizzera e perfino nelle Legazioni pontificie.

L’elevazione più grande a cui porta la donna il Medio Evo cristiano si ebbe
con la poesia cortese, alla quale fa riscontro l’opera teorica di Andrea
Cappellano. La poesia cortese riflette tutto un complesso di sentimenti e di
costumi, che si fondano sopra la delicatezza dei pensieri, il rispetto e la fedeltà.
L’amor cortese si traviò talvolta in forme di dilezione disincarnata o dell’opposta
passione erotica, ma rimane nell’insieme una prova degli alti sensi che genera
nella civiltà medievale la contemplazione del femminino. Un fastigio ancora più
alto toccò il motivo della donna angelicata nella scuola poetica siciliana e nel
dolce stil nuovo. La Divina Commedia poi esalta il femminino con Maria e
Beatrice e le «donne benedette» del preludio come il tramite eccelso
dell’elevazione spirituale dell’uomo e come la virtù che gli concilia la salvezza.
È impossibile, se non si ignora il valore della poesia di quei secoli, disconoscere
la dignificazione e magnificazione della donna fatta dalla religione. Certo, la
separazione dell’amore dalla relazione sponsale e dal coniugio, determinata
dall’esaltamento del femminino in sé, inclinava alla deviazione neoplatonica
incompatibile col realismo cristiano, ma il fenomeno attesta irrefragabilmente
che il cattolicismo si serbò fedele alla duplice verità che viene invece
contraffatta dal moderno femminismo: che cioè la donna è assiologicamente e
finalisticamente uguale all’uomo, e che essa è insieme diseguale, dovendo vivere
quell’uguaglianza assiologica secondo la propria diversità.

Una riprova della parità che il cattolicismo riconobbe tra i due sessi si ricava
dall’influsso che sul governo della Chiesa, sugli orientamenti religiosi, sugli
eventi di rinnovazione e di riforma esercitarono femmine di alto intelletto e di
veemente afflato mistico. Non occorre andare oltre i nomi di Caterina da Siena,
di Giovanna d’Arco, di Caterina da Genova, di Teresa d’Avila per conseguire
una dimostrazione sovrabbondante di questa prestanza del femminino nella
Chiesa. E si tralasciano le moltissime donne di gran tempra attiva che fondarono
ordini e compagnie religiose o anche soltanto indussero i Romani Pontefici a
imprese di importanza universale, come nel secolo passato quella mademoiselle
Tamisier che promosse sotto Pio IX i congressi eucaristici. Per tacere di tante
donne che la Chiesa onorò di canonizzazione e di quelle che fregiò perfino del
titolo di dottore della Chiesa universale, come avvenne di Caterina senese e di
Teresa spagnuola.

96. Lo scadimento del costume. – Affine alla deviazione circa la natura della
donna è la deviazione circa gli atti della sessualità. Per farne retto giudizio
conviene avvertire che in ogni genere dell’operare umano, ma nel costume
specialmente, rileva certo la frequenza dei fatti maggiore o minore (senza tale
frequenza non c’è costume), ma primariamente importa quel che i fatti
divengono nella mente, cioè il modo in cui la pubblica coscienza li giudica.
Quanto alla frequenza nessuno impugna che l’inverecondia sia più divulgata che
in passato, quando gli eccessi erano fenomeno di ristretti ceti e, cosa ancor più
importante, andavano a nascondersi e non osavano l’ostentazione. Oggi è la
faccia delle nostre città. Si può dire che la pudicizia fu il carattere generale dei
secoli addietro, mentre l’impudicizia lo è del nostro, e basta percorrere i trattati
d’amore, i libri sul reggimento delle donne, le disposizioni civili e canoniche e le
Praxeis confessariorum (primarie fonti in questo campo) per averne certezza.
Oggi al contrario le intimità hanno perduto l’antico purpureo velo del pudore e
vengono propalate, ostentate, comunicate sin nelle rubriche dei rotocalchi, di cui
si pasce il volgo. Lo spettacolo, massime cinematografico, ha come tema
d’elezione le cose della venere e l’estetica, che vi dà un appoggio teoretico,
giunge a stabilire che la prevaricazione del limite morale sia una condizione
dell’arte. Di qui una puramente meccanica progressione dell’osceno in infinitum:
dalla fornicazione semplice all’adulterio, dall’adulterio alla sodomia, dalla
sodomia all’incesto, dall’incesto all’incesto sodomitico, alla bestialità, alla
coprofagia e via tacendo. Anche il fatto assodato del coito pubblico, per trovare
il quale occorre risalire ai Cinici e che sant’Agostino giudicava impossibile,
persino per ragioni fisiologiche, è forse la riprova estrema dei fatti della lussuria
contemporanea. Se pure non è superato dalle mostre internazionali di oggetti
erotici, come quella famosa di Copenhagen nel 1969, e la mostra internazionale
di arte pornografica inaugurata nel 1969 ad Amburgo dal ministro della cultura.

La Chiesa assunse tosto un atteggiamento indultivo verso la cinematografia


della lussuria. Si soppresse nella propria stampa la segnalazione degli spettacoli
da fuggire, la si giustificò sostenendo che «la morale presente è diversa dal
moralismo becero in cui non di rado si è caduti nel passato», si premiarono opere
cinematografiche di strepitosa inverecondia, si presentò il nuovo atteggiamento
indultivo come un omaggio reso alla maturità dell’uomo moderno.

Ma, come dicemmo, prevalgono ai fatti il significato che essi hanno nella
mente degli uomini e le persuasioni profonde e tacite da cui muovono i giudizi.
Ci conviene dunque addentrarci alquanto nel fenomeno del pudore per
dimostrare che anche il presente scadimento del costume rampolla dalla
negazione delle nature e delle essenze.

97. Filosofia del pudore. La vergogna della natura. – Lungi dall’essere un


fenomeno sociale transeunte e pereunte da sciogliere in psicologia e sociologia,
come fanno i moderni, il pudore è un fenomeno che tocca la base metafisica
dell’uomo e ha da essere studiato in antropologia e in teologia.

Il pudore è una specie del genere vergogna: è la vergogna circa le cose della
venere. La vergogna in genere poi è il sentimento che accompagna la percezione
di un difetto, e poiché il difetto ora è della natura ora è della persona, così c’è
una vergogna naturale e una vergogna morale. La natura si vergogna dei propri
difetti perché ogni natura ha da corrispondere alla propria idea e se per fallo,
ingenito o sopravvenuto, defeziona dalla sua idea, essa avverte il difetto e
l’avvertenza del difetto si accompagna a un sentimento di vergogna per quel
difetto. Siccome poi non si dà natura reale se non in un individuo e perciò
neppure natura difettosa se non in un individuo difettoso, così la vergogna della
natura difettosa diviene vergogna dell’individuo difettoso.

Mi si obietterà che l’individuo è incolpevole e non può vergognarsi dei difetti


della natura. L’obiezione è superficiale. Non monta che l’individuo sia
incolpevole dei difetti della natura: la natura si vergogna del proprio difetto
nell’individuo. I fatti più comuni della vita lo comprovano. Nessuno, che sia
sano di mente, si vanta o è indifferente all’essere gobbo o storpio o cieco.
Nessuno considera quei difetti per normali all’uomo o a sé in individuo. E non
basta osservare che questi difetti sono nell’individuo senza colpa dell’individuo
per negare che l’individuo sia difettato e per togliere di mezzo la vergogna che la
natura ne prende.

Da questo lato è notevole il cruccio e la vergogna che l’uomo prova per la


propria mortalità, che è il difetto radicale dell’umana natura. Il sentimento,
oscuramente o chiaramente provato, si estende dalla mortalità al morbo, alla
vecchiezza, a tutte le operazioni che arguiscono la mortalità. Infatti le opere della
nutrizione, della generazione, dell’egestione si esercitano dall’uomo tra le pareti
e nel nascondimento. Filosofi e poeti grandi hanno toccato questo arcano.
Epicuro, che tuttavia si studiava di spegnere nell’uomo l’orrore della morte,
parla di indignazione dell’uomo per essere nato mortale (De rer. nat., III, 884).
Orazio sa che di fronte alla morte l’uomo prova paura e collera, perché la sente
come contraddizione alla natura propria: «mortis formidine et ira» (Epist., II, II,
207). Gabriele d’Annunzio aborre l’onta della decrepitezza e della morte, come
l’antico Mimnermo. Ma che onta è, se è incolpevole? L’onta è metafisica: è
sdegno per la distruzione di un essere, la cui struttura originaria rifiuta la morte,
è vergogna per un difetto che non è dell’individuo come tale ma della natura.
L’uomo infatti non si vergogna né si sdegna di non essere alato (non aver ali non
è un difetto per lui), ma di non essere immortale (la mortalità sì, è un difetto).

La profondità del fenomeno del pudore appare anche dalla sua


involontarietà. L’uomo arrossisce della propria e dell’«altrui fallanza» (Par.,
XXVII, 32): il suo volto avvampa lui nolente. Non è la persona che si vergogna,
ma la natura nella persona. Fronte di bronzo e faccia infrunita sono, presso tutte
le nazioni, tristi segni.

98. La vergogna della persona. Reich. – Ma più profondo del pudore della
natura è il pudore della persona che è la vergogna per il difetto morale di cui la
persona è causa. La sua forma morale non è più puro sentimento ma un atto
libero di cognizione del proprio difetto e di detestazione volontaria del
volontario difetto cioè della colpa.

Il fenomeno del pudore appare ancor più profondo se lo si riguarda


teologicamente. La libido è la più estesa disobbedienza che si operi nell’uomo
disarmonizzato dalla disobbedienza originale. Fu certo esagerazione, anzi errore
grave, popolare ma non dei dotti168 fare del peccato carnale il peccato essenziale.
Eppure è certo che la concupiscenza, pur non coincidendo col peccato, è il
sintomo massimo del presente stato dell’uomo, peccatore per natura.
L’assoggettamento della parte vedente e razionale alla parte cieca e istintiva
dell’uomo è infatti massima nella consumazione carnale, essendo questa
nell’acme sua un momento di delirio e di smarrimento della coscienza in cui va
annullata la percezione medesima del significato unitivo dell’atto. La vergogna
del sesso, riguardata al lume della religione, è dunque nella sfera profonda
dell’umana realtà e si nega tutto il drammatico dell’amore e il senso del
combattimento morale se si frivolizza il pudore riducendolo alla sfera
meramente psicologica o sociologica. Esso è invece il segno della scissura
cagionata nella natura umana dal peccato. Per tale scissura la volontà di
signoreggiare viene al contrario signoreggiata e le tocca preservare la signoria
morale con un perpetuo combattimento. Non è incatenata alla concupiscenza,
come voleva Lutero, ma è incatenata al combattimento contro la concupiscenza e
in questo combattimento essa riporta vittoria, ma è una vittoria sempre in atto
perché sempre in atto è il combattimento.

Perciò le dottrine moderne negatrici del pudore levano di mezzo il


combattimento per celebrare la lussuria come liberazione totale.

Nell’opera famosa del Reich La rivoluzione sessuale sono proclamate queste


massime: che il piacere della venere forma la felicità dell’uomo e che perciò
ogni impedimento alla libido debba rimuoversi come impedimento alla felicità.
Essendo poi il divieto morale il divieto supremo, giacché resiste a ogni
violazione risorgendo più imperioso a ogni violazione, l’emancipazione dal
pudore si immedesima con la felicità. Di qui in linea teorica la negazione di ogni
finalismo e di ogni legge nell’attività sessuale e in linea pratica l’abolizione del
matrimonio, il coito pubblico, i congiungimenti contrannaturali, la pammixis,
l’abolizione delle vesti. In fondo all’erotismo è il concetto spurio di libertà per
cui il dipendente disconosce la dipendenza dall’idealità imperativa della legge
inscritta nel fondo della propria natura.

99. Documenti episcopali sulla sessualità. Card. Colombo. Vescovi tedeschi.


– Senza alcuna profondità religiosa sono molti documenti episcopali intorno alla
sessualità: l’impudicizia vi è condannata non in forza della prevaricazione
morale, che essa implica, ma puramente come sconcerto della meccanica vitale e
come impedimento allo sviluppo della personalità. Non vi appaiono ragioni
teologiche, non vi si pone nesso alcuno con la colpa di origine, non si considera
la scissione dell’uomo dalla legge morale, non vi si adoperano nemmeno i
termini di castità e di pudicizia. Il card. Giovanni Colombo, arcivescovo di
Milano, nell’omelia di Pentecoste del 1971 sull’amore come principio unico
dell’unione dei sessi non fa motto né del fine generativo né della legge divina,
non conosce altra motivazione della continenza che la maturazione delle
persone, fuori della quale «la sessualità diventa causa di blocchi psicologici, di
inaridimenti affettivi, talora irreparabili, e di conseguenza lede e deforma il
processo di maturazione personale» (OR, 5 giugno 1971).

Anche la lettera pastorale dei vescovi della Germania (OR, 18 luglio 1973)
muove da un’antropologia che non è cattolica perché afferma che «la sessualità
informa tutta la nostra vita e, per il fatto che corpo e anima sono un’unità, la
nostra sessualità determina anche la sua sensibilità e fantasia, il nostro pensiero e
le nostre decisioni». Nel giudicare queste enunciazioni dei vescovi alemannici,
desiderando io non aggravare le loro parti, intendo tener conto del generale
circiterismo teologico del moderno episcopato e perciò non prendo in rigore i
termini usati. Ma l’antropologia qui subiacente è lontana dall’antropologia
cattolica (di qualunque scuola) per la quale «sexus non est in anima», Summa
theol., Suppl., q. 39, a. 1. Non è infatti la sessualità la forma di tutta la vita,
sibbene la razionalità. La definizione classica, assunta nel Concilio Laterano IV
è: «anima rationalis est forma substantialis corporis», è cioè il principio primo
che dà l’essere a tutto l’individuo umano. Dire poi che la sessualità determina il
pensiero e le decisioni della volontà è asserto avverso alla spiritualità dell’uomo.
Questa consiste proprio nell’esservi nell’anima informante il corpo un’attualità
che non si esaurisce nell’informare il corpo, ma sussiste come forma. È da
questa facoltà emergente dalla materia che viene la facoltà dell’universale e con
questa l’elezione libera spaziante appunto nell’universale del bene, e non astretta
nei termini del particolare. Se la sessualità determina la decisione, la decisione
non può essere libera169.

V’è poi un passo del documento in cui si rovesciano l’etica e l’ascetica della
pudicizia ed è quello in cui, trattando delle relazioni prematrimoniali, che
vengono condannate, si abbandona la cautela, tanto predicata in passato, circa le
occasioni prossime del peccato e si difende la famigliarità tra i sessi, quasi che il
mettersi nella tentazione fosse sintomo di maturità morale. «Anche se sussiste il
pericolo che questi incontri sfocino in rapporti sessuali e portino a un legame
prematuro, non è giusto respingere o cercare di evitare questo necessario gradino
nella maturazione della capacità d’amore degli uomini». Qui sono
implicitamente elusi due principii della morale della Chiesa. Il primo è
teologico: che cioè la natura, avendo perduto l’integrità per il guasto originale, e
quindi la parte egemonica dell’uomo avendo perduto la signoria, la labilità alla
sopraffazione sessuale è la condizione stessa dell’uomo. Il secondo punto è
propriamente morale: l’approssimarsi al peccato senza cadervi non significa
certo cadere in quel peccato e per questo riguardo non è colpevole, eppure è
peccato per riguardo alla superbia e alla presunzione di non cadere implicite
nella condotta di chi si arroga una forza morale capace di contrappesare ogni
impulso contrario alla legge. La massima salus mea in fuga che presiedette
all’ascetica cattolica sembra qui dimenticata e posposta all’idea della maturità
personale e dell’educazione all’amore.
CAPITOLO X SOMATOLATRIA E PENITENZA

100. La somatolatria moderna e la Chiesa. – Se la sessualità è sembrata


frequentemente la forma stessa della persona umana, molto più generale è
l’assecondamento del culto della corporeità, di cui la civiltà contemporanea ha
fatto una parte saliente della vita dell’uomo. So bene che il culto del vigore e
della bellezza della persona fu uno dei vincoli che strinsero in antico le città
elleniche nelle anfizionie e che ebbero nelle feste nazionali le loro più alte
celebrazioni. Ma vi cospirava l’intera cultura della stirpe greca e vi si
coronavano i poeti, gli storiografi e i drammaturghi non meno che gli atleti della
corsa e del cesto: non c’è invece nessun Pindaro per i campioni contemporanei.
Quelle attitudini che noi chiamiamo sportive erano una frazione, cospicua sì, ma
una frazione, dei valori che in quei ludi si celebravano. Questo lo so, ma non
posso tuttavia ignorare che quei valori venivano disistimati tostoché venissero
staccati dal composto in cui erano integrati e che la professione del puro sportivo
venne spregiata dai filosofi e fu oggetto di derisione nella commedia. Seneca in
Epist. ad Lucilium, 88, 19 parla con disprezzo degli atleti «quorum corpora in
sagina, animi in macie et veterno sunt»170; Epitteto sentenzia «abiecti animi esse
studio corporis immorari»171; Persio, III, 86 schernisce la «gioventù muscolare»;
e Plutarco in Quaestiones Romanae attribuisce addirittura alla palestra la
decadenza della Grecia.

Nella tradizione della pedagogia cattolica la cura del corpo andava sotto la
virtù di esercizio e di alacrità confondendosi, sotto l’aspetto medico, con
l’igiene. Nel diffusissimo Manuale dell’educazione umana (Milano 1834)
dell’abate Antonio Fontana, direttore generale della pubblica istruzione nel
Lombardo-Veneto, questa indistinzione è ancora percettibile: vi si dedica uno
intero dei quattro libri dell’opera all’educazione fisica, ma sotto questo titolo
vengono trattate le materie del cibo, del sonno, della nettezza e un solo capitolo
Degli esercizi della persona versa intorno all’educazione fisica.

La distinzione delle discipline, l’erezione dell’esercizio somatico in forma


peculiare di attività umana e infine la sua celebrazione e quasi teosi sono un
fenomeno dell’ultimo semisecolo. Lo sport riempie la vita degli atleti di
professione, occupa gran parte dell’attività e quasi tutto dell’animo dei giovani,
ha invaso la mentalità di enormi masse a cui non è esercizio, ma spettacolo e
materia di infiammabili passioni di competizione e di lotta. I giornali danno
regolarmente un terzo del loro spazio allo sport, hanno creato uno stile di
metafore grandificanti per descrivere le gare, celebrano gesta ed eroi con le
forme dell’epopea, confondono la vittoria in una contesa con la raggiunta
perfezione della persona. Quando nel 1971 si misurarono due pugili per il
campionato del mondo (e fu un disserrarsi di bestialità prorompente sin nei
vituperii) i cronisti sportivi, alcuni dei quali di grande talento, adoperarono le
parole stile e addirittura filosofia per significare la maniera diversa di quell’unica
rabbia per poco non omicida, profanando quelle parole come d’altronde
profanano quelle di sillogismo e di deduzione per significare lo svolgimento di
un’azione sul campo di calcio. Magistrati e autorità osannano nei riti maggiori
alla significazione spirituale dello sport e proclamano che «oltre che successione
di azioni disciplinate tese a un altissimo scopo, lo sport ha il valore di una nobile
gara di pensiero civile» e che «di contro agli odii che dividono i popoli soltanto
lo sport può riconciliarli e affratellarli»172.

Questo esorbitare dello sport fuori dell’àmbito suo naturale attribuendosi la


dignità di forza spirituale non fu efficacemente ribattuto dalla Chiesa, la quale,
quasi ammettendo l’ingiusta accusa fattale di distruggitrice del vigor delle
membra terebrate dal tarlo dello spirito, temette di non stare o di parer non stare
con la celebrazione del fisico e recò i suoi incentivi al moto somatolatrico del
secolo, come se a un tal moto occorresse il suo ausilio e come se la passione
sportiva non fosse sufficientemente accesa tra gli uomini. Il solo segno del
permanere la Chiesa rispetto allo sport nell’atteggiamento di riconoscimento
riservato è l’assenza di qualsiasi rubrica sportiva nell’«Osservatore Romano».
Ma la gerarchia è passata a posizioni di approvazione e di partecipazione.

Vi furono sempre in epoca moderna associazioni sportive e ginnastiche che si


radunavano sotto l’insegna cattolica, ma il richiamo alla religione era il richiamo
generico possibile a farsi di qualunque genere di onesta attività. Vi furono
banche cattoliche, leghe agrarie cattoliche ecc. ma erano piuttosto cattolici nelle
banche e nelle leghe che non propriamente banche e leghe cattoliche.

101. Lo sport come perfezione della persona. – I principali motivi del


battesimo dato dalla Chiesa al culto del corpo sono due: Primo: la prestanza
corporea che si persegue negli esercizi sportivi è una condizione dell’equilibrio e
della perfezione della persona. Secondo: le gare sportive adunando grandi
moltitudini diverse per lingua, per modo di vivere, per costituzione politica
conferiscono alla vicendevole conoscenza delle genti e alla formazione di uno
spirito fraterno mondiale. Ecco come descrive i due motivi GS, 61:
«Manifestationes sportivae ad animi aequilibrium nec non ad fraternas relationes
inter homines omnium condicionum, nationum vel diversae stirpis statuendas
adiumentum praebent»173.

Questi due motivi furono esposti, rifiutati o corretti in un importante discorso


di Pio XII l’8 novembre 1952 al Congresso scientifico nazionale dello sport174.
Le attività dell’uomo sono qualificate dal loro fine prossimo: lo sport non sta
nella sfera del religioso, ma anche se il fine prossimo dell’esercitazione
corporale è la conservazione e lo sviluppo del vigore fisico, questo fine prossimo
è ultimamente ordinato al fine ultimo di tutti i fini prossimi, che è la perfezione
della persona in Dio. Il Papa rileva che tra i fini prossimi dello sport è il dominio
sempre più agile della volontà sopra quel suo strumento congiunto che è il corpo.
Ma il corpo, oggetto dello sport, è il corpo di morte destinato ad essere travolto
nella corrente della biologica mortalità, mentre il corpo integrato al destino
soprannaturale dell’uomo è sì l’identico corpo, ma sopravvestito di immortalità,
al quale niente conferisce il vigore acquistato quaggiù.

Qui osserverò di transenna come sia falso che l’esercizio del corpo produca
di per sé sanità morale. La falsità è già denunciata dagli antichi. Il motto di
Giovenale, che è passato monco nel parlare comune, mens sana in corpore sano,
è in realtà una confutazione del senso che gli si attribuisce. Non dice infatti che
in corpo sano c’è mente sana, ma che bisogna pregare gli Dei affinché ci diano e
l’uno e l’altra: «Orandum est ut sit mens sana in corpore sano» (Sat., X, 356).

Lo sport è soggetto alla legge ascetica che vuole ordinato dalla ragione il
tutto dell’uomo e l’uso intensivo del vigore fisico non può essere il fine dello
sport: se si emancipa dall’austerità, cioè dal dominio dello spirito sulle membra,
lo sport disfrena gli istinti, sia con la forza violenta, sia con le seduzioni della
sensualità. La coscienza della propria forza corporale e la riuscita nella
competizione non sono l’elemento principale dell’attività umana, sebbene siano
dei soccorsi apprezzabili ma non indispensabili, né un bisogno morale assoluto
né tantomeno un fine della vita. Eppure la disformazione generale dei giudizi
nella massa era su questo punto tale che il Papa ritenne doveroso riaffermare:
ogni uomo, anche se è inetto allo sport, non è minorato nella sua realtà di uomo.
Non si può parlare di personalità fisica e di personalità spirituale, la persona
essendo una e definita dalla parte suprema di essa. Anche il non sportivo
adempie a pari un individuale misterioso disegno di Dio175.

Ma questo riserbo che di fronte allo sport impone la ragion teologica


distinguendo la forza fisica dalla perfezione della persona viene abbandonato
sovente sotto l’influsso dell’entusiasmo delle moltitudini. Quando per esempio si
combatté tra due pugili quella violenta gara che dicemmo, OR del 20 marzo
1971 sotto il titolo La sfolgorante vittoria dei pugni scriveva che l’universale
interesse per un tale evento «potrebbe essere considerato in certo modo positivo»
perché «nonostante tutto l’umanità è ancora in grado di reagire, di concentrarsi
su un valore o un evento presunto tale». Sembra che per l’articolista il grado di
attività morale dell’uomo si misuri solo dal reagire e che dedicarsi a un valore e
dedicarsi a un presunto valore abbiano ugual segno positivo. È l’eresia del
dinamismo moderno per il quale l’azione vale di per sé stessa indipendentemente
dall’oggetto e dal fine. È il dinamismo che fa all’autore paragonare l’interesse
mondiale per il fatto pugilistico a quello per l’impresa lunare del 1969 e
concludere che «il pugilato rappresenta un momento della vita» con la sola
riserva che «non deve essere assolutizzato». Ma è troppo manifesto che tale
riserva concerne lo sport come idea dell’iperuranio e non intacca i fatti dello
sport del mondo che tendono alla sua teosi da cui non si intende distanziarsi con
una loro condanna.

102. Lo sport come incentivo di fraternità. – Non meno fallace è la seconda


motivazione della somatolatria moderna, che cioè lo sport favorisca, oltre che il
dominio dello spirito sulle membra, anche le virtù di lealtà e di rispetto fra gli
uomini e quindi conferisca alla concordia tra le nazioni. Io non negherò che
l’esercizio sportivo nella forma emulativa supponga una disciplina di obbedienza
alle regole del contendere e che tali regole siano generalmente osservate. Infatti
quell’ordine prescritto all’azione agonistica è una condizione del suo medesimo
essere, come di qualunque azione in cui concorrano più individui: se i
contendenti non le osservassero, l’azione sportiva diverrebbe impossibile.

Ma contro l’asserto comune stanno i fatti di frode, di violenza e di


intolleranza. Di frode, come quelli del 1955 in Italia dove intere squadre di
calcio furono degradate per aver comperato giuocatori delle squadre avverse a
lasciarsi battere; e quelli estesissimi del 1980 andati davanti alla cosiddetta
magistratura sportiva. Di violenza, come quelli dell’ottobre 1953 nell’incontro
tra Austria e Iugoslavia che diedero luogo a un’azione diplomatica di scuse;
quelli di Belfast in dicembre 1957 dove i calciatori della nazionale italiana
vennero aggrediti dalla folla e tratti al sicuro dalla polizia; e quelli allo stadio di
Lima nel 1964 con decine di morti calcati dalla ressa infuriata dopo l’incontro
con l’Argentina. D’altronde in maggio 1984 si radunarono a Malta i ministri
dello sport di ventidue Paesi europei per cercar rimedio alla violenza nelle arene
sportive e alla frode nelle gare. E quanto al sentimento di rispetto della persona
umana, vorrei non menzionare, ma debbo, che nel giugno 1955 al circuito
automobilistico di Le Mans, essendo sbalzata di strada una vettura con strage di
spettatori, non bastarono ottanta morti a troncare il proseguimento della gara
micidiale. Infine c’è un fatto che con la sua incredibilità prova l’attizzamento di
odi nazionali, oltre che cittadini, ad opera dello sport: la guerra guerreggiata per
più mesi tra San Salvador e Honduras con tremila morti e dodicimila esuli, per
cagione di una partita di calcio (RI, 1969, p. 659). Ciononostante il card.
Dall’Acqua, vicario del Papa per l’Urbe, in OR del 20 febbraio 1965 esaltava lo
sport, e con mediocre arguzia vi leggeva la sigla di salute, pace, ordine, religione
e tenacia.

Il documento più rilevante dell’assecondamento della Chiesa allo spirito


somatolatrico del secolo è però il discorso di Paolo VI per le XX Olimpiadi a
Monaco di Baviera, discorso che fu poi tragicamente contraddetto dagli eventi
atroci che funestarono quei ludi. Il discorso esordisce con una dossologia della
«gioventù sana, forte, agile e bella», «rediviva dell’antica forma dell’umanesimo
classico, insuperabile per eleganza e per energia; gioventù inebriata del proprio
giuoco nel diletto di un’attività fine a sé stessa, affrancato dalle avare e severe
leggi utilitaristiche del consueto lavoro, leale e lieta nelle più varie competizioni
che vogliono produrre, non offendere l’amicizia». Il Papa passa poi alla consueta
celebrazione della gioventù come «immagine e speranza di un mondo nuovo e
ideale nel quale il sentimento della fraternità e dell’ordine ci rivela finalmente la
pace». E proclama felici i giovani «perché sono in un cammino che sale». Qui il
Papa non può né abrogare né derogare alla dottrina cattolica e conclude che «lo
sport deve essere una spinta alla pienezza dell’uomo e tendere a superarsi per
raggiungere i livelli trascendenti di quella stessa statura umana alla quale esso ha
conferito non una perfezione statica, ma tesa verso la perfezione totale».
L’allocuzione terminava con una citazione del ciclista Merckx.

A questa dossologia dello sport consuona la dichiarazione di Avery


Brundage, il presidente del Comitato olimpionico internazionale, che esplicita
tutti i sensi teologici e parateologici dell’allocuzione paolina. Rimossa dai fatti la
debole riserva del Papa circa il carattere non ultimo dell’ideale sportivo, l’attività
sportiva può benissimo simulare un’assiologia religiosa o quasi religiosa.
«L’olimpismo» dice dunque lord Brundage «è la più ampia religione del nostro
tempo, una religione che porta con sé i nuclei di tutte le altre» (OR, 27 luglio
1972).

Analizzando infatti l’allocuzione papale si trova che delle quattro qualità con
cui il Pontefice apostrofa la gioventù nessuna, e men che tutte la bellezza,
esprime un valore morale, cioè una virtù. Che, in secondo luogo, la gioventù
sembri «inebriata del proprio giuoco» non può essere soggetto di soddisfazione,
perché la religione esclude ogni dismisura e ogni ebrietà, se non sia quella sobria
dello Spirito. E quell’abbassamento del lavoro incatenato (parrebbe) alle leggi
utilitarie sembra dimenticare che il lavoro è un’attività essenzialmente morale in
cui si esplicano molte virtù. D’altronde il prendere lo sport come attività fine a
sé stessa non capisce nella concezione cattolica in cui non si dà alcuna attività
dell’uomo fine a sé stessa, perché l’uomo non è fine a sé stesso. Né vi capisce
l’identificare la felicità dei giovani in un cammino saliente, né si può vedere nel
progresso nello sport un progresso umano, ma se mai (giusta la distinzione di
san Tommaso) un progresso dell’uomo. Né lo sport può superandosi raggiungere
livelli trascendenti, giacché esso non può uscire dall’essenza propria e non si
trova sulla linea dello sviluppo spirituale dell’uomo. E infine è del tutto vera la
proposizione dell’epilogo, che cioè lo sport non è il tutto della vita né una
religione. Però con questa negazione non è più possibile riconoscere allo sport
una qualunque peculiarità morale: tutte le attività della vita, in quanto capaci di
entrare nella finalità morale ad opera della volontà, sono, come lo sport, grado
alla perfezione: ma appunto non da sé stesse, ma ad opera della volontà morale.
Si badi a non confondere le essenze e a non prendere lo sport come una forma di
spiritualità. Non vi badò l’OR del 1 gennaio 1972 dove si legge: «Lo sport
beneficia del mistero pasquale e diventa strumento di elevazione». Siccome non
c’è nella Rivelazione nessunissimo possibile riferimento a una attività sportiva di
Cristo, si tenta almeno, con un’operazione confusionale e circiterizzante, di
tirare lo sport nel mistero pasquale.

103. La somatolatria nei fatti. – Alla dossologia dello sport, propria del
mondo moderno e partecipata, se non proprio toticipata, dalla Chiesa, inflissero
una cruda contraddizione gli eventi della Olimpiade monacense del 1972
segnatamente in punto agli spiriti di filantropia e di amore internazionali che
esso farebbe crescere negli uomini176. In realtà in quei ludi prevalsero sui
sentimenti di filantropia e di umanità le due passioni della sopraffazione
agonistica e degli odii nazionali. Lascio di osservare che nell’istituzione
originale del barone Coubertin le Olimpiadi erano una gara tra individui e non
tra Stati, mentre qui si agogna e si glorifica la vittoria dell’atleta sempre come
vittoria di Russia o America o Italia e via dicendo. Allo svolgimento delle gare
le folle urlanti, fischianti o peanizzanti dividono gli animi e arguiscono animi
divisi. Quanto alla lealtà, diciotto giudici furono destituiti essendo stati convinti
di parzialità per gli atleti della parte favorita e molti atleti esclusi dalle gare per
avere usato mezzi chimici proibiti di stimolazione e di corroboramento.

Ma la contraddizione che sgomentò il mondo fu la strage atrocissima e


proditoria di tutta la squadra israeliana ad opera di terroristi palestinesi con
l’esecrabile susseguente decisione di non sospendere le Olimpiadi. Il motivo
della decisione è che «un atto criminale non deve prevalere sullo spirito
sportivo». È il solito qui pro quo. Non si trattava di far prevalere il crimine sullo
spirito sportivo (concetto d’altronde confusionale su cui gli uomini si accordano
grazie alla sua confusionalità), bensì di onorare e rispettare le vittime e di non
procedere come se i morti non fossero morti e gli assassini non fossero assassini.
Questa mancanza di umanità e di pietà manifesta l’irreligiosità delle Olimpiadi
moderne rispetto a quelle antiche.

Per raccogliere un giudizio esente da ogni prevenutezza circa la moderna


somatolatria convien non dimenticare che le passioni di odio tra le fazioni
divamparono anche nel circo romano e nell’ippodromo bizantino. Vitellio (è
noto) giustiziò i nemici dei suoi Azzurri e la plebe di Costantinopoli furoreggiò
più volte sino all’eccidio e all’incendio di mezza città. E anche convien ricordare
che le rivalità sportive furono assai vive tra le plebi cristiane durante il Medio
Evo. D’altronde anche tra le confraternite, che pure avevano per iscopo
devozioni e opere di misericordia, durarono sino ad epoca recente emulazioni e
rivalità. Ma nel presente discorso non si è punto preteso che le passioni non belle
degli uomini siano una novità del secolo. A tali passioni sono materia oggetti
belli e oggetti non belli ed esse si usurpano persino la religione facendone
un’animosità iraconda e insensata. La novità che abbiamo osservata è che a
queste passioni si tende togliere la loro base propria, che è l’ordine somatico, per
dar loro un’altra base assiologica che le dignifichi e le metta in contatto con la
religione e anzi addirittura col mistero cristiano.

Lo sport non appartiene per sé alla perfezione umana né al destino della


persona e non conferisce per nulla a tale perfezione e a tale destino, giacché può
esistere eccellenza nelle abilità corporali e tuttavia essere allentato il vincolo di
dipendenza che le potenze inferiori hanno verso la ragione. Quello che avvalora
l’esercizio del vigore fisico è soltanto l’esercizio della volontà la quale aumenta
nell’uomo la potenza della ragione e la libertà morale. Non si deve far passaggio
dal genere fisico al genere morale come se la linea fosse continua. C’è un saltus
che soltanto la volontà morale può operare.

104. Spirito penitenziale e mondo moderno. Riduzione di astinenze e digiuni.


– Avanzando la somatolatria indietreggiano per necessaria conseguenza il
principio penitenziale e l’esigenza ascetica propri della religione cattolica.
L’indietreggiamento parve cominciare con l’indulto speciale del 1941 che
abrogava l’astinenza dalle carni il venerdì e ogni digiuno tranne quello delle
Ceneri e del Venerdì Santo per tutto il tempo di guerra. Non fu in realtà
indietreggiamento, ma normale riadattamento del principio alle mutate
contingenze. La generale penuria di alimenti del tempo di guerra oltre che
produrre la diminuzione della quantità pro rata, rendeva difficile la selezione dei
cibi in ossequio al precetto della Chiesa. Per intendere che taglio faceva il
digiuno ecclesiastico nella quotidiana porzione alimentare convien ricordare che
il digiuno importava un unico pasto normale nel corso della giornata aggiuntivi il
cosiddetto frustulum del mattino e una modesta comestione serale. Era prescritta
anche la selezione dei cibi molti generi restando esclusi dalla comestione
digiunale. Anche il digiuno eucaristico, che è di riverenza al sacramento e non
ascetico come sono l’astinenza e il digiuno ecclesiastici, venne mitigato nel
1947, dopo che furono introdotte le Messe vespertine. Più tardi il popolo che
prima era astretto al digiuno sin dalla mezzanotte, poté comunicare cessando dal
cibarsi un’ora prima della Comunione. Il motivo dell’allentamento è indicato
nella debilitazione della presente generazione a cagione della crescente penuria
annonaria e delle sofferenze di guerra. Ma la disciplina penitenziale fu poi
ritoccata nel 1966 riducendo l’astinenza delle carni ai soli venerdì di quaresima e
nel 1973 il digiuno eucaristico per successive diminuzioni scemò almeno per gli
infermi fino a un quarto d’ora prima della sunzione del sacramento (OR, 1 aprile
1973). Oggi anche l’astinenza del venerdì è abolita di fatto. La disciplina del
digiuno andò dunque in brevi anni rimettendo di rigore fino alla quasi abolizione
del precetto digiunale. Eppure un tempo, come è noto dagli annali ecclesiastici,
dal costume e dai parlari del popolo, non solo il digiuno era universalmente
praticato, ma persino fissato nelle leggi civili e divenuto oggetto di negoziazione
tra i governi e la Santa Sede.

Questo rilassamento produsse più effetti. Uno fu di ordine linguistico e


lessicale. Fu mutato il significato al vocabolo digiuno che dall’indicare la
privazione di cibo per notabile tempo, onde lo stomaco rimane vuoto, passò a
significare puramente il non mangiare, sia pure per pochi minuti. Nella nuova
accezione si può dunque essere digiuni e satolli, e come tali andare alla
Comunione.

Il secondo effetto fu di falsificare la liturgia, cioè di togliere verità alle


formule del rito, venute a dire il contrario di quel che la Chiesa pratica. Il motivo
dominante del tempo di quaresima era il corporale digiuno e nel prefazio, per
esempio, si invocava: «Deus qui corporali ieiunio vitia comprimis, mentem
elevas, virtutem largiris et praemia»177. Ma il prefazio del Novus ordo in luogo
del corporale digiuno conosce soltanto genericamente il digiuno quaresimale.
Nella feria III post Dominicam I si pregava «ut mens nostra tuo desiderio
fulgeat, quae se carnis maceratione castigat»178, ma nella nuova pratica
quaresimale non appare ormai nessuna macerazione e nelle nuove formule non
v’è ombra di tale idea, che pure viene direttamente da san Paolo (I Cor., 9, 27). E
così il sabato post Dominicam II: «ut castigatio carnis assumpta ad nostrarum
vegetationem transeat animarum»179. A questa falsificazione dei testi liturgici
contraddetti ormai dalla riformata prassi della Chiesa fu poi ovviato, come dissi,
con la riforma dei testi medesimi nei quali si trova ora qua e là qualche relitto
dell’antico sistema, ma la cui inspirazione generale deriva dalla dottrina
penitenziale ammodernata e conformata alla ripugnanza del secolo alla
mortificazione180.

Il digiuno ha nella religione cattolica un fondamento prettamente dogmatico:


è un’applicazione speciale del dovere della mortificazione, e questo discende a
sua volta dal dogma della corruzione originale. Soltanto se la natura non è guasta
e concupiscente i suoi impulsi sono fidentemente da secondare anziché da
reprimere. Pelagio e Vigilanzio rampollano dalla medesima negazione e
giustamente san Gerolamo nell’aspra polemica contro Vigilanzio irrideva
l’avversario chiamandolo Dormitanzio: voleva dire che chiudeva gli occhi sopra
la condizione di fondo dell’uomo. Tutti gli altri motivi assegnati dai teologi al
digiuno discendono da questo: l’uomo corrotto deve essere mortificato, affinché
possa essere vivificato come nuova creatura.

La mortificazione puramente filosofica, quale è praticata nelle sette


d’Oriente, non ha un tal fondamento: lì il corpo si castiga per un motivo, a dir
così, ginnastico, perché cioè impaccia le operazioni della mente e affinché non le
impacci. Questa mortificazione può avvenire senza alcun intervento di motivi
religiosi.

Le opere penitenziali nel cattolicismo esprimono inoltre e principalmente il


dolore per la colpa. Questo dolore, che è un atto imperato dalla volontà,
costituisce la penitenza come virtù interiore ma, per il nodo antropologico, onde
non si muove l’uomo interiore che non si muova l’uomo esteriore, la penitenza
esteriore è necessaria alla penitenza interiore, anzi è la stessa penitenza interiore
in quanto fatto dell’uomo.

Il digiuno in questo riguardo è una parte primaria della penitenza e convien


rilevare che quando Cristo discorre del «facere iustitiam» esemplifica le opere
della giustizia in tre sole, l’elemosina, l’orazione e il digiuno, cioè, come spiega
sant’Agostino, la benevolenza e la beneficenza in universale, l’aspirazione a Dio
in universale e la repressione della concupiscenza in universale181.

Paolo VI nel discorso del dì delle Ceneri del 1967 a Santa Sabina ribadì
l’insegnamento della Chiesa, che cioè la penitenza è necessaria alla metanoia, la
natura essendo corrotta, e alla riparazione dei peccati. Il digiuno però non è
soltanto un perfezionamento della virtù naturale di sobrietà, conosciuta anche dai
Gentili, ma è un fatto proprio della religione cristiana, la quale, avendo reso
l’uomo consapevole dei suoi mali profondi, ha pure proporzionato ad essi i
rimedi. I piaceri della gola (ché di questa parte della concupiscenza si tratta) si
possono certamente conciliare con la sobrietà, ma la religione ravvisa in essi una
tendenza sensuale che svia dalla vera destinazione e, conformemente alla
percezione che essa ha di quel che è dell’uomo nell’uomo, osta a quella tendenza
al male prima che il male sia principiato.

105. La nuova disciplina penitenziale. – Ora la riforma della disciplina del


digiuno sembra mutare l’essenza della restrizione togliendole il carattere di
afflizione della carne, prima così aperto e proclamato anche dalla liturgia, per
lasciarle puramente quello di regolarità morale. La penitenza invece non è un
astenersi dalla lautizie del vitto, ma un tagliare nel regime ordinario della
sobrietà in vista di un duplice scopo: rafforzare le deficienti energie morali della
mente che deve sostenere il combattimento contro la legge delle membra (Rom.,
7, 23) ed espiare i falli in cui l’ereditata fragilità lascia cadere anche i virtuosi182.
Si può aggiungere che, data l’organicità del corpo della Chiesa, in cui tutte le
membra sono unite tra di loro e col capo che è il Cristo, le opere penitenziali del
cristiano sono anche un’imitazione e una partecipazione all’opera penitenziale
sostenuta dal Cristo innocente per il genere umano peccatore, e ciò benché il
valore di queste opere derivi tutto dal valore di quelle del Cristo.

La riforma della prassi penitenziale non andò disgiunta dalla denigrazione


della Chiesa storica che cammina a paro con ogni ammodernamento. Le
pratiche cattoliche dell’astinenza, celebrate da tutti i Padri della Chiesa con
opere speciali che sono spesso capolavori, seguite con unanime ossequio per
secoli e secoli da generazioni riflessive e obbedienti, furono nei tempi moderni
argomento di derisione da parte di scrittori superficiali e irreligiosi. Questi
scrittori non seppero staccare la verità, la profondità e la bellezza delle
prescrizioni della Chiesa dai contingenti abusi che occorsero in questa come in
ogni altra azione religiosa, e non riconobbero il gran principio, che cioè una
dottrina si deve giudicare per le conseguenze che ne discendono logicamente e
non dai fatti con cui gli uomini la contraffanno o la contraddicono. Il ridicolo che
si mosse contro il precetto della Chiesa circa i cibi ha la sua causa nella generale
avversione del mondo alla mortificazione del senso e trova poi un pretesto nel
modo in cui possono talora essere eseguite queste prescrizioni, cioè solo
materialmente senza attenzione e intenzione ai fini altamente morali a cui sono
ordinate. Certi cristiani prendono insomma una sola parte della penitenza intesa
dalla Chiesa, e la isolano dal rimanente dalla Chiesa comandato. Allora si vede
quella parte uscire tutto a un tratto da una vita pasciuta nei contenti mondani.
Allora gli spiriti superficiali e irreligiosi, trovando dissonanza tra questo
frammento di penitenza e il precetto intero, ne traggono motivo per deprezzare
anche la penitenza intera e per riderne.

Ma il fatto notabile del presente stato della Chiesa è che tale spirito di
superficialità, che disistima la mortificazione del senso e la ridicolizza, si è
comunicato anche al clero che del precetto ha perduto il sapore e la sapienza. Per
citare un solo dei moltissimi esempi da me raccolti, nel Bollettino della
Cattedrale di San Lorenzo di Lugano dell’ottobre 1966 si buffoneggiava con
basso parlare sul nessun divario tra sogliola e bistecca e tra frittata e salametto.
Qui viene disconosciuto il delectus ciborum conosciuto dalla legge di Mosè e da
quella della Chiesa. In qualche modo viene estesa anche ai cibi la parificazione
delle essenze.

Le ragioni della discrezione dei cibi, che è di diritto positivo, essendo stata
desunta dalle cognizioni fisiologiche di tempi andati, sono soggette a variazione
e, dopo l’espansione extraeuropea del cattolicismo, l’astinenza da certi cibi di
cui sono affatto prive certe nazioni, era incongrua e chiamava una riforma della
disciplina. Ciononostante la Chiesa non ha da vergognarsi della sua legislazione
né la sua dottrina è esposta al ridicolo, perché essa era ragionevolissima, fondata
su natura, comandata dal Cristo, sanzionata dall’obbedienza di generazioni non
più rozze, ma più riflessive, non meno fragili, ma meno sensuali delle presenti.

106. Etiologia della riforma penitenziale. – La riforma della disciplina


penitenziale ebbe due motivi, uno antropologico e pseudospiritualistico, e l’altro
libertario.

Il motivo antropologico è quello di una viziosa concezione della reciprocanza


di anima e corpo. Si misconosce il sìnolo dei due elementi metafisici che
integrano l’uomo, credendosi che i fatti del corpo non esprimano gli atti
dell’anima. Si ignora che questi ultimi non sono autentici se rimangano
inespressi e senza riverbero nell’esperienza sensibile. Certo è possibile
adempiere una norma che mira alla mortificazione della volontà, inclinata al
senso, senza mortificare la volontà inclinata al senso, cioè obbedire
materialmente al precetto senza adottarne il fine. Ma in primo luogo questo
sdoppiamento non è peculiare alla norma dell’astinenza, ma si estende a tutti i
comandamenti morali: le opere della giustizia si possono fare senza giustizia, le
opere della castità senza castità, le opere dell’amore senza amore e tutto si può
fare sul teatro della virtù con la sola maschera della virtù e senza l’animus in quo
sunt omnia, l’animo da cui tutto dipende.

Eppure anche l’adempimento materiale della legge, per quel principio


antropologico della solidarietà di tutte le parti del composto umano, produce un
qualche, anche preterintenzionale, effetto: nel corpo macerato gli impulsi del
senso restano fiaccati e la loro contumacia contro le leggi dello spirito appare
meno violenta.

La tendenza dei neoterici a squalificare la corporale penitenza è dunque


erronea. Certo il digiuno deve essere accompagnato dalla compunzione del cuore
ed è fatto essenzialmente per provocarla, ma anche disgiunto da essa produce un
effetto salutare che impedisce di disprezzarlo. Il rimando che i documenti
innovatori fanno dal corporale digiuno alla interiore mortificazione sarebbe
dunque fallace, se implicasse la disistima dei valori del corpo astinente, che sono
valori morali del sìnolo, e tanto più inaccettabile se, come sovente accade, si
riguardasse l’osservanza del precetto penitenziale quasi come un impedimento
all’esercizio di una vera penitenza, quasiché il vedere un cristiano mortificato
secondo il precetto digiunale della Chiesa fosse un indizio di ipocrisia o di
spirito materiale.

La sola penitenza spirituale oltre che dimidiare l’uomo, è anche impossibile,


giacché non si possono amputare i desideri della superbia senza umiliarsi
esteriormente, né i desideri del senso senza reprimere gli atti eliciti ed esteriori
del senso, né i desideri della gola, senza tagliare nella lautizie e nell’ordinario
vitto. Il Cristo medesimo, che tanto energicamente condannò il digiunare in
facie, non lo condannò certo come esteriorità della mortificazione (esteriorità
necessaria e intrinseca ad essa), ma come ostensione superba e come rispetto
umano. Ed è tanto lontano dal riprovare l’osservanza anche dei minuti precetti
concernenti cibi ed esteriorità, che anzi la dice necessaria come quella degli atti
interiori: «haec oportuit facere et illa non omittere» (Matth., 23, 23)183,
pareggiando l’esteriore all’interiore. Il male sta nel mancare dello spirito, non
nell’eseguire quelle pratiche.

Quel pareggiamento non è fondato sull’uguaglianza di peso morale tra


astinenza dai cibi e astinenza dal peccato, giacché la prima, essendo mezzo alla
seconda, non può aver lo stesso grado assiologico della seconda. È fondata
invece sul principio dell’obbedienza, che la riforma della disciplina penitenziale
ha snervato sostituendo ai lunghi periodi digiunali comandati un tempo la
precettazione di due soli giorni e abbandonando per il resto il dovere morale e
religioso della mortificazione alla libertà dei fedeli, supposta illuminata e
matura. Quando Giovanni XXIII promulgò l’enciclica sulla penitenza non vi fu
proclamazione del gran digiuno e neppure un giorno solo di astinenza precettata
(o di cibi o di diletti o di contenti mondani). E quando Paolo VI indisse in
ottobre 1971 una domenica di preghiera e di digiuno molti vescovi celebrandola
nemmeno parlarono del digiuno, tutto essendo rimesso all’interiorità.
In questa materia il passaggio da un’obbligazione fatta ai fedeli mediante una
positiva legge ecclesiastica all’obbligazione fatta dalla legge morale è analoga a
quella avvenuta nella riforma circa la lettura dei libri (§§ 71 e 72). Si rimettono
gli uomini ai loro propri lumi, alla legislazione della loro propria coscienza,
elevando il principio della libertà sopra quello della legge. Già san Tommaso,
rispondendo a un’obiezione, scriveva che i digiuni «non sono contro la libertà
del popolo fedele, ma piuttosto giovano a impedire la servitù del peccato»
(Summa theol., II, II, q. 147, a. 3 ad tertium). L’obiezione che implicava motivi
dello spiritualismo ereticale del Medio Evo, fu ripigliata da Erasmo: ciascun
cristiano è libero di digiunare soltanto quando ne prova il bisogno per ragione
del fine, che è la mortificazione.

L’esaltazione della libertà è divenuta un luogo comune della teologia


postconciliare e se ne è fatta penetrare l’idea nella minuta pubblicistica, massime
ad opera delle cosiddette rubriche o consulenze teologiche dei più divulgati
settimanali. In «Amica» del 2 agosto 1964, per esempio, mons. Ernesto Pisoni,
interrogato sul precetto ecclesiastico dell’astinenza rispondeva: «Si tratta
semplicemente di un precetto che trae la sua giustificazione e il suo valore
morale dalla libera volontà di chi vuole osservarlo nello spirito, perché nella
lettera è tanto facile eluderlo». Qui viene insinuata da un sacerdote a un pubblico
di mezzo milione di lettori un’idea erronea della moralità. Mentre l’atto
dell’uomo riceve il suo valore dalla conformità con il precetto, qui al contrario si
fa derivare il valore del precetto dall’atto libero dell’uomo che sceglie di
adempierlo. Si propone un duplice sofisma: primo, che la volontà rifiuti ogni
eteronomia, ossia che il dipendente sia indipendente; secondo che il fedele, che è
membro del corpo collettivo e mistico del Cristo, che è la Chiesa, si dissoci e si
smembri da esso per erigersi come individuo che dà legge a sé stesso.

107. Penitenza e obbedienza. – Il rilassamento della pratica penitenziale è


dunque avvenuto sul supposto di una più matura coscienza ascetica dei fedeli e
con l’intento di spiritualizzare ed affinare la mortificazione. Ma il supposto è
contraddetto dai fatti. I popoli cristiani godono generalmente di sovrabbondanti
piaceri sensuali e appagamenti mondani e anche l’altra parte, oggi sofferente, è
destinata ad essere essa pure condotta gradualmente a un’identica
sovrabbondanza. Il fatto è che minorando la Chiesa le corporali privazioni per
maggiorare, come credesi, l’interiore umiliazione, è quasi dileguato ogni digiuno
dall’ordinaria vita del popolo cristiano. Ed è una stravaganza quella dell’inglese
card. Godfrey che nell’universale perdersi della mortificazione voleva che si
facessero partecipare alla quaresima anche gli animali.

