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Lezione 1 Implantologia Ramaglia 06-03-18 Lorenza D’Isanto

Premessa: questa lezione non ha senso, non ho riportato tutti i discorsi filosofici né stronzate varie. Ho provato a
rendere tutto italiano traducendo dal ramagliese. Buon lettura!

L’implantologia sotto certi aspetti è una disciplina molto più tecnica della chirurgia orale, in quanto si arriva
all’implantologia dopo aver una buona base chirurgica, protesica e parodontale, una base odontoiatrica globale.
Quindi l’implantologia è MULTIDISCIPLINARE, anche se qualcuno può appassionarsi maggiormente all’aspetto
chirurgico, chi più quello protesico, ma ormai quelle vecchie distinzioni con cui si ragionava 20-30 anni fa non
esistono più. Ovviamente chi sceglie di occuparsi dell’aspetto chirurgico non può assolutamente ignorare quello
protesico, è come se la mano destra non sapesse cosa fa la mano sinistra.

PRINCIPI BIOLOGICI E CLINICI DELL’IMPLANTOLOGIA OSTEOINTEGRATA

Le prime lezioni saranno incentrate sui principi biologici poiché se non conosciamo i principi biologici non si può
capire nulla dell’odontoiatria.

Parte mostrandoci una foto, in cui sono presenti 3 quadri clinici diversi che rappresentano lo stesso settore dentale
(incisivi centrali superiori), chiedendoci dal punto di visto biologico, clinico di riconoscere le differenze, cercando di
capire se si tratta di corone naturali o protesi. È contento delle risposte discordanti perché è proprio il dubbio che si
vuole ottenere, perché cerchiamo la MIMESI.

Il nostro obiettivo è infatti RIPRISTINARE in maniera funzionale ed estetica delle strutture anatomiche naturali o
modificarle perché sono state alterate da un processo patologico. La maniera migliore per modificarle è di
mimetizzarle al massimo, perché avremo comunque a che fare con qualcosa di “finto”: faremo sempre qualcosa di
artificiale ma con l’obiettivo di avere la funzione che è la nostra prima guida che però nell’odontoiatria porta con sé
sempre anche l’aspetto estetico e quindi avere quello che è la BIOMIMESI. Parlando come in questo caso dei due
incisivi superiori, abbiamo una grande necessità di avere la biomimetica perché da un punto di vista funzionale, la
funzione degli incisivi è molto importante, non tanto per la masticazione, ma per la fonazione (non si riescono a
pronunciare le labiali, le sibilanti), e ovviamente anche per l’estetica.

È molto più semplice ripristinare 2 incisivi centrali che non ripristinarne uno solo, ovviamente se il controlaterale ha
una buona estetica e funzione tale da essere mantenuta. È dunque un’ardua sfida.

Ad oggi, siamo avvantaggiati nell’ottenimento di una buona mimetica: in passato la soluzione era data da una
struttura in metallo rivestita in ceramica, mentre ad oggi si utilizzano le metalfree, si tende ad abbandonare quindi le
strutture metalliche e dunque un vantaggio nell’ottenere la biomimetica pur mantenendo inalterata la funzione e
rispettando sempre i principi anatomici. (se il dente è lungo 10 mm non possiamo farlo di 5 mm perché è più bello
cit.).

Mostra l’immagine vera e ci dice come in realtà sono 3 situazioni completamente diverse: nella prima foto abbiamo
una corona protesica, quindi di quell’elemento dentario era rimasto integro il supporto dento parodontale che
comprende anche la radice, e avevamo l’esigenza di ripristinare la parte coronale, da un punto di vista funzionale ed
estetico. Nella seconda foto invece, l’elemento dentario era stato perso, quindi è una situazione anatomica diversa,
perché c’era stato un processo di guarigione che aveva coinvolto i tessuti duri e molli alveolari, e nella guarigione essi
si modificano, e non c’era un supporto radicolare su cui ricostruire la corona. Per cui siamo dovuti passare da una
riabilitazione o ricostruzione solo protesica e una ricostrzione implanto-protesica. 40 anni fa per ripristinare questo
elemento dentario ci si doveva poggiare inevitabilmente sugli elementi dentari adiacenti che nel momento in cui
erano sani, si faceva una mutilazione terapeutica necessaria all’epoca ma comunque una mutilazione.

È ovvio che nel paragonare i due incisivi (uno naturale e l’altro no) si notano delle imperfezioni con un occhio più
attento ma è un’imperfezione veramente residuale ma abbiamo ottenuto un risultato buono ed è questo l’obiettivo
che dobbiamo ottenere in implantologia.

Riassumendo abbiamo l’obiettivo implanto protesico di inserire nel contesto anatomico in maniera funzionale ed
estetica quell’elemento dentario e renderlo biomimetico.
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Questo è fondamentale perché non andremo a mettere un perno, una vite, un chiodo nell’osso ma l’obiettivo è
ripristinare uno o più elementi dentari.

Quindi in implantologia bisogna partire dall’idea protesica, si passa attraverso una realizzazione chirurgica e si
completa con la realizzazione protesica della nostra idea protesica. È quindi sempre un piano di trattamento
chirugico e protesico.

Quando io vado a mettere la vite dell’impianto, devo già sapere il dente che andrà su quella vite, perché se io la
inserisco in una posizione non compatibile rispetto all’elemento dentario che voglio ripristinare, andiamo
inevitabilmente a perdere la biomimetica.

[Discorso su progresso della biomedicina e capacità di sostituire anche arti mancanti.. se vi interessa vi passo la
registrazione.]

L’impianto è stato dirimente nelle edentulie totali. Perché nelle edentulie parziali, l’impatto è stato importante
perché non andiamo ad alterare gli elementi dentari adiacenti, evitando l’utilizzo e l’impiego della protesi rimovibile.
Ma il vero ripristino funzionale ed estetico in situazione di handicap è sicuramente quello del paziente edentulo
totale, perché avendo perso tutti i denti, ha un deficit non solo estetico, ma anche funzionale perché non si mastica
bene, si perdono i sapori, quindi si altera il gusto ed è un grandissimo handicap dal punto di vista relazionale. La
persona che porta una protesi totale non è mai una persona serena nei rapporti interpersonali, soprattutto se
portatore di una protesi inferiore, che anche se parte con una certa stabilità, con un ampia cresta, un buon sigillo
mucoso, col tempo, si ha perdono i tessuti di appoggio, la muscolatura soprattutto quella linguale, rende le protesi
totali inferiori veramente un disastro, per il riassorbimento crestale. Questo significa non mangiare bene, non
sorridere bene e non parlare bene. Quindi è proprio in questo ambito che l’implantologia moderna ha sfondato.

Questo è importante perché quando negli anni ’60 è nata l’implantologia moderna è nata per gli edentuli totali
inferiori. Quindi grande merito a un collega svedese che non era un dentista ma era un ortopedico, che si è dedicato
alla biologia ossea e scoprì il fenomeno dell’osteointegrazione. Egli studiava il microcircolo osseo sui conigli,
mettendo nelle loro zampette delle piccole camere in titanio perché esse erano camere ottiche a cui era collegato un
microscopio e andava a studiare il microcircolo osseo del coniglio. Quando andavano a togliere queste camere in
titanio vedevano che non vi riuscivano con facilità e che nel rimuoverle portavano con sé un po’ di osso. Ecco che
vengono studiati questi meccanismi dell’interfaccia tra titanio ed osso, e scopre che il titanio applicato
chirurgicamente riesce a ottenere delle reazioni ossee positive di incorporazione. Così dei dentisti svedesi capiscono
che l’idea può essere applicata agli edentuli inferiori, perché gli impianti già esistevano ma non erano affidabili e non
avevano un alto tasso di riuscita, per cui non era un sistema terapeutico riproducibile e affidabile, che non si legava
tenacemente all’osso e col tempo cominciava a muoversi.

Così nasce l’idea di utilizzare delle viti implantari in titanio nei pazienti edentuli e studiano un protocollo che
reputano importante affinchè si determini un tipo di guarigione ossea tale da tenere l’impianto fermo in situ.

Oggi 2018, se venisse a qualcuno l’idea in un campo similare farebbe un piccolo studio di 1 anno/1 anno e mezzo per
poi avere l’esigenza di buttarla fuori perché purtroppo la fregatura dei tempi attuali è che è tutto molto veloce e i
tempi sono troppo rapidi per consolidare tali idee. La fortuna è che questa idea nacque negli anni ’60 e non negli
stati uniti ma in svezia, che era il regno del Welfare State, molti soldi, pochi abitanti, paese di una grandissima civiltà
e cultura e attenzione al sociale. Solo in svezia poteva svilupparsi una cosa che fosse sperimentale e a carico dello
stato, e che avesse un contesto culturale e scientifico tale da poter fare 10 anni di sperimentazione, questo è stato il
punto nodale perchè questi studiosi hanno avuto il merito scientifico di aver attuato una sperimentazione così lunga.
I primi impianti sono stati messi a metà degli anni 60 ma la prima vera pubblicazione in questo ambito si è avuto nel
1977 e questo ha sconvolto l’odontoiatria, perché per la prima volta veniva pubblicata una ricerca sugli impianti
dentali che avesse un protocollo, un substrato biologico e un applicazione clinica che non fosse estemporanea ma
con una validazione scientifica di 10 anni.

Oggi sarebbe molto difficile replicare una cosa del genere. Un altro merito di questi studiosi svedesi è stato seguire
questi pazienti a 10, 15 e 20 anni che era un lasso temporale enorme e così si è sviluppata l’implantologia.

Le 3 cose che hanno totalmente cambiato l’odontoiatria sono state:


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1. L’adesione: prima si studiavano le classi di black e l’estensione preventiva di black, quindi un sacrificio di
tessuto sano anche per carie piccolissime e ovviamente otturazione in amalgama. Oggi si parla di mini e
micro invasività grazie ai sistemi adesivi.
2. L’implantologia
3. La digitalizzazione che è uno stravolgimento in corso.

Dal 77 quindi parliamo di implantologia osteointegrata che è l’implantologia moderna.

[caso clinico] Mostra un video, in cui c’è un paziente a cui mancano 2 elementi dentari (sesto e settimo) e l’ottavo. Il
sesto bisogna ripristinarlo, mentre il per il settimo andranno fatte delle valutazioni da paziente a paziente per capire
se sia necessario il suo ripristino. Purtroppo il paziente aveva un quinto con una riabilitazione protesica e
endodontica incongrue con una reazione periapicale, e infiltrazione del moncone protesico tale da rendere la radice
non recuperabile. (avremmo potuto eseguire un allungamento di corona clinica per recuperare la radici ma in questo
caso la valutazione dei costi- benefici non era tale da permetterlo). Per cui si è optato per un piano di trattamento
che prevedeva il posizionamento dell’impianto post estrattivo, mentre in passato il paziente avrebbe avuto uno
scheletrato se poteva permetterselo, altrimenti protesi rimovibile in resina, con tutto il palato, i ganci e la flangia
protesica dove vengono messi gli elementi dentari.

Abbiamo un volume osseo tale da poter ospitare l’impianto e possiamo se ci sono le condizioni, estrarre l’elemento
dentario e contestualmente mettere anche l’impianto stesso.

Cosa facciamo quando dobbiamo mettere un impianto? Facciamo i principi normalissimi di chirurgia orale.

Facciamo:

1. Lembo e quindi incisione


2. Scollamento a tutto spessore
3. Dobbiamo in questo caso estrarre quella radice residua e mettere un impianto
4. Ci estendiamo con l’incisione anche all’area edentula perché dobbiamo scheletrizzare(?) non solo la zona
dove c’è il dente al posto del quale metteremo un impianto post estrattivo.

Impianto post estrattivo è molto più complesso di un impianto in sella edentula. Potrebbe sembrare semplice
perché è già presente una cavità ossea ma non è così, per cui consiglia di mettere i nostri primi impianti in selle
edentule già guarite. L’impianto post estrattivo è un impianto di seconda fase, e dobbiamo rispettare le curve di
apprendimento..

5. Proseguiamo con l’incisione anche distale


6. Taglio di scarico
7. Scollamento vestibolare e palatale a spessore totale
8. Sutura divaricante: è una sutura utile negli interventi duraturi e nei quali necessitiamo di liberare la mano
dell’assistente che da un lato dovrà avere necessariamente avere l’aspiratore, e dunque liberarla è molto
utile. Con la sutura divaricante andiamo a legare la sutura o alle strutture dentarie controlaterali (non so
perché lui dica adiacenti..) o talvolta anche in mucosa, in modo tale che abbiamo la possibilità di lavorare
meglio, anche perché spesso per mettere l’impianto necessitiamo di avere entrambe le mani libere, perché
l’altra mano ci è utile nel mantenere la direzione.
9. Divarichiamo solo il lembo vestibolare perché per il palatale è applicata la sutura divaricante

Condizione necessaria per l’impianto post-estrattivo: fare bene l’estrazione! Teoricamente sappiamo bene che per
fare una buona estrazione dobbiamo eseguire dei movimenti di lussazione vestibolari dove la teca ossea è più sottile,
ma purtroppo per il post estrattivo necessitiamo sicuramente di un tempo maggiore perché dobbiamo salvaguardare
la struttura ossea vestibolare. Lussando infatti in direzione vestibolare può accadere che la teca ossea si danneggi, e
nel post estrattivo non dobbiamo danneggiare nulla! Per cui anche nell’estrazione l’impianto post estrattivo è più
difficile di un impianto normale , perché l’estrazione va fatta in maniera estremamente conservativa: si dovrà
lavorare di più con le leve, usando anche delle leve più sottili o con i sindesmotomi..e ad oggi hanno inventato degli
strumenti simil cavatappi per estrarre gli elementi dentari senza dover usare leve e pinze, hanno un primo perno che
va nella radice e il secondo perno che va sul primo perno.
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10. Fatta l’estrazione, abbiamo quindi una sella edentula e un alveolo vuoto post estrattivo
11. Partiamo dall’alveolo post estrattivo: puliamo, misuriamo le sue dimensioni (anche se questo studio
andrebbe fatto prima sulle radiografie, magari cone bean, ma è buona abitudine ricontrollare clinicamente
quello che abbiamo misurato o ottenuto virtualmente, non fidatevi delle macchine ma solo di voi stessi),
studiamo un po’ l’alveolo, facciamo le nostre valutazioni. Dopodiché cominciamo a modificare l’alveolo,
perché non dobbiamo mettere l’impianto nella cavità naturale residua di un dente che non c’è più. In questo
alveolo con le sue dimensioni e quella forma, dobbiamo mettere un qualcosa che ha una dimensione
inferiori e una forma standard (l’alveolo era ovalare e il nostro impianto è circolare, sono due cose quindi
che proprio non vanno d’accordo) e c’è necessità di bloccare questo impianto. Molto difficile sarà preparare
l’alveolo con un nuovo asse di inserzione, per cui per aumentare la stabilità nell’esecuzione possiamo usare
l’altra mano di appoggio alla mano che impugna il micromotore, guidando la direzione. Usiamo una
sequenza di frese e infine inseriamo l’impianto che avviteremo con il micromotore e poi a mano. E
applichiamo la vite di guarigione.
12. Nella zona posteriore invece (sella edentula) faremo l’impianto normale, prestando solo attenzione a fare
una cavità che sia nella direzione giusta rispetto all’asse di inserzione dell’impianto e deve ovviamente avere
le dimensioni giuste rispetto all’impianto, per cui si useranno delle frese di diametro e dimensione via via
crescente, fino all’ultima fresa che consentirà di avere il diametro dell’osteotomia che sia congruente con la
vite che andiamo a mettere. Avvitiamo l’impianto e anche qui inseriremo la vite di guarigione dopo aver
posizionato l’impianto e su di essa verranno poggiati i due lembi che noi abbiamo divaricato. Ovviamente tra
i due impianti dovrà esserci una certa distanza.
13. Si suturano i due lembi, ed essendoci le due viti di guarigione i due lembi lasceranno fuori una parte delle viti
di guarigione. Atteso quindi il tempo di guarigione, non dovremo fare altro che eseguire le procedure
protesiche per poter fare su questi impianti due denti.

Già in prima fase chirurgica possiamo avere che l’impianto comunichi o meno con la cavità orale. Se comunica col
cavo orale parliamo di Implantologia Ad Approccio Non Sommerso o Implantologia A Un Tempo (o one stage).

Se invece una volta inserito l’impianto, non metteva la vite più lunga ma una vite molto corta (penso si riferisca alla
vite di guarigione), i due lembi l’avrebbero coperta e si chiudeva con punti di sutura. Così l’impianto rimaneva sotto
gengiva, e parliamo di Approccio Chirurgico Implantare Sommerso, rimarrà coperto quindi dalla gengiva per un
tempo X perché quell’impianto si integri nell’osso e si lascia isolato dall’ambiente esterno del cavo orale.

Cosa comporta l’implantologia sommersa? Comporta che dopo la guarigione, bisogna eseguire un secondo
intervento chirurgico, che servirà a scoprire la parte superficiale dell’impianto e collegare l’impianto all’esterno e
poter poi fare la protesi. Per cui parliamo di Implantologia In Due Fasi, perché richiede due fasi chirurgiche oltre che
la fase protesica.

La scelta di eseguire un’implantologia sommersa o non sommersa è una scelta individuale, inizialmente le due linee
di pensiero erano in discussione per la loro applicazione ma ad oggi è una scelta che fa il clinico, in rapporto al caso,
al sito, in rapporto a tante motivazioni. Né l’uno è migliore dell’altro, entrambi hanno punti di forza e di debolezza
ma dal punto di vista biologico sono sullo stesso piano.

Non fatevi ingannare dal dettaglio dell’OPT che tende non solo a sovrapporre le strutture, ma anche ad allungare sul
piano verticale e avvicinare sul piano orizzontale, per un fattore di distorsione.

Può sembrare più facile eseguire un impianto per un dente singolo e può essere più difficile mettere gli impianti in
un edentulo completo e per certi aspetti lo è, ma non si può generalizzare. Quello che è importante è un corretto
approccio protesico e quindi un’ottima conoscenza protesica! Bisogna ragionare in termini implanto-protesici.
Dovete saper fare la protesi totale se volete riabilitare un edentulo totale perché in questo modo si imparano le
prove fonetiche, estetiche, ecce cc perché dobbiamo ricreare ex novo un’arcata dentaria e conoscere i principi
funzionali e tecnici che sottostanno a una protesi totale. Ma ciò vale per tutto, anche per il dente singolo.
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Lezione di IMPLANTOLOGIA del 26/03/18 Prof. Ramaglia – PARTE 1
Consiglia Grasso
La scorsa lezione abbiamo introdotto l’argomento dell’implantologia, il prof ci ha raccontato i presupposti per cui fu possibile
negli anni ‘60-70 avviare un certo tipo di sperimentazione, in particolare nei paesi scandinavi, a Göteborg in Svezia, che poi portò
a delle pubblicazioni fondamentali con cui si è aperta l’implantologia moderna, che è quella che noi oggi diamo per assodato, nel
senso che oramai l’implantologia è entrata a pieno titolo nell’ambito delle discipline odontoiatriche, infatti rappresenta un
insegnamento universitario, una pratica clinica ordinaria.

In questi 50 anni sono stati fatti passi da gigante per cui oggi parlare di implantologia è una cosa abbastanza ordinaria, cosa che
non era così quando il prof aveva la nostra età (e non parliamo dell’era giurassica).

Il prof poi ci ha mostrato, sempre nella scorsa lezione, un video, che mostrava in cosa consistesse il posizionamento di un
impianto in un osso cosiddetto nativo, cioè un osso guarito dopo un’estrazione dentaria, perché tutti abbiamo i denti (tranne
quelli che sono congeniti alla nascita con assenza di elementi dentari), quindi quando abbiamo un’area edentula, vuol dire che un
dente si è perso.

Il prof ci ha fatto vedere anche un’altra modalità che oggi noi abbiamo, che è da considerare una modalità più difficile rispetto
alla modalità di una sella già edentula che è quella quando contestualmente estraiamo un elemento dentario e posizioniamo un
impianto, il cosiddetto impianto post-estrattivo.

Il prof poi ci consiglia questo libro: TESTO ATLANTE, Parodontologia e terapia impiantare, SIdP che secondo lui in questo
momento è il miglior testo in italiano in implantologia e parodontologia (secondo il prof se uno vuole imparare qualcosa di
parodontologia deve leggere il Lindhe che è un trattato a tutto tondo soprattutto sugli aspetti eziopatogenetici ma anche
diagnostici e procedurali in parodontologia e anche terapia implantare. Quindi secondo il prof oltre a seguire le lezioni
dovremmo studiare dal Lindhe e da questo libro da lui indicato). Perché il prof ci dice questo?

Inevitabilmente l’implantologia si interseca molto strettamente con la parodontologia, perché al di là di essere un


atto chirurgico di fare un lembo, fare un’osteotomia, un foro nell’osso e mettere un impianto (e quindi questa è una
procedura chirurgica che certamente fa parte del patrimonio culturale e clinico della chirurgia orale o se vogliamo
della chirurgia maxillo-facciale), la differenza fondamentale, che nei primi anni non si era capita e si è capita poi
andando avanti nel tempo in questi 50 anni, è che per fare una buona implantologia ci vuole una buona formazione
da un punto di vista parodontale, perché l’impianto non è altro che una radice artificiale che dovrà sostenere un
elemento dentario artificiale andando a ripristinare un complesso che non sarà più il complesso anatomo-funzionale
dento-parodontale, ma sarà un’altra storia, però i tessuti molli che stanno intorno all’impianto sono gli stessi che
stanno intorno al dente, l’osso è lo stesso che sta intorno alle radici dentarie, i problemi di eventuali patologie degli
impianti sono problemi molto simili alle patologie intorno ai denti esclusa la carie; il dente si può anche cariare, una
ricostruzione implanto-protesica no perché è tutto materiale non organico, ma le patologie sui tessuti di supporto
sono molto simili (non a caso l’anno scorso hanno istituito un master in parodontologia e implantologia).
L’obiettivo implantare è quello di ripristinare uno o più denti
OBIETTIVO DELLA TERAPIA IMPLANTARE
mancanti con una protesi fissa o rimovibile (perché sugli impianti si può
Creare dei pilastri al fine di ripristinare uno o
agganciare anche una protesi rimovibile, non necessariamente e
più denti mancanti con protesi fissa o
unicamente una protesi fissa) la quale deve fornire funzione
rimovibile in grado di fornire funzione
masticatoria ed estetica. masticatoria ed estetica.
Il disegno che segue è fondamentale perché mette in parallelo un
elemento dentario e un impianto dentario.
L’altra volta il prof ci aveva mostrato una corona naturale, una
corona protesica, una corona implantare, insomma quando le cose
vengono fatte per bene abbiamo difficoltà a distinguere cosa c’è
sotto, ma sotto tra un dente naturale, un dente protesico e
soprattutto un dente su impianto, da un punto di vista di
organizzazione dei tessuti c’è una differenza notevole!!!
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Questo è uno schema generale per capire come una struttura, un complesso implanto-protesico per alcune cose è
molto simile ad un elemento dentario, per altre cose è completamente diverso (ma se non conosciamo la
parodontologia, l’ABC, l’anatomia dento-parodontale, come sono messi
questi tessuti, non potremo capire nulla).
IMPIANTO DENTARIO
Che cos’è un impianto dentario? È un dispositivo biomedico (quindi Dispositivo biomedico, di solito composto da
rientra in tutte quelle che sono le normative dei dispositivi biomedici) metallo o lega metallica inerte, posizionato al
che è composto di metallo o di lega metallica inerte ed è posizionato di sopra o all’interno dell’osso per sostenere
al di sopra o all’interno dell’osso per sostenere la ricostruzione una ricostruzione protesica.

protesica.
Ma in che senso “è posizionato al di sopra”? Ci farà vedere (anche se
dovrebbe dire che non si fa più, ma si continua ancora a fare, non sa per
quale motivo visto che non c’è nessuna evidenza scientifica) che c’è un
certo tipo di implantologia che va al di fuori dell’osso, al di sopra
dell’osso e si riferisce a quella specie di “ragni” mostrati in foto.
Gli impianti sono di tre tipologie, anzi di due tipologie e poi una a sua TIPI DI IMPIANTI
volta di divide in due categorie, abbiamo: • Subperiostei
 impianti subperiostei, cioè quelli che sono extra-ossei, • Endossei con fibroincapsulazione
(fibrointegrazione)
 impianti endossei, nei quali distinguiamo:
• Endossei con osteointegrazione
• impianto endosseo con fibroincapsulazione
• impianto endosseo con osteointegrazione.
Gli impianti subperiostei (nell’immagine sono quelli più esterni), sono delle
strutture metalliche, come se fossero dei ragni, i quali vengono messi
chirurgicamente sopra l’osso, sotto il periostio ma sopra la superficie
ossea perché alcuni sostengono che mettendo questi impianti sotto il
periostio a contatto con la corticale, questi impianti “si integrano” con
l’osso.
L’evidenza scientifica da questo punto di vista non è nulla perché saremmo troppo drastici (ma il prof sostiene che
potrebbe anche esserlo), ma è veramente risibile. Quest’implantologia è nata molti anni fa quando si brancolava nel
buio nel campo dell’implantologia, ed era uno dei tentativi di trovare dei pilastri ossei efficaci. Il prof non ha mai
messo un impianto sottoperiosteo, gli è capitato più volte di toglierlo, perché se si mantengono, si mantengono
soltanto per una ritenzione meccanica data dal periostio che sta al di sopra, e dalla gengiva che sta al di sopra; dal
punto di vista biologico, l’evidenza è davvero quasi nulla.
Questi invece (poi lasciamo stare se ci piacciono o meno, se sono belli o sono brutti), sono delle viti che vanno nell’osso e
rientrano nella categoria degli impianti endossei (si riferisce all’altra
tipologia di impianti presente sempre nell’immagine sopra). Quindi ENDOSSEI CON FIBROINCAPSULAZIONE
nell’immagine possiamo osservare un mascellare superiore con le (FIBROINTEGRAZIONE)
due tipologie di impianti: l’impianto extraosseo o sovraperiosteo, e • Vite di Formaggini
l’impianto endosseo, cioè che sta all’interno dell’osso. • Gabbiette di Pasqualini
• Vite di Muratori
Qual è la differenza tra i due impianti endossei, l’endosseo con
• Aghi di Scialom
fibro-incapsulazione e l’edosseo con osteointegrazione? Entrambi
• Lame di Linkow
sono dei dispositivi che vengono posizionati all’interno dell’osso. • Etc
Questa è un’immagine che sicuramente abbiamo già visto:
l’immagine a dx rappresenta una tipologia di impianto endosseo di
molti anni fa.
Il prof fa un attimo un passo indietro; quando nasce
Il carico masticatorio immediato o precoce,
l’implantologia? L’implantologia dentaria nasce sulla scia dei
inducendo micromovimenti all’interfaccia
problemi ortopedici post-bellici. Quindi il problema della protesica
cellulare determina la incapsulazione fibrosa
dell’impianto endossei con tessuto cicatriziale
poco differenziato e vascolarizzato.
ossea si è iniziato a sviluppare dopo la Prima e ancor di più dopo la Seconda Guerra Mondiale; è dopo la 7Seconda
Guerra Mondiale che si utilizza il titanio come materiale per le protesi ossee in generale, e nell’ambito delle protesi
ossee c’è anche un piccolissimo filone che si occupa delle protesi dentarie, certamente non come fini post-bellici,
anche per problemi post-bellici, post-traumatici ma soprattutto per problemi di edentulia normali, tant’è vero che
l’implantologia dentaria si sviluppa come trattamento dell’edentulia intorno alla fine degli anni ‘50, inizio anni ‘60.
I signori che si interessarono dell’implantologia dentaria in quegli anni, sono stati Formaggini, Pasqualini, Muratori,
Scialom, Linkow, etc., i quali in un ambito di conoscenze molto limitate cercarono di capire che cosa si potesse fare
per mettere un qualcosa nell’osso su cui poi poter mettere un elemento dentario. C’erano le viti di Formiggini, le
gabbiette di Pasqualini, le viti di Muratori, gli aghi di Scialom, le lame di Linkow.
I più famosi di tutti, in quegli anni, sono state le lame di Linkow: erano, come si vede dalla forma, degli impianti
longitudinali, per questo chiamati lame perché stretti e un po’ lunghetti, con questi “piedini” (dall’immagine se ne
vedono 4) che poi portavano sopra un moncone, due monconi, etc.
Questi erano impianti non affidabili, perché qual è il problema di qualsiasi terapia chirurgica o terapia in generale
affinché possa essere valida?
1. non solo deve essere valido il cosiddetto proof of principle, cioè il principio deve essere valido, cioè deve
essere valido come evidenza scientifica;
2. deve essere riproducibile, con un ampio margine di successo;
3. deve essere prevedibile, cioè “devo sapere cosa succede dopo quello che faccio” ;
4. deve essere appannaggio di tutti.
Questi sono gli elementi fondamentali (in medicina in generale) affinché una terapia possa essere considerata una
terapia da quotidianità clinica. Questi impianti non sempre davano esiti positivi, c’era una grandissima variabilità,
tant’è vero che l’impianto nell’immagine che è una lama di Linkow sta in quel sito da 30 anni, perché la biologia è
grande e a volte riserva anche delle sorprese; ma nella maggior
Il carico masticatorio immediato o precoce,
parte dei casi, intorno agli impianti si sviluppava un processo inducendo micromovimenti all’interfaccia
radiograficamente di osteolisi, cioè di riassorbimento osseo, e cellulare determina la incapsulazione fibrosa
clinicamente di infiammazione (vedi immagine a lato). dell’impianto endosseo con tessuto cicatriziale
poco differenziato e vascolarizzato.
Qual era il problema di questi impianti? Era che non esisteva, per
nessuno di loro, un protocollo che avesse una solidità nei termini
di predicibilità, di ripetibilità, evidenza scientifica, etc. Anche
perché c’era un problema: questi impianti venivano posizionati
con un’osteotomia che veniva realizzata con una turbina, cioè il
protocollo prevedeva che il taglio dell’osso per posizionare questi
impianti, avvenisse con una turbina, quindi con uno strumento
ad alta velocità che:
1. per quanto si potesse raffreddare, si raffreddava relativamente;
2. l’utilizzo dell’alta velocità creava un’osteotomia che non era così precisa alla dimensione dell’impianto;
3. questi impianti, subito dopo il posizionamento, venivano già caricati protesicamente perché non si teneva
proprio in conto l’idea che forse l’osso potesse avere bisogno di un po’ di tempo per guarire e per poter
incorporare l’impianto, perché non si conosceva l’esistenza dell’osteointegrazione, si pensava all’aspetto
clinico, “devo mettere qualcosa nell’osso che rimanga fermo per poter mettere una protesi sopra”. A volte
l’esito era positivo, altre volte negativo.
Questi impianti, sono quelli che oggi noi definiamo: endossei con fibro-incapsulazione o fibro-integrazione, perché
facendo un passo indietro e ragionando sulla guarigione del tessuto osseo, la prima cosa che fa l’ortopedico in caso
di frattura è immobilizzare l’osso, si chiama contenzione, cioè l’osso per guarire deve stare fermo; più vicini e fermi
stanno i due capi ossei, maggiore è la probabilità di guarigione, guarisce al 100% (tranne che non siate sfigati). Se
invece i capi ossei non sono molto vicini e li facciamo anche muovere, non si forma un callo osseo, ma si forma un
callo fibroso, cioè un callo che non riesce a ossificare.
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Estrapoliamo questo concetto e portiamolo a quegli impianti che venivano messi con questa tipologia:

• non c’era una grande congruenza tra l’osteotomia e l’impianto stesso;


• l’impianto veniva subito caricato in un sito che non era così congruente;
• in più l’impianto aveva dei micromovimenti significativi, poche volte l’osso era in grado di guarire “bene”
intorno all’impianto, la maggior parte delle volte si formava un tessuto fibroso tra l’osso e l’impianto che è
una guarigione impropria dell’osso. Questo tessuto fibroso è in contatto, sotto certi aspetti, con la parte
periferica, per cui se c’era un processo di infiammazione marginale, quest’ultimo nel momento in cui
interrompeva l’eventuale sigillo tra i tessuti molli e l’impianto, trovava un’autostrada dove inserirsi.
Quindi nella combinazione tra una probabile infezione e infiammazione che subito andava in profondità, la presenza
di questi micromovimenti che non rendevano stabile il sistema, faceva sì che purtroppo la maggior parte di questi
impianti con fibroincapsulazione o fibrointegrazione non avessero esito positivo (trovare una lama di Linkow dopo 50
anni o un sovra periosteo dopo 20 anni significa che il pz ha avuto fortuna, non che ha avuto una buona terapia, o meglio ha
avuto una terapia che in quegli anni era considerata accettabile, oggi è da considerare inaccettabile).

Alessandro chiede se quest’impianto (vedi immagine a lato) è una vite di Tramonte, il prof conferma anche se non lo
sa con sicurezza (ci sono colleghi che in presenza di poco osso propongono un sovraperiosteo, il prof non lo
farebbe; colleghi che usano ancora le lame, queste viti, etc. che sono comunque stati adattati ai concetti illustrati
di seguito dal prof).

