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Storia della Musica Occidentale,Parte I: dalla tradizione orale alla tradizione scritta
Codificazione del repertorio gregoriano e abbandono della pratica improvvisata .Il canto
gregoriano, come la Bibbia, doveva essere trasmesso alle generazioni future senza alcun
mutamento, per rispettare la volontà dello Spirito Santo che lo aveva dettato. Si forma allora il
concetto moderno di repertorio: un corpus di musiche ben definito e fissato una volta per tutte,
posto sotto il segno dell’immutabilità. Ci si avviò al tramonto della pratica improvvisata nel canto
liturgico e l’improvvisazione venne gradualmente relegata in ambiti circoscritti. Mutò anche la
metodologia didattica, trasformando la creatività tipica della tradizione orale nell’apprendimento
passivo di un repertorio già costituito: il concetto di“imparare a memoria” aveva definitivamente
assunto il significato moderno. Il cantore apprendeva le melodie della voce del proprio maestro
come fossero oggetti perfettamente compiuti e indeformabili, ripetendoli ogni volta sempre identici
a se stessi: per impadronirsi della totalità dei canti liturgici, dieci anni di studio gli erano appena
sufficienti.
Classificazione del repertorio gregoriano negli otto modi
Per favorire il nuovo tipo di memorizzazione, i teorici carolingi cercarono di suddividere il
repertorio secondo il modo, cioè del tipo di scala musicale usata. In epoca carolingia si formulò
dunque una griglia di otto modi, entro la quale vennero classificati tutti i canti gregoriani, ovvero
otto tipi di scale musicali, formati da differenti successioni di toni e semitoni. Ma questa
classificazione non si adattava facilmente a tutto il repertorio liturgico: alcuni canti furono
modificati e forzatamente inseriti nel sistema degli otto modi; ad altri, impossibili da normalizzare,
fu attribuito il termine di “modo irregolare” o “peregrino”. Ovviamente, sapere se il canto da
eseguire appartenesse a un modo o a un altro non aiutava troppo i cantori a ricordarlo perfettamente
in tutti i suoi particolare. Era giunto il tempo di servirsi della scrittura .
- segnare alcune linee con una lettera-chiave tratta dalla notazione alfabetica;
- colorare con inchiostro alcune delle linee a secco.
L’adozione del rigo musicale illustrato da Guido d’Arezzo si diffuse lentamente in tutta Europa,
generando infine il rigo musicale a quattro linee (tetragramma), usato ancora oggi per scrivere il
canto gregoriano. Il pentagramma iniziò a comparire all’inizio del XIII secolo nei manoscritti
polifonici (non gregoriani) della Francia del Nord.
Anche la forma dei neumi andò alternandosi, per adattarsi all’esatta collocazione sul rigo: i tratti
generalmente sottili e sfumati dei primi tempi mutarono man mano fino a diventare nel XII secolo
la classica notazione del canto gregoriano detta notazione quadrata. Ora chiunque poteva
apprendere una nuova musica direttamente da un libro,ricavandone il preciso profilo melodico.
A fianco delle musiche su testi in lingua volgare, vanno annoverati anche i canti profani, con testi
redatti in lingua latina: essi sono rappresentati principalmente da intonazioni di poesie di classici
latini, nonché da alcuni planctus, ossia compianti di personaggi famosi e altre melodie.
Un repertorio composito, principalmente costituito dai canti goliardici dei clerici vagantes
(“studenti vaganti” da un’università all’altra) scritti in latino, in antico tedesco e in francese, è
contenuto nei cosiddetti Carmina Burana.
In ambito sacro, oltre alle laude, sono rimaste abbondanti tracce di un particolare repertorio in
lingua latina: il dramma liturgico. Esso rappresenta una tipica espressione del gusto medievale, il
quale si orientava sempre più verso l’esteriorizzazione e la visualizzazione del rito religioso: la
liturgia stessa andò popolandosi di gesti e cerimoniali che rendevano immediatamente
tangibile il loro contenuto spirituale.