Infine, come già osservammo, fu trascurato affatto nello scemamento del


precetto il valore dell’obbedienza e anzi messo a terra e rovesciato nel suo
contrario. «La penitenza è necessaria,» scrive il Bollettino della Cattedrale di San
Lorenzo di Lugano, gennaio 1967 «ci siano o non ci siano prescrizioni
ecclesiastiche a dire quel che bisogna fare o non fare: meglio anzi che non ci
siano». E Diocesi di Milano, 1967, p. 130 commentando la pastorale dei vescovi
lombardi, dopo rilevata l’abolizione di divieti e prescrizioni, asserisce: «La
penitenza è resa libera e quindi più meritoria».

In questa nuova dottrina, vanno perduti tre valori. Primo, quello del fare per
obbedienza alla Chiesa nel modo da essa prescritto quello che il dovere della
penitenza impone. Secondo, quello che viene dal fare l’atto penitenziale non solo
individualmente, ma ecclesialmente, come la liturgia del Vetus ordo dichiarava, e
rimettendo alla Chiesa la determinazione modale della sostanza di quel dovere.
Terzo, il merito che viene dall’abdicare alla volontà propria circa il modo della
penitenza, la quale abdicazione circa il modo è essa stessa una penitenza. Ma
questi valori dipendenti dal fatto che la volontà è legata alle modalità e ai tempi
prescritti, non sono più tenuti in pregio come ai tempi in cui si pesavano a oncie
i cibi permessi e si aspettavano i segni campanari per rompere il digiuno. Infatti
la Congregazione romana al dubbio se l’obbligazione grave di osservare i dì
penitenziali si riferisca ai singoli giorni o al complesso, rispose che si riferisce al
complesso (OR, 9 marzo 1967). Questo responso restituisce alla libertà dei
credenti tempi e modalità della corporale mortificazione e rende mobile anche il
carattere sacro che sembrava affisso al dì delle Ceneri e alla Parasceve della
Settimana Santa.

Infine la convertibilità dell’astinenza in opere di misericordia con pregiudizio


del concetto di penitenza quaresimale, è stato fissato in istituzioni come quella
del Sacrificio quaresimale che è un’oblazione in danaro fatta equipollente alla
corporale mortificazione. Tale sacrificio di danaro, sostituito ai digiuni tenuti per
non conformi ai tempi, non è tuttavia più conforme ai tempi di quanto sia il
digiuno. Infatti la società cristiana essendo in gran parte società ricca e
pecuniosa, quella rinunzia è di scarso valore, senza dire che è più penoso sempre
tagliare nel corpo che nei beni di fortuna. La confusione di penitenziale e non
penitenziale presi come il medesimo è professata esplicitamente nel documento
del 1966 che dichiara: «Può essere opera penitenziale l’astenersi da cibi
particolarmente desiderati; un atto di carità spirituale o corporale; la lettura di un
brano della Sacra Scrittura; rinuncia a uno spettacolo o divertimento e altri atti di
mortificazione». La lettura non è un atto di mortificazione, e le opere di carità
nemmeno. Perduto il concetto di penitenza tutto diventa penitenza. Anche nel
messaggio di Giovanni Paolo II per la quaresima del 1984 la quaresima è fatta di
opere di misericordia, ma non vi compare punto il digiuno.
CAPITOLO XI MOTI RELIGIOSI E SOCIALI

108. Desistenza dall’azione politica e sociale. – La società contemporanea


essendo dominata dall’idea del possesso del mondo, il quale si ottiene con la
tecnica cioè con l’applicazione della scienza della natura al dominio della natura,
tutta la vita politica ha assunto un nuovo carattere. Il soggetto sociale è ormai la
massa degli individui uniti nella ricerca dell’utilità e il fine sociale è divenuto la
produzione del maximum di utilità e la distribuzione massima dell’utilità. La
variazione avvenuta si può contrarre nella desistenza della religione ad
affermarsi nell’azione politica e nell’azione sociale.

Nel secolo XIX i partiti politici, privi di organizzazione, non avevano quasi
altra base che la questione religiosa. Tutto il secolo del liberalismo fu
caratterizzato dalla dualità: un partito caldeggiava la separazione della vita civile
dalle cose religiose, rimesse alla coscienza individuale e riguardate come niente
afferenti alla pubblica prosperità; l’altro resisteva considerando al contrario la
religione non solo come parte della vita storica nazionale, ma anche,
sovrapoliticamente e sovrastoricamente, come una necessità morale della vita
consociata. La contesa tra la Chiesa e lo Stato moderno, il quale vien
costituendosi in valore autonomo e perciò si sradica dal ceppo religioso su cui
era pullulato, spiega come le lotte politiche implicassero i valori religiosi e si
presentassero come un impegno o per mantenerli nel corpo sociale o per
circoscriverli alla sfera dell’individuale libertà.

I Pontefici dell’ultimo secolo avevano promosso un’ampia espansione


dell’attività politica e pubblica dei cattolici, sia con la creazione di partiti politici
autonomi che si denominavano cattolici e informavano l’azione alla dottrina
della Chiesa, sia con la fioritura di associazioni differenziate per i singoli rami,
dalle culturali alle sportive, dalle assistenziali alle economiche.

Non facciamo entrare in questa categoria le lotte sostenute dal partito


cattolico in Inghilterra, Stato eterodosso, dove l’azione dei cattolici, massime
degli irlandesi, era quasi una protrazione delle guerre di religione e l’istanza
politica dei cattolici portava commista l’aspirazione all’indipendenza. Ma certo
rientrano invece in questa categoria i partiti cattolici operanti in Stati che
professavano ancora la religione cattolica nelle loro costituzioni. In Francia sotto
Luigi Filippo, consumata la disgiunzione della causa cattolica dalla causa
monarchica, il Montalembert e il Dupanloup rivendicarono i diritti della
religione, ma con una motivazione nuova che era il titolo di libertà simpliciter.
In Isvizzera il partito denominato conservatore-cattolico aveva la propria
primaria ragione nella difesa dei diritti e persino dei privilegi della Chiesa. Esso
perseguì lo scopo con tanta forza che i Cantoni cattolici credettero doversi
separare dalla Lega elvetica formando tra di loro una Lega separata che non
rifuggì dalla guerra civile. Una diffusa e attiva organizzazione che prendeva
nome da Pio IX (Piusverein) sosteneva l’azione politica con grandi assemblee
popolari. Nel Belgio e in Olanda le forze cattoliche erano serrate in forti
organizzazioni che ebbero un peso spesso preponderante nell’imprimere
l’indirizzo alla vita nazionale. In Germania la minoranza cattolica, imponente
per numero, potente per organizzazione, secura per unità d’intenti e valore di
capi, osteggiò la politica anticattolica del Bismarck che cedette all’opposizione
ritirando le leggi del Kulturkampf. Le condizioni di inabilità e minorità politica
in cui si trovarono i cattolici italiani a cagione dell’inimicizia tra la Chiesa e lo
Stato circa il potere temporale, tolsero al partito cattolico di dispiegare la sua
forza. Ma quando fu caduta quell’inabilità, il Partito Popolare dei cattolici
fondato dallo Sturzo esercitò un influsso non indifferente nella vita del Paese o
per lo meno mostrò quanto avrebbe potuto.

Ma l’indirizzo avviato dopo il Vaticano II segnò la decolorazione e, per dir


così, la dissalazione (sal terrae evanuit) dei partiti e delle organizzazioni sociali
dei cattolici. Io so bene che tale decolorazione è parte di un processo generale
per cui ciascun partito, perduta la peculiarità onde si opponeva agli altri, rimane
con quella parte generica di finalità politica che aveva comune cogli altri. Così i
partiti cattolici, cessato il motivo di difesa della libertà della Chiesa concepita
secondo il sistema che li opponeva agli altri, hanno adottato il motivo della
libertà simpliciter nel quale è certo incluso il motivo antico, ma sottomesso
ormai al motivo anteriore e superiore della libertà simpliciter.


109. Scomparsa o trasformazione dei partiti cattolici. – I partiti cattolici
hanno perciò subito tutti una riduzione o una decolorazione dei contenuti per cui
erano sorti, oppure sono scomparsi dal teatro della vita nazionale. Scomparso
affatto è il Mouvement républicain populaire sorto in Francia dopo la guerra ad
opera di Maurice Schumann184. In Isvizzera il partito conservatore cattolico
depose l’antica denominazione che troppo rilevava il carattere originario
chiamandosi adesso Partito democratico cristiano e inspirò il programma a una
generica idealità cristiana che assume tutti i principii della filosofia politica
liberale. Nel Ticino, per esempio, è divenuto Partito popolare democratico,
denominazione in cui oltre all’incongrua replicazione dell’idea di popolo, cessa
ogni espressa qualificazione cattolica. D’altronde il partito, seguendo le direttive
del vescovo diocesano, accolse e promosse la trasformazione costituzionale del
Cantone cattolico in Cantone di mista religione. In Germania un analogo
processo portò la Christliche demokratische Partei, succeduta al celebre
Zentrum, e abbracciante cattolici e protestanti, a volgersi alla dottrina politica del
liberalismo. La Spagna, durata per un quarantennio in un sistema politico che
escludeva i partiti, ha visto dopo la morte del generale Franco sorgere movimenti
di inspirazione cattolica sincretizzata con le massime dello Stato moderno. Nel
Belgio e in Olanda i movimenti cattolici che già ebbero un’organizzazione
serrata e potente, subirono la medesima dissalazione, venute meno le ragioni
dell’inveterato antagonismo al liberalismo dello Stato moderno. Anche
l’antagonismo verso il comunismo cedette a una supersolidarietà con la classe
operaia, ed epocate le condanne dei due Pii, il partito e il movimento sociale
cattolico si portarono su posizioni digradanti verso il liberalismo e il comunismo.

Di questa desistenza dal caratterizzarsi cattolicamente l’esempio più


cospicuo è dato dalla Democrazia cristiana italiana, la quale, trovandosi da un
trentennio in possesso del governo, andò gradualmente indebolendo la sua
contrapposizione al socialcomunismo, per debellare il quale aveva nei comizi del
18 aprile 1948 ricevuto una imponente investitura dalla nazione185. E per
misurare l’asprezza del contrapposto e la gravità del pericolo che nel 1948 si
credette incombere sulla nazione, basti ricordare che fu perfino dissuggellata la
clausura alle moniali di strettissima osservanza, affinché potessero aiutare col
suffragio contro la minaccia di Hannibal ad portas. E per misurare per converso
la metabasi del partito, venuto da un energico e combattivo atteggiamento di
antitesi a uno di acquiescenza e di accomodazione, basti rilevare che in nessun
paese democratico d’Europa il cangiamento della situazione politica e della
mentalità nazionale fu così radicale come in Italia. Mentre infatti la debellazione
del socialcomunismo fu nel 1948 la maggior causa e il supremo fine della lotta,
oggi il maggior fine dell’azione di quel partito è viceversa l’unione, detta
compromesso storico, con l’avversario di ieri.

La Chiesa, sin dalla celebre dichiarazione di Papa Gelasio nel secolo V, poi
confermata da Bonifacio VIII, riconosce la propria incompetenza nelle materie
politiche, in cui laici e sacerdoti sono soggetti al sovrano temporale, ma
rivendica l’intero dominio nelle cose spirituali e in quelle che abbiano un lato
spirituale, nelle quali viceversa laici e sacerdoti le sono assoggettati. E se si
conserva estranea all’azione politica, che è un mezzo al fine morale dell’uomo,
può però entrare a giudicare le leggi della comunità politica quando impediscano
quel fine e violino la giustizia naturale e i diritti medesimi della Chiesa. Che se
la sovranità, come nei regimi moderni, appartiene al corpo intero dei cittadini, la
Chiesa può resistere alle leggi inique prescrivendo la condotta che i cattolici
inquanto cittadini devono tenere usando del loro diritto politico, fuori di ogni
spirito di odio e di sedizione. Questa dottrina fu confermata da Giovanni XXIII
nella Pacem in terris che fa coincidere il dovere religioso col dovere civile: il
bene della giustizia, oggetto della virtù morale, è infatti un costitutivo del bene
comune, oggetto della virtù politica. Per questa coincidenza i Romani Pontefici
in alcuni frangenti della storia poterono annullare le leggi dello Stato. L’ultimo
esempio fu Pio XI che annullò le leggi irreligiose del Messico nel 1926. Ma
prescindendo dalla nullità di una legge iniqua per decreto pontificio, rimane
certo il diritto dei cattolici, in regimi in cui partecipano del potere legislativo, di
opporsi alle leggi offensive del diritto naturale e il dovere per la Chiesa di
attaccarle suscitando e regolando l’azione civile del laicato.

Ora a questo diritto, di cui il laicato cattolico si prevalse seguendo la


gerarchia anche nel nostro secolo, la Chiesa ha ora abdicato quasi del tutto e
come ha praticato una politica di desistenza nei suoi rapporti diretti con gli Stati
(§75) così l’ha inspirata alle masse cattoliche nell’interno di ciascuno Stato.


110. La desistenza della Chiesa nella campagna italiana sul divorzio e
sull’aborto. – Del fenomeno della desistenza che contrasta con l’asseveranza
combattiva dell’anteriore movimento cattolico, recherò due soli esempi e li
appoggerò, secondo il metodo che professo, su documenti della gerarchia e non
su privati opinamenti.

Il primo è l’abbandono e l’isolazione in cui la Chiesa italiana lasciò il


movimento laicale che si opponeva all’introduzione del divorzio promuovendo il
referendum abrogativo. All’alacrità combattiva dei preti neoterici186 che a visiera
alzata difendevano il divorzio in pubblici comizi fa singolare contrasto la
riservatezza malevola e malcontenta dell’episcopato che sembrava condividere
le ragioni di prudenza carnale accampate dagli oppositori del referendum. Giulio
Andreotti187 racconta che lo stesso Paolo VI aveva verso il referendum un
atteggiamento dubitativo circa l’esito, ma intrinsecamente dissenziente quanto
all’iniziativa in sé. Il Papa infatti dichiarò che «non poteva impedire a un gruppo
di cattolici italiani di servirsi liberamente dello strumento offerto
dall’ordinamento italiano per tentare di cancellare una legge ritenuta iniqua».
Sembrerebbe aver il Papa dovuto piuttosto incoraggiare che non impedire il
moto democraticamente legittimo e religiosamente obbligatorio di cattolici
mossi da uno spirito di giustizia a combattere una legge ributtata fino allora dalla
coscienza nazionale. Né la previsione di un esito avverso poteva distogliere dal
combattere, giacché siamo assicurati se facciamo il debito nostro, non già se le
probabilità sono in nostro favore. Come dissi, quel laicato fu abbandonato dalla
gerarchia la quale si volgeva meno a sostenere un punto della legge naturale ed
evangelica che a diagnosticare le disposizioni dell’opinione pubblica per poterla
secondare.

L’arcivescovo di Milano, card. Giovanni Colombo, formulava il principio


della desistenza in queste tre proposizioni: prima, «Non sarebbe in sintonia con
l’Episcopato italiano il prete che dissuadesse il referendum»; seconda, «Non
sarebbe in sintonia il prete che raccogliesse personalmente le firme per il
referendum»; terza, «Sono in sintonia quei sacerdoti che si adoperano per
stimolare i laici cattolici ad agire in coerenza con la loro coscienza
cristianamente illuminata». È da rilevare in queste direttive il richiamo a una
sintonia coll’episcopato in una questione in cui deve primariamente la coscienza
conformarsi alla legge morale e i pastori medesimi hanno come officio di
predicare tale conformità, non ritirandosi da quella franchezza per cui i loro
antecessori del secolo XIX si lasciarono imprigionare difendendo punti che non
erano al postutto di diritto naturale. Da rilevare in secondo luogo è il divieto
fatto ai sacerdoti di usare del proprio diritto civile a servizio del dovere religioso
impedendo la loro partecipazione attiva alla raccolta delle firme.

Da rilevare infine il rimando alla coscienza individuale per una decisione


che, essendo di diritto naturale e positivo divino, spetta alla Chiesa di prescrivere
e ordinare anziché abbandonare i fedeli agli incerti lumi privati. Sembra che nel
discorso del cardinale la Chiesa rifugga dal rendere quel servizio di
ammaestramento degli spiriti che le incombe come lumen gentium. E se l’OR del
5 maggio 1971 dice correttamente che convien tener separato il religioso dal
civile, erra però quando difende l’astensione della Chiesa nella contesa per il
divorzio; questa infatti è materia mista di religione e di civile e chi difende
l’astensione viene a sostenere che la Chiesa deve astenersi anche nelle materie
miste, in cui essa rivendicò sempre competenza.

Ma la renitenza di fondo ad impegnarsi su punti salienti della religione nel


consorzio civile, perché sono punti dolenti e intorno ad essi è da combattere,
viene interamente scoperta dallo stesso cardinal Colombo nel tempo in cui
l’opinione nazionale era agitata per la proposta di legge sull’aborto.
L’arcivescovo di Milano predicando in Duomo asserì che «i vescovi non mirano
a sostenere esclusivamente con una legge l’osservanza di una norma morale
quando non fosse più riconosciuta come tale dalla maggioranza delle coscienze»
(OR, 26 febbraio 1976). In questo testo sono congiunti i due termini di
maggioranza e coscienze che cozzano intrinsecamente. L’arcivescovo oppugna
la legge che introduce l’aborto, definito «orrendo crimine» dal Vaticano II,
perché suppone che essa sia rigettata dalla maggioranza, talmente che se la
maggioranza delle numerabili coscienze fosse in favore di quel crimine, i
vescovi tacerebbero e i cattolici dovrebbero, come cittadini, acquietarsi
all’iniquità. Sembrerebbe, stando all’omelia del presule milanese, che
l’ammissibilità di una legge civile dipenda dal consentirvi del maggior numero,
cioè che la moralità sia un’emanazione dell’uomo e che, posto il maggior
numero, debba cadere la resistenza o tutt’al più rincantucciarsi nel solitario
rifugio della coscienza personale.

111. La Chiesa e il comunismo in Italia. Le condanne del 1949 e del 1959. –


La desistenza della Chiesa dall’impegno della vita civile ha la forma di un
rimando del cristiano ai propri lumi per le proprie scelte nei negozi della vita
pubblica. Il criterio insegnato dai vescovi italiani, assunto dal Convegno
ecclesiastico del 1976, è che ai fedeli spetta intera libertà di scelta, con la sola
condizione che la scelta sia coerente con la fede religiosa. Questa è d’altronde la
formula comune della Chiesa da quando le costituzioni democratiche
conferiscono la sovranità alla moltitudine o alla totalità dei cittadini. Ma il
criterio di tale coerenza viene levato dalle mani del Magistero, che se lo riservò
in altri tempi, e collocato in quelle della comunità. Al convegno menzionato il
padre Sorge approvò la formula «Militate dove volete, ma restate cristiani» e vi
appose la condizione che il giudizio circa l’essere cristiani non sia personale e
arbitrario «ma in armonia con quello dell’intera comunità cristiana» («Corriere
della sera», 5 novembre 1976). La sostituzione dell’opinione generale
all’imperativo della Chiesa è palese. Non solo si rimette giustamente alla libertà
la scelta politica, ma anche il giudizio di coerenza con la fede: lo si rimette non
veramente ai singoli, ma all’intera comunità cristiana. Ma con questa locuzione
si intende la Chiesa con il suo nesso organico tra gerarchia e laicato, oppure
l’insieme dei fedeli supposti manifestare la propria fede in una maggioranza? O
in che altro modo? Il limite che la Chiesa pone alla libertà politica è analogo a
quello che essa pone alla libertà del pensiero teologico e in genere a ogni libertà
per assicurarne insieme coll’autonomia anche l’ortonomia. E poiché la libertà
politica spazia ampiamente, prima di urtare nel limite, le determinazioni che la
Chiesa fa del limite sono quelle poche che appaiono necessarie.

Le più importanti sono senza dubbio il decreto del Santo Officio 28 giugno
1949 e quello aggravante del 25 marzo 1959 sotto Giovanni XXIII. Il primo
dichiara incorsi nella scomunica quei fedeli che professano la dottrina
comunista, atea e materialistica, e condanna come illecito l’appoggio recato al
partito. Il secondo condanna chi dà il suffragio al partito comunista o a partiti
appoggianti il partito comunista. L’aggravamento del secondo è manifesto. La
prima condanna dava luogo alla distinzione tra il comunista professante la
dottrina (condannata nella Divini redemptoris di Pio XI) e il comunista
praticante, ma non professante (e i più son tali). Il secondo decreto invece
prescinde dall’animus del cittadino e percuote l’atto, per così dire, esterno del
dare il suffragio al partito. Colpisce inoltre anche le coalizioni che un partito non
condannato stringesse, per amministrare la cosa pubblica, col partito condannato,
mettendo in forse tutto il giuoco politico delle nazioni democratiche dove la
pluralità dei partiti rende necessaria la cooperazione di disparate forze politiche.

L’intervento della Chiesa in Italia provocò anche conflitti aperti tra vescovi e
autorità civili. Il più grave e clamoroso fu quello di mons. Fiordelli, vescovo di
Prato, che per avere pubblicamente condannato come concubinato il matrimonio
civile di un comunista, fu querelato, condannato e poi assolto. All’annuncio della
condanna il card. Lercaro ordinò nella sua diocesi il suono ferale delle campane
e Pio XII disdisse la celebrazione per l’anniversario dell’incoronazione. Ad
Aosta, per essersi fatta un’alleanza elettorale coi comunisti, il vescovo sospese la
processione teoforica del Corpus Domini; in Sicilia il card. Ruffini entrò nelle
elezioni regionali a combattere il candidato democristiano e a Bari l’arcivescovo
mons. Niccodemo rifiutò la presenza del sindaco comunista della città
giudicandola incompatibile con l’azione sacra. In queste manifestazioni
episcopali mi sembra non essersi osservata la norma che distingue la persona
privata dalla persona pubblica e anche l’ente morale, che è la città nel suo
complesso, dalla maggioranza che in un dato momento la regge e la rappresenta.
È massima di diritto costituzionale che i deputati non rappresentano la frazione
che li ha eletti, ma la totalità dei cittadini. D’altronde i Papi ammettono
annualmente la visita della Giunta capitolina anche quando è di maggioranza
comunista.

112. La Chiesa e il comunismo in Francia. – Abbiamo visto il passaggio


operato dall’Episcopato italiano da un atteggiamento di resistenza attiva a uno di
desistenza nei confronti del partito comunista. Questo passaggio portò la Chiesa
d’Italia sulle posizioni in cui molto prima s’era collocata la Chiesa di Francia,
pronunciando l’intera libertà del cristiano di parteggiare politicamente per
qualunque causa gli sembri accordarsi con la propria coscienza. Poiché questo
libro non è una storia del movimento sociale cattolico, suppongo nota la vicenda
che il movimento ebbe in Francia prima del Concilio e fonderò le mie
osservazioni sul documento dell’Episcopato di Francia «sur son dialogue avec
les militants chrétiens qui ont fait l’option socialiste»188.

Il documento desiste già nell’impostazione e nella forma letteraria dalla


natura che compete all’officio didattico, direttivo e precettivo di un atto
episcopale. Vuole infatti soltanto «répercuter» e rispecchiare le opinioni del
mondo operaio preso sostanzialmente come un tuttinsieme omogeneo. Il
movimento sociale cattolico viene in questa prospettiva interamente negletto.

È impossibile dissimulare la distanza tra questo stile e lo stile dei documenti


pontificii da noi citati al § 111. Vi sono enunciate, giusta l’assunto dialogico,
molte proposizioni professate dai «lavoratori cristiani» (supposti per sineddoche
tutti comunisti), ma non appare nessuna contrapposizione o confutazione, se non
talora per obliquo, con ambagi e anfibologie. Questi cristiani professanti il
comunismo il documento intende aiutarli «dal di dentro» della loro situazione
spirituale come se nel seno stesso della loro persuasione fosse giacente il seme
della idealità cristiana e si trattasse solamente di svolgerlo; e come se un tale
aiuto, proprio dei pastori, non potesse mai importare un’opposizione di principio
e un’abiura di eventuali errori, una conversione insomma, come si suol dire.
Questa posizione è collegata nel documento con una confusione di prospettive
che vede «l’action de l’Esprit» nelle agitazioni e nelle lotte del mondo operaio189
e scambia il moto del comunismo, che si può spiegare con le forze storiche e
naturali che generano gli eventi, per uno di quei moti in cui operano i
soprannaturali impulsi dello Spirito Santo (n. 16-7): fa insomma delle agitazioni
sociali del secolo un fenomeno religioso. Il circiterismo neoterico di tinta
immanentistica non distingue tra le ragioni della Provvidenza che trae la vicenda
umana al suo esito predestinato e l’azione dello Spirito Santo, che è l’anima
della Chiesa, ma non del genere umano. Sul documento di riflessione del 1972
l’episcopato francese modellò poi la sua prassi nel 1981 desistendo da ogni
intervento nella campagna per le elezioni che portarono la Francia a un regime
socialcomunista il cui Progetto annuncia l’instaurazione di una società
prettamente ateistica di figliazione marxistica. In un loro documento del 10
febbraio 1981 i vescovi dichiarano la loro neutralità verso tutti i partiti e di «non
volere influenzare le decisioni personali dei fedeli»: come se le cose politiche
fossero cose iperuranie e il magistero della Chiesa non dovesse indirizzare e
illuminare le coscienze. Nel documento del 1 giugno 1981 i vescovi professano
assoluta neutralità, cioè l’incapacità di giudicare secondo l’aut aut cristiano i
vari partiti di Francia, e questo anche perché (dicono) i cristiani si trovano in
ogni parte del ventaglio politico. Essi «non vogliono sostenere un gruppo e
opporsi a chiunque, ma attirare l’attenzione sui valori essenziali». Questi valori
essi li riconoscono, come vedemmo, in tutti i partiti e perciò non possono né
proscrivere né prescrivere.

La differenza che la Divini Redemptoris e gli insegnamenti papali elevano a


criterio della condotta dei cristiani di fronte al comunismo, viene sottoposta a un
cosiddetto approfondimento il quale conclude con travedere al fondo delle due
opposte concezioni un fondo ulteriore e comune in cui può aver luogo il
reciproco riconoscimento e una mutualità di valori. La formola che racchiude
tale equivalenza dei sistemi nell’aspirazione di fondo è che «des valeurs
communes sont donc perçues différemment selon le milieu auquel on appartient»
(n. 29).

Qui è latente una negazione del sistema cattolico. Il documento spoglia


infatti l’uomo della capacità di cogliere un valore nel suo essere proprio e gli
assegna solo quella di percepire secondo la condizione soggettiva, che qui non è
l’idiotropion della psicologia individuale, ma l’idiotropion della situazione di
classe del percipiente. Poiché le percezioni differiscono, ma il valore
differentemente percepito è identico, i vescovi possono affermare che due
concezioni contraddittorie siano tuttavia percezioni differenti del medesimo.
Questa forma di soggettivismo è dedotta dall’analisi marxistica che fa
rampollare la percezione dalla situazione sociale. Nel documento francese vien
dunque disconosciuta la differenza tra le essenze. La religione non è per i
vescovi un principio, bensì un’interpretazione e un linguaggio. Il Verbo cristiano
non è più principio e caput, ma un’interpretazione destinata a conciliarsi con le
altre interpretazioni in un quid confusionale che talora sembra essere la giustizia,
talaltra l’amore.

Questo disconoscimento del carattere principiale dell’opposizione tra


cristianesimo e marxismo allontana il documento dagli insegnamenti di Pio XI
che qualifica il comunismo come intrinsecamente malvagio. E il
disconoscimento mette in mostra d’altro canto l’affezione degli estensori per
l’opzione socialista, giacché mentre rifiutano la perversità essenziale del
comunismo, stigmatizzano per contro come intrinsecamente perverso il sistema
capitalistico (n. 21): così spareggiano i due sistemi che l’insegnamento papale,
dalla Rerum novarum alla Populorum progressio, ha invece ugualmente trafitti.

Inoltre, dopo aver fallacemente trovato lo Spirito Santo e Gesù Cristo (n. 47)
nel dinamismo del mondo operaio e posto l’opzione socialista a pari
coll’impegno cristiano, il documento si spinge a un’altra ed ultima confusione,
sentenziando addirittura che il travaglio dei cristiani comunisti per maggior
giustizia, maggior fraternità e maggior uguaglianza, quando attinga quel fondo
accomunante che dicemmo, incontra «une forme réelle de contemplation et de
vie missionaire» (n. 54). La prassi marxistica e la lotta di classe usurpano così il
luogo della contemplativa che, come si sa, è il luogo supremo.

113. Ancora dei cristiani impegnati. – Il πρῶτον ψεῦδος dell’identità profonda


dei contraddittorii, sciolti in un immaginario anteriore valore, rende possibile di
spogliare della loro specificità le tesi delle due scuole opposte e negare quindi la
loro opposizione. Così, per attenerci solo al fondamentale, l’opzione socialista
contraddice su due articoli precipui alla dottrina sociale della Chiesa: sul
principio della proprietà privata e su quello dell’armonia delle classi. Mentre
infatti Giovanni XXIII nella Mater et magistra afferma «il carattere naturale del
diritto di proprietà, anche dei mezzi di produzione», e ne auspica la diffusione
(n. 113), il documento francese, adottando un’analisi marxistica, restringe
quell’asserto papale negando che la proprietà societaria, dominante oggi
nell’economia e dominata da un piccolo numero, rientri nella categoria della
proprietà privata e sia quindi da proteggere come un valore di diritto naturale.

Ma la defezione più perspicua dalla dottrina sociale cattolica è quella per cui
la lotta per la giustizia viene identificata con la lotta di classe, supponendo che la
giustizia non possa realizzarsi che oltrepassando la giustizia e sia una sorta di
controingiustizia. Tale supposizione suppone a sua volta che l’ordine sociale sia
indipendente dall’ordine morale e che occorra trascendere questo per instaurare
quello. La lotta di classe è in effetti un’azione di guerra condotta entro la
compagine delle singole società civili e tendente, secondo la dottrina di Lenin e
di Stalin non mai sconfessata, a trasferirsi, quando lo dettino le circostanze, nella
compagine della società etnarchica diventando guerra di tutta la classe operaia
del mondo contro tutta la classe non operaia del mondo.

È chiaro che equivalendo la lotta di classe a un’opera di giustizia ed essendo


essa un’attività di guerra, anche la lotta di classe, condannata dalla Chiesa,
rientrerebbe nella categoria della guerra giusta, che è guerra lecita.

114. Indebolimento delle antitesi. – L’indebolimento dell’antitesi tra


comunismo e cristianesimo, di cui nel § seguente vedremo la devoluzione logica
nella teologia della liberazione, è l’effetto di due fatti: il dissenso dottrinale nel
seno del comunismo e la dottrina enunciata da Giovanni XXIII nella Pacem in
terris.

Quanto al primo fatto, il cosiddetto «éclatement du marxisme», è da


menzionare anzitutto la riforma fatta da parecchi partiti comunisti dei loro
statuti, tacendo la necessità di professare il materialismo storico e ammettendo al
partito anche chi si ispira nell’impegno operaio ad altre idealità filosofiche o
religiose. Questo passo del comunismo era stato preceduto da quello
dell’Internazionale socialista che, al momento di ricostituirsi a Francoforte sul
Meno nel 1951, al punto IX del preambolo stabiliva: «Il socialismo democratico
è un movimento internazionale che non esige una rigorosa uniformità dottrinale.
Che i socialisti fondino le proprie convinzioni sul marxismo o su altri sistemi di
analisi della società, o che siano inspirati da principii religiosi e umanitari, essi
lottano tutti per lo stesso scopo: un sistema di giustizia sociale, di maggiore
benessere, di libertà e di pace mondiale» (RI, 1951, p. 576). Epocati tutti i
principii specifici del marxismo, quali il materialismo storico, il rifiuto della
religione, l’espropriazione degli strumenti di produzione, la lotta di classe,
diviene possibile l’accomunamento di eterogenei movimenti in un’ideologia
atipica come quella della giustizia, del benessere e della pace.

Così il documento di Francoforte si imparenta col documento


dell’Episcopato di Francia: oltrepassa lo specifico per trovare un fondamento
generico e confusionale. La giustizia infatti è tutt’altra nel pensiero dei Papi che
la ravvisano nell’accomunare le ricchezze quanto all’uso, e nell’ideologia
marxistica che la vuole effettuare con l’accentramento statale di tutti i beni.

A questo incontro delle due dottrine concorrono anche le discrepanze insorte


tra i teorici del marxismo. Basterà, per restare in Francia, ricordare la variante di
Garaudy che, rifiutando l’accentramento del potere come unico mezzo di
realizzazione del comunismo, immagina un centralismo democratico e
policentrico; e quella dell’Althusser che, rifiutando il primato esclusivo
dell’economico (dottrina corrente dei marxisti), ammette una pluralità di
strutture assegnando all’economico soltanto un primato dominante rispetto alle
altre strutture190.

Però queste varianti non toccano l’essenza del comunismo. Appartengono


soltanto alla varietà nascente da ogni elaborazione intellettuale che si faccia di
un’idea di fondo. Si potrebbero queste varietà di marxismo paragonare alle
varietà in cui si dirime la teologia, quando entra nella deduzione dal principio e
nelle interpretazioni del dato di fede. Si apre allora un campo amplissimo alla
disputazione del disputabile secondo diverse scuole (tomistica, scotistica,
suareziana, rosminiana) nelle quali l’intelletto cristiano è sì cattivato
nell’ossequio della fede, ma non oltre la parola della fede, e in questa parola
della fede, e non nei particolari teologumeni di ciascuna scuola, tutte le scuole
comunicano.

Ma per tornare al marxismo, le varie specie del genere non possono allargare
il principio, in guisa che ne comprenda uno opposto, né spezzarlo né alterarlo. E
d’altronde il partito, cioè la forza storicamente efficace, ha sempre ripudiato
l’attacco portato al principio dalle varianti. Georges Marchais, segretario
generale del Partito comunista francese, intervistato dal giornale «La Croix»
dichiarava senza ambagi: «Nous ne voulons pas créer d’illusions sur ce point:
entre le marxisme et le christianisme il n’y a pas de conciliation possible, pas de
convergence idéologique possible». Questa dichiarazione consuona interamente
con quella del presidente Mitterrand, capo del governo socialcomunista di
Francia, nel libro Ici et maintenant, Paris 1980, che è una dichiarazione aperta
contro la religione. Vi si afferma la perfetta Diesseitigkeit del comunismo che
alla destinazione ultramondana dell’uomo sostituisce la veduta di una felicità da
conseguire qui (nel mondo) e adesso (non nella vita futura). Che se si risale alle
fonti dottrinali del movimento, si trova il testo di Lenin citato in OR, 5-6 luglio
1976: «I comunisti che si alleano coi socialisti democratici e coi cristiani non
cessano di essere rivoluzionari, perché coordinano tali collaborazioni al fine, che
è la distruzione della società borghese». Questo richiamo al principio comunista
è parallelo a quello fatto al principio cattolico da Paolo VI nella Lettera
apostolica del 14 maggio 1971 al card. Roy: «Il cristiano non può aderire a
sistemi o ideologie che si oppongono radicalmente e in punti sostanziali alla sua
fede e alla sua concezione dell’uomo». Singolare la negazione che del divario tra
cristianesimo e marxismo fa OR, 1 settembre 1982, in un articolo intitolato
Cultura, pluralismo e valori. Con tesi nuovissima vi si nega l’opposizione
insegnata da Pio XI. «V’è addirittura da chiedersi se ancora persista la griglia di
analisi che distingueva tra cultura cattolica e cultura marxistica». L’autore
sembra quasi modo genitus infans che ignora Divini Redemptoris e tutti i
documenti pontifici.

115. Principii e movimenti nella «Pacem in terris». – E tuttavia appare che


da questa posizione di integralismo logico che dispaia in infinitum le due
concezioni senza possibile coincidentia oppositorum, tanto il cattolicismo
quanto il comunismo si sono discostati. Ai cattolici la mossa è venuta da un
passo famoso di Giovanni XXIII nell’Enciclica Pacem in terris: «Va altresì
tenuto presente che non si possono identificare false dottrine filosofiche sulla
natura, l’origine e il destino dell’universo e dell’uomo con movimenti storici a
finalità economiche, sociali, culturali e politiche, anche se questi movimenti
sono stati originati da quelle dottrine e da esse hanno tratto e traggono tuttora
ispirazione. Giacché le dottrine una volta elaborate e definite rimangono sempre
le stesse, mentre i movimenti suddetti agendo nelle situazioni storiche
incessantemente evolventisi non possono non subirne gli influssi e quindi non
possono non andar soggetti a mutamenti anche profondi» (RI, 1963, p. 506).

La tesi giovannea si presenta come una deduzione dalla massima, sempre


insegnata nella Chiesa, che occorre distinguere tra errore ed errante, tra l’aspetto
puramente logico dell’assenso e l’aspetto che l’assenso riveste come atto della
persona. Il contingente difetto in una disposizione mentale non toglie alla
persona la destinazione alla verità e la dignità assiologica che ne deriva. Questa
dignità viene dall’origine e dalla finalità ultramondana dell’uomo, che nessun
fatto intramondano può cancellare e che è anzi propriamente inamissibile: anche
nei dannati infatti tale dignità sussiste. Ma da questa massima che distingue
l’errore dall’errante l’enciclica muove alla distinzione tra le dottrine e i
movimenti che alle dottrine s’inspirano e dipinge le dottrine come immutabili e
chiuse in sé medesime mentre i movimenti dentro il flusso della storia sarebbero
in continuo fieri e perpetuamente aperti a novità che li trasformano fino a
incontrariarsi. Ma la separazione legittima tra il movimento o massa di uomini
consenzienti e l’idea inspirante il movimento non può spingersi fino ad attribuire
fissità alla dottrina e mobilità al movimento. Come il movimento iniziale
originato dalla dottrina non si può concepire che come massa di consenzienti in
quella dottrina, così non si può pensare che la dottrina resti fissa senza più
consenzienti e che la massa, piegandosi secondo il divenire storico, resti senza
alcun riferimento alla dottrina. La massa si muove perché viene ripensando la
dottrina e la dottrina partecipa del flusso storico proprio in quanto è persuasione
di uomini in movimento. D’altronde la storia della filosofia non è forse storia dei
sistemi nel loro svolgersi e divenire? Come si può dire che i sistemi son fissi e
solo gli uomini che li pensano si muovono?

Sembra dunque che l’enciclica trascuri il nesso dialettico sempre urgente tra
quel che le masse pensano (certo meno distintamente che i teorici) e quel che le
masse fanno, senza più connessione coll’ideologia che solo avrebbe per funzione
di dare inizio al movimento. La precessione del pensiero alla prassi vien qui
trascurata e sembra che le ideologie siano figliate dai movimenti anziché
figliarli. Certo le ideologie risentono le fluttuazioni proprie degli uomini fluenti
nella storia, ma la questione che si impone rimane questa, se cioè i movimenti
che mutano continuino o no a inspirarsi al principio sotto il quale nacquero.

Dopo avere diviso la dottrina dal movimento in guisa da consentire ai


cattolici di aderire al movimento e riservarsi sulla dottrina, l’enciclica enuncia
anche un altro criterio per concedere ai cattolici di cooperare a forze politiche
eterogenee. «Inoltre» dice «chi può negare che in quei movimenti, nella misura
in cui sono conformi ai dettami della retta ragione e si fanno interpreti delle
giuste aspirazioni della persona umana, vi siano elementi positivi e meritevoli di
approvazione?». La tesi giovannea risponde all’antico e comune sentimento
della Chiesa, già espresso da san Paolo: «Omnia autem probate [δοκιμάζετε],
quod bonum est tenete» (I Thess., 5, 21)191. Ma innanzi tutto, secondo il detto
dell’Apostolo, non si tratta di sperimentare, cioè di partecipare il movimento
nella prassi, bensì di esaminare per discernere e appigliarsi nella prassi a quel
che di positivo si trova per avventura nel movimento.

E tuttavia il consentimento e la cooperazione che sono possibili quando gli


uomini volgono le volontà a obiettivi inferiori e contingenti, divengono per
contro impossibili quando essi volgono le volontà a termini finali supremi che
siano tra loro incompatibili. Ora, tutta la vita politica per il cattolicismo è
subordinata a un fine ultimo ultramondano, mentre per il comunismo è ordinata
al mondo e ripudia ogni fine ultramondano. Si badi bene, non solo ne prescinde,
come fa il liberalismo, ma lo ripudia. Se dunque il comunismo è condannato,
non sono condannati i fini subordinati che esso persegue, ma quell’obiettivo
ultimo di assoluta sistemazione mondana del mondo a cui vengono indirizzati i
fini subordinati e che è incompatibile col fine della religione. In realtà quando
due agenti che hanno fini ultimi antitetici, partecipano alla medesima opera, non
c’è cooperazione, se non in senso materiale perché le azioni sono qualificate dal
fine e qui i fini sono antitetici. L’effetto totale della cooperazione riuscirà poi
conforme al fine di quello dei cooperanti che avrà saputo prevalere192.

Giova anche osservare che quegli elementi positivi che si ravvisano nel
movimento sono nell’enciclica considerati come propri dell’ideologia
comunistica, laddove sono primariamente valori della religione (inglobativi
quelli di giustizia naturale) e che essi acquistano il loro significato e la loro forza
interi solo quando siano rimessi nel complesso delle idee religiose. Sembra
dunque che non basti riconoscerli, ma che occorra riconoscerli come frazione di
verità intera e rivendicarli alla religione per restituire loro la competente
interezza. Ma questa azione di rivendica, che estorce al movimento, come non
suo, e restituisce alla religione quel che in esso appare di giusto e di ragionevole,
manca nella Pacem in terris. L’enciclica perora piuttosto il riconoscimento di
valori che si troverebbero a pari nel movimento e nel cristianesimo e che quindi
rimandano a un valore anteriore e comune che avvalorerebbe movimento e
religione. Quale sia un tale valore, che sarebbe il vero autentico valore
principiale, non appare dall’enciclica né potrebbe apparire senza che il valore
della religione, che è il primum, si degradasse a mezzo di quel primo comune
valore.
La coerenza astratta delle idee logicamente incatenate e svolgentisi una
dall’altra senza possibilità di arresto, è assai più forte della coerenza fattizia che
gli uomini si forzano di mettere tra idee che si respingono. Così dall’opzione dei
cristiani per il marxismo, il quale contiene nelle viscere la guerra di classe,
culminante nella rivoluzione, doveva germogliare una teologia della liberazione.
Il fenomeno citato nel § precedente, che cioè il fine che prevale tira a sé il fine
dell’altro cooperante, incompatibile col primo, si è verificato esattamente nel
passaggio dall’opzione comunistica alla teologia della liberazione.

116. Di un socialismo cristiano. Toniolo. Curci. – Il concetto di un


socialismo cristiano è legittimo. Giuseppe Toniolo in Indirizzi e concetto sociale
disegnando non già una nuova forma del Cristianesimo, ma un nuovo ciclo della
civiltà cristiana, preconizzava nell’ordine religioso una rinnovazione dell’unità e
della soprannaturalità contro l’eresia e il razionalismo e, strettamente congiunta a
questa, una rinnovazione nell’ordine sociale con la ricomposizione organica
delle classi e con l’integrazione del proletariato alla società. Il cattolicismo con
l’idea dell’autentico padronato e dell’autentico fraternato deve subentrare per
intero al socialismo marxistico.

Anche più scolpito è il pensiero del celebre padre Curci nell’opera intitolata
Di un socialismo cristiano (1885) tutta informata all’idea dell’attitudine sociale
del cristianesimo tuttora implicita. Il Curci richiama l’idea cristiana della
ricchezza, che importa una quantità di beni condivisa, e l’idea cristiana della
comunità sociale, che vuol pareggiati, non in modo aritmetico ma proporzionale,
tutti i membri del corpo sociale. Il fondo della questione può esprimersi nel
verso oraziano: «Cur indiget indignus quisquam te divite?» (Sat., II, II, 103)193.
Qui è mantenuto il concetto di giustizia, ma contro questo indignus i ricchi fanno
valere la calunnia profetata da Amos, 4,1: «vaccae pingues quae calumniam
facitis egenis»194. E il Curci coglie acutamente la delicatezza specialissima della
riforma sociale, riguardata con senso cattolico. La riforma deve eliminare
l’ingiustizia consumata contro una parte del corpo sociale senza sviluppare
l’odio contro le altre parti. Se infatti si sviluppa l’odio, la giustizia non essendo
più un portato dell’amore sociale e diventando al contrario una semplice
controingiustizia, tutta l’azione sociale ne rimane corrotta.
Come si vede, questo socialismo cristiano del Curci, non meno che quello del
Toniolo, respinge il principio marxistico della guerra di classe, ricerca la riforma
sociale non come effetto di un urto violento e nemmeno primariamente per opera
delle leggi civili, bensì come frutto di uno sviluppo morale della cristianità.
Occorre infatti tener fermi due articoli essenziali del sistema cattolico. Primo: il fine
del genere umano è ultramondano: qui servizio, poi fruizione del valore assoluto.
Secondo: l’opera dell’uomo non può prevaricare la giustizia alla quale nessun fatto e
nessuna utilità può prevalere.

117. La dottrina del padre Montuclard e lo svuotamento della Chiesa. – Ora


questi due articoli sono soppiantati nella prassi e nella teoria dei movimenti
cristiani optanti per il marxismo. Per la sua citeriorità (Diesseitigkeit) assoluta il
movimento è costretto ad abbassare sotto l’affrancamento economico e
l’eudemonismo terreno la finalità religiosa ultramondana. Il processo è segnato da
tre fasi. Prima si pareggia il fine della giustizia mondana al fine ultramondano
dell’uomo, lasciando i due motivi a pari. Poi si spareggiano, elevando il fine
terreno e accantonando l’ultraterreno. Infine si fa predominare la mira terrena,
lasciando cadere lo specifico del cristianesimo, che o viene rifiutato come opinione
falsa o viene relegato nell’orbita delle opinioni soggettive e irrilevanti.

Importante per significazione prodromica195 è a questo proposito il libro intitolato


Les événements et la foi 1940-1952 espressione del movimento Jeunesse de l’Eglise
del domenicano Montuclard, proibito dal Sant’Officio con decreto 16 marzo 1953.
Contro il libro avevano già cautelato i cattolici i vescovi francesi, benché il decreto
romano di condanna del comunismo del 1949 forse rimasto lettera morta196. Più
tardi una denuncia dei movimenti cattolici di opzione marxistica apparve in OR,
19 febbraio 1954.

La dottrina che si delinea nel libro intacca la dottrina della Chiesa in più
punti e aggiunge la denigrazione della Chiesa storica sotto la spinta di uno zelo
amaro e acrimonioso.
Il primo intacco alla verità cattolica è nel modo di concepire la fede. Questa
viene presa come un sentimento di comunione con Dio, ossia come
un’esperienza del divino, scissa da ogni giustificazione razionale e da ogni
espressione di formule teoreticamente vere.

Il secondo è una risonanza delle eresie medievali della spiritualità pura. Il p.


Montuclard ritiene infatti che lo spirituale e il temporale siano eterogenei e che
lo spirituale non abbia influsso sulle realtà temporali. Ma la dottrina dei due
ordini indipendenti riceve qui un’applicazione che abbatte l’essenza stessa della
Chiesa. Infatti delle due liberazioni, la relativa liberazione temporale (quale si è
compiuta con la soppressione della schiavitù e va compiendosi con la
soppressione della guerra) e la liberazione spirituale, la prima viene interamente
rimessa al comunismo e la seconda può soltanto seguire alla prima: «Désormais
les hommes demanderont à la science, à l’action des masses, à la technique, à
l’organisation sociale de réaliser à une bien plus grande échelle cette délivrance
humaine dont l’Eglise avait eu dans le passé à s’occuper par surcroît» (p. 56). Il
compito della Chiesa nella vita presente è vanificato: «Les hommes ne
s’intéresseront plus à l’Eglise qu’à partir du moment où ils auront conquis
l’humain». Il cristianesimo dunque è storicamente svuotato di possibilità,
giacché quel che esso può secondo la fede non ha radice in sé medesimo e tutte
le sue possibilità sono sospese all’antecedente opera di liberazione umana che
spetta al solo comunismo. Del cristianesimo, che è il primum e l’incondizionato,
si fa un secondario e condizionato. Non solo non gli si consente di concorrere
indirettamente alla liberazione umana, ma viceversa lo si fa effetto della
liberazione umana previamente operata dal comunismo. La liberazione
spirituale, cioè il regno di Dio, aspetta di ricevere il proprio essere da un
cangiamento temporale o per lo meno tutto umano.

Lasciamo di notare che qui è implicato l’errore primo del comunismo: alcuni
uomini li destina alla liberazione, quelli cioè che saranno sotto il sole quando sia
avvenuta la liberazione temporale; sacrifica invece le presenti generazioni alle
future come se non ciascun uomo ma solo qualcuno fosse ordinato al suo fine. In
secondo luogo la vita futura ultramondana, che non si può raggiungere prima che
sia instaurato il mondo terreno, lascia la Chiesa inane e inerte nel presente della
storia. Più ancora, se la Chiesa, in forza della sua essenza soprannaturale e
ucronica, esercitasse nel nostro tempo il suo officio di predicare la verità, di
richiamare l’ultramondano e di edificare l’uomo nuovo, il destino dell’uomo ne
sarebbe impedito. Siccome la perfezione umana è la condizione della liberazione
spirituale, subordinare o anche solo coordinare il temporale allo spirituale è cosa
rovinosa per il genere umano. Il p. Montuclard lo professa senza anfibologie:
«Non, les ouvriers n’ignorent pas le christianisme. Les paroles chrétiennes que
de fois ne les ont-ils pas entendues. Mais ces paroles leur ont paru des
attrapenigauds. Et maintenant que l’on parle de l’enfer, du renoncement, de
l’Eglise ou de Dieu ils savent qu’en fait tout cela tend à leur arracher des mains
les outils de leur propre libération».

Qui viene adottato il pensiero proprio dei Giacobini, che la religione possa
apparire alla mente spassionata come un’impostura mirante a disarmare la
giustizia. Appare anche il motivo incompatibile col cattolicismo, che il regno
prospettato nel Vangelo sia l’instaurazione dell’uomo nella pienezza naturale
dell’uomo e non invece una nuova creatura.

E l’inferenza pratica di una tale assiologia è l’inefficacia assoluta del


cristianesimo nel mondo presente e l’obbligo suo di ritirarsi, di contrarsi, di
tacere nell’aspettativa della liberazione temporale dalla quale soltanto può
nascere la liberazione spirituale (ma a che pro, se l’uomo ha allora attinta la sua
umana perfezione?). Le parole di Jeunesse de l’Eglise sono commoventi: «Que
voulez-vous donc que nous fassions? Il n’y a pour nous qu’une attitude possible
et vraie: nous taire, nous taire longtemps, nous taire des années et des années
durant, et participer à toute la vie, à tous les combats, à toute la culture latente de
cette population ouvrière que sans le vouloir nous avons si souvent trompée»
(pp. 59-60).

118. Passaggio dall’opzione marxistica alla teologia della liberazione. Il


nunzio Zacchi. Il documento dei diciassette vescovi. – Questo svuotamento o
inanizione del cristianesimo professato dal Montuclard lo congiunge
scopertamente agli ideologi del marxismo. Questi, essendo sciolti dalla necessità
di parlare per economia come fanno spesso i politici, e anche perché più forti
nella facoltà logica, professano per assioma l’inconciliabilità di marxismo e
cristianesimo. Nella grande Storia della filosofia197 di cui uscì nel 1967 il sesto
tomo in traduzione tedesca, l’uomo è definito come Naturwesen, cioè pura
naturalità, lo sviluppo del pensiero è riguardato come sviluppo verso l’ateismo e
l’umanesimo radicale, e l’attuale avvicinamento dialogale al cattolicismo è
spiegato come effetto dell’incrinatura nella fede che cede alla scienza e alla
mentalità moderne. Il dialogo è un momento puramente tattico che non può
includere consentimenti sulla dottrina.

