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Premessa: questa lezione non ha senso, non ho riportato tutti i discorsi filosofici né stronzate varie. Ho provato a
rendere tutto italiano traducendo dal ramagliese. Buon lettura!
L’implantologia sotto certi aspetti è una disciplina molto più tecnica della chirurgia orale, in quanto si arriva
all’implantologia dopo aver una buona base chirurgica, protesica e parodontale, una base odontoiatrica globale.
Quindi l’implantologia è MULTIDISCIPLINARE, anche se qualcuno può appassionarsi maggiormente all’aspetto
chirurgico, chi più quello protesico, ma ormai quelle vecchie distinzioni con cui si ragionava 20-30 anni fa non
esistono più. Ovviamente chi sceglie di occuparsi dell’aspetto chirurgico non può assolutamente ignorare quello
protesico, è come se la mano destra non sapesse cosa fa la mano sinistra.
Le prime lezioni saranno incentrate sui principi biologici poiché se non conosciamo i principi biologici non si può
capire nulla dell’odontoiatria.
Parte mostrandoci una foto, in cui sono presenti 3 quadri clinici diversi che rappresentano lo stesso settore dentale
(incisivi centrali superiori), chiedendoci dal punto di visto biologico, clinico di riconoscere le differenze, cercando di
capire se si tratta di corone naturali o protesi. È contento delle risposte discordanti perché è proprio il dubbio che si
vuole ottenere, perché cerchiamo la MIMESI.
Il nostro obiettivo è infatti RIPRISTINARE in maniera funzionale ed estetica delle strutture anatomiche naturali o
modificarle perché sono state alterate da un processo patologico. La maniera migliore per modificarle è di
mimetizzarle al massimo, perché avremo comunque a che fare con qualcosa di “finto”: faremo sempre qualcosa di
artificiale ma con l’obiettivo di avere la funzione che è la nostra prima guida che però nell’odontoiatria porta con sé
sempre anche l’aspetto estetico e quindi avere quello che è la BIOMIMESI. Parlando come in questo caso dei due
incisivi superiori, abbiamo una grande necessità di avere la biomimetica perché da un punto di vista funzionale, la
funzione degli incisivi è molto importante, non tanto per la masticazione, ma per la fonazione (non si riescono a
pronunciare le labiali, le sibilanti), e ovviamente anche per l’estetica.
È molto più semplice ripristinare 2 incisivi centrali che non ripristinarne uno solo, ovviamente se il controlaterale ha
una buona estetica e funzione tale da essere mantenuta. È dunque un’ardua sfida.
Ad oggi, siamo avvantaggiati nell’ottenimento di una buona mimetica: in passato la soluzione era data da una
struttura in metallo rivestita in ceramica, mentre ad oggi si utilizzano le metalfree, si tende ad abbandonare quindi le
strutture metalliche e dunque un vantaggio nell’ottenere la biomimetica pur mantenendo inalterata la funzione e
rispettando sempre i principi anatomici. (se il dente è lungo 10 mm non possiamo farlo di 5 mm perché è più bello
cit.).
Mostra l’immagine vera e ci dice come in realtà sono 3 situazioni completamente diverse: nella prima foto abbiamo
una corona protesica, quindi di quell’elemento dentario era rimasto integro il supporto dento parodontale che
comprende anche la radice, e avevamo l’esigenza di ripristinare la parte coronale, da un punto di vista funzionale ed
estetico. Nella seconda foto invece, l’elemento dentario era stato perso, quindi è una situazione anatomica diversa,
perché c’era stato un processo di guarigione che aveva coinvolto i tessuti duri e molli alveolari, e nella guarigione essi
si modificano, e non c’era un supporto radicolare su cui ricostruire la corona. Per cui siamo dovuti passare da una
riabilitazione o ricostruzione solo protesica e una ricostrzione implanto-protesica. 40 anni fa per ripristinare questo
elemento dentario ci si doveva poggiare inevitabilmente sugli elementi dentari adiacenti che nel momento in cui
erano sani, si faceva una mutilazione terapeutica necessaria all’epoca ma comunque una mutilazione.
