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Riassunto di Storia della musica occidentale VOLUME 1, Carrozzo Cimagalli

Storia della Musica Occidentale,Parte I: dalla tradizione orale alla tradizione scritta

La tradizione orale pervase quasi completamente i millenni precedenti il IX secolo e


continuò a coesistere fianco a fianco con la tradizione scritta fino ai giorni nostri.

Capitolo I – La civiltà musicale greca


I greci concepivano il mondo musicale come gravitante intorno a due poli opposti, che si possono
simboleggiare con due strumenti fondamentali: Da una parte la lyra, progenitrice degli strumenti a
corde, creata per unirsi alla poesia umana e dunque al discorso, alla possibilità di istruirsi, alla
razionalità; Dall’altra l’aulòs, capostipite degli strumenti a fiato e simbolo della musica che si
accompagna all’invasamento estetico, alla possessione rituale, sfrenatezza orgiastica.
Tale contrapposizione può sicuramente messa in relazione anche con il profondo dualismo che
scindeva la religiosità greca, sia pure con notevoli contaminazioni tra l’uno e l’altro dei due
archetipi: Da una parte la religione olimpica che poneva una netta separazione tra gli dei e gli
uomini; Dall’altra il culto dionisiaco, che ammetteva invece la possibilità per l’uomo di
un contatto intimo con il divino e il cosmico attraverso l’invasamento estatico.
I greci basavano infatti il loro sistema musicale sulle cosiddette harmonìai, o modi, caratterizzate
ciascuna dal nome di un’antica popolazione ellenica e a ognuna di esse corrispondeva una
determinata scala musicale.
Ogni harmonia causava un ethos cioè un particolare effetto sull’animo e sul corpo degli uomini,
degli animali e degli esseri inanimati.
Il concetto platonico della musica è stato definito “catarsi allopatica”: una musica appropriata può
infondere una determinata virtù a chi ne è privo a chi e in preda al vizio opposto purificandolo.
La musica per Platone doveva avere solo la funzione di utilità, non piacere: per questo motivo
vennero banditi strumenti tipo l’aulòs. Più aperto e permissivo era Aristotele che si basava su un
concetto definibile come “catarsi omeopatica”: anche un ethos negativo è accettabile perché l’animo
può espellere fuori di sé le proprie negatività e ritornare allo stato normale attraverso un
perturbamento controllato. Entrambi i filosofi erano pienamente d’accordo nel vietare ai giovani
ogni professionismo musicale: la musica doveva sempre rimanere un’utile occupazione per il tempo
libero di un giovane colto e mai scadere al livello di un’attività lavorativa.
La profonda differenza che il mondo greco avvertiva nei confronti della musica pratica aveva
antiche radici: per Pitagora la vera musica era solo quella puramente teorica, cioè la scienza
acustica, in quanto fondata sul principio razionale per eccellenza: il numero. I pitagorici ritenevano
che il moto degli astri fosse regolato armonicamente da proporzioni numeriche; poiché anche gli
intervalli musicali erano determinati da simili rapporti matematici, la potenza del numero
coordinava in un unico insieme astri e musica.

Capitolo II – La monodia liturgica cristiana


Le musiche greche e romane non fissare per iscritto svanirono gradualmente con lo scomparire
delle civiltà: un altro antico repertorio di tradizione orale riuscì a giungere alla fase della stesura
scritta che ne ha resa possibile la sopravvivenza fino ad oggi. Si tratta del canto gregoriano, ma che
sarebbe più corretto definire monodia liturgica cristiana. Nulla sappiamo di preciso su ciò che
riguarda il canto cristiano dei primi secoli. Poiché Cristo e i suoi apostoli erano ebrei, si può
supporre che la prima comunità cristiana usasse un tipo di canto non troppo dissimile da quello
delle sinagoghe. La liturgia ebraica era interamente “cantillata” e spesso la voce si spostava da una
nota all’altra con un movimento quasi scivolato. La principale eccezione consisteva nella salmodia:
i salmi venivano cantati imperniandone la recita su un’unica nota continuamente ripetuta. I cristiani
non attinseroesclusivamente al mondo giudaico. Il greco divenne allora la lingua maggiormente
usata nella liturgia e in greco furono scritti sia i Vangeli che tutti gli altri libri del Nuovo
Testamento. In occidente, il latino iniziò ad affiancarsi al greco come lingua liturgica solo con molta
gradualità, ma non divenne lingua ufficiale della Chiesa d’occidente fino alla seconda metà del IV
secolo.
Una grande svolta avvenne nel 313 d.C. quando Costantino e Licinio emanarono l’editto di Milano:
riconosciuto il diritto alla libertà di espressione per tutti i culti religiosi. Il cristianesimo inaugurò
così un’epoca in cui il proprio ruolo nella vita politica e religiosa dell’impero divenne sempre più
influente. Nel IV secolo furono poste le basi per la piena affermazione ufficiale della Chiesa,
conferendole una totale visibilità pubblica: si costruiscono nuove basiliche, si avviò a
istituzionalizzare, si ampliò e fissò per iscritto il cerimoniale liturgico. Parte integrante della
solennità del rito era la musica, che svolgeva alcune funzioni molto importanti:
-funzione di amplificazione rituale: avvolgendosi nella dimensione inusuale ed elevata del canto, la
proclamazione del testo liturgico s’innalzava dal semplice livello di linguaggio umano a quello di
Parola di Dio.
-funzione di amplificazione fonica: in una sala o in una basilica affollata dai fedeli, la parola cantata
era molto più sonora e quindi percepibile.
-funzione di amplificazione melodica: la monodia liturgica cristiana non faceva
altro che rendere esplicita l’intrinseca musicalità della lingua latina.
Il cantus non aveva un’unica possibilità di realizzazione, e il suo grado di melodizzazione
dipendeva dallo stile richiesto nelle singole circostanze: in una veloce antifona la melodia era più
semplice, e tale stile viene detto stile sillabico; in un canto solistico quale l’offertorio il cantore
poteva elaborare lo schema di partenza in uno stile più ricco, denominato stile melismatico o stile
fiorito.
Ci sono altri casi di melodie molto tarde, che non hanno più contatti con il fondo arcaico della
monodia liturgica, come quello riguardante i salmi, la cui intonazione avveniva in modo molto
simile a quello ebraico: se la voce doveva rimanere fissa su un’unica nota, le era ovviamente
impossibile seguire il profilo di ogni singola parola. Un altro repertorio indipendente da uno stretto
rapporto con il testo è quello degli inni. Gli inni erano composizioni poetiche di lode a Dio, cantate
in greco fin dagli inizi del cristianesimo.
Il testo liturgico dava luogo a tradizioni di canto diverse nelle varie regioni d’Europa, subendo
anche l’influenza degli stili di canto locali. Intorno al VI secolo, l’Europa ecclesiastica spartita in
due campi fondamentali, ciascuno a sua volta suddiviso in riti particolari:
- da una parte la Chiesa d’occidente, di lingua latina, con il rito vetero-romano, il rito ambrosiano, il
rito aquileiese, il rito beneventano, il rito gallicano, il rito celtico e il rito ispanico;
- dall’altro le chiese d’oriente frammentate in una vasta pluralità di riti e di lingue diverse, che si
avviavano a una prima separazione da Roma.
Il VI secolo si concluse sotto il papato di S. Gregorio Magno, colui dal quale il canto
gregoriano prese nome. Fino a qualche tempo fa, si riteneva che egli avesse avviato una decisiva
riforma del canto liturgico, ma studi più recenti hanno invece rivelato l’assoluta infondatezza di
una tale attribuzione: non esiste alcun documento attendibile che dimostri un intervento del Papa
riguardo alla musica.