Ma di contro alla fermezza logica dei comunisti spesseggiano nella


cosiddetta Gauche du Christ quelli che ammettono la positività della guerra di
classe e la compatibilità di essa con la religione, anzi ravvisano nel comunismo
addirittura una natura intrinsecamente cristiana. Non mi soffermerò sulle
dichiarazioni del nunzio mons. Zacchi che visitata Cuba disse che il regime
comunista di Fidel Castro «non è ideologicamente cristiano, ma lo è
eticamente», come se si potesse prendere per cristiano, sotto qualunque rispetto
si voglia, un sistema per cui l’idea di Dio è un’illusione funesta al genere umano;
di più, come se il cristianesimo non fosse un’idea, e un’etica cristiana
germogliasse da un’idea non cristiana.

Di maggior rilievo è il documento firmato da diciassette vescovi di tutto il


mondo, pubblicato il 31 agosto 1967 da «Témoignage chrétien». Il documento
opera il passaggio dal riconoscimento positivo del comunismo alla teologia della
liberazione. Secondo mons. Helder Camara, protofirmatario e redattore del
documento, la Chiesa non condanna, ma accetta, se proprio non promuove, le
rivoluzioni che servono la giustizia. Questa proposizione appartiene certo al
sistema cattolico e fu condotta a perfezione teorica dai teologi spagnuoli del
secolo XVI insorgenti contro il dispotismo regio, ma nella formulazione del
Camara essa diviene un errore, perché attribuisce alla classe che insorge di
giudicare della giustizia della causa, mentre la corretta dottrina esige un
consenso almeno implicito del corpo sociale. Inoltre sono da tentare le vie non
violente, quelle della transazione, della composizione e della cooperazione
preconizzate appunto dalla sociologia cattolica. Il documento fa invece della
rivoluzione il mezzo per sé legittimo e per sé idoneo della riforma sociale. Infine
mettendo due concetti disparati sotto un unico termine pretende che il Vangelo
sia un principio consentaneo alla rivoluzione marxistica per la ragione che
«l’Evangile» dice «a toujours été, visiblement ou invisiblement, par l’Eglise ou
hors de l’Eglise, le plus puissant ferment des mutations profondes de l’humanité
depuis vingt siècles». Il transito illegittimo che si fa dalla trasformazione morale
operata dal cristianesimo alla metabola rivoluzionaria crève les yeux. E che sia
infondata la causalità universale attribuita al cristianesimo in ogni rivolgimento
del genere umano, pure. Non solo infatti vi rientrerebbe la Rivoluzione Francese,
nella quale, con diagnosi superficiale o per lo meno disputabile, mons. Camara
vede uno stampo cristiano, ma perfino la rivoluzione religiosa dell’Islam e la
Rivoluzione russa manifestamente ateistica198. Il difetto di un solido criterio fa
vedere tutto in tutto e perdere la distinzione tra fatti e fatti.

Il documento attacca poi la collusione della Chiesa col danaro e la ricchezza


ingiusta, condanna l’interesse preso sui mutui, esige che la giustizia sociale non
sia data ai poveri, ma sia dai poveri stessi strappata ai ricchi, sostituisce
apertamente la guerra sociale alla trasformazione armonica. Siccome poi vede i
valori cristiani adempiuti non nel cristianesimo, ma nel comunismo, il
documento conclude: «L’Eglise ne peut que se réjouir de voir apparaître dans
l’humanité un système social moins éloigné de la morale évangélique. Bien loin
de bouder la socialisation, sachons y adhérer avec joie comme à une forme de
vie sociale mieux adaptée à notre temps et plus conforme à l’Evangile».

Il documento dei Diciassette è nettamente antitetico alla posizione che Pio


XII delineò nel messaggio natalizio del 1957 dichiarando impossibile non pure
la cospirazione, ma persino il dialogo col comunismo, e questo per la ragione
che non vi può essere ragionamento se non si ha linguaggio comune, mentre qui
l’antitesi è circa valori assoluti. Il Papa condannava poi l’attitudine che i
Diciassette fanno adesso propria: «Con profondo rammarico dobbiamo
lamentare l’appoggio prestato da alcuni cattolici, ecclesiastici e laici, alla tattica
dell’annebbiamento... Come si può ancora non vedere che questo è lo scopo di
tutto quell’insincero agitarsi, che va sotto il nome di “Colloqui” e “Incontri”? A
che scopo dal nostro punto di vista ragionare senza un comune linguaggio, o
come è possibile incontrarsi se le vie divergono? se cioè da una delle parti si
respingono e si ignorano i comuni valori assoluti?» (RI, 1957, p. 17).

119. Giudizio sul documento dei Diciassette. – Questa conclusione del


documento esclude equivoci, ma il suo supposto è falso. Il comunismo, tanto
come sistema di pensiero quanto come prassi di quel pensiero, tanto per
ammissione dei suoi ideologi quanto per sentenza di tutti i Pontefici, non è un
sistema sociale a cui i vescovi possano plaudire come a una delle possibili forme
politiche, bensì un compiuto sistema assiologico intrinsecamente ripugnante al
sistema cattolico. La riduzione del comunismo a puro sistema sociale (quale fu
per esempio nelle celebri Reducciones del Paraguay) ne toglie sì il pungiglione,
ma ne snatura l’essenza. Il passaggio dall’opzione marxistica alla teologia della
liberazione è reso possibile dal fatto che ai diciassette vescovi sfuggono e
l’essenza del comunismo e l’essenza stessa del cristianesimo. Che se
esternamente considerato l’applauso alla lotta di classe mal si accorda alle
condanne del Magistero (e questa difformità pone anche un problema di
coerenza della gerarchia), internamente considerato il documento si difforma dal
pensiero cattolico almeno su due punti. Per una difettosa teodicea infatti esso
tace il principio escatologico della religione per la quale la terra è fatta per il
cielo e la nozione integrale del destino umano può raccogliersi soltanto dalla
prospettiva ultramondana. Inoltre, per una difettosa veduta storica il documento
tace il principio dell’ingiustizia sociale che la religione colloca nel disordine
morale e che per conseguenza trovasi distribuito a tutte le parti del corpo sociale
né può addossarsi a quella sola parte che fruisce le mondane felicità. Manca
insomma nel documento la tranquillità del giudizio, giacché i vescovi si mettono
da una parte sola (con preterizione di tutto il movimento operaio cattolico
rigettato dalla parte dei ricchi), e manca inoltre la superiore tranquillità
dell’animo religioso che lumeggiando la storia vi scorge una direzione
oltrepassante la storia. Non c’è nel documento né l’alfa né l’omega che reggono
la teologia della storia. In realtà qui non c’è teologia della storia, ma una
filosofia della Diesseitigkeit che conosce soltanto la liberazione dalla miseria
mondana e la aspetta soltanto dall’autonoma perfezione dell’uomo.

120. Ancora dell’opzione di cristiani. Mons. Fragoso. – La preterizione


dell’opera sociale del cattolicismo e della sua dottrina sociale, per cui il
documento dei Diciassette viene a trovarsi staccato dall’insegnamento della
Chiesa, risalta anche in altri documenti episcopali nei quali la liberazione
spirituale prodotta dal cristianesimo è, sia in ordine cronologico sia in ordine
assiologico, posteriore alla lotta per la giustizia del mondo. Ma è chiaro che da
una tale posposizione il cristianesimo viene non solo destituito e degradato, ma
distrutto, essendo la religione immediatamente un primum e non potendo
discendere da quel primato senza perire.

Mons. Fragoso, vescovo di Crateus nel Brasile, insegna apertamente che il


fine soprannaturale della Chiesa deve essere posposto alla lotta per la giustizia
mondana. In un’intervista data a ICI, n. 311 (1968), pp. 4 sgg., il vescovo nega il
saltus tra vita mondana e vita eterna, tra natura e soprannaturale; il disegno di
Dio è (dice) che questo mondo sia giusto, fraterno e felice; il Regno di Dio si
attua nella presente vita, talmente che alla parusia il mondo si continui senza
catastrofe nel Regno eterno già in quel momento essendo realizzati cieli nuovi e
terra nuova199.

Le dottrine antiche e meno antiche del chiliasmo (l’ultima grande


sistemazione ne fece il Campanella) si fondavano sopra un’istanza teologica
legittima, che cioè il cristianesimo sia un sistema intero e che il Cristo, Ragione
eterna incarnata, debba produrre anche la perfezione temporale dell’uomo, e non
solo quella spirituale e soprannaturale, lasciandolo in minorità rispetto alle cose
del mondo. Però il millenarismo teneva ferma la distinzione tra cielo e terra, tra
storia ed eternità e non sosteneva che la perfezione mondana, cioè la civiltà,
fosse l’incoazione del Regno200. Qui invece la terra nuova e i nuovi cieli non
trascendono ma continuano la creazione e così la perfezione del mondo diviene
il fine del mondo, la subordinazione di tutto a Dio viene a cadere e la Chiesa si
confonde con l’organizzazione del genere umano. Ecclissato l’ordine
trascendente i fini terreni possono essere perseguiti con l’assolutezza propria dei
fini ultimi e la sottomissione alla legge coi doveri di obbedienza e di fortezza
paziente vengono estinti dal diritto alla felicità nel mondo di qua. La violenza
diventa il dovere cristiano più alto, immediatamente connesso con la
responsabilità morale: «A la conscience adulte il est reconnu une responsabilité
et un droit d’opter pour la violence».

Tutti i problemi che in una corretta concezione appartengono alla politica


divengono problemi religiosi e la Chiesa deve assumere il problema della fame,
della siccità, dell’igiene, della regolazione del flusso genetico e, come oggi si
dice con termine sintetico, dello sviluppo. È per aver fallito a questa funzione di
sviluppo umano che, secondo mons. Camara (conferenza tenuta a Parigi il 25
aprile 1968, ICI, n. 312), non manca di ragione l’accusa fatta da Marx alla
Chiesa «qui présente à des parias un christianisme passif, aliéné et aliénant,
vraiment un opium pour les masses». Dunque il compito della religione si
trasferisce all’edificazione della civitas hominis e si sofistica il rapporto tra
civiltà e religione facendo dei due il medesimo.

Interessante al proposito è la dichiarazione con cui mons. Fragoso applica i


suoi principii ecclesiologici al caso particolare articolando distintamente i
compiti di un vescovo cattolico. In un’intervista pubblicata da F. de Combret nel
libro Les trois Brésils («Le Mercure de France», s.l., 1971, p. 154), dopo aver
stabilito che il Vangelo deve essere vissuto prima di essere appreso, discorre
della propria azione pastorale fra i contadini della sua provincia e fa la seguente
dichiarazione: «Si les paysans travaillent ensemble, s’unissent, s’entraident, s’ils
acquièrent le sens de la solidarité, ils vont s’apercevoir que ce qu’ils croient être
une fatalité n’est qu’injustice ou défaut d’organisation, ils vont perdre leur
religiosité passive en vivant l’Evangile. Après seulement je leur parlerai de
Dieu». Sembra che il vescovo di Crateus non conosca la teorica del male e faccia
risalire siccità, alluvioni, terremoti e geli all’ingiustizia dei ricchi e al difetto di
organizzazione. Ma il manco di organizzazione, cioè il difetto della tecnica, non
costituisce un’ingiustizia bensì una deficienza inerente al finito. Né dà indizio di
mente pensatrice il vescovo di Crateus quando suppone che si possa vivere il
Vangelo prima di conoscere Dio. E avendogli il suo collocutore obiettato se in
questa trasformazione di mentalità il suo popolo non rischi di perdere la fede,
egli rispose in questi termini: «C’est un risque et j’en suis conscient. Mais mon
travail peut débouter en trois sortes de résultats. Ne rien changer à la situation
actuelle: je considérerais alors que j’ai failli à ma mission. Le seconde:
conscientiser les paysans en transformant leur foi: c’est la réussite. Le troisième:
conscientiser les paysans mais leur faire perdre la foi: ça n’aurait été qu’un demi
succès» (p. 154).

121. Esame della dottrina di mons. Fragoso. – Qui appare chiaro il passaggio
dall’opzione marxistica alla negazione della religione. In primo luogo mons.
Fragoso confonde i due ordini assegnando alla Chiesa, non già come compito
indiretto e consecutivo, ma diretto e primario la promozione di un certo ordine
sociale. Egli misura perciò dalla riuscita di un tale ordine la riuscita del proprio
ministero di vescovo, cioè di sacerdote. In secondo luogo considera come un
successo, sebbene parziale, il lasciar perdere al suo popolo la fede, quando
questa perdita sia compensata dalla coscientizzazione, cioè dalla conversione dei
popoli all’ideale della civitas hominis. Questa è dunque un valore positivo anche
fuori e contro la religione. In terzo luogo come può aversi autentica
coscientizzazione, se non si abbia, almeno in confuso, la cognizione di Dio?
Invano mons. Fragoso si riserva di predicare ai suoi popoli Dio dopo costituita la
civivitas hominis.

Infine non si riconosce nelle operazioni riservate al vescovo da mons.


Fragoso nessuna delle operazioni che gli assegna la Chiesa, cioè insegnare le
verità di fede, santificare coi sacramenti, governare e pascere (LG, 24-5). Qui al
contrario l’ordine terreno diventa l’oggetto proprio e primario della
responsabilità pastorale, e se il popolo perde la fede «ch’è principio a la via di
salvazione» (Inf., II, 30), il compito del vescovo sembra a mons. Fragoso non già
interamente, ma solo parzialmente fallito, purché riesca il compito di
incivilimento.

Possiamo concludere aggiungendo che se i Diciassette sono soltanto una


frazione dell’episcopato, tuttavia la singolarità della dottrina espressa nel
documento nell’esercizio della loro funzione magisteriale, il fatto che non furono
nominatim ripresi dalla Santa Sede e infine l’ampiezza dei consensi che essi
suscitarono conferiscono al documento dei Diciassette un carattere importante
come indizio dell’indebolimento dottrinale dell’episcopato cattolico e della
desistenza dell’autorità. Vedi §§ 65 e 66.

122. Consensi alla dottrina dei Diciassette. – Se ci siamo attenuti anche in


questo paragrafo al criterio metodico di appoggiare le nostri analisi soltanto sugli
atti della gerarchia, non vogliamo omettere di rilevare che questa concezione
tutta marxistica o comunque tutta terrena del fine del mondo è partecipata da non
pochi vescovi, che aderiscono al documento ma non lo sottoscrissero201. Il
medesimo professano importanti movimenti di clero e di laici. Tali sono Tercer
mundo nel Brasile; quello del prete Camilo Torres, ridotto allo stato secolare e
ucciso nelle schiere dei guerriglieri columbiani mentre stava per finire un soldato
ferito; quello del padre Lain pure in Columbia, e quello del padre Giuseppe
Comblin nel Cile per il quale la religione è interamente ed essenzialmente arte
politica, anzi arte bellica: «Il faudrait susciter des vocations politiques vraies
pour susciter des groupes résolus à tenter la prise du pouvoir. Il est nécessaire
d’étudier la science du pouvoir et l’art de la conquête»202.

Che il cristianesimo trasgredisca necessariamente nel marxismo è anche la


tesi della associazione universitaria Pax romana che nel suo bollettino di maggio
1967, p. 26, pronunciava: «Malgré la déclaration pontificale d’une trentaine
d’années christianisme et socialisme sont pleinement compatibles». In queste
parole non è meno notabile l’impugnazione tracotante dell’autorità che l’errore
dottrinale203.
CAPITOLO XII LA SCUOLA

123. La scuola nella Chiesa postconciliare. − Se dall’opzione per il


comunismo o per la rivoluzione trascorriamo alla catechesi, la ragione che
unisce i due argomenti è la ragione che regge tutte le analisi di questo libro e
cioè l’accomodazione della Chiesa allo spirito moderno.

L’azione educativa della Chiesa si esercita triplicemente. Primo in modo


diretto come catechesi dentro l’orbita della Chiesa in forza di un diritto divino
indipendentemente dalla società civile. Secondo in modo indiretto nell’orbita
della società civile giusta accordi presi con lo Stato, l’opera educativa essendo
sotto certi aspetti materia mista. Terzo in modo indiretto con la creazione di
scuole cattoliche in cui il complesso dell’insegnamento è informato alla
religione. In tutte queste forme l’opera insegnativa della Chiesa fu molto estesa,
anche se non sempre fruttuosa. L’educazione è un operar delicato sulla libertà
umana e il suo effetto non è certo come un effetto di calcolabili forze. Se si
danno splendide riuscite della scuola cattolica, si danno pure esiti
paradossalmente negativi. Non si può dimenticare che tutta la generazione
giacobina usciva dalle scuole cattoliche.

Sino alla seconda guerra alcuni paesi, come la Germania, avevano scuole
pubbliche differenziate per confessione; altri, come il Canton Ticino, scuole
pubbliche di inspirazione agnostica: accoglievano nella ratio studiorum la
religione come insegnamento costitutivo e obbligatorio ma ne concedevano la
dispensa in ossequio al principio costituzionale della libertà di coscienza; altri
infine, come la Spagna, integravano l’insegnamento religioso alla pedagogia
come parte eminente della coscienza nazionale e della tradizione culturale del
paese. Ne facevano quindi un obbligo non dispensabile senza riguardo ai
convincimenti intimi degli allievi. Era un relitto dei sistemi politici invalsi nelle
monarchie assolute che incorporavano nelle obbligazioni degli educandi oltre
che i doveri civili anche quelli religiosi. Questi sistemi levavano spesso
all’adempimento quell’elemento di libertà che è il portatore del valore morale
della condotta.

Il Vaticano II nella Dichiarazione Gravissimum educationis distingue,


ammettendoli, due generi di scuole. Le prime sono le scuole pubbliche istituite e
governate dallo Stato: esse hanno per fine generale lo sviluppo intellettuale, la
trasmissione del patrimonio culturale e la preparazione professionale (n. 5).
Queste scuole hanno per principio unificante di prescindere dalla religione,
principio imposto, secondo il Concilio, dal pluralismo vigente in moltissime
nazioni (n. 6). Che il principio unificante dell’educazione debba essere di un
ordine più elevato che il rispetto del pluralismo non è avvertito in questo passo
della Dichiarazione e per tale inavvertenza il n. 6 contrasta alla definizione del
secondo genere di scuola, quella cattolica appunto. Lo scopo della scuola
cattolica include gli scopi assegnati alla scuola pubblica, ma li trapassa e li
transvalora perché «aiuta l’educando a svolgere la propria persona secondo la
nuova creatura nata dal battesimo e ordina insomma l’universa cultura umana
all’annuncio della salvezza in guisa che tutta la conoscenza del mondo, della vita
e dell’uomo sia illuminata dalla fede» (n. 8). È dunque ammesso il valore
positivo dell’educazione che prescinde dai valori religiosi dell’uomo, ma
rivendicato anche il diritto della Chiesa a svolgere l’opera educativa con proprie
scuole. Tuttavia il diritto della Chiesa nella società civile è fondato (secondo il
Concilio) sopra un principio della società civile e questo principio è la libertà in
cui tutte le dottrine sono agguagliate.

124. Necessità relativa della scuola cattolica. − La necessità della scuola


cattolica è ribadita da Paolo VI nel discorso del 30 dicembre 1969, ma come
necessità condizionata, non sgorgante dalla natura assiologica propria della
Chiesa. Il Papa dice infatti: «La scuola cattolica è necessaria per chi voglia una
formazione coerente e completa; è necessaria come esperienza complementare
nel contesto della società moderna; è necessaria ove mancano altre scuole; è
necessaria anche per uso interno della Chiesa, affinché cioè la Chiesa non venga
meno nello sforzo e nella capacità di esercitare il suo fondamentale ministero,
quello d’insegnare». Come appare dai termini usati la scuola cattolica è per dir
così una forma supererogatoria di educazione che risponde alla richiesta dei
perficiendi e dei perfetti, ma non propriamente a quella della comune dei cristiani che
possono formarsi senza la scuola cattolica. Alla scuola cattolica il Papa assegna per sé
soltanto un officio di integrazione e di complemento rispetto alla scuola statale
supposta idonea a dare alla persona l’intero svolgimento mentale e morale204. Se poi
per il contesto della società moderna, al quale il Pontefice accenna, si ha da
intendere la struttura pluralistica, allora, come già dicemmo sopra, la scuola cattolica
avrebbe per titolo del proprio riconoscimento il pluralismo e sussisterebbe soltanto
affinché abbia luogo il pluralismo.

125. Il documento della Congregazione per l’educazione cattolica del 16 ottobre


1982. − Questo documento destinato a determinare la missione dei laici cattolici che
insegnano nella scuola statale porta l’impronta della nuova pedagogia: ammette
l’educazione come autoeducazione (n. 21), celebra con lodi il progresso delle
istituzioni scolastiche nel mondo contemporaneo (n. 3 e 4), ravvisa nella scuola una
struttura essenzialmente dialogica (n. 49 e 50), tace dell’autorità del maestro. Ma
l’impianto generale del documento patisce una difficoltà maggiore. Al n. 47 afferma
che nella scuola pubblica «ogni educatore impartisce il suo insegnamento, espone i
suoi criteri e presenta come positivi determinati valori in funzione della sua
concezione dell’uomo o della sua ideologia». L’affermazione non risponde allo stato
reale della scuola pubblica. Infatti in moltissimi paesi l’insegnante è tenuto a
professare e a comunicare una data ideologia, escludendo ogni altra e impugnando
sovente espressamente la dottrina cristiana. In molti paesi poi è prescritto
all’educatore della pubblica scuola di prescindere nell’opera sua dalle proprie
persuasioni religiose e filosofiche e di rispettare quelle degli alunni. All’azione
educativa del maestro si appone come limite l’obbligazione di rispettare i
convincimenti dell’alunno. La forza morale della scuola (essa non può non
averne) si desume soltanto da quell’insieme di massime che informano la società
civile. Tali massime si riassumono nei valori dell’etica naturale: volgersi al bene,
rispettare il prossimo, comprimere l’egoismo, coltivare una benevolenza
universale, essere veraci, cooperare al bene comune, riverire e onorare la patria.
Questo atteggiamento tuttavia fu possibile finché gli Stati non abiurarono le basi
della giustizia naturale in cui gli uomini si trovavano accomunati (§§ 174-8) e
finché non adottarono il principio dell’indipendenza della persona, generato dal
principio del pirronismo e dell’autonomia senza ortonomia (§§ 148-9). Fino a
tempi recenti la scuola pubblica imponeva agli insegnanti di spogliarsi alla
soglia della scuola delle personali persuasioni e di conformare l’opera educativa
al sensus communis della morale naturale205.

Questa concezione è parziale, ma cattolica: la scuola solleva gli spiriti sopra


le passioni dividenti e laceranti e li fa entrare in quel lume dove docenti e
discenti avvertono sopra il loro dialogo il logo, più importante del dialogo, e in
quel sentimento percepiscono la loro fraternità vera, l’unità profonda della loro
natura.

Questa pedagogia che suppone la dottrina che distingue l’ordine naturale


dall’ordine soprannaturale, è abbandonata dal documento del card. Baum. Il
documento passa dalla libertà di insegnamento, cioè dalla pluralità di scuole,
omogenea ciascuna nel proprio àmbito, alla libertà degli insegnanti nell’àmbito
di ciascuna scuola. Il documento lo dice espressamente: la scuola è un rapporto
tra persone, cioè tra docente e discente. La Chiesa diceva invece che è rapporto
di entrambi al mondo dei valori. Non è il maestro che il discepolo deve
conoscere, ma entrambi il mondo dei valori e ad esso drizzare insieme l’occhio.

Ma come alla faccia dell’uomo si volge la faccia dell’uomo nella liturgia


riformata, così alla faccia dell’uomo la riformata pedagogia. Tralascio di
osservare che il pluralismo di scuole, inteso come pluralismo di insegnamenti
dentro la medesima scuola pubblica, lede la libertà. Bisognerebbe infatti che alle
famiglie che scelgono la scuola pubblica, fosse dato di scegliere i docenti. La
scuola diviene così luogo di dubitazione, di contraddizione, di sperdimento
intellettuale: cade l’essenza medesima dell’educazione che è l’unità del sapere.

Basterà concludere che se la scuola è un’istituzione a cui ogni maestro ha


diritto di imprimere la sua personale ideologia, la scuola cessa di essere
comunanza di spiriti accomunati nella superiore forma della verità. E non si può
infine trascurare che in tal modo anche gli insegnanti cattolici nella scuola
pubblica si troveranno in contrasto coll’istituto della scuola pubblica che, per
essere pubblica cioè per tutti, vuol prescindere dallo specifico della religione.


126. Rifiuto cattolico della scuola cattolica. Mons. Leclercq. − Se la
motivazione della scuola cattolica nel seno della società moderna sembra ad
alcuni incerta, per altri è del tutto nulla. Qui vi sono fatti e dottrine.

Nel Württemberg il partito della democrazia cristiana abbandonò nel 1967 la


difesa delle scuole cattoliche e, associandosi ai socialisti, introdusse le scuole
cosiddette simultanee con base cristiana ma non più confessionale. Particolare
significativo nell’evento è che nell’atto stesso con cui il Nunzio mons. Bafile
protestava al governo per la violazione del Concordato del 1933 egli dichiarò:
«Anche la Chiesa è realmente interessata alla creazione di un sistema scolastico
progressista» (RI, 1967, p. 395).

In Baviera un referendum popolare modificò con il 75% dei suffragi la


costituzione dello Stato per introdurre la scuola cristiana in luogo di quella
cattolica. In Italia nel 1967 dovendosi ripartire duecento miliardi per l’edilizia
universitaria e avendo i liberali proposto di estendere il beneficio alle Università
libere, compresa la Cattolica di Milano, la proposta cadde, perché i deputati
democristiani si astennero, obbedendo a intese con altri partiti. Mentre in taluni
abbandoni della scuola cattolica si risente l’influsso della spinta ecumenica, in
altri l’influsso riconoscibile è invece quello dell’opzione marxistica. Nello Stato
africano del Mali, che è una repubblica socialista, le scuole cattoliche aderiscono
al programma di educazione statale e impartono perciò lezioni di marxismo. In
Ceylon i cattolici decisero di rimettere allo Stato, che è retto da marxisti, la
maggior parte dei collegi cattolici affinché i giovani s’integrino più facilmente
nella vita nazionale, la Chiesa eviti di formare un ghetto e la scuola diventi sede
di dialogo e non fomento di tensioni (ICI, n. 279, pp. 25-6, 1 gennaio 1967). Nei
paesi comunisti l’atteggiamento dell’episcopato verso la scuola statale è
consentaneo a quello verso il comunismo stesso.

Ma non meno rilevanti dei fatti sono gli apprezzamenti teorici circa la
presente inutilità e insignificanza della scuola cattolica. Mons. Leclercq, emerito
di teologia morale nell’Università cattolica di Lovanio, ravvisa nelle università
cattoliche una generale incompatibilità con la civiltà contemporanea improntata
dal pluralismo e avversa a ogni ghetto. Questa incompatibilità la priva di ogni
ragion d’essere. Ma l’argomento di mons. Leclercq non conclude e si taglia da sé
medesimo per contraddizione. Appunto in un mondo pluralistico diventa
normale la presenza di un’università cattolica: non si può volere il pluralismo,
cioè semplicemente la pluralità di dottrine, e rifiutare la pluralità delle dottrine
pretendendo che una dottrina qualunque non possa entrare come elemento della
pluralità.

Il secondo argomento con cui si toglie ogni ragion d’essere all’università


cattolica nel mondo contemporaneo è che essa si troverebbe costretta a isolarsi
perché mira alla sicurezza degli spiriti e quindi preserva la mente dall’affrontarsi
con l’opposizione che la civiltà moderna muove al cattolicismo: il metodo della
preservazione o, come dicesi con intento derisorio, della serra, non può produrre
menti aperte e persuasioni robuste.

L’argomento è fuori della filosofia cattolica. In linea di fatto è da rispondere


che la scuola cattolica uomini, anzi generazioni, di tal tempra li ha prodotti. In
linea assiologica poi quell’argomento misconosce il valore della sicurezza
riguardandola come una condizione per poco non degradante e, come dicono,
borghese. Al contrario la sicurezza è il riflesso morale della certezza e, in un
grado superiore, se la certezza sia quella della fede, un riflesso morale della
salvezza. Certezza e sicurezza sono la faccia intellettiva e la faccia psicologica di
un identico stato dell’uomo. Né si può trasandare che la fede soprannaturale
mette lo spirito in un riposo non di desistenza ma di consistenza nel quale non
può insinuarsi il dubbio. Vedi § 167.

La sicurezza su cui fondasi l’insegnamento cattolico non è d’altronde una


fuga dal confronto giacché il credente deve, pro rata della sua consapevolezza di
fede, e, se sia maestro, per professione, render ragione a chiunque della propria
veduta soprannaturale (I Petr., 3, 15). E la collazione delle varie opinioni è un
passo necessario che il pensiero fa nel ricercare il vero e nel mantenerlo, essendo
pratica universale l’esame, sia in via di inquisizione, sia in via di confutazione. E
anzi il metodo del confronto fu propriissimo della Scolastica, né si può
dimenticare che all’Università parisiense i magistri si offrivano a rispondere
pubblicamente e all’improvviso alle obiezioni e curiosità dei discepoli nelle
artes e perfino a quelle della plebecula, come si vede in quella viva pittura della
mentalità e dell’animus del secolo che sono le Quaestiones quodlibetales di san
Tommaso. D’altronde il genere letterario dell’apologia non sarebbe potuto
nascere se il principio della religione fosse l’isolazione: si isola sì la religione
dall’errore, ma per conseguire tale isolazione occorre raffrontarla dialetticamente
con la varietà delle opposizioni che le si fanno. Questa isolazione dall’errore è
aliena dalla teologia neoterica viziata di pirronismo. È ignorato inoltre il
principio fondamentale dell’apologetica, che cioè non occorre aver confutato
tutte le obiezioni che si fanno alla fede perché questa possa restar ferma. Vedi §§
152-3.

Un ulteriore argomento di mons. Leclercq tocca l’epistemologia e il rapporto


che corre tra tutte le parti del sistema dello scibile. L’università cattolica (dice)
confessionalizza la scienza e deroga alla libertà e spregiudicatezza dell’indagine:
la scienza infatti respinge ogni irrevocabilità e ogni eteronomia.

La voce dell’eminente teologo qui sembra risuonare la voce del razionalismo


irreligioso. La scienza non si confessionalizza, cioè non diventa parte della fede,
cadendo così sotto un altro eterogeneo principio, ma al contrario rimane
autonoma nel proprio ordine. E se anche si volesse che essa presti servizio alla
fede, come potrebbe prestarlo se non fosse costituita proprio come quella
individua, autonoma, speciale scienza che è? Una estrinseca subordinazione non
altera l’intrinseca autonomia di ciascuno scibile. Anzi questa subordinazione
estrinseca regge l’organismo enciclopedico, è condizione di tutte le discipline,
non lede l’autonomia di ciascuna di esse ed è necessaria all’architettonica del
sapere. Per fare un esempio, la farmacologia è certamente una scienza, è
certamente subordinata alla medicina e non cammina se non in servizio della
medicina, ma non per questo prende le sue leggi dalla medicina. Ne prende
soltanto il fine. La farmacologia né diventa medicina né abdica ai propri metodi
per assumere quelli della medicina. Così ogni scienza ha la propria indipendenza
anche se estrinsecamente viene indirizzata a un fine.

Un ultimo argomento del celebrato emerito di Lovanio nega l’autonomia,


cioè la scientificità, della scienza nel sistema cattolico, ma contraffà (mi pare)
l’epistemologia. Afferma infatti che ponendo un’altra fonte di verità oltre la
scienza si rende serva la scienza. Ora, essere organico non significa essere servo.
Nell’organismo enciclopedico nessuna parte è serva, sebbene sia coordinata alle
altre e da esse dipendente. La fonte prima delle due fonti di verità, scienza e
fede, è la Ragione oggettiva, cioè il Verbo206, e per giudicare impossibile di
tenere insieme teoreticamente scienza e religione bisogna abbracciare l’una o
l’altra di queste tesi: o che la Rivelazione contenga la scienza, e così si
tornerebbe all’errore della teologia pregalileiana; o che la ragione soggettiva non
sia limitata e non ammetta scibile oltre il suo limite: così si adotterebbe il
panlogismo della filosofia eterodossa alemannica.

Il vero si è che il rifiuto che si fa della scuola cattolica lungi dall’essere una
semplice variante di filosofia politica è il corollario, avvertito o inavvertito, di
persuasioni difformi dal pensiero cattolico. Si leva alla scuola cattolica la base
propria e si mette la sua essenza fuori di sé, condizionandola al pluralismo e al
nullismo culturale. Il programma elaborato a Friburgo in Elvezia per la riforma
dei seminari ripudia la ratio studiorum tradizionale e prescrive che «fin
dall’inizio si deve dare una nozione globale affrontando i problemi posti
dall’esistenza di altre credenze e dalla miscredenza in guisa che lo studente eviti
il rischio dell’autosufficienza cristiana» (ICI, n. 279, p. 20, 1 gennaio 1967)207.

Per misurare quanto un tal concetto si dilunghi dalla pedagogia cattolica


basterà osservare che qui alla concezione cristiana del mondo si nega il carattere
di concezione globale (è priva dunque di un principio universale); che si
pretende affrontare sin dall’inizio le altre filosofie, ma non si conosce alcun
criterio con cui procedere a quell’affrontamento; che infine (cosa di cui è
difficile dire se sia maggiore la stranezza o l’errore) si cautelano i giovani dal
rischio di prendere il cristianesimo come un quid autosufficiente. Ergo il
cristianesimo, pur essendo un insegnamento divino, non sarebbe sufficiente per
sé a dare allo spirito l’appagamento e il riposo nella verità; lo si deve tenere
soltanto come un’opinione bisognosa di integrarsi alle altre per acquistare
rilevanza assiologica208. Di qui deriva la progrediente perdita di originalità della
scuola cattolica che vien modellandosi di proposito sulla scuola statale nelle
strutture, nella ratio studiorum, nella promiscuità, nel calendario e in tutto. E
quanto alla cultura essa ha abbandonato in gran parte le concezioni peculiari del
cattolicismo circa i fatti della storia, adottando i punti di vista che furono propri
degli avversari della Chiesa nel secolo passato209.

Concludendo il discorso sulla disaffezione dalla scuola cattolica e saltando le


chiusure o laicizzazioni di istituti, gli scandali dottrinali delle scuole
cattoliche210, conviene misurare il balzo regressivo fatto dalla scuola cattolica nel
periodo postconciliare. E lo misureremo citando quel che nel 1936, nel folto
della mischia col dispotismo hitleriano, disse il card. Michele Faulhaber,
arcivescovo di Monaco: «Chiudere d’un tratto cento scuole è più che distruggere
qualche chiesa».

127. Pedagogia moderna. La catechesi. − La questione della scuola è, nello


stato presente della Chiesa, assai più una questione circa le verità da insegnare
che circa il metodo con cui insegnare, e il moto postconciliare di rinnovamento
della catechesi trapassa e non può non trapassare dalla didattica alla dottrina,
giacché anche la didattica è l’espressione di una dottrina. La crisi della catechesi
è primariamente crisi di contenuti e discende dal pirronismo che investe il
pensiero ecclesiale. Convegni e convegni sulla catechesi si domandano: «Peut-
on trouver après Vatican II une doctrine catholique incontestable qui refasse
l’unité perdue?» (Dossier sur le problème de la catéchèse, Paris 1977, p. 36).

La pedagogia moderna ha le sue radici remote nella pedagogia negativa del


Rousseau che tira fuori dall’uomo supposto buono per natura l’educazione
dell’uomo; ha le origini prossime nella filosofia trascendentale alemannica del
secolo XVIII riguardante l’individuale come un momento dello spirito
universale. Ebbe infine la sistemazione teoretica più rigorosa nel Sommario di
pedagogia come scienza filosofica (1912) di Giovanni Gentile che prestò le basi
alla riforma della scuola italiana. Il pensiero che perfonde tale pedagogia è che il
vero maestro è lo Spirito universale; il nostro spirito si muove sempre dentro di
sé; lo Spirito non è che l’atto medesimo dell’individuale il cui processo è
autoformazione e non ha né oggetto né modello fuori di sé211.

Anche nel sistema cattolico il vero maestro è lo spirito universale, cioè il


Verbo divino «che illumina ogni uomo veniente in questo mondo» (Ioann., I, 9)
manifestando la verità naturale, ma questo Spirito è altro dallo spirito e lo
trascende, laddove nella pedagogia moderna non vi è trascendenza né dello
Spirito allo spirito né della verità all’intelletto né del maestro al discepolo.

E lasciamo che oltre al lume naturale dell’intelletto, la religione conosce un


altro lume soprannaturale che sovraillumina lo spirito rendendolo capace non già
di vedere i veri oltrepassanti la sfera naturale, ma di assentire ad essi senza
vedere, e farseli propri. Al contrario nella pedagogia moderna per l’inerenza del
vero e del bene e di ogni altro valore dello spirito allo spirito stesso, insomma
per l’immanenza del divino nell’uomo, accade che e la realtà sia autocreazione e
la verità autocoscienza e la didattica autodidattica.

128. Pedagogia neoterica. − Ecco allora l’esatta articolazione dell’errore


nella pedagogia neoterica. Il P R I M O errore consiste nel negare e tacere la
dipendenza dello spirito educando dal principio educante e nel supporre che la
verità sia un risultato della creatività personale, laddove al contrario essa è un
lume che l’intelletto trova e non crea, e anzi tanto più trova quanto meno
all’intuito del vero mescola di esperienza vitale. L’esperienza è il mezzo di
accesso alla verità, ma questa non è il vissuto, come oggi si dice, ma il puro
veduto. Tanto nel De magistro agostiniano quanto nel De magistro tomistico si
afferma che la verità trascende discepolo e maestro e l’uomo non la produce ma
la scopre. L’uomo può certo apprendere senza maestro leggendo nella realtà.
L’insegnante non trasfonde la scienza nel discepolo ma suscita in lui atti
personali di conoscenza. Il docente infatti, che già possiede attualmente il sapere,
attua quello che il discente possiede potenzialmente e così fa che egli da sé
stesso conosca. Rimane pertanto escluso radicalmente che la didattica sia
autodidattica e l’educazione autoeducazione, come è escluso per principio
metafisico che un ente in potenza venga all’atto da sé stesso. San Tommaso pone
esplicitamente la tesi: «Non potest aliquis dici sui ipsius magister vel seipsum
docere» (De verit., q. XI, a. 2)212.

Qui occorre richiamare tre punti maggiori della pedagogia cattolica. Il primo
è metafisico: la distinzione di potenza ed atto ossia la non creatività delle facoltà
umane. Il secondo è assiologico: la superiorità assiologica di chi sa rispetto a chi
non sa. Il terzo è gnoseologico: il primato della conoscenza rispetto
all’esperienza morale, che cioè tale è, ceteris paribus, la vita morale dell’uomo
quale è il suo pensiero, cioè il giudizio che egli porta sui fini e sugli atti
dell’essere suo.

Il SECONDO errore della pedagogia neoterica è che l’insegnamento abbia per


scopo diretto di produrre un’esperienza, che la via sia parimenti quella
dell’esperienza e che la conoscenza astratta dal vissuto sia, come dicono, puro
nozionismo. Ora il fine proprio e formale dell’insegnamento, non esclusa la
catechesi, non è di produrre un’esperienza, ma una cognizione. Il discepolo vien
tratto dal maestro a svolgere cognizione da cognizione mediante un processo
dialettico di presentazione di idee. Così della catechesi il fine non è immediate
un incontro esistenziale e sperimentale con la persona del Cristo (qui oltre tutto
si trapassa alla mistica), bensì la conoscenza delle verità rivelate e dei loro
preamboli.

L’ascendenza modernistica di questa pedagogia non può sfuggire a chi sa che


il principio filosofico del modernismo era il sentimento che risolve in sé ogni
valore e che primeggia sopra i valori teoretici riguardati come l’astratto di cui
l’esperienza è il concreto.

129. La cognizione del male nella dottrina cattolica. − Assai grave è il


riflesso morale della deviazione pedagogica. Se la cognizione è l’esperienza,
cioè il vissuto, allora la cognizione del bene sarà esperienza del bene e la
cognizione del male esperienza del male, cioè peccato: tutto il sistema
dell’ascetica e dell’etica cristiana subisce un tracollo. Cade la distinzione tra
l’ordine reale, dato nel vissuto, e l’ordine ideale, dato nell’intelletto. Come
insegna sant’Agostino nel De civ. Dei, XXII, 30213, «scientiae malorum duae sunt,
una qua potentiam mentis non latent, altera qua experientia sensibus cohaerent,
aliter quippe sciuntur omnia vitia per sapientis doctrinam, aliter per insipientis
pessimam vitam». C’è una conoscenza del male che consiste nella presenza del
male alla mente e ve n’è un’altra che consiste nell’apprendersi il male
all’esperienza. Ma questa seconda scienza per cui si conosce il male vivendolo non è
conoscenza ma oltrepassa già la conoscenza ed entra nella moralità, perché è l’atto
con cui lo spirito elegge il conosciuto unendo così l’ordine ideale con l’ordine reale
del vissuto. Lo sperimentare non si ha da confondere col conoscere né tanto meno
farne l’unica fonte del conoscere. Tutta l’ascetica e la pedagogia cattolica poggiano
su questa base e non se ne possono rimuovere senza che l’edificio ruini. Ed è falso
quello che si viene ormai insegnando anche tra cattolici, che bisogni conoscere il
m a l e per combatterlo, o per lo meno è falso che bisogni conoscerlo
sperimentalmente, cioè più di quanto lo faccia conoscere la cognizione e la volontà
del bene. Il valore della castità, per esempio, tanto più si conosce quanto meno si
conosce sperimentalmente il suo contrario. Ed è sentenza profonda quella del servo di
Dio canonico Francesco Chiesa: «Non dire “bisognerebbe trovarcisi dentro”. Certe
cose si conoscono meglio appunto non trovandocisi dentro»214. La pedagogia
neoterica non esplicitamente, giacché non può essere ex professo una pedagogia del
peccato, bensì tendenzialmente, mira a identificare apprendere con sperimentare. Di
qui deriva la sua tendenza a togliere ogni limite all’esperienza e a svincolare il
discepolo dal maestro, il minore dal maggiore, l’etica dalla legge (che non si
sperimenta, ma si obbedisce o si viola), la virtù dalla ragione. Quel nunquam satis
che la filosofia cattolica dice dell’intelligere la pedagogia moderna dice del vivere.
Ne deriva la libertà di mettersi in ogni esperienza per poter conoscere, libertà
rivendicata dai neoterici anche in materia di celibato ecclesiastico, di continenza
prematrimoniale, di indissolubilità coniugale, di fedeltà in ogni impegno di vita.
Si dice infatti non esser giusto quell’impegno che la volontà prende senza
conoscere sperimentalmente la materia dell’impegno.

La crisi della scuola cattolica è nel suo fondo una degradazione della
razionalità in confronto dell’esperienza e un caso di quel vitalismo proprio del
mondo contemporaneo che apprezza non quel che è vero e può contraddire alla
vita bensì quel che è vivo e misura esso la verità: vivo, ergo sum.

130. Insegnamento e autorità. La catechesi. − Se si nega che la verità


trascende maestro e discepolo e se si risolve l’educazione in autoeducazione, si
toglie dalla pedagogia l’idea dell’autorità. L’autorità infatti è la qualità di un atto
che non può essere risolto nella soggettività di chi lo pone né in quella di chi lo
riceve, ma sta in modo indipendente dall’assenso e dal dissenso.

Non può dunque stupire che i neoterici attacchino la scuola autoritaria e


pretendano che il principio di autorità non sia un principio pedagogico. Come
nella morale autonoma la volontà che dà legge a sé stessa non ha legge, così
nella pedagogia autonoma chi educa sé stesso non ha autorità cui soggiaccia. Se
invece ogni vero trascende l’intelletto imponendosi all’assenso dell’uomo, più
particolarmente lo trascendono le verità di fede, oggetto della catechesi, le quali
trascendono l’uomo non solo alla guisa di qualunque verità, ma
specialissimamente, in quanto son verità rivelate e devono essere assentite non in
forza di evidenza, bensì per ossequio a Dio.

V’è dunque un’incompatibilità peculiare tra catechesi e autoeducazione.


Abbattendo la verità come autorità la catechesi cessa di essere apprendimento
della verità per ridursi a ricerca della verità, in istato di eguaglianza assoluta con
ogni altro insegnamento.

L’enorme moto del rinnovamento catechetico seguito al Concilio è riuscito


sinora a distruggere ogni vestigio della catechesi tradizionale215, ma non ha
prodotto né un indirizzo dottrinale comune, né una qualche realizzazione
positiva216: non pochi catechismi pubblicati dai centri diocesani per la catechesi
pullulano di temerità, di errori dogmatici e di stravaganze.

La catechesi neoterica può credere di appoggiarsi nel discorso di Paolo VI


del 10 dicembre 1971, che sembra adottare i due principii della pedagogia
ammodernata, e cioè: primo che «occorre abbandonare i metodi eccessivamente
autoritari nel presentare i contenuti dottrinali, assumendo un atteggiamento più
umile e fraterno217 di ricerca della verità»; secondo, che «insegnare significa
essere aperti al dialogo con gli alunni, rispettosi della loro personalità».

Nel primo passo del discorso è manifesta la confusione tra didattica ed


euristica, tra comunicazione del sapere posseduto e l’inquisizione della verità,
tra la cattedra e la disputa. Anche questo è un caso di transizione inavvertita da
un’essenza a un’altra e di implicita annullazione di una di esse. Che poi nell’atto
dell’insegnare possano insinuarsi tutti i germogli dell’umana selva, compresa la
superbia, è certo, ma non conviene stupirsene, anche se occorre guardarsene del
continuo: in tutte le pliche più riposte dell’operare umano quella selva pullula.
Non si insinua forse superbia anche nel dialogo di ricerca della verità? La verità
può essere insegnata senza spirito di verità e con animo che mira a porgere sé
stesso e a insegnare sé stesso, ma la trattazione dei fatti umani deve andare
all’essenza loro e non travestire come essenza le contingenti imperfezioni del
fatto.
Osservo ancora che l’eliminazione dell’autorità è intrinseca alla didattica
intesa come autodidattica onde lo spirito trae da sé stesso il vero. Se infatti la
verità trascende lo spirito, essa è indipendente dall’intelletto che la pensa: non è
l’essere pensata dall’uomo, ma l’essere pensata da Dio che la rende pensabile
dall’uomo. Nella Chiesa postconciliare è invece concetto diffuso che l’uomo sia
autocreazione e si discorre perciò di autoeducazione, di autodidattica, di
autogoverno, di autoenvangelizzazione e perfino di autoredenzione: l’autenticità
vien fatta consistere in questa autonomia.

Questo diallelo tra maestro e discepolo equivalente all’alterazione del


rapporto naturale tra i due soggetti, viene proclamato senza infingimenti nella
lettera del Segretario di Stato al convegno di Strasburgo della Union nationale
des parents des écoles de l’enseignement libre. Vi si leggono queste parole: «Les
enseignants sans démissionner de leurs graves responsabilités, deviendront des
conseillers, des orientateurs et pourquoi pas? des amis. Les élèves, sans rejeter
systématiquement l’ordre et l’organisation, deviendront des corresponsables, des
coopérateurs et en un certain sens des coéducateurs» (OR, 21 maggio 1975). La
conversione del discepolo in maestro e viceversa contiene virtualmente
l’abolizione di ogni pedagogia e inclusive la denigrazione di tutta l’opera
scolastica della Chiesa storica.

Della filosofia del dialogo diremo al § 156. Qui, tornando al discorso di


Paolo VI, da cui sembrerebbe che l’insegnamento antecedente della Chiesa non
sia stato rispettoso della personalità e gli insegnanti né umili né pronti al
servizio, basti ridurre le cose alla differenza essenziale: dialogare non è
insegnare. Inoltre ciascuno serviente deve prestarsi non a qualunque servizio
(presumersi capace di un omnimodo servizio è cecità e superbia), bensì a quel
solo servizio per cui è determinatamente vocato, preparato e officiato.
CAPITOLO XIII LA CATECHESI

131. La dissoluzione della catechesi. Il sinodo dei vescovi 1977. − Levata


l’autorità del maestro e sciolta la verità in pura euristica, la riforma della
catechesi non ha potuto rattenersi dal volgere a deviazioni eterodosse che
insieme con la variazione del metodo comportano variazione dei contenuti. Già
il convegno di Assisi del 1969 sull’insegnamento religioso era terminato in un
documento che preconizzava l’abbandono di ogni contenuto dogmatico (cioè
specificamente cattolico) e la surrogazione dell’insegnamento della religione
cattolica (considerato come un ingiusto privilegio in paese democratico) con
quello della storia delle religioni.

Né il Sinodo dei vescovi del 1977, che discusse la nuova catechesi, portò
raddrizzamenti efficaci manifestando il dissenso dei Padri anche circa i principii,
una generale mancanza di forza logica e soprattutto l’incapacità di stare al punto
messo in discussione. Eppure lo stare al punto è la regola delle regole in ogni
disputa e basta attenervisi perché la disputa approdi. Nel Sinodo infatti la
catechesi trasgredì nella sociologia, nella politica, nella teologia della
liberazione. Bastino pochi esempi. Per il vescovo di Saragozza la catechesi
«deve promuovere la creatività degli allievi, il dialogo, la partecipazione attiva,
senza dimenticare che è azione della Chiesa». Ma la creatività è un assurdo
metafisico e morale, e quando non lo fosse, non potrebbe essere il fine della
catechesi, giacché l’uomo non può autofinalizzarsi, il fine gli è dato ed egli deve
solo volerlo. Per padre Hardy «la catechesi deve portare all’esperienza del
Cristo», che è proposizione confondente ideale e reale e trapassante al
misticismo. La catechesi è per sé e formalmente cognizione, non esperienza,
benché sia ordinata all’esperienza, cioè alle azioni della vita. Secondo il cardinal
Pironio «la catechesi si sprigiona dall’esperienza profonda di Dio nell’umanità
cristiana ed è una più profonda assimilazione dell’amore e della fede» (OR, 16
ottobre 1977). Vi sono sentori modernisti in tali asserti. La catechesi è dottrina e
non si sprigiona dall’esperienza esistenziale dei credenti, perché vi sono
contenuti soprannaturali che quell’esperienza non contiene.
Essa discende dall’insegnamento divino e non è prodotta, ma produce
l’esperienza religiosa. Infine un vescovo del Kenia dichiara che «la catechesi
deve impegnarsi a denunciare le ingiustizie sociali... e difendere le iniziative di
liberazione sociale dei poveri» (OR, 7 ottobre 1977), e così degrada la parola di
vita eterna a un intendimento economico e sociale.

132. La dissoluzione della catechesi. Padre Arrupe. Card. Benelli. − Oltre


l’idea della socialità e della creatività dominò il Sinodo l’idea del pluralismo,
più Padri perorando per la pluralità dei catechismi che devono prendere il colore
delle varie culture nazionali. Il padre Arrupe, preposito generale della
Compagnia di Gesù, porta l’esigenza pluralistica alla sua formula ultima. «Lo
Spirito» dice «appaga l’intima aspirazione dell’uomo di congiungere le esigenze
apparentemente antitetiche di una radicale unità con una altrettanto radicale
diversità» (OR, 7 ottobre 1977). Sembra che il fondo del pensiero umano sia non
l’identità, ma la contraddizione, e che lo Spirito Santo sia l’operatore della
sintesi dei contraddittorii a cui l’animo dell’uomo intimamente aspira. È inoltre
mal medicato con un avventizio avverbio apparentemente il paralogismo di
fondo. Se le esigenze sono diverse alla radice non può essere che si
congiungano, che cioè non siano più diverse alla radice. Esse fanno per forza
pluralità e diversità di cose. Unità e diversità non possono essere allo stesso
livello. P. Arrupe poi non vuole nella catechesi «definizioni complete, strette,
ortodosse, perché potrebbero portare a una forma aristocratica e involutiva».
Come se la verità stesse nel circiterismo confusionale, l’ortodossia fosse un
disvalore e l’autentica catechesi nascesse dall’oclocrazia. Il vero si è che anche
qui, come nel confronto tra cristianesimo e marxismo, si prendono
semplicemente come modi diversi di vedere il medesimo cose ed idee che non
sono il medesimo. Qui si vuole pluralità di catechismi perché tutte le opposizioni
che fanno lo specifico delle dottrine si risolvono in un’identità di fondo che
oltrepassa tutto lo specifico delle dottrine. Il card. Benelli, parlando a un
convegno di insegnanti di religione, ha preconizzato che la scuola di religione
«debba favorire il confronto obiettivo con altre visioni di vita che occorre
conoscere, valutare ed eventualmente integrare». Il card. non vede nel mondo
mentale e religioso alcun errore da respingere, ma solo qualcosa da integrare.
Inoltre dice che «l’unica maniera di insegnare la religione cattolica è quella di
fare una proposta di vita». Non si tratta dunque di proporre verità aventi autorità
dalla divina Rivelazione. Infine il cardinale commette all’alunno stesso di
«garantirne la validità, perché egli ne ha già fatto esperienza» (OR, 28-9
settembre 1981).

