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SAGGISTICA
28
Romano Amerio
Iota unum
Fede & Cultura
ISBN: 978-88-6409-173-0
Quello che voi fate è un fatto epocale, perché Romano Amerio ha cominciato
nei primissimi anni del post-concilio (ma il materiale era stato raccolto a partire
dagli anni ’30 con un rigore e con una precisione filologica straordinaria), a
vivere e a maturare quella che Benedetto XVI, nel 20051, ha definito come
l’ermeneutica della continuità (contro l’ermeneutica della rottura). Romano
Amerio ha posto delle questioni a partire dall’impianto della tradizione culturale
e teologica e filosofica; ha posto domande ai testi del Concilio, ma soprattutto ad
alcuni testi non dotati dell’autorevolezza magisteriale del Concilio, che
andavano pullulando, sia nella fase dell’inizio della sua interpretazione che nella
fase dell’attuazione. Ha posto legittime domande, anche se probabilmente
nell’impeto della polemica ha usato espressioni non tutte felicissime (ma non
sono più di due o tre nell’ambito di Iota Unum).
Questo testo è uno strumento prezioso per chi vuole attuare il progetto del
Papa di leggere una continuità sostanziale tra il magistero e la teologia prima del
concilio, il concilio e il post-concilio. Iota Unum è l’espressione di un realismo
del pensare cristiano e di un’assenza di pregiudizi nel tentativo di interpretare le
vicende e le dottrine e di confrontarsi su questo. L’incredibile – cui purtroppo
abbiamo assistito sgomenti − è che su questo autore e su questo libro è calato un
silenzio rigoroso e assoluto, una damnatio memoriae che ha agito come se
Romano Amerio non fosse mai esistito o come se, essendo esistito, fosse morto
nel silenzio e nel misconoscimento di tutti. Questa è una lezione sostanziale per
chi vuol capire gli avvenimenti, non soltanto ecclesiali ed ecclesiastici del XX
secolo, ma anche le grandi questioni antropologiche e culturali dell’oggi. Si può
dire di questo libro, come di pochissimi altri, che è un libro necessario, la cui
lettura è necessaria per la comprensione del tempo in cui viviamo, ma soprattutto
per la responsabilità che abbiamo nei confronti del futuro. La mia è quindi una
grande gratitudine che si fa incoraggiamento e benedizione perché questo testo
abbia finalmente, a distanza di decenni, quell’accoglimento che sarebbe stato
giusto gli fosse riservato quando è uscito e che la nequizia dei tempi e la
meschinità intellettuale di molti ha impedito.
† Luigi Negri,
INTRODUZIONE
Alla mia venerabile età, forse non prenderò più in mano la penna, o forse la
prenderò, non so. Però, anche se con grande fatica ormai, io vorrei approfittare
della bella occasione che mi si offre, e far conoscere in qualche tratto minimo il
mio pensiero su un cattolico vero a me caro come fu Romano Amerio […] che,
specialmente con il suo famoso Iota unum, tanto turbò le coscienze cattoliche.
[…] Parlare di Romano Amerio […] è parlare di un ordine della verità e della
carità, dove la prima è congiunta alla seconda, ma la precede.
Amerio dice in sostanza che i più gravi mali presenti oggi nel pensiero
occidentale, ivi compreso quello cattolico, sono dovuti principalmente ad un
generale disordine mentale per cui viene messa la caritas avanti alla veritas,
senza pensare che questo disordine mette sotto sopra anche la giusta concezione
che noi dovremmo avere della Santissima Trinità. La cristianità, prima che nel
suo seno si affermasse il pensiero di Cartesio, aveva sempre proceduto
santamente facendo precedere la veritas alla caritas, così come sappiamo che
dalla bocca divina del Cristo spira il soffio dello Spirito Santo, e non viceversa.
Nella lettera con cui Amerio presenta a Del Noce quello che sarà poi il
celebre Iota unum, egli spiega chiaramente il fine per cui lo ha scritto, che è «di
difendere le essenze contro il mobilismo e il sincretismo propri dello spirito del
secolo». Le «essenze», cioè le tre Persone della Santissima Trinità e le loro
processioni, che la teologia insegna avere un ordine inalterabile: “In principio
era il Verbo”, e poi, riguardo all’Amore, “Filioque procedit”: l’Amore procede
dal Verbo, e mai il contrario.
Dunque, come dice Amerio, partire da Cristo, dalla sovrannaturale verità che
Lui solo insegna, per avere da Lui il dono dello Spirito Santo con cui sempre
Lui, il Signore, ci dà vita e forza, e salire a porre infine l’architrave della caritas.
Fondatore
NOTA ORIENTATIVA
Insieme con le meritate lodi, sembra bene però necessario notare che
l’Autore:
P. Giovanni Cavalcoli O.P.
CAPITOLO I LA CRISI
Per sfuggire all’accusa che ci si potrebbe muovere di avere in tanta mole di prove
e di documentazioni operato una selezione, abbiamo fissato questo criterio. Dovendo
provare le variazioni della Chiesa, abbiamo fondato il nostro discorso non su una
qualunque parte della quasi infinita pubblicistica ad esse attinente, bensì soltanto su
documenti che più certamente annunciano la mente della Chiesa. Le nostre
allegazioni sono di testi conciliari, di atti della Santa Sede, di allocuzioni papali, di
dichiarazioni di cardinali e vescovi, di pronunciati di Conferenze episcopali, di
articoli dell’«Osservatore Romano». Ci sono nel nostro libro le manifestazioni
ufficiali o ufficiose del pensiero della Chiesa gerarchica. Certo abbiamo anche
citato, ma sempre in linea secondaria, libri e discorsi e atti fuori di questa cerchia,
ma solo come prova del prolungarsi ed espandersi di posizioni già espresse o
virtualmente, ma necessariamente, contenute nella prima categoria di allegazioni.
Il soggetto della nostra ricerca è parziale (quale non lo è?), ma la nostra veduta no.
5. Accomodazione della contrarietà della Chiesa al mondo. – Similmente di
fronte ai barbari la Chiesa non assunse la barbarie, ma si rivestì di civiltà; e nel
secolo XIII di fronte allo spirito di violenza e di cupidigia assunse lo spirito di
mansuetudine e di povertà col gran movimento francescano; e non assunse
l’aristotelismo rinascente, ma rigettò con forza la mortalità dell’anima, l’eternità
del mondo, la creatività della creatura, la negazione della provvidenza,
contrapponendosi così a tutto quel che era essenziale all’errore dei Gentili. E
poiché quelli sono gli articoli principali di Aristotele, si può chiamare la Scolastica
un aristotelismo disaristotelizzante. E questa operazione il Campanella vuole
adombrata allegoricamente nel mozzar chioma e unghie alla bella donna fatta
prigioniera (Deut., 21, 12). E più tardi al soggettivismo luterano non si accomodò
soggettivando Scrittura e religione, ma riformando, cioè formando di nuovo, il suo
principio di autorità. Infine alla temperie razionalistica e scientistica dell’Ottocento
non si attemperò risolvendo o circoncidendo il dato di fede, ma al contrario
condannando il principio dell’indipendenza della ragione. Anche l’impulso
soggettivale rinascente nel modernismo non lo accolse, ma lo contenne e lo
castigò.
6. Ancora la negazione della crisi. – Non mancano, in verità sono rari, coloro
i quali negano l’attuale smarrimento della Chiesa e quelli che addirittura
riguardano questo articulus temporum come rinnovamento e fioritura. La
negazione della crisi potrebbe appoggiarsi su alcune allocuzioni di Paolo VI, ma
queste sono bilanciate e sovrabbondantemente superate da altrettante e più
parole che suonano in contrario. Singolare documento del pensiero papale è il
discorso 22 febbraio 19704. Dopo avere ammesso che la religione regredisce, il
Papa sostiene essere però «errore fermarsi all’aspetto umano e sociologico,
perché l’incontro con Dio può nascere da processi che esulano dai calcoli
puramente scientifici: l’avvenire sta al di fuori di ogni nostro preventivo». Qui
sembra che si confonda quello che Dio può, come dicono i teologi, di potenza
assoluta con quello che può di potenza ordinata, dentro l’ordine cioè di natura e
di salvezza da lui istituito con libero decreto e realmente esistente5. Per tale
confusione il problema della crisi viene eluso. Introducendo infatti il concetto di
un’azione che Dio farebbe fuori dell’ordine da lui di fatto voluto, quel che si
deplora nella religione storicamente considerata, la crisi appunto, diventa
impossibile deplorare. Che «l’incontro con Dio possa prodursi a dispetto
dell’attitudine refrattaria alla religione», questo è verissimo, ma nihil ad rem. Se
si riguarda quel che Dio può fare di potenza assoluta si trasgredisce alla
taumatologia. Allora si può avanzarsi sino a negligere la contraddizione e
sostenere, come fa il Papa in un’altra allocuzione, che «quanto più l’uomo
moderno è indisposto verso il soprannaturale, tanto più è disposto». Perché
infatti, considerando la potenza assoluta di Dio, non lo sarebbe?
Quanto poi al dire che è una crisi di crescenza, si dimentica che anche le
febbri di crescenza sono un fatto patologico che si combatte, giacché il naturale
aumento di un organismo non conosce tali crisi né nel regno animale né nel
regno vegetale. Inoltre chi abusa di quelle analogie biologiche gira in un circolo
vizioso giacché non è in grado di provare che alla crisi conseguiti la crescita
(questa se mai si rivelerà in futuro) e non la corruzione.
9. Nuove confessioni della crisi. – L’entità di ciascun ente coincide con la sua
interna unità, sia esso un individuo fisico, sia esso un individuo sociale e morale.
Se si smembra e scinde l’organismo, l’individuo perisce e si tramuta in altro. Se
divergono e si dividono le persuasioni e le volontà delle menti associate, cessa
allora la cospirazione in unum delle parti e la comunità perisce. Dunque anche
nella Chiesa, che è indubbiamente società, l’interna dissoluzione produce intacco
dell’unità e conseguentemente dell’essere suo. Ora l’intacco all’unità viene
ampiamente riconosciuto nel discorso paolino del 30 agosto 1973 che piange «la
divisione, la disgregazione che purtroppo è entrata ora in non pochi ceti della
Chiesa», e addirittura proclama che «la ricomposizione dell’unità spirituale e
reale all’interno della Chiesa è oggi uno dei più gravi e urgenti problemi della
Chiesa». E nel discorso del 23 novembre 1973 il Papa tocca anche l’etiologia
dello smarrimento enorme e confessa l’errore proprio ammettendo che
«l’apertura al mondo fu una vera invasione del pensiero mondano nella Chiesa».
Questa invasione toglie alla Chiesa la forza opponente e le leva ogni specificità.
Ed è drammatico in questo discorso l’uso equivoco del pronome di prima
persona plurale. «Noi» dice «siamo forse stati troppo deboli e imprudenti» ecc. È
noi o Noi?
Qui è ovviamente implicata tutta la metafisica del male nella quale non ci
appartiene di internarci, ma è importante ribattere, contro l’ottimismo spurio, che
se alla crisi si legano eventi felici, come alla persecuzione il martirio, al
patimento l’ammaestramento (Eschilo), alla prova l’aumento del merito,
all’eresia la chiarificazione della verità, l’evento non è un effetto, ma un plus di
bene di cui il male è per sé incapace12. Attribuire alla crisi il bene, che è
estrinseco alla crisi e proviene da altro che dalla crisi, suppone un concetto
manchevole dell’ordine provvidenziale. In questo infatti bene e male restano
ciascuno con la sua intrinseca essenza (essere e nonessere, efficienza e
deficienza) ma rientrano in un sistema buono. Buono è il sistema, non i mali
entranti nel sistema, sebbene si possa allora per catacresi chiamarli mali buoni,
come fa il Tommaseo. Questa veduta dell’ordine provvidenziale fa vedere come
«al mondo di su quel di giù torni» (Par., IX, 108), cioè come anche lo sviarsi
della creatura dall’ordine (e persino la dannazione) la Provvidenza lo faccia
tornare nell’ordine finale, quello che costituisce il fine ultimo dell’universo, la
gloria di Dio e degli eletti.
11. Ancora della falsa teodicea. – L’evento buono che sia per seguire alla
crisi della Chiesa è dunque a posteriori e non muta la negatività di essa, né tanto
meno rende la crisi desiderabile, come alcuni si avanzano ad affermare.
L’ottimismo spurio pecca, perché assegna al male una fecondità che è invece
propria soltanto del bene. Sant’Agostino ha dato una formula felicissima della
dottrina in De continentia, 15 (P.L., 40, 358): «Tanta quippe est omnipotentia
eius ut etiam de malis possit facere bona, sive parcendo, sive sanando, sive ad
utilitatem coaptando atque vertendo, sive etiam vindicando: omnia namque ista
bona sunt»13. Non è il male che in un momento ulteriore generi da sé stesso il
bene, ma è solo una diversa e positiva entità (ultimamente Dio) che ha questa
potenza. Che poi, sebben ordinati dalla Provvidenza, i mali non possano mutarsi
in bene, appare segnatamente nell’ultimo dei casi menzionati da sant’Agostino:
la giustizia vendicativa. È un bene che i peccati siano puniti colla dannazione,
ma non per questo sono buoni i peccati puniti colla dannazione. Perciò, secondo
la teologia cattolica, i beati godono dell’ordine di giustizia in cui la Provvidenza
ha collocato i peccatori, non però dei loro peccati medesimi, che rimangono dei
mali. La dipendenza di certi beni da certi mali è una concatenazione su cui si
fondano alcune virtù che sono appunto condizionate da difetti. Così la penitenza
è condizionata dal peccato, la misericordia dalla miseria, il perdono dalla colpa.
Questo tuttavia non fa che peccato, miseria e colpa siano buoni come buona è la
virtù che essi condizionano.
CAPITOLO II SCHIZZO STORICO. LE CRISI DELLA CHIESA
Che poi il mistero non contraddica alla ragione appare dal concetto
medesimo, che la nuova religione ha inaugurato, dell’essere divino come
Monotriade nel cui seno l’infinito pensa e ama sé stesso come infinito, e dunque
campeggia al di là dei limiti in cui opera l’intelletto creato. Si viola dunque il
diritto della ragione al soprannaturale, se si nega alla ragione di sottomettersi alla
Ragione. Anzi, negando una tale sottomissione, si nega propriamente alla
ragione di conoscere sé stessa, perché le si negherebbe di conoscersi come
limitata e di riconoscere quindi qualche cosa oltre il proprio limite.
14. Gli smarrimenti dell’età di mezzo. – Non furono vere crisi le molte e
gravi perturbazioni che la Chiesa patì nei secoli di mezzo, perché lì la Chiesa
non pericolò di mutare l’essenza sua e di sciogliersi in altro. La corruzione del
costume clericale, la cupidigia di ricchezza e di potenza sfigurano il volto della
Chiesa, ma non ne intaccano l’essenza dislocandola dalla sua base. E qui
conviene formulare la legge stessa della conservazione storica della Chiesa,
legge che è insieme il criterio supremo della sua apologetica. La Chiesa è
fondata sul Verbo incarnato, cioè su una verità divina rivelata. Certo le sono date
anche le energie sufficienti a pareggiare la propria vita a quella verità: che la
virtù sia possibile in ogni momento è un dogma di fede. La Chiesa però non va
perduta nel caso che non pareggiasse la verità, ma nel caso che perdesse la
verità. La Chiesa peregrinante è da sé stessa, per così dire, condannata alla
defezione pratica e alla penitenza: oggi la si dice in atto di continua conversione.
Ma essa si perde non quando le umane infermità la mettono in
contraddizione (questa contraddizione è inerente allo stato peregrinale), ma solo
quando la corruzione pratica si alza tanto da intaccare il dogma e da formulare in
proposizioni teoretiche le depravazioni che si trovano nella vita.
Perciò i moti che turbarono la Chiesa nei secoli di mezzo furono combattuti
dalla Chiesa, ma condannati soltanto quando, per esempio, il pauperismo
trapassò in teologia della povertà con squalificazione totale dei beni terreni. Non
fu perciò vera crisi lo scadimento del costume ecclesiastico contro il quale si
dispiegò gagliardamente il moto riformatorio del secolo undecimo. Né lo fu il
conflitto con l’Impero, sebbene la Chiesa mirasse ad affrancarsi dalla servitù
feudale cui restava legata la dominazione politica dei vescovi, e dalla servitù
implicita nel matrimonio dei preti. Né vera crisi fu quella dei moti dei Catari e
degli Albigesi, nel secolo XIII, e delle loro propaggini dei Fraticelli. Infatti
questi moti, provocati da vasti sobbollimenti sentimentali e commisti con
impulsi economici e politici, non si traducevano che raramente in formule
speculative. E quando pure si traducevano, come per esempio nella dottrina
regressiva preconizzante il ritorno alla semplicità apostolica, o nel mito
dell’uguaglianza dei fedeli ragguagliati tutti al sacerdozio, o nella teologia della
Terza Età dello Spirito Santo, subentrante a quella del Verbo, subentrata a sua
volta a quella del Padre, tutte queste deviazioni dogmatiche trovavano la Chiesa
gerarchica pronta e ferma nell’esercizio del suo officio didattico e correttivo,
sostenuta spesso in questo, secondo le strutture sociali di solidarietà, dalla
potenza temporale. Vi fu attacco ma non intacco delle verità di fede, e la
funzione magisteriale non mancò.
Molto più ampia infatti è la potenziale virtù della religione che non appaia
nelle singole storiche attuazioni sue: essa vien fuori successivamente con un
divenire che non si erge sempre per diritto, ma che, nel suo insieme, ha un
carattere proficiente e perfettivo. Questo d’altronde insinuano le formule
evangeliche del seme e quella paolina dell’organismo crescente sino alla misura
della perfezione.
16. Ancora della ampiezza ideale del Cristianesimo. Suoi limiti. – Questa
ampiezza ideale del Cristianesimo, dovuta alle parti latenti destinate a
manifestarsi storicamente, scorre per tutta la speculazione e si riannoda
teologicamente all’unità tra il ciclo dell’atto creativo e il ciclo dell’Incarnazione:
nell’uno e nell’altro infatti è presente il medesimo Verbo. Ma senza salire alle
ragioni teologiche di cosiffatta ampiezza, bastano a palesarla le ragioni storiche,
poiché si trovano nello stesso spazio scuole e stili contrapposti. Così, per
esempio, Bellarmino e Suarez fondano teoreticamente la democrazia e la
sovranità popolare, mentre il Bossuet per contro giustifica l’autocrazia regia;
l’ascetismo francescano predica la spogliazione dai beni mondani, siano
temporali siano intellettuali, mentre il realismo gesuitico edifica città, organizza
Stati e mobilita ad maiorem Dei gloriam tutti i valori mondani. I Cluniacensi
ornano di colori, di ori e di gemme sino il pavimento delle chiese, mentre i
Cistercensi riducono l’edificio divino alla nudità dell’architettura. Molina
celebra la libertà e l’efficacia autonoma dell’umana volizione, capace di dare
scacco alla divina predestinazione, e abbassa la scienza divina alla dipendenza
dall’evento, mentre i Tomisti per contro esaltano l’efficacia assoluta del decreto
divino. I Gesuiti annunciano la via larga della salvezza, mentre i Domenicani il
piccolo numero. I casisti allargano le parti della coscienza individuale dirimpetto
alla legge, mentre i rigoristi fan torreggiare la legge sopra l’umana estimazione
dell’atto. Il francescanesimo stesso, con la benedizione data dal Fondatore a frate
Elia non meno che a fra Bernardo, contiene due spiriti diversi che spaziano e si
conciliano in una superiore inspirazione e che spiegano le interiori lotte
dell’Ordine15.
17. Negazione del principio cattolico nella dottrina luterana. – Si tratta
dunque di vedere come la dottrina di Lutero non poteva rientrare nell’àmbito
largo del sistema cattolico e come pertanto l’attacco metteva in forse non questo
o quel corollario, bensì proprio il principio del sistema.
Lutero invece pone la Bibbia e il senso della Bibbia nelle mani dell’individuo
credente, ricusa la mediazione della Chiesa e affida tutto al lume privato,
soppiantando all’autorità dell’istituzione l’immediatezza del sentimento a tutto
prevalente. La coscienza si sottrae al magistero della Chiesa e l’apprensione
individuale, massime se viva e irresistibile, fonda il diritto alla persuasione e il
diritto alla manifestazione di quel che si pensa, soprastando a ogni regola. Quello
che il pirronismo antico fa nel giro del conoscere filosofico, il pirronismo
protestantico fa nel giro del pensiero religioso. La Chiesa, che è l’individuo
storico e morale del Cristo uomo-Dio, viene spropriata della sua essenza
autoritativa, mentre quella vivezza dell’apprensione soggettiva viene chiamata
fede e fatta dono immediato di grazia. La supremazia della coscienza leva la base
a tutti gli articoli della fede poiché essi stanno o cadono secondo che vi consenta
o ne dissenta l’individuale coscienza. Così il principio del cattolicismo, che è
l’autorità divina, viene sterpato e con esso i dogmi di fede: non è infatti l’autorità
divina della Chiesa che li autorizza, bensì la soggettiva e individuale
apprensione. E se eresia è il tenere una verità rivelata non perché rivelata, ma
perché consentanea alla soggettiva percezione, si può dire che tutto il concetto di
fede si converte nel luteranesimo in quello di eresia, perché la parola divina è
accolta solo in quanto riceva la forma dell’individuale persuasione. Non la cosa
ingiunge l’assenso, ma l’assenso dà valore alla cosa. Che poi per interna logica
la critica del principio teologico dell’autorità divina diventi critica del principio
filosofico dell’autorità della ragione è cosa che si può inferire a priori per
esigenza logica e che è attestata a posteriori dallo svolgimento storico del
pensiero alemannico fino alle forme più intere del razionalismo immanenziale.
20. Perché la casistica non abbia fatto crisi nella Chiesa. – Non possiamo
trascorrere senza qualche parola il fenomeno della casistica che non fu una vera
crisi della Chiesa. Secondo il Gioberti e qualche autore contemporaneo essa fu
invece una vera crisi e anzi la matrice del declino del cattolicismo21.
La casistica non divenne crisi perché il principio, che la libertà può scegliere
la legge su cui determinarsi, non fu mai formulato espressamente. Perciò le
molte proposizioni condannate da Alessandro VII nel 1665 e nel 1666
contengono soluzioni di casi, ma non enunciano l’errore di principio. Dalla
riprovazione della casistica da parte della Chiesa non consegue pertanto che la
casistica fosse capace (come pensò Pascal) di introdurre nel cattolicismo un vero
e proprio stato di crisi.
23. La crisi della Chiesa nella Rivoluzione di Francia. – La Rivoluzione
popolare seguì a un’altra rivoluzione già operata dall’assolutismo regio che si
era francato dalla soggezione, almeno morale, alla Chiesa, aveva rinnovato il
dispotismo della lex regia, onde quidquid principi placet vigorem habet legis24, e
si era rafforzato prendendo gli spiriti della luterana libertà di coscienza. Da una
parte il nuovo Cesarismo aveva asserito l’indipendenza del principe dalle regole
della Chiesa, che invigorivano e insieme temperavano la potestà maiestatica a
protezione dei popoli. Dall’altra aveva assorbito privilegi, franchigie, immunità,
consuetudini immemorabili, guarentigie alla libertà dei sudditi. Quanto di pura
reazione dovuta alla meccanica sociale e quanto invece di aspirazione o
cospirazione dottrinale sia entrato nell’immenso commovimento della
Rivoluzione, pochi scrittori si attentano di definire. Ma i fatti furono immensi e
sbarbicarono principii e persuasioni come fa un ventus exurens et siccans:
defezioni e apostasia toccarono un terzo del clero, compensate invero da episodi
di resistenza invitta sino al martirio: preti e vescovi correre al matrimonio
(convalidato poi, ma non quello dei vescovi, dal concordato del 1801); chiese e
conventi profanati e distrutti (di trecento chiese a Parigi non ne rimasero che
trentasette); aborriti e dispersi o vietati i segni della religione (onde il Consalvi e
i suoi venuti a negoziare a Parigi stettero in abito laicale); libertinaggio nel
costume; riforme licenziose e stravaganti nel culto e nella catechesi, sacrileghe
confusioni del patriottico col religioso. In sostanza la Costituzione civile del
clero, votata nel luglio 1790, e condannata da Pio VI nel marzo dell’anno dopo,
conteneva un errore principiale, poiché secolarizzava la Chiesa, annullandola
come società priore e indipendente affatto dallo Stato. Se fosse riuscita a
sostenersi, anziché cadere come fece per il rifiuto di quasi tutto l’episcopato
seguito dalla soverchiante pluralità dei preti e per effetto della volontà del gran
mediatore dei due secoli, essa avrebbe fatto scomparire dalla faccia delle terre di
Francia ogni istituzione e ogni influsso del cattolicismo. La condanna della
Costituzione civile del clero è dunque un documento dottrinale che tocca la
sostanza della religione. Stupisce che il Denzinger l’abbia omesso.
La separazione totale della Chiesa dallo Stato sembrò un errore agli estensori
del Sillabo, ma pure lascia sussistere le due società, la teocratica e la
democratica, ciascuna nella propria natura e finalità. Come non sarà errore
esiziale quello che assorbe la Chiesa nello Stato e identifica questo con
l’universale società degli uomini? La Rivoluzione di Francia, ridotta alla sua
specie logica, fu una crisi vera e propria del principio cattolico poiché stabiliva,
pur senza riuscire a tradurlo nell’organismo civile, il principio dell’indipendenza,
che rimuove l’ordine religioso, l’ordine morale e l’ordine sociale dal loro centro
e spinge tendenzialmente alla dislocazione completa dell’organismo sociale, di
quello teocratico dapprima e di quello democratico di poi.
24. Il Sillabo di Pio IX. – Il celebre catalogo degli errori moderni annesso
all’enciclica Quanta cura dell’8 dicembre 1864 viene oggi ripudiato da una parte
dei teologi che a quegli errori tentano di combinare il principio cattolico. Oppure
vien pretermesso e fastidito da autori che, per non troppo dispiacere al mondo
cui il Sillabo dispiace, lo interpretano alla gagliarda, facendone addirittura un
prodromo degli ulteriori sviluppi di quegli errori la cui intrinseca anima di verità
avrebbero rivelata i passi in avanti fatti dal pensiero nel nostro secolo. Oppure
infine viene a fronte aperta ripudiato nella sua significazione dottrinale, cioè
permanente, e figurato come un momento caduco di un’erronea contrapposizione
della Chiesa al genio del secolo. Persino nell’OR del 31 maggio 1980 uno
storiografo gallicano mette quell’insigne documento dottrinale in relazione con
«una fiammata di clericalismo monarchico ultramontano». Non fallì il sensus
fidei o il sensus logicae al Denzinger e ai suoi successori che lo riportarono
nell’Enchiridion per intero.
Circa la portata del Sillabo in ordine alla verità cattolica sorse tosto disputa e
discrepanza. Mons. Dupanloup, vescovo di Orléans, ne restrinse il significato
condennatorio. La «Civiltà cattolica», allora molto autorevole, ne propose invece
un’interpretazione stringente ravvisando colpito in esso il principio di tutto il
mondo moderno. Opposero al Sillabo un rifiuto gli scrittori irreligiosi che in un
punto, ed essenziale, videro non meno acutamente dei Gesuiti, che cioè il Sillabo
contiene una riprovazione della civiltà moderna. È anche da considerare come
nella prassi morale certe proposizioni condannate davano luogo a dissenso. Così
per esempio la 75 sull’incompatibilità della potestà temporale con quella
spirituale, e la 76 pronosticante effetti salutari per la Chiesa dall’abolizione del
regno civile del Pontefice romano. Chi rifiutasse in quei punti il Sillabo, non era,
secondo la «Civiltà cattolica», suscettibile di assoluzione sacramentale. Lo era al
contrario secondo la decisione presa dal clero parigino sotto la presidenza di
quell’arcivescovo. Anche Antonio Rosmini in un’istruzione ai religiosi del suo
Istituto aveva, prima della promulgazione del Sillabo, tenuto la tesi
dell’assolvibilità25.
Degli 80 articoli del documento pochi sono salienti per chi cerchi gli
universali, ma questi pochi appunto sono decisivi.
Nell’insieme adunque il Sillabo appare assai più come una denuncia del
mondo moderno che come un sintomo di crisi della Chiesa, perché le
proposizioni che il documento raccoglie concernono non un’interna
contraddizione della Chiesa ai suoi principii (questa, come vedemmo sin
dall’inizio, è la definizione stessa della crisi), ma una contraddizione del mondo
al cattolicismo. Questo significato del Sillabo fu intuito utrinque, e dalla parte
del mondo e dalla parte della Chiesa. La condanna sintetica del pensiero
moderno si continua dal Sillabo al Vaticano I. Nello schema preparatorio de
doctrina catholica si osserva che il carattere del tempo è che non si attaccano
singoli punti lasciando illeso il principio primo della religione, ma che «homines
generatim a veritatibus et bonis supernaturalibus aversi fere in humana solum
ratione et in naturali ordine rerum conquiescere atque in his totam suam
perfectionem et felicitatem consequi se posse existimant»26.
Certo la condanna dello spirito del secolo, caratterizzato dagli errori qui
condannati, è innegabile e non è suscettiva di preterizione o di moderazione. Il
Sillabo non può essere spento dall’enorme silenzio che in seno alla Chiesa tenta
spegnere il papale documento del 1864 e grazie al quale si è tollerato che il
nome del Sillabo neppure una volta fosse citato nel Vaticano II, anzi diventasse
designazione di cosa o ridevole o abbominevole.
Per procedere come facemmo pel primo Sillabo, esamineremo alcuni articoli
principali per riconoscere nel documento la condanna di tale spirito. Nella
proposizione 59 è trafitto l’errore secondo cui l’uomo sottopone al suo
diveniente giudizio l’indivenibile verità rivelata subordinando la verità alla
storia. Tale riduzione della verità al progressivo sentimento umano, che viene
ponendo e riponendo il dato religioso come una sorta di inconoscibile noumeno,
viene rifiutata anche nell’articolo 20, perché leva ogni dipendenza del senso
religioso dall’autorità della Chiesa30. La Chiesa (lo si dice espressamente) viene
abbassata a funzioni di semplice registrazione e sanzione delle opinioni
dominanti nella Chiesa discente, in realtà non più discente. La proposizione 7,
negando che la verità rivelata possa produrre l’obbligazione di un assenso
interno, ovverosia della persona, e non soltanto del socio della Chiesa, pronuncia
per ciò stesso che vi è nell’individuo un intimo nucleo di indipendenza dalla
verità e che questa si impone come soggettivamente appresa, non come verità.
Non minore è il peso della 58: «veritas non est immutabilis plus quam ipse
homo, quippe quae cum ipso in ipso et per ipsum evolvitur»31. Qui sono
professate due indipendenze. Prima, quella dell’uomo storico dalla natura
dell’uomo, assorbita interamente nella storicità del primo. La proposizione
equivale a negare l’esistenza dell’idea eterna in cui sono esemplate le nature
reali, a negare cioè quell’elemento irrefragabile di platonismo senza il quale cade
l’idea di Dio. La seconda indipendenza professata è più in generale quella della
ragione dalla Ragione. La ragione umana, che è il maggior contenente da noi
conosciuto nel mondo32, è però essa stessa contenuta in un altro contenente che è
la mente divina. Quest’altro contenente è negato nella proposizione 58. È
dunque falso l’assunto dell’articolo proscritto, che la verità si svolga coll’uomo,
nell’uomo e per l’uomo. Si svolge a quel modo, ma non tutta. Non è vero che la
verità divenga nell’uomo diveniente: divengono gli intelletti creati, anche quelli
dei credenti, anche quelli del corpo sociale della Chiesa, i quali con atti propri,
varianti da individuo a individuo, da generazione a generazione, da civiltà a
civiltà, si terminano però all’identica verità. L’indipendenza della ragione dalla
verità immutabile porta a dare a tutto il contenuto e a tutto il contenente della
religione il carattere del mobilismo (vedi §§ 157-62).
Ricercando dunque le crisi della Chiesa abbiamo trovato che esse hanno
luogo soltanto allorché non nel mondo, ma nella Chiesa medesima sorge una
contraddizione con il principio che la costituisce e la regge. Tale contraddizione
all’elemento principiale è la costante (come dicono i matematici) di tutte le crisi.
E come la crisi preformata nel mondo fu denunciata dal primo Sillabo, e poi al
principio del secolo, quando cominciò a comunicarsi e ad internarsi alla Chiesa,
fu denunciata da Pio X, così fu denunciata da Pio XII nel terzo Sillabo quando, a
mezzo il secolo, si fu più diffusamente internata nella Chiesa. Il terzo Sillabo è
l’enciclica Humani generis del 12 agosto 1950 e coi testi del Concilio Vaticano
II costituisce il principale atto dottrinale della Chiesa dopo Pio X.
Certo vi sono nella formazione del sensus communis della Chiesa momenti di
memoria, che tengono sotto il fuoco dell’attenzione certe parti del deposito, e
momenti d’oblìo che sviano da quel fuoco e relegano nell’oscurità altre parti del
sistema cattolico33. Questo è un effetto della limitata intenzionalità dello spirito,
che non può essere sempre in tutto, e della conseguente dirigibilità
dell’attenzione, che è il gran vero su cui poggia l’arte educativa e, in ordine più
basso o bassissimo, l’arte della propaganda. Ed essendo essa una cosa necessaria
nell’umana natura non può né deplorarsi né eliminarsi. Bisogna però che questa
relativa oblivione in cui si fanno cadere alcuni articoli del sistema cattolico non
trapassi addirittura in espunzione di essi. È la storia che svolgendosi espone od
oscura ora questa e ora quella faccia, ma non è per il fatto di essere illuminata
che quella faccia esista nella coscienza della Chiesa né per il fatto di essere
oscurata che quella faccia si spenga del tutto.
28. La «Humani generis» (1950). – Nel titolo della enciclica solleva tosto
l’attenzione lo stile tetico e categorico che non usa le formule più riservate di
altri atti dottrinali. In luogo infatti della formula non videntur consonare o simili
(adoperate per altro anche qui a proposito del poligenismo) si enuncia in limine
che si prendono di mira false opinioni «quae catholicae doctrinae fundamenta
subruere minantur»34. È una minaccia ossia una prospettiva di eversione, ma la
minaccia è reale: non dice subruere videntur ma senza ambagi subruere
minantur. Gli errori offendono la verità cattolica anche se non ne consumano
l’eversione. Nel proemio dell’elenco si tocca un carattere della crisi che ne
arguisce il grado e ne esprime la novità. L’errore che veniva un tempo ab extra si
origina adesso ab intra della Chiesa, e non è più un esterno assalto, ma un guasto
intestino, non più tentativo di demolizione della Chiesa ma, secondo il motto
celebre di Paolo VI, autodemolizione della Chiesa. Eppure false opinioni non
dovrebbero aver luogo nella Chiesa, perché l’umana ragione, impregiudicata la
sua capacità naturale, si trova quivi sempre rafforzata e amplificata dalla
Rivelazione. Ma è proprio il postulato di indipendenza dalla Rivelazione il
πρῶτον ψεῦδος, e non sono che forme o più veramente denominazioni di esso gli
errori che l’enciclica vien descrivendo. Così il pirronismo essenziale alla
mentalità moderna porta che la nostra conoscenza non sia apprensione del reale,
ma puramente produzione di immagini sempre mutevoli di un reale sempre
sfuggente. La cognizione è indipendente dalla verità.
29. Il Concilio Vaticano II. La preparazione. – Sembra che Pio XI abbia per
un momento pensato a riprendere il Concilio Vaticano interrotto nel 1870 per
fatti violenti, ma è certo, per la testimonianza del cardinal Domenico Tardini, che
Pio XII ponderò l’opportunità di tale ripresa o di un nuovo Concilio e ne fece
librare le ragioni da un’apposita commissione. Questa concluse negativamente.
Forse sembrò che l’atto dottrinale della Humani generis fosse da sé stesso
sufficiente a raddrizzare quanto di torto appariva nella Chiesa. Forse parve non
doversi pregiudicare in alcun modo al carattere del governo papale al quale
l’autorità del Concilio potrebbe produrre diminuzione o sembrar produrla. Forse
si presentì l’aura democratica che avrebbe investito l’assemblea e se ne intuì
l’incompatibilità col principio cattolico. Forse il Papa secondò la sua
inclinazione verso una totalità di responsabilità la quale domanda una totalità
non divisibile di potere (onde alla sua morte, per tale accentramento, vacavano in
Curia offici importantissimi). Al beneficio che attualmente si suol ravvisare nella
reciproca cognizione e comunicazione tra i vescovi del mondo, che è un indizio
di propensioni democratiche, non si dava allora gran peso, non si credeva cioè
che basti mettere insieme gli uomini perché si conoscano e conoscano la cosa su
cui deliberano. La proposta di Concilio fu rimossa. È un’antica suspicione quella
che si libra sul Concilio di fronte al Seggio petrino. La formulò imaginosamente
il card. Pallavicino, lo storiografo del Concilio di Trento: «Nel cielo mistico
della Chiesa non si può immaginare congiunzione più difficile ad accozzare e
accozzata di più pericolosa influenza che un Concilio generale»35.
Le risposte dei vescovi già rivelano alcune delle tendenze che prevarranno in
Concilio e non raramente fanno trasparire l’incapacità di stare al punto per
extravagare a materie o impertinenti o futili. Anche per il Vaticano I non erano
mancate richieste extravaganti. Vi erano state alcune suggestioni in favore del
Rosmini o di san Tommaso, e qui la materia è certo di gran momento, ma,
accanto a queste, altre scendevano al problema delle domestiche cattoliche in
famiglie acattoliche, alla benedizione dei cimiteri e ad altre questioni di minuta
disciplina non certo proporzionate all’amplitudine di un Concilio ecumenico.
Come nel Tridentino secondo il Sarpi, così nel Vaticano II i fatti riuscirono
difformi dalla preparazione e, come oggi dicesi, dalle proiezioni. Non è che vene
di pensiero ammodernante non siano riconoscibili nella fase preparatoria42. Esse
però non impressero l’insieme degli schemi preliminari così profondamente e
distintamente come si stamparono poi nei documenti finali promulgati
conciliarmente. Così, ad esempio, la flessibilità della liturgia per studio di
accomodazione alle varie indoli nazionali era proposta nello schema della
liturgia, ma era ristretta ai territori di missione, e non si faceva menzione
dell’esigenza tutta soggettiva di una creatività del celebrante. La pratica
dell’assoluzione comunitaria, allargata a scapito della confessione individuale,
per studio di facilitazione morale, era proposta nello schema de sacramentis.
Perfino l’ordinazione presbiteriale di uomini uxorati (non però quella di
femmine) trovava luogo nello schema de ordine sacro. Lo schema de libertate
religiosa (card. Bea), uno dei più tormentati e contesi nell’assemblea ecumenica,
avanzava in sostanza la gran novità che venne infine adottata, facendo uscire
(sembra) la dottrina dalla via comune, canonizzata e perpetuamente professata
dalla Chiesa cattolica. Il principio della funzionalità è proprio del pragmatismo e
dell’attivismo moderno, che ravvisano il valore nella produttività (di cose o di
lavoro, che sia) e che disconoscono le operazioni intransitive e immanenti della
persona abbassandole sotto quelle transitive ed efficienti ad extra (§§ 216-7). Ma
era anch’esso formulato espressamente nello schema de disciplina cleri che
contemplava l’inabilitazione e la rimozione di vescovi e di presbiteri, toccata una
data età. Si sa che il frutto maturo di questa inclinazione all’attivismo è il motu
proprio Ingravescentem aetatem che colpisce di deminutio capitis i cardinali
ottuagenari. Un votum particolare circa la talare diede adito al costume di vestire
alla laicale dissimulando la differenza specifica del prete dal laico e facendo
cadere persino la prescrizione che faceva obbligo della talare durante le funzioni
ministeriali. Si affacciano nei lavori preparatorii anche opinioni particolari di
scuola teologica in senso largioristico. Si chiedeva per esempio di far passare
come dottrina del Concilio una disputabile posizione sul limbo dei bambini e
persino degli adulti. Questa materia, come troppo contigua al salebroso dogma
della predestinazione, taciuto dai decreti conciliari43, fu del tutto omessa, ma lo
spirito largioristico e pelagiano che essa supponeva investì il pensiero teologico
postconciliare, come più avanti mostreremo.
Anche circa la riunione dei cristiani non cattolici si fece sentire la voce di chi
pareggiava i protestanti, senza sacerdozio, senza gerarchia, senza successione
apostolica e senza o quasi senza sacramenti, agli ortodossi aventi invece quasi
tutto in comune coi cattolici, fuorché primato e infallibilità. Pio IX aveva fatto
nettissima distinzione: inviò messi apostolici a recare le lettere invitatorie ai
patriarchi orientali (che dichiararono tutti non potersi recare al Concilio), ma non
riconobbe come Chiese le varie confessioni protestanti, riguardate come pure
associazioni, e inviò un appello ad omnes protestantes, non affinché
intervenissero al Concilio, ma affinché tornassero all’unità da cui si eran scostati.
L’atteggiamento latitudinario affiorato nella preparazione poggia sopra
un’implicita parziale parità tra cattolici e acattolici, e riuscì minoritario nella fase
preparatoria, ma ottenne poi che si invitassero come osservatori i protestanti,
indistinti dagli ortodossi, e spiegò poi la sua influenza nel decreto de
oecumenismo (§§ 245-7).
Mette conto di riferire per disteso le critiche che un Padre della Commissione
centrale preparatoria opponeva alla descrizione troppo fiorita della situazione del
mondo e della situazione della Chiesa nel mondo. «Non placet hic cum tanto
laetamine descriptus status Ecclesiae magis in spem, meo iudicio, quam ad
veritatem. Cur enim auctum religionis fervorem ais, aut respectu cuius aetatis?
Nonne in oculis habenda est ratio statistica, quam dicunt, unde apparet cultum
Dei, fidem catholicam, publicos mores apud plerosque collabescere et paene
dirui? Nonne status mentium generatim alienus est a catholica religione, discissis
republica ab Ecclesia, philosophia a dogmatis fidei, investigatione mundi a
reverentia Creatoris, inventione artis ab obsequio ordinis moralis? Nonne inopia
operariorum in sacro ministerio laborat Ecclesia? Nonne multae partes Sanctae
Ecclesiae vel immanissime conculcantur a Gigantibus et Minotauris, qui
superbiunt in mundo, vel schismate labefactatae sunt, utpote apud Chinenses?
Nonne missiones nostras ad infideles, tanto zelo ac caritate plantatas ac rigatas,
vastavit inimicus homo? Nonne atheismus non amplius per singulos sed per totas
nationes (quod prorsus inauditum erat) celebratur et per reipublicae leges
instauratur? Nonne numerus noster quotidie proportionaliter imminuitur,
Mahumetismo ac Gentilismo immodice gliscentibus? Nos enim quinta pars
sumus generis humani, qui quarta fuimus paulo ante. Nonne mores nostri per
divortium, per abortum, per euthanasiam, per sodomiam, per Mammona
gentilizant?»44. Questa diagnosi (conclude) procede humano more e in linea di
considerazione storica, riservando quel che la Provvidenza di Dio sulla sua
Chiesa può operare «oltre la difension dei senni umani» e fuori della potenza
ordinata.
I testi del Sinodo Romano che furono promulgati il 25, 26 e 27 gennaio 1960
sono una reversione totale all’essenza propria della Chiesa, all’essenza,
intendiamo, non pure soprannaturale (questa non si può perdere), ma all’essenza
storica della Chiesa, un ritiramento (per dire con Machiavelli) dell’istituzione
verso i suoi principii.
In tutti gli ordini della vita ecclesiale infatti il Sinodo proponeva una
vigorosa restaurazione. La disciplina del clero era modellata sullo stampo
tradizionale, maturato nel Tridentino e fondato sui due principii sempre
professati e sempre praticati. Il primo è quello della peculiarità della persona
consacrata e abilitata soprannaturalmente a esercitare le operazioni del Cristo, e
quindi inconfusibilmente separata dai laici (sacro equivale a separato). Il
secondo principio, conseguente al primo, è quello dell’educazione ascetica e
della vita sacrificata, che differenzia il clero come ceto (anche nel laicato i
singoli possono vivere vita ascetica). Il Sinodo prescriveva quindi ai chierici
tutto uno stile di condotta nettamente differenziato dalle maniere laicali. Tale
stile esige l’abito ecclesiastico, la sobrietà del vitto, l’astensione dai pubblici
spettacoli, la fuga delle profanità. Della formazione culturale del clero era
similmente riaffermata l’originalità e si delineava il sistema che l’anno dopo il
Papa sanzionò solennemente nella Veterum sapientia. Il Papa ordinò anche che si
ripubblicasse il Catechismo del Concilio Tridentino, ma l’ordine non fu raccolto.
Soltanto nel 1981 per iniziativa privata se ne ebbe in Italia una traduzione (OR,
5-6 luglio 1982).
Non è chi non veda che una tale massiccia reintegrazione della disciplina
antica voluta dal Sinodo fu quasi in ogni articolo contraddetta e smentita dal
Concilio. E così il Sinodo Romano, che doveva essere prefigurazione e norma
del Concilio, precipitò in pochi anni nell’Erebo dell’oblìo ed è in verità tanquam
non fuerit46. Per dare un saggio di tale nullificazione osserverò che, avendo io
ricercato, in Curie e archivi diocesani, i testi del Sinodo Romano non ve li trovai
e dovetti estrarli da pubbliche biblioteche civili47.
Del valore della latinità diremo ai §§ 278-9. Qui vogliamo soltanto toccare il
divario che stiamo studiando tra l’ispirazione preparatoria data al Concilio e
l’effettuale risultato di esso.
Con la Veterum sapientia Giovanni XXIII intendeva operare un ritiramento
della Chiesa ai suoi principii, questo ritiramento essendo nella sua mente
condizione del rinnovarsi della Chiesa nella propria peculiare natura nel presente
articulus temporum.
I tre fini furono perseguiti anche dal Vaticano I: l’appello agli acattolici diede
luogo a una vasta letteratura e a un’ampia polemica. La causa unionis fu
deputata a una delle quattro grandi commissioni preparatorie e la causa
reformationis similmente, dando luogo a un pullulare di petizioni e di
suggestioni che basta da solo a provare come nessuna cosa si facesse, nemmeno
allora, in circoli ristretti e in camarillas. L’ampiezza assunta dalle aspettative è
indicata anche dalla varietà e audacia delle suggestioni. C’era alla metà
dell’Ottocento chi voleva vietata dal Concilio la pena di morte; chi proponeva si
quis bellum incipiat anathema sit50; chi domandava l’abolizione del celibato del
clero latino; chi stava per l’elezione dei vescovi a suffragio democratico. Più di
tutte le altre abbracciava l’aspirazione verso una organizzazione militante delle
masse cattoliche la proposta del cappuccino Antonio da Reschio51. Questi
auspicava che tutta la massa del popolo cattolico fosse scompartita in
congregazioni, dai fanciulli agli adulti, dai celibi ai coniugati: i membri di queste
congregazioni dovevano non contrarre né amicizia né matrimonio né
accompagnarsi in altro modo con quelli che non avevan parte in esse. Era in
sostanza la separazione non pure da quelli di fuori della Chiesa o di fuori della
Chiesa praticante, ma addirittura da quelli di dentro la Chiesa che non entrassero
in questa organizzazione massiccia, tanquam castrorum acies ordinata. Il
disegno del cappuccino ripigliava modelli o paganeggianti o gesuitici o utopici, e
ravvisava la perfezione sociale nell’esteriore ordinamento secondo schemi
razionali.
34. I fini del Vaticano II. La pastoralità. – Le tre cause tradizionali sono tutte
riconoscibili anche nelle finalità perseguite dal Vaticano II, sebbene variamente
enunciate e variamente rilevate, primeggiando ora l’una ora l’altra
nell’attenzione e nell’intenzione. Furono poi tutte avvolte in una qualificazione
che sembrò peculiare e che si espresse col termine di pastoralità.
Il terzo fine riprende la causa unionis. Il Papa dice che la causa «riguarda gli
altri cristiani» e che solo la Chiesa cattolica può loro offrire la perfetta unità di
Chiesa. Egli sembra così tenersi dentro la dottrina tradizionale: l’unione ha già il
suo centro definito in cui hanno da concentrarsi le parti dissite e staccate. Egli
aggiunge che «i movimenti recenti e tuttora in pieno sviluppo in seno alle
comunità cristiane da noi separate dimostrano che l’unione non si può
raggiungere che nell’identità della fede, nella partecipazione ai medesimi
sacramenti e nell’armonia organica di un’unica direzione ecclesiastica». E così
riafferma la necessità del triplice consenso, dogmatico, sacramentale e
gerarchico. Però suppone che l’aspirazione dei separati all’unità sia aspirazione
alla dogmatica, alla sacramentalità e alla autorità, quali si trovano nella Chiesa
cattolica. Invece i protestanti concepiscono l’unità come un mutuo
avvicinamento onde tutte le confessioni si muovono verso un unico centro,
interno forse alla comunità dei cristiani, ma non coincidente con il centro di
unità che la Chiesa Romana professa di essere, di possedere e di comunicare agli
altri (§§ 245 sgg.).
Il Papa concepisce il dialogo col mondo come identico col servizio che la
Chiesa deve prestare al mondo e talmente dilata l’idea del servizio, da dire
espressamente che i Padri non sono convocati per trattare le cose loro, cioè della
Chiesa, bensì quelle del mondo. L’idea che il servizio della Chiesa al mondo è
ordinato a far servire il mondo al Cristo, di cui l’individuo storico è la Chiesa, e
che il dominio della Chiesa non implica servitù dell’uomo, ma anzi elevazione e
signoria dell’uomo, viene qui scarsamente lumeggiata. Sembra che il Papa
voglia fugare ogni taccia o suspicione di dominio, di qualunque sorta
indistintamente, e contrapporre a servizio conquista, mentre è pure parola del
Cristo «ego vici mundum».
Nel discorso di apertura del secondo periodo Paolo VI discopre la scena del
mondo moderno, con le persecuzioni religiose, l’ateismo divenuto principio
della vita sociale, l’abbandono della scienza di Dio, l’avidità di ricchezza e di
piaceri. «A tal vista» dice il Papa «noi dovremmo essere spaventati piuttosto che
confortati, addolorati piuttosto che rallegrati». Ma, come si vede, il Papa adopera
un condizionale e non esplicita la protasi di quel discorso ipotetico. Egli seguiva
d’altronde i passi di Giovanni XXIII che nel discorso dell’11 ottobre 1962
prevedeva «universale irradiazione della verità, retta direzione della vita
individuale, domestica e sociale». E nel discorso di Paolo VI l’ottimismo non
soltanto colora la previsione, ma s’impianta vigorosamente nella contemplazione
del presente stato della Chiesa. Le parole, paragonate ad altre di senso opposto,
mostrano quanto ampio fosse l’excursus del papale pensiero tra gli estremi e
quanto grande la forza di dimenticanza quando si soffermava in uno di essi:
«Godiamo, fratelli: quando mai la Chiesa fu così consapevole di sé stessa,
quando mai così felice e così concorde e così pronta all’adempimento della sua
missione?».
CAPITOLO IV LO SVOLGIMENTO DEL CONCILIO
L’indebolimento del senso logico, proprio dello spirito del secolo, leva anche
alla Chiesa lo spavento per la contraddizione. Nel discorso inaugurale del
Concilio si celebra la libertà della Chiesa contemporanea nel momento stesso in
cui si confessa che moltissimi vescovi sono imprigionati per la loro fedeltà a
Cristo e in cui, per un accordo voluto dal Pontefice, il Concilio trovasi legato
all’impegno di non pronunciar condanna del comunismo. Questa contraddizione,
che è grande, rimane tuttavia minore rispetto alla contraddizione di fondo, per la
quale si poggia la rinnovazione della Chiesa sopra l’apertura al mondo e poi si
stralcia dai problemi del mondo il problema del comunismo, che ne è il
principalissimo, essenzialissimo e decisivo.
Ora tra il testo latino e la versione italiana del discorso inaugurale vi sono tali
discrepanze che il senso ne rimane mutato. È avvenuto inoltre che lo sviluppo
della letteratura teologica abbia seguito la traduzione anziché l’originale latino.
La discrepanza è tanta che sembra di aver sottocchio una parafrasi anziché una
traduzione. L’originale infatti reca: «Oportet ut haec doctrina certa et
immutabilis cui fidele obsequium est praestandum, ea ratione pervestigetur et
exponatur quam tempora postulant»62. La traduzione italiana recata dall’OR, 12
ottobre 1962, poi riprodotta in tutte le edizioni italiane del Concilio, suona:
«Anche questa però studiata ed esposta attraverso le forme dell’indagine e della
formulazione letteraria del pensiero moderno». Similmente la traduzione
francese: «La doctrine doit être étudiée et exposée suivant les méthodes de
recherche et de présentation dont use la pensée moderne».
Qui nel testo latino Giovanni XXIII ribadisce che la verità dogmatica
ammette molteplicità di espressione, ma la molteplicità concerne l’atto del
significare e giammai la verità significata. Il pensiero papale continua (è detto
espressamente) l’insegnamento che «splende negli atti conciliari del Tridentino e
del Vaticano I».
Certo con questo intervento che riformava d’un tratto la decisione del
Concilio e derogava al regolamento dell’assemblea si operò una rottura della
legalità, passando dal regime collegiale al regime monarchico. La rottura della
legalità significò anche un nuovo cursus non dico dottrinale, ma di orientamento
dottrinale. I postscenia del repentino mutamento dell’intenzione papale sono
oggi noti69, ma importano meno assai che l’elemento di potenza venuto a
sovrapporsi alla legalità conciliare. Il risultato della votazione poteva dal Papa
essere inficiato se fosse risultato un vizio nella legalità o se fosse preceduta al
voto una riforma della legge, quale seguì di fatto sotto Paolo VI che tornò alla
maggioranza semplice. Ma, nei termini in cui avvenne, l’intervento papale
costituisce una tipica sovrapposizione del Papa al Concilio, tanto più notevole in
quanto il Papa fu presentato allora come tutore della libertà del Concilio. Questa
sovrapposizione non è un motus proprius, ma conséguita a rimostranze e
sollecitazioni che trattando la maggioranza qualificata richiesta dal Regolamento
come una «finzione giuridica» le passava sopra per far riconoscere dal Papa il
principio puro della maggioranza.
Il gesto del card. Liénart fu riguardato dalla stampa come un colpo di forza
con cui il vescovo di Lille «infléchissait la marche du Concile et entrait dans
l’histoire»70. Ma tutti gli osservatori vi riconoscono un autentico discrimen nelle
sorti del Sinodo ecumenico, uno di quei punti cioè in cui si contrae in un istante
la storia che andrà poi devolvendosi. Lo stesso Liénart infine, nelle citate
memorie, conscio (almeno a posteriori) degli effetti di quel suo intervento e
preoccupato di escludere che fosse premeditato e concertato, lo interpreta come
un’ispirazione carismatica: «Je n’ai parlé que parceque je me suis trouvé
contraint de le faire par une force supérieure en laquelle je dois reconnaître celle
de l’Esprit Saint». Così il Concilio sarebbe stato comandato a Giovanni XXIII,
secondo la sua propria testimonianza, da una suggestione dello Spirito e il
Concilio da lui preparato avrebbe subito tosto una brusca voltata per una mossa
che lo stesso Spirito diede al cardinale francese. Del ripudio dell’indirizzo del
Concilio preparato abbiamo adesso in ICI, n. 577, p. 41 (15 agosto 1982) una
aperta confessione del p. Chenu, uno degli esponenti della corrente
ammodernante. L’eminente domenicano e il suo confratello p. Congar rimasero
sconcertati alla lettura dei testi della Commissione preparatoria, che apparivano
astratti, antiquati, estranei alle aspirazioni dell’umanità contemporanea, e
promossero un’azione per fare uscire il Concilio da questo campo chiuso e
aprirlo alle esigenze del mondo, inducendo l’Assemblea a manifestare la nuova
ispirazione in un messaggio all’umanità. Il messaggio (dice p. Chenu)
«impliquait une critique sévère du contenu et de l’esprit du travail de la
Commission officielle préparatoire». Il testo da proporre al Concilio fu
approvato da Giovanni XXIII, dai cardinali Liénart e Garrone, Frings e Döpfner,
Alfrink, Montini e Léger. Esso svolgeva questi motivi: che il mondo moderno
aspira al Vangelo, che tutte le civiltà contengono una virtualità che le spinge al
Cristo, che il genere umano è unità fraterna al di là delle frontiere, dei regimi e
delle religioni, che la Chiesa lotta per la pace, lo sviluppo e la dignità degli
uomini. Il testo, affidato al card. Liénart, fu poi modificato in alcune parti, senza
spogliare il carattere originario antropocentrico e mondano, ma le modificazioni
lasciarono insoddisfatti i suoi promotori. Fu votato il 20 ottobre da
duemilacinquecento Padri. Circa l’effetto dell’azione è rilevante la dichiarazione
di p. Chenu: «Le message saisit efficacement l’opinion publique par son
existence même. Les pistes ouvertes furent presque toujours suivies par les
délibérations et les orientations du Concile».
Conviene peraltro domandarsi se qui non si scambi con una cospirazione nel
senso politico quel naturale accomunarsi nell’azione assembleare di quei membri
che si trovano cospiranti per consenso nelle dottrine, per omogeneità di
interpretazioni storiche e per conseguente identità di intenti. Non è certo da
negare che qualunque corpo di individui adunati per lo stesso titolo ad assolvere
un officio sociale vada soggetto ad influssi. Senza tali influssi esso non può
costituirsi come vero corpo funzionante e passare dallo stato di moltitudine
atomistica a quello di assemblea organica. Tali influssi si esercitarono sempre sui
Concili e non sono un’accidentalità o un vizio, ma appartengono alla struttura
conciliare. Se poi tutti questi influssi siano stati sempre conformi alla natura di
un’assemblea conciliare o se alcuni siano venuti da fuori del Concilio per
usurpazione del politico, non importa qui decidere.
È l’idea stessa di assemblea, qualunque essa sia, che importa non solo la
liceità di tali influssi, ma la necessità loro. L’essere di assemblea, in quanto tale,
nasce infatti quando gli individui della collezione si fondono come un’unità. Ora
che cosa è che opera tale fusione se non l’azione dei reciproci influssi? Certo si
danno nella storia anche influssi violenti e anzi, secondo una scuola che noi
rifiutiamo, sono solo i violenti, cioè non propriamente gli influssi ma le rotture,
quelli che piegano il corso degli eventi. Ma, impregiudicata questa questione,
teniamo per certo che soltanto grazie alla cospirazione un numero di uomini
raccolti in assemblea può trascendere lo stato atomistico ed essere informato da
un pensiero. Un’assemblea conciliare, che è un ceto di uomini ragguardevoli per
virtù, dottrina e disinteressatezza, ha certo un dinamismo diverso che non la
massa popolare, quella che il Manzoni (Promessi Sposi, cap. XIII) chiamava un
corpaccio in cui entrano successivamente opposte anime a farlo muovere o verso
azioni atroci di ingiustizia e di sangue o verso gli opposti consigli della giustizia
e della pietà. Ma che ogni assemblea sia un organismo solo se intervenga quella
cospirazione a differenziare e organare la pluralità, ci pare verità di psicologia e
di storia. E la verità è così patente che il Regolamento interno del Concilio
raccomandava nel § 3 dell’art. 57 che i Padri consenzienti nelle vedute
teologiche e pastorali si associassero in Gruppi per sostenerle in Concilio o farle
sostenere da loro deputati.
44. L’azione papale nel Vaticano II. La «Nota praevia». – Con Giovanni
XXIII l’autorità papale apparve soltanto come desistenza dal preparato Concilio,
con l’effetto radicale che ne venne, e come condiscendenza al movimento che il
Concilio, rotta la continuità con la sua preparazione, volle darsi da sé stesso.
Alcuni decreti particolari, presi da Giovanni XXIII senza parteciparli
all’assemblea, hanno il carattere della singolarità. Tale è l’introduzione di san
Giuseppe nel canone della Messa, nel quale da san Gregorio Magno non s’era
fatta novità. L’introduzione fu tosto vivamente biasimata, sia per i prevedibili
effetti antiecumenici, sia per la sembianza che aveva di seguire una pura
preferenza personale del Pontefice, benché in effetto essa fosse invece
caldeggiata da lunga pezza da vasti ceti della Chiesa. Non ebbe che durata
effimera, precipitando anch’essa nell’Erebo dell’oblìo come altre cose di quel
Papa che dispiacquero al consensus conciliare.
Paolo VI, benché secondasse in generale il moto del Concilio nel senso
ammodernante annunciato nell’allocuzione inaugurale, si trovò a doversi
separare dai sentimenti in esso predominanti e a far uso dell’autonoma autorità
papale in alcuni punti del dibattito.
45. Ancora l’azione papale nel Vaticano II. Interventi sulla dottrina
mariologica. Sulle missioni. Sulla morale coniugale. – Il secondo intervento
papale è sul culto mariano. Come peculiarissimo alla religione cattolica il culto
mariano doveva essere trattato solo perfuntoriamente da un Concilio che aveva
ormai fatta preponderare alle altre la causa unionis. Doveva bastare un capitolo
sulla Madonna, e non occorreva uno schema peculiare, come aveva previsto la
commissione preparatoria. Fin dai primordi infatti il Sinodo si era trovato sotto
gli influssi delle scuole teologiche alemanniche influenzate dalla mariologia
protestante che non si voleva contraddire. Questa, come d’altronde l’Islam,
riserba alla Madonna un’osservanza di pura venerazione, ma respinge il culto
vero e proprio che la Chiesa presta in un grado specialissimo alla Madre di Gesù.
