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Sintesi Finanza aziendale

Teoria dell’agenzia
Nella maggior parte delle aziende, a meno che non si tratti di una family business, esiste un conflitto
di interessi tra manager e proprietà. Per amministrare la propria azienda gli azionisti, infatti,
delegano un manager instaurando difatti un rapporto di agenzia, ovvero l’agente (il manager)
contrae il diritto/dovere di scegliere i propri comportamenti nel miglior interesse dell’attore
principale delegante (gli azionisti). La non osservabilità dei comportamenti del manager aumenta
l’asimmetria informativa, rendendo complicato il controllo dell’operato del manager da parte degli
azionisti. Per evitare che il manager possa operare nei propri interessi, l’obiettivo della teoria
dell’agenzia è quello di stipulare il miglior contratto possibile per l’azienda che possa massimizzare
il risultato. La determinazione di un contratto efficiente presuppone la presenza di:
- Sistemi di incentivazione, attraverso una retribuzione variabile legata a risultati osservabili.
Ciò fa sì che si riallineino gli obiettivi tra proprietà e management, ma è necessario inoltre
trasferire il rischio dai primi al secondo. Per legare la retribuzione ai risultati ottenuti,
trasferendo anche il rischio, è opportuno infatti offrire un premio, incentivando a scegliere
l’alternativa più rischiosa: in corrispondenza di un rischio maggiore, il manager deve avere
un valore atteso più elevato. Altre volte si preferisce retribuire il manager in stock option: sarà
dunque interesse principale del manager sostenere il corso del titolo.
- Sistemi di controllo, analizzando indicatori dello sforzo compiuto, le azioni intraprese e
cercando di standardizzare il comportamento (dando ad esempio orari di inizio e fine turno).
I primi, seppur meno economici, sono più efficienti, per tale motivo nella realtà si ricorre a un trade
off. L’operato del manager è comunque al vaglio del consiglio di amministrazione. Inoltre l’interesse
del manager è scongiurare una scalata ostile: ad un cambiamento di proprietà coincide, infatti, quasi
sicuramente un cambiamento di management. Per evitare ciò è necessario sostenere il corso del titolo,
evitando che prezzi troppo bassi consentano di rastrellare azioni sul mercato. È opportuno però notare
che un’elevata capacità di indebitamento residua (quando cioè D/E è molto basso), potrebbe far gola
a possibili acquirenti, intenzionati ad acquisire la maggioranza delle azioni indebitandosi e
trasferendo il proprio debito sull’azienda, riacquistando azioni proprie (leveraged by out)

Struttura dei tassi e fattori di sconto


La struttura a scadenza dei tassi è la sequenza dei tassi di interesse che utilizzo per attualizzare i flussi
di cassa negli anni. Il fattore di sconto, invece, è il valore attuale di un euro futuro, ovvero il
coefficiente per cui si moltiplica per trovare il valore attuale di un flusso di cassa. Si dimostra che tali
fattori di sconto debbano avere una determinata caratteristica: devono essere strettamente decrescenti.
Se i fattori di sconto, infatti, crescessero allora esisterebbero le cosiddette macchine da soldi (o
posizioni di arbitraggio). Supponiamo infatti di prendere in prestito 1048 da rimborsare al secondo
anno con un tasso bi-periodale del 7% (1200). Dei 1048 presi in prestito, 48 sono un profitto sicuro,
gli altri 1000 li investo al tasso uniperiodale del 20%. All’anno 1 avrò dunque un’entrata di 1200 con
i quali rimborserò il prestito al secondo anno. Con dei fattori di sconto crescenti si verrebbero dunque
a creare posizioni di arbitraggio con una parte che si assicura un guadagno certo e una controparte
che perde.
Si dimostra inoltre che non può valere l’uguaglianza. Infatti supponiamo di acquistare uno ZCB a
breve che al primo anno mi rimborsa 100. Supponiamo inoltre di emettere uno ZCB a lungo che al
secondo anno rimborso con 100. All’anno uno inoltre acquisto uno ZCB a breve che all’anno due mi

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dia 100. Dunque in questo modo, qualora i fattori di sconto fossero crescenti (uguali), avrei un profitto
certo i primi due anni (il secondo anno). Poiché ciò non è possibile, allora si dimostra che i tassi di
sconto devono necessariamente essere strettamente decrescenti.

Teoria delle aspettative e della preferenza della liquidità


Con queste due teorie ci si chiede se è più conveniente investire per l’intero periodo o reinvestire
anno per anno. Si ipotizzi che non vi siano costi di transazione né per chi finanzia né per chi si
indebita, che vi sia completa indifferenza nell’investire in un’unica soluzione o reinvestire alla fine
di ciascun anno per la stessa durata e che si conoscano tutti i futuri tassi di interesse. La teoria delle
aspettative afferma che la struttura dei tassi dipende dalle attese sui tassi a pronti futuri.
2
(1 + 𝑟2 ) = (1 + 𝑟1 ) ∙ (1 + 𝑟12 )
Dunque investirò indifferentemente per un anno e poi per un altro o per due anni, sulla base del tasso
a pronti atteso.
Se l’investitore deve, però, sopportare un rischio per detenere un titolo a lungo, allora chiederà un
premio aggiuntivo: tale premio, detto premio per la liquidità, è pari alla differenza tra tasso a termine
e tasso a pronti atteso.
2
(1 + 𝑟2 ) = (1 + 𝑟1 ) ∙ (1 + 𝑟12 + 𝑝𝑟𝑒𝑚𝑖𝑜)

Obbligazioni
Le obbligazioni sono titoli di debito utilizzati dalle aziende per finanziarsi attraverso capitale di terzi.
Sono titoli a reddito fisso (ovvero la remunerazione viene concordata al momento della
sottoscrizione) caratterizzati da un’emittente, una valuta, una scadenza (maturity) e una modalità di
remunerazione che può essere a quota fissa o variabile (ad esempio legata all’andamento di un indice
di borsa). Tra quelle a remunerazione fissa rientrano le Zero Coupon Bonds (ZCB), che non
prevedono pagamenti intermedi. Ve ne sono altre che invece prevedono flussi di cassa intermedi
attraverso cedole (mensili, trimestrali, semestrali, annuali, …). Tra quelle che presentano una
remunerazione variabile rientrano:
• le indicizzate come le floor e cap che fissano un limite inferiore e superiore oltre i quali non
seguiranno più l’indice, ma si manterranno costanti
• le collable bonds con l’opzione di richiamabilità da parte dell’emittente: se i tassi
diminuiscono, è possibile ritirare le obbligazioni e piazzarle sul mercato a un prezzo superiore.
• le convertible bonds sono convertibili in azioni a discrezione del sottoscrittore in base a un
rapporto di conversione prestabilito
• le convertible reverse bonds sono convertibili in azioni a discrezione dell’emittente in base a
un rapporto di conversione prestabilito
Un’obbligazione può essere quotata sopra la pari o sotto la pari a seconda che il 𝑃𝑒 > 𝑉𝑁. In caso di
cedole fisse è possibile giungere alla stessa conclusione se 𝐶% > 𝑟. Uno ZCB, non avendo flussi di
cassa intermedi, quota sempre sotto la pari. Alle obbligazioni, rappresentando un titolo di debito,
viene affiancato un indice di rating che ne esprime il rischio.
È possibile descrivere l’andamento di un’obbligazione attraverso il corso tel quel o il corso secco (a
seconda se si tiene in considerazione la maturazione della cedola). Il corso secco ha un andamento
lineare e unisce il prezzo di emissione dell’obbligazione al valore di rimborso (ovvero il valore
nominale). Il corso tel quel tiene in considerazione la maturazione della cedola: più mi avvicino al

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pagamento della cedola, più il prezzo sarà elevato sino a crollare un istante dopo lo stacco della cedola
di un importo pari alla cedola stessa. La differenza tra il corso secco e il corso tel quel è il rateo,
ovvero la quota della cedola in scadenza maturata ad oggi, supposta maturare linearmente nel tempo.
Supponiamo adesso di voler scegliere tra due obbligazioni con cedola e prezzo differenti e calcolando
il TIR siamo portati a preferirne una delle due. Ipotizzando una struttura a scadenza dei tassi di
interesse comune, notiamo che il valore attuale delle due obbligazioni è proprio pari al loro prezzo,
fornendo un VAN nullo: le due obbligazioni sono dunque equivalenti. Quando la struttura dei tassi
non è piatta, non è possibile valutare un’obbligazione attraverso il criterio del TIR. Risulta dunque
opportuno individuare un nuovo indicatore capace di discriminare opportunamente. In particolare la
scelta di un’obbligazione avviene in funzione delle aspettative riguardo alla variazione dei tassi: se
il tasso aumenta, il prezzo diminuisce, viceversa al diminuire dei tassi, il prezzo aumenta. È stato
dunque individuato un indicatore della sensibilità del prezzo di un’obbligazione al variare del tasso
di rendimento: la volatilità, definita come
∆𝑃 𝑛
𝑃 𝑑𝑝 𝑟 𝑑 𝐹𝑡 𝑟 𝐷
𝜎= = ∙ = ∑ ∙ = − ∙ ∆𝑟
∆𝑟 𝑑𝑟 𝑝 𝑑𝑟 (1 + 𝑟𝑡 )𝑡 𝑝 1 + 𝑇𝐼𝑅
𝑡=1
𝑟

Dove D è un altro indicatore utilizzato, la duration, definita come la media dei singoli time to
maturity pesati con i relativi flussi di cassa normalizzati all’intero flusso di cassa.

𝑛
1 𝑡 ∙ 𝐹𝑡
𝐷 = ∙∑
𝑝 (1 + 𝑟𝑡 )𝑡
𝑡=1

I due indicatori sono equivalenti: se mi aspetto un aumento dei tassi, infatti, sceglierò un’obbligazione
con volatilità (e quindi con sensibilità alla variazione del tasso) inferiore, ovvero con duration minore,
in modo tale da recuperare prima il capitale e reinvestirlo a tassi più elevati.

Azioni
È importante valutare le azioni perché non tutte le aziende sono quotate e per entrare in borsa devono
quotarsi, per valutare divisioni di aziende che spesso vengono vendute singolarmente e per
massimizzare il prezzo stesso. L’analisi può avvenire in due modalità: l’analisi tecnica guarda allo
storico del prezzo e ne studia statisticamente l’andamento per individuare un punto di inversione di
una crescita o decrescita; l’analisi fondamentale consiste, invece, nell’analisi dei fattori che
determinano quel prezzo. Infine per valutare ricorriamo a modelli ipotizzando mercati con efficienza
debole (informazione sui dati storici), efficienza semi-forte (dati dell’informazione pubblica, cioè su
ciò che si dice del futuro aziendale) ed efficienza forte (informazione pubblica e privata disponibile,
il prezzo dipende dai flussi di cassa dell’azionista che dipendono da ciò che farà l’azienda, oggi noto).
Esistono diverse tipologie di azioni:
• Azioni ordinarie: diritto alla riscossione di un dividendo pro-quota e al voto nell’assemblea
dei soci ordinaria e straordinaria. Proprio per il diritto al voto, hanno quotazioni maggiori.
• Azioni di risparmio: diritto alla riscossione di un dividendo che gode di un privilegio in termini
di percentuale fissa sul valore nominale e di una maggiorazione rispetto alle ordinarie.
• Azioni privilegiate: diritto al privilegio, conferendo anche il diritto pro quota di voto in
assemblee straordinarie.