I due caratteri della nuova catechesi, l’essere cioè ricerca anziché dottrina e il
mirare a produrre risposte esistenziali anziché una persuasione intellettuale, si
rispecchiano nella soluzione data al problema della pluralità dei catechismi e
della memorizzazione218. Dove non si dà contenuto dogmatico a cui assentire non
può esservi un unico catechismo universale non essendovi formule di fede adatte
a tutta la Chiesa in forza appunto di quell’unico contenuto. Si abbandona dunque
l’uso antico iniziato coi primordi della Chiesa e continuato coi catechismi del
Tridentino, del Bellarmino, del Canisio su su sino al Rosmini e a Pio X.

La forma amebea con domanda e risposta fu adottata per il suo catechismo


dalla Conferenza episcopale germanica, ma fu osteggiata dalla maggioranza del
Sinodo dei vescovi del 1977. Essa rispecchia bene l’indole didattica e non
euristica della catechesi cattolica la quale, essendo proposizione di verità, non
interroga supponendo (metodicamente) dubbia la risposta, ma risponde
assertoriamente il vero. D’altronde nella maieutica stessa, a cui si appellano gli
avversari del modo tradizionale, Socrate trae dal discepolo il vero, ma il maestro
lo possiede già.

La memorizzazione viene squalificata e vilipesa dai pedagogisti moderni


come psittacismo (ed è il principio della cultura, come adombrarono gli antichi
nel mito di Mnemosine madre delle Muse!). Essa invece si accompagna
naturalmente al concetto della catechesi se questa è comunicazione di
conoscenze anziché pura azione vitale. Per un vescovo dell’Equatore «la
catechesi consiste non tanto in quel che si ascolta quanto in quel che si vede in
chi la fa». Qui la verità, percettibile coll’intelletto, vien fatta minore
dell’esperienza vitale e il Vangelo è legato non alla virtù propria di esso ma alla
virtù del predicante, dando o togliendo valore alla parola secondo la virtù del
predicante. Lo spostamento antropocentrico per cui si fa dipendere l’effetto della
catechesi più dalla virtù del parlante che dalla virtù della verità è un errore in cui
celasi un’altra volta la confusione delle essenze. Infatti il catecheta è assimilato
al teatrante, all’attore, al poeta che hanno una propria potenza di muovere gli
animi. Ma la catechesi è altro dall’antica rettorica flexanima. Senza osservare
infine che a questa stregua l’accoglienza della verità divina verrebbe a mancare
ogniqualvolta mancasse la virtù rettorica. L’errore è adottato anche nel Dossier
sur le problème de catéchèse, Paris 1977, p. 22, che pure conduce la critica della
catechesi neoterica.

133. La dissoluzione della catechesi. Le Du. Chariot. Mons. Orchampt. − Il


lolium temulentum che abbiamo rintracciato nei documenti sinodali ed episcopali
vegetò in un’estesa letteratura di catechismi ufficiali, per tacere dei catechismi di
iniziativa privata dai quali prescindiamo giusta il nostro criterio metodico219.

Del Catechismo olandese, espressione dell’alienazione di quella Chiesa


dall’ortodossia, il rimbalzo nella Chiesa universale fu risonante, esteso e
doloroso. Stupivano il mondo due cose: sia la temerità delle novazioni che dalla
negazione degli angeli, del diavolo, del sacerdozio sacramentale avanzava al
rigetto della presenza eucaristica e all’inforsamento dell’unione teandrica, sia la
fiacca condanna fattane dalla Santa Sede. Questa, dopo aver sottoposto il
Catechismo a una congregazione straordinaria di cardinali che vi trovò errori,
ambiguità e omissioni di articoli gravissimi, lo lasciò tuttavia correre il mondo (e
le editorie cattoliche e religiose se ne contesero in tutti i paesi il privilegio di
stampa). Alla divulgazione era apposta dalla Santa Sede una sola condizione,
che al corruptorium costituito dall’opera andasse allegato il correctorium
costituito dal decreto che lo aveva condannato.

Il Catechismo olandese fu accolto dappertutto come «la migliore


presentazione che della fede cattolica si potesse fare all’uomo moderno».
Nonostante il giudizio della Santa Sede i vescovi lo introdussero nelle pubbliche
scuole e lo difesero di fronte ai genitori220 che, adempiendo il dovere di custodire
la fede nei loro figli, li depennavano da un insegnamento corruttore impartito da
preti con approvazione del vescovo. Il Catechismo olandese fu soppresso
soltanto nel 1980 dopo il Sinodo straordinario dei vescovi olandesi tenutosi in
Roma sotto la presidenza di Giovanni Paolo II.
Emanazione degli Uffici della diocesi di Parigi per la catechesi sono molti
testi che stravolgono la Scrittura, inforsano il dogma, corrompono la morale. Per
esempio il libro di Jean Le Du sul decalogo, intitolato Qui fait la loi?, impugna
la storicità della legislazione sinaitica, che sarebbe «une opération frauduleuse
effectuée par Moïse pour consolider son autorité». Le Du adotta pienamente la
tesi dell’impostura religiosa diffusa da Voltaire per furioso odio antiebraico,
genitura perenne dell’odio anticristiano, come si vide lampantemente
nell’ideologia nazista. D’altronde rispondendo alla domanda del frontispizio il
Le Du toglie alla legge la sua origine divina, naturale e rivelata, e ne fa una
produzione della diveniente coscienza dell’uomo che si libera dal mito, si
secolarizza e «choisit en définitive quel homme il veut être».

Un’emozione ancor più viva eccitò il libro Dieu est-il dans l’hostie? di
Léopold Charlot, sacerdote responsabile del Centre régional d’enseignement
religieux d’Angers, venduto anche nelle vetrinette parrocchiali. Il libro ha per
soggetto «la manière dont il faut penser aujourd’hui l’Eucharistie comme
présence réelle». Il succo, di cui l’autore non misura il senso, è che c’è un modo
differente da tempo a tempo di intendere tale presenza e che il modo proprio del
nostro tempo è di intendere tale presenza reale come una presenza non reale, ma
immaginativa e metaforica, identica a quella onde diciamo che Beethoven è
presente in una sua suonata e nel sentimento di chi la ascolta. Charlot insegna ai
catecumeni che l’eucaristia fu istituita non da Cristo nell’ultima cena, ma dalla
comunità cristiana primitiva. Pane e vino restano sostanzialmente pane e vino e
sono soltanto il segno convenzionale della presenza di Cristo nel popolo dei
fedeli. Perciò è assurdo che si consacrino e si conservino in vista
dell’adorazione. Anzi Léopold Charlot consiglia alle madri di stare ritte coi loro
figli davanti al tabernacolo per inculcare che il sacramento non è adorabile.

Lo scandalo, nel senso rigoroso di atto inducente altrui al peccato (qui


peccato contro la fede), consiste certo nel fatto che un prete portante, per
investitura del suo vescovo, la responsabilità della catechesi, neghi in un
catechismo ufficiale il dogma eucaristico e lo faccia con animo tranquillo. Ma
siccome è legge psicologica e morale che le responsabilità non discendono, ma
ascendono, assai maggior disordine è che tale blasfemia sia propagata in un
catechismo del vescovo, che è maestro della fede e custode del gregge contro i
lupi dell’eresia. Che se il prete è pio (come attestano dello Charlot) e predicante
in buona fede, non ci sarà dal canto dell’individuo sacerdote che scandalo
fenomenico (materiale, come dicesi nella teologia classica), ma emerge più
vistoso lo scandalo dato dalla Chiesa la quale, proprio come tale, per mezzo di
un suo ministro approvato e mandato dal vescovo, insegna l’errore e la
blasfemia.

È un sintomo piccante della declinazione della lucidità intellettuale e della


virtù di fortezza nell’episcopato quel che dichiarò mons. Orchampt, vescovo di
Angers, impetito da una fitta di proteste del laicato e della chieresia. A chi lo
richiamava, giusta il can. 336, al suo dovere di dar soddisfazione dell’offesa da
lui recata pubblicamente alla fede, egli si limitava a rispondere: «L’évêque
responsable de la foi de son peuple se doit de signaler les dangers de mutilation
pour une foi qui se tiendrait à la prospective de ce fascicule... Il se doit d’inviter
ceux qui l’utiliseraient à la critique et à l’approfondissement pour le nécessaire
effort de renouveau pastoral» (Semaine religieuse du diocèse d’Angers, 11
novembre 1976 e 16 gennaio 1977). Il vescovo non condanna né ritira l’opera
pubblicata dal suo Centro catechistico, tratta di mutilazione del dogma
l’annientamento del dogma, ammette che si continui a insegnare la religione
cattolica su un libro che la impugna, non rimuove dall’officio l’autore, giudica la
tesi dello Charlot come una tesi da tenere, purché non la si tenga esclusivamente
(come se porre una delle due contraddittorie non fosse negare l’altra) e infine,
ripigliando il consueto motivo neoterico, domanda non una confutazione ma un
approfondimento, vocabolo che, come vedemmo al § 50, nell’ermeneutica
neoterica significa battere e ribattere in infinito un punto dogmatico finché esso
si sciolga interamente nel suo contrario. Infine il vescovo di Angers persiste a
ritenere che tentativi come quello dello Charlot contribuiscano al rinnovamento
ecclesiale.

La Santa Sede diede un segno di riprovazione, ma generico e sempre in


chiave di lenitudine. Riguarda certamente il vescovo di Angers il passo del
discorso di Paolo VI del 17 aprile 1977: «Les fidèles s’étonneraient à bon droit
que des abus manifestes soient tolérés par ceux qui ont reçu la charge de
l’épiscopat qui signifie depuis les premiers temps de l’Eglise vigilance et unité».
È anche da notare la dimissione e delegazione di responsabilità indimissibili e
indelegabili da parte di più vescovi a un vescovo che a sua volta si rimette alle
opinioni malferme di un suo prete. Il catechismo dello Charlot era infatti
adottato in tutte le diocesi della Francia dell’est.

134. Rinnovamento e inanizione della catechesi in Italia. − La delegazione


dell’autorità magisteriale delle Conferenze episcopali a preti della scuola
neoterica si palesò anche nella commissione di redigere il nuovo catechismo data
a intellettuali di opzione marxistica i quali defezionarono poi clamorosamente
portandosi candidati sulle liste del partito comunista. Nel Catechismo dei
giovani (Roma 1979) la preoccupazione ecumenica, arbitrariamente interpretata,
fa agli autori affermare «un combaciamento della ricerca esegetica cattolica con
quella protestante», combaciamento che invece non può darsi, perché i
protestanti non riconoscono sopra il lume privato il lume esegetico dato dal
Magistero di Pietro. Anche uno degli articoli principali della dottrina cattolica gli
autori lo indeboliscono accostandosi alla dottrina modernista: non il fatto dei
prodigi precede la fede, ma la fede fa essere nella persuasione dei credenti il
fatto dei prodigi. Anche l’idea dell’immutabilità della fede è nel libro poco
scolpita prevalendo quella del mobilismo neoterico che insegna la Chiesa essere
perpetuamente in ascolto e in ricerca.

Più ancora manifesto è il nuovo indirizzo nel Catechismo dei fanciulli,


pubblicato nel 1976 dalla Conferenza episcopale italiana, massime
nell’interpretazione dell’ecumenismo. L’ecumenismo viene riguardato come
riconoscimento di valori, più o meno appariscenti, ma identicamente contenuti in
ogni credenza religiosa. Perciò non vi ha mai passaggio da una all’altra, bensì
soltanto approfondimento della propria verità nell’altrui verità, e il dialogo reca
sempre un reciproco arricchimento. I catecumeni in età puerile sono distolti dallo
specifico della religione cattolica, invitati a guardare l’universale del fenomeno
religioso e condotti non a confermarsi nell’adesione, ma alla ricerca. La
catechesi (è detto) «deve aiutare i fanciulli a collaborare con tutti gli uomini
perché vi sia libertà, giustizia, pace, senza tuttavia cessare di riconoscere nella
fede e nei sacramenti la sorgente di forze spirituali». Questo tuttavia è
significativo. La condizione ultima cui deve soddisfare un catechismo è che non
neghi la fede e riconosca che i sacramenti sono sorgente di forze spirituali, come
lo sono tutte le credenze dei popoli sotto del cielo. Lo specifico del cattolicismo
è epocato. Si tace del peccato, dell’errore, del Vae, della redenzione, del giudizio,
del fine trascendente: il cristianesimo che, se non è tutto, non è nulla, è ridotto a
qualche cosa di appendicolare, di sussidiario e di cooperante.

135. Il convegno dei catechisti romani attorno al Papa. − L’inanizione della


catechesi appare in modo inequivoco nell’incontro dei catechisti di Roma con
Giovanni Paolo II (OR, 7 marzo 1981). Il Papa distingue la catechesi, opera
diretta della Chiesa, dall’insegnamento religioso nelle scuole pubbliche, che
incombe allo Stato come parte organica della formazione dell’alunno. Egli
afferma il dovere da parte dello Stato di «rendere tale servizio agli alunni
cattolici che costituiscono la quasi totalità degli studenti» e alle loro famiglie
«che logicamente si presumono volere un’educazione inspirata ai propri principii
religiosi». Ma nonostante tali dichiarazioni, furono formulate nel convegno
proposte e opinioni che si risolvono nella reiezione dell’insegnamento cattolico.
Parecchi relatori risolvono la religione cattolica in religiosità cristiana
sincretistica, altri in religiosità naturale, altri in espressione di libertà, tutti
toccano la crisi, come dicesi, di identità del sacerdote. All’insegnamento
religioso non fu trovato altro motivo che l’esigenza culturale, onde la cognizione
del mondo ebraico e del mondo cristiano appare necessaria ad intendere i valori
costitutivi della civiltà moderna. Non fu trovato altro fine alla catechesi che
quello di render noto ai giovani il ventaglio delle ideologie «per renderli capaci
poi di effettuare delle libere scelte», come se la cognizione dei valori eleggibili
desse il criterio medesimo della scelta. Non fu trovato nessun fondamento
specifico alla religione cattolica. Non essendo essa la sola portatrice di valori
religiosi, nella scuola italiana «non dovrebbe essere essa sola a entrare nella
scuola per fare lezione di religione». Occorrerebbe plurificare le ore di religione
ammettendo tutte le credenze. Convien quindi abrogare il Concordato che
privilegia la religione cattolica.

I preti romani sembrano continuare un filo della tradizione naturalistica:


richiamano il pantheon sincretistico dipinto nei gironi della campanelliana Città
del sole, dove Cristo sta con Osiride, Caronda e Maometto, i sacelli di qualche
umanista del Rinascimento, il tolo sincretistico di Notre-Dame de la Garde a
Marsiglia progettato da mons. Etchégaray. Non fu trovata ragione peculiare alla
verità cattolica e fu dichiarato che «i catechisti non sono pagati per fare catechesi
e per insegnare una fede, ma sono al servizio della persona umana». «Si tratta»
dicono «di un lavoro di precatechesi, di preevangelizzazione, che lo Stato
dovrebbe riconoscere come un fiancheggiamento alla crescita della persona».
Qui appare lo sperdimento profondo dello spirito del clero zoppicante su
circiterismi come «crescita della persona», per il quale insegnare la verità
cattolica si oppone al servizio della persona umana e diventa un
fiancheggiamento o un avvio all’euristica di cui decide non la verità, ma la
libertà.

Lo svuotamento della catechesi è scopertamente espresso dalle proposte del


documento finale che sono: che si celebri una Messa per gli studenti in procinto
di affrontare esami, che si celebri anche in Roma una giornata della scuola, che il
Papa riceva presto in udienza i catechisti romani, che il Papa «compia una visita
a una quinta ginnasio di una scuola pubblica». Non è chi non veda che tenui cose
uscirono dal convegno221 romano coram Sanctissimo: cose buone certo, ma del
tutto estranee all’intrinseco delle questioni dibattute. Vien fatto di credere che
tale tenuità di esiti sia stata l’ultimo espediente per non rispecchiare nel
documento conclusivo la singolarità delle opinioni espresse, poco consentanee
alla retta filosofia e alla tradizionale prassi della Chiesa.

136. Antitesi della nuova catechesi alle direttive di Giovanni Paolo II Card.
Journet. − La mentalità del clero apparsa nel convegno è tanto più notabile
perché sta in chiara opposizione con l’Esortazione apostolica di Giovanni Paolo
II (OR, 26 ottobre 1979). La nuova catechesi è di stampo esistenziale e
promuove un’esperienza di fede, e il Papa invece afferma il carattere
intellettuale della catechesi e vuole che i catecumeni siano penetrati di certezze
semplici ma ferme «quibus ad Dominum magis magisque conoscendum
adiuventur»222. La nuova catechesi vuole l’adattamento della fede alle singole
storiche culture, e il Papa invece (n. 52) vuole che la fede trasformi le singole
culture: «non esset catechesis si Evangelium ipsum mutaretur cum culturas
attingit»223. La nuova catechesi ripudia il principio di autorità e quindi il classico
metodo amebeo e quindi l’esercizio della memoria, e il Papa invece ribadisce (n.
55) che è necessario possedere durevolmente, cioè nella memoria, le parole di
Cristo, i principali testi biblici, le formule di fede, il decalogo, le preghiere
comuni224, i testi liturgici. La nuova catechesi procede con un dialogo paritario,
euristico, fondato sulla aspecificità del vero, e il Papa invece (n. 56) rifiuta come
pericoloso quel dialogo che «saepe ad indifferentismum omnia exaequantem
delabitur»225. La nuova catechesi si propone di guidare il catecumeno a
un’esperienza del divino e del Cristo, e il Papa invece definisce la catechesi (n.
18) come «institutio doctrinae christianae», istruzione che mira a far sempre
meglio conoscere e sempre più fermamente assentire alla verità divina, non già a
far sempre più svilupparsi e affermarsi la persona del catecumeno.

Nella crisi della catechesi è riflesso tutto il presente smarrimento della


Chiesa. Vi si ravvisano il deprezzamento dell’ordine teoretico, l’incertitudine
non pure dottrinale, ma dogmatica, l’elazione dello spirito soggettivo, la
dissensione tra i vescovi226, il dissidio dei vescovi dalla Santa Sede, la reiezione
degli atteggiamenti fondamentali della pedagogia cattolica, la prospettiva
temporale e chiliastica, l’indirizzo antropotropico di tutta l’opera didattica.

Gérard Soulages227 reca alcune lettere drammatiche del cardinal Journet sul
presente stato della catechesi. Il cardinale lo riguarda esattamente come un
effetto dello smarrimento della gerarchia e dell’interiore dissoluzione della
Chiesa: «Il serait catastrophique que les évêques, successeurs des Apôtres, soient
à la dérive de commissions et de poussées limitées à l’ajustement du monde et au
service d’une déchristianisation du peuple chrétien».

137. La catechesi senza catechesi. − La catechesi neoterica è dunque segnata,


come vedemmo, da due momenti intrinsecamente legati: un momento metodico,
che è l’abbandono della pedagogia cattolica della trascendenza del vero
all’intelletto che lo apprende, e un momento dogmatico che è l’abbandono della
certezza di fede, sostituita dall’esame e dall’opzione soggettivi. La nuova
catechesi avviata dall’episcopato francese coi Fonds obligatoires del 1967 fu
portata a compimento con la promulgazione di Pierres vivantes del 1982. Questo
testo non avendo ottenuto l’approvazione della Santa Sede ed essendo
accompagnato con la proibizione di ogni altro catechismo (dunque anche del
Catechismo del Concilio di Trento e del Catechismo di Pio X che si erano nel
frattempo ristampati), parve aprire ma non aprì un increscioso conflitto tra
l’Episcopato francese e la Santa Sede. Il card. Ratzinger, prefetto della
Congregazione per la dottrina della fede, venne in gennaio 1983 a Lione e a
Parigi a tenervi una conferenza sulle attuali condizioni della catechesi («la
misère de la catéchèse nouvelle», dice nel corso della conferenza) eccitando vive
rimostranze dei presuli di Francia, un diffuso sperdimento nel clero e non piccola
agitazione dell’opinione pubblica.

Il cardinale riprova la nuova catechesi perché invece di avanzare verità, a cui


si presta l’assenso di fede, propone i testi biblici lumeggiati secondo il metodo
storico-critico e rimette all’esame del catecumeno di dare o ritenere l’assenso. Le
verità di fede, che la Chiesa annuncia, qui vengono staccate dalla Chiesa, che ne
è l’organismo vivente, e proposte immediatamente al credente chiamato a
farsene interprete e giudice: la Bibbia così staccata diviene puro documento
soggetto alla critica storica e la Chiesa viene abbassata sotto l’opinione
soggettiva.

La deviazione consiste essenzialmente nel «dire la foi directement228 à partir


de la Bible sans faire le détour par le Dogme». Ora questo è l’errore luterano che
nega la Tradizione e il Magistero e per di più altera il valore della Bibbia
medesima la quale, «détachée de l’organisme vivante de l’Eglise», si riduce a
«un simple musée de choses passées et une collection de livres hétérogènes». La
Chiesa vien rimessa ai lumi individuali, la dottrina di fede agli storiografi e ai
critici: l’adesione alla verità religiosa prende forma di un atto individuale fuori
della comunità voluta da Cristo. Siccome poi l’esegesi con cui si presenta il testo
biblico è signoreggiata dal placito razionalistico che rifugge dal
sovraintelligibile, «on tend aujourd’hui à éviter la difficulté partout où le
message de la foi nous met en présence de la matière et à s’en tenir à une
perspective symbolique. Cela commence avec la création, continue avec la
naissance virginale de Jésus et sa Résurrection, finit avec la Présence réelle du
Christ dans le pain et le vin consacrés, avec notre propre résurrection et avec la
Parousie du Seigneur »229. Qui sono toccati chiaramente gli errori dogmatici che
viziano la catechesi neoterica. La creazione non vi è professata chiaramente né
costituisce il discorso iniziale dell’istruzione: è menzionata solo al cap. 9 e
identificata con la creazione che Dio fa del suo popolo liberandolo dalla
schiavitù. La nascita verginale di Cristo non ha in Pierres vivantes alcuna
connotazione dogmatica, giacché Maria è designata come «une jeune fille de
Palestine que Dieu a choisie pour être la mère de Jésus»: si tace dell’Immacolata,
del parto verginale, della Madre di Dio. La resurrezione di Pasqua è un evento
pneumatico avente realtà nella fede della comunità primitiva e, per la necessaria
conseguenza così fortemente asserita da san Paolo, I Cor., 15, 12 sgg., anche la
resurrezione dei morti è cosa soltanto creduta. L’Ascensione è pura metafora
dell’indiamento morale del Cristo, giacché Pierres vivantes dichiarano expressis
verbis: «Monter au Ciel est une image pour dire qu’Il est dans la joie de son
Père». Anche un puro uomo sale così alla gioia del Padre. Dove la Scrittura dice
che salì al cielo «videntibus illis» (Act., 1, 9), il catechismo francese insegna che
«le 40ème jour après Pâques les chrétiens croient que Jésus est audessus de
tout». L’Eucaristia infine è ridotta alla memoria che la comunità cristiana celebra
della cena del Signore e il capitolo dedicato ad essa in Pierres vivantes è
intitolato «Des chrétiens se souviennent». È la tesi neoterica della
transignificazione e transfinalizzazione, di cui trattiamo nei §§ 267-75. Non
spiegatamente in ogni articolo, ma per via di omissioni, metafore, reticenze,
tanto più salienti se si confrontano queste formule alle formule del catechismo
antico, Pierres vivantes non possono celare la sostanza anomala ed eterodossa
che presentano ai fanciulli di Francia come fede della Chiesa cattolica230.

138. Restaurazione della catechesi cattolica. − Secondo il card. Ratzinger la


catechesi cattolica è una didattica, cioè una comunicazione di verità, e il suo
contenuto è il dogma della Chiesa, cioè non già la parola della Bibbia,
storicamente e filologicamente astratta, bensì la parola della Bibbia conservata e
comunicata agli uomini dalla Chiesa. Non si può, come pretende il catechismo
francese, differire all’età dell’adolescenza l’insegnamento dei dogmi e intanto
accostare direttamente il fanciullo alla Bibbia di cui il senso è colto in varie
letture: il senso del Vecchio Testamento, quello del Nuovo e quello infine che la
Bibbia ha «pour les catholiques d’aujourd’hui»231. Lo storicismo applicato alla
Rivelazione consuona a puntino con la dottrina modernistica, che il divino sia un
noumeno inconoscibile che lo spirito dell’uomo riveste e traveste in mille fogge
che danno il fenomeno religioso complessivo dell’umanità. Al catechismo
francese va il monito di Giovanni Paolo II nel discorso di Salamanca:
«Guardatevi dalla pericolosa illusione di separare Cristo dalla sua Chiesa e la
Chiesa dal suo Magistero».

Allo storicismo di Pierres vivantes il card. Ratzinger contrappone


l’immobilità del dogma, che deve dai catechisti essere lumeggiato variamente,
con varietà psicologica letteraria e didattica, ma preservato dentro il flusso
storico nella sua sostanziale identità. Non esistono varie modalità del dogma,
bensì varie, anzi infinite modalità espressive. La catechesi è essenzialmente
intellettuale e mira alla trasmissione di conoscenze, non già all’esperienza
esistenziale e all’inserimento, come dicono, nel mistero di Cristo. Certo si
insegnano le verità di fede affinché diventino pratica e vita, ma l’oggetto proprio
della catechesi è la conoscenza e non già direttamente l’etica.

Il cardinale vuole che la materia sia ordinata secondo lo schema del


Catechismo tridentino seguito in tutto l’orbe cattolico sino al Vaticano II.
Bisogna dunque insegnare ai fanciulli, tostoché siano capaci di apprendimento,
che cosa il cristiano deve credere, e questa è l’esposizione del Credo; quindi che
cosa si deve desiderare e pregare da Dio, e questa è la spiegazione del Pater
noster; infine che cosa si deve fare, e questa è la lezione del Decalogo. Tale
tripartizione ha una grande profondità metafisica e teologica (i nuovi catechismi
non l’hanno subodorata), perché risponde alla costituzione primalitativa trinitaria
dell’ente, all’interna distinzione della divina Monotriade e da ultimo alla
distinzione ternaria delle virtù teologali, fede, speranza e carità. A queste tre parti
del catechismo cattolico viene a integrarsi la trattazione dei sacramenti, e anche
questa quarta sezione consuona alla dottrina cattolica: solo infatti coll’ausilio
della grazia, la quale si comunica nei sacramenti, l’uomo divien capace di
adempiere la legge morale confermata e sopraelevata dalla legge evangelica. Il
card. Ratzinger richiama anche la necessità dell’uso della memoria e l’efficacia
del metodo amebeo che sono entrambi connaturati al contenuto dogmatico
incompatibile con l’esame euristico e con l’approccio esistenziale.

La grave censura mossa dal card. Ratzinger al catechismo francese non perde
affatto del suo valore teoretico dottrinale anche se il cardinale, che l’aveva
esposta in un discorso stampato poi in venti pagine, la ritrattò in una
dichiarazione di venti righe concordata coi vescovi francesi. Rimandiamo ai §§
60-65 sulla desistenza dell’autorità.
CAPITOLO XIV GLI ORDINI RELIGIOSI

139. Gli ordini religiosi nella Chiesa postconciliare. − Siccome gli ordini e
gli istituti religiosi assumono la parte supererogatoria o di consiglio della
religione, è ovvio che lo smarrimento che ha investito la parte comune della
religione abbia dato un assalto speciale alla parte speciale della Chiesa. Per la
legge del loquimini nobis placentia, onde si abbellisce il proprio male e si colora
vivamente la propria perfezione, il grave scadimento intervenuto negli ordini
religiosi fu generalmente dissimulato, adottando la prospettiva ottimistica di
Giovanni XXIII e scambiando variazione e mobilismo per sintomi di vitalità.

Ma lo scadimento è palese nel fenomeno, toccato al § 79, delle defezioni dei


consacrati dalla vita consacrata. Tutte le compagnie religiose, grandi e piccole,
maschili e femminili, contemplative o attive o miste, si sono in un ventennio non
dico decimate, ma ridotte tutte a una frazione di sé medesime. Per stare alle
statistiche ufficiali della Tabularum statisticarum collectio (1978) tra il 1966 e il
1977 i religiosi nel mondo sono calati da duecentootto a
centosessantacinquemila, cioè di un quarto232. Né si può asserire (come pur si
tenta) che l’assottigliamento numerico si accompagni a un raffinamento
qualitativo: la qualità si manifesta per sé stessa nella quantità. Se sono molti i
soggetti che si impegnano in un ideale, l’esperienza di quell’ideale può
acquistare perfezione. Bisogna essere in molti perché alcuni eccellano, come
bisogna lavorare molto per lavorare bene.

Lo scadimento è provato inoltre dalle novità233: tutti gli istituti religiosi


hanno, in capitoli appositamente radunati, riformato costituzioni e regole in
modo talora temerario e sempre con effetti più distruenti che edificativi. Il card.
Daniélou, interrogato circa l’esistenza di una crisi della vita religiosa, diede una
risposta cruda e affliggente: «Je pense qu’il y a actuellement une crise très grave
de la vie religieuse et qu’il ne faut pas parler de renouvellement, mais plutôt de
décadence»234. E la ragione sommaria la ripone nello snaturamento dei consigli
evangelici, presi come una prospettiva psicologica e sociologica anziché come
uno stato speciale di vita strutturata sui consigli evangelici235.

Il rinnovamento sarebbe dovuto riuscire un adattamento ad extra in vista di


più efficacemente conseguire la santificazione, che è il fine generale della Chiesa
e il fine speciale della vita religiosa. La relazione col mondo fu sempre presente
alla mente dei fondatori e dei riformatori. Quando tra Maomettani e Cristiani
vigeva la schiavitù sorsero i Mercedari per il riscatto degli schiavi; quando
infierivano le epidemie si ebbero gli Antoniani, i Fate-bene-fratelli e i
Camilliani; quando era da doffondere l’istruzione tra i ceti popolari si ebbero gli
Scolopi. Senza dire delle congregazioni moderne variate in mille guise per
adattarsi al vario bisogno della società.

Ma la legge generale sulla quale avvennero le riforme postconciliari è la


seguente: le riforme si fanno tutte senza eccezione dal difficile al facile o al men
difficile e mai invece dal facile al difficile o al più difficile. E qui giova rilevare
come questa legge generale delle riforme postconciliari è il rovescio di quella
che appare nella storia delle compagnie religiose. Tutte le riforme infatti
nacquero dal fastidio per la mollificazione della disciplina e dal desiderio di una
vita più spirituale, più orante, più austera. Dai Cluniacensi, per esempio,
pullularono i Cistercensi e dai Cistercensi i Trappisti. Dai Minori, per successive
aspirazioni a severità, uscirono (per trasandare i Fraticelli) gli Osservanti e poi
ancora i Riformati, i Cappuccini, sempre per un moto ascendente e
smondanizzante, e mai invece per una tendenza discendente e mondanizzante,
come per la prima volta è avvenuto oggi nella Chiesa.

La riforma si elabora oggi in gran parte attraverso una grande verbigerazione


monotipica giusta il lessico neoterico. Nei Capitoli di rinnovamento una
Congregazione «si interroga», «si lascia interpellare», «confronta le esperienze»,
«ricerca identità nuove» (il che implica, inavvertitamente, che essa diventi altro
da sé stessa), «mette a punto nuovi principii operativi», «prende coscienza della
nuova problematica della Chiesa» (il che significa che i fini sono mutati),
imposta il «problema della creatività» e tende a «costruire delle vere comunità»
(come se da secoli non si trovasser nelle religioni che pseudocomunità), escogita
i modi per «inserirsi nel contesto», e via dicendo236.


140. L’alterazione dei principii. La stabilità. − La crisi dei religiosi, come di
tutte le altre parti del corpo ecclesiale, è una conseguenza dell’immodica
assimilazione al mondo di cui si prendono le posizioni, poiché si dispera di
acquistarlo agendo dalle posizioni proprie. È un’alienazione per perdita
tendenziale di essenza e una trasgressione ad altro. Non ultima né insignificante
è la mutazione dell’abito dei religiosi e delle religiose, sempre informata al
desiderio di non più differenziarlo dall’abito dei secolari. E mentre è un sintomo
della perdita dell’essenza o per lo meno degli accidenti propri dell’essenza, è
anche un sintomo di servilità. Non si deve infatti dimenticare che la singolarità
(talora stravagante) della veste religiosa era destinata a indicare la singolarità
dello stato religioso ed era inoltre un segno importante della libertà della Chiesa,
indipendente da fogge e da mode. Dal disprezzo dell’abito ecclesiastico usuale si
scende poi al disprezzo di quello liturgico, e si vedono oggi nelle
concelebrazioni sacerdoti officianti in abito prettamente laicale («Esprit et Vie»,
1983, p. 190, che deplora la dormitanza dei vescovi su questo punto)237.

La vita religiosa è un genere di vita conformato ai consigli evangelici e


perciò obiettivamente più eccellente (è l’opzione offerta da Cristo, Matth., 19,
21: «Si vis perfectus esse») che non sia la via comune conformata sui precetti.
La tendenza secondo la quale si riforma oggi la vita religiosa è parallela alla
tendenza con cui si riforma il sacerdozio. Qui è l’obliterazione del divario tra
sacerdozio sacramentale e sacerdozio comune dei fedeli, lì è l’obliterazione del
divario tra stato di perfezione e stato comune. Si stinge e dilegua lo specifico
della vita religiosa sia nella mentalità sia nella prassi.

L’esistenza dell’uomo essendo in flusso e l’umana volontà perpetuamente


ambulatoria di contro alla persistenza e fissità della legge, uno stato di vita
implica un ordine fisso entro il quale si modelli il flusso. La fissità poi è data
dall’impegno della volontà che si lega pro semper a quell’ordine, cioè dal
triplice voto di castità, povertà e obbedienza. Ora, è appunto nell’allentamento
dell’osservanza dei voti, non per individuo e contingente arbitrio, ma per
canonico alleviamento stabilito in Capitoli generali di riforma che si produce una
tale declinazione dalla Regola.

E innanzi tutto è venuto meno il principio della stabilità. La stabilità che il


monaco prometteva secondo la Regola benedettina, aveva un duplice significato
e questo duplice significato consegue al duplice significato della parola. Spesso
infatti basta riferirsi al senso originario e intimo dei vocaboli per rischiarare una
questione. Il latino regere, donde abbiamo regula, ha una duplice accezione
giacché significa sostenere e dirigere. La regola monastica è una norma che
imprime la direzione alla vita e nello stesso tempo la sorregge. Similmente il
latino stare, donde abbiamo stabilitas, vale stare fermo e stare ritto. La stabilità
religiosa importava sia che il monaco stesse fermo in un monastero e non
mutasse domicilio, sia che in quella locale stabilità il religioso trovasse un
elemento di stazione verticale, una condizione facilitante il suo star ritto nel
comportamento morale e religioso.

Oggi la stabilità locale è scomparsa. Non già che in tutti gli ordini religiosi il
superiore non abbia da secoli variato il domicilio dei sudditi. Anzi il diritto
canonico contemplava espressamente questa instabilità imperata dai superiori. È
che la mobilità è entrata nella vita interna delle singole comunità. Non soltanto a
cagione della maggiore mobilità generale degli uomini anche dai conventi
escono i frati per viaggi, per vacanze, per diporti spesso coperti con intenti
culturali o di apostolato, ma i membri di una medesima comunità prendono
domicilio in sedi separate dividendosi e nel luogo e nella convivenza dai
confratelli. L’istituto della exclaustratio che era una singolarità è divenuta una
forma normale della vita religiosa. In luogo di una dimora cenobitica si ha una
sorta di diaspora in cui vanno dispersi i valori che dicemmo della stabilità e
perisce la vita comunitaria.

141. La variazione di fondo. − C’è una variazione di fondo verso la quale si


muove il rinnovamento e che, se fosse raggiunta, darebbe luogo a un
cangiamento catastrofale (§§ 39 e 53) equivalente a un’annichilazione. Questa
variazione di fondo rientra nel rivolgimento antropotropico che caratterizza il
presente momento della Chiesa238. Esso appare in capite libri nella definizione
del fine della professione religiosa e riguarda i principii generali della morale e
della religione. Qui basti osservare che il nuovo fine assegnato alla vita religiosa,
cioè il servizio dell’uomo anziché il servizio di Dio, oppure il servizio dell’uomo
identificato col servizio di Dio, poggia sopra la supposizione falsa che l’uomo
non abbia per fine la propria salvezza e non possa averlo, perché il mirare alla
propria salvezza sarebbe viziato di utilitarismo teologico. Nell’amore dell’uomo
non potrebbe aver luogo l’amore del proprio individuo e il perseguire la giustizia
sarebbe cosa viziosa solo perché alla giustizia seguita la beatitudine.

Senza addentrarsi nell’argomento, basterà ricordare che il fine che si


proponeva chi faceva i voti religiosi era expressis verbis la salvezza dell’anima
propria. Senza indietreggiare al monachesimo orientale, questo fine della vita
religiosa appare sin dal prologo della Regola di S. Benedetto: «Et si fugientes
gehennae poenas ad vitam perpetuam volumus pervenire, dum adhuc vacat et in
hoc corpore sumus, currendum et agendum est modo quod in perpetuum nobis
expedit» (P.L., 66, 218)239. Ma non meno appare nei grandi Fondatori moderni. A
don Lemoyne che nel 1862 vagheggiava di entrare nella congregazione istituita
da don Bosco «per aiutarLa» diceva «in quel poco che posso» il Santo
rispondeva: «No, le opere di Dio non hanno bisogno dell’aiuto degli uomini:
venite unicamente per fare del bene all’anima vostra», Giovanni Paolo II non si
scosta dalla dottrina tradizionale e nel discorso ai preti ammonì: «Il primo vostro
dovere apostolico è la vostra propria santificazione» (OR, 1 ottobre 1979). Il
bene infatti dell’anima propria è, nella concezione cattolica, la perfetta giustizia
ossia l’adempimento della volontà divina, in cui consiste il servizio divino e in
cui si celebra la gloria stessa di Dio. Non c’è in questa veduta, difficile ma vera,
ombra alcuna di utilitarismo teologico.

Ancor più espresso è lo scopo di ogni professione religiosa nelle Costituzioni


per l’Istituto della Carità e nelle esplicazioni date su questo punto da Antonio
Rosmini. «L’Istituto della Carità associa i fedeli cristiani che, accesi del
desiderio di seguire Cristo “con mutui aiuti ed esortazioni attendono alla propria
perfezione”». E spiegando «il proprio e singolar fine» della vita religiosa
Rosmini scrive che tale fine «è quello di pensare più che altro a sé stessi,
all’anima propria240, a fine di mondarla col divino aiuto sempre più, al quale fine
l’uomo si propone, in questo Istituto, di fare un intero sacrificio di sé a Dio... e
gli stessi esercizi di Sant’Ignazio e le missioni che prende l’Istituto a fare, non si
considerano come un fine, ma come un mezzo della propria santificazione»241.
Infine l’Opus Dei fondato nel 1928 dal Servo di Dio Escrivà de Balaguer, eretto
in Prelatura personale nel 1982 e che conta settantamila ascritti, ha come scopo
principale la santificazione personale mediante il compimento dei doveri del
proprio stato. Le formule «per la propria salvezza», «per andare in paradiso»,
«per salvare l’anima» non sono d’altronde peculiari dell’ascetismo monastico,
ma attingono al fondo comune della coscienza cristiana ed entrano nella
preghiera liturgica, nella preghiera comune, in cento locuzioni popolari e sin
nello stile notarile di contratti e testamenti: «per la salute dell’anima mia», «per
rimedio dell’anima mia». La vita religiosa che aveva per forma essenziale i tre
voti, pende oggi fuori della verticale institutiva e si volge allo sviluppo della
personalità dei soci nel mondo e al servizio dell’uomo242.

142. Le virtù religiose nella riforma postconciliare. Castità. Temperanza. −


Questo declino dalla verticale si può riconoscere nell’esercizio delle virtù
impegnate nei voti e particolareggiare distintamente. Sappiamo bene che tutte le
virtù sono connesse (Summa theol., I, II, q. 65) e anzi sono un’unica virtù. Se
virtù infatti è l’abito della volontà sempre preponderante verso l’eterna legge,
l’atto di ogni singola virtù è una specificazione di quell’abito; onde si può dire
che in ciascuna sono tutte le altre, benché non appaiano: «Ita quaelibet non
tantum cohaeret, sed etiam inest alteri, ut qui unam habet, vere omnes habere
dicatur»243. Si possono dunque analizzare le singole virtù nella vita religiosa: lo
scemare di ciascuna di esse segnerà simultaneamente uno scemare della virtù
religiosa in generale244.

Nella castità una minore delicatezza e attenzione si fanno palesi nella


generale scioltezza assunta dal costume clericale, nella più frequente, anche
itineraria, pratica promiscua, nell’abbandono di quelle cautele praticate da
uomini santi e grandi e che sono oggi disistimate in teoria e neglette in pratica.
Non si deve nascondere che il fastidio della castità, comunque mantellato, è
cagione di gran parte delle defezioni.

Nel Motu proprio Ecclesiae Sanctae di Paolo VI al § 22 si prescrive: «I


religiosi attendano più degli altri fedeli alle opere di penitenza e di
mortificazione». Ora, la virtù di temperanza che negli Ordini antichi era
comandata dalla Regola, osservata individualmente e praticata
comunitariamente, durò nei moderni sino al rinnovamento postconciliare.
Tralasciando le diete in pane e acqua degli anacoreti orientali, le xerofagie
cenobitiche e le diete rigorose dei Certosini, dei Trappisti e dei Minimi, si può
affermare che tutti gli istituti religiosi dal Tridentino sino alle più moderne
fondazioni prescrissero vitto parchissimo e modica bevanda: al mattino caffelatte
e pane, a mezzodì minestra, una pietanza con contorno, un frutto, una misura
stretta di vino245; a sera una minestra e una pietanza con una verdura. Superfluo
aggiungere che si praticavano l’astinenza dalle carni e il digiuno nei giorni di
precetto. Oggi in certi paesi ricchi il vitto è: a colazione caffè, cioccolata, tè,
latte, marmellate, bacon, cacio, jogurth, pane, biscotti; a pranzo antipasto,
minestra, pietanza con due contorni, frutta o dolce, pane, caffè, una misura di
birra o di vino. A mezzo pomeriggio si offrono latte, caffè, tè, biscotti, frutta. A
cena come a desinare tranne l’antipasto e il caffè.

Non voglio qui cadere in un erroneo giudizio come chi, per difetto di
cognizioni storiche, ragguaglia tutti i tempi e tutti i costumi. Nel portare il
giudizio misto storico-morale sulla virtù monastica si tenga fermo il criterio
della virtù, ma non si dimentichino le relatività storiche. Quelle feroci
mortificazioni dell’istinto dell’ingluvie onde va celebre l’ascetica orientale erano
un modo per staccarsi dal comune vitto degli uomini già tanto men ricco e men
vario che non sia oggidì. La privazione mortificante deve essere calcolata pro
rata parte in guisa che il vitto mortificante si differenzii dal vitto comune. In
epoca in cui i più si cibavano di pan di segale (per stare alla condizione dei paesi
insubrici), per di più raffermo di settimane e di mesi, oppure di castagne, la
temperanza monastica domandava che si tagliasse ancora qualcosa in quel già
gramo vitto arrivando ad austerità oggi inconcepibili. Il vitto monastico deve
oggi tagliare in un regime alimentare incomparabilmente più lauto. Ma pure
deve tagliare. Nelle relatività mutevoli di secolo in secolo rimane l’esigenza
fondamentale, che cioè il vitto dei consacrati si tenga al di qua del regime
comune e possa essere riconosciuto come tale. Anche nel vitto il religioso non è
un uomo come tutti gli altri.

143. Povertà e obbedienza. − Faccio rientrare la temperanza nella povertà,


perché essa è in realtà una parte della vita umile e piccola a cui si riconduce la
povertà. Se però la temperanza è la povertà del vitto, la spogliazione impegnata
nei voti religiosi investe oltre le parti toccanti il necessario, quale è il vitto, anche
tutti gli amminicoli che formano le comodità del vivere e che devono essere
diminuite e rinunziate, ma (s’intende) seguendo il criterio delle relatività storiche
sopra accennato. La povertà cioè non esigerà di illuminare la notte col lume a
olio o con le candele nel secolo dell’elettrico, e neppure di attenersi al modo di
Deut., 23, 12-3 nel secolo ove i destri son lussuosi come stanze regie e se ne
pubblicano addirittura delle guide. Né di difendersi dal freddo riparando in
un’unica pigna nel secolo dei termofori elettrici e delle reti arborizzate in cui il
salutifero tepore vien distribuito da un unico focolaio a un intero edificio, a un
intero isolato, a un’intera città. Né di ridurre alla sola comunicazione epistolare
per lente e scarse messaggerie postali nell’era della telefonia e della telegrafia. È
necessario che il generale incremento delle comodità trasferisca alla classe del
necessario quel che era nel superfluo. So bene che progresso chiamasi quel moto
che sempre più e a un sempre più gran numero di persone fa essere necessario
quel che era superfluo. La progressiva scomparsa dell’autarcia dell’individuo è
la nota della civiltà contemporanea in cui l’uomo è aiutato e diretto a fare tutto
quanto fa. Ma se anche il moto della civiltà è in tal senso, è proprio degli uomini
votati allo stato di perfezione sottrarsi quanto a sé a quel moto o per lo meno allo
smisurato di quel moto. L’uso per esempio dei mezzi radiofonici e televisivi che
pochi anni fa era vietato nelle comunità religiose, fu poi concesso alla comunità
come tale, ed è entrato adesso nelle singole celle. Gli audiovisivi che stampano
ogni giorno in milioni di cervelli le stesse immagini e poi all’indomani tornano a
sovrastamparne altre nei medesimi cervelli, come su un medesimo foglio
sovrastampato mille volte, sono l’organo più potente della corruzione
intellettuale nel mondo contemporaneo. Pure io non negherò che da queste
prodigiose antenne, che mandano sul mondo influssi più efficaci che gli
asterismi delle sfere celesti, venga anche qualche menomo influsso capace di
giovare per accidens alla religione. Nego però che questa particella possa
legittimare l’uso abituale e indiscreto di una tale comodità e diventare un criterio
su cui modellare i ritmi della vita religiosa. Come non stupire? Certe comunità
hanno abbandonato la consuetudine plurisecolare di recitare in chiesa le
preghiere della notte per non impedire di godere i programmi televisivi che
collidevano con l’osservanza della Regola.

144. Nuovo concetto dell’obbedienza religiosa. − Ma il punto in cui


l’indirizzo facilitante del rinnovamento degli Ordini religiosi chiaramente si
manifesta è l’obbedienza. La flessione risulta grande se si paragona coll’antica
osservanza, ma più ancora se si considera la variazione avvenuta nel concetto
medesimo di obbedienza. Abbassato il concetto di questa virtù, si abbassa
inevitabilmente la pratica di essa. Ora la declinazione teorica sancita nei Capitoli
generali di riforma è avvenuta secondo il processo famigliare alla corrente
neoterica. Non si propone un altro concetto, in cui si avvertirebbe tosto il
passaggio di genere, ma si pretende di venire a un altro stile e a un altro modo
del medesimo (§§ 49 e 50). Così (per portare una prova) i Superiori Maggiori nel
loro incontro, dopo avere abbassato il principio di autorità introducendone un
tipo fraternale, abbassano per concomitanza quello dell’obbedienza:
«L’accentuazione dell’autorità come servizio implica un nuovo stile di
obbedienza. Questa deve essere attiva e responsabile» (OR, 18 ottobre 1972). E
svagando nel circiterismo: «Autorità e obbedienza vanno esercitate come due
aspetti complementari della stessa partecipazione all’offerta del Cristo». Non
negano certo i Superiori che l’obbediente debba fare la volontà di Dio, ma non
identificano più, come invece fa l’ininterrotta dottrina dell’ascetismo cattolico, la
volontà di Dio in quella del Superiore. Al contrario obbediente e Superiore
«procedono pari passo nell’adempimento della volontà di Dio ricercata
fraternamente per mezzo di un dialogo fecondo».

Qui sotto vocaboli che rimangono fissi si vedono correre concetti di tutt’altro
genere. L’obbedienza non è punto una ricerca dialogale della volontà a cui
sottomettersi, bensì una sottomissione alla volontà del Superiore. Essa non
importa un riesame del comando del Superiore da parte dell’obbediente.
L’obbedienza cattolica non ammette quindi di fondarsi sopra l’esame del
comando o della qualità del Superiore. È falsa la sentenza del Delegato
apostolico in Inghilterra che «l’autorità ha solo il valore dei suoi argomenti»
(OR, 24-5 ottobre 1966). Questo è vero nella disputa, dove prevale la forza
logica, ma non già nell’autorità di governo. Si noti inoltre che la teoria
dell’obbedienza assoluta è propria dei dispotismi e non è dottrina cattolica. La
religione fa obbligo di disobbedire a chi comanda opera manifestamente illecita.
Questo obbligo di disobbedire è alla base del martirio. L’obbedienza inoltre non
ricerca affatto una coincidenza di volontà tra suddito e Superiore. Questa
coincidenza, che nell’obbedienza tradizionale si ottiene col fare propria l’altrui
volontà, qui si ottiene con un accostamento delle due volontà utrinque.
L’obbedienza come tale è allora interamente soggettivata e la via del
consentimento non è più quella del sacrificio della propria volontà modellata
sull’altrui volontà. Nella via della concordanza chi si assoggetta si assoggetta
ultimamente a sé stesso. Il principio dell’indipendenza che abbiam visto
produrre l’autogoverno, l’autodidattica, l’autoeducazione e persino
l’autoredenzione, non poteva non investire la vita religiosa togliendo
all’obbedienza quella che è l’essenza sua: far scomparire tendenzialmente il
soggetto per elevare l’oggetto. Il principio dell’obbedienza religiosa cede del
tutto di fronte allo spirito di indipendenza e all’emancipazione egualitaria.
Ostentazioni clamorose di tale ὕβρις si ebbero negli Stati Uniti in occasione della
visita del Papa che fu pubblicamente affrontato da suor Teresa Kane, presidente
della Federazione delle suore di quel paese. Quando poi la Santa Sede rimosse
suor Mary Mansour, direttrice di un centro statale per l’interruzione della
gravidanza, mille religiose convenute a Detroit insorsero contro la Santa Sede,
accusandola di essere un potere mascolinista, di violare i diritti della persona, di
soffocare la libertà di coscienza e persino di trasgredire il diritto canonico.

145. Insegnamento del Rosmini circa l’obbedienza religiosa. − Affinché si


misuri quanto dista il concetto riformato dell’obbedienza religiosa dal concetto
perpetuamente seguito nella Chiesa, io non allegherò i legislatori degli antichi
Ordini, ma il pensiero di un fondatore moderno che pareggiò la profondità della
speculazione teologica con la profondità dell’inspirazione religiosa. Antonio
Rosmini, fondatore dell’Istituto della Carità, approvato dalla Santa Sede nel
1839, nelle sue opere ascetiche rade via ogni traccia di soggettivismo dalla virtù
di obbedienza e la riduce alla sua nuda essenza. L’obbedienza consiste
nell’abdicare liberamente semel pro semper la volontà propria nella volontà del
Superiore e quindi rinunziare all’esame del comando. Certo l’obbedienza è atto
sommamente razionale, perché è fondato sopra una persuasione ragionata, non
però sulla persuasione che la particolare opera comandata sia buona (questa era
la dottrina del Lamennais), ma nella persuasione che il Superiore ha autorità
legittima per comandare. La filosofia dei vocaboli soccorre all’ascetica. Il verbo
greco πείθομαι, che significa obbedisco, primordialmente e per sé significa io
sono persuaso, non però della bontà dell’atto, che dunque porrei io stesso per
autonoma elezione, bensì del diritto di comandare in chi comanda. Se si revoca
l’obbedienza alla persuasione soggettiva della bontà della cosa comandata, la
virtù di obbedienza dilegua. L’obbedienza diventa autoobbedienza. Il Rosmini lo
insegna in molti luoghi. «Se si pone per motivo dell’obbedienza la
ragionevolezza del comando, l’obbedienza è distrutta». E più espressamente: «Si
deve obbedire con semplicità, senza pensare se il comando è giusto o no, utile o
disutile». E ancora: «La cecità dell’obbedienza è la cecità stessa della fede». E
con locuzione più energica: «Dobbiamo essere vittime con Cristo e ciò che ci
immola deve essere il ferro dell’obbedienza». E a un suo religioso in Inghilterra
con paradosso non paralogo: «Val più un solo atto di obbedienza che la
conversione dell’Inghilterra intera»246.