Capitolo III – Le grandi innovazione del IX secolo


Fra il VIII e il IX secolo d. C., la storia della musica voltò pagina: le innovazioni introdotte nel
periodo carolingio inaugurarono un’epoca totalmente diversa, le cui propaggini si estendono fino ai
nostri giorni. Tutto cominciò quando i Franchi, per la loro strategia di espansione in Europa, si
allearono con il papato. Vennero intrapresi così numerosi scambi tra Roma e Aquisgrana, sede dei re
carolingi: basti pensare al soggiorno di papa Stefano III presso Pipino il Breve, alla successiva
discesa di quest’ultimo in Italia e all’incoronazione di Carlo Magno quale sovrano del Sacro
Romano Impero. Nel corso di questi contatti, ci si rese conto da ambo le parti che il canto liturgico
in uso presso i Franchi era ben diverso da quello romano: si trattava della differenza tra
il rito gallicano e quello vetero-romano. La monarchia carolingia non restò indifferente a tale
constatazione. Pipino e i suoi discendenti, infatti, non si consideravano semplici laici, ma sovrani
dotato di un’investitura divina: ritenevano che non fosse estraneo ai loro compiti l’occuparsi
attivamente di problemi religiosi. Ma la motivazione forse più importante che determinò il loro
intervento è da ricercare nel fatto che tollerare il pluralismo nei riti locali avrebbe necessariamente
compromesso il progetto di accentrare il potere nell’autorità imperiale: l’unificazione politica del
Sacro Romano Impero marciava di pari passo con la sua unificazione religiosa. Si cercò di
trapiantare presso i Franchi il rito romano, ma l’operazione fu irta di problemi. Il forzato
inserimento del canto romano al posto di quello gallicano non poteva che concludersi con un
prodotto ibrido, frutto di una reciproca contaminazione: l’operazione si concluse allora con la
creazione di un nuovo tipo di canto, prodotto dalla commistione tra i due repertori,
che può essere definito come franco-romano.
Per ottenere il fine politico propostosi – cementare l’unità dell’impero anche attraverso la musica – i
sovrani carolingi imposero a tutti i territori a loro soggetti si adottare questo nuovo canto liturgico
ufficiale. La sfera del sacro è però conservatrice e non lascia facilmente spazio alle innovazioni: per
superare l’ostacolo, nacque allora una leggenda che funzionò da strategia pubblicitaria, conferendo
al nuovo prodotto franco-romano un marchio: il canto gregoriano.Si narrava che il papa Gregorio I
dettasse i suoi canti a un monaco, alternando però tale dettatura con pause molto ampie. Il monaco,
incuriosito, scansò un lembo paravanto di stoffa che lo separava dal pontefice, per sbirciare cosa
questi facesse durante i lunghi silenzi. Assistette così al prodigio: una colomba, posata sulla spalla
del papa, gli stava suggerendo le frasi all’orecchio. Sarebbe stato quindi lo stesso Spirito Santo ad
aver “inventato” il nuovo canto. Nessun essere umano in questo modo si sarebbe mai opposto al
canto-romano, che conquistò così gradualmente tutta l’Europa.

Codificazione del repertorio gregoriano e abbandono della pratica improvvisata .Il canto
gregoriano, come la Bibbia, doveva essere trasmesso alle generazioni future senza alcun
mutamento, per rispettare la volontà dello Spirito Santo che lo aveva dettato. Si forma allora il
concetto moderno di repertorio: un corpus di musiche ben definito e fissato una volta per tutte,
posto sotto il segno dell’immutabilità. Ci si avviò al tramonto della pratica improvvisata nel canto
liturgico e l’improvvisazione venne gradualmente relegata in ambiti circoscritti. Mutò anche la
metodologia didattica, trasformando la creatività tipica della tradizione orale nell’apprendimento
passivo di un repertorio già costituito: il concetto di“imparare a memoria” aveva definitivamente
assunto il significato moderno. Il cantore apprendeva le melodie della voce del proprio maestro
come fossero oggetti perfettamente compiuti e indeformabili, ripetendoli ogni volta sempre identici
a se stessi: per impadronirsi della totalità dei canti liturgici, dieci anni di studio gli erano appena
sufficienti.
Classificazione del repertorio gregoriano negli otto modi
Per favorire il nuovo tipo di memorizzazione, i teorici carolingi cercarono di suddividere il
repertorio secondo il modo, cioè del tipo di scala musicale usata. In epoca carolingia si formulò
dunque una griglia di otto modi, entro la quale vennero classificati tutti i canti gregoriani, ovvero
otto tipi di scale musicali, formati da differenti successioni di toni e semitoni. Ma questa
classificazione non si adattava facilmente a tutto il repertorio liturgico: alcuni canti furono
modificati e forzatamente inseriti nel sistema degli otto modi; ad altri, impossibili da normalizzare,
fu attribuito il termine di “modo irregolare” o “peregrino”. Ovviamente, sapere se il canto da
eseguire appartenesse a un modo o a un altro non aiutava troppo i cantori a ricordarlo perfettamente
in tutti i suoi particolare. Era giunto il tempo di servirsi della scrittura .

Nascita della scrittura neumatica


Inizialmente, nel IX secolo, furono i sacerdoti e i diaconi a servirsi di segni convenzionali, detti
neumi, sui libri liturgici. Si scorge quindi un rapporto tra il potente fiorire della parola scritta, alla
fine dell’VIII secolo, e la nascita della scrittura musicale di poco successiva: lo sbalorditivo
consumo di pergamena documentato nell’epoca carolingia era dovuto sia all’esigenza di ordine e
chiarezza nell’amministrazione, sia alla necessità di conservare viva la comprensione della
lingua latina. Per assicurare la sopravvivenza del canto gregoriano, impedirne corruzioni e
alterazioni e mantenerlo uniforme in tutto l’impero, dal X secolo cominciarono a essere compilati
manoscritti musicali non più ad uso dei soli celebranti, ma degli stessi cantori professionisti che
sostituivano la schola cantorum. Essi fungevano da archivio a cui fare riferimento per controllare di
non aver deviato dalla tradizione. La scrittura musicale non implicava necessariamente l’abitudine
di leggere musica da un libro al momento dell’esecuzione: questo avvenne solo con
molta gradualità.

Amplificazione orizzontale: tropi e sequenze


Altri prodotti dell’epoca di Carlo Magno sono i tropi e le sequenze. Essi consistono nel “farcire” di
parole i lunghi melismi privi di testo che fanno parte di alcuni canti, in modo che a ogni nota del
melisma corrisponda una sillaba del nuovo testo. Un tale espediente agevola molto la
memorizzazione delle melodie: è più facile imparare a memoria una musica con le parole piuttosto
che un vocalizzo senza testo. Ma la loro funzione non è tutta qui.
Il testo aggiunto è un’ amplificazione del canto originario: i tropi e le sequenze sono dunque
un’amplificazione del canto gregoriano. I tropi potevano consistere anche nella semplice aggiunta
di un nuovo melisma, oppure nell’inserzione di una nuova frasi, complete di parole e musica, per
amplificare il canto di partenza anche dal punto di vista della durata. Le sequenze divennero
composizioni completamente autonome, in poesia: in esse, coppie di strofe erano cantate sulla
stessa frase musicale ripetuta. I tropi, rigogliosissimi fino al XIII secolo, furono aboliti del tutto dal
Concilio di Trento, alla metà del XVI secolo, invece cinque sequenze sono sopravvissute nell’uso
liturgico fino ai tempi moderni.

Amplificazione verticale: polifonia


Un ultimo, grande passo fu compiuto nell’epoca carolingia: la polifonia fu inserita a
pieno diritto nella liturgia. La possibilità di arricchire polifonicamente il canto liturgico è
testimoniata fin da molti secoli prima. I musicisti del IX secolo non hanno inventato nulla: hanno
solo incanalato anche l’antichissima pratica di cantare a più voci nella spinta generale
verso una codificazione scritta. La polifonia era la risposta ideale all’esigenza di accrescere la
solennità del rito, senza alterare il canto liturgico orami “gregoriano” e intangibile: essa ne era solo
un’amplificazione verticale, così come tropi e sequenze ne erano un’amplificazione
orizzontale.