Tra i molti titoli di cui la pietà cattolica ha fregiato la Vergine alcuni, anzi i più,
procedono dalla fantasia poetica e dal vivido sentimento affettuoso delle plebi
cristiane; altri al contrario suppongono o producono un teorema teologico.
L’Incoronazione della Vergine, per esempio, è entrata in stupende creazioni
dell’arte, ma è rimasta fuori della teologia, laddove l’Assunzione è entrata nelle
figurazioni dell’arte e anche nella teologia, essendo infine dogmatizzata da Pio
XII nel 1950. Le ragioni del dogma dell’Assunta si trovano nelle profonde
connessioni ontologiche tra la persona della Madre e l’individuo teandrico.
Tra i molti titoli quello di Madre della Chiesa voleva Paolo VI che fosse
consacrato nello schema sulla Beata Vergine o per lo meno nel capitolo del de
Ecclesia a cui lo schema fu ridotto. Ma non lo voleva l’assemblea. Il titolo è
fondato sulla ragione teo-e antropologica: essendo Maria madre vera del Cristo
ed essendo il Cristo il capo della Chiesa e per così dire la Chiesa contratta (come
la Chiesa, se ci è lecito adottare il linguaggio del Cusano, è il Cristo espanso) il
passaggio da Madre di Cristo a Madre della Chiesa è irreprensibile. Ma la
maggioranza del Sinodo ritenne questo titolo non specificamente diverso da
quelli, ondeggianti tra il poetico e lo speculativo, che sono di incerto significato,
mancano di base teologica e ostano alla causa unionis, e rimostrò contro la
proclamazione. Il Santo Padre allora, con atto di autonoma autorità, procedette
alla proclamazione solenne nel discorso di chiusura della terza sessione il 21
novembre 1964, essendo accolto in silenzio da un’assemblea altrimenti
scorrevole all’applauso.
Poiché il titolo era stato dalla Commissione teologica espunto dallo schema
(nonostante un’imponente raccolta di suffragi in favore) e il vescovo di
Cuernavaca l’aveva addirittura impugnato in aula, l’atto del Papa eccitò vive
rimostranze. Dal fatto traspaiono le interne dissensioni del Concilio e gli spiriti
antipapali della frazione ammodernante. Né si può contro l’evidenza dei fatti
accettare la dichiarazione del card. Bea. Egli aveva ragione di rilevare che,
essendo mancato un voto esplicito dell’assemblea sull’attribuzione o no di quel
titolo alla Vergine, non era legittimo contrapporre la volontà non manifestata del
Concilio alla volontà del Papa autoritativamente espressa. Però, andando oltre
l’argomento, il cardinale tentava addirittura di stabilire consenso tra Papa e
Concilio, arguendo che tutta la dottrina mariologica sviluppata nella
Costituzione conteneva implicitamente il titolo di Mater Ecclesiae. Ma una
dottrina implicita è una dottrina potenziale e chi ricusa di esplicitarla, cioè di
trarla all’atto, dissente certamente da chi invece ne domanda l’esplicitazione. La
dichiarazione del Bea, che stava tra gli oppositori, è soltanto una forma di
ossequio e di riparazione nei confronti del Papa. Riposa su un’argomentazione
sofistica che pareggia l’implicito all’esplicito, e tenta togliere significato ai fatti.
Chi rifiuta di esplicitare una proposizione implicita non ha lo stesso sentimento
di chi la vuole esplicitata, giacché, non volendo esplicitarla, in realtà non la
vuole.
46. Sintesi del Concilio nel discorso di chiusura della quarta sessione.
Confronto con Pio X. Chiesa e mondo. – Il discorso di chiusura di tutto il
Concilio è in realtà quello pronunciato da Paolo VI il 7 dicembre 1965 al termine
della IV sessione, perché quello dell’8 dicembre è soltanto un’allocuzione
salutatoria e ceremoniale. Gli spiriti che avevano dominato appaiono più chiari
che nelle singole manifestazioni papali intercorrenti. Più vi si apprende di quanto
era nella mente di Paolo VI che non si apprenda dai testi conciliari medesimi. Il
documento ha un carattere ottimistico che lo ricongiunge all’allocuzione
inaugurale di Giovanni XXIII: la concordia tra i Padri è «meravigliosa», l’ora
della conclusione è «stupenda». In questa generale colorazione per così dire
eutimica (il Concilio «è molto e volutamente ottimista») si confondono le
singole parti della sinossi papale. Le parti nere, che pure si impongono
all’osservazione del Papa e non vengono taciute, sono investite dai riflessi dello
spirito eutimico. Così la diagnosi dello stato del mondo presente riesce
ultimamente e apertamente positiva. Il Papa riconosce la generale dislocazione
della concezione cattolica della vita e vede «anche nelle grandi religioni etniche
del mondo turbamenti e decadenze non prima sperimentate». In questa pericope
era forse da fare eccezione almeno per l’Islam che conosce in questo secolo
incrementi ed elevazioni nuove. Ma nel discorso appare manifesto il
riconoscimento della tendenza generale dell’uomo moderno alla citeriorità
(Diesseitigkeit) e il progressivo fastidio di ogni ulteriorità e trascendenza
(Jenseitigkeit). Ma, fatta questa esatta diagnosi del moderno vacillamento il Papa
la mantiene nell’ambito puramente descrittivo e non riconosce alla crisi il
carattere di un’opposizione principiale all’assiologia cattolica che è quella
dell’ulteriorità.
Qui vien fatto di domandarsi: rivolta per raggiungerlo o per attrarlo a sé?
Certo l’officio di verità che incombe alla Chiesa discende dall’officio suo di
carità verso il genere umano. Anche la crudezza della correzione dottrinale,
quale fu un tempo esercitata, diviene mostruosa se la si separa dalla carità,
giacché c’è caritas severitatis e caritas suavitatis. Ma la difficoltà consiste nel
non trasgredire la verità per ragione di carità e nell’accostarsi all’umanità
moderna che è in movimento antropotropico, non per secondarne il moto, ma per
invertirlo. Non si danno due centri del reale, ma un centro solo e degli epicicli. E
non so se in questo discorso Paolo VI abbia sufficientemente precisato il
carattere meramente mediativo dell’umanesimo cristiano, giacché la carità non
può far accettare come fine ultimo, nemmeno perfuntoriamente, quello che nella
veduta antropologica è invece proprio il fine ultimo: il trionfo e la teosi
dell’uomo.
Ma detto questo, divien chiaro che lo spirito del Concilio, cioè quello che
giace in fondo ai decreti conciliari e che è come l’apriori del Concilio, non si
identifica certo con la lettera del Concilio, ma neanche però è indipendente dalla
lettera del Concilio. In che cosa infatti si esprime un corpo deliberante se non nel
dispositivo e nel deliberato suo? Perciò l’appello allo spirito del Concilio,
massime da parte di quelli che intendono oltrepassare il Concilio, è un
argomento equivoco e quasi un pretesto per allogare nel Concilio lo spirito
proprio di novazione.
Qui è da osservare che essendo lo spirito niente più che il principio del
Concilio, ammettere in esso pluralità di spiriti equivarrebbe a porre una pluralità
di Concili, definita come ricchezza da alcuni autori. La supposizione che lo
spirito del Concilio sia molteplice può sorgere soltanto dall’incertitudine e dalla
confusionalità che viziano certi documenti conciliari e che occasionano la teoria
dell’oltrepassamento del Concilio ad opera del suo spirito.
Oltrepassamenti franchi sono pure quelli in cui, tenendo in non cale la lettera
del Concilio, si sviluppano le riforme in senso opposto alla volontà legislativa
del Concilio. L’esempio più cospicuo rimane quello della universale
eliminazione della lingua latina dai riti latini, la quale secondo l’articolo 36 della
Costituzione sulla liturgia si doveva conservare nel rito romano e che viceversa
fu di fatto proscritta, celebrandosi dappertutto la Messa nelle lingue volgari, sia
nella parte didattica sia nella parte sacrificale. Vedi §§ 277-83.
49. Ermeneutica neoterica del Concilio. Variazioni semantiche. Il vocabolo
“dialogo”. – La profondità della variazione operatasi nella Chiesa nel periodo
postconciliare si desume anche dagli imponenti cangiamenti intervenuti nel
linguaggio. Taccio della scomparsa dall’uso ecclesiale di taluni vocaboli come
inferno, paradiso, predestinazione, significativi di dottrine che non si trattano
nemmeno una volta negli insegnamenti conciliari. Poiché la parola consegue
all’idea, la loro scomparsa arguisce scomparsa o quanto meno ecclissazione di
quei concetti un tempo salienti nel sistema cattolico.
Alcuni vocaboli che non erano mai stati frequentati nei documenti papali e
stavano relegati in campi circoscritti, hanno acquistato nel baleno di pochi anni
una diffusione prodigiosa. Il più notevole è il vocabolo dialogo, prima ignoto
affatto alla Chiesa. Il Vaticano II lo adoperò invece ventotto volte e coniò la
formula celeberrima che indica l’asse e l’intendimento primario del Concilio:
«dialogo col mondo» (GS, 43) e «mutuo dialogo» tra Chiesa e mondo76. Il
vocabolo diventò un’universale categoria della realtà, esorbitando dall’ambito
della logica e della rettorica in cui era prima circoscritto. Tutto ebbe struttura
dialogica. Si avanzò sino a configurare una struttura dialogale dell’essere divino
(in quanto uno, non in quanto trino), una struttura dialogale della Chiesa, della
religione, della famiglia, della pace, della verità e via dicendo. Tutto diventa
dialogo e la verità in facto esse dilegua nel suo proprio fieri come dialogo. Vedi
più avanti i §§ 151-677.
Sempre nel Sinodo del 1980 sulla famiglia apparve nei gruppi neoterici l’uso
del vocabolo approfondimento. Mentre si ricerca l’abbandono della dottrina
insegnata da Humanae vitae, le si professa intera adesione, ma si domanda che la
dottrina venga approfondita, non cioè confermata con nuovi argomenti, ma
mutata in altra. La profondità consisterebbe nel ricercare e ricercare finché si
approda alla tesi opposta.
51. Caratteri del postconcilio. L’universalità del cangiamento. – Il primo
carattere del tempo postconciliare è quello di un cangiamento generalissimo che
investe tutte le realtà della Chiesa, sia ad intra, sia ad extra. Sotto questo aspetto
il Vaticano II espresse una forza spirituale così imponente da doversi porre in un
posto singolare nella serie dei Concili. Questa universalità della variazione
introdotta pone anche la questione: non si tratta forse di una mutazione
sostanziale, come dicemmo nei §§ 33-5, analoga a quella che in biologia
chiamasi idiovariazione? Si forma la domanda, se non stia attuandosi il
passaggio da una religione a un’altra, come molti, e del ceto chiericale e del ceto
laicale, non si peritarono di proclamare. Se così fosse, il nascimento del nuovo
importerebbe la morte del vecchio, come in biologia e in metafisica. Il secolo del
Vaticano II sarebbe allora un magnus articulus temporum, il colmo di uno dei
giri che lo spirito umano vien facendo nel suo perpetuo ravvolgersi in sé
medesimo. Si può anche porre la questione in altri termini: il secolo del Vaticano
II non darebbe forse la dimostrazione della pura storicità della religione
cattolica o, che è lo stesso, della non-divinità della religione cattolica?
L’ampiezza della variazione si può quasi dire esaustiva81. Delle tre classi di
atteggiamenti in cui si compendia la religione, circa cioè le cose da credere,
circa le cose da sperare e circa le cose da amare non ve ne è alcuna che non sia
stata toccata e tendenzialmente variata. Nell’ordine noologico la nozione di fede
da atto dell’intelletto vien trasposta ad atto della persona e da adesione a verità
rivelate diventa tensione di vita, trasgredendo così nella sfera della speranza (§
164). La speranza abbassa il suo oggetto, divenendo aspirazione e aspettazione
di una liberazione e trasformazione terrestre (§ 168). La carità che, come la fede
e la speranza ha un oggetto formalmente soprannaturale (§ 169), abbassa
similmente il proprio termine volgendosi all’uomo, e già vedemmo nel discorso
di chiusura del Concilio essere l’uomo proclamato condizione dell’amor di Dio.
E non anticipo qui quel che sarà da dire trattando delle novità nelle strutture
della Chiesa, negli istituti del diritto, nei nomi delle cose, nella filosofia e nella
teologia, nella coesistenza alla società civile, nella concezione del coniugio, nelle
attinenze infine della religione con la civiltà in genere.
Sì, ma conviene osservare tre cose. Primo: vi sono anche quelli che gli
Scolastici chiamavano accidenti assoluti, cioè accidenti che non si identificano
con la sostanza della cosa, ma senza dei quali la cosa non è. Tale è la quantità
nella sostanza corporea e tale è nella Chiesa la fede.
Secondo: benché nella vita della Chiesa vi siano parti accidentali, non tutte le
accidentalità possono indifferentemente essere assunte o deposte dalla Chiesa,
giacché come ogni cosa ha certi accidenti e non altri (una nave di cento stadi,
diceva Aristotele, non è più una nave) e come, per esempio, il corpo ha
l’estensione e non la coscienza, così la Chiesa ha certi accidenti e non altri, e ve
ne sono di quelli che non compatiscono con l’essenza sua e la distruggono. Il
perpetuo combattimento storico della Chiesa fu nel rigettare le forme accidentali
che le si venivano insinuando dentro o imponendo da fuori e che avrebbero
distrutto l’essenza sua. Per esempio, il monofisismo non era forse un modo
accidentale di intendere la divinità di Cristo? E lo spirito privato di Lutero non
era forse un modo accidentale di intendere l’azione dello Spirito Santo?
Terzo: le cose e i generi di cose, che dicemmo essere stati investiti dal
cangiamento postconciliare, sono bensì accidenti nella vita della Chiesa, ma gli
accidenti non si devono riguardare come indifferenti, che possano essere e non
essere, essere in un modo o essere in un altro, senza che ne resti mutata l’essenza
della Chiesa. Non è certo qui il luogo di introdurre la metafisica e richiamare il
De ente et essentia di san Tommaso. Pure è necessario ricordare che la sostanza
della Chiesa non sussiste che negli accidenti della Chiesa e che una sostanza
inespressa, cioè senza accidenti, è una sostanza nulla, un nonente. Tutta
l’esistenza storica di un individuo si raccoglie d’altronde dagli atti suoi,
intellettivi e volitivi: ora che cosa sono intellezioni e volizioni se non realtà
accidentali che accidunt, vengono e vanno, sorgono e dileguano? Eppure il
destino morale, di salvazione o perdizione, dipende proprio da quegli accidenti.
Dunque anche tutta la vita storica della Chiesa è la vita di lei nelle accidentalità e
contingenze. Come non riconoscere rilevanti e, si badi, sostanzialmente rilevanti
le accidentalità sue? E i cangiamenti che accadono nelle forme accidentali non
sono cangiamenti, accidentali e storici, dell’immutabile essenza della Chiesa? E
dove tutte tutte le accidentalità cangiassero, come potremmo riconoscere che non
cangiata è la sostanza medesima della Chiesa? Che cosa resta dell’umana
persona, quando tutto il suo rivestimento accidentale e storico vien mutato? Che
cosa resta di Socrate senza l’estasi di Potidea, senza i colloqui dell’agorà, senza i
Cinquecento e la cicuta? Che cosa resta del Campanella senza le cinque torture,
senza la cospirazione di Calabria, senza i tradimenti e i patimenti? Che cosa resta
di Napoleone senza il Consolato, senza Austerlitz e Waterloo? Eppure tutte
queste cose sono gli accidenti dell’uomo. I Platonici che separano le essenze
dalla storia le ritroveranno nell’iperuranio. Ma noi dove?
GS, 30, porta uno dei testi più straordinari a questo proposito. L’officio
morale che deve primeggiare nell’uomo di oggi (dice) è la solidarietà sociale
coltivata con l’esercizio e la diffusione della virtù, «ut vere novi homines et
artifices novae humanitatis exsistant cum necessario auxilio divinae gratiae»84.
Qui conviene rilevare che la teologia cattolica, anzi la fede cattolica, non
conosce che tre novità radicali capaci di innovare l’umanità e quasi
transnaturarla. La prima è difettiva, ed è quella per cui dallo stato di integrità e
soprannaturalità l’uomo decadde a cagione della colpa primordiale. La seconda è
restaurativa e perfettiva, ed è quella per cui la grazia del Cristo ripara lo stato
originario e lo solleva inoltre sopra la costituzione originaria. La terza è quella
completiva dell’ordine intero, per cui alla fine dei secoli l’uomo graziato viene
anche beatificato e glorificato in una assimilazione somma della creatura al
creatore, assimilazione che tanto in via Thomae quanto in via Scoti è il fine
stesso dell’universo. Non è dunque possibile figurare una umanità nuova che,
restando nell’ordine presente del mondo, oltrepassi la condizione di novità in cui
è trasferito l’uomo per la grazia del Cristo. Un tale oltrepassamento è dato sì, ma
nell’ordine della speranza, essendo destinato ad avverarsi nel novissimo
momento di tutte le creature, quando vi saranno una terra nuova e cieli nuovi.
Quarto, perché non si può scambiare l’uscita missionaria della Chiesa nel
mondo con l’uscita della Chiesa fuori di sé stessa. Quest’ultima infatti è un
passaggio dal proprio essere al proprio nonessere, mentre l’altra è l’espansione e
propagazione del proprio essere al mondo. È d’altronde storicamente incongruo
caratterizzare per missionaria la Chiesa contemporanea, che non converte più
nessuno, e negare un tal carattere a quella che in tempi a noi vicini convertì
Gemelli, Papini, Psichari, Claudel, Péguy ecc. Per tacere, naturalmente, delle
missioni di Propaganda fide fiorenti e gloriose sino ad epoca recente.
Il p. Congar ribatte che la Chiesa di Pio IX e Pio XII è finita. Come se fosse
un parlare cattolico il parlare della Chiesa di questo o quel Pontefice o della
Chiesa del Vaticano II, anziché della Chiesa universale ed eterna nel Vaticano II.
E mons. Polge, arcivescovo di Avignone, in OR del 3 settembre 1976, dice in
tutte lettere che la Chiesa del Vaticano II è nuova e che lo Spirito Santo non
cessa di trarla dalla staticità. La novità poi consiste, secondo il presule, in una
nuova definizione di sé, cioè nella scoperta della sua nuova essenza, e la nuova
essenza consiste nell’«aver ricominciato ad amare il mondo, ad aprirsi ad esso, a
farsi dialogo».
Abbiamo già toccato l’impossibilità del nuovo nella base della Chiesa e di
una rinascita della Chiesa che soppianti fondamento a fondamento. L’uomo è
rinato nel battesimo e la sua rinascita esclude una terza nascita che sarebbe un
epifenomeno della rinascita e una mostruosità. Antonio Rosmini la chiama
formalmente un’eresia. Il cristiano è un rinato e soltanto per lui anche la Chiesa
è rinata, e come non c’è per il cristiano ulteriore grado di vita che quello
escatologico, così non si dà per la Chiesa ulteriore grado che quello
escatologico88.
Che non vi siano nella Chiesa mutazioni della base, ma soltanto sulla base, è
suffragato anche dalla prova storica. Tutte le riforme che si operarono nella
Chiesa furono attuate sul fondamento antico e non tentarono un fondamento
nuovo. Tentare un fondamento nuovo è il sintomo essenziale dell’eresia, da
quella gnostica dei primi secoli a quelle catare e pauperistiche dei tempi di
mezzo a quella grandiosa d’Alemagna. Toccherò due casi.
È superfluo quindi allegare la diagnosi che della crisi della Chiesa fanno gli
uomini di fuori, i quali consuonano nel ritenere che la Chiesa abbia «selezionato
nella sua tradizione gli aspetti da porre in prima fila e quelli da modificare
radicalmente» componendosi col mondo moderno92. Questa composizione esige
una dislocazione che il Vaticano II avrebbe avviata, certo non volutamente, verso
l’immanenza, con l’abolizione tendenziale della legge in favore dell’amore, del
logico in favore dello pneumatico, dell’individuale in favore del collettivo,
dell’autorità in favore dell’indipendenza, del Concilio stesso in favore dello
spirito del Concilio93.
Il vescovo francese mons. Ancel addossa alle deficienze della Chiesa gli
errori del mondo moderno perché «aux problèmes réels nous ne fournissons que
des réponses insuffisantes»94. Innanzitutto occorrerebbe precisare di chi tiene le
veci quel pronome nous: noi cattolici? la Chiesa? noi pastori? In secondo luogo è
falso, nel sistema cattolico, che gli errori nascono per difetto di soluzioni
soddisfacenti, perché essi coesistono sempre e ai problemi e alle soluzioni vere
le quali, nelle cose essenziali al destino morale dell’uomo, la Chiesa possiede e
insegna perpetuamente. Ed è strano che quelli che dicono l’errore essere
necessario alla ricerca della verità, dicano poi bustrofedicamente che la ricerca
della verità sia impedita dall’errore. D’altronde l’errore ha la sua responsabilità
autonoma e non si deve caricarla a chi non è nell’errore.
Pierre Pierrard ripudia tutta la polemica sostenuta dai cattolici nel secolo XIX
contro l’anticlericalismo e scrive addirittura che il motto Le cléricalisme, voilà
l’ennemi, tenuto per infernale, i preti lo fanno oggi proprio, essendo quel passato
della Chiesa una negazione del Vangelo95.
Come il peccato dei battezzati non pregiudichi alla santità della Chiesa è
spiegato in Summa theol., III, q. 8, a. 3 ad secundum e nel tridentino
Catechismus ad parochos nella sezione del simbolo, ma rimane nozione
implessa che soltanto una distinzione rigorosa può render chiara. Conviene
infatti distinguere bene l’elemento naturale da quello soprannaturale che produce
la nuova creatura, l’elemento soggettivo da quello oggettivo, l’elemento storico
da quello soprastorico che vi opera dentro.
Queste ragioni e questi fatti non sgombrano però il campo da ogni obiezione.
Paolo VI concede ai denigratori che «la storia della Chiesa ha lunghe e molte
pagine punto edificanti» (OR, 6 giugno 1972), ma troppo debolmente discerne
tra santità oggettiva della Chiesa e santità soggettiva dei suoi membri. E in un
altro discorso usa questi termini: «La Chiesa dovrebbe essere santa, buona,
dovrebbe essere come l’ha pensata e ideata Cristo, e talora vediamo che non è
degna di questo titolo» (OR, 28 febbraio 1972). Sembra che il Pontefice muti in
soggettiva una nota oggettiva. Dovrebbero i cristiani essere santi, e lo sono
inquanto graziati, ma la Chiesa è santa. Non sono i cristiani che fanno santa la
Chiesa, ma la Chiesa i cristiani. D’altronde l’affermazione biblica della santità
irreprensibile della Chiesa «non habentem maculam aut rugam» (Ephes., 5, 27)
conviene solo in maniera parziale e incipiente alla Chiesa nel tempo, che pure è
santa. Tutti i Padri riferiscono infatti quella irreprensibilità assoluta non già allo
stato peregrinale e storico di essa, bensì alla finale purificazione escatologica.
59. La cattolicità nella Chiesa. Obiezione. La Chiesa come principio di
divisione. Paolo VI. – Un altro aspetto della denigrazione della Chiesa mi par
necessario non passare senza rilievo, perché fu toccato da Paolo VI il 24
dicembre 1965. «La Chiesa, con il suo dogmatismo così esigente, così
qualificante, impedisce la libera conversazione e la concordia fra gli uomini;
essa è nel mondo un principio di divisione anziché di unione. Ora la divisione, la
discordia, la contesa come sono compatibili con la sua cattolicità e santità?».
Pareggiare la varietà delle religioni alla varietà delle lingue, delle culture e
perfino dei mestieri abbassa la religione, che è il supremo dei valori, al grado di
valori che, benché superiori nel loro genere, sono di un genere inferiore. E
mentre non esiste un linguaggio vero né un’arte vera né un mestiere vero, cioè
assoluto, esiste invece una religione vera, cioè assoluta. E tuttavia anche
interpretando la divisione come pura distinzione, il Papa non riesce a rimuovere
la difficoltà che egli si obiettava e che già in logica gli si affacciava. Ogni
distinzione infatti può ridurre ma non eliminare l’elemento contraddittorio che
trovasi nei distinti: questo elemento esclude una comunanza perfetta tra i distinti
e include sempre qualche cosa che respinge un distinto dall’altro. Il Pontefice
passava perciò dall’ordine della fede, col suo dogmatismo esigente e
qualificante, all’ordine della carità, anzi della libertà, al «rispetto di quanto c’è di
vero e di onesto in ogni religione e in ogni umana opinione, nell’intento
specialmente di promuovere la concordia civile e la collaborazione in ogni sorta
di buone attività». Non mi addentro sul punto della libertà religiosa. Mi basta
osservare che in quel passo del messaggio il principio di unione tra gli uomini
non è più la religione, ma la libertà, e che quindi risorge illesa l’obiezione che il
Pontefice si proponeva di sciogliere, che cioè il cattolicismo sia principio di
divisione. Occorre infatti a produrre l’unione un principio veramente unitivo,
oltrepassante le divisioni religiose, e questo principio secondo Paolo VI è la
libertà.
60. L’unità della Chiesa postconciliare. – Noi discorriamo delle note della
Chiesa postconciliare avendo per regola di rannodare tutti i fenomeni di
incremento a quello che ci sembra il principio del cattolicismo, l’idea della
dipendenza, e tutti i fenomeni di decremento all’idea opposta di indipendenza.
Lo spirito di indipendenza genera la radicalità dei cangiamenti e la radicalità
coincide a sua volta con l’esigenza di creare un mondo nuovo e l’esigenza
creativa infine genera discontinuità dal passato e denigrazione della Chiesa
storica. Ci tocca adesso vedere gli effetti che lo spirito di indipendenza genera
circa l’unità della Chiesa.
Nel già citato drammatico discorso del 30 agosto 1973 Paolo VI piange su
«la divisione, la disgregazione che purtroppo s’incontra ora in non pochi ceti
della Chiesa» e dice addirittura che «la ricomposizione dell’unità spirituale e
reale all’interno della Chiesa è oggi uno dei più gravi e più urgenti problemi
della Chiesa». La situazione di scisma è tanto più grave, perché quelli che si
dividono pretendono non essersi divisi e quelli cui spetta di dichiarare che i
divisi son divisi aspettano invece che gli scismatici stessi si confessino tali. «Si
vorrebbe» dice il Papa «da costoro legalizzare con ogni pretesa tolleranza la
propria appartenenza ufficiale alla Chiesa, abolendo ogni ipotesi di scisma e di
autoscomunica».
Nel discorso del 20 novembre 1976 il Papa ritorna sulla situazione «dei figli
della Chiesa i quali, senza dichiarare una loro rottura canònica ufficiale con la
Chiesa, sono tuttavia in uno stato anormale nei suoi riguardi». Queste asserzioni
sembrano rivestire di soggettivismo un fatto che spetta alla Chiesa di stabilire,
giacché non basta il sentimento soggettivo di essere unito alla Chiesa per far
sussistere il fatto dell’unione. D’altronde c’è nella Chiesa un organo, con
funzione oggettiva, che sa quando l’unità è scissa e che deve, quando sia
necessario, dichiararlo e non già limitarsi a confermare la dichiarazione di chi si
sente scisso. Il Papa esprimendo il suo «grande dolore per il fenomeno che si
diffonde come un’epidemia nelle sfere culturali della nostra comunità
ecclesiale», usava certo una locuzione elusiva e diminuente, giacché il fenomeno
tocca in realtà anche la sfera gerarchica, e la formazione di gruppi isolati e
autocefali è consentita da vescovi e da conferenze episcopali. Il Papa deriva poi
la disunione della Chiesa dal pluralismo: questo dovrebbe contenersi nell’ambito
delle modalità onde si formula la fede, ma trapassa invece nell’ambito della
sostanza della fede; dovrebbe contenersi nell’ambito dei teologi, ma trapassa
invece ai vescovi tra loro dissenzienti. Nel medesimo discorso il Papa vede
anche distintamente essere impossibile che una Chiesa disunita faccia l’unione
tra tutti i cristiani o addirittura tra tutti gli uomini.
Paolo VI, sempre nel discorso del 29 novembre 1973, riferendosi a quelli che
pretendono farsi Chiesa (come sogliono dire) col solo credere di essere Chiesa,
fa della situazione scismatica questo giudizio leniente: «Alcuni difendono questa
ambigua posizione con ragionamenti per sé plausibili, cioè con intenzione di
correggere certi aspetti umani deplorevoli e discutibili della Chiesa, ovvero di far
progredire la sua cultura e la sua spiritualità, oppure di mettere la Chiesa al passo
con la trasformazione dei tempi, e così interrompono quella comunione alla
quale vogliono rimanere congiunti». Singolare è in questo passo paolino
l’identificazione dei ragionamenti plausibili con le intenzioni di emendare la
Chiesa, come se le intenzioni potessero rettificare un ragionamento falso quale è
quello di chi pretende essere nella Chiesa indipendentemente dalla Chiesa, e
come se ogni diserzione dall’unità ecclesiale dovesse essere consaputa e
convalidata dai disertori per produrre davvero scisma nella Chiesa. Non è
attitudine storicamente frequente che, in collisioni di questo genere, chi si separa
neghi di essere separato e anzi affermi di essere più unito con la Chiesa che la
Chiesa con sé stessa? Non appartiene lo scismatico alla Chiesa vera, come dice,
da cui la Chiesa cattolica in qualche modo si separa?
Mons. Riobé, vescovo di Orléans, nel 1974 prese apertamente le difese dei
cappellani catecumenali di Francia che la Conferenza episcopale e il card. Marty
avevano espressamente riprovati (ICI, n. 537, 1979, p. 49). Il card. Döpfner
avendo concesso la basilica monacense di San Bonifacio per rappresentarvi Ave
Eva oder der Fall Maria in vituperio della Madonna, ebbe pubblicamente
biasimi e proteste da mons. Graber, vescovo di Regensburg. Mons. Arceo,
vescovo di Cuernavaca, venne sconfessato dalla Conferenza episcopale del
Messico per aver sostenuto essere il marxismo una componente necessaria del
cristianesimo («Der Fels», agosto 1978, p. 252). Mons. Simonis, vescovo di
Rotterdam, abbandona la sessione del Terzo colloquio pastorale olandese, cui i
confratelli continuano ad assistere connivendo alle proposte di ordinare femmine
e uomini uxorati («Das neue Volk», 1978, n. 47), mentre mons. Gijsen, vescovo
di Roermond, si separa effettualmente dal resto dell’episcopato olandese
istituendo un seminario proprio e rifiutando la nuova pedagogia per la
formazione del clero. Avendo mons. Simonis dichiarato che l’affermazione,
secondo cui la Chiesa cattolica è soltanto una parte della Chiesa, è erronea,
mons. Ernst, vescovo di Breda, lo smentisce e mons. Groot afferma che la
dottrina di mons. Simonis «est carrément en opposition avec l’enseignement du
Vaticane II» (ICI, n. 449, 1974, p. 27).
Nelle attinenze con la politica i vescovi di una medesima nazione sono
spesso discordi. Così per le elezioni presidenziali del Messico del 1982 la
maggioranza raccomandava un candidato mentre una forte minoranza stava per
quello di un partito opposto (ICI, n. 577, 15 agosto 1982, p. 53).
L’episcopato tedesco, che era stato in genere per gli anticoncettivi, aderisce
all’insegnamento di Paolo VI, ma, argomentando dal carattere non infallibile del
documento, concede ai fedeli di dissentire in teorica e in pratica e rimanda
ultimamente al lume privato della coscienza, «purché il dissenziente si chieda in
coscienza se può permettersi un tal dissenso in modo responsabile davanti a
Dio»111. Secondo i vescovi tedeschi il rifiuto «non significa fondamentale rifiuto
dell’autorità papale». Non significa forse, osserviamo, rifiuto del fondamento
dell’autorità, ma senza dubbio rifiuto degli atti concreti di quell’autorità. Ma del
dissenso nella Chiesa della Germania si ebbe una manifestazione clamorosa al
Katholikentag di Essen nel settembre 1968: quell’assemblea discusse e votò a
schiacciante maggioranza (cinquemila contro novanta), alla presenza del legato
pontificio card. Gustavo Testa e di tutto l’episcopato nazionale, tra voci clamanti
le dimissioni del Papa, una risoluzione per la revisione dell’enciclica. Al grave
atto di rifiuto rispondeva OR del 9 settembre facendo noto un messaggio del
Papa che richiamava i cattolici tedeschi alla fedeltà e all’obbedienza (RI, 1968,
p. 878). Il rifiuto dell’enciclica si continuò tuttavia col Sinodo svizzero ‘72, col
sinodo germanico di Würzburg e colla Dichiarazione di Königstein. Il quotidiano
maggiore del cattolicismo elvetico «Das Vaterland» non dismette né rimette sino
ad oggi la contestazione. D’altronde la divisione dei cattolici di Germania tra di
loro e dalla Sede romana si continua e si appalesa sempre più. Il Katholikentag
del 1982 ebbe un contrapposto parallelo e simultaneo in un Katholikentag detto
di base, che riuniva cattolici dissenzienti. Questi cattolici rivendicano la
promiscuità eucaristica, il sacerdozio delle donne, l’abolizione del celibato dei
preti e celebrano una Messa diversa (ICI, n. 579, pp. 15 sgg, ottobre 1982.
Secondo la rivista ci sono in Germania due tipi di cattolici che credono di
costituire un solo tipo).
64. Lo scisma olandese. – La forma più acuta della disunione della Chiesa
presero i dissensi della Chiesa olandese115, partecipati dalla maggioranza di quei
vescovi e venuti a mettere in forse l’autorità del Papa quando non si eserciti
collegialmente. In generale dopo il Concilio la Chiesa allentò il vincolo unitario,
non solo là dove era troppo stretto, ma anche là dove, congiungendo a sé le
Chiese particolari, anche le congiungeva tra di loro. Essa disconobbe quel
grande assioma di tutta l’arte politica che vuole tanto più forte il momento
dell’autorità quanto più grande è la mole da reggere e quanto più diversificato è
il complesso in cui conservare l’unità. Questa massima principale della scienza
politica fu enunciata e praticata dagli antichi. Tacito, Hist., I, 16, fa dire a Galba,
nell’atto di adottare per successore Pisone, che la gran mole dell’impero non
poteva restare in equilibrio senza un unico reggitore. D’altronde la
giustificazione storica del passaggio di Roma dalla repubblica alla monarchia fu
generalmente ricavata da questa esigenza. Anche Paolo VI, all’apertura della
terza sessione del Concilio il 14 settembre 1964, dichiarò che «l’unità della
Chiesa è tanto più bisognosa di una guida centrale, quanto più vasta diventa la
sua estensione cattolica». Ma l’attuazione del difficile principio di collegialità
entrava in collisione con quello della centralità che unifica le varietà nell’atto
medesimo che le preserva e le fa sussistere là dove è il loro luogo, cioè
nell’organicità del corpo ecclesiale.
A una tale denuncia di errori toccanti qualche volta l’essenza della Chiesa,
come la negazione del sacerdozio sacramentale e del primato petrino, il Papa
mette come conclusione nell’originale francese queste parole: «Notre
responsabilité de Pasteur de l’Eglise universelle Nous oblige à vous demander en
toute franchise: que pensez-vous que Nous puissions faire pour vous aider, pour
renforcer votre autorité, pour vous permettre de surmonter les difficultés
présentes de l’Eglise en Hollande?». Certo l’antecedente denuncia fatta dal Papa
dell’attacco degli Olandesi, consenzienti o conniventi i vescovi, ad articoli
essenziali del sistema cattolico esigeva che i vescovi fossero invitati a
riaffermare la fede della Chiesa su quei punti, ma invece di esigere tale
riaffermazione Paolo VI offre ai vescovi olandesi il suo servizio per aiutarli a
rafforzare la loro autorità, mentre in effetti non la loro, ma la propria veniva
disconosciuta: per aiutarli (dice) a superare le difficoltà della Chiesa d’Olanda,
mentre si tratta di difficoltà della Chiesa universale. Le parole con cui il Papa si
rivolge al card. Alfrink converrebbero di più se fossero rivolte a un avversario
dello scisma. Un suono singolare rendono anche le parole con cui il Papa
conforta sé stesso dicendosi «corroborato dall’appoggio di tanti fratelli
dell’episcopato». Dura cosa è per il Papa non poter dire tutti e doversi
appoggiare soltanto sul gran numero, che non è un principio in nessun ordine di
valori morali.
Allo snervamento della sua potestà Papa Montini era inclinato da una
disposizione dell’indole sua, confessata nel suo diario intimo e confidata al
Sacro Collegio nel discorso del 22 giugno 1972 per il IX anniversario della sua
elevazione: «Forse il Signore mi ha chiamato a questo servizio non già perché io
vi abbia qualche attitudine, o perché governi e salvi la Chiesa dalle sue presenti
difficoltà, ma perché io soffra qualche cosa per la Chiesa e sia chiaro che Egli,
non altri, la guida e la salva». La confessione è notabile116. Esorbita da ogni
aspettazione, sia in linea storica sia in linea teologica, che Pietro, deputato da
Cristo a condurre la nave della Chiesa (governare infatti è un traslato dal nautico
pilotare), appaia ritroso a un tal servizio e si rifugi nel desiderio di patire per la
Chiesa. L’officio papale infatti prescrive un servizio di operazione e di governo.
L’atto del governare è estraneo all’indole e alla vocazione di Montini: l’uomo
non trova nel proprio fondo il modo per unire la sua anima al proprio destino:
«peregrinum est opus eius ab eo» (Isai., 28, 21)117. Inoltre nel lasciar prevalere le
propensioni dell’indole alle prescrizioni dell’officio il Papa sembra ravvisare un
maggior esercizio di umiltà nel patire che non nell’operare per l’officio. Non so
se un tal pensiero sia fondato: è certo che proporsi di patire per la Chiesa sia
maggior umiltà che accettare di operare per la Chiesa?
L’avere il Papa riguardato l’officio suo come quello di chi dà regole direttive,
ma non comanda con regole precettive, produce poi in lui la persuasione che
nell’assolvere il compito direttivo si assommi il compito di Pietro. Questo appare
distintamente nella lettera all’arcivescovo Lefèbvre (OR, 2 dicembre 1975). In
essa il Papa, riconosciuta la grave condizione della Chiesa travagliata dalla
caduta della fede, dalle deviazioni dogmatiche e dal rifiuto della dipendenza
gerarchica, riconosce parimenti che spetta anzitutto al Papa di «individuare ed
emendare» le deviazioni, e tosto proclama di non aver cessato mai di levare la
voce rifiutando tali sfrenati ed eccessivi sistemi teorici e pratici. Ed infine
protesta: «Re quidem vera nihil unquam nec ullo modo omisimus quin
sollicitudinem Nostram servandae in Ecclesia fidelitatis erga veri nominis
Traditionem testificaremur»118. Ora, tra le parti integranti del supremo officio
furono sempre noverati gli atti di governo, cioè di potestà iussiva ed obbligante,
senza dei quali l’insegnamento stesso delle verità di fede rimane pura
enunciazione teoretica e di scuola. Per mantenere la verità occorrono due cose.
Prima: rimuovere l’errore in sede dottrinale, il che si fa confutando gli
argomenti dell’errore e dimostrando che non concludono. Seconda: rimuovere
l’errante, cioè deporlo dall’officio, il che si fa per atto autoritativo della Chiesa.
Se questo servizio pontificale vien meno, sembrerebbe non potersi dire che tutti i
mezzi sono stati adoperati per mantenere la dottrina della Chiesa: si verifica una
breviatio manus Domini. Si diffonde allora, senza incontrare sufficiente
impedimento, un concetto minorato dell’autorità e dell’obbedienza, cui
corrisponde un concetto maggiorato della libertà e dell’opinabilità.
69. Carattere di Paolo VI. Autoritratto. Card. Gut. – Sul carattere di Paolo
VI si disputa in infinitum. Ad alcuni sembra che Papa Montini fosse un’indole
perplessa per soverchia ampiezza di vedute. Se l’atto della decisione, secondo la
profonda teorica di san Tommaso, è un atto di troncamento della contemplazione
che l’intelletto fa delle diverse possibilità di azione, è manifesto che quanto più
sono le possibilità contemplate, cioè quanto più ampia è la veduta dell’intelletto,
tanto più tardi sopravviene l’atto che decide, cioè taglia. Questa è, per esempio,
l’interpretazione che del carattere di Paolo VI dà Jean Guitton (op. cit., p. 14) e
riprenderebbe quella data da Giovanni XXIII. Ma secondo altri non di carattere
si tratta, ma di un ampio disegno perfettamente fermo nella mente del Papa.
Mirando a un’accomodazione della Chiesa allo spirito del secolo allo scopo di
prendere la direzione dell’intera umanità in un ordine puramente umanitario,
Paolo VI procederebbe cautamente ora volgendosi da un lato ora dall’opposto,
non coatto ma volente, e sempre nella direzione del prefisso fine. Secondo altri
infine sussiste nella mente del Papa il disegno che dicemmo, ma il procedere per
contrapposti sarebbe dovuto alla spinta delle circostanze. Tale interpretazione
sembrerebbe confermata dall’autoritratto che Paolo VI delineò il 15 dicembre
1969, ripigliando una similitudine nautica di san Gregorio Magno. Il Papa
rappresenta sé stesso come un pilota che ora taglia con la prora per diritto i
cavalloni, ora ne schiva l’assalto per obliquo, piegando il fianco della nave, e
sempre è turbato e forzato. Evidentemente anche in ciascuna di queste
interpretazioni l’azione papale è piegata dalle circostanze e contiene una frazione
di passività (come ogni umano operare), ma nella terza interpretazione questa
frazione è prevalente e sigilla il carattere del pontificato.
Il caso più evidente della frammentazione del rito cattolico per effetto della
desistente autorità è la quasi totale scomparsa delle rubriche precettive e lo
spesseggiare delle formule puramente raccomandative e desiderative, nonché la
moltiplicazione delle possibilità alternative: il celebrante farà un certo gesto o
non lo farà o ne farà un altro a seconda delle opportunità di tempo e di luogo,
che, tranne qualche caso, sono abbandonate al suo apprezzamento. Si aggiunga
che, essendo stato devoluto ai vescovi un gran numero di facoltà prima riservate
alla Santa Sede, essi sono arbitri del modo di applicarle, e così si generano nuove
discrepanze tra nazione e nazione, tra diocesi e diocesi e persino tra parrocchia e
parrocchia. Questa discrepanza si vede, per esempio, nell’uso
dell’autocomunione, licenziata con decreto generale, praticata in certe nazioni,
quasi imposta in altre, vietata viceversa in altre126.
Il sic della legge combinato col non della desistente autorità si configura
talvolta in forme paralogistiche, come si vede, per esempio, in «Notitiae»,
bollettino della Commissione per la riforma liturgica, del 1969, p. 351, che
pubblica contemporaneamente una Instructio vietante e un decreto permettente il
medesimo.
Tutta la riforma della disciplina cela il principio dello spirito privato che si
trova immediate di fronte alla legge, senza mediazione di autorità, e cui si
riconosce a priori quella maturità che secondo la disciplina antica era invece
proprio lo scopo della Chiesa in tutta la sua attività legislatrice. Ed è palese la
transizione fatta dall’ordine precettivo e proibitivo all’ordine puramente direttivo
ed esortativo che riprende l’errore, ma non riprende l’errante, supponendo, come
fu preconizzato nel discorso inaugurale del Concilio, che l’errore generi da sé
stesso dentro di sé la confutazione propria e la persuasione degli opposti veri.
Quanto allo scriver libri la Chiesa del postconcilio non credette di scendere
sino a una tale libertà e si riservò ancora di giudicare, in vista del bene pubblico,
dell’ortodossia degli scritti. Essa infatti oltre il dovere d’insegnare integra e pura
la dottrina, ha quello di preservare dall’errore i membri del consorzio ecclesiale.
Tale secondo dovere fu altamente proclamato nel discorso inaugurale (vedi §
40), ma fu fatto coincidere col primo: basta che la Chiesa insegni e il cristiano
preserverà sé stesso dall’errore, essendo egli reputato capace di dirigersi col suo
retto lume.
Le chiose che l’autore faccia al suo libro, una volta uscito, non mutano la
natura del libro. Quand’anche per impossibile la mutassero facendo risultare il
libro irreprensibile, non se ne dovrebbe tenere, quanto al libro, nessun conto. La
ragione è manifesta. Le chiose giustificanti fatte dall’autore post editum librum
non possono accompagnare il libro dovunque vada e questo corre il suo destino
senza compagnia: Parve sine me, liber, ibis in urbem129.
Ma per tornare alla riforma del Santo Officio, l’intenzione dell’autore non
può fare che le parole scritte, se esprimono l’errore, non esprimano l’errore. La
certezza del senso delle parole è il fondamento di ogni comunicazione tra
uomini. Non si tratta di giudicare lo stato di una coscienza, ma di conoscere il
senso delle parole. E non è punto vero che nell’esame che si faceva di un libro in
Santo Officio non si riguardasse ogni aspetto del libro. Ma appunto si riguardava
ogni aspetto del libro, non le intenzioni dell’autore. E non si oppongano le
lunghe replicate visite dell’Inquisizione a Giordano Bruno tra il 1582 e il 1600,
perché lì non si dialogava per conoscere il vero senso dei libri del filosofo, ma si
ricercava la penitenza e la ritrattazione di lui. Già Benedetto XIV (e credo che la
pratica durasse) volle che un consultore prendesse ex professo le difese del libro,
non già lumeggiando le intenzioni dell’autore, ma interpretando le parole del
testo nel loro proprio senso. Le accuse mosse dunque all’antica procedura
nascono dal misconoscere la natura oggettiva e in sé di ogni scritto e insomma
da un difetto di arte critica130.
Qui però il soggetto del nostro discorso è la variazione della Curia nel suo
funzionamento tecnico e formale. E in primo luogo è da notare la degradazione
della latinità curiale. Non occorre risalire allo stile adamantino e tagliente dei
documenti di Gregorio XVI o a quello elegante di Leone XIII, per avvertire nel
confronto la perdita di nobiltà, di perspicuità e di acribia dello stile curiale. Il
latino del Vaticano II fu sovente deplorato come miserando dai Padri che pure
approvavano il contenuto dei documenti. D’altronde qualcuno dei testi
principali, come la Gaudium et spes, fu in parte redatto primieramente in
francese violando il canone dello stile curiale, che tiene per originale e autentico
il testo latino, e generando quelle incertitudini dell’ermeneutica che già
toccammo al § 39.
Altrove, parlando del fortuito che tronca talora i disegni degli uomini, il Papa
citò dal cap. VII del Principe di Machiavelli le parole del Valentino il quale
(disse il Papa) «a tutto aveva pensato fuorché al caso che egli dovesse
inaspettatamente morire». Ora, l’imprevisto non fu che avesse egli a morire
(come avrebbe potuto narrarlo?), ma che egli si trovasse quasi moribondo (ma
non morì) proprio nei giorni in cui moriva Alessandro VI ed egli aveva divisato
di impadronirsi dello Stato.
In un altro discorso il Papa afferma che «al Concilio era parso bene di
riprendere il termine e il concetto di collegialità». Ora, quel termine non si trova
in nessun testo del Concilio132 e il Papa avrebbe bene potuto introdurvelo, ma
non può però fare che esso ci sia mentre invece non c’è. Nel discorso del 9
marzo 1972 il Papa parla del dono della libertà «che l’uomo a Dio fa simigliante
(cfr. Par., I, 105)», ma cade in un lapsus, perché in quel luogo Dante non parla
della libertà, ma dell’ordine del mondo che, essendo un’idea del divino intelletto
impressa nella creazione, rende il creato simile al creatore.
Di più, cosa che appare davvero strana, il circiterismo si estende anche alle
citazioni della Scrittura. Il 26 luglio 1970 il Papà citò Gal., 5, 6 come se dicesse
che «la fede rende operante la carità», mentre san Paolo dice l’opposto, che cioè
la carità rende operante la fede, come correttamente fu tradotto l’identico passo
in un altro discorso del 3 agosto 1978.
Il peso che questi circiterismi hanno a scemare la stima, che tuttavia si deve
alla Curia romana, non è certo da misurare agli apprezzamenti e alle inclinazioni
che ciascuno abbia verso quel rispettabile istituto del Papato. Ma il vero si è che
il contingente difetto riscontrato nei collaboratori che assistono il Papa, la cui
persona è in qualche modo l’intero organismo culturale della Chiesa cattolica, è
tanto più increscioso, quanto più irreprensibile dovrebbe essere la Sede suprema.
E giova rilevare che se Paolo VI non ebbe avvertite le non immaginarie
deficienze dei suoi collaboratori nello stendere documenti, nell’apparecchiare la
traccia e la selva dei discorsi e nel ricercare autori e citazioni, egli ebbe però
chiara l’idea della perfezione richiesta nel lavoro di chi collabora col Papa. Disse
infatti a Jean Guitton: «La moindre inexactitude, le moindre lapsus dans la
bouche d’un Pape ne peut se tolérer» (op. cit., p. 13).
75. La desistenza della Chiesa nei rapporti con gli Stati. – La desistenza
dell’autorità, che abbiamo indagata ad intra della Chiesa approfondendo la
riforma del Santo Officio, si manifesta altresì nei rapporti con gli Stati sotto
forma di una condiscendenza con cui la Chiesa partecipa al generale processo
che volge alla distensione internazionale. La cosa è manifesta, ma noi non ci
addentreremo in una materia che non spetta direttamente a un libro come questo
e che ci porterebbe a lumeggiare qualche fatto famoso. Alludiamo
massimamente alla rimozione del cardinale Giuseppe Mindszenty dalla sede
primaziale d’Ungheria, alla volontaria umiliazione della legazione pontificia
durante le celebrazioni del 1971 per l’insediamento del nuovo Patriarca
ortodosso, quando il card. Willebrands e tutta l’ambasceria papale ascoltarono
senza motto o atto di rimostranza le accuse mosse alla Chiesa romana.
Alludiamo infine alle dimostrazioni di simpatia di Paolo VI verso la Chiesa
cattolica scismatica della Cina, che Pio XII aveva invece condannato in due
lettere encicliche del 1956. Ci estenderemo però alquanto sul più sintomatico
degli atti che manifestano l’atteggiamento desistente della Chiesa verso lo Stato
moderno.
La revisione del Concordato italiano del 1929 è nei rapporti tra le due potestà
il fatto che più spiccatamente esprime la variazione fatta dalla Chiesa cattolica
nella sua filosofia e nella sua teologia. L’intacco dei principii era già stato
preannunciato nelle more del lungo negoziato in un articolo dell’OR del 3
dicembre 1976 in cui si dichiarava che per attestare la propria disponibilità la
Chiesa sarebbe calata sino a sacrificare i principii. I nuovi patti restringono in
soli 14 articoli le materie che quelli del 1929 contenevano in più di 40. Questo
assottigliamento arguisce di per sé stesso che molte materie di natura mista sono
state abbandonate alla potestà civile, rinunciando la Chiesa ad avervi voce. Le
variazioni decisive sono tre. La prima è fissata nell’art. I del Protocollo
addizionale e suona così: «Si considera non più in vigore il principio,
originariamente richiamato dai Patti lateranensi, della religione cattolica come
sola religione dello Stato italiano» (RI, 1984, p. 257). Questo dispositivo del
nuovo patto implica l’abbandono del principio cattolico secondo il quale
l’obbligazione religiosa dell’uomo oltrepassa l’àmbito individuale e investe la
comunità civile: questa deve, come tale, aver un riguardo positivo verso la
destinazione ultima dell’umana convivenza a uno stato di vita trascendente. Il
riconoscimento del Nume è un dovere non pure individuale, ma sociale. Anche
se si vuol respingere l’antico dettato come non consentaneo all’indole dei tempi,
restava sempre possibile la sua assunzione in linea storica. Anche cioè
prescindendo dal valore ultrastorico che la religione pretende, restava possibile
assumere quel valore come parte integrante e informante della vita storica della
nazione italiana alla stessa stregua della lingua, dell’arte e della cultura. È la tesi
insegnata da Paolo VI (§ 59) il quale fa della religione un carattere della società
civile non divisivo, ma distintivo. Conviene anche notare che a un così grande
consenso della Chiesa all’emancipazione dell’assiologia civile dai principii
religiosi una maggiore finezza della diplomazia vaticana avrebbe trovato modo
di dare un’espressione meno aperta. Si sarebbe potuto stabilire non già che quel
principio «si considera non più in vigore», bensì che «la Santa Sede prende atto
che lo Stato italiano dichiara di non considerarlo più in vigore». La variazione di
sostanza è manifesta: oggi la Chiesa chiama laicità quello che ieri chiamava
laicismo e condannava come agguagliamento illegittimo di atteggiamenti
diseguali.
79. La defezione dei sacerdoti. – Contro il fatto della defezione dei preti
statisticamente provato138 e dappertutto appariscente, non poté molto la
repugnanza paolina alla tristezza per i fatti tristi della Chiesa. In due discorsi
Paolo VI entrò nell’argomento spinoso e doloroso. Nell’allocuzione del giovedì
santo del 1971 rievocando il dramma pasquale dell’uomo-Dio, disertato dai
discepoli e tradito dall’amico, il Papa fece transizione da Giuda all’apostasia dei
preti. Premise che «bisogna distinguere caso da caso, bisogna comprendere,
bisogna compatire, bisogna perdonare, bisogna attendere, e sempre bisogna
amare». Ma poi chiamò i defezionanti o apostatanti «infelici o disertori», parlò
di «vili motivi terreni» che li guidano, deplorò la loro «mediocrità morale che
vorrebbe trovare naturale e logico infrangere una propria promessa lungamente
premeditata» (OR, 10 aprile 1971). Il cuore del Papa è affannato dall’evidenza
dei fatti e non potendo togliere reità all’apostasia, la decolora alquanto, dicendo
per esempio «infelici o disertori». Ma chi non vede che la diserzione non è in
alternativa con l’infelicità e che i lapsi sono infelici perché disertori?
La crisi del clero ha dato luogo a spiegazioni che prendono al solito non
causas pro causis adducendo il sociologico e lo psicologico in luogo del morale.
L’etiologia del fenomeno è infatti eminentemente spirituale e interessa un
duplice ordine. In primo luogo e in linea puramente naturale vi ha un
abbassamento del valore della libertà, ritenuta incapace di legarsi in modo
assoluto a qualche cosa di assoluto e capace al contrario di slegare ogni legame.
È, come si intende subito, non dico l’identico, ma l’analogo del divorzio. Anche
il divorzio si fonda sull’impossibilità della libertà umana di legare sé stessa
senza condizione, cioè sulla negazione dell’incondizionato.
E conviene rilevare per giunta che molti preti, sotto il coperto dell’autorità
che vien loro dall’ordinazione, predicano come kerygma evangelico e come
dottrina della Chiesa fluttuanti e meteore opinioni proprie, predicano cioè sé
stessi o qualcosa di sé stessi. Consumano in tal modo un abuso tipicamente
clericalesco e ben noto nella storia, esercitato un tempo per effetto di confusione
del politico col religioso, ma oggidì per effetto di distacco dalla dottrina e con la
mira di riformare il dogma e dislocare le strutture della Chiesa.
Non soltanto dunque hanno i preti l’autorità che loro compete in forza
dell’ordinazione, ma essi in actu exercito la ampliano oltre misura arrogando al
loro ministero un’autorità indebita con cui tentano rivestire le loro private
opinioni.
Conviene osservare inoltre che la rivendicazione del prete per una più ampia
facoltà «a determinare la propria situazione» (ma qual uomo mai lo può?)
arguisce una debilitazione della fede e del conseguente senso della dignità
sacerdotale. Chi ha il potere di produrre sacramentalmente il corpo del Signore e
di rimettere i peccati, mutando il cuore degli uomini, come può sentirsi minore e
non pienamente responsabile, senza patire oscurazione d’intelletto ed ecclissi
della fede? Questo sentimento di inferiorità nasce dall’essersi il prete spogliato
del senso essenziale del sacerdozio, che è di dare il sacro agli uomini, e dal
prendere lo stato sacerdotale alla stregua di ogni altro stato, come quello cioè in
cui l’uomo ricerca la propria realizzazione e la propria promozione nel mondo.
82. Critica della critica del sacerdozio cattolico. Don Mazzolari. – Dicono: il
prete soffre perché è in mezzo a un mondo indifferente e ostile che non si apre
alla sua azione e che gli passa accanto senza incontro. In verità il motto del
Salmista con cui fu inaugurato il Concilio Vaticano I non si conviene al prete
contemporaneo: «Euntes ibant et flebant mittentes semina sua, venientes autem
venient cum exsultatione portantes manipulos suos» (Ps., 125, 6)144. I preti del
presente secolo piangono seminando e piangono tornando, perché non ci sono
per loro i manipoli che allietano il cuore. Certo la posizione del prete è difficile,
ma è una difficoltà primordiale e costitutiva, né gli Apostoli ne ebbero altra né
altra fu promessa loro. Ed è cosa che stride il fare una querela speciale di questa
dissidenza tra il sacerdozio e il mondo, mentre poi si accusano di trionfalismo i
secoli di grande fede in cui tale dissidenza non era sentita a questo modo, non
perché non ci fosse, ma perché era assorbita nell’armonia generale del mondo
umano.
Don Mazzolari osserva che «il prete soffre di dover predicare parole che sono
più alte della sua vita e che lo condannano». Ma questa è la condizione
costitutiva non solo del prete, ma di ogni uomo, di fronte alla legge morale,
nonché alla legge evangelica. Basta riconoscere la distinzione tra l’ordine ideale
e l’ordine reale (necessaria alla moralità giacché la moralità è l’unione
tendenziale di quei due ordini) per riconoscere che nessuno può predicare le
verità morali a titolo personale; di nessuno la virtù pareggia l’altezza della
dottrina. Appoggiare la predicazione morale altrove che sul titolo della verità
supporrebbe di voler misurare la validità della predicazione dalla perfezione del
predicante (come portava l’eresia di Huss). Così la predicazione diventerebbe
impossibile. Se il titolo del prete per predicare fosse un’altezza morale
pareggiante la dottrina, ogni prete, anche il più santo, si asterrebbe dal predicare.
Invece «è necessario che molti, che tutti predichino una morale superiore ai loro
fatti. Il ministero... fa che uomini deboli e che in fatto cedono talvolta alle
passioni, predichino una morale austera e perfetta. Nessuno può tacciarli di
ipocrisia, perché parlano per missione e per convincimento, e confessano
implicitamente e talvolta esplicitamente d’essere lontani dalla perfezione che
insegnano... Accade purtroppo talvolta che la predicazione discende al livello dei
costumi, ma questo è un inconveniente: senza il ministero sarebbe un
sistema»145. L’inadeguanza dunque che è nella vita del sacerdote è solo un caso
dell’inadeguanza che è nella vita di tutti gli uomini rispetto all’ideale. E la
conseguenza che se ne deve trarre è l’umiltà, non l’angoscia della superbia.
84. Critica dell’adagio “il prete è un uomo come tutti gli altri”. – Ma la
confusione teologica è diventata un luogo comune della opinione popolare,
causa in parte e in parte effetto delle dottrine di taluni autori molto diffusi.
Questa opinione tiene che il prete è un uomo come tutti gli altri. L’asserto è
superficiale e falso tanto in linea teologica quanto in linea storica. In linea
teologica, perché urta contro il dogma del sacramento dell’ordine, che alcuni
cristiani ricevono e altri no, differenziandoli ontologicamente e, per
conseguenza, funzionalmente. In linea storica, nella comunità civile non tutti gli
uomini sono eguali, tranne che nell’essenza quando la si riguardi in astratto e
non in concreto dove essa trovasi differenziata. Dire: il prete è un uomo come
tutti gli altri (non preti) è altrettanto anzi molto più falso che dire: il medico è un
uomo come tutti gli altri (non medici). No, non è un uomo come tutti gli altri, è
un uomo-prete. Non tutti sono uomini-preti come non tutti sono uomini-medici.
Basta badare a quel che la gente fa, per accorgersi che tutti fanno differenza tra
un medico e un non-medico, tra un prete e un non-prete. In qualche frangente
chiamano il medico, in qualche altro il prete. I neoterici fissandosi sull’identità
astratta della natura umana rigettano il carattere soprannaturalmente speciale che
il sacerdozio introduce nella specie umana e per il quale il prete è separato:
«Segregate mihi Saulum et Barnabam» (Act., 13, 2).
Che il prete sia segregato dal mondo è lamento infondato. In primo luogo
perché egli è separato, come il Cristo separò gli apostoli suoi, proprio per essere
mandato nel mondo. E il plus che l’ordinazione sacramentale mette nell’uomo
separato era fino a tempi recenti così noto a tutti che fin le locuzioni popolari, in
lingua e in vernacolo, lo attestano. Distinguono infatti l’uomo-sacerdote dal suo
sacerdozio e si guardano dall’offendere il sacerdote anche quando vogliono
offendere l’uomo e tengono separato l’uomo dalla veste (presa come segno del
sacerdozio) e da «quello che egli ministra», il sacro appunto.