I drammi in volgare ebbero una vastissima diffusione in tutta l’Europa. Per questo tipo di repertorio
si può parlare di teatro anche se i costumi degli attori non erano storicizzati, ma consistevano in
abiti contemporanei; il palcoscenico era spesso all’aperto, in piena luce del giorno e senza una
demarcazione netta con lo spazio riservato al pubblico. Infine, mentre i drammi liturgici in latino
era integralmente musicati in stile monodico, nei drammi in volgare era riservato ampio spazio ai
dialoghi parlati. Strumenti musicali potevano essere usati in ambedue i generi, anche se non è
rimasta alcuna traccia delle musiche ad essi destinate.
Verso la fine del XII secolo, ad opera della Scuola di Notre Dame, la concezione della
musica subì una svolta fondamentale: si avviò il processo che condusse ad annotare le altezze delle
note e il ritmo musicale. Questo fatto ebbe una notevole conseguenza: se il compositore iniziava a
determinare con precisione i parametri della musica (le altezze e le durate), la musica stessa
disponeva dei mezzi per diventare un oggetto autonomo, le cui leggi costruttive potevano sottrarsi
ad un legame troppo vincolante con il testo intonato.
Tutta la storia della musica vocale sarà caratterizzata dal perpetuo oscillare tra due modi opposti di
intendere il rapporto parola-musica, che attribuiranno alternativamente la preminenza all’uno o
all’altro dei due elementi: la musica si porrà dunque al servizio della parola, oppure tenderà ad una
propria autonomia. Il tardo medioevo fu prevalentemente orientato a indirizzare la musica verso
l’indipendenza dalla parola. Si rendeva necessario concepire nuovi criteri che determinassero
l’organizzazione complessiva delle composizioni, dato che la forma non era più necessariamente
dettata dal testo: i compositori iniziarono a porsi il problema della forma musicale.
Il musicista cercò di riprodurre nei suoi manufatti le proporzioni ordinate e armoniche
dell’universo, fondando la forma musicale su principi essenzialmente matematici.
Man mano che poterono essere messi sulla carta ritmi sempre più complessi, il numero delle voci
crebbe a dismisura. Verso la fine del XII secolo per controllare gli aggregati sonori che andavano
facendosi sempre più complessi, era indispensabile arrivare a stabilire con esattezza anche la durata
delle note: ogni cantore doveva inserirsi nel movimento delle altre voci in un incastro perfetto.
Il gruppo dei musicisti che rese possibile questa importante innovazione è detto Scuola di Notre
Dame, perché pare gravitasse intorno alla cattedrale parigina e a quel gruppo di professori e studenti
che nel 1215 verrà riconosciuto come Università di Parigi. Il primo nome di compositore
tramandatoci è quello di Magister Leoninus. Egli compose un grande libro di organa per
amplificare il servizio divino. Nella seconda metà del XII secolo l’amplificazione musicale della
parola liturgica era ormai definitivamente approdata alla compilazione di un Magnus liber: si apre
così la fase in cui la scrittura musicale non è più funzionale solo alla conservazione del repertorio,
ma alla sua stessa composizione. L’opera di Magister Leoninus fu perfezionata da un altro Magister,
Perotinus Magnus, che rielaborò il Liber e vi aggiunse organa a 3 e 4 voci.
Il Magnus liber organi originale è andato perduto, ma disponiamo di alcune versioni di esso.Gli
organa attribuibili all’epoca di Leoninus sono tutti a due voci e si basano su un canto gregoriano
preesistente. La voce inferiore esegue il canto gregoriano originario prolungando molto a lungo la
durata di ciascuna nota, come un bordone – detta tenor, dando modo alla voce superiore di eseguire
la propria melodia, liberamente inventata,in note più veloci. Ad ogni nota del tenor corrispondono
dunque molte note della voce superiore, della duplum.