Capitolo IV – La notazione neumatica e Guido D’Arezzo


Il copista si forniva di alcuni fogli di pergamena, li squadrava, li inquadrava e ne numerava le carte;
con l’aiuto di un regolo e di uno stilo senza inchiostro, tracciata un certo numero di linee a secco
come guida per la scrittura. Infine, passava alla copiatura del testo liturgico, rinviando la
decorazione colorata a una fase successiva. Nella maggior parte dei casi, questo bastava a produrre i
libri necessari per il culto. Verso la fine del IX secolo sorse l’esigenza di aggiungervi alcuni segni
supplementari: i celebranti, che non erano cantori specialistici, avevano bisogno di un segnale per
capire quando cominciare una cadenza. Per realizzare ciò, s’impegnarono i cosiddetti neumi
Con il passare del tempo, però, anche gli esperti cantori della schola avvertirono la
necessità di annotare i canti liturgici di loro competenza, a cominciare da quelli più
rara esecuzione.
In alcuni casi, l’amanuense a cui veniva affidata questo compito doveva inserire i neumi tra le righe
di un manoscritto liturgico già compilato, che quasi mai gli lasciava lo spazio sufficiente per
scrivere tutti i segni necessari. Lo scriba doveva insegnarsi e accavallare i neumi da attribuire a una
sillaba sopra quelli relativi alla sillaba successiva. Eppure tutto ciò non rappresentava un grande
problema. La scrittura neumatica era estremamente libera: essa non usava un rigo musicale di
riferimento, perché si proponeva di prescrivere con esattezza matematica quale nota
andasse cantata, ma come questa nota dovesse essere eseguita. Tutti i cantori conoscevano ormai
perfettamente a memoria l’intero repertorio delle melodie liturgiche: ciò che più facilmente poteva
venir dimenticato erano le sfumature. Lo studio paleografico diventa quasi un’indagine grafologica,
perché i modi di tracciare un neuma sono tanti quanti i codici.
Per precisare con scrupolosa esattezza tutte le particolarità del tracciato sonoro, venivano talvolta
aggiunte ai neumi alcune lettere convenzionali, dotate di vari significati. Questo tipo di scrittura
musicale, detta adiastematica perché non indica le altezza sonore, non è uno stadio imperfetto di un
cammino che condurrà alla notazione moderna: è invece un raffinatissimo sistema di scrittura,
perfettamente rispondente alle esigenze del IX-X secolo.
Mutando le esigenze, si adeguerà di conseguenza anche la risposta grafica ad esse, in
un cammino che si rinnova in continuazione.
In alcuni monasteri francesi dell’Aquitania si privilegiò un tipo di notazione che indicava con
sufficiente approssimazione anche l’altezza dei suoni; e fu questa tendenza, detta diastematica, che
finì per prendere il sopravvento. Inoltre, in questo modo, anche l’apprendimento tendeva a
svincolarsi dalla tradizione orale. Una sistemazione dell’impegno del rigo musicale è dovuta
all’opera di Guido d’Arezzo.
Egli propose di utilizzare un certo numero di linee, molto ravvicinate tra loro: in tal modo era
possibile posizionare le note sia sulle righe che sugli spazi intermedi tra una riga e l’altra. Così ogni
suono corrispondeva sempre e necessariamente ad un solo posto sul rigo musicale; per ottenere
questo, però, c’era bisogno di stabilire esattamente a quale nota corrispondesse ogni singola riga.
Guido suggerì due metodi, da usarsi insieme o alternativamente:

- segnare alcune linee con una lettera-chiave tratta dalla notazione alfabetica;
- colorare con inchiostro alcune delle linee a secco.

L’adozione del rigo musicale illustrato da Guido d’Arezzo si diffuse lentamente in tutta Europa,
generando infine il rigo musicale a quattro linee (tetragramma), usato ancora oggi per scrivere il
canto gregoriano. Il pentagramma iniziò a comparire all’inizio del XIII secolo nei manoscritti
polifonici (non gregoriani) della Francia del Nord.
Anche la forma dei neumi andò alternandosi, per adattarsi all’esatta collocazione sul rigo: i tratti
generalmente sottili e sfumati dei primi tempi mutarono man mano fino a diventare nel XII secolo
la classica notazione del canto gregoriano detta notazione quadrata. Ora chiunque poteva
apprendere una nuova musica direttamente da un libro,ricavandone il preciso profilo melodico.

Capitolo V – Monodia medievale non liturgica


Le fonti su cui lavorano i musicologi sono prevalentemente musiche che sono giunte fino a noi, cioè
le musiche scritte, ma ci sono anche delle testimonianze indirette come i documenti d’archivio, i
reperti archeologici e le fonti letterarie e iconografiche. Si venne così a sapere che nel periodo della
civiltà feudale ogni momento importante della giornata era scandito attraverso i suoni.
Un’altra connotazione importantissima della musica era di fungere da s<b>imbolo
sonoro di un gruppo sociale. Questa funzione simbolica di alcuni strumenti si mantenne inalterata
per secoli, penetrando perfino nel mondo teatrale (Shakespeare).
A fianco di tutto ciò c’era la poesia. Come nell’antica Grecia, anche nell’epoca romanza la poesia
lirica veniva composta per essere soprattutto cantata. Poesia e musica nascevano dunque in una
stretta simbiosi. Il più antico e vasto patrimonio di poesie in lingua volgare, le liriche dei trovatori,
entra nella storia della musica. Anche in questo caso ci si imbatte nel problema costituito
dall’origine orale del repertorio, poiché le intonazioni musicali erano trasmesse secondo la modalità
della tradizione orale.
Solo tardivamente si avvertì l’esigenza di fissare le parole e la musica della poesia trobadorica in
codici resistenti all’usura del tempo. L’accuratezza di tali manoscritti dimostra con ogni probabilità
che essi furono commissionati da personaggi di alto rango. I trovatori operavano in Francia
meridionale (Provenza e Aquitania) nella zona di diffusione della lingua d’oc, in un periodo
compreso tra la fine del XI e la fine del XII secolo. I trovatori non vanno confusi, però, con i
menestrelli e giullari. I giullari erano gli eredi degli antichi ioculatores: artisti girovaghi, spesso
indigenti, essi non erano esclusivamente musicisti e cantastorie, ma anche giocolieri o
saltimbanchi. Erano relegati agli ultimi gradini della scala sociale: i giullari fungono non solo da
intrattenitori, ma da vera memoria storica del popolo, tramandando oralmente le gesta degli eroi
(nell’Europa medievale, questi racconti cantati erano detti chansons de geste).
I menestrelli (soprattutto nella Francia del Nord) erano giullari al servizio stabile di un signore: non
solo musicisti e buffoni, ma a volte uomini di fiducia ben ricompensati. I trovatori si situavano su
un ben diverso piano. Il primo trovatore di cui ci sia rimasto il nome era Guglielmo d’Aquitania. La
maggior parte del trovatori apparteneva alla piccola nobiltà, ma c’erano anche persone di bassa
condizione sociale. Almeno nei primi tempi non vi era alcuno steccato che dividesse l’attività
musicale dei trovatori da quella di menestrelli e giullari: tutti costoro cantavano le poesie su
una musica improvvisata. La più grande differenza era dunque sociologica: dilettanti i trovatori,
professionisti gli altri. Dopo che Guglielmo d’Aquitania e i trovatori della sua generazione
raccolsero e svilupparono tecniche e spunti musicali di menestrelli e giullari, questi ultimi
retrocessero gradatamente a semplici esecutori delle musiche dei trovatori, senza giungere a vedere
immortalato il loro nome sulle pergamene dei codici. Sull’origine dell’arte trobadorica la
discussione scientifica è ancora aperta. Ciò che ha suscitato la discussione degli studiosi è la
provenienza del contenuto di queste liriche. Esse, oltre a trattare argomenti politici, satirici o
religiosi, celebrano in prevalenza un particolare tipo di amore, definito “amor cortese”, poiché non
può prescindere dalla “cortesia”, la raffinata arte di diverse delle corti. Nelle poesie in lingua d’oc,
l’amore è vissuto come dipendenza assoluta dall’amante verso l’amata; quasi una perfetta immagine
del rapporto di subordinazione tra vassallo e sovrano. Tutto il vocabolario feudale di riverenza,
omaggio, fedeltà e sottomissione è impiegato in accezione amorosa. Questo tipo di amore non si
limitava all’aspetto puramente sensuale, anche se i trovatori producevano numerosi liriche di
argomento decisamente licenzioso. L’amor cortese giocava invece soprattutto sulla schermaglia
amorosa: l’amore era misterioso,perché quasi sempre adultero (il nome dell’amata è celato a volte
sotto uno pseudonimo, il cosiddetto senhal) e spesso tale sentimento era infelice, almeno nella
finzione poetica, perché l’amante veniva respinto o l’amata era irraggiungibile. Varie ipotesi hanno
cercato di risolvere il problema delle origini della letteratura trobadorica. Alcuni studiosi hanno
rintracciato precise corrispondenze con la musica sacra ed essa contemporanea. Ma è stata avanzata
un’ipotesi che ha mantenuto un alto grado di attendibilità: è la cosiddetta ipotesi araba. Le poesie
arabe, prodotte durante il dominio islamico in Spagna, presentano numerosi punti di contatto con le
liriche provenzali: la presenza di personaggi stereotipi, l’uso del senhal e la voluta oscurità in cui
viene mantenuto l’oggetto dell’amore, l’impegno di formule poetiche particolari. La discussione
sulle origini della produzione in lingua d’oc è dunque ancora aperta. Al contrario, è invece
incontestabile la discendenza dell’arte dei trovatori di un’altra letteratura in lingua volgare: quella
dei trovieri, nella Francia del nord. In questo caso,ai rapporti commerciali tra sud e nord della
Francia e ai documentati viaggi di trovatori e giullari in terra straniera, vanno aggiunti alcuni
importanti matrimoni principeschi, che causavano inevitabilmente contaminazioni tra culture
diverse. Così, l’ideale di un amor cortese, tipico della Francia meridionale, attecchì
velocemente anche nelle corti della Francia del nord. Il periodo di maggior sviluppo
del repertorio trovierico si situa infatti nel XIII secolo, mentre quello trobadorico va
collocato prevalentemente nel XII secolo. Ma la più grande differenza fra trovatori e trovieri
consiste nella lingua impiegata: i trovieri non si esprimevano in lingua d’oc, ma nella lingua d’oil,
la quale darà origine al francese moderno. Contenuti e forme delle composizioni trovieriche erano
molto simili a quelli trobadorici; anche i nomi dei generi poetici erano quasi sempre la tradizione in
lingua d’oil delle corrispondenti forme provenzali. Le strutture metriche e musicali delle due
produzioni non si lasciano inquadrare in schemi troppo rigidi, poiché presentano una
grande quantità di soluzioni molto diverse: la forma complessiva è AAB. Altre lingue romande
dettero origine a componimenti poetico-musicale sulla scia di quelli dei trovatori:
- la Germania vide l’attività dei Minnesänger, che utilizzavano anch’essi la forma AAB,
denominata Barform.
- Della produzione in <b>lingua catalana, invece, ci sono rimaste quasi solamente le
Cantigas de Santa Maria, monodie di argomento sacro.

