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OPERA

DE RERUM NATURA

Il De Rerum Natura è un poema didascalico in 6 LIBRI, che espone le dottrine epicuree, a


partire dalla fisica “atomistica”. Lucrezio si vanta di essere il primo vero divulgatore di tale
dottrina.
Lo stesso Cicerone, che aveva duramente criticato gli sciatti divulgatori in prosa (pur
riconoscendone l’ampia eco tra il volgo), non si esprime sull’opera di Lucrezio e non se ne
capisce il motivo. Nella lettera a Quinto ne fa cenno con un misurato e pur sincero
apprezzamento. Forse sentiva il poema estraneo al suo stile e non aveva la necessità di
commentarlo, ma ciò contrasta con la sua sincerità intellettuale e con l’ipotesi che fu lui
stesso a curarne l’edizione postuma.

DESTINATARIO E PUBBLICO:
Il pubblico di Lucrezio è, come quello di Cicerone, colto ma non elitario. Il
destinatario, Gaio Memmio, incarna l’ideale (mai astratto) di lettore-discepolo a cui spesso
Lucrezio si rivolge come a una persona colta ma bisognosa dei suoi insegnamenti.

LA FORMA POETICA:
Lucrezio sceglie la poesia come veicolo per la dottrina epicurea per rendere l’opera più
attraente al pubblico colto, nonostante l’avversione di EPICURO stesso per questo genere,
visto come un traviamento di una resa chiara e disadorna.
Lo stile poetico non è però semplicemente subordinato al contenuto: il messaggio
filosofico è inscindibile dalla sua veste letteraria. Lo stile è ora più solenne, ora più “duro”,
per esprimere il messaggio scientifico. La poesia epica è scelta dall’autore anche per la sua
potenza espressiva atta a narrare la grandezza e la solennità dell’ispirazione lucreziana.

Il genere didascalico non aveva avuto una vera tradizione romana, come c’era stata in
Grecia. Nella lotta di Epicuro per affermare la sua dottrina, Lucrezio trova un argomento
abbastanza “avvincente” per istruire i lettori attraverso un linguaggio epico che riprenda
quello narrativo. Egli vuole toglierlo dal suo ambito di distacco con il grande pubblico. Nel
rispecchiare la natura, Lucrezio usa stili diversi ma ben amalgamati tra loro.

FINALI E PROEMI:
Lucrezio si avvale del principio alessandrino per cui ogni libro è un’entità in sé compatta e
perfettamente inquadrata nell’architettura complessiva. Ogni libro si apre con un proemio
e ha un finale che si riallaccia al libro che seguirà.

Il libro I pone l’ “INNO A VENERE” prima del proemio.


I proemi dei libri I, III, V, VI sono dedicati alla celebrazione di Epicuro.

 PROEMIO II LIBRO: 
Qui troviamo un nobile esempio della varietà di stili di Lucrezio. Si parte con lo
spettatore che guarda le navi travolte dalla tempesta ed è felice di non parteciparvi.
L’immagine si fonde con il saggio che, dall’alto della sua dottrina, guarda con
compiaciuto distacco la lotta degli uomini per i beni effimeri (la ricchezza, la
politica). Poi c’è un abbassamento di tono, con l’invettiva contro gli errori degli
uomini, stemperato dalla visione quasi “idillica” della vita secondo natura, dei piaceri
moderati, dell’amicizia.
 PROEMIO AL V LIBRO:
Viene ripetuto quasi parola per parola un pezzo del libro I che contiene le
dichiarazioni di poetica di Lucrezio. E’ un segno evidente del carattere incompiuto
del poema.

Finali in “crescendo”: i finali non appaiono come nettamente distinti dalla narrazione,
come i proemi, ma culminano con un “crescendo” che si sviluppa mano a mano che il libro
procede.

 FINALI LIBRI I-IV:


Nel finale dei libri I e II si invita l’uomo a elevarsi a contemplare l’universo formato
da molteplici mondi governati dalla natura, e non da un Dio.
Nei libri III e IV ci sono invece problemi etici (timore della morte/passione
dell’amore).
 FINALE V LIBRO:
E’ dedicato alla storia del genere umano e alle origini della civiltà ed è collegato al
proemio del libro VI, che celebra Atene come culmine della civiltà, ed Epicuro come
sua massima gloria.
 FINALE VI LIBRO:
E’ l’orribile immagine della peste di Atene, in netto contrasto con la celebrazione
della città nel proemio dello stesso libro. Viene così sottolineata la degenerazione
culturale e l’inutilità del progresso: per vivere sereni bisogna accettare con
sottomissione le leggi della natura.
Questo tragico finale si contrappone all’Inno a Venere iniziale, dove la divinità
incarnava la VOLUPTAS.
Alcuni però ritengono che l’opera non fosse compiuta, infatti non è concluso il
progetto di parlare della sede degli dei, espresso nel libro V.
I finali spesso esprimono l’amarezza per la vita condotta senza la “VERA RATIO” della
dottrina epicurea, che è invece celebrata con entusiasmo nei proemi.
Il finale è inoltre un “trionfo della morte”, contrapposto al rinvigorire della natura di
Venere, ed esprime la volontà di Lucrezio di descrivere la natura in tutti i suoi aspetti e di
non giustificarla, narrando senza possibilità di conciliazione anche i suoi orrori.
Ciò sembra scontrarsi con l’intento rasserenatore che Lucrezio si era prefisso di perseguire.
Forse la visione negativa di Atene rappresenta gli uomini persi prima della luce di Epicuro,
ma ciò sembra essere riduttivo e poco logico.
PENSIERO

LA POESIA VISIVA DI LUCREZIO:


Per spiegare casi e complessi concetti astratti, Lucrezio ricorre spesso all’analogia e riempie
il poema di varie immagini tratte dalla vita quotidiana (la sensazione della nebbia, di una
piuma o di una zanzare sulla pelle, il cielo riflesso in una pozzanghera, lo scintillio degli
eserciti e i vari panorami).
Il suo abbandono a certe suggestioni appare a volte prevalente sulla stessa organizzazione
logica dell’opera ed è stato spesso spiegato con la follia del poeta.
In realtà Lucrezio fa uso di questo espediente retorico, quasi come un oratore, per
coinvolgere il lettore non solo sul piano razionale, ma anche su quello emotivo.

CRITICA ALLA RELIGIO E AI VALORI TRADIZIONALI:


La dottrina materialistica esposta da Lucrezio poteva apparire “empia” ai tradizionalisti
romani. Per questo il poeta ne dà una giustificazione nel proemio del I libro, dove, citando
il sacrificio di Ifigenia, Lucrezio accusa la “religio di essere portatrice di inutili affanni per
l’uomo, addirittura capace di spingerlo ad azioni disumane. Eliminando la credenza di una
vita oltre la morte, non si dovranno più temere pene eterne.
La critica corrosiva di Lucrezio attacca anche quei riti “civili” di religione di cui ci si serviva
soprattutto per marcare le differenze tra i cittadini e che, invece, in quello stesso tempo
erano difese sia da Varrone che da Cicerone, che vi vedevano un indispensabile strumento
di coesione sociale.

IL TIMORE DELLA MORTE:


Lucrezio sa che la paura della morte è radicata nell’uomo ancor prima che nasca il timore a
causa delle minacce della religione: la morte è ignoto che spaventa e tormenta. A causa di
questo tormento l’uomo è spinto a cercare di conquistarsi spazi prestigiosi e glorie
effimere che lo mettono in vane lotte con i suoi simili.
In questa critica non possiamo non ritrovare riferimenti alla corruzione dei ceti aristocratici
del tempo, anche se Lucrezio si rivolge all’uomo in generale.
Ne descrive il TAEDIUM VITAE, che spinge sempre a cercare nuovi averi ed esperienze, da
abbandonare subito dopo averle ottenute, perché non ne siamo mai appagati.
La morte è descritta da Lucrezio con il vero e proprio disfacimento del corpo, immagine
che Epicuro aveva affrontato in modo meno “carnale” e più scientifico e materiale. Lucrezio
insiste su come la morte ci faccia dissolvere per sempre e non vi sia nient’altro oltre.
L’uomo quindi non deve darsi pensiero di cosa sarà poi, come deve ignorare ciò che c’era
prima. Si nega ogni tipo di continuità storica e si sminuiscono con fermezza quelle figure
che i romani, per tradizione, consideravano “grandi”. La morte di Scipione ad esempio
viene paragonata a quella di qualsiasi schiavo sconosciuto.

LA STORIA DEL GENERE UMANO:


Nel V libro Lucrezio paragona le guerre degli uomini del suo tempo a una tremenda lotta a
cui partecipano tutti gli animali (orsi, cinghiali) e che rappresenta la bestialità terribile a cui
si è ridotto l’uomo. Lotta improbabile che si immagina realmente avvenuta.
L’origine dell’uomo viene spiegata in termini materialistici come discendenza dagli animali
e da un originario stato di semi-ferinità che, seppur ricco dei suoi difetti, Lucrezio guarda
con nostalgia.
Il progresso, infatti, da una parte migliora le condizioni di vita dell’uomo, dall’altra fa
nascere in lui il timore religioso e i bisogni non naturali.
I motori del cambiamento non sono di natura divina, ma lo sono bensì il CASO e i BISOGNI
NATURALI.