In secondo luogo la separazione del clero dal mondo nel senso lamentato dai
neoterici non trova nessun suffragio nella storia. Tanto il clero detto secolare
quanto quello regolare sono separati dal mondo ma dentro il mondo. E a provare
vittoriosamente che quella separazione dal mondo non rende il clero estraneo al
mondo basta il fatto che proprio il clero regolare, cioè quello più separato dal
secolo, l’uomo del chiostro, è quello che più potentemente operò l’influenza
religiosa non solo, ma l’influenza civile nel mondo. Informò la civiltà per secoli,
anzi addirittura la partorì, avendo nel suo grembo originato le forme della cultura
e del vivere civile, dall’agricoltura alla poesia, dall’architettura alla filosofia,
dalla musica alla teologia. Per riprendere l’immagine abusata e collocarla nel suo
significato legittimo, il clero è il fermento che lievita la pasta ma non però si fa
pasta. Anche secondo i chimici gli enzimi contengono un principio antagonistico
verso la sostanza che fanno fermentare.
CAPITOLO VIII LA CHIESA E LA GIOVENTÙ
Nella filosofia, nella morale, nell’arte e nel senso comune, ab antiquo sino ai
nostri tempi, la gioventù fu riguardata come una età d’imperfezione naturale e
d’imperfezione morale. Sant’Agostino che nel sermone Ad iuvenes scrive «flos
aetatis, periculum tentationis» (P.L., 39, 1796), insistendo poi sull’imperfezione
morale, giunge a chiamare stoltezza e follia il desiderio di repuerascere. Per la
labilità della non rassodata ragione il giovane è «cereus in vitium flecti» (Orazio,
Ars poet., 163)148 e la sua minorità chiama un reggitore, un ammonitore e un
maestro. Gli occorre infatti un lume per riconoscere la destinazione morale della
vita e un soccorso pratico per trasformarsi e modellare la naturale inclinazione
della persona sull’ordine razionale. Questo concetto misero a fondamento della
pedagogia cattolica tutti i grandi educatori da Benedetto di Norcia a Ignazio di
Loyola, da Giuseppe Calasanzio a Giovanni Battista de Lasalle e a Giovanni
Bosco. Il giovane è un soggetto in possesso della libertà e deve essere formato
ad esercitare la libertà in guisa che, eleggendo l’adempimento del dovere (la
religione non dà alla vita altro scopo), si determini da sé stesso a quell’unum per
eleggere il quale appunto è data la libertà. La delicatezza dell’azione educativa
deriva dall’avere come oggetto un essere che è un soggetto e come fine la
perfezione di esso soggetto. È insomma un’azione sopra la libertà umana che
non limita, ma produce libertà. Per questo rispetto l’azione educativa è
un’imitazione della causalità divina la quale, secondo la teorica tomistica149,
produce l’azione libera dell’uomo proprio inquanto libera.
86. Carattere della gioventù. Critica della vita come gioia. – La profonda
teorica tomistica della potenza e dell’atto scorta lo studioso dei fatti umani anche
nel punto della gioventù, sorreggendolo nella ricerca delle note essenziali di
questa età della vita e preservandolo dallo sviamento a cui spingono le opinioni
dominanti.
Il terzo è «la necessità di essere sé stessi». Ma non si chiarisce qual è l’Io che
il giovane deve attuare e in cui riconoscersi: ve n’è infatti una pluralità in una
natura libera, trasmutabile in tutte guise. L’Io vero esige non che il giovane si
realizzi comunque, ma che egli si trasformi e diventi persino un altro da sé.
D’altronde la parola del Vangelo non ammette chiosa: «abneget semetipsum»
(Luc., 9, 23). Il Papa medesimo aveva il giorno prima esortato alla metanoia.
Dunque: realizzarsi o trasformarsi?
La semiologia della gioventù che il Papa fece nel discorso del 3 gennaio
1972 è ancora più scopertamente antitetica a quella tradizionale cattolica. Vi
sono descritti come qualità positive il naturale distacco dal passato, il facile
genio critico, l’antiveggenza intuitiva. Questi caratteri non convengono punto
alla vera psicologia della gioventù, e non sono positivi. Lo staccarsi dal passato è
un’impossibilità morale, storica e religiosa: basta dire che per il cristiano tutta la
vita e l’impegno di vita dipendono dal battesimo, che è un antecedente, e il
battesimo dalla famiglia, che è un antecedente, e la famiglia dalla Chiesa, che è
un antecedente massimo. Che la gioventù abbia genio critico, cioè giudizio
discernitivo, è difficile sostenere, se si riconosce il divenire nella formazione
dell’uomo, se si distingue il momento immaturo da quello maturo, e se si
ammette che il soggetto si trova primitivamente in una situazione in cui deve
divenire quello che ancora non è. L’antiveggenza infine è cosa novissima nella
psicologia, la quale ha sempre ravvisato nel giovane un «tardus provisor»
(Orazio, Ars poet., 164), uno cioè che vede tardivamente non pure gli eventi del
mondo, ma anche l’utile proprio. Infatti «temeritas est florentis aetatis, prudentia
senescentis» (Cicerone, De senectute, VI, 20).
Non è difficile scorgere nel discorso giovineggiante di Paolo VI alla Città dei
ragazzi un singolare rovesciamento delle nature, onde chi deve seguire è seguito
e l’immaturo è di esempio al maturo. L’attribuzione alla gioventù di un senso
innato della giustizia non ha riscontro in nessuna semiologia cattolica. Certo la
commozione dell’animo, contagiato dalla temperie giovanile, fece declinare il
Papa verso una sorta di dossologia della gioventù. È questa stessa declinazione
all’entusiasmo efebico che in altra occasione lo trasse a mutar la lettera del sacro
testo, leggendo «i giovani» dove sta scritto «i fanciulli» (Matth., 21, 15) in
appoggio all’asserto che «è la gioventù che intuì la divinità di Cristo» (OR, 12
aprile 1976).
L’impossibilità del sacerdozio di donne fu, come ogni altro principio della
fede e del costume, confermato con forza da Paolo VI nella lettera al Primate
anglicano (OR, 21 agosto 1971), ma per quella breviatio manus che dicemmo
caratterizzare il pontificato paolino (§ 65), la rivendicazione femministica non fu
né avversata né contenuta efficacemente. Il III Congresso mondiale per
l’apostolato dei laici svoltosi a Roma in ottobre 1967, tra altre istanze
dottrinalmente erronee e dissimulate dal giornale della Santa Sede come
«costatazione di fatto del sentimento dei laici», formulò il voto «perché un serio
studio dottrinale determinasse il posto della donna nell’ordine sacramentale»
(OR, 21 ottobre 1967). In Francia una Association Jeanne d’Arc persegue come
scopo il sacerdozio della donna, mentre negli Stati Uniti sussiste e opera, senza
scandalo dell’episcopato, una Convenzione nazionale delle religiose americane
che domanda l’ordinazione di femmine. La protervia del movimento si palesò,
con stupore del mondo, in occasione della visita di Giovanni Paolo II in
America, quando suor Teresa Kane, presidente della Convenzione, affrontò
all’improvviso il Sommo Pontefice rivendicando il diritto delle donne al
sacerdozio e invitando i cristiani a cessare ogni aiuto alla Chiesa finché tale
diritto non sia riconosciuto (ICI, n. 544, 1979, p. 41). Anche alla Conferenza
internazionale della donna tenutasi a Copenhagen il vescovo Cordes, delegato
della Santa Sede, dichiarò che «la Chiesa cattolica si rallegra ormai della sete di
una vita pienamente umana e libera che è all’origine del gran movimento di
liberazione della donna», lasciando intendere che «dopo duemila anni di
cristianesimo questa vita pienamente umana le era stata troppo spesso rifiutata.
Infatti non si può ancora dire che la donna sia accolta come il Creatore e il Cristo
l’hanno voluta, cioè per sé stessa, come una persona umana pienamente
responsabile» (OR, ed. francese, 12 agosto 1980). La vena femminista ripullula
nella Chiesa in ostentazioni anche clamorose come quella della presidente della
Gioventù cattolica della Baviera, la quale durante la visita di Giovanni Paolo II
rinnovò il gesto dell’americana (RI, 1980, p. 1057).
94. Apologia della dottrina e della prassi della Chiesa circa la donna. – Per
far giudizio di queste presunte inferiorità della donna nella Chiesa convien
tenere presenti due considerazioni.
95. Elevazione della donna nel cattolicismo. – Tralascio le sante donne a cui
nelle sue lettere san Paolo presta nominatamente tanto onore. Tralascio la
preminenza della Maddalena nell’evangelizzare la Resurrezione. Non mi
addentro in un discorso che sarebbe pressoché infinito: quello dell’ordine delle
vergini e delle vedove nella comunità ecclesiale, ordine di cui celebrano l’altezza
morale e religiosa con scritti appositi tutti i Padri da Tertulliano ad Agostino. Il
discorso oltre che infinito riuscirebbe difficile, perché la mentalità moderna non
ha ali per sollevarsi a quel punto di vista in cui il pregevole è pregiato e la
squisitezza della virtù ammirata.
L’elevazione più grande a cui porta la donna il Medio Evo cristiano si ebbe
con la poesia cortese, alla quale fa riscontro l’opera teorica di Andrea
Cappellano. La poesia cortese riflette tutto un complesso di sentimenti e di
costumi, che si fondano sopra la delicatezza dei pensieri, il rispetto e la fedeltà.
L’amor cortese si traviò talvolta in forme di dilezione disincarnata o dell’opposta
passione erotica, ma rimane nell’insieme una prova degli alti sensi che genera
nella civiltà medievale la contemplazione del femminino. Un fastigio ancora più
alto toccò il motivo della donna angelicata nella scuola poetica siciliana e nel
dolce stil nuovo. La Divina Commedia poi esalta il femminino con Maria e
Beatrice e le «donne benedette» del preludio come il tramite eccelso
dell’elevazione spirituale dell’uomo e come la virtù che gli concilia la salvezza.
È impossibile, se non si ignora il valore della poesia di quei secoli, disconoscere
la dignificazione e magnificazione della donna fatta dalla religione. Certo, la
separazione dell’amore dalla relazione sponsale e dal coniugio, determinata
dall’esaltamento del femminino in sé, inclinava alla deviazione neoplatonica
incompatibile col realismo cristiano, ma il fenomeno attesta irrefragabilmente
che il cattolicismo si serbò fedele alla duplice verità che viene invece
contraffatta dal moderno femminismo: che cioè la donna è assiologicamente e
finalisticamente uguale all’uomo, e che essa è insieme diseguale, dovendo vivere
quell’uguaglianza assiologica secondo la propria diversità.
Una riprova della parità che il cattolicismo riconobbe tra i due sessi si ricava
dall’influsso che sul governo della Chiesa, sugli orientamenti religiosi, sugli
eventi di rinnovazione e di riforma esercitarono femmine di alto intelletto e di
veemente afflato mistico. Non occorre andare oltre i nomi di Caterina da Siena,
di Giovanna d’Arco, di Caterina da Genova, di Teresa d’Avila per conseguire
una dimostrazione sovrabbondante di questa prestanza del femminino nella
Chiesa. E si tralasciano le moltissime donne di gran tempra attiva che fondarono
ordini e compagnie religiose o anche soltanto indussero i Romani Pontefici a
imprese di importanza universale, come nel secolo passato quella mademoiselle
Tamisier che promosse sotto Pio IX i congressi eucaristici. Per tacere di tante
donne che la Chiesa onorò di canonizzazione e di quelle che fregiò perfino del
titolo di dottore della Chiesa universale, come avvenne di Caterina senese e di
Teresa spagnuola.
96. Lo scadimento del costume. – Affine alla deviazione circa la natura della
donna è la deviazione circa gli atti della sessualità. Per farne retto giudizio
conviene avvertire che in ogni genere dell’operare umano, ma nel costume
specialmente, rileva certo la frequenza dei fatti maggiore o minore (senza tale
frequenza non c’è costume), ma primariamente importa quel che i fatti
divengono nella mente, cioè il modo in cui la pubblica coscienza li giudica.
Quanto alla frequenza nessuno impugna che l’inverecondia sia più divulgata che
in passato, quando gli eccessi erano fenomeno di ristretti ceti e, cosa ancor più
importante, andavano a nascondersi e non osavano l’ostentazione. Oggi è la
faccia delle nostre città. Si può dire che la pudicizia fu il carattere generale dei
secoli addietro, mentre l’impudicizia lo è del nostro, e basta percorrere i trattati
d’amore, i libri sul reggimento delle donne, le disposizioni civili e canoniche e le
Praxeis confessariorum (primarie fonti in questo campo) per averne certezza.
Oggi al contrario le intimità hanno perduto l’antico purpureo velo del pudore e
vengono propalate, ostentate, comunicate sin nelle rubriche dei rotocalchi, di cui
si pasce il volgo. Lo spettacolo, massime cinematografico, ha come tema
d’elezione le cose della venere e l’estetica, che vi dà un appoggio teoretico,
giunge a stabilire che la prevaricazione del limite morale sia una condizione
dell’arte. Di qui una puramente meccanica progressione dell’osceno in infinitum:
dalla fornicazione semplice all’adulterio, dall’adulterio alla sodomia, dalla
sodomia all’incesto, dall’incesto all’incesto sodomitico, alla bestialità, alla
coprofagia e via tacendo. Anche il fatto assodato del coito pubblico, per trovare
il quale occorre risalire ai Cinici e che sant’Agostino giudicava impossibile,
persino per ragioni fisiologiche, è forse la riprova estrema dei fatti della lussuria
contemporanea. Se pure non è superato dalle mostre internazionali di oggetti
erotici, come quella famosa di Copenhagen nel 1969, e la mostra internazionale
di arte pornografica inaugurata nel 1969 ad Amburgo dal ministro della cultura.
Ma, come dicemmo, prevalgono ai fatti il significato che essi hanno nella
mente degli uomini e le persuasioni profonde e tacite da cui muovono i giudizi.
Ci conviene dunque addentrarci alquanto nel fenomeno del pudore per
dimostrare che anche il presente scadimento del costume rampolla dalla
negazione delle nature e delle essenze.
Il pudore è una specie del genere vergogna: è la vergogna circa le cose della
venere. La vergogna in genere poi è il sentimento che accompagna la percezione
di un difetto, e poiché il difetto ora è della natura ora è della persona, così c’è
una vergogna naturale e una vergogna morale. La natura si vergogna dei propri
difetti perché ogni natura ha da corrispondere alla propria idea e se per fallo,
ingenito o sopravvenuto, defeziona dalla sua idea, essa avverte il difetto e
l’avvertenza del difetto si accompagna a un sentimento di vergogna per quel
difetto. Siccome poi non si dà natura reale se non in un individuo e perciò
neppure natura difettosa se non in un individuo difettoso, così la vergogna della
natura difettosa diviene vergogna dell’individuo difettoso.
98. La vergogna della persona. Reich. – Ma più profondo del pudore della
natura è il pudore della persona che è la vergogna per il difetto morale di cui la
persona è causa. La sua forma morale non è più puro sentimento ma un atto
libero di cognizione del proprio difetto e di detestazione volontaria del
volontario difetto cioè della colpa.
Anche la lettera pastorale dei vescovi della Germania (OR, 18 luglio 1973)
muove da un’antropologia che non è cattolica perché afferma che «la sessualità
informa tutta la nostra vita e, per il fatto che corpo e anima sono un’unità, la
nostra sessualità determina anche la sua sensibilità e fantasia, il nostro pensiero e
le nostre decisioni». Nel giudicare queste enunciazioni dei vescovi alemannici,
desiderando io non aggravare le loro parti, intendo tener conto del generale
circiterismo teologico del moderno episcopato e perciò non prendo in rigore i
termini usati. Ma l’antropologia qui subiacente è lontana dall’antropologia
cattolica (di qualunque scuola) per la quale «sexus non est in anima», Summa
theol., Suppl., q. 39, a. 1. Non è infatti la sessualità la forma di tutta la vita,
sibbene la razionalità. La definizione classica, assunta nel Concilio Laterano IV
è: «anima rationalis est forma substantialis corporis», è cioè il principio primo
che dà l’essere a tutto l’individuo umano. Dire poi che la sessualità determina il
pensiero e le decisioni della volontà è asserto avverso alla spiritualità dell’uomo.
Questa consiste proprio nell’esservi nell’anima informante il corpo un’attualità
che non si esaurisce nell’informare il corpo, ma sussiste come forma. È da
questa facoltà emergente dalla materia che viene la facoltà dell’universale e con
questa l’elezione libera spaziante appunto nell’universale del bene, e non astretta
nei termini del particolare. Se la sessualità determina la decisione, la decisione
non può essere libera169.
V’è poi un passo del documento in cui si rovesciano l’etica e l’ascetica della
pudicizia ed è quello in cui, trattando delle relazioni prematrimoniali, che
vengono condannate, si abbandona la cautela, tanto predicata in passato, circa le
occasioni prossime del peccato e si difende la famigliarità tra i sessi, quasi che il
mettersi nella tentazione fosse sintomo di maturità morale. «Anche se sussiste il
pericolo che questi incontri sfocino in rapporti sessuali e portino a un legame
prematuro, non è giusto respingere o cercare di evitare questo necessario gradino
nella maturazione della capacità d’amore degli uomini». Qui sono
implicitamente elusi due principii della morale della Chiesa. Il primo è
teologico: che cioè la natura, avendo perduto l’integrità per il guasto originale, e
quindi la parte egemonica dell’uomo avendo perduto la signoria, la labilità alla
sopraffazione sessuale è la condizione stessa dell’uomo. Il secondo punto è
propriamente morale: l’approssimarsi al peccato senza cadervi non significa
certo cadere in quel peccato e per questo riguardo non è colpevole, eppure è
peccato per riguardo alla superbia e alla presunzione di non cadere implicite
nella condotta di chi si arroga una forza morale capace di contrappesare ogni
impulso contrario alla legge. La massima salus mea in fuga che presiedette
all’ascetica cattolica sembra qui dimenticata e posposta all’idea della maturità
personale e dell’educazione all’amore.
CAPITOLO X SOMATOLATRIA E PENITENZA
Nella tradizione della pedagogia cattolica la cura del corpo andava sotto la
virtù di esercizio e di alacrità confondendosi, sotto l’aspetto medico, con
l’igiene. Nel diffusissimo Manuale dell’educazione umana (Milano 1834)
dell’abate Antonio Fontana, direttore generale della pubblica istruzione nel
Lombardo-Veneto, questa indistinzione è ancora percettibile: vi si dedica uno
intero dei quattro libri dell’opera all’educazione fisica, ma sotto questo titolo
vengono trattate le materie del cibo, del sonno, della nettezza e un solo capitolo
Degli esercizi della persona versa intorno all’educazione fisica.
Qui osserverò di transenna come sia falso che l’esercizio del corpo produca
di per sé sanità morale. La falsità è già denunciata dagli antichi. Il motto di
Giovenale, che è passato monco nel parlare comune, mens sana in corpore sano,
è in realtà una confutazione del senso che gli si attribuisce. Non dice infatti che
in corpo sano c’è mente sana, ma che bisogna pregare gli Dei affinché ci diano e
l’uno e l’altra: «Orandum est ut sit mens sana in corpore sano» (Sat., X, 356).
Lo sport è soggetto alla legge ascetica che vuole ordinato dalla ragione il
tutto dell’uomo e l’uso intensivo del vigore fisico non può essere il fine dello
sport: se si emancipa dall’austerità, cioè dal dominio dello spirito sulle membra,
lo sport disfrena gli istinti, sia con la forza violenta, sia con le seduzioni della
sensualità. La coscienza della propria forza corporale e la riuscita nella
competizione non sono l’elemento principale dell’attività umana, sebbene siano
dei soccorsi apprezzabili ma non indispensabili, né un bisogno morale assoluto
né tantomeno un fine della vita. Eppure la disformazione generale dei giudizi
nella massa era su questo punto tale che il Papa ritenne doveroso riaffermare:
ogni uomo, anche se è inetto allo sport, non è minorato nella sua realtà di uomo.
Non si può parlare di personalità fisica e di personalità spirituale, la persona
essendo una e definita dalla parte suprema di essa. Anche il non sportivo
adempie a pari un individuale misterioso disegno di Dio175.
Analizzando infatti l’allocuzione papale si trova che delle quattro qualità con
cui il Pontefice apostrofa la gioventù nessuna, e men che tutte la bellezza,
esprime un valore morale, cioè una virtù. Che, in secondo luogo, la gioventù
sembri «inebriata del proprio giuoco» non può essere soggetto di soddisfazione,
perché la religione esclude ogni dismisura e ogni ebrietà, se non sia quella sobria
dello Spirito. E quell’abbassamento del lavoro incatenato (parrebbe) alle leggi
utilitarie sembra dimenticare che il lavoro è un’attività essenzialmente morale in
cui si esplicano molte virtù. D’altronde il prendere lo sport come attività fine a
sé stessa non capisce nella concezione cattolica in cui non si dà alcuna attività
dell’uomo fine a sé stessa, perché l’uomo non è fine a sé stesso. Né vi capisce
l’identificare la felicità dei giovani in un cammino saliente, né si può vedere nel
progresso nello sport un progresso umano, ma se mai (giusta la distinzione di
san Tommaso) un progresso dell’uomo. Né lo sport può superandosi raggiungere
livelli trascendenti, giacché esso non può uscire dall’essenza propria e non si
trova sulla linea dello sviluppo spirituale dell’uomo. E infine è del tutto vera la
proposizione dell’epilogo, che cioè lo sport non è il tutto della vita né una
religione. Però con questa negazione non è più possibile riconoscere allo sport
una qualunque peculiarità morale: tutte le attività della vita, in quanto capaci di
entrare nella finalità morale ad opera della volontà, sono, come lo sport, grado
alla perfezione: ma appunto non da sé stesse, ma ad opera della volontà morale.
Si badi a non confondere le essenze e a non prendere lo sport come una forma di
spiritualità. Non vi badò l’OR del 1 gennaio 1972 dove si legge: «Lo sport
beneficia del mistero pasquale e diventa strumento di elevazione». Siccome non
c’è nella Rivelazione nessunissimo possibile riferimento a una attività sportiva di
Cristo, si tenta almeno, con un’operazione confusionale e circiterizzante, di
tirare lo sport nel mistero pasquale.
103. La somatolatria nei fatti. – Alla dossologia dello sport, propria del
mondo moderno e partecipata, se non proprio toticipata, dalla Chiesa, inflissero
una cruda contraddizione gli eventi della Olimpiade monacense del 1972
segnatamente in punto agli spiriti di filantropia e di amore internazionali che
esso farebbe crescere negli uomini176. In realtà in quei ludi prevalsero sui
sentimenti di filantropia e di umanità le due passioni della sopraffazione
agonistica e degli odii nazionali. Lascio di osservare che nell’istituzione
originale del barone Coubertin le Olimpiadi erano una gara tra individui e non
tra Stati, mentre qui si agogna e si glorifica la vittoria dell’atleta sempre come
vittoria di Russia o America o Italia e via dicendo. Allo svolgimento delle gare
le folle urlanti, fischianti o peanizzanti dividono gli animi e arguiscono animi
divisi. Quanto alla lealtà, diciotto giudici furono destituiti essendo stati convinti
di parzialità per gli atleti della parte favorita e molti atleti esclusi dalle gare per
avere usato mezzi chimici proibiti di stimolazione e di corroboramento.
Paolo VI nel discorso del dì delle Ceneri del 1967 a Santa Sabina ribadì
l’insegnamento della Chiesa, che cioè la penitenza è necessaria alla metanoia, la
natura essendo corrotta, e alla riparazione dei peccati. Il digiuno però non è
soltanto un perfezionamento della virtù naturale di sobrietà, conosciuta anche dai
Gentili, ma è un fatto proprio della religione cristiana, la quale, avendo reso
l’uomo consapevole dei suoi mali profondi, ha pure proporzionato ad essi i
rimedi. I piaceri della gola (ché di questa parte della concupiscenza si tratta) si
possono certamente conciliare con la sobrietà, ma la religione ravvisa in essi una
tendenza sensuale che svia dalla vera destinazione e, conformemente alla
percezione che essa ha di quel che è dell’uomo nell’uomo, osta a quella tendenza
al male prima che il male sia principiato.
Ma il fatto notabile del presente stato della Chiesa è che tale spirito di
superficialità, che disistima la mortificazione del senso e la ridicolizza, si è
comunicato anche al clero che del precetto ha perduto il sapore e la sapienza. Per
citare un solo dei moltissimi esempi da me raccolti, nel Bollettino della
Cattedrale di San Lorenzo di Lugano dell’ottobre 1966 si buffoneggiava con
basso parlare sul nessun divario tra sogliola e bistecca e tra frittata e salametto.
Qui viene disconosciuto il delectus ciborum conosciuto dalla legge di Mosè e da
quella della Chiesa. In qualche modo viene estesa anche ai cibi la parificazione
delle essenze.
Le ragioni della discrezione dei cibi, che è di diritto positivo, essendo stata
desunta dalle cognizioni fisiologiche di tempi andati, sono soggette a variazione
e, dopo l’espansione extraeuropea del cattolicismo, l’astinenza da certi cibi di
cui sono affatto prive certe nazioni, era incongrua e chiamava una riforma della
disciplina. Ciononostante la Chiesa non ha da vergognarsi della sua legislazione
né la sua dottrina è esposta al ridicolo, perché essa era ragionevolissima, fondata
su natura, comandata dal Cristo, sanzionata dall’obbedienza di generazioni non
più rozze, ma più riflessive, non meno fragili, ma meno sensuali delle presenti.
In questa nuova dottrina, vanno perduti tre valori. Primo, quello del fare per
obbedienza alla Chiesa nel modo da essa prescritto quello che il dovere della
penitenza impone. Secondo, quello che viene dal fare l’atto penitenziale non solo
individualmente, ma ecclesialmente, come la liturgia del Vetus ordo dichiarava, e
rimettendo alla Chiesa la determinazione modale della sostanza di quel dovere.
Terzo, il merito che viene dall’abdicare alla volontà propria circa il modo della
penitenza, la quale abdicazione circa il modo è essa stessa una penitenza. Ma
questi valori dipendenti dal fatto che la volontà è legata alle modalità e ai tempi
prescritti, non sono più tenuti in pregio come ai tempi in cui si pesavano a oncie
i cibi permessi e si aspettavano i segni campanari per rompere il digiuno. Infatti
la Congregazione romana al dubbio se l’obbligazione grave di osservare i dì
penitenziali si riferisca ai singoli giorni o al complesso, rispose che si riferisce al
complesso (OR, 9 marzo 1967). Questo responso restituisce alla libertà dei
credenti tempi e modalità della corporale mortificazione e rende mobile anche il
carattere sacro che sembrava affisso al dì delle Ceneri e alla Parasceve della
Settimana Santa.
Nel secolo XIX i partiti politici, privi di organizzazione, non avevano quasi
altra base che la questione religiosa. Tutto il secolo del liberalismo fu
caratterizzato dalla dualità: un partito caldeggiava la separazione della vita civile
dalle cose religiose, rimesse alla coscienza individuale e riguardate come niente
afferenti alla pubblica prosperità; l’altro resisteva considerando al contrario la
religione non solo come parte della vita storica nazionale, ma anche,
sovrapoliticamente e sovrastoricamente, come una necessità morale della vita
consociata. La contesa tra la Chiesa e lo Stato moderno, il quale vien
costituendosi in valore autonomo e perciò si sradica dal ceppo religioso su cui
era pullulato, spiega come le lotte politiche implicassero i valori religiosi e si
presentassero come un impegno o per mantenerli nel corpo sociale o per
circoscriverli alla sfera dell’individuale libertà.
109. Scomparsa o trasformazione dei partiti cattolici. – I partiti cattolici
hanno perciò subito tutti una riduzione o una decolorazione dei contenuti per cui
erano sorti, oppure sono scomparsi dal teatro della vita nazionale. Scomparso
affatto è il Mouvement républicain populaire sorto in Francia dopo la guerra ad
opera di Maurice Schumann184. In Isvizzera il partito conservatore cattolico
depose l’antica denominazione che troppo rilevava il carattere originario
chiamandosi adesso Partito democratico cristiano e inspirò il programma a una
generica idealità cristiana che assume tutti i principii della filosofia politica
liberale. Nel Ticino, per esempio, è divenuto Partito popolare democratico,
denominazione in cui oltre all’incongrua replicazione dell’idea di popolo, cessa
ogni espressa qualificazione cattolica. D’altronde il partito, seguendo le direttive
del vescovo diocesano, accolse e promosse la trasformazione costituzionale del
Cantone cattolico in Cantone di mista religione. In Germania un analogo
processo portò la Christliche demokratische Partei, succeduta al celebre
Zentrum, e abbracciante cattolici e protestanti, a volgersi alla dottrina politica del
liberalismo. La Spagna, durata per un quarantennio in un sistema politico che
escludeva i partiti, ha visto dopo la morte del generale Franco sorgere movimenti
di inspirazione cattolica sincretizzata con le massime dello Stato moderno. Nel
Belgio e in Olanda i movimenti cattolici che già ebbero un’organizzazione
serrata e potente, subirono la medesima dissalazione, venute meno le ragioni
dell’inveterato antagonismo al liberalismo dello Stato moderno. Anche
l’antagonismo verso il comunismo cedette a una supersolidarietà con la classe
operaia, ed epocate le condanne dei due Pii, il partito e il movimento sociale
cattolico si portarono su posizioni digradanti verso il liberalismo e il comunismo.
La Chiesa, sin dalla celebre dichiarazione di Papa Gelasio nel secolo V, poi
confermata da Bonifacio VIII, riconosce la propria incompetenza nelle materie
politiche, in cui laici e sacerdoti sono soggetti al sovrano temporale, ma
rivendica l’intero dominio nelle cose spirituali e in quelle che abbiano un lato
spirituale, nelle quali viceversa laici e sacerdoti le sono assoggettati. E se si
conserva estranea all’azione politica, che è un mezzo al fine morale dell’uomo,
può però entrare a giudicare le leggi della comunità politica quando impediscano
quel fine e violino la giustizia naturale e i diritti medesimi della Chiesa. Che se
la sovranità, come nei regimi moderni, appartiene al corpo intero dei cittadini, la
Chiesa può resistere alle leggi inique prescrivendo la condotta che i cattolici
inquanto cittadini devono tenere usando del loro diritto politico, fuori di ogni
spirito di odio e di sedizione. Questa dottrina fu confermata da Giovanni XXIII
nella Pacem in terris che fa coincidere il dovere religioso col dovere civile: il
bene della giustizia, oggetto della virtù morale, è infatti un costitutivo del bene
comune, oggetto della virtù politica. Per questa coincidenza i Romani Pontefici
in alcuni frangenti della storia poterono annullare le leggi dello Stato. L’ultimo
esempio fu Pio XI che annullò le leggi irreligiose del Messico nel 1926. Ma
prescindendo dalla nullità di una legge iniqua per decreto pontificio, rimane
certo il diritto dei cattolici, in regimi in cui partecipano del potere legislativo, di
opporsi alle leggi offensive del diritto naturale e il dovere per la Chiesa di
attaccarle suscitando e regolando l’azione civile del laicato.
110. La desistenza della Chiesa nella campagna italiana sul divorzio e
sull’aborto. – Del fenomeno della desistenza che contrasta con l’asseveranza
combattiva dell’anteriore movimento cattolico, recherò due soli esempi e li
appoggerò, secondo il metodo che professo, su documenti della gerarchia e non
su privati opinamenti.
Le più importanti sono senza dubbio il decreto del Santo Officio 28 giugno
1949 e quello aggravante del 25 marzo 1959 sotto Giovanni XXIII. Il primo
dichiara incorsi nella scomunica quei fedeli che professano la dottrina
comunista, atea e materialistica, e condanna come illecito l’appoggio recato al
partito. Il secondo condanna chi dà il suffragio al partito comunista o a partiti
appoggianti il partito comunista. L’aggravamento del secondo è manifesto. La
prima condanna dava luogo alla distinzione tra il comunista professante la
dottrina (condannata nella Divini redemptoris di Pio XI) e il comunista
praticante, ma non professante (e i più son tali). Il secondo decreto invece
prescinde dall’animus del cittadino e percuote l’atto, per così dire, esterno del
dare il suffragio al partito. Colpisce inoltre anche le coalizioni che un partito non
condannato stringesse, per amministrare la cosa pubblica, col partito condannato,
mettendo in forse tutto il giuoco politico delle nazioni democratiche dove la
pluralità dei partiti rende necessaria la cooperazione di disparate forze politiche.
L’intervento della Chiesa in Italia provocò anche conflitti aperti tra vescovi e
autorità civili. Il più grave e clamoroso fu quello di mons. Fiordelli, vescovo di
Prato, che per avere pubblicamente condannato come concubinato il matrimonio
civile di un comunista, fu querelato, condannato e poi assolto. All’annuncio della
condanna il card. Lercaro ordinò nella sua diocesi il suono ferale delle campane
e Pio XII disdisse la celebrazione per l’anniversario dell’incoronazione. Ad
Aosta, per essersi fatta un’alleanza elettorale coi comunisti, il vescovo sospese la
processione teoforica del Corpus Domini; in Sicilia il card. Ruffini entrò nelle
elezioni regionali a combattere il candidato democristiano e a Bari l’arcivescovo
mons. Niccodemo rifiutò la presenza del sindaco comunista della città
giudicandola incompatibile con l’azione sacra. In queste manifestazioni
episcopali mi sembra non essersi osservata la norma che distingue la persona
privata dalla persona pubblica e anche l’ente morale, che è la città nel suo
complesso, dalla maggioranza che in un dato momento la regge e la rappresenta.
È massima di diritto costituzionale che i deputati non rappresentano la frazione
che li ha eletti, ma la totalità dei cittadini. D’altronde i Papi ammettono
annualmente la visita della Giunta capitolina anche quando è di maggioranza
comunista.
Inoltre, dopo aver fallacemente trovato lo Spirito Santo e Gesù Cristo (n. 47)
nel dinamismo del mondo operaio e posto l’opzione socialista a pari
coll’impegno cristiano, il documento si spinge a un’altra ed ultima confusione,
sentenziando addirittura che il travaglio dei cristiani comunisti per maggior
giustizia, maggior fraternità e maggior uguaglianza, quando attinga quel fondo
accomunante che dicemmo, incontra «une forme réelle de contemplation et de
vie missionaire» (n. 54). La prassi marxistica e la lotta di classe usurpano così il
luogo della contemplativa che, come si sa, è il luogo supremo.
Ma la defezione più perspicua dalla dottrina sociale cattolica è quella per cui
la lotta per la giustizia viene identificata con la lotta di classe, supponendo che la
giustizia non possa realizzarsi che oltrepassando la giustizia e sia una sorta di
controingiustizia. Tale supposizione suppone a sua volta che l’ordine sociale sia
indipendente dall’ordine morale e che occorra trascendere questo per instaurare
quello. La lotta di classe è in effetti un’azione di guerra condotta entro la
compagine delle singole società civili e tendente, secondo la dottrina di Lenin e
di Stalin non mai sconfessata, a trasferirsi, quando lo dettino le circostanze, nella
compagine della società etnarchica diventando guerra di tutta la classe operaia
del mondo contro tutta la classe non operaia del mondo.
Ma per tornare al marxismo, le varie specie del genere non possono allargare
il principio, in guisa che ne comprenda uno opposto, né spezzarlo né alterarlo. E
d’altronde il partito, cioè la forza storicamente efficace, ha sempre ripudiato
l’attacco portato al principio dalle varianti. Georges Marchais, segretario
generale del Partito comunista francese, intervistato dal giornale «La Croix»
dichiarava senza ambagi: «Nous ne voulons pas créer d’illusions sur ce point:
entre le marxisme et le christianisme il n’y a pas de conciliation possible, pas de
convergence idéologique possible». Questa dichiarazione consuona interamente
con quella del presidente Mitterrand, capo del governo socialcomunista di
Francia, nel libro Ici et maintenant, Paris 1980, che è una dichiarazione aperta
contro la religione. Vi si afferma la perfetta Diesseitigkeit del comunismo che
alla destinazione ultramondana dell’uomo sostituisce la veduta di una felicità da
conseguire qui (nel mondo) e adesso (non nella vita futura). Che se si risale alle
fonti dottrinali del movimento, si trova il testo di Lenin citato in OR, 5-6 luglio
1976: «I comunisti che si alleano coi socialisti democratici e coi cristiani non
cessano di essere rivoluzionari, perché coordinano tali collaborazioni al fine, che
è la distruzione della società borghese». Questo richiamo al principio comunista
è parallelo a quello fatto al principio cattolico da Paolo VI nella Lettera
apostolica del 14 maggio 1971 al card. Roy: «Il cristiano non può aderire a
sistemi o ideologie che si oppongono radicalmente e in punti sostanziali alla sua
fede e alla sua concezione dell’uomo». Singolare la negazione che del divario tra
cristianesimo e marxismo fa OR, 1 settembre 1982, in un articolo intitolato
Cultura, pluralismo e valori. Con tesi nuovissima vi si nega l’opposizione
insegnata da Pio XI. «V’è addirittura da chiedersi se ancora persista la griglia di
analisi che distingueva tra cultura cattolica e cultura marxistica». L’autore
sembra quasi modo genitus infans che ignora Divini Redemptoris e tutti i
documenti pontifici.
Sembra dunque che l’enciclica trascuri il nesso dialettico sempre urgente tra
quel che le masse pensano (certo meno distintamente che i teorici) e quel che le
masse fanno, senza più connessione coll’ideologia che solo avrebbe per funzione
di dare inizio al movimento. La precessione del pensiero alla prassi vien qui
trascurata e sembra che le ideologie siano figliate dai movimenti anziché
figliarli. Certo le ideologie risentono le fluttuazioni proprie degli uomini fluenti
nella storia, ma la questione che si impone rimane questa, se cioè i movimenti
che mutano continuino o no a inspirarsi al principio sotto il quale nacquero.
Giova anche osservare che quegli elementi positivi che si ravvisano nel
movimento sono nell’enciclica considerati come propri dell’ideologia
comunistica, laddove sono primariamente valori della religione (inglobativi
quelli di giustizia naturale) e che essi acquistano il loro significato e la loro forza
interi solo quando siano rimessi nel complesso delle idee religiose. Sembra
dunque che non basti riconoscerli, ma che occorra riconoscerli come frazione di
verità intera e rivendicarli alla religione per restituire loro la competente
interezza. Ma questa azione di rivendica, che estorce al movimento, come non
suo, e restituisce alla religione quel che in esso appare di giusto e di ragionevole,
manca nella Pacem in terris. L’enciclica perora piuttosto il riconoscimento di
valori che si troverebbero a pari nel movimento e nel cristianesimo e che quindi
rimandano a un valore anteriore e comune che avvalorerebbe movimento e
religione. Quale sia un tale valore, che sarebbe il vero autentico valore
principiale, non appare dall’enciclica né potrebbe apparire senza che il valore
della religione, che è il primum, si degradasse a mezzo di quel primo comune
valore.
La coerenza astratta delle idee logicamente incatenate e svolgentisi una
dall’altra senza possibilità di arresto, è assai più forte della coerenza fattizia che
gli uomini si forzano di mettere tra idee che si respingono. Così dall’opzione dei
cristiani per il marxismo, il quale contiene nelle viscere la guerra di classe,
culminante nella rivoluzione, doveva germogliare una teologia della liberazione.
Il fenomeno citato nel § precedente, che cioè il fine che prevale tira a sé il fine
dell’altro cooperante, incompatibile col primo, si è verificato esattamente nel
passaggio dall’opzione comunistica alla teologia della liberazione.
Anche più scolpito è il pensiero del celebre padre Curci nell’opera intitolata
Di un socialismo cristiano (1885) tutta informata all’idea dell’attitudine sociale
del cristianesimo tuttora implicita. Il Curci richiama l’idea cristiana della
ricchezza, che importa una quantità di beni condivisa, e l’idea cristiana della
comunità sociale, che vuol pareggiati, non in modo aritmetico ma proporzionale,
tutti i membri del corpo sociale. Il fondo della questione può esprimersi nel
verso oraziano: «Cur indiget indignus quisquam te divite?» (Sat., II, II, 103)193.
Qui è mantenuto il concetto di giustizia, ma contro questo indignus i ricchi fanno
valere la calunnia profetata da Amos, 4,1: «vaccae pingues quae calumniam
facitis egenis»194. E il Curci coglie acutamente la delicatezza specialissima della
riforma sociale, riguardata con senso cattolico. La riforma deve eliminare
l’ingiustizia consumata contro una parte del corpo sociale senza sviluppare
l’odio contro le altre parti. Se infatti si sviluppa l’odio, la giustizia non essendo
più un portato dell’amore sociale e diventando al contrario una semplice
controingiustizia, tutta l’azione sociale ne rimane corrotta.
Come si vede, questo socialismo cristiano del Curci, non meno che quello del
Toniolo, respinge il principio marxistico della guerra di classe, ricerca la riforma
sociale non come effetto di un urto violento e nemmeno primariamente per opera
delle leggi civili, bensì come frutto di uno sviluppo morale della cristianità.
Occorre infatti tener fermi due articoli essenziali del sistema cattolico. Primo: il fine
del genere umano è ultramondano: qui servizio, poi fruizione del valore assoluto.
Secondo: l’opera dell’uomo non può prevaricare la giustizia alla quale nessun fatto e
nessuna utilità può prevalere.
La dottrina che si delinea nel libro intacca la dottrina della Chiesa in più
punti e aggiunge la denigrazione della Chiesa storica sotto la spinta di uno zelo
amaro e acrimonioso.
Il primo intacco alla verità cattolica è nel modo di concepire la fede. Questa
viene presa come un sentimento di comunione con Dio, ossia come
un’esperienza del divino, scissa da ogni giustificazione razionale e da ogni
espressione di formule teoreticamente vere.
Lasciamo di notare che qui è implicato l’errore primo del comunismo: alcuni
uomini li destina alla liberazione, quelli cioè che saranno sotto il sole quando sia
avvenuta la liberazione temporale; sacrifica invece le presenti generazioni alle
future come se non ciascun uomo ma solo qualcuno fosse ordinato al suo fine. In
secondo luogo la vita futura ultramondana, che non si può raggiungere prima che
sia instaurato il mondo terreno, lascia la Chiesa inane e inerte nel presente della
storia. Più ancora, se la Chiesa, in forza della sua essenza soprannaturale e
ucronica, esercitasse nel nostro tempo il suo officio di predicare la verità, di
richiamare l’ultramondano e di edificare l’uomo nuovo, il destino dell’uomo ne
sarebbe impedito. Siccome la perfezione umana è la condizione della liberazione
spirituale, subordinare o anche solo coordinare il temporale allo spirituale è cosa
rovinosa per il genere umano. Il p. Montuclard lo professa senza anfibologie:
«Non, les ouvriers n’ignorent pas le christianisme. Les paroles chrétiennes que
de fois ne les ont-ils pas entendues. Mais ces paroles leur ont paru des
attrapenigauds. Et maintenant que l’on parle de l’enfer, du renoncement, de
l’Eglise ou de Dieu ils savent qu’en fait tout cela tend à leur arracher des mains
les outils de leur propre libération».
Qui viene adottato il pensiero proprio dei Giacobini, che la religione possa
apparire alla mente spassionata come un’impostura mirante a disarmare la
giustizia. Appare anche il motivo incompatibile col cattolicismo, che il regno
prospettato nel Vangelo sia l’instaurazione dell’uomo nella pienezza naturale
dell’uomo e non invece una nuova creatura.
121. Esame della dottrina di mons. Fragoso. – Qui appare chiaro il passaggio
dall’opzione marxistica alla negazione della religione. In primo luogo mons.
Fragoso confonde i due ordini assegnando alla Chiesa, non già come compito
indiretto e consecutivo, ma diretto e primario la promozione di un certo ordine
sociale. Egli misura perciò dalla riuscita di un tale ordine la riuscita del proprio
ministero di vescovo, cioè di sacerdote. In secondo luogo considera come un
successo, sebbene parziale, il lasciar perdere al suo popolo la fede, quando
questa perdita sia compensata dalla coscientizzazione, cioè dalla conversione dei
popoli all’ideale della civitas hominis. Questa è dunque un valore positivo anche
fuori e contro la religione. In terzo luogo come può aversi autentica
coscientizzazione, se non si abbia, almeno in confuso, la cognizione di Dio?
Invano mons. Fragoso si riserva di predicare ai suoi popoli Dio dopo costituita la
civivitas hominis.
Sino alla seconda guerra alcuni paesi, come la Germania, avevano scuole
pubbliche differenziate per confessione; altri, come il Canton Ticino, scuole
pubbliche di inspirazione agnostica: accoglievano nella ratio studiorum la
religione come insegnamento costitutivo e obbligatorio ma ne concedevano la
dispensa in ossequio al principio costituzionale della libertà di coscienza; altri
infine, come la Spagna, integravano l’insegnamento religioso alla pedagogia
come parte eminente della coscienza nazionale e della tradizione culturale del
paese. Ne facevano quindi un obbligo non dispensabile senza riguardo ai
convincimenti intimi degli allievi. Era un relitto dei sistemi politici invalsi nelle
monarchie assolute che incorporavano nelle obbligazioni degli educandi oltre
che i doveri civili anche quelli religiosi. Questi sistemi levavano spesso
all’adempimento quell’elemento di libertà che è il portatore del valore morale
della condotta.
126. Rifiuto cattolico della scuola cattolica. Mons. Leclercq. − Se la
motivazione della scuola cattolica nel seno della società moderna sembra ad
alcuni incerta, per altri è del tutto nulla. Qui vi sono fatti e dottrine.
Ma non meno rilevanti dei fatti sono gli apprezzamenti teorici circa la
presente inutilità e insignificanza della scuola cattolica. Mons. Leclercq, emerito
di teologia morale nell’Università cattolica di Lovanio, ravvisa nelle università
cattoliche una generale incompatibilità con la civiltà contemporanea improntata
dal pluralismo e avversa a ogni ghetto. Questa incompatibilità la priva di ogni
ragion d’essere. Ma l’argomento di mons. Leclercq non conclude e si taglia da sé
medesimo per contraddizione. Appunto in un mondo pluralistico diventa
normale la presenza di un’università cattolica: non si può volere il pluralismo,
cioè semplicemente la pluralità di dottrine, e rifiutare la pluralità delle dottrine
pretendendo che una dottrina qualunque non possa entrare come elemento della
pluralità.
Il vero si è che il rifiuto che si fa della scuola cattolica lungi dall’essere una
semplice variante di filosofia politica è il corollario, avvertito o inavvertito, di
persuasioni difformi dal pensiero cattolico. Si leva alla scuola cattolica la base
propria e si mette la sua essenza fuori di sé, condizionandola al pluralismo e al
nullismo culturale. Il programma elaborato a Friburgo in Elvezia per la riforma
dei seminari ripudia la ratio studiorum tradizionale e prescrive che «fin
dall’inizio si deve dare una nozione globale affrontando i problemi posti
dall’esistenza di altre credenze e dalla miscredenza in guisa che lo studente eviti
il rischio dell’autosufficienza cristiana» (ICI, n. 279, p. 20, 1 gennaio 1967)207.
Qui occorre richiamare tre punti maggiori della pedagogia cattolica. Il primo
è metafisico: la distinzione di potenza ed atto ossia la non creatività delle facoltà
umane. Il secondo è assiologico: la superiorità assiologica di chi sa rispetto a chi
non sa. Il terzo è gnoseologico: il primato della conoscenza rispetto
all’esperienza morale, che cioè tale è, ceteris paribus, la vita morale dell’uomo
quale è il suo pensiero, cioè il giudizio che egli porta sui fini e sugli atti
dell’essere suo.
La crisi della scuola cattolica è nel suo fondo una degradazione della
razionalità in confronto dell’esperienza e un caso di quel vitalismo proprio del
mondo contemporaneo che apprezza non quel che è vero e può contraddire alla
vita bensì quel che è vivo e misura esso la verità: vivo, ergo sum.
Né il Sinodo dei vescovi del 1977, che discusse la nuova catechesi, portò
raddrizzamenti efficaci manifestando il dissenso dei Padri anche circa i principii,
una generale mancanza di forza logica e soprattutto l’incapacità di stare al punto
messo in discussione. Eppure lo stare al punto è la regola delle regole in ogni
disputa e basta attenervisi perché la disputa approdi. Nel Sinodo infatti la
catechesi trasgredì nella sociologia, nella politica, nella teologia della
liberazione. Bastino pochi esempi. Per il vescovo di Saragozza la catechesi
«deve promuovere la creatività degli allievi, il dialogo, la partecipazione attiva,
senza dimenticare che è azione della Chiesa». Ma la creatività è un assurdo
metafisico e morale, e quando non lo fosse, non potrebbe essere il fine della
catechesi, giacché l’uomo non può autofinalizzarsi, il fine gli è dato ed egli deve
solo volerlo. Per padre Hardy «la catechesi deve portare all’esperienza del
Cristo», che è proposizione confondente ideale e reale e trapassante al
misticismo. La catechesi è per sé e formalmente cognizione, non esperienza,
benché sia ordinata all’esperienza, cioè alle azioni della vita. Secondo il cardinal
Pironio «la catechesi si sprigiona dall’esperienza profonda di Dio nell’umanità
cristiana ed è una più profonda assimilazione dell’amore e della fede» (OR, 16
ottobre 1977). Vi sono sentori modernisti in tali asserti. La catechesi è dottrina e
non si sprigiona dall’esperienza esistenziale dei credenti, perché vi sono
contenuti soprannaturali che quell’esperienza non contiene.
Essa discende dall’insegnamento divino e non è prodotta, ma produce
l’esperienza religiosa. Infine un vescovo del Kenia dichiara che «la catechesi
deve impegnarsi a denunciare le ingiustizie sociali... e difendere le iniziative di
liberazione sociale dei poveri» (OR, 7 ottobre 1977), e così degrada la parola di
vita eterna a un intendimento economico e sociale.
I due caratteri della nuova catechesi, l’essere cioè ricerca anziché dottrina e il
mirare a produrre risposte esistenziali anziché una persuasione intellettuale, si
rispecchiano nella soluzione data al problema della pluralità dei catechismi e
della memorizzazione218. Dove non si dà contenuto dogmatico a cui assentire non
può esservi un unico catechismo universale non essendovi formule di fede adatte
a tutta la Chiesa in forza appunto di quell’unico contenuto. Si abbandona dunque
l’uso antico iniziato coi primordi della Chiesa e continuato coi catechismi del
Tridentino, del Bellarmino, del Canisio su su sino al Rosmini e a Pio X.
Un’emozione ancor più viva eccitò il libro Dieu est-il dans l’hostie? di
Léopold Charlot, sacerdote responsabile del Centre régional d’enseignement
religieux d’Angers, venduto anche nelle vetrinette parrocchiali. Il libro ha per
soggetto «la manière dont il faut penser aujourd’hui l’Eucharistie comme
présence réelle». Il succo, di cui l’autore non misura il senso, è che c’è un modo
differente da tempo a tempo di intendere tale presenza e che il modo proprio del
nostro tempo è di intendere tale presenza reale come una presenza non reale, ma
immaginativa e metaforica, identica a quella onde diciamo che Beethoven è
presente in una sua suonata e nel sentimento di chi la ascolta. Charlot insegna ai
catecumeni che l’eucaristia fu istituita non da Cristo nell’ultima cena, ma dalla
comunità cristiana primitiva. Pane e vino restano sostanzialmente pane e vino e
sono soltanto il segno convenzionale della presenza di Cristo nel popolo dei
fedeli. Perciò è assurdo che si consacrino e si conservino in vista
dell’adorazione. Anzi Léopold Charlot consiglia alle madri di stare ritte coi loro
figli davanti al tabernacolo per inculcare che il sacramento non è adorabile.
136. Antitesi della nuova catechesi alle direttive di Giovanni Paolo II Card.
Journet. − La mentalità del clero apparsa nel convegno è tanto più notabile
perché sta in chiara opposizione con l’Esortazione apostolica di Giovanni Paolo
II (OR, 26 ottobre 1979). La nuova catechesi è di stampo esistenziale e
promuove un’esperienza di fede, e il Papa invece afferma il carattere
intellettuale della catechesi e vuole che i catecumeni siano penetrati di certezze
semplici ma ferme «quibus ad Dominum magis magisque conoscendum
adiuventur»222. La nuova catechesi vuole l’adattamento della fede alle singole
storiche culture, e il Papa invece (n. 52) vuole che la fede trasformi le singole
culture: «non esset catechesis si Evangelium ipsum mutaretur cum culturas
attingit»223. La nuova catechesi ripudia il principio di autorità e quindi il classico
metodo amebeo e quindi l’esercizio della memoria, e il Papa invece ribadisce (n.
55) che è necessario possedere durevolmente, cioè nella memoria, le parole di
Cristo, i principali testi biblici, le formule di fede, il decalogo, le preghiere
comuni224, i testi liturgici. La nuova catechesi procede con un dialogo paritario,
euristico, fondato sulla aspecificità del vero, e il Papa invece (n. 56) rifiuta come
pericoloso quel dialogo che «saepe ad indifferentismum omnia exaequantem
delabitur»225. La nuova catechesi si propone di guidare il catecumeno a
un’esperienza del divino e del Cristo, e il Papa invece definisce la catechesi (n.
18) come «institutio doctrinae christianae», istruzione che mira a far sempre
meglio conoscere e sempre più fermamente assentire alla verità divina, non già a
far sempre più svilupparsi e affermarsi la persona del catecumeno.
Gérard Soulages227 reca alcune lettere drammatiche del cardinal Journet sul
presente stato della catechesi. Il cardinale lo riguarda esattamente come un
effetto dello smarrimento della gerarchia e dell’interiore dissoluzione della
Chiesa: «Il serait catastrophique que les évêques, successeurs des Apôtres, soient
à la dérive de commissions et de poussées limitées à l’ajustement du monde et au
service d’une déchristianisation du peuple chrétien».
La grave censura mossa dal card. Ratzinger al catechismo francese non perde
affatto del suo valore teoretico dottrinale anche se il cardinale, che l’aveva
esposta in un discorso stampato poi in venti pagine, la ritrattò in una
dichiarazione di venti righe concordata coi vescovi francesi. Rimandiamo ai §§
60-65 sulla desistenza dell’autorità.
CAPITOLO XIV GLI ORDINI RELIGIOSI
139. Gli ordini religiosi nella Chiesa postconciliare. − Siccome gli ordini e
gli istituti religiosi assumono la parte supererogatoria o di consiglio della
religione, è ovvio che lo smarrimento che ha investito la parte comune della
religione abbia dato un assalto speciale alla parte speciale della Chiesa. Per la
legge del loquimini nobis placentia, onde si abbellisce il proprio male e si colora
vivamente la propria perfezione, il grave scadimento intervenuto negli ordini
religiosi fu generalmente dissimulato, adottando la prospettiva ottimistica di
Giovanni XXIII e scambiando variazione e mobilismo per sintomi di vitalità.
140. L’alterazione dei principii. La stabilità. − La crisi dei religiosi, come di
tutte le altre parti del corpo ecclesiale, è una conseguenza dell’immodica
assimilazione al mondo di cui si prendono le posizioni, poiché si dispera di
acquistarlo agendo dalle posizioni proprie. È un’alienazione per perdita
tendenziale di essenza e una trasgressione ad altro. Non ultima né insignificante
è la mutazione dell’abito dei religiosi e delle religiose, sempre informata al
desiderio di non più differenziarlo dall’abito dei secolari. E mentre è un sintomo
della perdita dell’essenza o per lo meno degli accidenti propri dell’essenza, è
anche un sintomo di servilità. Non si deve infatti dimenticare che la singolarità
(talora stravagante) della veste religiosa era destinata a indicare la singolarità
dello stato religioso ed era inoltre un segno importante della libertà della Chiesa,
indipendente da fogge e da mode. Dal disprezzo dell’abito ecclesiastico usuale si
scende poi al disprezzo di quello liturgico, e si vedono oggi nelle
concelebrazioni sacerdoti officianti in abito prettamente laicale («Esprit et Vie»,
1983, p. 190, che deplora la dormitanza dei vescovi su questo punto)237.
Oggi la stabilità locale è scomparsa. Non già che in tutti gli ordini religiosi il
superiore non abbia da secoli variato il domicilio dei sudditi. Anzi il diritto
canonico contemplava espressamente questa instabilità imperata dai superiori. È
che la mobilità è entrata nella vita interna delle singole comunità. Non soltanto a
cagione della maggiore mobilità generale degli uomini anche dai conventi
escono i frati per viaggi, per vacanze, per diporti spesso coperti con intenti
culturali o di apostolato, ma i membri di una medesima comunità prendono
domicilio in sedi separate dividendosi e nel luogo e nella convivenza dai
confratelli. L’istituto della exclaustratio che era una singolarità è divenuta una
forma normale della vita religiosa. In luogo di una dimora cenobitica si ha una
sorta di diaspora in cui vanno dispersi i valori che dicemmo della stabilità e
perisce la vita comunitaria.
Non voglio qui cadere in un erroneo giudizio come chi, per difetto di
cognizioni storiche, ragguaglia tutti i tempi e tutti i costumi. Nel portare il
giudizio misto storico-morale sulla virtù monastica si tenga fermo il criterio
della virtù, ma non si dimentichino le relatività storiche. Quelle feroci
mortificazioni dell’istinto dell’ingluvie onde va celebre l’ascetica orientale erano
un modo per staccarsi dal comune vitto degli uomini già tanto men ricco e men
vario che non sia oggidì. La privazione mortificante deve essere calcolata pro
rata parte in guisa che il vitto mortificante si differenzii dal vitto comune. In
epoca in cui i più si cibavano di pan di segale (per stare alla condizione dei paesi
insubrici), per di più raffermo di settimane e di mesi, oppure di castagne, la
temperanza monastica domandava che si tagliasse ancora qualcosa in quel già
gramo vitto arrivando ad austerità oggi inconcepibili. Il vitto monastico deve
oggi tagliare in un regime alimentare incomparabilmente più lauto. Ma pure
deve tagliare. Nelle relatività mutevoli di secolo in secolo rimane l’esigenza
fondamentale, che cioè il vitto dei consacrati si tenga al di qua del regime
comune e possa essere riconosciuto come tale. Anche nel vitto il religioso non è
un uomo come tutti gli altri.
Qui sotto vocaboli che rimangono fissi si vedono correre concetti di tutt’altro
genere. L’obbedienza non è punto una ricerca dialogale della volontà a cui
sottomettersi, bensì una sottomissione alla volontà del Superiore. Essa non
importa un riesame del comando del Superiore da parte dell’obbediente.
L’obbedienza cattolica non ammette quindi di fondarsi sopra l’esame del
comando o della qualità del Superiore. È falsa la sentenza del Delegato
apostolico in Inghilterra che «l’autorità ha solo il valore dei suoi argomenti»
(OR, 24-5 ottobre 1966). Questo è vero nella disputa, dove prevale la forza
logica, ma non già nell’autorità di governo. Si noti inoltre che la teoria
dell’obbedienza assoluta è propria dei dispotismi e non è dottrina cattolica. La
religione fa obbligo di disobbedire a chi comanda opera manifestamente illecita.
Questo obbligo di disobbedire è alla base del martirio. L’obbedienza inoltre non
ricerca affatto una coincidenza di volontà tra suddito e Superiore. Questa
coincidenza, che nell’obbedienza tradizionale si ottiene col fare propria l’altrui
volontà, qui si ottiene con un accostamento delle due volontà utrinque.
L’obbedienza come tale è allora interamente soggettivata e la via del
consentimento non è più quella del sacrificio della propria volontà modellata
sull’altrui volontà. Nella via della concordanza chi si assoggetta si assoggetta
ultimamente a sé stesso. Il principio dell’indipendenza che abbiam visto
produrre l’autogoverno, l’autodidattica, l’autoeducazione e persino
l’autoredenzione, non poteva non investire la vita religiosa togliendo
all’obbedienza quella che è l’essenza sua: far scomparire tendenzialmente il
soggetto per elevare l’oggetto. Il principio dell’obbedienza religiosa cede del
tutto di fronte allo spirito di indipendenza e all’emancipazione egualitaria.
Ostentazioni clamorose di tale ὕβρις si ebbero negli Stati Uniti in occasione della
visita del Papa che fu pubblicamente affrontato da suor Teresa Kane, presidente
della Federazione delle suore di quel paese. Quando poi la Santa Sede rimosse
suor Mary Mansour, direttrice di un centro statale per l’interruzione della
gravidanza, mille religiose convenute a Detroit insorsero contro la Santa Sede,
accusandola di essere un potere mascolinista, di violare i diritti della persona, di
soffocare la libertà di coscienza e persino di trasgredire il diritto canonico.
146. Obbedienza e vita comunitaria. − L’obbedienza avendo come oggetto la
Regola e la Regola essendo la norma unificante che «mentes fidelium unius
efficit voluntatis»247, l’indebolimento dell’obbedienza partorisce indebolimento
dello spirito di comunità. Nell’OR del 22 dicembre 1972 un articolo sulla
secolarizzazione della vita religiosa menziona un Capitolo di riforma di una
Congregazione «che ha spazzato via dalle Costituzioni del Fondatore tutte le
pratiche di pietà (Messa quotidiana, lettura spirituale, meditazione, esame di
coscienza, ritiro mensile, rosario ecc.), tutte le forme di mortificazione, e ha
messo in discussione anche il valore del voto di obbedienza, concedendo al
religioso il diritto di obiezione di coscienza per i casi in cui voglia sottrarsi agli
ordini dei Superiori». L’articolo afferma giustamente che «qui siamo davanti
all’annientamento della vita religiosa». Ma poi, per la consueta accomodazione,
piega a concedere che in questa sovversione e annichilazione della vita religiosa
vi sia pure qualche cosa di positivo che avrebbe «una funzione catartica». Io in
verità non vedo come una tendenza definita distruttiva della vita religiosa si
possa poi qualificare come purificazione della medesima.