N.B.: Non è la forma dell’impianto, la morfologia, la macrostruttura dell’impianto che è anch’essa importante (dopo
il prof ci dirà quella che oggettivamente e scientificamente oggi è considerata la cosiddetta macromorfologia
“buona”), il prof non se la sente di dite che questa forma di vite è il problema da un punto di vista di
osteointegrazione, di sigillo marginale; questa vite può avere un problema di stabilità, che è un altro discorso.
Quindi i colleghi di cui parlava prima il prof, hanno mantenuto le morfologie implantari adattandole a quelli che sono
i concetti dell’implantologia moderna, la cosiddetta implantologia osteointegrata, però secondo il prof, una vite del
genere non può svolgere quelle funzioni biologiche che le nostre conoscenze oggi ci dicono che i nostri impianti ci
devono dare.
Altro esempio: negli anni ‘80-90 sono stati usati molto impianti lisci, non a vite, indipendentemente se era un
quadrato, un rettangolo, un cilindro, non ha importanza, ma erano impianti lisci che non si avvitavano nell’osso ma
andavano a pressione o comunque linearmente nell’osso. Li ha usati il prof in quegli anni, perché si pensava fossero
giusti, oggi il prof non metterebbe per nessun motivo un impianto senza filettatura. Per liscio intende con o senza
grezzatura (??non si capisce bene), non una superficie liscia o rugosa, dice di non confonderci.
Sono stati messi degli impianti cilindrici, o ancora degli impianti che erano dei cilindri vuoti, cavi, perché si pensava
che ci fosse una “carota di osso” all’interno. Immaginiamo un cilindro senza filettatura, quindi che va leggermente a
pressione all’interno che però non è pieno, ma è vuoto dentro e quindi si preparava il sito lasciando una “carota” di
osso all’interno e poi sopra ci andava l’impianto. Molto spesso queste “carote” si fratturavano, a volte rimanevano
altre volte non rimanevano, ma il dramma è stato che si sono fratturati centinaia di questi impianti, infatti sono stati
poi ritirati dal commercio perché si è visto che l’impianto deve avere, anche se minima, una sua solidità strutturale.
Quindi un impianto vuoto, cavo è troppo debole, nel senso che in situazioni masticatorie si può fratturare.
Questo per dire che le conoscenze evolvono mettendo in crisi, in dubbio le cose che sono state fatte, ma calandole sempre nel
momento in cui sono state fatte (un impianto cilindrico cavo fatto negli anni ’90 è accettabile, non lo è oggi).

In quegli anni quello che si cercava di fare erano quindi gli impianti endossei che solo successivamente sono stati
chiamati con fibroincapsulazione o fibrointegrazione perché l’implantologia moderna si basa su questi concetti che
sono stati introdotti per la prima volta da questa pubblicazione fondamentale del 1977, fermo restando che già
qualche anno prima, nel ‘69-70 c’era stato un primo report che riportava un protocollo per posizionare gli impianti
dentari, ma la serietà vuole che per avere un certo dato significativo, una certa terapia deve essere testata per 10
anni. Nel ‘77 quando la maggior parte degli implantologi parlavano e straparlavano
di questi impianti riportati nell’immagine, tant’è vero che le persone più coscienti
dicevano che “l’implantologia dentaria purtroppo non funziona”. C’era una grossa
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diatriba tra quelli favorevoli a questa implantologia e un grande numero di odontoiatri che ragionando logicamente,
clinicamente e biologicamente, ritenevano che magari qualche volta poteva andare bene ma sostenevano che in
generale l’implantologia dentaria non funzionasse (non a caso in passato si facevano i reimpianti dentari, le
trasposizioni di germe, si facevano terapie assurde perché quando si perdeva un dente purtroppo l’alternativa era
quella di fare una protesi rimovibile (che non piaceva a nessuno) o fissa andando a mutilare due elementi dentari
adiacenti).
Il prof ci tiene a sottolineare che non è che tutto il mondo è implantologia! Non è che i ponti o la protesi tradizionale o la
dentiera non si facciano più, la dentiera si fa e si continua a fare, perché a volte è necessaria la dentiera, il pz non vuole fare
l’implantologia o non può perché l’implantologia ha anche una terapia di implanto-protesi che ha un impegno diverso, ma si
continuano a fare anche i ponti. Quindi non è che ci sono gli impianti e la protesi fissa non si fa più; se il prof dovesse perdere un
dente, starebbe a riflettere se fare un impianto o un ponte perché a volte è più giusto fare un impianto, altre volte un ponte.

Quindi la terapia implantare è una delle soluzioni, è ovvio che ci ha risolto e ci risolve molti problemi, è ovvio che si
ricorre agli impianti molto spesso, forse più spesso rispetto alla protesi fissa, ma questo non significa che le altre
terapie siano state cancellate.
Nel ‘77 il gruppo svedese di Branemark che aveva scoperto un po’ ENDOSSEI CON OSTEOINTEGRAZIONE
casualmente questo meccanismo, di questo titanio che si legava Osseointegrated implants in the treatment
of the edentulous jaw: experience from a
nell’osso e non si riusciva più a staccarlo, fanno questa sperimentazione
10-years period.
su edentuli totali, prendono pz che non avevano più un dente alla
Branemark P., Hansson B., Adell R., Breine
mandibola, fanno un protocollo molto stringato, sia da un punto di vista
U., Lindstrom J., Hallen O., Ohman A.
chirurgico che protesico, che prevedeva 6 impianti messi nella zona Scand. J., Plast Reconstructive Surg., 1977
interforaminale della mandibola, questi si lasciavano 6 mesi nell’osso, e
dopo 6 mesi questi impianti si riaprivano, si facevano dei collegamenti e
si realizzava una protesi sollevata dai tessuti molli (come si può vedere
dall’immagine) che poggiava sui 6 impianti che andavano da premolare
a premolare grossomodo da un punto di vista protesico, da un punto di
vista chirurgico, nella zona sinfisaria, intraforaminale, e portava i quinti
e i sesti in estensione dietro poggiati su questa struttura avvitata.
Questa è la sintesi del protocollo di Branemark.
Con questo protocollo applicato ad un certo numero di pz, loro portavano nel ’77 i dati a 10 anni. Questa è stata una
bomba in campo odontoiatrico perché in un ambito come l’implantologia in cui si discuteva sul fatto che funzionasse
o meno, sono usciti questi signori dicendo “noi abbiamo fatto questo, abbiamo ottenuto questo, durano 10 anni” che
è un tempo importantissimo per validare o meno una terapia. Una terapia protesica in generale deve avere una
probabilità di durata di almeno 10 anni.
Ma che cosa è successo? Sulla base di ciò, siamo partiti con gli edentuli ENDOSSEI CON OSTEOINTEGRAZIONE
totali alla mandibola, siamo passati agli edentuli totali al mascellare, poi Osseointegrated implants in the
a edentulie parziali per arrivare alla mono-edentulia. treatment of the edentulous jaw:
Successivamente alla pubblicazione del ‘77 c’è stata quella dell’ ‘82 con experience from a 10-years period.
Branemark P., Hansson B., Adell R., Breine
i dati a 15 anni: se nel ‘77 le persone più intelligenti avevano “messo in
U., Lindstrom J., Hallen O., Ohman A.
moto il cervello” volendo capire che cosa era stato fatto per ottenere a
Scand. J., Plast Reconstructive Surg., 1977
10 anni un successo oggettivo, ma pochi se n’erano accorti, ancor di più
con i dati a 15 anni nell’ ‘82, dati estremamente favorevoli, perché i dati
erano circa il 90% di successo per gli impianti alla mandibola, circa l’80%
per gli impianti al mascellare superiore, ma erano numeri elevatissimi. I
successi in medicina non sono del 100%, noi vorremmo e ci auguriamo
di avere sempre il 100% ma questo realisticamente non esiste perché la
biologia non è una scienza esatta.
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Quando mettiamo una nostra soglia su una terapia che sia in un certo senso affidabile? Quando andiamo almeno
all’80%, cioè dall’80% a salire una terapia è considerata una terapia di successo, quel 20% è un 20% di variabilità
biologica che noi vorremmo sempre cancellare e
arrivare al 99,9% ma realisticamente è così.
ELEMENTI BASE PER L’OSTEOINTEGRAZIONE
Che cosa avevano codificato gli amici di Göteborg • Materiali altamente biocompatibili
(città svedese)? Quali erano gli elementi di un • Forma e superficie specifica dell’impianto
protocollo? • Stato del sito e procedura chirurgica controllata
(Fu spiegato molto bene in una di queste pubblicazioni • Adattamento preciso tra impianto ed osso
dell’ ‘81, quindi è sempre quel periodo anche se era • Stabilità primaria dell’impianto durante la guarigione ossea
iniziata negli anni ‘60 perciò si parla di 50 anni perché la • Assenza di carico protesico durante la guarigione ossea
sperimentazione era iniziata nel ‘66-67).

Gli elementi da cui non si poteva prescindere secondo questi studiosi sono:
1. materiale altamente biocompatibile; non dobbiamo pensare che le viti di Tramonte, le gabbie, le lame, etc.,
erano tutte in titanio, c’erano anche impianti fatti di leghe metalliche; secondo loro bisognava scegliere un
materiale, il materiale più biocompatibile è il titanio? Allora gli impianti devono essere fatti in titanio, tra
l’altro titanio di grado 4, sapete che il titanio fa una gradazione in gradi, perché il titanio 100% non esiste, è
pur sempre una lega di titanio, un po’ come l’oro ma i gradi del titanio indicano la maggiore purezza, la
maggiore % di titanio.
2. Dobbiamo dare all’impianto la forma che noi pensiamo essere quella più utile; secondo loro la forma più
utile era una vite, non una vite da osso (se facciamo l’esempio con il ferramenta, esistono le viti da osso e le
viti da metallo, quelle da osso hanno un passo più ampio, quelle da metallo hanno un passo più stretto), la
scelta fu per delle viti cilindriche non coniche con un passo molto vicino a quello della vite da metallo.
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IMPLANTOLOGIA LEZIONE 2 parte II DEL 26/03/18 prof. RAMAGLIA

3) Dobbiamo mettere l’impianto in un sito che sia, da un punto di vista osseo, sano e guaribile; e
la procedura chirurgica deve essere di tipo ortopedico, cioè una procedura che sia in grado di
essere controllata
4) Dobbiamo cercare di rendere quanto più congruenti lo spazio tra l’impianto e l’osso
5) Punto fondamentale, stabilità primaria, cioè l’impianto deve stare fermo nell’osso e lasciato
per un tempo tale da poter guarire, e perciò in questo periodo di guarigione vi doveva essere
l’assenza di carico protesico.
QUESTE SONO LE BASE DEL PROTOCOLLO DI UN TIZIO DI CUI NON CAPISCO IL NOME
N.B dal 77’ all’81’ in poi è cambiato tanto, non solo abbiamo incorporato quanto più possibile
l’implantologia, ma abbiamo anche capito tante cose in più sia sui tessuti molli ma anche su molti
di questi punti (prima elencati), e abbiamo capito che alcuni punti sono imprescindibili altri invece
sono stati completamente modificati.
Su che cosa ruotava tutto il sapere? Sulla definizione dell’osteointegrazione, che era alla base del
protocollo.

DEFINIZIONE: contatto diretto strutturale e funzionale tra osso vitale (quindi presenza di cellule
vive) e superficie implantare a livello di microscopia ottica, cioè un impianto si considera
osteointegrato se io per ipotesi prendo quell’impianto insieme all’osso, gli faccio una sezione e
vedo al microscopio ottico un contatto diretto tra le due superfici eterogenee (osseo e impianto)
senza quindi soluzione di continuità.
Branemarck aveva ipotizzato il concetto di osteointegrazione già nel 68’ affermando che l’osso
poteva guarire in presenza di titanio formando un rapporto con lo stesso, sulla base di ciò sono
stati effettuati una serie di esperimenti e suti allo scopo di capire come poter ottenere una
guarigione simile, fina ad elaborare un vero e proprio protocollo alla cui base vi è la definizione di
osteointegrazione precedentemente enunciata.
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Questo concetto biologico di ostiointegrazione, ampiamente supportato da evidenze scientifiche,


ha rivoluzionato completamente l’odontoiatria moderna.
In svizzera, negli stessi anni un gruppo di biologi e ricercatori, a loro insaputa, arrivarono ad
ottenere risultati simili definendo questo tipo di contatto tra il titanio e l’osso vivo come
ANCHILOSI FUNZIONALE, che rende ancor meglio l’idea perché l’impianto è proprio un’anchilosi
funzionale perché ovviamente non ha il legamento parodontale ma assolve alle stesse funzioni di
un dente naturale.

Il termine anchilosi funzionale è stato coniato successivamente e per questo non ha avuto lo
stesso successo del termine osteointegrazione, ciò nonostante rende meglio l’idea del rapporto
che si genera tra osso e titanio, ecco perchè oggi parliamo di implantologia osteointegrata.
Il prof batte sul discorso della microscopia ottica perché se noi andiamo a livello della microscopia
elettronica si vede che in realtà non è l’osteocita che è a contatto con l’impianto, ma è la matrice
ossea (ricordate che l’osso è un tessuto connettivo mineralizzato, cioè fatto da cellule e una
matrice intercellulare all’interno della quale sono depositate idrossiapatite che permettono il
legame col titanio visto al microscopio elettronico), quindi osservando attentamente osserviamo
che i proteoglicani, componenti della matrice, si interpongono tra osso mineralizzato e gli ossidi
superficiali del titanio.
Quindi si evince un altro concetto importante ovvero che non è il titanio che si interfaccia con i
nostri tessuti biologici, ma e l’ossido del titanio, perché il titanio a contatto con l’aria prende
l’ossigeno e diventa ossido di titanio.

RICAPITOLANDO: Quindi da un punto di vista strettamente biologico, possiamo dire che a livello
ottico abbiamo un’interfaccia diretta tra osso e impianto, da un punto di vista elettronico
l’interfaccia avviene tra gli ossidi di titanio che sono in superficie sull’impianto e la matrice
extracellulare dell’osso (fatta di proteoglicani, fibre collagene, ecc…).
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Adesso cerchiamo di capire quali sono le affinità che possiamo sottolineare tra un dente ed un
impianto, e quali sono invece le divergenze che possono creare problemi, e vediamo poi quali
sono questi problemi.

Per fare ciò dobbiamo ragionare come se avessimo due compartimenti:


1. Uno è rappresentato dal rapporto tra l’impianto e i tessuti molli
2. L’altro è rappresentato dal rapporto tra l’impianto e l’osso

(Adesso spiega l’anatomia dento-parodontale sottolineando i rapporti tra il dente e i tessuti molli,
invitandoci a rivederla perché è importante: parte da una sezione di un dente e dice che abbiamo
osso alveolare che è leggermente distante dalla giunzione amelo-cementizia, abbiamo il margine
gengivale, poi il solco che può essere di varia grandezza, il solco è rivestito da un lato dallo smalto
della corona, e dall’altro dall’epitelio sulculare, il solco a una certa profondità che noi
consideriamo di salute parodontale (fino a 3 mm, oltre è patologico), poi da epitelio sulculare
diventa epitelio giunzionale, quindi con gli emodesmosomi questo epitelio si lega allo smalto del
dente fino alla giunzione amelo-cementizia. Sotto tale giunzione non c’è più lo smalto ma c’è il
cemento radicolare che si interfaccia con il connettivo del margine gengivale detto connettivo
sovracrestale, dove le fibre collagene di questo connettivo si vanno ad inserire dentro al cemento
e queste fibre formano 4 fasci di fibre (poi rettifica dicendo 3+1):
• DENTO-GENGIVALI: quelle che s’inseriscono nel cemento e vanno verso la gengiva
• DENTO-ALVEOLARI: quelle che vanno dal cemento verso l’osso
• TRANSETTALI: quelle che dal cemento di un elemento dentale vanno al cemento
dell’elemento dentale adiacente
• Quelle che non s’inseriscono ma fanno parte della struttura del connettivo, e che hanno un
andamento circolare detto anche legamento circolare di KOELLIKER

Il vero attacco dento-parodontale è quello che avviene tra la radice del dente e l’osso alveolare
con l’interposizione del legamento parodontale.
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Ovviamente l’osteointegrazione, da un punto di vista biologico, è un buon compromesso ma non è


il gold standard perché manca il legamento parodontale, ma è comunque una condizione che
resiste al carico masticatorio e dura nel tempo.
Valutando invece il rapporto tra l’impianto e i tessuti molli, il discorso cambia, perché da un lato
abbiamo che a livello epiteliale la situazione è simile tra dente e struttura implanto-protesica,
mentre a livello connettivale è completamente diversa.

VEDIAMO IL RAPPORTO TRA IMPIANTO E TESSUTI MOLLI


Anche nell’impianto, come nel dente, si forma un solco detto solco perimplantare e non più solco
gengivale, quindi abbiamo anche qui un margine che non si chiamerà più margine gengivale
(perchè la gengiva fa parte del parodonto ed è presente solo in funzione del dente), quindi in
assenza di dente si chiamerà mucosa perimplantare. Quindi abbiamo il margine della mucosa
perimplantare che è uguale al margine gengivale del dente, abbiamo un solco perimplantare che
da un lato avrà il titanio del moncone protesico (e non più lo smalto della corona), e dall’altro avrà
l’epitelio sulculare.
L’epitelio, nonostante il titanio non sia un tessuto organico, si attacca lega egualmente al titanio e
forma un attacco epiteliale come per il dente (fin qua tutto simile).
Il problema nasce, però, nella componente connettivale, cioè il grosso problema del rapporto tra
l’impianto e i tessuti molli peimplantari a livello sovraosseo nasce lì dove, nell’elemento dentario
abbiamo l’attacco connettivale della gengiva, cosa che nell’impianto non avviene perché mentre
l’epitelio si attacca con gli emidesmosomi, il connettivo per attaccarsi ha bisogno che le fibre
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collagene si inseriscano dentro un qualcosa, e ciò a livello del titanio non è possibile quindi non c’è
attacco connettivale, e per questo motivo avremo delle fibre collagene (del connettivo) che si
organizzano parallelamente o circonferenzialmente alla parte sovraossea dell’impianto,
realizzando una specie di manicotto di tessuto sano intorno ad un materiale inorganico quale
titanio, quindi abbiamo fondamentalmente un tessuto cicatriziale (ovvero una integrazione di
tessuto connettivale intorno all’impianto).
Non c’è da meravigliarsi per la formazione di questo tessuto cicatriziale perché sia a livello osseo
che a livello dei tessuti molli abbiamo creato una ferita chirurgica, abbiamo inserito una
componente inorganica sull’osso e poi abbiamo riposizionato tutto al proprio posto permettendo
la cicatrizzazione dei tessuti molli e l’osteointegrazione dell’osso con l’impianto.
Quindi possiamo dire che tutto il tessuto perimplantare è un tessuto cicatriziale di una ferita
chirurgica, che è una cosa positiva.

E’ bene ricordare che la guarigione intorno all’impianto, sebbene ottimale, è pur sempre un punto
di debolezza perchè il sigillo che si viene a creare è meno efficace di quello che si realizza
normalmente intorno ad un elemento dentario naturale.

Difatti entrambi i sigilli sono suscettibili ad insulti batterici, ma il sigillo tra il tessuto molle e il
dente risponde meglio all’attacco batterico rispetto al sigillo formatosi tra tessuto molle e
impianto, in quanto essendo un tessuto cicatriziale (tessuto intorno all’impianto) è caratterizzato
sicuramente da una fibrosi maggiore rispetto al connettivo intorno al dente, che può essere un
aspetto positivo da un lato perché è più consistente, ma dall’altro no perché essendo povero di
cellule non è un tessuto adeso, ma il grosso problema è la carenza di vascolarizzazione come tutti
i tessuti cicatriziali, e per questo motivo si difende meno bene.

Quindi a livello del tessuto marginale noi abbiamo similitudini per quanto riguarda l’organizzazione
anatomica in quanto abbiamo una mucosa di rivestimento che simile alla gengiva (mucosa
perimplantere), un solco perimplantere, attacco epiteliale sull’impianto che sembra vada meglio
con il titanio a superficie liscia, e invece con un’organizzazione del connettivo sovracrestale del
tutto diversa da quella fisiologica in quanto appare come un manicotto di tessuto cicatriziale
intorno alla parte sovraossea dell’impianto.

Ragazzi adesso il prof da delle nozioni confuse sulla vascolarizzazione dentale, quindi andatevela
a rivedere da parodonto. Ricordatevi sempre che l’arteria sovraperiostea è presente anche
nell’impianto mentre è completamente assente il plesso di arterie del legamento parodontale
perché il legamento parodontale non è presente.
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IMPLANTOLOGIA RAMAGLIA 10 APRILE 2018 DDP

La volta scorsa abbiamo fatto una disamina sui rapporti tra i tessuti parodontali in generale , tra dente e
tessuti epiteliale e connettivale(dente inteso come corona/radice) ed impianto inteso nella sua interezza in
rapporto con il tessuto osseo innanzitutto (osteintegrazione) e i tessuti molli. Nel dente noi siamo soliti
parlare, quando parliamo di parodonto, di due compartimenti: parodonto superficiale (che
fondamentalmente interessa la gengiva), parodonto profondo (che interessa la parte ossea con il
legamento parodontale). Per gli impianti abbiamo più o meno la stessa impostazione però aggiungiamo
(come vedremo) un terzo compartimento rappresentato dalla giunzione tra la parte endossea e la parte
extraossea; volendo semplificare, tra la vite endossea (impianto in senso stretto) ed il moncone, cosa che
nell’elemento dentario non esiste, il dente è tutt’uno, radice e corona che si continuano l’uno nell’altro
senza soluzione di continuità, perché la struttura portante del dente, che è la dentina, è sempre la stessa,
cambiano i tessuti di rivestimento (cemento a livello della radice, smalto a livello della corona). L’impianto
invece, per definizione, ha due componenti, una che è la componente di ancoraggio nell’osso e una invece
che è la componente di ancoraggio dell’elemento protesico. Quindi nell’impianto vedremo che
identifichiamo un compartimento cosiddetto ‘’intermedio’’, tra il compartimento profondo ed il
compartimento superficiale. Sul compartimento profondo oggi non ci soffermiamo perché ne abbiamo un
po' parlato nella lezione precedente, ricordiamoci che l’osteointegrazione è l’immagine che vediamo a dx.

Notiamo osteociti, in giallo è l’osso, in nero le spire dell’impianto.


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Cioè l’osteointegrazione è il contatto diretto, a livello di microscopia ottica, tra l’impianto funzionale e il
tessuto osseo vitale. Nell’immagine a sx vediamo invece il dente, con il legamento parodontale che si
inserisce nella radice con le fibre orientate.

Se invece andiamo, come accennato l’altra volta, a livello di microscopia elettronica e non ottica, si vede
che non sono le cellule in contatto con l’impianto, ma è la matrice ossea (matrice extracellulare, qui
ialinizzata) che è a contatto con l’impianto, ed il titanio è sempre un ossido di titanio.

Se quindi l’osteointegrazione è un concetto istologico alla microscopia ottica, qual è il principio chimico-
fisico con cui l’osso ‘’si lega’’ all’impianto, tanto che lo possiamo prendere a martellate e l’impianto non se
ne viene? A livello biochimico e fisico-chimico ci sono legami ionici, forze di Van der Walls, e soprattutto
un’interazione biochimica tra i proteoglicani (importanti proteine della matrice ossea extracellulare) e
l’ossido di titanio, ipotizzando addirittura un legame chimico a livello di queste componenti

INTERFACCIA IMPIANTO/TESSUTO OSSEO

- Legame vero titanio-tessuto osseo (osteointegrazione) con mancanza di legamento parodontale


- Legami di Van der Walls, ionici e ad idrogeno tra strato di proteoglicani ed impianto

Quindi, dal punto di vista dell’interazione tra la superficie implantare e l’osso abbiamo delle oggettive, forti
e solide interazioni sia a livello di microscopia elettronica, a livello biochimico, e a livello istologico, tant’è
vero che un impianto, una volta che si è osteointegrato, pur non avendo il legamento parodontale (che è la
struttura che rende funzionale un elemento dentario), va avvicinandosi ad un elemento anchilotico, come
quest’ultimo è in grado di resistere ai carichi masticatori, altrettanto l’impianto fa questo tipo di
interazione.

Cosa significa questo? Che si è sviluppata, sulla base dell'interfaccia osso-impianto, tutta un'enorme linea di
ricerca scientifica che ha un pò caratterizzato la ricerca implantare negli ultimi 20 anni, diciamo dagli anni
'90 in poi, perchè nel momento in cui si è capito ancor di più l'importanza dell'interrelazione tra la
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superficie dell'impianto e l'osso, è ovvio che la ricerca andasse a cercare di trovare la superficie implantare
ideale, cioè quella che potesse avere un'osteointegrazione più veloce e che durava di più, etc.

Quindi si sono cominciate a studiare tutta una serie di caratteristiche delle superfici implantari che
riguardavano:

a) composizione di superficie (cioè di che materiale, di quali elementi deve essere fatto l'impianto)

b) come deve essere fatto l'impianto, che passo e che forma deve avere la spira, se questa è una cosa
importante o meno (macrotopografia)

c) ricordiamo che gli impianti di Branemark (i famosi iniziali) avevano una superficie ''al tornio'' cioè erano
macchinate e lisce. Aveva senso mantenere delle superfici lisce o aveva invece più senso parlare di superfici
non lisce, rugose? (microtopografia)

d) in ultimo la parola più importante, energia di superficie, che per molto tempo non ha avuto il rilievo che
meritava. Ciò perchè all'inizio ci si è molto più focalizzati sulla microtopografia (che significa superficie liscia
o non liscia, per così dire ''rugosa'') e la composizione (se dovesse essere in titanio commercialmente puro
in lega di titanio, in lega con altri elementi, etc., per cui davvero se ne sono viste e se ne vedono di superfici;
se noi prendiamo un catalogo possiamo vedere che la stessa azienda implantare ha 3-4 superifici diverse
nell'ambito della stessa tipologia di impianto, se prendiamo 20 aziende implantari, hanno 20 superifici
diverse, e ognuna dice di avere la superficie migliore rispetto alle altre. Quindi, abbiamo imparato molto,
ma sicuramente la parola fine non ce l'abbiamo).

Una cosa che è chiara, anche se oggi abbiamo avuto un ritorno, è che le superfici lisce le abbiamo
abbandonate preferendo delle superfici ''rugose'', ma non è un termine giusto, si dice piuttosto superfici
trattate, cioè...come si fa un impianto? Si fa con delle macchine del tutto simili a quelle utilizzate per fare le
viti del ferramenta, cioè il procedimento industriale è lo stesso, è un tornio che riduce, poi fa la filettatura o
altro, è tutto un processo meccanizzato, l'unica cosa è che la vite del ferramenta è in ferro o altro
materiale, mentre invece per gli impianti si hanno delle bacchette di titanio. Il tornio tende a fare delle
superfici lisce, che tuttavia non sono mai perfettamente lisce, infatti il termine tecnico è superficie
''macchinata'', cioè quello che esce dalla produzione industriale dalla macchina, e che ad occhio nudo
sembra liscia. Poi si è aperto tutto il mondo delle superfici ''trattate'', che è un termine più giusto rispetto a
''rugoso''. E' ovvio che l'effetto di un trattamento è rendere una superficie che nascerebbe liscia non liscia,
ed il contrario di liscio è rugoso, ma non è giusto parlare di ''rugoso'', è meglio parlare di superfici trattate
ed esistono, come vedremo, molti diversi modi per trattare una superficie.
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PRINCIPIO BIOLOGICO

- Osso si integra al titano


- Osso di integra meglio al titanio
ruvido ch liscio

Per quanto riguarda l'energia di superficie (al di là della composizione, del fatto ''macchinato o trattato'', a
vite o cilindrico e cioè la macrotopografia), essa è fondamentale, infatti l'impianto con quale elemento
biologico entra in contatto? Quando facciamo l'osteotomia (buco nell'osso...), a livello osseo abbiamo
sanguinamento, quindi quando inseriamo l'impianto sappiamo già che se è in titanio, non è in titanio, ma è
ossido di titanio, cioè quello che andrà ad interagire biochimicamente è l'ossido di titanio, il quale non
interagisce con osteocisti, osteoblasti o con gli osteoclasti, ma l'impianto interagisce inizialmente con il
sangue. Ottimo, perchè dal sangue vengono tutti i tessuti nelle fasi di guarigione, però questo sangue deve
diventare coagulo per poter svolgere la sua azione.

Il coagulo è composto dalla fibrina, e la cosa più importante per il coagulo è la stabilità, quindi la cosa più
importante è che il coagulo ''microscopico'' (perchè più è congruente l'interfaccia tra osteotomia ed
impianto, più piccolo è lo spazio del coagulo, quindi piccolo spazio ci aiuta nella stabilità)… ma cosa è
importante nella stabilità del coagulo? Che la fibrina, che è l’impalcatura del coagulo, si attacchi sulla
superficie implantare e si attacca meglio su una superficie rugosa piuttosto che su di una superficie liscia, e
ciò sarebbe già la spiegazione più semplice per rapportare a favore dell’argomentazione della superficie
rugosa. Se quella superficie rugosa ha determinate caratteristiche per cui la fibrina interagisce ancora
meglio, è sicuramente un fatto positivo. Se quella superficie rugosa attraverso i trattamenti, da un punto di
vista biochimico, interagisce meglio, qual è una delle proteine importanti? Fibronectina, tenascina, cioè
tutte proteine che si trovano normalmente nel sangue e che rappresentano per così dire la prima
strutturazione del tessuto di granulazione, al prof sembra dignitoso (raga sto periodo è un po' così….ho
riportato alla lettera).

Quindi, l’energia di superficie è detta anche tensione superficiale, e ci interessa perché tra le varie cose che
influenza, influenza la bagnabilità, ciò cosa significa? Che se prendiamo una goccia e la mettiamo su di un
tavolo su cui l’energia di superficie è elevata, la goccia rimane goccia, se invece è bassa la goccia si distende.
Quindi se è come abbiamo detto essere importante il contatto tra superficie e sangue ab inizio, è meglio
una superficie che abbia un’elevata bagnabilità (il prof ci dice tutto ciò perché vuole che noi capiamo cosa ci
viene proposto guardando una brochure, ascoltiamo una conferenza o dobbiamo convincere di
un’argomentazione, se queste cose non le sappiamo non ne capiamo niente). La bagnabilità è importante
perché più sangue rimane adeso per la bagnabilità della superficie implantare più il coagulo è stabile, tant’è
vero che un’azienda implantare molto importante cosa ha pensato per cercare di tenere protette le
superfici? Addirittura di metterle in un liquido per impedire che vi possa essere una contaminazione da
parte dell’ossigeno ambientale, perché una superficie in ossido di titanio senza contaminazione è più
bagnabile. Quindi ci sono tutta una serie di elementi razionali dietro ad alcune scelte, più la superficie è
bagnabile migliore ci si può aspettare che sia la performance biologica.
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(è una vecchia immagine, oggi non ci sarebbe soluzione di continuità con questa immagine a livello delle 4
cose che abbiamo detto e cioè microtopografia, macrotopografia, energia di superficie e composizione di
superficie).

Il primo impianto da sx è un impianto in titanio macchinato ed è il riferimento, quando si parla di


implantologia osteointegrata si parla di questo. Questo è l’unico impianto che ha i famosi risultati fino a 15-
20 anni, tutti gli altri si sono appropriati di quello che ha fatto questo, con una certa proprietà transitiva e
logica, ma hanno questo. Nel tempo poi si è provato a dire che forse le viti non vanno bene, e possiamo
infatti vedere il secondo impianto da sx che non è filettato, è a cilindro e va a pressione, inoltre a ciò si era
pensato di metterci attorno l’idrossiapatite artificiale in quanto l’osso è fatto di idrossiapatite pensando in
tal modo di avere un’osteointegrazione fantastica, in realtà questi impianti sono andati malissimo.

Quindi, dall’iniziale impianto a vite su cui si è costruita tutta l’importanza e la sovranità


dell’osteointegrazione dell’implantologia moderna, poi sono state fatte una serie di variazioni, la prima
delle quali è stata anziché avere una vite, avere un cilindro perché quest’ultimo determina una procedura
chirurgica più veloce perché ovviamente è a pressione e quindi vi sono meno passaggi chirurgici. In secondo
luogo, gli impianti cilindrici erano sia in titanio ma soprattutto, l’idea inziale era quella di aggiungere
dell’idrossiapatite. Questi impianti sono stati presi e buttati. Questi impianti in ogni caso sono stati messi
nelle bocche dei pz, ma non da quelli non bravi, da quelli bravissimi! Ciò perché nel percorso
dell’evoluzione delle conoscenze ci sono anche dei momenti in cui quello che facciamo è sbagliato,
abbiamo capito che era sbagliato e l’abbiamo abbandonato. Era sbagliato perché purtroppo le superfici per
addizione….come possiamo vedere dalla slide distinguiamo superfici macchinate (lisce) e trattate (o
rugose), ma possono essere trattate per addizione o per sottrazione, oggi siamo anche alle stampanti 3D (la
macchina di cui abbiamo parlato prima funziona come una stampante 3D, si parte dalla bacchetta in titanio
e c’è un robot che la rende impianto, quindi non è tanto questo) e alla sinterizzazione (polvere che viene
agitata e con apparecchiatura laser diviene un tutt’uno). La rugosità dunque la possiamo ottenere per
addizione, cioè aggiungendo qualcosa sopra, dunque partendo da un impianto a prescindere che sia
filettato o liscio, ci andiamo a mettere qualcosa su questa base. Cosa ci si è messo sopra? Il terzo impianto
da sx è un impianto con una superficie trattata per addizione con un rivestimento che si chiama titanio
plasma spray, cioè il titanio viene fuso e con un’apparecchiatura viene spruzzato sull’impianto, quindi ha
una base in titanio e si spruzza del titanio al di sopra (come se fosse uno spray) e si lega alla superficie
sottostante. Il secondo impianto da sx invece ha un altro rivestimento che è idrossiapatite. Perché
entrambe queste due ultime tipologie sono andate male? Per 2 ragioni completamente diverse. I secondi
da sx per lo stesso procedimento dell’addizione, perché idrossiapatite e titanio non si legano tra di loro, per
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cui nel tempo, nell’ambito dei tessuti biologici avveniva un distacco dell’idrossiapatite dal titanio e si aveva
così una reazione da corpo estraneo ovviamente perché l’organismo si difende, quindi c’era un reazione
attorno a questi impianti. Il secondo problema è che se il sigillo mucoso attorno a questi impianti non
reggeva bene ma c’era la formazione di un processo infiammatorio biologico, una mucosite o peggio ancora
una perimplantite, quando questo processo arrivava a livello dell’idrossiapatite era uno scatafascio, perché
trovava un materiale estremamente poroso di ampia colonizzazione batterica in cui i processi di distacco
aumentavano sempre di più, sono gli impianti che quando andavano incontro a perimplantite, nell’arco di
un tempo relativamente breve divenivano completamente non più osteointegrati. Il rivestimento in tps
(titanio plasma spray; rugosità per addizione) invece si è visto nel tempo che non erano le superfici migliori
perché erano troppo rugose; il problema della rugosità è di trovare il giusto grado di rugosità per interagire
meglio con le cellule e con la fibrina del coaugulo.