È ovvio che nel paragonare i due incisivi (uno naturale e l’altro no) si notano delle imperfezioni con un occhio più
attento ma è un’imperfezione veramente residuale ma abbiamo ottenuto un risultato buono ed è questo l’obiettivo
che dobbiamo ottenere in implantologia.
Riassumendo abbiamo l’obiettivo implanto protesico di inserire nel contesto anatomico in maniera funzionale ed
estetica quell’elemento dentario e renderlo biomimetico.
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Questo è fondamentale perché non andremo a mettere un perno, una vite, un chiodo nell’osso ma l’obiettivo è
ripristinare uno o più elementi dentari.
Quindi in implantologia bisogna partire dall’idea protesica, si passa attraverso una realizzazione chirurgica e si
completa con la realizzazione protesica della nostra idea protesica. È quindi sempre un piano di trattamento
chirugico e protesico.
Quando io vado a mettere la vite dell’impianto, devo già sapere il dente che andrà su quella vite, perché se io la
inserisco in una posizione non compatibile rispetto all’elemento dentario che voglio ripristinare, andiamo
inevitabilmente a perdere la biomimetica.
[Discorso su progresso della biomedicina e capacità di sostituire anche arti mancanti.. se vi interessa vi passo la
registrazione.]
L’impianto è stato dirimente nelle edentulie totali. Perché nelle edentulie parziali, l’impatto è stato importante
perché non andiamo ad alterare gli elementi dentari adiacenti, evitando l’utilizzo e l’impiego della protesi rimovibile.
Ma il vero ripristino funzionale ed estetico in situazione di handicap è sicuramente quello del paziente edentulo
totale, perché avendo perso tutti i denti, ha un deficit non solo estetico, ma anche funzionale perché non si mastica
bene, si perdono i sapori, quindi si altera il gusto ed è un grandissimo handicap dal punto di vista relazionale. La
persona che porta una protesi totale non è mai una persona serena nei rapporti interpersonali, soprattutto se
portatore di una protesi inferiore, che anche se parte con una certa stabilità, con un ampia cresta, un buon sigillo
mucoso, col tempo, si ha perdono i tessuti di appoggio, la muscolatura soprattutto quella linguale, rende le protesi
totali inferiori veramente un disastro, per il riassorbimento crestale. Questo significa non mangiare bene, non
sorridere bene e non parlare bene. Quindi è proprio in questo ambito che l’implantologia moderna ha sfondato.
Questo è importante perché quando negli anni ’60 è nata l’implantologia moderna è nata per gli edentuli totali
inferiori. Quindi grande merito a un collega svedese che non era un dentista ma era un ortopedico, che si è dedicato
alla biologia ossea e scoprì il fenomeno dell’osteointegrazione. Egli studiava il microcircolo osseo sui conigli,
mettendo nelle loro zampette delle piccole camere in titanio perché esse erano camere ottiche a cui era collegato un
microscopio e andava a studiare il microcircolo osseo del coniglio. Quando andavano a togliere queste camere in
titanio vedevano che non vi riuscivano con facilità e che nel rimuoverle portavano con sé un po’ di osso. Ecco che
vengono studiati questi meccanismi dell’interfaccia tra titanio ed osso, e scopre che il titanio applicato
chirurgicamente riesce a ottenere delle reazioni ossee positive di incorporazione. Così dei dentisti svedesi capiscono
che l’idea può essere applicata agli edentuli inferiori, perché gli impianti già esistevano ma non erano affidabili e non
avevano un alto tasso di riuscita, per cui non era un sistema terapeutico riproducibile e affidabile, che non si legava
tenacemente all’osso e col tempo cominciava a muoversi.
Così nasce l’idea di utilizzare delle viti implantari in titanio nei pazienti edentuli e studiano un protocollo che
reputano importante affinchè si determini un tipo di guarigione ossea tale da tenere l’impianto fermo in situ.
