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I materiali

La scelta dei materiali da costruzione e il loro trasporto costituisce un momento


fondamentale nell'attività del cantiere: essa dipende dalle maestranze, che devono
essere in grado di lavorare i materiali, dalla disponibilità di cavatori, scalpellini e
muratori, dagli attrezzi e dalla tecnologia di costruzione e dalle scelte dei
committenti, ovvero dalla funzione che deve essere svolta dall'edificio oltre che,
naturalmente, dai capitali a disposizione.
Il prezzo pattuito con i fornitori comprende in genere i materiali (pietra, legno,
laterizi, calce), la manodopera necessaria e il trasporto. Le spese per i materiali e il
loro trasporto possono raggiungere una cifra compresa tra i due terzi ed i tre quarti
del totale necessario per l'intera costruzione. Spesso per risparmiare, una parte dei
materiali (nel caso di pietre e marmi) viene lavorata direttamente presso le cave o
nelle loro immediate vicinanze. Di solito per costruire si cerca di utilizzare materiali
reperibili “in loco”, anche se per le parti decorative di edifici importanti ci si può
rivolgere ad aree di approvvigionamento più lontane e a maestranze specializzate
nelle varie tecniche di lavorazione (dalla lavorazione della pietra alla più specifica
fabbricazione delle campane) .
La difficoltà nel reperimento dei materiali emerge anche dai numerosi testi letterari,
che raccontano di affannose ricerche e di scoperte miracolose di cave vicine al luogo
dove viene costruito l'edificio; tra questi la Relativo modenese, che insiste su un
miracoloso ritrovamento di pietre antiche, che verranno reimpiegate nella
costruzione.

Il legno
Il legno è un materiale molto usato nel Medioevo: viene impiegato, oltre che per le
opere di carpenteria vere e proprie, nella realizzazione di utensili di vario tipo, per le
palizzate di difesa, per le imbarcazioni, per ogni sorta di macchina ingegneristica, per
i mulini e come combustibile. L'ampio impiego che ne viene fatto spiega come mai
nell'XI e XII secolo, quando ancora le foreste ricoprono enormi spazi in tutta l'Europa
occidentale, sia già ritenuto difficile trovare alberi di grande diametro.
Le specie più diffuse nel Medioevo sembrano essere querce, faggi, olmi, larici e
castagni; nell'Europa settentrionale e centrale sono numerosi anche pini e abeti. In
Italia, nell'Appennino emiliano, sono presenti il castagno, la quercia e il faggio.
Gli Statuti dei Marangoni (falegnami) modenesi del XIV secolo, elencano i vari tipi
di legname che proviene dai boschi dell'Appennino: "piela, asaro, salice, corbella,
olmo, opio, bussolo, arcipreso, oliva, querza, rovera, castagna...". Per la sua
resistenza all'umidità, il legname di castagno viene utilizzato anche nelle parti esterne
degli edifici. L'uso del castagno nell'edilizia rurale è, del resto, documentato un po'
ovunque, in particolare sui monti dell'Appennino. Sui mercati cittadini affluiscono
assi, panconi, tavole, pali di castagno e questo legname viene utilizzato per le
costruzioni più diverse; legname stagionato di castagno viene anche esportato. I larici
e gli olmi, che hanno la caratteristica di non essere soggetti a putrescenza, vengono
usati per la copertura dei tetti, sotto forma di piccole tessere rettangolari, o per la
realizzazione di pali utilizzati per le fondazioni dei ponti.
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Il difficile approvvigionamento del legname di grandi dimensioni ed i problemi legati
ai costi del trasporto, spinge i costruttori medievali a creare un sistema capace di
realizzare anche le opere di carpenteria più sofisticate e complesse, utilizzando
legname di lunghezza limitata. A Modena il legname probabilmente non giunge tutto
in tronchi, ma viene ridotto in tavole ed assi in rudimentali segherie erette
appositamente sulle montagne; arriva poi in città attraverso i fiumi locali.
Nel cuore della pianura padana, nei secoli centrali dell'Altomedioevo si afferma
un'edilizia esclusivamente in legno, come testimoniano gli scavi archeologici condotti
a Ferrara, Piadena, Poviglio, Manerbio e Fidenza. Tutti questi luoghi, tranne Fidenza,
sono centri di nuova fondazione, quindi privi di stratificazioni precedenti da cui
recuperare materiali e lontani da cave o fiumi (dove recuperare ciottoli), mentre sono
vicini a boschi ricchi di querce e di altre piante adatte alle costruzioni. Anche nelle
zone montane e pedemontane troviamo edifici interamente in legno, ma la tecnica
edilizia più diffusa, soprattutto in ambito urbano, è quella mista, in cui legno e altri
materiali di origine vegetale si integrano con tratti di murature antiche di recupero,
dando luogo ad un tipo di edilizia "di sussistenza", dovuta alle condizioni di
decadenza economica del tempo. Anche l'edilizia in pietra dei centri urbani dell'XI-
XIII secolo mostra tracce ben visibili di un consistente impiego del legno: gli alloggi
delle travi orizzontali, le mensole per l'appoggio della carpenteria, le porte per
accedere all'esterno poste ad altezze inconsuete, rivelano l'antica presenza di scale,
ballatoi, sporti, terrazze e tettoie in legno, che ampliano verso l'esterno la superficie
abitativa della casa medievale. L'iconografia stessa, nelle rappresentazioni di città, ci
dà un'immagine dell'uso del legno nelle costruzioni medievali, permettendo di
riconoscere la struttura interna delle murature con graticci intonacati e strutture
lignee. Sappiamo, ad esempio, che a Modena le case continuano ad essere costruite in
legno durante tutto il XIII e XIV secolo; solo le abitazioni dei cittadini più facoltosi
sono in pietra o mattoni.
La lavorazione del legno impiega numerose figure professionali, dai taglialegna, ai
segatori, ai carpentieri, fino agli architetti.
Il legno viene tagliato durante l'inverno e lasciato all'aria aperta per qualche mese, in
modo che l'acqua piovana ne renda più fluida la linfa. Poi i tronchi vengono
stagionati in luoghi asciutti per diversi mesi per passare successivamente alla
lavorazione. In caso di necessità, tuttavia, può essere impiegato anche il legno verde.
Come è mostrato in molte immagini della “Costruzione dell'Arca di Noè” i grossi
tronchi, impiegati come legname da costruzione, vengono prima scortecciati, poi
tagliati con seghe, semplici o a telaio a due manici. Il legno viene poi smussato e
rifinito con asce e piccole scuri, per eliminare i segmenti a sezione circolare ed
ottenere sezioni più quadrate possibile, che ne rendano più facile l'assemblaggio. La
trasformazione dei tronchi consente di ottenere pezzi di tutte le forme e le misure, da
utilizzare sia nella costruzione che per le macchine e gli attrezzi del cantiere.
Il posto riservato al lavoro del carpentiere è sempre compreso tra i settori stabili dei
cantieri delle grandi costruzioni ed è, generalmente, collocato nelle vicinanze della
costruzione in corso. Le cataste di legno, disponibili all'uso, vengono tenute, talvolta,