Poi ad un certo punto sono nate le superfici miste, un po' trattate ed un po' non trattate (terzo impianto da
dx) perché si vedeva che la rugosità/trattamento… in questo caso l’impianto è invece trattato per
sottrazione, cioè da una struttura liscia, l’impianto viene immerso in un liquido, un acido generalmente, e
quest’acido usura una parte della superficie e questa da liscia diventa rugosa; un’altra possibilità invece è la
sabbiatura, cioè non viene messo del materiale sopra, ma la sabbiatura con polveri molto sottili rende la
superficie da liscia in rugosa. Ovviamente poi le superfici vengono pulite, decontaminate, sterilizzate e così
via. Quindi come vediamo, ce ne è per tutti i tipi, oggi siamo arrivati anche alla sinterizzazione. Il secondo
impianto da dx presenta una superficie, che secondo un’azienda molto importante, prevede una superficie
mordenzata immersa in un liquido che la protegge dalla contaminazione ambientale.

Un’ulteriore evoluzione sono oggi le superfici, non da un punto di vista della microtopografia ma di
composizione, sappiamo che non solo si sono sperimentate oltre gli impianti in titanio puro, di vario grado
(grado 4, grado 5), ma anche delle leghe con il vanadio (min.28.09 non si capisce), ma la ricerca più recente
sta sperimentando dopo un fallimento, degli impianti in zirconia. Come sono state fatte delle strutture
protesiche a base di zirconia, che oggi sono entrate nella normalità della pratica clinica sostituendo le leghe
metalliche; un tempo le corone protesiche e anche le strutture più ampie, si facevano con le leghe
metalliche, generalmente leghe con oro; poi oggi abbiamo le leghe non a base di oro, sia preziose che non
preziose, ma il materiale metal-free più resistente è la zirconia, ma la zirconia da un punto di vista chimico è
un metallo, non è una ceramica come ad es. il disilicato, che fa parte dei materiali vetrosi; visto allora che la
zirconia è un metallo si è pensato di farci anche gli impianti perché così abbiamo non più il metallo ma dal
punto di vista estetico di trasparenza e translucenza, quando è molto superficiale, diventa migliore.

Non è stata una grande esperienza, la ricerca non è stata completamente abbandonata ma ha poco
interesse, mentre invece è stata fatta una lega titanio-zirconio che rende l’impianto molto resistente.
Questo è un vantaggio laddove andiamo a ridurre il diametro degli impianti, più l’impianto diventa piccolo,
più si indebolisce strutturalmente (c’è stata infatti un’esperienza negativa fatta da tanti odontoiatri con gli
impianti cilindrici cavi, si pensava che andassero bene mente invece non andavano bene strutturalmente e
si fratturavano).

Min31 greg chiede qualcosa ma non si sente niente

Quindi non c’è dubbio che il titanio e l’osso vanno d’accordo tra di loro e non c’è dubbio che l’osso si trova
meglio a guarire con una superficie rugosa rispetto ad una superficie liscia. Perché negli ultimi anni sono
tornate in voga le superfici lisce? Le superfici rugose sono comparse intorno agli anni ’90 e in tutti gli anni
2000, fino a 4-5 anni fa si parlava solo di superfici rugose perché oggettivamente sia le caratteristiche fisico-
chimica dette prima ma anche i dati oggettivi della ricerca, contavano che c’erano maggiore successo e
durata con impianti con superfice trattata rispetto alla liscia, e che c’era più successo con le viti rispetto ai
cilindri e quindi avevamo dei punti fermi. Che cosa è successo? È emerso in contemporanea il problema
delle complicanze biologiche, cioè le infezioni perimplantari, come esistono gengivite e parodontite, così vi
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sono mucosite e perimplantite. Poiché il problema è grosso, mentre è più semplice trattare gengiviti e
parodontiti, quando ci si interfaccia con mucositi e soprattutto con le perimplantiti sono degli impicci. E se
dobbiamo trattare una perimplantite su una superficie rugosa, il grosso problema è che occorre
decontaminare e quindi eliminare i batteri che si trovano su questa superficie; già ciò è difficile farlo su una
vite, ma con una vite rugosa è quasi impossibile. Allora, nella preoccupazione di poter gestire meglio le
perimplantiti c’è un ritorno verso le superfici lisce, o integralmente lisce o anche un ritorno verso le
superfici ibride (4 impianto da sx) che hanno una parte liscia più in superficie ed una parte rugosa. Il Prof
non è proprio d’accordo al ritorno alle superfici lisce è come dire ‘’l’aribag salva le vite. Ma se il conducente
non ha messo la cintura di sicurezza, scoppia l’airbag, e si frattura il massiccio facciale, allora l’airbag non va
più bene’’. L’acquisizione di una migliore performance delle superfici rugose in termini di guarigione
intraossea non si può discutere finché non uscirà qualcosa di nuovo a confronto; tra una superficie rugosa
ed una liscia, in termini biologici di guarigione intraossea, i dati sono chiari. Allora è giusto che ci si possa
preoccupare di un’eventuale complicanza, ma non è che per questo motivo io debba buttare una migliore
guarigione. Quindi, il tentativo di farci tornare agli impianti completamente lisci per il prof. non va bene,
anche se la perimplantite è diventato un grosso problema come qualcuno vuole fare apparire, la
perimplantite è un grosso problema ma ad avviso del prof è sovrastimata per problemi che nascono dagli
odontoiatri in quanto vengono dalla selezione dei pz da un lato, dalla situazione del sito. Quindi in primo
luogo verificare che il pz sia adatto o non adatto, se il pz ha infatti perso i denti per parodontite, ma
continua a non lavarsi i denti, se noi mettiamo l’impianto non è che questo sia un qualcosa di miracoloso,
questi è semplicemente un supporto, questi si osteointegra in maniera magnifica, il problema non riguarda
l’osteointegrazione se siamo bravi e facciamo un buon intervento, non riguarda la protesi, ma riguarda il
mantenimento di quel sistema biologico; come il pz non è stato in grado di mantenere quel sistema
biologico perfetto (dento-parodontale) è improbabile che possa mantenere il sistema biologico che gli
abbiamo dato noi. Pertanto, se il pz ha una pessima igiene orale che l’ha portato ad avere la parodontite
che gli ha portato a perdere i denti, è anche un soggetto suscettibile quindi, e la suscettibilità ovviamente
ha la sua importanza (ci sono pz che hanno livelli non eccezionali di igiene orale ma non ammalano di
parodontite, e invece pz che hanno una discreta igiene orale e ammalano). Se il pz è suscettibile e gli
mettiamo l’impianto e non ha una buona igiene orale ed una buona manutenzione di quel sistema, un buon
mantenimento, è normale che finirà per avere perimplantite. Ma ciò, è colpa dell’impianto o del pz o del
sito o dell’odontoiatra che ha fatto determinate scelte?

Altra cosa, vogliamo parlare del malposizionamento implantare? Molte complicanze nascono da un
impianto messo male (quanti colleghi il prof sente dire ‘’ io ho cambiato, siccome con la bmw sono andato
a sbattere in faccia al muro, mi sono preso la mercedes così se vado a 200 km/h non vado in faccia al muro’’
e invece ci va lo stesso, non è colpa della bmw se non sai guidare).

Pertanto, la perimplantite esiste ed è un problema, ma soprattutto è un problema trattarla, perché questa


si può prevenire così come si previene la parodontite; è vero che si sono situazioni in cui nonostante il
nostro impegno per prevenirla, insorge lo stesso la perimplantite; se viene una parodontite e si intercetta in
tempo c’è ampio margine per poterla trattare, si hanno invece più problemi con la perimplantite. Allora
forse il prof può tollerare un ritorno verso gli impianti ibridi che magari hanno più senso da un punto di
vista razionale, perché prende quasi tutto il beneficio intraosseo della superficie trattata e si lascia un
piccolo salvagente nella zona più coronale, perché se si dovesse andare a trattare/decontaminare è più
facile farlo su una superficie liscia piuttosto che rugosa; ma il prof. non metterebbe mai questo tipo di
impianti in una persona di 25 anni senza problemi dento-parodontali perché non avrebbe nessun senso. Se
si sta bene da un punto di vista dento-parodontale e si perde un premolare non ha senso usare questo tipo
di impianti; se invece si ha un pz che è suscettibile alla malattia parodontale, ha perso già dei denti e quindi
è già un pochino a rischio, e non è proprio eccellente nelle sue performance di igiene orale, se vogliamo
stare più tranquilli può avere un razionale usare un impianto che abbia questo tipo di caratteristiche
(ibrido), ma il prof di ciò non è neanche così sicuro perché oggi la maggior parte delle superfici presentano
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microtopografie di superficie assolutamente confrontabili in termini di decontaminazione con le superfici


lisce, si è visto che non cambia molto. È ovvio che su una superficie PS che è molto rugosa i batteri trovano
più nicchie ecologiche, ma le superfici cosiddette ‘’moderatamente rugose’’ sono le migliori che riteniamo
oggi essere le più performanti e vanno bene anche nel caso di una decontaminazione; ma se la
preoccupazione per la perimplantite è forte, teniamoci almeno quel salvagente rappresentato da quelle
situazioni ibride.

Quindi, il titanio va bene con la superficie rugosa e quello che ci interessa è che si è visto che le superfici
migliori sono quelle che hanno una rugosità moderata. Che significa moderata? Come si misura la rugosità
di una superficie? Si usano i rugosimetri, che possono essere meccanici o a laser, cioè è una strumentazione
fisica che misura il grado di rugosità di una superficie (anche la scrivania che sembra liscia, se la mettiamo
sotto rugosimetro ha un suo valore di rugosimetria). Allora, si è fatta una gradazione che fino a 0,5 di Sa
(leggi S con a), che è uno dei parametri con cui si valuta la rugosimetria, le superfici sono considerate lisce
(non rugose), da 0,5 fino a 1,5 è moderatamente rugose, dopo 1,5….(non continua); le superfici migliori
sono quelle che hanno rugosità intermedia (0,5 a 1,5).

La topografia superficiale che sembra evidenziare una più favorevole interazione tissutale è
caratterizzata da PITS di rugosità di 1,3-10 micrometri ad elevata densità con valori di rugosità moderata
(Sa ca. 1,4 micrometri; 1-2 micrometri) ed attività biochimica e biofisica. Wannerber et al., 1996, 1998,
2001, 2006. Guizzardi et al., 2004

Tant’è vero che da un punto di vista di definizione, l’osteointegrazione è scivolata da un concetto statico ad
un concetto dinamico, cioè è un legame tra osso e impianto che deve essere in grado di resistere ai cicli
funzionali. Quindi l’osteointegrazione è quel processo biologico/chirurgico che consente di ottenere la
fissazione fisica e funzionamento efficace

OSTEOINTEGRAZIONE

- Processo dinamico influenzato dalla superficie implantare e dal carico occlusale


- Processo che consente di ottenere e mantenere nell’osso una fissazione rigida e clinicamente
asintomatica di un materiale alloplastico sottoposto a carico funzionale
American Academy of Impant Dentistry, Glossary of terms

Che cosa è molto importante oltre all’osteoinegrazione? Il compartimento superficiale, il quale è stato
sempre tenuto in scarsa considerazione, mentre invece è determinante in primis per l’estetica ma anche
per la stabilità della salute nel tempo dell’impianto stesso perché il compartimento superficiale, vale a dire
il rapporto tra i tessuti molli con gli impianti, rappresenta un elemento almeno tanto importante se non
addirittura di più rispetto alla componente dell’osteointegrazione. Quest’ultima è fondamentale, se
l’impianto non si osteointegra dobbiamo soltanto estrarlo, ma se l’impianto si è osteointegrato
quell’osteointegrazione si manterrà nel tempo e quindi avrà una sua logica se vi sono due condizioni:

1. Se i nostri carichi occlusali sono in grado di farla resistere, e questo non è un grosso problema, a
meno che non facciamo degli schemi protesici fuori logica ma degli schemi ricostruttivi protesici
secondo lo standard non è un problema
2. La seconda cosa fondamentale per la stabilità e la durata dell’osteointegrazione, che significa anche
il mantenimento della riabilitazione implanto-protesica, è la stabilità dei tessuti molli
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Per gli impianti, per quanto riguarda i tessuti molli, il punto debole è la parte connettivale che non
determina attacco connettivale, quindi è un sistema molto più delicato. Nonostante questo però i tessuti
molli si dispongono intorno all’impianto e al moncone protesico (intorno a tutta l’unità implanto-protesica)
nello stesso modo in cui si dispongono intorno ai denti, cioè come intorno ai denti c’ è l’ampiezza biologica
analogamente attorno agli impianti c’è l’ampiezza biologica.

DIMENSIONE BIOLOGICA DELL’INTERFACCIA TESSUTI MOLLI/DENTE-IMPIANTO

- Simile tra dente e impianto


- Circa 3 (4) mm : 1mm solco
1 (2) mm attacco epiteliale
1 mm attacco-contatto connettivale
Gargiulo A., 1961 Cochran D.,1997
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Dov’è che cambia? Nei denti siamo più d’accordo a parlare di circa 3 mm anche se sono misure molto
relative, negli impianti abbiamo maggiore incertezza sul solco in quanto il solco perimplantare può avere
profondità diverse perché dipende dallo spessore della mucosa dell’area edentula dove andiamo a
posizionare l’impianto, se in quella zona ci sono 5 mm di mucosa, 5 mm rimarranno. Cioè, se la distanza tra
la cresta ossea e la superficie mucosa è 5 mm, non è che se mettiamo l’impianto cambia. Questo perché il
sistema protesico implantare si organizza dalla cresta ossea a salire e noi sappiamo che dalla cresta ossea,
andando verso la parte superficiale, il connettivo perimplantare che è un connettivo di
guarigione/cicatriziale, non entra perpendicolarmente con le fibre ma si dispone per così dire ‘’a
manicotto’’. Che ampiezza ha questo connettivo? Come tutti i connettivi sovracrestali, cioè 1-1,5 mm. Dopo
tale connettivo inizia il nostro tragitto mucoso il quale ha sul fondo l’epitelio giunzionale (il quale abbiamo
detto si forma anche a livello degli impianti) la cui ampiezza è di 1-1,5mm. Se abbiamo 5mm, 1,5mm se li
prende il connettivo, 1-1,5mm se li prende l’epitelio, il resto sarò solco perimplantare. Se ho 7 mm, 3 mm
se li prende l’ampiezza biologica, il resto è solco perimplantare. Per i denti non è così! Tranne se abbiamo
la situazione patologica di pseudotasca, se abbiamo un’ipertrofia gengivale con una pseudotasca è un altro
discorso, ma in condizioni normali il dente determina il suo parodonto marginale quando erompe, e il
parodonto lo può perdere per malattia parodontale, l’unico caso in cui il parodonto marginale aumenta di
volume è nelle patologie gengivali di questo genere, ma si formerà una pseudotasca, non parliamo di solco
o pseudo-solco.

Epitelio giunzionale implantare

- Simile al dente
- 3-7 strati di cellule
- Strato basale con emidesmosomi in contatto diretto con la membrana basale che riveste anche il
titanio

La membrana basale risulta costituita da:

- Lamina lucida (interna)


- Lamina densa (esterna)

La lamina densa con le fibrille di ancoraggio (fibronectina) si lega allo strato di proteoglicani che
ricopre la superficie del titanio Mc Kinney et al., 1985

Connettivo sopracrestale perimplantare

- Differente dal dente


- Simil-cicatriziale
- Costituito da cellule (fibroblasti) e matrice con proteoglicani e proteine fibrose strutturali e di
adesione
- Le fibre non hanno un orientamento funzionale sul titanio (liscio/rugoso) ma sono parellele e
circolari originando solo dal periostio (mancanza di un vero attacco biologico connettivale)

La matrice extracellulare con le fibrille di ancoraggio (fibronectina) si lega allo strato di proteoglicani
che ricopre la superficie del titanio. Listgarten et al., 1992

Questo per dire che anche queste dimensioni che stanno intorno ai denti si ripetono negli impianti e
ovviamente di ripetono con una disposizione diversa:

- L’epitelio giunzionale, cioè quello che si attacca al colletto del dente, che forma l’attacco epiteliale
e l’attacco dento-parodontale, è uguale anche negli impianti fortunatamente perché l’epitelio è un
grande tessuto, si attacca quasi a tutto
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- Il connettivo sovracrestale è invece diverso, perché come leggiamo nella diapositiva, le


caratteristiche del connettivo sovracrestale perimplantare sono diverse per il semplice motivo che
è un tessuto cicatriziale (ricorda ai fini dell’esame). Il connettivo sovracrestale intorno ai denti è
geneticamente determinato dall’eruzione dentaria e dall’embriogenesi del dente, quello attorno
agli impianti è invece tessuto cicatriziale; inoltre mancando il legamento parodontale e il cemento
radicolare, l’interfaccia non è come nel dente

Qualcuno ha detto che facendo delle sperimentazioni ha visto che alcune superfici con determinate
caratteristiche di rugosità al microscopio mostravano che alcune fibre si erano inserite nel titanio
perpendicolarmente quasi a simulare l’attacco; diciamo che queste evidenze sono rimaste sporadiche e
purtroppo non è così, se questo avviene è del tutto occasionale e casuale, quello che noi ci dobbiamo
aspettare è che l’epitelio sicuramente si lega al titanio formando un attacco epiteliale e il connettivo si
dispone parallelamente o circonferenzialmente a formare un manicotto di tessuto. È un connettivo poco
vascolarizzato ,l’altra volta ripetemmo la vascolarizzazione dei denti, abbiamo una rete di vasi all’interno
del legamento parodontale e anche la rete di vasi interna ai setti ossei interradicolari e interdentali ove
anche lì, a seguito dei processi di guarigione, il vaso tende a ridursi, per cui la vascolarizzazione proviene
solo dai vasi sovraperiostei, quindi è un connettivo poco vascolarizzato ricco in matrice extra-cellulare e
povero di cellule. Ciò da un lato è bene perché come tutte le cicatrici sostiene, da un punto di vista di
sostegno meccanico va bene, da un punto di vista invece di reattività biologica no perché questa è legata
alla vascolarizzazione, quindi l’infiammazione non è una cosa negativa bensì positiva, il rossore, l’edema,
sono dei meccanismi con cui l’organismo si difende e reagisce, e quando questi non ci sono non è una cosa
positiva.

Composizione connettivo sopracrestale

Dente Impianto
Fibroblasti 16% 5%
Collagene 63% 76%
Vasi 7% 3%
Se prendo il dente, c’è più collagene rispetto all’impianto che ha anche molto meno cellule e molto meno
vasi. Questi sono dati chiari ed oggettivi.

Il parodonto proviene da questo processo qua,


l’impianto vede invece un processo di
guarigione, una cicatrice e quindi non replica il
meccanismo originario. Nonostante questo
fortunatamente gli impianti osteointegrati sono
in grado di determinare delle condizioni per cui
il sistema biologico non è sovrapponibile a
quello del dente ma ci si avvicina molto, ma
comunque ha dei punti di debolezza perché
mentre l’elemento dentario nel rapporto con i
suoi tessuti molli è quello che gli ha dato madre
natura quando è erotto nella bocca del
bambino/bambina e così è e così rimane a meno che non vada incontro a processi patologici, i tessuti molli
sviluppati e organizzati attorno all’impianto sono completamente diversi su alcuni aspetti, eppure da un
punto di vista cosiddetto ‘’mimetico’’ o ‘’biomimetico’’ riusciamo a fare delle ottime prestazioni.
Nell’immagine sottostante possiamo notare un dente e due impianti, tra il complesso dento-parodontale e
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l’unità implanto-mucosa ci sono similitudini e differenze.


Formazione del supporto

I tessuti perimplantari si sviluppano come guarigione di una ferita chirurgica

Il tessuto molle perimplantare è un tessuto cicatriziale adattamento della mucosa masticatoria

I tessuti molli, il compartimento superficiale, molti se ne interessano non per tutto quello che ci siamo detti
che è fondamentale e rappresenta la base, ma perché oggi ovviamente la richiesta estetica è salita. Quindi
si è attenti ai tessuti molli anche per la componente estetica che è comunque fondamentale, anche il prof
se dovesse mettere un impianto sul centrale vorrebbe che fosse un sistema implanto-protesico più simile
possibile al dente che c’era prima e sa benissimo che ci sono delle condizioni che possono portare a ciò e
altre invece no, perché?

L’altra volta il prof ci disse che quando è nata l’implantologia osteointegrata negli anni ’70 e soprattutto
’80, diciamo negli ’80 cioè 30 anni fa quando si è sviluppata, pur di non portare una dentiera chiunque
avrebbe accettato una soluzione del genere (prima colonna da sx), oggi ancora facciamo soluzioni così ma
veramente si sono ridotte moltissimo, anche nei pz completamente edentuli cerchiamo di trovare soluzioni
più estetiche, ma siccome c’è stato un grande sviluppo dell’implantologia soprattutto per le edentulie
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parziali e soprattutto nelle monoedentulie che sono le più frequenti rispetto a quelle complete, siamo
passati da un’implantologia solo funzionale (l’importante era mettere qualcosa di fisso nella bocca che
consentisse di masticare) dove la principale preoccupazione ricadeva sugli aspetti chirurgici, soprattutto
quindi creare l’osteointegrazione; poi si è capito che invece i tessuti molli avevano importanza e aveva
importanza la protesi e quindi parliamo di implantologia funzionale-protesica (colonna centrale), vale a
dire che non è che dobbiamo ‘’mettere un chiodo nella bocca di uno’’ ma dobbiamo mettere un dente,
quindi parto dal dente, passo attraverso l’impianto e ritorno al dente, ma in questa implantologia
protesicamente guidata talvolta abbiamo dovuto accettare dei compromessi, nel caso dell’immagine non
c’erano tessuti molli, non sono stati creati chirurgicamente ma sono stati ricreati protesicamente ponendo
della gengiva finta, questa è una cosa che ancora si fa ma in casi sempre più ridotti; oggi invece quello che
dobbiamo fare (considerando che i pz lo richiedono anche se talvolta le richieste fatte sono impossibili)
avendo oggi le conoscenze e le capacità tecniche, è gestire la transizione, lasciando stare se l’abbiamo
gestita contestualmente, da una struttura biologica dento-parodontale ad una struttura artificiale
implanto-protesica (ultima colonna, implantologia estetica e biologica), questi due sistemi hanno molti
elementi di similitudine ma anche degli elementi di distinzione, ma dal punto di vista estetico il prof ritiene
che la soluzione implanto-protesica non sia molto diversa da quella che in origine era una situazione dento-
parodontale prima che quell’elemento dentario fosse stato considerato non recuperabile ed estratto;
lasciamo stare se noi decidiamo di togliere il dente e mettere l’impianto oppure aspettare x mesi dopo
l’estrazione, questo è un altro discorso che fa parte di un’altra logica di ragionamento, ma da un punto di
vista di concetti biologici di osteointegrazione, che riguardano tessuti molli e tessuti duri, oggi abbiamo
passi da gigante perché abbiamo aumentato le nostre conoscenze non solo sul compartimento profondo
osseo, ma anche moltissimo sul compartimento superficiale, se dobbiamo migliorare l’estetica facciamo
innesti connettivali, possiamo usare matrici di materiale alloplastico, veramente abbiamo a disposizione e
possiamo fare tante cose non solo per l’estetica ma anche per la funzione, quindi i tessuti molli sani e ben
organizzati sono anche una garanzia per il mantenimento dell’osteointegrazione.

Altra cosa importante da dire è che (questo poi lo vediamo la prossima volta) questo sistema ha un altro
punto debole rispetto al dente ed è la zona di passaggio tra impianto, o meglio la parte di ancoraggio
endossea (usiamo questo termine) e la parte di ancoraggio protesica; un dente non ha soluzioni di
continuità, è un pezzo, mentre invece qualunque impianto non è un pezzo (lasciamo stare se è ad una o
due fasi, poi la prossima volta parleremo dei dettagli chirurgici), da un punto di vista concettuale tra la
parte endossea dell’impianto e quella extraossea, sono due pezzi che si affrontano tra di loro e quindi c’è
una soluzione di continuità. Questo è importante perché i tessuti non sono molto felici quando ci sono
soluzioni di continuità, quando c’è un’interruzione i tessuti si devono adattare, devono trovare dei
meccanismi di adattamento, ed ecco perché negli impianti noi parliamo anche di un compartimento
intermedio, mentre invece il dente è un’unica unità.
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Lezione 3 – Implantologia – Ramaglia - 17/04/18

La lezione scorsa abbiamo analizzato, dal punto d vista anatomo-patologico, come si organizzano i tessuti
introno ad un impianto. Abbiamo visto che al livello dell’osso vi è l’osteointegrazione, con contatto diretto
tra la superficie dell’impianto e il tessuto osseo. Invece al livello dei tessuti extra-ossei, o per meglio dire
Sovracrestali (quindi al di sopra della cresta ossea), essi si organizzano con le stesse tipologie tissutali dei
tessuti molli dentari. Per i Tessuti Sovracrestali distinguiamo [Figura 1]:

1. Epitelio Sulculare,
2. Epitelio Giunzionale,
3. Connettivo Sopracrestale

I primi due sono uguali tra impianto e dente (quindi vi


è un’analogia tra l’unità dento-gengivale e l’unità
implanto-mucosa). Invece al livello del Connettivo
sopracrestale fra dente e impianto vi sono notevoli
differenze, infatti distinguiamo:

 Attacco dento-gengivale
 Connettivo perimplantare sovracrestale Figura 1

Tra questi due abbiamo delle differenze importanti. Quindi nel tempo diamo sempre più importanza ai
tessuti molli. Infatti si è parlato molto di osteointegrazione, ma troppo poco dei tessuti molli, i quali sono
invece fondamentatili non solo per l’estetica (e sotto questo punto di vista ci sono stati grandissimi passi
avanti nell’implanto-protesi), ma anche funzionale, perché i tessuti molli perimplantari, analogamente ai
tessuti molli dentari, rappresenta il sigillo fondamentale che separa l’ambiente esterno del cavo orale e
l’ambiente interno. Quindi i tessuti molli proteggono l’ambiente interno dai microorganismi che albergano
nel cavo orale, i quali possono accumularsi sia al livello del colletto della gengiva (con conseguente
patologia dento-parodontale), sia al livello della mucosa perimplantare al livello delle strutture protesiche
implantari (e determinare delle patologie biologiche chiamate Mucositi e Perimplantiti). Quindi quanto più
è in salute ed organizzato il tessuto molle perimplantare, tanto più questo sigillo sarà efficace ed efficiente
nel mantenere la stabilità dei tessuto e contrastare eventuali patologie batteriche.

Ora è importante fare un confronto tra dente e impianto, non più solo al livello istologico, ma anche dal
punto di vista clinico [Figura 2].

DENTE IMPIANTO
1) Gengiva libera 1) Mucosa libera
2) Gengiva aderente 2) Mucosa Perimplantare
1 e 2: Masticatoria (Cheratinizzata) non mobile 1 e 2: Masticatoria (non Cheratinizzata) non mobile
3) Linea Muco-gengivale 3) Linea Muco-gengivale
4) Mucosa di rivestimento Alveolare 4) Mucosa di rivestimento Alveolare
4: Non cheratinizzata mobile 4: Non cheratinizzata mobile

Figura 2
31

Quindi intorno al dente vi è la gengive. La gengiva di distingue in:

1. Gengiva libera: la gengiva libera sarebbe la quota di gengiva che circonda il dente e va dal margine
gengivale libero fino al solco gengivale o della tasca. Questa gengiva libera è un tessuto
cheratinizzato, in quanto fa parte della gengiva. La gengiva, come sappiamo, va dal margine
gengivale alla line muco-gengivale, e per definizione è un tessuto cheratinizzato.
2. Gengiva aderente: questa è quella che aderisce al piano osseo sottostante e va dal fondo del solco
o della tasca, fino alla linea muco gengivale. E sappiamo che anche clinicamente c’è una
depressione nel passaggio tra la gengiva libera e la gengiva aderente; questa depressione è data
propri dall’inserimento delle fibre.
 Questa gengiva (libera e aderente) è un tessuto masticatorio, quindi è cheratinizzato. Infatti
tutta la mucosa che sta sotto al palato, che è cheratinizzata, è tutta mucosa masticatoria.
Inoltre non è mobile perché è senza sottomucosa, e quindi non vi sono né stretture muscolari
né strutture di trazione. Infatti il connettivo si collega direttamente con la superficie ossea.
3. Poi vi è la linea Muco-Gengivale.
4. Infine vi è la Mucosa di rivestimento alveolare
 Tale mucosa è un tessuto non cheratinizzato e mobile.

Se invece andiamo a considerare l’impianto, questa organizzazione appena vista non cambia, anche se ci
sono alcune differenze:

1. Non parliamo più di Gengiva libera ma di Mucosa libera, la quale ha la stessa definizione che
abbiamo usato per il dente, ma la mucosa libera per quanto riguarda gli impianti è molto più
variabile nelle sue dimensioni rispetto alla gengiva libera del dente. Questo perché intorno al
dente, in media, abbiamo un‘altezza di gengiva libera che va sempre da 1 ai 3mm; quando si
superano queste dimensioni significa che abbiamo o una tasca o una pseudo-tasca. Invece negli
impianti (dove non parliamo più di gengiva ma di mucosa) la dimensione della mucosa libera è
molto più variabile (anche di 4-5mm); ma questo non significa che sia una variazione patologica,
perché il tessuto molle perimplantare, è vero che è un’organizzazione che si avvicina alla
organizzazione della gengiva del dente, ma deriva pur sempre dalla guarigione di una ferita
chirurgica, quindi dalla formazione di un tessuto cicatriziale. In ogni caso se a seguito
dell’inserimento di un impianto ci fossero stati 10mm di mucosa in quel sito edentulo, i tessuti in
questi 10mm si dovranno organizzare come abbiamo visto: quindi si dovrà aver un certo connettivo
sopracrestale, il quale sarà di 1-2mm; poi ci sarà un parte di epitelio giunzionale, che è
normalmente di 1-1,5mm; e infine tutto il resto è mucosa libera, ma non patrologica. Sarà
patologica solo se si infiamma; dal punto di vista strutturale, anatomico e istologico è
assolutamente normale. Infatti non possiamo definire qual è il solco perimplantare fisiologico come
invece possiamo fare per il solco gengivale.
2. Mucosa perimplantare è analoga alla gengiva aderente, con la differenza non secondaria di essere
una mucosa non cheratinizzata, ma sempre non mobile.
3. La linea muco-gengivale è sempre la stessa
4. La mucosa alveolare anche rimane uguale a quella del dente.

Quindi quello che si apprezza è che sia da un punto di vista istologico, che dal punto di vista anatomo-
clinico, dente e impianto si avvicinano molto fra dio loro; ma con alcune differenze da valutare.
32

Ciò che sta intorno ad un impianto si chiama Tragitto Mucoso, perché questi tessuti determinano il tragitto
attraverso il quale la parte intraossea e sopracrestale dell’impianto va in collegamento con la parte esterna.
Quindi è necessario indentificare una differenza sostanziale con il dente. Perché se con il dente abbiamo la
radice e la corona, ed è quindi una singola unità, con gli impianti si hanno invece due elementi:

1) La parte intraossea (ossia il vero e proprio impianto)


2) E la parte extraossea (il moncone con la relativa corona).

L’impianto non è un’unica unità, ma a differenza del dente identifichiamo diverse parti: non solo un
compartimento intraosseo ed un compartimento dei tessuti molli, ma anche un compartimento intermedio
che ha delle peculiarità specifiche che a breve vedremo.

Ma ora vediamo alcune Caratteristiche dei Tessuti Perimplantari e Dentari.

Questa [Figura 3] è una mucosa cheratinizzata.