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La quota del dividendo varia in funzione del budget, ovvero il monte dividendi, a disposizione.
Inizialmente dobbiamo garantire il pagamento del privilegio agli azionisti di risparmio.
Successivamente inizierò a incrementare il dividendo ordinario, fino a quando non verrà raggiunto
un delta risparmio-ordinario pari alla maggiorazione: da questo istante cresceranno in ugual modo.
Analiticamente, ricordando che 𝑀 = 𝑁𝑜 ∙ 𝐷𝑜 + 𝑁𝑟 ∙ 𝐷𝑟 = 𝐷𝑜 ∙ (𝑁𝑜 + 𝑁𝑟 ) + 𝑁𝑟 ∙ 𝑚:
𝑀
𝐷𝑟 =
• 𝑀 ≤ 𝑁𝑟 ∙ 𝑝 ⇒ { 𝑁𝑟
𝐷𝑜 = 0
𝐷𝑟 = 𝑝
• 𝑁𝑟 ∙ 𝑝 < 𝑀 ≤ 𝑁𝑟 ∙ 𝑝 + 𝑁𝑜 (𝑝 − 𝑚) ⇒ { 𝑀−𝑁𝑟 𝑝
𝐷𝑜 =
𝑁𝑜
𝐷𝑟 = 𝐷𝑜 + 𝑚
• 𝑀 > 𝑁𝑟 ∙ 𝑝 + 𝑁𝑜 (𝑝 − 𝑚) ⇒ { 𝑀−𝑁𝑟 𝑚
𝐷𝑜 =
𝑁𝑜 +𝑁𝑟

Il rendimento atteso di un’azione è pari al ricavo rapportato all’investimento effettuato. Dunque


comprando un’azione a P0, incassando un dividendo e rivendendola a P1 otterrò il seguente
rendimento:
𝐷𝑖𝑣 + 𝑃1 − 𝑃0 𝐷𝑖𝑣 𝑃1 − 𝑃0
𝑟= = + = 𝑟𝑒𝑛𝑑. 𝑑𝑖𝑣𝑖𝑑𝑒𝑛𝑑𝑜 + 𝑟𝑒𝑛𝑑. 𝐶𝑎𝑝𝑖𝑡𝑎𝑙 𝐺𝑎𝑖𝑛
𝑃0 𝑃0 𝑃0
Per stimare il prezzo di un’azione è possibile servirsi di diversi modelli.
Supponendo di essere in presenza di un’azienda unlevered, secondo il modello di sconto del
dividendo, il prezzo odierno delle azioni equivale al valore attuale di tutti i dividendi futuri.
𝐷𝑖𝑣1 𝐷𝑖𝑣2 𝐷𝑖𝑣𝐻 + 𝑃𝐻
𝑃0 = + + ⋯ +
1 + 𝑟 (1 + 𝑟)2 (1 + 𝑟)𝐻
Dove 𝑃𝐻 è il prezzo supposto a cui venderò la mia azione.
Il modello di sconto del dividendo a crescita costante (modello di Gordon), sempre nel caso di
azienda unlevered, consente di fare delle considerazioni sull’opportunità di trattenere utili e
reinvestirli piuttosto che distribuirli agli azionisti: i dividendi crescono in perpetuo con un tasso
costante g. Il prezzo odierno equivale al valore attuale di una rendita perpetua con crescita.
𝐷𝑖𝑣1
𝑃0 =
𝑟−𝑔
Poiché stiamo ragionando in termini di autofinanziamento (assenza di debito), la crescita verrà
finanziata trattenendo utili: il tasso di ritenzione degli utili verrà indicato con h. Supposti h e ROE
costanti, si dimostra inoltre che
𝑑𝑖𝑣𝑡 − 𝑑𝑖𝑣𝑡−1 (1 − ℎ) ∙ (𝐸𝑃𝑆𝑡 − 𝐸𝑃𝑆𝑡−1 ) 𝑅𝑂𝐸 ∙ (𝐵𝑡−1 − 𝐵𝑡−2 ) ℎ ∙ 𝐸𝑃𝑆𝑡−1
𝑔= = = = = ℎ ∙ 𝑅𝑂𝐸
𝑑𝑖𝑣𝑡−1 (1 − ℎ) ∙ 𝐸𝑃𝑆𝑡−1 𝑅𝑂𝐸 ∙ 𝐵𝑡−2 𝐵𝑡−2
Dunque la crescita del dividendo è uguale alla crescita dell’EPS, nonché del Book value. Ricavando
l’espressione del prezzo rispetto ad h e rappresentando le curve parametriche in h, queste si
intersecano nel punto di break-even (1, 𝑃0 ), punto nel quale è indifferente la scelta di trattenere o
reinvestire e nel quale si inverte la concavità delle stesse.

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𝐷𝑖𝑣1 𝐷𝑖𝑣1 (1 − ℎ) ∙ 𝐸𝑃𝑆1 (1 − ℎ) ∙ 𝐵0 ∙ 𝑅𝑂𝐸
𝑃0 = = = =
𝑟−𝑔 𝑟−𝑔 𝑟 − ℎ ∙ 𝑅𝑂𝐸 𝑅𝑂𝐸
𝑟 ∙ [1 − ℎ ∙ ( )]
𝑟
A conferma del principio dei dividendi, il modello di Gordon suggerisce che conviene investire se
𝑅𝑂𝐸 > 𝑟, viceversa conviene distribuire interamente il dividendo.
La differenza tra il prezzo con crescita e il prezzo senza crescita prende il nome di Valore Attuale
delle Opportunità di Crescita (VAOC) ed è il valore attuale di una serie di micro-investimenti che
crescono, perché trattenendo utili ogni anno viene effettuato un piccolo investimento che genera un
flusso di cassa incrementale perpetuo. Solitamente è possibile distinguere tre fasi all’interno della vita
di un’azienda: una fase di assestamento in cui l’utile può essere negativo, una fase in cui valgono
elevati tassi di crescita e una fase di crescita nulla, in quanto l’azienda viene raggiunta dalla
concorrenza.
𝑉𝐴𝑁1
𝑉𝐴𝑂𝐶 = 𝑃𝐶 − 𝑃𝑆𝐶 =
𝑟−𝑔
È possibile raccogliere capitale di rischio o collocando azioni privatamente (private equity placement)
al di fuori del mercato regolamentato o ricorrendo a investitori specializzati sul mercato. Al mercato
in borsa si accede o facendo un’offerta pubblica inizia (IPO) o attraverso una fusione con un’azienda
già quotata. Si può inoltre accedere al listino in presenza di azionariato diffuso, con una dimensione
del flottante (azioni libere di circolare, scambiate con lotto minimo di acquisto) pari ad almeno il
25% (35% nel caso di indice STAR). Un’azienda può acquistare azioni di un’altra azienda o a fini
speculativi (si vuole guadagnare su dividendi e capital gain) o a fini strategici (si è interessati a
partecipare alle assemblee e decidere). Affinché si possa essere quotati in borsa è necessario
soddisfare alcuni requisiti circa:
• La dimensione minima dell’impresa, intesa come attivo o capitalizzazione prevedibile, ovvero
una previsione del numero di azioni che l’azienda collocherà nel momento in cui farà l’IPO.
• La redditività potenziale annuale
• Un flottante pari almeno al 25% (35% in alcuni casi)
• Una determinata corporate governance: l’azienda deve essere strutturata in un certo modo a
livello di gestione
• Rispetto di una certa informativa: non solo il bilancio a fine anno
Quando un’azienda si quota in borsa sono previsti diversi vantaggi:
- Vantaggio finanziario: raccogliendo capitale di rischio, varierà il proprio rapporto di
indebitamento, garantendo maggiore solvibilità e diminuendo, dunque, il costo del capitale di
terzi.
- Migliore reputazione: le permette, ad esempio, di accedere più agevolmente a un mutuo
bancario.
- Maggiore visibilità: attira a sé nuovi clienti, fornitori o potenziali partners.
- Nuove opportunità: i nuovi soci portano con sé nuova esperienza.
- Efficienza organizzativa: quotarsi in borsa obbliga l’azienda a guardarsi dentro,
implementando nuovi sistemi di controllo in grado di fornire informazioni precise e
dettagliate.
- Sgravi fiscali: le matricole sono soggetti a benefici fiscali in termini di tassazione

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Di contro sono presenti anche svantaggi, dovuti per la maggior parte agli ingenti costi da sostenere
per mettere a punto ad esempio i nuovi sistemi di controllo o al superamento dell’asimmetria
informativa, comunicando un po’ le prospettive di investimento future.
Un’azienda può candidarsi come acquirente o venditore di azioni già esistenti attraverso un’Offerta
Pubblica di Acquisto (OPA) o un’Offerta Pubblica di Vendita (OPV) o di sottoscrizione nel caso di
nuove azioni. In Italia le offerte pubbliche sono regolamentate dalla CONSOB.
L’emissione di nuove azioni può avvenire attraverso due modalità.
Le IPO (Offerta Pubblica Iniziale) avviene contestualmente alla quotazione in borsa. Sono operazioni
finanziarie molto complesse perché bisogna decidere il momento opportuno in cui quotare (l’azienda
deve avere progetti validi), trovare gli intermediari e formulare un prospetto informativo con
l’indicazione del prezzo. Inoltre l’intermediario deve garantire il piazzamento delle azioni, per evitare
un brusco calo del prezzo: per tale motivo si riserva l’opzione di acquistare lui stesso azioni per
sostenere il corso del titolo.
Le aziende già quotate potrebbero aver bisogno di un aumento di capitale e ciò avviene attraverso le
cosiddette Offerte Pubbliche Seasoned, ovvero offerte occasionali di sottoscrizione di nuove azioni
sul mercato primario. La determinazione del prezzo è meno aleatoria, in quanto vi sono già azioni in
circolazione, ma esso dovrà essere inferiore al prezzo di mercato affinché vengano acquistate. Ciò
provoca un trasferimento di ricchezza dai vecchi azionisti ai nuovi azionisti. Per la legge di
conservazione della ricchezza:
𝑛 ∙ 𝑃 + 𝑛𝑠𝑒𝑎𝑠𝑜𝑛𝑒𝑑 ∙ 𝑃𝑠𝑒𝑎𝑠𝑜𝑛𝑒𝑑 = 𝑛𝑝𝑜𝑠𝑡 ∙ 𝑃𝑝𝑜𝑠𝑡

Il trasferimento di ricchezza sarà pari a 𝜏 = 𝑛 ∙ (𝑝 − 𝑝𝑝𝑜𝑠𝑡 ).

La valutazione di un’azienda può essere fatta ricorrendo a diversi metodi, tra cui:
• Il metodo patrimoniale, mediante il quale si calcola il valore di mercato del capitale azionario
come differenza tra il valore di mercato delle attività e il valore di mercato del capitale di terzi.
Risulta complicato valutare a valori di mercato determinati assets intangibili o specifici.
• Il metodo dei multipli comparabili considera indici riferiti a imprese che per dimensioni, età
ed area di business possono essere confrontabili all’azienda in oggetto. Gli indici spesso
𝑃 𝑃
utilizzati sono 𝑖−1 o .
𝐸𝑃𝑆𝑖 𝐵
• Il metodo finanziario, mediante il quale il valore di un’azienda viene considerato come il
valore attuale di una serie di flussi di cassa disponibili fino all’orizzonte di valutazione H a
cui si somma il valore attuale previsto alla fine dell’orizzonte di valutazione. Spesso il valore
alla fine dell’orizzonte di valutazione viene individuato facendo ricorso al metodo dei multipli
𝐸𝑃𝑆
comparabili o dall’istante in cui il VAOC è nullo e dunque banalmente 𝑉𝐴𝐻 = .
𝑟
𝐹𝐶𝐹1 𝐹𝐶𝐹2 𝑉𝐴𝐻 + 𝐹𝐶𝐹𝐻
𝑉𝐴 = + 2
+ ⋯+
(1 + 𝑟) (1 + 𝑟) (1 + 𝑟)𝐻

Rischio e rendimento
Il rischio in finanza è da intendersi secondo l’accezione cinese del termine, dove il rischio è sia
pericolo che opportunità. L’obiettivo fondamentale in finanza è fare in modo che, quando un
investitore sia esposto a un rischio, venga remunerato in modo appropriato. Il rischio sarà dunque la
variabilità del rendimento di un investimento, calcolato attraverso la sua varianza.