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nelle apposite baracche che sorgono sui cantieri al fine di poter disporre liberamente
dei materiali sul posto di lavoro.
Nelle costruzioni il legno spesso rimane nascosto, dissimulato entro le volte e le
coperture degli edifici; tuttavia i lavori di carpenteria necessitano di solito di grande
abilità ed ingegno. Un consumo supplementare di legname si rende necessario inoltre
per l'esigenza di risparmiare il ferro, materiale prezioso e raro.
A causa della scarsità di travi di notevole lunghezza, i costruttori gotici cercano
nuove soluzioni per utilizzare legname di piccolo taglio; inoltre i carpentieri cercano
di congiungere i vari elementi con caviglie o semplicemente con corde, evitando
perni e bulloni o fasce in ferro. Le corde sono costituite da una resina estratta dal
tiglio oppure da rami flessibili di salice o quercia. Vengono fatte legature ben strette,
inserendo alcuni cunei in legno, tendendo al massimo le corde per rendere la struttura
più stabile e sicura.

I laterizi
La produzione dei laterizi appare estremamente diffusa in epoca romana nel territorio
dell'attuale provincia di Modena, come nel resto della Cisalpina; il laterizio costitusce
il materiale da costruzione per eccellenza, raggiungendo nel campo economico un
livello di organizzazione del lavoro, di produzione e distribuzione del prodotto di tipo
industriale. Nell'Altomedioevo l'attività prosegue in maniera discontinua, soprattutto
per progetti eccezionali, come la costruzione di monasteri o di chiese. Dall' XI
secolo, in Italia, si assiste ad un aumento nella produzione di mattoni e di laterizi
ornamentali e, tra l'XI e il XII secolo, le maggiori strutture in laterizi (talvolta anche
di reimpiego, come nell'Abbazia e nella Pieve romanica di Nonantola, nel Duomo di
Modena e nella fase romanica della pieve di Ganaceto presso Modena) si riscontrano
nelle chiese delle città della Valle Padana. Occorre tenere presente, del resto, che la
produzione dei laterizi non dipende solo da elementi di carattere culturale e
dall'esistenza della tecnologia necessaria, ma anche da fattori geologici. Un
incremento dell'uso di laterizi e della rilevanza economica assunta da questo
materiale, si registra nel XII e nel XIII secolo quando i rischi di incendio, tipici delle
città densamente popolate ed in rapida espansione, uniti al progressivo aumento del
costo del legno, portano ad investire in edifici più solidi. Non è un caso che i mattoni
usati nel Duomo di Modena, differenti da quelli di età romana anche perché di minori
dimensioni (27x12x6 cm.), diventino di uso comune nelle costruzioni modenesi
proprio a cominciare dal XIII secolo. L'uso dei laterizi negli edifici pubblici e privati
diviene sempre più frequente e la tecnica edilizia in soli ciottoli, molto diffusa nel
modenese fino a questo momento, comincia ad essere sostituita con quella a tecnica
mista o in soli laterizi, come è attestato anche dall'analisi delle murature della Torre
di Nonantola.
Nel corso del XIV e XV secolo, si assiste al definitivo passaggio dai materiali
costruttivi più deperibili verso altri più duraturi, quali i mattoni, le pietre, la calce. Un
effetto di questo cambiamento è avvertibile anche nel lento prevalere della posizione
dei maestri muratori rispetto ai maestri di legname.

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L'aumento dell'uso dei laterizi, soprattutto nelle città del Nord Italia, va di pari passo
con la menzione di fornaciai e prodotti di fornaci nei documenti delle Arti e dei
governi comunali. Talvolta i fornaciai hanno una loro identità corporativa; quando,
invece, appartengono all'Arte dei muratori, gli statuti prevedono rubriche specifiche
per il loro lavoro. Inoltre, il fatto che ogni città persegua una politica tesa a
controllare i prezzi ed a fissare misure standard per tutto ciò che viene prodotto nelle
fornaci, attesta l'incremento dell'attività del settore. A Bologna l'Arte dei Muratori,
costituitasi alla metà del XII secolo, dà l'avvio alla produzione di mattoni conformi a
modelli rigorosamente standardizzati, sotto l'attenta vigilanza del Comune; la rubrica
CXLVI degli Statuti prescrive, infatti, che le tegole ed i mattoni debbano essere
conformi al modello collocato “sub voltis palatii veteris”, cioé nel primo palazzo del
Comune. Nel 1376 gli Statuti prescrivono inoltre che i laterizi debbano essere
prodotti secondo “modulos zustos et bullatos” conservati presso la fornace; i fornaciai
sono anche tenuti a conservare i loro prodotti in due pile ben distinte: da un lato i
laterizi ben riusciti, dall'altro quelli “marcios”, “scrennatos” (fessurati) e “male
coctos”. L'indagine condotta sulle murature bolognesi del XIII-XV secolo, ha fornito
un chiaro riscontro dell'applicazione di tale regolamento. Gli Statuti comunali
modenesi del 1306 e 1327 contengono molte norme severe sulla quantità e qualità del
materiale da costruzione (legname, pietre, mattoni e calce) e specificano le
dimensioni delle pietre e dei mattoni (“grossitudo”, “amplitudo”, “longitudo”), la
bollatura dei pesi e delle misure.