Qui vediamo: Dente, Gengiva libera e Gengiva
aderente fino alla linea muco gengiva.
Sappiamo che la gengiva aderente viene
indicata anche a buccia d’arancia, proprio
perché è aderente, e tutte queste depressioni
non sono altro che l’inserzione delle fibre
connettivali che collegano la mucosa al
periostio sottostante. E sappiamo che vi è una
discussione sulla quantità di gengiva
cheratinizzata che deve sere intorno ad un
dente affinché possa essere ritenuto
parodontalmente sano. Quando parliamo di
Figura 3: Mucosa Cheratinizzata e Margine mucoso vestibolare un dente, esso non può non avere al parte di
gengiva libera. Se c’à un dente esiste sempre
anche la gengiva libera. Al massimo può variare la dimensione di tale gengiva libera, ma essa deve in ogni
caso esistere. Invece tutta la gengiva che va dal solco gengivale alla linea muco-gengivale è la mucosa
aderente cheratinizzata. E ciò che è evidente, è che non vi è un dimensione necessaria id gengiva aderente
intorno a un dente affinché quel dente possa essere ritenuto parodontalmente sano. Se la gengiva libera
deve necessariamente esistere, non è lo stesso per la gengiva aderente. In quanto possono esistere denti
assolutamente in salute parodontale che non hanno gengiva aderente. Questo perché non sappiamo
quanta gengiva aderente è da considerarsi necessaria. Non lo sappiamo perché una serie di studi hanno
dimostrato che anche in assenza di gengiva aderente si possono mantenere i denti in salute con il relativo
parodonto sempre in salute. Ma ciò non significa che la gengiva aderente non serva, anzi. La gengiva
aderente serve non perché in sua assenza si determina necessariamente patologia parodontale, ma perché
se presente dà una serie di vantaggi:

 Tiene lontane le trazioni muscolari dal margine gengivale; quindi impedisce che, ogni qual volta ci
sia un movimento della mucosa alveolare, il margine gengivale si muova. E dato che il margine
gengivale è una zona dove in genere si accumulano batteri, è molto più vantaggioso averla ferma e
stabile piuttosto che mobile.
 Durante lo spazzolamento una mucosa cheratinizzata è sicuramente più resistente di una non
cheratinizzata. Infatti tutti i pazienti che non hanno gengiva aderente hanno anche peggiori
condizioni di igiene orale. Questo perché quando ci si spazzola il margine gengivale senza una
mucosa cheratinizzata, si scatena auna sintomatologia dolorosa; in alcuni casi anche con
l’insorgenza di microlesioni superficiali da spazzolamento. Quindi si tende a spazzolare di meno,
favorendo l’accumulo di placca, che determina infiammazione del margine gengivale, la quale
33

infiammazione acuisce la sintomatologia dolorosa durante lo spazzolamento, innescando un circolo


vizioso.

Per evitare di brancolare nel buio, alla luce di alcune ricerche effettuate con alcuni ricercatori svedesi, si è
trovato una definizione per la quale la gengiva aderente non è una conditio sine qua non per la salute
parodontale; ma se si hanno almeno 2mm di gengiva (quindi di mucosa cheratinizzata [sia gengiva libera
che aderente]) il dente di può trovare in una condizione parodontale più sicura. Quindi quando parliamo di
2mm di gengiva, questi 2mm possono essere dati da 1mm di gengiva libera e da 1mm di gengiva aderente.
Insomma, si ritiene che una quantità minima di mucosa cheratinizzata aiuti a prevenire l’insorgenza di
patologie; ma qualora essa manchi e il paziente riesce lo stesso a mantenere una buona igiene orale, non
necessariamente bisogna eseguire un intervento per aumentare la gengiva. Infatti in passato si facevano
molti interventi per incrementare i livelli di gengiva aderente, mentre tutt’oggi il numero di questi
interventi è notevolmente ridotto.

Se questo vale per i denti e ci spostiamo sugli impianti il discorso è analogo. Come è controverso per la
salute dei denti la quantità di gengiva adente, altrettanto lo è per la salute degli impianti. Analogamente ai
denti, è controversa la necessità di una quota di mucosa cheratinizzata non-mobile ai fini della salute dei
tessuti perimplantari. Però si cerca in goni caso di avere una quota anche minima di mucosa cheratinizzata
intorno ad un impianto, perché incrementa molto le probabilità di successo clinico. Infatti la mucosa
cheratinizzata attorno agli impianti è anche più importante che per gli elementi dentari; questo perché:

 La presenza di tessuto cheratinizzato favorisce, come visto prima, l’igiene orale, sia per i denti che
per gli impianti.
 Migliora il manicotto connettivale attorno all’impianto. Per gli impianti questa è una necessità in
più, per via della qualità del connettivo sopracrestale. Perché, mentre il connettivo sopracrestale
nei denti è geneticamente determinato e forma un vero e proprio attacco connettivale, negli
impianti il connettivo sopracrestale è un tessuto connettivo cicatriziale che si organizza in modo
non funzionale; infatti non ci sono fibre collagene che vanno verso il titanio. Di conseguenza si è
visto che la presenza di un tessuto cheratinizzato, che è un tessuto più “strutturato” (solido),
migliora la consistenza di questo manicotto di connettivo che si trova intorno all’impianto, e quindi
migliora anche la sua resistenza.

Allora è chiaro che la presenza di mucosa masticatoria perimplantare condiziona la struttura


dell’integrazione epitelio-connettivale e favorisce l’igiene orale migliorando il successo implantare.

Figura 4

Qui [Figura 4] si vede come, a ridosso di questo impianto, non vi è nessuna traccia di epitelio cheratinizzato.
Se invece fosse stato un dente ci sarebbe sicuramente stato una certa quota di epitelio cheratinizzato.
Questo perché a determinare la cheratinizzazione, e quindi la struttura di un epitelio di superficie di una
mucosa, è la qualità del connettivo sottostante. Infatti quando si vuole ricreare un epitelio cheratinizzato,
posso fare un innesto palatale; tale innesto viene preso dal palato poiché è completamente cheratinizzato.
Viceversa, se invece di prenderlo dal palato lo si prende dalla guancia, non si ha il tessuto cheratinizzato.
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Infatti quello che succede è che, dopo avere inserito l’innesto all’interno del sito ricevente, la porzione
epiteliale superficiale dell’innesto stesso andrà incontro a desquamazione e scompare, facendo rimanere
solo il connettivo dell’innesto. Quindi al livello del sito ricevente attecchirà solo il connettivo, e pian paino ci
sarà una guarigione per seconda intenzione. Verranno poi, durante la guarigione, le cellule epiteliali dai
tessuti limitrofi che hanno l’epitelio; ma ciò che darà l’informazione affinché le cellule si cheratizzino è il
connettivo sottostante. Quello che determina la presenza o meno della cheratinizzazione superficiale è il
connettivo; per questo motivo spesso si fanno gli innesti solo connettivali. Posso sia prendere l’epitelio che
non prenderlo affatto, sono solo scelte cliniche chirurgiche, perché quello che serve dal punto di vista
istologico è il connettivo. Ed è per questo che si preleva proprio il connettivo del palato, perché, in qualsiasi
punto lo si va prelevare, è un connettivo che supporta un tessuto cheratinizzato, per cui avrà le
informazioni necessarie per far cheratinizzare l’epitelio sovrastante. Se invece si prendesse il connettivo
dalla mucosa geniena, non avrebbe al capacità di indurre cheratinizzazione sulla superficie epiteliale.

Quindi nell’immagine di prima [figura 4] non si ha epitelio cheratinizzato perché abbiamo una mucosa
implantare. Se invece ci fosse stato un dente, nella stessa situazione, ci sarebbe stato almeno 1mm di
tessuto cheratinizzato dato dalla gengiva libera; la quale sarà cheratinizzata in quanto ci sarà un connettivo
sottostante che induce cheratinizzazione (connettivo dato dalle fibre del legamento parodontale e dal
connettivo sopracrestale). Ciò che varia è al massimo la quantità di gengiva cheratinizzata, ma in ogni caso
ci sarà almeno 1mm di gengiva libera che per definizione è cheratinizzata (sul versante vestibolare), anche
quando è assente la gengiva aderente. Negli impianti questo non ce lo abbiamo, non ci sarà mucosa
cheratinizzata per via della diversa qualità del connettivo. Può anche esservi, attorno all’impianto, una certa
quota di spazio sondabile, che è appunto il solco perimplantare; ma comunque non ci sarà mucosa
cheratinizzata; perché manca il legamento parodontale e il tessuto sopracrestale dentario.

Nonostante questo, da un punto di vista clinico e anatomo-patologico (anche se la questione è


controversa), anche un impianto può risultare essere in salute in assenza completa di mucosa
cheratinizzata. Ma se crea complicazioni per un dente non avere gengiva aderente (ed è per questo che è
preferibile averne almeno 1mm, che insieme alla gengiva libera darà almeno 2mm di tessuto
cheratinizzato), ciò è ancora più vero per gli impianti. Infatti si cerca di dare sempre e comunque un po’ di
tessuto cheratinizzato attorno agli impianti; il quale tessuto cheratinizzato può essere solo messo
chirurgicamente (o mantenendo la quota già presente o eseguendo un innesto), in quanto intorno
all’impianto non si svilupperà mai in modo autonomo. E ciò è fondamentale per garantire al paziente
l’esecuzione di una buona igiene orale.

Caso Clinico 1

Questo [Figura 5] è un caso


di diversi anni fa. Paziente
completamente edentulo al
mascellare superiore. Come
si vede dalle scansioni
parassiali, la struttura ossea
è abbasta esigua in senso
orizzontale; quindi vi sono
dei diametri trasversali
abbastanza riassorbiti. In
quegli anni si usavano molto
gli Osteotomi, i quali
Figura 5
venivano utilizzati
soprattutto al mascellare superiore; veniva usato poco per la mandibola, dato che è di densità elevata, ma
molto per il mascellare che è un osso più malleabile, con poca corticale e molta midollare. Prima si
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utilizzavano gli Osteotomi, tutt’oggi invece ci sono molti modi differenti per eseguire questa pratica. Quindi
in alcune circostanze non si utilizzavano le frese per fare un osteotomia per creare l’alloggio per
l’inserimento degli impianti, ma si andava ad espandere la struttura ossea dall’interno. Ossia dopo aver
fatto un primo foro d’ingresso, si seguiva l’allargamento dell’osteotomia del sito chirurgico con una
espansione interna, senza usare le frese. Questo perché le frese per eseguire l’osteotomia asportano
tessuto; se invece si inserisce un espansore questo aumenta il diametro spostando le pareti. Inoltre
compatta l’osso, quindi un osso molto spugnoso con una densità 3 o 4, viene compresso e reso più
compatto e solido. Con questa preparazione manuale in questo caso clinico si sono inseriti 8 impianti, 4 per
emiarcata. Si può apprezzare dalle immagini la presenza di una cupoletta sulla superficie, la quale cupoletta
indica proprio l’osso che si è espanso e che accoglie l’impianto nel suo alloggiamento.

Ma la cosa più importante è rappresentata dalla guarigione dopo X mesi di osteointegrazione [Figura 6].

Quindi si sono
preparati i siti con gli
espansori (gli
Osteotomi), sono
stati sommersi gli
impianti affinché gli
impianti si
osteointegrassero. A
questo punto bisogna
dire che quando un
mascellare si
riassorbe, esso si
riassorbe in senso Figura 6
centripeto. Quindi i
tessuti esterni, in questo caso ben rappresentati dalle immagini occlusali e frontali [Figura 6], cambiano la
loro posizione. Guardando il frenulo, molto grande in questo caso, si nota come l’osso si riassorbe sia in
senso verticale che in senso orizzontale, andando sempre più verso osso basale. Quindi questo frenulo si
inserirà quasi in cresta, dato che si è riassorbito quasi tutto l’osso alveolare. Ma inoltre, guardando le
immagini, si potrebbe pensare che la cresta ossea sia al centro del tessuto edentulo. Ma non è cosi; infatti
quando ci sono le
edentulie totali, spesso c’è
una asimmetria tra
l’organizzazione dei tessuti
molli di rivestimento e
quella del tessuto osseo. E
questo si vede bene
proprio dalle immagini,
dove si nota che gli
impianti siano stati messi al
centro della cresta ossea;
ma nella successiva
Figura 7
immagine [Figura 7] si
vedono in trasparenza
(sulla superfice vestibolare della mucosa) la testa degli impianti. Questo perché il tessuto cheratinizzato è
tuto spostato palatalmente; vestibolarmente il tessuto cheratinizzato è completamente assente. Il centro
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della cresta ossea è spostato rispetto ai tessuti molli; questo significa che se si andasse a fare la seconda
fase chirurgica, con l’esposizione di tali impianti nella zona lì dove sono posizionate le teste implantari, si
avrebbero gli impianti completamene in mucosa alveolare, ossia in mucosa non cheratinizzata. E valutando
ciò che abbiamo detto prima (ossia che il tessuto cheratinizzato o lo si inserisce chirurgicamente oppure
l’impianto da solo non ne avrà mai) in questo caso mi devo preoccupare della quantità di gengiva presente
in arcata. Per questo è molto importante, quando si fa una chirurgia implantare in due tempi, valutare con
attenzione l’esecuzione della seconda fase chirurgica; perché quando si fa la seconda fase chirurgica con la
scopertura degli impianti, solo in alcune circostanze la si può fare senza problemi, ossia quando ci si trova in
una situazione anatomicamente favorevole. Ma se la condizione è sfavorevole bisogna essere capaci di
trasformarla in una situazione favorevole. Quindi, in questo caso clinico, l’incisione per scoprire gli impianti
non è stata fatta lì dove sono presenti le teste degli impianti, ma è stata fatta dal lato palatale, prendendo
un po’ di tessuto palatale (che è cheratinizzato) e lo si è spostato vestibolarmente, in modo tale da
garantire vestibolarmente gli impianti in una mucosa cheratinizzata che altrimenti non avrebbero mai
avuto. E queste sono [Figura 7] le viti di guarigione una volta fatta l’esposizione degli impianti e tolto il
frenulo. Si vede come attorno ad ogni impianto c’è una bella quantità di mucosa perimplantare
cheratinizzata, che è quella che noi vogliamo per i motivi detti, e che da sola non ci sarebbe mai stata. Ci sta
perché è stata
fatta una
trasposizione,
durante la fase
chirurgica, di
tessuto palatale
in senso
vestibolare. Un
volta messi i 4
impianti per
emiarcata come
detto, sono state
fatte 2 barre, 1
Figura 8 per emiarcata
(una a destra ed
una a sinistra) [Figura 8]. Queste barre sono delle strutture metalliche che vengono avvitate sugli impianti.
Sulle barre sono presenti dei Fresaggi, ossia delle superfici che vengo rese tra di loro congruenti, affinché
garantiscano un cerco grado di frizione per dare una migliore ritenzione; infatti queste si chiamano
“Mesostrutture”. Infatti quando parliamo di impianti dal punto d vista protesico si distinguono 3 parti:

1. Sottostruttura; essa è l’impianto stesso, ossia la parte che va all’interno dell’osso


2. Mesostruttura; essa è data dal moncone, oppure da una barra (come in tal caso clinico), ossia è una
struttura intermedia
3. Sovrastruttura; essa è invece la corona, la protesi, che può essere rimovibile o fissa. Nel caso clinico
in questione è una protesi rimovibile, che però allo stesso tempo ha un comportamento da protesi
fissa; infatti tale tipo di portesi si chiama Amovo-inamovibile.

Tale protesi Amovo-inamovibile è differente dalla protesi Telescopica (o per meglio dire Conometrica), la
quale è una protesi con un sistema di ritenzione data da una superficie che ha un volume conico che si
incastra in un altro volume; di conseguenza è necessario che ci sia un ceto grado di convergenza. Le protesi
Amovo-inamovibile invece hanno una Sovrastruttura che si appoggia sulla Mesostruttura, ma la ritenzione
è data dalla frizione tra due pareti che sono fra di loro congruenti. Ma non basterebbe solo questo; infatti,
come si vede [figura 8], sono state aggiunte anche altre due strutture di ritenzione che si chiamano
Chiavistelli ( ). In questo genere di manufatto accade che la protesi, una volta che il paziente la mette
37

correttamente in posizione e la blocca, si mantiene saldamente in sede, senza staccarsi dalla


Mesostruttura. Il grado di fissazione di questa protesi è molto vicina al grado di fissazione di un protesi che
si avvita direttamente sull’impianto. Questo perché le strutture in questione sono “Doppie”, ossia con due
superfici estremamente frizionanti le une con le altre; in più sono stati aggiunti i chiavistelli, che sono due
Clip che il paziente deve chiudere e bloccare. Quando si vuole togliere la protesi, il paziente con le unghie
deve aprire meccanicamente questi due chiavistelli (infatti è una struttura di fissazione meccanica); una
volta aperti, si stacca il manufatto protesico. Questa protesi è, quindi, molto vicina ad una protesi fissa,
anche se è difficile farlo capire ai pazienti in fase di progettazione. Perché quando si dice ad un paziente di
fare una protesi che è possibile togliere, questo subito pensa che, non essendo una protesi fissa, non dà
garanzie di stabilità. Ma in realtà questa protesi Amovo-inamovibili, è fissa tanto quanto una protesi
cementata o avvitata. Ma il vantaggio di questa protesi, che a volta diventa una necessità, è che dà
un’ottima resa estetica, con una buona resa del sorriso, e non c’è la struttura palatale che può essere
fastidiosa; ma soprattutto tali protesi garantiscono una maggiore detersione. Infatti il paziente può staccare
la protesi, e si espongono le due barre sottostanti; tali barre sono molto facilmente detergibili, con qualsiasi
dispositivo (spazzolino, scovolino, fili, docce orali). Quando si ha invece un’intera struttura protesica molto
articolata, cementata o avvitata, i pazienti devono essere molto bravi a mantenere un’adeguata igiene.
Molto spesso si vedono delle protesi bellissime solo da punto di vista estetico, adatte solo per farsi le
fotografie; perché al di sotto di tali protesi si possono accumulare molti detriti e batteri, soprattutto se
sono pazienti anziani, dato che sono pazienti con maggiori difficoltà (avendo spesso perso tutti i denti, e se
è difficile mantenere un dente, lo è ancora di più per una protesi). Ma anche se sono pazienti che hanno
una buona igiene orale, tale igiene orale deve essere facilitata in ogni caso, e ciò è possibile con tali
manufatti protesici. Quindi non sempre è positivo fare qualcosa che solo noi odontoiatri possiamo staccare
(come nel caso della protesi avvitata o cementata). Quindi quando si progettano delle riabilitazioni
protesiche in situazione complesse bisogna fare attenzione, e non bisogna progettare solo la quantità di
impianti da inserire, il dove, il tipo di moncone da utilizzare, il tipo di protesi da fare, ma bisogna anche
garantire un’adeguata detersione del manufatto, ossia bisogna progettare sempre una protesi che sia
detergibile. Molte patologie perimplantari sono dovute al mal posizionamento degli impianti e da una
pessima progettazione delle Sovrastrutture protesiche. Spesso non si è contenti di fare una protesi
rimovibile al paziente, ma se ci permette di aver una migliore igiene orale, la protesi stessa potrà durare per
tempi decisamente maggiori. Inoltre, quando si progetta una protesi Amovo-inamovibile, in alcuni casi essa
la si può fare per il paziente, per aiutargli il mantenimento della protesi con una corretta igiene; ma in altri
casi è obbligatorio fare questa scelta. Per quale motivo? Perché quando c’è un riassorbimento osseo
centripeto, il mascellare si accorcia e se ne va indietro; di conseguenza il labbro si abbassa e va indietro.
Allora per sostenere un adeguato profilo ortognatico bisogna far risostenere nuovamente il labro; e per
fare ciò è necessario ricreare un’adeguata arcata dentaria, perché il labbro è sostenuto dai denti. Quindi se
i denti si trovano in partenza in una certa posizione, non è possibile riposizionare l’arcata protesica
all’altezza della creta ossea, perché essa si è arretrata. Qualora lo si facesse, si avrebbero gli impianti in una
posizione e i denti che dovrebbero vestibolarizzarsi eccessivamente per cercare di ridare un adeguato
sostegno al labbro, e di conseguenza si avrebbe un cantilever eccessivo. Questo cantilever, anche se può
essere un problema dal punto di vista biomeccanico piuttosto ridotto (dato che i carichi masticatori nel
settore frontale sono piuttosto ridotti), può essere invece un vero problema dal punti di vista dell’igiene.
Questo perché è impossibile, oltre una cetra dimensione, poter detergere correttamente; al massimo è
tollerato un cantilever di 0,5cm. Quando si prevede un cantilever maggiore, si deve necessariamente
progettare una protesi che sia fissata ma anche rimovibile, perché bisogna metterci la resina e sostenere i
tessuti. È chiaro, insomma, che i fattori da valutare per fare una buona progettazione sono 3:

1. Chirurgici
2. Protesici; ossia Funzionali ed Estetici
3. Mantenimento.
38

Caso Clinico 2

In questi casi clinici stiamo valutando l’importanza dei tessuti molli, e soprattutto l’importanza di avere un
tessuto cheratinizzato intorno agli impianti. Nel caso precedente ci si è preoccupati dei tessuti cheratinizzati
presenti nella seconda fase chirurgica; qualora si fosse persa quella determinata occasione per avere gli
adeguati tessuti si sarebbe fatto un danno al paziente. In questo caso clinico, invece, le cose sono diverse
[Figura 9]. Questa
paziente è una ragazza
che, all’età di 14-15 anni,
fece un incidente con il
motorino, con
conseguente avulsione
traumatica dell’incisivo
centrale superiore di
sinistra (21). Ma, non solo
ebbe un’avulsione
traumatica, ma perse
anche una parte dell’osso
vestibolare. E tali tessuti
erano poi guariti come la
Figura 9
cicatrice di una ferita,
quindi il frenulo non si trovava più nella sua passione originaria ed era leggermente spostato, e inoltre non
vi era più la normale anatomia dei tessuti molli: il tessuto cheratinizzato era presente sulla porzione più
crestale, con importante deficit. Quindi c’era un deficit che era sia dei tessuti duri (dato che vi era una
riduzione dello spessore dell’osso [ma non dell’altezza]), ma anche dei tessuti molli. Infatti non era un
tessuto molle adatto, dato che non vi era un rapporto normale tra mucosa alveolare e tessuto aderente e/o
cheratinizzato. Dato che per mettere un impianto era necessario fare un intervento di ricostruzione di tale
porzione ossea, era necessario ricostruire anche un’adeguata anatomia del tessuti molli, dato che non è
possibile fare un intervento di ricostruzione ossea con la presenza di gengiva mobile (così come non è
possibile metter un impianto che emerge nel tessuto molle [aldilà dell’estetica, che comunque è
importante, dato che sarebbe inutile fare una riabilitazione implanto-protesica senza la presenza di una
”cornice rosa” adeguata]). Di conseguenza, prima di pensare su come fare per ricostruire l’osso per mettere
poi l’impianto, è necessario ragionare sui tessuti molli. Infatti in questo caso si è andati sul palato [Figura 9],
è stato fatto un sportello sul palato (una specie di portabagagli, con un lembo trapezoidale), è stato
sollevato tale lembo epitelio-connettivale a spessore parziale, e al di sotto si è preso un pezzo del
connettivo o del palato; a quel punto si è andati nella zona vestibolare dell’incisivo, è stato preparato un
letto (ossia un sito ricevente), e su questo letto è stato meso il connettivo che è stato preso dal palato. E
come abbiamo detto prima, il connettivo del palato è un connettivo che induce l’epitelio sovrastante a
cheratinizzarsi. Qui l’intervento è andato a buon fine con una buona guarigione. È possibile valutare nelle
immagini la differenza tra il prima e il dopo: c’è un cambio non solo di estetica, morfologico-architettonica,
ma anche della struttura, della consistenza tissutale e della tipologia istologica dei tessuti. Infatti in quella
zona è comparso, dopo l’intervento, un bello spessore di tessuto aderente e cheratinizzato. Solo dopo
questo intervento è stata fatta una ricostruzione ossea [Figura 10]. In queste fotografie è possibile
apprezzare il fascio vascolare naso-palatino, con la cresta sottile a lama di coltello e il foro naso-palatino
con il relativo fascio vascolare. Quindi è stato preso dell’osso autologo dall’altro versante del cavo orale, è
stato triturato e poi messo nella zona, facendo quella che è una GBR (Guide Bone Rigeneration, ossia
Rigenerazione Ossea Guidata) con osso autologo e membrana di rivestimento. Infine è stato suturato tutto.
39

Tale intervento, così


ampio e delicato, non
sarebbe stato possibile
da fare con i tessuto
molli cicatriziali
presenti prima;
sarebbe stato
impossibile, si
sarebbero sfrangiati i
margini, senza sei
riferimenti precisi per
le suture. È chiaro,
allora, che non è solo
Figura 10
una questione
funzionale ed estetica,
ma anche tecnica-chirurgica. Una volta fatta la rigenerazione, si può osservare la guarigione del sito dopo 6-
12 mesi; si sono ricostruiti gli adeguati spessori dei tessuti. Insomma è stata fatta prima una ricostruzione
dei tessuti molli e poi dei tessuti duri. A questo punto [Figura 11] si è andati a reintervenire, rimuovendo
prima di tutto la membrana (dato che non era una membrana riassorbibile, ma non riassorbibile). Poi, nel
dato volume osseo ottenuto con la GBR, è stato posizionato l’impianto. Successivamente sono stati
aspettati dei mesi di
osteointegrazione
per l’impianto stesso.
Nel frattempo sono
stati anche
leggermente
ricostruiti gli
elementi dentari
adiacenti, che nel
trauma avevano
perso il fisiologico
bombé mesio-distale
(ovviamente
Figura 11 ricostruiti con
un’odontoiatria
minimamente invasiva in composito). Sull’impianto è stato fatto poi la strutture del moncone, e poi la
ricostruzione della corona, raggiungendo un soddisfacente risultato estetico e funzionale. È stato un
percorso abbastanza lungo (per via dei tempi biologici e tecnici-chirurgici), durato diversi mesi, che però ha
portato un buon esito. Se non avessimo fatto tutti questi passaggi non avremmo avuto tale risultato,
perché se fosse stata trascurata la parte della mucosa ci sarebbe stata alla fine un’estetica pessima, e anche
una funzionalizzazione mediocre.
40

In questo schema [Figura 12] si vede invece che La posizione e la stabilità dei margine dei tessuti molli
perimplantari sono condizionati dallo spessore tissutale. Quindi, aldilà del fatto prima detto di tessuto

Figura 12

cheratinizzato o tessuto non cheratinizzato, è importante dire che più è spesso il tessuto intorno
all’impianto meglio è. Di conseguenza attorno agli impianti bisogna sempre garantire non solo qualche mm
di tessuto cheratinizzato, ma anche un adeguato spessore tissutale. Se abbiamo entrambi questo fattori, vi
è una maggiore probabilità di avere successo terapeutico.

W.L.M
41
Lezione n° 5 di IMPLANTOLOGIA – Ramaglia – 02.05.18 Consiglia Grasso

Soffermandoci sulla clinica, di cui già abbiamo fatto vari accenni,


ELEMENTI BASE PER L’OSTEOINTEGRAZIONE
ci sono una serie di elementi che dobbiamo considerare
fondamentali per la procedura implanto-protesica, e sono quelli • Materiali altamente biocompatibili
• Forma e superficie specifica dell’impianto
in un certo senso codificati negli anni ‘60-70 dal gruppo svedese
• Stato del sito e procedura chirurgica
di Branemark e che si sono mantenuti in questi 40-50 anni,
controllata
anche se alcuni hanno avuto delle rivisitazioni critiche. Per cui
• Adattamento preciso tra impianto e osso
alcuni di questi dogmi che noi consideravamo tali fino ad una
• Stabilità primaria dell’impianto durante la
decina di anni fa, oggi sono stati messi in discussione, altri sono guarigione ossea
rimasti immutabili. • Assenza di carico protesico durante la
guarigione ossea

1. Materiale altamente biocompatibile: su questo non si discute, era titanio 50 anni fa, rimane titanio tutt’ora.
Si è pensato anche a delle superfici rivestite con altri biomateriali, ad es. l’idrossiapatite, ma queste
esperienze sono fallite; si parla soltanto di diverse tipologie di superficie ma da un punto di vista di tipologia,
di biomateriale che utilizziamo per i nostri impianti, siamo rimasti sempre al titanio nelle varie forme
trattate.
Attualmente c’è una grossa sperimentazione che riguarda anche gli impianti in zirconia, il famoso “impianto
bianco” perché il metallo in bocca non riscuote particolare accettazione da parte dei pz. Oggi si va verso le
cosiddette metal-free, non da un punto di vista di composizione (perché sappiamo che comunque la zirconia
è un metallo), ma soprattutto da un punto di vista cromatico. Tuttavia ci sono delle difficoltà con la zirconia,
soprattutto per quanto riguarda le piattaforme e il combaciamento tra la piattaforma implantare e quella
protesica.
Un campo interessante riguarda alcune leghe miste (che un’azienda in particolare sta portando avanti), che
va soprattutto alla ricerca di una grande solidità e resistenza, robustezza, perché questo ci consentirebbe di
ridurre, a parità di resistenza, il diametro degli impianti, e questa è una cosa utile. Ma al di là di queste
tendenze di ricerca, la maggior parte degli impianti sono fatti ancora in titanio.

2. Per quanto riguarda la forma e la superficie abbiamo avuto evoluzioni enormi: da una forma iniziale
cilindrica siamo passati sempre più ad una forma conica o simil-conica. Nonostante gli impianti cilindrici
trovano ancora uso e applicazione in alcune circostanze, il trend è verso la forma conica.
Da un punto di vista di superficie abbiamo già accennato nelle lezioni precedenti le diverse tipologie di
superfici che abbiamo, come queste si sono evolute e come ancora siamo alla ricerca della “superficie
ideale” che non abbiamo trovato.
Certamente gli impianti Branemark, quando venivano fissati questi elementi base dell’osteointegrazione,
erano degli impianti a vite lisci; oggi gli impianti sono sempre a vite perché vogliamo una buona stabilità
primaria, e la stabilità primaria la otteniamo meglio con un sistema che ha una certa presa con
l’avvitamento rispetto ad un semplice sistema a pressione; hanno una forma più conica, e le superfici non
sono più lisce ma si tende ad avere delle superfici trattate per sottrazione, per addizione (come ci ha detto
l’altra volta).

3. Stato del sito e procedura chirurgica controllata: anche qui non è cambiato nulla, nel senso che la
procedura chirurgica non è improvvisata ma codificata, le sequenze di frese sono standardizzate per il
diametro dell’impianto, sono standardizzate per la tipologia dell’impianto, quindi per ogni tipologia di
impianto, per ogni dimensione implantare abbiamo una certa sequenza di frese.
Però è cambiato il modo di utilizzo della sequenza di frese!
Sullo stato nel sito, non c’è dubbio che deve essere un sito stabile, non infetto; invece relativamente alla
procedura chirurgica, mentre in passato eravamo obbligati ad utilizzare tutte le sequenze di frese per
42
arrivare alla massima congruenza tra sito implantare e impianto, oggi abbiamo capito che è fondamentale
ottenere la stabilità primaria, cioè l’impianto non si deve muovere, almeno non si deve muovere per quella
che è la nostra percezione. È ovvio che dei micro-movimenti a livello micrometrico, ci saranno sempre, ma
l’impianto per quanto riguarda la nostra percezione deve essere stabile perché la guarigione ossea ha
bisogno di stabilità. Quindi nella ricerca della stabilità primaria, al di là di utilizzare le filettature, la
congruenza della preparazione del sito, l’osso non è sempre uguale, per cui è vero che la sequenza di frese è
codificata, ma quella sequenza di frese è codificata e la usiamo tutta quando abbiamo un osso D1 che è
l’osso più consistente, con maggiore densità.
L’osso D1 richiede che si utilizzino tutte le frese che sono state allestite per quel tipo di impianto; anzi a
volte, sebbene oggi usiamo degli impianti auto-filettanti, abbiamo ancora dei filettatori, dei maschiatori, e
quando l’osso è estremamente compatto (un D1 importante), l’auto-filettatura non ce la fa e quindi
dobbiamo anche maschiare prima.
Se l’estremo di una scala è il D1 che è quello più compatto, l’altro estremo è il D4, quello meno compatto e
più spugnoso; se uso tutta la sequenza di frese nell’osso D4, è molto probabile che nel momento in cui metto
l’impianto, quell’impianto non abbia la stabilità primaria. Per cui oggi è necessario conoscere questi aspetti
perché noi dobbiamo adattare la sequenza delle frese e la preparazione del sito capendo dove dobbiamo
arrivare come sequenze delle frese o se conviene saltare qualche fresa.
Questo ce lo dà la tipologia, la densità ossea del sito:
 nell’osso D1 dovrò utilizzare tutte le frese, altrimenti l’impianto non scende e, a volte, addirittura
devo maschiare;
 nell’osso D2 probabilmente farò una preparazione, una sottopreparazione e quest’ultima la
possiamo fare in due modi: o terminando con una fresa di diametro minore rispetto all’ultima fresa
che avremmo dovuto utilizzare, e questa è la sottopreparazione dimensionale, oppure preparando
con la fresa del diametro corrispondente all’ultimo passaggio, ma di minore lunghezza e quindi è una
sottopreparazione non di diametro circonferenziale, ma di dimensione in altezza, in lunghezza.
Domanda di Greg: come si fa a valutare la consistenza dell’osso?

• Da un lato abbiamo la possibilità di valutarlo con le indagini con cui noi valutiamo l’osso che sono le
radiografie, quindi la soluzione più semplice è a occhio ed è quella più facile e dalla quale non ti puoi
sottrarre, perché un osso più denso è un osso più radiopaco, un osso meno denso è un osso più
radiotrasparente.
• Dall’anatomia sappiamo che ci sono delle zone dove l’osso tende ad essere più consistente, più denso, come
la sinfisi, la zona interforaminale mandibolare, tutte le altre calano, il minimo ce l’abbiamo nella zona molare
superiore ma anche molare inferiore.
Questi sono sistemi più semplicistici: quello visivo sulla radiografia e quello di conoscenza in anatomia.