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Introducendo il concetto di dominanza, si dice che un titolo domina un altro titolo se 𝑟𝐴 ≥
𝑟𝐵 , 𝑐𝑜𝑛 𝜎𝐴 < 𝜎𝐵 oppure 𝑟𝐴 > 𝑟𝐵 , 𝑐𝑜𝑛 𝜎𝐴 ≤ 𝜎𝐵 .
Un investitore si dice:
• Avverso al rischio se associa un’utilità maggiore a un investimento a cui, a parità di payoff
atteso, è associato un rischio più contenuto.
• Propenso al rischio se associa un’utilità maggiore all’investimento con rischio più elevato a
parità di rendimento atteso,
• Indifferente al rischio se associa la stessa utilità a investimenti che generano lo stesso payoff,
indipendentemente dal grado di rischio.
Il rischio è determinato da più componenti:
- Rischio specifico di un progetto, dovuto a possibili errori di stima o del prodotto
- Rischio di concorrenza, dovuto a risposte e contromosse inattese da parte dei competitors
- Rischio del settore industriale, dovuto alla tecnologia in uso, nonché alle materie prime e al
rischio legale.
- Rischio internazionale, dovuto prettamente a cambiamenti politici e alla situazione politica
del Paese in cui ci si trova, ma anche all’oscillazione dei tassi di cambio
- Rischio sistematico (di mercato), dovuto alle oscillazioni dei tassi di interesse o
dell’inflazione.
Gran parte delle componenti del rischio possono essere neutralizzate attraverso la diversificazione,
ovvero mediante l’allargamento del portafoglio di attività a molteplici investimenti.
Un’altra classificazione del rischio è in
- Rischio unico o specifico, costituito da fattori di rischio aventi influenza solo su una specifica
azienda (rischio diversificabile).
- Rischio del mercato o sistematico, costituito da fattori generali di rischio insiti nell’economia,
i quali influenzano il mercato nel suo complesso (rischio non diversificabile).
Supporremo di avere a che fare sempre con investitori diversificati che a parità di rendimento
sopporteranno una quota di rischio inferiore e pari soltanto al rischio non diversificabile.
L’investitore diversificato sarà dunque disposto a pagare di più per quel titolo che lo percepirà
meno rischioso. Così facendo tutti i titoli saranno in breve tempo nelle mani di investitori
diversificati.
Supponiamo di avere un portafoglio composto da n titoli caratterizzati dal proprio rendimento e
per ognuno dei quali abbiamo investito una frazione di ricchezza. Un generico portafoglio sarà
dunque caratterizzato da un rendimento pari a
𝑛

𝑟𝑝 = ∑ 𝑥𝑖 ∙ 𝑟𝑖
𝑖=1

e rischio pari a
𝑛 𝑛
𝑛
𝜎𝑃 2 = ∑ 𝑥𝑖2 ∙ 𝜎𝑖2 +∑∑ 𝑥𝑖 ∙ 𝑥𝑗 ∙ 𝑐𝑜𝑣(𝑖, 𝑗)
𝑖=1
𝑖=1 𝑗=1

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Dove per covarianza si intende il valore atteso della funzione g che è il prodotto degli scarti dal
valore medio delle due variabili. La covarianza offre la possibilità di osservare come le due variabili
cambiano nello stesso istante, ovvero dà la misura con cui le due variabili tendono a variare rispetto
al valore medio. Se le due variabili si trovano da parti opposte rispetto al proprio valore medio, le
oscillazioni si compensano, la covarianza sarà negativa, riducendo il rischio del portafoglio. Un’altra
𝑐𝑜𝑣(𝑖,𝑗)
caratteristica legata alla varianza è il coefficiente di correlazione 𝜌𝑖𝑗 = . Il coefficiente di
𝜎𝑖 ∙𝜎𝑗
correlazione può assumere valori compresi tra -1 e 1 e in particolare due titoli azionari possono essere:
• Correlati positivamente (𝜌𝑖𝑗 > 0), se i rendimenti dei due titoli stanno dalla stessa parte
rispetto ai loro valori medi.
• Correlati negativamente (𝜌𝑖𝑗 < 0), se i rendimenti dei due titoli stanno da parti opposte
rispetto ai loro valori medi.
• Non correlati (𝜌𝑖𝑗 = 0), quando i due titoli sono statisticamente indipendenti l’uno dall’altro.

Si definisce curva dei portafogli ammissibili quella curva composta da tutti i portafogli che si
possono ottenere combinando in maniera diversa i titoli A e B, al variare cioè della frazione di
ricchezza investita in A e in B. È possibile individuare un portafoglio a varianza minima derivando il
rischio rispetto a una frazione di ricchezza (ricordando che sono una il complemento a 1 dell’altra) e
ponendo uguale a zero. Vi sono inoltre alcuni casi notevoli in cui:
• 𝜌𝐴𝐵 = 1, nel piano rischio-rendimento i portafogli ammissibili sono rappresentati da una retta.
Il portafoglio a varianza minima si ottiene investendo tutta la ricchezza ne titolo con varianza
minore. Non esistono relazioni di dominanza.
• 𝜌𝐴𝐵 = −1, nel piano rischio-rendimento i portafogli ammissibili sono rappresentati da una
linea spezzata e in particolare esiste una composizione del portafoglio con varianza nulla. Ciò
avviene perché per ogni scenario possibile quando un titolo ha un rendimento superiore alla
sua media l’altro lo avrà sotto, compensando perfettamente gli scarti. È possibile individuare
una frontiera efficiente di portafogli non dominati.
• 𝜌𝐴𝐵 = 0, nel piano rischio-rendimento i portafogli ammissibili sono rappresentati da una
curva in cui si può individuare un portafoglio a varianza minima, nonché una frontiera
efficiente di portafogli non dominati, caratterizzati da una frazione di ricchezza del titolo B
superiore a quella investita nello stesso nel portafoglio a varianza minima (𝑥𝐵 ≥ 𝑥𝐵∗ ).
Nei portafogli composti da N titoli si ottiene una nuvola di portafogli ammissibili, ottenuta
combinando tutti i titoli in coppie. Si individua, dunque, una frontiera efficiente, luogo dei punti che
a parità di rendimento hanno sqm minimo: bisogna procedere dunque con un inviluppo.
Per scegliere in quale portafoglio investire tra gli ammissibili si ricorre a due modelli.
Nel modello di Markowitz, fra tutti i portafogli ammissibili un investitore avverso al rischio sceglierà
tra quelli che appartengono alla frontiera efficiente (non dominati). Tuttavia non è previsto un
equilibrio di mercato, dunque ciascun investitore investirà in proporzioni diverse dipendenti dalla
propria curva di utilità, che tiene conto della propria propensione al rischio e della propria
disponibilità liquida: più investo, meno sono avverso al rischio e più la curva sarà piatta.
Nel modello di Tobin, invece, si ipotizza la possibilità di prendere e dare in prestito a un tasso di
rendimento risk free. La rappresentazione dei portafogli ammissibili varia, in quanto bisognerà
considerare anche la combinazione tra tale punto e un generico punto T che si trova nella parte non
dominata. Tra tutte le generiche rette si sceglie quella tangente, che comprende tutti i punti non

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dominati e prende il nome di Capital Market Line (CML). Il punto di tangenza prende il nome di
mercato. Vale dunque il teorema di separazione, ovvero nel modello di Tobin si perviene a un
processo in due fasi: viene prima individuato il portafoglio di mercato, unico per tutti gli investitori,
mentre nella seconda fase ogni investitore sulla base della propria curva di utilità decide quanto
investire nel mercato e quanto nel titolo risk free. Si perviene dunque a un equilibrio. A differenza
del modello precedente, qui è possibile indebitarsi al tasso risk free, investendo più della propria
ricchezza nel mercato, a patto che 𝑥𝑀 + 𝑥𝑟𝑓 = 1. In questo modo, sfruttando la leva finanziaria, si
avrà dunque un portafoglio con rendimento maggiore a quello di mercato.
Si dimostra, inoltre, che la CML sia una retta. Supponiamo di investire in un generico punto T dei
portafogli ammissibili non dominati. Esso avrà 𝜎𝑃 = 𝑥𝑇 ∙ 𝜎𝑇 + 𝑥𝑟𝑓 ∙ 𝜎𝑟𝑓 = 𝑥𝑇 ∙ 𝜎𝑇 Il rendimento del
𝜎𝑃
portafoglio sarà invece 𝑟𝑃 = 𝑥𝑇 ∙ 𝑟𝑇 + 𝑥𝑟𝑓 ∙ 𝑟𝑟𝑓 = 𝑥𝑇 ∙ 𝑟𝑇 + (1 − 𝑥𝑇 ) ∙ 𝑟𝑟𝑓 . Sostituendo 𝑥𝑇 =
𝜎𝑇
𝜎𝑃
allora 𝑟𝑃 = 𝑟𝑟𝑓 + ∙ (𝑟𝑇 − 𝑟𝑟𝑓 ).
𝜎𝑇

Come si fissano i prezzi dei titoli del portafoglio di mercato per generare l’equilibrio di mercato è
spiegato dal Capital Asset Pricing Model (CAPM). Si parlerà indifferentemente di Pricing, quindi di
prezzo, e di rendimento del titolo, in quanto l’unico elemento che mi determina il prezzo è proprio il
rendimento. Le ipotesi del CAPM sono:
• La presenza di investitori razionali e con aspettative omogenee
• Efficienza dei mercati, assenza di informazione privata, di costi di transazione e di monitoring.
Se i mercati sono efficienti, il mercato remunererà solo il rischio non diversificabile, in quanto
quello diversificabile può essere eliminato.
• Tutte le attività sono trattate sui mercati e gli investimenti sono divisibili all’infinito, cioè la
composizione del mercato non è vincolata a lotti minimi, altrimenti avremmo variabili discrete
e non continue.
• Possibilità di prendere e dare in prestito al tasso risk free, invariabile nel tempo. Affinché un
rendimento sia privo di rischio, il suo rendimento effettivo deve essere pari a quello atteso.
Deve essere dunque nullo il rischio di default, così come l’incertezza sui tassi di
reinvestimento, che si ha solo in assenza di flussi intermedi. Nella pratica si fa riferimento
dunque a uno ZCB, ovvero un titolo di stato con scadenza pari all’orizzonte temporale
dell’attività considerazione.
• Modello uniperiodale per la stima del prezzo di un’azione.
In questo modo si è spinti alla completa diversificazione e tutti gli investitori posseggono lo stesso
𝜎
portafoglio di mercato. Ricordando l’equazione della CML 𝑟𝑃 = 𝑟𝑟𝑓 + 𝑃 ∙ (𝑟M − 𝑟𝑟𝑓), si definisce
𝜎 M
𝑟𝑀 − 𝑟𝑟𝑓 premio per il rischio di mercato, cioè si vuole un premio per investire nel mercato,
proporzionale all’avversione media degli investitori per il rischio e al rischio stesso. Il premio per il
rischio è la media ponderata del premio per il rischio di ciascun investitore. Si stima sulla base di
interviste ai maggiori investitori, analisi dei dati storici e del premio implicito.
𝑟𝑀 − 𝑟𝑟𝑓 = 𝐴 ∙ 𝜎𝑀2

Il CAPM si pone il problema di stimare il premio per il rischio della singola attività rischiosa. Il
premio che l’investitore vuole per investire nel generico titolo i è pari a
𝜎𝑀2 𝑐𝑜𝑣(𝑖, 𝑚)
𝑟𝑖 − 𝑟𝑟𝑓 = 𝐴 ∙ 𝑐𝑜𝑣(𝑖, 𝑚) = 𝐴 ∙ 𝑐𝑜𝑣(𝑖, 𝑚) ∙ 2 = (𝑟𝑀 − 𝑟𝑟𝑓 ) ∙
𝜎𝑀 𝜎𝑀2