Il compositore prescriveva chiaramente il ritmo con cui andava cantata la veloce melodia superiore:
l’autore iniziava a determinare tutti i parametri della musica, senza concedere spazio alla libertà
esecutiva dei cantori. L’abnorme prolungamento imposto alla note del canto gregoriano affidate al
tenor era possibile solo se esse erano portatrici di una sillaba di testo; invece, quando nel gregoriano
originario la voce si slanciava in veloci e lunghi melismi su un’unica sillaba, una simile operazione
avrebbe significato snaturare del tutto l’idea stessa di melisma.
Il tenor usava allora un doppio criterio: quando il canto gregoriano era in stile abbastanza sillabico,
esso teneva lungamente fissa ogni nota; nel momento in cui il gregoriano presentava un melisma, il
tenor ingranava una marcia più veloce, che gli consentiva di non infrangerne l’unitarietà.
Se, dunque, il tenor svolgeva normalmente una semplice funzione di bordone, nei punti
corrispondenti ai melismi esso dialogava fittamente con il duplum. Queste particolari sezioni
dell’organum sono dette clausole.
Qui si inserisce l’opera di Perotinus. Le clausole erano la parte dell’organum che più poteva
spronare l’abilità tecnica di un compositore: si trattava di gestire voci diverse che andassero in
armonia tra loro. Vennero composte altre clausole da inserire al posto di quelle originali: quasi
nuovi pezzi di ricambio per sostituire le vecchie clausole.
La generazione di Perotinus prediligeva tuttavia l’impiego di un più alto numero di parti vocali: in
questo periodo vennero dunque composte clausole a due, a tre o a quattro voci da inserire negli
organa a due voci già esistenti. Gli organa erano musica speciale per occasioni speciali: essi erano il
sontuoso arredo sonoro di festività solenni nella chiesa cattedrale della capitale del regno di Francia.
La proliferazione del numero delle voci è stata resa possibile dall’introduzione della
notazione modale.
I compositori dell’epoca di Perotinus avrebbero preso ispirazione della metrica antica, costruendo
una specie di corrispondente musicale dei “piedi”dell’antica poesia: sei possibili strutture, dette
modi ritmici, ciascuna formata dalla diversa combinazione di unità lunghe e unità brevi che
andavano a realizzare sempre una suddivisione ternaria del ritmo. Ma non vi erano ancora
differenziazioni grafiche tra lunga e breve, perché si continuavano ad usare i neumi gregoriani nella
loro forma quadrata. Era proprio la disposizione di tali neumi ad indicare al cantore quale modo
ritmico andasse scelto.
I neumi gregoriani di due o più note implicavano un maggior peso dell’ultima nota
rispetto alle altre: il rapporto tra le prime note e l’ultima di ogni neuma sarebbe di levare-battere.
Oggi viene istintivo, di fronte a un gruppo di note, porre l’accento sulla prima di esse, piuttosto che
sull’ultima. Anticamente, invece, la mano dell’amanuense si fermava dopo aver scritto la nota più
importante, facendo terminare il neuma con essa. Questa teoria viene detta teoria degli stacchi
neumatici
La scuola di Notre Dante si sarebbe inserita senza soluzione di continuità in questo processo, senza
“inventare” alcuna notazione modale: i compositori polifonici non avrebbero fatto che altro che
cantare gli organa con le stesse scansioni ritmiche con cui eseguivano il canto gregoriano.
Solo successivamente, con l’approssimarsi del Trecento, si sarebbe tentato di “nobilitare” questa
pratica istintiva apparentandola alla metrica classica e codificandola in un sistema di rigide regole.
La clausola corrisponde al punto in cui il tenor incontra una melisma, cioè molte note sulla stessa
sillaba: il testo dell’intera clausola consiste dunque solo nella sillaba stessa.
Allora, venne naturale applicare alla clausola lo stesso principio che qualche secolo prima aveva
generato tropi e sequenze: aggiungere un testo ad un melisma preesistente. Le voci superiori della
clausola furono così fornite di parole che amplificavano il testo liturgico di cui erano tratte. Poiché
in francese il termine “parola” viene detto mot, la clausola tropata assunse il nome di mottetto.