• C’è poi un terzo sistema rappresentato dalle apparecchiature delle tomografie computerizzate, che invece
hanno la possibilità di leggere una scala di grigi, codificata dal dott. Hounsfield che, oltre ad aver inventato la
TC (tomografia computerizzata), stabilì che per definizione la massima densità era quella corrispondente
all’acqua. L’acqua ha una densità 1, questa è una convenzione, non è una cosa scientifica: l’acqua ha densità
1 e rispetto a quell’1 dell’acqua che è più radiopaco, andiamo a scendere sulla scala di grigi. Per cui ci sono
sistemi che ci danno una lettura con i colori dei grigi, o meglio sistemi che ci danno una lettura in unità
Hounsfield: (1000 è considerato quel volume e man mano…???non continua)
Per cui se un osso ha 100 unità Hounsfield è un osso molto spugnoso, se ne ha 900 è un osso molto
compatto.
• Una maggiore, ulteriore densità la si può avere con i software che assistono da un punto di vista digitale con
il computer una programmazione, una pianificazione impiantare. Quelli hanno la capacità, non solo di
leggere le unità Hounsfield, ma anche di trasformare quella lettura in una classificazione D1-D2-D3-D4 che
per il clinico è più semplice, perché se io leggo D3 capisco che è un osso medio.
43
D2/D3 è un osso che non ci dà preoccupazioni, quelli che ci danno più preoccupazioni come densità sono il D1
perché è molto corticalizzato, e il D4 perché è molto poco corticalizzato. Quando ci troviamo con questi due
estremi:
 con D4 dobbiamo molto sotto preparare; dobbiamo sotto preparare spesso sia in termini di dimensione
orizzontale, di circonferenza sia in altezza.
 Nel D1 come abbiamo detto, usiamo tutta la sequenza di frese, a volte anche il maschiatore;
 nel D2 e nel D3 entra in campo la sensibilità, l’esperienza del clinico, da questo non si può prescindere,
per questo esistono le curve di apprendimento (perché al di là di tutto quello che tu puoi stabilire prima
e tolto D1 e D4 che sono facili essendo gli estremi della scala, D2 e D3 sono più complicati).
Quando il prof dice che generalmente ci troviamo con siti che sono D2/D3, nessuno potrà dire “questa è
la sequenza”, quindi starà a noi decidere.
Ci aiutiamo con i vari sistemi e ad es. arriviamo alla conclusione che è un osso D3, 500 unità Hounsfield, e
allora? Cosa è importante? È importante la prima fresa che utilizziamo; quindi tutto questo lo possiamo
stabilire prima e avere già un’idea, ma la cosa più importante è quando noi mettiamo la prima fresa, non la
fresa a pallina o la fresa lanceolata che serve per fare l’invito, la prima fresa che si chiama “fresa pilota” che
è una fresa cilindrica, lunga alla quale noi stabiliamo la nostra lunghezza di lavoro, la lunghezza a cui
vogliamo mettere l’impianto, è la fresa più sottile di quella lunghezza. Quando entra quella fresa , là devo
capire (e purtroppo questa è soltanto una questione di esperienza anche se ci sono dei trucchi che il prof ci
dirà di seguito) che resistenza incontro: se questa prima fresa scende “come nel burro” è un D4, ma
mettiamo che siamo tra un D2 e un D3, se incontro un po’ di resistenza è una via di mezzo, se incontro molta
più resistenza probabilmente è un D2. Tra l’altro l’osso è molto variabile, a volte troviamo dei buchi e la fresa
va dentro perché non è che radiograficamente noi riusciamo a vedere…(non continua). I buchi sono delle zone
dove c’è più midollare rispetto a quella che noi ci aspettiamo, per questo la prima fresa è importante!
Qual è un trucco che ci può aiutare da questo punto di vista? Non solo la resistenza che incontriamo e quindi
una questione legata alla nostra sensibilità, ma anche quanto osso resta su quella fresa (RICORDA: QUANTO
OSSO RESTA SU QUELLA FRESA!).
Se abbiamo una resistenza molto bassa, nelle spire della fresa non resta niente, perché è quasi la pressione
stessa che fa scendere l’osso; al contrario se ho grossa resistenza restano dei trucioli nelle spire della fresa.
Se l’osso è molto poco denso, non rimane quasi niente, se rimangono dei trucioli e questi sono biancastri,
vuol dire che è un osso abbastanza consistente, se invece i trucioli sono più rossastri, “ a pappetta”, che
fanno pensare meno a dei trucioli ossei, vuol dire che siamo in una situazione intermedia, nel senso che c’è
una certa consistenza, ma una consistenza molto midollare.
La cosa più importante è quando mettiamo la prima fresa, la resistenza e quello che resta sulla fresa che tra
l’altro non si butta mai perché se rimane dell’osso nella fresatura, quell’osso va conservato, può servire per
fare delle piccole correzioni. Se rimane molto osso biancastro è più consistente, se non rimane niente
andiamo quasi verso il D3. A noi fa piacere quando troviamo un minimo di resistenza e da quella resistenza
esce fuori nelle spire della fresa un po’ di tessuto osseo misto a sangue, il che significa che c’è una bella
midollare perché noi siamo contenti quando mettiamo l’impianto nella midollare (non è bello mettere
l’impianto nella corticale). L’osso D1 non ci entusiasma, anzi al contrario, perché è un osso poco
vascolarizzato; per ottenere l’osteointegrazione abbiamo bisogno di una buona vascolarizzazione. Mentre il
D4 ha una buona vascolarizzazione ma non ha nessuna resistenza meccanica, il D1 ha troppa resistenza
meccanica (che non ci serve) ma non ha vascolarizzazione. Ecco perché l’ideale è il D2/D3, meglio il D2 che il
D3, che hanno una buona vascolarizzazione, una buona componente midollare e anche un minimo di
resistenza. Questo va di pari passo con il punto successivo:

4. Adattamento preciso tra l’impianto e l’osso: l’adattamento deve essere preciso da questa sequenza di frese,
ma noi dobbiamo sempre ricercare una stabilità primaria che o ce la dà la resistenza ossea di per sé, o deve
derivare dalla nostra tecnica di preparazione.
44
Come faccio a valutare la stabilità primaria?
• Punto 1: torniamo sempre alla sensibilità chirurgica, ma la sensibilità chirurgica è relativa perché che
cosa fissiamo sul nostro motore chirurgico? Quando noi andiamo ad inserire l’impianto, riduciamo il
numero di giri. Procedura chirurgica controllata significa, non solo dal punto di vista di sequenza di frese
ma anche di velocità di preparazione, l’osso soffre del surriscaldamento, quindi noi non dobbiamo
surriscaldare l’osso. E come facciamo a non surriscaldare l’osso? In quattro modi:
 1) irrighiamo, anzi per essere più efficaci facciamo un’irrigazione fredda. Prendiamo la soluzione
fisiologica che utilizziamo in applicazione ai nostri micromotori per avere una fonte di liquido
refrigerata (solo a quello serve) e la mettiamo pure in frigorifero, quindi irrighiamo con
soluzione fredda;
 2) utilizziamo delle frese di buona qualità, perché una fresa che non è buona non taglia, impatta
e surriscalda, quindi frese non troppo consumate e di buona qualità;
 3) facciamo una sequenza di frese normali, perché se passo da un diametro 0-1 a un diametro 8
con un solo passaggio, quando inserisco l’8 ci sarà un notevole attrito (è come l’endodonzia); se
invece facciamo 1-3-5-7 ho una preparazione progressiva che ovviamente mi riduce il
surriscaldamento;
 4) la velocità del micromotore deve essere abbastanza bassa; il micromotore per chirurgia, per
impianti, ha una caratteristica: non ha bisogno di un grandissimo numero di giri però ha bisogno
di un’altra caratteristica, la forza, perché sappiamo che quando aumenta il numero di giri, la
capacità della fresa migliora, riducendo il numero di giri, la fresa deve essere tagliente, ma deve
avere anche una forza di rotazione che si chiama torque, perché se vado piano e non ho forza
sufficiente, non riesco ad utilizzare l’azione di fresaggio. Allora i micromotori per chirurgia
hanno dei valori di torque regolabili, oltre la velocità. Quando noi prepariamo il sito, lo facciamo
intorno a 1500 giri al minuto; anche se ci sono delle deviazioni rispetto al protocollo originario,
questo non è cambiato: l’osso si prepara ad una velocità maggiore, l’impianto si inserisce ad una
velocità molto minore, parliamo di 25 giri al minuto. Quindi, mentre prepariamo l’osso a 1500-
1000-800, (l’osso si prepara da almeno 800 fino a 1500), l’impianto si mette intorno ai 25-40 giri
al minuto. A quella velocità, se il micromotore non è sufficientemente potente in termini di
forza, di torque, l’impianto si ferma, per questo ci vogliono dei micromotori adatti (non
possiamo utilizzare il micromotore che abbiamo al riunito, perché non ha un torque sufficiente
in quanto più si scende in termini di velocità, più bisogna aumentare la forza). I micromotori per
impianti hanno un’altra caratteristica: questo torque, questa forza può essere regolata. Per
questo motivo il torque è un parametro importante perché esso è una misura della resistenza
all’avvitamento del nostro impianto; più è resistente, più avrò stabilità primaria. Per cui la
stabilità primaria, la valutiamo, in parte, quando andiamo ad inserire l’impianto con la
resistenza che noi sentiamo che quell’impianto incontra nell’ultimo avvitamento (e quello è un
fatto di sensibilità) però abbiamo anche dei dati oggettivi e cioè il torque, perché noi possiamo
fissare il nostro torque massimo di avvitamento. Il torque si misura, almeno nel nostro campo,
in N x cm, in cui Newton è la misura della forza: quanta forza ci vuole per spostare di 1 cm quella
resistenza. Per cui se ho 20N, significa che per avvitare quell’impianto per 1 cm è stata
necessaria una forza di 20N. allora per definizione e per ricerca clinica, un valore che ha un suo
significato è 30N, 30N è considerato un buon torque di inserimento. Questo non vuol dire che se
inserisco un impianto a 20N, non si osteointegra; anche i valori di 15N sono buoni valori di
stabilità primaria. 30-35N è un valore che serve più che altro per un’eventuale sollecitazione
immediata dell’impianto, cioè nel caso di un impianto che ha meno di 30-35N di forza di
inserimento è impensabile poter applicare sopra un eventuale carico perché non ce la fa. Ma il
torque di inserimento di 15-20N ai fini dell’osteointegrazione è più che sufficiente. Quindi
quando mettiamo un impianto (al di là del fatto che ci sono dei micromotori che ci danno la lettura del
torque che noi abbiamo realizzato), fissiamo un torque massimo, ad es. 25N; io so che se mentre
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sto mettendo l’impianto, si ferma, vuol dire che ha raggiunto i 25N, se per me operatore è
importante sapere il torque di inserimento. Poi ci sono anche dei sistemi che ci dicono che l’ho
messo a 25N, ho messo tutto l’impianto e l’impianto non si è fermato, quindi vuol dire che ho
avuto un torque minore di 25N; ci sono dei sistemi che alla fine dell’inserimento, quando stacchi
il pedale, ti dicono “il tuo inserimento massimo è stato 18N”.
• Un altro sistema per valutare la stabilità primaria è un sistema che si basa sulla frequenza di risonanza
(IRF), è un apparecchio che si chiama Ostel (nome commerciale ed è l’unico sistema presente sul
mercato), il quale è come se mandasse delle onde e poi le legge, come l’ecografia, e a seconda di
quanto torna l’onda indietro, questo sistema ha una scala di valori di ISQ, e a seconda di quella scala di
valori di ISQ , tramite una tabella la trasformiamo in valore di stabilità.
• Quindi questi sono i due sistemi che oggi utilizziamo per valutare la stabilità, ma il terzo sistema (che
compete a noi) è che quando abbiamo messo un impianto, al di là del torque che può servire o meno a
fare eventualmente un carico immediato, poi sarà la macchina, sarà l’Ostel, oppure ISQ, quello che
vogliamo, ma noi abbiamo degli obblighi clinici da fare e cioè: 1) preparare come il prof ci ha detto,
mettere l’impianto, vedere cosa troviamo in termini di resistenza, dopodiché una volta messo
l’impianto, dobbiamo prendere una pinzetta e vedere se quell’impianto si muove perché la stabilità
primaria minima è quella non percepibile clinicamente. Anche un torque di 10, mi dà una stabilità
primaria non percepibile clinicamente, ma se clinicamente, quando abbiamo messo l’impianto, questo si
muove anche poco, quell’impianto non ha stabilità primaria.
A questo punto cosa bisogna fare? Dipende: se dobbiamo fare un qualcosa che richiede un carico
immediato, o delle procedure particolari, quell’impianto non va bene, quindi o lo si svita e se ne mette
uno più grande oppure vediamo cosa fare. Ora tralasciando le soluzioni, se quell’impianto può rimanere
lì, sicuramente è un impianto che deve essere protetto il che significa lasciarlo per un po’ di tempo
nell’osso per guarire e coprirlo anche con i tessuti molli. È l’unica possibilità se l’impianto si muove un
po’ (ovviamente se si muove moltissimo non va bene) quindi il concetto importanate è che: una leggera
mobilità è compatibile con l’ottenimento dell’osteointegrazione se quella mobilità non è sollecitata!
Stabilità primaria significa che l’impianto non si deve muovere, ma muovere rispetto a cosa? È ovvio che
se sull’impianto metto una corona o qualsiasi cosa, e quell’impianto per le forze neanche di
masticazione ma di deglutizione, fonazione etc., viene sollecitato, è ovvio che quella non è una
guarigione con stabilità primaria durante la guarigione ossea e quell’impianto non si osteointegra. Se
l’impianto si muove ma perché sono io che lo sollecito e lo metto nelle condizioni di stare fermo perché
se io non lo sollecito quell’impianto è fermo e lo mantengo fermo perché lo proteggo dalle sollecitazioni
esterne, le probabilità di osteointegrazione sono comunque elevate. Non parliamo di un arto, di un
braccio o di una gamba, ma parliamo di un qualcosa che deve avere una sua stabilità da sé. È ovvio che
le sollecitazioni mettono in crisi quella stabilità.
5. Ultimo punto che si lega al discorso appena fatto che riguarda l’assenza di carico, è stato messo anche
questo un po’ in discussione perché nel passato i tempi erano davvero molto lunghi.
In che cosa consiste un impianto?
(Il prof dà per scontato che lo
sappiamo). Di una parte endossea,
di una parte extraossea, il moncone
applicato sul modello, poi può
essere fatto a misura sul pz,
prodotto industrialmente e
modificato, su questo moncone poi
applichiamo una corona protesica,
e oggi abbiamo la possibilità, come abbiamo visto la volta scorsa, di ripristinare almeno in maniera mimetica, da un
punto di vista di biomimetismo, di avvicinarci moltissimo a quello che si è perso. Ripetiamo adesso i vari passaggi
soffermandoci su qualcosa in particolare.
46
Perché il titanio rimane il materiale principe per gli impianti?
PROPRIETÀ DEL TITANIO
Per questi motivi: perché hanno tutte le migliori
caratteristiche per essere considerati da un punto di vista • Metallo bioinerte
nell’ambito dei metalli, il metallo più bio-inerte, con le migliori • Basso peso specifico (4,5g/cc)
capacità. Ad es. è resistente ma è leggero; a differenza di altri • Vantaggioso rapporto modulo elasticità/peso
metalli è uno scarso conduttore termico, è uno scarso specifico
• Elevata resistenza alla rottura
conduttore elettrico, etc.
• Non corrosivo
Ovviamente ci sono varie tipologie di titanio: parliamo di • Scarso conduttore elettrico
titanio commercialmente puro, il quale ha oltre il 99% di • Scarso conduttore termico
titanio, la parte rimanente sono altri tipi di molecole, anzi di • Strato superficiale di ossido osteoconduttivo
ioni, però a volte viene unito in leghe le quali danno una • Resistente come acciaio ma più leggero del 45%
maggiore resistenza ma perdono un po’ in biocompatibilità.
Abbiamo discusso se gli impianti devono essere a vite o a cilindro e abbiamo detto
che oggi preferiamo la vite perché la vite ci aiuta nella stabilità primaria.
Da che cosa è data la stabilità primaria? Da due elementi: sicuramente dalle spire
che mi danno la cosiddetta macroritenzione, ma la stabilità primaria ci è data
aggiuntivamente dalla microritenzione di una superficie quando questa superficie
non è liscia. Quindi una superficie degli impianti trattata (sottrazione, addizione,
gli impianti plasman spree??) ci danno quella ruvidità superficiale che aumenta
ulteriormente la stabilità primaria.

Macroritenzione: spire
Microritenzione: superficie

Le superfici sono tante (il prof spera che ce le ricordiamo da


quello che abbiamo detto l’altra volta).

Per quanto riguarda i diametri c’è stato un po’ “un va e


vieni”; quando è nata l’implantologia osteointegrata è nata
con una sola tipologia di impianto e una sola dimensione di
impianto. Un impianto aveva una parte endossea di 3.75 di
diametro e una piattaforma che sarebbe la parte terminale
del colletto di 4.1 con un esagono esterno, questo perché
l’accoppiamento tra la parte endossea e la parte extraossea
avviene attraverso un esagono che è posto all’esterno
dell’impianto. Che cosa è cambiato oggi? Da un solo
impianto di una dimensione sia nella parte endossea che nella piattaforma, siamo passati a tanti impianti con tante
dimensioni nella parte endossea e di conseguenza anche tante dimensioni della piattaforma.
Infatti, 10-15 anni fa, si
ipotizzò che ci dovesse
essere una dimensione
implantare per ogni
elemento dentario; per cui
impianti più piccoli per denti
piccoli, impianti più grandi
per denti più grandi. Questo
non è vero, perché se non è
conveniente avere una sola
47
dimensione implantare com’era ai tempi di Branemark perché le tipologie possono essere diverse in termini di
riabilitazione e di osso, tanto non esiste che io debba ragionare mettendo un impianto di quelle dimensioni perché il
dente sarà di quelle dimensioni. La prima cosa importante è che l’impianto deve stare in un volume osseo, per cui
quell’impianto deve avere almeno 2mm di osso tutt’intorno. È molto più importante che l’impianto sia ben
osteointegrato rispetto a quelle che sono le dimensioni dell’impianto perché un impianto anche di piattaforma
standard, cioè un impianto di 3.75-4, una piattaforma 4,1 può tranquillamente portare la corona (si mangia una parola
41.35).

È ovvio che più è grande la piattaforma, migliore è l’emergenza protesica, cioè è un problema legato più
all’emergenza protesica che non alla resistenza ai carichi; se ho una piattaforma più larga, l’emergenza sarà più
dolce, più vicina alla naturale emergenza dei denti. Per cui è ovvio che laddove dobbiamo mettere un molare
cerchiamo di mettere un impianto di dimensioni leggermente più grandi, ma se l’osso ce lo consente, non è che devo
mettere per forza un impianto più grande e poi a svantaggio dell’osso che lo circonda. Per cui alla fine oggi lavoriamo
con tre dimensioni implantari (tutto questo discorso si è molto ristretto): lavoriamo con impianti che sono un po’ più
piccoli di diametro, fondamentalmente intorno ai 3,25 e 3 per la parte endossea e che hanno una parte di
piattaforma, cioè quella che poi si collegherà al moncone intorno ai 3,3-3,4mm e che sono chiamati mini-impianti.
Abbiamo gli impianti standard che hanno un diametro intorno a 3,75-4 (più 4 che 3,75) per la parte endossea e una
piattaforma di 4,1-4,2-4,3 a seconda delle case implantari, e poi abbiamo gli impianti cosiddetti larghi, large, che
hanno un diametro di 5 o a volte di 6 con una piattaforma di 5 o 6. Questi sono gli impianti con cui noi oggi
lavoriamo; sceglieremo l’’impianto adatto sicuramente in rapporto a quella che sarà la riabilitazione protesica, ma
non è quello l’elemento unico e assoluto, l’altro elemento che deve combaciare con le esigenze protesiche è il
volume osseo disponibile.
La procedura chirurgica deve essere controllata.
PROCEDURA CHIRURGICA CONTROLLATA
Dove si incide quando facciamo un impianto? Prima si
• Lembi adeguati con guarigione per prima intenzione
incideva lontano perché si pensava che fosse opportuno far per stabilire il coagulo
cadere la linea di incisione distante da dove andava messo • Frese calibrate con taglio incrementale con
l’impianto; si è visto che questo non serve per cui le nostre adattamento preciso tra impianto ed osso
linee di incisione sono in cresta, anzi, un lembo in cresta è il • Evitare il surriscaldamento osseo
miglior lembo perché è quello che ha un’ottima • Controllo dell’infezione pre, intra e post-operatoria
vascolarizzazione sia su un versante che sull’altro, perché è
quello che divide proprio in due la vascolarizzazione di un sito edentulo.
Dobbiamo controllare l’infezione, cosa significa? Quando è nata l’implantologia, gli impianti venivano messi in una
sala operatoria, c’era una completa ossessione del discorso della sterilità, della contaminazione batterica. Per cui per
un po’ di anni gli impianti si mettevano secondo una procedura di campo sterile che poteva essere ottenuta solo in
sala operatoria. Si è visto che poi questo non era necessario: gli impianti si possono tranquillamente mettere in un
campo pulito, e questo significa poter avere una chirurgia ambulatoriale. Un campo sterile lo abbiamo soltanto in
una sala operatoria o in sale “quasi” sale operatorie, un campo pulito in un’attività ambulatoriale. Questo significa
che bisogna osservare le buone norme di qualità e di sicurezza della chirurgia ambulatoriale odontoiatrica (nel
nostro caso), per cui laddove possiamo arrivare alla sterilità, andiamo alla sterilità, certamente non avremo la
sterilità di ambiente che è quella che si tende più in sala operatoria, una sterilità di campo non l’abbiamo perché la
bocca è comunque infetta, ma sicuramente le buone norme di campo pulito ci devono essere. Un pz che ha una
bocca piena di placca e tartaro non potrà mai fare un intervento di implantologia o anche un’estrazione di un
elemento dentario, quindi devono essere messe in campo tutte le buone pratiche (che il prof ci ha insegnato) di
campo pulito ambulatoriale. Poi ci sono alcune procedure che si fanno in sala operatoria in cui abbiamo il campo
sterile ma per l’implantologia e l’osteointegrazione non serve la sterilità totale.
Dobbiamo proteggere il nostro pz con una terapia antimicrobica nonostante abbiamo fatto una disinfezione del cavo
orale eliminando placca e tartaro, abbiamo fatto una disinfezione chimica del cavo orale facendo utilizzare un
colluttorio di clorexidina. Quindi quando si utilizzano dei biomateriali e l’impianto è un biomateriale, anzi è un
dispositivo protesico-medico, è più che indicata la copertura antibiotica. Gli antibiotici non vanno utilizzati in
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maniera incongrua ma solo quando servono perché ci sono poi le resistenze etc., ma l’uso di un biomateriale, di uno
dispositivo medico, alloplastico quale è l’impianto, ci induce a proteggere il pz con una copertura antibiotica.
Come la possiamo fare?

• Possiamo fare una profilassi antibiotica chirurigica che significa dare l’antibiotico alla massima dose 1 o 2
ore prima che protegge il pz nell’intraoperatorio e nella contaminazione del dispositivo medico, il quale
potrebbe essere contaminato, benché gli impianti sono sterili (cioè l’impianto di per sé esce da un
confezionamento sterile però potrebbe non esser andato a buon fine il confezionamento, potrebbe essersi
contaminato quando l’abbiamo aperto). Quindi il pz va protetto con la profilassi antibiotica ad es. 2 g di
amoxicillina clavulanico, 1 ora prima della procedura. Questa profilassi antibiotica protegge il pz durante
l’intervento.
• Se noi invece vogliamo proteggere il pz anche nel post operatorio perché non vogliamo o temiamo che
possano insorgere complicanze infettive, non basta la profilassi pre-operatoria ma bisogna fare anche una
classica terapia antibiotica post-operatoria, non sempre lo facciamo per le estrazioni, ma per gli impianti
preferiamo fare la profilassi pre-operatoria e la terapia post-operatoria. Nel momento in cui diamo la terapia
post-operatoria, la profilassi la facciamo iniziando lo stesso tipo di terapia che facciamo nel post-operatorio 1
giorno prima, cioè anziché dare 2 g di antibiotico la mattina o 1 o 2 ore prima dell’intervento, iniziamo la
terapia antibiotica classica alternata ogni 12 ore, la iniziamo 1 giorno prima, quindi il giorno prima e il giorno
dell’intervento, così il picco ematico dell’antibiotico già si trova al suo livello quando il pz viene operato.
A 47° c’è la necrosi ossea, quindi cerchiamo di non superare EVITARE IL SURRISCALDAMENTO
questa temperatura, quindi irrighiamo. L’irrigazione può
Necrosi ossea se T è maggiore di 47°C per 1 minuto
essere interna o esterna e abbiamo poi 2 possibilità che per
molti anni sono state antagoniste tra loro, vale a dire se • Irrigazione
l’impianto o meglio l’implantologia dovesse essere di tipo • Bassa velocità di fresatura iniziale: circa 1500 RPM
sommerso o di tipo non sommerso. • Bassissima velocità di maschiatura e/o
posizionamento: 15/20 RPM

SISTEMA IMPLANTARE SOMMERSO O SISTEMA IMPLANTARE NON-SOMMERSO?


Quando è nata con Branemark, l’implantologia era solo di tipo sommerso: facciamo l’intervento, mettiamo la parte
endossea dell’impianto, cioè l’impianto nell’osso, chiudiamo tutto, aspettiamo 6 mesi, c’è l’osteointegrazione,
riapriamo e mettiamo una vite di guarigione che è una connessione verso l’esterno e poi iniziamo tutte le procedure
protesiche. Su questo è nata l’implantologia moderna; con gli svizzeri di Shreider (quelli che parallelamente
studiavano anche loro l’osteointegrazione), invece qualche anno dopo venne fuori l’idea che non fosse necessario
lasciare l’impianto coperto dai tessuti molli durante la fase di osteointegrazione ma l’impianto poteva essere lasciato
anche a livello della gengiva, quindi nell’intervento chirurgico noi mettevamo l’impianto, l’impianto non veniva
coperto ma i tessuti molli si appoggiavano all’impianto e la parte terminale dello stesso era a livello della gengiva.
Quindi, quando abbiamo un sistema sommerso, abbiamo
SISTEMA IMPLANTARE SOMMERSO
due fasi chirurgiche e una fase protesica. Normalmente si
parla di protocollo implantare sommerso two stage, cioè 2 PROTOCOLLO CHIRURGICO IN DUE FASI
• Posizionamento chirurgico dell’impianto con
fasi, in realtà sono 2 fasi, di cui una a sua volta è divisa in
guarigione sommersa
due, la fase chirurgica, perché la prima fase chirurgica
• Riapertura chirurgica
richiede il posizionamento dell’impianto, poi si chiudono i
tessuti e si aspetta la guarigione e l’osteointegrazione. PROTOCOLLO IMPLANTO-PROTESICO IN TRE FASI
• Applicazione del moncone protesico e del provvisorio
6 mesi si sono ridotti di molto perché abbiamo migliorato le • Restauro protesico definitivo
nostre conoscenze biologiche, le nostre capacità tecniche,
migliorato anche le superfici degli impianti, per cui oggi
abbiamo dimezzato i tempi di attesa; oggi generalmente
aspettiamo almeno 2 mesi, ma diciamo tra 2 e 4 mesi.
Questi sono i tempi di osteointegrazione a seconda anche
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della stabilità primaria, della qualità dell’osso,e così via. Se vogliamo dare un valore medio diciamo 3 mesi di
osteointegrazione sono più che sufficienti. Dopo i 3 mesi di osteointegrazione, in un sistema sommerso, dobbiamo
fare un secondo intervento chirurgico perché dobbiamo andare a riaprire, a scoprire la testa dell’impianto e
applicare una connessione che, una volta che appoggiamo i tessuti, lo colleghi all’esterno. Una volta che è guarita
questa seconda fase chirurgica, può iniziare la fase implanto-protesica che si tratta poi di prendere le impronte,
realizzare un moncone, e così via.
CASO CLINICO: Nell’immagine vediamo che manca un dente, prima fase chirurgica: mettiamo l’impianto. L’impianto
è un impianto che ha la piattaforma che va a livello dell’osso. Chiudiamo il tutto, l’impianto è lasciato coperto dai
tessuti molli per tutta la fase dell’osteointegrazione, dopo X mesi ci troviamo una situazione che è molto simile a
quella iniziale. Dobbiamo di nuovo fare un piccolo intervento, quindi
anestesia locale, incisione, scollamento per scoprire quella parte che a
suo tempo avevamo inserito con l’impianto. Però adesso l’impianto è
osteointegrato, dobbiamo creare un tragitto mucoso, cioè dobbiamo
creare un sistema aperto che consenta le mie manovre protesiche di
arrivare sulla testa dell’impianto, sulla piattaforma che sta a livello
dell’osso. Per fare questo mettiamo un perno che si chiama vite di
guarigione, su questo accolliamo i tessuti e forziamo la guarigione in
maniera tale che i tessuti molli guariscano intorno a questa vite di
guarigione e si formi un tragitto che si chiama canale mucoso che avrà un’entità variabile in rapporto allo spessore
della mucosa. (Se ho 5 mm di mucosa, avrò un canale mucoso di 5 mm; se ho 3 mm di mucosa, avrò un canale
mucoso di 3; se ne ho 10 di mucosa, il canale sarà di 10). Per questo motivo, come il prof ci ha detto nella scorsa
lezione, il parametro “profondità di sondaggio” negli impianti non ha lo stesso significato che ha nei denti, perché nei
denti è geneticamente determinato, più o meno negli impianti è determinato dallo spessore dei tessuti molli.

SISTEMA IMPLANTARE NON-SOMMERSO


Invece il sistema non sommerso è un sistema che si dice in PROTOCOLLO CHIRURGiCO IN UNA FASE
1 fase, ma non è una fase, è una sola fase chirurgica, quindi • Posizionamento chirurgico transgengivale
quando si dice 1 o 2 fasi ci si riferisce soltanto alla chirurgia dell’impianto con guarigione non-sommersa
perché avendo l’impianto che arriva fino al margine dei
PROTOCOLLO IMPLANTO-PROTESICO IN TRE FASI
tessuti molli, non c’è bisogno della seconda fase chirurgica,
• Applicazione del moncone protesico e del provvisorio
mentre invece la fase protesica è sempre la stessa, non
• Restauro protesico definitivo
cambia, anche se cambiamo le componentistiche che
utilizziamo a seconda della tipologia di impianto che
decidiamo di utilizzare.