Per ultima conclusione di questa analisi diremo che anche la crisi della vita
religiosa germina dall’adozione fatta del principio di indipendenza e dal
dissolvimento dei valori nella soggettività. La comunità ritorna alla moltitudine
disorganica: Chacun dans sa chacunière. Dalla libertà di giudicare il Superiore si
cade alla libertà di scegliere ogni cosa e, come vedevamo, persino il domicilio.
Non per nulla in qualche monastero è abolito l’officio del frate portinaio. Non
dico che queste riforme non si mantellino con qualche ragione, dico che il
mantello è corto.
CAPITOLO XV IL PIRRONISMO
La crisi della Chiesa, come si confessa e come abbiamo indicato nei paragrafi
iniziali di questo libro, è crisi di fede, ma il vincolo esistente tra la costituzione
naturale dell’uomo e la vita soprannaturale, che le viene non giustapposta ma
intrinsecata, impone allo studioso cattolico di ricercare l’etiologia della crisi in
un ordine più profondo che quello filosofico.
Se il pensiero non ha una relazione essenziale con l’essere, allora non subisce
la legge delle cose e non è misurato, ma misura. Il motto dell’abderita Protagora
scolpisce bene l’indipendenza del pensiero dalle cose: l’uomo è la misura di tutte
le cose (DIELS, 74 B 1). E le tre proposizioni di Gorgia di Leontini sentono il
rifiuto di andare all’oggetto e la protervia della mente che sé stessa in sé stessa
rigira: Niente esiste. Se qualcosa esistesse sarebbe inconoscibile. Se fosse
conoscibile, non sarebbe esprimibile (DIELS, 76 B 3)248.
148. Il pirronismo nella Chiesa. Card. Léger. Card. Heenan. Card. Alfrink.
Card. Suenens. − Il fondo dell’attuale smarrimento, mondiale ed ecclesiale, è il
pirronismo, cioè la negazione della ragione. Superficiale è la taccia data
comunemente alla civiltà moderna di sovraestimare la ragione. Se per ragione si
intende la facoltà calcolatrice e costruttiva del pensiero, a cui dobbiamo la
tecnica e il dominio delle cose, la qualificazione può correre. Ma tale facoltà è
un grado inferiore, e si trova, dicono, nei ragni e nelle api. Ma se per ragione si
prende, quale è, la facoltà di cogliere l’essere delle cose e il loro senso, e di
aderirvi col volere, allora l’età contemporanea è molto più debitrice all’alogismo
che al razionalismo. D’altronde Pio XII nel terzo Sillabo tornò a rivendicare
contro lo spirito del secolo «verum sincerumque cognitionis humanae valorem
ac certam et immutabilem veritatis assecutionem»249 (DENZINGER, 2320). E Paolo
VI in OR, 2 giugno 1972, affermò altamente: «Noi siamo i soli a difendere il
potere della ragione». Il Vaticano II nella Costituzione dottrinale LG, 6, riprese il
testo antipirroniano del Vaticano I: «Deum omnium rerum principium et finem
naturali humanae rationis lumine certo cognosci posse»250. In GS, 19, sono
condannati quelli che «non ammettono più alcuna verità assoluta».
Molti assurdi logici e religiosi sono radunati nel libro. Se l’autore intende
affermare che una cosa non può essere creduta se è veduta, dice cosa ovvia e
trita in filosofia. Ma se egli pretende che non si possa avere certezza di una cosa
creduta, egli cammina fuori della dottrina cattolica. Che la fede sia certezza è
dogma cattolico e che questa certezza non sia privilegio di anime mistiche e di
anime semplici, ma lume comune a tutti i credenti, pure. In secondo luogo il
Sullivan sovverte ogni gnoseologia, quando pone in ragione inversa la certezza e
l’approfondimento delle conoscenze. La certezza è invece lo stato soggettivo del
conoscente proprio in quanto conoscente; l’ignoranza è un manco di conoscenza
e il dubbio un minus di conoscenza. L’opinione del Sullivan risente della
calunnia irreligiosa celebrata tra noi dal Bruno in pagine memorabili dei
Dialoghi sulla santa asinità. La calunnia è compagna dell’altro e definitivo
errore secondo cui la certezza e la fede troncherebbero la possibilità dell’azione
e, come dice l’autore con paradossi di vile conio, «vivre c’est perdre la foi».
Ogni stabilità nel pensiero renderebbe impossibile la comunione con gli altri
spiriti, dovendo essere il nostro spirito in ogni momento trasmutabile in tutte
guise.
La vena pirronistica non si è inaridita nel tempo del postconcilio a noi più
prossimo, ma pullula in dichiarazioni ufficiali e officiose. Il colloquio svoltosi a
Trieste in gennaio 1982 al Centro di teologia e cultura, di cui gli Atti sono
pubblicati con introduzione di quel vescovo, si concluse su questa tesi: «Non
esiste una ragione assoluta di stampo idealista o marxista [né di qualunque altro
stampo] dispiegantesi nella storia dell’umanità nel suo concreto divenire, bensì
una ragione storicamente data le cui forme mutano al variare dei contesti
culturali. Non si tratta di riproporre una concezione metafisica, filosofica e
teologica totalizzante» (OR, 8 luglio 1983). Qui è scopertamente invalidata la
ragione, ripudiata la Provvidenza, negata la metafisica, epocato Dio.
È anche da notare che l’Ecclesiam suam, dopo aver posto l’equazione tra
evangelizzare e dialogare, pone invece disequazione tra evangelizzare la verità e
il condannare l’errore e identifica condanna e costrizione. Ritorna il motivo
dell’orazione inaugurale toccato al § 38: «Anche la nostra missione» dice
l’enciclica «è annuncio di verità indiscutibili e di salute necessaria; non si
presenterà armata di esteriore coercizione, ma solo per le vie legittime
dell’umana educazione». Il concetto di Paolo VI è del tutto tradizionale e lo
prova il fatto che, subito dopo la promulgazione dell’enciclica, il segretario del
Consiglio ecumenico Wisser Hooft si affrettò a notificare che il concetto papale
di dialogo come comunicazione di verità senza reciprocanza non era conforme al
concetto ecumenico (OR, 13 settembre 1964).
V’è inoltre un abbaglio circa l’onere della prova. Si suppone che il dialogo
debba e possa soddisfare a tutte le obiezioni del contraddicente. Ora, che un
uomo si offra a un altro uomo per procurargli un’intera soddisfazione
intellettuale sopra un punto qualunque della religione, arguisce un vizio morale.
È infatti temerità quella di chi dopo affermato un vero si espone alla discussione
generale, estemporanea e onnimoda. Ogni soggetto presenta mille lati; egli ne
conosce solo pochi o uno solo. Eppure si espone come se egli si sentisse pronto
ad ogni obiezione, impossibile a sorprendere, e come se egli avesse, per così
dire, prevenuti tutti i pensieri possibili a sorgere su quel soggetto.
Anche Antonio Rosmini nel primo libro della Teodicea, da lui chiamato
logico, insegna che l’individuo non può commettere al proprio intelletto la
soluzione delle aporie della divina Provvidenza: nessun individuo infatti è certo
che la propria forza intellettuale sia pari alla forza delle obiezioni che si
muovono contro. Questo elemento della forza intellettuale di cui la misura è
incognita, è quello che Cartesio trascurava nel suo metodo supponendo che
questa forza della ragione fosse uguale in tutti gli individui e in tutti gli individui
egualmente esercitabile.
153. Inidoneità del dialogo. − Nella Scrittura, come dicemmo, il metodo
dell’evangelizzazione è l’insegnamento e non il dialogo. Nell’imperativo che
sigilla la missione del Cristo con la missione degli Apostoli il verbo adoperato è
μαθητεύσατε che letteralmente vale fate discepoli tutti i popoli, come se l’opera
degli Apostoli consistesse nel ridurre i popoli alla condizione di ascoltatori e
discepoli e come se μαθητεύειν fosse un grado previo a διδάσκειν259.
Questa via dell’ignoranza utile è lecita nella religione cattolica, è fondata sul
principio teoretico spiegato sopra ed è d’altronde il fatto dello stragrande numero
dei credenti261. È dunque inaccettabile l’opinione espressa in OR, 15-6 novembre
1965, che «chi rinuncia al dialogo è un fanatico, un intollerante che finisce
sempre per essere infedele a sé stesso prima che alla società di cui fa parte. Chi
invece dialoga rinuncia all’isolamento, alla condanna». Dialogare senza
cognizione è prova di temerità e di quel fanatismo che scambia la propria forza
soggettiva per la forza oggettiva della verità.
154. I fini del dialogo. Paolo VI. Il Segretariato per i non credenti. −
Notevole è il divario tra dialogo tradizionale e dialogo moderno, quando si
considera il fine assegnato al dialogo. Il dialogo, dicono, non ha per fine la
confutazione dell’errore né la conversione del collocutore262. La mentalità
neoterica aborre dalla polemica, tenuta per incompatibile con la carità, mentre al
contrario ne è un atto. Il concetto di polemica è invero indissolubile dal
contrapposto tra il vero e il falso. La polemica mira appunto ad abbattere
l’uguaglianza che si tentasse di mettere tra una posizione vera e una posizione
falsa. Sotto questo rispetto la polemica è connaturale al pensiero il quale, anche
se non abbatte il falso in un avverso dialogante, lo abbatte però nell’interno
processo monologico.
Il fine del dialogo dal canto del dialogante cattolico non può essere euristico,
perché egli, quanto alle verità religiose, è in possesso e non in ricerca. Neppure
può essere eristico, cioè di carattere contenzioso, perché ha per motivo e per
obiettivo la carità. Il dialogo è invece inteso a dimostrare un vero, a produrre in
altri una persuasione e ultimamente una conversione. Questa finalità metanoetica
del dialogo cattolico fu insegnata chiaramente da Paolo VI nel discorso del 27
giugno 1968: «Non basta avvicinare gli altri, ammetterli alla nostra
conversazione, confermare ad essi la nostra fiducia, cercare il loro bene. Bisogna
inoltre adoperarsi affinché si convertano. Occorre predicare perché ritornino.
Occorre recuperarli all’ordine divino che è uno solo». La dichiarazione papale
acquista una rilevanza singolarissima, perché il dialogo di cui discorreva il
Pontefice è il dialogo ecumenico e la rilevanza specialissima di quelle parole era
confermata persino dalla diversificazione tipografica (vero ἅπαξ) usata per
quella pericope dall’OR.
Il mobilismo è descritto come uno dei caratteri della civiltà moderna in GS,
5: «Ita genus humanum a notione magis statica ordinis rerum ad notionem magis
dynamicam atque evolutivam transit»264. E nel cap. 42 lo stesso documento,
rifacendosi alla rivendicazione di diritti dell’uomo moderno, stima il dinamismo
positivo e conforme al Vangelo: «Ecclesia ergo iura hominum proclamat et
hodierni temporis dynamismum haec iura undique promoventem, agnoscit et
magni aestimat»265. La seconda formula riguarda in ispecie il dinamismo sociale,
ma la prima abbraccia la totalità della vita umana e investe la questione
dell’ordine morale il quale sembra qui assoggettato alla legge della mobilità,
laddove la religione lo tiene per immobile e partecipe dell’immutabilità divina.
Certo se il vocabolo dinamismo equivale a perfezionamento il pensiero del
Concilio rientra nella concezione tradizionale secondo la quale tutto è
perfezionabile e perfezionando dentro un ordine che prescrive la perfezione ma
non si perfeziona.
158. Critica del mobilismo. Ugo Foscolo. Kolbenheyer. − Come appare dalla
storia della filosofia, il mobilismo è la mentalità che stima il divenire sopra
l’essere, il moto sopra la quiete, l’azione sopra il fine. Esso è un contrassegno
del pensiero moderno. Eraclito di Efeso (secolo VI a. C.) insegnò che la realtà è
scorrimento, ma lo scorrimento è retto da un’inviolabile legge che è il Logo.
Tutta la filosofia cristiana concepì il divenire come un accidente delle sostanze
finite mentre solo Dio è indivenibile. Che il mutamento coincida con la vita e
che quindi il valore dello spirito consista nel cercare la verità anziché nel
possederla, fu sentenza anche del Romanticismo italiano, nella misura in cui
imitò il tedesco. Il Foscolo, per esempio, nel Discorso Dell’origine e dell’ufficio
della letteratura vuole che la vita consista nell’agitazione delle passioni e nel
continuo variare dei pensieri dell’animo aspirante a vedere tutto il vero. Ma egli
tiene che il perpetuo aspirare abbia maggior valore che il conseguire: «Misero,
se ei lo vedesse! Non troverebbe più forse ragione di vivere». Il Faust di Goethe
è il poema dell’uomo che sogna di appagarsi in un’infinità di esperienze
successive; egli desidera e raggiunto il desiderato nuovamente desidera e mai
riposa in un bene raggiunto.
La prima pagina del giornale vaticano contiene tutte le tesi del mobilismo
esistenzialistico inconciliabili con la fede cattolica e dalla fede cattolica sempre
rigettate.
Ma la teoria del Trapè, già anticipata con ben altra forza filosofica dal
Gioberti nella Filosofia della Rivelazione, è erronea, perché, secondo la Chiesa,
la condizione dell’uomo comprensore differisce affatto da quella dell’uomo
viatore. Negare la differenza equivale a levar di mezzo quella speciale durata
diversa dal tempo in cui vive la creatura «liberata dalla vanità» cui è soggetta
(cfr. Rom., 8, 20-1). quella appunto del divenire e del nonessere. Equivale anche
a chiudere la creatura nella temporalità, fare della vita eterna una continuazione
del tempo, scancellare la trascendenza divina e insieme con essa anche la nostra
analogica. Dio non cerca sé stesso, ma si possiede, e similmente la creatura
beatificata non lo cercherà più, ma lo possiederà. Per questo rispetto la
concezione della vita eterna come infinita prosecuzione della vita nel tempo è
una regressione agli Elisii dei Pagani. Questi seppero immaginare la beatitudine
ultramondana solo come la continuazione imperturbata dei diletti del mondo.
Ovidio dipinge la beatitudine degli Elisii come «antiquae imitamina vitae»
(Metam., IV, 445). Nella catabasi dell’Eneide la beatitudine è giuochi atletici,
canti, musiche e persino merende su prati verdeggianti (Aen., VI, 656 sgg.). Il
mobilismo applicato all’escatologia induce dunque all’immanentismo pretto che
interna in Dio il divenire e che per di più leva la trascendenza del fine
proiettando in infinito la presente vita e disconoscendo il saltus a «novi caeli et
nova terra».
CAPITOLO XVIII LA VIRTÙ DELLA FEDE
Nel Congresso dei teologi italiani tenutosi a Firenze nel 1968 il cardinal
Gabriele M. Garrone faceva risalire la crisi della fede all’incapacità (cui però
sfuggì Teilhard de Chardin) di offrire all’uomo contemporaneo una nozione di
Dio che abbia senso per lui [cioè una nozione conforme al suo fastidio per la
ragionevolezza e per la verità]. Sua Eminenza ravvisava nella teologia cattolica
un soverchio di teoreticità, un’intemperanza della ragione, una sorta di
filosofismo. I termini precisi sono questi: «Au siècle dernier les théologiens
avaient été amenés à affirmer la capacité de la raison humaine à prouver
l’existence de Dieu... Les théologiens ont abandonné Dieu entre les mains des
philosophes. Nous devons reconnaître que nous nous sommes trompés, car nous
avons demandé à la philosophie ce qu’elle ne pouvait pas donner... Nous devons
retrouver les attributs de Dieu, non pas les idées abstraites de la philosophie,
mais les noms, les vrais noms de Dieu. Nous avons mission de prêcher non pas
des idées, mais la foi».
Il discorso del cardinale è riferito in ICI, n. 305 (1 febbraio 1968), pp. 12-3.
Avendo io domandato alla direzione di quel periodico se non fosse per avventura
caduto in errore nel riferire e avendo significato al cardinale stesso la domanda
da me fatta alla rivista, questi mi rispose: «Ce texte des ICI ne m’avait pas
échappé et j’ai pris avec les responsables le contact qui convient en leur
remettant le texte authentique de cette conférence. Je n’ai pas besoin de vous
dire que le ton était tout autre». La cosa essendomi parsa degna di prosecuzione
e avendo io insistito presso ICI perché pubblicasse il testo autentico, codesta mia
insistenza provocò un colloquio a Roma di due redattori della rivista con il
cardinale. Mons. Garrone dichiarò allora «préférer ne pas poursuivre
l’affaire»270.
Non occorre addentrarsi. Non si può però non vedere (basta leggere i testi)
che il parlare di mons. Garrone è la contraddittoria del Vaticano I come non
essere capace è la contraddittoria di essere capace. Superfluo poi far risaltare
che il tono, con diesis o bemolle che sia, non muta il tema musicale e che il
sentimento con cui si enuncia un giudizio non può mutare né il significato dei
termini né il valore del giudizio (§ 72). Superfluo similmente è rilevare la
scaturigine modernistica della sentenza cardinalizia, giacché è proprio del
modernismo fondare la credenza sopra un sentimento e un’esperienza del divino,
anziché su una preambola certezza razionale, e tenere che la ragione «nec ad
Deum se erigere potis est nec illius exsistentiam, utut per ea quae videntur,
agnoscere»271 (Enciclica Pascendi, DENZINGER, 2072).
Nel settimanale «Amica» del 7 luglio 1963 nella rubrica La posta dell’anima
mons. Ernesto Pisoni scrive: «La ragione umana può certamente da sola
dimostrare la possibilità dell’esistenza di Dio e provare quindi la credibilità
dell’esistenza di Dio». Questa posizione è proprio a puntino il contrario della
dottrina della Chiesa. La ragione infatti prova non soltanto la possibilità
dell’esistenza di Dio, ma la realtà di tale esistenza. Si può forse anche dire che
l’esistenza di Dio è possibile (ma sant’Anselmo scorge immediatamente
l’esistenza), e che sia possibile si prova mostrando che non implica
contraddizione. La non contraddittorietà è infatti la condizione della possibilità
di una cosa. Però la Chiesa non insegna che l’esistenza di Dio è possibile, ossia
non è assurda, sibbene che essa è reale. «L’esistenza di Dio non ripugna alla
ragione» dice mons. Pisoni non accorgendosi che così egli applica alle verità
naturali la tesi che si pone invece per le verità soprannaturali. Di fronte alle
verità naturali, le quali sono il suo proprio oggetto intelligibile, la ragione
apprende e vede. Di fronte invece alle verità soprannaturali la ragione non
apprende, ma ha per officio di dimostrare che non ripugnano alla ragione.
165. Critica della fede come ricerca. Lessing. − Per la teologia neoterica
invece la nota della fede anziché la stabilità dell’assenso è la mobilità della
perpetua ricerca. Si giunge a dire che una fede autentica deve entrare in crisi,
traversare la tentazione, lontanarsi quanto è possibile da uno stato di riposo. Si
giunge a proclamare desiderabile la moltiplicazione delle obiezioni che
stimolano «a rivedere e riconquistare di continuo le proprie certezze
dell’annuncio cristiano» (OR, 15-6 gennaio 1979).
La parte erronea di questa concezione sta nel prendere per umiltà una
disposizione d’animo che è invece di squisita superbia. Chi infatti alla verità
preferisce la ricerca della verità che cosa preferisce? Preferisce il proprio moto
soggettivo e l’agitazione vitale dell’Io a quel valore per fermarsi nel quale il
moto soggettivo gli è dato. Vi è insomma una posposizione dell’Oggetto al
soggetto e un presupposto antropotropico inconciliabile con la religione, la quale
vuole la sottoposizione della creatura al Creatore e insegna che così sottoposta la
creatura trova il proprio appagamento e la propria perfezione. L’errore per cui si
stima più la ricerca che il possesso della verità è una forma dell’indifferentismo.
Giovanni Paolo II lo ha trafitto in questi termini: «Indifferentismo verso la verità
è ancora di ritenere più importante per l’uomo cercare la verità che raggiungerla,
giacché questa in definitiva gli sfugge irrimediabilmente» (OR, 25 agosto 1983).
A questo errore consegue quello di «confondere il rispetto dovuto ad ogni
persona, qualunque siano le idee che professa, con la negazione dell’esistenza di una
verità obiettiva».
166. Critica della fede come tensione. I vescovi francesi. − La fede, si dice, consiste
in una tensione dell’uomo verso Dio. Tale dottrina è patrocinata nel documento dei
vescovi francesi dopo la loro riunione plenaria del 1968. A p. 80 il documento
ripudia espressamente la definizione della fede come adesione dell’intelletto alle
verità rivelate e ravvisa nella fede un’adesione esistenziale e un atto vitale:
«Longtemps on a présenté la foi comme une adhésion de l’intelligence éclairée par
la grâce et appuyée par la parole de Dieu. Aujourd’hui on en est revenu à une
conception plus conforme à l’ensemble de l’Ecriture. La foi se présente alors
comme une adhésion de tout l’être à la personne de Jésus-Christ. Elle est un acte
vital et non plus seulement intellectuel, un acte qui s’adresse à une personne et non
plus seulement à une vérité théorique... et de ce fait elle ne saurait être mise en péril
par des difficultés théoriques en détail». Poiché la fede è tale tensione vitale, essa
sussiste, indipendentemente da quel che si crede, purché sussista la tensione.
Tale dottrina si scosta dalla tradizione della Chiesa. Certo la religione è una
disposizione dell’intera persona e non soltanto dell’intelletto, ma l’atto di fede è
un atto che la persona fa specificamente mediante l’intelletto. Non si devono
confondere le primalità confondendo poi per necessaria conseguenza le virtù
teologali. La fede è una virtù dell’uomo del genere del conoscere, non del
tendere. La religione si integra sì di tutte tre le virtù teologali ma il suo
fondamento è la fede, non la tensione cioè la speranza. Che la religione si possa
riguardare in genere come un tendere a Dio, io non contendo. Che però consista
per sé in una tensione, è falso. Prima di tutto una tale tensione si confà a qualunque
esperienza religiosa del genere umano, compresa quella di chi adora sterchi e
scarabei e offre sacrifici umani. In secondo luogo tale tensione si confà al
titanismo, dove lo sforzo umano si volge non a riverire il Nume ma a sfidarlo e
abbatterlo. La tensione anzi si confà in sommo grado all’esperienza religiosa di
Satana il quale tendeva con tutte le sue forze a Dio, non per adorarlo, ma per
esserlo. La nota vera della religione è la soggezione e il principio che la costituisce
è il riconoscimento della dipendenza. Il principio della tensione è invece un principio
di autoposizione e di indipendenza.
167. Motivo e certezza della fede. Alessandro Manzoni. − Anche circa il motivo
della credenza religiosa i neoterici discordano dalla dottrina della Chiesa. Dicono
infatti che il motivo del credere è l’integrazione perfetta della persona umana e
l’interezza dell’appagamento ricercato dall’uomo. Questo motivo è legittimo e ben
riconosciuto dalla teologia cattolica, ma non già come motivo primo e
determinante, giacché il fine della religione non è l’appagamento dell’uomo, ma
l’adempimento del fine della creazione, il quale fine è Dio stesso. Qui la spinta
antropotropica del pensiero neoterico riappare. Il fine che Dio assegna all’uomo è
l a giustizia274, cioè l’adesione alla volontà divina, ma proprio in questo fine si
nasconde il fine che Dio si propone nell’assegnare all’uomo come fine la giustizia ed
è di condurlo alla beatitudine. Nella prospettiva dell’uomo il primum deve essere la
giustizia. La beatitudine consiste nell’essere perfettamente giusto, secondo la parola
di Cristo: «Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno satollati
[di giustizia]» (Matth., 5, 6). L’elemento soggettivo della beatitudine deve ridursi
affinché trionfi l’Oggetto.
Anche il fondamento della certezza di fede sta tutto fuori del soggetto. Questa
certezza è per il credente la più incrollabile delle certezze e supera l’inintelligibilità
della cosa rivelata e ogni condizionamento storico. Essendo la cosa rivelata tale
che la mente umana non può né trovarla né verificarla, la sola maniera possibile di
fondare quella certezza è di ricevere quel vero, puramente riceverlo senza mescolarvi
alcunché dal canto nostro, spostare insomma interamente dal lato del soggetto al
lato dell’Oggetto i motivi della certezza. La certezza infatti che il credente ha dei
dogmi della fede non si poggia sugli argomenti storicamente trovati della loro
verità e nemmeno, come già dissi, sulla confutazione delle obiezioni che si
oppongono ad esso. Essa poggia sopra un principio che oltrepassa tutte le
condizioni, tutte le presupposizioni e persino tutte le eventualità storiche.
Credere di fede cattolica è sapere fermissimamente che contro le verità credute
non vale argomento trovato o trovabile; è sapere che non solo sono insussistenti,
false e solubili le obiezioni accampate contro di esse, ma che saranno
insussistenti, false e solubili quelle che potranno essere accampate in tutto il
corso dell’avvenire in secula seculorum sotto qualunque estensione dei lumi del
genere umano.
Si può forse dire che la fede è esperienza di Dio e lo dissero in senso non
retto i modernisti, dimenticando che esperienza di Dio non si dà in questa vita
che per grazia particolare la quale fonda la teologia mistica. Ma lo si può dire, se
si prenda l’esperienza in senso lato di atti consaputi e verificabili, quali sono tutti
gli atti conoscitivi. Anche Giovanni Paolo II, parlando ai teologi, insegnò che
«l’uomo trascende i limiti della conoscenza puramente naturale e fa
un’esperienza di Dio che gli sarebbe altrimenti preclusa». Ma spiegò subito
dopo, richiamandosi a san Tommaso, che l’esperienza di fede è un fatto
essenzialmente intellettivo: «l’uomo può raggiungere una qualche intelligenza
dei misteri soprannaturali grazie all’uso della ragione, ma solo in quanto essa si
appoggia sul fondamento incrollabile della fede, che è partecipazione alla
conoscenza stessa di Dio e dei beati comprensori» (OR, 17 ottobre 1979). Ora
chi dirà che l’uomo mentre è in via ha l’esperienza dei beati comprensori?
La ragionevolezza signoreggia tutti gli atti della religione cattolica che non si
appoggia mai sull’uomo, creatura e dipendente, ma su Dio e sull’indipendente277.
CAPITOLO XX LA VIRTÙ DELLA CARITÀ
Per questa ragion di mezzo che le caratterizza fede e speranza sono caduche,
mentre «Caritas nunquam excidit» (I Cor., 13, 8). La fede cessa quando Dio è
veduto e la speranza quando è raggiunto, mentre la carità si continua nello stato
escatologico, soltanto svestendo l’imperfezione che ebbe nella vita del tempo.
Ma l’eccellenza della carità deriva oltre che dal non essere mezzo, ma atto
dell’uomo che si termina e si eterna in Dio, anche da una ragione teologica più
profonda. Gli enti finiti, in quanto sono nel pensiero di Dio, non possono non
essere, l’ordine ideale essendo una processione naturale interna all’essenza
divina. Questa rosa, per esempio, potrebbe non essere, ma l’idea di questa rosa è
impossibile che non sia; Martino poteva non essere, ma l’idea di Martino non
già. Le cose reali invece, col loro atto di esistenza, potrebbero non essere e
soltanto dall’amore divino son fatte essere.
170. La vita come amore. Ugo Spirito. − Nell’opera di Ugo Spirito La vita
come amore questa risoluzione di tutti i valori, e massime dei logici, nella
categoria dell’amore è teorizzata con coerenza inflessibile e qualificata come il
tramonto della civiltà cristiana, troppo signoreggiata dal Logo. La tesi dello
Spirito implica infatti, come dicemmo già tante ma non troppe volte, la
negazione del Verbo, cioè dell’organismo triadico, cioè di Dio. L’autore sostiene
che il Logo sia incompatibile con l’agape e che si possa giungere all’amore
soltanto eliminando la dualità e opposizione di bene e male e conseguentemente
il giudizio di valore da cui l’opposizione è espressa. Per poter amare occorre
un’acrisia assoluta che levi ogni discretio spirituum e che degradi insomma il
principio di contraddizione in forza del quale il male non è il bene e deve essere
odiato, mentre il bene va amato. Secondo Ugo Spirito la crisi del mondo è
propriamente e formalmente effetto del giudizio onde l’uomo è diviso tra valori
e disvalori, tra cose amabili e cose odibili.
È superfluo osservare che la teoria della vita come amore aborre da giudizi
assoluti e perciò rigetta il giudizio assoluto che nell’etica chiamasi inferno. E
questo non perché si dica che tutti sono salvati, i giusti dalla giustizia e i malvagi
dalla misericordia di Dio, ma perché virtù e crimine sono uno nell’amore che si
situa al di là di ogni contrapposto278.
Non pochi teologi cattolici professano280 che il divieto dell’aborto sia non
un’esigenza immutabile della legge morale, bensì un’esigenza della legge
evangelica e che questa non possa imporsi alla società civile fondata sulla libertà
di opzione per i valori.
Contro le dottrine che inforsano la saldezza della legge naturale si levò Paolo
VI (OR, 31 agosto 1972): «La norma morale, nei suoi principii costanti, quelli
della legge naturale e anche quelli evangelici, non può subire cambiamento. Noi
ammettiamo però che essa possa soffrire incertezze per quanto si tratta
dell’approfondimento speculativo di tali principii ovvero si tratta del loro
sviluppo logico e delle loro applicazioni pratiche». Il Pontefice ripropone la
dottrina classica della grande tradizione filosofica greco-romana e della teologia
cattolica da sant’Agostino al Rosmini, e quasi negli stessi termini. La norma
morale è assoluta essendo un’espressione dell’ordine eterno delle essenze
presente alla divina ragione: «lex naturalis est participatio legis aeternae et
impressio divini luminis in creatura rationali qua inclinatur ad debitum actum et
finem» (Summa theol., I, II, q. 91, a. 2).
La legge naturale dunque è un dettame della ragion pratica, cioè della ragione
giudicante il dover essere delle azioni umane, e sta in parallelo con la ragion
speculativa giudicante l’essere delle cose (Summa theol., I, II, q. 94, a. 2). Perciò,
come dai principii della ragione speculativa si deducono tutti i veri particolari
circa le cose non agibili, così dai principii della ragion pratica si deducono tutti i
giudizi sulle particolari cose agibili; e come in quelli così in questi intervengono
possibilità di errore a mano a mano che il processo deduttivo si allontana dai
principii ed entra nella complicatissima e variegata regione dei fatti contingenti.
La teologia cattolica ha infatti sempre distinto tra le deduzioni prossime che si
traggono dai principii e che sono certe, e le deduzioni remote che tanto più
decrescono in certezza quanto più si allontanano dai principii. Paolo VI nel
citato discorso ripropone questo insegnamento. V’è qualcosa di indefettibile e
incrollabile nell’imperativo morale e v’è qualcosa di mutevole nel mondo delle
azioni umane che devono essere modellate sull’assoluto dell’imperativo morale.
Questa conformità è spesso difficile da riconoscere ed è sempre difficile da
volere. Ma è chiaro che la difficoltà di una conoscenza non leva la assolutezza e
la validità del suo oggetto.
La maestà della legge morale procede dal suo indefettibile vigore che si
identifica in Dio con l’essere di Dio. Essa ne partecipa il carattere di
intemporalità e di assolutezza ed è estranea affatto all’idea di creazione. La legge
naturale infatti è ingenita come Dio e la tradizione teologica della Chiesa ha
sempre escluso che essa sia una creazione: il mondo è creato, ma la legge morale
è increata. È vero che la scuola volontaristica culminante in Guglielmo di Occam
vuole che anche la legge naturale sia un effetto creato contingente ma,
nonostante le interpretazioni attenuative, una tale dottrina rende contingente la
moralità e in sostanza la leva di mezzo. Si può infatti secondo Occam supporre
senza contraddizione un altro ordine morale, liberamente voluto da Dio come
questo, nel quale il bene fosse il male del presente ordine. L’assolutezza importa
invece che l’azione malvagia sia malvagia non pure in questo mondo creato, ma in
qualunque mondo possibile. La legge naturale è dunque impersonale, non già nel
senso che essa non riguardi la persona: la riguarda in sommo grado, ma appunto la
riguarda e non è un’emanazione di essa.
CAPITOLO XXII IL DIVORZIO
L’inimicizia dello Stato moderno verso la Chiesa non si era congiunta mai
all’impugnazione del diritto naturale, di cui è principal presidio la Chiesa. Ma in
età postconciliare la defezione nel 1974 dell’Italia e nel 1981 della Spagna ha
consumato la pienissima emancipazione della società europea dalla sua base
religiosa.
La Chiesa non ha per fine peculiare la rimozione del dolore. Essa rifugge
dalla tracotanza del filosofo antico che sentenziava: «nihil accidere bono viro
mali potest» e da quella del moderno: «Quando si parla di un’azione buona
accompagnata da dolore si dice cosa contraddittoria»288. Gli uomini devono adoperarsi
per rimuovere e punire l’ingiustizia, ma ciascuno vi è esposto indipendentemente dal
suo stato morale. Gli uomini soffrono perché sono uomini, non perché siano
personalmente malvagi. Non entro nel discorso teologico che mostra ogni male umano
dipendere originariamente dalla colpa. La religione non prende scandalo dalla
sofferenza del giusto e non vi ravvisa un’ingiustizia, ma la vede sempre nell’ordine
totale del destino e sempre associata a un sentimento prevalente di gaudio dato dalla
speranza della beata immortalità: «feliciter infelices» secondo la formola di
sant’Agostino risuonante testi paolini289. Il Patriarca invece prende il dolore come
un’ingiustizia, anziché esperienza della virtù, partecipazione al Cristo, purificazione ed
espiazione per i propri e per gli altrui peccati, e per di più trasloca la responsabilità
dell’ingiustizia dal colpevole alla Chiesa incolpevole.
L’aspetto della questione dell’aborto che qui importa rilevare è quello in cui
appare la storicità relativa del precetto morale. Il giudizio circa la liceità di un
atto è la conclusione di un sillogismo vaio, di cui la maggiore è assoluta, la
minore è contingente e la tesi è una verità in cui il contingente è collocato
nell’assoluto. Nella materia dell’aborto il sillogismo è così formato: La vita
dell’uomo innocente è inviolabile. L’embrione è un uomo innocente. Dunque la
sua vita è inviolabile. V’è dunque nel sillogismo che decide della liceità di un
atto una non piccola latitudine nell’apprezzamento del fatto che è il contenuto
della minore. Qui è il punto di incrocio tra la legge e la scelta pratica che il
soggetto fa nell’hic et nunc del suo operare. È anche il punto in cui le cognizioni
scientifiche soccorrono necessariamente alla valutazione morale stabilendo il
fatto che è espresso nella minore. Se l’embrione è in quello stadio uomo o no,
non tocca alla teologia stabilire, ma alla scienza biologica. Questa infatti, come
ogni altra scienza, è subordinata alla teologia, non perché la teologia prescrive
alla biologia le tesi biologiche, ma perché di queste tesi, costituite in modo
autonomo dalla biologia, si serve nel proprio ordine la teologia.
I teologi cattolici tennero per secoli che l’aborto del feto animato del
principio sensitivo ma non ancora del razionale, fosse lecito e in qualche
frangente persino obbligatorio296. Il giudizio circa la status humanus
dell’embrione di donna era comandato dalla teorica aristotelica dei tre principii
di vita (vegetativo, sensitivo, razionale) dei quali solo l’ultimo porta al vivente
l’attualità di uomo. San Tommaso nella Summa theol., II, II, q. 64 sull’omicidio,
non fa uno speciale discorso sull’aborto e Dante in Purg., XXV insegna che
l’anima razionale, la quale fa essere uomo, subentra alla sensitiva solo nel
momento in cui «l’articular del cerebro è perfetto».
Si suppone che vi sia diversità di valore umano tra il feto e la madre così da
poter immolare quello a questa302.
Abbiamo detto in questi paragrafi quel che dicemmo in ogni altro paragrafo e
che è il nerbo del presente libro e il πρῶτον ἀληθές per cui lo scrivemmo. La
crisi del mondo contemporaneo è il rifiuto delle nature o essenze e il credere che
l’uomo possa dare oltre che l’esistenza anche l’essenza delle cose. Per tornare
alla questione, l’uomo è certo causa dell’esistenza del concepito, ma il concepito
è sotto la legge della propria natura e la sua struttura assiologica si impone a
ogni creatura razionale. La questione, come dicevamo, è prima di filosofia che di
diritto. La Corte costituzionale tiene che il feto, che essa riconosce soggetto di
diritti, non sia però persona, perché esso non è né attualmente cosciente né
attualmente volente, identificando così l’esistenza della persona coll’esercizio
attuale dei suoi atti. L’identificazione è fallace: a questa stregua nemmeno il
comatoso, nemmeno il dormiente sarebbero persona, mentre sono
universalmente riconosciuti come tali.
Io credo che questo punto salebroso della dottrina si possa districare solo con
la teoria di potenza e atto. Tertulliano nel cap. 4 dell’Apologeticus chiama
l’aborto homicidii festinatio, giacché «non refert natam quis eripiat animam an
nascentem disturbet: homo est et qui futurus est»304. La formola è un paradosso e
un paralogo ed è conforme a uno schema stilistico prettamente tertullianeo305.
Infatti chi già è attualmente uomo non può cominciare ad esserlo in un momento
ulteriore: già lo è. Ma questa incongruenza tra essere e insieme non essere uomo
scompare se si introduce a interpretarla la teorica tomistica di atto e potenza
secondo cui è identica la sostanza nel momento in cui essa è nello stadio di
virtualità e nel momento in cui essa è attuata in actu exercito. L’uomo è uomo
anche quando non esercita attualmente le operazioni umane, come il medico è
medico anche quando non medica (come quando, poniamo, dorme e lo svegliano
perché può medicare e affinché medichi). Così si vede che la soluzione di un
problema morale può dipendere certo da quel che circa un fatto ha assodato la
scienza, ma che in ultima analisi ogni soluzione che se ne proponga nasconde
nelle sue viscere un supposto che racchiude u n πρῶτον ἀληθές o un πρῶτον
ψεῦδος. Il supposto falso nella sua devoluzione ultima è l’indipendenza della
creatura da sé medesima. Il supposto vero invece è la dipendenza della creatura
da sé medesima, cioè dall’essenza propria che solo Dio le ha data
irrevocabilmente nell’esistenza finita.
187. La pena di morte. − Vi sono delle istituzioni della società che derivano
dai principii del diritto naturale e che come tali godono in varie forme di
perpetuità: tali sono lo Stato, la famiglia, il sacerdozio; e ve ne sono di quelle
che, partorite da un certo grado di riflessione su quei principii e da circostanze
storiche, devono cadere quando la riflessione passi a un grado ulteriore o quelle
circostanze cessino: tale, per esempio, la schiavitù. La pena di morte fu sino a
tempi recenti e giustificata teoreticamente e praticata in tutte le nazioni come
l’estrema sanzione con cui la società percuote il malvagio col triplice scopo di
riparare l’ordine della giustizia, di difendersi e di distogliere altrui dal delitto.
La variazione operata si palesa su due punti. Nella nuova teologia penale non
si fa alcuna considerazione di giustizia e tutta la questione gira sull’utilità della
pena e sull’idoneità di essa a recuperare, come si dice, il reo alla società. Qui il
pensiero neoterico si ricongiunge, come in altri punti, all’utilismo della filosofia
giacobina. L’individuo è essenzialmente indipendente e lo Stato può difendersi
dal delinquente, ma non castigarlo perché abbia infranto la legge morale, cioè
perché sia moralmente colpevole. Tale incolpevolezza del reo si trasfonde poi in
una minore considerazione della vittima e perfino in una preferenza accordata al
reo sopra l’innocente. In Isvezia l’ex-detenuto è privilegiato nei concorsi a
pubblici impieghi in confronto del cittadino incensurato. La considerazione della
vittima ecclissa davanti alla misericordia per il malvagio. L’assassino Buffet
salendo alla ghigliottina grida la sua speranza «di essere l’ultimo ghigliottinato
di Francia». Doveva gridare quella di essere l’ultimo assassino. La pena del
delitto sembra più detestabile del delitto e la vittima cade nell’oblìo. La
restaurazione dell’ordine morale violato con la colpa viene rifiutata come atto di
vendetta. Eppure essa è un’esigenza di giustizia che si deve perseguire anche se
non si può annullare il male preterito e se è impossibile l’emendamento del reo.
Lasciamo di rilevare che questo ferisce il concetto medesimo della giustizia
divina la quale percuote di pena i dannati fuori di ogni speranza o possibilità di
ravvedimento (§ 316). Ma il concetto stesso di redenzione del reo è ridotto a una
mutazione di ordine sociale. Secondo OR del 6 settembre 1978, la redenzione è
«la consapevolezza di tornare a rendersi utile ai fratelli» e non già, come vuole
il sistema cattolico, la detestazione della colpa e il raddrizzamento della volontà
ricondotta alla conformità con l’assoluto della legge morale.
E quando poi si argomenta non potersi troncare la vita di un uomo perché gli
si sottrarrebbe la possibilità dell’espiazione, si neglige la gran verità che la pena
capitale medesima è un’espiazione. Certo nella religione dell’uomo espiazione è
primariamente il convertirsi dell’uomo agli uomini. Bisogna quindi concedere il
tempo a questa conversione e non abbreviarlo. Nella religione di Dio espiazione
è primariamente invece riconoscimento della maestà e signoria divina la quale,
conformemente al principio della puntualità della vita morale (§ 202), si deve
riconoscere in ogni momento, e si può.
190. Inviolabilità della vita. Essenza della dignità umana. Pio XII. −
L’argomento precipuo della nuova teologia penale rimane però quello
dell’inviolabile e imprescrittibile diritto alla vita che resterebbe offeso quando lo
Stato irroga la pena capitale. «Alla coscienza moderna» dice il citato articolo
«aperta e sensibile ai valori dell’uomo, alla sua centralità e al suo primato
nell’universo, alla sua dignità e ai suoi diritti inviolabili e inalienabili la pena di
morte ripugna come un provvedimento antiumano e barbaro». A questo testo che
riunisce tutti i motivi dell’abolizionismo conviene anzitutto fare una chiosa di
fatto. L’accenno dell’OR alla «coscienza moderna» è consimile alla premessa del
documento dei vescovi francesi, secondo i quali «le refus de la peine de mort
correspond chez nos contemporains à un progrès accompli dans le respect de la
vie humaine». Ma tale asserto nasce da propensione viziosa della mente a
compiacersi delle idee piacenti e a foggiare le idee sul desiderio, giacché gli
atroci sterminii di innocenti perpetrati in Germania nazista e in Russia sovietica,
la diffusa violenza contro le persone usata come strumento ordinario da governi
dispotici, la legittimazione e persino l’obbligatorietà dell’aborto trapassate in
legge, l’incrudelire della delinquenza e del terrorismo malamente raffrenati dai
governi, infliggono una cruda smentita all’asserto irrealistico.
E che il diritto alla vita che è inviolabile nell’innocente, non lo sia nel reo,
che l’ha scemato in sé stesso con la depravazione della volontà, appare anche se
si riguardi il parallelo diritto alla libertà: esso pure è innato, inviolabile e
imprescrittibile: tuttavia il diritto penale riconosce legittima la privazione anche
perpetua della libertà per sanzione del delitto e il costume di tutte le nazioni la
pratica. Non c’è dunque diritto incondizionato ad alcuno dei beni della vita
temporale, e l’unico diritto veramente inviolabile è quello al fine ultimo, cioè
alla verità, alla virtù e alla felicità e ai mezzi necessari. Questo diritto non è
toccato nemmeno dalla pena di morte.
La guerra non può essere l’estremo dei mali, tranne per chi adotta la veduta
irreligiosa che ravvisa nella vita, e non nel fine trascendente della vita, il bene
supremo, ed equipollentemente nel piacere il destino dell’uomo. La guerra è
certo un male e la Chiesa lo mette con la fame e la peste tra i flagelli da cui vuole
preservati gli uomini. Leone XIII nell’enciclica Praeclara congratulationis del
1894 denuncia l’inutilità delle guerre e preconizza una Società dei popoli e un
nuovo diritto internazionale. Di Benedetto XV sono memorabili le deplorazioni
dell’«orrenda carneficina» e del «suicidio dell’Europa» nonché la denuncia
dell’«inutile strage» nella Nota del 1 agosto 1917.
192. Pacifismo e pace. Card. Poma. Paolo VI. Giovanni Paolo II. − Della
Chiesa dunque è proprio non il pacifismo assoluto, che assolutizza la vita, ma il
pacifismo relativo, che condiziona la pace alla giustizia e la guerra pure. Ma il
più gagliardo fautore del pacifismo, Erasmo da Rotterdam, nella Querela pacis e
nella parafrasi del Pater noster, insegna al contrario che «non c’è pace ingiusta
che non sia preferibile alla più giusta delle guerre». E diffuse correnti di
opinione hanno sposato l’irenismo assoluto e possono invocare suffragi
autorevoli. Il card. Poma, arcivescovo di Bologna, in OR del 4 maggio 1974,
scriveva: «Nulla più che la guerra è contrastante col Cristianesimo. In essa, che è
la sintesi di tutti i peccati, la superbia s’incontra con lo scatenarsi degli istinti
inferiori». Ma asserzioni così mancanti di distinzioni e di senso storico sono
contrarie a secoli di Cristianesimo, alla riconosciuta santità di guerrieri, come
Giovanna d’Arco, e alla celebrazione che della guerra giusta fece Paolo VI in un
documento speciale per il quinto centenario della morte dello Scanderbeg. Lo
stesso Paolo VI, ricordando in un discorso la visita di Pio XII al popolo di Roma
dopo i bombardamenti del 1943 e il grido di un giovane: «Papa, Papa, meglio la
schiavitù che la guerra! Liberaci dalla guerra!», qualificò un tal grido di «folle»
(RI, 1971, p. 42). Il gran facitore di libertà e di pace che fu Gandhi per poco non
taccia di viltà il pacifismo assoluto: «Il est déjà noble de défendre son bien, son
honneur et sa religion à la pointe de l’épée. Il est encore plus noble de les
défendre sans chercher à faire du mal au malfaiteur. Mais il est antimoral et
déshonorant d’abandonner son partner et pour sauver sa peau de laisser son bien,
son honneur et sa religion à la merci des malfaiteurs».
Qui noterò che già nel Vaticano I fu proposto di stabilire «Qui bellum
incipiat, anathema sit», ma un tale assioma non entrava nel merito morale e non
è certo la priorità cronologica del guerreggiare che dà la qualità. Viene
condannata la micidialità degli atti bellici, perché nega la differenza delle
essenze e fa la guerra essere altro che non sia. Mentre infatti in passato le nazioni
guerreggiavano con l’azione specifica di uno specifico organo, l’esercito
appunto, oggi le nazioni guerreggiano con la totalità dell’organismo sociale e
tutto viene militarizzato: si hanno guerra politica, guerra commerciale, guerra
diplomatica, guerra di propaganda, guerra chimica, guerra biologica e persino
guerra meteorologica317: non più il solo Marte, bensì Marte, Minerva, Mercurio e
quant’altre sono deità dell’Olimpo moderno.
194. Le aporie della guerra. − La moralità della guerra è dunque soggetta a due
condizioni: che sia giusta, e non c’è uso giusto della forza che quando sia usata a
propulsare un’aggressione; e che sia moderata, e non v’è diritto di guerreggiare
che non soggiaccia all’obbligo della moderazione. Non entreremo qui a esaminare
la teoria di don Sturzo nell’opera La comunità internazionale e il diritto di guerra
(Parigi 1932), secondo il quale la guerra non ha rapporto essenziale e necessario con
la natura umana, ma soltanto contingente e quindi evolutivo, possibile ad eliminarsi
come si eliminarono la poligamia e la schiavitù. Osserveremo soltanto che l’uso della
forza, e quindi il principio della guerra, è essenziale alla società civile: questa ordina
la comunità al bene comune mediante la legge, ma anche reprime i violatori e nel
reprimerli (senza consentire con Hobbes) è da riconoscere il suo compito primario. Se
dunque, come insegna la filosofia cattolica dell’etnarchia, i popoli del mondo hanno
da discendere dalla pretesa di sovranità e assoggettarsi a un’autorità supernazionale
(vedi il Vaticano II citato al § precedente), è impossibile tale assoggettamento se
quell’autorità non abbia potere di reprimere efficacemente i violatori, cioè di
guerreggiare contro il socio ribelle. Come nell’attuale organizzazione imperfetta della
convivenza internazionale la guerra è lecita ai singoli stati soltanto per respingere
l’offesa al diritto proprio di essi Stati, così alla società etnarchica la guerra è lecita
soltanto per reprimere l’attacco ai diritti di essa etnarchia.
Secondo alcuni la nazione che guerreggia per legittima difesa compie un atto di
giustizia vendicativa (tra questi il Gaetano), così che il belligerante che ha la giustizia
personam gerit iudicis criminaliter agentis. Secondo altri invece quella guerra è un
atto di giustizia commutativa con cui si ricerca la riparazione e la restituzione di
un bene mal tolto. Non monta decidere la questione in questo luogo. La sentenza
del Gaetano è però conforme al principio cattolico della difesa degli innocenti
accolto nel Sillabo contro quella del non intervento. Ma se la società
internazionale non sia ancora costituita come società perfetta provvista delle tre
funzioni, legislativa, governativa e giudiziale, rimane difficile chiarire la
giustizia di una guerra e portar sanzioni contro il belligerante ingiusto,
esercitando per così dire un officio di tribunale universale. Anche la guerra
giusta è sempre una tristizia per due motivi. Primo, perché essa è un fratricidio
e, se combattuta tra cristiani, è anche una sorta di sacrilegio, dato il carattere
sacro dell’uomo battezzato. Secondo, in guerra l’attività di una parte non può
essere buona senza che l’opposta sia malvagia. La guerra difensiva di chi ha
ragione è giusta, ma può essere tale soltanto se l’attaccante è ingiusto. Per questa
duplice tristizia il Kant, Zum ewigen Frieden, dice che il giorno della vittoria
dovrebbero vinti e vincitori vestir gramaglie; e nel coro del Carmagnola del
Manzoni sono «cori omicidi» a innalzare «grazie ed inni che abomina il Ciel».
195. L’aporia della guerra moderata. Voltaire. Pio XII. Impossibilità finale
della guerra moderna. − La moderazione appare dunque l’esigenza ineccepibile
del guerreggiare con giustizia. E non soltanto verso il nemico deve la guerra
essere moderata, bensì anche dal canto del belligerante giusto. È dunque
proscritta la difesa ad oltranza, che è senza speranza di vittoria e con certezza di
olocausto vano320.
Che la soluzione dell’aporia della moderna guerra sia possibile solo col
riconoscimento di un’autorità etnarchica insegna Giovanni Paolo II nel
messaggio per la Giornata della pace (OR, 21 dicembre 1981), ma il Papa vede
la società delle nazioni come un istituto di dialogo e di trattative (già lo è),
mentre tace della forza, che è invece il nerbo essenziale dell’autorità. Non
sembra peraltro che il Papa proscriva la guerra difensiva, giacché se la
proscrivesse si inaugurerebbe una vacatio legis per la quale il mondo sarebbe
abbandonato all’iniziativa dei malvagi. Le parole del Papa a Coventry non
condannano la guerra difensiva non condannata dal Concilio, bensì l’iniziativa di
chi prende le armi, atomiche o convenzionali che siano, coll’intento di risolvere
da sé stesso le controversie. Chi invece attaccato si difende, usa la forza con
pieno diritto. Tuttavia a cagione dell’obbligo della moderazione, l’aporia
sussiste.
Più importante è però trafiggere l’errore nascosto nel concetto di creatività della
coscienza il quale è contraddittorio in terminis328. La coscienza è il sentimento
dell’alterità e dell’assoluta imponenza della legge, alla quale l’uomo non può dare o
togliere alcunché tranne l’ossequio della sua libertà. Se la coscienza creasse, proprio
in tale suo creare sarebbe immorale, perché la moralità è l’armonia della volontà
con l’ordine ideale che nemmeno in Dio è creato o creabile. Perciò se la
coscienza fosse creazione anziché ricognizione non avrebbe norma cui
armonizzarsi e solennizzerebbe l’arbitrio. La morale è riconoscimento pratico
della verità e una sorta di veracità onde l’uomo profferisce a sé stesso la verità:
profferisce, non partorisce.
Si dirà che la vita morale è pure un’attività, anzi la suprema attività dello
spirito. Lo dico anch’io. Ma non è affatto creazione di regole, bensì attuazione di
una regola che è data e che l’uomo ha soltanto da ricevere. Uno dei pensatori
cattolici che più altamente riconobbero la posizione dell’uomo di fronte alla
legge è il Rosmini: «Il principio obbligante» dice «affetta e lega tutto intero il
soggetto uomo: se dunque questo soggetto tutto intero è affettato e legato, non
c’è niente in lui che non sia passivo: non resta dunque in lui principio alcuno che
sia attivo, cioè che possa aver la virtù di obbligare». «L’uomo è meramente
passivo verso la legge morale: egli riceve in sé questa legge ma non la forma: è
un suddito a cui la legge si impone, non è un legislatore che la impone»329.
La morale di situazione, come appare dai citati testi del card. Etchégaray e
del padre Schillebeeckx, introduce pure, sordamente e surrettiziamente, il
concetto di intenzione retta. Non c’è infatti né retto né torto dove la coscienza,
per così dire, solitaria e slegata dalla norma, è indipendente dalla legge.
Si può insomma dire che «la morale evangelica liberando dalla legalità
trasferisce nell’interno dell’uomo la radice della morale»? Si può dirlo e lo disse
Paolo VI (OR, 17 giugno 1971), ma interpretando rettamente parole facili a
cadere nell’anfibologia. Non è possibile che le radici della morale umana siano
nell’uomo che non è un essere radicale e non può quindi essere radice di morale.
La morale infatti è un ordine assoluto e l’uomo invece un ente contingente e
relativo cui l’assoluto è presente e si impone, ma non ha certo le proprie radici in
lui.
201. La morale della globalità. − La teoria della vita morale come globalità e
del conseguente deprezzamento dei singoli atti non credo abbia precedenti nella
storia della morale ed è la novità saliente della scuola neoterica. Essa si sviluppò
attorno al problema degli anticoncettivi negli anni di grave incertitudine che
corsero tra la decisione del Vaticano II di rimettere al Papa la definizione di
questo punto e la promulgazione della Humanae vitae che decise la disputa in
favore della sentenza tradizionale.
Il punto è arduo, ma si può dire che l’idea della globalità morale devia
dall’insegnamento della Chiesa. Questa ha sempre tenuto al contrario la
puntualità della vita morale, facendone il soggetto perpetuo della sua
predicazione al popolo cristiano.
Eppure la religione insegna che il destino eterno dipende dallo stato morale
in cui trovasi l’uomo in punto di morte: non dunque dalla continuità storica, ma
dalla puntualità morale in cui lo coglie la fine. La sentenza opposta, che cioè
esso destino dipenda dal ragguaglio delle azioni buone con le cattive il Segneri
lo attribuisce ad alcuni Rabbini ed è comune anche ai Mussulmani che hanno il
mîzan, cioè la bilancia dei meriti332. Ma la sentenza della Chiesa cattolica,
insegnata nei catechismi, predicata da tutti i pulpiti e fissata nel decreto
dogmatico del Concilio II di Lione (DENZINGER, 464) è per la puntualità della vita
morale.
203. Critica della globalità. − Per far giudizio della morale di globalità
convien tenere fermo il principio metodico toccato al § 153: quando un vero sia
bene assodato prescrive a tutte le obiezioni che si possono muovere su punti
particolari. Così qui l’assolutezza dell’obbligazione morale che si impone a ogni
momento del tempo fa che ciascun momento del tempo sia dovuto all’ossequio
dell’assoluto e che il suo significato non possa subire alterazione a cagione degli
altri momenti. Tuttavia oltre che urtare contro un vero assodato, la morale della
globalità patisce altre difficoltà e vi soccombe. Sembra infatti che la globalità si
raccolga dalla somma degli atti buoni e cattivi. Ma come si conosce se un atto
sia buono o cattivo, se il suo valore deriva dalla globalità, la quale viceversa
deriva dal valore dell’atto? Non deve l’atto singolo già avere valore per poter
entrare con quel valore nella somma?
Ora né l’uomo né il mondo può essere il fine dell’uomo per la ragione che né
l’uno né l’altro furono il fine che ebbe Dio nel crearli. Dio ebbe per fine sé
stesso. Teologia e senso religioso pensarono sempre i valori temporali come
sussidi che servono strumentalmente340 alla virtù. Tutto il senso che essi hanno
deriva dal fine ultimo per il quale è fatto tutto e niente per sé stesso. Qui
adunque − e lo proclama Paolo VI (OR, 6 marzo 1969) − il Concilio «ha
modificato in modo considerevole il giudizio e l’attitudine verso il mondo».
D’altronde Giovanni Paolo II nel discorso all’UNESCO nel 1980 dichiara:
«Bisogna affermare l’uomo per sé stesso e non per qualche altro motivo o
ragione: unicamente per sé stesso. Ancor più, bisogna amare l’uomo perché è
uomo, bisogna rivendicare l’amore per l’uomo in ragione della dignità
particolare che egli possiede» (RI, 1980, p. 566). Le parole del Pontefice
risentono certo dei riguardi che gli si imponevano parlando a un consesso di
inspirazione puramente umanistica e irreligiosa e forse anche si informano al
paolino factus omnia omnibus. Esse devono inoltre essere contrappesate con
l’affermazione esplicita dell’enciclica Redemptor hominis: «Christus est centrum
universi et historiae». Ma il punto spinoso richiede un approfondimento.
Il precetto di amare l’uomo era nella dottrina della Chiesa connesso col precetto
di amare Dio, ma è secondo rispetto a questo e vien detto simile a questo (Matth.,
22, 39). L’amor di Dio rimane primo in assoluto e prescrive la forma all’amor del
prossimo. Non è dunque possibile quella forma di filantropia pura che oggi viene
anteposta alla filantropia per amor di Dio che sarebbe viziata da una vena
utilistica.
Ma perché mai il precetto della dilezion del prossimo è detto simile a quello della
dilezion di Dio? Per due motivi. Primo, perché quando si ama l’uomo, essendo
questo a somiglianza di Dio, si ama, per questa somiglianza, Dio nell’uomo. Secondo,
perché quando si ama l’uomo, che è amato da Dio, si ama quella volontà divina che
ama l’uomo, cioè si ama Dio.
L’idea della produzione fu per millennii congiunta con quella della fatica
(onde πόνος vale equipollentemente fatica e lavoro) e della penalità (il biblico
«sudor della fronte»). La disgiunzione delle due idee con la tendenziale
eliminazione della fatica è l’ideale perseguito da tutto l’odierno progresso civile.
La teologia moderna ha lumeggiato più che non facesse l’antica il problema del
lavoro imposto dall’enorme elazione della macchina ignota o quasi al mondo
antico.
Nel concetto cattolico del lavoro, tolto dalla protostoria del Genesi, nell’idea
del lavoro sono contenute due idee: quella del dominio sopra la natura e quella
della fatica, cioè di una penalità inflitta al peccato e medicina al peccato. Ora la
prima di queste due idee è stata oltremodo sviluppata nella teologia
postconciliare, facendo della vocazione a dominare la terra un compito primario
del genere umano e una forma dell’obbedienza religiosa dovuta a Dio: «replete
terram et subiicite eam» (Gen., I, 28). Il carattere religioso di tale dominazione
della terra viene spinto così avanti da chiamarla una cooperazione all’opera
creativa di Dio e un compimento, quando non addirittura una correzione di
essa346. Questa dominazione, cui l’uomo fu chiamato prima del peccato, non fu
abrogata dopo il peccato, ma soltanto portò impresso, dopo il peccato, un
carattere penoso. Persiste dunque la finalità trasformatrice della natura,
promulgata nell’istituzione primitiva, ma non ha punto luogo la glorificazione
del lavoro che si fa nella società contemporanea. Questa glorificazione è invero
contraddittoria, perché mentre le Costituzioni nuove o rinnovate degli Stati
fondano il consorzio civile sul lavoro347, tutta l’opera sociale dello Stato mira
alla riduzione del lavoro348, cioè a restringere il proprio fondamento.
In primo luogo il lavoro, che era raffigurato come una speciale virtù,
chiamata solerzia o esercizio o industria, si riguarda adesso come la categoria
generale dell’attività morale, grazie alla quale l’uomo adempie l’officio suo
principale che è quello di dominare la terra e perfezionare la creazione. Il
Concilio in GS, 67, insegna: «Labore suo homo... potest creationi divinae
perficiendae sociam operam praebere. Immo per laborem Deo oblatum tenemus
hominem ipsi redemptionis operi Iesu Christi consociari355, qui praeeccellentem
labori detulit dignitatem, cum in Nazareth propriis manibus operaretur»356. Con
un teologumeno ardito si giunge a dire che col trionfo della tecnica «si comincia
a manifestare la propria somiglianza con Dio, perduta col peccato originale»357.
Questa moralità del lavoro non è nuova nella dottrina, se si intende della
moralità parziale inerente a ogni virtù, ma è invece nuova se si intende che il
lavoro combaci con la sfera intera della moralità, come se non vi fossero virtù
particolari, per esempio la religione, la giustizia, la castità e via dicendo.