Il mottetto del Duecento e Trecento divenne ben presto una composizione autonoma, eseguibile al
di fuori del contesto liturgico, i cui testi trattavano frequentemente argomenti profani. La sua
caratteristica più importante è quella di essere politestuale: mentre il tenor viene generalmente
eseguito da strumenti, le altre voci sono fornite ciascuna di un proprio testo, in latino o francese.
Le voci superiori di un mottetto eseguono quindi testi differenti contemporaneamente. È la prima
volta che ciò avviene nella storia della musica e la musica è l’unica arte a permettere la molteplicità
simultanea dei discorsi. Nel mottetto essi però non sono discorsi scollegati tra loro: un filo, più o
meno sottile, ne unifica i contenuti.
Oltre ad essere differenziare nel testo, le voci del mottetto di distinguevano anche perché
scorrevano con velocità diverse. In genere il tenor era disposto a note molto lunghe; sopra di esso il
motetus o duplum presentava un andamento più veloce, mentre il triplum – la voce più acuta di tutte
– procedeva con un ritmo ancora più serrato. Il mottetto fiorì soprattutto in un ambiente
estremamente intellettuale: i professori e gli studenti dell’Università di Parigi, tutti generalmente di
condizione ecclesiastica.
Un altro genere musicale era il conductus. Esso consisteva in canti in lingua latina di argomento
generalmente profano e spesso politico, monodici e polifonici, scritti in stile prevalentemente
sillabico. La particolarità più importante che distingueva il conductus polifonico del mottetto era
quella di essere costruito su un tenor non liturgico (come invece accadeva nel mottetto), ma di
libera invenzione. Il conductus si può considerare come il primo genere musicale medievale in cui il
compositore poteva creare liberamente tutte le voci, senza basarsi su una musica già esistente. Ma
questo modo di procedere non era troppo congeniale alla mentalità dell’epoca: nel Trecento il
genere del conductus non fu più praticato.
Nel tardo Trecento, i due criteri notazionali si fusero dando luogo ad un unico sistema di scrittura
musicale detto “notazione mista” o di “maniera” o ars subtilior. Da Bologna , l’altro antico centro
universitario italiano, proveniva invece il musicista Jacopo da Bologna, che si dedicò soprattutto al
genere che fu il prediletto dell’ars nova italiana: il madrigale.
Il madrigale de Trecento era una composizione generalmente a due voci, d’impianto strofico. Esso
era infatti costituito generalmente da due o più terzine di endecasillabi, intonate tutte sulla stessa
musica (A). Alla fine della serie di strofe, il componimento veniva chiuso da una coppia di
endecasillabi a rima baciata detta ritornello, che era cantata su una musica (B) diversa da quella
delle strofe. Questa forma della struttura assai semplice (AA…B) fu chiamata in Italia madrigale
proprio perché era il genere musicale in lingua madre. Il soggetto dei madrigali descriveva le scene
di caccia: la musica imitava l’inseguimento di una preda da parte di cani e cacciatori, sia con
frequenti onomatopee, sia nel tessuto polifonico stesso: una voce intonava la prima; dopo
qualche istante mentre essa continuava la sua corsa, partiva anche la seconda voce, ripentendo nota
per nota lo stesso percorso melodico tracciato dalla prima voce. Il punto di entrata della seconda
voce rispetto alla prima doveva essere attentamente calcolato, in modo che la loro sovrapposizione
non creasse sgradevoli sconti sonori. Questo artificio si chiama canone.
Dopo la metà del secolo, l’Italia musicale sembra ruotare intorno ad un altro centro di produzione:
Firenze. I tre compositori fiorentini del Trecento più citati dalle cronache e più rappresentati nei
manoscritti musicali sopravvissuti (Lorenzo Masini, Gherardello da Firenze e Francesco Landini)
erano attivi soprattutto nella produzione di musica profana polifonica. Il genere più frequentato a
Firenze era la ballata.