IL PARADOSSO DELLA DIMENSIONE EROTICA:


Lucrezio presenta la sessualità come bisogno naturale che andrebbe appagato
liberamente, come poteva accadere appunto nello “stato di natura”. Il tema è affrontato
nel IV libro. Lucrezio critica la limitazione della LIBIDO verso un unico oggetto del desiderio
e critica aspramente, parodiandoli, i temi d’amore tradizionali e i neoterici, le cui donne
erano venerate e predilette. Il ridurre il sentimento erotico alla sola passione sembra però
impossibile e molto problematico.
Da un lato quindi Lucrezio si accosta alla visione più tradizionale dei romani, schierandosi
contro i neoteroi, dall’altro ribalta anche la sua concezione epicurea: alla fine del IV libro si
auspica un rapporto duraturo, “razionale”, capace di prescindere dall’elemento puramente
passionale.

“PESSIMISMO” E “ANGOSCIA”:
In Lucrezio abbondano immagini tragiche, disastri naturali, distruzione e morte. Vi sono
anche immagini di vivo entusiasmo, tuttavia sembra dominare un senso di sfiducia verso
gli stessi rimedi che vengono proposti. La natura è MATRIGNA che non ascolta i lamenti
dell’uomo, un essere impotente i cui lamenti sono paragonati a vagiti. Egli deve accettare
le leggi della natura e cercare, quanto più può, di sottostare e accettarle per vivere in pace.
Il finale del VI libro presenta la follia di uomini ridotti a figure allucinate di paura e di
morte, che lottano come bestie per dar sepoltura ai corpi dei loro cari uccisi dalla peste e
quindi ormai del tutto insensibili.

STILE E LINGUA

Lucrezio ha uno stile solenne, rigoroso e severo, mai veramente ampolloso, per cui attinge
all’epos di Ennio e al ricco patrimonio di figure di suono della poesia arcaica.
Non sono estranei spunti alessandrini, ad esempio la ricerca di una poesia perfettamente
adatta al tema filosofico da tradurre.
Il tema stesso ci riporta i primi poeti-filosofi greci, come Parmenide e
soprattutto Empedocle. Lucrezio si trova a fare i conti con la povertà del linguaggio latino
e, come farà poi Cicerone riscuotendo una grande eco tra i posteri, conia nuovi termini e
prende numerose parole direttamente dal greco, e privilegia in questa operazione ricerche
di onomatopee e spiegazioni etnografiche che potremmo avvicinare a quella della scuola
di Pergamo: la corrispondenza tra realtà e linguaggio.
Nello stoicismo lo scopo della filosofia è quello di raggiungere una
sapienza che permetta di vivere una vita moralmente retta, guidata
dalla ragione. La filosofia stoica si divide in tre parti: la logica, la fisica e
l’etica. 

Epicureismo:  lo scopo della filosofia epicurea è il raggiungimento


della felicità che risiede nell’assenza di dolore (aponìa) e nell’assenza di
turbamento (atarassìa). 

«[In Orazio] , due tendenze si possono nettamente rilevare: l’epicurea, che culmina nel
“carpe diem” e nel “lathe biosas”, e la stoica col suo culto della virtù e del dovere
sociale.Infatti Epicuro consiglia di tenersi lontano dalla politica e vivere
appartato: "vivi nascosto" è il suo motto. Ma anche in tale isolamento va
sempre perseguito l'ideale dell'amicizia e dello scambio con gli altri, che
allarga gli orizzonti e appaga i sentimenti.
VIRGILIO-Le Bucoliche  furono, il frutto caratteristico e geniale
dell'influenza esercitata sul suo spirito dall'epicureismo: quasi la
sublimazione e la trasfigurazione in linguaggio poetico, in forma
fantastica, dei genuini precetti di vita insegnati dalla scuola ("vivi
privatamente", "vivi in segreto"), per cui egli era tratto a evadere fuori
dal cerchio della realtà dolorosa, fuori dalla vita sociale, in un mondo
isolato, individualistico ed egoistico, esente da bisogni e da ambizioni,
come appunto è quello dei pastori da lui immaginati, cioè il mondo
fittizio dell'"Arcadia". 

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