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Hume

David Hume nacque nel 1711 a Edimburgo, da genitori appartenenti alla piccola nobiltà.
Inizialmente, spinto dalla famiglia studia giurisprudenza, diventa avvocato ma abbandona questo
lavoro dopo poco tempo, per dedicarsi alla sua vera passione, la filosofia. Pubblica l’ampio testo
“Trattato sulla natura umana”, il quale non raggiunge il successo sperato dall’autore perché era
lungo e prolisso. Successivamente pubblica altri saggi, soprattutto morali e politici. Hume
desiderava diventare un professore di filosofia, ma non ci riuscì probabilmente perché gli davano
dell’ateo. Contro le accuse di ateismo e di eresia Hume risponde col testo “Lettera da un gentiluomo
ai suoi amici in Edimburgo”, nel quale sostiene che non è ateo, e che le sue idee sono conciliabili
con il cristianesimo. Infine scrive un altro testo per semplificare il primo trattato.
Hume è un filosofo che si muove sulla scia di Locke, infatti il suo tentativo sarà quello di portare
alle estreme conseguenze l’empirismo dell’inglese. Hume ritiene che occorra impegnarsi in
un’indagine rigorosa e scientifica sulla natura dell’uomo, e il suo punto di partenza è che tutte le
scienze sono il risultato di atti conoscitivi della mente umana. Per cui, la prima cosa da fare è
studiare l’intelletto umano, e come la mente elabora il pensiero. → questo è il compito della
filosofia per Hume. Egli ritiene che il pensiero si elabora a partire da alcuni materiali di base, dette
percezioni. Nelle percezioni Hume distingue due grandi categorie: le impressioni e le idee. La
differenza fondamentale è che le prime derivano da sensazioni e sentimenti nel momento stesso in
cui vengono provati, e sono dunque più intense e vivide; le seconde invece derivano dal ricordo
delle impressioni o dalla riflessione su di esse, e quindi ne risultano “immagini illanguidite”. Sia le
idee che le impressioni possono essere sia semplici che complesse, ad esempio: l’impressione o
l’idea del verde sono semplici, visto che non sono scomponibili in altre percezioni; invece quelle di
una mela sono complesse, perché sono formate da quelle del colore, forma, ecc..
L’unica verità di cui possiamo essere certi è che la mente umana ha per oggetto esclusivamente le
percezioni. Quindi, se per Cartesio la prima certezza era il pensiero, per Hume sono le percezioni.
Però, per il filosofo, l’esistenza degli enti da cui derivano le percezioni non è ovvia. In altri termini,
dire che ho una serie di impressioni di una mela quando la osservo, la gusto, e che ne mantengo
nella memoria solo le corrispondenti idee quando il frutto non è più presente, non è del tutto
corretto. Infatti bisognerebbe solo dire che c’è stato un momento in cui ho avuto singole impressioni
semplici da me unificate nell’impressione complessa di mela, e che successivamente mi è rimasta
una copia attenuata di tale impressione, cioè l’idea corrispettiva. In sostanza, io ho la certezza che la
mia mente compie un’operazione (percezioni), ma non sono certo che ciò che percepisco esista
davvero. Inoltre Hume è convinto che le idee e le impressioni singole si connettano tra loro a
formare idee e impressioni complesse in base a un principio di associazione. Esso è una sorta di
forza impersonale grazie alla quale le percezioni si attraggono nella mente. Infatti per Hume è
impossibile che le idee semplici si raccolgano in complesse senza un legame che le unisca tra loro.
Inoltre il principio di associazione può agire in tre modi: la somiglianza, la contiguità e la causalità.
Si ha una connessione per somiglianza quando un’impressione o un’idea richiama un’altra idea
simile; la contiguità opera quando la percezione di un oggetto richiama qualcos’altro che ho già
percepito precedentemente vicino a quell’oggetto; infine la causalità si ha quando l’impressione di
un oggetto mi fa venire in mente l’idea di un altro oggetto considerato causa o effetto del primo.
Il problema dalla causalità
Noi parliamo di causalità o di nesso causale quando vi è un fenomeno A che precede e viene
considerato causa di un altro fenomeno B → pensare che A sia necessariamente connesso con B.
Questa è la convinzione che si porta con sé questo nesso, e il problema ora è capire come nasce
nella mente tale connessione necessaria. Hume esamina innanzitutto due possibilità: potrebbe essere
una relazione tra idee, o una materia di fatto. Quando parliamo della prima ci riferiamo a una
connessione necessaria, che è sempre vera, quindi a una verità che deriva dalla semplice analisi
logica di un concetto, nel quale è già implicita. → triangolo/teorema di Pitagora.