La dottrina rosminiana, che è la cattolica, è assai profonda, perché identifica


l’obbedienza con l’atto essenziale della moralità che è appunto un riconoscere la
legge e sottomettersi. Essa trovasi all’antipodo della veduta neoterica per cui si
fa per obbedienza al comando quel che si farebbe per libera elezione anche senza
il comando. Fare l’obbedienza è al contrario fare, perché è comandato, quello
che non comandato non si farebbe.

La variazione intervenuta attinge il principio della morale e anche quello


della teologia. Il cristianesimo non assegna all’uomo-Dio e ad ogni umana
volontà altro fine che l’obbedienza alla volontà di Dio, sia naturalmente, sia
soprannaturalmente conosciuta. L’obbedienza va perduta nelle riforme
postconciliari e Paolo VI lo notò nel discorso tenuto alla Congregazione generale
della Compagnia di Gesù (OR, 17 novembre 1966) in cui attestava di non poter
nascondere «il proprio stupore e il proprio dolore» conoscendo «le strane e
sinistre suggestioni» che seguendo il criterio dell’assoluta storicità tentavano di
togliere la Compagnia dalle sue basi e traslocarla su altre «quasi non fosse nel
cattolicismo un carisma di verità permanente e di stabilità invincibile».

Anche nella riforma operata o tentata nella celebre Compagnia si ravvisa


dunque uno spirito di novità radicale che, per rimare col mondo, travolge,
insieme con le travolgibili relatività storiche, anche l’essenza e il soprastorico
della religione.


146. Obbedienza e vita comunitaria. − L’obbedienza avendo come oggetto la
Regola e la Regola essendo la norma unificante che «mentes fidelium unius
efficit voluntatis»247, l’indebolimento dell’obbedienza partorisce indebolimento
dello spirito di comunità. Nell’OR del 22 dicembre 1972 un articolo sulla
secolarizzazione della vita religiosa menziona un Capitolo di riforma di una
Congregazione «che ha spazzato via dalle Costituzioni del Fondatore tutte le
pratiche di pietà (Messa quotidiana, lettura spirituale, meditazione, esame di
coscienza, ritiro mensile, rosario ecc.), tutte le forme di mortificazione, e ha
messo in discussione anche il valore del voto di obbedienza, concedendo al
religioso il diritto di obiezione di coscienza per i casi in cui voglia sottrarsi agli
ordini dei Superiori». L’articolo afferma giustamente che «qui siamo davanti
all’annientamento della vita religiosa». Ma poi, per la consueta accomodazione,
piega a concedere che in questa sovversione e annichilazione della vita religiosa
vi sia pure qualche cosa di positivo che avrebbe «una funzione catartica». Io in
verità non vedo come una tendenza definita distruttiva della vita religiosa si
possa poi qualificare come purificazione della medesima.

Sciolto dunque il nodo dell’obbedienza che vincola tutti i membri della


comunità a perseguire in comune i fini dell’istituto e attendere congiuntamente
con gli altri membri alla cura dell’anima, accade che gli atti specifici dello stato
religioso si facciano dai singoli come se comunità non fosse. Si celebra la Messa
in ora ad libitum, si medita a proprio gusto ed eremiticamente, si rimette alla
spiritualità personale la preghiera. L’abito stesso, un tempo uniforme a tutti i
membri di un istituto, è rimesso alla libertà dei singoli e così le foggie variano
dal saio alla talare, al clergyman, all’abito laicale, alla tuta e via dicendo. Né è
sufficiente correttivo all’allentamento della vita comunitaria l’uso invalso della
concelebrazione. Non avendo essa carattere obbligatorio, ed essendo seguita da
una parte soltanto della comunità, sembra piuttosto un segno di divisione che di
comunione. Si può perciò affermare che, non facendosi più in comune ogni
esercizio di pietà, la comunione tra i membri della stessa famiglia tende a
diventare solo comunione di mensa e di domicilio (ma si veda il § 140) o tutt’al
più di lavoro. Né la libertà individuale negli esercizi di pietà si può giustificare
allegando la necessità di conformare quelle cose all’idiotropion del singolo
religioso. Se l’esigenza da soddisfare fosse quella dell’idiotropion, non ci
sarebbero istituti religiosi, i quali sono destinati appunto a mettere in comune
quel che nella riforma postconciliare si torna a rivendicare in proprio. È
ovviamente contraddizione in terminis entrare in una comunità per fare
isolatamente e per conto proprio le cose che ci si associa per fare in comune.

Per ultima conclusione di questa analisi diremo che anche la crisi della vita
religiosa germina dall’adozione fatta del principio di indipendenza e dal
dissolvimento dei valori nella soggettività. La comunità ritorna alla moltitudine
disorganica: Chacun dans sa chacunière. Dalla libertà di giudicare il Superiore si
cade alla libertà di scegliere ogni cosa e, come vedevamo, persino il domicilio.
Non per nulla in qualche monastero è abolito l’officio del frate portinaio. Non
dico che queste riforme non si mantellino con qualche ragione, dico che il
mantello è corto.
CAPITOLO XV IL PIRRONISMO

147. Impianto teologico del discorso. − Un’analisi dello spirito di vertigine,


cioè di giramento e di esorbitazione, entrato nella Chiesa del secolo XX, può
certo essere condotto anche in linea puramente filosofica. Tuttavia
nell’epistemologia del cattolicismo la filosofia è una disciplina subalterna che
rimanda a un’ulteriorità di fede e perciò la considerazione filosofica è inclusa in
una considerazione più alta alla quale serve senza perdere l’autonomia propria.

La crisi della Chiesa, come si confessa e come abbiamo indicato nei paragrafi
iniziali di questo libro, è crisi di fede, ma il vincolo esistente tra la costituzione
naturale dell’uomo e la vita soprannaturale, che le viene non giustapposta ma
intrinsecata, impone allo studioso cattolico di ricercare l’etiologia della crisi in
un ordine più profondo che quello filosofico.

Alla base del presente smarrimento vi è un attacco alla potenza conoscitiva


dell’uomo, e questo attacco rimanda ultimamente alla costituzione metafisica
dell’ente e ultimissimamente alla costituzione metafisica dell’Ente primo, cioè
alla divina Monotriade. Questo attacco alla potenza conoscitiva dell’uomo
chiamiamo con vocabolo storicamente espressivo pirronismo e non investe
questa o quella certezza di ragione o di fede, bensì il principio medesimo di ogni
certezza, cioè la capacità conoscitiva dell’uomo. Questo titubare dell’asse
intorno al quale si gira il mondo delle certezze domanda due rilievi. Primo, non è
più un fenomeno isolato ed esoterico, peculiarità di qualche scuola filosofica, ma
permea la mentalità del secolo e lo stesso pensiero cattolico transige con esso.
Secondo, il fenomeno attinge una profondità teologica oltre che metafisica,
perché attinge la costituzione dell’ente creato e quindi anche quella dell’ente
increato del quale il primo è una imitazione analogica. Come nella divina
Monotriade l’amore procede dal Verbo, così nell’anima umana il vissuto dal
pensato. Se si nega la precessione del pensato al vissuto, della verità alla volontà,
si tenta una dislocazione della Monotriade. Se infatti si nega la capacità di
cogliere l’essere, l’espansione dello spirito nella primalità dell’amore rimane
sconnessa dalla verità perdendo ogni norma e degradando a pura esistenza.
Defezionando dall’Idea divina, tenuta per irraggiungibile, l’umana vita si riduce
a puro mobilismo e cessa di portare i valori del mondo ideale. E se non fosse dal
canto di Dio l’impossibilità di lasciare che la sua creatura si devolva in puro
moto, scisso dall’assiologia, il mondo dell’uomo sarebbe un divenire senza
sostanza, senza direzione e senza terminazione.

Il pirronismo che mette all’alogismo pseudoassoluto (pseudo perché il


pensiero non può negare sé stesso) disforma, dicemmo, l’organismo ontologico
della Monotriade e ne inverte le processioni. La dinamica della vita, se la verità è
irraggiungibile, non procede più dall’intelligibile, ma lo precede e addirittura lo
produce. Il rifiuto dell’Idea, come vide acutamente il Leopardi, equivale
propriissimamente, ultimamente e irrefragabilmente al rifiuto di Dio, perché leva
dall’umana vita ogni traccia di valori eterni e indistruttibili. Se la volontà non
procede dalla conoscenza, ma da sé stessa si produce e giustifica, il mondo,
destituito dalla sua base razionale, diviene insensatezza. E siccome si nega
l’attitudine del nostro intelletto a formare concetti aventi similitudine col reale,
ecco che quanto più la mente è incapace di apprendere e concepire (cioè
prendere con sé) il reale, tanto più sviluppa da sé stessa la propria operazione
producendo (cioè tirando fuori) pure escogitazioni. Queste escogitazioni sono
occasionate da qualcosa che tocca sì le nostre facoltà, ma che non è presente nel
concetto che ce ne facciamo. Di qui le Sofistiche antica e moderna fidenti nel
pensiero e nello stesso tempo sconfidate di cogliere il vero.

Se il pensiero non ha una relazione essenziale con l’essere, allora non subisce
la legge delle cose e non è misurato, ma misura. Il motto dell’abderita Protagora
scolpisce bene l’indipendenza del pensiero dalle cose: l’uomo è la misura di tutte
le cose (DIELS, 74 B 1). E le tre proposizioni di Gorgia di Leontini sentono il
rifiuto di andare all’oggetto e la protervia della mente che sé stessa in sé stessa
rigira: Niente esiste. Se qualcosa esistesse sarebbe inconoscibile. Se fosse
conoscibile, non sarebbe esprimibile (DIELS, 76 B 3)248.

La protervia dell’eristica ha però avuto manifestazioni in ogni ramo dello


scibile e sempre in tempi in cui lo spirito soggettivo metteva fuori la sua forza di
indipendenza. Tralasciando le stravaganze dei Sofisti greci, nonché quelle della
sofistica irreligiosa negante la stessa individua esistenza di Cristo, vengo al
pirronismo nella Chiesa contemporanea.

148. Il pirronismo nella Chiesa. Card. Léger. Card. Heenan. Card. Alfrink.
Card. Suenens. − Il fondo dell’attuale smarrimento, mondiale ed ecclesiale, è il
pirronismo, cioè la negazione della ragione. Superficiale è la taccia data
comunemente alla civiltà moderna di sovraestimare la ragione. Se per ragione si
intende la facoltà calcolatrice e costruttiva del pensiero, a cui dobbiamo la
tecnica e il dominio delle cose, la qualificazione può correre. Ma tale facoltà è
un grado inferiore, e si trova, dicono, nei ragni e nelle api. Ma se per ragione si
prende, quale è, la facoltà di cogliere l’essere delle cose e il loro senso, e di
aderirvi col volere, allora l’età contemporanea è molto più debitrice all’alogismo
che al razionalismo. D’altronde Pio XII nel terzo Sillabo tornò a rivendicare
contro lo spirito del secolo «verum sincerumque cognitionis humanae valorem
ac certam et immutabilem veritatis assecutionem»249 (DENZINGER, 2320). E Paolo
VI in OR, 2 giugno 1972, affermò altamente: «Noi siamo i soli a difendere il
potere della ragione». Il Vaticano II nella Costituzione dottrinale LG, 6, riprese il
testo antipirroniano del Vaticano I: «Deum omnium rerum principium et finem
naturali humanae rationis lumine certo cognosci posse»250. In GS, 19, sono
condannati quelli che «non ammettono più alcuna verità assoluta».

Ma questi asserti contro il pirronismo non riflettono la mentalità di gran parte


del Concilio e sono in antitesi con gli sviluppi postconciliari. Il cardinal Léger
nella LXXIV congregazione (OR, 25-6 novembre 1963) sostenne: «Molti reputano
che la Chiesa esige un’unità troppo monolitica. Negli ultimi secoli si è instaurata
un’uniformità esagerata nello studio delle dottrine». Sembra che il cardinale
canadese ravvisi una minore unità dottrinale della Chiesa nei non ultimi secoli,
quando sanzioni di sangue percuotevano chi la rompeva e che, oltre a ciò, egli
ignori affatto la varietà di scuole teologiche che contrassegnano la vita storica
della Chiesa. Ma al giudizio storico il Léger associa una valutazione teoretica
cadendo in un pretto pirronismo: «Senza dubbio l’asserzione secondo cui la
Chiesa possiede la verità può risultare giusta, se si fanno le necessarie
distinzioni. La conoscenza di Dio, di cui la dottrina esplora il mistero, impedisce
l’immobilità intellettuale» (OR, 25 novembre 1963). Il cardinale nega dunque
che si diano, nella Chiesa e fuori, verità immobili, e poggia il suo pirronismo
sopra la trascendenza, come se il non potersi conoscere infinitamente l’infinito
da parte del finito levasse via ogni conoscitività, mentre al contrario la fonda. Il
passo poi di sant’Agostino, che cioè bisogna cercare per trovare e trovare per
cercare ancora, vien frainteso dal cardinale e sta contro il pirronismo: bisogna
cercare per trovare e si trova per cercare ancora, ma altro si è trovato e altro si
cerca ancora, non già il medesimo, come se non fosse stato trovato e, in date
condizioni, non divenisse κτῆμα εἰς ἀεί 251.

Il cardinale Heenan constatava in OR, 28 aprile 1968, la generale posizione


di scepsi relativistica del Magistero: «Il Magistero» dice «non si è conservato
che nel Papa. Dai vescovi non viene più esercitato e ben difficilmente una
dottrina erronea vien condannata dalla gerarchia. Oggi fuori di Roma il
Magistero è divenuto così malsicuro di sé stesso che non tenta quasi più
nemmeno di guidare». Qui vien certamente colpita la desistenza dell’autorità, ma
è anche indicata l’incertitudine pirroniana entrata nel corpo docente della Chiesa.
Il cardinale Alfrink, nella conferenza stampa del 23 settembre 1965, diffusa dalle
agenzie, nel corso della quarta sessione del Concilio, nota il fenomeno ma,
contrariamente all’inglese, gli dà una connotazione positiva professando
expressis verbis il pirronismo: «Il Concilio ha messo gli spiriti in movimento e
non esiste quasi nessun soggetto nella Chiesa che non sia messo in discussione».
Infine il card. Suenens alla Settimana degli intellettuali cattolici francesi a Parigi
nel 1966: «La morale est d’abord vive, dynamisme de vie et soumise, à ce titre, à
une croissance intérieure, qui écarte toute fixité»252 («Documentation
catholique», n. 1468, coll. 605-6). È palese lo scambio che fa il cardinale tra
morale, che è un’esigenza assoluta e immutabile che si impone all’uomo, e la
vita morale concreta che fluttua del continuo nell’individuo tra giudizio e
giudizio. La morale non è dinamismo soggettivo, ma Regola assoluta,
partecipazione della Ragione divina.

149. L’invalidazione della ragione. Sullivan. Rifiuto neoterico della certezza.


− Nel libro di Jean Sullivan, Matinales (Paris 1976)253, l’invalidazione della
ragione viene sostenuta a viso scoperto. L’autore nega, come priva di
fondamento scritturale, la distinzione tra fede e amore e perciò, senza accorgersi
di disformare la divina Monotriade, nega che esista nella Chiesa una crisi di
fede. È ovvio che non si può parlar di crisi, che vuol dire discernimento, quando
non si ha misura fissa, cioè strumento per discernere la fede dalla non-fede, e
neppure quando in una considerazione confusionale si prendono come una idee
contrapposte. È inoltre da osservare che la distinzione tra il credere e l’amare,
oltre che nella Scrittura, è fondata nell’essere dell’uomo in cui intelletto e
volontà sono realmente distinti. La loro distinzione rimette per analogia alla
distinzione reale nell’organismo ontologico della Monotriade.

Che la distruzione della distinzione significhi eversione radicale della


razionalità appare dalle proposizioni del Sullivan circa l’incompatibilità tra fede
e certezza: «Les croyants s’imaginent que la foi va avec la certitude. On leur a
mis ça dans la tête! Il faut se méfier de la certitude. Les certitudes son
généralement fondées sur quoi? Le non approfondissement des connaissances».

Molti assurdi logici e religiosi sono radunati nel libro. Se l’autore intende
affermare che una cosa non può essere creduta se è veduta, dice cosa ovvia e
trita in filosofia. Ma se egli pretende che non si possa avere certezza di una cosa
creduta, egli cammina fuori della dottrina cattolica. Che la fede sia certezza è
dogma cattolico e che questa certezza non sia privilegio di anime mistiche e di
anime semplici, ma lume comune a tutti i credenti, pure. In secondo luogo il
Sullivan sovverte ogni gnoseologia, quando pone in ragione inversa la certezza e
l’approfondimento delle conoscenze. La certezza è invece lo stato soggettivo del
conoscente proprio in quanto conoscente; l’ignoranza è un manco di conoscenza
e il dubbio un minus di conoscenza. L’opinione del Sullivan risente della
calunnia irreligiosa celebrata tra noi dal Bruno in pagine memorabili dei
Dialoghi sulla santa asinità. La calunnia è compagna dell’altro e definitivo
errore secondo cui la certezza e la fede troncherebbero la possibilità dell’azione
e, come dice l’autore con paradossi di vile conio, «vivre c’est perdre la foi».
Ogni stabilità nel pensiero renderebbe impossibile la comunione con gli altri
spiriti, dovendo essere il nostro spirito in ogni momento trasmutabile in tutte
guise.

La dottrina cattolica pone al contrario che la comunione implica qualcosa che


dura identica nel moto della vita. D’altronde non dalla vita procede il pensiero,
ma dal pensiero la vita e, teologicamente, non dallo Spirito Santo il Verbo ma dal
Verbo lo Spirito Santo. L’azione umana nasce dalla persuasione della verità e la
storia della filosofia lo conferma. Gli Efettici dell’antichità e tutti i sistemi di
fuga dall’azione ritennero doversi ridurre le certezze per poter ridurre l’azione e
al termine venire alla nullità del conoscere, entrando nel porto di sicurezza e di
atarassia dello spirito.

La certezza è lo stato mentale che consegue all’approfondimento e non alla


superficialità del conoscere, come avventa il Sullivan. Egli nega che ci sia un
fondo che resiste alla ricerca, u n caput mortuum, u n ἀνυπόθετον. Qui il
pirronismo sta col suo gemello, il mobilismo, e come questo finisce nella
blasfemia: «Vivre c’est aussi perdre la foi et s’apercevoir qu’on est possédé par...
C’est pourquoi rencontrer Dieu c’est le renier à l’instant même». Qui c’è
paradossofilia di conio triviale, ma al di là dello schema letterario del paradosso
vi è la negazione del Verbo e, come acutamente vide il Leopardi, la negazione di
Dio.

150. Ancora l’invalidazione della ragione. I teologi di Padova. I teologi di


Ariccia. Manchesson. − Né si pensi che per provare il pirronismo penetrato nella
Chiesa noi abbiamo isolato e colorato qualche caso per produrre meraviglia.
L’abbiamo rilevato come sintomo, non come stravaganza. E la diffusa mentalità
che esso indica possiamo raccoglierla anche da manifestazioni non di singoli
uomini autorevoli, ma di intere corporazioni intellettuali.

Il Congresso dei moralisti italiani nel 1970 a Padova votò queste


conclusioni: «Essendo l’esercizio della ragione sistematicamente incluso in una
condizione storica particolare, non è possibile il suo esercizio in termini
universali». Questa è propriissimamente la distruzione della ragione e perciò di
tutto, compreso il congresso dei moralisti.

Analogo è il pirronismo del Congresso dei teologi di Ariccia, presieduto dal


card. Garrone, prefetto della Congregazione per l’insegnamento cattolico. Ne
dava relazione, senza muovere critica alcuna, l’OR del 16 gennaio 1971.
Secondo la corrente dominante «nessuna proposizione può essere ritenuta
assolutamente vera». Non si danno prolegomeni razionali alla teologia «perché
la parola di Dio si giustifica da sé stessa e si interpreta da sé stessa». L’antitesi
alla teologia della Chiesa è qui ancor meno importante che l’antitesi alla filosofia
sua. In primo luogo non può essere senza ragionevolezza la fede dell’uomo,
creatura ragionevole. Secondo, la parola di Dio non si giustificherebbe da sé
stessa, come qui si pretende, che nel caso in cui essa avesse l’evidenza, poiché
solo l’evidenza, immediata o mediata, dà giustificazione a una parola. Ora questa
evidenza manca alla parola di fede alla quale appunto si assente per fede, e non
per evidenza. Terzo, dire che la parola di Dio si interpreta da sé stessa è un
composto di parole, ma non un’enunciazione. Interpretare significa mettersi in
mezzo tra parola e uditore, tra intelligibile e intelligente. L’interprete è un terzo
che media una dualità e non può la parola di Dio intramezzare sé stessa.

Dal rapporto tra filosofia e teologia i teologi di Ariccia trapassano al rapporto


tra soggetto e oggetto e stanziano francamente che «il teologo per parlare
secondo le categorie dell’uomo del nostro tempo deve tenere conto della svolta
antropologica e questa consiste in un capovolgimento del rapporto tra soggetto e
oggetto e nell’impossibilità di apprendere l’oggetto in sé stesso». Ora questa è la
formulazione esplicita del pirronismo e la distruzione della dottrina cattolica. La
fede infatti suppone la ragione. Essa è sommissione della ragione, ma tale
sommissione è voluta dalla ragione stessa. I teoremi del Congresso dei teologi
sono teoremi regressivi e portano la filosofia a posizioni presocratiche. Che quei
teoremi siano accolti da un congresso di teologi cattolici cui prolude un cardinale
significa che si abusano i vocaboli ovvero che non esiste più teologia cattolica.

Il pirronismo depone sin l’ultima tunica nella conclusione: «Per un incontro


valido ed efficace con l’uomo contemporaneo è necessario conoscere la
condizione trascendentale ossia le strutture generali dell’uomo d’oggi». Se non
si è perduto il significato dei vocaboli, qui si dice che trascendentale è uguale a
empirico.

La vena pirronistica non si è inaridita nel tempo del postconcilio a noi più
prossimo, ma pullula in dichiarazioni ufficiali e officiose. Il colloquio svoltosi a
Trieste in gennaio 1982 al Centro di teologia e cultura, di cui gli Atti sono
pubblicati con introduzione di quel vescovo, si concluse su questa tesi: «Non
esiste una ragione assoluta di stampo idealista o marxista [né di qualunque altro
stampo] dispiegantesi nella storia dell’umanità nel suo concreto divenire, bensì
una ragione storicamente data le cui forme mutano al variare dei contesti
culturali. Non si tratta di riproporre una concezione metafisica, filosofica e
teologica totalizzante» (OR, 8 luglio 1983). Qui è scopertamente invalidata la
ragione, ripudiata la Provvidenza, negata la metafisica, epocato Dio.

Yves Manchesson dell’Institut catholique di Parigi, presentando lo stato della


Chiesa in Francia dopo la Liberazione, delinea in questi termini il compito della
Chiesa nel mondo: «L’Eglise essaie de déchiffrer les signes des temps, pense ne
pas avoir ré ponse à tout, cherche moins à préciser une vérité en soi qu’une
vérité pour tous les hommes»254. Le formule del rispettabile autore ci sembran
soltanto un composto di parole. Innanzi tutto la Chiesa non ha mai annunciato sé
stessa come il luogo di tutte le verità, perché esiste tutta una sfera di cognizioni
abbandonate da Dio all’euristica e all’eristica degli uomini: «et mundum tradidit
disputationi eorum, ut non inveniat homo opus quod operatus est Deus ab initio
usque ad finem» (Eccle., 3, II)255. Questa sfera è costituita delle cose, per così
dire, extramorali, che non toccano l’assiologia e la teleologia umane, quelle
insomma che non concernono il destino ultimo. Ma la Chiesa è invece il luogo di
tutta la verità, di quella cioè senza conoscere la quale non può l’uomo adempiere
il destino suo né quello del mondo. In secondo luogo vi è un prodigioso
disattendere il senso dei vocaboli, quando si parla di una verità che non è in sé,
ma è una verità per tutti gli uomini, giacché la verità valida per tutti gli uomini è
proprio una verità in sé, stante e durante indipendentemente dall’essere appresa
dall’intelletto finito. Non è il consenso dell’uomo che avvalora la verità, come
oggi non si teme di asserire, ma all’inverso è la verità che avvalora il consenso
dell’uomo. Una verità può essere in relazione con l’uomo soltanto se è
indipendente dall’uomo e autonoma: per prius è in sé stessa e per posterius è
verità per l’uomo.
CAPITOLO XVI IL DIALOGO

151. Dialogo e discussionismo nella Chiesa postconciliare. Il dialogo in


«Ecclesiam suam». − Nel vocabolo dialogo si è consumata la più grande
variazione della mentalità della Chiesa postconciliare, soltanto paragonabile a
quella seguita al vocabolo libertà nel secolo scorso. Il vocabolo è del tutto
incognito e inusitato nella dottrina prima del Concilio. Non si trova una sol volta
nei Concilii antecedenti, non nelle encicliche papali, non nell’omiletica e nella
parenetica pastorale. Nel Vaticano II il termine dialogus appare ventotto volte, di
cui dodici nel decreto Unitatis redintegratio sull’ecumenismo. Ma questa parola,
nuovissima nella Chiesa cattolica, diventò, con propagazione fulminea e con
enorme dilatazione semantica, il vocabolo principe della protologia
postconciliare e la categoria universale della mentalità neoterica256. Si parla non
pure di dialogo ecumenico, di dialogo tra Chiesa e mondo, di dialogo ecclesiale
ma, con inaudita catacresi, si ascrive struttura dialogica alla teologia, alla
pedagogia, alla catechesi, alla Monotriade, alla storia della salvezza, alla scuola,
alla famiglia, al sacerdozio, ai sacramenti, alla redenzione, e a quant’altro era
stato per secoli nella Chiesa senza che quel concetto fosse nelle menti e quel
vocabolo nel linguaggio.

Il passaggio dal discorso tetico, che fu proprio della religione, al discorso


ipotetico e problematico è palese sin nella mutazione del titolo dei libri, che un
tempo insegnavano e oggi ricercano. Ai libri che andavano come Institutiones o
Manuali o Trattati di filosofia o di teologia o di qualunque altra scienza
subentrano oggi i Problemi di filosofia, Problemi di teologia, e la manualistica,
proprio per il suo pregio tetico e apodittico, viene aborrita e disprezzata. E ciò
avviene in ogni campo: non più Manuale dell’infermiere ma I problemi
dell’infermiere, non più Manuale dell’autista ma I problemi dell’autista e via
dicendo, tutto passando dal certo all’incerto, dal positivo al problematico.
Dall’appropriazione intenzionale degli oggetti reali mediante notizia (segnata
dal tema no di nosco) si discende al semplice gettare l’oggetto davanti alla
mente (προβάλλω).
In agosto 1964, dedicando una terza parte dell’enciclica Ecclesiam suam al
dialogo, Paolo VI poneva equazione tra il dovere che incombe alla Chiesa di
evangelizzare il mondo e il suo dovere di dialogare col mondo. Ma non si può
non avvertire che l’equazione non trova appoggio né nella Scrittura né nel
lessico. Nella Scrittura il vocabolo dialogus non si trova mai e l’equivalente
latino colloquium è usato solo nel senso di incontro di capi e in quello di
conversazione e mai in quello moderno di incontro di persone. Tre volte si trova
colloquio nel Nuovo Testamento nel senso di disputa. L’evangelizzazione
d’altronde è un annuncio e non una disputa. Nei Vangeli l’evangelizzare
comandato agli Apostoli è immediatamente identificato con l’insegnare. Alla
dottrina infatti e non alla disputa si riferisce il mandato apostolico e d’altronde il
vocabolo stesso ἄγγελοϛ, importa l’idea di qualche cosa che è data da
comunicare e non di qualcosa che è gettata alla disputa. Certo negli Atti Pietro e
Paolo disputano nelle sinagoghe, ma non è il dialogo nel senso moderno, cioè il
dialogo di ricerca movente da uno stato di inscizia confessa, ma il dialogo di
confutazione e di impugnazione dell’errore. E la possibilità dialogale cessa nel
momento in cui il disputante, o per ostinazione o per incapacità, non è più
suscettivo di persuasione. Questo momento si vede per esempio nel rifiuto del
dialogo da parte di san Paolo in Act., 19, 8-9. E come il Cristo parlava con
autorità: «Erat docens eos sicut potestatem habens» (Matth., 7, 29), così gli
Apostoli evangelizzano con parola che ha intrinsecamente autorità e non la
aspetta dal dialogo. Anzi in quello stesso luogo il parlare tetico del Cristo viene
contrapposto al parlare dialogico degli Scribi e dei Farisei. Il fondo della cosa è
che la parola della Chiesa non è parola d’uomo, la quale è sempre
controvertibile, ma è parola rivelata, destinata all’accettazione e non alla
controversia.

È anche da notare che l’Ecclesiam suam, dopo aver posto l’equazione tra
evangelizzare e dialogare, pone invece disequazione tra evangelizzare la verità e
il condannare l’errore e identifica condanna e costrizione. Ritorna il motivo
dell’orazione inaugurale toccato al § 38: «Anche la nostra missione» dice
l’enciclica «è annuncio di verità indiscutibili e di salute necessaria; non si
presenterà armata di esteriore coercizione, ma solo per le vie legittime
dell’umana educazione». Il concetto di Paolo VI è del tutto tradizionale e lo
prova il fatto che, subito dopo la promulgazione dell’enciclica, il segretario del
Consiglio ecumenico Wisser Hooft si affrettò a notificare che il concetto papale
di dialogo come comunicazione di verità senza reciprocanza non era conforme al
concetto ecumenico (OR, 13 settembre 1964).

152. Filosofia del dialogo. − Il dialogo nella filosofia neoterica, e lo professa


OR, 15 gennaio 1971, ha per base «la perpetua problematicità del soggetto
cristiano», cioè l’impossibilità di fermarsi in qualcosa che non sia problema.
Vien negato insomma il gran principio, riconosciuto in logica e in metafisica e in
morale, che ἀνάγκη στῆναι257.

In una prima aporia incappa il dialogo quando lo si fa coincidere con


l’universale officio della evangelizzazione e lo si preconizza come mezzo di
diffusione della verità. È impossibile che tutti dialoghino. La possibilità di
dialogare è infatti in funzione della scienza che si abbia del soggetto e non, come
si pretende, in funzione della libertà o della dignità dell’anima. Il titolo a
disputare dipende dalla cognizione e non dalla generale destinazione dell’uomo
alla verità. Sulle cose ginniche, insegnava Socrate, si ha da ascoltare il perito di
ginnastica, e su cavalli il perito di cose cavalline, e su ferite e morbi il perito di
medicina, e sulle cose della città il perito di politica. La perizia poi è effetto della
fatica e dello studio, della riflessione non corsiva ed estemporanea, ma metodica
e assidua. Nel dialogo contemporaneo invece si suppone che ogni uomo, perché
razionale, sia atto a dialogare con tutti e sopra tutte le cose. Si richiede perciò
che il vivere della comunità civile e il vivere della comunità ecclesiale siano
ordinati per tal modo che tutti partecipino non, come vuole il sistema cattolico,
recando ciascuno la propria scienza, bensì la propria opinione, e non
adempiendo la parte che gli spetta, ma pronunciando su tutto. Ed è singolare che
questo titolo a disputare sia esteso all’universale proprio nel momento in cui il
titolo autentico, che è la scienza, si indebolisce e scarseggia nello stesso ceto
docente della Chiesa.

V’è inoltre un abbaglio circa l’onere della prova. Si suppone che il dialogo
debba e possa soddisfare a tutte le obiezioni del contraddicente. Ora, che un
uomo si offra a un altro uomo per procurargli un’intera soddisfazione
intellettuale sopra un punto qualunque della religione, arguisce un vizio morale.
È infatti temerità quella di chi dopo affermato un vero si espone alla discussione
generale, estemporanea e onnimoda. Ogni soggetto presenta mille lati; egli ne
conosce solo pochi o uno solo. Eppure si espone come se egli si sentisse pronto
ad ogni obiezione, impossibile a sorprendere, e come se egli avesse, per così
dire, prevenuti tutti i pensieri possibili a sorgere su quel soggetto.

Ma anche dal canto dell’interrogante il dialogo patisce difficoltà perché


poggia su un supposto gratuito, già acutamente intuito da sant’Agostino. Un
intelletto può essere capace di formulare un’obiezione, ed insieme essere
incapace di capire l’argomento con cui l’obiezione si scioglie. Anzi questa
situazione, in cui la forza intellettuale del singolo è maggiore nell’obiettare che
nel comprendere la risposta, è una causa comunissima di errore. «Ecce unde
plerumque convalescit error, cum homines idonei sunt his rebus interrogandis
quibus intelligendis non sunt idonei» (De peccatorum meritis et remissione, lib.
III, cap. 8)258.

Questa inadeguanza tra intelletto che concepisce una domanda e intelletto


che intende la risposta è una conseguenza del generale divario tra potenza ed
atto. Il rifiuto della distinzione porta da un lato al paralogismo politico: tutti gli
individui hanno per natura potenza a comandare, ergo tutti hanno l’atto del
comandare. Dall’altro lato il rifiuto porta al paralogismo insito al dialogo: tutti
gli individui hanno potenza a conoscere il vero, ergo tutti gli individui
conoscono in atto il vero.

Anche Antonio Rosmini nel primo libro della Teodicea, da lui chiamato
logico, insegna che l’individuo non può commettere al proprio intelletto la
soluzione delle aporie della divina Provvidenza: nessun individuo infatti è certo
che la propria forza intellettuale sia pari alla forza delle obiezioni che si
muovono contro. Questo elemento della forza intellettuale di cui la misura è
incognita, è quello che Cartesio trascurava nel suo metodo supponendo che
questa forza della ragione fosse uguale in tutti gli individui e in tutti gli individui
egualmente esercitabile.


153. Inidoneità del dialogo. − Nella Scrittura, come dicemmo, il metodo
dell’evangelizzazione è l’insegnamento e non il dialogo. Nell’imperativo che
sigilla la missione del Cristo con la missione degli Apostoli il verbo adoperato è
μαθητεύσατε che letteralmente vale fate discepoli tutti i popoli, come se l’opera
degli Apostoli consistesse nel ridurre i popoli alla condizione di ascoltatori e
discepoli e come se μαθητεύειν fosse un grado previo a διδάσκειν259.

Oltre però che il fondamento biblico, manca al dialogo il fondamento


gnoseologico, perché la natura del dialogo contraddice alle condizioni del
discorso di fede. Suppone infatti che la credibilità della religione dipenda dallo
scioglimento previo di tutte le obiezioni particolari mossele contro. Ora un tale
scioglimento è impossibile ad aversi e a premettersi all’assenso di fede. Il
procedimento corretto è invece a rovescio. Assodata anche per un’unica prova la
verità della religione, questa si deve tenere sebbene non siano sciolte le difficoltà
particolari. Come insegna il Rosmini260, la proposizione La religione cattolica è
vera prescrive le particolari obiezioni possibili a farsi. Non occorre sciogliere
prima le quindicimila obiezioni della Summa theologica per venire
ragionevolmente all’assenso. Insomma la verità del cattolicismo non si raccoglie
sinteticamente, come un composto di verità particolari, e non implica un’intera
soddisfazione intellettuale, ma al contrario è l’assenso a quella proposizione
universalissima che produce gli assensi particolari.

È infine da osservare che la presente concezione del dialogo trascura la via


dell’ignoranza utile propria di quegli spiriti che, trovandosi incapaci della via
dell’esame, si tengono stretti a quell’adesione fondamentale e non considerano
con attenzione le opinioni opposte per scoprire dove stia l’errore. Essi, temendo
ogni pensiero contrario a ciò che conoscono per incontrastabilmente vero, si
tengono in uno stato di ignoranza che, per preservare la verità posseduta, esclude
le idee false e insieme con queste anche le idee vere che per avventura vi si
accompagnino, senza sceverare le une dalle altre.

Questa via dell’ignoranza utile è lecita nella religione cattolica, è fondata sul
principio teoretico spiegato sopra ed è d’altronde il fatto dello stragrande numero
dei credenti261. È dunque inaccettabile l’opinione espressa in OR, 15-6 novembre
1965, che «chi rinuncia al dialogo è un fanatico, un intollerante che finisce
sempre per essere infedele a sé stesso prima che alla società di cui fa parte. Chi
invece dialoga rinuncia all’isolamento, alla condanna». Dialogare senza
cognizione è prova di temerità e di quel fanatismo che scambia la propria forza
soggettiva per la forza oggettiva della verità.

154. I fini del dialogo. Paolo VI. Il Segretariato per i non credenti. −
Notevole è il divario tra dialogo tradizionale e dialogo moderno, quando si
considera il fine assegnato al dialogo. Il dialogo, dicono, non ha per fine la
confutazione dell’errore né la conversione del collocutore262. La mentalità
neoterica aborre dalla polemica, tenuta per incompatibile con la carità, mentre al
contrario ne è un atto. Il concetto di polemica è invero indissolubile dal
contrapposto tra il vero e il falso. La polemica mira appunto ad abbattere
l’uguaglianza che si tentasse di mettere tra una posizione vera e una posizione
falsa. Sotto questo rispetto la polemica è connaturale al pensiero il quale, anche
se non abbatte il falso in un avverso dialogante, lo abbatte però nell’interno
processo monologico.

Il fine del dialogo dal canto del dialogante cattolico non può essere euristico,
perché egli, quanto alle verità religiose, è in possesso e non in ricerca. Neppure
può essere eristico, cioè di carattere contenzioso, perché ha per motivo e per
obiettivo la carità. Il dialogo è invece inteso a dimostrare un vero, a produrre in
altri una persuasione e ultimamente una conversione. Questa finalità metanoetica
del dialogo cattolico fu insegnata chiaramente da Paolo VI nel discorso del 27
giugno 1968: «Non basta avvicinare gli altri, ammetterli alla nostra
conversazione, confermare ad essi la nostra fiducia, cercare il loro bene. Bisogna
inoltre adoperarsi affinché si convertano. Occorre predicare perché ritornino.
Occorre recuperarli all’ordine divino che è uno solo». La dichiarazione papale
acquista una rilevanza singolarissima, perché il dialogo di cui discorreva il
Pontefice è il dialogo ecumenico e la rilevanza specialissima di quelle parole era
confermata persino dalla diversificazione tipografica (vero ἅπαξ) usata per
quella pericope dall’OR.

Ciononostante nell’OR del 21 agosto 1975 il Segretario del Segretariato per i


non credenti faceva queste dichiarazioni diametralmente opposte alla
dichiarazione papale: «Senza dubbio il Segretariato è sorto non con l’intento di
fare proselitismo tra i non credenti, anche se esso viene inteso in senso positivo,
e neppure con intento apologetico, ma piuttosto con quello di promuovere il
dialogo tra credenti e non credenti». Ora, avendo io obiettato all’autore la
contraddizione del suo testo all’asserto papale, egli mi rispose con lettera
ufficiale del 9 settembre: che nessun atto si fa dal Segretariato senza intesa con
le superiori autorità, e che in ispecie quell’articolo dell’OR era passato attraverso
la visione della Segreteria di Stato. Il divario tra il Papa e il Segretariato risulta
quindi per tale lettera ancor più significante. Nel merito dell’obiezione mia la
risposta ribadiva che benché compito della Chiesa sia la conversione del mondo,
«ciò non implica che ogni passo e ogni organo della Chiesa abbia come suo
compito specifico la conversione dei propri interlocutori».

La risposta pecca di indistinzione. La Chiesa ha un fine universale e unico


che è la salvezza dell’uomo e tutte le operazioni che essa fa sono specificazioni
plurificate di quel fine: quando insegna insegna e non battezza, quando battezza
battezza e non insegna, quando consacra l’eucaristia consacra e non assolve e via
dicendo. Però tutti questi fini specifici sono appunto specificazioni e attuazioni
del fine universale, e tutti mirano al fine della conversione dell’uomo a Dio. Il
fine ultimo dell’azione della Chiesa, che è la conversione, è quello che dà la
ragion di fine a tutti i fini subordinati e senza di quello nessuna azione
particolare sarebbe (Summa theol., I, II, q. I, a. 4). Le citate parole di Paolo VI
infatti dicono senza equivoco che il dialogo mira alla conversione.

155. Se il dialogo sia sempre un arricchimento. − Escluse dal dialogo


postconciliare la conversione e l’apologetica si suol dire che il dialogo «è sempre
uno scambio positivo», ma l’asserto sembra difficile ad ammettersi. In primo
luogo accanto al dialogo convertitore esiste un dialogo pervertitore in cui il
collocutore vien distolto dalla verità e fatto cadere nell’errore. Oppure si dirà che
efficace è la parola di verità ma inefficace quella dell’errore?

In secondo luogo è da considerare la situazione in cui il dialogo nonché


giovare ai collocutori li stringe a un’impossibilità. È il caso contemplato da san
Tommaso, che cioè, mancando ai due collocutori un principio comune, dal quale
sillogizzare, diventi impossibile provare la verità al collocutore che rifiuta il
medio della dimostrazione. Allora rimane soltanto di provare che gli argomenti
opposti non concludono e che le obiezioni sono solubili. In questo caso non è
punto vero che l’esito sia positivo da entrambi i lati e che abbia luogo un
reciproco arricchimento. Il vero si è invece che nel caso contemplato il dialogo è
improduttivo. E se si oppone che esso è tuttavia fruttuoso perché fa conoscere la
psicologia e l’ideologia del collocutore, si ha da osservare che la conoscenza
della psicologia del collocutore appartiene appunto allo scandaglio psicologico,
ma non alla religione e non costituisce il fine del dialogo religioso, bensì della
storia o della biografia o della sociologia. Può giovare ad aggiustare il dialogo e
appropriarlo meglio alla situazione dei dialoganti, ma non è punto un reciproco
arricchimento.

156. Il dialogo cattolico. − Il dialogo cattolico ha per fine la persuasione e, in


un ordine più elevato, la conversione del collocutore. Il vescovo mons. Marafini
in OR, 18 dicembre 1971, dice (ma non si sa se dice quel che vuole) addirittura
che «il metodo del dialogo va inteso come movimento convergente verso la
pienezza della verità e ricerca dell’unità profonda»263.

In questi testi si confondono il dialogo in materia naturale e il dialogo di fede


soprannaturale. Il primo si svolge sotto il lume della ragione che accomuna tutti
gli uomini. Ponendosi sotto questo lume tutti gli individui stanno a pari con tutti
gli individui: i dialoganti sentono sopra il loro dialogo il Logo, più importante
del loro dialogo, come già dicemmo al § 125, sperimentano la loro fraternità
vera e l’unità profonda della loro natura. V’è però un altro dialogo nel quale è
impegnata la fede e in cui i collocutori non possono muoversi convergendo verso
il vero né situarsi in condizione di parità. Il collocutore non credente sta infatti in
una situazione di rifiuto o di dubbio nella quale è impossibile per il credente di
collocarsi.

Si potrebbe obiettare che la posizione del credente è una posizione analoga a


quella cartesiana, di rifiuto o di dubbio metodico e provvisorio: il credente si
mette nella posizione di incredulità, ma solo per dialogare. Ma la difficoltà
risorge: se il dubbio o il rifiuto della fede è reale, esso implica nel collocutore
credente perdita della fede ed è un peccato. Se invece il dubbio o il rifiuto è
suppositizio e finto, il dialogo è viziato da simulazione e ha una base immorale.
E non ci fermiamo a domandare se chi per ragione dialogica finge di non credere
quel che crede non pecchi contro la fede, né a ricercare se un dialogo fondato
sulla finzione non sia oltre che reo anche infruttuoso. In un articolo di OR, 26-7
dicembre 1981, su «Fede e dialogo» si tenta mantenere che il dialogo è fruttuoso
anche per il credente (oltre, si intende, che per il merito della carità, anche per
acquisizione di fede). Ma la contraddizione è manifesta. Ha stabilito che «se il
Signore Gesù che si possiede non è la verità suprema totalizzante dell’uomo...
allora si tratta di apprendere qualcosa d’altro e di più di quanto si è ricevuto per
grazia». Se invece il Cristo è la verità suprema e totalizzante, allora «non si vede
come gli si possa aggiungere un’idea o un’esperienza». Ma poi l’autore butta a
terra il suo dilemma affermando che nel dialogo anche il credente trova qualcosa
da aggiungere alla sua fede «alla condizione però che tali nuove acquisizioni non
siano percepite come delle aggiunte a Cristo. Semplicemente sono delle
sfaccettature, dimensioni, aspetti del mistero di Cristo che il credente possiede
già e scopre sotto lo stimolo di chi, pur non essendo cristiano consapevole, già lo
è in concreto». Qui si dice che l’aggiunta di cognizioni non è aggiunta di
cognizioni; che l’ateo è un cristiano implicito (dottrina per cui vedi § 253); che
l’ateo tiene sfaccettature del mistero, che il cristiano esplicito non conosce, e
gliele suggerisce.

Concludendo sul dialogismo della Chiesa postconciliare diciamo che il


dialogo neoterico non è il dialogo cattolico. Primo, perché ha funzione
puramente euristica, come se la Chiesa dialogante non possedesse, ma cercasse
la verità, o come se dialogando potesse prescindere dal possesso della verità.
Secondo, perché non riconosce la posizione poziore della verità rivelata, come se
fosse caduta la distinzione di grado assiologico tra natura e Rivelazione. Terzo,
perché suppone parità, sia pure soltanto metodica, tra i dialoganti, come se il
prescindere dal vantaggio che ha la fede divina, anche solo per finzione
dialettica, non fosse un peccato contro la fede. Quarto, perché postula che tutte
le posizioni dell’umana filosofia siano indefinitamente disputabili, come se non
esistessero invece punti di contraddizione principiale che troncano il dialogo e
lasciano solo la possibilità della confutazione. Quinto, perché suppone che il
dialogo sia sempre fruttuoso e che «nessuno deve sacrificare alcunché» (OR, 19
novembre 1971), come se non vi fosse un dialogo corruttore che spianta la verità
e impianta l’errore, e come se non si dovesse, nel caso, rigettare l’errore prima
professato.
Il dialogo di convergenza dei collocutori verso una verità più alta e più
universale non conviene alla Chiesa cattolica, perché non le conviene un
processo euristico che la metta sulle traccie della verità, ma soltanto
un’operazione della carità la quale vuole comunicare una verità posseduta per
grazia, e trarre non a sé ma alla verità. La superiorità infatti non è del credente
dialogante sopra il non credente dialogante, bensì della verità sopra tutte le
persone dialoganti. Non si scambi l’atto con cui un uomo persuade un altro
uomo della verità con un atto di sopraffazione e di offesa della altrui libertà. La
contraddizione logica e l’aut aut sono strutture dell’essere, e non violenza.
L’effetto sociologico del pirronismo e del conseguente discussionismo è il
pullulare di convegni, incontri, commissioni, congressi, cominciato col Vaticano
II. Di qui la consuetudine introdotta di rimettere tutto in problema e tutti i
problemi affidare a commissioni plurime e la responsabilità, una volta personale
e individuabile, disciogliere in corpi collegiali. Il discussionismo ha sviluppato
un’intera tecnica e nel 1972 a Roma si radunò un Convegno dei moderatori di
dialoghi destinato a preparare i moderatori, come se si potesse dirigere un
dialogo in generale, senza alcuna cognizione specifica della materia specifica su
cui verte il dialogo.
CAPITOLO XVII IL MOBILISMO

157. Il mobilismo nella filosofia moderna. − Quello che nell’ordine logico è


il pirronismo con la genitura del discussionismo, nell’ordine metafisico è il
mobilismo. Questo è l’antecedente del primo, giacché un vizio della primalità del
conoscere implica un vizio della primalità dell’essere. Ora il mobilismo è un
carattere della Chiesa postconciliare nella quale, secondo il motto citato del card.
Alfrink, tutto è messo in movimento e non c’è nessuna parte del sistema
cattolico che non sia in fase di mutazione: nihil quietum in causa.

Il mobilismo è assioma delle organizzazioni internazionali. Il rapporto 1972


dell’UNESCO è intitolato Apprendre à être (Paris 1972), ma être è preso come
sinonimo di devenir o se développer. Il fine della pedagogia e della politica è di
fare che «lo spirito non si fermi in persuasioni definitive», ma al contrario
«divenga estremamente pronto a cambiare». Si afferma conseguentemente «la
necessità di educare il pensiero in modo tale che esso sia atteggiato ad ipotizzare
una molteplicità di soluzioni», divergenti e non convergenti, e di impedire che lo
spirito resti fermo in qualche persuasione definitiva (OR, 10 gennaio 1973). La
legge del pensiero non è la verità, cioè la stabilità, ma l’opinione, cioè la
fluttuazione continua. Ma l’UNESCO non vede che qualcuno naturalmente
governerà il moto dell’opinione governando l’opinione e che così si apre la via
al Leviatan.

Il mobilismo è descritto come uno dei caratteri della civiltà moderna in GS,
5: «Ita genus humanum a notione magis statica ordinis rerum ad notionem magis
dynamicam atque evolutivam transit»264. E nel cap. 42 lo stesso documento,
rifacendosi alla rivendicazione di diritti dell’uomo moderno, stima il dinamismo
positivo e conforme al Vangelo: «Ecclesia ergo iura hominum proclamat et
hodierni temporis dynamismum haec iura undique promoventem, agnoscit et
magni aestimat»265. La seconda formula riguarda in ispecie il dinamismo sociale,
ma la prima abbraccia la totalità della vita umana e investe la questione
dell’ordine morale il quale sembra qui assoggettato alla legge della mobilità,
laddove la religione lo tiene per immobile e partecipe dell’immutabilità divina.
Certo se il vocabolo dinamismo equivale a perfezionamento il pensiero del
Concilio rientra nella concezione tradizionale secondo la quale tutto è
perfezionabile e perfezionando dentro un ordine che prescrive la perfezione ma
non si perfeziona.

158. Critica del mobilismo. Ugo Foscolo. Kolbenheyer. − Come appare dalla
storia della filosofia, il mobilismo è la mentalità che stima il divenire sopra
l’essere, il moto sopra la quiete, l’azione sopra il fine. Esso è un contrassegno
del pensiero moderno. Eraclito di Efeso (secolo VI a. C.) insegnò che la realtà è
scorrimento, ma lo scorrimento è retto da un’inviolabile legge che è il Logo.
Tutta la filosofia cristiana concepì il divenire come un accidente delle sostanze
finite mentre solo Dio è indivenibile. Che il mutamento coincida con la vita e
che quindi il valore dello spirito consista nel cercare la verità anziché nel
possederla, fu sentenza anche del Romanticismo italiano, nella misura in cui
imitò il tedesco. Il Foscolo, per esempio, nel Discorso Dell’origine e dell’ufficio
della letteratura vuole che la vita consista nell’agitazione delle passioni e nel
continuo variare dei pensieri dell’animo aspirante a vedere tutto il vero. Ma egli
tiene che il perpetuo aspirare abbia maggior valore che il conseguire: «Misero,
se ei lo vedesse! Non troverebbe più forse ragione di vivere». Il Faust di Goethe
è il poema dell’uomo che sogna di appagarsi in un’infinità di esperienze
successive; egli desidera e raggiunto il desiderato nuovamente desidera e mai
riposa in un bene raggiunto.

Questa inquietudine dell’essere fu in tempi recenti celebrata nella grande


trilogia di Guido Kolbenheyer Paracelsus (Berlino 1935): il senso profondo del
reale si trova nel divenire, nella vicissitudine perpetua di forme nascenti e
morienti proiettata dalla speranza fallace senza mai riposo nel bene conseguito.
Il primato del divenire porta con sé il primato dell’azione e l’insignificanza del
fine: non la conquista, ma il conquistare, non il pervenire, ma il venire ha valore.

La sistemazione teoretica più compita del mobilismo è la filosofia di Hegel:


l’esistente è il diveniente infinitamente volubile nel tempo e il divenire si
comunica a Dio, togliendogli gli attributi dell’immutabilità e dell’intemporalità
assolute.