CASO CLINICO 2: Questo invece è un classico esempio di un sistema non


sommerso: un’area edentula, sempre lo stesso lembo, sempre
l’osteotomia che prepara i due siti implantari, facciamo le nostre
misurazioni, in questo caso sono due impianti quindi dobbiamo metterli
paralleli e con questi (56.15) andiamo a verificare sia il parallelismo che la
profondità a cui abbiamo creato le nostre osteotomie. Le linee codificate
ci dicono se stiamo a 10, a 11, a 13 e così via. Alla fine dell’intervento,
mentre nell’implantologia sommersa non vedo più l’impianto perché è
sotto i miei lembi, nell’implantologia non sommersa vedo la testa
dell’impianto perché questa arriva fino alla superficie dei tessuti molli, tant’è vero che quando c’è la fase di
guarigione dei tessuti molli, già ho qui le mie piattaforme implantari, non ho bisogno di fare un secondo intervento
per andare a creare un tragitto mucoso, ho le piattaforme lì a disposizione, potrei prendere l’impronta e fare la
protesi.
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La sutura è a punti staccati, non c’è bisogno di fare suture particolari; qui si tratta di due casi semplicissimi, nel senso
che non è stata fatta nessuna modifica né dei tessuti duri, né dei tessuti molli, per cui il sito era sufficiente, inciso,
preparato l’osteotomia, messo gli impianti, in questo caso non sommersa abbiamo appoggiato i lembi alle teste
implantari.
Qual è il vero problema dell’implantologia non sommersa che ha
comunque una serie di vantaggi?
 Un vantaggio è la riduzione delle fasi chirurgiche, è un
risparmio sia per l’operatore che per il pz;
 inoltre le guarigioni, quando i sistemi sono un pezzo e
l’impianto non sommerso è un unico pezzo; perché l’impianto sommerso ha una parte nell’osso e una parte
che poi dall’osso va verso l’esterno, quindi a livello del margine osseo non è un unico pezzo ma sono due
pezzi che si affrontano tra di loro, anche se in maniera molto precisa, e questo è un problema (ce lo spiegherà
meglio nella prossima lezione quando parleremo del compartimento intermedio. Il compartimento intermedio esiste
negli impianti e in particolare negli impianti sommersi perché abbiamo una zona intratissutale dove abbiamo
comunque una soluzione di continuità; anche le superfici più precise, fatte industrialmente che si accoppiano tra di
loro, comunque vengono lette dal nostro sistema immunitario cellulare come una soluzione di continuità cosa che il
nostro organismo non è che gradisca moltissimo, tant’è vero che il dente è un pezzo solo). L’impianto che è un unico
pezzo sia nella parte intraossea, sia nella parte trans-mucosa si interfaccia meglio con i tessuti molli.
 Quindi è un vantaggio, ma abbiamo un enorme svantaggio nell’impianto non sommerso che è l’estetica,
perché l’impianto non sommerso mi richiede una capacità divinatoria che io non ho, cioè devo prevedere,
quando vado a posizionare l’impianto dove si posizioneranno in fase di guarigione il margine del mio tessuto
e come faccio a saperlo? Dipende dalla chirurgia, dipende dal pz, dipende dal sito, per cui che cosa succede?
Che da un punto di vista biologico, ho un ottimo sistema, da un punto di vista clinico ho altrettanto un buon
sistema, è un sistema anche semplice che mi riduce la chirurgia, ma da un punto di vista di risultato, ho un
sistema che lascia purtroppo poco margine di adattamento perché gli impianti sono stati messi a livello della
gengiva (come vanno messi), ma quando il tessuto è guarito, la gengiva non si troverà più dove l’avevo
posizionata. Questo significa che inevitabilmente i tessuti in fase di guarigione tanto possono rimanere lì,
quanto possono posizionarsi diversamente. Se si posizionano diversamente, cioè c’è una piccola recessione
fisiologica, vedrò del metallo. E fin quando sono dei settori laterali-posteriori può anche andare bene, ma se
andiamo in zone estetiche e significa da quinto a quinto, cominciamo ad avere dei problemi.
Infatti oggi abbiamo superato il concetto di implantologia sommersa e di implantologia non sommersa, perché
questo concetto è stato ribaltato dalla componentistica implantare al ragionamento biologico-clinico.
Non parliamo più di sistema sommerso o non sommerso, ma parliamo di impianto one piece, un pezzo solo, o
impianto two pieces, cioè due pezzi.
 L’impianto due pezzi (quelli che una volta erano alla base del sistema sommerso) significa che ha una parte che va
nell’osso, quindi si ferma al cosiddetto bone level, e una parte che va dal bone level fino al margine della
gengiva.
 L’impianto un pezzo ha sia la parte intraossea che la parte intramucosa in un unico pezzo.
Abbiamo detto che biologicamente va meglio quello un pezzo per alcune caratteristiche, però è poco flessibile
perché non mi dà la possibilità di gestire dove andare a posizionare sotto gengiva la corona protesica. Ma questo non
mi interessa più perché inevitabilmente se voglio usare un impianto one piece perché lo reputo adatto a quel sito e
voglio anche cautelarmi da un punto di vista estetico, forzo e lo metto leggermente più sotto, leggermente al di sotto
della gengiva in maniera tale che mi proteggo. Oppure uso un sistema due pezzi e me lo giostro come voglio: se
voglio una guarigione chiusa, lo chiudo, se voglio una guarigione aperta tipo one piece, ci metto direttamente in fase
intrachirurgica la vite di guarigione e accollo i tessuti lì vicino.
Qual è il vantaggio di questo sistema, di utilizzare un due pezzi che posso decidere se poi mettere o non mettere la
vite di guarigione? È che mi protegge di più sull’estetica; anche se metto la vite di guarigione sono più flessibile di
dove andrà la gengiva perché comunque la mia protesi partirà più in basso, partirà dalla parte terminale della
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componente intraossea. È ovvio che questo sistema mi fa pagare un piccolo prezzo biologico rispetto al sistema un
pezzo perché come abbiamo detto, nel sistema a un pezzo i tessuti si organizzato un po’ meglio, cioè non ho quel
compartimento intermedio che qualche volta dà qualche problema a livello infiammatorio. Oggi questo l’abbiamo
molto superato, infatti le aziende che in passato facevano solo implantologia cosiddetta non sommersa (ed erano,
anche con i clinici che utilizzavano il sistema non sommerso, molto rigidi in quanto affermavano che questo fosse il
sistema implantare migliore), oggi li fanno anche sommersi; stesso discorso vale anche per le aziende che facevano
solo impianti sommersi, perché abbiamo superato questo concetto.
Quindi è fondamentale sapere che esiste un’implantologia sommersa e non sommersa, quali sono i punti di forza e di
debolezza, ma la cosa importante è che oggi sono io a decidere se fare un’implantologia sommersa o non sommersa
e se farla con un impianto un pezzo o con un impianto due pezzi.
(Questo è molto importante, perché quando noi capiamo che cosa c’è rispetto a quello che stiamo facendo, possiamo adattare
le nostre decisioni al pz, al sito e alla biologia che è una cosa fondamentale).

PROTOCOLLO TERAPEUTICO IMPLANTO-PROTESICO IN TRE FASI


Questo è il sistema non sommerso, 2 fasi
• Posizionamento impianto, guarigione ossea senza carico
chirurgiche, prima e seconda fase chirurgica e 1
sommersa o non sommersa
• Periodo provvisorio don “definizione e maturazione biologica” fase implanto-protesica. In figura si può
dei tessuti peri-implantari osservare la parte intraossea, la piattaforma
• Restauro definitivo funzionale ed estetico dell’impianto, dove inizia il moncone e al di sopra
la corona.

CASO CLINICO 3: Per farci capire quello che il prof ci ha appena detto,
prendiamo un caso frontale: questa è un’implantologia sommersa, o
meglio, in questa fase, se immaginiamo di non vedere la radiografia,
definiremmo questo, un intervento di implantologia dentaria con un
impianto due pezzi o bone level. Quindi se nascondessimo la
radiografia che ci dice già cosa abbiamo fatto, diremmo che in questa
situazione abbiamo optato per un impianto a livello osseo, un due
pezzi a livello dell’osso. Arrivati a questo punto posso decidere (come è stato fatto in questo caso), di mettere una
piccola vite che si chiama vite tappo, che serve solo per chiudere la filettatura dell’esagono, e chiudere i tessuti
sopra (la si può osservare in radiografia). Da questo punto di vista era possibile andare verso una guarigione
sommersa oppure si poteva applicare su questa piattaforma implantare in fase intraoperatoria non la piccola vite
per poi metterci sopra i tessuti ma mettere quella vite lunga che abbiamo visto quando facciamo la seconda fase
chirurgica e avremmo trasformato questo intervento da intervento sommerso a intervento non sommerso,
prendendo il vantaggio, per la successiva ricostruzione protesica, di non avere un vincolo di metallo a livello della
gengiva, ma il metallo sarà sotto la gengiva, per cui poi con il moncone si stabilirà quanto esco fuori o meno rispetto
alla gengiva.
Comunque in questo caso abbiamo fatto una classica implantologia
sommersa, abbiamo poi riaperto, messo la vite di guarigione, fatto il
moncone e si osservi il risultato estetico. Abbiamo l’impianto che sta
sopra, abbiamo poi il moncone protesico che finirà probabilmente
all’interno del canale mucoso e poi o la corona protesica che sta al di
sopra. Quindi non ho problemi di posizionare i margini protesici.
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CASO CLINICO 4: Vediamo un caso analogo con un approccio di tipo non
sommerso: è la stessa cosa soltanto che è stato messo un impianto che
nasce un pezzo, cioè che ha una componente endossea e una componente
extraossea intramucosa.
Il prof per non avere problemi estetici ha posizionato l’impianto un po’ più
in profondità, cioè teoricamente facendo riferimento al caso precedente,
classico, di implantologia non sommersa, avremmo dovuto vedere la testa
dell’impianto, invece non la vediamo perché è stato messo 1 mm più sotto,
non è stato fatto il protocollo corretto, ma oggi quel protocollo è stato
superato. Per cui se decidessimo di utilizzare un pezzo e non vogliamo
problemi estetici, dobbiamo metterlo un po’ più in profondità, cioè
dobbiamo un po’ forzare, alterare il protocollo. Infatti quando guarisce,
guarisce sotto gengiva, ma non abbiamo bisogno di fare una seconda fase
chirurgica perché comunque abbiamo già l’accesso all’impianto,
prendiamo le impronte e possiamo risolvere anche questo caso in maniera
estetica come l’altro caso. Questo per farci capire che da un punto di vista
clinico, oggi siamo, fortunatamente, al di là di una settorializzazione tra
sommerso e non sommerso, sono due opportunità che noi abbiamo.
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LEZIONE 5 PARTE 1 IMPLANTOLOGIA 8 maggio 2018 Prof. Ramaglia

Se non sbaglio l’altra volta vi avevo lasciati con la differenza tra la procedura sommersa e la procedura non
sommersa. Vi ho spiegato quali sono le differenze concettuali tra le due procedure e avevamo anche
discusso del fatto che oggi siamo andati leggermente oltre una stretta distinzione tra una procedura
sommersa e non sommersa. Questo perchè entrambe le procedure sono ugualmente valide, con punti di
forza e di debolezza, che abbiamo già detto l’altra volta, per cui possiamo adattare la nostra procedura a
seconda del caso clinico, a seconda del paziente, a seconda del sito dove dobbiamo mettere l’impianto.
Quindi decidere se portare avanti un protocollo di tipo sommerso che richiede una fase chirurgica in più
rispetto a un protocollo non sommerso che ci riduce l’invasività, togliendoci una di queste fasi chirurgiche.
Avevamo anche detto che con la procedura sommersa noi andiamo a sommergere il nostro impianto al di
sotto dei tessuti molli. Lo facciamo di solito laddove noi abbiamo una maggiore preoccupazione sul risultato
estetico, essendo più legati all’imprevedibilità del margine gengivale, di dove questo si posizionerà al
termine della fase chirurgica e di guarigione. Quindi se noi utilizziamo un sistema classico a livello osseo il
problema non si pone, se invece decidiamo di utilizzare un sistema non sommerso nei casi antiestetici
dobbiamo affondare leggermente e quindi un po’ stravolgere quella che è la filosofia del sistema non
sommerso. Questa è la conferma che queste barriere concettuali le abbiamo abbondantemente superate.

Quindi la cosa che vorrei che voi metabolizzaste bene è che non esiste il sistema implantare ideale, anzi
sarebbe stupido ragionare in questi termini. Sta a noi decidere la procedura clinica che andiamo a
realizzare, che tipo di protocollo vogliamo seguire, che tipo di impianto vogliamo inserire, che tipo di
protesi vogliamo fare.

Diverso invece il discorso quando noi andiamo nei settori posteriori, dove l’aspetto estetico può essere
meno importante, e quindi può trovare migliore indicazione l’utilizzo di un sistema non sommerso. Anche
se vi devo dire che nel tempo anche sui settori laterali sono aumentate le attenzioni estetiche perché il
metallo visibile non fa piacere a nessuno. Allora cerchiamo oggi anche nei settori laterali di usare un
sistema sommerso oppure se utilizziamo un altro tipo di impianto cerchiamo di approfondirlo un po’ di più.

Vediamo qualche caso frontale dove dobbiamo avere un po’ più


d’attenzione. Qui vedete che mancano a questo paziente due incisivi
centrali. Paziente con parodontite, quindi anche una situazione di
elementi dentari non simmetrici e allungati per estrusione e riduzione
verticale del supporto parodontale. Qui abbiamo inserito due
impianti sommersi a livello osseo, sebbene l’osso sia non abbondante
è sufficiente per posizionare due impianti di dimensione standard
quindi con un diametro di 4 mm a livello del corpo implantare e di 4.1
mm per la piattaforma protesica. Il sistema sommerso prevede che
dopo le fasi chirurgiche di inserimento noi chiudiamo di nuovo i lembi
di accesso che abbiamo determinato con un incisione in cresta e due
tagli di rilascio per poter scollare meglio il lembo dal lato vestibolare.
Aspettiamo il tempo dell’osteointegrazione, che è uno di quegli
elementi che abbiamo molto cambiato rispetto ai dogmi iniziali di
Branemark. Infatti dai 6 mesi siamo scesi ai 2/3 mesi, questo merito
del miglioramento delle nostre conoscenze biologiche e delle
superfici implantari trattate che possono determinare una
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osteointegrazione più veloce. Diciamo che, alla mandibola possiamo aspettare un paio di mesi, al
mascellare, che è un osso più spugnoso, aspettiamo 3 mesi. Se vogliamo essere più tranquilli ci allunghiamo
di un ulteriore mese, ma oltre i 4 mesi di osteointegrazione, laddove non fosse un post estrattivo,
difficilmente ci allunghiamo. Quando arriva la fase che noi reputiamo sufficiente di integrazione, quindi
diciamo 4 mesi, e la verifichiamo con le nostre conoscenze e con i reperti radiografici, dobbiamo fare la
seconda fase chirurgica.

La seconda fase chirurgica in caso di impianti sommersi è una fase molto importante. Perché è la fase in cui
noi possiamo migliorare le condizioni dei tessuti molli, che non erano soddisfacenti quando abbiamo
posizionato gli impianti. Qual è la cosa cui noi dobbiamo prestare maggiore attenzione quando facciamo un
intervento? La cosa più importante che deve essere nostro elemento giuda nella seconda fase chirurgica
non deve essere solo quella di fare un lembo per scoprire la piattaforma dell’impianto, ma la cosa di cui
preoccuparci contestualmente all’apertura della piattaforma dell’impianto, è che noi dobbiamo fare un
ragionamento sul tessuto molle cheratinizzato. Come per i denti l’assenza di un tessuto cheratinizzato non
inficia la salute dei tessuti perimplantari come non inficia la salute dei tessuti parodontali, però nei tessuti
perimplantari abbiamo due elementi sfavorevoli. Uno comune a quello con i denti, cioè quando non c’è
tessuto cheratinizzato (che significa alla fine avere anche un po’ di tessuto aderente) le manovre di igiene
orale diventano molto fastidiose per i pazienti, perchè se passo la setola dello spazzolino su una mucosa
alveolare che non è cheratinizzata, facilmente mi procuro delle lesioni e del dolore. Oppure per evitare non
spazzolo bene, si accumula la placca ed è ancora peggio. Quindi questo vale per i denti e per gli impianti.
Nell’ipotesi invece che io sia un soggetto che riesce a spazzolare bene, senza ferirmi, senza farmi danni
eccetera, non serve che ci sia tessuto cheratinizzato perché ci sia salute. Tessuto cheratinizzato è funzionale
ad un mantenimento igienico. Questo vale per dente e per impianti. Negli impianti la situazione si aggrava
perché non c’è un attacco connettivale, abbiamo un contatto connettivale che viene come tessuto di
guarigione di una cicatrice. La presenza di un tessuto cheratinizzato rende questo manicotto fibroso, che è
intorno all’impianto, più stabile rispetto ad una mucosa non cheratinizzata.

Secondo elemento discriminante per l’impianto è che intorno ad un elemento dentario almeno 1 mm di
tessuto cheratinizzato lo abbiamo sempre, perché è il tessuto cheratinizzato che fa parte della parete
esterna del solco gengivale fisiologico. L’input di cheratinizzazione di questo epitelio viene sempre dai
connettivi, infatti se prendo un pezzettino di connettivo dalla cute e lo metto su una mucosa in bocca,
ovunque io lo metta, mi determina un epitelio cheratinizzato uguale all’epitelio cheratinizzato della cute. Se
io prendo un connettivo dal palato, mucosa masticatoria cheratinizzata, lo metto in qualsiasi punto della
bocca, si formerà l’epitelio cheratinizzato non di tipo cutaneo, ma di tipo masticatorio, perché è il
connettivo che determina geneticamente l’input alle cellule epiteliali di che tipo di tipizzazione assumere.
L’input viene dal legamento parodontale, per cui anche quando non c’è gengiva cheratinizzata aderente,
noi abbiamo una gengiva non aderente perché è parete del solco o della tasca, ma è cheratinizzata con
input proveniente dal connettivo del legamento parodontale. Quando abbiamo invece un impianto il
legamento parodontale non lo abbiamo, quindi se intorno è tutta mucosa alveolare, cioè mucosa non
cheratinizzata, tale rimane anche quando faccio la commissione e determino un solco artificiale. Questo
perchè è il tragitto mucoso che io vado a determinare in questa fase di scopertura. Dunque non è altro che
un tragitto mucoso attraverso una mucosa cicatriziale della zona edentula che assumerà una serie di
caratteristiche simili a quelle del solco, anche se di profondità variabile, ma non assume le caratteristiche
istologiche per quello che vi ho appena detto.

Ora che avete ben in testa quali sono i problemi biologici, voi non sbaglierete mai le vostre procedure
cliniche, se voi non conoscete le questioni biologiche andrete a casaccio, e quindi qualche volta vi andrà
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bene, e qualche volta vi andrà male. Quando andiamo a fare una riapertura, non dobbiamo solo
preoccuparci di fare un accesso alla piattaforma implantare e quindi di creare un tragitto mucoso tra
l’esterno e l’impianto, ma dobbiamo anche garantirci che i tessuti molli che sono intorno all’impianto siano
il più possibile tessuti cheratinizzati.

Perché è importante la fase di riapertura o


scopertura? Perché questo tessuto cheratinizzato io
me lo conservo, me lo devo conservare! Io avrei
potuto fare un’incisione centrale rispetto
all’impianto, che non significa sempre centrale
rispetto alla cresta, perché questa cresta il tessuto
cheratinizzato ce l’ha, quindi il tessuto lo devo
mantenere e portare intorno agli impianti. Se io
avessi fatto un’incisione centrale all’impianto qui,
probabilmente in questa zona avrei avuto
pochissimo se non nulla di tessuto cheratinizzato e
non si sarebbe riformato. Allora ho fatto
un’incisione offset, leggermente spostata rispetto al centro dell’impianto, una specie di portabagagli, tutto
in mucosa cheratinizzata, quindi non avrò nessun problema a livello cicatriziale o altro. Quindi sono andato
solo in mucosa cheratinizzata, ho aperto questo sportello, ho scoperto l’impianto e tutto il tessuto
cheratinizzato mi andrà, in questo caso, vestibolarmente all’impianto. Palatalmente non ho problemi
perchè è tutta mucosa masticatoria cheratinizzata. Dopo aver posizionato le viti di guarigione e aver
posizionato vestibolarmente il tessuto, vedrete come il tessuto attecchisce. In questo caso dove l’impianto
è stato messo un po’ più vestibolare è stato necessario fare questa piccola trasposizione di tessuto, in una
fase secondaria che è quella della scopertura, ma determinante. Tanto è vero che in questa fase a volte
facciamo anche degli innesti di tessuto connettivo, a volte dobbiamo fare un ulteriore intervento sui tessuti
molli perché non otteniamo subito quello che vogliamo, ma è una fase assolutamente non banale, semplice
ma non banale. Vedete dopo la fase di maturazione e guarigione, come nonostante questo impianto sia
spostato leggermente a livello vestibolare, quanto tessuto cheratinizzato rappresenta la parete esterna del
mio tragitto mucoso. Questo tessuto è fondamentale non solo per l’estetica e per avere ben nascosti i
margini del moncone e protesici, ma anche biologicamente per garantire in primis un buon sigillo
marginale agli impianti, perché il tessuto cheratinizzato sostiene meglio quel contatto connettivale che non
è un attacco come per i denti, e poi seconda cosa ci garantisce che il paziente avrà delle condizioni per
poter effettuare delle corrette manovre di igiene orale.

Una volta che si è stabilizzato dopo qualche settimane intorno alla vite di guarigione il nostro tessuto molle,
prendiamo le impronte con dei sistemi di transfert, creiamo dei modelli, su quei modelli creiamo dei
monconi che possono essere in metallo, metal free, più estetici, generalmente in zirconia. In questo caso ci
sono dei monconi in metallo, questi monconi vengono avvitati e su questi
due monconi avvitati abbiamo realizzato due corone cementate. Perché
adesso arriva un’ulteriore fase in cui dovete fare una scelta dopo aver
preso l’impronta. Cioè se la protesi che volete andare a realizzare sul
vostro impianto sia una protesi avvitata, cioè che si mantiene perché c’è
una vite che fissa la protesi all’impianto, oppure voi volete una
mesostruttura al moncone, in cui è il moncone che si avvita all’impianto e
al di sopra di questo moncone analogamente a come avviene su un
supporto dentario.
56

Quando c’è stata cementazione, può esserci un po’ di infiammazione dovuta soprattutto alle manovre di
rimozione del cemento (cosa fondamentale).

La procedura per avere una protesi cementata soprattutto per quel che riguarda le varie prove che bisogna
fare, la definizione dei punti di contatto, ecc ecc, sono tutte cose che si realizzano sui modelli ma vanno poi
verificate in bocca perché modelli e bocca non corrispondono al 100% sono più semplici quando abbiamo
una protesi cementata. Questo perché se fosse avvitata, ogni volta, ad ogni prova dovremmo svitare e
riavvitare. Quindi il vantaggio di una protesi cementata è che la prova è molto più veloce.

Lo svantaggio invece è che dobbiamo avere più elementi di precisione perché quando la protesi è avvitata
noi lavoriamo su prodotti che sono realizzati industrialmente e sono precisi. Quando andiamo su una
protesi cementata sono lavori che richiedono più fasi e amplificano l’eventuale margine d’errore. Il punto
delicato della protesi cementata è che non da la solidità di sistema che noi abbiamo con l’avvitata che è più
stabile e solida. Secondo problema della cementata, anche se da un punto di vista di clinica garantisce un
percorso di lavoro più comodo, è che dobbiamo stare molto attenti a dove andiamo a posizionare in questo
tragitto mucoso, la linea di finitura del moncone, perché molto spesso vedo monconi che sono posizionati
molto in profondità come linea di finitura rispetto al tragitto mucoso. Questo significa che quando andate a
cementare la protesi, avete grosse difficoltà ad andare a cementare qua dentro. Tant’è vero che una delle
cause delle complicanze biologiche dei tessuti perimplantari (perimplantiti) è la presenza di residui di
cementi nei tragitti mucosi, e non è tanto infrequente. Quindi fate in modo che quando realizzate protesi
cementate, queste abbiano una linea di finitura che sia raggiungibile dopo la fase di cementazione per
poter asportare il cemento in eccesso.

Il terzo svantaggio clinico di una protesi cementata è che rimuovere una protesi su impianti dopo la
cementazione risulta molto complicato. Questo perché a differenza dei denti dove noi abbiamo da un lato il
moncone dentario e dall’altro la struttura artificiale mediati da un cemento, negli impianti invece abbiamo
un moncone realizzato per essere ritentivo con un elemento protesico cementato al di sopra, nel tempo i
due sistemi che sono stati prodotti entrambi in laboratorio (non come prima dove avevamo il moncone
dentario) anche se mettono i cosiddetto spaziatori la congruità tra moncone protesico e corona protesica
rende molto difficile staccare col tempo le due strutture, tranne che uno non le distrugga. Questo è un
grosso problema che fa tendere alla protesi avvitata che consente una possibilità di ritorno a quella
struttura protesica ogni volta che vogliamo. La protesi avvitata trova sempre maggiore indicazione quanto
più è complessa la riabilitazione che andiamo a fare.

Domanda :” E’ preferibile utilizzare un cemento provvisorio?”

Assolutamente! Essendo moncone e cappa realizzati al di fuori della bocca su un qualcosa che non è
mediato da un sistema di impronta e quindi di trasformazione, la ritenzione tra la corona e moncone è
molto più forte. Tanto è vero che il cemento ha un ruolo molto più secondario nella cementazione tanto
che spesso in cemento provvisorio usato all’inizio diventa poi anche il cemento definitivo.
57

Abbiamo la possibilità comunque di rendere avvitate


anche protesi che hanno una mesostruttura
(struttura intermedia tra impianto e sovrastruttura
protesica) in questo caso la mesostruttura è il
moncone e la sovrastruttura è la corona. Ci sono
anche dei sistemi per avvitare con delle piccole viti
dal lato palatale la corona al moncone che a sua volta
viene avvitato. Quindi le possibilità tecniche di
soluzione sono diverse.

Qui dal lato palatale abbiamo creato due piccole


filettature che vanno pala talmente ai monconi, cioè
dal lato palatale del moncone c’è la parte femmina di
questa vite molto piccola, che ci consentono non più
di cementare, ma di avvitare queste corone.

Dunque dopo tutto quello che ci siamo detti possiamo concludere che sono pochi gli elementi per la scelta
di un sistema impiantare, ma sono importanti!

Il sistema impiantare sommerso o non sommerso, di questa o quella azienda sarà vostra libera scelta, il mio
consiglio è di scegliere i prodotti di qualità e la qualità un minimo di costo ce l’ha. Allora voi di cosa vi
dovete preoccupare?

SLIDE – ELEMENTI PER LA SCELTA DI UN SISTEMA IMPLANTARE

1) Materiale e precisione di produzione


2) Geometrie nel disegno
3) Forme, dimensioni e caratteristiche di superficie
4) Semplicità
5) Flessibilità
6) Innovazione

In primis che l’azienda che scegliete produca prodotti precisi e puliti perché non tutti gli impianti sono
uguali. Per esempio l’impianto è fatto con un tornio che è una macchina che deve essere lubrificata per
lavorare, anche con olio. Allora una volta prodotto l’impianto che non è , se non per materiale, molto
diverso dalla vite del ferramente, c’è bisogno di un attentissimo controllo di qualità, di sterilizzazione, di
decontaminazione, di detersione dell’impianto che non è per nulla una cosa banale per un’azienda. Quindi
il prodotto costa di più. Se poi mi chiedete se gli impianti sono sovrastimati economicamente io vi rispondo
di si. Se noi prendiamo le migliori aziende implantari, noi scontiamo non solo la ricerca e l’innovazione che
è anche giusto pagare come investimento e mi fa piacere farlo per avere un prodotto sempre
all’avanguardia, (esempio automobile “sono tutte macchine di formula 1 ma c’è differenza tra una ferrari e
una macchina che arriva sempre ultima. Stessa cosa vale per gli impianti che non sono tutti uguali) ma
scontiamo anche, seconda cosa, il marketing. Questo per via della commercializzazione che viene riversato
su di noi. In Italia ci sono 300-400 impianti sul mercato per un prezzo di impianto che va dai 300 ai 50 Euro.
Capite bene che è un range enorme. Allora non si può dire siano tutti uguali e dovete capire le
caratteristiche di tutti, senza dubbio l’impianto di 300 non vale tali soldi. Ne vale di meno perché ci sono
una serie di voci che vi ho appena detto. Attenzione però che non è che l’impianto che costa di meno è un
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affare, chiedetevi sempre perché. ( divagazione sulla sanità pubblica e le problematiche di gestione nella
nostra struttura sociale).

Altro punto importante : non fatevi coinvolgere mai da


rappresentanti in sistemi troppo arzigogolati. Io spero di
avervi fatto capire quali sono le cose importanti in
implantologia, noi dobbiamo conoscere bene la biologia
che è una nostra conoscenza indipendente dall’impianto.
Si parla tanto di perimplantiti, ma secondo voi quando
viene una perimplantite perchè è stato lasciato il cemento
là sotto perché non è stato ne tolto ne visto…. Ma di che
vogliamo parlare? Vogliamo parlare se la superficie era
giusta, sbagliata…. Dobbiamo parlare del fatto che c’è
stata scarsa attenzione da parte di chi l’ha messo! Di
questo bisogna parlare! Noi vediamo impianti che non hanno alcun tessuto cheratinizzato, messi
ovunque…. Non va bene il concetto che è l’impianto quello che fa la differenza. Non è l’impianto!
L’impianto deve essere di qualità e di tutte le caratteristiche elencate, ma siamo noi che dobbiamo saperlo
mettere grazie ai presupposti biologici che devono guidare le nostre mani e poi anche con l’esperienza che
accumuleremo.

Flessibilià, ribadisco che non dovete abbracciare “solo sistema sommerso”, “solo sistema non sommerso”…
dovete essere flessibili. Poi l’innovazione!

Un’altra cosa a cui tengo molto è che la terapia impiantare è una terapia che deve partire da un progetto
protesico per arrivare ad una realizzazione protesica. Io sono più vicino alla fase chirurgica, ma sarei uno
stupido se io pensassi che il successo di una terapia implanto protesica è tutto nelle mani del chirurgo.
Assolutamente no! O lavorerete in team o da soli, ma se lavorate da soli è meglio perchè io che lo metto ho
gia ragionato sulla protesi che sarà e lavoro in virtù di ciò. Fare un lembo non è difficile, fare un buco
nell’osso non è difficile e neanche avvitare una vite in quel buco, è una cosa che si impara.

2^ parte - Prof. Ramaglia (8/5/2018) MDM

Se siete indecisi fate fare una ceratura diagnostica, e vi fate fare la mascherina che vi dice dove devono
stare i denti. Apro il lembo e vedo se ho osso. Sfatiamo il mito della chirurgia protesicamente guidata:
posso farla protesicamente guidata ma ho anche un margine di compromesso. Posso compensare
protesicamente: se metto la mscherina e vedo che l’osso non è sufficiente, posso usare il moncone
angolato. Non devo necessariamente mettere l’impianto dritto, posso metterlo inclinato e correggo
l’inclinazione col moncone. Partite quindi sempre dal progetto protesico. Non esise edentulia che non
possa essere trattata con impianti, ciò che dovete valutare è se è opportuno o non oppportuno.
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Vi faccio un esempio: avete due denti preparati per una protesi precedente ed una edentulia singola tra i
denti corretta con un impianto. Tutto fantastico e bellissimo, ma secondo voi è stata una scelta terapeutica
giusta? Io non lo so, sicuramente un impianto e tutti denti singoli consentono una igiene migliore, di
passare il filo interdentale tra tutti i denti. Dobbiamo valutare se la richiesta del paziente la dobbiamo
accogliere o meno. E’ più facile mantenere 3 corone singole che non un ponte. Se però per avere quel bel
risultato, devi fare 10 interventi, rigenerazioni, lembi, spendere un sacco di soldi, ti deve venire il dubbio se
ne vale la pena. Su alcune cose possiamo essere categorici e dire NO. A volte sono richieste che hanno la
loro logicità. Ovviamente al paziente va specificato tutto ciò che si deve fare, la strada da percorrere.

Tornando alle indicazioni…

L’implantologia è nata sulle edentulie totali. I dati a lungo termine sono legati ai primi casi di edentulie
totali, poi l’abbiamo traslata alle altre edentulie. Lungo termine sono 10 anni, medio termine sono a 5 anni.
L’edentulia totale si può fare in tanti modi:

possiamo mettere 2 impianti e sopra una protesi mobile overdenture, su 2 o 4 impianti possiamo mettere
agganci singoli e realizzare sopra una barra e su questa barra una overdenture (rimovibile ridotta che si
aggancia); oppure mettiamo una serie di impianti e costruire invece una protesi fissa (cementata o
avvitata). La protesi cementata la cito soltanto, ma le protesi fisse su impianti devono essere avvitate e oggi
abbiamo ridotto anche il numero degli impianti. Possiamo accontentarci anche di 4 impianti. Numero
minimo di impianti di una protesi fissa di una arcata edentula è 4 impianti.

3 o 2 impianti sono pochi. Quattro impianti vanno bene


per la mandibola, per il mascellare sono insufficienti.
Negli ultimi 10 anni questi impianti possono essere
tilted e questo si può fare. E’ una procedura affidabile
e predicibile. Gli impianti inclinati nelle zone posteriori
devono avere una lunghezza di almeno 13-15mm. Sul
mascellare superiore se andiamo a mettere 4 impianti,
dobbiamo avere una certa dimensione di questi
impianti.

Se io posso mettere 6 impianti, devo mettere 6


impianti. Questo vale meno per la mandibola, ma vale
molto per il mascellare superiore. Perché non solo una
distribuzione del mio poligono di appoggio migliore su 6 impianti che non su 4. Se io perdo 1 dei 4 impianti,
è questo il problema.

Se ne ho 6, ho un paracadute. Questo è meno vero alla mandibola, ma anche alla mandibola, se posso,
metto 6 impianti. 4 impianti è un limite che va bene se io non ho osso e non voglio sottoporre il paziente a
ricostruzioni ossee. Sono folle se posso mettere 6 impianti e ne metto 4, come sono folle se metto 16
impianti. Posso capire 8 impianti al mascellare superiore perché l’osso è più spugnoso, non li capisco alla
mandibola. la mandibola va bene con 6. Più aumenta la distanza tra gli impianti e meglio è.
60

CASO CLINICO:

esponiamo l’osso mandibolare, facciamo solo 2


impianti. Dipende dalle scelte anche del paziente,
dalla capacità di spesa. Una guarigione sommersa,
chiudiam il tutto. Osteointegrazione, vite di

guarigione. Qui notiamo che non c’è tessuto


cheratinizzato. Il paziente avrà molta difficoltà a
spazzolare, avrà dolore. Se questo fosse stato un
dente, un minimo di tessuto cheratinizzato lo
avremmo avuto. In queste circostanza o facciamo l’innesto ( cosa migliore) o siamo attendisti (vediamo se il
paziente riesce a pulire). Questa situazione non è detto che sia patologica, ma lo può diventare. Le
mandibole edentule hanno questo problema che se c’è tessuto cheratinizzato, è sottile oppure non c’è.

Il difetto radiografico è in realtà solo osso un po’ meno mineralizzato.

Altra possibilità: overdenture, c’è una situazione al limite e vediamo se il paziente può o non può
spazzolare. Su due impianti possiamo fare una piccola barra che serve a
dare una maggiore stabilità e ritenzione della protesi. Ha un aggancio
posteriore. Qeusto lo facciamo per impianti ravvicinati.

Mandibola a rischio di frattura ma due impianti siamo riusciti a metterli.


Questa persona erano anni che nin poteva mettere la protesi inferiore.
Abbiamo reso felice questa vecchina.

Sviluppiamo un piano di trattamento e discutiamolo col paziente (il


rapporto col paziente è più importante del consenso informato ed è quello
che previene i contenziosi medico-legali).

Valutiamo:

Quanto il paziente può investire nella sua edentulia?

Cosa vuole, quali sono le sue aspettative?

Va bene una protesi bloccata?


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Va bene una protesi rimovibile che ha una discreta ritenzione?