9
Quindi il premio per l’investimento in una singola attività è il rischio aggiunto da quell’attività al
rischio del portafoglio. La covarianza è una misura non standardizzata, ma rapportandola al 𝜎𝑀2 si
ottiene una misura standardizzata detta Beta dell’attività, Il Beta di mercato è pari a 1, titoli più
rischiosi hanno Beta maggiori di 1.
𝑐𝑜𝑣(𝑖, 𝑚) 𝜌𝑖𝑚 ∙ 𝜎𝑖 ∙ 𝜎𝑀 𝜌𝑖𝑚 ∙ 𝜎𝑖 𝜎𝑛𝑜𝑛 𝑑𝑖𝑣𝑒𝑟𝑠𝑖𝑓𝑖𝑐𝑎𝑏𝑖𝑙𝑒
𝛽= = = =
𝜎𝑀2 𝜎𝑀2 𝜎𝑀 𝜎𝑀
La formulazione più nota del CAPM è

𝑟𝑖 = 𝑟𝑟𝑓 + 𝛽𝑖 ∙ (𝑟𝑀 − 𝑟𝑟𝑓 )

Il numeratore del Beta 𝜌𝑖𝑚 ∙ 𝜎𝑖 è pari al rischio non diversificabile. Ciò significa che il mercato
remunera soltanto la parte non diversificabile. Inoltre se 𝜎𝑖 = 𝜎𝐷 + 𝜎𝑁𝐷 allora 𝜎𝐷 = 𝜎𝑖 ∙ (1 − 𝜌𝑖𝑚 ).
Se si considera, invece, come variabile indipendente il Beta si ottiene la retta della Security Market
Line. Inoltre il Beta gode della proprietà additiva che eredita dal rendimento, con cui è collegato
attraverso la formulazione del CAPM. Si dimostra un’importante proprietà del Beta della CML. Infatti
𝛽𝐶𝑀𝐿 = 𝑥𝑀 ∙ 𝛽𝑀 + 𝑥𝑟𝑓 ∙ 𝛽𝑟𝑓 = 𝑥𝑀 . Ciò è utile perché i titoli che hanno lo stesso rendimento hanno
anche lo stesso Beta. Conoscendo la composizione del mercato, dunque, conosco il Beta e quindi il
beta di qualsiasi altro titolo che ha lo stesso rendimento.
Il Beta può essere stimato attraverso tre metodi.
Il Regression Beta guarda allo storico chiedendosi che rendimenti abbia avuto il titolo nel passato.
Poiché i titoli oscillano, la previsione viene fatta individuando una retta di regressione di cui si
stimano i parametri col metodo dei minimi scarti quadratici medi. Quindi in ogni periodo si rilevano
il rendimento del titolo i e del mercato, si riportano i punti su un grafico rendimento di mercato –
rendimento del titolo, infine si individua la retta che meglio interpola questi punti.
𝑟𝑖 = 𝑎 + 𝛽 ∙ 𝑟𝑀
𝑐𝑜𝑣(𝑖,𝑚)
Dove 𝛽 = 2 è l’inclinazione della retta mentre 𝑎 = 𝑟̅𝑖 − 𝛽 ∙ ̅̅̅
𝑟𝑀 è l’intercetta. Si assume che
𝜎𝑀
attraverso il metodo del regression beta si trovino i dati effettivi, mentre col CAPM quelli teorici.
Dunque è possibile effettuare un confronto calcolando la cosiddetta 𝛼 di Jensen.
Regression beta: 𝑟𝑖 = 𝑎 + 𝛽 ∙ 𝑟𝑀

CAPM: 𝑟𝑖 = 𝑟𝑟𝑓 + 𝛽𝑖 ∙ (𝑟𝑀 − 𝑟𝑟𝑓 ) = (𝑟𝑟𝑓 − 𝛽 ∙ 𝑟𝑟𝑓 ) + 𝛽 ∙ 𝑟𝑀

Allora la differenza tra i due modelli sta in 𝛼 = 𝑎 − (𝑟𝑟𝑓 − 𝛽 ∙ 𝑟𝑟𝑓 ), che misura dunque lo
scostamento tra il rendimento reale e quello teorico. In particolare se è positiva allora il titolo ha
performato meglio di quanto stimato, se negativa peggio, se nulla è stata in linea. L’ 𝛼 di Jensen,
però, rappresenta un extra rendimento che non è corretto attribuire all’azione, ma andrebbe depurato
dell’ 𝛼 di Jensen del settore. I parametri di regressione vengono sempre stimati con un margine di
errore misurato dall’R-quadrato. Quindi 1-R-quadrato rappresenta la proporzione della variabilità
dell’azione non attribuibile a variabilità del mercato.

2 2
𝛽 2 ∙ 𝜎𝑀2
𝑅 = 𝜌𝑥𝑦 =
𝜎𝑖2

10
Spesso è necessario avere un parere qualitativo su più aziende. Il beta deve riflettere le politiche
aziendali in termini di:
• scelta del settore in cui investe, più l’attività dipende dall’andamento del mercato, maggiore
sarà il beta. Il Beta è dunque funzione del livello di discrezionalità legato all’acquisto del bene
prodotto dall’azienda. Ciò viene anche influenzato dal brand loyalty, maggiore fedeltà al
marchio produce piccole oscillazioni di vendite.
• leva operativa, in quanto più è elevata e maggiore sarà la variabilità dell’EBIT. La leva
operativa può essere stimata come rapporto tra la variazione percentuale del reddito operativo
e la variazione percentuale dei ricavi. La crescita della leva operativa indica la sensibilità del
RO al variare della quantità venduta, dunque indica la variabilità del RO in funzione della
variabilità del mercato. Una struttura di costi con un maggior peso sul totale dei costi fissi, fa
aumentare la leva operativa. Un’azienda senza costi fissi ha LO=1 ed è estremamente
flessibile, seguendo l’andamento del mercato in modo proporzionale.
• leva finanziaria, in quanto determina il mix tra il capitale di terzi e il capitale di rischio. Dal
momento che il beta delle attività dell’azienda è la media ponderata dei Beta delle sue fonti
di finanziamento, la scelta delle fonti di finanziamento impatta sul Beta stesso. All’aumentare
del debito, aumenta il rischio per gli azionisti e quindi il beta del CN. Inoltre all’aumentare
del debito, aumenteranno gli oneri finanziari e quindi i costi fissi, impattando sulla leva
operativa.
Tenendo in considerazione il principio del duplice aspetto, il Beta delle fonti deve essere uguale
al Beta degli impieghi. Poiché le fonti sono due (capitale di rischio e capitale di terzi), il Beta
dell’azienda sarà una media ponderata tra i due Beta. Al crescere del rapporto di indebitamento
non aumenta solo il Beta del debito, ma anche il Beta del capitale di rischio: più aumenta il debito,
minore sarà la possibilità per gli azionisti di ottenere qualcosa in fase di liquidazione dato il loro
diritto residuale e quindi il loro rischio aumenta. Facendo riferimento al metodo Bottom up,
partendo cioè da ciò che fa l’azienda, si individuano le attività dell’azienda, i relativi Beta e valore
di mercato. Si calcola il Beta dell’azienda unlevered come media ponderata dei Beta delle attività
e a partire da esso si calcola quello levered.
Infine esiste un terzo metodo per la stima del Beta, detto Accounting Beta, che si serve della
regressione delle variazioni degli utili dell’azienda rispetto alle variazioni degli utili di mercato.
La distanza tra le informazioni reali e quelle restituite da tale modello è pari ala distanza tra un
valore contabile e uno di mercato. Per tale motivo, spesso tale valore viene corretto mediante il
rapporto E/B.

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Rischio di insolvenza
Generalmente chi presta il denaro corre un rischio di insolvenza, cioè la possibilità di non ricevere
il rimborso di un prestito o il pagamento di interessi maturati. Come conseguenza, esiste una relazione
tra tale rischio e il tasso a cui viene prestato il denaro: maggiore sarà il rischio di insolvenza e
maggiore sarà il rendimento richiesto. Il rischio di insolvenza vuole misurare dunque la probabilità
che l’azienda indebitata sia inadempiente: ciò avviene tramite l’analisi degli impegni finanziari e della
capacità dell’azienda di generare flussi di cassa operativi., tenendone in considerazione stabilità ed
entità. I modelli per la stima del rischio di insolvenza si basano su indici finanziari che tengono conto
della variabilità attraverso parametri che riflettono il settore industriale di appartenenza. Solitamente
si tiene conto del MOL (o EBITDA, sono equivalenti). La misura più utilizzata per il rischio di
insolvenza è il rating del debito, che rappresenta un giudizio complessivo qualitativo sulle
obbligazioni dell’emittente espresso da un’agenzia di rating indipendente e che utilizza informazioni
sia pubbliche che private.

Basilea
Il meccanismo delle banche è complesso, ma semplificando accettano depositi e prestano soldi. La
banca, però, deve avere liquidità sufficiente a rimborsare la somma depositata dai clienti. Negli anni
sono stati siglati vari accordi che regolamentano tale meccanismo. Il primo venne siglato nel 1988 a
Basilea, dove ha sede la Banca dei Regolamenti Internazionali (BRI), il cui obiettivo è garantire la
stabilità monetaria e finanziaria da raggiungere attraverso la collaborazione fra le banche centrali e
altri enti. Il primo accordo, Basilea 1, prevedeva l’obbligo per le banche di accantonare l’8% del
capitale erogato per garantire la solidità dell’attività degli istituti di credito. La seconda versione,
Basilea 2, prende invece in considerazione anche l’esistenza del rischio: in questo modo più basso
sarà il rating ottenuto dall’azienda, più elevato sarà il rischio di insolvenza e dunque maggiore sarà
l’accantonamento da parte della banca che è portata a chiedere tassi di interesse più alti. La seconda
versione, però, ricevette alcune critiche circa problemi che sarebbero potuti derivare per le piccole e
medie imprese, la prociclicità del trattato e il sistema di rating. Con Basilea 3 e Basilea 4 (che verrà
implementato ne 2021) si è cercato, dunque, di standardizzare il sistema di rating, che rischierà però
di penalizzare le banche del Nord Europa, con sistemi di rating più interni che standardizzati. Sono
anche state previste tecniche di salvataggio delle banche, evitando che un fallimento incidesse
troppo sul sistema economico. Tra queste rientra il cosiddetto bail in, che consente alla banca di
salvarsi ricorrendo al contributo di azionisti e obbligazionisti, anziché al contributo delle banche
centrai (bail out). Ciò che in questo modo obbligazionisti e azionisti perdono è sempre minore a ciò
che perderebbero se la banca fallisse.