159. Il mobilismo nella Chiesa. − Ma anche nella Chiesa l’idea che la


mutevolezza sia un valore positivo da accogliere è penetrata diffusamente,
sopraffacendo l’idea della stabilità e dell’immutabile. E tuttavia il precetto della
religione è chiaro: «Stabiles estote et immobiles» (I Cor., 15, 58). Nel suo
Bulletin diocésain del 10 ottobre 1967 il vescovo di Metz scriveva: «La mutation
de civilisation que nous vivons entraîne des changements non seulement dans
notre comportement extérieur, mais dans la conception que nous nous faisons
tant de la création que du salut apporté par Jésus-Christ». E il 18 agosto 1976
lo stesso vescovo al microfono di France-Inter dichiarava: «La théologie
antéconciliaire, celle de Trente, est désormais terminée». D’altronde lo stesso
Paolo VI, dissonando dalle sue energiche dichiarazioni sull’immutabilità della
Chiesa, ammetteva che «la Chiesa è entrata nel moto della storia che si evolve e
cambia» (OR, 29 settembre 1971).

Nella mentalità del secolo, dotta, semidotta e indotta, è diventata un luogo


comune l’affermazione che un atto non conti per il risultato, ma per sé stesso,
qualunque sia il fine che si propone, onesto o disonesto: decisiva è l’attività
come tale, non il valore che essa persegua o consegua. Senza dire che il
mobilismo che ricerca l’azione per l’azione è l’anima delle grandi perversioni
politiche moderne quale il nazismo, come mostra Max Picard266 in un libro
celebrato e da celebrare senza fine.

Mons. Illich, intervistato nel suo proprio seminario di Cuernavaca, ha


dichiarato: «Io credo che la funzione della Chiesa sia di partecipare
consapevolmente a tutte le forme di mutamento, a qualunque mutamento. È il
compito che ci ha affidato Cristo. Noi vogliamo una Chiesa in cui principale
funzione sia la celebrazione del mutamento» (dal giornale «Dauphiné libéré», 26
febbraio 1968). Lo stile è stravagante, ma lo spirito qui espresso è quello che
agitat molem. E il presidente dell’Associazione teologica italiana in un convegno
nazionale insegnava che «il compito dell’evangelizzazione è di mettere in crisi
ogni stabilizzazione e assolutizzazione» (OR, 11 settembre 1981).

160. Mobilismo e mondo della fuga. Sant’Agostino. − Il mobilismo come


filosofia del puro divenire ha un profondo significato, acutamente intuito dal
Rosmini nel saggio sulla filosofia di Ugo Foscolo, congruamente chiamata
filosofia della speranza fallace. Il mobilismo infatti involge la negazione
dell’Infinito come pienezza dell’essere e pone la nozione di vita in antitesi con
quella di Dio. Nel romanzo Noi vivi di Ayn Rand la vita in sé stessa è il supremo
valore e Dio vien concepito come l’antitesi della vita. Per sapere se i suoi
collocutori credono come lei nella vita la protagonista domanda loro se credono
in Dio: «se rispondono di credere in Dio, io so che non credono nella vita».

Il mobilismo ha una parte vera e una parte falsa. La parte vera è la


descrizione della esistenza del finito come divenire, caducità, trapasso,
inappagamento, proiezione. Questo mondo della fuga è ben conosciuto nella
religione e nell’ascetica cristiana. La parte falsa è che la diveniente realtà del
finito non sia destinata a un Infinito indivenibile e appagante, e che non ci sia per
l’uomo che l’infinito del divenire cui è negato di giammai uscire a un infinito
indivenibile e perfetto. Il mondo della fuga quale mostra all’uomo la religione è
dipinto mirabilmente in Confess., IV, 10 e 11 da sant’Agostino che ne scopre
l’essenza nel deficit ontologico. Le cose del mondo fuggono e l’animo, «che
vuole stare e dimorare con le cose che ama, viene travolto e lacerato dal moto
delle cose in fuga, alle quali si attacca col glutine dell’amore». Ed è lacerato
perché le cose fuggono ed egli le vorrebbe rattenere e fermare, ma non trova
l’ubi di tale fermata: «in illis enim non est ubi, quia non sunt». Delle cose in
moto non si può infatti dire in nessun momento del moto che esse sono, perché
sono sempre in procinto di essere, in transito ad essere, mai adagiate nell’essere,
sempre in fieri e mai in facto esse. Perciò mentre l’anima ha il sentimento
fondamentale dell’essere e agogna alla realtà totale, dovrebbe volere la fuga,
cioè la devoluzione totale della realtà nel divenire e la serie interminata dei
successivi momenti divenienti. L’anima al contrario non vuole l’infinità
successiva delle cose che fuggono, ma vuole l’infinità simultanea dell’attimo,
cioè, in altri termini, vuole un momento in cui siano aggregati e unificati tutti i
momenti passati e tutti i momenti futuri. Ma questa aggregazione e unificazione
è la definizione dell’eternità: «tota simul et perfecta possessio».
Qui batte la parola del dottor Faust di Goethe all’attimo fuggente: «Verweil
doch! du bist so schön!». Le parole esprimono il contraddittorio desiderio che il
momento (radice di movere) si fermi e che il fuggevole non fugga, il finito sia
infinito, il parziale la totalità. Se la vita è puro divenire ed è falso il supposto
della religione che cioè «anima esse vult et requie scere amat in eis quae
amat»267, allora soltanto il divenire dà la realtà e soltanto la devoluzione intera
del divenire (se si desse) darebbe la realtà intera. Se invece la realtà intera è non
un divenire, ma un essere intero e indivenibile, allora il divenire è solo la
maniera in cui la creatura partecipa dell’essere intero e vi accede.

161. Il mobilismo nella teologia neoterica. − Il mobilismo è penetrato negli


atteggiamenti pratici del clero e dei laici, avvezzi a stimare l’azione per l’azione
e a deprezzare il fine in cui l’azione riposa. Ma è anche penetrato nella teologia.
Nella mentalità del secolo il mobilismo si trova allo stato diffuso. Non vi si
riconoscono più i nuclei dottrinali che vi si sono diffusi. Questo stato diffuso si
può paragonare al colore di un panno impregnato di tintura che però il tintore ha
lasciato andar via e non se ne riconosce l’esistenza se non da quello che ha
lasciato nel panno. Ma il nucleo del mobilismo teoretico penetrato nella
mentalità cattolica si trova professato e solennizzato in un grande articolo di
prima pagina dell’OR, 3 marzo 1976, rilevantissimo per due capi. Impugna
infatti la dottrina dell’immutabilità della legge morale (conseguente al principio
metafisico dell’invariabilità delle essenze) insegnata da Paolo VI nella Humanae
vitae. Inoltre esso introduce la mutazione e il divenire fin nella stessa divina
essenza.

L’articolo mette in questione il fondo metafisico della teologia cattolica la


quale, concatenandosi a tutta la filosofia greca e nella linea platonica e nella
linea aristotelica, e consuonando alla tradizione ebraica, ha sempre riguardato
Dio come Essere perfettissimo la cui essenza è l’essere e che perciò è
immutabile e indivenibile (chi diviene non è e viene all’essere). Dio si
contrappone alla creatura di cui l’essere è imperfetto, diveniente, temporale. La
nozione filosofica di Dio combacia d’altronde con la nozione volgare che
respinge da Dio ogni ombra di imperfezione, di nonessere o di minus esse per
contemplare nell’Essere assoluto immensità, eternità, totalità.

La prima pagina del giornale vaticano contiene tutte le tesi del mobilismo
esistenzialistico inconciliabili con la fede cattolica e dalla fede cattolica sempre
rigettate.

«L’essere creato a immagine di Dio non fissa l’uomo in un immobilismo


essenziale ma lo consacra a un “farsi” a immagine di Dio. Onde la liceità della
manipolazione in bene della propria natura». Prescindiamo dall’osservare che
qui si dichiara lecita la manipolazione dei naturali processi generativi che la
Humanae vitae ha solennemente dichiarati illeciti. Ma qui si confonde inoltre il
farsi morale dell’uomo, che è la sua responsabilità, col farsi ontologico, che è un
assurdo. E si vede bene che il concetto della libertà umana tenuto dall’autore non
è quello cattolico, ma quello dell’esistenzialismo eterodosso. In fondo alla libertà
c’è secondo la dottrina cattolica una natura immutabile in conformità della quale
la libertà deve esercitarsi e che specifica l’atto della libertà qualificandolo: la
libertà non è creazione né tanto meno autocreazione268.

Più aperta è la reiezione della metafisica cattolica in queste parole che


rovesciano l’essere di Dio nel divenire: «La definizione di Dio come ens a se,
cioè come essenza attiva e dinamica che si autopone in essere, offre la chiave
per passare» ecc. «L’uomo, analogamente a Dio, crea sé stesso, appare anch’egli
un ens a se». Qui viene buttato a terra il concetto cattolico di Dio, che è ens a se
non perché si autoponga, ma perché è, non perché sviluppi la propria realtà in
una perpetua indigenza che viene perpetuamente colmandosi, bensì perché
possiede indeficientemente e improgredibilmente il proprio essere. Il Dio
tratteggiato dall’OR è il dio dei trascendentali alemannici, non il Dio del credo
cattolico, è il dio che dice ego sum qui fio, non il biblico che dice ego sum qui
sum.

Parimenti eterodosso è l’uomo del mobilismo qui annunciato. Si può invero


dire in retto senso che l’uomo crea la propria vita morale, essendo egli, per la
libertà, «in manu consilii sui» (Eccli., 15, 14), ma è un’enormità metafisica dire
che egli crea sé stesso e che egli è un ens a se. Anche prendendolo in senso
analogico, l’asserto non regge perché leva la diversità tra Creatore e creatura e
cade nel panteismo.
L’autore dell’articolo dice infine: «Questa natura è creata da Dio non come
realtà statica e come realizzazione, perfetta sin dall’inizio, di un’idea di Dio, ma
come realtà dinamica destinata ad autorealizzarsi nella dinamica della storia».
Qui ci sono cose che non reggono. E primo si confondono, come già dissi, il
divenire morale dell’uomo e il divenire metafisico. Secondo, si prende il divenire
come autocreazione e, per usare la terminologia dell’idealismo gentiliano,
autoctisi, rifiutando tutta la filosofia dell’essere che ha sempre rifiutato alla
creatura l’attributo della creatività (Summa contra Gentiles, lib. II, cap. 21).
Terzo, si nega il Verbo, quello filosofico e quello teologico, cioè l’esistenza
eterna in Dio delle forme delle cose create e creabili. Si toglie via così quel
firmamentum che è il pensiero divino, generatore del mondo, del tempo e del
divenire, dal quale derivano l’immutabilità e l’assolutezza dei valori dell’uomo.
Chi nega il Verbo e le idee eterne, dice il Leopardi, nega Dio.

Concludendo sul mobilismo e stringendo la cosa nei suoi termini essenziali,


diremo che il divenire non deve essere dignificato sopra l’essere né il dinamico
sopra lo stabile, perché il divenire promana dal nonessere ed è il segno
dell’imperfezione. La creatura diviene in quanto non è e non ha in sé il principio
per sostenersi nell’essere. Le tocca assumere incessantemente le determinazioni
dell’essere che le mancano. Dio invece, che è l’essere determinatissimo,
possiede la totalità dell’essere con tutte le sue determinazioni in un’unità
semplicissima. La creatura cade di per sé stessa nel nonessere se non la sostiene
l’azione divina: il principio della stabilità le viene dal di fuori.

Il mobilismo è estraneo alla religione. Il compito della Chiesa non sembra


quello di secondarne e accelerarne il moto, bensì di fermare lo spirito dell’uomo
nel firmamentum veritatis e di arrestare la fuga: siste fugam (Seneca).

162. Il mobilismo nell’escatologia. − Il mobilismo che intacca l’essere divino


non può non intaccare quella partecipazione dell’essere divino che è la
beatitudine soprannaturale. Se la deità è in divenire, anche l’uomo deificato sarà
in divenire e lo stato finale dell’uomo sarà propriamente non uno stato ma un
perpetuo moto di ricerca. Questa tesi è esplicitamente professata dal padre
Agostino Trapè secondo il quale l’uomo troverà la propria integrazione nella
visione di Dio, «visione che si consumerà non in una, anche mirabile, staticità,
ma in una infinitamente dinamica ricerca del Sommo Bene. Nulla perciò tanto si
oppone a questo inesauribile cammino verso il possesso terreno e terminale di
Dio quanto ogni sorta di immobilismo». Non credo che la concezione statica
della beatitudine, che fu di tutte le scuole cattoliche, rappresenti la massima
elongazione dalla genuina escatologia e mi pare di avvertire contraddizione nei
vocaboli inesauribile cammino verso il possesso, giacché questi vocaboli
indicano un processo infinito di acquisizione che esclude il possesso269.

Ma la teoria del Trapè, già anticipata con ben altra forza filosofica dal
Gioberti nella Filosofia della Rivelazione, è erronea, perché, secondo la Chiesa,
la condizione dell’uomo comprensore differisce affatto da quella dell’uomo
viatore. Negare la differenza equivale a levar di mezzo quella speciale durata
diversa dal tempo in cui vive la creatura «liberata dalla vanità» cui è soggetta
(cfr. Rom., 8, 20-1). quella appunto del divenire e del nonessere. Equivale anche
a chiudere la creatura nella temporalità, fare della vita eterna una continuazione
del tempo, scancellare la trascendenza divina e insieme con essa anche la nostra
analogica. Dio non cerca sé stesso, ma si possiede, e similmente la creatura
beatificata non lo cercherà più, ma lo possiederà. Per questo rispetto la
concezione della vita eterna come infinita prosecuzione della vita nel tempo è
una regressione agli Elisii dei Pagani. Questi seppero immaginare la beatitudine
ultramondana solo come la continuazione imperturbata dei diletti del mondo.
Ovidio dipinge la beatitudine degli Elisii come «antiquae imitamina vitae»
(Metam., IV, 445). Nella catabasi dell’Eneide la beatitudine è giuochi atletici,
canti, musiche e persino merende su prati verdeggianti (Aen., VI, 656 sgg.). Il
mobilismo applicato all’escatologia induce dunque all’immanentismo pretto che
interna in Dio il divenire e che per di più leva la trascendenza del fine
proiettando in infinito la presente vita e disconoscendo il saltus a «novi caeli et
nova terra».
CAPITOLO XVIII LA VIRTÙ DELLA FEDE

163. Rifiuto della teologia naturale. Card. Garrone. Mons. Pisoni. − La


negazione della primalità del conoscere rispetto alla primalità della vita
esaminata al § 149 è penetrata dentro la Chiesa molto estesamente. La dottrina
dei preamboli razionali alla fede, che cioè «Dio uno e vero, creatore e Signore,
può essere conosciuto con certezza dal lume naturale dell’umana ragione»
(Vaticano I, DENZINGER, 1806) viene oggi dubitata, epocata, negata. Le virtù
soprannaturali di speranza e di carità perdono così la loro base diventando
categorie della vitalità. Attenendomi al criterio metodico che mi son prefisso,
proverò l’ecclissazione del senso razionale nella Chiesa, recando due sole
testimonianze, quella del cardinale Prefetto della Congregazione per
l’educazione cattolica (alias dei Seminari e degli Studi) e quella di un sacerdote
che, autorizzato dal suo vescovo, tenne per molti anni la rubrica così detta
teologica in uno dei più diffusi settimanali d’Italia.

Nel Congresso dei teologi italiani tenutosi a Firenze nel 1968 il cardinal
Gabriele M. Garrone faceva risalire la crisi della fede all’incapacità (cui però
sfuggì Teilhard de Chardin) di offrire all’uomo contemporaneo una nozione di
Dio che abbia senso per lui [cioè una nozione conforme al suo fastidio per la
ragionevolezza e per la verità]. Sua Eminenza ravvisava nella teologia cattolica
un soverchio di teoreticità, un’intemperanza della ragione, una sorta di
filosofismo. I termini precisi sono questi: «Au siècle dernier les théologiens
avaient été amenés à affirmer la capacité de la raison humaine à prouver
l’existence de Dieu... Les théologiens ont abandonné Dieu entre les mains des
philosophes. Nous devons reconnaître que nous nous sommes trompés, car nous
avons demandé à la philosophie ce qu’elle ne pouvait pas donner... Nous devons
retrouver les attributs de Dieu, non pas les idées abstraites de la philosophie,
mais les noms, les vrais noms de Dieu. Nous avons mission de prêcher non pas
des idées, mais la foi».

L’autorità della persona non prescrive al diritto di ogni fedele di confrontare


l’insegnamento dei particolari ministri con l’insegnamento della Chiesa
universale. Invero non sono i teologi ma la Chiesa stessa nell’esercizio del suo
supremo officio didattico che nel Vaticano I insegna solennemente la capacità
della ragione a provare l’esistenza di Dio. Perciò non basta dire «nous nous
sommes trompés»: bisognerebbe dire «l’Eglise s’est trompée». Certo il
circiterismo dottrinale e la debilità ragionativa non sono solo nel congresso di
Firenze. Certo il popolo di Dio parla oggi mezzo azotico e mezzo ebraico come
sotto Neemia (II Esdr., 13, 24). Eppure sarebbe la Chiesa sotto un asterismo
funesto se fosse ormai al punto di dire agli uomini: «credete a me che non credo
a me».

Il discorso del cardinale è riferito in ICI, n. 305 (1 febbraio 1968), pp. 12-3.
Avendo io domandato alla direzione di quel periodico se non fosse per avventura
caduto in errore nel riferire e avendo significato al cardinale stesso la domanda
da me fatta alla rivista, questi mi rispose: «Ce texte des ICI ne m’avait pas
échappé et j’ai pris avec les responsables le contact qui convient en leur
remettant le texte authentique de cette conférence. Je n’ai pas besoin de vous
dire que le ton était tout autre». La cosa essendomi parsa degna di prosecuzione
e avendo io insistito presso ICI perché pubblicasse il testo autentico, codesta mia
insistenza provocò un colloquio a Roma di due redattori della rivista con il
cardinale. Mons. Garrone dichiarò allora «préférer ne pas poursuivre
l’affaire»270.

Non occorre addentrarsi. Non si può però non vedere (basta leggere i testi)
che il parlare di mons. Garrone è la contraddittoria del Vaticano I come non
essere capace è la contraddittoria di essere capace. Superfluo poi far risaltare
che il tono, con diesis o bemolle che sia, non muta il tema musicale e che il
sentimento con cui si enuncia un giudizio non può mutare né il significato dei
termini né il valore del giudizio (§ 72). Superfluo similmente è rilevare la
scaturigine modernistica della sentenza cardinalizia, giacché è proprio del
modernismo fondare la credenza sopra un sentimento e un’esperienza del divino,
anziché su una preambola certezza razionale, e tenere che la ragione «nec ad
Deum se erigere potis est nec illius exsistentiam, utut per ea quae videntur,
agnoscere»271 (Enciclica Pascendi, DENZINGER, 2072).

Nel settimanale «Amica» del 7 luglio 1963 nella rubrica La posta dell’anima
mons. Ernesto Pisoni scrive: «La ragione umana può certamente da sola
dimostrare la possibilità dell’esistenza di Dio e provare quindi la credibilità
dell’esistenza di Dio». Questa posizione è proprio a puntino il contrario della
dottrina della Chiesa. La ragione infatti prova non soltanto la possibilità
dell’esistenza di Dio, ma la realtà di tale esistenza. Si può forse anche dire che
l’esistenza di Dio è possibile (ma sant’Anselmo scorge immediatamente
l’esistenza), e che sia possibile si prova mostrando che non implica
contraddizione. La non contraddittorietà è infatti la condizione della possibilità
di una cosa. Però la Chiesa non insegna che l’esistenza di Dio è possibile, ossia
non è assurda, sibbene che essa è reale. «L’esistenza di Dio non ripugna alla
ragione» dice mons. Pisoni non accorgendosi che così egli applica alle verità
naturali la tesi che si pone invece per le verità soprannaturali. Di fronte alle
verità naturali, le quali sono il suo proprio oggetto intelligibile, la ragione
apprende e vede. Di fronte invece alle verità soprannaturali la ragione non
apprende, ma ha per officio di dimostrare che non ripugnano alla ragione.

164. La virtù teologica della fede. − L’indistinzione tra la sfera


dell’intelligibile naturale e la sfera del sovrintelligibile porta con sé una
contraffazione della dottrina cattolica delle virtù teologali che ci tocca adesso
esaminare.

La ragione non può arrivare a dimostrare le verità soprannaturali, come la


Monotriade, l’uomo-Dio, la resurrezione della carne, la presenza reale
nell’eucaristia. Questi sono veri proposti per Rivelazione e apprensibili soltanto
per fede. Ma l’atto di fede non rimane privo, per quella impossibilità, del suo
carattere ragionevole: esso rimane sommamente ragionevole. La ragione infatti,
riconoscendosi finita, vede che al di là del suo limite possono esistere dei veri
conoscibili (perché è del vero la conoscibilità) ma non apprensibili per evidenza
razionale. A tali veri la ragione aderisce con un assenso; però questo assenso non
è prodotto dalla necessità logica dell’evidenza, bensì da una determinante
soprannaturale che è la grazia.

La fede è la virtù soprannaturale, propria della primalità del conoscere, per la


quale l’uomo, oltrepassando il proprio limite, assente a quel che non vede perché
sta oltre il limite. Secondo la dottrina cattolica dunque la fede è una virtù
dell’uomo, la quale risiede nell’intelletto, come la carità nella volontà, e la sua
possibilità, come già dicemmo, è una conseguenza necessaria della finitudine
dell’intelletto.

Il motivo della fede è da un lato il fatto della finitudine dell’intelletto (onde


tutte le scienze sono fondate sulla fede)272, dall’altro sull’autorità della parola
divina rivelata. Il fatto della Rivelazione è di rilevanza storica e riceve una
dimostrazione storica. L’autorità della parola divina è similmente un elemento
razionalmente conoscibile. Non è infatti sull’autorità di Dio che lo spirito umano
riconosce l’autorità di Dio (sarebbe un circolo vizioso), bensì da
un’argomentazione che trova l’autorevolezza della Rivelazione esaminando
analiticamente il concetto stesso di Dio. Ogni autorità, nel sistema cattolico, è
dunque un fatto della ragione perché, se la ragione si sottomette, è però la
ragione medesima che vede la necessità di sottomettersi. L’autorità divina poi è
criterio che prevale a ogni criterio. Le cose credute dal cristiano sono certissime,
perché il fondamento del crederle non giace in qualcosa della creatura bensì
nella verità del divino pensiero.

165. Critica della fede come ricerca. Lessing. − Per la teologia neoterica
invece la nota della fede anziché la stabilità dell’assenso è la mobilità della
perpetua ricerca. Si giunge a dire che una fede autentica deve entrare in crisi,
traversare la tentazione, lontanarsi quanto è possibile da uno stato di riposo. Si
giunge a proclamare desiderabile la moltiplicazione delle obiezioni che
stimolano «a rivedere e riconquistare di continuo le proprie certezze
dell’annuncio cristiano» (OR, 15-6 gennaio 1979).

Tale concezione dinamica della fede deriva prossimamente dal modernismo


per il quale la fede è funzione del sentimento del divino e le verità concettuali
elaborate dall’intelletto sono mutevoli espressioni di quel sentimento.
Remotamente poi deriva dalle filosofie trascendentali alemanniche che alzano il
divenire al di sopra dell’essere e per necessaria conseguenza il ripullulante
dubbio al di sopra della certezza, il cercare al disopra del trovare. È la mentalità
cui diede suggestiva espressione il Lessing nella parabola di Eine Duplik. «Se
l’infinito e onnipotente Iddio mi desse facoltà di scegliere tra il dono chiuso
nella sua destra, che è il possesso della verità, e il dono chiuso nella sua sinistra,
che è la ricerca della verità, io pregherei umilmente: o Signore, dammi di cercare
la verità, perché il possederla è soltanto per te»273.

La parte erronea di questa concezione sta nel prendere per umiltà una
disposizione d’animo che è invece di squisita superbia. Chi infatti alla verità
preferisce la ricerca della verità che cosa preferisce? Preferisce il proprio moto
soggettivo e l’agitazione vitale dell’Io a quel valore per fermarsi nel quale il
moto soggettivo gli è dato. Vi è insomma una posposizione dell’Oggetto al
soggetto e un presupposto antropotropico inconciliabile con la religione, la quale
vuole la sottoposizione della creatura al Creatore e insegna che così sottoposta la
creatura trova il proprio appagamento e la propria perfezione. L’errore per cui si
stima più la ricerca che il possesso della verità è una forma dell’indifferentismo.
Giovanni Paolo II lo ha trafitto in questi termini: «Indifferentismo verso la verità
è ancora di ritenere più importante per l’uomo cercare la verità che raggiungerla,
giacché questa in definitiva gli sfugge irrimediabilmente» (OR, 25 agosto 1983).
A questo errore consegue quello di «confondere il rispetto dovuto ad ogni
persona, qualunque siano le idee che professa, con la negazione dell’esistenza di una
verità obiettiva».

166. Critica della fede come tensione. I vescovi francesi. − La fede, si dice, consiste
in una tensione dell’uomo verso Dio. Tale dottrina è patrocinata nel documento dei
vescovi francesi dopo la loro riunione plenaria del 1968. A p. 80 il documento
ripudia espressamente la definizione della fede come adesione dell’intelletto alle
verità rivelate e ravvisa nella fede un’adesione esistenziale e un atto vitale:
«Longtemps on a présenté la foi comme une adhésion de l’intelligence éclairée par
la grâce et appuyée par la parole de Dieu. Aujourd’hui on en est revenu à une
conception plus conforme à l’ensemble de l’Ecriture. La foi se présente alors
comme une adhésion de tout l’être à la personne de Jésus-Christ. Elle est un acte
vital et non plus seulement intellectuel, un acte qui s’adresse à une personne et non
plus seulement à une vérité théorique... et de ce fait elle ne saurait être mise en péril
par des difficultés théoriques en détail». Poiché la fede è tale tensione vitale, essa
sussiste, indipendentemente da quel che si crede, purché sussista la tensione.
Tale dottrina si scosta dalla tradizione della Chiesa. Certo la religione è una
disposizione dell’intera persona e non soltanto dell’intelletto, ma l’atto di fede è
un atto che la persona fa specificamente mediante l’intelletto. Non si devono
confondere le primalità confondendo poi per necessaria conseguenza le virtù
teologali. La fede è una virtù dell’uomo del genere del conoscere, non del
tendere. La religione si integra sì di tutte tre le virtù teologali ma il suo
fondamento è la fede, non la tensione cioè la speranza. Che la religione si possa
riguardare in genere come un tendere a Dio, io non contendo. Che però consista
per sé in una tensione, è falso. Prima di tutto una tale tensione si confà a qualunque
esperienza religiosa del genere umano, compresa quella di chi adora sterchi e
scarabei e offre sacrifici umani. In secondo luogo tale tensione si confà al
titanismo, dove lo sforzo umano si volge non a riverire il Nume ma a sfidarlo e
abbatterlo. La tensione anzi si confà in sommo grado all’esperienza religiosa di
Satana il quale tendeva con tutte le sue forze a Dio, non per adorarlo, ma per
esserlo. La nota vera della religione è la soggezione e il principio che la costituisce
è il riconoscimento della dipendenza. Il principio della tensione è invece un principio
di autoposizione e di indipendenza.

167. Motivo e certezza della fede. Alessandro Manzoni. − Anche circa il motivo
della credenza religiosa i neoterici discordano dalla dottrina della Chiesa. Dicono
infatti che il motivo del credere è l’integrazione perfetta della persona umana e
l’interezza dell’appagamento ricercato dall’uomo. Questo motivo è legittimo e ben
riconosciuto dalla teologia cattolica, ma non già come motivo primo e
determinante, giacché il fine della religione non è l’appagamento dell’uomo, ma
l’adempimento del fine della creazione, il quale fine è Dio stesso. Qui la spinta
antropotropica del pensiero neoterico riappare. Il fine che Dio assegna all’uomo è
l a giustizia274, cioè l’adesione alla volontà divina, ma proprio in questo fine si
nasconde il fine che Dio si propone nell’assegnare all’uomo come fine la giustizia ed
è di condurlo alla beatitudine. Nella prospettiva dell’uomo il primum deve essere la
giustizia. La beatitudine consiste nell’essere perfettamente giusto, secondo la parola
di Cristo: «Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno satollati
[di giustizia]» (Matth., 5, 6). L’elemento soggettivo della beatitudine deve ridursi
affinché trionfi l’Oggetto.
Anche il fondamento della certezza di fede sta tutto fuori del soggetto. Questa
certezza è per il credente la più incrollabile delle certezze e supera l’inintelligibilità
della cosa rivelata e ogni condizionamento storico. Essendo la cosa rivelata tale
che la mente umana non può né trovarla né verificarla, la sola maniera possibile di
fondare quella certezza è di ricevere quel vero, puramente riceverlo senza mescolarvi
alcunché dal canto nostro, spostare insomma interamente dal lato del soggetto al
lato dell’Oggetto i motivi della certezza. La certezza infatti che il credente ha dei
dogmi della fede non si poggia sugli argomenti storicamente trovati della loro
verità e nemmeno, come già dissi, sulla confutazione delle obiezioni che si
oppongono ad esso. Essa poggia sopra un principio che oltrepassa tutte le
condizioni, tutte le presupposizioni e persino tutte le eventualità storiche.
Credere di fede cattolica è sapere fermissimamente che contro le verità credute
non vale argomento trovato o trovabile; è sapere che non solo sono insussistenti,
false e solubili le obiezioni accampate contro di esse, ma che saranno
insussistenti, false e solubili quelle che potranno essere accampate in tutto il
corso dell’avvenire in secula seculorum sotto qualunque estensione dei lumi del
genere umano.

«Avete voi esaminate» scrive il Manzoni275 «tutte queste obiezioni [contro la


Rivelazione]? Obiezioni di fatto, di cronologia, di storia, di storia naturale, di
morale etc. Avete voi discussi tutti gli argomenti degli avversari, ne avete
riconosciuta la falsità, l’insussistenza?... non basta questo per aver fede nelle
Scritture. È possibile, è purtroppo possibile che nelle generazioni avvenire... vi
avrà degli uomini i quali studieranno nuovi argomenti contro le verità delle
Scritture; frugheranno la storia... pretenderanno di avere scoperte verità di fatto
per le quali le cose affermate nelle Scritture abbiano ad apparir false. Ora voi
dovete giurare che questi argomenti che non sono ancora stati trovati, saranno
falsi, che questi libri che non sono ancora stati scritti, saranno pieni d’errore: lo
giurate voi? Se negate di farlo, convenite di non aver fede».

La fede dunque è una persuasione incrollabile che non ammette la clausola


rebus sic stantibus, non ammette cioè la clausola della storicità, e introduce
l’uomo nella sfera soprastorica e intemporale, quella del divino in sé in cui «non
est transmutatio nec vicissitudinis obumbratio» (Iacob., I, 17)276.
CAPITOLO XIX LA VIRTÙ DELLA SPERANZA

168. Ibridazione di fede e speranza. Hebr. II. Ragionevolezza delle virtù


soprannaturali. − L’abbandono della base intellettuale della fede scambiata con
una tensione viene ad alterare la natura della Rivelazione che non è più
scoprimento all’uomo di verità inattingibili dalla sua naturale forza intellettiva,
ma diventa una tensione o impulsione che sovratende le sue energie verso
l’infinito. La confusione s’innesta sopra la persuasione che l’adesione
intellettuale ai dogmi soprannaturali sia cosa facile o più facile che l’adesione
pratica. Ma in realtà quell’adesione intellettuale implica un superamento totale
della parte suprema dell’uomo e non può pareggiarsi alla facile adesione ad
oggetti imaginari come nella mitologia. Essa involge un saltus al soprannaturale
ed è un atto che tutta la persona fa con l’intelletto. La fede possiede quindi una
profondità metafisica che la pareggia alle altre due virtù teologali della speranza
e della carità.

Ma poiché il pensiero moderno prende la fede come una tensione, propende a


fare della fede una forma di speranza, sofisticando l’ordine delle primalità e
traslocando la fede dall’ordine conoscitivo all’ordine appetitivo.
L’equivocazione della speranza con la fede discende dall’esistenzialismo e crede
di trovar suffragio nella stessa definizione paolina di Hebr., II, I, tradotta da
Dante in Par., XXIV, 64-5: «fede è sustanza di cose sperate / ed argomento de le
non parventi». Tutti i Padri e gli Scolastici intesero rettamente che la fede è
sostanza (ὑπόστασις) ossia substrato e fondamento della speranza: le cose
soprannaturali che si sperano hanno come principio e substrato le cose
soprannaturali che si credono. La fede è sostanza sostanziante la speranza e non
sostanziata di speranza. Si spera il paradiso perché lo si crede e non è che si
creda perché lo si speri.

Ma i moderni hanno volentieri invertito l’ordine e fatto la fede figlia della


speranza mentre al contrario la speranza è figliata dalla fede. L’uomo (dicono)
prima si lancia con la speranza verso un suo mondo di valori e poi quei valori
sperati li fa oggetto di credenza e di certezza. Lo stravolgimento della fede in
isperanza si è infiltrato nei documenti dei Sinodi nazionali con definizioni
stravaganti che sentono di vaniloquio come, per esempio, quella proposta al
Sinodo ticinese dove «la fede è dire a sé stessi e a Dio la propria speranza»,
formula che se non fosse indizio della déconfiture dottrinale e del distacco dalla
tradizione teologica potrebbe prendersi come alterazione officiosa (il Sinodo era
presieduto dal vescovo) del rapporto tra fede e speranza.

Si può forse dire che la fede è esperienza di Dio e lo dissero in senso non
retto i modernisti, dimenticando che esperienza di Dio non si dà in questa vita
che per grazia particolare la quale fonda la teologia mistica. Ma lo si può dire, se
si prenda l’esperienza in senso lato di atti consaputi e verificabili, quali sono tutti
gli atti conoscitivi. Anche Giovanni Paolo II, parlando ai teologi, insegnò che
«l’uomo trascende i limiti della conoscenza puramente naturale e fa
un’esperienza di Dio che gli sarebbe altrimenti preclusa». Ma spiegò subito
dopo, richiamandosi a san Tommaso, che l’esperienza di fede è un fatto
essenzialmente intellettivo: «l’uomo può raggiungere una qualche intelligenza
dei misteri soprannaturali grazie all’uso della ragione, ma solo in quanto essa si
appoggia sul fondamento incrollabile della fede, che è partecipazione alla
conoscenza stessa di Dio e dei beati comprensori» (OR, 17 ottobre 1979). Ora
chi dirà che l’uomo mentre è in via ha l’esperienza dei beati comprensori?

In conclusione la precessione della fede alla speranza appartiene al fondo


della religione cattolica che è la ragionevolezza. Tutte le virtù teologali infatti
sono motivate e il motivo che cos’è se non una ragione? Il carattere di atto
motivato appariva nelle formule oggi disusate degli atti di fede, speranza e
carità, cui si aggiungeva l’atto di pentimento, che furono insegnati nel
catechismo e praticati quotidianamente nella vita cristiana. Si crede alla
Rivelazione perché Dio esiste ed è verace. Si spera l’eterna salvezza e il perdono
dei peccati perché Gesù Cristo ce li ha meritati e sostiene il nostro volere. Si ama
Dio perché è infinito bene infinitamente amabile e si ama il prossimo, che non è
infinitamente amabile, perché si ama l’infinitamente amabile che ha fatto per
amore il non infinitamente amabile. Infine si prova dolore e pentimento dei
peccati perché si è offeso Dio e perché lo si è perduto come felicità.

La ragionevolezza signoreggia tutti gli atti della religione cattolica che non si
appoggia mai sull’uomo, creatura e dipendente, ma su Dio e sull’indipendente277.
CAPITOLO XX LA VIRTÙ DELLA CARITÀ

169. La carità nel concetto cattolico. − Il richiamo alle formule


teologicamente vigilatissime e perfette degli Atti di fede, speranza e carità, che si
frequentavano un tempo, ci introduce al concetto di carità che tende oggi ad
assorbire e la fede e la speranza in un’unica tensione.

Certo, il primato della carità proclamato in un celebre luogo da san Paolo (I


Cor., 13, 13) è riconosciuto da tutta la teologia, sia nelle scuole intellettualistiche
sia in quelle volontaristiche, ma non già perché le altre due virtù teologali si
riducano formalmente alla carità e perdano in essa la loro essenza specifica, ma
perché, come spiega san Tommaso in Summa theol., II, II, q. 23, a. 8, la volontà
ha il vantaggio di portarsi nell’oggetto voluto e trasferire per così dire il soggetto
nell’oggetto. L’intelletto invece riceve l’oggetto e porta per così dire l’oggetto
nel soggetto: «operatio intellectus completur secundum quod intellectum est in
intelligente». La fede, virtù intellettiva, attinge Dio con un assenso a cose non
vedute, la speranza lo attinge con l’aspettazione di Dio non posseduto, ma la
carità attinge Dio «ut in ipso sistat». Già in questa vita Dio è amato ed è come
amato che lo si attinge.

Per questa ragion di mezzo che le caratterizza fede e speranza sono caduche,
mentre «Caritas nunquam excidit» (I Cor., 13, 8). La fede cessa quando Dio è
veduto e la speranza quando è raggiunto, mentre la carità si continua nello stato
escatologico, soltanto svestendo l’imperfezione che ebbe nella vita del tempo.

Ma l’eccellenza della carità deriva oltre che dal non essere mezzo, ma atto
dell’uomo che si termina e si eterna in Dio, anche da una ragione teologica più
profonda. Gli enti finiti, in quanto sono nel pensiero di Dio, non possono non
essere, l’ordine ideale essendo una processione naturale interna all’essenza
divina. Questa rosa, per esempio, potrebbe non essere, ma l’idea di questa rosa è
impossibile che non sia; Martino poteva non essere, ma l’idea di Martino non
già. Le cose reali invece, col loro atto di esistenza, potrebbero non essere e
soltanto dall’amore divino son fatte essere.

La profonda verità è cantata stupendamente da Dante in Par., XXIX, 13 sgg.:


«Non per avere a sé di bene acquisto (ch’esser non può), ma perché suo
splendore potesse risplendendo dir subsisto, / in sua etternità, di tempo fore /
fuor d’ogni altro comprender, come i piacque, / s’aperse in nuovi amor l’etterno
amore». La creatura procede dalla carità divina senza della quale essa sarebbe sì
in Dio, ma non in sé. Tuttavia è chiaro che anche questa eccellenza della carità
creatrice non rimuove la precedenza dell’Idea, cui appartiene un’eccellenza di
altro genere, giacché è più essere necessariamente (benché solo in idea e in Dio)
che essere contingentemente come il mondo che in verità è qualcosa per
accidens.

Né soltanto è la carità la più eccellente delle virtù, ma è propriissima del


cristianesimo, giacché i Pagani non conobbero quasi né amore di Dio per il
mondo né amore dell’uomo per Dio. Aristotele nell’Etica a Nicomaco nega, per
la trascendenza dell’uno sull’altro, poter essere amicizia tra Dio e l’uomo e
Platone nel Simposio lo nega parimenti, perché l’amore è figlio di Penìa e
implica indigenza.

Questa eccellenza dell’amore viene contraffatta dalle correnti neoteriche.


Come aboliscono il logico in favore del vissuto, così aboliscono la legge in
favore dell’amore e in tal modo, la legge essendo la struttura della moralità e
della religione, vengono a ridurre la Chiesa stessa a fermento d’amore.

170. La vita come amore. Ugo Spirito. − Nell’opera di Ugo Spirito La vita
come amore questa risoluzione di tutti i valori, e massime dei logici, nella
categoria dell’amore è teorizzata con coerenza inflessibile e qualificata come il
tramonto della civiltà cristiana, troppo signoreggiata dal Logo. La tesi dello
Spirito implica infatti, come dicemmo già tante ma non troppe volte, la
negazione del Verbo, cioè dell’organismo triadico, cioè di Dio. L’autore sostiene
che il Logo sia incompatibile con l’agape e che si possa giungere all’amore
soltanto eliminando la dualità e opposizione di bene e male e conseguentemente
il giudizio di valore da cui l’opposizione è espressa. Per poter amare occorre
un’acrisia assoluta che levi ogni discretio spirituum e che degradi insomma il
principio di contraddizione in forza del quale il male non è il bene e deve essere
odiato, mentre il bene va amato. Secondo Ugo Spirito la crisi del mondo è
propriamente e formalmente effetto del giudizio onde l’uomo è diviso tra valori
e disvalori, tra cose amabili e cose odibili.

La profondità metafisica e veramente principiale di questo amore assunto


come il trascendente in cui tutto si fa uno, non può certo sfuggire. In realtà
l’amore sarebbe possibile soltanto nella nullità dei valori. Ma vi è intrinseca
contraddizione nel dire che una cosa è amabile perché non può essere giudicata
amabile. Il circolo vizioso è l’identico circolo vizioso del pirronismo: se si
supera la distinzione tra l’amabile e l’odibile per forza di amore, occorre ancora
quella distinzione per scegliere come amabile la indistinzione: utcunque
philosophandum est.

È superfluo osservare che la teoria della vita come amore aborre da giudizi
assoluti e perciò rigetta il giudizio assoluto che nell’etica chiamasi inferno. E
questo non perché si dica che tutti sono salvati, i giusti dalla giustizia e i malvagi
dalla misericordia di Dio, ma perché virtù e crimine sono uno nell’amore che si
situa al di là di ogni contrapposto278.

171. L’amore e la legge. − Come nell’infinito lo Spirito Santo procede dal


Verbo e nella creatura spirituale la volontà dall’intelletto, così la negazione di
quella processione importa l’assorbimento della legge nell’amore. L’uomo
avente la carità è libero dalla legge la quale è presa unicamente come ordine
obbligante e coercitivo. Anzi si contrappone la legge allo spirito e se ne fa il
carattere dell’uomo antico e il contrario del Vangelo. La dottrina cattolica
viceversa insegna che l’amore contiene l’obbedienza alla legge e modella la
volontà sull’ordine della legge. Le parole di Cristo in Ioann., 14, 15, sono
irrefragabili: «Si diligitis me, mandata mea servate». Se non fosse la legge, come
si manifesterebbe l’amore? L’amore non scioglie la legge, ma la adempie, come,
metafisicamente, la volontà suppone l’intelletto e, teologicamente, lo Spirito
Santo suppone (se è lecito dirlo) il Verbo.
Anzitutto conviene osservare che la legge cristiana di grazia non meno che la
legge morale naturale costituisce un principio di obbligazione, poiché il Vangelo
è una nuova legge, ma una legge, un comandamento nuovo, ma un
comandamento. La legge ha carattere coattivo, perché una duplice sanzione la
munisce: quella immanente dell’interiore rimprovero e, trascurando le altre,
quella della ricompensa escatologica. Non è punto fondato il rifiuto dello ius
come incompatibile con la morale, giacché lo ius è una replica del morale. Che
se san Paolo dice che «lex iusto non est posita» (I Tim., I, 9) e che gli uomini
viventi senza Rivelazione nella pura moralità naturale «ipsi sibi sunt lex» (Rom.,
2, 14) queste parole, secondo l’unanime tradizione cattolica, non insinuano che
al giusto non è data la legge, ma che non gli è imposta. Il giusto si appropria per
amore la prescrizione della legge, e questa non gli rimane più estrinseca, ma è
adottata interiormente. Allora la necessità che permane di osservarla si muta in
libertà. Questa filosofia che interiorizzando la legge le toglie la coattività è di
derivazione stoica, ma è nell’etica cristiana il carattere peculiare della legge di
grazia. San Tommaso nel commento a Rom., 2, lect. in, insegna che il grado
supremo della dignità umana consiste nel muoversi al bene per impulso proprio;
il secondo grado sta nel muoversi al bene per impulso altrui ma non forzati e
l’infimo (ma ancor grado di dignità) nell’aver bisogno della coazione. In tutti i
gradi tuttavia l’obbligazione della legge è la causa ultima della volontà, cioè
dell’amore. E si badi bene. Non è la legge che s’interna all’uomo e vien
ricondotta all’uomo, bensì l’uomo alla legge, penetrante e modellante la volontà.
Il primum è la legge, non l’uomo. Infatti, come insegna sant’Agostino nel De
spiritu et littera, lib. I, cap. XXX, 52 (P.L., 44, 233), la legge non viene eliminata
ma confermata dalla libertà e il caput della vita umana è fuori dell’uomo:
«vitium oritur cum sibi quisque praefidit seque sibi ad vivendum caput facit»
(ivi, cap. XII, II, P.L., 44, 206)279.

Il discorso circa la preminenza della legge sull’amore e dell’amore sulla


legge avvia al discorso sopra l’attacco portato nella Chiesa postconciliare
all’esistenza e all’assolutezza della legge naturale, fondamento della vita morale.
L’attacco fu portato variamente: impugnando l’esistenza stessa di un’immobile
principio per sostituirvi la morale di situazione o il principio di globalità o
quello di gradualità. Il concetto di destinazione individuale fu abbassato sotto
quello della salvezza comunitaria.

172. La negazione della legge naturale. Sartre. − Questa negazione discende


dalle deviazioni che abbiamo lumeggiate, e massime dal pirronismo e dal
mobilismo irrompenti nella Chiesa (§§ 148 sgg. e 157 sgg.). L’assalto condotto
da tutte le parti contro il diritto naturale è palese nella piega generale della
legislazione delle nazioni europee con l’adozione del divorzio, dell’aborto, della
sodomia derubricata dalla categoria dell’illecito. Questo è il segno più
irrefragabile e più formidabile della corruzione di civiltà che viene operandosi
nel presente articulus temporum. Qui però noi ci prefiggiamo solo di lumeggiare
brevemente le moderne teoriche distruttive della legge naturale e di provare che
esse importano un radicale rifiuto delle essenze.

Lasciamo in disparte la perversione sartriana che, non paga di misconoscere


l’esistenza della legge naturale, la inverte (contraddittoriamente invero) e si
configura come una vera iustificatio diaboli o diabolodicea opposta alla teodicea
tradizionale. È la celebrazione della volontà incondizionatamente malvagia, non
cioè la volontà che per il radikal Böses svia contingentemente dalla legge
morale, bensì la volontà che ha per struttura fondamentale l’intenzione di fare il
male. Non è dunque eversione della legge (questa si limiterebbe a disconoscere
l’antitesi di bene e male e l’imperatività del bene), ma è propriamente
un’inversione, perché il male come male (e non come indifferente) è il
determinativo e l’ideale della volontà. Questa indipendenza totale dalla legge
scambia la libertà con il delirio (in senso etimologico) e l’autonomia
coll’anomia: «O male, sii tu il mio bene!» proclama Satana nel Paradiso perduto
di Milton.

Non pochi teologi cattolici professano280 che il divieto dell’aborto sia non
un’esigenza immutabile della legge morale, bensì un’esigenza della legge
evangelica e che questa non possa imporsi alla società civile fondata sulla libertà
di opzione per i valori.

Contro le dottrine che inforsano la saldezza della legge naturale si levò Paolo
VI (OR, 31 agosto 1972): «La norma morale, nei suoi principii costanti, quelli
della legge naturale e anche quelli evangelici, non può subire cambiamento. Noi
ammettiamo però che essa possa soffrire incertezze per quanto si tratta
dell’approfondimento speculativo di tali principii ovvero si tratta del loro
sviluppo logico e delle loro applicazioni pratiche». Il Pontefice ripropone la
dottrina classica della grande tradizione filosofica greco-romana e della teologia
cattolica da sant’Agostino al Rosmini, e quasi negli stessi termini. La norma
morale è assoluta essendo un’espressione dell’ordine eterno delle essenze
presente alla divina ragione: «lex naturalis est participatio legis aeternae et
impressio divini luminis in creatura rationali qua inclinatur ad debitum actum et
finem» (Summa theol., I, II, q. 91, a. 2).

173. Richiamo della dottrina cattolica. − La teoria cattolica della legge


naturale si racchiude in queste tre proposizioni. Prima: la legge naturale è un
ordine assoluto inerente all’Assoluto ontologico. Seconda: la legge naturale è
immediatamente conoscibile nella struttura della creatura razionale. Terza: la
legge naturale contiene la qualificazione di tutti gli atti umani possibili e tale
qualità è riconosciuta da una scienza pratica. Questa scienza pratica ciascun
operante la segue nelle proprie scelte morali, ma essa si costituisce anche in un
corpo sistematico che è la casistica.

La legge naturale dunque è un dettame della ragion pratica, cioè della ragione
giudicante il dover essere delle azioni umane, e sta in parallelo con la ragion
speculativa giudicante l’essere delle cose (Summa theol., I, II, q. 94, a. 2). Perciò,
come dai principii della ragione speculativa si deducono tutti i veri particolari
circa le cose non agibili, così dai principii della ragion pratica si deducono tutti i
giudizi sulle particolari cose agibili; e come in quelli così in questi intervengono
possibilità di errore a mano a mano che il processo deduttivo si allontana dai
principii ed entra nella complicatissima e variegata regione dei fatti contingenti.
La teologia cattolica ha infatti sempre distinto tra le deduzioni prossime che si
traggono dai principii e che sono certe, e le deduzioni remote che tanto più
decrescono in certezza quanto più si allontanano dai principii. Paolo VI nel
citato discorso ripropone questo insegnamento. V’è qualcosa di indefettibile e
incrollabile nell’imperativo morale e v’è qualcosa di mutevole nel mondo delle
azioni umane che devono essere modellate sull’assoluto dell’imperativo morale.
Questa conformità è spesso difficile da riconoscere ed è sempre difficile da
volere. Ma è chiaro che la difficoltà di una conoscenza non leva la assolutezza e
la validità del suo oggetto.

174. Maestà e vilipendio della legge naturale. − L’assolutezza, il tremendum


e la maestà della legge naturale toccò al nostro secolo rovesciarla in frivolezza di
pura opinione e in insania irragionevole per il tabù. Il mondo greco celebrò
altamente l’inviolabile, immobile, non nata e indefettibile legge. Nell’Edipo re
essa «cammina in excelsis» (ὑψίποδες νόμοι, 865-6) e l’oblìo non l’addormenta
(μήποτε λάθα κατακοιμασῃ, 870). Nell’Antigone «non oggi o ieri vige ma
eternamente vive» (456). Non meno alta è l’esaltazione della legge della
coscienza in Seneca, Ad Helviam, 8, per il quale la retta coscienza e lo spettacolo
della natura sono le due cose più belle sotto del cielo. Né occorre richiamare il
celebre luogo di Kant nella conclusione della Critica della ragion pratica: «Due
cose riempiono l’animo di ammirazione e di venerazione sempre nuova e
crescente, il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me».

La maestà della legge morale procede dal suo indefettibile vigore che si
identifica in Dio con l’essere di Dio. Essa ne partecipa il carattere di
intemporalità e di assolutezza ed è estranea affatto all’idea di creazione. La legge
naturale infatti è ingenita come Dio e la tradizione teologica della Chiesa ha
sempre escluso che essa sia una creazione: il mondo è creato, ma la legge morale
è increata. È vero che la scuola volontaristica culminante in Guglielmo di Occam
vuole che anche la legge naturale sia un effetto creato contingente ma,
nonostante le interpretazioni attenuative, una tale dottrina rende contingente la
moralità e in sostanza la leva di mezzo. Si può infatti secondo Occam supporre
senza contraddizione un altro ordine morale, liberamente voluto da Dio come
questo, nel quale il bene fosse il male del presente ordine. L’assolutezza importa
invece che l’azione malvagia sia malvagia non pure in questo mondo creato, ma in
qualunque mondo possibile. La legge naturale è dunque impersonale, non già nel
senso che essa non riguardi la persona: la riguarda in sommo grado, ma appunto la
riguarda e non è un’emanazione di essa.

