Operette Morali

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OPERETTE MORALI

In quest’opera composta nel 1824, Leopardi fa confluire la maggior parte delle sue riflessioni filosofiche e
delle conclusioni tratte da esse. Perciò se da un lato sono un riepilogo, dall’altro rappresentano il distacco e
disimpegno civile dell’autore, questo è visibile soprattutto grazie all’ironia.
Il fine del libro:
È duplice: la messa in evidenza di caratteri reali, senza illusioni; dall’altro, quello di trovare una morale
(mores) a ogni suo testo.
C’è un grosso ricorso al registro comico, utilizzato per esprimere contenuti principalmente tragici.
I temi principali:
-La teoria del piacere alla quale si legano il tema della natura e della civiltà.
-La concezione materialistica.
-Un tema insistente è quello della virtù che viene considerata un concetto senza alcuna sostanza e perciò
viene discreditata.
-Critica di fondo ad alcune costanti della civiltà umana: l’illusione antropocentrica (derisa a causa della
marginalità rappresentata dall’uomo nell’universo), il mito del progresso (screditato dal confronto con gli
antichi), la prospettiva religiosa (respinta in quanto illusione riparatoria all’infelicità umana).
Struttura:
24 prose ordinate in una struttura unitaria ma ricca di variazioni.
Modello:
Il modello di riferimento utilizzato da Leopardi sono i dialoghi greci di Luciano.

DIALOGO DELLA NATURA E DI UN ISLANDESE


Attraverso questo dialogo Leopardi comunica le proprie idee sulla natura (vista come matrigna, cioè
intrinsecamente malvagia).
L’Islandese (che rappresenta Leopardi) incontra la personificazione della natura e le domanda i quesiti che si
è posto Leopardi per giungere alle conclusioni che ci vengono presentate attraverso le risposte che la Natura
dà.
Prima di tutto l’Islandese spiega cosa, facente parte della sua esperienza di vita, lo ha portato a porsi
determinate domande e a sviluppare riflessioni, in particolare, sul genere umano:
1. Nel tentativo di vivere una vita serena egli racconta di aver provato ad accontentarsi di poco e a
non offendere nessuno tuttavia, gli altri uomini hanno continuato a dargli fastidio.
2. Questo lo porta a isolarsi nella natura incontaminata ma questo lo fa stare peggio poiché un clima
adatto all’uomo non esiste.
3. Si rende conto che l’uomo vive in una condizione di infelicità che pare essergli propria e che i
momenti in cui sta male si alternano a momenti in cui sta peggio. Se la Natura fosse corretta
darebbe anche felicità.
4. Capisce che le cose che ci fanno sopravvivere ci danneggiano e che gli anni di giovinezza sono
pochi rispetto a quelli di decadenza.
La Natura gli risponde che l’infelicità umana non è intenzionale, è il meccanismo alla base della natura a
essere semplicemente così. Nel momento in cui l’Islandese chiede perché l’uomo esiste se tanto è destinato a
soffrire la Natura risponde che è tutto frutto di un rapporto causa-effetto (meccanicismo): l’universo fisico
necessita la sofferenza di tutti gli elementi poiché senza distruzione non può esistere produzione.

CANTO NOTTURNO DI UN PASTORE ERRANTE DELL’ASIA


È l’ultimo dei canti pisano-recanatesi. Un pastore nomade dell’Asia riflette sul senso della vita, la
particolarità di questo componimento è proprio che non contiene elementi autobiografici per l’autore o per
il lettore. L’ispirazione viene da un articolo letto da Leopardi che parlava di una popolazione nomade di
origine mongola, i kirghisi, che solevano trascorrere la notte a dedicare alla luna parole tristi su melodie.
Questo componimento fa parte dei Canti ed è una canzone libera di varia lunghezza.

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