Valutare i presupposti anatomici.. vuole riavere i denti come prima di averli persi?

“Io vorrei i denti come quando prima li perdessi”….mmm… brav

ma questo cristiano i denti come li ha persi? E’ in grado di mantenerli?

Digressione sul fatto che le complicanze in implantologia insorgono dopo molto tempo, per questo non
abbiamo molti contenziosi medico-legali…

A questo paziente meglio che faccio una barra, che è più facile da pulire rispetto alle strutture avvitate (le
toronto) che potete smontare solo voi.

Si salvano solo perché vengono a controllo dopo 8-10


mesi, le protesi vengono svitate, pulite e detersi i
monconi.

E’ importante motivare il paziente all’igiene per riuscire


ad avere risultati a lungo termine.

Noi lo possiamo agevolare con sedute di richiamo, con


igiene professionale.

Mostra un caso di un paziente edentulo totale a 50 anni


a cui ha fatto 4 impianti con protesi su barra a livello
mandibolare. Però il paziente si è dimostrato diligente e
scrupoloso nella sua igiene, forse oggi il professore
avrebbe fatto protesi avvitata. A un certo punto glielo
aveva pure proposto ma il paziente era soddisfatto.

Quindi… il campo di scelte sono tante e devono essere


ponderate.

Altra situazione: il paziente voleva la protesi fissa, ho


fatto protesi avvitata su impianti (toronto) Lo svantaggio
della protesi è che è più difficile pulirla. Ovviamente
deve venire a mantenimento regolare.

Altra possibilità è: protesi con 6 impianti distribuiti misti


a manconi dentari e struttura circolare cementata.
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63

Implantologia – Ramaglia – Lezione 6 – 15/05/2018 W.L.M

La volta precedente abbiamo parlato della varie tipologie di edentulie che si possono risolvere con l’ausilio
degli impianti. Le abbiamo distinte in edentulie:

 Totali
 Parziali
 Monoedentulie.

Abbiamo visto quindi le varie possibilità. Ovviamente le possibilità maggiori sono nell’ambito dell’edentulie
totali, perché si possono risolvere con un numero variabile di impianti. Numero variabile significa da 2 ad
“infinito” (facendo riferimento al grottesco caso clinico in cui sono stati utilizzati 16 impianti in un’arcata).
In ogni caso il minimo sono 2 impianti, a livello mandibolare; quanto invece a livello del mascellare
superiore 2 impianti sono troppo pochi per le caratteristiche strutturali dell’osso; infatti due impianti a
livello mascellare non hanno una sufficiente stabilità nel tempo. In realtà non vi è nulla di categorico, ma
secondo l’evidenza scientifica due impianti indipendenti fra loro, con due attacchi a pallina ed una protesi
Overdenture (la quale è una protesi in cui gli impianti svolgono un ruolo di ritenzione e non di supporto,
perché poggia moltissimo sulle mucose), vanno bene per la mandibola. E gli impianti nel caso di
Overdenture servono moltissimo, perché i pazienti con creste ossee molto riassorbite, le quali non
garantivano stabilità alla protesi mobile, con questi due impianti con attacco a pallina riescono a risolvere
radicalmente il problema dal punto di vista funzionale, estetico ed anche e soprattutto relazionale. Quindi,
questa soluzione dell’Overdenture al mascellare superiore ha meno riscontro di durata nel tempo, ha
minore predicibilità, per cui al livello del mascellare si preferiscono avvitare come minimo 4 impianti, i quali
possono essere anche indipendenti fra di loro. Ovviamente se questi 2 (a livello mandibolare) o,
soprattutto, 4 (a livello mascellare) impianti li uniamo fra di loro con una barra si avrà un grande vantaggio.
Infatti la barra fa aumentare la quota di supporto alla struttura implantare; questo perché, partendo da
attacchi indipendenti, ovviamente il rapporto del carico misto (implanto-muscoso) tende a cambiare a
favore di quello implantare e si riduce quello mucoso. Quindi la barra tenderà a migliorare non solo la
ritenzione della protesi, ma anche il suo carico, ossia il supporto. Ribadendo, la barra determinerà due
effetti:

1. Aumenta il carico sugli impianti. Perché quando ci sono degli impianti indipendenti con una
Overdenture, quest’ultima poggia molto sulle mucose, e gli impianti svolgono per lo più una
funzione di ritenzione. Quanto invece se si mette una barra, oltre alla ritenzione si avrà anche una
funzione di supporto.
2. Inoltre il vantaggio della barra, soprattutto al mascellare superiore, è quello di splintare gli impianti
fra loro. Questo è positivo perché gli impianti legati e splintati fra loro, con una mesostruttura o con
una sovrastruttura, ovviamente hanno una maggiore stabilità biomeccanica ai movimenti laterali. E
quello che deve preoccupare non sono i carichi assiali, ma quelli eccentrici (laterali). Se un impianto
è singolo, questo sarà esposto maggiormente ai carichi eccentrici; se invece un impianto è legato,
ovviamente i carichi eccentrici saranno ridotti perché si distribuiranno su tutta la struttura,
soprattutto nel caso di edentulia totali al mascellare superiore dove utilizziamo una struttura Cross-
arch, che va dal lato destro al lato sinistro.

Inoltre abbiamo detto che 4 impianti è anche il numero minimo di impianti per poter ipotizzare la scelta tra
una protesi rimovibile ed una fissa. Ma per quanto riguarda la protesi fissa bisogna chiarire bene alcuni
concetti. Infatti in una edentulia totale si ha quasi sempre un riassorbimento osseo, il che significa
un’alterazione anche della cresta mucosa, dato quando l’osso alveolare si ritira viene a mancare il suo
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supporto ai tessuti molli. Quando questo riassorbimento è minimo, si


può immaginare di eseguire un portesi come questa [Figura 1] che si
chiama Protesi Dentaria, dato che c’è solo estetica bianca. Questa
protesi si può far quando il riassorbimento è minimo, e quindi è stata
preservata la naturale estetica rosa della gengiva, andando a porre con
la protesi i denti lì dove dovrebbero stare. Ovviamente la difficoltà sta
nel porre correttamente i denti in arcata, e qui è molto importate la
corretta progettazione protesica [Figura 2]. Senza un corretto progetto
protesico si rischia di inserire un impianto non dove dovrebbe cadere
un dente, ma a metà tra due denti; e allora si creerà una zona difficile
alla detersione, perché per essere pulito e deterso si deve ricreare la
corretta posizione del dente, con uno spazio interdentale mesiale e
distale dove il paziente può inserire lo scovolino o il filo interdentale.
Inoltre, se l’impianto cade fra due denti, è ovvio che per mantenere
l’estetica i due denti dovranno essere più profondi nella mucosa,
aggravando ulteriormente la possibilità di una corretta detersione. Nel Figura 1
caso in cui si fa un corretto progetto protesico, possiamo avere il
risultato prima vista [Figura 1]. Come detto
questa è una Protesi Dentaria, in quanto con
questo manufatto protesico si va a
ripristinare soltanto l’arcata dentaria. Se
invece avessi un grosso riassorbimento
osseo, si dovrebbero fare dei denti
eccessivamente lunghi, e questo ha delle
ripercussioni non solo dal punto di vista
estetico, ma anche funzionale, in quanto poi
la struttura dei denti diventa troppo delicata
e si romperebbe facilmente (soprattutto nel
settore posteriore). In tal caso, allora,
bisogna compensare riproducendo la quota
di tessuto alveolare che è adnato perso con
Figura 2 il riassorbimento, aggiungendo al di sotto
dei denti una porzione alveolare rosa, ossia
con l’estetica rosa. Se prima si parlava di Protesi Dentaria o Dentale su impianti, adeso si parla invece di
Protesi Dento-Alveolare [Figura 3]. Quella
Dento-Alveolare è quella con al quale
ripristiniamo i denti ed una certa parte di
tessuto alveolare. Però quando c’è un
riassorbimento, spesso bisogna
arrangiarsi sull’osso lì dove è presente; e
l’osso non sempre capita in una zona che
ci garantisce una buona detersione. Qui
nasce un grande dibattito che oggi c’è, a
riguardo delle condizioni anatomiche di
edentulie totali con riassorbimento osseo
dove vi è osso a sufficienza per andare a
d’inserire degli impianti senza fare una
ricostruzione ossea; questo perché
quando si esegue una protesi dento- Figura 3
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alveolare non bisogna preoccuparsi solo della sua realizzazione (che non è complicata), ma bisogna
preoccuparsi anche e soprattutto che il paziente possa mantenerla nel tempo. Perché se si fa una buona
protesi, sia dal punto di vista estetico che funzionale, ma poi il paziente non è in grado di asportare
quotidianamente la placca, questa protesi diventa ingestibile. Infatti poi si gestiscono facendo venire spesso
i pazienti a controllo, svitando le protesi avvitate, per poi pulire; e questo richiede tempo, e non sempre i
pazienti riescono a venire. Ci sarà quindi un sistema di terapia di supporto nel tempo che non è facile da
portare avanti, anche dal punto di vista economico. Proprio per questo è sempre più ricorrente l’utilizzo
delle protesi fisse nelle quali si uniscono gli impianti fra di loro con una barra, e si fa una protesi fissa che si
può però asportare grazie ad un sistema Conometrico, o di chiavistelli, oppure di fresaggio. Questa
soluzione però ha un problema comunicativo con i pazienti, perché in genere questi intendono la protesi
fissa come qualcosa di saldo come i denti naturali. In ogni caso questa soluzione [Figura 3], che è un
Toronto Bridge, è spesso più brutta, ma è anche più detergibile, perché è scostata dalla cresta alveolare.
Ma con questa protesi il paziente avrà una continua infiltrazione di saliva tra il fornice vestibolare e il
pavimento della bocca, o ritenzione di cibo quando mangia. Quindi tutt’oggi si fanno delle protesi che
poggiano sulle mucose, con dei piccoli accessi grazie ai quali il paziente può detergere, ma deve essere lo
stesso molto bravo. Ricordiamo allora che aumentando il numero degli impianti possiamo sempre più
andare verso quella che è una protesi fissa, ma questa può essere anche una protesi Amovo-Inamovibile,
ossia una protesi che una volta bloccata è fissa ma che il paziente può anche rimuovere da solo. Quando
invece l’osso è presente e si vuole eseguire una protesi dentaria, è necessario fare una buona progettazione
protesica, avere una dima di riferimento, e mette gli impianti nelle zone dove capitano i denti.

Edentulie Parziali

Le edentulie Parziali sono delle edentulie che possono


essere:

 Distali [Figura 4],


 Intercalate [Figura 5].

Figura 4 Figura 5

Prima di procedere però, è importante analizzare il concetto del se legare o meno tra loro denti e impianti.
Questo perché quando affrontiamo edentulie parziali ci si può trovare in questa circostanza. La regola di
base ci dice: “denti con denti, impianti con impianti”. Quindi di base bisogna rispettare questa regola.
Questo per una questione biomeccanica, per due motivi:

1. Dente e impianti sotto un carico masticatorio hanno due comportamenti differenti. Il dente ha una
sua mobilità minima fisiologica di 0,2mm, quanto invece l’impianto non ce l’ha. Quindi quando
carichiamo una struttura come un ponte, con da un lato un impianto e dall’altro un dente, con le
forze di masticazione il dente sotto carico tende ad ammortizzare le forze. Quindi le strutture che
sono rigide non riescono a seguire questa flessione, e di conseguenza si può avere decementazione
del manufatto protesico fisso dal moncone del dente (perché ovviamente non è possibile avvitare
la protesi fissa su un dente), anche se in maniera impercettibile. Ma quando si decementa un
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manufatto protesico, accade che ci saranno infiltrazioni, con conseguente accumulo di placca e nel
tempo avvio di processi cariosi. Per questo bisogna sempre mantenere i denti con i denti, e gli
impianti con gli impianti. Ma ci sono, in alcune circostanze estreme, delle situazioni dove per non
legare un impianto ad un dente è necessario un piano di trattamento troppo complesso ed
invasivo. Allora, in estrema ratio, è possibile collegare denti ed impianti, con però una importante
accortezza: proteggere l’elemento dentario dalla decementazione. Quindi bisogna prepararlo
maggiormente ed eseguire un cosiddetto Sistema Doppio, con una Cappa di Protezione
sull’elemento dentario affinché quest’ultimo risulti essere protetto da un rivestimento dato da una
cappa in metallo, sulla quale cappa verrà poi realizzata la struttura protesica che si aggancia anche
all’impianto. La cappa è importante in questi casi, perché rappresenta l’unica protezione per il
dente qualora ci sia und decementazione, evitando l’insorgenza di processi cariosi per le
infiltrazioni. Ma chiaramente non sono soluzioni semplici da gestire.
2. Inoltre per via del carico masticatorio nel tempo l’impianto rimane lì dove viene inserito, mentre
invece il dente va progressivamente in inclusione. Come se vi fosse un forza ortodontica su
quell’elemento dentario. Quindi quando possibile separiamo sempre denti ed impianti.

Per quanto riguarda le soluzioni, nelle edentulie parziali possiamo eseguire quello che preferiamo, con 1, 2
o più impianti, l’importante è una buona progettazione protesica. Nel caso di questa edentulia distale sono
state inseriti due impianti [Figura 6]. Ovviamente quando c’è osso a sufficienza, nei settori posteriori
utilizziamo impianti con una piattaforma
di diametro più ampio, di circa 5mm,
rispetto agli standard che sono di 4mm;
questo soprattutto per l’emergenza
protesica, perché se bisogna mettere un
molare, più piccola è la piattaforma
protesica più l’emergenza del molare
risulterà svasata e a cavolfiore, invece più
è ampia la piattaforma più l’emergenza
sarà armonica. Però bisogna tener
presente che, se prima si pensava che
maggiore è il dente maggiore deve essere
la dimensione dell’impianto, in verità si è
visto che questo non serve a niente, anzi
è peggio se non si lascia abbastanza osso
Figura 6 intorno. Quindi l’importante è che nei

settori posteriori, se l’osso ce l’ho consente, si


utilizzano impianti di 5 - 5,5mm ma non oltre.
A volte possono essere utilizzati di 6mm
quando si vogliono applicare nei settori
posteriori, per via di alterazioni anatomiche,
degli impianti corti; difatti si cerca di
compensare ciò che perdo in termini di
superficie per via della ridotta altezza
aumentando il diametro. Appunto gli impianti
Super Short [Figura 7], che son impianti di 5 –
6 mm di lunghezza, hanno un diametro di 5 o
6mm proprio per cerca di incrementare l’area
disponibile all’osteointegrazione per via della
Figura 7
ridotta altezza. Infatti non ci sono impianti
67

corti (ad es di 5mm di altezza) con un


diametro di soli 4mm, perché sarà u
impianto che quasi sicuramente non avrà
una sufficiente osteointegrazione. In ogni
caso è importante fare attenzione ad
individuare il canale alveolare, con
adeguati studi radiografici, in alcuni casi
basta una endorale, ma in ogni caso è
meglio fare anche una indagine
tridimensionale. Dopo aver inserito gli
impianti e avuto l’osteointegrazione, vi è la
fase dell’impronta [Figura 8]. In questo
modo il Tecnico avrà sul modello la
corretta posizione della testa degli impianti
Figura 8
grazie agli analoghi. Infatti la radiografia in
alto a destra ( ) è quella che si esegue
prima di prendere l’impronta. In questa radiografia di vedono gli impianti inseriti all’interno dell’osso, e i
Transfer da Impronta avvitati sugli impianti, che ci permettono di trasferire nell’impronta l’informazione
dell’orientamento degli impianti. E si esegue questa radiografia perché si vuole essere sicuri che il Transfer
sia arrivato correttamente sulla testa dell’impianto; questo lo si può valutare anche dal punto di vista tattile
mentre lo si posiziona, ma si può anche essere ingannati. Quindi prima di prendere l’impronta di si fa
sempre prima una radiografa endorale di controllo, e bisogna vedere l’assenza di soluzione di continuità tra
la piattaforma dell’impianto e il Transfer da impronta. Questo è importante perché se si sbaglia a prendere
questa impronta, si sbaglia l’intera riabilitazione protesica; infatti sul modello che il ottiene il tecnico
inserirà gli analoghi degli impianti, ma se non è stato rispettato il corretto orientamento degli impianti, il
posizionamento degli analoghi sarà falsato, e così anche tutto il resto. Quando si fa la protesi è importante
essere precisi, e tanto più sono i passaggi tanto più è possibile che insorga un’imprecisione; per questo
quando è possibile fare un controllo intermedio di qualità deve essere assolutamente fatto.

In ogni caso quando si risolvono delle edentulie parziali, sia Distali che Intercalate, quello che si fa è
riproporre una situazione dentaria assente; nel progetto protesico si pianifica dove inserire gli impianti, sui
quali verranno posizionati dei monconi, e su questi monconi verrà saldata la protesi. Ma a questo punto
bisogna aprire un’importante dibattito sulla scelta della corretta ritenzione delle protesi fissa. La protesi
fissa può essere infatti Cementata o Avvitata. Per alcuni è migliore la cementata, per altri l’avvitata. Infatti
se sui denti la protesi fissa può essere solo cementata (perché, come detto, non si può avvitare sul dente),
sugli impianti è possibile scegliere. Prendendo in analisi il caso di prima [Figura 8] (dove bisogna riprodurre
4-5-6, con un tavolato occlusale non eccessivamente grande, dato che bisogna evitare grossi carichi
occlusali), andando poi in senso generale, il Professore chiede se sia meglio una protesi fissa cementata o
avvitata, e per quale motivo. La decisone di eseguire una piuttosto che l’altra ovviamente deve essere
comunicata all’Odontotecnico.

 Qualora si volesse eseguire una protesi fissa cementata, il Tecnico deve produrre dei monconi che
possono essere ottenuti con varie tecniche, e in vari metalli (Titanio, Cromo-cobalto, Zirconia) e
vengono inseriti poi paralleli fra loro, per posizionare così la struttura protesica sovrastante;
 Invece per la protesi avvitata l’odontotecnico realizza una strutta protesica senza l’intermediazione
di un moncone, ma che si poggia direttamente sulla piattaforma implantare, con un buco al centro
attraverso il quale passa la vite, e così la struttura protesica si avvita e si fissa.

Ricapitolando: la protesi fissa cementata è data da un moncone che si avvita sull’impianto, e un manufatto
protesico che si cementa su tali monconi; invece la protesi avvitata ha un’unica struttura che si avvita
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direttamente sugli impianti. Questo per quanto riguarda le edentulie parziali. A volte, invece, per le
edentuli totali è possibile anche avere dei monconi intermedi che hanno il ruolo di portare la piattaforma
implantare più fuori alla gengiva, per poi avvitarci la struttura protesica.

Il professore ribadisce allora la domanda: è meglio una protesi fissa cementata o avvitata? Ovviamente
dipende dai casi, ma in generale (per le edentulie multiple distali o intercalate) sugli impianti è meglio una
protesi fissa avvitata. Per vari motivi:

1. Perché la protesi fissa avvitata è possibile applicarla e toglierla tutte le volte che si vuole, e questo è
importantissimo. Anche perché se la protesi cementata è su elementi dentari naturali
monconizzati, allora la posso rimuovere; se invece è cementata su impianti, in questo caso è
diverso. Questo perché non abbiamo più, come in quella sui monconi naturali, un contatto tra lega
metallica e tessuto dentario, ma avremo un contatto tra due superfici metalliche, quella
dell’moncone implantare e quella della struttura protesica; e due superfici metalliche, quando sono
preparate in laboratorio con un buon parallelismo, tendono molto ad avere un effetto conometrico
che è anche più efficace dell’effetto della cementazione. Per cui nel tempo, sotto carichi
masticatori, l’effetto conometrico porta ad una situazione tale che se si vuole staccare il manufatto
protesico cementato sugli impianti non ci si riesce. Oppure bisogna forzare con un martellino,
andando però a danneggiare la struttura, o addirittura bisogna in alcuni casi tagliarla. Quindi una
protesi avvitata, quando possibile, è migliore perché permette di montarla e smontarla tutte le
volte che si vuole, per manutenzione o per riparazione.
2. Un altro importante problema per la protesi fissa cementata è la gestione del comento, che può
insinuarsi e causare nel tempo una perimplantite. Questo problema viene bypassato con quella
avvitata. Infatti una delle cause delle patologie infiammatorie peri-implantari è il fatto che possono
rimanere, nei tragitti mucosi, dei residui di cemento. Però questo può essere condizionato da come
è fatta la protesi: se c’è un tragitto mucoso di 5 mm, e l’odontotecnico in quel tragitto mucoso fa
un moncone implantare con un margine di finitura sotto 4mm nel tragitto, è chiaro che il cemento
da lì sarà impossibile da togliere perché troppo in profondità. In questo caso l’odontotecnico deve
essere governato dall’odontoiatra, dato che l’odontotecnico tenderà a fare sempre il margine di
finitura molto in basso nel tragitto, perché in questo modo si nasconde di più l’emergenza del
dente, e inoltre il profilo di emergenza del dente sarà armonico; se invece parte in alto ci sarà un
profilo molto meno armonico e più a cavolfiore. Quindi quando si fa una protesi cementata è
necessario comunicare all’odontotecnico che il margine di finitura del moncone implantare deve
essere poco all’interno del solco tragitto mucoso, perché in questo modo dopo la cementazione,
con uno specillo, è possibile andare a rimuovere completamente il cemento in eccesso. Bisogna
però poi valutare se l’emergenza di tali denti è compatibile con l’igiene domiciliare; perché se la
linea di finitura è troppo superficiale, si rischia di avere un profilo di emergenza troppo a cavolfiore,
e quindi dei sottosquadri difficili da detergere.

Il problema è che la protesi avvitata non sempre la possiamo fare. Per fare una protesi avvitata è necessario
che ci siano determinate condizioni:

I. Ci deve essere una vite che possa passare attraverso la struttura protesica senza compromettere
l’estetica. Se l’accesso è nascosto, allora è possibile fare la protesi avvitata; se l’accesso è visibile,
potrei ancora farla, ma bisogna mascherare bene quell’accesso per motivi estetici. È ovvio che un
accesso posteriore è più facile da mascherare rispetto ad un accesso anteriore. Quindi se bisogna
eseguire una protesi nel settore frontale, in cui fare un foro per la vite significa avere un danno
all’estetica per il paziente, allora si preferisce una cementata; se invece ci troviamo in un settore
posteriore, dato che l’estetica non è importante, anche se traspare la vite non è un problema, e
quindi si preferisce l’avvitata.
69

II. Inoltre vi è un problema di resistenza della struttura. Perché se, ad esempio, si ha la portesi di un
molare con un foro d’accesso per la vite al centro, la struttura di quel molare conserverà una sua
resistenza, anche per quanto riguarda il rivestimento ceramico che va fuori. Ma se l’accesso della
vite invece di stare al centro sta in prossimità di una cuspide, in quella zona la struttura sarà molto
più debole e si possono avere chipping e sfaldature.

In ogni caso, quando è possibile è sempre indicata la protesi avvitata, perché come visto la si può montare e
smontare a piacimento, non si ha il problema del cemento, e permette di conseguenza una migliore
manutenzione in termini di detersione. Però i risultati nel tempo, dal punto di vista scientifico, dicono che
sono efficaci ed efficienti sia le protesi avvitate che quelle cementate. Quindi tutto ciò che è stato detto
non riguarda l’affidabilità, la predicibilità o la durata, ma riguarda aspetti gestionali e tecnici.

Tornado al caso di prima [Figura 8], vediamo come


si è risolto il caso con il posizionamento del
manufatto protesico [Figura 9]. Si fa sempre prima
un controllo radiografico dei monconi una volta
posizionati, per vedere che il moncone si vada a
poggiare bene sulle piattaforme implantari.
Dopodiché qui si è inserito un ponte di 3 elementi
(4-5-6).

Figura 9

Quando invece ci troviamo nei settori frontali, per lo


più edentulie intercalate [Figura 10], è più difficile
eseguire un a protesi avvitata, perché l’anatomia del
mascellare superiore spesso determina che l’asse
dell’impianto tende ad andare vestibolare. In questi
casi si potrebbe farla avvitata, però chiudendo bene
con del composito, ma sicuramente è meno semplice
e gradevole dal punto di vista estetico. Per questo nei
frontali molto più spesso si ricorre da una portesi di
tipo cementato. Qui [Figura 11] si vedono gli impianti
posizionati e la guarigione.

Figura 10

Domanda: per quale motivo gli impianti sono stati


messi al livello dei due laterali? Risposta: ovviamente in
questo caso non aveva senso mettere 4 impianti; alcuni
lo fanno anche, un impianto per ogni dente, con la
giustificazione che il paziente vuole gli elementi
separati. Analizzando bene il caso [figura 10], parliamo
di edentulia dei 4 centrali superiori. Abbiamo messo gli
impianti al posto dei laterali e non al posto dei centrali
Figura 11 per un motivo ben preciso. Nel corso di protesi abbiano
70

dato, in casi di edentulia dei 4 incisivi, l’indicazione dell’inserimento dei 2 impianti al posto di un laterale e
di un centrale (ad esempio 12 e 21), perché se non si mette alcun impianto nella zona dei centrali la strutta
protesica di pontic andrà a schiacciare le mucose e con il tempo questa zona andrà incontro a
riassorbimento, perché non è sostenuta da niente; ma il Professor non è d’accordo. Ovviamente il
problema principale in un settore frontale come questo è l’estetica, dato che ogni aspetto funzionale
(fonatoria, masticatoria, etc) lo si riesce a risolvere; ma l’estetica è molto più difficile da gestire. Per estetica
intendiamo che deve avere dei denti fatti bene, deve aver una gengiva sana, ma soprattutto corretto
posizionamento vestibolare e interdentale della mucosa. Con i denti finti è possibile fare ciò che più
aggrada, ma per la gengiva bisogna accontentarsi di quella che il paziente tiene, cercando i condizionarla
nel miglior modo possibile, senza danneggiarla. Sappiamo che i riassorbimenti ossei avvengono dove non
sono presenti i denti, per cui già il fatto che in questo settore frontale si sono persi 3 denti (11-12-22)
significa che si favorisce un riassorbimento osseo. Questo è stato un caso di Post-estrattivo Precoce
Ritardato, ossia sono stati tolti i denti, e gli impianti non sono stati messi subito ma dopo 2-3 mesi. In questi
mesi si è aspettato che guarissero i tessuti molli, quindi in Figura 10 già vediamo la situazione dopo un certo
riassorbimento osseo post-estrattivo (ma comunque di osso ce n’era ancora a sufficienza), e con i tessuti
molli guariti. L’osso nel tempo si continua a riassorbire nell’arco dei 12mesi, non tanto nella verticalità ma
soprattutto nella trasversalità. Il riassorbimelo osseo avviene lì dove non sono presenti i denti; di
conseguenza ci sarà riassorbimento al livello die centrali, ma poco a livello dei laterali. Ci sarà meno
riassorbimento all’altezza dei laterali perché è presenta la parete mesiale dei canini, che con il loro
parodonto supportano l’osso limitrofo. Quindi le papilla a ridosso dei canini rimarranno tali ( [Figura 10]).
Ci si preoccupa invece di mantenere le papille più centrali, dato che nel tempo le creste tenderanno ad
appiattirsi. Inoltre ciò di cui mi devo preoccupare è che gli impianti non stiano vicini, ma devono trovarsi ad
almeno 3mm di distanza tra di loro affinché non vi sia riassorbimento, e ancora migliore è una distanza di
5mm; quindi più sono distanti meglio è. Ricordiamo che chiaramente la papilla deve avere il supporto
osseo, e il massimo di distanza tra l’apice della papilla e la cresta ossea affinché la papilla sopravviva sono
5mm. A più di 5mm non avrò mai nessun tessuto molle intra-orale gengivale; è ovviamente più facile che
sopravviva a 3 mm, difficile ma possibile a 5mm, impossibile a 6mm, dato che non gli arriva un trofismo
sufficiente. Infine diciamo che i tessuti molli liberi si possono comprimere grazie alla protesi; ossia è
possibile fare degli spostamenti per compressione dei tessuti molli. Di conseguenza, valutando tutto ciò che
ci siamo detti, mettere un impianto sul 12 va benissimo, ma non va affatto bene metterlo sul 21; questo
perché l’impianto, in ogni caso, non ferma il riassorbimento osseo. Infatti è scientificamente provato che il
riassorbimento osseo è indipendente dall’impianto, dato che è geneticamente determinato e dipende da
altri fattori. Appunto il riassorbimento osseo post-estrattivo non viene modificato dall’impianto. Altra cosa
importante è che una volta che l’osso si è stabilizzato, se ci si mette l’impianto questo può dare un minimo
di stimolo per avere un osso stabilizzato, ma un osso in fase di riassorbimento post-estrattivo per 12 mesi
cammina indipendentemente dall’impianto. Quindi in questo caso ho solo due punti di osso fissi, ossia i
picchi a ridosso dei canini ( [Figura 10]); questi due picchi ossei non si modificheranno perché saranno
indipendenti dal riassorbimento post-estrattivo, e questi due punti devono essere di riferimento. Infatti
posizionerò i due impianti (come livello osseo) tenendo in considerazione queste due creste ossee, senza
calcolare invece ciò che accade nella zona centrale. Poi si andranno a modificare le papille grazie alla
protesi, la quale (avendo 2 elementi liberi centrali) mi consente di mantenere questa papilla perché la si
schiaccia a quei 5mm che abbiamo detto prima, permettendo la sua sopravvivenza. Invece intorno
all’impianto si ha che progressivamente l’osso si riassorbe e il tessuto molle lo segue; quindi si avrebbe più
difficoltà a gestire una situazione quando si ha un impianto a livello centrale, dato che è inutile. Si vede
71

[Figura 11] la positone degli impianti e delle


relative papille; una volta posizionati gli impianti si
aspettano 4 mesi di osteointegrazione (di
conseguenza stiamo a 7 mesi dall’estrazione). Si
osserva [Figura 11] come sopravvive bene la
papilla centrale; e sopravvive perché non è stata
danneggiata da nessun impianto. E ora questa
papilla la si può condizionare a piacimento con la
protesi. Questo [Figura 12] è il risultato finale.
Secondo il Professore la protesi non è venuta
neanche molto bene, però tramite questa
possiamo gestire come vogliamo i tessuti. Non è
venuta bene perché l’impianto al livello del 22 il
Prof non lo ha inserito correttamente, ma troppo Figura 12
vestibolare; doveva essere inserito più
palatalmente. Infatti in fase di guarigione si è perso quale mm di gengiva. Quindi secondo il Professore il
progetto protesico è stato corretto, ma è stato scorretto il posizionamento degli impianti.

Monoedentulia

Nel caos delle Monoedentulie gli impianti sono davvero una risorsa straordinaria. Qui [Figura 13] si può
apprezzare l’agenesia di un laterale. Viene fatto il
trattamento ortodontico per ricreare lo spazio. Il paziente
era piuttosto complicato perché (anche se è in
discussione nel caso di un agenesia se chiudere o aprire
gli spazi) aveva i denti leggermente diastemati [Figura 15].
Infatti c’era una Discrepanza Dento-Alveolare, per cui
nonostante i denti fossero stati ortodonticamente
posizionati, un po’ di diastemi li aveva lo stesso, per via di
questa discrepanza. Quando c’è il diastema il Maryland
bisogna assolutamente scartarlo, dato che si vedrebbe.
Inoltre se si stacca il Maryland in un momento critico
Figura 13 (mentre si è in vacanza in un posto esotico) è difficile
gestire la situazione. Infatti il Maryland è un sistema
adesivo, ed ogni sistema adesivo si può staccare,
nonostante si cerchi di riprodurre Maryland sempre più
piccoli, resistenti (in Disilicato di litio o in Zirconia) ed
adesivi, ma non è mai una scelta sicura. Bisogna ricordare
che dobbiamo fare al paziente quello che faremmo per
noi stessi. Quindi in questo caso l’impianto è la soluzione
migliore. Abbiamo la cresta ossea con spazio limitato, ma
è stato fatto un piccolo intervento con un piccolo accesso,
e passionato l’impianto [Figura 14].

Figura 14
72

Qui [Figura 15] si


osserva che è
avvenuta una
buona guarigione,
con corretto
posizionamento
dell’impianto dal
punto di vista
tridimensionale.
Poi c’è stato la
Figura 15 riapertura e il Figura 16
posizionamento
della corona definitiva [Figura 16]. Anche se non si vede il controlaterale, il Prof ci garantisce che il
definitivo ha le sue stesse caratteristiche morfologiche, con anche gli stessi diastemi. Il paziente avrebbe
potuto migliorare l’estetica eliminando i diastemi con un ulteriore trattamento ortodontico, oppure con
delle faccette, ma era contento così e quindi si è optato per questa soluzione. Ovviamente questa è stata
una protesi cementata, essendo nel settore frontale, e per via dell’asse dell’impianto che non consentiva di
orientare correttamente la vite; inoltre essendo un dente singolo una protesi cementata ci può
tranquillamente stare. Ovviamente è importante fare un buon moncone dall’odontotecnico, con una linea
di finitura al massimo 1mm sotto il margine gengivale. In questo modo dopo la cementazione è possibile
tranquillamente eliminare il cemento in eccesso inserendo uno specillo nel solco; se la linea di finitura è
troppo profonda, è ovvio che può rimanere del cemento residuo, con conseguente possibilità di avere
mucosite e poi nel tempo una perimplantite. Quindi per il dente singolo l’impianto è stato rivoluzionario.
Un paziente del genere in passato avrebbe potuto optare solo per un Maryland o addirittura per una
protesi fatto sul canino con un laterale in esenzione, creando un danno biologico con la mutilazione del
dente sano limitrofo. Per monoedentulie, soprattutto nel settore anteriore, gli impianti sono indispensabili.