Fabbricazione dei laterizi


I mattoni, le mattonelle, le tegole, i coppi e i mattoni sagomati venivano foggiati a
stampo, utilizzando appositi telai di legno, privi del fondo, in modo da agevolare
l'estrazione dell'oggetto modellato. L'impasto di argilla veniva premuto a mano entro
lo stampo stesso, poi la superficie superiore veniva spianata. Per la produzione di
tegole venivano applicate due fasce di argilla lungo i lati lunghi dello stampo,
premendole e modellandole a mano per ottenere "alette" laterali rialzate. I coppi
erano invece ottenuti appoggiando le lastre rettangolari di argilla su un pezzo di legno
semicilindrico, che dava loro la forma. Una volta foggiato, il prodotto doveva essere
messo a essiccare in ambienti asciutti o cotto nelle fornaci.
La cottura, ultima operazione da compiere per la produzione dei laterizi, avveniva
all'interno della fornace, dove i manufatti crudi venivano disposti ad una certa
distanza gli uni dagli altri, affinché il calore potesse espandersi in ogni parte della
camera di cottura. Nell'Europa medievale i mattoni erano di solito cotti in catasta (o
in cumulo), una struttura in buona parte temporanea, usata anche in epoca romana e
costituita di mattoni, che si doveva bruciare e smantellare dopo ogni operazione.
Questo procedimento, inoltre, aveva il vantaggio di poter essere realizzato vicino al
cantiere di costruzione, riducendo così i costi del trasporto. Per questo motivo era il
sistema più usato nell'Europa centro-settentrionale; in Italia, dove la tradizione della
produzione di laterizi sembra diminuire notevolmente ma non cessare dall'epoca
romana, e dove la qualità delle argille è particolarmente adatta alla produzione di
mattoni, le fornaci ad installazione permanente - cioè in muratura, con una camera di
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riscaldamento coperta a volta, sopra la quale è posta la camera di cottura - sembrano
aver avuto un certo successo. La costruzione di una fornace per laterizi spesso
costituiva un evento importante per la comunità cittadina: nel 1279 a Maranello, nei
pressi di Modena, il Capitano Ventura Arpi e i massari di Fogliano e di San
Venanzio, furono eletti rappresentanti delle rispettive comunità nel Consorzio per la
costruzione e l'esercizio di una fornace di laterizi nel territorio di Sassuolo, fornace
che doveva rifornire i cantieri della zona. Sempre in territorio modenese e nello
stesso anno 1279, i massari dei Comuni di Formigine, Spezzano, Nirano,
Monteggibbio, Varana e Montebaranzone ed i Capitani delle ville di Corlo Superiore
e di Corlo Inferiore, formarono un consorzio per affidare a Iacopo Fornaciari la
costruzione e la conduzione di una fornace per produrre mattoni, probabilmente
destinati alle opere difensive che si andavano realizzando in quel periodo.
La fabbricazione dei mattoni era in larga parte un'attività rurale: per avere facile
accesso alle materie prime, al combustibile, alla manodopera temporanea; per
l'opportunità di isolare un processo produttivo inquinante e per ragioni di sicurezza.
Per questi motivi la legislazione comunale ne limitava in genere la presenza in città;
numerosi erano invece gli impianti ubicati poco fuori dalle porte urbane.

Laterizi ornamentali
Un caso a sé, ma che dimostra la continuità della produzione laterizia nel Medioevo,
è costituito dalla produzione di laterizi ornamentali. L'analisi della limitata
produzione decorativa altomedievale può dare alcune indicazioni sul processo
tecnologico della loro realizzazione. Tra VIII e XIII secolo, infatti, sono largamente
attestati mattoni scolpiti una volta cotti. I rilievi decorativi vengono scolpiti con gli
strumenti degli scultori, come è stato osservato a proposito dei rilievi che ornano la
chiesa di Santa Maria di Pomposa (1026): le formelle sono diverse l'una dall'altra e le
superfici spigolose mostrano tracce evidenti di punte e scalpelli. L'intaglio dei rilievi
avviene in cantiere, sulla struttura già murata. Durante tutto il Medioevo la terracotta
viene utilizzata in questa forma; tipica è la produzione sorta nella Valle Padana
durante l'XI secolo, che si diffonde particolarmente nel XIV secolo, attestata tra
l'altro da numerosi esempi modenesi. Nei cantieri edili delle città padane,
inscindibilmente legati all'uso del cotto, esistono squadre di muratori specializzati nel
tagliare, squadrare, limare i mattoni per ricavarne elementi architettonici, quali archi,
spigoli ecc., tanto che a Ferrara, nel 1325, risulta che all'Arte dei Muratori appartiene
la speciale categoria dei "tagliapietracotta". A Bologna la tecnica di incidere e
scolpire terracotte decorative dopo la cottura dell'argilla, nata presumibilmente nei
cantieri romanici, sembra essere stata praticata anche dopo il diffondersi della
produzione a stampo, all'inizio del Trecento. La tecnica di graffire e scolpire a crudo
sui laterzi essiccati (in base a precisi disegni preparatori) è usata soprattutto nella
produzione di mattoni destinati agli archi, dove l'andamento del motivo decorativo
veniva stabilito sui pezzi accostati a terra, attraverso linee guida segnate
precedentemente col compasso. Successivamente i laterizi devono essere infornati
tutti insieme per garantire uniformità di cottura, quindi di ritiro e permettere la

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precisione millimetrica nella posa in opera. Questo processo evidenzia la tecnica
molto evoluta dei fornaciai del tempo.
Le decorazioni architettoniche in terracotta erano eseguite invece modellando l'argilla
cruda con la tecnica dello stampo entro forme negative; esse compaiono in area
bolognese alla fine del Duecento e, successivamente, nel corso del Trecento, un po' in
tutta Italia. L'evoluzione delle tecniche di preparazione delle terrecotte ornamentali a
stampo, la cronologia del fenomeno e le modalità del pieno recupero della tecnica
romana, sono ancora materia di discussione tra gli studiosi.
Talvolta tecniche di esecuzione diverse possono coesistere anche nello stesso edificio
e, in alcuni casi, le decorazioni a stampo potevano essere ulteriormente rifinite a
crudo o a cultura ultimata. Inoltre, spesso, le decorazioni architettoniche, come il
fregio di Pomposa, erano colorate.