Diverso è il caso di quando parliamo delle materie di fatto, ovvero qualcosa che posso verificare
solo con l’esperienza e non ha alcun carattere di necessità, infatti la sua negazione non genera una
contraddizione ed è sempre logicamente possibile. → x è biondo.
Secondo Hume, la causalità non è una relazione tra idee: un uomo non potrebbe mai sapere che il
fuoco scotta solo analizzando l’idea del fuoco, quindi senza prima fare esperienza. Allora è una
materia di fatto? Neanche, perché l’esperienza ci informa soltanto sul passato e sul presente, ma mai
sul futuro. Allora cos’è la causalità? Hume introduce il concetto di abitudine, e lo fa per spiegare il
legame che noi siamo portati a riconoscere tra alcuni fenomeni che chiamiamo causa ed effetto.
L’abitudine quindi è la ripetuta esperienza della connessione tra due fenomeni che siamo abituati a
vedere l’uno dopo l’altro → fuoco/fumo, ovvero due impressioni le quali essendo vivide
comportano la convinzione dell’esistenza dell’oggetto corrispondente (credenza).
In realtà per Hume ciò è solo un nostro processo psicologico, proprio della mente umana, e che ci fa
credere che tra due percezioni esista un legame, il quale chiamiamo di causalità.
Alcune precisazioni: 1) Bastano anche poche esperienze per far sì che ciò accada, perché in realtà
questa connessione si basa sul principio di uniformità della natura, cioè la convinzione che il corso
della natura sia costante e coerente, quindi che tutti i fenomeni debbano essere preceduti o seguiti
da altri fenomeni. Questa però non è una legge scientifica, è solo una legge di comportamento della
mente umana. 2) Hume non vuole spiegare il principio di causalità, infatti il suo obiettivo non è
sostenere l’infondatezza di esso, ma è studiare la mente umana, cercare di capire come funziona e
capire come si genera questo principio nella nostra mente (di fatti il suo testo più importante si
chiama “Trattato sulla natura umana”). 3) Nella sua visione, Hume assume un duplice
atteggiamento, è infatti sostenitore di uno scetticismo teoretico e di un dogmatismo pratico. Questo
vuol dire che se da un lato ritiene che il principio di causa non possa essere fondato, né
razionalmente né empiricamente, dall’altro Hume, come uomo, assume la validità di tale principio
nella vita quotidiana, dove accetta dunque un principio che è come un dogma.
Il problema della sostanza
La sostanza, in generale, è qualcosa che crediamo esista indipendentemente dalle nostre percezioni,
e l’idea di essa si ha quando si percepisce qualcosa in modo continuativo. Esempio → In questo
momento ho l’impressione complessa di un libro: si tratta di una percezione vivida, che come tale si
accompagna alla credenza nella sua esistenza; in questo istante quindi ho la convinzione che il libro
esiste davanti a me. Ora mi sposto in un’altra stanza e non vedo più il libro, di cui resta nella mia
mente solo un’idea. Quando torno ho nuovamente un’impressione di quell’oggetto, e ancora una
volta essa genera in me la certezza della sua esistenza. Perché mi convinca che il libro è una
sostanza, è necessario che possa considerarlo esistente in maniera continuativo, sia quando lo
osservo sia quando non. L’idea che qualcosa esiste in modo continuativo si forma perché le
impressioni, tendono a contagiare le idee, e questo mi convince che per tutta la sequenza l’oggetto
ci sia stato. Questo impressione è talmente vivida e chiara che io formulo l’idea della sostanza,
anche se in realtà non è vero, perché potrebbe essere successo di tutto quando non c’ero. Secondo
Hume l’io esiste solo in quanto ha delle percezioni, se le eliminiamo da noi stessi, di noi non resta
nulla.