Rischio e capital budgeting


Come conseguenza della proprietà additiva del valore attuale, è possibile esprimere il valore di
un’impresa come somma dei valori delle singole attività. Il costo del denaro dipende dal rischio
dell’investimento che si sta valutando, dunque verranno impiegati tassi differenti in relazione alla
categoria di progetti che si sta considerando. Ricordando la Security Market Line, una delle
formulazioni del CAPM, è possibile ricavare il costo del progetto a partire dal rendimento richiesto:
il costo del capitale aziendale si base sul Beta medio delle attività. Nella formulazione del CAPM è
necessario includere la struttura finanziaria: il vero costo del capitale dipende dall’uso che ne viene
fatto.
Dal punto di vista di un investitore, risulta più rischioso investire in azioni che in obbligazioni: dunque
il costo di opportunità sarà più alto nel primo caso. Ciò perché investendo in azioni ho un diritto

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residuale. Dal punto di vista aziendale, invece, la situazione è specchiata. Sul capitale di terzi, infatti,
sono necessari pagamenti periodici per pagare gli oneri finanziari, a differenza delle azioni che
presentando un diritto residuale non obbligano il pagamento di dividendi. Inoltre il capitale di terzi
dovrà essere necessariamente rimborsato in conto capitale, al contrario del capitale di rischio. Essendo
che il primo risulta essere dunque un costo fisso per l’azienda, graverà sull’utile, da cui dipende il
rendimento nonché il rischio: il capitale di terzi dunque risulta essere più rischioso per un’azienda.
Poiché per l’investitore, però, è molto più rischioso investire in azioni, il capotale di rischio avrà un
costo relativo maggiore per l’azienda. Saremmo dunque portati a preferire solo capitale di rischio,
d’altro canto per poter sfruttare la leva finanziaria abbiamo bisogno di ricorrere al debito: ma
attenzione, perché indebitandosi troppo cambia il costo del capitale di terzi, rischiando di
compromettere l’effetto leva.
Si introduca il concetto di Costo di Opportunità del Capitale (COC), in inglese WACC, ovvero il
costo medio ponderato del capitale. Facendo riferimento esclusivamente ai valori di mercato, in
assenza di tasse, il WACC di un’azienda è la media ponderata delle fonti di finanziamento:
𝐸 𝐷
𝑊𝐴𝐶𝐶 = 𝑟𝑎𝑡𝑡𝑖𝑣𝑖𝑡à = 𝑟𝐸 ∙ + 𝑟𝑑 ∙
𝐷+𝐸 𝐷+𝐸
Analogamente sarà possibile calcolare il Beta delle attività, mentre il rendimento dell’equity sarà
desumibile dal CAPM.
Tra gli strumenti finanziari troviamo il debito, caratterizzato da:
• Diritti contrattualmente prefissati, dovuti alla remunerazione fissa, ovvero stabilita al
momento della sottoscrizione del debito.
• Scadenza fissa, imponendo disciplina al manager che deve rispettare i periodi prefissati.
• Deducibilità fiscale, gli oneri finanziari rappresentano infatti un costo per l’azienda che
risultano essere fiscalmente deducibili, dal momento che vanno a diminuire l’imponibile.
• Precedenza sui flussi di cassa, sia in periodi floridi che in caso di dissesto.
Il debito, inoltre, gode di alcuni vantaggi:
• Vantaggio fiscale, dal momento che gli oneri finanziari sgonfiano l’imponibile si innescherà
un effetto paratasse. Nel caso di un’azienda unlevered si pagheranno 𝑇𝑢𝑛𝑙𝑒𝑣𝑒𝑟𝑒𝑑 = 𝑅𝑂 ∙ 𝑡𝑎𝑥,
nel caso di un’azienda levered, invece, 𝑇𝑙𝑒𝑣𝑒𝑟𝑒𝑑 = (𝑅𝑂 − 𝑂𝐹) ∙ 𝑡𝑎𝑥 = 𝑅𝑂 ∙ 𝑡𝑎𝑥 − 𝑂𝐹 ∙ 𝑡𝑎𝑥.
Dunque è come se parte delle tasse venissero pagate dallo Stato.
• Leverage, dal momento che è possibile innescare il cosiddetto effetto leva.
• Allineamento P-A, essendo in una situazione di risorse ristrette, il manager è meno propenso
a usarle per comportamenti opportunistici. Se il free cash flow è ridotto, l’impiego che se ne
fa deve essere più oculato, dato che un utilizzo improprio potrebbe compromettere il corso
del titolo e dunque una diminuzione del valore dell’azienda, rendendo più accessibili le scalate
ostili che portano a un cambiamento di proprietà, nonché di management.
Tra gli svantaggi, invece, troviamo:
• Costi di fallimento, che possono essere diretti o indiretti. I costi diretti sono legati alla
procedura fallimentare stessa, tra cui i costi amministrativi e del curatore fallimentare. I costi
indiretti, invece, sono legati alla fase di dissesto durante la quale molti stakeholders decidono
di interrompere eventuali rapporti commerciali o finanziari con l’azienda.

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• Costi di agenzia, dovuti alla necessità dei terzi di tutelarsi, generalmente attraverso clausole
di salvaguardia presenti nei contratti stipulati. Ad esempio, in seguito all’accensione di un
mutuo, reperirne un secondo risulta essere più costoso, in quanto se il primo ha la priorità,
allora la capacità di rispondere agli impegni finanziari diminuisce, aumentando il rischio di
insolvenza.
• Perdita di flessibilità finanziaria futura, alcune teorie infatti inducono alla determinazione di
rapporti di indebitamento ottimali. Raggiungendolo subito, perdo di flessibilità, in quanto si
è vincolati a non influenzare e variare tale rapporto. Solitamente dunque si preferisce
mantenere un determinato slack, mantenendocisi al di sotto di tale rapporto ottimale.
I primi a porsi il problema dell’importanza della struttura finanziaria furono Modigliani e Miller, che
sotto determinate ipotesi, arrivarono alla conclusione che non è importante e non impatta sul valore
dell’azienda. Le ipotesi di partenza erano l’assenza di imposte, di costi diretti e indiretti connessi al
fallimento e dei costi di agenzia, indifferenza della politica dei dividendi. È dunque indifferente se a
indebitarsi sia l'azienda o l'azionista. Si considerino, infatti, due imprese, caratterizzate dalle stesse
attività di bilancio che realizzano un margine operativo di bilancio identico (RO), di cui una
unlevered e una levered: il valore della prima impresa è 𝑉𝑈 = 𝐸𝑈, mentre della seconda sarà 𝑉𝐿 = 𝐸𝐿
+ 𝐷𝐿. Si consideri adesso un investitore che acquista il 5% delle azioni dell’impresa U: il suo
investimento sarà dunque pari a 𝐼1 = 5% ∙ 𝐸𝑈. Si consideri un secondo investitore che acquista il 5%
dell’equity dell’azienda levered e ne sottoscriva il 5% del debito. Il payoff dei due investitori sarà
dunque 𝑃1 = 5% ∙ 𝑅𝑂 e 𝑃2 = 5% ∙ (𝑅𝑂 − 𝑟𝐷 ∙ 𝐷) + 5% ∙ 𝑟𝐷 ∙ 𝐷 = 5% ∙ 𝑅𝑂. In condizioni di
equilibrio, strategie che generano lo stesso payoff implicano uno stesso investimento iniziale.
Dunque
𝐼1 = 𝐼2 ⇒ 5% ∙ 𝐸𝑈 = 5% ∙ 𝐸𝐿 + 5% ∙ 𝐷𝐿 ⇒ 𝐸𝑈 = 𝐸𝐿 + 𝐷𝐿 ⇒ 𝑉𝑈 = 𝑉𝐿

Supponiamo adesso, però, che un investitore per investire nel 5% ∙ 𝐸𝑈 di un’azienda unlevered debba
indebitarsi all’unico tasso di mercato r, per un valore pari al 5% ∙ 𝐷𝐿 . Un secondo investitore, invece,
investirà nel 5% ∙ 𝐸𝐿 di un’azienda levered. I payoff saranno dunque: 𝑃1 = 5% ∙ (𝑅𝑂 − 𝑟𝐷 ∙ 𝐷) e
𝑃2 = 5% ∙ (𝑅𝑂 − 𝑟𝐷 ∙ 𝐷). Anche in questo caso dunque:
𝐼1 = 𝐼2 ⇒ 5% ∙ 𝐸𝑈 − 5% ∙ 𝐷𝐿 = 5% ∙ 𝐸𝐿 ⇒ 𝐸𝑈 = 𝐸𝐿 + 𝐷𝐿 ⇒ 𝑉𝑈 = 𝑉𝐿

Dunque, la I proposizione di M&M afferma che se i mercati dei capitali svolgono una corretta
funzione, le imprese non possono accrescere il proprio valore modificando la struttura finanziaria. Il
valore è indipendente dall’indice di indebitamento. Di conseguenza il costo del capitale non viene
modificato da variazioni nella tipologia delle fonti di finanziamento.
La presenza del debito fa aumentare l’EPS (diminuisce il numero di azioni), ma complessivamente il
prezzo rimane lo stesso, in quanto contestualmente aumenterà anche il rendimento atteso per azione,
infatti. La II proposizione di M&M afferma che, in assenza di tasse, il rendimento dell’equity di
un’azienda è uguale al rendimento delle attività, ovvero di ciò che l’azienda fa indipendentemente
dal modo in cui le finanzia, a cui si somma la differenza 𝑟𝐴 − 𝑟𝐷 proporzionale al rapporto di
indebitamento.
𝐷
𝑟𝐸 = 𝑟𝐴 + ∙ (𝑟 − 𝑟𝐷 )
𝐸 𝐴
Questa relazione ricorda la leva finanziaria, ma a valori di mercato.

14
Il rendimento delle attività è indipendente da come viene
finanziata l’azienda. Il costo del debito inizialmente cresce
lentamente, superato un determinato rapporto di
indebitamento, invece, aumenta il rischio e dunque il costo
aumenta più velocemente. Specularmente, il rendimento
dell’equity cresce inizialmente più velocemente, salvo poi
rallentare.

La I proposizione afferma che il valore dell’impresa non dipende dalla struttura finanziaria, mentre
la II proposizione afferma che il rendimento dell’equity dipende dalla struttura finanziaria. Tuttavia
le due proposizioni non risultano essere in contraddizione, in quanto contestualmente al rendimento,
anche l’EPS varierà in base alla struttura finanziaria, mantenendo il prezzo costante.
Eliminando una delle ipotesi di M&M, ovvero l’assenza di imposizione fiscale, la I proposizione non
vale più. Sarà, infatti, necessario considerare il vantaggio fiscale dell’indebitamento. Nel caso di
un’azienda unlevered si pagheranno 𝑇𝑈 = 𝑅𝑂 ∙ 𝑡𝑐 , nel caso di un’azienda levered, invece, 𝑇𝐿 =
(𝑅𝑂 − 𝑂𝐹) ∙ 𝑡𝑐 = 𝑅𝑂 ∙ 𝑡𝑎𝑥 − 𝑂𝐹 ∙ 𝑡𝑐 . Dunque rispetto a un’azienda unlevered, a parità di RO, si
pagheranno tasse in meno per una quota pari a 𝑂𝐹 ∙ 𝑡𝑐 . Nell’ipotesi di debito costante in perpetuo, il
valore attuale del beneficio fiscale del debito è una rendita perpetua
𝑂𝐹 ∙ 𝑡𝑐 𝐷 ∙ 𝑟𝐷 ∙ 𝑡𝑐
𝑉𝐴𝐵𝐹 = = = 𝐷 ∙ 𝑡𝑐
𝑟𝐷 𝑟𝐷
Il beneficio fiscale è stato attualizzato con 𝑟𝐷 , in quanto tiene conto del rischio di questi flussi di
cassa. Infatti, godo del beneficio fiscale esclusivamente se pago gli oneri finanziari, il cui rischio
dipende dal rischio di insolvenza e quindi 𝑟𝐷 .
Se, invece, a rimanere costante fosse il rapporto di indebitamento, ciò da un punto di vista gestionale
sarebbe sicuramente più complicato da realizzare, ma da un punto di vista finanziario risulta essere
più salubre per l’azienda. In questo modo, però, ho una certezza sul debito esclusivamente per
l’anno successivo, mentre negli anni a seguire cambierà in relazione all’equity e, dunque, ai flussi di
cassa operativi. Il vantaggio fiscale si stima sugli oneri finanziari attualmente pagati, che verranno
attualizzati per un anno con il tasso che tiene in considerazione il rischio di insolvenza e per gli anni
successivi con il rendimento delle attività.