A fianco delle musiche su testi in lingua volgare, vanno annoverati anche i canti profani, con testi
redatti in lingua latina: essi sono rappresentati principalmente da intonazioni di poesie di classici
latini, nonché da alcuni planctus, ossia compianti di personaggi famosi e altre melodie.
Un repertorio composito, principalmente costituito dai canti goliardici dei clerici vagantes
(“studenti vaganti” da un’università all’altra) scritti in latino, in antico tedesco e in francese, è
contenuto nei cosiddetti Carmina Burana.

In ambito sacro, oltre alle laude, sono rimaste abbondanti tracce di un particolare repertorio in
lingua latina: il dramma liturgico. Esso rappresenta una tipica espressione del gusto medievale, il
quale si orientava sempre più verso l’esteriorizzazione e la visualizzazione del rito religioso: la
liturgia stessa andò popolandosi di gesti e cerimoniali che rendevano immediatamente
tangibile il loro contenuto spirituale.

I drammi in volgare ebbero una vastissima diffusione in tutta l’Europa. Per questo tipo di repertorio
si può parlare di teatro anche se i costumi degli attori non erano storicizzati, ma consistevano in
abiti contemporanei; il palcoscenico era spesso all’aperto, in piena luce del giorno e senza una
demarcazione netta con lo spazio riservato al pubblico. Infine, mentre i drammi liturgici in latino
era integralmente musicati in stile monodico, nei drammi in volgare era riservato ampio spazio ai
dialoghi parlati. Strumenti musicali potevano essere usati in ambedue i generi, anche se non è
rimasta alcuna traccia delle musiche ad essi destinate.

Parte II: il problema della forma musicale

Verso la fine del XII secolo, ad opera della Scuola di Notre Dame, la concezione della
musica subì una svolta fondamentale: si avviò il processo che condusse ad annotare le altezze delle
note e il ritmo musicale. Questo fatto ebbe una notevole conseguenza: se il compositore iniziava a
determinare con precisione i parametri della musica (le altezze e le durate), la musica stessa
disponeva dei mezzi per diventare un oggetto autonomo, le cui leggi costruttive potevano sottrarsi
ad un legame troppo vincolante con il testo intonato.
Tutta la storia della musica vocale sarà caratterizzata dal perpetuo oscillare tra due modi opposti di
intendere il rapporto parola-musica, che attribuiranno alternativamente la preminenza all’uno o
all’altro dei due elementi: la musica si porrà dunque al servizio della parola, oppure tenderà ad una
propria autonomia. Il tardo medioevo fu prevalentemente orientato a indirizzare la musica verso
l’indipendenza dalla parola. Si rendeva necessario concepire nuovi criteri che determinassero
l’organizzazione complessiva delle composizioni, dato che la forma non era più necessariamente
dettata dal testo: i compositori iniziarono a porsi il problema della forma musicale.
Il musicista cercò di riprodurre nei suoi manufatti le proporzioni ordinate e armoniche
dell’universo, fondando la forma musicale su principi essenzialmente matematici.

Capitolo VI – Ars antiqua: la scuola di Notre Dame


L'ars antiqua è quel movimento musicale che si colloca nella zona di Parigi dalla seconda metà del
XII secolo fino al XIV secolo. Nella musica ci fu un importante espediente tecnico che permise alla
polifonia di ampliarsi in senso verticale, consentendo il canto di tre, quattro o più voci sovrapposte:
la notazione del ritmo.

Man mano che poterono essere messi sulla carta ritmi sempre più complessi, il numero delle voci
crebbe a dismisura. Verso la fine del XII secolo per controllare gli aggregati sonori che andavano
facendosi sempre più complessi, era indispensabile arrivare a stabilire con esattezza anche la durata
delle note: ogni cantore doveva inserirsi nel movimento delle altre voci in un incastro perfetto.