Ora il fondamento ontologico della legge morale è attaccato dalle correnti


teologiche neoteriche che tentano di negare l’anteriorità della legge all’umano volere
e la tirano alla creatività del soggetto. La XII Settimana biblica nazionale tenuta a
Roma nel 1972 ebbe come scopo confessato di «rinnovare la teologia morale non
solo nel metodo espositivo, ma anche nei contenuti» e professò di voler «dare
un’autentica impostazione della morale». Sostituendo un enorme circiterismo
semifilosofico e semipoetico alle solide definizioni della Chiesa, essa sostenne che
«la religione cristiana prima di essere dottrina è presenza del giorno del Signore
risorto testimoniata con autenticità ecclesialmente» (OR, 1 ottobre 1972). La
definizione è viziosa, perché la religione non ha radice nell’esperienza soggettiva di
una presenza, ma nell’assenso a fatti e parole oggettive. Non è d’altronde vero che
il male consista «nel rompere la tensione escatologica della persona nella storia
della salvezza» (OR, 27 settembre 1972). È bensì vero che la rompe, ma non è
male perché rompa la proiezione della persona verso il futuro, ma perché viola il
rapporto tra natura e natura, tra finito e infinito, che è indipendente dalla sequela
temporale. Per di più la Settimana inforsa anche la fissità della legge naturale giacché
distingue con terminologia inusitata ed ambigua morale trascendentale e morale
categoriale e moltiplica le etiche del Nuovo Testamento, molti precetti del quale
sarebbero di derivazione puramente storica. Infine la svalutazione del precetto è
formulata esplicitamente: «Non si tratta prevalentemente di osservare una serie di
precetti, ma di sottomettersi alla verità di Cristo, cioè di vivere nella fede
profonda» (OR, 30 settembre e 1 ottobre 1972). Non si vede l’utilità di sostituire a
idee e vocaboli precisi idee circiterizzanti e vocaboli anfibologici come qui si fa.
Questa posizione ritorna alla posizione della teologia cattolica, se si intende dire
che è la fede che opera mediante la carità e se non si rifiuta di riconoscere che lo
spirito di Cristo sono i precetti di Cristo, giacché Cristo comanda le opere e lo
spirito, cioè le intenzioni delle opere.
CAPITOLO XXI LA LEGGE NATURALE

175. La legge naturale come tabù. Card. Suenens. Hume. Critica. − La


mutabilità della legge naturale, che è un luogo comune della teologia
neoterica281, non può scompagnarsi dal tentativo di ridurla a puro abito opinativo
irragionevole togliendole l’assolutezza e l’intemporalità. Il vocabolo tabù, preso
dall’etnologia e indicante la degradazione estrema dello spirito che prende una
cosa inanime come sacra e inviolabile, è stato adottato sia dalla pubblicistica
profana sia da vescovi e teologi. Il cardinal Suenens per esempio in una lettera
pastorale sulla sessualità (OR, 21 luglio 1976) tace affatto del fine procreativo
del matrimonio, che è di legge naturale, e dichiara che «una sana evoluzione ha
sbloccato certi tabù e ha reso più naturali e vere le relazioni tra uomo e donna».
Ma in generale ecco che le virtù morali vengono precipitate dal grado che
tengono nell’etica cristiana al grado di false persuasioni e di superstizioni. Quelli
che paragonano la legge naturale ai tabù non si accorgono che negare la legge
naturale è negare l’essere e cozzare contro il principio di contraddizione.
L’essere infatti esiste con la sua propria consistenza e resiste alla forza che
l’uomo esercita sopra di esso per dislocarlo, deformarlo, ridurlo al nonessere. Il
medesimo si deve dire della legge naturale che è l’ordine dell’essere. Il padre
moderno della dottrina è Davide Hume nel Saggio sulla giustizia dove afferma:
«La stessa specie della superstizione si potrebbe applicare alla giustizia con la
sola differenza che la superstizione è frivola, inutile ed opprimente, mentre la
giustizia è utile ed assolutamente necessaria per il benessere della società». Ma
«in realtà si deve confessare che tutti i riguardi che si hanno per il diritto e la
giustizia sono completamente privi di fondamento»282. Quell’avverbio
assolutamente e quel predicato completamente privi di fondamento sono nel
testo dello Hume troppo vicini e l’oblìo non fa a tempo a produrre quell’oscurità
in cui possono coesistere i contraddittori! Comunque, non si può spegnere la
potenza logica dell’uomo e persuaderlo ad ammettere la contraddizione
affermando insieme che una cosa è necessaria (cioè non può non essere) e che è
priva di fondamento ad essere. Bisogna non indietreggiare, e dopo aver detto che
la proprietà, il pudore, l’obbedienza sono tabù, bisogna dire che lo sono anche
l’affetto paterno, filiale, coniugale e la ripugnanza alla sodomia, all’antropofagia
e alla necrofilia. Lo si dice infatti, e va imbevendosi di un tale sentimento
l’intera società civile con il divorzio, la sodomia e l’aborto.

176. La legge come creazione dell’uomo. Duméry. − L’attacco alla legge


naturale torna al conato del pensiero moderno di cancellare la differenza tra le
essenze e di togliere di mezzo la dipendenza del dipendente. Contro l’assoluto
del Legislatore divino di cui Victor Hugo diceva: «il est, il est, il est
éperdument», insorge la libertà del soggetto per disfare e rifare le essenze.
L’attacco torna anche alla filosofia della rivoluzione, giacché questa è
insurrezione dell’uomo contro ogni legge scaturiente da una natura o essenza.
Come vuole Sartre, non esiste natura umana ma solo continuo disfacimento e
rifacimento dell’uomo a opera dell’uomo. Il principio cattolico nega all’uomo di
creare, anche secondariamente, e gli riconosce di educare e attuare le virtualità
della natura creata. L’uomo possiede, fruisce e lavora la propria natura e le cose
del mondo, ma non trasforma le essenze: gli è comandato di obbedirle. Il
principio della rivoluzione invece è il rifiuto e l’attentata distruzione. «La nature
des choses, voilà l’ennemi. L’homme qui fait son métier d’homme est celui qui
refuse de s’y soumettre». Questa formula è ammirabile: vede in profondo che la
religione è conoscere e riconoscere l’ordine delle essenze, mentre l’irreligione è
Beelzebub, cioè «il senza giogo». Se però la citazione esprime la dottrina di un
movimento radicale fuori della Chiesa, la profundior intentio (come diceva san
Tommaso) della corrente appare nell’opera di Henri Duméry che tiene
espressamente per la creazione umana di valori283. I valori sono una creazione
del Cogito la cui attività è posizione di essenze in senso assoluto. Secondo
l’autore l’uomo possiede una creatività assiologica, ossia una capacità di creare
dei valori vivendoli. Con ciò l’autore non intende la capacità dello spirito di
vivere nell’esperienza morale valori che sono dati nell’intelletto e che egli in
qualche modo fa di nuovo essere, liberamente riconoscendoli. Se questo egli
intendesse, rientrerebbe nella dottrina comune che dà come compito dell’umana
persona di fare emergere i valori della legge dentro la propria libertà. L’autore
intende invece di una vera e propria creazione di valori. «La loi est celle du
rapport de l’esprit à l’Absolu, de son retour à Dieu. Mais cette loi est posée par
l’acte spirituel lui même qui tire de l’Absolu la force de se faire, de se donner un
monde d’essences, un horizon des valeurs. Dès lors il est bien vrai que l’esprit
dérive de l’Absolu et que les valeurs dérivent de la loi immanente à l’acte... Mais
il n’est pas vrai que les valeurs soient préformées dans l’Absolu, ce qui
supprimerait tout pouvoir producteur de la liberté humaine».

La tesi implica l’indipendenza del dipendente284, cioè la facoltà dello spirito


creato di creare, così creato, un mondo di valori. Tale mondo non è secondario e
partecipato dall’Idea divina increata: è un mondo originale veramente primo di
valori non preformati in Dio. È la teoria, rigettata radicalmente da san Tommaso,
della creatura creata come capacità di creare. L’ente dipendente opererebbe come
indipendente senza presupposti né di efficienza né di esemplarità.

Non sto a lumeggiare l’affinità di questa posizione con la posizione


molinistica nello specifico problema della grazia. In ultima analisi si tratta
sempre di riservare alla natura almeno una frazione di indipendenza: Molina
mette indipendenza nell’autodeterminazione della volontà, non però la spinge
fino alla creazione di valori, mentre la teologia neoterica, ben più che la
posizione di un atto, assegna allo spirito umano la creazione di valori. Si può
dire che in quanto morale l’uomo è a sé stesso Dio.

177. Rifiuto della legge naturale ad opera della società civile. − La


negazione del diritto naturale non pure nei filosofemi e nei teologumeni dei ceti
pensanti, ma nel costume e nella legislazione dei popoli, costituisce la rotta
generale del sistema cattolico. Le nazioni cristiane che perfino sotto regimi
avversi alla Chiesa regolavano matrimonio e famiglia sulle massime della
giustizia naturale, vanno scindendo diritto individuale, diritto famigliare e diritto
sociale dai principii religiosi in cui quelle massime sono contenute e fondate. I
codici che furono per secoli, in questa parte, una replica del diritto canonico si
sono interamente emancipati e vanno conformandosi per intero al principio
dell’indipendenza della vita umana. Questo appare nell’universalità del divorzio,
nella liceità e quasi obbligatorietà dell’aborto (per gli ostetrici) e nella
legalizzazione della sodomia. Gioverà indagare brevemente il pensiero
postconciliare in ciascuno di questi tre punti.
Conviene peraltro rilevare in limine un tratto assolutamente nuovo della
variazione intervenuta. I tanti cangiamenti registrati nelle storie sia nel dominio
politico in questo o quel paese, sia nell’interno reggimento politico di ciascuno,
sia perfino nella religione di intere nazioni, dipesero infinite volte dall’arbitrio di
un monarca o dalla volontà violentemente attiva di minoranze e minimanze.
Intendere quei cangiamenti come effetto dei moti d’anima e delle persuasioni
delle moltitudini sarebbe cadere in sofismi. L’adozione da parte degli Stati
contemporanei del divorzio e dell’aborto esprime al contrario un consenso
generale. Le leggi infatti, che un tempo erano la persuasione di pochi promulgata
per tutti, oggi, in conseguenza dei reggimenti popolari instaurati dappertutto,
sono invece il decreto e il sentimento e insomma la filosofia di un’intera
nazione. Per questa ragione, come disse profondamente Carlo Caffarra (OR, 12
luglio 1978), l’adozione dell’aborto nelle legislazioni di popoli lessicalmente
cristiani ha portato alla suprema chiarezza il disfacimento della nostra civiltà
degradandola, nonostante la superstite decenza e elevazione del quadro sociale,
al disotto delle grandi civiltà gentilesche285.


CAPITOLO XXII IL DIVORZIO

178. Il divorzio. Mons. Zoghbi. Il Patriarca Maximos IV al Concilio. − Nel


1974 il divorzio avendo raccolto il suffragio del popolo italiano, quel plebiscito
non poteva non contenere la volontà generale della nazione e per essere seguito a
un’estesa campagna di chiarificazione non poteva dissimulare il suo carattere
anticattolico.

L’inimicizia dello Stato moderno verso la Chiesa non si era congiunta mai
all’impugnazione del diritto naturale, di cui è principal presidio la Chiesa. Ma in
età postconciliare la defezione nel 1974 dell’Italia e nel 1981 della Spagna ha
consumato la pienissima emancipazione della società europea dalla sua base
religiosa.

Ho menzionato al § 89 la strenua difesa opposta dalla Chiesa alla violenza


che il dispotismo dei prìncipi, annuenti non di rado le gerarchie nazionali,
tentava di infliggere all’indissolubilità del coniugio. Qualche raro caso di
deviazione dalla perpetua dottrina si può trovare in pubblicazioni anche di
ecclesiastici nel secolo scorso, ma sempre denunciata e condannata. La
desistenza dalla fermezza da parte della Chiesa si manifestò in Italia al tempo
della campagna referendaria contro il divorzio, quando si videro non pochi preti
parteggiare, tollerandoli i loro Superiori, per la dissolubilità; taluni vescovi
condannare addirittura la partecipazione dei preti alla promozione del
referendum contro il divorzio, e il Patriarca di Venezia dover rimuovere
dall’officio l’assistente ecclesiastico degli universitari cattolici pronunciatosi
pubblicamente per il divorzio. La desistenza apparve anche dal Protocollo
firmato dalla Santa Sede col Portogallo in febbraio 1975 per riformare il
Concordato del 1940. Mentre il patto precedente stipulava che in ossequio al
principio dell’indissolubilità i coniugi cattolici rinunziano alla facoltà civile di
chiedere il divorzio e che pertanto i tribunali della Repubblica portoghese non
possono pronunziare il divorzio di coniugi canonicamente sposati, il Protocollo
del 1975 si limita a richiamare ai coniugi cattolici l’indissolubilità e riconosce ai
tribunali civili di pronunziare la dissoluzione del vincolo (OR, 16 febbraio 1975).

Minore diviene lo stupore per tale novazione se si considerano le dichiarazioni di


taluni Padri del Vaticano II in favore della dissolubilità del vincolo. Erano vescovi
della Chiesa Orientale soggetti all’influsso della disciplina matrimoniale della Chiesa
ortodossa. Questa ammette il divorzio in diversi casi, tra cui c’è la colpa del coniuge
che complotta contro lo Stato. Come questa disposizione indultiva della Chiesa
ortodossa dipenda storicamente dalla servitù politica di essa nei confronti dell’Impero
bizantino e dell’impero zarista, fu ben lumeggiato dal card. Charles Journet nella
sessione CXXXIX del Concilio (OR, 1 ottobre 1965). L’intervento era una risposta
alle suggestioni di mons. Elia Zoghbi, vicario patriarcale dei Melchiti in Egitto,
affinché si sciogliesse il nodo tra il coniuge ingiustamente abbandonato e il coniuge
colpevole. Avendo la suggestione eccitato uno smisurato scalpore nell’assemblea e
nella stampa, il presule stimò doveroso dichiarare in un successivo intervento in
Concilio che proponendo quella dispensa egli non intendeva affatto derogare al
principio dell’indissolubilità (OR, 5-6 ottobre 1965). Ma viene ovvia la replica: non
basta mantenere lessicalmente una cosa, quando poi si pretende farla coesistere illesa
a un’altra cosa che la distrugge.

L’attacco più spiegato all’indissolubilità fu però condotto dal Patriarca dei


Melchiti Maximos IV che riprese con maggior impegno le proposte di mons. Zoghbi e
raccolse in un volume gli interventi conciliari e le sue dichiarazioni extraconciliari.
L’abbandono della dottrina non viene ovviamente professato come tale, ma proposto
come una variazione della disciplina e non del dogma e come una soluzione
pastorale. Si pone in capite libri l’indissolubilità, definita solennemente nel
Tridentino oggetto di fede e che chiude la porta a ogni discussione. Ma poi con la
sofistica propria dei neoterici (vedi § 50) si viene a dire: «Dans l’Eglise catholique il
se trouve des cas d’injustice vraiment révoltante, qui condamnent des êtres
humains, dont la vocation est de vivre dans l’état commun du mariage... et qui en
sont empêchés sans qu’il y ait de leur faute et sans qu’ils puissent humainement
parlant supporter toute leur vie cet état anormal»286.

Agli argomenti del Patriarca si oppone la perpetua tradizione della Chiesa287


e, in linea teoretica, tutta la dogmatica cattolica. Non ci diffondiamo sul metodo
bustrofedico proprio dei neoterici, di camminare in un senso concedendo
vocalmente l’indissolubilità, ma poi volgersi tosto in senso opposto affermando
la dissolubilità, come se le contraddittorie coesistessero. Le asserzioni del
Patriarca oltrepassano il limite che divide la libertà teologica dal dogma di fede e
così vengono per obliquo a investire i principii della religione. Si rigetta infatti
implicitamente il divario tra sofferenza e ingiustizia protestando che il coniuge
innocente patisca dalla Chiesa un dolore ingiusto. Qui è implicata tutta la
teodicea nonché la dottrina cattolica del dolore.

L’ingiustizia è evidente dal canto del coniuge che ha rotto la comunione, ma


il Patriarca ne fa un’ingiustizia anche dal canto della Chiesa, la quale per tenersi
fedele al principio evangelico non meno che al diritto naturale, non si arroga di
togliere quel dolore. Essa punisce il coniuge colpevole dell’ingiustizia,
privandolo per esempio dell’eucaristia e infliggendogli altre diminuzioni dei suoi
diritti, ma non fa prevalere mai il bene eudemonologico al bene morale e alla
legge. Anzi la base del cristianesimo è l’idea del Giusto sofferente e la religione
non promette l’esenzione dal dolore mondano, ma dal dolore nell’altra vita e fa
entrare il dolore in un ordine integrato della presente e della futura vita in una
veduta essenzialmente soprannaturale. La posizione del Patriarca è naturalistica.
Dio, secondo la fede, non conduce le cose del mondo in guisa che i buoni
abbiano bene mondano nel mondo, ma abbiano ogni bene dall’Ognibene nel
fine.

La Chiesa non ha per fine peculiare la rimozione del dolore. Essa rifugge
dalla tracotanza del filosofo antico che sentenziava: «nihil accidere bono viro
mali potest» e da quella del moderno: «Quando si parla di un’azione buona
accompagnata da dolore si dice cosa contraddittoria»288. Gli uomini devono adoperarsi
per rimuovere e punire l’ingiustizia, ma ciascuno vi è esposto indipendentemente dal
suo stato morale. Gli uomini soffrono perché sono uomini, non perché siano
personalmente malvagi. Non entro nel discorso teologico che mostra ogni male umano
dipendere originariamente dalla colpa. La religione non prende scandalo dalla
sofferenza del giusto e non vi ravvisa un’ingiustizia, ma la vede sempre nell’ordine
totale del destino e sempre associata a un sentimento prevalente di gaudio dato dalla
speranza della beata immortalità: «feliciter infelices» secondo la formola di
sant’Agostino risuonante testi paolini289. Il Patriarca invece prende il dolore come
un’ingiustizia, anziché esperienza della virtù, partecipazione al Cristo, purificazione ed
espiazione per i propri e per gli altrui peccati, e per di più trasloca la responsabilità
dell’ingiustizia dal colpevole alla Chiesa incolpevole.

179. Ancora Maximos IV. La formula “umanamente parlando”. − La teoria


matrimoniale di Maximos IV mette dunque in questione la teodicea medesima
della religione cattolica per la quale, in qualunque situazione si trovi nel mondo il
cristiano, né l’ingiustizia degli uomini né il dolore inferto dalla natura possono mai
pregiudicare alla sua salvezza eterna e all’adempimento del fine per cui è fatto.
Questa difficile verità è fondata immediatamente sulla trascendenza del fine e
sull’incommensurabilità del male eudemonologico (il dolore) al bene morale (la
virtù), nonché sull’incommensurabilità dei patimenti mondani alla ricompensa
ultramondana. Sono celebri i passi di san Paolo: «non sunt condignae passiones huius
temporis ad futuram gloriam» (Rom., 8, 18)290 e: «quod in praesenti est
momentaneum et leve tribulationis nostrae supra modum in sublimitate aeternum
gloriae pondus operatur in nobis» (II Cor., 4,17)291. È infatti il contrappeso che fa
l’infinito a ogni quantità finita. Il vero si è che il Patriarca fa, in cose di fede, un
discorso puramente umano («humainement parlant»), trascurando il dogma della
grazia, onde è possibile apud Deum quel che è impossibile apud homines, come
insegna il Cristo in Matth., 19, 10 e 26 proprio in re coniugali. In forza del
dogma della grazia l’uomo non è mai necessitato al peccato: la sua inserzione
nella contingenza storica conferisce concretezza alla volizione ma non può
determinarla. È il dogma negato da Lutero e riaffermato dal Tridentino, che il
Patriarca annulla o snerva quando professa di parlare umanamente.

La riserva espressa con la formola umanamente parlando è un’invenzione


degli Illuministi che fingevano di correggere i loro asserti contrari alla religione
protestando di parlare soltanto umanamente. Ma la distinzione rimessa in campo
dal Patriarca è vana e nulla. Chi crede una religione soprannaturale non può mai
parlare solo umanamente o, se si vuole, può parlare così ma ipoteticamente, non
teticamente, ad personam non ad rem. Non ci sono tre sorta di sentimenti: quelli
giusti, quelli ingiusti e quelli umani; e non ci sono tre sorta di giudizi: quelli veri,
quelli falsi e quelli umani. Questa terza categoria ha gran posto nei parlari degli
uomini, ma non sussiste. Ogni sentimento è o giusto o ingiusto e ogni giudizio è
o vero o falso. Tutto il pensare e tutto il volere umanamente è forza che si
riducano all’una o all’altra di quelle due classi. La posizione di Maximos IV
procede insomma da un umanismo incompatibile con la dottrina cattolica. La
religione infatti non conosce un mondo medio tra il vero e il falso, quasi una
sorta di limbo, che frustrerebbe la redenzione del Cristo ritirando il genere
umano alla situazione del tempo in cui il Maestro non era ancora venuto292.

Un documento in favore della legge che facilitava il divorzio promulgarono


nel 1967 i vescovi del Canada. «La Chiesa,» dicono «chiamata a giudicare una
legge civile del divorzio, deve non solo tener conto della propria legislazione,
ma anche considerare ciò che meglio serve al bene comune della società civile»
(ICI, n. 287, p. 79, 1 maggio 1967). Quindi i vescovi non si oppongono a una
riforma della legge che allarghi e agevoli il diritto a sciogliere i connubi. La
relazione tra la moltiplicazione dei divorzi e il bene comune non è spiegata dai
vescovi, sebbene essi dichiarino che «il divorzio ha [per loro] senso soltanto
nell’insieme di una politica aperta e positiva di consolidazione dei valori
famigliari». I vescovi canadesi ritengono che il divorzio sia mezzo di
consolidazione dei valori famigliari, che contribuisca al bene comune e che
contenga un senso cristiano. Essi non fanno dimenticare quei loro confratelli
nell’episcopato che nel secolo scorso si lasciavano imprigionare per difendere il
matrimonio cristiano.

180. Il valore dell’indissolubilità. − La negazione dell’indissolubilità viola


non soltanto la legge soprannaturale, come si pretese durante la campagna
italiana per il divorzio, ma prima ancora la legge naturale. Pio IX nel Sillabo
condannò nella proposizione 67 la dottrina che il matrimonio non sia
indissolubile per diritto naturale. Non si può quindi accettare l’argomento che,
essendo l’indissolubilità solo di diritto religioso, si debba allo Stato concedere di
sciogliere il vincolo a chi non si creda obbligato dalla prescrizione religiosa293.

In quanto sacramento il matrimonio figura e realizza l’indissolubile unione


del Cristo con la Chiesa e questa significazione mistica produce la perennità
inviolabile del vincolo, secondo la dottrina di Ephes., 5, 32. Ma anche svestito
della sacramentalità, come è in puris naturalibus, il matrimonio è
intrinsecamente indissolubile e la sua riduzione a comunione temporaria è un
corollario della mentalità moderna che eleva il soggetto sopra la legge e lo fa
autolegislatore indipendente. Per questo riguardo il divorzio può identificarsi alla
libertà di matrimonio. Il matrimonio non è più un oggetto da volere con la sua
propria struttura, ma viene interamente costruito dalla volontà soggettiva, e così
si allinea con tutte le libertà rivendicate dall’uomo. Se l’asse della vita morale
anziché nell’oggetto si colloca nel soggetto, allora, come fu detto ai §§ 172-5,
non v’è obbligazione, ma soltanto autoobbligazione solubile.

Un contratto che obblighi per sempre pare impossibile, perché (dicono)


l’uomo non può sapere se domani sarà persuaso e volente come oggi, e inoltre
perché (dicono) la volontà presente e quindi reale non può essere vincolata da
una volontà passata e quindi irreale. Ma questo è il sofisma dello Hume, il quale,
negando ogni connessione di causalità tra i momenti della coscienza, riguarda la
vita volitiva dell’uomo come una serie di punti indipendenti uno dall’altro.
Questo implica anche la negazione della libertà. Se la libertà è la facoltà di
preferenziare un oggetto, essa è anche la facoltà di preferenziare un atto proprio
di libertà, fissandosi perpetuamente.

Il carattere della volontà è, secondo san Tommaso, il «figere» un giudizio tra


i possibili. Perché non potrà la volontà fissare sé stessa? La fissazione della
volontà in un punto e la consumazione istantanea di un intero destino sono,
secondo l’Aquinate, la perfezione specifica della natura angelica: la volizione
umana che si fissa in un patto perpetuo e irrevocabile si può raffigurare come
un’imitazione di questa fissità angelica da parte di una natura versatile
perpetuamente, il superamento insomma della mobilità e del tempo.

Ma in ogni caso la dottrina cattolica dell’indissolubilità del matrimonio è una


gran celebrazione della potenza della libertà, di più, una gran celebrazione della
potenza ordinaria della libertà perché concerne tutti gli individui. Perciò ogni
diminuzione che se ne faccia, per voler provvedere «umanamente parlando»,
ridonda in una diminuzione della dignità umana. Per la sua intransigibilità
l’indissolubilità coniugale sta al di sopra dei voti religiosi. Questi sono pure della
stessa natura (la volontà «vittima fassi... / e fassi col suo atto», Par., V, 29-30),
ma meno eccellenti di essa perché la loro dispensabilità, divenuta più facile nella
Chiesa postconciliare, ne scema il pregio e lo mette al disotto (per questo verso)
della perpetua comunione matrimoniale.

L’indissolubilità, che è strettamente congiunta con la monogamia, può essere


provata con riflessioni sociali e psicologiche e, in ultima analisi,
eudemonologiche anziché deontologiche. Tali considerazioni vanno dalla quasi
parità di numero nella statistica di maschi e femmine, alla necessità civile di
rendere certa la prole, all’instabilità delle passioni che hanno da essere
raffrenate, e alla esigenza dell’educazione dei figli. In realtà il motivo essenziale
dell’indissolubilità (prescissa s’intende la ragione sacramentale e di diritto
divino) è di alto ordine spirituale. Il coniugio è una donazione totale di persona a
persona, per la quale due persone di sesso diverso si uniscono tanto pienamente
quanto è possibile secondo la retta ragione. Questa unione presuppone l’amore
che è dovuto da ogni uomo a ogni uomo indipendentemente dal sesso e vi
aggiunge l’amore tra uomo e donna secondo l’impronta naturale della sessualità.
Del matrimonio e del fine procreativo sarà detto a suo tempo.

Qui basti concludere con due osservazioni. Prima, l’indissolubilità discende


dalla monogamia e la monogamia discende dalla totalità di donazione delle
persone, solus ad solam. Questa totalità è un’espressione dell’amore universale il
quale rimette ultimamente all’amor di Dio. Seconda, poiché il divorzio risponde
alla logica delle passioni e, diciamo pure, all’implorazione della natura ferita, il
divieto che la Chiesa ne fa riesce una prova della verità e divinità di essa Chiesa.
La Chiesa infatti professa come obbligatoria una dottrina morale più elevata e
più perfetta che ogni altra religione o filosofia, alle quali tanta perfezione sembra
impossibile a praticare. Questo la Chiesa può fare perché ha un’idea più nobile e
più onorevole dell’umanità, giudicata capace di ogni più alta e squisita
moralità294. E questa idea è fondata sopra la coscienza che la Chiesa ha di
possedere una più grande forza morale onde, mentre ingiunge il precetto
difficile, anche avvalora e fortifica a osservarlo.
CAPITOLO XXIII LA SODOMIA

181. La sodomia. − Non ci addentriamo nell’argomento della sodomia in cui


l’opinione della teologia secondò la propensione dello spirito del secolo il quale
disdisse nelle legislazioni la secolare fedeltà al diritto naturale e introdusse
dappertutto in Europa la legittimità dei rapporti omosessuali. Basterà rilevare
anche qui la negazione delle nature, in particolare della struttura naturale e
moralmente inviolabile dell’atto sessuale. Infatti si sostiene che eterofillia e
omofilia sono soltanto due modi dell’identica dimensione sessuale e che la loro
differenziazione sia un effetto di influssi puramente sociali. Così la sodomia,
condannata severamente nella filosofia, nel costume e nella disciplina della
Chiesa, cessa di essere una perversione per diventare un’espressione della
sessualità e viene cancellata dal novero dei peccati che gridano vendetta al cielo
(con l’omicidio volontario, l’oppressione dei poveri e la defraudazione della
mercede dell’operaio). La differenza naturale viene sopraffatta da una sofistica
dell’amore, il quale viene fatto capace di instaurare una comunione spirituale di
persone al di là delle guide naturali e in oltraggio dei divieti morali. Lo scandalo
passò nella Chiesa olandese dai teologumeni alla prassi e si ebbero celebrazioni
liturgiche dell’unione di omosessuali e persino una Missa pro homophilis che
«Notitiae», organo della Commissione per l’esecuzione della riforma dei riti, si
trovò in obbligo di deplorare (marzo 1970, p. 102).
CAPITOLO XXIV L’ABORTO

182. L’aborto. Evoluzione storica della dottrina. La formazione del feto. −


L’aborto è, secondo la definizione della medicina legale concorde con quella del
diritto canonico, l’espulsione del feto immaturo. Si vuol quindi differenziare
dalla craniotomia, dall’embriotomia e da altrettali operazioni ostetriche
direttamente occisive del feto che furono condannate dalla Chiesa con distinti
decreti (DENZINGER, 1889 sgg.). Sisto V fulminò la scomunica agli operatori e
cooperatori dell’aborto excepta matre, ma il Codice di Benedetto XV, can. 2350,
levò quell’eccezione.

Tutti i codici europei, anche promulgati sotto governi di filosofia irreligiosa,


punivano, sino ai rivolgimenti postbellici, la donna che abortisce e tutti i
cooperatori dell’aborto. Non si infliggeva pena per l’aborto terapeutico,
denominato interruzione della gravidanza e fatto dipendere da un giudizio
dell’arte medica. Le legislazioni civili, riformate dopo la seconda guerra
mondiale, hanno tutte rifiutato il diritto naturale, legalizzato l’aborto, facendone
un servizio statale e gratuito, e collocandolo inverisimilmente nella politica di
tutela della famiglia295. Arrivano persino a imporre al medico l’obbligo di
praticare l’aborto alla donna che lo richieda.

L’aspetto della questione dell’aborto che qui importa rilevare è quello in cui
appare la storicità relativa del precetto morale. Il giudizio circa la liceità di un
atto è la conclusione di un sillogismo vaio, di cui la maggiore è assoluta, la
minore è contingente e la tesi è una verità in cui il contingente è collocato
nell’assoluto. Nella materia dell’aborto il sillogismo è così formato: La vita
dell’uomo innocente è inviolabile. L’embrione è un uomo innocente. Dunque la
sua vita è inviolabile. V’è dunque nel sillogismo che decide della liceità di un
atto una non piccola latitudine nell’apprezzamento del fatto che è il contenuto
della minore. Qui è il punto di incrocio tra la legge e la scelta pratica che il
soggetto fa nell’hic et nunc del suo operare. È anche il punto in cui le cognizioni
scientifiche soccorrono necessariamente alla valutazione morale stabilendo il
fatto che è espresso nella minore. Se l’embrione è in quello stadio uomo o no,
non tocca alla teologia stabilire, ma alla scienza biologica. Questa infatti, come
ogni altra scienza, è subordinata alla teologia, non perché la teologia prescrive
alla biologia le tesi biologiche, ma perché di queste tesi, costituite in modo
autonomo dalla biologia, si serve nel proprio ordine la teologia.

In realtà la teoria dell’aborto è un caso cospicuo in cui si palesa la storicità


delle persuasioni morali, sia generalmente tra gli uomini, sia in particolare nella
Chiesa. Variano gli apprezzamenti morali non perché patiscano variazione i
principii, ma perché si perfeziona la cognizione dei fatti sottoposti a quei
principii.

I teologi cattolici tennero per secoli che l’aborto del feto animato del
principio sensitivo ma non ancora del razionale, fosse lecito e in qualche
frangente persino obbligatorio296. Il giudizio circa la status humanus
dell’embrione di donna era comandato dalla teorica aristotelica dei tre principii
di vita (vegetativo, sensitivo, razionale) dei quali solo l’ultimo porta al vivente
l’attualità di uomo. San Tommaso nella Summa theol., II, II, q. 64 sull’omicidio,
non fa uno speciale discorso sull’aborto e Dante in Purg., XXV insegna che
l’anima razionale, la quale fa essere uomo, subentra alla sensitiva solo nel
momento in cui «l’articular del cerebro è perfetto».

La Chiesa peraltro si separò dalla filosofia naturale del tempo, insegnando


col dogma dell’Immacolata Concezione che la Vergine andò esente
dall’infezione originale sin dal primo istante della sua concezione: era dunque
sin da questo primo istante umana persona. Anche il Cristo ebbe lo status
hominis sin dalla concezione e san Tommaso nota espressamente che questo lo
diversifica dalla generazione degli altri uomini, dove «prius est vivum et postea
animal et postea homo» (Summa theol., III, q. 33, a. 2, ad tertium). Non meno
della teologia dogmatica si era staccato dalla filosofia naturale dominante il
diritto romano il quale identifica il concepito alla persona soggetto di diritti e
assegna al feto un curator ventris con l’officio di rappresentarlo in giudizio e
tutelarne i diritti.

La dottrina dell’animazione del feto al novantesimo giorno cominciò a


cedere dopo l’opera del Fienus, De animatione foetus (1620), la cui dottrina fu
propugnata e propagata dal Liguori. L’embriologia naturale si trovò allora
conformata a quella soprannaturale di Cristo e della Vergine e l’aborto fu
riconosciuto delittuoso a ogni stadio.

Un fenomeno singolare che si presenta a chi osservi in questo punto il


movimento generale della teologia neoterica, è che mentre un tempo la teologia
si modellava sull’opinione dei filosofi naturali, sostenendo l’innocenza dell’atto
abortivo quando cada al di qua dell’animazione onde «l’animal diventa fante»,
oggi al contrario i neoterici si oppongono al consenso dei genetisti, che tengono
per assodato il carattere immediatamente umano e individualmente umano del
concepito.

183. La nuova teologia dell’aborto. I Gesuiti di Francia. − La verità assodata


dalla genetica, che lo zigote, cioè l’entità prodotta dall’unione del gamete
mascolino col gamete femminino, è un individuo umano col proprio irripetibile e
immodificabile idiotropion, alcuni fautori dell’aborto la impugnano francamente.
La impugna per esempio la Chiesa metodista degli Stati Uniti. Prima della
nascita (dicono) il feto è un tessuto e non un individuo e quindi asportabile come
per ragioni terapeutiche si asporta un ammasso cellulare. Questa tesi è comune al
movimento femminista di ispirazione irreligiosa e di stampo plebeo. Per quale
saltus il feto, mero aggregato cellulare, diventi persona nel momento della
nascita, è questione nemmeno abbozzata. E la tesi non è nuova, essendo
menzionata in Tertulliano De anima, 25 e condannata da Innocenzo XI
(DENZINGER, 1185). Ma l’opposta verità biologica è invincibile. L’embrione è ab
initio un individuo. Se sembra indifferenziato e senza individualità è perché non
si oltrepassano le misure macroscopiche e non si osserva al debito
ingrandimento297. È inesatto dire che da un uovo umano fecondato si genera
sempre un uomo: non si genera, ma è uomo, e l’esistenza sua inizia nell’istante
in cui parti vive di due animali staccatesi dagli animali si uniscono
individuandosi.

L’attualità umana dello zigote e la conseguente illiceità dell’aborto è elusa


dai teologi neoterici che distinguono tra vita umana e vita umanizzata. Vita
umana è quella dell’embrione come entità biologica. Tale entità si sa essere
umana e umana si denomina, perché risulta da due gameti che si sa essere di
uomo, ma non già perché vi si riconosca l’idiotropion umano. Vita umanizzata è
invece quella dell’embrione in quanto l’embrione è accettato dalla società
umana, in concreto dai genitori che lo chiamano a nascere e lo amano. Se si
uccide il feto prima di accettarlo e amarlo non c’è crimine. Questa è la dottrina
dei Gesuiti della rivista francese «Les études» (gennaio 1973) sostenuta in libri
dal suo direttore padre Ribes298. Vi si appoggiava, come su esponenti della
Chiesa, l’on. Loris Fortuna proponendo alla Camera italiana l’11 febbraio 1969
il suo progetto di depenalizzazione e di promozione dell’aborto.

La teorica dei Gesuiti francesi è falsa, superficiale e nuova nella Chiesa, se


non la si voglia figliata remotamente dai casisti del secolo XVII299. Vi sta celata
la negazione delle essenze e il vizio del soggettivismo. Si nega l’essere
dell’infante, se non è accettato, cioè fatto essere dall’atto soggettivo di volontà
dei genitori, dimenticando che, proprio al rovescio, il fatto dell’accettazione è
imperato dal valore ontologico dell’infante che è già in essere. Il bambino
essendo, ha diritto ad essere voluto come essente e il suo diritto a essere voluto
non ha radice nell’essere voluto, ma nel fatto dell’esserci300. Questa antropologia
erronea deriva dal marxismo e, come questo, fa della persona una relazione. Ora,
la persona umana è certo in relazione con le cose e con le persone del mondo,
ma non è una relazione: è costituita come ente prima di entrare in relazione
conforme all’essere suo.

184. Ancora la nuova teologia dell’aborto. L’argomento Beethoven. Corte


costituzionale italiana. − In favore dell’aborto fu da non pochi teologi ripresa la
teoria del contrappeso dei valori301 onde si argomenta che tra la madre e il figlio,
tra l’adulto e l’infante, tra lo sviluppato e il da sviluppare non c’è uguaglianza di
valore, ma prepondera il primo. È la dottrina, per esempio, del padre Callahan
secondo il quale la morale cattolica non ha tenuto nel debito conto la vita della
madre, e quando il diritto del bambino alla vita entri in collisione con quello
della madre o con quello della specie (danneggiata per esempio da un soverchio
incremento) la ponderazione di tutti gli elementi può far derogare al principio
dell’inviolabilità della vita. I Gesuiti trovano l’elemento che differenzia feto da
feto nell’estrinseca volontà dei genitori di farlo o no uomo. L’americano trova
l’elemento che differenzia il feto dalla madre nella priorità dell’esistenza e nel
maggior sviluppo della madre rispetto al figlio.

Si suppone che vi sia diversità di valore umano tra il feto e la madre così da
poter immolare quello a questa302.

Per tale supposta poziorità di diritto, come nel paganesimo il nascere e il


sopravvivere del nato dipendeva dalla patria potestas, crudele diritto di vita e di
morte sopra la persona del genito, così oggi la decisione è rimessa, salvo deboli
precauzioni giuridiche, all’arbitrio della madre, disconoscendosi interamente la
concausalità dell’altro coniuge e annientando ogni responsabilità sua sul destino
del genito. Non soltanto si rompe la parità tra infante e madre, ma anche tra
coniuge e coniuge, come se il concepito fosse da partenogenesi.

D’altronde l’universale disconoscimento dell’uguaglianza umana discende


dal disconoscimento delle essenze o nature. Se infatti l’uomo non è natura,
rispondente a un’idea divina, e dipendente da Dio che così l’ha fatta, non sarà
più vero che «Ipse fecit nos et non ipsi nos» (Ps., 99, 3). L’umana sostanza sarà
una forma plasmabile dall’umana sostanza. E con qual altra forma se non
l’utilità? E poiché la tecnica è l’organizzazione dell’utilità, non è da stupire che i
grandi fenomeni dell’esistenza umana sfuggano alla religione e che la nascita,
l’amore, la generazione e la morte passino gradualmente sotto il dominio della
tecnica. Perduto il concetto, prima ancora filosofico che religioso, dell’assoluta
dipendenza della creatura da Dio, è impossibile che non si perda quello
dell’assoluta indipendenza della creatura dalla creatura. Soltanto se appartengo a
Dio niuno mi può asservire; soltanto se il mio titolo assiologico è l’idea divina,
niuno può sformarmi e asservirmi.

Di qui si vede come l’argomento Beethoven non sia un argomento cattolico.


Consiste nel vietare l’aborto non perché il titolo assiologico dell’infante è
identico a quello della madre, essendo quello di uomo, ma perché l’individuo cui
si toglie di nascere non si sa se non sia per riuscire un gran genio, un gran santo,
un gran servitore del genere umano, un alpha plus secondo la classificazione
dell’Huxley. L’argomento non è cattolico perché offende tre verità. Prima: tutti
gli individui umani, perché aventi il loro fine in Dio e non negli uomini, sono
assiologicamente uguali. Hanno ciascuno maggiore o minore perfezione per
cagione dei doni naturali, del merito morale, del dono di grazia (in cui non vi
hanno due eguali), ma questa graduazione accidentale o di quantità non può mai
sopprimere la loro essenziale parità assiologica. Seconda: nessuna diminuzione
può essere inflitta dall’uomo all’uomo se non per ragione di colpa e perciò
l’infante che è innocente è per ciò stesso inoffensibile. Terza: il valore dell’uomo
come uomo sfugge a ogni metretica: si è più o meno virtuoso, più o meno bello,
più o meno dotto, ma non si è (benché sia comune il dirlo) più o meno uomo.

Che gli uomini possano essere bilanciati in una metretica quantitativa è


d’altronde l’errore del biologismo nazista. Una celebre sentenza del tribunale di
Lunéville nel 1937 dichiarò l’aborto non essere punibile quando riguardi un feto
di razza ebraica, ma punibile solo quando il feto sia di razza ariana. E l’orribile
prassi delle SS delle Einsatzgruppen in Rumenia comandava nelle rappresaglie
di fucilare dieci Rumeni o (equivalentemente) cinquanta Ebrei.

Non sostanzialmente diversa è la filosofia della Corte costituzionale della


Repubblica italiana nella sentenza con cui dichiara incostituzionale l’art. 546 del
Codice penale che punisce l’aborto; non è infatti punibile chi fa abortire una
donna alla quale il parto costituisce pericolo «per il benessere fisico e
l’equilibrio psichico».

La sentenza decide una questione più di filosofia che di diritto: se cioè


l’embrione sia persona umana o no. E la decide contraddicendo a sé stessa.
Ammette infatti che l’embrione sia soggetto di diritti (come appare dal diritto
civile che istituisce un curator ventris al concepito e revoca il testamento in
sopravvenienza di figli), ma viene poi a parlare di collisione di diritti tra madre e
figlio e conclude che quello della madre prevale, perché quella è persona e
questo (che pure è riconosciuto soggetto di diritti) persona deve ancora
diventare. Ma che cosa è un soggetto di diritti se non una persona? E come e
dove avviene il passaggio a persona? La dottrina della Suprema Corte
(prescindendo dal fatto che qui la Pizia filippizza, cioè raccoglie le voci
dell’opinione) urta contro i dati più sicuri delle scienze biologiche. L’isotimia del
feto e della madre è inviolabile e ancor più illecito è preferire la madre al feto
quando non si contrappone vita a vita, come nella anteriore casistica dell’aborto,
ma alla vita del feto si fanno prevalere la salute, il benessere e infine la pura
volontà della donna. La soluzione corretta non consiste nel sopprimere una vita
in favore di un’altra, ma nell’accettare i limiti che l’etica pone all’arte ostetrica
(e ad ogni tecnica d’altronde) accompagnando l’accettazione con stimoli potenti
a promuovere la stessa arte303.

185. Radice ultima della dottrina dell’aborto, teoria di potenza e atto. −


Un’ultima osservazione è necessaria per scoprire la ragione profonda del
moderno traviamento circa l’aborto.

Abbiamo detto in questi paragrafi quel che dicemmo in ogni altro paragrafo e
che è il nerbo del presente libro e il πρῶτον ἀληθές per cui lo scrivemmo. La
crisi del mondo contemporaneo è il rifiuto delle nature o essenze e il credere che
l’uomo possa dare oltre che l’esistenza anche l’essenza delle cose. Per tornare
alla questione, l’uomo è certo causa dell’esistenza del concepito, ma il concepito
è sotto la legge della propria natura e la sua struttura assiologica si impone a
ogni creatura razionale. La questione, come dicevamo, è prima di filosofia che di
diritto. La Corte costituzionale tiene che il feto, che essa riconosce soggetto di
diritti, non sia però persona, perché esso non è né attualmente cosciente né
attualmente volente, identificando così l’esistenza della persona coll’esercizio
attuale dei suoi atti. L’identificazione è fallace: a questa stregua nemmeno il
comatoso, nemmeno il dormiente sarebbero persona, mentre sono
universalmente riconosciuti come tali.

Io credo che questo punto salebroso della dottrina si possa districare solo con
la teoria di potenza e atto. Tertulliano nel cap. 4 dell’Apologeticus chiama
l’aborto homicidii festinatio, giacché «non refert natam quis eripiat animam an
nascentem disturbet: homo est et qui futurus est»304. La formola è un paradosso e
un paralogo ed è conforme a uno schema stilistico prettamente tertullianeo305.
Infatti chi già è attualmente uomo non può cominciare ad esserlo in un momento
ulteriore: già lo è. Ma questa incongruenza tra essere e insieme non essere uomo
scompare se si introduce a interpretarla la teorica tomistica di atto e potenza
secondo cui è identica la sostanza nel momento in cui essa è nello stadio di
virtualità e nel momento in cui essa è attuata in actu exercito. L’uomo è uomo
anche quando non esercita attualmente le operazioni umane, come il medico è
medico anche quando non medica (come quando, poniamo, dorme e lo svegliano
perché può medicare e affinché medichi). Così si vede che la soluzione di un
problema morale può dipendere certo da quel che circa un fatto ha assodato la
scienza, ma che in ultima analisi ogni soluzione che se ne proponga nasconde
nelle sue viscere un supposto che racchiude u n πρῶτον ἀληθές o un πρῶτον
ψεῦδος. Il supposto falso nella sua devoluzione ultima è l’indipendenza della
creatura da sé medesima. Il supposto vero invece è la dipendenza della creatura
da sé medesima, cioè dall’essenza propria che solo Dio le ha data
irrevocabilmente nell’esistenza finita.

La trattazione che abbiam fatta della violazione della legge naturale,


perpetrata coll’aborto, si può ammantare d’un corollario soprannaturale. Oltre il
diritto alla vita naturale l’aborto tronca il diritto dell’uomo alla vita
soprannaturale a cui è chiamato e dalla quale viene escluso se, come di regola
avviene, l’abortivo non viene battezzato306. È anche da rilevare che tutti gli errori
sparsi nell’orbe cattolico su questo punto furono condannati dal documento della
Congregazione per la dottrina della fede del 18 novembre 1974.
CAPITOLO XXV IL SUICIDIO

186. Il suicidio. − La variazione intervenuta circa il suicidio appare più nella


prassi che nella teorica. Il fatto dominante è l’abrogazione nel nuovo Codice di
diritto canonico del divieto di dare sepoltura religiosa ai suicidi (can. 1184). La
dottrina comune della Chiesa ravvisava nel suicidio un triplice male: un difetto
di fortezza morale, giacché il suicida cede alla sventura; una ingiustizia, giacché
egli pronuncia contro di sé sentenza di morte in causa propria e non avendo
titolo; un’offesa alla religione, giacché la vita è un divino servizio dal quale,
come osservò Platone nel Fedone, niuno può da sé stesso affrancarsi. A questa
persuasione è andata subentrando l’altra: che esistano valori supremi di ordine
terreno ai quali sia lecito e bello immolare volontariamente la vita. Così i suicidi
per ragion politica, come quello di Jan Palak, che si bruciò vivo nella piazza di
Praga, e quello di Bobby Sand in Irlanda, cessano di avere una connotazione di
biasimo e diventano espressione della suprema libertà dell’animo e segno di
eroismo. Il cardinal Beran arcivescovo di Praga, seguendo il funerale di Palak,
dichiarò: «Ammiro l’eroismo di questi uomini, anche se non posso approvare il
loro gesto». Sfuggiva al cardinale che eroismo e disperazione, cioè manco di
fortezza, non stanno insieme307. È andata subentrando, sotto l’influsso della
psicologia e della psichiatria, anche la persuasione che la libertà patisca grave
limitazione o addirittura annientamento nell’animo del suicida, convulso da un
invincibile turbamento. Mentre in passato la Chiesa faceva un largo luogo alla
responsabilità morale dell’agente, dopo il Concilio ha accolto in crescente
misura l’idea dell’irresponsabilità del suicida. Essa ha del tutto ripudiato la
morale stoica per la quale il suicidio è l’espressione somma della libertà morale
dell’uomo e l’apice della virtù.
CAPITOLO XXVI LA PENA DI MORTE

187. La pena di morte. − Vi sono delle istituzioni della società che derivano
dai principii del diritto naturale e che come tali godono in varie forme di
perpetuità: tali sono lo Stato, la famiglia, il sacerdozio; e ve ne sono di quelle
che, partorite da un certo grado di riflessione su quei principii e da circostanze
storiche, devono cadere quando la riflessione passi a un grado ulteriore o quelle
circostanze cessino: tale, per esempio, la schiavitù. La pena di morte fu sino a
tempi recenti e giustificata teoreticamente e praticata in tutte le nazioni come
l’estrema sanzione con cui la società percuote il malvagio col triplice scopo di
riparare l’ordine della giustizia, di difendersi e di distogliere altrui dal delitto.

La legittimità della pena capitale è fondata su due proposizioni. Prima: la


società ha diritto di difendersi; seconda: la difesa importa tutti i mezzi necessari
alla difesa. La pena capitale è dunque contenuta nella seconda proposizione a
condizione che il togliere la vita a un membro dell’organismo sociale risulti
necessario alla conservazione della totalità.

La crescente disposizione dei contemporanei alla mitigazione delle pene è


per un canto un effetto degli spiriti di clemenza e di mansuetudine proprii del
Vangelo, contraddetti per secoli da efferati costumi giudiziari. È bensì vero che
l’orrore del sangue, per una contraddizione che qui non importa indagare,
perseverò nella Chiesa. Conviene infatti ricordare che non pure il carnefice era
dal diritto canonico colpito di irregolarità, ma persino il giudice che condanna a
morte iuxta ordinem iuris e persino chi perora e chi testimonia in una causa
capitale, se ne segua un’uccisione.

La controversia non verte sul diritto della società a difendersi, che è


l’inattaccabile premessa maggiore del sillogismo penale, bensì sulla necessità di
togliere di mezzo l’offensore per difendersene, che ne è la minore. La dottrina
tradizionale da sant’Agostino a san Tommaso e al Taparelli d’Azeglio è che il
giudizio circa la necessità, la quale condiziona la legittimità della pena, sia un
giudizio storico e variabile a seconda del grado di unità morale della comunità
politica e secondo la maggiore o minor forza che il bene comune consociante
deve esplicare contro l’individualismo disgregante. Anche i sistemi di abolizione
della pena capitale, a cominciare dal Beccaria, posta la maggiore del sillogismo,
danno alla minore carattere puramente storico, perché ammettono in dati
frangenti (la guerra per esempio) la soppressione dell’infrattore. Anche la
Svizzera durante l’ultima grande guerra condannò a morte per fucilazione
diciassette persone colpevoli di alto tradimento.

188. L’opposizione alla pena capitale. − L’opposizione alla pena capitale308


può nascere da due motivi eterogenei e incompatibili e conviene giudicarla dagli
aforismi morali da cui procede. Può infatti sorgere dall’esecrazione del delitto
congiunta con la commiserazione per l’infermità umana e con il senso della
libertà dell’uomo, capace finché dura la vita mortale di risorgere da ogni caduta.
Può però anche derivare dal concetto dell’inviolabilità della persona in quanto
soggetto protagonista della vita mondana, prendendosi l’esistenza mortale come
un fine in sé che non può essere tolto senza violare il destino dell’uomo. Questo
secondo modo di rigettare la pena di morte, benché si riguardi da molti come
religioso, è in realtà irreligioso. Dimentica infatti che per la religione la vita non
ha ragion di fine ma di mezzo al fine morale della vita che trapassa tutto l’ordine
dei subordinati valori mondani. Perciò togliere la vita non equivale punto a
togliere all’uomo definitivamente il fine trascendente per cui è nato e che ne
costituisce la dignità. L’uomo può «propter vitam vivendi perdere causas», cioè
rendersi indegno della vita perché prende la vita come quel medesimo valore a
cui invece essa serve. Per questa ragione vi è in quel motivo un sofisma
implicito, che cioè l’uomo e in concreto lo Stato abbia il potere, uccidendo il
delinquente, di troncargli il destino, di sottrargli il fine ultimo, di togliergli la
possibilità di adempiere il suo officio di uomo. Il contrario è vero. Al condannato
a morte si può troncare l’esistenza, non però togliergli il suo fine. Le società che
negano la vita futura e pongono come massima il diritto alla felicità nel mondo
di qua devono rifuggire dalla pena di morte come da un’ingiustizia che spegne
nell’uomo la facoltà di felicitarsi. Ed è un paradosso vero, verissimo che gli
impugnatori della pena capitale stanno per lo Stato totalitario, giacché gli
attribuiscono un potere molto maggiore che non abbia, anzi un potere supremo:
quello di troncare il destino di un uomo309. Non potendo la morte irrogata da
uomini a uomini pregiudicare né al destino morale né alla dignità umana, tanto
meno può impedire e pregiudicare alla giustizia divina la quale fa giudizio di
tutti i giudizi. Il senso del motto che stava sulla spada del boia di Friburgo:
«Seigneur Dieu, tu est le juge» non è l’identificazione della giustizia umana con
la divina, ma al contrario riconoscimento di quella suprema giustizia che giudica
tutte le nostre giustizie.