Oggi 2018, se venisse a qualcuno l’idea in un campo similare farebbe un piccolo studio di 1 anno/1 anno e mezzo per
poi avere l’esigenza di buttarla fuori perché purtroppo la fregatura dei tempi attuali è che è tutto molto veloce e i
tempi sono troppo rapidi per consolidare tali idee. La fortuna è che questa idea nacque negli anni ’60 e non negli
stati uniti ma in svezia, che era il regno del Welfare State, molti soldi, pochi abitanti, paese di una grandissima civiltà
e cultura e attenzione al sociale. Solo in svezia poteva svilupparsi una cosa che fosse sperimentale e a carico dello
stato, e che avesse un contesto culturale e scientifico tale da poter fare 10 anni di sperimentazione, questo è stato il
punto nodale perchè questi studiosi hanno avuto il merito scientifico di aver attuato una sperimentazione così lunga.
I primi impianti sono stati messi a metà degli anni 60 ma la prima vera pubblicazione in questo ambito si è avuto nel
1977 e questo ha sconvolto l’odontoiatria, perché per la prima volta veniva pubblicata una ricerca sugli impianti
dentali che avesse un protocollo, un substrato biologico e un applicazione clinica che non fosse estemporanea ma
con una validazione scientifica di 10 anni.
Oggi sarebbe molto difficile replicare una cosa del genere. Un altro merito di questi studiosi svedesi è stato seguire
questi pazienti a 10, 15 e 20 anni che era un lasso temporale enorme e così si è sviluppata l’implantologia.
[caso clinico] Mostra un video, in cui c’è un paziente a cui mancano 2 elementi dentari (sesto e settimo) e l’ottavo. Il
sesto bisogna ripristinarlo, mentre il per il settimo andranno fatte delle valutazioni da paziente a paziente per capire
se sia necessario il suo ripristino. Purtroppo il paziente aveva un quinto con una riabilitazione protesica e
endodontica incongrue con una reazione periapicale, e infiltrazione del moncone protesico tale da rendere la radice
non recuperabile. (avremmo potuto eseguire un allungamento di corona clinica per recuperare la radici ma in questo
caso la valutazione dei costi- benefici non era tale da permetterlo). Per cui si è optato per un piano di trattamento
che prevedeva il posizionamento dell’impianto post estrattivo, mentre in passato il paziente avrebbe avuto uno
scheletrato se poteva permetterselo, altrimenti protesi rimovibile in resina, con tutto il palato, i ganci e la flangia
protesica dove vengono messi gli elementi dentari.
Abbiamo un volume osseo tale da poter ospitare l’impianto e possiamo se ci sono le condizioni, estrarre l’elemento
dentario e contestualmente mettere anche l’impianto stesso.
Cosa facciamo quando dobbiamo mettere un impianto? Facciamo i principi normalissimi di chirurgia orale.
Facciamo:
Impianto post estrattivo è molto più complesso di un impianto in sella edentula. Potrebbe sembrare semplice
perché è già presente una cavità ossea ma non è così, per cui consiglia di mettere i nostri primi impianti in selle
edentule già guarite. L’impianto post estrattivo è un impianto di seconda fase, e dobbiamo rispettare le curve di
apprendimento..
Condizione necessaria per l’impianto post-estrattivo: fare bene l’estrazione! Teoricamente sappiamo bene che per
fare una buona estrazione dobbiamo eseguire dei movimenti di lussazione vestibolari dove la teca ossea è più sottile,
ma purtroppo per il post estrattivo necessitiamo sicuramente di un tempo maggiore perché dobbiamo salvaguardare
la struttura ossea vestibolare. Lussando infatti in direzione vestibolare può accadere che la teca ossea si danneggi, e
nel post estrattivo non dobbiamo danneggiare nulla! Per cui anche nell’estrazione l’impianto post estrattivo è più
difficile di un impianto normale , perché l’estrazione va fatta in maniera estremamente conservativa: si dovrà
lavorare di più con le leve, usando anche delle leve più sottili o con i sindesmotomi..e ad oggi hanno inventato degli
strumenti simil cavatappi per estrarre gli elementi dentari senza dover usare leve e pinze, hanno un primo perno che
va nella radice e il secondo perno che va sul primo perno.