La pietra
Nell' Altomedioevo la pietra è considerata un materiale nobile e come tale impiegato
soltanto per le costruzioni più prestigiose; solo a partire dall'XI secolo alle costruzioni
in legno si affiancano quelle in pietra. Questo si verifica in particolare per le chiese,
per i ponti, ma anche per le case, e costituisce un grande impulso per l'attività
costruttiva: avere una casa in pietra diventa segno di ricchezza e di potenza.
La pietra è uno dei materiali più utilizzati anche nella costruzione dei castelli: in Italia
si passa alla fortificazione in muratura tra il X e l'XI secolo, prima che in altre regioni
europee come la Francia. Naturalmente un maggiore o minore uso della pietra
dipende anche dalla facilità di reperimento di questo materiale. Nella maggior parte
dei casi viene infatti usata pietra reperibile “in loco” o nelle località più vicine. I
fossati intorno ad un castello o il monte stesso sul quale lo si costruisce possono
venire usati per l'estrazione del materiale da costruzione. Talvolta la grandezza stessa
dei conci impiegati è determinata dalla sfaldatura naturale della roccia, che viene
regolarizzata solo con qualche colpo di martello.
L'attività estrattiva dei grandi impianti romani, arrestatasi con il declino dell'Impero
d'Occidente, riprende a partire dall'XI secolo; in alcune zone l'estrazione della pietra
diviene un importante settore dell'industria edile locale. Il costo del trasporto è però
tale che la domanda dipende soprattutto dall'accessibilità a cave presenti in zona.
Solo per gli edifici più prestigiosi, come le cattedrali, i committenti si procurano la
pietra grezza anche in cave lontane.
In Italia si fa largo uso anche del marmo: dopo il Mille il suo impiego aumenta sia
nella scultura sia nelle opere architettoniche. In questo periodo se ne conoscono le
caratteristiche naturali, che vengono sfruttate per scegliere la materia prima, estrarla,
trasportarla e lavorarla. I cavatori medievali sfruttano infatti le irregolarità della
roccia - i cosiddetti "peli" - che, formando piani di discontinuità nella massa rocciosa,
ne facilitano il taglio: l'abilità del cavatore consiste nel riconoscere e utilizzare i
diversi peli, per liberare blocchi privi di difetti. Nonostante i metodi di estrazione
medievali siano in genere chiaramente distinguibili da quelli antichi, è stata ormai
dimostrata una notevole continuità delle tecniche estrattive e di quelle di lavorazione
del materiale rispetto all'Antichità.
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In Emilia-Romagna, dove prevalgono i laterizi, l'uso della pietra, soprattutto arenaria,
inizia soltanto in corrispondenza con le prime ondulazioni collinari e Modena è
l'unica città emiliana il cui duomo ha un rivestimento interamente marmoreo,
costituito in gran parte da materiali di reimpiego. A Rubbiano, nell'Appennino
modenese, la torre campanaria romanica, elevata a fianco della Pieve, viene costruita
in arenaria con conci che verso l'alto si fanno via via più piccoli, probabilmente a
causa della difficoltà di estrazione, di posa in opera e di trasporto di materiale da
taglio di notevoli dimensioni. Nell'Abbazia di Nonantola l'impiego della pietra ha
scopo quasi esclusivamente ornamentale, soprattutto nella facciata, dove prevale la
pietra d'Istria, ma il materiale predominante è il mattone.
Per le grandi cattedrali il prestigio civico impone l'uso del marmo anche a costo di
gravi sacrifici economici: così i marmi del veronese o di altra provenienza giungono
per via d'acqua (fiumi o canali artificiali) e alimentano i cantieri di Piacenza, di
Parma, di Bologna e di Ferrara. A Parma, come a Modena, si utilizzano le rovine
romane per rivestire esternamente la cattedrale, mentre si usa il mattone per le
strutture portanti; a Parma il marmo di Verona serve invece per costruire il battistero.

Calce e malta
L'uso sistematico della calce per la preparazione di malte leganti le murature di
pietra, in sostituzione dell'argilla, ha origine in età romana. In età medievale si
continua a fare ampio uso della calce; durante l'Altomedioevo nella costruzione degli
edifici più modesti essa viene invece di solito sostituita dall'argilla, materiale più
facile da reperire. Tuttavia si continua a produrre calce per le costruzioni di maggior
impegno, per le quali vengono realizzate apposite fornaci. Talora con questo
materiale si rivestono murature con legante terroso. In Italia si ha un notevole
incremento nella produzione della calce tra l'XI e il XIII secolo, con l'aumento
dell'uso della pietra come materiale da costruzione.
Una volta prodotta, nella fornace, la calce viene trasportata vicino al luogo dove si
costruisce e spenta in apposite vasche, immergendo le zolle in acqua (si ottiene così il
"grassello", un impasto morbido ed untuoso). Essa in seguito deve essere impastata
con sabbia, mattoni macinati o sostanze organiche, per diventare malta ed essere
usata per murare. La qualità dei leganti è molto importante nella costruzione: per
questo motivo il rapporto tra la calce e la sabbia è spesso controllato dagli statuti
cittadini. Nella composizione della malta, la quantità della sabbia varia a seconda dei
luoghi e dell'impiego; lo stesso vale per la percentuale di acqua da usare nell'impasto,
che viene stabilita in funzione del clima, e quindi del tasso di evaporazione e dell'uso
che se ne deve fare.
La qualità della malta non dipende soltanto dalla cottura uniforme della pietra e dalla
qualità e percentuale degli aggregati, ma anche dall'accuratezza dell'impasto. Questa
operazione viene fatta sul cantiere di costruzione, come è ampiamente attestato
dall'iconografia anche di età romana: su uno spiazzo di terra battuta viene disposta la
sabbia a forma di cratere, al centro del quale si pone la calce. In alcune
rappresentazioni iconografiche l'impasto, invece che a terra, avviene in un'ampia
vasca dalle pareti alte, costruita in muratura o in legno. Una volta raccolto il materiale
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(calce, sabbia, frammenti di laterizi) nel luogo stabilito, il manovale addetto alla
preparazione della calcina, deve mescolare a lungo il legante con gli aggregati,
aggiungendo a poco a poco l'acqua. A questo scopo viene usato un attrezzo dal
manico molto lungo, la marra, con la quale viene effettuato un movimento di
sfregamento per eliminare i grumi e far penetrare la sabbia nella massa elastica della
calce; con la zappa e con la pala, viene assicurato un continuo movimento.
L'operazione dell'impasto termina quando il composto appare perfettamente
omogeneo e privo di grumi. A questo punto, altri manovali o operai, la portano, con
appositi vassoi di legno o con secchi, fino al luogo di messa in opera.

Fornaci da calce
La costruzione di una fornace da calce è una delle prime strutture che vengono
realizzate nell'allestimento del cantiere. Generalmente la fornace viene costruita in
luoghi ove è facilmente rinvenibile sia la materia prima sia il combustibile. Le fornaci
medievali sembrano non differire molto da quelle romane; solo in epoca
bassomedievale si hanno talvolta strutture più complesse.
La descrizione delle fornaci da calce fornita da Catone, intorno al 160 a.C., nel “De
agricultura” appare abbastanza fedele alla documentazione archeologica di età
romana, nonostante qualche variante legata a fattori locali. Si tratta di strutture
generalmente a forma cilindrica, di circa tre metri di diametro, con una camera di
combustione interrata ed una parte superiore, di solito costruita in parte fuori terra, in
mattoni o pietra con malta. Nella parte più bassa, immediatamente all'esterno della
fornace, e comunicante con essa, si trova il “prefurnio”, che può essere delimitato da
due bassi muretti o da strutture più articolate. Questo tipo di struttura sembra il più
diffuso, e ha numerosi riscontri archeologici di età romana (tutti riferibili al periodo
imperiale e provenienti da scavi condotti in Inghilterra, Francia, Germania e Algeria)
e altri di età medievale. Per quanto riguarda le fornaci da calce, è riscontrabile una
sorta di continuità senza interruzione dai secoli dell'Altomedioevo fino all'Età
moderna. Questo tipo di fornace è detto a "fuoco intermittente": prevede, cioè,
l'interruzione del funzionamento al termine di ogni ciclo di cottura, per consentire lo
svuotamento ed il carico successivo. L'intero processo ha la durata di alcuni giorni; il
ritmo di produzione dipende da vari fattori, quali le dimensioni del forno, il tipo di
combustibile usato, le condizioni meteorologiche.
I forni di età bassomedievale sono caratterizzati, talvolta, da strutture più complesse,
anche costruite completamente in elevato e con procedimenti di cottura a ciclo
continuo, che prevedono un sistema di carico effettuato mediante la sovrapposizione
di combustibile e calcare a strati alterni. Questo sistema permette di alzare la
temperatura di cottura e soprattutto di ripartire meglio il calore. Tale procedimento,
tuttavia, richiede molto tempo per impilare i materiali e poi vagliarli dopo la cottura.
Il lavoro di preparazione della calce implica inoltre una continua presenza di operai
vicino alla fornace, che va continuamente alimentata e controllata.