Si oppone ancora l’inefficacia della pena capitale a distogliere dal delitto e si


reca in suffragio la celebre sentenza di Cesare che nel processo ai Catilinari
diceva minor male la morte, fine dell’infamia e della miseria dello scellerato, che
non il durare di lui nell’infamia e nella miseria. Ma l’obiezione è confutata dal
sentimento universale, che ha inspirato l’istituto giuridico della grazia, nonché
dal fatto che gli scellerati medesimi si stringono talora con patti sigillati dalla
morte in caso di fedifragio. Essi confermano con una testimonianza competente
l’efficacia dissuasiva della pena capitale.

189. Variazione dottrinale nella Chiesa. − Anche nella teologia penale si


delinea nella Chiesa una variazione importante. Citeremo soltanto documenti
dell’episcopato francese che sosteneva nel 1979 doversi in Francia abolire la
pena di morte come incompatibile col Vangelo; quelli dei vescovi canadesi e
nordamericani, nonché gli articoli di OR, 22 gennaio 1977 e 6 settembre 1978,
che perorano l’abolizione della pena di morte come lesiva della dignità umana e
contraria al Vangelo.

Quanto all’ultimo argomento è da osservare che, senza accogliere, anzi


respingendo la celebrazione della pena capitale fatta da Baudelaire come di un
atto altamente sacro e religioso, non si può d’un tratto cancellare la legislazione
del Vecchio Testamento che è una legislazione di sangue. Non si può similmente
cancellare d’un tratto non dico la legislazione canonica, ma l’insegnamento
stesso del Nuovo Testamento. So bene che il luogo tipico di Rom., 13, 4 che dà il
ius gladii ai prìncipi e li chiama ministri di Dio per castigare i malvagi, viene,
secondo i canoni ermeneutici dei neoterici, svigorito come espressione di una
condizione storica trapassata. Però nel discorso del 5 febbraio 1955 ai giuristi
cattolici Pio XII ha rigettato esplicitamente tale interpretazione sostenendo che
quel versicolo ha un valore durevole e generale giacché si riferisce al
fondamento essenziale del potere penale e della sua finalità immanente. Inoltre
nel Vangelo il Cristo permette per indiretto la pena capitale, giacché egli dice
esser meglio per l’uomo venir dannato a morte per affogamento che far peccato
di scandalo (Matth., 18, 6). E in Act., 5, 1-11 appare che dalla pena di morte non
aborrì la comunità cristiana primitiva, poiché i coniugi Anania e Saffira, rei di
frode e di menzogna ai danni dei fratelli, comparsi davanti a san Pietro ne furono
colpiti. Sappiamo dai commenti biblici che tale condanna fu tacciata di crudeltà
dai nemici contemporanei del cristianesimo.

La variazione operata si palesa su due punti. Nella nuova teologia penale non
si fa alcuna considerazione di giustizia e tutta la questione gira sull’utilità della
pena e sull’idoneità di essa a recuperare, come si dice, il reo alla società. Qui il
pensiero neoterico si ricongiunge, come in altri punti, all’utilismo della filosofia
giacobina. L’individuo è essenzialmente indipendente e lo Stato può difendersi
dal delinquente, ma non castigarlo perché abbia infranto la legge morale, cioè
perché sia moralmente colpevole. Tale incolpevolezza del reo si trasfonde poi in
una minore considerazione della vittima e perfino in una preferenza accordata al
reo sopra l’innocente. In Isvezia l’ex-detenuto è privilegiato nei concorsi a
pubblici impieghi in confronto del cittadino incensurato. La considerazione della
vittima ecclissa davanti alla misericordia per il malvagio. L’assassino Buffet
salendo alla ghigliottina grida la sua speranza «di essere l’ultimo ghigliottinato
di Francia». Doveva gridare quella di essere l’ultimo assassino. La pena del
delitto sembra più detestabile del delitto e la vittima cade nell’oblìo. La
restaurazione dell’ordine morale violato con la colpa viene rifiutata come atto di
vendetta. Eppure essa è un’esigenza di giustizia che si deve perseguire anche se
non si può annullare il male preterito e se è impossibile l’emendamento del reo.
Lasciamo di rilevare che questo ferisce il concetto medesimo della giustizia
divina la quale percuote di pena i dannati fuori di ogni speranza o possibilità di
ravvedimento (§ 316). Ma il concetto stesso di redenzione del reo è ridotto a una
mutazione di ordine sociale. Secondo OR del 6 settembre 1978, la redenzione è
«la consapevolezza di tornare a rendersi utile ai fratelli» e non già, come vuole
il sistema cattolico, la detestazione della colpa e il raddrizzamento della volontà
ricondotta alla conformità con l’assoluto della legge morale.
E quando poi si argomenta non potersi troncare la vita di un uomo perché gli
si sottrarrebbe la possibilità dell’espiazione, si neglige la gran verità che la pena
capitale medesima è un’espiazione. Certo nella religione dell’uomo espiazione è
primariamente il convertirsi dell’uomo agli uomini. Bisogna quindi concedere il
tempo a questa conversione e non abbreviarlo. Nella religione di Dio espiazione
è primariamente invece riconoscimento della maestà e signoria divina la quale,
conformemente al principio della puntualità della vita morale (§ 202), si deve
riconoscere in ogni momento, e si può.

L’OR, 22 gennaio 1977, combattendo la pena di morte, scrive che al


delinquente «la comunità deve concedere la possibilità di purificarsi, di espiare
la colpa, di riscattarsi dal male mentre l’estremo supplizio non la concede». Così
scrivendo il giornale nega il valore espiatorio della morte che nella natura
mortale è sommo, come sommo (nella relatività dei beni del mondo di sotto) è il
bene della vita al cui sacrificio consente chi espia. D’altronde l’espiazione del
Cristo innocente per i peccati dell’uomo è connessa con una condanna a morte.
Non sono inoltre da dimenticare le conversioni di giustiziati operate da san
Giuseppe Cafasso e anche soltanto alcune lettere di condannati a morte della
Resistenza310. L’estremo supplizio, grazie anche al ministero del sacerdote che si
mette tra il giudice e il carnefice, diede luogo sovente a mirabili cangiamenti
morali, da quello di Niccolò di Tuldo, confortato da Caterina da Siena, che ne
lasciò il ragguaglio in una lettera famosa, a quello di Felice Robol, assistito sul
patibolo da Antonio Rosmini311, da quello di Martin Merino che attentò nel 1852
alla regina di Spagna, a quello a noi contemporaneo di Jacques Fesch,
ghigliottinato nel 1957, le cui lettere dal carcere sono un testimonio commovente
di una perfezione spirituale di predestinato312. L’aspetto dunque più irreligioso
della dottrina che respinge la pena capitale risalta nel rifiuto del suo valore
espiatorio il quale nella veduta religiosa è invece massimo perché include il
supremo consenso alla privazione suprema nell’ordine dei beni mondani. Calza a
questo proposito la sentenza di san Tommaso secondo il quale la condanna
capitale cancella oltre che ogni debito di pena dovuta per il delitto all’umano
consorzio, persino ogni debito di pena nell’altra vita. Giova riferire le parole
precise: «Mors illata etiam pro criminibus aufert totam poenam pro criminibus
debitam in alia vita vel partem poenae secundum quantitatem culpae, patientiae
et contritionis, non autem mors naturalis»313. La forza morale della volontà
espiante spiega anche l’infaticabile sollecitudine con cui la Compagnia di S.
Giovanni Decollato, che accompagnava al supplizio i condannati, moltiplicava le
suggestioni, le istanze, gli aiuti per procurare di muovere al consenso e
all’accettazione l’animo del morituro e così far che morisse, come dicevasi, in
grazia di Dio314.

190. Inviolabilità della vita. Essenza della dignità umana. Pio XII. −
L’argomento precipuo della nuova teologia penale rimane però quello
dell’inviolabile e imprescrittibile diritto alla vita che resterebbe offeso quando lo
Stato irroga la pena capitale. «Alla coscienza moderna» dice il citato articolo
«aperta e sensibile ai valori dell’uomo, alla sua centralità e al suo primato
nell’universo, alla sua dignità e ai suoi diritti inviolabili e inalienabili la pena di
morte ripugna come un provvedimento antiumano e barbaro». A questo testo che
riunisce tutti i motivi dell’abolizionismo conviene anzitutto fare una chiosa di
fatto. L’accenno dell’OR alla «coscienza moderna» è consimile alla premessa del
documento dei vescovi francesi, secondo i quali «le refus de la peine de mort
correspond chez nos contemporains à un progrès accompli dans le respect de la
vie humaine». Ma tale asserto nasce da propensione viziosa della mente a
compiacersi delle idee piacenti e a foggiare le idee sul desiderio, giacché gli
atroci sterminii di innocenti perpetrati in Germania nazista e in Russia sovietica,
la diffusa violenza contro le persone usata come strumento ordinario da governi
dispotici, la legittimazione e persino l’obbligatorietà dell’aborto trapassate in
legge, l’incrudelire della delinquenza e del terrorismo malamente raffrenati dai
governi, infliggono una cruda smentita all’asserto irrealistico.

Della centralità assiologica dell’uomo nell’universo diremo ai §§ 205-10. In


generale nel discorso sulla pena di morte vien trascurata la distinzione tra lo
stato di diritto dell’uomo innocente e quello dell’uomo colpevole. Si considera il
diritto alla vita come inerente alla pura esistenza dell’uomo, mentre esso deriva
dal fine morale di lui. La dignità dell’uomo ha origine nella sua ordinazione a
valori che trascendono la vita temporale e questa destinazione è segnata nello
spirito come imagine di Dio. Benché sia assoluta quella destinazione e indelebile
quell’imagine, la libertà dell’uomo fa che egli colla colpa discenda da quella
dignità e trasvii da quel finalismo. La base del diritto penale è appunto la
diminuzione assiologica del soggetto che viola l’ordine morale e che suscita con
la colpa l’azione coattiva della società per riordinare il disordine. Quelli che
all’azione coattiva danno per motivo soltanto il danno inferto alla società, levano
ogni carattere etico al diritto e ne fanno una cautela contro il danneggiatore,
indistinto se libero o necessitato, se razionale o irrazionale. L’equazione penale,
nel sistema cattolico, fa che, al delitto, con cui il delinquente è venuto ricercando
una soddisfazione in dispregio del comandamento morale, risponda una
diminuzione di bene, di godimento, di soddisfazione. Fuori di questo
contrappasso morale la pena diviene una reazione puramente utilistica che
neglige appunto la dignità dell’uomo e riporta la giustizia a un ordine tutto
materiale, come fu in Grecia, quando al tribunale del Pritanèo si recavano e si
condannavano i sassi, i legni, i bruti che avessero cagionato qualche danno. La
dignità umana è invece un carattere impresso naturalmente nella creatura
razionale ma si fa cosciente ed elicito nelle mosse della volontà buona o
malvagia e cresce o decresce in quest’ordine. Né alcuno vorrà mai pareggiare in
dignità umana l’ebreo di Auschwitz al suo carnefice Eichmann o santa Caterina
a Taide. La dignità umana non può scemare mai per fatti che non siano morali e,
contrariamente al sentimento divenuto comune, non è dal grado di
partecipazione ai benefici del progresso tecnologico (§ 210) che si misura la
dignità umana, non cioè dalla aliquota di beni economici, né dal grado di
alfabetizzazione, né dalla cresciuta cura della salute, né dalla distribuzione
abbondante delle cose gradevoli dell’esistenza, né dalla debellazione dei morbi.
Non si confondano la dignità umana, che è un attributo morale, e l’aumento delle
utilità che compete anche all’uomo indegno. Si veda in argomento quanto
diremo ai §§ 210 e 218.

La pena di morte e ogni pena, se non si degradano a pura difesa e quasi a


mattazione selettiva, suppongono sempre una diminuzione morale nella persona
che ne vien colpita: non vi ha dunque lesione di un diritto inviolabile e
imprescrittibile. Non è che la società privi il reo di un diritto ma, come insegnò
Pio XII nel discorso del 14 settembre 1952 ai neurologi, «même quand il s’agit
de l’exécution d’un condamné à mort l’Etat ne dispose pas du droit de l’individu
à la vie. Il est réservé alors au pouvoir public de priver le condamné du bien de
la vie en expiation de sa faute après que par son crime il s’est déjà dépossedé de
son droit à la vie» (AAS, 1952, pp. 779 sgg.).

E che il diritto alla vita che è inviolabile nell’innocente, non lo sia nel reo,
che l’ha scemato in sé stesso con la depravazione della volontà, appare anche se
si riguardi il parallelo diritto alla libertà: esso pure è innato, inviolabile e
imprescrittibile: tuttavia il diritto penale riconosce legittima la privazione anche
perpetua della libertà per sanzione del delitto e il costume di tutte le nazioni la
pratica. Non c’è dunque diritto incondizionato ad alcuno dei beni della vita
temporale, e l’unico diritto veramente inviolabile è quello al fine ultimo, cioè
alla verità, alla virtù e alla felicità e ai mezzi necessari. Questo diritto non è
toccato nemmeno dalla pena di morte.

In conclusione la pena capitale, anzi ogni pena, è illegittima se si pone


l’indipendenza dell’individuo di fronte alla legge morale, mediante la morale
soggettiva, e di fronte alla legge civile come conseguenza di quella prima
indipendenza. La pena capitale diventa barbara in una società sreligionata che,
chiusa nell’orizzonte terrestre, non ha diritto di privare l’uomo di un bene che è
per lui tutto il bene.
CAPITOLO XXVII LA GUERRA

191. Il Cristianesimo e la guerra. − La variazione intervenuta nella


concezione della guerra può ricondursi al genere dello sviluppo omogeneo anche
se in molte manifestazioni dell’opinione cattolica e in alcuni documenti
episcopali la variazione appaia del genere del saltus in aliud. Si vede in questo
sviluppo omogeneo quale sia il senso legittimo dell’adagio: quel che non era
peccato può diventar peccato e viceversa. Può diventarlo non perché muti la
legge morale, ma perché mutano le circostanze che fanno l’azione più o meno o
niente colpevole, e anche perché le cognizioni morali del genere umano, col
crescere della riflessione, generano coscienze nuove e doveri nuovi. Che le
circostanze mutino la qualità degli atti è dottrina classica. Lo stesso atto è
virtuoso (nel matrimonio) o colpevole (nella fornicazione) o più colpevole
(nell’adulterio). E per usare esempi di cose moderne, guidare un veicolo essendo
ebbro passava per veniale in tempi di strade deserte, ma divien mortale in tempi
di strade di gran frequenza e di gran pericolo del traffico. Nella stima morale che
si ha da fare della guerra sono le circostanze che mutano la specie e rendono
illecito quello che diversamente circostanziato era lecito e virtuoso in passato. La
condanna assoluta della guerra è invece aliena dalla tradizione cattolica; la
milizia non è proscritta dal Vangelo e vien praticata dai cristiani (onde molti
Santi martiri furono uomini d’armi) e considerata mestiere onesto da tutti i Padri.
Soltanto in movimenti di vena manichea e di tintura ereticale la guerra cominciò
ad essere tenuta per illecita. Persino la Regola di san Francesco ammette di
portar le armi in difesa della patria. E taccio di tutta la teologia cattolica da
Agostino a Tommaso e al Taparelli d’Azeglio. L’Aquinate discorrendo degli atti
che rompono la concordia tra gli uomini qualifica la guerra in modo puramente
negativo stabilendo che non è sempre peccato. Sant’Agostino in un passo Contra
Faustum, cap. 74, individua nell’ingiustizia, non nell’uccidere, la nequizia della
guerra: «Quid enim culpatur in bello? An quia moriuntur quandoquidem
morituri, ut domentur in pace victuri? Hoc reprehendere timidorum est, non
religiosorum. Nocendi cupiditas, ulciscendi crudelitas, implacatus atque
implacabilis animus, feritas rebellandi, libido dominandi et si qua similia, haec
sunt quae in bello culpantur» (P.L., 42, 447)315. Pio XII nel discorso per Natale
1949 dopo aver proclamato che «ogni violatore del diritto deve essere messo in
un isolamento infamante al bando della società civile» denunciò con forza il
falso pacifismo: «L’atteggiamento di chi aborre la guerra per le sue atrocità e
non anche per la sua ingiustizia prepara la fortuna dell’aggressore».

La guerra non può essere l’estremo dei mali, tranne per chi adotta la veduta
irreligiosa che ravvisa nella vita, e non nel fine trascendente della vita, il bene
supremo, ed equipollentemente nel piacere il destino dell’uomo. La guerra è
certo un male e la Chiesa lo mette con la fame e la peste tra i flagelli da cui vuole
preservati gli uomini. Leone XIII nell’enciclica Praeclara congratulationis del
1894 denuncia l’inutilità delle guerre e preconizza una Società dei popoli e un
nuovo diritto internazionale. Di Benedetto XV sono memorabili le deplorazioni
dell’«orrenda carneficina» e del «suicidio dell’Europa» nonché la denuncia
dell’«inutile strage» nella Nota del 1 agosto 1917.

192. Pacifismo e pace. Card. Poma. Paolo VI. Giovanni Paolo II. − Della
Chiesa dunque è proprio non il pacifismo assoluto, che assolutizza la vita, ma il
pacifismo relativo, che condiziona la pace alla giustizia e la guerra pure. Ma il
più gagliardo fautore del pacifismo, Erasmo da Rotterdam, nella Querela pacis e
nella parafrasi del Pater noster, insegna al contrario che «non c’è pace ingiusta
che non sia preferibile alla più giusta delle guerre». E diffuse correnti di
opinione hanno sposato l’irenismo assoluto e possono invocare suffragi
autorevoli. Il card. Poma, arcivescovo di Bologna, in OR del 4 maggio 1974,
scriveva: «Nulla più che la guerra è contrastante col Cristianesimo. In essa, che è
la sintesi di tutti i peccati, la superbia s’incontra con lo scatenarsi degli istinti
inferiori». Ma asserzioni così mancanti di distinzioni e di senso storico sono
contrarie a secoli di Cristianesimo, alla riconosciuta santità di guerrieri, come
Giovanna d’Arco, e alla celebrazione che della guerra giusta fece Paolo VI in un
documento speciale per il quinto centenario della morte dello Scanderbeg. Lo
stesso Paolo VI, ricordando in un discorso la visita di Pio XII al popolo di Roma
dopo i bombardamenti del 1943 e il grido di un giovane: «Papa, Papa, meglio la
schiavitù che la guerra! Liberaci dalla guerra!», qualificò un tal grido di «folle»
(RI, 1971, p. 42). Il gran facitore di libertà e di pace che fu Gandhi per poco non
taccia di viltà il pacifismo assoluto: «Il est déjà noble de défendre son bien, son
honneur et sa religion à la pointe de l’épée. Il est encore plus noble de les
défendre sans chercher à faire du mal au malfaiteur. Mais il est antimoral et
déshonorant d’abandonner son partner et pour sauver sa peau de laisser son bien,
son honneur et sa religion à la merci des malfaiteurs».

Vi sono certo dichiarazioni di Paolo VI che proclamano «l’assurdità della


moderna guerra» e «la suprema irrazionalità della guerra» (OR, 21 dicembre
1977). E vi è infine la dichiarazione di Giovanni Paolo II a Coventry nel maggio
1982: «Oggi la portata e l’orrore della guerra moderna, sia essa nucleare o
convenzionale, rendono questa guerra totalmente inaccettabile per comporre
dispute e vertenze tra le nazioni». Tuttavia, se si osservano i termini delle due
dichiarazioni papali, si riconoscerà che esse non escono dai principii tradizionali
della teologia della guerra e ne costituiscono uno di quegli sviluppi della
coscienza morale che dipendono dalla variazione delle circostanze. La liceità
della guerra è infatti legata a condizioni: che sia dichiarata da chi ha l’autorità;
che si proponga di riparare un diritto violato; che vi sia fondata speranza di
conseguire tale riparazione; che sia condotta con moderazione. Queste
condizioni sono ricevute anche nell’articolo 137 del Codice sociale elaborato
dall’Unione internazionale di studi sociali fondata dal card. Mercier e riflettono
un’ininterrotta tradizione delle scuole cattoliche.

193. La dottrina del Vaticano II. − In GS, 79-80, il Vaticano II ha confermato


la liceità della guerra difensiva, ha condannato la guerra offensiva intrapresa
come mezzo di risolvere le contese tra nazioni, e infine ha proscritto senza
eccezioni la guerra totale, massime quella atomica316. Quanto al servizio militare
che i cittadini prestano per la sicurezza e la libertà della patria, il Concilio non
solo lo ammette, ma dichiara altresì che «esercitando un tal dovere essi
contribuiscono realmente a stabilire la pace». È per l’inadempienza di una delle
condizioni predette che il diritto di guerra deve essere riesaminato con mentalità
del tutto nuova e che il Concilio sentenzia: «ogni azione bellica tendente alla
distruzione indiscriminata di intere città o vaste regioni con tutta la loro
popolazione è un crimine contro Dio e contro l’uomo, da condannare con forza e
senza esitazione». La guerra totale è vietata anche nel caso di legittima difesa
che, per mancanza di moderazione, diviene anch’essa illegittima. Il Concilio, il
quale insegna la guerra di difesa contro l’aggressione essere lecita, «finché non
sia costituita un’autorità internazionale competente e munita di congrue forze
coattive», insegna parimenti che essa diviene illecita quando miri allo sterminio
totale del nemico. Sono dunque condannate la guerra intrapresa offensivamente
per risolvere un litigio e la guerra, offensiva o difensiva che sia, condotta senza il
moderamen inculpatae tutelae. Non è invece condannata la guerra difensiva
condotta con quel moderamen. È per la circostanza nuova della totalità della
guerra che la valutazione morale della guerra (come d’altronde di tutte le cose
secondo che sono diversamente circostanziate) rimane mutata.

Qui noterò che già nel Vaticano I fu proposto di stabilire «Qui bellum
incipiat, anathema sit», ma un tale assioma non entrava nel merito morale e non
è certo la priorità cronologica del guerreggiare che dà la qualità. Viene
condannata la micidialità degli atti bellici, perché nega la differenza delle
essenze e fa la guerra essere altro che non sia. Mentre infatti in passato le nazioni
guerreggiavano con l’azione specifica di uno specifico organo, l’esercito
appunto, oggi le nazioni guerreggiano con la totalità dell’organismo sociale e
tutto viene militarizzato: si hanno guerra politica, guerra commerciale, guerra
diplomatica, guerra di propaganda, guerra chimica, guerra biologica e persino
guerra meteorologica317: non più il solo Marte, bensì Marte, Minerva, Mercurio e
quant’altre sono deità dell’Olimpo moderno.

La guerra totale o parossistica fu inagurata nel 1793 mediante la levée en


masse con la requisizione degli uomini, con la requisizione delle forze
economiche, con l’incipiente requisizione degli animi grazie alla propaganda. La
coscrizione obbligatoria, cioè l’esazione del sangue, introdotta da tutti gli Stati
moderni e considerata un passo avanti nella giustizia civile, significò la perdita
di una libertà già goduta dai popoli antichi318. Essa fu un effetto della più stretta
solidarietà dei cittadini di una nazione, nacque dalla progressione della potenza
dello Stato divenuto un macroantropo di cui gli individui son cellule, e portò la
guerra alla perdita della sua specificità. È da osservare tuttavia che le dottrine
militari vanno adesso abbandonando il concetto della guerra combattuta da un
popolo intero con tutte le risorse sue e ritornano agli eserciti non di massa, ma di
mestiere altamente specializzati. Così si vien restaurando l’idea della guerra
come attività di un ceto speciale e si restituiscono al solo Marte le opere di
sangue. Si tornerebbe, guerreggiando con un organo della nazione e non con la
totalità di essa, al diritto naturale e alla situazione ben dipinta da Federico II di
Prussia: «Quando io faccio la guerra, i miei popoli non se ne accorgono perché la
faccio coi miei soldati». L’intero movimento della vita nazionale è però ancora
orientato verso la guerra totale e così tutti gli organi della società divengono un
unico organo bellico mirante alla distruzione del nemico. La massima di Talleyrand,
che in pace debbano i popoli farsi il più possibile di bene e in guerra il men
possibile di male, è rovesciata dalla guerra moderna che trasforma l’organismo
sociale in una unica macchina distruttrice.

194. Le aporie della guerra. − La moralità della guerra è dunque soggetta a due
condizioni: che sia giusta, e non c’è uso giusto della forza che quando sia usata a
propulsare un’aggressione; e che sia moderata, e non v’è diritto di guerreggiare
che non soggiaccia all’obbligo della moderazione. Non entreremo qui a esaminare
la teoria di don Sturzo nell’opera La comunità internazionale e il diritto di guerra
(Parigi 1932), secondo il quale la guerra non ha rapporto essenziale e necessario con
la natura umana, ma soltanto contingente e quindi evolutivo, possibile ad eliminarsi
come si eliminarono la poligamia e la schiavitù. Osserveremo soltanto che l’uso della
forza, e quindi il principio della guerra, è essenziale alla società civile: questa ordina
la comunità al bene comune mediante la legge, ma anche reprime i violatori e nel
reprimerli (senza consentire con Hobbes) è da riconoscere il suo compito primario. Se
dunque, come insegna la filosofia cattolica dell’etnarchia, i popoli del mondo hanno
da discendere dalla pretesa di sovranità e assoggettarsi a un’autorità supernazionale
(vedi il Vaticano II citato al § precedente), è impossibile tale assoggettamento se
quell’autorità non abbia potere di reprimere efficacemente i violatori, cioè di
guerreggiare contro il socio ribelle. Come nell’attuale organizzazione imperfetta della
convivenza internazionale la guerra è lecita ai singoli stati soltanto per respingere
l’offesa al diritto proprio di essi Stati, così alla società etnarchica la guerra è lecita
soltanto per reprimere l’attacco ai diritti di essa etnarchia.

Secondo alcuni la nazione che guerreggia per legittima difesa compie un atto di
giustizia vendicativa (tra questi il Gaetano), così che il belligerante che ha la giustizia
personam gerit iudicis criminaliter agentis. Secondo altri invece quella guerra è un
atto di giustizia commutativa con cui si ricerca la riparazione e la restituzione di
un bene mal tolto. Non monta decidere la questione in questo luogo. La sentenza
del Gaetano è però conforme al principio cattolico della difesa degli innocenti
accolto nel Sillabo contro quella del non intervento. Ma se la società
internazionale non sia ancora costituita come società perfetta provvista delle tre
funzioni, legislativa, governativa e giudiziale, rimane difficile chiarire la
giustizia di una guerra e portar sanzioni contro il belligerante ingiusto,
esercitando per così dire un officio di tribunale universale. Anche la guerra
giusta è sempre una tristizia per due motivi. Primo, perché essa è un fratricidio
e, se combattuta tra cristiani, è anche una sorta di sacrilegio, dato il carattere
sacro dell’uomo battezzato. Secondo, in guerra l’attività di una parte non può
essere buona senza che l’opposta sia malvagia. La guerra difensiva di chi ha
ragione è giusta, ma può essere tale soltanto se l’attaccante è ingiusto. Per questa
duplice tristizia il Kant, Zum ewigen Frieden, dice che il giorno della vittoria
dovrebbero vinti e vincitori vestir gramaglie; e nel coro del Carmagnola del
Manzoni sono «cori omicidi» a innalzare «grazie ed inni che abomina il Ciel».

Un’altra aporia della guerra è l’incertitudine dell’esito anche per chi


guerreggia con giustizia. È legge della teodicea che nella vita terrena i beni si
accompagnino tendenzialmente con la virtù, ma non basta quella generalità di
Provvidenza per sottrarre l’evento al giuoco dell’insolente fortuna. Chi conosce
le storie sa che son piene di scelleraggini fortunate e di giusti sofferenti. Né
bastano gli esempi, non pochissimi, di malvagi raggiunti alla fine dalla nemesi,
per mutare in teorema quella generalità e in legge quella tendenzialità. Nel
sistema cattolico non si dà sanzione immanente, né individuale né collettiva, che
cada infallibile e l’uomo virtuoso è securo solo nella speranza. Per l’incertitudine
dell’esito bellico il conflitto è sino all’ultimo ancipite e il dio Marte
omericamente ἀλλοπρόσαλλος. La decisione può dipendere da un minuscolo fatto
casuale in cui si celava la potenza supermomentanea del momento319.

Per il carattere aleatorio dell’effetto suo la guerra prende similitudine col


giuoco e, secondo il Manzoni, dovrebbe essere classificata dall’economia
politica insieme col giuoco. E perciò l’effetto utile della guerra si potrebbe
ottenere senza la guerra, escludendo l’irrazionalità che le è insita e che la
pareggia da questo lato al duello (d’altronde filologicamente bellum = duellum).
Anzi, le ragioni che mostrano la guerra non essere buona in sé sono quelle stesse
che insegnano il modo di ottenere quell’effetto utile senza la guerra.
Il coefficiente fortuito dell’esito bellico, riducibile forse ma non eliminabile,
rende irrilevante il fattore quantitativo delle forze antagoniste. Inoltre, come già
osservava lo Jomini, il perfezionamento dei congegni bellici, perseguito senza
posa dagli Stati, non offre vantaggi a chi li usa se non è solo ad usarli, come si
vide a Crécy nel 1346 per le armi da fuoco e nel 1945 nel Giappone per la
bomba atomica. Con le nuove armi non si fa che accoppiare un coefficiente
comune ai due termini di una proporzione di cui il valore resta immutato.
Aumentano il costo e la micidialità degli armamenti, ma non già la probabilità
del successo, sempre dipendente e dalla fortuna nelle cose e dal valore negli
uomini. La guerra combattuta da tre a tre non avrebbe esito diverso che quella di
milioni contro milioni.

195. L’aporia della guerra moderata. Voltaire. Pio XII. Impossibilità finale
della guerra moderna. − La moderazione appare dunque l’esigenza ineccepibile
del guerreggiare con giustizia. E non soltanto verso il nemico deve la guerra
essere moderata, bensì anche dal canto del belligerante giusto. È dunque
proscritta la difesa ad oltranza, che è senza speranza di vittoria e con certezza di
olocausto vano320.

Ma qual è il fondamento dell’obbligo della moderazione? Se si pone la tesi in


termini metafisici, si trova che esso deriva dal principio di ragion sufficiente,
onde è irrazionale e quindi immorale esercitare un’azione superflua rispetto al
fine da conseguire. Poiché dunque l’azione è adeguata al fine e il di più è
improduttivo e nullo, anche l’azione bellica, che ha per fine la restaurazione del
diritto (e perciò la pace), deve essere condotta col minimum possibile di
distruzioni. La distruzione totale del nemico è dunque illecita perché
sproporzionata al fine.

La ragione metafisica è però oltrepassata dalla ragion morale. È infatti


principio morale che il mal morale del prossimo non si può volere mai. Però
anche il male fisico di lui non si può volere mai per sé e direttamente, ma solo
come mezzo di un bene morale e nella misura minima in cui è necessario. Non si
vuole la guerra per la guerra, ma per la pace.
La dottrina del Voltaire nel dialogo Des droits de guerre secondo cui la
guerra si origina fuori del diritto e per conseguenza non si può esigere che abbia
regola giuridica, è la dottrina stessa della guerra totale. Essa repugna alla
religione. Come rileva G. Gonella in «Revue de droit international», 1943, p.
205, la guerra giusta che sorge da un principio morale avrà da quel principio la
propria regola, la moderazione appunto. E qui si manifesta l’aporia. Chi
guerreggia entro i modi del diritto contro un aggressore guerreggiante senza
moderazione scapiterà nel confronto e soccomberà all’offesa del soverchiante
malvagio. L’efficacia della guerra giusta sarebbe annullata dalla sua stessa
giustizia. La condizione del moderare l’effetto micidiale escluderebbe la
possibilità di vittoria e vieterebbe di intraprendere anche la guerra difensiva. La
giustizia è proporzione tra il sacrificio necessario per stabilire il diritto e il
compenso di averlo stabilito. Dunque, quando manchi tale proporzione tra i
mezzi e il fine, ritorna vittima chi non voleva più esserlo: il tollerare l’ingiustizia
può allora diventare virtuoso e obbligatorio. Pio XII lo insegna esplicitamente:
«Il ne suffit pas d’avoir à se défendre contre n’importe pas quelle injustice pour
utiliser la méthode violente de la guerre. Lorsque les dommages entraînés par
celle-ci ne sont pas comparables à ceux de l’injustice on peut avoir l’obligation
de subir l’injustice»321 L’aporia della moderna guerra è manifesta. È legittimo
difendersi guerreggiando, ma chi guerreggia è tenuto alla moderazione e perciò è
destinato a soccombere di fronte al soverchiante aggressore immoderato. Le
circostanze viziano la guerra difensiva di immoralità e suscitano l’obbligo di
sottomettersi all’ingiustizia. Di tale sottomissione ci sono esempi antichi e
moderni. Preclaro e inequivocabile quello di Pio IX il 20 settembre 1870;
legittimo ma da molti condannato quello di re Leopoldo III del Belgio nel
giugno del 1940. Sarà dunque da proscrivere assolutamente ogni guerra, perché
non può oggi essere che immoderata e saran vietati tutti gli atti bellici difensivi,
anche soltanto incoati?

196. Rimozione dell’aporia della guerra nella società etnarchica. − Il


Vaticano II in GS, 79, dice espressamente: «Finché non sia costituita un’autorità
internazionale competente munita di congrue forze per costringere i trasgressori,
non si potrà negare ai governi il diritto di legittima difesa». Se nei singoli Stati
l’autorità sociale perirne il diritto individuale di farsi giustizia, anche nella
costituenda società internazionale, che è un consorzio non di enti sovrani, ma di
soci, tutti soggetti, l’autorità perirne il diritto dei singoli Stati di farsi giustizia da
sé. Dallo stato selvaggio in cui giace ancora la comunità dei popoli, il genere
umano deve organarsi in una perfetta societas populorum quale auspicò Leone
XIII e delineò in concreto Benedetto XV giusta la tradizione della teologia
cattolica dai Medievali al Suarez, dal Campanella al Taparelli d’Azeglio. Non
sarà allora eliminata la guerra (si badi bene), ma si saprà che chi guerreggia per
farsi giustizia da sé, quasi fosse sovrano, è ingiusto, e la guerra condotta contro
di lui dall’unica autorità avrà il carattere della giustizia. L’uso della forza da
parte dell’autorità etnarchica allo scopo di reprimere il violatore della giustizia è
il principio dell’ordine e della pace internazionali. Le società nazionali si
disfanno nell’anarchia quando l’autorità perde l’uso della forza: la società
etnarchica non meno322.

Che la soluzione dell’aporia della moderna guerra sia possibile solo col
riconoscimento di un’autorità etnarchica insegna Giovanni Paolo II nel
messaggio per la Giornata della pace (OR, 21 dicembre 1981), ma il Papa vede
la società delle nazioni come un istituto di dialogo e di trattative (già lo è),
mentre tace della forza, che è invece il nerbo essenziale dell’autorità. Non
sembra peraltro che il Papa proscriva la guerra difensiva, giacché se la
proscrivesse si inaugurerebbe una vacatio legis per la quale il mondo sarebbe
abbandonato all’iniziativa dei malvagi. Le parole del Papa a Coventry non
condannano la guerra difensiva non condannata dal Concilio, bensì l’iniziativa di
chi prende le armi, atomiche o convenzionali che siano, coll’intento di risolvere
da sé stesso le controversie. Chi invece attaccato si difende, usa la forza con
pieno diritto. Tuttavia a cagione dell’obbligo della moderazione, l’aporia
sussiste.

L’esigenza di costituire il genere umano in etnarchia discende dal principio a


cui si attiene ogni nostro ragionamento, quello della dipendenza del dipendente
(dal diritto, dalla legge morale, da Dio). La parte deve essere ridotta a parte. Gli
Stati, come si esprime suggestivamente lo Smuts, teorico con Wilson della
Società delle nazioni, nella quale alti spiriti come Giuseppe Motta ravvisarono
un ideale cristiano di universale filantropia internazionale, devono ridursi alla
loro vera natura che non è quella di interi, ma di oloidi, non di sovrani ma di
soggetti, non di microtei ma di creature.
CAPITOLO XXVIII LA MORALE DI SITUAZIONE

1 9 7 . La morale di situazione. Pratico e prassiologico. La legge come


previsione. − Se divorzio, sodomia e aborto negano la legge naturale in punti
specifici di applicazione, la morale di situazione attacca il principio stesso della
legge naturale riducendo la morale al puro giudizio soggettivo che l’uomo fa
circa i propri atti.

La morale di situazione fu condannata già da Pio XII come «radicale


revisione della morale» in un discorso alla Federazione mondiale della gioventù
cattolica femminile (OR, 19 aprile 1952). È una morale che trasferisce il criterio
circa la moralità di un’azione dalla legge oggettiva e dalle strutture essenziali
all’intenzione soggettiva e «dal centro alla periferia», come dice il Papa.
L’azione sarebbe giusta quando c’è l’intenzione retta e una risposta sincera alla
situazione. La conoscenza della situazione è invocata per decidere l’applicazione
della legge, ma si pretende che la legge è dettata dalla stessa coscienza. La scelta
non è più determinata dallo status dell’azione, il quale si impone al giudizio, ma
il giudizio determina lo status, creandone la liceità. È abolita la distinzione tra
giudizio soggettivo, che valuta il singolo atto, e giudizio oggettivo che legge
nell’universale criterio la natura di quell’atto.

Conviene notare che anche la morale tradizionale è una morale di situazione.


La cognizione dell’universale regola degli atti è solo la metà della morale.
L’altra metà, che dà l’intero del giudizio morale, consiste nel confrontare le
concrete situazioni con l’esigenza espressa dalla legge. Questo confronto è il
sano e irrefragabile fondamento della casistica. La morale di situazione unifica e
confonde il giudizio prassiologico col giudizio pratico323, eliminando la legge e
facendo la coscienza misura di sé stessa. L’ordine naturale (che non è solo
biologico, ma metafisico e di essenze) è caduto o tutt’al più divien dubitabile e
inconoscibile. «Il y a des aspects de la vie où la complexité est telle qu’elle rend
impossible ou inopportune une application littérale de la norme morale. Ici il
faut faire confiance à la conscience personnelle et au sens de responsabilité de la
personne envers sa vie»324. Se qui s’intende rilevare la difficoltà contingente che
l’uomo incontra nel riconoscere la moralità delle situazioni, il rilievo è ovvio e
dà origine, come dicemmo, alla casistica. Ma non può trattarsi di applicazione
letterale della legge, giacché la legge appunto non è lettera, ma senso che si deve
trascrivere o translitterare dall’universale all’ecceità. La coscienza personale
(che non differisce dal senso di responsabilità) ha certo di fronte la vita, ma
come ciò che deve essere giudicato, non come quello che costituisce il criterio
per giudicare: si risponde non verso la propria vita ma verso l’esigenza della
legge dietro la quale si manifesta la volontà di Dio.

È d’altronde erroneo anche il contrapposto che si pone tra la norma generale


e il caso particolare pretendendo che questo non rientri in quella ma abbia una
sua propria regola per regolarsi da solo. Il caso particolare (conviene ricordare
l’ideologia) rientra assolutamente nella legge universale, perché l’universale non
è che il caso individuale preso nella sua essenza, quale appare se si prescinde
dalle note individuanti.

Ma anche per una ragione non logica, ma metafisica e teologica, il caso


particolare rientra nella legge universale. La legge morale non ammette che il
caso particolare sfugga al precetto, perché il precetto include tutti i casi possibili.
Se infatti come giudizio della ragione umana la legge è una generalità astratta
applicabile, come ordine ideale inscritto nella divina mente essa è invece una
previsione di casi storici, chi ha dato la legge «conosce tutti i rapporti possibili
dei sentimenti e delle azioni colla eterna immutabile giustizia»325. La morale di
situazione, mentre pretende il caso concreto non essere collocabile nella legge e
potersi qualificare dal soggettivo giudizio dell’operante, neglige il fatto che il
caso è sempre un caso della legge e che, come tutta la legge, è pensato dal
legislatore divino cui sono presenti tutti i casi possibili. Vi possono dunque
essere situazioni straordinarie, se si riguardano dal canto dell’uomo che difetta
sovente di cognizione del concreto oppure rilutta alla legge, ma queste situazioni
sono assolutamente ordinarie dal punto di vista della legge. Anzi esse le
appartengono più propriamente e distintamente che le altre, perché si presentano
all’uomo segnate del solo carattere di imperatività della legge e senza
raccomandazione alcuna di altro genere.

Nonostante la condanna fattane da Pio XII e le aporie che la travagliano, la


morale di situazione è professata da taluni episcopati e praticata come metodo da
interi movimenti di Azione cattolica. Rifiutandosi di partire da principii eterni e
da norme universali per scendere alle situazioni particolari, quei vescovi partono
da situazioni concrete e analizzandole risalgono alle esigenze umane ed
evangeliche. Si tratta di «une manière nouvelle de concevoir la conscience
chrétienne, non plus comme une fonction appliquant par un syllogisme
automatique un principe général à un cas particulier, mais plutôt comme une
faculté qui, sous la conduite de l’Esprit de Dieu, est douée d’un certain pouvoir
d’intuition et de création lui permettant de trouver pour chaque cas la solution
originale qui convient» (ICI, n. 581, p. 51, 15 dicembre 1982, sul documento dei
vescovi brasiliani circa i metodi dell’Azione cattolica).

198. Critica della creatività della coscienza. Passività dell’uomo morale.


Rosmini. − La morale di situazione, rifiutando la legge come ordine assiologico
dipendente da Dio, e non dall’uomo, è forzata per logica vis a tergo a professare
il principio della creatività della coscienza. Mons. Etchégaray, presidente della
Conferenza episcopale di Francia, in un commento alla dichiarazione Personae
humanae della Congregazione per la dottrina della fede326, riprova «la morale
che cerca nascondersi solo dietro i principii»; consente coi giovani che
«contestano l’anteriorità di ogni morale»; afferma che l’imperativo morale «non
è come una parola che cade dall’alto, ma piuttosto come una che sorge dalla
relazione con l’uomo e lo rende coautore di quella parola». Mons. Etchégaray
condanna dunque chi stima che la legge morale sia anteriore al giudizio morale
dell’uomo; insinua che la morale si nasconde dietro i principii (mentre deriva dai
principii e li manifesta); e infine pretende che l’uomo sia coautore della legge.
L’insegnamento di mons. Etchégaray è contrario a quello di GS, 16 richiamato da
Giovanni Paolo II: «L’homme découvre au fond de sa conscience vraie et droite
une loi qu’il ne s’est pas donnée lui-même et tend à se conformer aux normes
objectives de la moralité» (OR, 2 aprile 1982). Il Papa tornò sull’argomento in un
memorabile discorso del 18 agosto 1983 riproponendo luminosamente la dottrina
della Chiesa: «La coscienza individuale non è il criterio ultimo della morale, essa deve
conformarsi alla legge morale, la legge morale è presente all’uomo nella coscienza, la
coscienza è il luogo dove l’uomo legge, ascolta, vede la verità circa il bene e il male,
nella coscienza morale l’uomo non è solo con sé stesso, ma solo con Dio che gli
parla imperativamente». Egli è in situazione di ascolto e di accoglienza, non già di
autonomia e tanto meno di creatività327.

Il padre Schillebeeckx, esponente delle novità olandesi, in Dieu et l’homme,


Bruxelles 1960, p. 227, scrive a proposito della morale di situazione: «Nous
devons mettre l’accent aujourd’hui aussi bien sur l’importance des normes objectives
que sur la nécessité de la créativité de la conscience et du sens des responsabilités
personnelles». Si potrebbe osservare che la responsabilità personale è sempre stata al
centro della teologia morale e accusare di superfluità l’aggettivazione, giacché la
responsabilità non può essere che quella delle persone.

Più importante è però trafiggere l’errore nascosto nel concetto di creatività della
coscienza il quale è contraddittorio in terminis328. La coscienza è il sentimento
dell’alterità e dell’assoluta imponenza della legge, alla quale l’uomo non può dare o
togliere alcunché tranne l’ossequio della sua libertà. Se la coscienza creasse, proprio
in tale suo creare sarebbe immorale, perché la moralità è l’armonia della volontà
con l’ordine ideale che nemmeno in Dio è creato o creabile. Perciò se la
coscienza fosse creazione anziché ricognizione non avrebbe norma cui
armonizzarsi e solennizzerebbe l’arbitrio. La morale è riconoscimento pratico
della verità e una sorta di veracità onde l’uomo profferisce a sé stesso la verità:
profferisce, non partorisce.

Si dirà che la vita morale è pure un’attività, anzi la suprema attività dello
spirito. Lo dico anch’io. Ma non è affatto creazione di regole, bensì attuazione di
una regola che è data e che l’uomo ha soltanto da ricevere. Uno dei pensatori
cattolici che più altamente riconobbero la posizione dell’uomo di fronte alla
legge è il Rosmini: «Il principio obbligante» dice «affetta e lega tutto intero il
soggetto uomo: se dunque questo soggetto tutto intero è affettato e legato, non
c’è niente in lui che non sia passivo: non resta dunque in lui principio alcuno che
sia attivo, cioè che possa aver la virtù di obbligare». «L’uomo è meramente
passivo verso la legge morale: egli riceve in sé questa legge ma non la forma: è
un suddito a cui la legge si impone, non è un legislatore che la impone»329.

La morale di situazione è dunque incompatibile con l’etica cattolica. Questa


infatti ammette un quid ostacolante e limitante che fronteggia la coscienza e
davanti a cui si deve arrestarsi perché è un quid inviolabile. Né si può parlare di
morale dinamica contrapposta a una morale statica. Se si riguarda la legge, la
morale è immobile. Se si riguarda la coscienza essa è sì dinamica, ma perché si
attua in un continuo sforzo per conformarsi e assoggettarsi all’immobile legge.

La passività dell’uomo morale è una conseguenza della sua dipendenza


dall’Assoluto e quanto all’essenza (increata) e quanto all’esistenza (che gli è
data) e quanto alla libertà sua (che è, secondo san Tommaso, un muoversi da sé
essendo mosso). Quindi tutto il discorso contro la morale di situazione si risolve
nell’affermazione cattolica della dipendenza della creatura.

199. La morale di situazione come morale d’intenzione. Abelardo. −


Trasferendo al soggetto insieme con la facoltà di giudicare anche il criterio del
giudicare, e pretendendo di trovare nella situazione stessa la giustificazione del
giudizio che se ne dà, la morale di situazione include nella situazione il soggetto
stesso e lo annienta. Si sostiene che non si deve portare un giudizio, come
dicono, astratto sulla decisione di una persona, bensì un giudizio storico,
mettendosi nella situazione concreta in cui essa trovavasi nel momento della
scelta. Ma così dicendo si confonde la persona, che è in situazione, con la
situazione stessa facendone tutt’uno, laddove la persona affronta la situazione
ma non si identifica con essa. E quello che si denomina giudizio astratto è
l’esigenza della legge, la quale non si lascia abbassare né disfare ma
sovranamente si impone: fiat iustitia, pereat mundus: non enim peribit sed
aedificabitur.

Per fare giudizio dell’obbligazione è certo necessaria la comprensione del


caso concreto cioè delle circostanze, e tuttavia, come dice il vocabolo, le
circostanze stanno attorno al soggetto agente e non vi si identificano: mutate le
circostanze egli rimane immutato, benché possa cambiare il giudizio. Se
l’esigenza del mettersi in altrui si seguisse coerentemente, non si potrebbe che
condividere sempre il giudizio dell’agente, giacché il giudizio nostro anziché
cadere sulla situazione sarebbe il prodotto della situazione.

La morale di situazione è affine alla morale d’intenzione di cui il teorico più


celebre rimane Abelardo nel libro Scito teipsum. La qualità morale dell’azione
deriva (dice) dall’intenzione, cioè dal soggettivo giudizio portato su di essa
dall’agente. Onde si fa peccato operando il bene stimato male e si acquista
merito operando il male stimato bene. L’intenzione stessa dei crocifissori di
Cristo (esemplifica Abelardo), che credevano di ben fare, rende buono il loro
atto e fuori dell’intenzione buona o cattiva non esiste che la materialità di una
situazione per sé stessa indifferente. Conviene osservare che Abelardo non poté
mantenere coerentemente il soggettivismo, giacché esorbitava manifestamente
dal quadro della teologia cristiana. Infatti in un passo notabilissimo del cap. 12 si
smentisce formalmente facendo cadere tutto il sistema: «Non est itaque bona
intentio quia bona videtur, sed insuper quia talis est sicut existimatur, cum
videlicet illud ad quod tendit si Deo placere credit, in hac insuper existimatione
sua nequaquam fallitur»330. Il riferimento a una legge obiettiva data all’uomo e
da lui puramente ricevuta è inevitabile a ogni etica del cristianesimo nella quale
non l’uomo bensì l’idea divina è la misura di tutte le cose.

La morale di situazione, come appare dai citati testi del card. Etchégaray e
del padre Schillebeeckx, introduce pure, sordamente e surrettiziamente, il
concetto di intenzione retta. Non c’è infatti né retto né torto dove la coscienza,
per così dire, solitaria e slegata dalla norma, è indipendente dalla legge.

200. Se la morale cattolica levi il dinamismo della coscienza. − Né con


questo si toglie il dinamismo proprio della vita morale. Rimane vero che suae
quisque fortunae faber, ma nel solo senso corretto. L’uomo è causa del suo
essere buono o malvagio, ma non già nel senso che egli crei la tavola dei valori
alla stregua dei quali egli è buono o malvagio.

Si può insomma dire che «la morale evangelica liberando dalla legalità
trasferisce nell’interno dell’uomo la radice della morale»? Si può dirlo e lo disse
Paolo VI (OR, 17 giugno 1971), ma interpretando rettamente parole facili a
cadere nell’anfibologia. Non è possibile che le radici della morale umana siano
nell’uomo che non è un essere radicale e non può quindi essere radice di morale.
La morale infatti è un ordine assoluto e l’uomo invece un ente contingente e
relativo cui l’assoluto è presente e si impone, ma non ha certo le proprie radici in
lui.

In secondo luogo non è possibile che la legge morale germogli dalla


coscienza, perché la coscienza è l’io e la legge è l’altro. Il vocabolo stesso di
coscienza annuncia irrefragabilmente che non c’è con-scientia se l’io non si
sente nella dualità con l’altro, e se l’uomo non vive la solidarietà con la legge,
cui è congiunto e cui deve riverenza. Si potrà parlare, come parlò sempre la
teologia cattolica, di fonte prima o remota della morale, che è Dio, e di fonte
seconda o prossima, che è la ragione umana in quanto conosce la legge assoluta.
Ma allora la locuzione si ha da intendere di una radice radicata in altro, che non
è più insomma una radice.
CAPITOLO XXIX GLOBALITÀ E GRADUALITÀ

201. La morale della globalità. − La teoria della vita morale come globalità e
del conseguente deprezzamento dei singoli atti non credo abbia precedenti nella
storia della morale ed è la novità saliente della scuola neoterica. Essa si sviluppò
attorno al problema degli anticoncettivi negli anni di grave incertitudine che
corsero tra la decisione del Vaticano II di rimettere al Papa la definizione di
questo punto e la promulgazione della Humanae vitae che decise la disputa in
favore della sentenza tradizionale.

La nuova dottrina pone che il significato morale della vita e quindi,


teologicamente, il destino eterno dell’uomo si raccolga dal tuttinsieme, dal
colore generale, dalla globalità dei suoi atti. Non si nega (sembra) che i singoli
atti pesino sul valore globale (altrimenti dove avrebbe sede la vita morale?), ma
si vuole che il valore di un’esistenza dipenda dall’intenzione generale della
volontà e, come dicono, da un’opzione fondamentale fatta orientandosi verso
Dio. Già nel Concilio il patriarca Maximos IV e i cardinali Léger, Suenens e
Alfrink si pronunciarono per una visione globale della vita degli sposi e dissero
espressamente che «si dovrebbe badare meno alla finalità procreativa di ciascun
atto coniugale che a quella della vita coniugale nel suo insieme». La tesi della
globalità divenne poi un argomento principale del rapporto della Commissione
pontificia che propose a Paolo VI di definire la liceità degli atti anticoncettivi. La
formula è: «Ogni atto è ordinato per natura alla procreazione intesa in senso
globale»331 La contraddizione non può nascondersi: qui si dice che ogni atto
equivale a qualche atto.

Il punto è arduo, ma si può dire che l’i