Il gruppo dei musicisti che rese possibile questa importante innovazione è detto Scuola di Notre
Dame, perché pare gravitasse intorno alla cattedrale parigina e a quel gruppo di professori e studenti
che nel 1215 verrà riconosciuto come Università di Parigi. Il primo nome di compositore
tramandatoci è quello di Magister Leoninus. Egli compose un grande libro di organa per
amplificare il servizio divino. Nella seconda metà del XII secolo l’amplificazione musicale della
parola liturgica era ormai definitivamente approdata alla compilazione di un Magnus liber: si apre
così la fase in cui la scrittura musicale non è più funzionale solo alla conservazione del repertorio,
ma alla sua stessa composizione. L’opera di Magister Leoninus fu perfezionata da un altro Magister,
Perotinus Magnus, che rielaborò il Liber e vi aggiunse organa a 3 e 4 voci.
Il Magnus liber organi originale è andato perduto, ma disponiamo di alcune versioni di esso.Gli
organa attribuibili all’epoca di Leoninus sono tutti a due voci e si basano su un canto gregoriano
preesistente. La voce inferiore esegue il canto gregoriano originario prolungando molto a lungo la
durata di ciascuna nota, come un bordone – detta tenor, dando modo alla voce superiore di eseguire
la propria melodia, liberamente inventata,in note più veloci. Ad ogni nota del tenor corrispondono
dunque molte note della voce superiore, della duplum.
Il compositore prescriveva chiaramente il ritmo con cui andava cantata la veloce melodia superiore:
l’autore iniziava a determinare tutti i parametri della musica, senza concedere spazio alla libertà
esecutiva dei cantori. L’abnorme prolungamento imposto alla note del canto gregoriano affidate al
tenor era possibile solo se esse erano portatrici di una sillaba di testo; invece, quando nel gregoriano
originario la voce si slanciava in veloci e lunghi melismi su un’unica sillaba, una simile operazione
avrebbe significato snaturare del tutto l’idea stessa di melisma.
Il tenor usava allora un doppio criterio: quando il canto gregoriano era in stile abbastanza sillabico,
esso teneva lungamente fissa ogni nota; nel momento in cui il gregoriano presentava un melisma, il
tenor ingranava una marcia più veloce, che gli consentiva di non infrangerne l’unitarietà.
Se, dunque, il tenor svolgeva normalmente una semplice funzione di bordone, nei punti
corrispondenti ai melismi esso dialogava fittamente con il duplum. Queste particolari sezioni
dell’organum sono dette clausole.
Qui si inserisce l’opera di Perotinus. Le clausole erano la parte dell’organum che più poteva
spronare l’abilità tecnica di un compositore: si trattava di gestire voci diverse che andassero in
armonia tra loro. Vennero composte altre clausole da inserire al posto di quelle originali: quasi
nuovi pezzi di ricambio per sostituire le vecchie clausole.
La generazione di Perotinus prediligeva tuttavia l’impiego di un più alto numero di parti vocali: in
questo periodo vennero dunque composte clausole a due, a tre o a quattro voci da inserire negli
organa a due voci già esistenti. Gli organa erano musica speciale per occasioni speciali: essi erano il
sontuoso arredo sonoro di festività solenni nella chiesa cattedrale della capitale del regno di Francia.
La proliferazione del numero delle voci è stata resa possibile dall’introduzione della
notazione modale.
I compositori dell’epoca di Perotinus avrebbero preso ispirazione della metrica antica, costruendo
una specie di corrispondente musicale dei “piedi”dell’antica poesia: sei possibili strutture, dette
modi ritmici, ciascuna formata dalla diversa combinazione di unità lunghe e unità brevi che
andavano a realizzare sempre una suddivisione ternaria del ritmo. Ma non vi erano ancora
differenziazioni grafiche tra lunga e breve, perché si continuavano ad usare i neumi gregoriani nella
loro forma quadrata. Era proprio la disposizione di tali neumi ad indicare al cantore quale modo
ritmico andasse scelto.
I neumi gregoriani di due o più note implicavano un maggior peso dell’ultima nota
rispetto alle altre: il rapporto tra le prime note e l’ultima di ogni neuma sarebbe di levare-battere.
Oggi viene istintivo, di fronte a un gruppo di note, porre l’accento sulla prima di esse, piuttosto che
sull’ultima. Anticamente, invece, la mano dell’amanuense si fermava dopo aver scritto la nota più
importante, facendo terminare il neuma con essa. Questa teoria viene detta teoria degli stacchi
neumatici
La scuola di Notre Dante si sarebbe inserita senza soluzione di continuità in questo processo, senza
“inventare” alcuna notazione modale: i compositori polifonici non avrebbero fatto che altro che
cantare gli organa con le stesse scansioni ritmiche con cui eseguivano il canto gregoriano.
Solo successivamente, con l’approssimarsi del Trecento, si sarebbe tentato di “nobilitare” questa
pratica istintiva apparentandola alla metrica classica e codificandola in un sistema di rigide regole.
La clausola corrisponde al punto in cui il tenor incontra una melisma, cioè molte note sulla stessa
sillaba: il testo dell’intera clausola consiste dunque solo nella sillaba stessa.
Allora, venne naturale applicare alla clausola lo stesso principio che qualche secolo prima aveva
generato tropi e sequenze: aggiungere un testo ad un melisma preesistente. Le voci superiori della
clausola furono così fornite di parole che amplificavano il testo liturgico di cui erano tratte. Poiché
in francese il termine “parola” viene detto mot, la clausola tropata assunse il nome di mottetto.
Il mottetto del Duecento e Trecento divenne ben presto una composizione autonoma, eseguibile al
di fuori del contesto liturgico, i cui testi trattavano frequentemente argomenti profani. La sua
caratteristica più importante è quella di essere politestuale: mentre il tenor viene generalmente
eseguito da strumenti, le altre voci sono fornite ciascuna di un proprio testo, in latino o francese.
Le voci superiori di un mottetto eseguono quindi testi differenti contemporaneamente. È la prima
volta che ciò avviene nella storia della musica e la musica è l’unica arte a permettere la molteplicità
simultanea dei discorsi. Nel mottetto essi però non sono discorsi scollegati tra loro: un filo, più o
meno sottile, ne unifica i contenuti.
Oltre ad essere differenziare nel testo, le voci del mottetto di distinguevano anche perché
scorrevano con velocità diverse. In genere il tenor era disposto a note molto lunghe; sopra di esso il
motetus o duplum presentava un andamento più veloce, mentre il triplum – la voce più acuta di tutte
– procedeva con un ritmo ancora più serrato. Il mottetto fiorì soprattutto in un ambiente
estremamente intellettuale: i professori e gli studenti dell’Università di Parigi, tutti generalmente di
condizione ecclesiastica.
Un altro genere musicale era il conductus. Esso consisteva in canti in lingua latina di argomento
generalmente profano e spesso politico, monodici e polifonici, scritti in stile prevalentemente
sillabico. La particolarità più importante che distingueva il conductus polifonico del mottetto era
quella di essere costruito su un tenor non liturgico (come invece accadeva nel mottetto), ma di
libera invenzione. Il conductus si può considerare come il primo genere musicale medievale in cui il
compositore poteva creare liberamente tutte le voci, senza basarsi su una musica già esistente. Ma
questo modo di procedere non era troppo congeniale alla mentalità dell’epoca: nel Trecento il
genere del conductus non fu più praticato.

Capitolo VII – Ars nova francese


Nel periodo successivo alla Scuola di Notre Dame, il procedimento di scrivere in musica anche i
valori delle note subì una rapida e inarrestabile evoluzione tecnica. Questo processo fu strettamente
collegato con altri due elementi:
- l’atto compositivo andava scindendosi dal momento dell’esecuzione sonora, per affidarsi quasi
esclusivamente alla scrittura musicale (ovvero, si iniziava a creare musica nuova scrivendo, e non
più solo cantando);
- la possibilità di fissare per iscritto combinazioni ritmiche molto complesse stimolava i compositori
a costruire forme musicali ricche ed elaborate.
Poco dopo la metà del Duecento, ancora nell’ambito di quella che oggi viene definita ars antiqua, fu
applicato per la prima volta un principio su cui si baserà la semiografia musicale successiva:
l’equivalenza tra segno scritto e significato sonoro.
Fino ad allora infatti, nella notazione modale, lo stesso segno poteva avere molteplici significati a
seconda del contesto all’interno del quale fosse posto. A partire dal trattato Ars cantus mensurabilis
di Francone di Colonia i diversi valori delle note iniziarono ad essere espressi da figure differenti,
inaugurando quella che sarà definita musica mensurale, ovvero musica misurabile: la longa, la
brevis, la maxima e la semibrevis.
Le proporzioni tra questi quattro valori erano regolate sempre secondo una rigida ternarietà. La
“perfezione” associata con il numero 3 ha una chiara matrice teologica: Dio, essere perfettissimo
per eccellenza, è uno e trino allo stesso momento. Ciò nonostante, intorno all’anno 1300 nel
pensiero musicale francese si verificò un grande mutamento, che la moderna musicologia ha
denominato ars nova: nella pratica musicale “alta” venne introdotta la suddivisione binaria alla pari
con quella ternaria. In aggiunta a ciò, una nuova figura musicale venne ad affiancarsi a quelle
preesistenti: la minima, di valore ancora minore della semibrevis. Le possibilità per i compositori
erano allora assai aumentate e vennero introdotti dei segni di mensura, equivalenti alle moderne
indicazioni metriche. Contro le innovazioni dell’ars nova si scatenò intono al 1320 una
violentissima polemica che coinvolse le maggiori personalità dell’epoca, provocando addirittura
l’intervento del papa Giovanni XXII. Ammettere che la duplicità possa essere perfetta quanto la
ternarietà avrebbe significato conferire nuovo credito ad una concezione respinta come ereticale. Si
riteneva inoltre che ogni scienza e arte umana traesse origine da Dio, e che quindi ne dovesse
rispecchiare l’immutabile perfezione. Introdurre principi nuovi implicava quindi un sottrarsi alle
leggi divine. I teorici trecenteschi propugnatori della nuova concezione del ritmo sostenevano che
la musica poteva essere suscettibile di progresso e che non aveva affatto raggiunto
una stabilità definitiva e immutabile. Sia nelle composizioni di Philippe de Vitry che in
quelle di Guillaume de Machaut è evidente la tensione verso l’autonomia della forma musicale
rispetto al testo.
Entrambi gli autori fecero ampio uso di una artificio che ebbe grande diffusione fino al
Quattrocento: l’isoritmia, che consisteva nello stabilire il ritmo e le scansioni temporali della musica
secondo principi rigorosamente matematici. Fino ad allora la forma musicale era stata determinata
essenzialmente dal rapporto con la parola: nel canto gregoriano, il testo liturgico suggeriva sia la
linea melodica,che il ritmo; la stessa polifonia era considerata come un’ulteriore amplificazione del
gregoriano , il quale era sempre posto al tenor quasi come le fondamenta di un edificio.
Ma con l’ars nova tutto cambiava: la forma musicale iniziava a mutuare le sue leggi dal calcolo
razionale, sganciandosi dal rapporto con la parola e cercando la strada per una propria autonomia. E
una musica autonoma non poteva che mettere in secondo piano la percepibilità del testo a cui era
legata. La storia della musica immediatamente successiva proseguirà proprio nella direzione
tracciata dall’ars nova. Di riflesso, la comprensibilità del testo non fu più una preoccupazione molto
importante. A fomentare la polemica contribuirono anche i testi musicati dagli autori dell’ars nova.
Essi, assunsero spesso un contenuto politico di critica sociale. I difensori dell’ars antiqua invece
sostenevano che l’apparente “progresso” dell’ars nova fosse in realtà solo un’illusione. L’aver
introdotto valori più piccoli cambiava solo l’aspetto grafico di una composizione, non la sua
sostanza. Inoltre, l’alternativa posta dall’ars nova solo tra suddivisione binaria e suddivisione
ternaria giungeva addirittura ad impoverire la ricchezza ritmica di cui già disponevano gli antichi.
Oltre a queste contestazioni tecniche, ve ne erano altre due di carattere più generale.
La prima era di natura estetica: è preferibile aumentare le complicazioni e spingere la musica verso
una maggiore cerebralità o, piuttosto, cercare di accostarsi alla semplicità della natura ?
La seconda obiezione riguardava la salvaguardia dell’integrità del testo liturgico:una composizione
dotata di testo può forse prescindere da esso, creandosi leggi proprie come se le parole cantate non
esistessero? È accettabile che un testo sia reso totalmente incomprensibile dall’incastro complicato
delle numerosi voci che costituiscono le composizioni polifoniche?