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10. Fatta l’estrazione, abbiamo quindi una sella edentula e un alveolo vuoto post estrattivo
11. Partiamo dall’alveolo post estrattivo: puliamo, misuriamo le sue dimensioni (anche se questo studio
andrebbe fatto prima sulle radiografie, magari cone bean, ma è buona abitudine ricontrollare clinicamente
quello che abbiamo misurato o ottenuto virtualmente, non fidatevi delle macchine ma solo di voi stessi),
studiamo un po’ l’alveolo, facciamo le nostre valutazioni. Dopodiché cominciamo a modificare l’alveolo,
perché non dobbiamo mettere l’impianto nella cavità naturale residua di un dente che non c’è più. In questo
alveolo con le sue dimensioni e quella forma, dobbiamo mettere un qualcosa che ha una dimensione
inferiori e una forma standard (l’alveolo era ovalare e il nostro impianto è circolare, sono due cose quindi
che proprio non vanno d’accordo) e c’è necessità di bloccare questo impianto. Molto difficile sarà preparare
l’alveolo con un nuovo asse di inserzione, per cui per aumentare la stabilità nell’esecuzione possiamo usare
l’altra mano di appoggio alla mano che impugna il micromotore, guidando la direzione. Usiamo una
sequenza di frese e infine inseriamo l’impianto che avviteremo con il micromotore e poi a mano. E
applichiamo la vite di guarigione.
12. Nella zona posteriore invece (sella edentula) faremo l’impianto normale, prestando solo attenzione a fare
una cavità che sia nella direzione giusta rispetto all’asse di inserzione dell’impianto e deve ovviamente avere
le dimensioni giuste rispetto all’impianto, per cui si useranno delle frese di diametro e dimensione via via
crescente, fino all’ultima fresa che consentirà di avere il diametro dell’osteotomia che sia congruente con la
vite che andiamo a mettere. Avvitiamo l’impianto e anche qui inseriremo la vite di guarigione dopo aver
posizionato l’impianto e su di essa verranno poggiati i due lembi che noi abbiamo divaricato. Ovviamente tra
i due impianti dovrà esserci una certa distanza.
13. Si suturano i due lembi, ed essendoci le due viti di guarigione i due lembi lasceranno fuori una parte delle viti
di guarigione. Atteso quindi il tempo di guarigione, non dovremo fare altro che eseguire le procedure
protesiche per poter fare su questi impianti due denti.
Già in prima fase chirurgica possiamo avere che l’impianto comunichi o meno con la cavità orale. Se comunica col
cavo orale parliamo di Implantologia Ad Approccio Non Sommerso o Implantologia A Un Tempo (o one stage).
Se invece una volta inserito l’impianto, non metteva la vite più lunga ma una vite molto corta (penso si riferisca alla
vite di guarigione), i due lembi l’avrebbero coperta e si chiudeva con punti di sutura. Così l’impianto rimaneva sotto
gengiva, e parliamo di Approccio Chirurgico Implantare Sommerso, rimarrà coperto quindi dalla gengiva per un
tempo X perché quell’impianto si integri nell’osso e si lascia isolato dall’ambiente esterno del cavo orale.
Cosa comporta l’implantologia sommersa? Comporta che dopo la guarigione, bisogna eseguire un secondo
intervento chirurgico, che servirà a scoprire la parte superficiale dell’impianto e collegare l’impianto all’esterno e
poter poi fare la protesi. Per cui parliamo di Implantologia In Due Fasi, perché richiede due fasi chirurgiche oltre che
la fase protesica.
La scelta di eseguire un’implantologia sommersa o non sommersa è una scelta individuale, inizialmente le due linee
di pensiero erano in discussione per la loro applicazione ma ad oggi è una scelta che fa il clinico, in rapporto al caso,
al sito, in rapporto a tante motivazioni. Né l’uno è migliore dell’altro, entrambi hanno punti di forza e di debolezza
ma dal punto di vista biologico sono sullo stesso piano.
Non fatevi ingannare dal dettaglio dell’OPT che tende non solo a sovrapporre le strutture, ma anche ad allungare sul
piano verticale e avvicinare sul piano orizzontale, per un fattore di distorsione.
Può sembrare più facile eseguire un impianto per un dente singolo e può essere più difficile mettere gli impianti in
un edentulo completo e per certi aspetti lo è, ma non si può generalizzare. Quello che è importante è un corretto
approccio protesico e quindi un’ottima conoscenza protesica! Bisogna ragionare in termini implanto-protesici.
