ISLANDESE
Il “Dialogo della Natura e di un Islandese” è un opera di Giacomo Leopardi del 1824 e si trova
al dodicesimo posto delle raccolte delle Operette Morali, dove è per lo stesso poeta un momento
di svolta, quello raccontato, infatti la Natura non viene più considerata positiva, ma Matrigna. Egli
inoltre, vuole prende come spunto, un'opera del filosofo illuminista francese, Voltaire in cui il
filosofo parla delle minacce naturali, quali gelo e vulcani, a cui sono sottoposti gli islandesi,
Leopardi sviluppa l'idea di un Islandese che viaggia, fuggendo la Natura. Tuttavia arrivato in
Africa, in un luogo misterioso ed esotico, incontra proprio la Natura che stava evitando, con la
forma di una donna gigantesca dall'aspetto "tra bello e terribile".
Riassunto:
Leopardi in questa sua opera sviluppa l’idea di un Islandese che viaggia, fuggendo dalla Natura.
Ma giunto in Africa, in un luogo misterioso, incontra proprio colei che stava evitando, con la forma
di una donna gigantesca dall’aspetto “tra bello e terribile”.
La Natura interroga l’Islandese sulle ragioni della sua fuga. La spiegazione dell’uomo è un lungo
monologo in cui egli ripercorre le sue concezioni sulla condizione umana: un’articolata riflessione
che lo porta a comprendere l’infelicità dell’esistenza.
Inizialmente ritiene che la sofferenza nasca dai rapporti umani, spesso violenti. Ma il dolore può
nascere anche dall’esterno, quindi inizia a credere che l’individuo soffra perché valica i limiti
assegnati dalla Natura. Infine comprende che la sofferenza è insita nell’uomo, caratterizzato da un
piacere mai realizzabile del tutto, e non può essere eliminata.
La vera causa dell’infelicità è la Natura, che crea e poi tormenta gli esseri viventi. Questa ha
assegnato all’uomo il desiderio insaziabile di piacere che non solo è irraggiungibile nel corso di
una vita intera, ma a volte è anche dannoso.
Dopo il monologo dell’Islandese interviene la Natura, che ribalta la posizione dell’uomo: questa è
totalmente insensibile al destino degli esseri da lei creati, ma
agisce meccanicisticamente secondo un processo di creazione e distruzione, che coinvolge
direttamente tutte le creature.
Con la conclusione di questo dialogo viene superata la concezione dell’uomo come elemento
centrale dell’universo, ma rimane senza risposta la domanda dell’Islandese: “a chi piace o a
chi giova cotesta vita infelicissima dell’universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose
che lo compongono?”.
Analisi del testo:
Il "Dialogo della Natura e di un Islandese" è particolarmente significativo perché Leopardi,
affrontando il problema del rapporto fra l'uomo e la natura, manifesta chiaramente la sua
disincantata e tragica visione del mondo che è stata definita "pessimismo cosmico".
L’obiettivo di Leopardi era affrontare temi tragici e sofferti alleggerendo però il contenuto con
un'apparenza comica, rendendo quasi buffa anche la figura stessa dell'islandese. L'infelicità
umana che fino a quel momento per Leopardi dipendeva da ragioni storiche pessimismo
storico), per cui sarebbero stati la ragione e il progresso ad allontanare l'uomo dalla condizione
originaria di felicità concezione che deriva da Rousseau), cioè da uno stato di natura in cui la
natura è considerata ancora provvidenziale e benigna, ora lo stato di infelicità viene attribuito da
Leopardi esclusivamente alle condizioni esistenziali dell'uomo. Si parla perciò in questa fase di
pessimismo cosmico. Leopardi giunge alla conclusione che la natura, nella sua organizzazione
universale, è orientata solamente dell'esistenza meccanicismo), senza finalità, senza che la felicità
degli individui venga tenuta in alcuna considerazione.
Il dialogo inizia con il raccontare l'incontro tra l'islandese e la natura. L'incontro tra l'Islandese e la
Natura avviene in un deserto equatoriale, in un luogo che sembra collocato al di fuori delle carte
geografiche, "in un luogo non mai prima penetrato da uomo alcuno". Qui l'uomo vide da lontano il
busto gigante di una donna appoggiata alla montagna, con gli occhi ei capelli nerissimi e il volto
bellissimo ma allo stesso tempo terribile. A lei che gli domanda chi sia e che cosa cerchi in quei
luoghi ancora inesplorati l'uomo risponde di essere un povero Islandese che sta fuggendo la
natura. Quando la donna gli dice di essere la natura che egli fugge, l'Islandese pronuncia una
lunga requisitoria contro di essa, parlando della sua vita di patimenti e accusandola di essere la
causa della sofferenza e dell'infelicità degli uomini. In particolare racconta di essersi messo in
viaggio con la speranza di trovare la tranquillità in altri paesi e ad altre latitudini. Ma ovunque
aveva trovato disagi e pericoli dovuti al clima e all'ambiente. Nel lungo discorso dell'islandese si
può notare la presenza costante della particella "non" e quindi l'uso della figura retorica della litote,
che consiste nel affermare qualcosa adoperando la negazione).
A quel punto la natura spiega che le sue azioni non hanno come fine la felicità o l'infelicità degli
uomini ha a cuore solo la vita dell'universo, che consiste in un perpetuo circuito di produzione e
distruzione.
Al che l'islandese pone una domanda: a chi giova questa infelicissima vita dell'universo,
conservata in virtù del male e della morte di tutte le cose che lo compongono?
Questa domanda esistenziale non otterrà mai risposta perché a quel punto il dialogo si interrompe
per dare spazio a due possibili finali. Alcuni dicono che l'Islandese venne divorato da due leoni
affamati che grazie a lui riescono a sopravvivere ancora per qualche giorno; altri dicono che venne
sepolto dal vento sotto una montagna di sabbia e. trasformatosi in una mummia, venne ritrovato in
seguito da alcuni viaggiatori che lo collocarono in un museo.