Ciascuna virtù infatti, in quanto implica rettitudine della volontà e quindi include
virtualmente tutte le altre, perfeziona l’uomo e procura la salvezza. Sarebbe
invece nuova questa moralità, se si intendesse che il lavoro sia l’essenza
dell’attività morale e che senza il lavoro l’uomo non possa realizzarsi come
uomo. Infatti anche il dolore e ogni patimento, che sono condizioni di passività e
non di attività, anche l’orazione, anche la contemplazione, tanto dignificate nella
tradizione cristiana, sono parte della dimensione umana e tuttavia si trovano
fuori del lavoro. Anzi, secondo la religione, il proprio del cristiano è
l’abnegazione e non la realizzazione di sé stesso («abneget semetipsum», Matth.,
16, 24). Tale abnegazione, si badi bene, conseguita mediante la conformazione di
sé alla legge, cioè alla volontà di Dio, non è l’annientamento di sé, ma la
resezione dell’egoismo e della filauzia. Per questa conformazione si può dire che
l’uomo adempie la propria natura e realizza sé stesso (se si vuol mantenere
questa catacresi), non però per diritto e per primam intentionem (in tal caso si
entra nel sistema antropocentrico), ma per indiretto e per aggiunta. Qui battono
le parole di Matth., 6, 33: «Quaerite... primum regnum Dei et iustitiam eius et
haec omnia [compresa l’autorealizzazione] adiicientur vobis», e quelle di Luc.,
9, 24: «Qui enim voluerit animam suam salvam facere, perdet eam».
218. Civiltà della natura e civiltà della persona. Civiltà del lavoro. − Tutto
quel passo dell’enciclica è caratterizzato dalla tendenza a fare degli speculativi e
degli altri un solo mondo del lavoro. La negazione della peculiarità ed eccellenza
della vita contemplativa e l’esaltazione dell’attività lavorativa con cui l’uomo
trasforma il mondo, manipola la natura e tutto indirizza al dominio, contiene in
seme l’abbozzo di una civiltà di cui centro è l’uomo e fine è l’uomo.
Naturalmente la teologia contemporanea non può non confessare il fine
trascendente della vita umana, ma questo fine si scolora di fronte alla primazia
assegnata alla tecnica e al dominio del mondo.
I rapporti tra gli avanzamenti della natura e quelli della persona sono difficili
da determinare, ma rimane fermo che il principio personale è il sommo
dell’uomo e che gli altri devono restare congiunti ad esso, perché si dia
progresso nella persona e non solo nella natura. Lo scambio tra natura e persona
è l’errore che partorisce la somatolatria, la glorificazione dello sport, la
esaltazione dei diritti (divenuti cosa in sé, mentre derivano dal dovere morale), la
dossologia delle invenzioni meccaniche, l’ammirazione inconsulta per la
ricchezza e la potenza, e insomma il culto della città terrestre il cui fine diventa
appunto l’ingrandimento della natura umana ad omne possibile.
219. Civitas diaboli, civitas hominis, civitas Dei. − Le due classi di uomini
sono già delineate nel Genesi. Gli uni sono «potentes a seculo viri famosi»,
stirpe di giganti, fondatori di città, intraprendenti, conquistatori: essi hanno per
fine lo sviluppo e l’espansione dell’uomo. Gli altri, i figli di Dio, mirano alla
perfezione della persona, vogliono cioè assolutamente e senza condizione il fine
morale del genere umano che è il culto divino, e solo contingentemente e
relativamente la dominazione dell’universo. Nel Vangelo poi le due classi sono
indicate come figli del secolo e figli della luce e l’abbaglio proprio della civiltà
contemporanea è misteriosamente indicato, dicendosi che i figli delle tenebre
«sono più prudenti dei figli della luce, ma nel loro genere», cioè nelle cose del
mondo, e solo in quelle (Luc., 16, 8).
Sant’Agostino nella sua grande opera figurò la storia del genere umano come
viluppo di due città, una teotropica che giunge sino al disprezzo del mondo, e
l’altra antropotropica che giunge sino al disprezzo di Dio. La prima corrisponde
alla classe che ricerca la perfezione della persona e l’altra a quella che ricerca la
perfezione della natura. Una terrestre in tutto, l’altra terrestre in transitu e celeste
in termino. Conviene però osservare che il disprezzo di Dio con cui Agostino
caratterizza la città terrena non ha indole semplice. Vi sono uomini che con atto
positivo rigettano dalla loro prospettiva il fine celeste e lo combattono come
avverso al fine terreno del genere umano. Tali uomini formano quelle nazioni
che oggi fondano la civiltà sull’ateismo. Questa è in senso proprio la agostiniana
civitas diaboli, edificata nel sangue e nella menzogna, mirante all’estinzione del
Cristianesimo. Ma vi sono anche, ed è la frazione forse maggiore, uomini che
non impugnano il fine celeste, ma non lo ricercano e sospingono il consorzio
umano verso una perfezione di assoluta citeriorità (Diesseitigkeit). Tale è la
civitas hominis che tramezza tra le altre due. Essa stacca il bene umano dal bene
morale, il bene della natura umana dal bene della persona. Essa volge tutto al
progresso mondano prendendo la signoria del mondo come il fine totale
dell’uomo. La religione al contrario insegna che il fine totale è il servizio e la
fruizione di Dio: «hoc est enim omnis homo [= la totalità dell’uomo]» (Eccle.,
12, 13).
Vi sono dunque tre città: quella che si consacra al fine trascendente e lo vuole
sopra ogni cosa; quella che lo impugna e ama sopra ogni cosa il mondo; quella
infine che lo neglige. E le tre sono commiste e corrono ciascuna la propria
carriera in modo spesso indiscernibile. Ma tanto la civitas hominis, a cui si volge
la Chiesa postconciliare per battezzarla ed esserne sbattezzata, quanto la civitas
diaboli, che essa debolmente impugna, consumano entrambe un distacco
dell’uomo dalla propria anima proclamando il dipendente indipendente.
Convien notare d’altronde che nella Bibbia medesima la civiltà cammina per
vie proprie: i primi che vi si nominino come fondatori di città sono Caino e i
Cainiti e l’inventore della metallurgia è Tubalcain della stirpe del fratricida.
Certo l’uomo deve staccarsi dalla sua anima, vendere ai reggitori la sua
libertà per lasciarsi da loro felicitare, per ricevere in iscambio, per dire con
Spitteler in Prometheus und Epimetheus, «ein Gewissen, das wird dich lehren
“Heit” und “Keit” und dich sicher leiten auf gerade Wegen». Dando al mondo la
religione come mezzo, il mito di Dostoevskij la annienta e sfigura affatto il
Gesuitismo. Nelle Reducciones, che sono il modello più stretto dell’ideale
gesuitico, l’organizzazione temporale è ordinata rigorosamente al fine celeste. I
Gesuiti vollero rendere amica all’uomo la trascendenza. È forse inimica?
CAPITOLO XXXIII LA DEMOCRAZIA NELLA CHIESA
Primo: si ritiene che facendo partecipare ossia sommando più intelletti nella
deliberazione di un negozio si ottenga una maggior quantità di sapienza. Il
supposto è contrario persino alla sentenza dei politici. Il Guicciardini per
esempio sentenzia, per la bocca di Antonio da Venafro: «Se metti sei o otto savi
insieme diventano tutti pazzi, perché non si accordando mettono la cosa più tosto
in disputa che in resoluzione». È contrario altresì al teorema di Le Bon
dell’abbassamento del valore medio dell’individuo nella massa377.
Nella Pacem in terris del 1963 Giovanni XXIII deriva i diritti dell’uomo
sanciti nella Carta dell’ONU, non dal dovere morale dell’uomo, e quindi dal suo
legame finalistico con Dio, bensì immediatamente dalla dignità umana secondo
l’effato antropotropico, che sarà poi fatto proprio dal Concilio, che l’uomo è una
creatura voluta da Dio per sé stessa (§ 205). Il Papa richiamava certo il principio
cattolico che ogni autorità viene da Dio, non essendoci nell’uguaglianza di
natura di tutti gli uomini un principio di superiorità onde uno comandi e l’altro
obbedisca; però egli tace che la ragione onde si differenzia quell’uguaglianza e
alcuni eguali comandano ad altri eguali, è il carattere divino dell’autorità e non il
fatto umano della maggioranza.
Anche più probanti per escludere che il popolo non avesse parte nel
determinare il corso ecclesiale sono le consuetudini durate per secoli circa
l’elezione dei vescovi. L’elezione si fece infatti non ad opera del popolo (perché
essa è officio proprio degli Apostoli e dei loro successori), bensì con la
partecipazione del popolo che dava testimonianza della bontà dei candidati. Non
si può infine tacere in secoli più recenti e massime dopo la riforma tridentina,
l’incredibile vitalità delle confraternite laiche, parte devozionali e parte
indirizzate alle opere di misericordia, che si reggevano in modo autonomo e
delle quali il clero si può dire che fosse soltanto il servo ministeriale.
233. Conferenze episcopali. Sinodi. − La costituzione delle Conferenze
episcopali ha prodotto due effetti: ha difformato la struttura organica della
Chiesa e ha generato l’esautorazione dei vescovi. I vescovi, secondo il diritto
preconciliare, sono successori degli Apostoli e reggono ciascuno la propria
diocesi con potestà ordinaria, nello spirituale e nel temporale, esercitandovi
potestà legislativa, giudiziaria e coattiva (can. 329 e 335). L’autorità era precisa,
individuale e, tranne che nell’istituto del vicario generale, indelegabile (il vicario
generale era d’altronde ad nutum del vescovo).
Qui è singolare come il decreto (n. 37) trovi la ragione di questo nuovo
istituto nella necessità per i vescovi di un medesimo paese di operare di
conserva, e come non veda che questo vincolo di cooperazione ormai
giuridicamente configurato altera l’ordinamento della Chiesa sostituendo al
vescovo un corpo di vescovi e alla responsabilità personale una responsabilità
collettiva, cioè una frazione di responsabilità.
La dottrina del Vaticano I e del Vaticano II nella Nota praevia (vedi § 44)
definisce il Papa principio e fondamento dell’unità della Chiesa, giacché è
conformandosi a lui che i vescovi si conformano tra di loro. Non è possibile per i
vescovi appoggiare la loro autorità su un principio immediato che sarebbe
comune alla loro potestà e a quella papale. Ora con l’istituzione delle
Conferenze episcopali la Chiesa è un corpo policentrico e i molti centri sono le
Conferenze episcopali, nazionali o provinciali.
234. Sinodi e Santa Sede. − Si potrebbe interpretare il fenomeno come
semplice manifestazione dell’opinione pubblica nella Chiesa, ma innanzi tutto
l’opinione non può avere luogo dove si ha una decisione del Magistero (benché
si cavilli abusando della distinzione tra magistero ordinario e magistero
straordinario: l’ordinario viene tenuto per disputabile e viene di fatto disputato
da chierici e da laici). In secondo luogo, anche se in un dato momento
l’opinione, che è poi il fatto di minoranze, anzi di minimanze, si sia atteggiata in
modo difforme dal Magistero, una volta avvenuto il pronunciamento le opinioni
dovrebbero cadere, giacché cessano di essere libere. Al contrario, come già
osservammo, i Sinodi nazionali continuano a mettere in discussione punti già
decisi, come l’abolizione del celibato, l’intercomunione ecc. Nel Forum
interdiocesano elvetico del 1981391 tutti i soggetti disputati dal Concilio in qua e
troncati con decisione della Santa Sede, tutti, annuenti i vescovi, tornarono sulla
lista degli argomenti da trattare. Di questa indipendenza prescismatica è anche
un indizio certo il fatto che al Forum elvetico del 1981 non ebbe parte alcuna il
Nunzio pontificio in Isvizzera.
235. Spirito e stile dei sinodi. Il Forum elvetico 1981. − Oltre che
dall’esautorazione dei vescovi i sinodi sono caratterizzati da un grande
circiterismo di pensiero e di formule. Il sinodo elvetico 1981 di cui dissi, fu
convocato e preparato per più anni sul tema «Per una Chiesa viva e missionaria».
Ora il concetto di Chiesa viva era ammissibile nella teologia tradizionale che
distingueva non Chiesa viva da Chiesa morta, ma nella Chiesa membri vivi e
membri morti. Qui invece è un riferimento generico al dinamismo e vitalismo
moderno, per il quale indizio di vita è il moto e il cangiamento, anziché il durare
nella propria entità. Solo gli articoli in cui il Sinodo esprime il dissenso dalla
tradizione sono precisi e concreti. Il resto ha in comune astrattezza, genericità,
metafora. Formule come questa, per esempio: «Occorre sentirsi una comunità in
cui ognuno accetta le esperienze, le attese, la sensibilità ecclesiali dell’altro in un
clima di fiducia». Per la crescente conoscibilità dell’indigenza altrui e la
cresciuta organicità tra continente e continente l’azione di carità diventa
un’ovvia obbligazione dei popoli cristiani, che il Forum definisce «come
apertura a nuovi rapporti di crescita con altre comunità».
Ebbe poi una seconda parte, precisa e nuda di ambagi e circiterismi, in cui il
Forum pretende che siano aspettazioni della Chiesa elvetica i postulati neoterici,
già formulati nel primo Sinodo e già rigettati dalla Santa Sede: ordinazione di
femmine, preti uxorati, intercomunione, sacramenti ai divorziati risposati.
Il fondo dello spirito sinodale è che lo spirito soggettivo prevalga nella vita della
comunità ecclesiale perfondendola del primato dell’opinione pubblica e che
convenga perciò continuare a tenere aperte le questioni che la Chiesa ha chiuse.
Dalla dipendenza del cristiano dall’autorità della Chiesa si passa alla dipendenza della
Chiesa dall’autorità di Demo.
CAPITOLO XXXIV TEOLOGIA E FILOSOFIA NEL POSTCONCILIO
La Chiesa non poté non avere in ogni suo stadio storico una filosofia, giacché
non poté non giustificare in ogni suo stadio le verità naturali su cui si appoggia
la fede, come non poté non illuminare e approfondire all’uomo, che non è un
puro senziente, ma un soggetto intellettivo, la soprannaturale verità che pure
rimane inevidente. Ma se manifesta è l’intrinseca esigenza che la teologia ha
della filosofia, scabroso però è cogliere quale nesso abbia la dogmatica cattolica
con una concreta e storica filosofia. Né infatti sarebbe ragionevole sostenere che
essa l’abbia uguale con tutte le filosofie, giacché questo comporterebbe
l’equivalenza di tutte per rispetto alla fede, oppure, in caso di contradittorietà fra
di esse, l’annientamento della filosofia e il pirronismo puro. Né basta infine
asserire l’importanza della filosofia per la religione, se poi non si è in grado di
precisare quale filosofia in concreto può prestare servizio alla religione e quale
no. È l’aporia in cui si impiglia il card. Garrone (OR, 23-4 ottobre 1970) che
esalta l’importanza della filosofia ma tace sulla concreta filosofia di cui esalta
l’importanza.
237. La sfigurazione del tomismo. Schillebeeckx. − È storicamente certa la
preferenza che la Chiesa riservò nelle sue scuole, in ambiente culturale non
tomistico, alla filosofia tomistica, né occorre rammentare l’intronizzazione che
della Summa fece anche ritualmente il Tridentino. Basti ricordare l’enciclica di
Leone XIII Aeterni Patris la quale preferenziava, senza esclusivismi, la dottrina
di san Tommaso e allacciava alla restaurazione tomistica il rinnovamento
culturale del cattolicismo e persino il risanamento della moderna società civile.
238. Attualità e perennità del tomismo. Paolo VI. − Che l’attualità del
tomismo consista nell’adattamento al mondo culturale coevo è smentito dal fatto
che il tomismo ebbe sì contatto con la cultura del suo secolo ma non la assimilò,
anzi la contraddisse vigorosamente in tutti i punti in cui essa era incompatibile
con le dottrine della religione (vedi § 5). Che poi il valore del tomismo sia
metodico e non tetico, benché fosse la tesi dominante al Congresso del 1974 che
condusse alla fondazione di un’Associazione internazionale per un tomismo
sincretistico, non fu passato senza riprovazione da Paolo VI che ne fece una
Lettera al Maestro generale dei Predicatori il 14 novembre 1974. Il Papa
ristabilisce secondo verità il valore attuale del tomismo. «Per essere oggi»
conclude il documento «un fedele discepolo di S. Tommaso non basta voler fare
nel nostro tempo e con i metodi oggi a disposizione ciò che egli fece nei suoi
[non sarebbe niente di peculiare fare quel che tutti i Padri fecero da Tertulliano
in qua] contentandosi di imitarlo. Camminando come su una via parallela senza
nulla attingere da lui, difficilmente si potrebbe arrivare a un risultato positivo o
perlomeno a offrire alla Chiesa e al mondo quel contributo di sapienza di cui
hanno bisogno. Non si può infatti parlare di fedeltà vera e feconda a S. Tommaso
se non si accolgono i suoi principii, che sono altrettanti fari per illuminare i più
importanti problemi della filosofia, e del pari le nozioni fondamentali del suo
sistema e le sue idee-forza. Solo così il pensiero del Dottore angelico, messo a
confronto con i sempre nuovi risultati della scienza profana, conoscerà
rigoglioso sviluppo».
Il pluralismo è dunque inerente alla ricerca teologica e non mancò mai nel
pensiero cattolico395. Il fondamento di tale pluralità è però mutato nella teologia
postconciliare. Il pluralismo preconciliare era fondato su due capi. Il primo è
l’inadeguanza relativa dell’intelletto specolante sul mistero di fede. Le risorse
della mente teologante sono limitate, sia per la sua natura essenzialmente finita,
sia per la debolezza individualmente contingente. Con un’intera certitudine, che
è quella di fede, essa può cogliere solo il senso primario del dogma, mentre le
sfuggono le implicazioni, il quomodo e le conseguenze del dogma stesso. Per
esempio, il teologo coglie il senso primario della formula eucaristica: questo è il
corpo di Cristo, ma circa il modo dell’essere questo il corpo di Cristo vien meno
la certezza (vedi § 266). Così san Tommaso insegna che il corpo di Cristo è nel
sacramento per transustanziazione e permanenza degli accidenti anteriori,
Giovanni Pico della Mirandola per una sorta di unione ipostatica, lo Scoto per
moltiplicazione della presenza, il Campanella per assunzione del pane al quinto
mondo metafisico trascendente, il Rosmini per vivificazione trasformatrice della
sostanza del pane ad opera del Cristo. In queste discrepanti teoriche può cadere
errore, se le modalità escogitate non salvano il senso primario del dogma,
facendo della presenza sacramentale un atto immaginario anziché reale, figurale
e di puro segno anziché di realtà e di esistenza. Al di là dell’asserto di fede:
questo è il corpo di Cristo la teologia contrae la dubbiezza inerente
all’inadeguanza della facoltà conoscitiva tanto nei veri soprannaturali quanto in
quelli naturali.
A che cosa riducesi dunque il valore del tomismo celebrato dalla Chiesa? Il
Convegno non può assegnarne uno senza contraddirsi. Dopo aver trovato che
ogni filosofia è provvisoria, che ogni conoscenza è affetta dal relativo e
dall’effimero e che non esiste essenza permanente nemmeno dell’uomo, il
Convegno crede di poter affermare che san Tommaso unì «in maniera notevole»
la mentalità statica e la mentalità dinamica, cioè sincretizzò il contraddittorio, e
che sciogliendosi dalle strettezze della storicità «ha percepito e formulato
intuizioni fondamentali che stanno alla base del pensare e dell’agire umano».
Come si può parlare così, se non c’è un fondamento fisso implicante il
riconoscimento dell’Idea, e se si pone pluralità contemporanea o successiva di
principii?
Paolo VI nella Mysterium fidei ha riaffermato con forza contro i novatori che
le formule dogmatiche di cui usa la Chiesa rappresentano quel che lo spirito
umano attinge alla realtà mediante l’esperienza: l’esperienza è ut quo e non già
ut quod intelligitur. Perciò le formule sono intelligibili per tutti gli uomini di tutti
i tempi godendo di una soprastoricità correlativa al trascendente dell’oggetto.
Anche Pio XII nelle prime pagine di Humani generis insegnò che i misteri di
fede possono essere espressi in termini veri e invariabili. La novazione introdotta
dai neoterici intacca dunque la base gnoseologica della dogmatica cattolica e
ritorna all’errore modernistico. La teologia non sarebbe l’apprensione,
esprimibile in formule, di una verità immobile bensì, come ormai si insegna
comunemente398, traduzione in parole dell’esperienza del credente e, secondo il
detto di Zahrnt, «una nozione teologica è soltanto un’esperienza calata nella
riflessione». L’esperienza essendo per essenza soggettiva e mutevole, è
manifesto che vi ha soltanto teologia soggettiva e mutevole e anche se avrà un
carattere comune, questo carattere dipenderà da una concordanza di esperienze
sempre soggettive anziché dalla fissità di un oggetto che si impone.
Nel Sinodo dei vescovi del 1967 il card. Seper, prefetto della Congregazione per la
dottrina della fede, denunciò in questi termini il carattere eterodosso della teologia
postconciliare: «Le cose sono arrivate al punto che non si può più parlare di sana e
proficua ricerca né di legittima adattazione, ma di innovazione indebita, di opinioni
false e di errori nella fede» (OR, 28 ottobre 1967). Questa descrizione non differisce
da quella reiterata da Paolo VI della interna dissoluzione della Chiesa.
Il caso Küng, trascinato per lunghe ambagi dalla Santa Sede, fu deciso col
decreto 15 dicembre 1980 che privava il Küng del titolo di teologo cattolico, ma,
come si vede, il decreto porta una qualificazione personale anziché dottrinale e
manifesta un’altra volta la disunione della Chiesa. Il decreto romano fu attaccato
con proclami avversi da intieri corpi universitari, con sottoscrizioni di protesta
del clero. È un ulteriore effetto della desistenza dell’autorità. Il Küng infatti
continuò a insegnare le sue dottrine con la voce e con le stampe. Il precetto di
Paolo a Timoteo μὴ ἑτεροδιδασκαλεῖν (I Tim., 1, 3) è rovesciato: pirronismo e
mobilismo fanno ricercare τὸ ἑτεροδιδασκαλεῖν come se fosse il sintomo della
vitalità della fede. Il dovere del Superiore san Tommaso nel commento a quel
luogo dice essere duplice: «primum cohibere falsa docentes, secundum prohibere
ne populus falsa docentibus intendat»400. Ma oggi è immolato al principio della
libertà.
CAPITOLO XXXV L’ECUMENISMO
Già nel periodo dei lavori preparatorii del Concilio (§§ 29 sgg.) il padre M.
Villain nell’opera Introduction à l’œcuménisme (Paris 1959) proponeva di far
cadere l’antinomia tra Chiesa cattolica e confessioni protestanti distinguendo tra
dogmi centrali e dogmi periferici, ma più ancora distinguendo le verità di fede
dalle formule con cui il pensiero contingentemente le obiettiva e le esprime e che
non sono immutabili. Poiché le formule non sono l’effetto di una facoltà
manifestativa del vero, bensì di una facoltà categorizzante un dato sempre
inconoscibile, l’unione deve farsi in qualche cosa di più profondo della verità,
che il Villain chiama il Cristo orante. Ma oltre a quanto dicemmo al § 243, è da
osservare che l’orazione di tutti quelli che si richiamano al Cristo è certo un
mezzo necessario dell’unione, ma che il pregare insieme per l’unione non
costituisce l’unità, che è di fede, di sacramenti e di reggimento.
In una pericope implessa del discorso del 23 gennaio 1969 Paolo VI sembra
vicino a tali vedute. «Dalla discussione teologica» dice il Papa «può risultare
quale sia l’essenziale patrimonio dottrinale cristiano, quanto sia di esso
comunicabile autenticamente e insieme in termini differenti sostanzialmente
uguali e complementari, e come sia per tutti possibile e alla fine vittoriosa la
scoperta di quell’identità della fede nella libertà e nella varietà delle sue
espressioni dalla quale l’unione possa felicemente essere celebrata». Sembra da
questa pericope che l’unità preesista ubique e che si debba prenderne coscienza
ubique e che la verità si trovi non già abbandonando, ma approfondendo la
sostanza dell’errore. Non diversa è la posizione di Giovanni Paolo II nel discorso
al Sacro Collegio, 23 dicembre 1982 richiamato in occasione della vi Assemblea
del Consiglio ecumenico delle Chiese: «Celebrando la Redenzione andiamo al di
là delle incomprensioni e delle controversie contingenti per ritrovarci nel fondo
comune al nostro essere cristiani». A quell’assemblea erano rappresentate
trecentoquattro confessioni cristiane, le quali, secondo OR, 25-6 luglio 1983,
«hanno espresso nel canto, nella danza, nella preghiera i diversi modi di
significare un atteggiamento di rapporto con Dio».
Paolo VI non ha levato l’incertitudine. Nei citati Colloqui con Guitton, pp.
164-5, egli asserisce sì: «Il n’y a qu’une seule Eglise axe de convergence, une
seule Eglise en qui toutes les Eglises doivent se réunir»: ma chi non vede che
unirsi nella Chiesa non è unirsi alla Chiesa già sussistente come unificante? E
quando, fatta la parte della fede, aggiunge: «Mais la charité nous pousse è
respecter toutes les libertés» non chiarisce che né coscienza né libertà sono
autonome e che il cattolicismo non è la religione della libertà ma della verità.
Ora il titolare del Segretariato per le religioni non cristiane in due grandi
articoli di OR riduce la missione a dialogo «non per convertire, ma per
approfondire la verità». In OR del 15 gennaio 1971 si legge addirittura che «la
Chiesa ha bisogno, per crescere secondo il disegno di Dio, dei valori contenuti
nelle religioni non cristiane». La tesi non è nuova e identifica l’ordine della
civiltà con quello della religione, che si conviene invece distinguere. Questa
sentenza implica che nel seno delle religioni non cristiane làtiti il Cristianesimo e
che basti approfondire il Logo naturale per trovare il soprannaturale dell’uomo-
Dio e della grazia. L’Islamismo per esempio sarebbe un seme di Cristianesimo
che ha da essere fatto germogliare e crescere408. Come nell’ecumenismo per i
cristiani separati, anche qui non si procede per accessione alla verità cristiana,
ma per esplicitazione e maturazione di una verità immanente a tutte le religioni.
Il decreto Ad Gentes insegnava che «tutti gli elementi di verità e di grazia
reperibili tra gli infedeli per una cotale presenza segreta di Dio, purgati che siano
dalle scorie del male, vengono restituiti al loro autore Cristo... Onde tutto il bene
che si trova seminato nel cuore e nella mente degli uomini oppure nelle civiltà e
nelle religioni409 loro proprie non solo non perisce, ma viene sanato, elevato e
portato a completezza».
A questo ideale di perfezione terrena era già stata data una sistemazione
potente nel Seicento nella teologia del Campanella, ma questa era fondata nel
supposto che il Cristianesimo avesse virtù di riparare tutto l’uomo e di svolgere
una perfezione anche temporale ignota alla pura natura. Il Campanella mirava
così ad abbattere l’obiezione dei politici della scuola machiavellica, secondo i
quali la prosperità delle nazioni sarebbe incompatibile con la legge cristiana. Lo
Stilese mostrava che la perfezione anche temporale del genere umano è un frutto
del Cristianesimo. Però nella sua teocosmopoli il Campanella conservava il
teotropismo essenziale al Cristianesimo e tutte le temporalità sottometteva alla
religione, anzi al Papato, per volgerle, così sottomesse, verso il fine
soprannaturale. E l’ideale dello Stilese è la riduzione del genere umano all’unità
mediante la riduzione al Cristo, lume naturale e soprannaturale. Questa unità
deve ottenersi non per maturazione di valori naturali, ma per transito discontinuo
alla Chiesa cattolica. Perciò il suo grande trattato di teologia missionaria, il Quod
reminiscentur, tira le varie sette ad una religione superaddita (secondo la sua
terminologia), cioè largita e inserita caelitus nella coscienza.
Il primo punto muta del tutto l’etiologia della divisione religiosa del genere
umano. Tale divisione fu sempre considerata conseguenza di una defezione
dell’uomo dal principio divino della sua unità. Il peccato originale rompendo il
legame dell’uomo con Dio, rompe similmente l’armonia tra gli uomini
disgiungendo quel che era congiunto. Il Campanella421, che diede della
unificazione religiosa del genere umano la più imponente sistemazione teorica,
insegna che il principio metafisico della molteplicità è il nonente integrante ogni
finito; che il principio storico ne fu la dispersione delle lingue, e che il principio
teologico è il peccato adamitico che, ferendo lo spirito con l’infermità,
l’ignoranza e la malizia, ha moltiplicato le religioni dilungandole dall’unità in
cui mette le menti la Ragione divina che illumina ogni uomo. Che gli uomini
credano prestare un culto divino adorando scarabei e sterchi, scannando i
genitori sull’ara del Nume, prostituendo le figlie nei templi, rendendo serve le
donne colla poligamia fu sempre tenuto per effetto del peccato422. Anche
Giambattista Vico stimava il fine della cultura essere la ricostituzione dell’unità
rovinata dal peccato adamitico (VI Orazione inaugurale). La varietà esiste certo
anche nel disegno primitivo della Provvidenza e si sarebbe verificata anche nello
stato di innocenza del genere umano, senza però rottura dell’unità né
contraddizioni né reciproche impugnazioni. Nella religione unica avrebbero
avuto luogo varietà non alteranti l’essenza sua. Tali varietà sarebbero state forse
come quelle tra rito e rito nell’unità della Chiesa cattolica, non come quelle che
oppongono il panteismo e il nichilismo buddistico alla trascendenza cattolica, il
politeismo al monoteismo, il monoteismo islamico alla Monotriade cristiana.
Per mons. Rossano invece la pluralità delle religioni non ha per causa la
colpa adamitica, ma è già nel disegno primitivo della creazione. «Donde nasce
storicamente la pluralità delle religioni? Senza dubbio sono da chiamarsi in
causa, oltre la complessità della domanda religiosa pregna di molti particolari
interrogativi, sia la peculiarità etnica, sia la varietà delle esperienze ecologiche,
storiche e culturali, sia l’inafferrabilità della mèta e dell’oggetto cercato, sia il
limite del soggetto umano. Ma non è da sottovalutare l’influsso capitale dei
fondatori e dei leaders religiosi». La teoria non sfugge alla stranezza; la pluralità
delle religioni, che quando si tratta dell’ecumene dei cristiani si riguarda sempre
come uno scandalo e una ingiuria al Cristo, qui è viceversa riguardata come un
fatto altamente positivo, come «frutto della ricchezza inesauribile della famiglia
umana che la Sapienza creatrice di Dio ha distinto in individui, famiglie,
nazioni» (e, non lo dice, ma deve dirlo, in religioni). La conclusione di mons.
Rossano è franca: «Ogni religione rappresenta il modo tradizionale di risposta di
un popolo alla donazione e illuminazione di Dio». Che la pluralità delle
confessioni non sia scandalo, come pure si diceva subito dopo il Concilio, ma
segno di comunione e arricchimento, è dottrina ufficiale del Segretariato per
l’unione. Il card. Willebrands, suo presidente, nella lettera inviata al Consiglio
ecumenico delle Chiese in agosto 1983 a Vancouver dichiara: «Oggi la diversità
dei modi con cui si testimonia, non è più considerata come un segno di divisione
nella fede, ma piuttosto come un elemento capace di arricchirne la
comprensione». Qui viene adottato il metodo neoterico che fa passare per modi
del medesimo il diverso (OR, 12 agosto 1983).
I Padri dei primi secoli insegnarono sì, con Giustino e gli Alessandrini, la
disseminazione del Verbo nel genere umano, ma anche l’offuscamento dell’idea
religiosa a cagione del peccato originale e persino ad opera dei diavoli i quali,
come insegna sant’Agostino, proposero da adorare o sé stessi o puri uomini423.
La questione del limbo dei bambini fu agitata vivamente nella teologia sin
dal tempo della controversia pelagiana, ma esorbita dal soggetto di questo libro.
La necessità di battezzare sùbito i neonati indusse poi a scindere in certi casi l’atto
battesimale, che si faceva in casa e da chiunque («dare l’acqua» dei dialetti lombardi e
«ondoyer» dei francesi), dalle cerimonie liturgiche che si facevano più tardi in
chiesa e dal sacerdote. Anche il tempo dell’amministrazione, che era stato Pasqua o
Pentecoste quando prevalevano gli adulti, cessò di avere restrizioni col diffondersi
del pedobattesimo.
La tendenza a escludere dalla prassi della Chiesa il battesimo dei neonati che
si celebra (dicono) nell’incoscienza, per dar luogo al battesimo degli adulti, è
dunque una necessaria conseguenza del rifiuto del concetto primordiale di
dipendenza. La grazia battesimale essendo indipendente dal soggetto individuo
che la riceve, non può aver luogo in un sistema del primato del soggetto.
Il fondo del mistero è però che il corpo di Cristo, anzi tutto l’individuo
teandrico si trova realmente presente dopo la consacrazione, tutta la sostanza del
pane essendo convertita in esso corpo. E l’offesa fatta al senso che dove è il
corpo di Cristo non percepisce che le qualità sensibili e la quantità del pane, non
è propriamente un’offesa, giacché il sensorio continua ad essere in atto verso il
suo oggetto proprio, le qualità o accidenti o specie, benché all’oggetto del senso
non sottostia più la sostanza del pane, bensì la sostanza del corpo. Il corpo non è
presente con la sua quantità propria e fenomenica, bensì con la quantità
fenomenica che aveva la sostanza del pane prima della consacrazione436. Tale è
la dottrina dell’enciclica Mysterium fidei di Paolo VI che ripropone ad litteram
la dottrina del Tridentino.
270. La degradazione del sacro. − Se il pane eucaristico non è che pane a cui
si aggiunge una nuova finalità, il Santissimo, cioè il Sacro sussistente, dilegua
del tutto.
Questa peraltro, poiché v’è nella pietà ortodossa l’intero arpeggio dei
sentimenti, prevalse in altri momenti producendo la fondazione di monasteri,
massime femminili, il cui fine primario è l’adorazione perpetua dell’eucaristia.
Ma il carattere di tenerezza lo ebbe anche la devozione popolare. Lo attesta, per
esempio, un libretto di pratiche di pietà del Quattrocento pubblicato da mons.
Carlo Marcora in Memorie storiche della diocesi di Milano, 1960, pp. 185 sgg.
Al momento dell’elevazione dell’ostia all’anima ingenua e fervorosa del
credente par di vedere non l’ostia consacrata, bensì il corpo medesimo di Cristo:
allora mancano all’anima le parole sufficienti per riconoscere il beneficio
ineffabile «che il Signore si è lasciato vedere da ti». Allora essa versa il suo
traboccante senso venerabondo in un’effusione commovente di umiltà adorante.
Abbiamo già lumeggiato nei §§ 80-2 la critica con cui i neoterici investono il
sacerdozio cattolico tentando di ragguagliare il sacerdozio comune dei fedeli,
onde per il carattere battesimale sono consacrati al culto divino, e il sacerdozio
sacramentale onde alcuni individui vengono, con l’impressione di un ricalcato
carattere, avvalorati ontologicamente e abilitati a transostanziare il pane
eucaristico.
L’elemento ontologico del sacerdozio risponde esattamente all’elemento
ontologico dell’eucaristia ed è palese che se nel sacramento non si opera una
ontologica trasmutazione di sostanza, ma solo una trasposizione di significati
non esorbitante dall’ordine intenzionale, non sarà necessaria alcuna peculiarità
ontologica per operare una non ontologica trasmutazione. Se la presenza
eucaristica è la presenza spirituale del Cristo nella comunità adunata per far
memoria della Cena, atti specificamente sacerdotali sono superflui e la sinassi
del popolo fedele realizza la presenza eucaristica del Cristo. Non è il sacerdote in
quanto ordinato che attua la transustanziazione. Il sacerdote in quanto pari a tutti
i membri della Chiesa nell’esercizio del sacerdozio comune presiede alla
simbolica trasmutazione attuata dalla comunità.
Martedì 24 aprile 1980 in Roma nella Chiesa del Gesù, tra le romane la più
centrale e frequentata e quella in cui si svolgono le solennità di omaggio delle
autorità civili dell’Urbe verso la Chiesa, assistetti io a una Messa durante la
quale tutto il popolo conconsacrò col sacerdote, profferendo ad alta voce le
parole della duplice transustanziazione. Per impulso del card. Francesco Seper,
prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, cui narrai l’accaduto,
scrissi tosto al card. Ugo Poletti, Vicario di Roma, denunciando il fatto come
«abolitio sacerdotii, deiectio sacramenti, irrisio rubricarum, humanarum
divinarumque rerum confusio ac permixtio» e tanto più altamente stupefacendo
«quia in urbe Roma, quod fuit orbis catholici caput, sacrorumque exemplum et
speculum orthodoxiae et orthopraxeos, tam monstrosa denormatio apparuit»460.
Ma ebbi risposta a tale doglianza solo in luglio dopo che, non intendendo restare
conculcato nel mio diritto di membro della Chiesa ad avere i riti secondo le
norme della Chiesa e ad ottenere soddisfazione di una giusta rimostranza, la ebbi
sollecitata con nuova missiva. Il cardinale mi notificava allora di avere omesso
di rispondermi ritenendo la mia «una semplice segnalazione di un episodio
occasionale e non già la denuncia di un fatto di cui fosse tenuto a rendere conto».
Egli comunque confermava la realtà dell’«assurdo abuso», ne assicurava
l’eccezionalità e rivendicava la regolarità della liturgia celebrata a Roma «che è
forse migliore che altrove».
Non osserverò, come pure fu osservato e con verità, che la sterminazione del
latino contraddice anche agli spiriti democrateggianti che investono il mondo
contemporaneo e, per accomodazione, la Chiesa. Questi spiriti mirano
all’elevazione culturale delle moltitudini, mentre nell’abbandono del latino si
trasente una sorta di disistima del popolo di Dio, tenuto indegno per crassitudine
di essere alzato alla percezione di eccellenti valori, anche poetici, e dannato al
contrario a tirare in giù verso di sé questi medesimi valori.
Si suole obiettare che nel rito latino il popolo fosse distaccato dall’azione
cultuale e mancasse quella partecipazione attuosa e personale che è l’intento
della riforma. Ma contro l’obiezione sta il fatto che la mentalità popolare fu per
secoli improntata dalla liturgia, e che il linguaggio dei volghi attingeva al latino
quantità di locuzioni, di metafore, di solecismi. Chi legga quella vivissima
pittura della vita popolaresca che è il Candelaio di Giordano Bruno stupisce
della cognizione che i più bassi fondi avevano delle formule e degli atti dei sacri
riti, non sempre (è ovvio) nella semantica legittima, spesso tirati a sensi difformi,
ma sempre attestanti l’influsso dei riti sull’animo popolare. Oggi al contrario un
tale influsso è del tutto spento e il linguaggio prende i suoi modi da ogni altro
campo e massime dallo sport. Il più importante fenomeno linguistico per cui
mezzo miliardo di uomini ha mutato il suo linguaggio cultuale, non ha oggi
lasciato la più tenue traccia nel linguaggio del popolo.
278. I valori della latinità nella Chiesa. Universalità. − Non vogliamo qui
indietreggiare all’Auctor fidei di Pio VI che riprova la proposta dei Pistoriensi di
rendere volgari i riti (DENZINGER, 1566). Non ci diffondiamo nemmeno sulla dottrina
del Rosmini che nelle Cinque piaghe trovava il giusto rimedio al distacco del popolo
dall’azione sacra non già (come oggi erroneamente gli si attribuisce) nell’abolizione
della lingua latina, bensì nello sviluppo dell’istruzione vitale del popolo fedele470.
Tale tintura pelagiana colora anche la variazione introdotta nel prefazio delle
ferie di Quaresima, dove, mentre il latino dice: «virtutem largiris et praemia», «dai
la virtù e il premio», la neovulgata volta «infondi la forza e doni il premio».
Prescindendo dalle riserve grammaticali che si potrebbero fare sullo sdoppiamento di
«largiris» in due predicati («infondi e doni»), qui viene nascosto e scolorato il vero
fondamentale dell’etica cristiana, che cioè ogni bene, e massime il bene morale cioè
la buona volontà o virtù, è un dono del Cielo. In questa variazione gorgoglia una
fonte pelagiana giacché è Pelagio che non poteva concepire virtù se non fosse causata
esclusivamente dal libero arbitrio, credeva l’azione divina essere una pura proposta, la
giudicava altrimenti incompatibile con l’elezione morale dell’uomo e rifiutava
energicamente che il merito procedesse dalla grazia anziché dall’immanente libertà
umana. Per questo il nuovo messale espunse dagli oremus tutti i luoghi in cui si
supplica da Dio la virtù, non badando che la preghiera liturgica quando dice concedi,
dà implica la persuasione che la virtù è dono e il premio che corona la virtù pure. È
cosa ben diversa infondere la forza e donare la virtù. E tralascio di osservare che per
tirare il testo latino a quel senso il traduttore ha dovuto piegare il vocabolo alla
accezione pagana abbandonando quella ovvia nel lessico sacro477.
Quando nella Preghiera eucaristica I «nos servi tui» diventa «noi tuoi
ministri» e «famuli tui» similmente «noi tuoi ministri» l’ambiguità tra
sacerdozio sacramentale e sacerdozio comune rimane innegabile. «Ci hai
chiamati a prestare il servizio sacerdotale», sono parole che in quel frangente
convengono al sacerdote ordinato ma disconvengono al popolo dei laici. Non
meno importante è la variazione per cui «Domine, non sum dignus ut intres sub
tectum meum» diventa: «non sono degno di partecipare alla tua mensa». Entrare
il Cristo nella mia dimora, cioè nel mio intimo, è ben altra cosa che l’essere
commensale suo: qui si nega per obliquo che per l’eucaristia Dio entra
nell’uomo; qui si annuncia una semplice commensalità e famigliarità.
283. Disfatta generale del latino. − È il fatto palese più innegabile della
Chiesa postconciliare e il segno che essa è entrata senza remore nel moto
storico483. Gli organi del governo ecclesiastico sono adesso mistilingui;
l’insegnamento teologico si fa in volgare; il Papa nelle cerimonie salutatorie si
dilunga con decine e decine di espressioni straniere. Persino in consistoro il
cardinale che parla per i nuovi eletti si esprime in francese e Giovanni Paolo II gli
risponde in sette lingue (OR, 3 febbraio 1983). E nel settembre 1983 aprendo la
Congregazione generale dei Gesuiti parlò loro in cinque lingue moderne, mentre
Paolo VI in circostanza analoga si era rivolto loro ancora in latino. E in quel
discorso multilingue di Giovanni Paolo II non è l’ultima cosa atipica l’ordine in cui
furono usate quelle lingue, essendosi dato il primo luogo all’italiano che è la meno
usata di tutte. Oggi è più facile, assistendo a una messa in un centro turistico
d’Italia, incontrarvi il tedesco o l’inglese che non il latino. Quando il Papa nel
maggio 1982 visitò per sei giorni la Gran Bretagna tutte le sue Messe furono
celebrate nella lingua del paese. Nel Sinodo medesimo dei Vescovi i Padri si
riuniscono per i loro lavori in circuli minores, francese, tedesco, inglese, spagnuolo
ecc., uno dei quali è il circolo latino. Così l’assemblea è differenziata linguisticamente,
laddove un tempo i lavori si svolgevano nell’unico unificante idioma latino. Il latino e
il suo congenere canto gregoriano non soltanto sono abbandonati, nonostante i
richiami contraddittorii e deboli di Paolo VI, ma sono dalla comune del clero
disprezzati e sbeffeggiati come cosa che non può più aver luogo che in una società di
morti484. Lo stile bustrofedico di Paolo VI appare anche nella fondazione dell’opera
Latinitas a cui destinò per sede il palazzo della Cancelleria e che ha per scopo la
restaurazione del latino come lingua usuale e come lingua scientifica. Sarebbe
auspicabile che tale fondazione non abbia la sorte dell’Istituto superiore di latinità
fondato da Giovanni XXIII in esecuzione della Veterum sapientia.
L’immensa iattura fatta dalla Chiesa con il rifiuto del latino e del gregoriano
fu percepita e luttuosamente deplorata in un memorabile discorso di Paolo VI
(OR, 27 novembre 1969). Tuttavia la gravità della iattura non poté prevalere
sugli sperati vantaggi dello slatinamento né distogliere dalla riforma né rattenerla
dalla precipitevole sua realizzazione né almeno moderare, con la romana
saggezza che fu di un tempo, gli effetti più funesti e malaugurati. Il Pontefice
adunque, trattando del passaggio alla lingua parlata (come dice impropriamente,
giacché il latino era lingua parlata, e in modo eminente, nella liturgia), riconosce
la rinuncia del latino essere «un grande sacrificio» e sente acutamente la rottura
della tradizione. Il nuovo rito rifiuta l’antico che fu trasmesso nei secoli per
appigliarsi frammentariamente all’antico che non fu trasmesso e così taglia
generazioni cristiane da generazioni cristiane. Né sfugge al Papa l’inestimabile
ricchezza della latinità liturgica. «Perdiamo la loquela dei secoli cristiani,
diventiamo quasi intrusi e profani nel recinto letterario dell’espressione sacra, e
così perderemo grande parte di quello stupendo e incomparabile fatto artistico e
spirituale che è il canto gregoriano. Abbiamo, sì, ragione di rammaricarci e quasi
di smarrirci. Che cosa sostituiremo a questa lingua angelica? È un sacrificio di
inestimabile valore». Il Papa dice che il latino «portava sulle nostre labbra la
preghiera dei nostri antenati e dava a noi il conforto di una fedeltà al nostro
passato spirituale, che noi rendevamo attuale per trasmetterlo poi alle
generazioni venture». Ma se lo rendevamo attuale (vien fatto di osservare) cade
la necessità della riforma che si dice introdotta per rendere attuale la liturgia.
«Comprendiamo meglio in questa contingenza il valore della tradizione»: queste
parole del Papa possono voler dire soltanto che comprendiamo meglio, nel
momento di abbandonarla, che il valore della tradizione è minore di quanto
pensavamo.
Come si è visto nel discorso di Paolo VI, la ragion maggiore e decisiva della
riforma è che l’intelligenza della preghiera vale di più che le vesti vetuste e
regali di cui è rivestita. Ora, ritenere che l’intellezione delle formule liturgiche
valga di più delle formule è come ritenere che l’intellezione di una idea valga di
più dell’idea, mentre al contrario il valore dell’intendere deriva dall’idea intesa.
Inoltre non sembra che questa preminenza dell’intendere si possa dedurre dal
luogo citato di san Paolo. L’Apostolo si riferisce infatti alla parola didattica («ut
et alios instruam») la quale deve necessariamente riuscire intelligibile
all’ascoltatore. Ma questa parola didattica durante la Messa la Chiesa l’ha
sempre profferita nei vari volgari, sia rileggendo al popolo il sacro testo in
volgare, sia riproponendolo e spiegandolo nell’omelia. Ma se si mantiene la
distinzione tra liturgia della parola e liturgia sacrificale, non può mai essere che
la percezione intellettuale delle forme di preghiera, la quale può aversi anche in
un miscredente, valga più dell’elevazione della mente e dell’animus con cui la
preghiera vien fatta. Il Concilio ha messo a fondamento la partecipazione dei
fedeli «consapevole, attiva e fruttuosa» (SC, 11), e per partecipazione intende
che «i fedeli assistano al mistero di fede non come estranei o muti486 spettatori,
ma bene intendendolo mediante i riti e le preci» (SC, 48).
Qui appaiono gli influssi che il nuovo rito ha subito da parte delle correnti
teologiche che snervano la peculiarità ontologica del sacerdote ordinato, tentano
di ampliare le parti del popolo di Dio rispetto alla funzione sacra del prete,
elevano la sinassi sopra l’atto consacratorio, perseguono la soggettivazione e
quindi la variabilità di tutto il culto. L’essenza del culto divino non è più
l’immutabile del sacramento con la conseguente immutabilità del culto, bensì il
mobilismo dei sentimenti umani che urgono per esprimersi e imprimono alla
liturgia le varie mentalità, i vari costumi delle genti. Onde la Chiesa non aspira
più a rigida uniformità dei riti o fissismo o rubricismo dei riti, anzi «guarda con
benevolenza tutto quello che non è strettamente connesso con le superstizioni e
lo conserva intatto, se sia possibile, e talvolta persino lo introduce nella liturgia
stessa» (SC, 37).
Questo passaggio della liturgia come forma stabile di dramma sacro alla
liturgia come dramma poetico nascente dall’arte inventiva dei singoli è una delle
innovazioni più visibili della riforma e una delle più lamentate. La assecondò la
desistenza dell’autorità, di cui dicemmo ai §§ 65 e 71. Così il principio di
creatività elide del tutto il valore delle rubriche seguendo lo spirito di
indipendenza (dal mistero che in aeternum stat) e il rifiuto delle essenze,
trasformando il sacro trascendente nel poetico immanenziale dell’uomo.
L’OR del 15 marzo 1974 in una pagina speciale sotto il titolo Per un nuovo
stile di celebrazione confessa la teatralità sostanziale a cui deve convertirsi la
liturgia. «Il celebrare la Messa» dice «è divenuto ora un’arte che comporta
dislivelli di accenti e toni, di punteggiature, di pause, di riposi e di riprese, dei
crescendo e diminuendo come in una sinfonia». Ma tutte queste modulazioni
c’erano già nel rito antico che prevedeva parti da cantare, parti da parlare, parti
da dire elata voce o submissa voce o secrete, e toni comuni e solenni e
solenniori. La differenza non consiste nel mancare l’antico di quei «dislivelli»,
bensì nel fatto che essi erano fissati, prescritti, regolati secondo il carattere sacro
e oggettivo del rito, laddove qui sono abbandonati all’inventività, si può ben
dire, dionisiaca del celebrante principale e della massa concelebrante. «Dal
celebrante tutto fare del precedente Messale si deve passare alla figura del
celebrante-regista che sa rendere viva l’azione liturgica»492. Oltre il carattere
ingiurioso vi è in queste parole un singolare illogismo. Il celebrante del rito
antico non fa ogni cosa (come pretende l’articolo), ma è aiutato dall’inserviente
e, soprattutto, non può né dire né fare altro o più o meno di quanto prescrivono
imperativamente le rubriche: eppure qui vien chiamato celebrante tuttofare.
Viceversa il celebrante del rito nuovo che fa davvero tutto quello che
l’inventività sua escogita o improvvisa senza regola, senza limite, senza
discrezione di mezzi, concorrendovi sregolatamente con la propria inventività
anche il popolo, viene indicato qui come l’ideale del nuovo stile liturgico. A
cagione dell’inventività è difficile che due celebrazioni collimino a puntino e la
liturgia, specie in occasioni solenni, viene preordinata nei gesti, nelle musiche e
nella lettura dalla intera comunità anziché dedotta dai libri liturgici ufficiali. Si
raccomanda ai sacerdoti di «sfruttare tutte le risorse strumentali per farsi
accettare come dei leaders capaci di creare contatti». L’oggettività del mistero e
l’efficacia ad esso inerente sono del tutto trasandate per ridurre la liturgia
all’impressione psicologica, anzi meccanicamente psicologica, di un mimo o di
una commedia dell’arte.
Secondo l’OR del 7 ottobre 1978 «i tentativi di riforma sono ancora ai primi
passi. Un semplice contatto con certe liturgie vive celebrate in qualche chiesa
africana o latino-americana potrebbe scuoterci dal nostro torpore senile».
D’altronde l’arcivescovo Magrassi, presidente della commissione della CEI che
prepara la revisione del messale, in un’intervista al periodico «Il regno», 15
settembre 1981, deplora la stagnazione della liturgia restìa ad adottare il
principio della creatività e scrive che «se la liturgia è espressione di un popolo
che manifesta il suo senso religioso, allora ci si apre a una liturgia che ha
vastissimi spazi di creatività».
Che difficile sia la Bibbia e per ragioni filologiche e per ragioni storiche e per
ragioni morali, lo si può provare ad apertura di libro, e lo attesta di sé la Bibbia
medesima. In Eccle., 1, 8 si annuncia la difficoltà generale del linguaggio:
«Cunctae res difficiles; non potest eas homo explicare sermone». Ma II Petr., 3,
16 afferma in particolare la difficoltà di alcuni luoghi di san Paolo e in universale
di tutta la Bibbia, sempre possibile a stravolgersi: «in quibus sunt quaedam
difficilia intellectu, quae indocti et instabiles depravant sicut et caeteras
Scripturas».
Questa disciplina è stata variata, parte per la nuova direzione impressa dal
Concilio nella liturgia, parte con la successiva infrazione delle norme conciliari.
Il Concilio infatti superò i decreti antigiansenistici e le prescrizioni di Pio VI.
Contro la popolarizzazione protestantica e giansenistica della Scrittura Pio VI
stabiliva che la lettura della Bibbia non è necessaria né conveniente a tutti
(D E N Z I N G E R , 1507 e 1429). Il Concilio invece DV, 25 raccomanda
caldissimamente a tutti i fedeli la frequente lezione della Bibbia. La Chiesa
prescriveva che le versioni fossero autorizzate dalla Santa Sede e accompagnate
da chiose esplicative secondo il senso tenuto dalla Chiesa, perché resti fissata,
nell’ondeggiamento del pensiero storico e contro le interpretazioni private,
l’immobile verità di fede (DENZINGER, 1603). Il Concilio invece conserva sì
l’obbligo delle chiose, ma affida ai vescovi la vigilanza sulle versioni. Di qui una
moltitudine di traduzioni, talora conformi al senso autentico e ben fondate in
filologia, spesso però viziate di incertitudine, di tendenze eterodosse e di
imprecisioni linguistiche. Si verificò un fenomeno analogo a quello dei primi
tempi cristiani quando, secondo sant’Agostino, le traduzioni pullulavano
innumerevoli, perché, qualunque fedele credesse di conoscere un tantillo di
greco e latino, si attentava di tradurre (De doctrina Christiana, II, 6, 8). Ma
quelle erano traduzioni parziali suggerite dal fervore personale e commisurate ad
esso. Qui invece si tratta sovente di traduzioni totali, condotte da collegi misti
talora di cattolici e acattolici, spesso sprovviste di chiose e non sempre munite
dell’approvazione ecclesiastica.
Una prima idea che andò smarrita è quella dell’altare come base massiccia,
inconcutibile ed eccelsa sulla quale immolare il sacrificio. L’altare
simboleggiava il «monte di visione» su cui Abramo si disponeva a sacrificare il
figlio in obbedienza al Signore e figurava altresì l’altura del Calvario dell’uomo-
Dio. All’altare era connessa l’idea della stabilità ed eternità e celsitudine del
Nume. Non diversamente in Omero al talamo di Ulisse, lavorato dentro il ceppo
vivo di un ulivo, era connessa quella della perpetuità delle nozze. L’altare
dunque stava in excelsis, era il sito del sacrificio, recava i segni dell’immutabilità
di Dio. Siccome poi era il luogo dell’eucaristia gli spettava la posizione più
degna, più eminente e più visibile di tutto il tempio.
Tuttavia quasi dappertutto, ove l’autorità civile non ostasse, si demolirono gli
antichi altari o quanto meno si duplicarono nel medesimo presbiterio,
piantandovi la mensa, affinché si potesse celebrare con la faccia al popolo.
L’altare versus populum era ammesso dalla liturgia anche prima della
riforma, ma sembra che fosse subordinato all’orientazione dell’edificio, giacché
le rubriche dicono: «Si altare sit ad orientem versus populum». Ma la posizione
del celebrante deve rispettare la preminenza assoluta del Sacramento, tanto se
l’assemblea si raccoglie tutt’attorno al sacerdote come fu in antico (ed è
adombrato ancora dal termine omnium circumstantium del canone), quanto se il
popolo di Dio gli si addensa dietro o davanti.
La difficoltà deve essere stretta più da vicino. Il fine generativo deve essere
consaputo e voluto dai coniugi nel porre gli atti specifici dell’unione? Oppure
possono essi ometterlo nell’intenzione e solo intendere al fine unitivo, alla
reciproca donazione (con l’insito complesso di valori), supposto sempre che non
abbiano a escludere il fine della natura né coll’intenzione né con fatti conformi a
quell’intenzione esclusiva?
296. Prevalenza del fine genetico nella dottrina tradizionale. Luc. 20, 35-6. −
La dottrina tradizionale del matrimonio come unione ordinata per sé alla
generazione è inflessa nel Concilio che lo riguarda primariamente come
«comunione di vita e di amore» (GS, 48), alla quale consegue la procreazione.
Se si prende il termine «secondario» nel senso che dicemmo (che è il senso
proprio: secundum est quod sequitur) si può avvertire che, nella dottrina del
Concilio, restando l’uguaglianza essenziale dei due valori, il valore genetico è
divenuto in qualche modo secondario rispetto a quello personalistico.
L’uguaglianza dei due fini è mantenuta510 e la dottrina rimane quindi
distantissima dalla concezione puramente biologica dell’amore come forza
pànica che asservisce gli uomini come strumenti dell’espansione vitale del
mondo. Tale concezione fu propria dello Schopenhauer e inspirò i miti platonici
di Eros reziario e di Venere trappoliera, che ci ingannano colla voluttà facendoci
servire al fine della generazione, onde «ci mugne Dio amore a far un cacio di
nuovo uomo»511.
Questa priorità oggettiva del fine genetico sembra persino esigere una
priorità soggettiva nell’ordine intenzionale. Innocenzo XI infatti riprovò la
sentenza che gli atti coniugali siano esenti da colpa se si esercitano senza porvi
l’intenzione generativa, per sola spinta di piacere (DENZINGER, 1159). Se la bontà
dell’unione coniugale è compromessa dalla mancanza di positiva intenzionalità
nei riguardi dell’effetto genetico, sembra che il matrimonio includa
obbligatoriamente l’intenzione genetica. Si viene dunque a variare la dottrina se
si pone come intenzione sufficiente alla bontà del coniugio il fine del
perfezionamento e della reciproca donazione.
Sembra inoltre che l’intenzione di generare (non il fatto del generare) sia così
intrinseca al matrimonio che Gesù, rispondendo in Luc., 20, 35-6 alla capziosa
obiezione dei Sadducei circa la donna di sette mariti, dà esplicitamente come
causa dell’esservi o non esservi il matrimonio la possibilità o l’impossibilità di
voler generare figliuoli per rimedio della mortalità. In cielo infatti (dice) «non si
ammoglieranno né si mariteranno perché non possono più morire». Qui il
matrimonio è identificato con l’opera della generazione che è rimedio alla
mortalità, e non si accenna punto a una comunione di vita e a una donazione
d’amore personale che durerebbero necessariamente tanto quanto durano le
persone. Nel testo evangelico questa comunione di vita è invece, insieme con la
generazione, relegata interamente nella sfera effimera del mondo terreno.
Giovanni Paolo II nella lunga catechesi dedicata al senso dell’unione sponsale
non ha mai citato questo passo di Luca, ma certo esso toglie forza alla dottrina,
invalsa dopo il Concilio, della parità dei due fini: cessando la mortalità, cessa la
generazione, e cessando la generazione cessa il matrimonio. Certo si potrà
concedere che gli affetti coniugale e figliale e parentale perseverino nella vita
beata e Dante ne cantò la poesia con altissima ispirazione nel XIV del Paradiso,
ma saranno affetti trasumanati in persone dal corpo identico ma trasumanato;
saranno, per così dire, una memoria di affetto, quella memoria grazie alla quale,
come dice altrove il poeta, «al mondo di sù quel di giù torna» (Par., IX, 108).
Pio XI nella Casti connubii, 24 e 25, pur serbando tra i beni del matrimonio il
primo luogo alla prole, insegna che anche il fine del mutuo perfezionamento «si
può dire primaria ragione e motivo del matrimonio», ma non si può dimenticare
che per il Pontefice la reciproca integrazione perfezionante include la reciproca
donazione sponsale anche dei corpi e che questa è la causa naturale della prole.
Gli sposi infatti (si può dire senza rinnovare il mito antico) in quell’atto di amore
sono il figlio: «il talamo sul quale» dirà Penelope a Odisseo «fummo insieme il
nostro figlio Telemaco». Se poi la funzione procreativa debba essere anche
soggettivamente assunta o se sia lecito assumere soggettivamente la sola
espressione dell’amor coniugale è cosa che qui non monta di definire.
Nel discorso che tenne ai preti del Convegno di pastorale della famiglia (OR,
18 settembre 1983) Giovanni Paolo II abbozzò un altro dottrinale e profondo
motivo che vizia di illiceità le pratiche contraccettive. Esse violano non soltanto
la naturale congiunzione tra fine unitivo e fine procreativo, ma corrompono il
fine stesso della reciproca unitiva donazione personale. «L’atto contraccettivo»
dice il Papa «introduce una sostanziale diminuzione all’interno di questa
reciproca donazione ed esprime un obiettivo rifiuto a donare all’altro
rispettivamente tutto il bene della femminilità e della mascolinità». La
contraccezione insomma offende oltre il fine procreativo anche il fine di
reciproca totale donazione delle persone, sottraendo una parte (quella generativa)
dell’umana natura in cui sussiste la persona.