Dovete saper fare la protesi totale se volete riabilitare un edentulo totale perché in questo modo si imparano le
prove fonetiche, estetiche, ecce cc perché dobbiamo ricreare ex novo un’arcata dentaria e conoscere i principi
funzionali e tecnici che sottostanno a una protesi totale. Ma ciò vale per tutto, anche per il dente singolo.
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Lezione di IMPLANTOLOGIA del 26/03/18 Prof. Ramaglia – PARTE 1
Consiglia Grasso
La scorsa lezione abbiamo introdotto l’argomento dell’implantologia, il prof ci ha raccontato i presupposti per cui fu possibile
negli anni ‘60-70 avviare un certo tipo di sperimentazione, in particolare nei paesi scandinavi, a Göteborg in Svezia, che poi portò
a delle pubblicazioni fondamentali con cui si è aperta l’implantologia moderna, che è quella che noi oggi diamo per assodato, nel
senso che oramai l’implantologia è entrata a pieno titolo nell’ambito delle discipline odontoiatriche, infatti rappresenta un
insegnamento universitario, una pratica clinica ordinaria.
In questi 50 anni sono stati fatti passi da gigante per cui oggi parlare di implantologia è una cosa abbastanza ordinaria, cosa che
non era così quando il prof aveva la nostra età (e non parliamo dell’era giurassica).
Il prof poi ci ha mostrato, sempre nella scorsa lezione, un video, che mostrava in cosa consistesse il posizionamento di un
impianto in un osso cosiddetto nativo, cioè un osso guarito dopo un’estrazione dentaria, perché tutti abbiamo i denti (tranne
quelli che sono congeniti alla nascita con assenza di elementi dentari), quindi quando abbiamo un’area edentula, vuol dire che un
dente si è perso.
Il prof ci ha fatto vedere anche un’altra modalità che oggi noi abbiamo, che è da considerare una modalità più difficile rispetto
alla modalità di una sella già edentula che è quella quando contestualmente estraiamo un elemento dentario e posizioniamo un
impianto, il cosiddetto impianto post-estrattivo.
Il prof poi ci consiglia questo libro: TESTO ATLANTE, Parodontologia e terapia impiantare, SIdP che secondo lui in questo
momento è il miglior testo in italiano in implantologia e parodontologia (secondo il prof se uno vuole imparare qualcosa di
parodontologia deve leggere il Lindhe che è un trattato a tutto tondo soprattutto sugli aspetti eziopatogenetici ma anche
diagnostici e procedurali in parodontologia e anche terapia implantare. Quindi secondo il prof oltre a seguire le lezioni
dovremmo studiare dal Lindhe e da questo libro da lui indicato). Perché il prof ci dice questo?
protesica.
Ma in che senso “è posizionato al di sopra”? Ci farà vedere (anche se
dovrebbe dire che non si fa più, ma si continua ancora a fare, non sa per
quale motivo visto che non c’è nessuna evidenza scientifica) che c’è un
certo tipo di implantologia che va al di fuori dell’osso, al di sopra
dell’osso e si riferisce a quella specie di “ragni” mostrati in foto.
Gli impianti sono di tre tipologie, anzi di due tipologie e poi una a sua TIPI DI IMPIANTI
volta di divide in due categorie, abbiamo: • Subperiostei
impianti subperiostei, cioè quelli che sono extra-ossei, • Endossei con fibroincapsulazione
(fibrointegrazione)
impianti endossei, nei quali distinguiamo:
• Endossei con osteointegrazione
• impianto endosseo con fibroincapsulazione
• impianto endosseo con osteointegrazione.
Gli impianti subperiostei (nell’immagine sono quelli più esterni), sono delle
strutture metalliche, come se fossero dei ragni, i quali vengono messi
chirurgicamente sopra l’osso, sotto il periostio ma sopra la superficie
ossea perché alcuni sostengono che mettendo questi impianti sotto il
periostio a contatto con la corticale, questi impianti “si integrano” con
l’osso.