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Metalli
Nel Medioevo il metallo era un materiale raro e prezioso. Le testimonianze storico-
archeologiche sull'estrazione e l'uso dei metalli, assai rare per il periodo
altomedievale, aumentano a partire dal XII-XIII secolo.
In Italia le principali aree metallifere si trovavano in Toscana (Isola d'Elba, Massa
Marittima e Volterra, già ampiamente usate dagli Etruschi), in Sardegna e in tutto
l'arco alpino. Ferro e rame giungevano nel modenese probabilmente da queste aree,
anche se non si esclude una possibile esistenza di qualche miniera nell'alto Frignano,
dove però probabilmente ci si limitava a lavorare materiale proveniente dalla
Toscana. I giacimenti minerari - secondo un'antica norma giuridica ereditata
dall'epoca romana - erano di proprietà statale e il diritto all'apertura di nuove miniere
veniva generalmente concesso a famiglie private dietro pagamento di una tassa.
Un interessante scavo archeologico effettuato a Rocca San Silvestro (Livorno), ha
permesso di conoscere meglio i sistemi estrattivi di epoca medievale. L'abitato -
dominato dal castello appartenuto prima ai conti della Gherardesca, poi ai signori
Della Rocca - sorse fra X e XI secolo in una ricca zona mineraria, per essere poi
abbandonato nel XIV secolo. A parte il castello, abitato dal signore, una zona era
destinata alle abitazioni dei minatori e delle loro famiglie ed un'altra era adibita alle
attività metallurgiche, non lontane dai giacimenti, costituiti soprattutto da calcopirite
e galena argentifera. Le attività estrattive sono state datate tra XII e XIII secolo. Il
minerale veniva estratto con piccone e mazzetta a punta, da fosse a cielo aperto
(profonde 2 o 3 metri per un diametro di circa 10 metri) e da pozzi verticali (profondi
al massimo 10 metri, con imboccature dell'ampiezza di circa 1-2 metri).
Piombo, bronzo e ferro furono molto usati come materiali da costruzione per tutto il
Medioevo. Il piombo era impiegato soprattutto nella produzione di elementi per il
deflusso delle acque, come le grondaie, e per realizzare i profilati per l'assemblaggio
delle lastre vitree. Il bronzo, invece, fu molto usato per la fusione delle campane e per
le porte di edifici monumentali.
Il ferro, minerale dalla lavorazione complessa a causa dell'elevata temperatura di
fusione, è stato il metallo che ha conosciuto maggior impiego in architettura: il ferro
battuto veniva utilizzato per la produzione di elementi di rinforzo (particolarmente
usato nell'architettura gotica), come catene o chiodi da carpenteria, ma anche per
inferriate, cancelli, cardini, serrature, chiavi.
La produzione dei chiodi era opera di fabbri specializzati, che usavano un'apposita
incudine, dotata di fori di varie dimensioni, nei quali venivano inserite piccole sbarre
di ferro, realizzate nella fucina; per ottenere la capocchia l'estremità veniva poi
ribattuta a caldo. In parte di ferro erano anche gli attrezzi impiegati dai carpentieri,
muratori e scalpellini che lavoravano nei cantieri di costruzione. Per questo motivo in
ogni cantiere era indispensabile la presenza di un fabbro per la produzione e la
manutenzione degli strumenti di lavoro.