Come abbiamo toccato altrove, l’operare umano, per essere buono, deve
riconoscere le essenze e il loro ordine e aderire all’essere nella sua propria
organicità assiologica. Ora l’atto sessuale è per essenza ordinato alla
generazione: anatomia, fisiologia e psicologia dell’uomo sessuato lo attestano e
il sentimento comune dei popoli lo conferma col linguaggio e col costume. Vi è
tra atto e fine una congiunzione biologica che non può essere scissa così da
rifiutare il fine e cogliere nell’atto il contenuto eudemonologico frustrando la
destinazione della natura.
Che la civiltà cristiana fosse in realtà pagana e sia stata redenta dalla presente
civiltà tecnologica è asserto che mette in questione la verità stessa della Chiesa
cattolica. È anche un paradosso, perché i contadini dell’era pretecnologica non
conoscevano forse i concimi o li spargevano sulle zolle insensatamente anziché
con cognizione di quello che fa «laetas segetes»?
Non è questo un libro che possa entrare nella disputa circa la relazione tra
causalità divina e causalità creata. Basti tener distinte la causa trascendente dalla
causa naturale e non credere che siano a pari e concorrenti mentre sono in ordini
diversi: l’agricoltore, il sole e la pioggia producono come effetto la fertilità, ma
quell’effetto nasce da un’azione che è condizionata dall’azione della causa
trascendente. Non vi è nessuna difficoltà nell’attribuire l’effetto alla causa prima
e alla causa seconda simultaneamente ma sotto aspetti diversi.
La tesi maggiore del sistema cattolico è che ogni male di natura è effetto del
male morale: tali la morte, i morbi, il dolore. Non è che ogni sventura che tocchi
a un individuo sia riconducibile a una colpa personale519: questo è il
pragmatismo servile e materiale di Eliphaz in Iob, 4 e 5: sei colpito dunque hai
peccato. Ma è che il cristiano, sentendosi peccatore ed essendo d’altronde il
prezzo della virtù incommensurabile con qualunque dolore, può
ragionevolmente prendere ogni sventura come espiazione, pena e correzione non
pure per sé ma per tutti.
La sofferenza degli infanti sembra per certi aspetti produrre «una acerba
protesta», come notò Giovanni Paolo II visitando l’Ospedale pediatrico di Gesù
Bambino (OR, 10 giugno 1982). Eppure anche questo scandalo è rimosso in
linea di fede dal dolore dell’uomo-Dio, cui il cristiano compatisce (Rom., 8, 17);
in linea teologica dall’universalità del peccato di Adamo «in quo omnes
peccaverunt» (Rom., 5, 12), e forse anche in linea filosofica perché l’uomo
conosce il dolore in quanto uomo, non in quanto innocente o reo.
303. Origine morale del dolore umano. − Eppure qualunque sia il senso del
dio vendicatore nel Vecchio Testamento, il castigo del Dio cristiano è una parte
della giustizia e della misericordia e ha un alto carattere morale: dispone a
sentire più vivamente che la vita è un dono di Dio, a impiegarla nelle opere
mediante le quali il fine morale dell’esistenza viene adempiuto520, a diventare
soccorrevoli e compassionevoli al prossimo, a espiare i peccati propri e gli altrui.
Questo oremus della liturgia preconciliare lumeggia bene la giustizia e la
misericordia del Dio che usa i flagelli: «Parce, Domine, parce populo tuo, ut
dignis flagellationibus castigatus in tua misericordia respiret».
304. Il male della morte. − Nella fede cattolica anche la morte ha una causa,
un significato, un fine morali come morale è il fine di tutto l’universo e dei suoi
difetti che la Provvidenza riconduce nell’ordine di quel fine. Il fenomeno
saliente nella società contemporanea è la degradazione assiologica della morte e
la sua rimozione da quella base religiosa sulla quale tutte le civiltà l’ebbero
posta. L’epicureismo fece della morte il problema di fondo e della mortalità
dell’anima la chiave della beatitudine. E poiché il terrore della morte pervade, in
forma aperta o coperta, tutta la vita intorbidandola dal profondo, la filosofia fu
un combattimento perpetuo contro il terrore della morte e una ricerca della
serenità dominatrice di quel terrore.
Conviene qui osservare che il combattimento contro il terror della morte ebbe
in Epicuro un alto significato morale, perché il terrore della morte era, in quello
stadio religioso dell’umanità, terrore dell’aldilà, e l’aldilà era concepito come
una pura durata senza adempimento o compimento di vita morale e senza
compenso di meriti e demeriti: abisso di sottovita in cui precipitano tutte le
ombre. Era dunque il rovescio dell’aldilà del Cristianesimo, in cui si consuma
nella giustizia la destinazione morale dell’uomo, anzi il fine dell’universo. La
celebrazione della mortalità, negando quell’eternità insensata, può dunque
riguardarsi come una propedeutica alla dottrina e alla speranza della religione.
La religione cristiana, come vedemmo al § 303, tiene la morte come pena del
peccato e non disconosce quindi la tristezza che ne consegue, anzi questa
tristezza di fronte alla morte si riscontra anche nell’uomo-Dio (Matth., 26, 38 e
Luc., 22, 44). Ma la morte è anche il punto nel quale, chiudendosi la vita di
prova, cessa il sincretismo di beni e di mali e si opera la giustizia, cioè la
congiunzione definitiva della virtù e della felicità: questa non è d’altronde che la
consumazione perfetta di quella.
306. La morte improvvisa. Pio XI. − Sentiat se mori, si accorga di morire, che
era squisita crudeltà nel comando di Caligola ai carnefici, diviene dunque nel
Cristianesimo un imperativo morale e una grazia. La morte è il supremo dei mali
per l’animale, in cui il principio sensitivo non è congiunto a un principio
immateriale e immortale quale è l’intelletto. Non è però il sommo male per il
cristiano per cui il sommo bene e il sommo male sono al di là della distruzione
operata dalla morte.
Ora la mentalità degli uomini del nostro secolo ha subito in questo una
variazione assai notevole: essa rifugge dalla contemplazione della morte e
rimuove ogni imagine che la richiami, perché la morte è l’antivita, il
troncamento, il nonessere. Ogni parola, ogni idea, ogni simbolo (e persino la
croce in quanto rammenta un supplizio), ogni gesto attinente alla fine vengono
con una diligenza oculatissima, alimentata dal segreto timore, rimossi dalla
conversazione sociale. Alla cura di morire, facendo dell’atto postremo un atto di
consenso, subentra il desiderio di una morte incosciente. Quella morte subitanea
e improvvisa che era aborrita dagli uomini, riguardata talora come un castigo,
deprecata nelle mirabili litanie dei Santi, è divenuta la aspirazione degli uomini
che non soltanto se la augurano, ma giungono a procurarsela con l’eutanasia
attiva e anestetica523. Un tempo si domandava: «Ha ricevuto i sacramenti? Si è
confessato? Ha perdonato?»; oggi invece: «Si è accorto di morire? Ha
sofferto?».
Questo cangiamento della mentalità involge due sentimenti: quello che la
vita di qua sia tutta la vita e che il valore della vita consista nella fruizione del
piacere; e quello che la vita di qua non abbia il carattere di preparazione e
maturazione di un’altra vita. I due sentimenti confluiscono in uno: quello della
Diesseitigkeit.
307. La morte come giudizio. − Vi sono molte ragioni per le quali la morte
perde terribilità agli occhi del credente. Oltre a quelle lumeggiate dalla filosofia
dei Gentili, ve ne sono di peculiari alla fede cristiana: l’uomo-Dio che muore,
l’esempio dei Santi, il merito del consenso (nel qual consiste il ben morire),
l’attesa del Regno; onde san Gerolamo applicava alla morte le parole della
Cantica, 1, 4: «Nigra sum, sed formosa». Tuttavia una speciale terribilità o
perlomeno temibilità rimane inerente alla morte per il motivo essenzialissimo
che essa è un giudizio assoluto e inevitabile524 sopra le opere dell’uomo e la sua
fedeltà alla legge, sia che questa legge si prenda solo come idea impersonale e
assoluta dell’ordine assiologia), sia che la si riguardi anche come precetto dietro
il quale sta una Persona che lo dà. Ora l’atteggiamento del cristiano
nell’aspettazione del giudizio divino è fondato prevalentemente sulla speranza
che, nella dottrina cattolica, è aspettazione dell’arduo bene consistente nella
perfetta giustizia. A questa si accompagna la beatitudine celeste. Però la
prevalenza della speranza, anzi di una certissima speranza, non elide quella parte
di incertitudine che nasce dal canto dell’uomo. E d’altronde se coesistono in Dio
giustizia e misericordia, il punto della loro coincidenza sfugge all’intelletto
umano. Non gli sfugge invece la necessità che la virtù si congiunga con la
felicità (e il Kant vi fondò il postulato dell’immortalità dell’anima) né la
giustizia e moralità della pena giacché Dio che istituisce l’ordine morale non può
essere indifferente all’ordine che istituisce. Egli non può quindi porre una finale
equivalenza dell’obbedienza e della prevaricazione.
Che l’idea della morte cristiana contenga speranza e timore appare anche dal
Cantico di san Francesco il quale loda il Signore per nostra sorella morte, ma
soggiunge subito: «guai a quelli che morranno in peccato mortale» e per
converso «beati quelli che troverà ne la sua santissima voluntate». Anche nel rito
delle esequie era rilevata, ma non più della divina misericordia, la prospettiva del
giudizio e nell’oremus previo al Libera me Domine si proclamava altamente che
niuno vien giustificato se non per la grazia perdonante di Cristo e si supplicava:
«Non ergo eum tua iudicialis sententia premat, sed gratia tua illi succurrente
mereatur evadere iudicium ultionis»526. Nel Libera poi la scena grandiosa del
giudizio finale nel sommovimento di terra e cielo faceva certo attoniti i cuori
umani e la stessa natura tutta, ma non mancava a dies magna et amara valde la
consolazione finale della luce eterna, e questo sin nel Dies irae. La speranza
giunge non di rado a una sorta di gaudio. Nel celebre Trionfo della morte di
Clusone in Val Seriana, che è una delle manifestazioni più impressionanti del
sentimento della morte proprio delle generazioni passate (secolo XV), uno dei
cartigli che lumeggiano la scena reca: «O tu che servi Dio di buon cuore non
aver paura a questo ballo venire ma allegramente vieni e non temire / poiché chi
nasce gli convien morire».
310. Dignità della sepoltura nel rito cattolico. − Se la morte non è un atto di
consenso e di offerta e perde il carattere di crisi (= giudizio e separazione, onde
il cribro nell’arte degli ossari)531, anche la sepoltura perde solennità. E siccome
affievolendosi l’idea religiosa della vita eterna, decade parimenti la gravità e
solennità della morte diventata una pura accidentalità del mondo, i riti e i
costumi funebri devono parimenti decadere e lasciar luogo a pure pratiche di
rimozione del cadavere. La locuzione «mettere via un morto», per dire che lo si
seppellisce, palesa la sua tragica crudeltà: seppellire un uomo vale come
toglierlo di mezzo, separarlo del tutto dall’umano consorzio. La civitas hominis,
avendo identificato la vita nella sensazione piacevole, ripugna a ogni prospettiva
di morte. Questo senso del «mettere via» è alieno affatto dalla religione che
crede nell’altra vita, che anzi crede alla continuità delle due vite, di cui una è
l’antefatto dell’altra. Non vi è tra la vita di qua e la vita di là quella
contrapposizione così vivamente sentita dai moderni, ai quali quella guasta
questa e ne è guastata. E proprio per il senso di tale continuità l’atto del morire,
come quello che implica un destino senza fine, aveva grandezza e dignità, e
proprio per questo riceveva le cure della comunità e della Chiesa.
311. Degradazione della sepoltura. − La cura dei morti è legata alla credenza
nell’altra vita, alla certezza che con la morte l’uomo si salva o si perde in eterno
e quindi alla persuasione che tutte le cose attinenti alla morte siano per l’uomo
importanti. Questi sentimenti danno valore a tutta la vita e ad ogni particella sua,
come appare dal fatto che le lapidi sepolcrali indicavano la misura dell’esistenza
mortale in anni, mesi e giorni. La epocazione dell’aldilà ha cagionato una
variazione di costumi che molti autori hanno studiata534. La civiltà della tecnica,
oscuramente consapevole di non poter «frangere / anche alla morte il telo» (V.
Monti), si arroga tuttavia di dissipare di tra gli uomini il tremendum della morte
annichilandone il valore e sospingendola fuori di ogni spazio assiologico come
l’unico evento che non ha né consecuzione né significato. Laddove un tempo si
metteva tutto in opera affinché la morte fosse preparata e avvertita535, oggi l’arte
medica moltiplica le terapie che salvano la vita ma vede la propria perfezione
nell’eutanasia e, non potendo vincere la morte, la rende insensibile. In secoli in
cui la scienza medica era bambina e priva di raffinate risorse, e il medico andava
all’ammalato (oggi accade viceversa), la malattia e la morte avevano come luogo
naturale la casa, e i famigliari erano gli aiutatori dell’uomo sofferente e
moriente. Oggi per l’esigenza della prodigiosa differenziazione dell’arte medica
malattia e morte sono delegate all’ospedale (dove un tempo entravano soltanto i
derelitti). La sollecitudine per i cadaveri, tenuta per obbligo primario della pietà
famigliare, viene rimessa alle imprese funebri. I riti con cui la Chiesa
manifestava qual conto facesse del destino eterno, dell’immortalità e della
resurrezione, son caduti in desuetudine. La famiglia, celebrata dalla teologia
neoterica come Chiesa domestica, non conosce più alcun culto dei morti.
L’uomo un tempo viveva il suo male in seno alla famiglia, agonizzava in casa,
moriva in casa. Per raccogliere l’estremo anelito i parenti accorrevano di lontano
con pietosa fretta. Il cadavere era composto dentro i sacri Penati, ornato di fiori e
di lumi, vegliato senza intermissione le notti intere, al suo cospetto si parlava
sommesso536, nella casa in gramaglie si velavano gli specchi. Oggi i cadaveri
vengono evacuati dall’ospedale all’obitorio dell’ospedale e da questo all’obitorio
pubblico dove giacciono promiscuamente distinti da un cartellino. La levata del
cadavere dalla casa obituale per la chiesa e il camposanto è abolita. In
moltissime grandi città le salme vengono accumulate nell’obitorio pubblico e lì
senza la presenza dei famigliari tre o quattro volte al mese vengono tutte insieme
frettolosamente benedette da un sacerdote e poi portate all’inumazione o al
crematorio.
Ora, questa verità osticissima alla ragione è il punctum saliens del sistema
cattolico ed è per nutrire la fede in essa che la Chiesa, pur avendo varietà di
sepolture, da quella dentro le chiese (che cominciò coi màrtiri), a quella nei
sagrati attorno alle chiese, a quella dei cimiteri fuori dell’abitato consacrati, a
quella dei cimiteri non consacrati, rifiutò però sempre di bruciare i cadaveri. In
morte l’uomo non è più, ma il corpo, che fu uomo, e che sarà uomo nella
resurrezione finale, è degno di rispetto e di cura.
«Voir dans l’enfer» dicono i vescovi «un châtiment que Dieu enfligerait à
quelqu’un qui, conscient de ses fautes, ne s’en repentirait pas, est inacceptable.
Inacceptable aussi la peur engendrée par l’enseignement selon lequel si la mort
nous surprend en état de péché mortel, c’est la damnation» (p. 296). Eppure
questo insegnamento è ad litteram quello dei Concili e l’impugnazione che ne
fanno i vescovi solleva tutto il problema della infallibilità della Chiesa. È infatti
di fede divina e cattolica che l’inferno esiste ed è di fede divina che ci sono dei
dannati. Ciò è insinuato dalle parole di Cristo per Giuda, «il figlio della
perdizione che deve perire» (cfr. Ioann., 17, 12) e da quelle chiarissime del
giudizio finale in Matth., 25 oltre che dalla parabola della zizzania.
Questo osanna che sale a Dio dall’inferno ha dei precedenti, tutti ereticali,
compresa la celebre teoria dell’apocatastasi di Origene (se tale ne è il senso).
Molti teologi approfondirono le ragioni teologiche e filosofiche dell’inferno e
molti si adoperarono viceversa nello snervare il dogma. Il Campanella nel suo
opus magnum sostiene la tesi ortodossa e confuta gli argomenti contrari che gli
erano parsi probanti in gioventù. Non mancano poi nella letteratura teologica le
apologie del diavolo e le molte moderne hanno un antecedente già nella curiosa
opera di Bartolo da Sassoferrato (secolo XIV) Tractatus procuratorius540.
L’inferno (dicono i vescovi di Francia, op. cit., p. 292) «est un scandale pour
Dieu lui-même, une souffrance pour lui, l’échec de son amour sauveur».
315. L’eternità delle pene. − Che l’inferno sia uno scacco e un’irrazionalità si
può sostenere soltanto se si professi l’errore antropocentrico. Se il fine del
mondo fosse l’uomo, mancando l’uomo al suo fine, la creazione medesima
mancherebbe al proprio fine e vi sarebbe scacco. Ma il fine dell’operar divino
nella produzione ad extra non è diverso da quello della produzione ad intra: è la
gloria di Dio e non la gloria dell’uomo. Si può certo dire che l’uomo è il fine
dell’operar divino, non però l’uomo-uomo, bensì l’uomo-Dio, il Cristo che
ricapitola in sé l’universa creatura (§§ 205-9).
Ma anche caduta l’azione emendatrice sul dannato, cade forse ogni azione
migliorante della pena? Non già. L’azione divina, mentre conserva, anche
perfeziona e promuove l’essere: essa non può non fare anche sui dannati questo
suo effetto diminuendo il male e accrescendo perciò il bene. Questo è vero, non
perché ciascun essere progredisca nella conservazione, ma perché, tra mali e
beni, progredisce l’essere nella sua totalità di universo. Ora in questo riguardo
anche dai dannati l’universo riceve perfezione perché la pena eterna dei reprobi,
come si è visto, è un rinnovamento eterno della giustizia. Anche i dannati fanno
procedere il significato del mondo e, benché non migliorino essi stessi, giovano
ai beati che mirano in loro e godono la giustizia: «Laetabitur iustus cum viderit
vindictam» (Ps., 57, 11), e anche vedono i mali dai quali la divina misericordia li
ha preservati.
Il vero criterio del Lirinense è dunque il secondo da lui esposto, quello cioè
dello sviluppo genuino dei principii rivelati, deposti nell’esordio storico della
Chiesa e custoditi nella tradizione apostolica. Certo, secondo la fede cattolica, la
guarentigia degli sviluppi genuini è collocata nella potestà didattica del supremo
magistero, eppure la legittimità di uno sviluppo appare anche da un esame di cui
sono capaci il lume logico e la ragione storica.
Si potrebbe obiettare che questa storicità del dogma, che si adatta, degrada la
religione verso l’umano. L’obiezione non regge. Il principio primo del
cattolicismo è la degradazione o condiscendenza o umiliazione del Verbo nella
storia e questa degradazione non intacca il divino ma lo fa discendere al grado
della storia manifestandolo.
La dottrina insegnata e predicata dai ministri della Chiesa era una voce
unissona. Adesso varia nella stessa nazione da diocesi a diocesi, nella stessa
diocesi da parrocchia a parrocchia, nella stessa parrocchia da predicante a
predicante. La variazione anziché essere, come esige il parlare stesso, di
coloritura, di presentazione, di sentimento del medesimo vero di fede, è invece
alterazione dogmatica, mantellata dal proposito di adattare la fede alle
disposizioni e alle aspettazioni dell’uomo contemporaneo. Lo spirito privato
imbaldanzisce. E la corruzione dottrinale del ceto dei presbiteri precede o seguita
quella dell’ordine episcopale. Qui i Superiori con pronunciati propri difformi dai
pronunciati dei loro pari, più spesso tollerando o autorizzando le deviazioni dei
presbiteri, hanno provocato nella Chiesa un generale smarrimento delle certezze
di fede e un increscioso indebolimento del consenso tra i fedeli. Tale consenso fu
un carattere peculiare della Chiesa Romana, riconosciuto e ammirato sempre da
quelli di fuori, e rimette d’altronde all’ordine della processione trinitaria, giacché
in principio erat Verbum e anche nella Chiesa non si fa nulla senza il Verbo.
Giova a questo punto, per misurare oltre alla profondità la celerità delle
variazioni, rammentare le ingannevoli diagnosi e prognosi formate negli anni del
Concilio circa l’unità della fede. Il cardinal Montini, arcivescovo di Milano,
nella pastorale di Quaresima del 1962 asseriva che «non ci sono oggi nella
Chiesa errori o scandali o abusi o deviazioni da correggere» e divenuto Papa
confermava nell’enciclica Ecclesiam suam: «Presentemente non si tratta più di
estirpare dalla Chiesa questa o quella determinata eresia e certi disordini ben
determinati. Grazie a Dio non ve ne sono nella Chiesa». Le opposte
dichiarazioni di Paolo VI che confessano la grave crisi della Chiesa da noi
riportate principalmente nei §§ 7-9, 77, 78 aprono una questione non solo di
psicologia, ma di ermeneutica e persino di teodicea. Qui però intendiamo
soltanto rilevare la perdita dell’unità dottrinale. Se non è interamente vera
l’affermazione del cardinal Suenens, esistere cioè un numero impressionante di
tesi, che venivano insegnate a Roma prima del Concilio come le sole vere e che
il Concilio ha eliminate, rimane purtuttavia vero che la voce unissona è diventata
molteplice e dissonante. Questo dipende assai più dalla perdita del principio, che
è la fede, che da accidentali dissensi seminatori di varietà. Che non ci siano più
errori particolari da condannare, come scriveva Paolo VI, è vero: l’errore da
condannare è un errore di principio, perché gli errori particolari non si
rannodano a qualche massima inferiore della religione, ma fluiscono da un
antiprincipio, quello che determinatamente fu condannato da Pio X nel
modernismo.
Lasciamo di ridire qui quello che dicemmo nei §§ 277-83 circa l’abolizione
del latino come lingua della Chiesa: essa ha fatto che nel momento in cui la
coscienza del genere umano viene faticosamente accomunando le genti sopra le
frontiere nazionali, la liturgia cattolica alzi queste barriere547 in contraddizione
con le spinte ecumeniche e universalistiche della coscienza contemporanea548.
L’esaltazione non riuscì peraltro a oscurare del tutto la visione del vero stato
delle cose. Il pro-prefetto della Congregazione per il culto divino, il benedettino
Mayer, mise in dubbio (e inclinò alla negativa) che con la riforma la
partecipazione interiore dei fedeli sia davvero cresciuta; indicò una diminuzione
del senso del sacro e della riverenza per la liturgia; denunciò l’incongruo della
frequenza eucaristica in un pòpolo che abbandona il sacramento di penitenza.
Ma in realtà tutte le relazioni delle diverse nazionalità hanno provato che in ogni
parte della Chiesa è in atto una celere differenziazione dei riti informata ai due
principii di cui trattammo nei §§ 284 e 285, quello dell’espressività umana, che
vuol modellato il rito sull’indole nazionale, e quello della creatività, che ricerca
l’autenticità liturgica nelle risorse del soggetto e respinge l’oggettività assoluta
del sacro. Questi due principii sono poi dati in amministrazione alle Conferenze
episcopali. È a queste infatti che spetta in primo luogo di stabilire e sviluppare le
proprie forme di culto e di fronte ad esse il compito della Santa Sede è di
confermarle. È rovesciata la norma preconciliare per cui solo la Sede Romana
aveva potestà legislativa in materia di liturgia (OR speciale, 1 novembre 1984).
Abbiamo descritto nei §§ 60-4, e sempre e solo allegando fatti e atti ufficiali,
l’indebolimento dell’autorità ecclesiale, sia per effetto della desistenza sua, sia
per effetto degli spiriti di indipendenza inturgiditi nel popolo di Dio.
Prescindiamo dalle grandi recentissime secessioni, quella della Chiesa rumena,
quella della Chiesa rutena e quella della Chiesa cinese, tutte motivate sul rifiuto
dell’autorità di Roma e sul fallace proposito di mantenere la dogmatica e l’etica
cattoliche pur svincolandosi dall’autorità papale, e conservare l’unità dopo aver
rigettato il principio dell’unità. Prescindiamo pure dai gravi sintomi di
indipendenza manifestatisi in molti episcopati in occasione della Humanae vitae
(§§ 62-3) e dalla crisi prescismatica degli Olandesi, non potuta fermare dal
Sinodo straordinario di quell’episcopato riunito a Roma dal Papa nel gennaio
1980 (§ 64). La disunione emergente dalle deviazioni teologiche di singoli
professanti e di intere scuole, la dissoluzione della catechesi, le disparità
disciplinari tra diocesi e diocesi non abbisognano più di essere menzionate.
Tacciamo anche la desistenza dell’autorità e la breviario manus di cui trattammo
nei §§ 65, 66 e 71.
324. Sinossi della Chiesa nel mondo contemporaneo. Card. Siri. Card.
Wyszynski. Episcopato di Francia. − Questa sinossi fu tentata variamente nella
ricorrenza ventennale del Vaticano II. Come di consueto il diapason delle
valutazioni fu percorso tutto, rinnovando il sic et non e l’alterno movimento
della Chiesa postconciliare. Tralasciamo le forme peaniche dell’OR del 20
ottobre 1982 che in un titolo proclama: «Siamo il secolo più evangelico della
storia» e vien risuonato da padre Congar in OR, 21 agosto 1983: «La nostra
epoca è una delle più evangeliche della storia». Omettiamo similmente le
affermazioni denigratorie secondo cui «la Chiesa per rinnovarsi deve ritrovare il
Vangelo cioè essere più evangelica. Nel passato essa ha fatto la politica e la
guerra». Neanche occorre confutare chi, mentre registra lo scemare della pratica
religiosa, pretende che a questa diserzione corrisponda una crescita dello spirito
evangelico. Ci soffermiamo invece sul giudizio formato, dietro un’osservazione
tranquilla dei fatti, dal card. Siri in «Renovatio», 1982, p. 325. Egli riconosce
che nel Concilio alcuni ebbero «il proposito di portare la Chiesa a vivere
protestanticamente senza Tradizione e senza Primato del Papa: per il primo
scopo si fece molta confusione, per il secondo si tentò di giuocare l’argomento
della collegialità». Siri distingue tra il Concilio che fu «una grande diga contro il
principio della disgregazione», e «la preoccupante vicenda del Postconcilio
durante la quale cominciò la triste consuetudine di avallare idee particolari coi
dettati del Concilio».
Non analitica appunto, ma sintetica è la diagnosi che dello stato della Chiesa
cattolica fece il primate di Polonia, cardinal Wyszynski, nell’omelia del 9 aprile
1974 nella cattedrale di Varsavia. Egli descrive una Chiesa postconciliare «la cui
vita si allontana sensibilmente dall’evento del Calvario; una Chiesa che
diminuisce le sue esigenze e che non risolve più i problemi secondo la volontà di
Dio, ma secondo le possibilità umane; una Chiesa il cui Credo è diventato
elastico e la morale relativistica; una Chiesa nella nebbia e senza le Tavole della
Legge; una Chiesa che chiude gli occhi davanti al peccato, che teme di essere
rimproverata come non moderna».
Anche il card. Ugo Poletti, Vicario di Sua Santità per l’Urbe, che pure fu
fautore e lodatore delle riforme conciliari, si trovò recentemente forzato a cedere
alla verità dei fatti e scrisse in OR del 7 ottobre 1984: «Negli anni del
postconcilio (forse è inevitabile dopo ogni Concilio importante) si è prodotta
nella Chiesa cattolica una forte confusione dottrinale e pastorale che ha spinto
uno studioso al di là di ogni sospetto come Rahner a parlare di criptoeresia.
Questo clima purtroppo genera un profondo disorientamento nei fedeli stessi. È
necessario uscire da questa situazione seguendo l’invito di san Paolo di attuare la
verità nella carità». Analizzando poi i particolari dello scadimento dottrinale
Poletti ne individua la ragione nella variazione dell’ecclesiologia: la concezione
della Chiesa come aggregazione delle Chiese locali, concezione, aggiungiamo
noi, promossa dalla elevazione indiscreta della potestà dei vescovi nella propria
diocesi e dalla conseguente debilitazione di Pietro. Sarà anche da osservare che
il rilievo parentetico del cardinale circa l’origine della confusione dottrinale non
regge. La confusione precedeva infatti i Concili che erano appunto fatti per
dissiparla (benché talora non riuscissero come accadde a Nicea). Al Tridentino
per esempio successe un’epoca di assoluta chiarezza dottrinale e di ferma
condanna degli errori. Non vi ha riforma della Chiesa se gli schemi dottrinali
sono incerti. È una peculiarità del Vaticano II di aver generato la confusione
anziché dissiparla e la peculiarità discende dal discorso inaugurale (§ 40) che
muta il principio della confutazione dell’errore con quello del dialogo fiduciale.
325. Crisi della Chiesa e crisi del mondo moderno. Parallelo tra il declino
del Paganesimo e il presente declino della Chiesa. − La crisi della Chiesa
moderna appare manifesta nel fatto che non le è riuscito quell’influsso sul
mondo nel quale essa aveva fatto consistere il proprio rinnovamento. La
contraddizione dell’evento all’intento conciliare spunta in tutti i campi.
Dignità umana e diritti dell’uomo sono uno dei soggetti più frequenti della
predicazione papale, ma è impossibile tenere con forza la verità di quei diritti se
non si stabilisce prima che quei valori derivano dall’assolutezza e inviolabilità
del fine ultimo. I diritti sono secondari e correlativi ai doveri. Persino Mazzini
scrisse I doveri dell’uomo, e non già i diritti dell’uomo. Ma il mondo moderno
ha invertito la sequela facendo del diritto il valore primigenio e pretendendo che
i doveri sussistano solo in servizio dei diritti. E qui si può osservare che è male
che certe verità vengano predicate indipendentemente dalla religione, perché
mancando il fondamento esse mal si reggono da sé, e anche perché si toglie alla
Chiesa il suo primario esercizio, che è l’insegnamento di ogni verità morale.
Vedi quanto dice in proposito il Manzoni nella Morale cattolica, ed. cit., vol. II,
pp. 577-8.
326. Declino dell’influsso sociale della Chiesa nel mondo. − La perdita dello
specifico del cattolicismo affievolisce l’influsso sociale della Chiesa, che è
influsso unificante, morale e salvifico. Quanto all’unità già vedemmo come gli
scismi rumeno, ruteno e cinese l’abbiano rotta e come la crisi prescismatica
dell’Olanda la minacci. Si aggiunga il recentissimo scisma della Chiesa del
Nicaragua, dove una Chiesa cosiddetta popolare, inspirata alla teologia della
trasformazione radicale del mondo di qua, ha ripudiato a viso aperto l’autorità
del Papa553.
L’autorità religiosa del Papa, che si vuole cresciuta e potente nel mondo
contemporaneo, sedotti dalla lustra di un’espansione inaudita della diplomazia
pontificia, scema in realtà del continuo, oltre che per il diffondersi nelle masse
dello spirito mondano e secolaresco, anche per la desistenza dell’autorità
medesima, desistenza non più contingente e prudenziale, come un tempo, ma di
principio e sistematica. Questo appare, come notammo nei §§ 65, 66 e 71,
all’interno della Chiesa dove i comandi della Santa Sede sono ignorati o
disobbediti dalle masse, disconosciuti o negletti dagli episcopati (§§ 61-4).
Il mondo civile, che aveva l’impronta della religione e nel costume e nella
legislazione, ha scancellato quasi dappertutto lo stampo cristiano con l’adozione
del divorzio, con l’aborto (tranne che in Portogallo e Irlanda), con la
legalizzazione della sodomia e dei rapporti incestuosi, con l’iniziazione alle
pratiche contraccettive introdotta dallo Stato nella scuola554, col progressivo
disconoscimento dei diritti nascenti dalle disuguaglianze tra gli uomini, con la
secolarizzazione totale della scuola, dell’educazione, della stampa, del
calendario555, delle opere un tempo dette di misericordia, con la professione
statutaria dell’indifferentismo religioso e dell’ateismo come base della comunità
civile, con la riduzione degli atti pubblici di religione a ritualità meramente civili
frequentate da credenti e miscredenti556.
L’esautorazione del Papato spicca nei fatti di Giovanni Paolo II. Il suo
insegnamento sulla dignità umana e sulla pace e i diritti dell’uomo è infaticabile,
ma inefficace. Egli non riuscì a inframmettersi tra i contendenti e a fermare le
armi, quando era per visitare e quando visitò Gran Bretagna e Argentina in
guerra; non potè cioè far valere l’incompatibilità di una visita del predicatore di
pace con lo stato di guerra delle nazioni visitate, come se la differenza tra pace e
guerra di fronte alla coscienza di popoli cristiani non rilevasse.
Il presidente Pertini si spinse oltre nel discorso durante la visita del Papa al
Quirinale il 2 giugno 1984. Professò infatti l’irrilevanza delle religioni nel
progresso del genere umano. Esse sono per lui possibili forme dello spirito
umanitario che si svolge indipendentemente da esse. Il Presidente crede che esse
non possono impedire la comunanza tra gli uomini, ma non le considera come
fattori privilegiati di tale comunanza: «Non le confessioni religiose, non la scelta
filosofica, non la militanza politica possono costituire ostacolo sulla via della
comprensione» (OR, 4 giugno 1984). Il Papa d’altronde intonò la propria
risposta al motivo dell’ecumene umanitaria e parlando del popolo italiano
identificava l’indole nazionale degli Italiani nello spirito umanitario, facendo
nascere da questo e non dalla religione le opere di san Camillo de Lellis e di san
Giuseppe Cottolengo. Le somiglianze che si possono riscontrare tra l’azione
inspirata dalla religione e l’azione laica sono, come dicevano gli Scolastici,
somiglianze materiali ma non formali: e non concernono l’essenza della cosa che
è radicalmente diversa nei due casi. L’unità universale, secondo il cattolicismo, è
compatibile con la diversità, purché questa lasci sussistere, sopra le differenze, il
riconoscimento comune del fine trascendente, che è il principio autentico
dell’unità. Nell’universalismo umanitario invece questo fine trascendente non
vien lasciato sussistere e in vece sua divien centro e fine l’uomo. Anche
nell’assiologia umanitaria si può far luogo alla religione, ma solo come una
specie, tra altre, dell’umanità pura.
330. Leggi dello spirito del secolo. Il piacente. L’oblìo. − L’aspetto più
vistoso del mondo contemporaneo è la vivacità convulsa dello spirito, il
continuo sommovimento delle opinioni, la variazione celere delle cose,
l’ininterrotto discutere e problematizzare su tutto da parte di tutti, l’incessante
pullulazione di congressi, convegni di studio, gruppi di ricerca. Questo è il
fenomeno superficiale del pirronismo e del mobilismo che corrompono nel
profondo la mentalità. Ma il fenomeno è senza noumeno, e risponde a una legge
che già accennammo: quanto più le cose cessano di essere nel mondo reale, tanto
più passano nell’ordine verbale, e la parola, che è il fenomeno cioè l’apparire
dell’ente, diventa un quid in sé e sostituto dell’ente. Quando per esempio la vita
monastica languisce, allora spesseggiano gli scritti sul rinnovamento, sulla
scoperta o riscoperta dei valori monastici, tutto diventando problema e
verbigerazione. E quando l’adorazione dell’eucaristia è sbassata all’imo, allora il
Sacramento divien soggetto di discussioni, convegni di studio e libri, quanti non
se ne videro mai in tempi di profonda pietà eucaristica. Il Sacramento si mette in
relazione con ogni cosa, e con il turismo e con lo sport e con il teatro e insomma
tutto con tutto. Tale sovrabbondanza anziché di vitalità è indizio di svuotamento:
quando la cosa sussiste, non ha bisogno di essere problematizzata e di invadere il
mondo del puro parlato.
Da questa facoltà di rischiarare od oscurare ora questa ora quella parte del
reale, che pur si conosce, viene il gran fatto, individuale e sociale, dell’oblìo.
L’oblìo è il gran motore della storia e configura lo spirito del secolo. Né qui mi
attengo a quell’oblìo intenzionale, che non sta nella memoria, ma solo nella
rappresentazione, mentale o vocale, che ci facciamo della realtà. Qui miro
all’oblìo che non leva dalla coscienza il fatto, ma fa che non sia avvertito, che
non lo si creda, che, per dirla con Leibniz, lo si percepisca senza appercepirlo.
L’oblivione ha una parte grande e nella storia delle nazioni e nella storia della
Chiesa. La damnatio memoriae è il fatto di tutti i regimi che si alzano sopra le
rovine di altri regimi. Ma qui giova toccar solo l’oblìo come fenomeno della
Chiesa contemporanea. Lungo tutto questo libro, che indaga le variazioni del
cattolicismo nel secolo XX, ogni variazione è correlativa a un oblìo, a
un’agostiniana inadvertentia. Le novità del Vaticano II sono lumeggiature di
parti del dottrinale cattolico che corrispondono all’oblivione corrispettiva di altre
parti. L’oblìo copre il dogma della predestinazione sotto la verità della vocazione
universale; quello dell’inferno sotto la verità della misericordia divina; quello
della presenza reale sotto la verità della presenza spirituale di Cristo
nell’assemblea; quello dell’obbedienza assoluta alla legge divina sotto la verità
del perfezionamento personale che ne conseguita; quello del fine escatologico
dell’umanità sotto la verità dei doveri temporali dell’uomo; quello
dell’infallibilità di Pietro sotto la verità del magistero collegiale dei vescovi;
quello dell’immutabilità della legge morale sotto la verità del divenire storico
delle sue applicazioni; quello del sacerdozio ministeriale sotto la verità del
sacerdozio dei fedeli; quello dell’insegnamento del dogma divino sotto la verità
della ricerca dialogale.
Paolo VI fu in questo rispetto assai più parco e, non avendo l’indole eutimica
dell’antecessore, si mantenne in questo e in altri punti storici, nei termini che
prescrivono la verità e la dignità congiunte.
Giovanni Paolo II abbondò più volte nel senso dell’oblivione, ma non
sappiamo a quale propensione psicologica o veduta dottrinale o intenzione
politica ricondurre i fatti. Ne citeremo due soli che condannerebbero a Lete
eventi decisivi della storia europea dell’ultimo mezzo secolo. Nella visita in
Polonia del giugno 1979 il Papa, recatosi sui luoghi dove fu il tormentatorio di
Auschwitz, celebrò con voci solenni il martirio di milioni di innocenti sotto la
clava di un’empia tirannide e chiamò il luogo «santuario della sofferenza
umana» e «Golgota del mondo contemporaneo». Ma poi, in un subitaneo empito
del cuore, proruppe praeter exspectatum in un ardente omaggio «all’enorme
contributo di sangue dato dalla Russia alla lotta per la libertà dei popoli
nell’ultima tremenda guerra»567. L’asservimento di Lettonia, Estonia, Lituania,
Cecoslovacchia, Ungheria, Rumenia e della stessa Polonia ad opera del
dispotismo sovietico che determinò il destino di mezza Europa e provocò gravi
angustie alla religione, viene qui immolato a Lete.
Ora, qual è la ragione per cui è andata perduta l’unità nel mondo
contemporaneo? Qui dovrei mostrare come il principio unificante non possa mai
essere qualcuno degli elementi che si devono unificare, bensì un quid esterno e
superiore ad essi, e che quindi i problemi dell’uomo non si risolvono stando
nell’uomo. Il mondo moderno al contrario tenta di unificare i suoi valori su
qualcuno dei valori ad esso interni. Questi non hanno invece virtù unificante,
perché sono parziali e talora incompatibili: l’economico, il piacere, lo sviluppo
della persona, la libertà. Il valore che unifica i valori molteplici è quel valore
ultimo per cui tutte le cose sono fatte e a cui convergono. Questo valore ultimo è
esterno all’ordine dei valori che esso unifica. Delle cose della vita, che sono una
serie disordinata (cose non connesse), fa una serie ordinata (cose connesse) in
guisa che l’una chiama l’altra e tutte si chiamano disponendosi in una via
graduata verso il fine.
334. L’onus contra Dumam. − Sembrerà che il nostro discorso sia venuto a
una conclusione che ha il carattere della conoscenza negativa, ipotetica,
umbratile e vesperale, se non proprio notturna. È così. Trapassare il velo non si
può che tasteggiando e per barlumi. «Custos, quid de nocte? Custos, quid de
nocte? Dixit custos: Venit mane et nox. Si quaeritis, quaerite, convertimini,
venite»573 (Isai., 21, 11-2).
1 “Perché la recezione del Concilio, in grandi parti della Chiesa, finora si è svolta in modo così difficile?
Ebbene, tutto dipende dalla giusta interpretazione del Concilio o – come diremmo oggi – dalla sua giusta
ermeneutica, dalla giusta chiave di lettura e di applicazione. I problemi della recezione sono nati dal fatto
che due ermeneutiche contrarie si sono trovate a confronto e hanno litigato tra loro. L’una ha causato
confusione, l’altra, silenziosamente ma sempre più visibilmente, ha portato frutti. Da una parte esiste
un’interpretazione che vorrei chiamare “ermeneutica della discontinuità e della rottura”; essa non di rado si
è potuta avvalere della simpatia dei mass-media, e anche di una parte della teologia moderna. Dall’altra
parte c’è l’“ermeneutica della riforma”, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa, che il
Signore ci ha donato; è un soggetto che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso,
unico soggetto del Popolo di Dio in cammino. L’ermeneutica della discontinuità rischia di finire in una
rottura tra Chiesa preconciliare e Chiesa postconciliare. Essa asserisce che i testi del Concilio come tali non
sarebbero ancora la vera espressione dello spirito del Concilio. Sarebbero il risultato di compromessi nei
quali, per raggiungere l’unanimità, si è dovuto ancora trascinarsi dietro e riconfermare molte cose vecchie
ormai inutili. Non in questi compromessi, però, si rivelerebbe il vero spirito del Concilio, ma invece negli
slanci verso il nuovo che sono sottesi ai testi: solo essi rappresenterebbero il vero spirito del Concilio, e
partendo da essi e in conformità con essi bisognerebbe andare avanti. Proprio perché i testi
rispecchierebbero solo in modo imperfetto il vero spirito del Concilio e la sua novità, sarebbe necessario
andare coraggiosamente al di là dei testi, facendo spazio alla novità nella quale si esprimerebbe l’intenzione
più profonda, sebbene ancora indistinta, del Concilio”. (Discorso di Sua Santità Benedetto XVI alla curia
romana in occasione della presentazione degli auguri natalizi - giovedì, 22 dicembre 2005).
4 I discorsi papali saranno sempre citati con la data in cui apparvero nell’OR.
7 Questo termine mi pare necessario per rendere un carattere tipico del mondo contemporaneo dentro e fuori
la Chiesa. Viene dall’avverbio latino circiter (= all’incirca, press’a poco). Il vocabolo fu abbondantemente
usato da G. BRUNO nei Dialoghi. Lo riprendiamo dal grande Nolano come perfettamente adeguato alla cosa.
8 Vedi l’edizione di tutte le opere, vol. VII, p. 405. Le locuzioni come surhumaniser le Christ,
métachristianisme, Dieu transchrétien e simili, come provano l’attitudine neologistica, così tradiscono la
debolezza di pensiero dell’illustre gesuita.
11 «L’evento successivo non rende cattivo l’atto che era buono né buono l’atto che era cattivo».
12 Dire che il male è il bene perché dà occasione al bene è l’errore di S. MAGGIOLINI in OR, 12 gennaio
1983, che arriva a scrivere: «Tutto è grazia, anche il peccato». La grazia si applica al peccato e lo risana, ma
non è il peccato.
13 «Tanta infatti è l’onnipotenza di Dio che anche dai mali può fare i beni sia perdonando, sia risanando, sia
adattando e volgendo i mali all’utilità, sia anche castigando: tutte queste cose infatti sono dei beni».
14 LUIGI TOSTI, Prolegomeni alla storia universale della Chiesa, Roma 1888, p. 322.
17 Vedi su questo punto la lettera del MANZONI al pastore ginevrino Chenevière in Lettere, a cura di C.
Arieti, Milano 1970, I, p. 563 e quanto ne dico nella mia edizione della Morale cattolica, Milano 1966, vol.
III, pp. 57-8.
18 «Rispettivamente come eretici, o scandalosi, o falsi, od offensivi degli animi pii, o atti a sedurre le menti
dei semplici».
19 «Ci è dato un mezzo per snervare l’autorità dei Concili e contraddire liberamente ai loro atti, e per
proclamare liberamente tutto quello che ci sembra vero».
20 La lettera minacciante è pubblicata da G. PICOTTI in «Rivista di storia della Chiesa in Italia», 1951, p.
258.
vol. II, pp. 96-8 e vol. III, pp. 161-165. «La divina bontà ha
22 Vedi nella cit. ed. della Morale cattolica,
dato agli uomini indoli diverse, onde gli uomini portassero sulle cose giudizi diversi e pensassero di agire
rettamente».
23 «Intorbida sin dal fondo l’umana vita».
25 Vedi su questo punto la cit. ed. della Morale cattolica, vol. III, pp. 340-3.
26 «Gli uomini sono in generale alieni dalle verità e dai beni soprannaturali, e stimano di poter appagarsi
solo nella ragione umana e nell’ordine naturale delle cose e di poter conseguire in esse la propria perfezione
e felicità».
27 Vedi ed. cit., vol. II, pp. 413-59 e vol. III, pp. 323-9.
28 Della soluzione manzoniana discorro diffusamente nel discorso tenuto in Arcadia il 24 aprile 1979, ora
negli Atti di quell’Accademia, 1979, pp. 21-44.
30 Il succo del modernismo è infatti questo: che l’anima religiosa trae non altronde, ma da sé stessa,
l’oggetto e il motivo della propria fede. Tale è la diagnosi del card. D. MERCIER nella pastorale per la
quaresima del 1908.
31 «La verità non è più immutabile di quello che sia l’uomo, perché essa si evolve con l’uomo, nell’uomo e
attraverso l’uomo».
32 ROSMINI, Teosofia, III, 1090, ed. naz., vol. XIV, Milano 1941. Vedi Indici, alla voce Idea.
37 Il Papa stesso affermò che l’idea di convocare il Concilio fu un’ispirazione divina, e Giovanni Paolo II lo
confermò nel discorso del 26 novembre 1981 commemorando il centenario della nascita di Roncalli.
38 Questi infatti nel radio-messaggio ai fedeli di tutto il mondo, 11 settembre 1962, ne fece una lode
smisurata parlando di «una ricchezza sovrabbondante di elementi di ordine dottrinale e pastorale».
39 L’esito paradosso del Concilio, la rottura della legalità conciliare e la rimozione del Concilio preparato
sono taciuti dalle opere che rifanno la vicenda della grande assemblea. Vedi per esempio la sintesi che del
Concilio fa mons. P. POUPARD, pro-Presidente del Segretario per i non credenti in «Esprit et vie», 1983, pp.
241 sgg. Per contrappeso all’omissione di fatti così importanti li prendiamo ad esaminare un po’
largamente.
40 Il parallelismo posto dal Sarpi è pura parvenza. Un esito contrario al timore della Curia Romana è infatti
un esito conforme al desiderio di essa. In realtà il Tridentino non ebbe esito paradosso.
41 Istoria del Concilio Tridentino, Bari 1935, vol. I, p. 4. Per l’illustrazione di questo punto vedi R. AMERIO ,
Il Sarpi dei pensieri filosofici inediti, Torino 1950, pp. 8-9 e in particolare l’incongruenza tra la lettera e il
fondo di questo testo. Il Sarpi infatti è tutto inteso a mostrare l’efficacia delle arti umane nel gran maneggio
di quel Sinodo.
42 Dei lavori della Commissione preparatoria centrale mi è dato parlare con qualche particolare cognizione,
perché, avendomi mons. Angelo Jelmini, vescovo di Lugano e membro di detta Commissione, associato
strettamente allo studio degli schemi e alla redazione dei suoi pareri, ebbi conoscenza di tutti i documenti.
Tables comparatives, Louvain 1974. Praedestinatio e praedestinare si trovano solo tre volte: due volte per
la Madonna e una volta in citazione di Rom., 8, 29.
44 «Non approvo la descrizione fatta qui con tanta esultanza dello stato presente della Chiesa, inspirata a
mio avviso più alla speranza che alla verità. Perché infatti parli di aumento del fervore religioso, o in
confronto a quale epoca intendi? Non si devono forse tener in conto le statistiche secondo cui la fede
cattolica, il culto divino e i pubblici costumi declinano e ruinano? Lo stato generale delle menti non è forse
alieno dalla religione cattolica, essendo separati lo Stato dalla Chiesa, la filosofia dalla fede, l’indagine
scientifica dalla riverenza verso il Creatore e lo sviluppo tecnico dall’ossequio alla legge morale? Non
soffre forse la Chiesa per la penuria di clero? Molte parti della Santa Chiesa non sono forse crudelmente
conculcate dai Giganti e dai Minotauri che insuperbiscono nel mondo?, oppure, come nella Cina, travagliate
dallo scisma? Le nostre missioni, piantate e irrigate con tanto zelo e carità, non le ha forse devastate il
nemico? L’ateismo non viene forse oggi celebrato non più solo dai singoli, ma stabilito, cosa assolutamente
inaudita, per legge da intere nazioni? Il numero dei cattolici non decresce proporzionalmente ogni giorno,
mentre si espandono smisuratamente Maomettani e Gentili? Noi infatti, che eravamo poco fa un quarto del
genere umano, siamo ridotti a un quinto. E non è forse vero che i nostri costumi paganeggiano col divorzio,
coll’aborto, coll’eutanasia, colla sodomia e con Mammona?».
45 Tanto risulta dalla positio dell’istruttoria preliminare del processo di beatificazione conosciuta per
indiscrezione dal giornalista F. D’ANDREA. Vedi «Il Giornale Nuovo» del 3 gennaio 1979. Ma risulta altresì
dalle parole del Papa nell’udienza del 13 ottobre 1962, che facevan credere potersi il Concilio concludere
per Natale.
46 In OR, 4 giugno 1981, per il solito loquimini nobis placentia si scrive che il rinnovamento della Chiesa
fu cominciato da Giovanni XXIII con la celebrazione del Sinodo Romano e con la celebrazione del
Concilio e che «i due finiscono per amalgamarsi». Sì, se amalgamare significa annientare. Il Sinodo non è
citato dal Concilio neppure una volta.
48 «Infatti quella realtà stessa che oggi si chiama religione cristiana, già esisteva negli antichi e non mancò
mai sin dagli inizi del genere umano».
49 La disfatta del latino nella Chiesa postconciliare è al contrario manifesta. Persino nel Congresso
internazionale tomistico del 1974 il latino non figurava tra le lingue ammesse. Fu in seguito ammesso,
avendo io protestato con lettera 1 ottobre 1973 al Maestro generale dei Domenicani padre Aniceto
Fernandez. Questi mi fece rispondere il 18 ottobre accettando la protesta e la richiesta. «Ci avevamo
pensato anche noi,» dice «soprattutto perché è la lingua di san Tommaso». Inutile aggiungere che le
relazioni in lingua latina furono pochissime. Ma lo slatinamento dei Congressi tomistici fu pieno in quello
del 1980 nel quale su ventinove contributi non ve ne ha nessuno in latino. Non si potrebbe dare prova più
palmare del passaggio a una Chiesa mistilingue ma aliena affatto dal latino.
53 «Il Sacro Concilio definisce doversi delle cose di fede e di morale credere soltanto quelle che la Chiesa
ha apertamente definito come tali».
54 Tutte le sottolineature nei testi citati sono sempre nostre e si fanno affinché spicchino le parti del testo
che sono oggetto del commento.
55 G. ANDREOTTI , Diario
1976-1979, Roma 1981, p. 224, dice che pareva che il Papa parlasse
«rimproverando quasi il Signore per quanto era accaduto».
56 Cit. in «Itinéraires», n. 160, p. 106.
57 Una prova della disarticolazione interna della Curia romana, che neglige spesso ogni riguardo di
coerenza, si ebbe nel 1981. Nell’occasione che l’Institut catholique di Parigi celebrava il centenario della
nascita di Teilhard de Chardin, il Segretario di Stato card. Casaroli inviava a mons. Poupard preside
dell’Institut un messaggio in cui si celebravano i meriti di quel gesuita verso la Chiesa. Poiché il Teilhard
era stato oggetto di un Monitum del Santo Officio che nel 1962 denunciava nella di lui opera «ambiguità ed
errori gravi», l’omaggio prestatogli dalla Santa Sede eccitò scandalo e rese necessario un, come dicono,
ridimensionamento, cioè in realtà una ritrattazione di quelle lodi.
62 «Occorre che questa dottrina certa e immutabile alla quale si deve prestare un fedele ossequio, venga
approfondita ed esposta in quel modo che i tempi richiedono».
63 Mons. VILLOT, ausiliario di Lione, in «Echo-Liberté» del 13 gennaio 1963 conferma che il Papa
nell’allocuzione natalizia ai Cardinali citava sé stesso nella versione italiana.
64 «Altra cosa infatti è il deposito della fede preso in sé stesso, cioè le verità contenute nella nostra
venerabile dottrina, e altra cosa il modo in cui queste medesime verità si enunciano, mantenendo però il
medesimo senso e il medesimo contenuto. Bisogna invero attribuire molta importanza a un tale modo e
lavorare in questo, se occorrerà, con pazienza: si dovranno cioè nell’esporre le verità introdurre quei modi
che più convengano all’ammaestramento, la cui indole è principalmente pastorale».
65 Durante la preparazione del Sinodo Romano, che manteneva l’antica pedagogia della Chiesa, il Papa
aveva già aderito al suggerimento di addolcire alcune norme e aveva detto a mons. Felici (che lo racconta in
OR, 25 aprile 1981): «L’imposizione non piace più oggi». Non disse non giova, ma non piace.
66 Questa variazione sfugge interamente a OR, 21 novembre 1981, nell’articolo Punti fermi per camminare
con la storia che, analizzando la legislazione italiana dell’ultimo trentennio, trova da rilevare solo «la
mirabile capacità evolutiva e di adattamento» della legislazione stessa.
67 Questo fatto saliente del Vaticano II viene sempre taciuto. M. GIUSTI, prefetto dell’Archivio Segreto
Vaticano, ricordando nel ventennio il lavoro della Commissione preparatoria, non ne fa cenno alcuno.
68 Non si può dissimulare che sapit comicum il ragguaglio officiale dell’OR «che tutti i Padri riconoscono
che lo schema, frutto del lavoro di teologi e vescovi delle più varie nazioni, è stato studiato con somma
cura». Ma come mai si conclude allora che è improponibile?
69 Anche dal ragguaglio molto obiettivo che di questo episodio fa PH. DELHAYE nell’«Ami du Clergé»,
1964, pp. 534-5, risulta che nella notte sul 22 il Papa ricevette il card. Léger con l’episcopato canadese e
che ebbero luogo colloqui tra il card. Ottaviani e il card. Bea, esponenti delle due opinioni che si erano
affrontate.
70 «Figaro», 9 dicembre 1976. La narrazione dei fatti l’abbiamo condotta sulle memorie dello stesso
LIÉNART pubblicate postume nel 1976 sotto il titolo Vatican II per cura della Facoltà teologica di Lille. Essa
concorda con quella del libro del verbita WILTGEN, Le Rhin se jette dans le Tibre, Paris 1975 (traduz.
dell’ed. americana del 1966), p. 17, che però tace sul gesto illegale del francese.
72 «Bollettino Storico della Svizzera italiana», 1, 1978, Il luganese Carlo Francesco Caselli negoziatore del
74 Tale incertitudine è confessata da un teste autorevole, il card. P. FELICI, già segretario generale del
Concilio, secondo il quale la Costituzione GS «maiore litura avrebbe potuto essere perfezionata in talune
espressioni» (OR, 23 luglio 1975). D’altronde la redazione originaria di GS fu parzialmente in francese.
75 L’incertitudine del Concilio è ammessa anche dai teologi più fedeli alla Sede Romana, che si studiano di
discolparne il Concilio. Ma è chiaro che la necessità di difendere l’univocità del Concilio è già un indizio
dell’equivocità sua. Vedi per esempio la difesa che ne fa PH. DELHAYE, Le métaconcile, in «Esprit et Vie»,
1980, pp. 513 sgg.
76 Mutuo invero appare superfluo giacché, se solo la Chiesa parla, non c’è dialogo ma monologo.
77 Significativo è anche l’uso della voce manicheo applicata a ogni contrapposizione, compresa quella tra
bene e male, con rifiuto di ogni assolutezza assiologica. Chi qualifica un comportamento morale di cattivo
viene tosto tacciato di manicheismo.
78 Vedi J. H. NICOLAS, La virginité de Marie, Fribourg (Suisse) 1957, p. 18, che combatte la tesi eterodossa
di A. MITTERER, Dogma und Biologie, Wien 1952.
79 Questi due testi son levati dal grande Rapporto in tre tomi della Union des Supérieurs de France, cit. da
«Itinéraires», n. 155 (1971), p. 43.
80 Dichiarazione del p. SCHILLEBEECKX nella rivista olandese «De Bazuin», n. 16, 1965, traduzione francese
di «Itinéraires», n. 155 (1971), p. 40.
81 P. HÉGY in una tesi pubblicata nella collezione Théologie historique, diretta da p. Daniélou, sostiene che
«ce Concile a touché à tous les domaines de la vie religieuse, excepté à l’organisation ecclésiastique du
pouvoir» e che il Vaticano II «n’est pas seulement une révolution... mais une révolution incomplète»
(L’autorité dans le catholicisme contemporain, Paris 1975, pp. 15-7).
83 Vedi le Tischreden di Hitler, fatte conoscere da H. RAUSCHNING, Hitler m’a dit, Paris 1939, segnatamente
il cap. XLII.
84 «Affinché col necessario aiuto della divina grazia sorgano uomini realmente nuovi e artefici di una nuova
umanità».
85 Per questa dottrina oltre Summa theol., I, II, q. 114, a. 1, 2 e 4, vedi anche ROSMINI, Antropologia
soprannaturale, lib. I, cap. IV, a. 2 (ed. naz., vol. XXVII, p. 44), e san TOMMASO, Comm. in Epist. II ad Cor.
V, 17, lect. IV.
86 Altrove dice che il fondamento son gli Apostoli, ma vedi san TOMMASO nel commento a questo luogo.
87 La riduzione della Chiesa al Vaticano II, cioè la negazione insieme della storicità e della superstoricità
della Chiesa, è l’idea che inspira interi movimenti postconciliari. Nel convegno di studi di Comunione e
liberazione in ottobre 1982 a Roma fu giustamente rilevato il carattere escatologico della Chiesa, ma
disattesa l’opposizione che verso un tal carattere ha la tendenza neoterica a celebrare i compiti mondani
dell’uomo che (come fu detto) mentre tende al Cielo viene dal Cielo rimbalzato in giù ai suoi compiti
terrestri. Il Convegno era tutto fondato sull’idea che il compito del cattolico sia oggi la realizzazione del
Concilio (OR, 4-5 ottobre 1982).
88 A. ROSMINI, Risposta ad Agostino Theiner, parte I, cap. 2, ed. naz., vol. XLII, p. 12.
93 Così vogliono per esempio il p. P. DE LOCHT in ICI, n. 518, 15 settembre 1977, p. 5 e il p. COSMAO O.P.
alla televisione Suisse Romande l’8 settembre 1977: «En fait c’est l’Eglise qui a changé très profondément
et en particulier parce qu’elle a fini par accepter ce qui s’était passé en Europe depuis la fin du XVIIIe
siècle».
99 «Che cosa c’è che avrei dovuto fare di più e non ho fatto?».
102 La denigrazione della Chiesa storica ha avuto in epoca postconciliare poche confutazioni. Notevole
quella che mons. VINCENT, vescovo di Bayonne, fece leggere alla Radio Vaticana il 7 marzo 1981 e
pubblicò in séguito sul suo Bollettino Diocesano. Egli confuta a uno a uno gli articoli dell’infamatoria: che
la Chiesa fosse puramente rituale, che si ignorasse la Bibbia, che mancasse il senso liturgico, che la
questione sessuale fosse ossessiva. Il presule osserva: «Cette opposition du passé au présent a quelque
chose d’enfantin, de caricatural et de malsain».
103 «Subito alle prime voci di minaccia del nemico la stragrande maggioranza dei fratelli tradì la propria
fede... Non aspettarono nemmeno di essere arrestati, di comparire in tribunale e di essere interrogati...
corsero spontaneamente a presentarsi».
107 «La voce evangelica», settembre 1971. Organo delle comunità evangeliche di lingua italiana nella
Svizzera.
108 Il vescovo di Coira, mons. VONDERACH, in lettera 10 aprile 1981 non si peritava di riconoscere: «Als
einzelner Bischof bin ich machtlos». La lettera sta tra le mie carte.
109 Ma anche l’episcopato italiano apparve disunito e, per esempio, mons. Borromeo, vescovo di Pesaro, e
la rivista «Renovatio» inspirata dal card. Siri entrarono in contrasto col card. Pellegrino circa le relazioni tra
Chiesa e Stato (ICI, n. 279, 1967, p. 33).
110 Qui si dovrebbe entrare nel problema che tocca l’arcano più perturbante del ministero di Pietro: può e
come può un Papa sentenziare contro il suo convincimento? Che cos’è questa dualità di persone? E quale è
la parte del confessore del Papa che è giudice della coscienza di lui?
111 Testo in Humanae vitae, ed. ICAS, Collana di studi e documenti, n. 15, Roma 1968, p. 98.
112 Questo ipocorismo è di regola nei prelati quando parlano della HV e lo continua, per esempio, mons.
MARTINI, arcivescovo di Milano, nella conferenza stampa durante il Sinodo dei vescovi del 1980. Vedi «Il
Giornale nuovo», 17 ottobre 1980.