Chiaramente per poter realizzare una corretta riabilitazione implanto-protesica è fondamentale seguire una
check-list, per eseguire correttamente Diagnosi e Piano di Trattamento:

 Anamnesi Medica
 Anamnesi Odontoiatrica
 Esame Orale
 Esame Rx
 Modelli di studio; dato che il progetto protesico deve essere ben preciso, anche se per piccoli
progetti è possibile, con l’esperienza, anche fare una panificazione mentale, senza necessariamente
fare mascherine, cerature e altro. Quindi per casi semplici è possibile fare un progetto menatale,
invece nei casi più complessi è doveroso fare i modelli studio, anche se in verità è sempre
consigliato farli.
 Aspettativa e Motivazione del paziente; dato che ci sono pazienti che si accontentano di cose più
semplici, e altri che hanno aspettative maggiori.
 Fattori di rischio (Fumo, Bruxismo, etc.)
 Anatomia e Struttura ossea; è importantissimo valutare i volumi ossei, se sono presenti o meno, e
nel caso siano assenti eventualmente rigenerarli.
 Spazi Protesici.
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Ovviamente quando ci dedichiamo alla Chirurgia Implantare è fondamentale avere un profonda conoscenza
dell’anatomia. L’anatomia è alla base di qualsiasi tipo di chirurgia: orale, implantare, parodontale, etc.

Infine vediamo una Sequenza Standard di posizionamento implantare, indipendentemente dal tipo di
edentulia che si sta affrontando:

1. Esecuzione del Lembo; a spessore totale,


scheletrizzando l’osso.
2. La prima fesa che si utilizza è una Fresa di
Posizionamento; può essere come in questo
caso [Figura 17] una fresa a pallina, oppure può
essere una fresa Lanceolata, ossia a forma di
lancia. Queste sono delle frese necessarie per
indicare e creare un primo alloggiamento sulla
cresta, dove andranno poi le frese successive.
3. Poi ci sono le Frese Sequenziali; come già detto
la sequenza di frese varia in rapporto alla densità
ossea. Più l’osso è denso, più le dobbiamo usare
tute, a volte anche la Maschiatura; meno l’osso è
Figura 17
denso più saltiamo delle frese, perché è
preferibile sottopreparare, o in altezza o in diametro, per avere la stabilità primaria. Quindi, la
seconda fresa che viene inserita nell’osso, dopo la Fresa di Posizionamento a pallina o Lanceolata, è
la fresa Pilota (la prima delle frese Sequenziali) ( [Figura 17]). È una fresa in genere di 2mm che
dà la profondità lì dove si andrà ad inserire l’impianto, ma anche il suo asse. Tanto è vero che dopo
la fresa Pilota si inerisce il Pin di Direzione ( ), che serve per capire se l’asse tridimensionale
implantare è giusto o sbagliato, perché eventualmente si corregge. Inoltre se si ineriscono più
impianti, il Pin ci aiuta a garantire un corretto
parallelismo quando si preparano gli altri
alloggi implantari.
4. Dopo la fresa di 2mm si passa alla fresa di
3mm; ma prima di inserire la fresa di 3mm
utilizziamo un’altra fresa Pilota che ci porta
l’imbocco dell’alloggio da 2 a 3mm, dopodiché
si inserisce la fresa di 3mm ( [Figura 18].
5. Poi si utilizza un Countersink (fresa Svasatore)
che serve a svasare l’imbocco e portarlo ad
una piattaforma di 4mm; in questo modo si ha
un’osteotomia di 3mm, ed una svasatura
(Countersink) all’imbocco di 4mm.
Figura 18
74

6. Poi, se l’osso è molto denso, bisogna


“Maschiare” (Da internet: Operazione di
filettatura di un foro eseguita usando il
maschio); ma in alcuni casi gli impianti
sono Auto-filettanti.
7. Si prende con l’adeguato Dispositivo di
Montaggio l’Impianto [Figura 19], e lo si
posiziona all’interno dell’osteotomia
eseguita. Questi ( ) sono i dispositivi di
montaggio, che generalmente vengono
già posizionati dalle aziende al di sopra
degli impianti.
8. Dopodiché con Cacciavite e Chiavino
[Figura 20] si mantiene fermo il Figura 19
dispositivo di montaggio e si svita il
dispositivo stesso dall’impianto.
9. In questo caso si è deciso di fare un
impianto sommerso, e quindi sulla
piattaforma dell’impianto non si posiziona
la Vite di Guarigione (che ci potrebbe già
fuori dalla gengiva la testa dell’impianto),
ma si inserisce una Vite Tappo al livello
del margine osseo. Su questo si chiudono i
tessuti e aspetta la fase della
osteointegrazione.

Queste sequenze diventano routinarie e


standardizzate; la difficoltà sta nel scegliere la
sequenza adatta al tipo di osso, dato che ogni
caso è a sé stante (ricordano che per avere una Figura 20
buona stabilità primaria in un osso tenero è
necessario sottopreparare).
75

Lezione 8 Implantologia Ramaglia

Riprende dall’ultima lezione facendo un ripasso sulla sequenza delle frese per osteotomia a fini implantari

Il caso in questione è un’edentulia totale ma il discorso vale anche per un edentulia parziale o una
monoedetulia.

Questa è la sequenza classica di una osteotomia a fini implantari ovvero una cavità artificiale nell’osso
all’interno della quale andiamo a posizionare l’impianto .

Questa sequenza è più o meno condivisa da tutte le scuole fermo restando che ci possono essere delle
modifiche del sistema. Il concetto fondamentale è che però si tratta di una successione di fasi

1)La prima fresa consiste nell’utilizzo di una fresa a pallina(nella


foto sembra una rosetta ) o a volte una fresa lanceolata che
serve per identificare il centro della nostra osteotomia

2) la seconda fresa , twist drill , ovvero una fresa iniziale da 2


mm

3)dopo questa fresa utilizziamo l’indicatore di posizione che


identifica l’asse del nostro impianto e ci indica l’inclinazione
mesio -distale e vestibolo-palatale dell’asse stesso , piuttosto che
la profondità , già indicata dalle tacchette delle frese .

1. NB ; in questa fase abbiamo tutto il modo si correggere la nostra osteotomia

Quando sono 2 gli impianti da inserire lasciamo l’indicatore di posizione e lo utilizziamo come perno di
riferimento per il parallelismo .

4)Dopo la fresa da 2 mm utilizziamo la fresa pilota che


non è altro che uno svasatore che nella parte terminale è
2mm e nella parte superiore è 3mm . questo serve ad
allargare l’imbocco della osteotomia a 3 mm , perché
5)la fresa successiva è una fresa da 3 mm e nell’inserirla
trova l’imbocco già aperto per pochi mm e voi andate in
profondità.

6)Dopo la fresa di 3 mm giriamo il nostro indicatore (


sopra è 3 e sotto e 2) , e

7)l’ultimo controllo si effettua con un countersink , uno


svasatore che serve per pochi mm per svasare l’accesso perché le piattaforme protesiche sono sempre più
larghe del diametro implantare

8 a)Se c’è la necessità di maschiare usiamo un maschiatore ,


76

8b)con un dispositivo di montaggio , generalmente già montato sull’ impianto , e questo connettore per
micromotore posizioniamo l’impianto autofilettante fino alla sua posizione finale .

9)Svitiamo il sistema di montaggio e avvitiamo in questo caso una vite


tappo perché si tratta di un sistema sommerso, che va a livello della
cresta .

Questo è un caso di protesi totale su 5 impianti e questa è la fine del


lavoro

Questo è un altro caso in cui associamo più procedure . Si tratta di una


ragazza che aveva perso l’incisivo centrale superiore di sinistra a
seguito di un trauma , gli era stata applicata una protesi rimovibile
perché ancora in fase di crescita , dopodichè è stata rivista a 19/20 anni
ed è stata pianificata una riabilitazione implantoprotesica per il
ripristino estetico e funzionale dell’elemento mancante .

Questo esempio è finalizzato a farvi capire come la terapia implantare è


parte integrante di una terapia implantoprotesica quindi parte con la
pianificazione protesica , attraversa la fase chirurgica e termina con una soluzione finale protesica .

La fase chirurgica ha una sua logica .

Prima di procedere con l’osteotomia è fondamentale una valutazione dei tessuti molli , finalizzata a
valutare la loro capacità di favorire la guarigione dell’osso e l’integrazione dell’impianto .

1)La prima cosa che devo valutare è la dimensione ossea

In questo caso , all’ opt ,da un punto di vista di volume osseo ,la dimensione ossea verticale è sufficiente , e
questo è confermato anche all’esame clinico , più complessa è la valutazione della quota ossea orizzontale
non valutabile alla opt ma clinicamente insufficiente.

Si è quindi ricorso alla diagnostica tridimensionale (cone beam o dentalscan) . che ha confermato
l’assenza di quota ossea sufficiente trasversalmente .

Quindi prima di procedere all’inserimento dell’impianto è stato pianificato un intervento di rigenerazione


ossea (GBR)

NB: la GBR può essere effettuata sia prima dell’impianto che contestualmente all’inserimento
dell’impianto .

Prima ancora , in realtà , evidenziato un problema di architettura (qualità, spessore insufficiente , assenza di
mucosa cheratinizzata ) dei tessuti molli , con presenza di trazioni che arrivavano in cresta ( esito
dell’avulsione traumatica dell’incisivo centrale e della guarigione del trauma ) è stato pianificato
un’intervento di innesto connettivale atto a ripristinare l’architettura tessutale ,di modo che fosse idonea
per la fase ricostruttiva (GBR ) .
77

L’innesto connettivale prelevato da palato ( ricorda: è il connettivo a a


dare l’imput all’ epitelio di proliferare , e ne governa anche il
differenziamento ), è stato posizionato sul letto ricevente, e a guarigione
avvenuta si è ottenuta ovviamente una morfologia non perfetta , ma le
trazione muscolari e dei frenuli sono state eliminate e il tessuto
cheratinizzato è di uno spessore sufficiente a gestire un lembo d’accesso .

Una volta scollato il lembo , l’osso si presentava ridotto ,quasi assente,


trasversalmente e a questo punto si è proceduti con la GBR sfruttando
come sito donatore la zona d’estensione dell’ottavo , previa estrazione
dello stesso .

Dopo il prelievo ,è stato preparato il sito ricevente effettuando dei fori


finalizzati a migliorare il sanguinamento della zona ed è stato
posizionato l’ innesto di osso autologo .

Sull’innesto è stata posizionata una membrana non riassorbibile


riforzata in titanio stabilizzata con 2 vitine

NB: lemembrane per i difetti ossei , a differenza di quelli parodontali


,devono sempre essere fissate .

È stata praticata un incisione incisioni distante dalla zona da ricostruire


chiusura del lembo e l’immagine dimostra che già nella fase iniziale di
guarigione abbiamo acquistato discreto spessore.

Alla fase rigenerativa è seguita quella implantare e lo scollamento del lembo ha evidenziato la quota di
osso rigenerata .

Questa fase deve essere preceduta da una progettazione protesica , che può essere sia digitale che
analogica .

Sebbene si stia sempre più affermando il mondo digitale , la progettazione analogica rappresenta ad oggi la
prima scelta . Di fatto ,la prima diventa indispensabile solo in alcune circostanze .
78

L’ANALOGICA consiste nella presa di un’impronta in alginato , sviluppo di un


modello in gesso sul quale viene effettuata una ceratura diagnostica finalizzata
ad individuare forma, dimensione e asse del dente .

In funzione del dente progettato , si costruisce una semplicissima dima


chirurgica dotata di un foro che identifica la posizione ideale dell’impianto .
Appoggiando la dima sui denti adiacenti , il foro dovrebbe cadere in un punto
specifico della cresta (il condizionale è legato al fatto che il foro è stabilito sulla
base di un progetto che non è detto corrisponda alla situazione reale ).

Quindi , una volta entrati chirurgicamente può darsi che questa idealità protesica sia riscontrata e allora si
può procedere tranquillamente con il fresaggio seguendo la dima chirurgica; ma la situazione si potrebbe
rivelare anche diversa dal progetto e a quel punto sta all’operatore scegliere se seguire la dima ,correndo il
rischio di mettere l’impianto in una certa posizione che non sarà sufficiente per fermarsi e che richiederà
ulteriori interventi di rigenerazione ossea e mucosa oppure scendere a compromessi.

Quindi anche le cose progettate non si fanno ad occhi chiusi .

Nel caso in questione , non si tratta di una dima chirurgica in senso stretto , ovvero una dima per chirurgia
guidata , che mi guida in tutti i passaggi e in questo caso ,anche qualora il progetto fosse ineccepibile
,sarebbe preferibile fermarsi in corso d’opera per valutare se l’intervento sta procedendo bene .

Questa invece , più che una dima chirurgica in senso stretto è una dima di posizionamento , indica la
posizione in cui dovrebbe andare il centro dell’impianto,

Quindi come si procede? .In primis, si effettua


l’incisione del lembo e l’asportazione della
membrana . Questo è tutto il tessuto rigenerato
dalla GBR ,

Dopodichè si applica la dima per effettuare il primo


foro e individuare l’asse dell’ impianto .

Da questo momento in poi la preparazione procede ,senza ausilio della dima ,seguendo con la stessa
sequenza .

E’ ovvio che ,dopo aver fatto la prima preparazione , l’indicatore di posizione verrà inserito con la dima in
modo da avere una conferma sulla correttezza dell’asse .

Queste sono tutte le fasi e non cambiano assolutamente sia che si tratti di sella edentula che di
monoedentulia come in questo caso.
79

. Essendo una terapia post GBR , si è optato per una implantologia


sommersa , quindi sull’impianto è stata messa una vite tappo , sono
stati chiusi i lembi a coprire l’impianto stesso e si è aspettata la
guarigione . Dopo 3 mesi dalla prima fase è stato scoperto
l’impianto ed è stata inserita la vite di guarigione sulla quale è stato
realizzato un moncone.

Fondamentale è anche il controllo radiografico, realizzazione


protesi provvisoria e definitiva.

COMPARTIMENTO INTERMEDIO

Se vi ricordate il corso è iniziato illustrandovi i rapporti tra la struttura implantoprotesica , i tessuti molli e i
tessuti duri , quindi vi ho parlato di tutti i compartimenti .

Il primo a cui la ricerca si è interessata è il compartimento osseo , perché l’obiettivo era quello di trovare un
sistema per poter fissare i corpi estranei nell’osso e che garantisse ,applicando un carico masticatorio, una
stabilità, nel tempo , del sistema .

Abbiamo studiato il compartimento intemedio e abbiamo visto come funziona. Quali sono le cose che lo
rendono simile e dissimile al dente. Vi ho poi spiegato il compartimento superficiale , con la mucosa
perinplantare e le relative similitudini e discordanze con gli elementi dentari .

Abbiamo capito che tutto sommato la mucosa perimplantare è molto simile al parodonto di superficie
fermo restando che abbiamo una grossa differenza data dall ‘assenza di un attacco connettivale che invece
caratterizza il dente .

IL compartimento intermendio è una caratteristica dell’elemento implantoprotesico, perché noi abbiamo


un grosso problema che è il rimodellamento osseo marginale perimplantare perché la storia del dente e
dell’impianto sono 2 cose differenti .

Il dente è un qualcosa che fa parte del nostro patrimonio genetico , cresce e si sviluppa con noi , ha un suo
percorso istologico, anatomico, funzionale ben deteminato.

La struttura implantoprotesica è una struttura completamente artificiale con un tessuto cicatriziale (osseo
e mucoso) e una struttura artificiale che in parte sta fuori e in parte sta dentro l’osso .

Quindi dopo che aver posizionato un impianto, e mi riferisco ad un impianto sommerso secondo il sistema
di branemark , che cosa succede ? .

Dopo la prima fase chirurgica, l’osso rimane stabile non subisce riassorbimenti , però quando con la
seconda fase chirurgica ,si viene a creare una apertura (collegamento ) tra il sistema osseo interno e quello
esterno , i tessuti si devono riorganizzare per proteggere l’organismo .
80

Ci riesce bene l’epitelio con l’attacco epiteliale , ci riesce male con il connettivale (che forma un contatto
connettivale ).

In questo contesto anche il tessuto osseo deve subire delle


modifiche , proprio per favorire il rimaneggiamento dei tessuti
molli perimplantari . In particolare si è riscontrato che , in
questa creazione del sigillo marginale perimplantare nel
primo anno si perdono circa 1,5/1,8mm di osso , poi si
stabilizza il tutto tant’è vero che la perdita ossea si ferma o è
minima (criterio successo impianto, primo anno dal carico si
può avere una perdita ossea max 2 mm, perdita successiva
max 0, 2 mm ad anno ) .

Se la perdita ossea è di 1 mm all’anno quell’impianto è un fallimento perché l’osso si può rimaneggiare , si


può riassorbire nel primo anno ma poi si deve stabilizzare .

Questo è molto importante perché il tessuto molle normalmente segue il tessuto osseo e quindi c’è il
rischio che possa avere molta recessione .

Questo aspetto nel trattamento delle edentulie totali aveva poca importanza , ma man mano che siamo
andati avanti in aree edentule estetiche 1/10 di mm in più o in meno fanno la differenza perché può essere
causa di esposizione del margine metallico.

Allora vediamo nella realtà che cosa succede e lo vedete bene qua .

Questo è un impianto dopo la osteointegrazione. Questo è un impianto dopo un anno , vedete come c’è
stato un rimodellamento radiograficamente visibile dell’osso marginale ?

Se noi avessimo lasciato dopo la fase chirurgica e la fase di osteointegrazione questo impianto qui (
sommerso) , negli anni sarebbe rimasto cosi ,ma appena siamo andati a creare un’alterazione con un a
connessione esterna c’è stato una riorganizzazione dei tessuti marginali molli ma anche del tessuto
marginale osseo .

Gli studi che si sono occupati di misurare tutto questo hanno proprio evidenziato che la quota in mm di
osso riassorbito è più o meno 1.5 mm massimo 1.8 nel primo anno e 0.2 mm all’anno in seguito.

Ma la cosa interessante è che il riassorbimento non è solo verticale ma abbiamo anche un riassorbimento
orizzontale che è circa 1.4mm, sempre nel primo anno.

Questo è dovuto all’adattamento dei tessuti ovvero alla realizzazione di quel contatto connettivale che si
realizza a 360° intorno al dente .

Perchè avviene questo riassorbimento ? Come vedete ci sono varie ipotesi che sono state immaginate , chi
ipotizza che sia collegato al carico , chi all’ampiezza biologica ( adattamento dei tessuti molli correlato a
riassorbimento osseo ) ,chi alle caratteristiche dell’ inpianto che è fatto da due pezzi quindi anche se
precisissimo si crea una soluzione di continuità tra impianto e pilastro.

C’è chi associa tutto alla struttura del collo dell’impianto o alla superficie implantare.

La teoria più accreditata, anche se non vi è certezza in letteratura , è quella dell’ampiezza biologica. Perché
quando vi ho parlato del compartimento superficiale vi ho detto che grosso modo , come vedete , le
dimensioni di solco ,attacco connettivale ed epiteliale si ripetono anche a livello dell’impianto.
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La maggiore variabile l’abbiamo a livello del solco perché dipende dallo spessore della gengiva , perché
se la gengiva è molto spessa questo solco sarà più profondo, cosa che nei denti è difficile da riscontrare in
condizioni fisiologiche ;ma aldilà di questi rari casi le dimensione sono più o meno le stesse.

Allora mentre nel dente l’ampiezza biologica


viene a determinarsi nel momento in cui il
dente erompe e si formano i tessuti
parodontali profondi e con l’eruzione passiva
si completa la stabilizzazione dei tessuti molli
marginali , quello che avviene intorno agli
impianti è un qualcosa che si avvicina a questo
ma non viene da un percorso genetico di
eruzione degli elementi dentari , ma viene da
un percorso genetico di guarigione di una
ferita .

Fintanto che l’impianto è nell’osso coperto, questi tessuti non si devono organizzare a formare
un’ampiezza biologica intorno a qualcosa che da dentro va verso fuori , nel momento in cui noi mettiamo
una connessione , questi tessuti geneticamente devono proteggere il nostro organismo organizzandosi in
una maniera similare a quella del dente e quindi devono formare un solco, un attacco epiteliale e
connetivale(non ci riescono e fanno un contatto connetivale ) , ma le dimensioni grossomodo sono queste .

E allora perché perdiamo l’osso? Perché se la


gengiva non è sufficientemente spessa per
dare queste dimensioni , l’osso deve fare un
passo indietro per dare spazio alla formazione
del sigillo. Se la mucosa è 2 mm non c’è lo
spessore minimo , sufficiente a fare i 3 mm di
ampiezza biologica ed è l’osso che deve
riassorbirsi .

Ecco perché nel primo anno , quando si organizzano i tessuti molli marginali spesso abbiamo una certa
quota consistente di perdita ossea .

Una volta che questo sistema si è stabilizzato e i tessuti sono in salute il riassorbimento osseo si ferma , o
tuttalpiù si riassorbono 2/10 di mm all’anno ( 1mm ogni 5 anni)

Nell’impianto sommerso abbiamo una >


estensione apicale dell’attacco epiteliale .

Nell’impianto non sommerso >estensione


coronale dell’integrazione connettivale .
Adeguata osteointegrazione e
guarigione tessuti molli
82

Ed ecco la differenza fondamentale tra sistema sommerso e sistema non sommerso ( o meglio tra il sistema
un pezzo e due pezzi) , i due sistemi hanno una differenza importante dal punto di vista biologico.

Il sistema un pezzo consiste in un impianto che è un unico pezzo nella fase intraossea e nella fase
extraossea della mucosa ,sopra al quale va sempre posizionato il moncone

Per arrivare al moncone nell’impianto sommerso ,invece, ho bisogno di una vite di guarigione che mi crei il
tragitto transmucoso.

In altri termini la differenza tra sistema sommerso e non sommerso che vi ho detto abbiamo superato è che
l’impianto un pezzo è già superficializzato in prima fase chirurgica, con il sistema 2 pezzi posso avere già in
prima battuta il tragitto transmucoso se metto immediatamente la vite di guarigione , altrimenti metto la
vite tappo e ho un impianto sommerso .

Se questo non ha importanza dal punto di vista clinico , assume importanza dal punto di vista biologico .

Nel sistema non sommerso con impianto un pezzo il passaggio tra impianto e moncone si realizza lontano
dall’osso ,nell’impianto sommerso ( credo che intenda 2 pezzi) sia che lo realizzi in un tempo o in 2 tempi il
passaggio tra impianto e moncone avviene a livello dell’osso , e questa differenza è fondamentale perché
l’organismo soffre le soluzioni di continuità e anche se il passaggio tra impianto e moncone è realizzato a
livello industriale ovviamente le nostre cellule sono in grado di leggere questa discontinuità .

Per cui ,benchè ci sia un’adeguata osteointegrazione, la guarigione ,da un punto di vista biologico ,l’attacco
epiteliale nei sistemi a 2 pezzi tende a formarsi fino a questo livello (estensione apicale epitelio), mentre
l’epitelio in una situazione in cui è lontana dall’osso tende a fermarsi lontano dall’osso stesso

Questo fa la differenza, tant’è vero che noi abbiamo che si riassorbe meno osso nell’impianto ad un pezzo
rispetto all’impianto a due pezzi.

IL microgap tra impianto e pilastro determina di un ICT


secondario con riassorbimento osseo se posizionato a livello
crestale o subcrestale

Determina la posizione apicale dell’attacco epiteliale

L’altra cosa che si è riscontrata è che li dove abbiamo questa connessione si forma un infiltrato
infiammatorio, perché, non solo l’epitelio tende a scendere fino là ,ma questa soluzione di continuità viene
letta dall’organismo come non self e scatena una reazione infiammatoria secondaria che va di pari passo al
riassorbimento osseo .

immagine al microscopio elettronico a scansione .

Guardate questo è un impianto un pezzo e questa è la parte che si ferma a


livello del margine osseo e questo è il moncone che noi applichiamo dopo la
fase di apertura , dopo che si è creato il tragitto mucoso

Sono prodotti entrambi a livello industriale , sono perfetti , ma man mano


che aumentiamo l’ingrandimento ci rendiamo conto che anche qualcosa che
sembra perfetto purtroppo può presentare dei gap . Quindi ci sarà sempre
una soluzione di continuità ,anche se minina .
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Questo determina un piccolo infiltrato infiammatorio responsabile


del riassorbimento orizzontale .

Mentre il verticale si verifica per garantire l’ampiezza biologica , il


riassorbimento orizzontale l’abbiamo fondamentalmente negli
impianti two peace a livello dell’osso perché quando si crea la
connessione questa minima discrepanza determina un ‘infiltrato
infiammatorio che fa riassorbire l’osso di 1/1.4 mm . immagine

Questo è quello che c’è intorno ad un impianto in salute dal punto


di vista istologico ,

Questa è la parte endossea , quando mettiamo la connessione abbiamo un certo riassorbimento osseo
perché si deve formare il sistema d’attacco del tessuto mucoso perimplantare , si determina un piccolo
riassorbimento verticale , ma si determina anche un riassorbimento orizzontale per l’infiltrato
infiammatorio , assolutamente non percettibile. Lo percepiamo solo negli studi istologici .

Quindi ricapitolando la connessione potrebbe essere responsabile di infiltrato intorno al dente che è quello
che mi determina , come vedete nel passaggio da questa fase iniziale a questa fase stabilizzata ,la
formazione di un collo di riassorbimento in cui il riassorbimento , che dovrebbe essere solo verticale , è
anche orizzontale ( il prof dice che è a calice ).

Se il problema è la connessione si può pensare di intervenire su quest’ultima .

Però le ipotesi legate a questo riassorbimento sono plurime :


una delle più accreditate afferma che il difetto a livello della
connessione sarebbe responsabile di una contaminazione
batterica che determina l’infiltrato.

Altri invece identificano la causa nel pilastro che si muove


leggermente , oppure l’azione fisica è quella della non
precisione.

Allora stiamo ancora nel campo delle ipotesi.

Se abbiamo detto che per il riassorbimento verticale l’ipotesi


più accreditata è l’ampiezza biologica , l’ipotesi più accreditata
per il riassorbimento orizzontale non si conosce. Per il prof è più
la discrepanza ma molti battono sulla colonizzazione batterica. Per quanto concerne i movimenti del
pilastro è un ipotesi da confutare secondo il prof , perché i pilastri non si muovono .

Quindi ,la soluzione per chi crede alla colonizzazione batterica , è stata l’introduzione di tutta una serie di
artifizi per cercare di ridurre questa colonizzazione batterica attraverso la parte interna dell’impianto .

Il prof. Non ci crede molto , pero’ dipende ovviamente se voi utilizzate prodotti di qualità.

Le evidenze biologiche e sperimentali ci dicono che è stata abbastanza interessante questa esperienza
clinica, quella di dire se il problema è dato dalla vicinanza tra la parte intraossea e la parte extraossea
portiamo la parte extraossea (cioè il pilastro) più all’interno.

Se lo porto più all’interno quella parte dell’ infiltrato non interferisce con l’osso e quindi non mi da
riassorbimento . Ed è nato il concetto di avere una discrepanza tra il diametro della piattaforma implantare,
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e il diametro della piattaforma del moncone protesico (PLATFORM SWITCHING O RIDUZIONE DELLA
PIATTAFORMA ).

Questo è uno dei lavori iniziali , in cui


si mette a confronto il
riassorbimento maggiore in questo
impianto in cui non c’era stata
alcuna riduzione della piattaforma
implantare rispetto a quest’altro
impianto che invece era fatto con
riduzione della paittaforma.

Questo concetto è uscito molti anni


fa , ma le evidenze in tutti questi
anni sono molto altalenanti ; non è
che tutti gli impianti che oggi protesizziamo si basano sul concetto della riduzione della piattaforma
perché non è un’evidenza così solida da averla incorporata come elemento cardine di un successo
implantare però ,sicuramente ,nei casi in cui noi vogliamo cercare di mettere in campo tutte le cose per
poter ridurre al minimo il riassorbimento perché siamo in una zona delicata, certamente possiamo ricorrere
ad un platform switching per raggiungere un qualcosa in più .

se poi quel qualcosa in più sarà realmente efficace purtroppo al momento non lo sappiamo.

Questa è la piattaforma implantare , questo è il moncone protesico .

In questo studio che è un bellissimo studio istologico guardate come nonostante la


connessione tra impianto e moncone fosse all’interno dell’osso,aver portato all’interno
, aver ridotto la piattaforma protesica , averla allontanata dall’osso non ha alterato
quelle che erano le dimensioni ossee di questo sito sperimentale , ma ci sono
altrettante evidenze che affermano che questo problema persiste .

Tutto ciò non ha messo a tacere quelle che sono le varie ipotesi in merito alle
problematiche del compartimento intermedio.

Ovviamente è un metodo per cercare di ridurre il riassorbimento orizzontale e in parte


quello verticale .

Quando vado a progettare un caso molto estetico , io non solo devo preoccuparmi di mettere l’impianto in
un volume osseo sufficiente a garantire un adeguata osteointegrazione , ma mi devo anche preoccupare di
quelli che saranno i tessuti molli perimplantari e della stabilità del tutto .

Il tessuto molle perimplantare dipende

1)dall’anatomia ossea , il tessuto molle starà più o meno 3


mm, massimo a livello felle papille 5 mm sopra la cresta
ossea più di 5 mm non si può andare per un problema di
architettura e di vascolarizzazione .Quindi l’anatomia ossea
è fondamentale, dove metto l’osso la posso avere il tessuto
molle

2)Il biotipo:in termini di spessore dei tessuti . ognuno di noi


ha un suo spessore geneticamente determinato , ma
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ognuno di noi nella bocca ha diversi spessori . più il tessuto è spesso più e stabile , più e sottile e più è
instabile.

3) Il posizionamento dell’impianto , perché io posso avere una tonnellata di osso , uno spessore fantastico
di tessuti molli ma sono una capra come implantologo , e quindi comunque faccio un danno .

Per rispettare i tessuti molli e quindi l’estetica, l’impianto deve avere delle posizioni precise .

innanzitutto dobbiamo decidere dove mettere l’impianto in senso verticale .

Questa è una situazione estremamente favorevole, dove andate a mettere l’impianto?

Io incido sollevo un lembo trovo osso qua, in senso apico coronale per avere una stabilità del tessuto , cioè
io voglio che il tessuto rimanga cosi che mi consenta di far un bel dente qua in mezzo . Quindi secondo voi
in senso verticale dove lo devo mettere?

A livello della cresta , dovete metterlo a 3 4 mm dalla CEJ perché abbiamo detto che ci vogliono 3 mm di
tessuti molli per poter fare una buona ampiezza biologica per cui a volte anche se abbiamo l’osso lo
togliamo.

Se io apro l’osso ce l’ho a meno di 3 mmm dalla giunzione amelocementizia del dente adiacente io faccio un
osteotomia , perché questo mi consente di ottenere 1 mm di solco 1 mm di attacco epiteliale e 1 di attacco
connettivale poi c’è l’osso. Quindi dal mio margine gengivale devo aver 4 mm dal margine osseo ( 1 mm in
più rispetto alla distanza dalla CEJ )

Trasversalmente devo avere 2 mm di osso


a circondare l’impianto. In particolare devo
avere 2mm di osso ,laddove è possibile,
vestibolare ma devo avere sicuramente
almeno 2 mm di distanza da una linea che
passa all’equatore dei denti adiacenti che
è una linea che passa per i margine
vestinìbolare della zona edentula rispetto
al margine vestibolare dell’impianto .
generalmente riusciamo ad ottenere
entrambe le cose ,perché è vero che lo spessore dipende da individua a individuo ma lo spessore non è mai
tanto grande , tant’è vero che spesso aumentiamo lo spessore con innesti . quindi questa è una misura che
va presa compensando la misura ossea con la misura del tessuto molle

Mesio- distale ci sono 2 problemi per quanto riguarda la distanza dalla piattaforma implantare al dente e da
dente a dente. Ricordate che l’osso vicino al dente è un osso che non si muove mai tranne che per
patologia perché è un osso che fa parte del legamento parodontale .

L’osso attorno ad un impianto quando noi andiamo a collegare questo impianto si modifica con
riassorbimento verticale e orizzontale

Secondo voi la distanza minima tra dente e impianto quanto deve essere? 1. 5 mm( considerato che il
riassorbimento è di 1,4)perché nella peggiore delle ipotesi che si riassorbe 1,4 mm io ho 1,5 mm il picco mi
verra sempre mantenuto dal legamento parodontale del dente adiacente. Se io lo metto a mezzo
millimetro dal dente faccio un danno . se io vado anche ad una misura minima quel ½ millimetro mi è
sufficiente a mantenere quel legamento parodontale
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Quando ragiono tra due impianti devo ragionare molto peggio perché devo sommare 1,4 e 1.4 quinid quasi
3 mm, quindi mi devo aspettare che almeno 3 mm li posso perdere . quindi se io posso avere un impianto
abbastanza vicino ad un dente 2 impianti devono stare abbastanza lontani tra di loro almeno 3 mm o anche
più .

Quindi ricapitolando se ho la congruenza tra piattaforma e impianto ho un infilitrato che ha un volume di


circa 1.5 mm intorno all’impianto; se io riduco la piattaforma questo 1.5 me lo porto all’interno della mia
piattaforma e poco verso l’osso

Caso platform switching impianto con una


piattaforma d a4 in cui estato applicato un
moncone più piccolo questo crea uno spazio per
contenere l’infiltrato.

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