Morale, politica e religione
Fin dall’antichità il rapporto tra la riflessione con le passioni e la ragione ha seguito due filoni: uno
sosteneva che le passioni fossero qualcosa di negativo, che andassero eliminate e che quindi fosse
necessario affidarsi solo alla ragione, → visione stoica (gli stoici non vengono toccati da nulla);
l’altro sosteneva che le passioni appartengono alla natura umana, quindi sono ineliminabili, e
l’unica cosa che possiamo fare è cercare di governarle. Hume ha proprio un’altra visione, lui dice
che ciò che può fare la ragione non è tanto governare le passioni, ma può indicarci la strada e gli
strumenti per soddisfarle. Quindi la ragione non può definire i nostri scopi, sono le passioni che
decidono cos’è il bene per noi, e qual è l’obiettivo che vogliamo raggiungere, l’unica cosa che essa
fa è darci i mezzi per realizzare i nostri fini. La ragione era schiava delle passioni. Dicendo questo
Hume, che già non veniva visto benissimo nell’ambiente del 700, non fa altro che peggiorare la
situazione, perché vuol dire che il posto principe in noi non è occupato dalla ragione → infatti per
Hume poggia tutto su basi fragilissime. A questo punto se il filosofo crede che il bene è individuato
singolarmente da ognuno di noi, allora il rischio è che si stia creando una morale egoistica, dove
non vi è un bene comune, ma in realtà non è così. Infatti Hume vuole dire che ognuno di noi per
analogia è in grado di individuare gli stati d’animo dell’altro → es. siccome ho pianto, riconosco la
sofferenza dell’altro. Il problema è che se andiamo a collegare questo alla dottrina delle impressioni
e delle idee, capiamo che in realtà, un pianto o una persona, io li comprendo tanto più quanto sono
vicini a me → se qualcuno in TV piange a me non interessa tanto (infatti è un’idea), se piange una
persona a me vicina la situazione cambia (è un’impressione). Questo rapporto di vicinanza fisica o
emotiva si chiama meccanismo della simpatia, il quale è la capacità dell’essere umano di provare le
stesse passioni e quindi di comprendere le persone. Questo spiega perché la morale di Hume non
sfocia completamente nell’egoismo, infatti certi meccanismi di altruismo che io metto in atto, sono
legati proprio alla simpatia: nell’aiutare il prossimo che soffre sto cercando di alleviare un dolore
che è anche un po’ mio. Quindi la simpatia salva la morale di Hume dall’egoismo, anche se non è
proprio così in quanto quando aiuto una persona sto cercando di risollevare anche me. In sostanza
egli cerca di non farla sembrare egoistica ma rimane un po’ fregato. Questo naturale egoismo è ciò
su cui si fonda il senso morale, perché sia se lo fai per te, sia se lo fai per il prossimo, fatto sta che ti
prodighi per aiutare qualcuno.
La posizione politica di Hume è lontana dal contrattualismo di Hobbes e Locke, perché il patto con
il quale si fonda la società è frutto in ogni caso di un calcolo razionale. Quindi egli non crede che la
società nasca da un contratto, perché secondo lui la società è essa stessa lo stato di natura, visto che
è implicita nei bisogni dell’uomo. Quindi per Hume la società è la consapevolezza che noi abbiamo
bisogno degli altri per soddisfare i nostri istinti di qualsiasi tipo, e funge da limite che impedisce i
contrasti distruttivi. Questo perché la società e i rapporti sociali si fondano su una specie di
equilibrio naturale che si viene a creare tra i bisogni individuali e i bisogni degli altri. Esso si viene
a creare poiché la mia necessità individuale di soddisfare un certo bisogno mi richiede
egoisticamente di non uccidere gli altri, visto che mi servono. Per cui io rispetto tanto la mia
inclinazione di dover soddisfare le mie esigenze, tanto rispetto le esigenze di una società che deve
convivere e che non può permettere che ci sia la guerra di tutti contro tutti.
Già sappiamo che Hume era stato accusato di ateismo, visto che già la differenza tra impressioni e
idee fa di lui un ateo, anche se lo negò sempre. Di fatti però nega l’esistenza di Dio. A un certo
punto Hume scrive un testo, chiamato “Storia naturale della religione”, dove fornisce una
spiegazione del fenomeno religioso, dicendo che non è altro che un meccanismo di tipo psicologico.
Questo vuol dire che gli uomini fin dalla loro nascita hanno avvertito questa esigenza di protezione,
questa paura, e quindi hanno dato vita a questo fenomeno. Ora dunque, se Hume ci ha detto che
l’unica cosa che possiamo considerare reale è l’impressione, e che la religione è un fenomeno
psicologico, allora perché continua a dire che non è ateo? Perché Hume intende riportare la
religione al suo nucleo originale, ovvero la fede. La fede è quando mi affido a qualcosa che non
vedo e non sento. Per Hume quindi la religione è fede, l’errore secondo lui sta nel cercare di
dimostrare razionalmente l’esistenza di Dio, perché Dio non è dimostrabile, è fede.

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