𝑂𝐹 ∙ 𝑡𝑐 𝑂𝐹 ∙ 𝑡𝑐 1 + 𝑟𝐴
𝑉𝐴𝐵𝐹 = ∑ = ∙
(1 + 𝑟𝐷 ) ∙ (1 + 𝑟𝐴 )𝑡−1 𝑟𝐴 1 + 𝑟𝐷
𝑡=1

Alla luce di ciò, il valore dell’impresa sarà pari alla somma del valore dell’impresa se fosse finanziata
totalmente da capitale netto (𝑉𝐴𝐵𝐴𝑆𝐸 ) e il valore attuale del beneficio fiscale del debito (𝑉𝐴𝐵𝐹 ).
Tuttavia non è possibile aumentare eccessivamente il rapporto di indebitamento in quanto
aumenterebbe di molto il tasso di interesse, rischiando di non avere capienza fiscale a sufficienza.
Inoltre chi scegli la struttura finanziaria deve anche mettersi nei panni di chi poi sottoscrive
effettivamente questi strumenti. Sui redditi da obbligazioni viene pagata esclusivamente l’imposta
personale, mentre sui redditi da azioni vengono pagate le imposte societarie e successivamente le
imposte personali. Facendo riferimento al vantaggio relativo, che confronta il reddito da obbligazioni
e il reddito da azioni, è possibile determinare quale sia più vantaggioso

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1 − 𝑡𝑃𝑂 > 1 ⇒ È 𝑝𝑖ù 𝑐𝑜𝑛𝑣𝑒𝑛𝑖𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑖𝑙 𝑑𝑒𝑏𝑖𝑡𝑜
⇒{
(1 − 𝑡𝐶 ) ∙ (1 − 𝑡𝑃𝐸 )
< 1 ⇒ È 𝑝𝑖ù 𝑐𝑜𝑛𝑣𝑒𝑛𝑖𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑖𝑙 𝑐𝑎𝑝𝑖𝑡𝑎𝑙𝑒 𝑛𝑒𝑡𝑡𝑜

Un’altra ipotesi prevista da M&M era l’assenza dei costi del dissesto, derivanti dal fallimento o
dall’assunzione di decisioni distorte prima che intervenga il fallimento. Il dissesto rappresenta
l’anticamera del fallimento, durante il quale l’azienda si trova in difficolta, in stress finanziario. I
costi del dissesto, che si ricollegano ai costi diretti e indiretti del fallimento, rappresentano una
componente negativa all’interno del valore di un’azienda che risulta essere dunque
𝑉 = 𝑉𝐴𝐵𝐴𝑆𝐸 + 𝑉𝐴𝐵𝐹 − 𝑉𝐴𝐶𝑜𝑠𝑡𝑖 𝑑𝑒𝑙 𝐷𝑖𝑠𝑠𝑒𝑠𝑡𝑖

Altri costi assenti nel modello di M&M sono relativi al rapporto di agenzia.
Esistono principalmente due teorie che guidano nella scelta della struttura finanziaria ottimale.
Secondo la teoria del trade-off, la struttura finanziaria si fonda su un compromesso tra i benefici
fiscali e i costi di debito del dissesto. Così facendo si individua un rapporto di indebitamento ottimale
che massimizza il valore dell’azienda. Generalmente si predilige mantenere il proprio rapporto di
indebitamento inferiore al valore target, in modo da assicurarsi maggiore capacità di adattamento per
eventuali nuove proposte di investimento a cui sarà possibile accedere tramite debito.
La teoria dell’ordine di scelta, invece, afferma che l’azienda preferisce le emissioni di debito
all’emissione di azioni, se le risorse finanziarie interne sono insufficienti, a causa dell’asimmetria
informativa. Infatti, l’annuncio di un’emissione di azioni riduce il prezzo delle azioni, in quanto il
mercato crede che i manager siano più inclini a emettere nuove azioni quando le stesse sono
sovrapprezzate. Un modo per evitare ciò è giustificare l’emissione, ma così facendo si potrebbero
avvantaggiare i competitors. Pertanto le aziende preferiscono ricorrere al finanziamento interno, che
permette di reperire fondi senza inviare segnali negativi al mercato. Qualora il finanziamento interno
non fosse possibile, prima di considerare l’emissione di nuove azioni, si farebbe ricorso a un
finanziamento esterno, emettendo debito. Come è confermato dall’evidenza empirica, le aziende più
redditizie sfruttano meno il debito, in quando non hanno necessità di finanziamenti esterni. Di
conseguenza non è previsto un rapporto di indebitamento target.
Studi recenti hanno mostrato che i rapporti di indebitamento dipendono soprattutto da:

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• Dimensione dell’azienda, che è una proxy delle sue attività tangibili che allontanano i rischi
del dissesto. Inoltre la dimensione a parità di redditività aumenta i flussi finanziari e riduce la
necessità di ricorrere a finanziamenti esterni. Secondo la teoria del trade off, poiché i costi
del dissesto sono trascurabili, prevalgono gli effetti positivi del beneficio fiscale e dunque
conviene indebitarsi. Al contrario secondo la teoria dell’ordine di scelta più un’azienda è
grande, maggiore è il capitale investito e maggiori saranno i flussi generati e di conseguenza
la capacità di autofinanziarsi.
• Attività tangibili, per la teoria del trade off, maggiori sono e più garanzie può offrire a chi
fornisce il debito, evitando costi del dissesto.
• Redditività, per la teoria dell’ordine di scelta, maggiore sarà e più grande sarà la capacità di
autofinanziarsi.
• Rapporto valore di mercato-valore contabile, che misura le opportunità di crescita
dell’azienda. Un alto valore di questo indice significa maggiori attività intangibili e dunque,
per la teoria del trade off, alte probabilità di dissesto. Anche per la teoria dell’ordine di scelta
è auspicabile il ricorso a capitale proprio.
Le riserve rappresentano un polmone di fonte di finanziamento sempre accessibile. Per contro,
qualora fosse eccessiva potrebbe alimentare comportamenti opportunistici del manager, che non
dovrà presentare alcun business plan e fornire spiegazioni per l’emissione di debito, ma potrà
agevolmente farne uso. È opportuno dunque lasciare contante appena sufficiente a finanziare progetti
con VAN positivo.
Se l’indice di indebitamento non è quello ottimale, l’azienda deve decidere se effettuare delle
modifiche alla sua struttura finanziaria e potrà farlo secondo diverse modalità. Se l’azienda è sovra
indebitata si rischia, infatti, di finire in dissesto. Se l’azienda invece è sotto indebitata potrebbe fare
gola per una scalata ostile.
Se l’azienda è sotto indebitata, per raggiunger il livello ottimo può:
• Indebitarsi per riacquistare azioni proprie o pagare un dividendo straordinario
In questo modo aumenta contestualmente il debito, riducendo il capitale di rischio.
• Scambiare capitale netto contro debito
Si chiede agli azionisti di diventare obbligazionisti, aumentando il debito a discapito
dell’equity. In questo modo il prezzo delle azioni cresce, ma solo entro determinati range.
• Vendere una parte delle attività per finanziare il riacquisto di azioni proprie
In seguito al dissesto finanziario è necessario aumentare il ROI, o aumentando il RO o
diminuendo il capitale investito. Il capitale investito può essere diminuito o snellendo il
circolante o liquidando le immobilizzazioni, magari vendendo assets che non sono più core.
Se contestualmente si acquistano anche azioni proprie, diminuiamo l’equity.
Se, invece, l’azienda è sovra indebitata, è necessario ridurre il debito, dunque potrà:
• Rinegoziare i contratti di debito
Si richiede all’obbligazionista di diventare azionista. Un incentivo in questo senso potrebbe
essere mostrare come il rischio di insolvenza sia elevato, ricorrendo alla necessità di ridurre
il debito.
• Vendere attività per rimborsare debito
Grazie al vantaggio fiscale di cui gode il debito, il costo del denaro di terzi deve effettivamente tenere
conto degli oneri finanziari che l’azienda paga, risultando dunque al netto del vantaggio fiscale. Per

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tale motivo, il costo del capitale di terzi effettivamente percepito è pari a 𝑟𝐷∗ = 𝑟𝑑 ∙ (1 − 𝑡𝑐 ). Nel
calcolo del costo medio ponderato del capitale (WACC) è giusto, dunque, tenere in considerazione
la tassazione: si otterrà un WACC inferiore a quello calcolato prima delle imposte, dunque il beneficio
fiscale del debito è già incluso in un tasso di rendimento più basso.
𝐷 𝐸
𝑊𝐴𝐶𝐶 = (1 − 𝑡𝑐 ) ∙ ( ∙ 𝑟𝐷 ) + ( ∙𝑟 )
𝐷+𝐸 𝐷+𝐸 𝐸
𝐷
Dove 𝑟𝐸 = 𝑟𝐴 + ∙ (𝑟𝐴 − 𝑟𝐷 ) ∙ (1 − 𝑡𝐶 ). Questo WACC può essere utilizzato se l’azienda continua a
𝐸
effettuare investimenti con lo stesso profilo di rischio, senza variare la struttura finanziaria o il
rendimento delle attività e, dunque, il rendimento dell’equity. Poiché il beneficio fiscale degli
interessi è considerato dalla formula del WACC, dovrò utilizzarlo per attualizzare flussi unlevered,
senza dedurre cioè gli interessi passivi, stimando le imposte come se l’impressa fosse finanziata solo
da capitale netto: in questo modo si ottiene il valore dell’impresa.
Il rendimento delle attività rimane costante al variare del
rapporto di indebitamento. Il rendimento dell’equity levered
cambia secondo la legge di M&M: inizialmente cresce
linearmente ma, non appena rD diventa funzione del rapporto
di indebitamento, inizia a decrescere. Il WACC cambia
seguendo un po’ le sorti di rE ed eD. In assenza di debito il
WACC coincide con il rendimento delle attività, così come
il rendimento dell’equity levered.

Esistono, inoltre, due ulteriori formulazioni del WACC. In caso di debito costante nel tempo e di
flussi di cassa costanti, allora secondo M&M sarà
𝑊𝐴𝐶𝐶 = 𝑟𝐴 ∙ (1 − 𝐿 ∙ 𝑡𝑐 ).
Se, invece, il debito è tale da assicurare un rapporto di indebitamento costante nel tempo, allora vale
la legge di Miles ed Ezzell
1 + 𝑟𝐴
𝑊𝐴𝐶𝐶 = 𝑟𝐴 − 𝐿 ∙ 𝑟𝐷 ∙ 𝑡𝐶 ∙ ( )
1 + 𝑟𝐷

Politica dei dividendi


Come abbiamo visto vi è la possibilità di trattenere gli utili in azienda o dividerli agli azionisti. La
politica dei dividendi è strettamente correlata con quella degli investimenti e dei finanziamenti, ma
deve tenere conto di molti altri fattori. Si tenga presente che risulta prioritario non intaccare la politica
di investimenti e finanziamenti al fine di distribuire dividendi.
In Italia è l’assemblea ordinaria ad approvare il bilancio d’esercizio e la distribuzione degli utili: se
una perdita ha portato a una riduzione del capitale sociale, anche se a regime questo viene garantito
dalla riserva legale, gli utili potranno essere distribuiti solo dopo aver reintegrato il capitale sociale
stesso. È possibile distribuire dividendi straordinari fino al raggiungimento del valore delle riserve
distribuibili. Inoltre solo le società soggette a revisione possono per legge emettere un acconto sui
dividendi, sotto particolari restrizioni.
Quando parliamo di dividendi ci riferiamo in realtà a varie tipologie.