113 Nel colloquio organizzato dall’Ecole française de Rome su Paolo VI e la modernità della Chiesa JEAN-
LUC POUTHIER nella sua relazione sulla HV sostenne che «dopo essere stata presentata e commentata in
termini inadeguati, HV è stata del tutto trascurata, cosicché sembra giunto il momento di riprendere in
mano un documento che per molti versi appare oggi straordinario» (OR, 5 giugno 1983).
114 Il p. HÄRING si avanzò nella sua campagna sino al punto di combattere come immorale il metodo della
continenza periodica raccomandata dal Pontefice. Vedine la confutazione in OR, 6 agosto 1977.
115 Non mi diffondo sui frequenti casi di rifiuto da parte di interi cleri diocesani di ricevere il vescovo eletto
da Roma. Tanto avvenne a Botucatù nel Brasile dove però mons. Zioni, richiesto di dimettersi, resistette ai
faziosi qualificandoli «preti di basso livello intellettuale» (ICI, n. 315, p. 8, 1 luglio 1968). Anche la nomina
di mons. Mamie ad ausiliare di mons. Carrière, vescovo di Friburgo in Isvizzera, suscitò un moto di
opposizione nel clero («Corriere della sera», 21 agosto 1968).
116 Una concezione diametralmente opposta fu quella di Giovanni XXIII che sul letto di morte diceva al suo
medico: «Un Papa muore di notte, perché di giorno governa la Chiesa».
118 «In realtà Noi non abbiamo mai né in alcun modo tralasciato di manifestare la Nostra sollecitudine nel
conservare nella Chiesa l’autentica Tradizione».
119 «Finché sediamo, benché indegni, su questo seggio, finché presiediamo alla Chiesa, abbiamo l’autorità e
il potere».
alla lettera, comunicatagli dal Rosmini, fece il MANZONI il 23 maggio 1848 in Epistolario, cit., vol. II, p.
447.
122 Il segno indubitabile di tale possibile abdicazione è che nella riforma del regolamento del Conclave
promulgata nel 1975 è espressamente contemplata la possibilità che la vacanza della Sede Apostolica
avvenga per rinunzia del Pontefice, mentre tale possibilità non era mai stata contemplata. Vedi «Gazzetta
Ticinese», Paolo VI come Celestino V?, 2 e 9 luglio 1977.
123 La flessione dell’autorità che diviene funzione meramente didattica ha esempi piccanti. Quando il
teologo di Tubinga Erberto HAAG negò la dottrina cattolica del diavolo nel libro Abschied vom Teufel fu
iniziato a Roma un procedimento contro di lui, ma il procedimento fu tosto abbandonato e la sola risposta
data alla negazione fu un documento della Congregazione per la dottrina della fede che riaffermava la
dottrina tradizionale. Lo HAAG continuò a dogmatizzare contro i principii cattolici. Il dì dell’Immacolata del
1981 egli teneva omelia nella chiesa maggiore di Lucerna negando formalmente due capitali dogmi,
l’Immacolata Concezione e il peccato originale. Vedi il testo dell’omelia pubblicato dallo HAAG medesimo
in «Luzerner Neueste Nachrichten», n. 43, 1982. Sembra che l’autorità episcopale creda potersi comprimere
l’errore senza inibire l’errante che lo va spargendo.
124 Il testo integrale delle dichiarazioni del card. ODDI in versione tedesca è apparso in «Der Fels»,
settembre 1983, pp. 261-4 e di qui lo traduciamo noi.
126 Clamoroso fu il gesto di Giovanni Paolo II che, nella visita in Francia, porse la Comunione in bocca alla
sig.ra Giscard d’Estaing che sporgeva la mano per autocomunicarsi. Documentazione fotografica in «Der
Fels», luglio 1980, p. 229. Il fatto, se è indizio della preferenza personale del Papa, prova anche lo stato
anomalo del diritto nella Chiesa, giacché l’opzione tra i due modi di prendere l’eucaristia è, secondo le
norme vigenti in Francia, assolutamente libera.
127 Si ricordi che in grammatica si chiama così quella proposizione che enuncia una condizione che non si
realizza: perciò anche il condizionato non si realizza.
128 Le opere di Giovanni Gentile furono messe all’Indice nel 1934: il filosofo se ne stupì e rimase
amareggiato. Eppure in una conferenza tenuta a Firenze nel 1943 non solo proclamava: «Io sono cristiano»,
ma proseguiva: «Voglio subito aggiungere, a scanso di equivoci, io sono cattolico... Non credo di avere
tradito il primo insegnamento religioso che mi venne impartito da mia madre». Vi sono coscienze erronee
nel teoretico come vi sono nel pratico.
129 Una scrittura pubblica non può essere corretta o disdetta che con una scrittura pubblica. Infatti quanto a
sé ha un significato invariabile che può essere ritrattato (nel duplice senso di riesaminare e disdire) soltanto
con una scrittura pubblica. Secondo la riforma il Santo Officio ascolta le difese dell’autore ed esige che i
chiarimenti giustificativi da lui dati per far rientrare l’opera nell’ortodossia siano da lui resi di pubblica
ragione. A questo atto equivalente a una ritrattazione l’autore repugna rendendo più increscioso tutto il
negozio. Tale è il caso del padre Schillebeeckx. Vedi «Le Monde», 10 dicembre 1980. L’autore ricusò di
rendere pubbliche le dichiarazioni fatte in Santo Officio il quale si limitò a pubblicare la lettera in cui erano
indicate le correzioni che l’autore avrebbe dovuto portare.
130 Trovo singolare che l’apologia del Santo Officio, fatta da mons. H AMER in OR, 13 luglio 1974, non
tocchi il punto fondamentale, che cioè il libro ha una realtà in sé staccata dall’autore. Lo stesso difetto mi
par di vedere nello studio di mons. LANDUCCI in «Renovatio», 1981, p. 363, che trova lodevolissimo il modo
di salvaguardare i diritti dell’interessato nella nuova Ratio agendi.
131 L’equivoco traspariva già nell’Omelia per i martiri dell’Uganda che sono negri e che il Papa metteva
insieme ai martiri scillitani che erano romani.
133 Un’aspra smentita riceve il giudizio del Papa dalle dichiarazioni del card. BALLESTRERO, presidente della
Conferenza episcopale italiana, in OR, 25 novembre 1983: «Il nostro Paese è terribilmente distaccato dalla
Chiesa perché i principii che lo inspirano in quasi tutte le sue scelte e nei suoi comportamenti non sono più
quelli del Vangelo».
135 Non regge tuttavia per la città di Roma, sede di Pietro, dove secondo le statistiche di OR, 19 novembre
1970, l’80% si dichiara cattolico, ma il 50% di questi non crede nel paradiso e nell’inferno. Non regge
similmente al lume dei fatti posteriori, giacché in maggio 1981 solo il 22% dei romani si pronunciò contro
l’aborto.
136 A tal punto che non sotto Paolo VI, ma nel 1984 alcuni Paesi celebravano la giornata dell’odio, che va a
congiungersi alla giornata della mamma, alla giornata dell’ammalato, alla giornata del fiore e di tutte le
feste laiche che vanno sostituendosi a quelle religiose della liturgia.
138 Nell’Annuarium statisticum per il 1980 appare un allentamento dei moti regressivi e qualche cenno di
ripresa nel numero dei preti. Il tasso delle ordinazioni sacerdotali è salito da 1,40 a 1,41 per cento sacerdoti.
Le defezioni sono dimezzate. Il numero dei sacerdoti nell’orbe cattolico è tuttavia diminuito ancora in un
anno dello 0,6%. Religiosi e religiose sono ancora in diminuzione, ma più le religiose con un tasso negativo
di 1,4% che era solo di 1,1% l’anno innanzi. In generale il calo è proprio dell’Europa e l’aumento
dell’Africa (OR, 28 maggio 1982).
139 P. CHRISTOPHE, Les choix du clergé dans les Révolutions de 1789, 1830 et 1848, Lille 1975, t. I, p. 150.
140 La novità è la partecipazione delle gerarchie al moto contro il celibato. Il card. LÉGER per esempio dice:
«Il est permis de se demander si cette institution ne pourrait être reconsidérée» (ICI, n. 279, p. 40, 1 gennaio
1967).
141 La decisione di Papa Wojtyla fu vivamente censurata dai neoterici. Si veda per esempio l’intervista di H.
HERRMANN, professore di diritto canonico all’Università di Tubinga, al settimanale «Der Spiegel», 6 ottobre
1981: «Warum sollen wir uns noch zu einem Kreis von Menschen zählen wollen, der das Evangelium von
der Liebe ständig verrät?».
142 Vedi «Nuova Antologia», gennaio 1934, p. 80, Memorie di Leonetto Cipriani.
143 Sono le richieste del convegno di laici e preti tenutosi a Bologna di cui parla il giornale «La Stampa» del
28 settembre 1969.
144 «Partendo andavano e piangevano spargendo la loro semente, ma al ritorno arriveranno con giubilo
portando i loro manipoli».
145 A. MANZONI, Osservazioni sulla morale cattolica, ed. cit., vol. III, p. 135.
146 Inequivocabile e ostentata è la posizione di mons. RIOBÉ, vescovo di Orléans, che in una dichiarazione
alla Conferenza dei vescovi di Francia pubblicata in «Le Monde», 11 novembre 1972, propone l’istituzione
di laici che esercitano per deputazione della comunità con il consenso del vescovo anche solo
temporaneamente le funzioni del sacerdote ordinato.
147 Prêtres des temps nouveaux, traduit du néerlandais par Denise Moeyskens, Tournai 1969. I passi citati
stanno a pp. 64 e 43. La tesi è d’altronde quella del p. SCHILLEBEECKX.
149 Si può tuttavia dire che l’educazione è un’imitazione della causalità divina anche secondo il Molinismo,
inquanto essa dispone le circostanze favorevoli alla scelta giusta.
151 «Guai a quelle che cuciono cuscini per ogni gomito e fanno guanciali per le teste di qualunque età».
152 «Si stima che l’onore della donna derivi più dal lavoro fatto fuori di casa che da quello domestico».
153 «Che mogli e madri non si trovino di fatto costrette a lavorare fuori di casa, e che le loro famiglie
possano vivere degnamente e prosperare anche quando esse dedicano tutte le loro cure alla propria
famiglia».
154 «È proprio così! Bisogna che le famiglie del nostro tempo ritornino alla condizione di prima».
155 Rapporto della Commissione federale per le questioni femminili, Berna 1980.
156 Questo è divenuto un luogo comune, anzi comunissimo. Non c’è discorso intorno alla donna, di preti o
di laici, in cui non ritorni la formula che «la donna è finalmente diventata persona e soggetto». Per esempio
ICI, n. 556, (1980), p. 42, Le nouveau rôle de la femme dans la famille occidentale.
157 Contro le assurdità e le empietà dell’articolo protestai io con lettera del 3 dicembre 1978 al direttore del
giornale che, essendo tanquam modo genitus infans, ignora la tradizione di verità e di cortesia del giornale
vaticano e non mi degnò di risposta.
158 Convien rilevare che questa teologia femminista in seno al cattolicismo è uno dei punti in cui si tenta
l’avvicinamento agli acattolici. Nel documento finale dell’assemblea del Consiglio ecumenico delle Chiese
del 1983 a Vancouver si accolgono le istanze non pure per il sacerdozio delle femmine, ma perché si
definisca «Dio madre» lo Spirito Santo. Vedi OR, 10 agosto 1983.
159 Giacobini italiani, Bari 1964, vol. II, p. 459, La causa delle donne (anonimo).
160 Che nell’atto unitivo l’uomo sia principio attivo e la donna passivo mi par verità riconosciuta dagli
antichi e non disconoscibile dai moderni: il “fiasco” nell’esperienza erotica è infatti solo dal canto
dell’uomo, perché solo il maschio ha la parte attiva nella consumazione carnale. Vedi STENDHAL, De
l’amour, Paris s.a., nel capitolo dedicato al Fiasco. In OVIDIO, Amorum, III, VII, vi è la classica descrizione
del fenomeno.
161 Per Messalina vedi GIOVENALE, VI, 129-30, per Ercole STAZIO, Silv. III, 1, 42, per il placito della regina
MONTAIGNE, Essais (Parigi 1950), p. 956.
162 Non si può d’altronde dimenticare che Ephes., 5, 21 dice i coniugi «reciprocamente soggetti», come
avverte GIOVANNI PAOLO II nel discorso del 13 agosto 1982.
163 Decisivo è a questo proposito Ephes., 5, 24, dove la soggezione della donna al marito è esemplata su
quella della Chiesa a Cristo: «Come la Chiesa si assoggetta a Cristo così le donne ai mariti in tutto».
164 Non accedo infatti alla sentenza inverisimile secondo la quale gli Apostoli conoscevano perfettamente le
verità di fede poi gradualmente riconosciute, ma non le manifestarono.
165 Vedi il quaderno Sulla condizione femminile di «Vita e pensiero», maggio-agosto 1975. Questo supposto
vi è professato sin dalle prime pagine e d’altronde le trattazioni sono imbevute di freudismo, marxismo e
storicismo. Vi sono citati autori eterodossi, si trascura tutta la tradizione cattolica e vi si ignorano
sant’Agostino e san Tommaso. Anche il linguaggio è stravagante per circiterismi di ogni sorta. Ma vedi
anche OR, 4 maggio 1979, dove concede che la donna fosse in passato universalmente maltrattata. Così
quello che era un luogo comune vero, che cioè il cristianesimo elevò la donna, cede a un luogo comune
falso, che l’abbia avvilita.
166 Conviene ricordare che donne ebbero rilievo e influsso nella vita di Atene e che Epicuro ammise donne
alla sua scuola. Ma la cosa produceva stupore e ancora tre secoli dopo CICERONE, De nat. deorum, I,
XXXIII, 93, alludendo agli scritti di Leonzio, discepola di Epicuro, scriveva: «Leontium contra
Theophrastum scribere ausa est, scito illa quidem sermone et attico, sed tamen...». Il fatto non elide la
generale abiezione della donna nelle società pagane, denunciata da tutti i Padri.
167 Nei monasteri le badesse, al pari degli uomini, esercitavano una giurisdizione quasi episcopale, cioè
tutto il legittimo governo spirituale e temporale nel proprio territorio. Vedi l’opera importante di ADRIANA
VALERIO, La questione femminile nei secoli X-XII, Napoli 1983.
168 Nell’Inferno e nel Purgatorio danteschi i lussuriosi stanno nel luogo di più lieve pena essendo portatori
di più lieve colpa.
169 A questa stregua si potrebbe dire che la facoltà sensitiva, la facoltà nutritiva e la facoltà respiratoria
informano tutta la vita. Non la informano ma la integrano con vari gradi assiologici di cui quello
caratterizzante l’uomo è il razionale.
171 «È proprio di un animo abietto applicarsi studiosamente alla cura del corpo».
172 Il sindaco di una città svizzera inaugurando il campo sportivo. D’altronde anche GIOVANNI
PAOLO II
ricevendo i calciatori di Varese parlò di questo sport come di «una nobile attività umana» (OR, 5 dicembre
1982).
173 «Le manifestazioni sportive giovano all’equilibrio dell’animo, nonché a stabilire relazioni fraterne tra
uomini di tutte le condizioni, di tutte le nazioni anche di stirpe diversa».
174 Nel cit. volume di Discorsi ai medici, Roma 1959, pp. 215 sgg.
175 Quanto abbia camminato, dopo quel discorso, la mentalità somatolatrica si vede nel fatto che oggi
sembrano gli invalidi essere ingiustamente privati della loro perfezione di persone, se non pratichino lo
sport.
176 Le Olimpiadi di Mosca del 1980 furono disertate dagli Stati Uniti e quelle di Los Angeles del 1984 dalla
Russia.
177 «O Dio, che mediante il corporale digiuno reprimi i vizi, elevi la mente, doni la virtù e i premi».
178 «Affinché la nostra anima, che si castiga macerando la carne, rifulga del desiderio di Te».
179 «Affinché la mortificazione della carne che pratichiamo trapassi a render vigorose le nostre anime».
180 Un effetto e un sintomo della degradazione dello spirito penitenziale è anche l’abolizione del tempo
preparatorio alla Quaresima segnato un tempo dalle tre domeniche di Settuagesima, Sessagesima e
Quinquagesima.
182 Sul digiuno vedi le pagine del MANZONI in Osservazioni sulla morale cattolica, ed. cit., vol. II, p. 284
sgg.
184 Vedi R. RICHET, La démocratie chrétienne en France. Le Mouvement républicain populaire, Besançon
1980. Per misurare il fenomeno si ricordi che il Mouvement era nei primi anni dopo la guerra il più forte
partito della Francia.
185 Non meno indicativa fu la debolezza della DC nell’opporsi al divorzio. Discutendosi in Parlamento
l’entrata in materia sul progetto di divorzio Fortuna-Baslini G. G ONELLA deplorò «l’assenza di ogni
orientamento governativo in aula. Dal 1948 su ogni disegno di legge il governo dà l’avviso, e oggi, con 15
ministri, la DC non ha una parola da dire». E al Congresso nazionale della DC lo stesso GONELLA
domandava che se non si consentiva il rinvio della legge la DC provocasse la crisi del ministero. Gli pareva
impossibile che la DC con la sua forza non sapesse impedire quello che per un secolo fu respinto dall’Italia
laicista e anticlericale. Già nel 1919 padre GEMELLI e mons. F. OLGIATI denunciarono le manchevolezze del
programma del Partito Popolare. In «Renovatio», 1979, pp. 402-6, si chiedeva che il partito abbandonasse
quella aggettivazione, perché nella sua azione non si riscontra azione specificamente cristiana.
186 Riviste nuncupativamente cattoliche come «Il Regno» (Bologna) e «Il Gallo» (Genova) fecero
campagna per il divorzio. Un centinaio di docenti e di allievi dell’Università cattolica di Milano insorsero
contro un articolo di mons. G. B. GUZZETTI che «pretende di dire una volta per tutte qual è la dottrina della
Chiesa». Sostenevano che «il cattolico non può imporre ad altri ciò che egli fa per fede».
189 Essendo il movimento comunista un effetto dello Spirito Santo, diventa meno inesplicabile l’introduzione
di Carlo Marx nel Missel des dimanches promulgato dall’episcopato francese, dove a p. 139 si fa memoria del
Fondatore del comunismo il 14 marzo, giorno obituale di lui.
190 Per le varianti del comunismo vedi M. CORVEZ, Les structuralistes, Paris 1969, pp. 156 sgg.
192 La cooperazione tra forze antitetiche nel fine ultimo fu enunciata da RONCALLI, Patriarca di Venezia, in
un messaggio al Congresso del Partito socialista italiano nel 1957, parlando di «comune elevazione verso
gli ideali di verità, di bene, di giustizia e di pace». Vedi G. PENCO , Storia della Chiesa in Italia, Milano
1978, vol. II, p. 568.
193 «Perché c’è qualcuno che giace senza colpa nell’indigenza, mentre tu sei ricco?».
195 Il presente paragrafo sulla dottrina del p. MONTUCLARD ci dispensa dal fare una diffusa analisi del
documento emanato nel 1984 dalla Congregazione per la dottrina della fede su certi punti della così detta
teologia della liberazione. I principii di tale teologia sono infatti identici a quelli del p. Montuclard che il
Santo Officio aveva già trafitti molti anni prima. L’acume dell’antico Santo Officio derivava da Prometeo,
non da Epimeteo: chi ha il senso dei principii ha parimenti il senso degli sviluppi futuri di una dottrina.
196 «L’ami du clergé», rivista diffusissima tra il clero di Francia, rispondendo a chi gli domandava perché il
decreto non fosse applicato in Francia, citava le prescrizioni dei vescovi «qui marquent une volonté
formelle d’appliquer et de voir appliqué partout le décret romain», ma non poteva negare il fatto generale e
tentava ridurlo a «quelque négligence» (op. cit., 1953, p. 267).
Geschichte der Philosophie, herausgegeben von der Akademie der Wissenschaften der URSS, Berlin
197
1967.
198 Basti ricordare la celebre lettera di LENIN a Massimo Gorkij in cui la religione è chiamata «un’infamia
indicibile e la più ripugnante delle malattie».
199 È superfluo osservare che questa parusia destinata ad avvenire in un mondo già maturato nella
perfezione è opposta ad litteram alla parusia descritta nella Scrittura con errori, fughe, odii, disastri.
200 Vedi R. AMERIO , Il sistema teologico di Tommaso Campanella, Milano-Napoli 1972, cap. VII, pp. 272
sgg.
201 Il vescovo di Cuernavaca in polemica con l’arcivescovo di Città del Messico, insegna che «dans la
variété dialectique de la pensée marxiste, on peut très bien être fidèle à Jésus-Christ et marxiste» e che «la
critique marxiste de la religion a contribué à libérer le christianisme de l’idéologie bourgeoise» (ICI, n. 577,
p. 54, 15 agosto 1982).
202 Note pour le document de base préparatoire à la deuxième Conférence de CELAM, Recife 1965.
203 E malgrado le condanne di Paolo VI e Giovanni Paolo II la teologia della liberazione continua a essere
predicata dai pulpiti e coi Mass-media. Così per esempio nella domenicale rubrica «La fede oggi» di cui è
responsabile la Conferenza episcopale italiana e consulente teologico Claudio Sorgi, il 29 agosto 1982 fu da
un prete sudamericano sostenuto che il Vangelo non condanna la violenza e che l’interpretazione
rivoluzionaria del Vangelo è la sola interpretazione vera.
204 Il 10 aprile 1968 alla televisione della Svizzera italiana fu domandato al card. B. GUT se la Chiesa attuale
debba ancora tenere scuole cattoliche. La risposta fu che ciò dipende dalle circostanze e che dove esiste una
buona scuola pubblica non occorre la cattolica. Il cardinale aggiungeva che tuttavia il Papa desidera che vi
siano comunque scuole cattoliche.
205 Nel Liceo cantonale di Lugano tra il 1898 e il 1930 gli insegnanti erano esuli politici, italiani che
parteggiavano gagliardamente, che erano stati segnati da veementi passioni ideali e anche da ingiusti
patimenti: fuggivano la rabbia altrui e la propria. Eppure tali uomini, quando poi entravano nella scuola,
sapevano deporre sul lido di quel procelloso mare onde uscivano tutte le loro passioni elevate e furiose.
Nessuno dei discepoli sentì mai non dico oltraggiate, ma nemmeno sfiorate da un’ombra di spregio le
proprie persuasioni religiose e civili.
207 Non meno esplicito mons. MARTINOLI, vescovo di Lugano, che agli alunni del Collegio Papio di Ascona
dice: «Vi chiedo di approfondire sempre più la conoscenza di Gesù, della Chiesa, della religione. Allargate
la conoscenza di altre religioni e correnti filosofiche che non sono in armonia col Cristianesimo». Vedi
Palaestra virtutis, Annuario del Collegio Papio di Ascona, 1971, p. 26.
208 Che non esista nel presente una cultura cattolica specifica e indipendente, ma che essa si risolva nella
cultura generale fu sostenuto, e senza opposizione, da P. EMMANUEL nel colloquio di Roma sulle radici
cristiane d’Europa (OR, 26 novembre 1981).
209 Si veda per esempio il manuale Images et récits d’histoire, Paris 1979, nel quale i condottieri della
persecuzione religiosa come Gambetta e Jules Ferry sono esaltati come «grandi» della patria.
210 Il domenicano Pfürtner a Friburgo in Elvezia, il prof. Franco Cordero alla Cattolica di Milano, quello di
Cuernavaca ecc.
212 «Non si può affermare che un individuo sia il suo proprio maestro e che egli insegni a sé stesso».
213 «Dei mali vi sono due forme di conoscenza: una, per la quale essi non sfuggono alla facoltà della mente;
l’altra, per cui entrano nei sensi mediante l’esperienza. Altra infatti è la conoscenza dei vizi che il sapiente
ha mediante la dottrina, e altra quella che ne ha l’insipiente mediante la sua vita pessima».
214 Vedi A. VICOLUNGO , Nova et vetera. Can. Francesco Chiesa, Edizioni Paoline, Alba 1961. Questo
sacerdote non meno insigne per dottrina che per carità pastorale fu inspiratore e cooperatore di don
Alberione, fondatore della Società di San Paolo per la stampa cattolica. La Società fu poi pubblicamente
biasimata due volte da Paolo VI per le sue deviazioni dottrinali. Si comprende perciò come la Compagnia
abbia tolto dal catalogo delle sue edizioni tutte le opere teologiche del servo di Dio.
215 Il Nuovo catechismo antico di FRANCO DELLA FIORE, saggio di autentico rinnovamento, edito dalla SEI dei
Salesiani e commendato da lettere della Segreteria di Stato, fu troncato poi per decisione dell’editore,
nonostante il successo di vendita. Fu riedito dalla ARES nel 1981 e nel 1985.
216 Sulla «miseria» dottrinale della catechesi neoterica, che fu denunciata dal card. RATZINGER nel discorso di
gennaio 1983 a Lione e a Parigi, vedi § 68.
217 Questa accusa di autoritarismo può sembrare strana oggi che ogni predicante affaccia le sue opinioni
nuove e infondate e non teme di contrapporle alla dottrina perpetuamente insegnata dalla Chiesa. Un tempo
i fedeli si trovavano di fronte l’autorità della Chiesa, oggi quella dei predicanti.
218 Dalla pluralità dei catechismi della religione cattolica si viene a un vero sincretismo religioso: già in
molte scuole tenute da religiosi accanto alla religione cattolica si insegnano le altre religioni in servizio di
acattolici o di non cristiani.
219 La cosa è notata anche da E. CASTELLI nell’introduzione al Catechismo del Rosmini, ed. naz., vol. XLV:
«Oggi i catechismi si susseguono con varianti più o meno accettabili in seno alla Chiesa cattolica».
220 Vedi lettera 28 ottobre 1964 di mons. MARTINOLI, vescovo di Lugano, all’ing. Walter Moccetti che gli
significava di aver ritirato il figlio dall’insegnamento religioso.
221 Anche nell’incontro col Papa nell’udienza generale del 28 agosto 1982 l’esponente dei catechisti della
diocesi di Roma non seppe proporre se non un convegno generale (OR, 29 agosto 1982).
223 «Non sarebbe catechesi, se il Vangelo stesso si mutasse quando viene a contatto delle culture».
224 Effetto generalissimo e visibilissimo della riforma antimemoria della catechesi è che i bambini ignorano
Pater e Ave Maria non insegnati loro né dalle mamme né dai parroci. Così mons. MARTINOLI, vescovo di
Lugano, nell’omelia del 20 maggio 1973 nella Cattedrale di Lugano. Similmente mons. ORCHAMPT,
presidente della Commissione episcopale per la catechesi in Francia, domanda che si torni ad apprendere ai
fanciulli Pater e Ave Maria. Vedi M. GILLET, Notre catéchèse, Paris 1976.
226 Nel corso del caso Charlot, di cui dicemmo, il vescovo Elchinger uscì dalla commissione episcopale per
disaccordo su punti dogmatici.
228 Seguendo questo indirizzo pedagogico si approda all’assurdo che i fanciulli si accostano agli apocrifi e
ai logia di Cristo mentre non conoscono Credo, sacramenti e i principali misteri della fede.
229 Il testo integrale della conferenza è pubblicato dall’editore Téqui, Paris 1983, sotto il titolo Transmission
de la foi et source de la foi.
230 Poco tempo dopo il discorso del card. Ratzinger il Papa, parlando al Consiglio internazionale per la
catechesi, riaffermava il legame essenziale della catechesi col dogma. Compito della catechesi (diceva) è
«trasmettere, spiegare e far vivere integralmente le realtà espresse nel Simbolo di fede» (OR, 16 aprile
1983).
231 E si badi che queste tre letture di un identico testo vengono anche tipograficamente differenziate
adoperandosi tre colori per contrassegnarle.
232 La ruina maggiore appare nei Domenicani da dieci a seimila, nei Cappuccini da sedici a dodicimila, nei
Gesuiti da trentasei a ventiseimila, nei Salesiani da ventidue a diciassettemila.
233 Lo spirito di novità produce anche disaffezione al Fondatore di cui si abbandonano anche i luoghi. Nel
1870 Pio IX propose a don Bosco di trasferire l’opera da Torino a Roma domandandogli: «La vostra
congregazione ne perderebbe?», e si sentì rispondere dal Santo: «Santo Padre, sarebbe la sua rovina»
(Memorie biografiche di don Bosco, vol. IX, p. 319). Ma nel 1972 il Capitolo Maggiore dei Salesiani si
trasferì a Roma e il Rettore dichiarò testualmente: «Ciò che allora sarebbe stato la rovina pei Salesiani cento
anni dopo mutata radicalmente la situazione diventa una necessità» (OR, 9 giugno 1972). Né vale asserire
che Torino continua ad essere il centro spirituale e che lo sarà più di prima. Qui c’è abuso di vocaboli: non
può un centro restare il centro quando gli organi centrali vanno via.
235 Anche il card. C IAPPI in OR del 3 luglio 1981 denunciò le deviazioni della riforma sotto pretesto di
adattamento al mondo.
236 Questi motivi sono tratti dai piani di rinnovamento dei Salesiani dell’America Latina in «Bollettino
salesiano», settembre 1978, pp. 9-12. Ma sono comuni a tutti i capitoli di riforma (OR, passim).
238 Anche nel convegno dell’Unione Superiori generali svoltosi a Grottaferrata in maggio 1981 alla
presenza del card. Pironio fu proclamato che il rinnovamento «affonda le sue radici non tanto in certi
cambiamenti più superficiali che sostanziali, ma nell’autentica rivoluzione copernicana avvenuta col modo
concreto con cui oggi i membri degli istituti si interrogano come religiosi». Qui affiora il motivo della
variazione catastrofale di cui dicemmo ai §§ 53-4. Molto singolare è anche l’affermazione che «il carisma
di un istituto ce lo dirà la sua storia». Sembra che la storia di un istituto, che è l’esplicazione del carisma del
Fondatore, sia invece la matrice del di lui carisma (OR, 11 giugno 1981).
239 «Ma se vogliamo arrivare alla vita eterna fuggendo le pene della geenna, dobbiamo correre, mentre c’è
tempo e ancora viviamo in questo corpo, e dobbiamo operare adesso quello che ci conviene in perpetuo».
240 Questa verità è oggi negata da laici e da preti. Mons. RIBOLDI, vescovo di Acerra, al simposio di Lugano
su Vangelo e società ha condannato chi crede che l’appartenenza alla Chiesa si riduca a un impegno di
perfezione religiosa e alla ricerca della propria salvezza.
241 Epistolario completo, vol. VI, p. 92, Casale Monferrato 1890, lettera al p. G. B. Reynaudi.
242 Una visione ampia e distinta della riforma degli ordini religiosi secondo i neoterici diedero i Cappuccini
della provincia elvetica in un grande servizio diffuso dalla Televisione svizzera il 7 aprile 1982. Le riforme
intervenute sono state presentate tutte sotto una formula generale. Le deviazioni dalla Regola sarebbero
modi nuovi di seguire la Regola e così, violando la Regola, si interpreterebbe autenticamente il Fondatore
san Francesco. Furono esibiti come valori l’esperienza di Cappuccini che, tornati dalle missioni,
abbandonano la loro comunità e lasciano ogni attività propria dei religiosi, dichiarano di voler entrare in una
nuova esperienza di ricerca di Dio, si traggono a vita vagabonda o a vita eremitica, eludono le obbligazioni
professate, seguono come principio la fede nell’uomo, intraprendono opere di filantropia e ciò facendo
proclamano di non intendere opere cattoliche bensì opere di gente accomunata nella fede dell’uomo. La
povertà poi non consiste (dicono) nella spogliazione della ricchezza ma nella condivisione della ricchezza.
Così confondono, al solito, le essenze, facendo della povertà per imitazione del Cristo la virtù di carità per
amore dell’uomo.
244 Per recepire il divario tra l’antica e la moderna disciplina giova R. THOMAS , La journée monastique,
Paris 1983, che descrive l’uso cistercense.
245 Il vino era spesso di qualità scadente. DON Bosco, per esempio, acquistava i fondi del mercato e ancora
li annacquava, onde celiando diceva: «Ho rinunciato al diavolo, ma non alle pompe». In Memorie
biografiche, vol. IV, p. 192 (edizione fuori commercio). Ma la scrittura in proposito più significativa è la
Apologia ad Guillelmum abbatem di san BERNARDO, dove si trova una vivida pittura delle rilassatezze della
vita monastica nel secolo XII. La si legge ora nel primo tomo dell’Opera omnia edito dallo Scriptorium
Claravallense, Milano 1984, pp. 123 sgg. E vedi quanto ne tratto nella Introduzione, pp. 139-43.
246 Per queste cinque citazioni rosminiane vedi Epistolario ascetico, Roma 1913, vol. I, p. 308; vol. III, p.
255; vol. III, p. 91; vol. I, p. 567; vol. III, p. 211. Quello che fosse l’obbedienza religiosa e come il Superiore
si facesse un dovere di esigerla appare dalla lettera con cui san FILIPPO NERI escludeva dalla successione due
suoi religiosi, altrimenti distinti, per difetto di questa virtù. La lettera è nell’articolo di N. VIAN in OR, 16-7
novembre 1981.
247 «Fa che le menti dei fedeli abbiano un’unica volontà». Liturgia della Domenica IV dopo Pasqua.
248 Le tre proposizioni sono paralogiche se si prendono senza glossa, ma divengono vere se si intendono con
la condizione dell’assolutezza. Infatti nessun ente finito è perfettamente, cioè quanto è possibile essere.
Nessuna cosa è conoscibile perfettamente, cioè quanto è conoscibile; e nessuna è esprimibile perfettamente,
cioè quanto è esprimibile.
249 «Il vero e genuino valore della conoscenza umana e la possibilità di conseguire la verità in modo certo e
immutabile».
250 «Col lume naturale della umana ragione si può conoscere con certezza Dio come principio e fine di tutte
le cose».
251 Felice è in proposito la formula di GIOVANNI PAOLO II nel discorso al CERN durante la visita a Ginevra:
«Bisogna riunire la ricerca della verità e la certezza di già conoscere la fonte della verità» (OR, 16 giugno
1982).
252 Questa fissità dello spirito nella verità è riguardata come un male e i vescovi di Francia nel loro Missel
pour les dimanches 1983 fanno pregare «pour les croyants qui sont tentés de s’installer dans leurs
certitudes».
253 Ne diedero un ampio ragguaglio ICI, n. 506, p. 40, settembre 1976, che sono il più diffuso organo
francese della corrente neoterica.
255 «E ha abbandonato il mondo alle loro dispute in guisa che non può l’uomo conoscere l’opera di Dio dal
principio alla fine».
256 Il card. R O Y in OR, 15 marzo 1971, considerò il dialogo come un’esperienza nuova non pure della
Chiesa, ma del mondo. Per converso in OR, 15-6 novembre 1966, si sostiene che la Chiesa praticò sempre il
dialogo (confondendo col dialogo la controversia e la confutazione) e che se talvolta non lo praticò «si
tratterà di stagioni più o meno depresse».
258 «Ecco donde generalmente prende forza l’errore, dal fatto che talvolta gli uomini sono capaci di
formulare quesiti, ma incapaci di intenderne la soluzione».
259 LAGRANGE nel commento a Matteo (Parigi 1927) p. 144 traduce la prima voce per enseigner e la seconda
per apprendre.
260 Epistolario, vol. VIII, Casale 1891, p. 464, lettera dell’8 giugno 1843 alla contessa Teodora Bielinski.
261 La teoria dell’ignoranza utile è svolta dal MANZONI nella Morale cattolica, ed. cit., vol. II, pp. 422-3 e
vol. III, p. 131.
262 Così anche l’Istruzione per il dialogo 28 agosto 1968 del Segretariato per i non credenti.
263 Anche il card. K Ö N I G presentando alla stampa la citata Istruzione dichiarò: «Le dialogue met les
interlocuteurs sur un pied d’égalité. Le catholique n’y est pas considéré comme celui qui possède toute la
vérité mais comme celui qui, ayant la foi, recherche cette vérité avec les autres, croyants et non croyants»
(ICI, n. 322, p. 20, 15 ottobre 1968).
264 «Così il genere umano passa da una nozione piuttosto statica della realtà a una nozione più dinamica ed
evolutiva».
265 «La Chiesa dunque proclama i diritti degli uomini e riconosce e apprezza il dinamismo del nostro tempo
che promuove in ogni modo questi diritti».
268 Nel volume di AA.VV., Il problema di Dio in filosofia e in teologia oggi, Milano 1982, p. 34, L. SARTORI
ritiene plausibile che se Dio è concepito come amore e libertà, «le dimensioni di storicità [= divenire] che
egli eventualmente assumesse, appunto non per necessità, ossia per bisogno di “acquistare” o di “crescere”,
ma soltanto per libertà, non si vede come debbano intaccare la sua infinita perfezione». Ma è chiaro che la
libertà di Dio non può estendersi alla sua essenza perché la libertà non può far divenibile l’indivenibile, né
imperfetto il Perfetto.
269 Basta conoscere la distinzione tra beatitudine essenziale e beatitudine accidentale e aver letto il Paradiso
di DANTE per togliere di mezzo questo mobilismo in termino.
270 Tutto il carteggio dell’affare aperto con la mia lettera a ICI del 18 febbraio 1968 e chiuso con la suddetta
preferenza, trovasi tra i materiali di Iota unum.
271 «Né può elevarsi a Dio né può riconoscer l’esistenza di Dio in quel qualunque modo in cui si manifesta
attraverso le cose visibili».
272 Ogni scienza infatti riceve da altre scienze cognizioni che essa non dimostra ma crede a quelle altre
scienze da cui le riceve. Anche nelle scienze le cognizioni dell’uomo sono fondate sulla fede che uno
scienziato presta a un altro. Così d’altronde avviene nella vita comune e sociale.
273 Edizione di Francoforte 1778, p. 10. Esplicita il senso della parabola il passo di p. 9: «Nicht die
Wahrheit, in deren Besitz irgend ein Mensch ist oder zu sein meint, sondern die aufrichtige Mühe, die er
angewandt hat, hinter die Wahrheit zu kommen, macht den Wert des Menschen».
274 «Quaerite ergo primum regnum Dei et iustitiam eius» (Matth., 6, 33).
275 Morale cattolica, ed. cit., vol. II, pp. 544-5, per l’analisi della teoria manzoniana vol. III, pp. 358-9.
277 La confusione dei concetti teologici si combina poi spesso con il circiterismo proprio della mentalità
postconciliare che mette sotto un medesimo vocabolo idee disparate. In OR del 30 marzo 1983 per la penna
di un vescovo si asserisce che non basta credere in Dio, è necessario credere nell’uomo, perché Dio ha
creduto nell’uomo, in Adamo, in Eva, negli Apostoli, in Giuda ecc. «tanto è vero che ha tentato in ogni
modo di salvarli». Qui oltre che contraddire la Scrittura (Ier., 17, 5) e disattendere la distinzione classica tra
credere Deum, credere Deo e credere in Deum, si prende manifestamente credere per amare, consumando
un’equivocazione per la quale si potrebbe dire tutto di tutto.
278 Questa è anche la dottrina di D. FLUSSER , Jésus, traduz. francese, Paris 1970, pp. 92 sgg. Ma basta
conoscere alquanto la storia per riconoscere quanto piccola sia la novità nelle escogitazioni moderne. La
dottrina della vita come amore è una variante dell’eresia degli Eticoproscopti combattuta dal Damasceno.
279 «Il vizio sorge quando alcuno confida preferenzialmente in sé stesso e prende sé stesso come capo della
propria vita».
280 Per esempio il cattedratico di teologia pastorale all’Università di Tubinga, sconfessato dal suo vescovo
(OR, 17 maggio 1973).
281 Tipico è il fatto del padre CURRAN , uno dei discepoli più noti del padre Häring, divenuto l’esponente
della problematica cattolica negli Stati Uniti. Avendo insegnato che «la legge naturale e i precetti morali
sono in continua evoluzione» fu destituito dall’arcivescovo di Washington. Ma seimila studenti e
quattrocento professori protestano in suo favore e il medesimo arcivescovo lo restituisce alla cattedra (ICI,
n. 288, p. 7, 15 maggio 1968).
284 Questa tesi della morale indipendente fu sostenuta nel convegno di Pax Romana in settembre 1982 a
Roma. Nel documento di base si dice che «la coscienza etica fa valere le sue esigenze a partire da sé stessa,
senza appoggiarsi su una base religiosa o metafisica» (OR, 12 settembre 1982).
285 GIOVANNI PAOLO II nel discorso del 9 novembre 1982 a San Giacomo di Compostella ha tuttavia
considerato l’unità europea come ancora in essere e come essenziata di valori cristiani (OR, 10 novembre
1982).
288 Per l’antico SENECA, De providentia, II, I e per il moderno B. CROCE, Filosofia della pratica, IV ed., Bari
1968, p. 233.
290 «I patimenti della presente vita non si possono paragonare colla futura gloria».
291 «Quella che nella presente vita è momentanea e lieve tribolazione opera in noi nel cielo uno smisurato
peso di gloria».
292 Tutto questo sviluppo è inspirato alla trattazione che di questo punto fa il MANZONI nella Morale
cattolica, Parte Prima, cap. III, ed. cit., vol. II, pp. 47 sgg.
293 Anche erronea è dunque l’opinione secondo la quale il cittadino cattolico che esige dalla legge civile il
matrimonio indissolubile eserciti violenza contro la coscienza di chi invece lo vuole dissolubile. Se il
divorzista ha diritto a un matrimonio civile dissolubile, un eguale diritto ha il cattolico a un matrimonio
civile indissolubile. Se la legge non gli offre un tal matrimonio egli è sfavorito. Il suo matrimonio civile sarà
di fatto indissolubile (per la sua propria volontà) ma di diritto no e dunque non esiste parità fra i due.
294 Questo pensiero è del ROSMINI, Filosofia del diritto, n. 1336. Ed. naz., vol. XXXVIII, p. 1107, nota.
295 La Santa Sede si trovò costretta a colpire di condanna e smonacazione suor Agnese Mansour che aveva
accettato di dirigere un centro di interruzione della gravidanza di Detroit. La religiosa oppose
all’intimazione del vescovo che, poiché la legge autorizza l’aborto, non poteva arrogarsi il diritto di opporsi
alla legge («L’actualité religieuse», 15 giugno 1983, p. 24).
296 Ancora lo HABERT nella Theologia dogmatica et moralis, Venezia 1770, vol. VII, p. 494: «Medicum non
solum posse, sed etiam debere foetum eiicere, si saluti matris aliter consuli non possit». La teoria
dell’animazione o ominizzazione tardiva dell’embrione fu ripresa da mons. LANZA nel 1939, argomentando
dai gemelli monozigoti. L. GEDDA, in OR, 12 agosto 1983, Quando incomincia la vita umana, esclude la tesi
dell’animazione tardiva.
297 Decisivi sono i risultati del prof. BLECHSCHMIDT dell’Università di Gottinga. Egli ha fatto settecento
sezioni di un embrione di 7 mm. e trattene duemila fotografie: l’embrione è differenziato a ogni livello.
Vedi E. BLECHSCHMIDT, Wie beginnt das menschliche Leben, Stein am Rhein 1976, p. 11.
298 Nel colloquio pubblico sull’aborto, riferito da «Le Monde» del 19 gennaio 1973, il padre ROQUEPLO
dichiara: «il est douteux que la vie de l’embryon soit une vie humaine». E il padre RIBES sostiene che, dato
quel dubbio, «non seulement on n’a pas le devoir, mais on n’a pas le droit de le taire naître».
299 I casisti del secolo XVII, come già dicemmo, ammettevano la liceità dell’aborto e anzi in taluni casi
persino l’obbligatorietà sua perché la scienza naturale del tempo riteneva che il feto ricevesse la forma
razionale, che lo fa umano, solamente al terzo mese. Infatti le idee morali del genere umano dipendono
anche dalle idee che gli uomini si fanno sulle cose naturali.
300 Il RAMSEY in OR, 28 agosto 1971, nota che il 40% dei nati non sono voluti. Ma sbaglia non distinguendo
tra il volere che un bambino sia concepito e il volere che concepito nasca. Più profondo di tutte le
psicologie moderne è anche qui sant’AGOSTINO nelle Confessioni dove a proposito di Adeodato osserva
che i figli anche non voluti appena nati costringono ad amarli.
301 Innumerevoli sono i voti in favore dell’aborto da parte di associazioni cattoliche, assemblee di preti e
Consigli pastorali. Vedi per esempio quello del Consiglio pastorale della città di Liegi che fu subito disdetto
da quel vescovo ma non si disdisse. Vedi «Itinéraires», n. 181, p. 77.
302 L’errore dipende da una concezione metafisica caratterizzata dalla negazione delle essenze. Nella madre e
nel figlio vi è un’isotimia essenziale, perché nell’una e nell’altro vi è identica essenza. L’accidentale quantità
di essere (ce n’è di più nella madre) non differenzia il valore delle persone.
303 Molte conquiste dell’ostetricia moderna sono da attribuire alla pressione esercitata su di essa dalle idee
morali della Chiesa. L’ideale è il perfetto combaciamento delle tecniche eutociche con l’imperativo morale.
«Non fa differenza distruggere una vita già nata o disperderne una nascente: anche chi sarà uomo è già
304
uomo».
305 Analogo a quello del De fuga, 5: «si negaturus es, iam negasti». Presa a rigore la formula è la
distruzione del tempo.
306 Circa il battesimo degli abortivi è notevole, come indizio del generale scadimento della scienza teologica
negli ecclesiastici, il parere dato da padre GINO CONCETTI, redattore dell’«Osservatore Romano». Consultato
dal «Giornale nuovo» del 5 giugno 1981 sul punto degli abortivi, egli insegnava un metodo di battesimo
assolutamente invalido. Fu corretto il 17 giugno nello stesso foglio da un laico facilmente meno indotto di
lui.
307 È ormai diventato costume di celebrare il suicida nell’omelia della Messa esequiale. Essendosi con
volontaria morte soppresso un ventenne, il rettore di un istituto ecclesiastico che lo aveva avuto come
alunno nel discorso pronunciato ai funerali dello sventurato ringraziò il suicida per il bene sparso attorno a
sé e gli domandò perdono per le colpe che nel gesto avevano i superstiti (Virtutis palaestra, Ascona 1983,
p. 121). È la dissoluzione della responsabilità personale dentro al peccato della società, cioè degli altri. E
quando in agosto 1983 un giovinetto sedicenne si uccise a Roma con la sua amante, gli furono prestati i riti
religiosi e pronunciato l’elogio (OR, 6 agosto 1983). Molto più vere e schiette le parole che sulla tomba del
dott. Giuseppe Zola, sepolto come suicida fuori del camposanto, pronunciò a Lugano nel 1834 Giacomo
Luvini-Perseghini, uno dei capi del partito radicale del Ticino: «Noi speriamo che il Dio dei nostri padri, di
cui la misericordia è infinita, vorrà perdonare l’errore di un istante a colui la cui vita fu onorata di molte
virtù».
308 Tale opposizione è divenuta quasi generale e la pena capitale è riguardata di per sé come un’ingiustizia.
Molti Stati membri del Consiglio d’Europa hanno firmato nel 1983 un protocollo addizionale alla
Convenzione europea dei diritti dell’uomo con cui si obbligano ad abolire nelle loro leggi la pena di morte
(RI, 1983, p. 1077).
309 È dunque falso l’asserto di suor ANGELA CORRADI, apostola dei carcerati, al Meeting di Rimini (OR, 25
agosto 1983): il carcere sarebbe l’occasione per «schiacciare definitivamente» un uomo. Secondo la
religione è impossibile all’uomo schiacciare definitivamente un uomo.
311 Il discorso che il ROSMINI disse sul palco della giustizia a Rovereto di Trento si legge in Opere, Milano
1846, vol. XXVII, pp. 132-84.
312 Furono pubblicate da A. M. Lemonnier con il titolo Lumière sur l’échafaud, Paris 1971.
313 Summa theol., Index, alla voce mors (ed. Torino 1926). «La morte inflitta come pena per i delitti leva
tutta la pena dovuta per i delitti nell’altra vita, o per lo meno parte della pena in proporzione della colpa, del
patimento e della contrizione. La morte naturale invece non la leva».
Sommamente rivelatore è al proposito quel che si legge nelle Relazioni della Compagnia di S. Giovanni
314
Decollato di Roma sotto il giovedì 16 febbraio 1600, circa il supplizio di Giordano Bruno. Gli furono
accostati ben sette confessori, domenicani, gesuiti, dell’Oratorio e di S. Gerolamo affinché dove non
riuscisse la spiritualità di un genere, avesse per avventura accoglienza quella di un altro. V. SPAMPANATO,
Documenti della vita di Giordano Bruno, Firenze 1933, p. 197. A questo proposito si veda il libro di V.
PAGLIA , La morte confortata, Roma 1982, specialmente il cap. VII, La morte del condannato esempio della
morte cristiana.
315 «Che cosa infatti si trova da condannare nella guerra? Forse il fatto che uomini destinati in ogni caso a
morire vi muoiono per domare uomini destinati a vivere in pace? Condannare questo è proprio di uomini
privi di fortezza, non di uomini religiosi. Le cose che si condannano nella guerra sono la volontà di far del
male al nemico, la crudeltà della vendetta, l’animo implacato e implacabile, la ferocia nella ribellione, la
brama di dominio e altre simili cose».
316 Questa condanna della guerra immoderata ha un analogo nella condanna che il Concilio Laterano II
sotto Innocenzo II fulminò nel 1139 contro «artem illam mortiferam et Deo odibilem ballistariorum et
sagittariorum». La condanna prova lo svolgimento della coscienza morale che viene perfezionandosi nelle
varie relatività storiche. Prova tuttavia anche l’inefficacia dell’azione della Chiesa in questo campo,
inefficacia non dissimile da quella delle proscrizioni della guerra decise nel Patto del 1919, nel Patto
Briand-Kellogg del 1928 e nello Statuto dell’ONU del 1945.
317 Nel 1977 URSS e USA hanno firmato a Ginevra una convenzione per la rinuncia alla guerra
meteorologica. Gli SU infatti nella guerra del Viet-Nam resero impraticabile la pista Ho Chi-minh gettando
cinquantamila recipienti di ioduro d’argento e neve carbonica per produrvi la pioggia.
318 È la libertà di cui SENECA , Epist., LXXIII, 9 ringraziava il principe e che viene esaltata da G. FERRERO,
Discorsi ai sordi, Milano 1920. Viceversa per il R OSMINI , Filosofia del diritto, § 2154, la coscrizione
obbligatoria è «il maggior beneficio» lasciato all’Europa dall’Impero Napoleonico (Ed. naz., vol. XXXIX, p.
1426).
319 Questo elemento fortuito nel destino di un condottiero fu riconosciuto dagli antichi, che fra le doti del
capo, oltre l’autorità e la perizia, ponevano la felicitas o fortuna, come si vede nell’elezione di Pompeo per
la guerra contro Mitridate: CICERONE, Pro lege Manilia. Anche Napoleone faceva gran conto della fortuna e
parlando del generale Mack, sconfitto a Ulma nel 1805, diceva: «È un inetto: peggio ancora, ha una cattiva
stella».
320 Tali furono nell’ultima guerra la difesa di Stalingrado ad opera del von Paulus e quella dell’isola Attu
dove i duemila Nipponici che la presidiavano contro soverchiami forze, rimasero sul terreno uccisi o
uccisisi nessuno sopravvivendo vinto. Si noti d’altronde che la guerra senza quartiere e la difesa a oltranza
sono proibite nelle Convenzioni dell’Aia del 1907 e del 1899.
321 Discorso del 19 ottobre 1953 alla XVI sessione dell’Ufficio internazionale di documentazione di
medicina militare, in Discorsi ai medici, IV ed., Roma 1960, p. 307.
322 M. V I S M A R A , L’azione politica dell’ONU 1946-1974, Padova 1983, mostra con amplissima
documentazione che l’unico chiaro successo dell’ONU fu la soluzione del problema del Congo, perché fu
ottenuto con l’uso della forza, impiegandovi quindicimila uomini che in tempo relativamente breve ebbero
ragione della secessione del Katanga di Ciombe e del Kisai di Lumumba. La ferma azione del Segretario
generale Hammarskjöld ebbe effetto grazie all’uso della forza militare internazionale.
323 Il primo ha un soggetto universale, il secondo l’ha individuale. GARRIGOU-LAGRANGE, Dieu, Paris 1933,
pp. 609 sgg.
325 MANZONI, Morale cattolica, Parte Prima, ed. cit., vol. I, p. 35.
327 OR, 18 agosto 1983, come fa altre volte, falsifica nel titolo il contenuto del discorso papale: «La
coscienza morale è il luogo del dialogo di Dio con l’uomo». No, non c’è in tutto il discorso nemmeno una
volta il vocabolo dialogo. Il Papa insegna al contrario e con forza che la coscienza è il luogo dove l’uomo
ascolta, accetta, obbedisce la voce di Dio: non dialoga, deve solo ascoltare.
329 Principii della scienza morale, cap. v, art. 2, ed. naz., vol. XXI, p. 170.
330 «Buona dunque è l’intenzione non perché sembra buona, ma perché, oltre a ciò, essa è realmente tale
quale sembra, quando cioè non si inganna nella stima che fa di quello a cui tende per piacere a Dio».
333 Il senso comune non ammette che un uomo sia dannato per un’unica caduta solo perché la morte lo
coglie in quel punto. E se il destino morale è in punto, come si dovrà intendere che l’uomo risponderà di
tutte le sue azioni? Sembra che dovrà rispondere solo dell’ultima. E come si intenderà il biblico «Hai messo
il colmo alle tue iniquità»? e il thecel di Dan., 5, 27: «Sei stato posto sulla bilancia e sei stato trovato
calante»? Il motivo della bilancia è comune nelle arti figurative che concepiscono il giudizio non come una
puntualità, bensì come una somma netta. In favore della puntualità sta peraltro l’umana giustizia i cui
verdetti son fondati sul principio della puntualità: per l’atto di un sol momento l’assassino vien privato della
libertà e talora della vita.
334 «Per consenso generale di credenti e non credenti tutte le cose del mondo si devono ordinare all’uomo
come alla loro cima e al loro centro».
335 «L’uomo è nel mondo la sola creatura che Dio abbia voluta per sé stessa». La traduzione italiana
corrente volta erroneamente per sé stesso travolgendo il senso e annullando la variazione della dottrina.
GIOVANNI PAOLO II citò il testo latino in un discorso sull’amor coniugale (OR, 17 gennaio 1980).
337 «Non solo sono mezzi al fine ultimo dell’uomo, ma hanno anche un proprio valore inserito loro da Dio,
sia se si considerino in sé stesse, sia come parti dell’universo ordine temporale».
338 «Per una speciale relazione che esse hanno colla persona umana in servizio della quale sono state
create».
339 «Non priva l’ordine temporale della propria autonomia... anzi lo perfeziona».
340 Cooperative e organice sono i termini usati da san Tommaso nel commento all’Etica a Nicomaco, lib. I,
lect. xv.
341 «Non perché noi siamo capaci di pensare alcuna cosa da noi stessi, come per forza nostra, ma la nostra
capacità vien da Dio».
342 Lo tocca invece Paolo VI nel discorso di apertura e in quello di chiusura del IV periodo. Qui peraltro
l’amor del prossimo è posto come condizione dell’amor di Dio.
344 Onde san BONAVENTURA : «Assumptio humanae naturae plus fecit ad perfectionem universi quam
angelicae», In III Sent., dist. II, art. I, q. 2.
345 Dottrina del ROSMINI, Filosofia del diritto, Trattato della società teocratica §§ 620 sgg., p. 884 del vol.
XXXVIII dell’ed. naz. Questa dottrina rimuove anche le aporie inerenti alla questione del numero degli eletti
un tempo vivamente dibattuta: il fine della Redenzione è raggiunto qualunque sia il numero dei salvati,
essendo in qualunque numero riparata dal Cristo l’offesa fatta al Padre.
346 Il concetto è nuovo e non si trova, per esempio, nel Codice sociale, elaborato dall’Unione internazionale
di studi sociali (Rovigo 1927).
347 Per esempio la Costituzione della Repubblica italiana all’art. I: «L’Italia è una Repubblica fondata sul
lavoro».
348 LECH WALESA, capo dei sindacati polacchi indipendenti, in una intervista televisiva di aprile 1981 alla TV
italiana dichiarò letteralmente: «Io come operaio desidererei lavorare il meno possibile».
349 La Nova Atlantis, in Opera latine reddita, Londinii 1638, t. I, p. 375. «Spostare i termini del dominio
dell’uomo dilatandolo a tutto il possibile».
352 «Qui uomini della Terra hanno posto piede per la prima volta. Luglio 1969 A.D. Siamo venuti in pace
per conto di tutti gli uomini». La sola traccia di religione è nella sigla della data.
353 Anche don ACETI, teologo dell’Università cattolica di Milano, intervistato in «Europeo» del 27 luglio, a
chi gli opponeva la religiosità dell’impresa di Colombo nel confronto dell’attuale, replicava: «la presenza
dell’uomo nell’universo è presenza di Cristo».
354 L’enciclica Laborem exercens del 14 settembre 1981 al n. 2 dichiara appunto che si devono ritrovare
nuovi significati e nuove funzioni del lavoro umano.
355 Nella citata enciclica l’affermazione è temperata da quodam modo. Vedi anche il discorso in OR, 17
maggio 1981.
356 «Col proprio lavoro l’uomo può cooperare a perfezionare la divina creazione. Anzi siamo persuasi che
col proprio lavoro offerto a Dio l’uomo si associa all’opera redentrice di Gesù Cristo, che al lavoro conferì
eminente dignità lavorando a Nazareth con le proprie mani».
357 Il rettore della Lateranense in «Lavoro», organo dei sindacati cristiano-sociali ticinesi, 19 dicembre 1969.
Quello che spetta alla grazia qui viene trasferito alla tecnica. L’intemperanza dell’entusiasmo esegetico per
Laborem exercens è massima in OR, 28 ottobre 1981, in un articolo di G. FERRARO dove si esalta «il
carattere pasquale del lavoro» grazie al quale l’operaio parteciperebbe e rinnoverebbe il mistero della morte
e resurrezione di Cristo. La partecipazione alla morte sarebbe data dalla fatica inerente al lavoro (ma
faticare non è morire), mentre la partecipazione alla resurrezione consisterebbe nel «mondo nuovo che il
lavoro contribuisce a realizzare». È ovvio che staccando le parole dal loro senso e i concetti dalla loro
coerenza è possibile dire tutto di tutto.
358 La novità spiega anche lo stupore per l’udienza ai metallurgici data dall’arcivescovo MONTINI sotto una
statua di Cristo operaio con falce e martello.
359 Il LAGRANGE nel commento a Luc., 21, 37 osserva che il verbo con cui son indicati i pernottamenti di
Gesù «marque l’installation de fortune de qui n’est pas chez soi».
360 Già nel 1960 nei sobborghi di Roma fu istituita la parrocchia di Gesù divino lavoratore. Ma la Chiesa
non ha mai festeggiato i Santi che per titoli religiosi (confessore, dottore, martire ecc.) e il decreto di Pio
XII per san Giuseppe è una novità.
361 Questa esaltazione della creatività del lavoro appare singolare in un sistema in cui la partecipazione
soggettiva dell’operaio all’opera scema del continuo. Un tempo l’artigiano faceva tutta o quasi tutta o gran
parte della sua opera. Oggi l’operazione di un lavoratore in una fabbrica è in media di un minuto e il suo
effetto è una frazione infinitesima del prodotto finale. Per elevare il significato personale del lavoro
bisognerebbe ampliare l’oggetto. Il disvalore infatti cresce a mano a mano che cresce la parte della
macchina nel lavoro. Il Papa espose il problema del rapporto tra macchina e uomo nel discorso del 16 giugno
1982 al Bureau International du travail a Ginevra, ma ne rimise, un po’ inaspettatamente, la soluzione alla
tecnica. Ricorri per la macchina al § 210.
362 «Si perfeziona come uomo, anzi diviene in qualche modo più uomo».
363 Prese nel loro rigore queste parole negano la vita di orazione e, come vedremo, la vita contemplativa. I
contemplativi, che certo non lavorano, non raggiungerebbero la vera dimensione umana.
364 La medesimezza delle due attività umane è insinuata al n. 16 dell’enciclica: «Labor, multiplicem
secundum huius vocis sensum, officium est sive obligatio». Lavoro e attività intellettuale stanno in un’unica
classe. E si può dire che il lavoro è un dovere dell’uomo, ma non già dell’individuo. Vecchi, bambini,
malati, invalidi non hanno il lavoro per obbligo. Il dovere di lavorare incombe all’uomo come specie (al pari
della procreazione), non a ciascun individuo. La tesi della non obbligatorietà del lavoro trovasi alla base
della fondazione degli ordini Mendicanti e fu contestata contro san Tommaso e san Bonaventura da
Guglielmo di Sant’Amore che sosteneva dovere i frati, in forza del voto di povertà, lavorare con le mani per
procurarsi il vitto. L’Aquinate nel Quodlibetum VII, art. 17 e 18, risponde che, poiché attendono alle attività
intellettuali, i Mendicanti sono dispensati dall’obbligo del lavoro manuale, se hanno e perché hanno chi
sopperisce loro il sostentamento. La dottrina di Guglielmo di Sant’Amore che avrebbe annientato gli ordini
Mendicanti fu condannata da Alessandro IV.