I musicisti di questo periodo legarono strettamente la forma delle loro composizioni alla forma
poetica dei testi stessi; contrariamente a quanto accadde in Francia, non risulta che nei generi
italiani più tipici siano stati impiegati artifici matematici per dotare la loro veste musicale di leggi
proprie, indipendenti dalla parola.
La scarsa autonomia della musica rispetto alla parola può spiegare come mai solo tardi, in Italia, si
sia avvertito il bisogno di annotare anche la musica; e come mai, nel successivo Quattrocento, i
compositori nativi della penisola ritornarono ad esercitare quasi esclusivamente la prassi consueta
della tradizione orale: dei musicisti italiani più celebrati nel XV secolo (Leonardo Giustinian,
Pietrobono del Chitarrino e Serafino Aquilano) del non è stata conservata neppure una
composizione.
Nel Quattrocento i musicisti italiani si ritirarono di nuovo nel mondo sommerso della tradizione
orale, abbandonando provvisoriamente il campo della polifonia scritta; le corti più ricche e potenti
della penisola si contendevano soprattutto musicisti provenienti da una piccola, florida regione
europea: le Fiandre.
L’abilità contrappuntistica del compositore consisteva allora nel combinare insieme questi elementi,
in modo che le varie voci potessero imitarsi l’una con l’altra. L’apice dell’imitazione era costituito
dal canone. Tipici erano i cosiddetti canoni enigmatici: il compositore scriveva solo una voce,
abbinando ad essa un indovinello per suggerire la modalità di esecuzione delle altre voci. Questo
artificio di cantare la stessa melodia con due mensure diverse fu usato abbondantemente dai
fiamminghi, e viene detto canone mensurale. La totale omogeneità ritmica fu raggiunta solo nel
Cinquecento ben inoltrato. Stentò molto a scomparire la pratica del cosiddetto cantus firmus.
Ci si serviva ancora di una melodia preesistente affidata in valori ritmici molto lunghi alla voce di
tenor; su di essa si costruivano liberamente le altre voci con un proprio, più veloce movimento
ritmico. Questo doppio regime che si instaurava fra il tenor e le altre voci andava a contrastare con
il desiderio di unità. Allora, per creare coesione all’interno della principale forma usata dai
fiamminghi, la messa, si cominciò ad utilizzare innanzitutto lo stesso cantus firmus per tutte le
sezioni di essa; le messe così composte si dicono messe cicliche, proprio perché la stessa
melodia compare ciclicamente sempre al tenor.
Fino all’epoca classico-romantica la musica quasi sempre è nata perché concretamente stimolata da
un committente. Nel periodo umanistico-rinascimentale, le esigenze della committenza andarono
diversificandosi. Agli inizi del XVI secolo il mercato musicale ebbe a registrare un sostanziale
mutamento: con l’applicazione alla musica delle tecniche di stampa, vennero immessi in
circolazione volumi musicali ad un costo estremamente ridotto rispetto ai codici compilati e miniati
a mano, provocando così una diffusione senza precedenti della musica scritta. Fu soprattutto il
madrigale cinquecentesco a trarre vantaggi da questa innovazione tecnologico-commerciale.