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• Dividendo in contanti
Il dividendo diventa come se fosse la cedola di un’obbligazione, che assicura il pagamento
per un certo periodo di tempo. In Italia generalmente sono annuali. Esistono anche dividenti
in contanti straordinari, utilizzati spesso per remunerare chi ha acquisito l’azienda. Ciò è
possibile se il rapporto di indebitamento lo consente. Tale strategia prende il nome di
leverage buyout: un acquirente per acquisire la maggioranza di un’azienda si indebita, ne
diventa proprietario e in assemblea dei soci delibera il pagamento di un dividendo
straordinario in grado di rimborsare il proprio debito.
• Dividendo in azioni
Molte aziende invece di dare un dividendo in contanti ripagano in azioni. In questo modo
aumentano le azioni in circolazione, il valore di ogni singola azione diminuisce, ma avendone
di più nel complesso il valore rimane identico. Inoltre si viene a creare un Quasi Split Effect
(QSE), cioè se il valore del dividendo diminuisce meno del fattore di diluizione (che tiene
conto del rapporto tra il numero di azioni nuove date per ogni azione posseduta),
complessivamente si percepirà un dividendo maggiore.
• Riacquisto in azioni proprie
Il riacquisto in azioni proprie consente alle aziende di sostenere il corso dell’azione. Esistono
diversi metodi:
o Acquisto di azioni sul mercato, comprandole sul mercato al prezzo corrente
o Offerta Pubblica d’Acquisto (OPA), l’azienda fa un’offerta di acquisto agli azionisti in
cui si fissa il prezzo, solitamente sovrastimando quello attuale: se l’azienda è disposta a
pagare di più, allora il prezzo attuale sul mercato è sottostimato. Se la sovrastima è oltre
un determinato range, per tutelare l’azionariato di minoranza, si adottano misure atte a
garantire un riprezzamento di tutte le altre azioni non inferiore a quello dell’OPA stesso.
o Asta olandese, l’azienda fornisce un range di valori entro cui è disposta ad acquistare le
azioni. Successivamente ogni azionista dichiara il numero di azioni che è disposto a
vendere a un prezzo compreso nel range: l’azienda comprerà il pacchetto di azioni col
prezzo più basso.
o Negoziazione diretta, ovvero si contatta un azionista e ci si mette d’accordo. Potrebbe
risultare controproducente per gli azionisti di minoranza.
In Italia il riacquisto di azioni non può superare il 20% del capitale sociale, aumentato per
diminuire la contendibilità dell’azienda. Tuttavia un rischio di contendibilità elevato fa sì che
gli obiettivi management-azionisti siano allineati. Il riacquisto (o buyback) riduce il numero
di titoli in circolazione, dunque i profitti verranno divisi tra un numero minore di investitori,
aumentando l’EPS. Di conseguenza si verificherà un aumento del ROE. D’altro canto il
riacquisto presuppone l’utilizzo della liquidità, diminuendo gli asset, il cui valore compare al
denominatore del ROI che di conseguenza aumenterà.
Il mercato più che all’erogazione dei dividendi è interessato alla distribuzione stessa: ciò avviene
perché il mercato attenziona maggiormente la variazione del dividendo. Lo stacco o l’aumento di un
dividendo vengono accolti positivamente dal mercato, in quanto la previsione sui flussi di cassa deve
essere tale da consentire di stabilire oggi un aumento del dividendo, garantendolo anche in futuro.
Per emettere un dividendo è dunque necessario avere a disposizione liquidità al netto di tutti gli
investimenti con VAN positivo e assicurarsi che tale liquidità possa essere presente anche in futuro.
La diminuzione di un dividendo viene dunque vista male dal mercato, in quanto è indice di stime
errate e che l’azienda ha bisogno di capitale. In alcuni casi ciò può essere effettuato se la motivazione
è il rimborso di capitale di terzi, al fine di ridurre il rapporto di indebitamento ed evitare una situazione
di dissesto. Anche il buyback è un segnale positivo per il mercato, sostenendo il corso di un’azione.

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Se infatti l’azienda si impegna a riacquistare l’azione sul mercato è perché al momento tale prezzo è
al di sotto del reale valore. Altre volte il buyback serve per impegnare liquidità eccedente, ma non
viene mai comunicato in tal senso perché vorrebbe dire che l’azienda non ha grandi opportunità di
investimento. Altre volte viene adoperato per riequilibrare l’indebitamento: se cancello equity, e
magari per farlo ci si indebita, il rapporto cresce velocemente.
Fra le alternative ai dividendi, per aumentare il capitale si fa ricorso alla sottoscrizione privilegiata
di azioni: anche se il dividendo rimane costante, il tasso del dividendo aumenta (QSE). In una
sottoscrizione privilegiata, è necessario tenere in considerazione i seguenti prezzi:
• Pcum è il prezzo con diritto di opzione, stimato solitamente a chiusura.
• Pe è il prezzo di emissione delle nuove azioni, solitamente inferiore a Pcum al fine di garantire
l’adesione dei vecchi azionisti.
• Prezzo teorico optato (Pto) è il prezzo teorico delle azioni dopo aver optato, stimato attraverso
la conservazione del valore. (𝑚 + 𝑛) ∙ 𝑃𝑡𝑜 = 𝑚 ∙ 𝑃𝑒 + 𝑛 ∙ 𝑃𝑐𝑢𝑚 , dove m è il numero di azioni
nuove distribuite per ogni n azioni vecchie.
• Pex è il prezzo delle nuove azioni dopo l’aumento di capitale, cioè dopo aver optato 𝑃𝑒𝑥 =
𝑛
𝑃𝑒 + ∙ 𝑑 dove il diritto di opzione può essere ottenuto come differenza tra Pto e Pe. È
𝑚
importante fissare un prezzo di emissione che risulti inferiore al prezzo ex, così da assicurarsi
che gli azionisti optino per l’emissione.
Inoltre, affinché il prezzo cum e il prezzo ex possano essere confrontati, si moltiplica il primo per un
𝑃
fattore correttivo detto fattore AIAF pari a 𝐴𝐼𝐴𝐹 = 𝑡𝑜 . In questo modo è infatti possibile eliminare
𝑃𝑐𝑢𝑚
la componente del diritto di opzione contenuta in Pcum, rendendolo confrontabile con Pex. Con la
sottoscrizione privilegiata la quotazione del titolo viene diluita in accordo col fattore AIAF. Ciò
perché Pto è inferiore al Pcum, si ha dunque una diluizione del valore su più azioni. Se il dividendo
1
rimane invariato, il tasso di dividendo aumenterà di un fattore 𝑄𝑆𝐸 = − 1. Per avere un
𝐴𝐼𝐴𝐹
𝐷𝑖𝑣𝑐𝑢𝑚
incremento del tasso di dividendo è sufficiente che 𝐷𝑖𝑣𝑒𝑥 > = 𝐷𝑖𝑣𝑐𝑢𝑚 ∙ 𝐴𝐼𝐴𝐹.
1+𝑄𝑆𝐸

Sui dividendi esiste una vera e propria controversia. Troviamo infatti:


• Sostenitori
Uno dei principali motivi è l’assenza di fiducia nei confronti del management. La
distribuzione dei dividendi è l’esatto opposto del trattenere utili, accumulando riserve che
potrebbero favorire atteggiamenti opportunistici del manager. Come appena esposto, inoltre,
il pagamento di un dividendo e, in particolare, l’aumento di un dividendo fornisce segnali
positivi al mercato. In verità anziché riscuotere un dividendo, sarebbe possibile ricevere
liquidità vendendo di tanto in tanto parte delle azioni, ciò comporterebbe però costi di
transazione.
• Indifferenti
Supponiamo che valgano le ipotesi di M&M e cioè in presenza di mercati perfetti e assenza
di imposte e costi di transazione. Qualora un’azienda fosse già attiva nel distribuire dividendi
e volesse aumentarli senza intaccare gli investimenti, dovrebbe ricorrere all’emissione di
nuove azioni, raccogliendo così denaro da pagare sottoforma di dividendi. Ma dal momento
che il valore dell’impresa non è mutato, deve esserci un trasferimento di ricchezza dai vecchi
ai nuovi azionisti. Ma gli azionisti non sono disposti a pagare di più per azioni di una società
che paga dividendi più elevati, dato che potrebbero comunque ricevere denaro vendendo le
loro azioni.

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• Contrari
Tutte le volte che i dividendi sono tassati più del capital gain, le aziende dovrebbero pagare
dividendi bassi o nulli. Si potrebbe dunque provare a eludere il fisco, restituendo liquidità agli
azionisti solo con il riacquisto di azioni, adducendo motivazioni come la fiducia del
management e disponibilità di azioni per scambi societari. Oggi l’imposizione fiscale è
confrontabile. Inoltre le tasse sui dividendi vanno pagate quando vengono distribuiti, mentre
quelle sul capital gain possono essere pilotate, scegliendo di vendere nel momento più
opportuno. La tassazione cambia in funzione della natura giuridica del soggetto che riceve i
dividendi. Inoltre utile ricordare la legge Pandolfi, cancellata nel 2003 dalla riforma Tremonti,
che prevedeva la deducibilità delle imposte pari alle tasse pagate sull’utile in capo alla società,
fornendo un credito di imposta. Tuttora una legge simile è in vigore in Australia.

Titoli derivati
I titoli derivati si chiamano così perché il loro payoff dipende da un’attività sottostante (underlying)
che può essere una valuta, un bene, un indice azionario. Uno dei ruoli principali dei titoli derivati è
la copertura del rischio, dal momento che regolano transazioni che avverranno a una data futura, o
entro tale data, a condizioni pattuite nel momento dell’acquisto del titolo.
Una forma di titolo derivato è il contratto forward in cui la transazione viene eseguita con certezza.
Nel contratto forward le parti si impegnano a scambiare la sottostante a una certa data (scadenza, T)
a un determinato prezzo (delivery price, X). Sono sia strumenti speculativi (attenzione però, le perdite
possono superare il capitale inizialmente investito), che di hedging, cioè di protezione dal rischio. Chi
si impegna ad acquistare, si dice, ha una posizione lunga, chi si impegna a vendere ha una posizione
corta. Si indichino inoltre con S0 il valore attuale della sottostante, con ST il valore della sottostante
all’istante T e con f il valore del contratto. Alla scadenza, il valore del contratto sarà pari a
𝑓 = 𝑆𝑇 − 𝑋 = −𝑓𝑠ℎ𝑜𝑟𝑡
Si tenga conto che nel continuo il coefficiente di capitalizzazione è pari a 𝑒 𝑟∙𝑇 .

Short position Long position

All’istante 0, invece, il valore del contratto è pari a 𝑓 = 𝑆0 − 𝑋 ∙ 𝑒 −𝑟∙𝑇 , ovvero il valore della
sottostante nell’istante attuale al netto del delivery price attualizzato nel continuo. Nel caso in cui
fossero previsti ulteriori costi/ricavi nell’intervallo di tempo considerato, allora sarà necessario
sottrarre il valore attuale dei ricavi e sommare il valore attuale dei costi (entrambi, vendendo, non
competeranno più a chi detiene la posizione corta). Si dimostra per assurdo il valore del contratto al
momento della sottoscrizione. Supponiamo di vendere oggi allo scoperto (senza averla) la sottostante
a 100 (S0) e di acquistarla a T a 90 per consegnarla a chi era stata venduta allo scoperto. Supponendo
un tasso risk free pari a 0,0037 e T pari a 6 mesi, il valore attuale del delivery price è pari a 88, dunque
il valore del contratto oggi dovrebbe essere 100-88=12. Supponendo per assurdo che, invece, f valga
meno, ad esempio 10, io all’istante 0 avrei creato una posizione di arbitraggio, realizzando in modo

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sicuro un profitto. Viceversa se f fosse maggiore significherebbe che avrei una convenienza ad
acquistare direttamente la sottostante all’istante attuale.
Un’altra tipologia di titoli derivati è rappresentata dalle opzioni, contratti a termine che conferiscono
la possibilità di acquistare (opzione call) o di vendere (opzione put) la sottostante a una certa scadenza
(opzione europea) o entro tale scadenza (opzione americana). A differenza dei contratti forward, la
posizione lunga è detenuta da chi ha la possibilità decisionale.