Capitolo VIII – Ars nova italiana


Il Duecento musicale sembra orientato prevalentemente verso una pratica non scritta. Anche nel
campo della musica sacra sembrerebbe che in Italia, nel XIII e nel XIV secolo, si fosse continuato
ad affidare il rivestimento polifonico del testo liturgico a pratiche tradizionali di improvvisazione
che non necessitavano la scrittura. Sono rimaste numerose testimonianze di un particolare repertorio
sacro extracarolingio di tradizione prevalentemente orale: le laude.
Esse erano canti devozionali in volgare, monodici, di struttura strofica, eseguiti prevalentemente in
occasione di processioni, riunioni di devoti e simili. Poiché questi manoscritti adoperano una
notazione musicale quadrata il problema dell’interpretazione ritmica delle laude non ha ancora
trovato una soluzione definitiva. Alla diffusione delle laude nell’Italia centrale duecentesca non fu
estranea la dirompente penetrazione della spiritualità francescana. San Francesco d’Assisi è il primo
compositore di musiche su testi in lingua italiana di cui la storia ci abbia tramandato il nome. Nel
Trecento le cose cambiarono: a fianco della musica di tradizione orale, che continuava a pervadere
quasi interamente l’intero modo poetico e musicale, numerosi manoscritti ci offrono un nutrito
corpus di musiche polifoniche profane in volgare. I primi importanti esempi italiani di polifonia
profana scritta sono stati prodotti dai musicisti provenienti da centri dotati di celebri università:
Padova e Bologna, dove l’ambiente universitario interessava numerosi scambi internazionali. In
questo clima di intese contaminazioni culturali, anche gli sviluppi della musica francese erano ben
noti in Italia: la presenza di trovatori nelle corti del nord-est italiano vi aveva stimolato
un’autonoma produzione di canti anche in lingua provenzale.
Presso le grandi signorie dell’Italia del nord fu accolta quindi l’abitudine francese di compilare
alcuni manoscritti musicali. Sottolineando dunque questo collegamento coni fermenti dell’ars nova
d’oltralpe, la moderna terminologia musicologica definisce ars nova italiana la musica polifonica
prodotta nella penisola durante il Trecento.
A Padova nacque e lavorò il primo tra i più importanti musicisti dell’ars nova italiana: Marchetto,
detto da Padova. Egli scrisse due trattati sulla notazione. Il sistema italiano di notazione
sistematizzato da Marchetto, pur se indipendente da quello dell’ars nova francese, ammetteva
anch’esso tanto la suddivisione ternaria quanto quella binaria. Nella pratica musicale italiana,
tuttavia, i due sistemi coesistevano anche all’interno dello stesso manoscritto, in una sorta di
bilinguismo musicale.

Nel tardo Trecento, i due criteri notazionali si fusero dando luogo ad un unico sistema di scrittura
musicale detto “notazione mista” o di “maniera” o ars subtilior. Da Bologna , l’altro antico centro
universitario italiano, proveniva invece il musicista Jacopo da Bologna, che si dedicò soprattutto al
genere che fu il prediletto dell’ars nova italiana: il madrigale.
Il madrigale de Trecento era una composizione generalmente a due voci, d’impianto strofico. Esso
era infatti costituito generalmente da due o più terzine di endecasillabi, intonate tutte sulla stessa
musica (A). Alla fine della serie di strofe, il componimento veniva chiuso da una coppia di
endecasillabi a rima baciata detta ritornello, che era cantata su una musica (B) diversa da quella
delle strofe. Questa forma della struttura assai semplice (AA…B) fu chiamata in Italia madrigale
proprio perché era il genere musicale in lingua madre. Il soggetto dei madrigali descriveva le scene
di caccia: la musica imitava l’inseguimento di una preda da parte di cani e cacciatori, sia con
frequenti onomatopee, sia nel tessuto polifonico stesso: una voce intonava la prima; dopo
qualche istante mentre essa continuava la sua corsa, partiva anche la seconda voce, ripentendo nota
per nota lo stesso percorso melodico tracciato dalla prima voce. Il punto di entrata della seconda
voce rispetto alla prima doveva essere attentamente calcolato, in modo che la loro sovrapposizione
non creasse sgradevoli sconti sonori. Questo artificio si chiama canone.
Dopo la metà del secolo, l’Italia musicale sembra ruotare intorno ad un altro centro di produzione:
Firenze. I tre compositori fiorentini del Trecento più citati dalle cronache e più rappresentati nei
manoscritti musicali sopravvissuti (Lorenzo Masini, Gherardello da Firenze e Francesco Landini)
erano attivi soprattutto nella produzione di musica profana polifonica. Il genere più frequentato a
Firenze era la ballata.

I musicisti di questo periodo legarono strettamente la forma delle loro composizioni alla forma
poetica dei testi stessi; contrariamente a quanto accadde in Francia, non risulta che nei generi
italiani più tipici siano stati impiegati artifici matematici per dotare la loro veste musicale di leggi
proprie, indipendenti dalla parola.

La scarsa autonomia della musica rispetto alla parola può spiegare come mai solo tardi, in Italia, si
sia avvertito il bisogno di annotare anche la musica; e come mai, nel successivo Quattrocento, i
compositori nativi della penisola ritornarono ad esercitare quasi esclusivamente la prassi consueta
della tradizione orale: dei musicisti italiani più celebrati nel XV secolo (Leonardo Giustinian,
Pietrobono del Chitarrino e Serafino Aquilano) del non è stata conservata neppure una
composizione.

Capitolo IX – La gestione della forma musicale nel Quattrocento


Il germe dell’autonomia della musica era stato gettato dal Magnus liber della Scuola di
Notre Dame: il compositore iniziava a stabilire autonomamente tutti i particolari della sua musica,
annotandone con precisione le altezze e il ritmo. Questo processo rese necessaria la compilazione di
un Liber, ancorando strettamente alla pagina scritta la prassi di comporre musica a più voci.
Con l’ars nova francese la musica giunse decisamente a svincolarsi da legami troppo stretti con il
testo e si avviò alla ricerca di leggi formali autonome fondate su principi
matematici. Cominciò ad affermarsi il concetto secondo cui una composizione doveva essere
dotata della massima coerenza interna. Le soluzioni matematiche al problema furono molteplici.
1- L’isoritmia, ovvero la divisione della durata del tenor della composizione in porzioni di tempo
tutte uguali e tutte dotate delle stesse caratteristiche ritmiche.
2- Il numero stesso, oltre a costituire l’intelaiatura razionale della costruzione artistica, guidava la
mente umana ad una rete di simbologie che rinviavano a verità di ordine superiore: se il numero tre
rievocava immancabilmente l’essenza della Trinità e le tre virtù teologali che ad essa conducono; il
quattro era il numero dell’uomo e delle sue quattro virtù cardinali; ma quattro era anche il numero
del mondo. Tre più quattro dà sette, numero che assunse così la funzione di ricapitolazione
dell’esistente (Dio, mondo, uomo).
3- Una predilezione particolare degli artisti medievali andava anche alle forme simmetriche: in
musica, le strutture palindromiche possono essere rintracciate in molto composizioni dall’ars nova
in poi.
4- Un altro criterio era quello di dividere la composizione in sezioni proporzionali tra loro.
5- Nel corso del XIII secolo, intanto, prese l’avvio una nuova corrente scientifica:con la riscoperta e
la divulgazione delle teorie geometriche di Euclide, si passò ad una visione del mondo dominata più
dalla geometria che dall’aritmetica. In musica, questo fatto portò a concepire il tempo
geometricamente, come qualcosa che scorre senza soluzione di continuità e che può venir diviso in
un certo numero di parti. Con la ricerca di criteri geometrici, la musica giunse all’utilizzazione di un
particolare rapporto di proporzione che introduceva numeri irrazionali: la <b>sezione </b>aurea:
essa è la legge matematica che regola la crescita degli esseri viventi.
6- Anche la serie di Fibonacci fu sfruttata intensamente dai compositori di musica. Nel Quattrocento
per opera di Guillaume Dufay la sezione aurea fu utilizzata intensivamente come principio
generatore della forma a tutti i livelli: si ottiene così una musica costruita con la massima coerenza
possibile. La creazione di queste strutture era connessa alla loro destinazione: maggiore era la
solennità della circostanza, più ricca era l’elaborazione richiesta alle musiche eseguite per
l’occasione.