Le campane
Nel mondo cristiano la campana compare fin dal VI secolo; nei primissimi tempi si
tratta probabilmente di strumenti in lamina metallica, di piccole dimensioni. A partire
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dal VII-VIII secolo si iniziano a fondere campane di dimensioni maggiori, che nel IX
secolo sono comuni in tutta l'Europa occidentale. Nel XIV secolo, la campana di
grandi dimensioni è già abituale in tutto l'Occidente.
Le campane vengono realizzate da fonditori itineranti, monaci o laici che, a partire
dal IX secolo, si spostano da un luogo all'altro, con un'attrezzatura estremamente
ridotta e trasportabile ed utilizzando i materiali reperibili sul posto. Le prime fonderie
stabili note sono del XII secolo, ma l'uso della fusione “in loco” si protrae fino al XX
secolo.
Il procedimento di fabbricazione delle campane è stato accuratamente descritto, nel
XII secolo, dal monaco benedettino Teofilo nel “De diversis artibus” (LXXXV) e nel
trattato di Biringuccio “De Pyrothecnia” (VI, 12), del 1540. Molto esauriente è anche
la voce "Cloche" dell' “Encyclopédie” di Diderot e J.B. D'Alembert, della seconda
metà del XVIII secolo. Gli scavi archeologici, di chiese o palazzi di età medievale,
hanno confermato che il procedimento descritto da Teofilo e Biringuccio era quello
generalmente seguito nella fabbricazione delle campane.
Le fornaci da campana costituiscono un momento importante nell'attività del cantiere;
generalmente sono situate all'interno dell'edificio in costruzione o nelle immediate
vicinanze e vengono demolite subito dopo aver terminato il loro compito. Dal
Tardomedioevo, fino a tutto il XVI secolo, l'alimentazione dei forni fusori del ferro è
assicurata esclusivamente da mantici, di solito in coppia, talvolta azionati da forza
idraulica.
Il significato spirituale di tali strumenti può essere riassunto dalla formula romana di
consacrazione del XII secolo: "Questa campana è stata fusa per scacciare gli spiriti
maligni, per convocare i figli di Dio e per fiaccare le tempeste, i tuoni e la
grandine...". La dedicazione delle campane è introdotta a Roma relativamente tardi; il
rito gallico della benedizione delle campane entra nel Pontificale Romano del XII
secolo attraverso il Pontificale Romano-Germanico di Magonza del X secolo. Gli
elementi tradizionali del rito, il lavaggio con acqua, l'unzione con olio ed un'offerta di
incenso, rimangono immutati nei secoli, come pure le relative preghiere.
Il significato simbolico della campana dipende dal tipo di suono che emette: per
questo dalle fonti di età medievale sia i committenti che il popolo appaiono esigenti
sulla qualità sonora di questi strumenti.
Così scriveva Guillaume Durand vescovo di Mende nel XIII secolo nel suo
“Rationale” a proposito delle campane:
Del nome delle campane
Le campane (“campanae”) sono dei vasi di bronzo creati per la prima volta a Nola,
città della Campania; per questo i più grandi fra questi vasi vengono chiamati
“campanae”, campane appunto, dal paese della Campania, mentre i più piccoli o
campanelle (nolae), nolane, dalla città che porta questo nome.
Perché si suona la campana?
Si benedice e si suona la campana affinché, attraverso il suono rimbombante che essa
propaga, i fedeli siano animati tutti insieme a ricercare i beni eterni e le ricompense
celesti, e perché la dedizione alla fede cresca dentro di loro. Si suona dunque la
campana perché i frutti della terra, le anime e i corpi di quelli che credono, siano
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conservati e salvati, perché le armate dei nemici e tutti gli inganni del demonio siano
scoperti e siano scacciati lontano, perché il frastuono dei temporali, la tempesta e gli
uragani, l'impetuosità dei venti e del fulmine si plachino e si calmino, e perché il
pericolo del tuono e il soffio dell'Aquilone si arrestino e siano sedati, perché lo spirito
dei temporali e le potenze dell'aria vedano infrangersi il loro impero, e infine noi
suoniamo la campana perché coloro che ne intendono il suono si rifugino nel seno
della loro santa madre Chiesa, e si prosternino davanti allo stendardo della santa
croce, in nome della quale ogni ginocchio si genuflette al cielo, sulla terra e negli
inferi, ecc., tutte cose che si dicono al momento delle benedizioni delle campane.
Delle giunture delle campane
Il legno al quale la campana è sospesa rappresenta quello della croce del Signore, ed
ecco perché si sospendono talvolta le campane nella parte più elevata del campanile,
perché la croce è stata annunciata dai più antichi Padri. I sostegni che uniscono o
inchiodano insieme le parti del mozzo sono le sentenze dei profeti. [...]
Della corda
La corda che pende dalla campana, e che serve per suonarla, è l'umiltà cioè la vita del
predicatore [...]
Campanelle e campanelli
Ricordiamoci che esistono sei generi di campanelli o campanelle (tintinnabulorum)
con i quali si suona nella chiesa, ossia: la raganella (squilla),il cembalo (cymbalum),
la campanella (nola), il campanellino (nolula)o il doppio timbro (seu dupla campana).
È con la raganella che si dà il segnale del pasto nella sala da pranzo o refettorio. Il
cembalo risuona nel chiostro, la campanella nel coro, il campanellino o doppio
timbro, nell'orologio; la campana si trova nella torre campanaria o nell'alto del
campanile. La campana grossa (signum), o campanone, nella torre. Tuttavia, quale
che sia il genere di segnale, può essere generalmente chiamato col nome di campana
(tintinnabulum). Si designano le campane con nomi differenti, perché i predicatori
che esse rappresentano sono obbligati e tenuti a molti compiti.
Regole per suonare le campane
Per tutta la durata dei sessanta giorni (Septuagesima) nei quali è compresa la santa
quarantena della Quaresima fino ai giorni feriali, non si devono suonare le campane a
distesa (compulsari), né dall'alto verso il basso (depulsari), ma occorre farle
rintoccare (simpulsari), ossia suonarle semplicemente (simpliciter pulsari) alle ore del
giorno e al mattutino. Tuttavia nelle chiese ben organizzate (bene ordinatis); si suona
due volte alla prima, innanzitutto per richiamare il popolo e in secondo luogo per
iniziare l'ufficio. Alla terza tre volte (secondo il numero di ore che comprende questo
ufficio come si è già detto precedentemente), una per chiamare il popolo, un'altra per
riunirlo nella chiesa, la terza per iniziare. La medesima cosa si fa alla sesta e alla
nona e si fanno rintoccare le campane nel medesimo ordine del mattutino. Alla messa
e al vespro invece, si suona con due sole campane; e nelle chiese più piccole o
minori, si deve solo rintoccare, secondo quello che si è detto più sopra, e questo deve
essere osservato durante i giorni lavorativi (feriis). La domenica invece, e i giorni
solenni, si suona a gran distesa (compulsatur), come negli altri momenti. [...]

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Le campane scacciano i demoni
Per il resto, si suonano le campane durante le processioni, affinché i demoni, che
temono il loro suono, fuggano. Essi infatti sono colti dallo spavento sentendo le
trombe della Chiesa militante, ossia le campane, come ogni tiranno trema quando
sente nel suo reame le trombe di qualche potente re, suo particolare nemico.
Del silenzio delle campane
È ancora per questo che la Chiesa vedendo alzarsi il temporale, suona le campane
affinché i demoni, ascoltando le trombe del re eterno, ossia le campane, fuggano
spaventati e non facciano scoppiare la tempesta, ma anche perché i fedeli, col suono
della campana, siano avvertiti del pericolo che li minaccia e invitati ad applicarsi
assiduamente alla preghiera. Le campane rimangono silenziose nei tre giorni
precedenti la Pasqua. Anche nel periodo dell'Interdizione, le campane tacciono,
perché spesso, a causa del peccato di coloro di cui essi hanno il carico, la lingua dei
predicatori si gela nella loro bocca, secondo queste parole del profeta: "Attaccherò la
tua lingua al tuo palato, perché la casa, cioè il popolo, è fuori di lui, ossia
disobbediente"

Guillaume Durand
Guillaume Durand nacque nel 1230, a Puy Misson, nei pressi di Bèziers in Francia.
Uomo di Chiesa, fu anche specialista di diritto civile e canonico; studiò a Parigi e in
Italia e fu poi professore di diritto a Bologna e a Modena. Nel 1265 fu nominato
cappellano del Papa Clemente IV.
Guillaume Durand ebbe un'intensa attività giuridica, diplomatica e anche militare:
infatti, come conte di Romagna, combattè alcune città in rivolta contro la Chiesa di
Roma. Nel 1285 fu chiamato dal capitolo della città di Mende per divenirne il
vescovo.
La sua opera, il Razionale o"Manuale dei divini uffici", scritto nel 1284, è una sorta
di enciclopedia simbolica che riunisce l'ampia documentazione necessaria per
decifrare il significato della liturgia.
Così, attraverso la sua opera, scopriamo che le campane secondo la tradizione
simbolica, allontanano le influenze nocive, le tempeste e i demoni e risvegliano il
senso del sacro; il loro suono inoltre invita alla moderazione e alla correttezza del
comportamento.