Ambedue le tecniche di stampa ebbero una rapida e travolgente diffusione: gli stampatori si
moltiplicarono, e gradualmente leggere musica dalla pagina scritta diventò una possibilità concreta
per un più ampio strato sociale, facendo diminuire in modo sensibile la quantità di musica trasmessa
oralmente. Pierre Attaignant fu il primo editore di musica ad aver realizzato una produzione
definibile quasi di massa. Egli aveva ripreso da un altro stampatore francese la tecnica di stampa a
caratteri mobili ad impressione unica: i caratteri di piombo raffiguranti le note erano forniti
ciascuno del proprio pezzettino di pentagramma, espediente che permetteva di comporre
direttamente la pagina completa. Lo sfruttamento intensivo a cui erano sottoposti i singoli caratteri
fece però scadere il livello estetico della pagina stampata: l’uso smussava sempre di più gli angoli
dei caratteri, non facendoli combaciare perfettamente gli uni con gli altri. Soprattutto negli anni
Trenta e Quaranta del Cinquecento, Attaignant pubblicò numerosi libri contenenti un genere
musicale molto in voga: un tipo di chanson notevolmente diverso da quello coltivato dai
fiamminghi. Questa nuova chanson, detta parigina perché diffusa soprattutto nell’ambito della
corte francese dei Valois, era più semplice e meno contrappuntistica della sua corrispondente
fiamminga. La chanson parigina era molto più legata al ritmo verbale del testo stesso: le voci
procedevano spesso con andamento omoritmico (cioè tutte insieme con lo stesso ritmo), in stile
tendenzialmente sillabico.
Clément Janequin ne sviluppò un tipo particolare: la chanson descrittivageneralmente quattro o
cinque, descrivevano scene concrete, come una battaglia, il cinguettio degli uccelli, i gridi dei
venditori ambulanti e così via, servendosi con grande abbondanza di onomatopee testuali e
musicali. Le musiche appositamente composte per strumenti generalmente non venivano notate: gli
strumentisti le trasmettevano per lo più oralmente. Nel corso del Quattrocento, però, si assistette ad
un evoluzione della musica strumentale che determinò una sua progressiva ascesa nella
considerazione accordatale delle classi dominanti. Durante il XV secolo si ricercò maggiormente
una sonorità più fusa e più omogenea dal punto di vista timbrico, estendendosi anche al registro
grave. Si costruirono,dunque, intere famiglie strumentali, ovvero ogni tipo di strumento
veniva realizzato in varie taglie: generalmente soprano, contrabbasso, tenore, basso e
altre taglie intermedie.
Avere la presenza di “voci” diverse nelle famiglie strumentali le rendeva simili a piccoli cori;
divenne allora consueto eseguire le musiche polifoniche sostituendo le voci umane con gruppi di
strumenti. L’accostarsi delle classi alte alla musica strumentale determinò la produzione di una
ricca letteratura di composizioni didattiche e di trattati che insegnavano ai dilettanti
come suonare correttamente i vari strumenti. In tal modo, la tecnica strumentale non era più un
segreto professionale custodito gelosamente dalle corporazioni dei musicisti di mestiere, ma
iniziava a diventare di dominio pubblico. Si andavano moltiplicando le edizioni di chansons
francesi arrangiate in forma esclusivamente strumentale. Tali trascrizioni pressoché letterali finirono
col cedere il passo a libere rielaborazioni delle chansons di partenza: dal 1560-70 in poi vi fu un
continuo apparire di canzon francese, aria francese per sonare, ecc., che testimoniano l’ampia
diffusione di questa nuova moda. L’ultima tappa del percorso di trasformazione della chanson
sempre nella seconda metà del Cinquecento consiste nella creazione di canzoni totalmente
indipendenti da modelli francesi: paradossalmente, il termine “canzone”, pur provenendo dalla
musica vocale, passò ad indicare la prima, vera forma strumentale autonoma. In genere, però,
questo tipo di musica veniva definita canzone da sonar. Tre elementi collegavano ancora la
“canzone da sonar” con la sua antenata vocale che risaliva a Janequin: la forma generale, il
succedersi di zone omoritmiche e zone imitative e l’onnipresente ritmo iniziale dattilico. Non
avendo più un testo a cui fare riferimento, le “canzoni da sonar” erano spesso dotate di titoli
alquanto curiosi. Generalmente era prevista un’esecuzione per più strumenti, ma talvolta gli stessi
compositori ne approntavano versioni solo per organo o clavicembalo.
Verso la fine del Cinquecento si iniziarono a prescrivere anche alcune indicazioni dinamiche.