Long position

Short position

A differenza dei contratti forward in caso di long position manca la parte negativa, perché detenendo
l’opzione, se non conviene non la esercito. Dunque, potendo scegliere se esercitare l’opzione, chi
detiene la posizione lunga, non registrerà mai una perdita, ma al massimo un payoff nullo.
• Long position
Call: acquisto solo se 𝑆𝑇 > 𝑋 altrimenti non la esercito 𝑐 = max(0 ; 𝑆𝑇 − 𝑋)
Put: vendo solo se 𝑋 > 𝑆𝑇 altrimenti non la esercito 𝑝 = max(0 ; 𝑋 − 𝑆𝑇 )
• Short position
Call: devo venderla solo se all’acquirente conviene 𝑐 = min(𝑋 − 𝑆𝑇 ; 0)
Put: devo acquistarla solo se al venditore conviene 𝑝 = min(𝑆𝑇 − 𝑋; 0 )
I diagrammi di posizione non indicano il profitto, in quanto non tengono conto del costo di acquisto
o del ricavo di vendita dell’opzione, ma i risultati dell’opzione a scadenza. Il prezzo dell’opzione
varia rispetto al tempo e a delivery price. Ciò che incide maggiormente sul prezzo di un’opzione è la
variabilità e il valore della sottostante: maggiore è il valore della sottostante e maggiore sarà il valore
dell’opzione. La volatilità influirà invece positivamente sia sulle call che sulle put: il rischio che
sopporta chi detiene la posizione lunga è asimmetrico, cioè si avvantaggia delle situazioni positive.
Il tasso risk free, invece, influenza positivamente una call e negativamente una put. Si conclude
facilmente che un’opzione deve valere di più di un contratto forward, in quanto offre la possibilità di
scelta. Tenendo in considerazione il valore da cui derivano i costi di acquisto o i ricavi da vendita
cambia il punto di break-even ed è possibile realizzare i diagrammi di profitto. Distinguiamo inoltre
opzioni:
• Out of the money, se 𝑆𝑇 < 𝑋
• At the money, se 𝑆𝑇 = 𝑋
• In the money, se 𝑆𝑇 > 𝑋

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Una long stock è un’azione posseduta che può essere venduta quando si sceglie di farlo. A scadenza
l’azione sarà venduta a 𝑆𝑇, dunque il diagramma di posizione sarà la bisettrice del primo quadrante.
Chiaramente l’azione è stata prima acquistata, dunque se la si vende a meno di quanto è stata
acquistata si registrerà una perdita. Per salvaguardarsi da tale perdita è opportuno acquistare una put,
in modo che quando il valore scende sotto x, si è salvaguardati. Ciò consente di avere un payoff
costante pari a X, se 𝑆𝑇 ≤ 𝑋, e nullo quanto 𝑆𝑇 > 𝑋. La put dovrà essere acquistata, dunque l’acquisto
ridurrà l’eventuale guadagno.
I diagrammi di posizione godono della proprietà additiva, dato che i soldi si possono sommare.
Combinando varie opzioni è possibile, dunque, pervenire a posizioni equivalenti. Se due strategie
offrono gli stessi ritorni devono avere lo stesso valore, quindi i due portafogli devono avere lo stesso
valore. Acquistare una put equivale ad acquistare una call, investire il valore attuale del prezzo di
esercizio in un’attività priva di rischio e vendere l’azione allo scoperto.
Il valore di un’opzione è delimitato superiormente dal prezzo della sottostante (in quanto comprerei
direttamente la sottostante e non l’opzione) e inferiormente dal ritorno che si otterrebbe esercitandola
immediatamente, ovvero 𝑆𝑡 − 𝑋 ∙ 𝑒 −𝑟∙𝑡 , nonché il valore di un contratto forward. Supponiamo di
avere un portafoglio con una long call e il valore attuale del prezzo di esercizio. Se il valore di una
call è 𝑐 = max(0 ; 𝑆𝑇 − 𝑋), sommando il prezzo di esercizio allora 𝑐 = max(𝑋 ; 𝑆𝑇 ). Supponiamo
adesso di avere un portafoglio B che a scadenza vale 𝑆𝑇 . È possibile concludere che il portafoglio A
varrà sempre più del portafoglio B. Dunque 𝑆0 − 𝑋 ∙ 𝑒 −𝑟∙𝑇 < 𝑐 < 𝑆0 .
Per valutare un’opzione ci si serve di due modelli, modello binomiale o di Black e Scholes.
Il metodo binomiale ipotizza che la sottostante a scadenza possa assumere solo uno tra due valori
ipotizzati 𝑆𝑇1 = 𝑢 ∙ 𝑆0 o 𝑆𝑇2 = 𝑑 ∙ 𝑆0 con 𝑢 > 𝑑. Per determinare il valore dell’opzione con scadenza
T, prezzo di esercizio X e tasso risk free r, si fa uso del metodo della costruzione di posizioni
equivalenti. Per una call i possibili payoff a scadenza sono:
Π1 = max(0 ; 𝑢 ∙ 𝑆0 − 𝑋) o Π2 = max(0 ; 𝑑 ∙ 𝑆0 − 𝑋)
Individuiamo un portafoglio composto da una quota 𝛿 della sottostante e da un indebitamento al tasso
r con valore di rimborso pari a R. Il valore attuale di questo portafoglio sarà dunque 𝛿 ∙ 𝑆0 − 𝑉𝐴(𝑅),
mentre a scadenza sarà 𝛿 ∙ 𝑆𝑇 − 𝑅. Affinché il portafoglio sia equivalente alla call deve avere
Π1 = 𝛿 ∙ 𝑢 ∙ 𝑆0 − 𝑅 o Π2 = 𝛿 ∙ 𝑑 ∙ 𝑆0 − 𝑅

Mettendo a sistema si ottengono i valori di 𝛿 ed R. I valori di u e d si stimano invece come 𝑢 = 𝑒 𝜎∙√𝑇 ,


mentre d è l’inverso di u. Il metodo binomiale può essere reiterato costruendo un albero delle decisioni
e risolvendo con il metodo backinduction.
Il modello di Black e Scholes ipotizza che il valore della sottostante segua un moto geometrico
browniano e a che scadenza si distribuisca secondo una lognormale, assicurando che i suoi rendimenti
si distribuiscano secondo una normale: dunque il prezzo sarà rappresentato nel continuo. Black e
Scholes individuarono il valore di una call sfruttando l’ipotesi di assenza di arbitraggio. Nella stima
si tiene conto dei valori di probabilità dell’esercizio dell’opzione.
Le opzioni reali non sono molto usate, in quanto complesse da valutare: è complicato, ad esempio,
individuare la volatilità della sottostante. Furono usate per la prima volta in campo farmaceutico.
Un’azienda quando effettua un investimento ha almeno 4 opzioni:
• Effettuare investimenti addizionali, ricollegandosi al precedente.

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• Attendere e investire in seguito: aggredire il mercato per primi non è sempre conveniente, in
quanto i competitors potrebbero avvantaggiarsi degli errori, migliorando i prodotti.
• Abbandonare un progetto: se non si dovesse essere nelle condizioni di poter proseguire il
progetto, è possibile rivenderlo.
• Variare l’output dell’impresa o i suoi metodi di produzione: è necessario dunque adottare un
sistema di produzione flessibile, che costa di più, ma tiene conto dell’opzione.
Il valore dell’opzione reale è pari al valore del progetto con l’opzione al netto del valore del progetto
senza l’opzione, in entrambi casi al netto dell’investimento.

Finanza per le start up


Raccogliere capitali per gli imprenditori e in particolare per i neo imprenditori è una questione di
primaria importanza. La raccolta e le fonti dipendono dal ciclo di vita dell’azienda. In particolare
nelle fasi iniziali, la raccolta di fonti di finanziamento è complicata. Ciò perché il 50% delle start up
non arriva al quarto anno di vita e il 70% al decimo. Spesso inoltre l’imprenditore cerca un investitore
con value added. Guardando al ciclo di vita di un’azienda, i flussi di cassa risultano positivi nella fase
di crescita, dopo essere arrivati al brevetto e dunque al mercato. Le principali fonti di finanziamento
sono rappresentata da fondi personali, poi familiari e amici, business angel, venture capitalist e infine
la quotazione in borsa.
Esistono varie tipologie di debito:
• Debito privilegiato, come un mutuo con ipoteca, si ha il diritto di rivalersi prima su quell’asse
di altri.
• Credito postergato, ovvero si verifica quando creditori, senza rinunciare al loro credito,
permettono che lo stesso venga soddisfatto soltanto dopo l’integrale rimborso degli altri
creditori.
• Business Angels, che hanno però un costo elevato in quanto fanno pagare il proprio valore
aggiunto, ma sono più flessibili.
• Governo, i tempi sono molto lunghi e sono necessarie garanzie personali. Grazie al decreto
crescita 2.0 che garantisce il rimborso dell’80% del debito è stato fatto notevolmente ricorso
al debito.
• Person to person, ovvero l’anticamera del crowfunding, ma qui avviene come prestito.
• Factoring, ovvero la cessione dei propri crediti a società di factoring. Ciò può avvenire pro
solvendo (la società può rivalersi sull’azienda) o pro soluto.
• Purchase Order Financing, ovvero l’ordine viene pagato da terzi a cui bisognerà restituire il
denaro.
• Customer financing, che consiste nel farsi finanziare dai propri clienti.
• Supplier financing, che consiste nel farsi finanziare dai propri fornitori.
Indebitandosi la proprietà rimane all’imprenditore, il costo del capitale è inoltre inferiore rispetto
all’equity, i pagamenti sono stabiliti e noti, può includere valore aggiunto (business angels) e
comporta beneficio fiscale. Di contro sono richieste garanzie personali, può portare al fallimento, in
quanto i pagamenti devono essere fatti indipendentemente dall’andamento del business.
Da analisi empiriche emerge che le aziende che sono finanziate in maggior parte da equity hanno un
tasso di crescita maggiore. Anche in questo caso il ricorso alle diverse fonti di equity dipende dal
ciclo di vita.

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Tra tutte spicca il crowdfunding che indica il processo con cui più persone conferiscono somme di
denaro per finanziare un progetto imprenditoriale, ricevendo talvolta in cambio qualcosa. Si parla di
equity-based crowdfunding quando tramite l’investimento si acquista un vero e proprio titolo di
partecipazione alla società.
I venture capitalist, invece, spesso investono in gruppo in attività notevolmente rischiose e vengono
remunerati con un alto tasso di rendimento. Dopo un determinato intervallo di tempo, anche 5-6 anni,
rivendono le azioni alla vecchia proprietà o a nuovi investitori o attraverso quotazione in borsa.
Tra i vantaggi dell’equity non è richiesta alcuna garanzia personale, non vi è una remunerazione fissa,
può coinvolgere nuovi investitori a valore aggiunto, non conduce al fallimento. Di contro il reddito
da azioni non è deducibile, è molto costoso e potrebbe portare a un cambiamento di proprietà.
Nel 2012 il governo Italiano ha varato il Decreto crescita 2.0, attraverso il quale è stato creato un
nuovo registro di imprese a cui vengono iscritte le start up cosiddette innovative. Per accedere a
questa denominazione è necessario soddisfare alcuni requisiti tra cui non deve essere fondata da più
di 2 anni, non deve distribuire dividendi, non deve essere uno scorporo di un’altra azienda, deve
investire il 15% in ricerca e sviluppo oppure 1/3 dei dipendenti devono essere studenti che hanno
conseguito un dottorato o ricercatori o ancora 2/3 del personale deve avere una laurea, o ancora essere
titolare di un brevetto o di un software sviluppato dalla start up stessa. Tra i benefici concessi rientra
la deducibilità e detraibilità fiscale degli investimenti fino a una percentuale pari al 30% per le persone
fisiche e al 25% per le società.
Le start up innovative possono garantire dei salari flessibili ai loro dipendenti, cioè remunerarli con
l’utile attraverso dividendi o attraverso contratti di lavoro a termine particolari. È inoltre garantito
l’accesso al fondo centrale di garanzia e partecipare a campagne di equity crowdfunding, nonché alle
attività dell’ICE, un’agenzia del MiSE che fornisce servizi necessari all’imprenditoria nascente come
consulenza legale e contabile con sconti del 30%. Inoltre non sono soggette alle procedure concorsuali
fallimentari. Il Decreto crescita bis ha dunque non solo favorito gli investimenti, ma creato difatti un
bacino particolare da cui pescare le idee migliori.

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