Fabbricazione delle campane


Il procedimento di fabbricazione delle campane descritto da Teofilo - monaco
benedettino del XII secolo, autore del “De diversis artibus”- e poi da Biringuccio -
autore, nel 1540, del “De Pyrothecnia” - può essere brevemente riassunto in cinque
fasi:
1- Esecuzione della forma. Questa operazione avviene con l'aiuto di strutture mobili
in legno. Per prima cosa viene costruito un tornio con un'asse orizzontale,
possibilmente a forma di piramide a base quadrata, munito di manovella. La forma è
costituita da una parte interna e da una esterna inframezzate da cera. Sull'asse
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orizzontale è modellata in argilla la parte interna dello stampo, che viene resa liscia
con la rotazione e l'uso di opportuni strumenti in ferro e con uno straccio bagnato.
Sopra questa viene spalmato uno strato di cera, della forma e dello spessore della
campana desiderata; quando la cera è solida viene lisciata con arnesi affilati, e si
incidono eventuali decorazioni o iscrizioni. In seguito, si applicano ancora altri strati
di argilla, per realizzare la forma esterna. La campana si otterrà col metodo della
fusione a "cera persa", in cui il metallo sostituisce la cera sciolta dal calore.
2- Posizionamento della fornace. La fornace consiste in una fossa, circolare o ovale,
scavata nel terreno, sul cui fondo è costruito un basamento in pietre e argilla (dagli
scavi risulta talvolta anche in mattoni), attraversato da un canale e collegato con una
o più fosse di alimentazione. Si fissano quindi quattro lunghi pali intorno al
basamento e si riempie la buca di terra; lo stampo viene poi collocato tra i quattro pali
e si toglie la terra ai lati per permettere allo stampo di scendere sul basamento. Messa
la forma sulla base, le viene costruito intorno, ad una certa distanza, un muretto
circolare di pietre refrattarie ed argilla.
3- Cottura della forma. Nel canale sottostante la forma viene acceso un fuoco,
alimentato dalla legna raccolta nelle fosse; quando, con il riscaldamento dello
stampo, la cera fusa comincia ad uscire, si completa la costruzione dei muri, fino a
chiudere l'imboccatura superiore con un coperchio di argilla o di ferro. Eliminata la
cera e chiusi i buchi, lo stampo viene cotto per un giorno e una notte, bruciando la
legna disposta tutto intorno e contenuta dal muretto di pietre. Le pareti di terra
subiscono così un processo di arrossamento e di indurimento.
4- Fusione e gettata del bronzo. Questa operazione richiede il massimo dell'abilità del
fonditore e dei suoi assistenti. Vengono preparati, a seconda delle dimensioni della
campana, uno o più crogioli in ferro muniti di maniglie, rivestiti dentro e fuori di
argilla, con fori predisposti per i mantici, che tengono il fuoco sempre vivo. Nel
crogiolo, sistemato sul suolo esterno al pozzo, viene fuso il rame misto a carbone; nel
frattempo con lunghe pinze si tolgono le pietre dalla fornace con lo stampo e il
pozzetto viene riempito di terra ben pressata. Si aggiunge allora lo stagno (circa un
quarto del totale del metallo) e la lega ottenuta, cioè il bronzo, viene fatta scorrere
dall'alto nella forma per mezzo di un canale, un condotto in legno rivestito di argilla
che collega il fondo del crogiolo con l'imbocco dello stampo, oppure viene travasata a
mano. In questo caso il crogiolo viene trasportato con i passanti per i manici, fino allo
stampo nel quale viene travasato il bronzo fuso. Tolta la terra intorno, si lascia
raffreddare la forma: lo stampo viene quindi alzato sollevandolo prima da un lato e
poi dall'altro e immettendo terra al di sotto.
5- Rifinitura. Estratta la forma dalla fossa, la si adagia su un lato e si leva subito la
parte interna, mentre quella esterna viene tolta dopo il completo raffreddamento. La
campana viene poi rifinita, dapprima con scalpelli per eliminare le irregolarità più
notevoli e poi montandola su un tornio e lisciandola con pietra arenaria.

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Il reimpiego
L'uso di materiale antico è una pratica molto diffusa per gran parte dell'Età
medievale: nei cantieri edili si ricorre frequentemente ai marmi o alle pietre di edifici
antichi, già interrati o, se decadenti, saccheggiati a seconda delle specifiche necessità.
Spesso nelle fonti scritte il ritrovamento di pietre o marmi antichi vicino al luogo in
cui si costruisce, viene considerato un vero e proprio miracolo.
La vastità del fenomeno e la difformità di circostanze che accompagnano ogni
singolo caso, non permettono di generalizzare sulla questione. Le testimonianze
archeologiche mostrano numerosissimi casi in cui il riuso nega la funzione originaria
del pezzo antico adoperato, degradandolo a semplice materiale da costruzione. A
questo tipo di utilizzo del materiale antico si affiancano i casi in cui esso viene
reimpiegato nel nuovo tessuto medievale con l'evidenza che tocca a un ospite degno
di attenzione e rispetto. Accade talvolta che abati o sovrani si procurino marmi da
Roma, affrontando spesso lunghi viaggi, alla ricerca di una sorta di legittimazione del
potere e di continuità storica con l'antichità romana. Casi famosi sono quello
dell'abate Desiderio di Montecassino, che nell'XI secolo acquista a Roma colonne,
marmi decorati e preziosi, facendoli trasportare dalle foci del Tevere alla Campania
per edificare la nuova chiesa abbaziale, e quello dell'abate Suger che nel 1135 è
invece costretto a rinunciare alle magnifiche colonne delle terme di Diocleziano a
Roma, per la sua abbazia di St. Denis in Francia, a causa della distanza e della
eccessiva spesa. L'impiego dei marmi antichi contribuisce all'autocelebrazione ed alla
ricerca di una propria identità storica da parte della città. All'uso di materiale di
reimpiego è strettamente legato il rapporto che l'età medievale intrattiene con il
mondo antico, rapporto contraddittorio perché legato da un lato all'ammirazione per
l'abilità degli antichi, dall'altro ad una concezione che giustifica il reimpiego in
quanto prova della vittoria sul paganesimo.
In campo edilizio, fin dall'Età tardoantica, i resti architettonici o scultorei lasciati
dalle epoche precedenti vengono utilizzati essenzialmente secondo due diverse
modalità, non sempre chiaramente distinguibili.
Esiste un tipo di reimpiego "distruttivo", che consiste nell'utilizzo del pezzo antico
come semplice mezzo per rifornirsi del materiale. In questo caso il frammento
architettonico o l'iscrizione antica ora vengono inseriti nelle murature, ora diventano
materiale usato per nuove sculture o nuove iscrizioni. A questo tipo di utilizzo del
materiale antico appartiene la costruzione della Cattedrale di Modena. La prima di
queste testimonianze risale all'inizio della costruzione del Duomo (1099) ed è narrata
nella <I>Relatio</I>. L'evento è presentato come un prodigio, ma la meraviglia è
dovuta soprattutto all'enorme quantità di pietre trovate, più che al fatto che queste
appartenessero a edifici antichi. Inoltre successivamente vengono fatte numerose
concessioni ai massari della Cattedrale, ai quali nel 1167 e nel 1242, si permette di
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scavare tra le strade e le piazze della città e dei sobborghi per reperire pietre utili alla
costruzione del Duomo. L'uso della pietra presuppone anche sul piano operativo una
precisa competenza da parte di “artifices” o “magisteri” esperti nella progettazione
d'insieme. Talvolta si assiste addirittura ad un consapevole richiamo ai lavori
dell'antichità e al recupero di tecniche antiche come accade, per esempio, a Modena
nel paramento lapideo lanfranchiano, caratterizzato da giunti assottigliati, nonostante
il taglio non regolare dei conci. Lanfranco tuttavia colloca i marmi antichi in
posizione non visibile; solo successivamente i Campionesi metteranno in chiaro
risalto il reimpiego di sculture romane nella costruzione della torre Ghirlandina.
Esiste poi un reimpiego di tipo "conservativo" nel quale i pezzi antichi vengono
utilizzati in ragione della loro apprezzata fattura, delle immagini che recano, del loro
conclamato legame con il passato, del valore del materiale in cui sono realizzati. In
questo caso gli oggetti, pur cambiando spesso la loro funzione (per esempio un
capitello può essere utilizzato come acquasantiera) vengono mantenuti volutamente
in vista nel nuovo contesto in cui sono inseriti.
Il rapporto con l'Antichità appare fondamentale anche per gli scultori: per
Wiligelmo, in particolare, l'ispirazione classica sembra spingersi ad una vera e
propria imitazione dell'antico. E' molto probabile, per esempio, che lo scultore abbia
visto i due genietti con la fiaccola, che poi ha scolpito sulla facciata del Duomo,
proprio su qualche sarcofago romano, probabilmente reinterpretandone il significato
simbolico.
Le maestranze attive nel cantiere della Cattedrale modenese scavano per recuperare i
massi antichi, li levigano e li squadrano adattandoli alla nuova destinazione per
metterli nuovamente in opera. Alcuni vengono anche riutilizzati per la decorazione
plastica. Su quanto a Modena sia consapevole l'uso dei modelli antichi è ancora
aperta la discussione tra gli storici dell'arte.
Gli scultori che lavorano sotto la guida di Wiligelmo, rilavorano il materiale antico,
lo reinterpretano, riadattandolo al repertorio cristiano. Tale sistema, applicato come
norma nel corso del XII secolo, rappresenta un modello anche per i successivi
scultori di matrice campionese, che appaiono costantemente attivi intorno alla
Fabbrica di San Geminiano dalla metà circa del XII secolo, fino ai primi decenni del
XIV secolo, quando si lavora al paramento lapideo della Ghirlandina.
Sempre a Modena, una testimonianza significativa del rapporto con l'antico è
costituita infine dalle numerose epigrafi latine, ispirate a modelli di età imperiale
romana, con lettere capitali collocate bene in vista sulle pareti dell'edificio. Tra
queste, particolare importanza hanno le due lunghe lapidi, iscritte alla maniera antica,
che sintetizzano le vicende costruttive della Cattedrale e riferiscono i nomi degli
artefici.