365 L’artista medievale, spesso anonimo, creava forme di bellezza non affinché servissero agli uomini, ma
perché cantassero la gloria di Dio. Onde nelle cattedrali egli poneva sovente le sue statue sotto le volte
senza battesimo di luce rendendole invisibili agli uomini per cui non erano fatte.
366 Si osservi che i due generi sono differenziati dalla prevalenza e non dall’esclusività dei due tipi di
attività. Non si dà vita contemplativa senza qualche esercizio di vita attiva né vita attiva senza qualche
elemento di contemplativa.
367 «È manifesto che la vita attiva impedisce la contemplativa essendo impossibile che uno si occupi nelle
azioni esterne e attenda simultaneamente alla contemplazione del divino».
368 Su questo punto sono notevoli le pagine di G. RENSI, L’irrazionale, il lavoro, l’amore, Milano 1923, pp.
195 sgg.
369 La celebrazione dell’otium come suprema aspirazione dello spirito è frequente nei pagani e si ricordi per
tutti l’ode oraziana II, XVI. Ma non meno nei cristiani: PETRARCA, De otio religioso.
370 In questo § seguo la dottrina del ROSMINI, Antropologia soprannaturale, lib. II, cap. 6, art. 10, ed. naz.,
vol. XXVII, pp. 308 sgg.
371 Per tutto questo sviluppo vedi Morale cattolica, ed. cit., vol. III, pp. 83 sgg. Per la citazione vol. II, p.
478.
372 La manifestazione più aperta del cristianesimo secondario riuscì il Convegno sulle attese di carità e
giustizia della diocesi di Roma tutto sociologia e politica, assistenza, alloggi, ospedali, scuole, edilizia.
Nemmeno uno iota di religione, ma forti coloriture marxistiche con la condanna dell’esercizio privato delle
professioni e con la proposta che la Chiesa ceda tutti i suoi beni allo Stato (per diventare indipendente). OR,
15 febbraio 1974 e ICI, n. 451, p. 24 (1 marzo 1974).
374 Si ricordi il paradosso del GIOBERTI che prendendo per fenomeno primario del Cristianesimo la sua virtù
incivilitrice sentenziava che Cristo e non Elisabetta fu il fondatore della Compagnia delle Indie.
375 Omelia di Natale 1798: «La forma del governo democratico adottata fra noi, no, non è in opposizione
con le massime del Vangelo: per lo contrario essa esige tutte le virtù sublimi che non si imparano che alla
scuola di Gesù Cristo».
376 Pio XII tornò sul motivo della democrazia nel messaggio alle ACLI (Associazione cattolica lavoratori
italiani) del 1 maggio 1955, ribadendo il principio dell’isotimia, ma osservando che l’uguaglianza è vana se
nell’organismo statale e negli officiali pubblici penetra l’arbitrio.
GUICCIARDINI, Scritti politici e ricordi, Bari 1933, p. 309. G. LE BON, Psychologie des foules, Paris
377
1917.
378 Vedi in Opere, ed. cit., vol. III, p. 307. Per tutto questo punto Morale cattolica, ed. cit., vol. III, p. 299 sgg.
Il sofisma della sineddoche rilevato dal MANZONI richiama il paradosso del CONDORCET , secondo il quale
usando la somma delle scelte razionali degli individui non si può arrivare a una scelta collettiva avente la
stessa proprietà.
379 «Io stimo stoltissimo reputare che sia giusto tutto quanto sta nelle istituzioni e nelle leggi dei popoli».
380 De republica, lib. v, fragmenta, ed. Castiglioni, Torino 1944, p. 140. «L’autorità pensi più all’utilità che
alla volontà del popolo».
381 Morale cattolica, Parte Prima, cap. VII, p. 129 nel vol. II della cit. ed.
382 Una censura che tocca la democrazia contemporanea e non quella del secolo XIX riguarda il metodo per
rilevare la maggioranza. Mentre sono in campo più partiti l’elettore è invitato a sceglierne uno, come quando
i partiti erano due soli, invece di fargli esprimere il suo giudizio comparativo in confronto di tutti. Vedi le
mie osservazioni ne L’anacronismo elettorale, ne I giorni e le voci, Locarno 1980, pp. 33 sgg.
383 Che la Chiesa non ammette il principio democratico è tuttavia ribadito nel documento del Consiglio per
i laici in OR, 4 dicembre 1981: «La costruzione... della Chiesa non si effettua secondo i metodi del sistema
parlamentare... anche se il modello democratico può insegnarci qualcosa per la vita interna della Chiesa. Il
parlamentarismo (infatti) finisce sempre necessariamente per entrare in conflitto con l’ideale dell’unità nello
Spirito - per la quale proprio i ministri hanno una responsabilità particolare».
385 Non sono naturalmente da trascurare le passioni e le ragioni politiche frammiste alle dispute teologiche,
massime in Francia, ma questo appassionamento è una prova della forza che aveva l’opinione pubblica.
386 Basta a persuadersene scorrere la diligente rassegna bibliografica tenuta in quegli anni dalla «Civiltà
cattolica».
387 Decreto Christus Dominus e decreto Ecclesia sancta e il nuovo Codice di diritto canonico.
388 Questa è la peculiarità della Chiesa secondo il Lainez al Tridentino. Vedi SARPI, Istoria, ed. cit., vol. III,
p. 48.
389 Conviene qui osservare che se i singoli vescovi sono esautorati dalla Conferenza episcopale, questa è
esautorata dalla Confederazione delle Conferenze Episcopali.
390 È dunque vano asserire che queste assemblee ecclesiali siano toto caelo diverse dalle assemblee
democratiche delle società civili. Hanno l’identica struttura e l’identico funzionamento. D’altronde le
Conferenze episcopali si trasformano, per l’interna vis logica che le muove, in rappresentanze di tutto il
popolo di Dio ammettendo ai propri lavori i laici. Così l’assemblea della Conferenza episcopale italiana in
aprile 1983 vide l’intervento attivo ai suoi lavori di presbiteri e di laici. Nella terza giornata si ebbero dieci
interventi di vescovi, quattro di presbiteri e sei di laici (OR, 15 aprile 1983).
391 Questo Forum è il succedaneo surrettizio del Sinodo nazionale proposto a Roma dai vescovi elvetici e
non approvato dalla Santa Sede.
392 Certo anche in passato i vescovi furono inascoltati e oltraggiati, ma da quelli di fuori, non da quelli di
Chiesa.
393 Per le citazioni fatte vedi il ragguaglio dei lavori del Forum in «Giornale del popolo», 30 e 31 ottobre
1981.
394 L’estromissione della filosofia tomistica sancita dal Concilio rimane la posizione degli studi
ecclesiastici. Tuttavia GIOVANNI PAOLO II nel discorso ai vescovi di Francia, rivendicando la necessità della
metafisica negli studi dei seminari, si richiamò al tomismo: «L’approche de Dieu par l’ontologie proprement
dite, centrée dans l’intuition de l’être dans la perspective thomiste, demeure irremplaçable» (OR, 11
dicembre 1982).
395 Vi sono persino prove giuridiche che sanciscono il diritto a tale pluralità, ed è memorabile la sentenza
della Sacra Rota del 1946 che annullò due decreti dell’Ordinario di Milano che sopprimevano, non per
ragione di ortodossia ma di scuola teologica, un istituto di formazione ecclesiastica («Rivista rosminiana»,
1951, p. 158).
396 Noi abbiamo già fatto la critica del pirronismo ai §§ 148-9 e nei §§ 157-62 quella del mobilismo, e ad
essi rimandiamo.
397 Leggendo gli Atti di questo Convegno celebrativo vengono in mente certi libri pubblicati in regime di
censura religiosa o politica in tempi passati. Un’opera recante nel frontespizio Vita della Beata Vergine
conteneva qualche quinterno di stampe irreligiose e la Descrizione del viaggio di Sir John Chasterly in
China nascondeva le idee della Giovine Italia.
398 Per esempio nel diffusissimo Nuovo Dizionario di teologia nelle edizioni Paoline, Torino 1975.
399 Vedi il mio discorso in Arcadia Iam pridem nos vera vocabula rerum amisimus, i n Atti e memorie di
Arcadia, serie terza, vol. VIII, Roma 1978.
400 «Primo, tenere a freno chi insegna il falso; secondo, impedire che il popolo presti attenzione a chi
insegna il falso».
401 Queste differenze potrebbero persino essere conservate come dogmi particolari di singole Chiese. Di qui
la proposta di alcuni teologi riformati di ammettere il primato di Pietro come dogma della provincia romana
della Chiesa universale. In non poche parrocchie di Francia si perora la prassi della doppia appartenenza, in
forza della quale i coniugi di mista religione praticano promiscuamente entrambi i culti (ICI, n. 556, 15
novembre 1980).
402 Anche Paolo VI in OR, 27 gennaio 1963, parlò della «ricomposizione dei cristiani fra loro separati
nell’unica Chiesa cattolica, universale cioè, e organica, e perciò propriamente composita ma solidale in una
sola univoca fede».
403 Il presidente del Consiglio conciliare olandese ha così significato la posizione di quella Chiesa: «L’unité
de l’Eglise ne signifie plus le retour à l’Eglise catholique telle quelle est aujourd’hui, mais une croissance
de toutes les Eglises vers ce que l’Eglise du Christ devrait être» (ICI, 281, p. 15, 1 febbraio 1967).
404 Questo è ormai il termine con cui si designa l’opera di chiamata alla Chiesa cattolica svolta in passato
nelle missioni.
406 Il vescovo di Coira dichiarò alla dott. Melitta Brügger che nel decennio 1954-1964 vi furono nella sua
diocesi (centocinquantamila anime) novecentotrentatré conversioni di Protestanti e nel seguente decennio
solo trecentodiciotto. D’altronde il vescovo di Lugano, accennando a tale diminuzione, dichiarò di non voler
decidere se il fenomeno sia positivo o negativo (17 gennaio 1975). Negli Stati Uniti prima del Concilio si
contavano annualmente circa centosettantamila conversioni: adesso poche centinaia.
407 Perciò con perfetta coerenza a questa idea di una teocrasia o pammix i s religiosa nel Missel des
dimanches 1983 dei vescovi di Francia, nella festa di Ognissanti si prega «avec les Saints de toutes croyances
et incroyances».
408 Il vescovo CAPUCCI, vicario del Patriarca latino di Gerusalemme, in un’intervista alla Televisione della
Svizzera italiana l’11 settembre 1982 dichiarò che tutti gli uomini sono figli della Chiesa e che il Papa non
fa differenza alcuna tra Maomettani e cristiani.
409 Nel testo ritibus che non si può tradurre come fanno le edizioni vulgate per usi. La pericope si trova
identica in LG, 17.
410 In una conferenza alla Civiltà cattolica padre S PIAZZI insegna che «nessuna Chiesa si identifica
perfettamente col Cristo. Di qui la necessità che ogni Chiesa accetti questo moto centripeto verso il
Redentore» (OR, 27 gennaio 1982).
413 R . AMERIO, Il problema esegetico fondamentale del pensiero campanelliano, in «Rivista di filosofia
neoscolastica», 1939, pp. 378 sgg.
414 Così la scuola di K. RAHNER , Das Christentum una die nicht-christlichen Religionen, in Schriften zur
Theologie, Köln 1972.
415 Asserire quindi come fa l’OR, 11 gennaio 1972, che «il Concilio ha cancellato una volta per sempre il
preconcetto che solo i cattolici possiedono la verità» è temerario ed erroneo, perché ragguaglia la grazia
specifica del Cristo alla natura universale dei valori umani. Negare poi che la Chiesa è un monolito è negare
che essa abbia un’unica pietra nel visibile e nell’invisibile.
416 L’idea sincretistica è penetrata ampiamente nella massa e, per esempio, il Meeting di Rimini per
l’amicizia dei popoli, promosso dal grande movimento cattolico di Comunione e liberazione in agosto 1982,
divenne «un colloquio a più voci [vi partecipavano protestanti, buddisti, ebrei, ecc.] su esperienze religiose
diverse di professioni di fede, ma con il comune denominatore della comunione per l’uomo e per la sua
riserva di sacro» (OR, 30-1 agosto 1982). Questo accomunamento era d’altronde contrario all’insegnamento
che Giovanni Paolo II diede in quei medesimi giorni nell’omelia di San Marino, dove sviluppò il tema che
«nel mondo il bene è separato dal male e che gli si contrappone per volontà stessa di Dio» e che questo
contrapposto sorge nella coscienza dell’uomo, dalla quale il Meeting faceva sorgere l’accomunamento.
417 Contestato invero da molte parti, ma protetto dal responsabile del periodico don G. BAGET BOZZO che in
lettera del 9 settembre 1971 a me diretta respinge le critiche.
419 Il tentativo di trasformare in Centro monoteistico una cappella di Notre-Dame de la Garde levando
imagini di santi per collocarvi motti del Corano e della Torà sollevò una vivace rimostranza popolare che lo
fece in parte fallire («Itinéraires», 205, pp. 113 e 167).
420 Il pensiero di questi due articoli è ripreso dall’autore nel n. 48 del «Bulletin» edito dal Segretariato per
le religioni non cristiane uscito in aprile 1982. Vi si sostiene che il fine della Chiesa è di salvaguardare
ovunque il senso religioso e il culto di Dio, che cioè è un fine naturalistico e sincretistico. Vedi anche OR,
18 aprile 1982.
422 Mons. Rossano trascura anche il dettato esplicito del Vaticano II in AA, 7: «Homines originali labe
affecti in perplures saepe lapsi sunt errores circa verum Deum, naturam hominis et principia legis moralis:
unde mores et institutiones humanae corruptae et ipsa persona humana non raro conculcata».
423 Vedi per tutto questo l’opera classica di PINARD DE LA BOULLAYE, L’étude comparée des religions, Paris
1922, vol. I, p. 54.
424 Metaphysicorum libri, Parisiis 1638, p. III, cap. 3, art. I, p. 204. «La religione posta da noi è imperfetta e
talvolta falsa, mentre la religione innata è perfetta e vera; e siccome accade che gli uomini errino nelle
religioni addite, perciò spetta a Dio manifestare la religione e la via che conducono a lui».
425 Si osservi equivalenza: raggiungono o possono raggiungere. Qui fatto e possibilità sono il medesimo.
426 Ancor meno può dissimularla il padre R A H N E R in OR, io ottobre 1975: «nonostante la sua
soprannaturalità e il non essere dovuta, la grazia può essere considerata come qualcosa appartenente
all’esistenza dell’uomo».
427 L’ausiliare di Parigi, mons. Gouet, unitamente al Gran Muftì di Francia e a un pastore calvinista ha
distribuito agli alunni del collegio di Montgeron un pendaglio in cui sono riunite la Tora ebraica, la Croce
cristiana e la Mezzaluna mussulmana. Giornale «L’Aurore», 15 marzo 1971.
428 Un’esplicita smentita del pensiero di Paolo VI diede il Sinodo greco-melchita-cattolico del 1975 votando
su proposta di mons. ZOGHBI, arcivescovo di Baalbek, un progetto in cui si deplora la creazione di Chiese
orientali cattoliche unite a Roma, si caldeggia un progetto di doppia comunione per cui i cattolici
aderirebbero al Patriarcato greco-ortodosso (da cui si dice che sono stati separati «senza ragione
sufficiente») senza peraltro rompere la loro comunione col vescovo di Roma. Il Sinodo si aspetta che la
dottrina del Vaticano I sul primato papale sia riveduta e riformata. Il progetto fu rifiutato dalla Santa Sede.
Vedi E. ZOGHBY, Tous schismatiques?, Beyrouth 1981.
429 È dunque da una veduta realistica che procede la tesi di K. RAHNER nel discorso tenuto a Basilea nella
chiesa protestante di San Pietro il 20 gennaio 1982: «O riconoscere l’inconciliabilità delle diverse
confessioni, o contentarsi di un’unità puramente di labbra, o ammettere che le differenti confessioni sono
un’unica fede».
430 Ancor più accentuato il sincretismo nelle dichiarazioni del card. LUSTIGER , arcivescovo di Parigi,
nell’intervista 3 febbraio 1981 a «France-Soir»: «Je suis juif. Pour moi les deux religions ne font qu’une».
Fu smentito immediatamente dal Gran Rabbino di Francia KAPLAN: «Pour nous on ne peut être à la fois juif
et chrétien», e similmente dal suo successore Gran Rabbino SIRAT : «On ne saurait, sans abus de langage,
parler de religion judéo-chrétienne. On est juif ou on est chrétien». È vivo il contrapposto tra chi ha perduto
le essenze e chi le conserva.
431 S. AGOSTINO, Confess., I, XI: «Sine illum, faciat quod vult, nondum enim baptizatus est».
432 Tale elemento soggettivo fu così vivamente sentito che nella riforma carolingia gli inconsci infanti
presenziavano con i genitori alla catechesi, agli scrutini e a tutta la perdurante propedeusi.
433 L’effetto si produce anche se il battezzando adulto è in peccato mortale (GASPARRI , Catechismus, p.
197).
434 Un documento inspirato a tale soggettivismo è la Déclaration des évêques de France sur le baptême des
enfants: vi si considera soggetta a riforma la prassi del pedobattesimo; si propone un’inserzione graduale nel
mistero di Cristo risuscitato e la dilazione del battesimo. Anche i Catari riluttavano al pedobattesimo
allegando la necessità di atti coscienti («Esprit et Vie», 1966, p. 503).
435 Per tutto questo sviluppo mi sono inspirato a CAMPANELLA, Theologia, lib. XXIV, cap. 12, art. 7, pp. 46
sgg., Roma 1966.
436 Si noti che non essendo l’estensione l’essenza del corpo, bensì un suo accidente, la mutazione della
sostanza non implica quella dell’estensione, come sarebbe nel sistema cartesiano in cui l’estensione è
l’essenza del corpo.
437 Vedi l’ampio trattato sull’eucaristia in Antropologia soprannaturale, ed. naz., vol. XXVIII, p. 275. Ma la
dottrina del ROSMINI fu censurata dal decreto del 1888 sulle 40 proposizioni.
438 Nella formula «Hoc est enim corpus meum» la particella enim non vale infatti ma realmente, come è
provato anche dalla sua posizione. Tale fu l’avviso di una commissione di latinisti presieduta da G. B. PIGHI
dell’Università di Bologna.
439 Le anfibologie in materia eucaristica spesseggiano in scritti rivestiti di carattere ufficiale. Nel n. 2 dei
Documenti di lavoro editi dal Centro direttivo del XX Congresso eucaristico tenutosi a Milano nel 1983 si
asserisce che «il pane e il vino in sé stessi, né come realtà né come segno, neppure dopo la consacrazione,
hanno titolo alcuno per sostenere e rivelare l’equazione posta da Cristo [questo è il mio corpo]». Qui è
negata l’efficacia delle parole consacratone e almeno oscurata la verità della presenza reale. L’anfibologia
della dottrina del documento, che si inspira a Rahner e Schillebeeckx, fu denunciata in «Renovatio», 1982,
pp. 198 sgg. e ne fecero una debole difesa gli autori in «Renovatio», 1983, pp. 255 sgg. Tra l’altro essi
sostengono che solo il Magistero può giudicare dell’ortodossia di una posizione dottrinale. È invece certo che
ogni fedele ha il diritto di confrontare l’insegnamento dei privati dottori con quello della Chiesa universale
e a questa stregua riconoscere se un autore esprime la verità di fede o un suo opinamento contrario ad essa.
440 Vedi Congrès eucharistique Lourdes 1981, Paris 1981, p. 100. Si veda anche la deplorazione che il card.
G. SIRI nella sua rivista «Renovatio», 1982, n. I, p. 5, fa della «notevole decadenza del culto eucaristico».
441 Dal secolo XIII in qua l’adorazione dell’eucaristia fuori della messa è ricercata dal popolo, praticata e
propagandata da Santi, dall’Assisiate a Charles de Foucauld, presa come fine da fondazioni religiose,
diffusa nelle Compagnie del SS. Sacramento, rappresentata nell’arte, penetrata nella pietà popolare. Nel
secolo XVIII l’opuscolo del LIGUORI Visite al SS. Sacramento ebbe vivente l’autore ventiquattro edizioni e
dopo la sua morte nel secolo XIX altre novantacinque. Vedi in «Esprit et Vie», 1982, pp. 273 sgg., lo studio
di J. ROCHE, Le culte du Saint Sacrement hors messe.
442 F. BIFFI , rettore dell’Università lateranense, in «Giornale del popolo» del 27 marzo 1980 scrive che «la
Messa è frazione del pane, cioè spartizione di amicizia, di affetto, di aiuto». Niente della transustanziazione
e del sacrificio.
443 L’orientamento antilatreutico è manifesto nella grande inchiesta di ICI, n. 564, p. 26 (15 luglio 1981)
dove si deplorano «les excès de la Contreréforme» e prevale l’interpretazione non realistica del sacramento.
444 Nessuno dei discepoli è certo di non tradire e domanda al Maestro: «Son forse io?». Questa tragica
incertezza del proprio volere morale è colta stupendamente nella Cena leonardesca in S. Maria delle Grazie
a Milano.
445 Nel discorso del 9 giugno 1983 Giovanni Paolo II afferma che, essendo l’eucaristia memoria della morte,
ma anche della resurrezione di Cristo, essa ci fa partecipare alla vita trionfante del Risorto e quindi importa
un clima di gioia. Ma è chiaro che la memoria si volge primariamente e immediatamente alla Cena e alla
Passione di cui l’eucaristia è un momento.
446 L’irriverenza giunse a tanto che i vescovi austriaci si videro costretti a farne un documento speciale.
Mons. GRABER, vescovo di Regensburg, Die fünf Wunden der heutigen Kirche, Regensburg 1977, p. 10.
447 Non solo non è più comandata la riverenza, ma è addirittura proibita. Il vescovo di Antigonish nel
Canada ha infatti proibito formalmente di ricevere la Comunione stando genuflessi, «The Globe and Mail»,
giornale di New Glasgow, 19 agosto 1982.
448 Il giornale dell’arcivescovo di Seattle negli Stati Uniti «North-west Catholic Progress» in marzo 1971
dava la ricetta per confezionare l’eucaristia: «milk, Crisco, eggs, baking powder and honey», cioè latte,
crisco (che è una sorta di margarina), uova, lievito e miele.
449 La madre di don Bosco, quando Giovannino doveva andare alla Comunione, lo segregava per tre giorni
dai trastulli, e quell’alto spirito che fu Antonio Fogazzaro si preparava sin dai primi di novembre alla
Comunione dell’Immacolata (Epistolario, p. 328) e sosteneva che l’insufficienza del frutto di una
Comunione dipende dal non prepararsi da lontano.
450 Vedi nel giornale «L’Est républicain», 8 febbraio 1977, la dichiarazione del vescovo di Verdun, che non
trova niente di riprensibile in tale pratica.
451 Questi difetti erano contemplati con somma cura nel Messale antico. Ma è chiaro che quando il
Sacramento perde la sua essenza di sacro i difetti che occorrono nella celebrazione divengono irrilevanti.
452 Oltre a queste degradazioni vedi in «Esprit et Vie», 1971, p. II, un sommario delle indegnità che
occorrono comunemente nella celebrazione della messa, nonché la serie di abusi spesso sacrileghi
denunciati dal card. RENARD in «Documentation catholique», 1972, col. 933. - Demum infandum prorsus et
incredibile si non in maligno positus esset mundus, quod nuper vidimus in quodam religiosorum coenobio,
ubi sacellum Sanctissimi Sacramenti iuxta foricam ipsique contiguum exstructum est.
453 Celebre è il giuramento di Gregorio VII al cospetto di Enrico IV a Canossa. Nell’abbazia di Münster nei
Grigioni dipinti di età carolingia raffigurano san Pietro nell’atto di gittare ai cani il sacramento per placarli.
454 «Gli scellerati eran soliti accorrere da Berengario e si congratulavano con lui per essere stati liberati da
un gran timore, giacché capivano che l’eucaristia non era quella cosa così divina da dover astenersi per
riceverla dai delitti e dalle infamie».
455 Così padre JOSEPH BOXLER in «Mysterium fidei», febbraio 1982, p. 3.
456 Sul rapporto tra i Papi e i loro collaboratori nella redazione dei documenti, vedi le notizie su Leone XIII
di N. V IAN , Il leone nello scrittoio, Reggio Emilia 1980, pp. 169 sg. Quel Papa si faceva fare persino i
carmi latini, che poi limava.
457 L’incerta ortodossia della prima redazione dell’articolo 7 è l’effetto di una contaminazione tra le
esigenze della dottrina tradizionale e l’influsso degli osservatori acattolici che assistettero ai lavori della
Commissione conciliare non solo come osservatori (così portava il loro titolo), ma come consultori e
partecipi alla redazione dei testi. Mons. B A U M , allora presidente della commissione dell’episcopato
americano per l’ecumenismo, in «Detroit News» del 27 giugno 1967 dichiarò: «Ils ne sont pas là [gli
osservatori acattolici] simplement comme observateurs, mais aussi bien comme experts consultants et ils
participent pleinement aux discussions sur le renouveau liturgique catholique. S’ils s’étaient contentés
d’écouter, la chose n’aurait pas eu beaucoup de sens, mais ils contribuaient».
458 La correzione all’articolo 7 fu portata nel numero di maggio 1970 da «Notitiae», organo della Sacra
Congregazione per il culto divino. La precede un proemio da cui si apprende che «i membri e gli esperti del
Consiglio, avendo esaminato l’articolo 7 prima e dopo la sua promulgazione, non vi trovarono alcun errore
dottrinale né alcuna ragione di modificarlo. Tuttavia per evitare difficoltà e rendere più chiare certe
espressioni, si era deciso che il documento sarebbe ritoccato qua e là». L’articolo 7 fu non ritoccato ma
rifuso interamente facendovi apparire i tratti essenziali della dottrina della Chiesa, sebbene si continui a
tacere della transustanziazione, che Paolo VI doveva poi restaurare pienamente nell’enciclica Mysterium
fidei. Ecco il testo rifuso: «In Missa seu Cena Dominica populus Dei in unum convocatur sacerdote praeside
personamque Christi gerente, ad memoriale Domini seu sacrificium eucharisticum celebrandum. Quare de
huiusmodi sanctae Ecclesiae coadunatione locali eminenter valet promissio Christi: “Ubi sunt duo vel tres
congregati in nomine meo, ibi sum in medio eorum”. In Missae enim celebratione, in qua sacrificium Crucis
perpetuatur, Christus realiter praesens adest in ipso coetu suo nomine congregato, in persona ministri, in
verbo suo et quidem substantialiter et continenter sub speciebus eucharisticis». («Nella Messa o Cena del
Signore il popolo di Dio è adunato sotto la presidenza del sacerdote che porta la persona di Cristo per
celebrare il memoriale del Signore, cioè il sacrificio eucaristico. Perciò di questa riunione locale della Santa
Chiesa vale in modo eminente la promessa di Cristo: “Dove sono due o tre radunati nel mio nome, lì io sono
in mezzo a loro”. Infatti nella celebrazione della Messa, in cui si perpetua il sacrificio della croce, Cristo è
realmente presente nell’assemblea stessa adunata in suo nome, nella persona del ministro, nella sua parola e
sostanzialmente e continuamente sotto le specie eucaristiche»). Ognuno vede se son ritocchi soltanto.
460 «Abolizione del sacerdozio, degradazione del sacramento, irrisione delle rubriche liturgiche, confusione
di sacro e profano... che una tale mostruosa deformazione abbia luogo in Roma, che fu la capitale del
mondo cattolico, esempio dei sacri riti, specchio del retto credere e del retto operare».
463 Questa dottrina i vescovi di Francia l’hanno esplicitata nel Missel des dimanches 1983: «L’eucharistie
est sans doute la meilleure manière d’animer un ressemblement de chrétiens, mais elle n’est pas la seule».
Qui la differenza tra sacramento e sinassi, che è di essenza, viene sostituita da una differenza di grado.
464 La cosa era già echeggiata al Concilio nelle congregazioni CIX e CX per la bocca di mons. LA RAVOIRE,
vescovo indiano, e del patriarca MAXIMOS IV, secondo i quali «è difficile trovar ragionevole il precetto
festivo sotto pena di peccato, nessuno ci crede e gli increduli ce ne sbeffeggiano» (OR, 26-7 ottobre 1964;
«Le Monde», 20 ottobre 1964). Vedi al contrario la mirabile apologia che della ragionevolezza, della
religiosità e della legittimità del precetto fa il MANZONI, Morale cattolica, Parte Prima, cap. VI, nel vol. II, p.
III ed. cit.
465 Paolo VI colpì la deviazione nel discorso ai vescovi della Francia di Sud-Ovest, ricordando che «la
célébration de l’Eucharistie se situe bien au-delà d’une rencontre fraternelle et d’un partage de vie» (OR, 18-
19 aprile 1977).
466 Leggendo le antiche liturgie, come il Sacramentario di Biasca, che è del secolo IX, e ritrovandovi le
formule con cui la Chiesa Romana orò per oltre un millennio, si sente vivamente la iattura subita dalla
Chiesa spogliatasi del senso della antiquitas che, persino secondo i Gentili, «proxime accedit ad deos»,
nonché del senso dell’immobilità del divino nel moto del tempo.
467 E questo benché il card. LERCARO in una Lettera pastorale avesse assicurato che il latino sarebbe rimasto
nel canone, che è (diceva) preghiera sacerdotale, non preghiera del popolo. La rapidità dei cambiamenti
arguisce la labilità dei fondamenti e anche la volubilità dell’uomo.
468 Rimane inesplicabile come Paolo VI, ricevendo in gennaio 1970 il sindaco di Roma, abbia potuto
rinfacciare allo Stato italiano l’abolizione del latino nella scuola media, abolizione da lui definita «un’offesa
a Roma e un’autolesione della civiltà romana».
469 Sulla traducibilità e divulgabilità dei testi liturgici nelle lingue volgari è avvenuto uno sviluppo positivo.
Il decreto 12 gennaio 1661 di Alessandro VII che condannava la traduzione in francese del Messale romano
era certo ispirato all’idea di una connaturalità tra il sacro e il latino, la quale oltrepasserebbe il carattere
storico per entrare indebitamente nel metafisico, come tosto diremo.
470 Delle cinque piaghe della Santa Chiesa, Brescia 1966, p. 74: «volendo ridurre i Sacri riti nelle lingue
volgari si andrebbe incontro a maggiori incomodi, e si apporrebbe un rimedio peggiore del male. I vantaggi
che si hanno conservando le lingue antiche sono principalmente: il rappresentare che fanno le antiche
Liturgie l’immutabilità della fede; l’unire molti popoli cristiani in un solo rito, con un medesimo sacro
linguaggio, facendo loro così sentire viemmeglio l’unità e la grandezza della Chiesa e la comune loro
fratellanza; l’avere qualche cosa di venerabile e di misterioso una lingua antica e sacra quasi linguaggio
sovrumano e celeste...; l’infondersi un cotal sentimento di fiducia in chi sa di pregare Iddio colle stesse
parole, colle quali il pregarono per tanti secoli innumerevoli uomini santi e padri nostri in Cristo». Con la
volgarizzazione dei riti «s’introdurrebbe grandissima divisione nel popolo» e «un perpetuo cangiamento
nelle cose sacre».
471 Diffusa invero non è (la metafora viene dal liquido che si spande uniformemente facendo un velo
superficiale continuo), ma piuttosto dispersa discontinuamente.
472 Che l’uso di una lingua sopranazionale sia, anche nell’ordine civile, un coefficiente di unità e di
concordia, è provato dal fatto che il tentativo di alcuni Stati asiatici e africani plurilingui per introdurre
come lingua ufficiale qualche lingua del paese, provocò guerre civili e fu dovuto abbandonare.
473 Per essere equi conviene riconoscere che esempi di tale scadimento davano da un pezzo anche i nostri
dotti. OLINTO GUERRINI, che pure era bibliotecario all’Archiginnasio di Bologna, in una saffica erotica di
Postuma, Bologna 1882, p. 145, sbagliava accenti e declinazione scandendo pùlvinar anziché pulvìnar e
facendo latum accusativo del sostantivo latus. Per venire a tempi più recenti, nella celebre Académie des
inscriptions et belles lettres, l’illustre ALPHAN citava un passo del medievale Guiberto in cui si disegna
pittorescamente la figura dello scolaro secchione ingobbito sul banco: «pluteo adhaerens tanquam animal
peritum» che vuol dire: «attaccato al banco come un animale sapiente, come un sapientone». Ma l’ALPHAN
legge perĭtum per perītum e traduce «comme un animal empaillé» dimenticando che gli intransitivi non
hanno participio passato. Nell’abbazia di Viboldone presso Milano una lapide ricorda il restauro promosso
dall’arcivescovo Montini «antequam ad Summum Pontificatum eligeretur». Il dettatore dell’epigrafe
ignorava la legge dell’obliquità, asse del costrutto latino. Con quel soggiuntivo infatti si viene a dire
esattamente che il card. Montini aveva in mente di diventar Papa e fece di tutto per restaurare Viboldone
prima di diventarlo. Il card. SEPER in dicembre 1974 mi segnalò che nel documento della sua Congregazione
sull’aborto i suoi latinisti avevano sbagliato scrivendo «ut opinatur».
475 Tutta la traduzione essendo condotta in modo vario e atipico, succede che talvolta si voltino con una
finale proposizioni di fatto. Nell’offertorio «ex quo nobis fiet panis vitae» è reso con «perché diventi per noi
cibo di vita».
476 Futile è il tentativo di giustificare filologicamente la variazione adducendo che «molti» è un semitismo
equivalente a «tutti». Non è punto vero: οἱ πολλοί significa, sì, la massa, ma πολλοί significa invece molti.
Pretendere che gli antichi non distinguessero il concetto di totalità da quello di pluralità è accusarli di non
aver avuto i primi principii della ragione.
477 Dicendo così non dimentico che qualche volta virtus significa forza e che «virtutes» sono talora nella
Bibbia i miracoli.
478 «Tutti gli uomini sono persuasi di ricevere dagli dèi i beni esterni, il raccolto dei vigneti, degli uliveti, le
messi, ma le virtù nessuno mai pensò di averle dagli dèi e di doverne agli dèi rendere grazia».
479 Per questo punto vedi i §§ 207-9 sull’autonomia dei valori naturali.
480 Nell’Alto Volta, paese di cinque milioni di abitanti dove si parlano sessanta lingue, l’episcopato ne ha
scelte diciassette come lingue liturgiche.
Paris 1975. Vi si
481 Un’analisi approfondita ne ha fatto J. R ENIÉ , Missale romanum et Missel romain,
mostra come le nuances eterodosse riflettano le credenze eterodosse dei cattolici di Francia il 20% dei quali
non ammette la divinità di Cristo. Vedi pp. 33-4.
482 Occorre notare che in edizioni ulteriori il Missel è tornato sotto l’azione di vive proteste alla traduzione
corretta.
483 La disfatta del latino è manifesta nell’esito dell’inchiesta praticata dalla Congregazione dei sacramenti e
del culto divino, pubblicato in «Notitiae», dicembre 1981, pp. 589-611: «Per quanto concerne il latino,
risulta chiaramente dall’inchiesta che il suo uso tende a scomparire». La riforma liturgica «ha prodotto e
continua a produrre frutti abbondanti». Ma la relazione considera quella scomparsa non un fenomeno
funesto, ma un fenomeno propizio e trascura del tutto l’effetto più imponente e visibile della riforma che fu
dappertutto la diserzione della Messa da parte del popolo. Il card. MARTY nel 1975 rivelava che nella sua
diocesi il numero dei messanti era calato del 47% («Documentation catholique», 19 ottobre 1975) e la
percentuale è ancora cresciuta dopo quell’anno. L’inchiesta, che si rivolgeva a tutto l’episcopato, si riferiva
allo spirito del Concilio e non faceva riferimento ai decreti del Concilio che ordinava la conservazione della
lingua latina. Vi è d’altronde il fatto inauditissimo che le Congregazioni romane emanano documenti per la
Chiesa universale redatti in lingua inglese (OR, 25 giugno 1983).
484 Vedi in «Giornale nuovo», 13 aprile 1982, l’artieolo di P. BUSCARGLI. Cercando egli in Venezia qualche
celebrazione della Settimana Santa in latino e gregoriano fu insolentito dai preti cui si rivolgeva: «Latino?
Gregoriano? È roba per bigotti, esteti e pietisti». Quello che era proprio della parte latrante
dell’anticlericalismo del secolo scorso, diventa un abito mentale del presente clero cattolico.
485 In realtà ci si è arrivati. In cappelle papali furono liturgizzate danze africane. Nelle esequie di un
vescovo la bara fu fatta ballare per tutto il villaggio. Nel periodo sperimentale anteriore al 1969 vi furono
Messe di ogni genere: a Torino il card. Pellegrino sperimentò nella sua cattedrale e in cinque parrocchie un
nuovo rito per la Settimana Santa; a Milano il card. Colombo un nuovo rito pei funerali. In Africa poi le
innovazioni liturgiche hanno preso per base i riti tribali allo scopo di «faire comprendre qu’il y a continuité
entre le projet ancestral et le christianisme» (ICI, n. 577, p. 38, 15 agosto 1982, e n. 279, p. 7, 1 gennaio
1967).
486 Si oppone facilmente che anche con labbra mute può l’uomo riboccare di pensieri e di amore, e che
viceversa può onorare Dio solo con le labbra. Del resto prima della riforma il popolo pregava e cantava una
voce durante tutte le funzioni.
487 L’OR in una pagina speciale del 15 marzo 1974 lo professa sin nel titolo: «Celebriamo ciò che
viviamo». No, nella liturgia noi celebriamo non la nostra vita, bensì il mistero, la vita e la gloria del
Signore.
488 Il quotidiano dei cattolici francesi «La Croix», 11 e 12 aprile 1982, esprimeva apertamente il nuovo
principio della liturgia: le diverse generazioni, i diversi ceti sociali, le diverse età della vita indicano alla
Chiesa ciò che essi desiderano e la Chiesa deve rispondere nella liturgia a tali aspettazioni. La plurificazione
delle liturgie diventa necessaria e la Missa cum pueris, che sollevò tanta riprovazione, ne è un saggio. E che la
nuova liturgia sia sospinta da un moto di perpetuo cangiamento viene dichiarato dalla gerarchia. «Présence et
dialogue», bollettino dell’arcivescovado di Parigi, settembre 1969: «Il n’est plus possible, à un moment où
l’évolution du monde est rapide, de considérer les rites comme définitivement fixés. Ils sont appelés à être
révisés régulièrement sous l’autorité du Pape et des évêques et avec le concours du peuple chrétien, pour
mieux signifier en un temps la réalité immuable du don divin».
489 In un importante articolo di «Esprit et Vie», 1977, p. 248, il benedettino G.-M. OURY constata che molte
riviste liturgiche considerano superate le preci del nuovo Messale e che perciò non esitano a proporre per
ogni festa dell’anno liturgico nuovi formulari «più adatti» e che ciascun prete si arroghi poi di fare il
medesimo per creatività propria.
490 Il Concilio SC, 21 prescriveva una revisione e non un rifacimento dei riti.
491 Nel Rito della Messa della Conferenza episcopale italiana, che contiene solo il commune del rito, in 6
punti sono date 3 opzioni e in 9 punti 2. Il calcolo matematico prova che ne risulta un numero sterminato di
Messe.
492 Sarà dunque un pessimo celebrante chi non ha qualità di regista e il rito dipenderà non più dal sacro
oggettivo che si opera, ma dall’efficacia del soggettivo che si inventa.
493 La perpetua mutazione della liturgia viene esaltata come un valore dai vescovi di Francia nel Missel des
dimanches 1983, «car chaque année, et c’est la joyeuse liberté des chrétiens, tout est toujours nouveau».
494 Tra le mie carte alcune centinaia di testimonianze raccolte in Isvizzera e in Italia. E si vede quanto
osservata sia la norma di SC, 23 per cui si hanno da evitare notevoli differenze tra i riti di regioni diverse.
495 In Francia uscirono libri recanti tali nuove preci. Vedi per esempio A la recherche de prières
eucharistiques pour notre temps di AA.VV., Paris 1976. Come appare dal titolo quello che la Chiesa ha
trovato e fissato non è punto trovato né fissato, ma è ancora da trovare.
496 Un sommario delle indecenze partorite dall’inventività ha pubblicato J.-CH. DIDIER in «Esprit et Vie»,
1975, pp. 11 sgg., sommario tanto più attendibile in quanto la rivista è favorevole in genere alla riforma.
497 La riforma fu esaltata in termini esorbitanti dal padre BUGNINI, suo principale autore, in molti scritti, ma
specialmente nella dichiarazione raccolta in «Carrefour», 22 ottobre 1969, che cioè il nuovo Messale «ha
una ricchezza più grande di tutto quel che si è visto in venti secoli». E in «Notitiae», organo del Consiglio
per la riforma liturgica, 1969, p. 295: «Nessuna ombra dunque [nella riforma], solo un mare di luce».
Queste parole non sembrano segno di sanità mentale né in liturgia né in diplomazia.
498 A questo proposito è da notare un fatto che attesta il generale scadimento intellettuale del clero: intendo
l’abbandono del costume di dire la predica, mandata a memoria, per presentarsi invece a leggerla. Così
nella Messa moderna non vi sono più le lezioni e poi Tornella, ma soltanto lezioni. Vedi Piccola apologia
della memoria, in R. AMERIO, I giorni e le voci, Locamo 1980, p. 60.
500 Vedi la lettera del presidente del Consilium LERCARO, 30 giugno 1965 nel volume Orientamenti dell’arte
sacra dopo il Vaticano II, edito dalla Commissione centrale per l’arte sacra in Italia, ed. Minerva Italica,
1969. Per il divieto di duplicare l’altare in uno stesso presbiterio vedi il responso della Congregazione per il
culto divino, 19 febbraio 1972, pubblicato nella «Rivista» dell’archidiocesi di Genova, e da me in Colloqui
di S. Silvestro, Lugano 1974, p. 258. Vi è stabilito che gli altari aggiunti devono essere aboliti. Ma si vede al
contrario che dappertutto se ne fanno di nuovi.
501 L’espansione del sacro produce la sua annichilazione e si sa che il panteismo è un ateismo virtuale. Un
grande maestro dell’arte moderna interrogato che cosa sia il sacro rispose: «tutto è sacro» (GIACOMO MANZÙ
in OR, 23 novembre 1978).
502 Nonostante lo svilimento universale dell’altare sostituito dalla mensa, per il solito ipocorismo si arriva a
scrivere che è un merito della riforma liturgica «la remise en valeur de l’autel, de son symbolisme et même
de son mystère» («Esprit et Vie», 1983, p. 457).
503 È anche da segnalare la novazione portata nella costruzione della via crucis. Gli architetti
contemporanei, spinti dal desiderio di staccarsi dalla tradizione, allineano, quasi contigue, in uno spazio di
due o tre metri tutte le stazioni in guisa che, senza più potersi muovere dall’una all’altra, il devoto si trova al
cospetto di tutte. Non è più una via crucis, ma una statio crucis. Il camminare è diventato uno stare. Anche
qui si ha un caso della violazione delle essenze.
504 Teresa di Konnersreuth discerneva passando in vettura le chiese cattoliche con il Santissimo da quelle
evangeliche senza.
505 La sterminazione del gregoriano è attestata dal padre R.M. BARATTA O.S.B., direttore del Coro gregoriano
romano, in OR, 15 aprile 1983: «Nei Seminari e negli Istituti religiosi se ne è perduta generalmente la
pratica. Del Liber usualis, che era il manuale universalmente diffuso, sono stati perfino distrutti i clichés
tipografici e chi voglia oggi iniziarsi al gregoriano non trova più un solo esemplare dei Ferretti e dei Suñol.
Gli ultimi esemplari dell’Usualis sono stati venduti come carta straccia insieme coi Messali e recuperati qui
a Roma, solo in minima parte, quasi esclusivamente da laici, a Porta Portese». È uscito sì nel 1974 un
Graduale romanum, «ma vi è stata soppressa la parte introduttiva, che almeno dava alcune nozioni di base,
e poi niente toni dei salmi, niente antifone, niente inni, nulla. E di questo nell’insegnamento non si può fare
a meno». Il gregoriano continua ad essere ricercato dai cultori di musica, indipendentemente dal suo valore
liturgico, di cui la Chiesa lo ha spogliato, e sono affollate le sale dove si danno concerti di gregoriano,
mentre i dischi di gregoriano incontrano un grande successo.
506 Il priore di Taizé, frà ROGER SCHUTZ, in una conferenza: «Les nouvelles prières eucharistiques présentent
une structure qui correspond à la Messe luthérienne». Cit. in «Itinéraires», n. 218, dicembre 1977, p. 116.
D’altronde M. DAVIES , Pope Paul’s New Mass, Dickinson 1980, ha dimostrato che il nuovo rito romano
assomiglia e talora si identifica con la Messa anglicana di Cranmer del secolo XVI.
507 La locuzione saepe saepius significa sempre più e non molto spesso, come portano le traduzioni
correnti.
508 Nelle catechesi durante l’inverno 1980 sui primi capitoli del Genesi tenute nell’udienza generale del
mercoledì Giovanni Paolo II sembra insegnare che volere il coniuge sia disordine.
509 Imparentata all’opinione del Fogazzaro è la tesi del padre E. GENTILI, L’amour dans le célibat, Paris
1968, cui fa eco quella di LOUISE RINSER, Une femme d’aujourd’hui et l’Église, Paris 1970. Sostiene la
possibilità di un rapporto casto e spirituale e tuttavia rapporto vero di amore tra persone consacrate al
celibato. Adduce gli esempi storici di Francesco e Chiara, Teresa d’Avila e padre Graziano, il Salesio e la
Chantal. Vi si può aggiungere quello di Federico Borromeo con la domenicana suor Caterina Vannini (vedi
il carteggio pubblicato da mons. C. MARCORA in Memorie storiche della Diocesi di Milano, vol. XI, pp. 177
sgg.). Ma è contro il dilemma «o fuggire o sposarsi» tenuto da tutta la scuola morale cattolica. È «l’uso
spirituale della carne» di TEILHARD DE CHARDIN nelle tristi pagine pubblicate postume dalla sua amica
Jeanne Mortier. Tale «ascensione a due verso il centro divino» è un errore psicologico, morale e teologico.
512 Tranne che nell’aspetto difettivo delle cose, giacché questo dipende dal loro nonessere e dalla loro
noncausalità.
514 La Chiesa conosce, approva e comanda la preghiera di petizione: tutti i beni sono implorati, ma il bene
morale, cioè la virtù, assolutamente e gli altri relativamente e subordinatamente al bene morale. Questo
insegnamento è arduo. Nei nostri santuari per mille ex voto di gente che ha riacquistato la sanità, che è stata
preservata da un pericolo, che è uscita incolume da un mal passo, ne troverai a stento uno di chi renda
grazie per la conversione, per aver deposto un odio ingiusto, per aver durato in una disposizione virtuosa.
515 «Accogli, Signore, le nostre preghiere affinché, per tuo dono, meritiamo di poter essere umili nella
prosperità e securi nelle avversità».
516 Forse il ripudio che i francesi fanno delle Rogazioni discende anche dall’avversione loro per il culto dei
Santi di cui in quel rito si cantavano le litanie.
517 Questo oremus è di una superiore bellezza per numeri, pensieri e risonanze antiche: «Clementiam tuam
quaesumus, Domine, ut inundantiam coërceas imbrium et hilaritatem vultus tui nobis impertiri digneris». La
risonanza antica è il Giove-cielo.
518 Quando nell’estate del 1976 gran parte dell’Italia ed estese regioni degli Stati Uniti furono desertate da
una gravissima siccità che incineri i campi e minacciava carestia mortale, Paolo VI nel discorso
dell’Angelus esortò «a far ricorso a quel Dio, Padre nostro, che domina anche le leggi inesorabili della
natura e che forse attende l’umiltà e la fede d’una nostra filiale invocazione per restituire l’equilibrio alle
stagioni, fecondità alla terra, fluidità ai fiumi e refrigerio alla sete dei viventi» (OR, 5-6 luglio 1976, che fa
seguire una preghiera per la pioggia).
520 Pio XII nel discorso ai romani dopo il micidiale bombardamento del 19 luglio 1943, pregava perché la
sventura si tramutasse in forza di fede, onde «ciascuno compisse i propri doveri di cristiano conformandosi
pienamente alla volontà di Dio» (OR, 21 luglio 1983).
521 «Senza alcun dubbio bisogna, secondo la fede cattolica, tenere per fermo che la morte e tutti gli analoghi
difetti della presente vita derivano dalla colpa originale».
522 Giovanni Paolo II ha richiamato questa verità: «La sofferenza ha la sua radice teologica nel mistero del
peccato» (OR, 24 dicembre 1982).
523 La morte improvvisa parve ai pagani «summa vitae felicitas». Così PLINIO , Nat. hist., VII, 180.
524 Mons. FAVREAU , coadiutore di La Rochelle, nel libro Des évêques disent la fot de l’Eglise, Paris 1978, in
cui i vescovi di Francia espongono la dottrina cattolica, rifiuta il giudizio come evento futuro: «Le jugement
c’est maintenant. Aussi avons-nous à comprendre et à faire comprendre: c’est notre vie d’aujourd’hui qui
nous juge», p. 275. È facile opporre che non possono essere contemporaneamente il giudizio e l’atto
giudicato.
525 Cit. dal MANZONI nel cap. VIII della Morale cattolica, ed. cit., vol. II, p. 160. Alla dottrina della speranza
qui svolta dal MANZONI si ispira l’intero paragrafo.
526 «Non lo opprima la sentenza del tuo giudizio, ma col soccorso della tua grazia meriti di sfuggire al
giudizio di condanna».
527 A questo si connette la teoria neoterica secondo la quale nella morte stessa di ciascun individuo l’anima
assume il corpo incorruttibile e con esso entra nella gloria come la Vergine Assunta. Tutti gli uomini
insomma sarebbero assunti. Crederei spreco di parole stare a rilevare l’assurdo e la superficialità di tale
opinione. Essa nega la resurrezione dei morti professata nel Credo come un evento futuro alla fine dei
tempi, non si dà cura dell’identità personale tra vivo e morto e abolisce i privilegi della Vergine, privilegi
menzionati espressamente nella solenne definizione di Pio XII e qui giudicati come espressioni poco felici.
Queste vedute ereticali si popolarizzano nei giornali cattolici. Vedi per esempio S. VITALINI, «Giornale del
popolo», 14 agosto 1982.
529 S. VITALINI, Preghiamo insieme, Lugano 1975, p. 19. Il professore di Friburgo dimentica il Giudizio
della Sistina, il Savonarola che commoveva il Guicciardini (F. GUICCIARDINI, Estratti savonaroliani, in
Scritti, Bari 1936, pp. 285 sgg.) e d. Bosco che nella predica del giudizio moveva l’uditorio a gemiti e pianti
(Memorie biografiche, vol. IV, p. 421).
530 Per il Rosmini vedi il bollettino «Charitas», luglio 1971, p. 15 e per la Manzoni Epist., cit., II, p. 26.
531 La profondità di quest’arte ho esplorata nella cit. Introduzione alla Valsolda descrivendo i dipinti
dell’ossario di Loggio. Essa appare eminentemente anche in quelli di Clusone (val Seriana, Bergamo) e
Pinzolo (val Rendena, Trento).
532 «Quando poi è imminente ristante dell’ultimo respiro, allora tutti gli astanti genuflessi devono insistere
veementemente nella preghiera».
533 La Chiesa nella sua liturgia aveva per norma il fiat aequalitas. Il rito era uguale per tutti e le differenze
accidentali delle pompe non intaccavano l’identità del rito. La Chiesa non faceva elogi a nessuno, ma
suffragi per tutti. L’uso dell’elogio, derivato dal costume dei protestanti, è quanto mai improvvido. Molte
volte il celebrante non conobbe il morto e perciò ne tace o parlandone sproposita. Molte volte gli umili
passano senza elogio, e spesso si largheggia invece nei funebri di persone religiose o irreligiose, che hanno
avuto posizioni grandi nel mondo e che la Chiesa si compiace di annettersi come un trionfo proprio. A
questa annessione mirano le parole dell’arcivescovo di Firenze accorso ai funebri di Eugenio Montale
nonché la proposta del card. Colombo di traslatare nel Duomo di Milano le spoglie del Manzoni. Per
quest’ultimo fatto vedi «Il Giornale» del 23 e del 29 settembre 1983, dove ho mostrato l’infondatezza dei
motivi di una tale traslazione.
534 Vedi per esempio PH. ARIÈS, Essais sur l’histoire de la mort en Occident, Paris 1975.
535 Morendo Luigi XIII, poiché il re era assopito e i medici giudicavano prossima la fine, fu chiamato il suo
confessore affinché svegliasse il re e lo avvertisse che era giunto il momento. Il fatto è narrato da san
Vincenzo de Paoli che il re aveva chiamato al suo letto di morte. Pascal si fece portare agli Incurabili per
poter morire tra i poveri di Cristo.
536 Il sacro del silenzio vien bandito persino nei funerali, dove si batton le mani e si grida al passaggio della
bara, come si vide persino nelle esequie di Paolo VI.
538 Da una statistica pubblicata da OR, 19 novembre 1970, sulla religiosità del popolo di Roma risulta che il
50% di quelli che si professano cattolici non crede né paradiso né inferno.
539 Nel volume Des évêques disent la foi de l’Eglise, Paris 1978. Il capitolo sull’inferno è di mons.
FAVREAU, ausiliare di La Rochelle.
540 Parallela alla negazione dell’inferno è quella dell’esistenza del diavolo. È singolare al proposito la
palinodia che in OR, 20 novembre 1982, fa il card. SUENENS: dopo aver taciuto a lungo sull’esistenza del
Maligno egli fa adesso della lotta sostenuta dagli spiriti del Male contro il genere umano una delle verità
principali della religione. «Non esito a confessare di non aver messo abbastanza in rilievo, nel mio
ministero pastorale, questo ruolo dello Spirito delle tenebre. Mi sento in dovere oggi di attirare l’attenzione
su di esso».
541 «Niuno di noi vive per sé medesimo e niuno muore per sé medesimo. Infatti se viviamo viviamo per il
Signore e se moriamo moriamo per il Signore. Dunque, viviamo o moriamo, siamo del Signore».
542 La tesi che la pena sia legittima soltanto se volta al miglioramento del reo sta divenendo comune nel
diritto penale contemporaneo. Se la si accoglie, non resta che o ammettere l’esaurimento delle pene
infernali nel punto in cui la purgazione fosse compita, oppure figurare una progressiva diminuzione delle
pene in infinitum e quindi un inferno eterno ma digradante in infinito, come volle il GIOBERTI in Filosofia
della Rivelazione, Torino 1856. Come il paradiso è un accrescimento infinito e non mai compiuto, così
l’inferno è un annullamento infinito del dolore e della colpa che non sarà mai compiuto. Op. cit., p. 351.
543 «Poiché la loro coscienza rende testimonianza, ed i loro pensieri stessi ora li accusano e ora li scusano».
545 «Si intende più chiaramente quel che si credeva più oscuramente. Tu però insegna quel che hai imparato
e mentre dici in modo nuovo non dire cose nuove».
546 «Ma soltanto nel proprio genere, cioè nel medesimo dogma preso nel medesimo senso e nel medesimo
contenuto».
547 Gli esploratori cattolici di Lugano andati in visita nel Canada non ascoltarono mai Messa, nemmeno in
giorno festivo, per la ragione che in quel paese la Messa si celebra in inglese, lingua a loro inintelligibile.
548 L’abbandono dell’unità cultuale viene apertamente propugnato in OR, 20 ottobre 1982, che plaude alla
«progressiva elaborazione di un linguaggio liturgico e di una eucologia composta direttamente nella lingua
nazionale. In ogni paese questa passaggio progressivo è necessario». L’articolo lamenta che «tale
adattamento della liturgia allo spirito nazionale non si sia spinto troppo in avanti e che spesso ci si sia
contentati di una semplice traduzione dei libri romani». Sembra che l’autore desideri il troppo.
549 Questa allocuzione del Papa sullo stato della Chiesa in Isvizzera fu celata dalla stampa cattolica al
popolo cattolico. Soltanto dopo che «Gazzetta ticinese» del 4 agosto ne ebbe diffusa una sua traduzione, il
quotidiano cattolico di Lugano non poté più dispensarsi dal far conoscere ai cattolici il discorso papale che
concerneva la loro Chiesa.
550 Infatti nella creazione del 2 febbraio 1983 al cardinale Antonio Pietro Khoraiche, Patriarca di Antiochia
dei Maroniti, non fu assegnato alcun titolo romano. L’andamento atipico e irregolare delle cose romane
apparve anche nel fatto che il card. De Lubac dell’ordine dei diaconi ottenne di restare presbitero contro la
legge di Giovanni XXIII che vuole i cardinali di tutti e tre gli ordini essere consacrati vescovi.
551 La Francia, secondo il censimento del 1980, è cresciuta in dieci anni di tre milioni, ma i cattolici,
secondo le statistiche vaticane che registrano come cattolici tutti i battezzati, sono rimasti invariati e quindi
proporzionalmente diminuiti. Ma secondo BARRET nell’Enciclopedia statistica mondiale, il quale censisce
non i battezzati ma i professanti, vi sono in Francia tre milioni di atei, che erano due milioni e mezzo nel
1970 e centotrentamila nel 1925. Vi è invece un grande incremento dell’islamismo a cui passano anche
molti cattolici.
552 «È giusto ritenere che sia un unico e medesimo ente quello che tutti adorano. Tutti vediamo i medesimi
astri, siamo involti nel medesimo mondo. Che importanza ha la filosofia con cui ciascuno va ricercando il
vero? Non si può arrivare a un così grande arcano battendo una sola via».
553 Preti impegnati nella lotta rivoluzionaria e ministri di quel governo marxistico opposero un rifiuto a
Giovanni Paolo II che li invitava a dimettere le cariche politiche e a tornare ai loro doveri pastorali. È
significativa la dichiarazione di padre D ’ESCOTO , ministro degli Esteri: «Non sarò a Managua il 5 marzo,
alla visita del Papa, ma a Nuova Delhi per il vertice dei non allineati, che è infinitamente più importante
della visita di un Papa» (RI, 1983, p. 126).
554 Il card. SUENENS , in OR, 17 febbraio 1983, rileva lo scandalo costituito da un opuscolo sull’amore
diffuso nei licei francesi ad opera del Ministero alla Gioventù e allo Sport. L’opuscolo illustra i metodi di
contraccezione e costituisce una vera e ufficiale incitazione alla lussuria con abolizione di tutti i freni
morali. Il cardinale deplora la mancanza di rimostranze energiche contro una tale opera di corruzione, ma le
cause di tal mancanza sono amplissime e la Chiesa ne porta un peso notevole.
555 Non deve infatti sfuggire all’osservatore la progressiva sostituzione di feste puramente civili alle feste
liturgiche: festa della mamma, giornata del malato, giornata dell’invalido, giornata dei mezzi di
comunicazione, giornata della pace ecc.
556 Quest’ultimo fatto si verifica anche nelle Cappelle papali dopo che gli ambasciatori accreditati presso la
Santa Sede cominciarono ad essere acattolici o non cristiani.
557 Paul VI secret, Paris 1979, p. 17: «Avec lui on n’était pas en présence d’un clerc, mais d’un laic qui
aurait été soudain promu à la Papauté».
559 «La società civile in quanto è origine e fonte di tutti i diritti, gode di un diritto non circoscritto da alcun
limite».
562 Eccle., 12, 13: «Deum time et mandata eius observa: hoc est enim omnis homo».
563 Il Papa nel discorso ai pescatori di Flutrock: «Uomini e donne nascono per contribuire col loro lavoro
all’edificazione della comunità umana e per realizzare così la loro piena statura umana di con-creatori con
Dio e costruttori con lui del suo Regno».
564 «Perché noi non contempliamo le cose che si vedono, ma quelle che non si vedono: quelle che si vedono
infatti sono temporali, quelle che non si vedono sono eterne».
565 «In guisa che mentre vedono non vedano e mentre odono non intendano».
567 La pericope manca nel testo polacco e fu pronunziata ex abrupto. Essa figura invece nella traduzione
italiana del discorso. I corrispondenti dell’elvetica ATS e dell’italiana ANSA, testimoni de auditu, la
riportarono nei loro servizi. Vedi per esempio «Giornale del popolo», 8 giugno 1979.
568 Mons. F. O LGIATI , nelle sue opere di storia della filosofia, ravvisava nella concretezza, ossia nella
percezione distinta del reale, il carattere dell’evo moderno e nell’astrattezza quello del Medio Evo. A noi
pare invece che la concretezza è quella che coglie tutti i rapporti e che senza coscienza del rapporto al
trascendente si versi nell’astratto e nel sofistico.
569 «Spostare in avanti i limiti della potenza dell’uomo e svolgere in infinito ogni possibilità».
570 La barbarie della riflessione è lo sviluppo della ragione, quando sia staccata dal suo principio
trascendente e dal suo fine morale, come avviene nel mondo della tecnica.
571 Mi riferisco massimamente alle Revelationes di santa BRIGIDA nonché alla sintesi che del profetismo
573 «Sentinella, che notizie porti della notte? Sentinella, che notizie porti della notte? La sentinella rispose:
è venuto il mattino ed è notte. Se cercate, cercate: convertitevi, venite».