Capitolo X – I compositori fiamminghi


Tra la fine del Trecento e gli inizi del Quattrocento le due tendenze sviluppatesi in Francia e in
Italia andarono assimilandosi: la sede papa ritornò a Roma, ad Avignone continuò ad essere eletta
una lunga serie di antipapi; i compositori iniziavano a diventare veri e propri professionisti, che si
spostavano fra le varie corti europee per arricchire il proprio bagaglio tecnico e culturale.
Inevitabile fu quindi la fusione dei singoli stili nazionali in un idioma musicale di carattere
internazionale. Questa fusione fu detta ars subtilior, il nuovo stile che coniugava elementi italiani e
francesi ottenendo risultati di estrema complessità e raffinatezza.

Nel Quattrocento i musicisti italiani si ritirarono di nuovo nel mondo sommerso della tradizione
orale, abbandonando provvisoriamente il campo della polifonia scritta; le corti più ricche e potenti
della penisola si contendevano soprattutto musicisti provenienti da una piccola, florida regione
europea: le Fiandre.

Generalmente i fiamminghi vengono suddivisi in sei successive generazioni:


1- Alla prima generazione, che si attesta prevalentemente nella prima metà del Quattrocento,
appartiene Guillaume Dufay e Gilles Binchois.
2- La seconda generazione fu molto sedentaria e vi appartengono Johannes Ockeghem e Antoine
Busnois.
3- Con la terza generazione, che si situa a cavallo dell’anno 1500, troviamo di nuovo un flusso
migratorio di musicisti fiamminghi verso l’Italia con Josquin Desprez, Jacob Obrecht e Heinrich
Isaac.
4- La quarta generazione, che abbraccia la prima metà del XVI secolo e sarà determinante per lo
sviluppo della musica cinquecentesca italiana, comprende Adrian Willaert e Cipriano de Rore, a
Venezia, Philippe Verdelot e Jacques Arcadelt, che gravitavano tra Firenze e Roma.
5- La quinta generazione, che si colloca nella seconda metà del Cinquecento, ha come esponenti
principali Orlando di Lasso, Philippe de Monte e Giaches de Wert.
6- Le estreme propaggini fiamminghe si estendono con un’ultima sesta stagione,rappresentata da
Jan Sweelinck: da lui si fa discendere la celebre scuola organistica tedesca, ma siamo già in piena
epoca barocca.

Tutti i compositori fiamminghi si dedicano quasi esclusivamente alla musica vocale.


Accanto a molte chansons profane, i fiamminghi produssero una gran quantità di musica sacra, dato
che essi occupavano spesso il ruolo di maestri di cappella. Il genere del mottetto stava subendo una
notevole evoluzione. Nato nel Duecento come composizione liturgica, nel periodo dell’ars nova
divenne prevalentemente il passatempo musicale di un élite di intellettuali che frequentavano
l’Università di Parigi: i testi erano quasi sempre di argomento profano e in lingua francese.
Nel XV secolo si ebbe la graduale trasformazione del mottetto in composizione destinata a
cerimonie pubbliche, civili e religiose; andò dunque scomparendo la politestualità, e la lingua
prevalentemente usta divenne quella più ufficiale e solenne del latino.
Nel Cinquecento il cerchio si chiuse: ormai dotato di un unico testo, in latino, il mottetto ritornò
nell’ambito liturgico da cui era partito, diventando la composizione sacra per eccellenza. Il
tramonto della politestualità va comunque inquadrato in un’esigenza più generale: l’epoca
fiamminga è caratterizzata infatti dalla tensione verso la massima unitarietà possibile. Si
utilizzarono solo voci umane, che cantavano tutte lo stesso testo, usandolo stesso materiale
melodico abbinato a un discorso ritmico sempre più uniforme. Non si doveva più ricavare un’unita
generale dalla varietà delle componenti, ma produrre la massima varietà possibile da un elemento
tendenzialmente unico. Si svilupparono, così, quegli artifici contrappuntistici che saranno
considerati tipici dell’epoca fiamminga:
- una frase musicale, pur rimanendo la stessa, poteva essere scritta anche partendo dall’ultima nota e
andando verso la prima: moto retrogrado;
- si potevano disporre a specchio i suoi intervalli, facendo scendere quelli che
salivano o viceversa: moto contrario;
- infine si poteva utilizzare in modo cancrizzante la stessa frase esposta per moto
contrario: retrogrado dell’inverso;
- la melodia poteva essere presentata con valori ritmici più ampi (aumentazione)
o più veloci (diminuzione).

L’abilità contrappuntistica del compositore consisteva allora nel combinare insieme questi elementi,
in modo che le varie voci potessero imitarsi l’una con l’altra. L’apice dell’imitazione era costituito
dal canone. Tipici erano i cosiddetti canoni enigmatici: il compositore scriveva solo una voce,
abbinando ad essa un indovinello per suggerire la modalità di esecuzione delle altre voci. Questo
artificio di cantare la stessa melodia con due mensure diverse fu usato abbondantemente dai
fiamminghi, e viene detto canone mensurale. La totale omogeneità ritmica fu raggiunta solo nel
Cinquecento ben inoltrato. Stentò molto a scomparire la pratica del cosiddetto cantus firmus.
Ci si serviva ancora di una melodia preesistente affidata in valori ritmici molto lunghi alla voce di
tenor; su di essa si costruivano liberamente le altre voci con un proprio, più veloce movimento
ritmico. Questo doppio regime che si instaurava fra il tenor e le altre voci andava a contrastare con
il desiderio di unità. Allora, per creare coesione all’interno della principale forma usata dai
fiamminghi, la messa, si cominciò ad utilizzare innanzitutto lo stesso cantus firmus per tutte le
sezioni di essa; le messe così composte si dicono messe cicliche, proprio perché la stessa
melodia compare ciclicamente sempre al tenor.

Parte III: committenza e mercato musicale

Fino all’epoca classico-romantica la musica quasi sempre è nata perché concretamente stimolata da
un committente. Nel periodo umanistico-rinascimentale, le esigenze della committenza andarono
diversificandosi. Agli inizi del XVI secolo il mercato musicale ebbe a registrare un sostanziale
mutamento: con l’applicazione alla musica delle tecniche di stampa, vennero immessi in
circolazione volumi musicali ad un costo estremamente ridotto rispetto ai codici compilati e miniati
a mano, provocando così una diffusione senza precedenti della musica scritta. Fu soprattutto il
madrigale cinquecentesco a trarre vantaggi da questa innovazione tecnologico-commerciale.