I segni dei lapicidi


Per fissare la collocazione dei pezzi o per distinguere il proprio lavoro da quello degli
altri - in questo caso ciascuno ha un suo segno di proprietà esclusiva - i lapicidi, fin
dall'Antichità, pongono dei segni sulle pietre. Tali segni possono essere semplici
tacche o curiosi disegni, ma più frequentemente sono delle lettere, talvolta molto
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accurate, come le capitali romane usate nel cantiere di Wiligelmo a Modena, lettere
destinate probabilmente a facilitare il corretto posizionamento dei conci di pietra.
Questi segni dei lapicidi indicano, fra l'altro, la conoscenza dell'alfabeto e della
scrittura almeno da parte di alcuni “magisteri”.
I muri della Cattedrale di Modena presentano anche altri "segni", semplici tracciati,
usati come riferimento per strumenti quali la squadra o il filo a piombo, oltre che per
il corretto posizionamento dei blocchi.
Questo metodo, già in uso presso i Romani, viene usato anche nelle cave; infatti,
quando un cantiere viene alimentato contemporaneamente da più cave è importante,
per la solidità dell'edificio, che ogni muro sia costruito con pietre provenienti dalla
medesima cava, affinchè il naturale cedimento sia omogeneo.
Tra i segni dei lapicidi si distinguono: segni di identità, incisi dai tagliatori di pietra
per distinguere il proprio lavoro (del quale l'autore si assume la responsabilità) da
quello degli altri e segni di utilizzazione, che possono essere segni di posizionamento,
di profondità o di altezza, di giunzione. Tali segni vengono usati dal tagliatore di
pietra che, lavorando a cottimo, deve rendere conto del lavoro svolto, dai maestri
tagliatori che "firmano" la produzione, ma anche dai maestri di cava e in quest'ultimo
caso i marchi servono anche a pubblicizzare il materiale e il cantiere di provenienza.

La produzione in serie
Nelle costruzioni romaniche si provvede a una limitata produzione preventiva di
determinati elementi costruttivi. La pietra viene in genere squadrata in modo
indipendente dalla sua immediata posa in opera e dall'uso al quale sarà destinata
(archi, decorazione architettonica ecc.), perciò gli scalpellini devono tagliare una
grande quantità di pietre della stessa misura. Dalla seconda metà del XII secolo si
osserva un aumento del formato dei blocchi, mutamento questo molto importante per
le sue implicazioni. Sulla scia delle nuove invenzioni tecniche (quali la progressiva
affermazione dei mulini ad acqua usati anche per segare e martellare) vengono
impiegati elevatori dalla tecnologia più complessa, che permettono di sollevare i
blocchi più grossi. Gli elementi costruttivi vengono quindi eseguiti in pietra da taglio,
mentre nel periodo romanico sia i muri che i pilastri più robusti sono costituiti da un
paramento in pietra o in mattone, con un abbondante riempimento di conglomerato di
malta. Naturalmente questa nuova tecnica, con pietre di grande formato e di misure
regolari, causa una rivoluzione dell'impresa costruttiva, sia sul piano tecnico che su
quello economico e sociale. L'organizzazione del lavoro diventa più razionale: esso
viene coordinato dalla cava fino alla messa in opera da parte dei muratori; le pietre da
costruzione vengono tagliate in serie ed immagazzinate. Per cornici, costoloni di
volte e trafori delle finestre si adottano apposite sagome in legno o metallo. La
standardizzazione della produzione permette di accelerare i tempi di lavoro; inoltre
porta ad una specializzazione della manodopera e ad una divisione del lavoro meglio
organizzata; l'architetto, soprattutto in Francia, nel XIII secolo assume un ruolo
sempre più esclusivamente teorico-progettuale all'interno del cantiere.

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