Capitolo XI – La musica nelle corti umanistiche


L’epoca umanistico-rinascimentale vede quel fenomeno chiamato mecenatismo. La parola
“mecenate” è stata riferita, fino a qualche tempo fa, alla figura di un ricco e spesso
nobilepersonaggio il quale, per puro amore dell’arte, commissionava opere a musicisti, pittori o
letterati, intrattenendo con essi un rapporto quasi da pari a pari. Alla luce degli studi più recenti, si è
compreso invece che questa descrizione non corrisponde affatto alla realtà storica delle epoche
passate. Il rapporto tra committente e musicista era un rapporto servo-padrone, in cui il mecenate
offriva protezione in cambio di sottomissione e prestazione di servizi. Il musicista era uno dei tanto
dipendenti della corte: un rapporto alla pari era impensabile. Il far musica per fini ricreativi era solo
una piccola parte del ruolo a cui la musica stessa era destinata. La musica colta doveva
esteriorizzare il rango della corte che promuoveva: la musica era come una specie di status symbol,
che proclamava al mondo la ricchezza e la potenza del mecenate. La committenza di opere
musicali destinate a questo scopo è stata definita mecenatismo istituzionale. Alla realizzazione di
questo tipo di musiche erano deputate determinate categorie professionali: i trombettieri, ai quali era
affidata la gestione dei segnali sonori che regolavano la vita delle corti e delle città; la cosiddetta
“cappella alta”, un gruppo di strumenti a fiato di squillante sonorità, impiegati soprattutto in
occasione di cerimonie, balli e feste all’aperto; infine, i cantori della cappella di corte, con una
posizione sociale tra le più elevate nei ruoli dei dipendenti della corte: infatti, essi erano in primo
luogo uomini di Chiesa e di cultura. Mantenere una cappella polifonica divenne così parte
integrante delle prerogative istituzionali di un principe. Nell’epoca umanistica, però, il mecenatismo
istituzionale venne assumendo una connotazione particolare che viene denominata mecenatismo
umanistico.
Nella seconda metà del Trecento la Politica di Aristotele venne tradotta in francese: Aristotele
sosteneva che la musica era un requisito indispensabile per l’educazione dei giovani nobili, purché
essi non giungessero mai ad un livello professionistico e servile. Si assistette così alla produzione di
numerosi trattati che intendevano stimolare l’apprendimento della musica da parte del ceto
aristocratico. Si aggiunse così la connessione tra alto rango sociale e superiore competenza musicale
(dove per competenza si intende una personale abilità di compositore ed esecutore e una
sensibilità artistica tale da porsi come suprema istanza di giudizio). A fianco degli standardizzati
simboli sonori del potere si posero quindi i segni tangibili dell’indubitabile gusto artistico del
mecenate “umanista”: la promozione di attività musicali da camera, esclusive e raffinate, il possesso
di strumenti, la compilazione e collezione di manoscritti musicali sontuosi ed accurati. Il doppio
binario su cui scorre la committenza quattro-cinquecentesca si rispecchia nel duplice volto della
musica di quest’epoca: da una parte l’artificiosa polifonia di tipo fiammingo, dall’altra il canto a
voce sola accompagnata da strumenti. Quest’ultima tipologia musicale aveva ripreso nuovo slancio
ad opera delle idee propugnate dai letterati umanisti. Essi, infatti, nutrivano una profonda diffidenza
verso la tecnica polifonica: la loro predilezione andava invece al canto solistico che si prestava
maggiormente ad esaltare con duttilità il valore della parola poetica. La pratica di cantare le poesie
veniva addirittura fatta risalire a Petrarca.
Ad esempio, le corti di Mantova e Ferrara agli inizi del Cinquecento erano unite da vincoli di
parentela: Isabella d’Este a Mantova e Lucrezia Borgia a Ferrara. Esse disponevano di un proprio
gruppo di esecutori essenzialmente costituito da cantori,liutisti e suonatori di strumenti ad arco.
Alcuni di questi strumentisti erano in realtà soprattutto compositori. I loro rispettivi consorti
disponevano degli esecutori necessari ad espletare non solo il mecenatismo “umanistico”, ma anche
quello “istituzionale”. Quindi c’era una separazione pressoché assoluta divideva quindi la sfera
musicale “istituzionale”, di pertinenza dei governanti, da quella di tipo “umanistico”, a cui era
consentito l’accesso anche alle consorti.

Capitolo XII – La chanson parigina tra Francia e Italia


Lo schiudersi del Cinquecento fu segnato da un’importantissima innovazione tecnologica: nel 1501
fu pubblicato per la prima volta un intero volume di musiche a stampa. Con la raccolta Harmonice
Musices Odhecaton, pubblicata a Venezia, nel 1501, da Ottaviano Petrucci, si ebbe l’inizio di una
sistematica attività editoriale in campo musicale. La stamperia Petrucci usava un sistema a caratteri
mobili, ovvero pezzettini di piombo appositamente sagomati, con i quali era necessario effettuare su
ogni foglio una triplice impressione, stampando innanzitutto i righi musicali, poi le note, ed
infine il testo, i titoli, i numeri di pagina, ecc.
Uno stampatore romano, Andrea Antico, impiegò pochi anni dopo un altro sistema: incidere a mano
la pagina musicale completa su una tavoletta di legno (xilografia). Apparentemente questo era un
metodo più semplice, però bastava cadere nel minimo errore per dover gettar via la lastra incisa e
ricominciare da capo.

Ambedue le tecniche di stampa ebbero una rapida e travolgente diffusione: gli stampatori si
moltiplicarono, e gradualmente leggere musica dalla pagina scritta diventò una possibilità concreta
per un più ampio strato sociale, facendo diminuire in modo sensibile la quantità di musica trasmessa
oralmente. Pierre Attaignant fu il primo editore di musica ad aver realizzato una produzione
definibile quasi di massa. Egli aveva ripreso da un altro stampatore francese la tecnica di stampa a
caratteri mobili ad impressione unica: i caratteri di piombo raffiguranti le note erano forniti
ciascuno del proprio pezzettino di pentagramma, espediente che permetteva di comporre
direttamente la pagina completa. Lo sfruttamento intensivo a cui erano sottoposti i singoli caratteri
fece però scadere il livello estetico della pagina stampata: l’uso smussava sempre di più gli angoli
dei caratteri, non facendoli combaciare perfettamente gli uni con gli altri. Soprattutto negli anni
Trenta e Quaranta del Cinquecento, Attaignant pubblicò numerosi libri contenenti un genere
musicale molto in voga: un tipo di chanson notevolmente diverso da quello coltivato dai
fiamminghi. Questa nuova chanson, detta parigina perché diffusa soprattutto nell’ambito della
corte francese dei Valois, era più semplice e meno contrappuntistica della sua corrispondente
fiamminga. La chanson parigina era molto più legata al ritmo verbale del testo stesso: le voci
procedevano spesso con andamento omoritmico (cioè tutte insieme con lo stesso ritmo), in stile
tendenzialmente sillabico.
Clément Janequin ne sviluppò un tipo particolare: la chanson descrittivageneralmente quattro o
cinque, descrivevano scene concrete, come una battaglia, il cinguettio degli uccelli, i gridi dei
venditori ambulanti e così via, servendosi con grande abbondanza di onomatopee testuali e
musicali. Le musiche appositamente composte per strumenti generalmente non venivano notate: gli
strumentisti le trasmettevano per lo più oralmente. Nel corso del Quattrocento, però, si assistette ad
un evoluzione della musica strumentale che determinò una sua progressiva ascesa nella
considerazione accordatale delle classi dominanti. Durante il XV secolo si ricercò maggiormente
una sonorità più fusa e più omogenea dal punto di vista timbrico, estendendosi anche al registro
grave. Si costruirono,dunque, intere famiglie strumentali, ovvero ogni tipo di strumento
veniva realizzato in varie taglie: generalmente soprano, contrabbasso, tenore, basso e
altre taglie intermedie.
Avere la presenza di “voci” diverse nelle famiglie strumentali le rendeva simili a piccoli cori;
divenne allora consueto eseguire le musiche polifoniche sostituendo le voci umane con gruppi di
strumenti. L’accostarsi delle classi alte alla musica strumentale determinò la produzione di una
ricca letteratura di composizioni didattiche e di trattati che insegnavano ai dilettanti
come suonare correttamente i vari strumenti. In tal modo, la tecnica strumentale non era più un
segreto professionale custodito gelosamente dalle corporazioni dei musicisti di mestiere, ma
iniziava a diventare di dominio pubblico. Si andavano moltiplicando le edizioni di chansons
francesi arrangiate in forma esclusivamente strumentale. Tali trascrizioni pressoché letterali finirono
col cedere il passo a libere rielaborazioni delle chansons di partenza: dal 1560-70 in poi vi fu un
continuo apparire di canzon francese, aria francese per sonare, ecc., che testimoniano l’ampia
diffusione di questa nuova moda. L’ultima tappa del percorso di trasformazione della chanson
sempre nella seconda metà del Cinquecento consiste nella creazione di canzoni totalmente
indipendenti da modelli francesi: paradossalmente, il termine “canzone”, pur provenendo dalla
musica vocale, passò ad indicare la prima, vera forma strumentale autonoma. In genere, però,
questo tipo di musica veniva definita canzone da sonar. Tre elementi collegavano ancora la
“canzone da sonar” con la sua antenata vocale che risaliva a Janequin: la forma generale, il
succedersi di zone omoritmiche e zone imitative e l’onnipresente ritmo iniziale dattilico. Non
avendo più un testo a cui fare riferimento, le “canzoni da sonar” erano spesso dotate di titoli
alquanto curiosi. Generalmente era prevista un’esecuzione per più strumenti, ma talvolta gli stessi
compositori ne approntavano versioni solo per organo o clavicembalo.
Verso la fine del Cinquecento si iniziarono a prescrivere anche alcune indicazioni dinamiche.

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