L’evidenza scientifica da questo punto di vista non è nulla perché saremmo troppo drastici (ma il prof sostiene che
potrebbe anche esserlo), ma è veramente risibile. Quest’implantologia è nata molti anni fa quando si brancolava nel
buio nel campo dell’implantologia, ed era uno dei tentativi di trovare dei pilastri ossei efficaci. Il prof non ha mai
messo un impianto sottoperiosteo, gli è capitato più volte di toglierlo, perché se si mantengono, si mantengono
soltanto per una ritenzione meccanica data dal periostio che sta al di sopra, e dalla gengiva che sta al di sopra; dal
punto di vista biologico, l’evidenza è davvero quasi nulla.
Questi invece (poi lasciamo stare se ci piacciono o meno, se sono belli o sono brutti), sono delle viti che vanno nell’osso e
rientrano nella categoria degli impianti endossei (si riferisce all’altra
tipologia di impianti presente sempre nell’immagine sopra). Quindi ENDOSSEI CON FIBROINCAPSULAZIONE
nell’immagine possiamo osservare un mascellare superiore con le (FIBROINTEGRAZIONE)
due tipologie di impianti: l’impianto extraosseo o sovraperiosteo, e • Vite di Formaggini
l’impianto endosseo, cioè che sta all’interno dell’osso. • Gabbiette di Pasqualini
• Vite di Muratori
Qual è la differenza tra i due impianti endossei, l’endosseo con
• Aghi di Scialom
fibro-incapsulazione e l’edosseo con osteointegrazione? Entrambi
• Lame di Linkow
sono dei dispositivi che vengono posizionati all’interno dell’osso. • Etc
Questa è un’immagine che sicuramente abbiamo già visto:
l’immagine a dx rappresenta una tipologia di impianto endosseo di
molti anni fa.
Il prof fa un attimo un passo indietro; quando nasce
Il carico masticatorio immediato o precoce,
l’implantologia? L’implantologia dentaria nasce sulla scia dei
inducendo micromovimenti all’interfaccia
problemi ortopedici post-bellici. Quindi il problema della protesica
cellulare determina la incapsulazione fibrosa
dell’impianto endossei con tessuto cicatriziale
poco differenziato e vascolarizzato.
ossea si è iniziato a sviluppare dopo la Prima e ancor di più dopo la Seconda Guerra Mondiale; è dopo la 7Seconda
Guerra Mondiale che si utilizza il titanio come materiale per le protesi ossee in generale, e nell’ambito delle protesi
ossee c’è anche un piccolissimo filone che si occupa delle protesi dentarie, certamente non come fini post-bellici,
anche per problemi post-bellici, post-traumatici ma soprattutto per problemi di edentulia normali, tant’è vero che
l’implantologia dentaria si sviluppa come trattamento dell’edentulia intorno alla fine degli anni ‘50, inizio anni ‘60.
I signori che si interessarono dell’implantologia dentaria in quegli anni, sono stati Formaggini, Pasqualini, Muratori,
Scialom, Linkow, etc., i quali in un ambito di conoscenze molto limitate cercarono di capire che cosa si potesse fare
per mettere un qualcosa nell’osso su cui poi poter mettere un elemento dentario. C’erano le viti di Formiggini, le
gabbiette di Pasqualini, le viti di Muratori, gli aghi di Scialom, le lame di Linkow.
I più famosi di tutti, in quegli anni, sono state le lame di Linkow: erano, come si vede dalla forma, degli impianti
longitudinali, per questo chiamati lame perché stretti e un po’ lunghetti, con questi “piedini” (dall’immagine se ne
vedono 4) che poi portavano sopra un moncone, due monconi, etc.
Questi erano impianti non affidabili, perché qual è il problema di qualsiasi terapia chirurgica o terapia in generale
affinché possa essere valida?
1. non solo deve essere valido il cosiddetto proof of principle, cioè il principio deve essere valido, cioè deve
essere valido come evidenza scientifica;
2. deve essere riproducibile, con un ampio margine di successo;
3. deve essere prevedibile, cioè “devo sapere cosa succede dopo quello che faccio” ;
4. deve essere appannaggio di tutti.
Questi sono gli elementi fondamentali (in medicina in generale) affinché una terapia possa essere considerata una
terapia da quotidianità clinica. Questi impianti non sempre davano esiti positivi, c’era una grandissima variabilità,
tant’è vero che l’impianto nell’immagine che è una lama di Linkow sta in quel sito da 30 anni, perché la biologia è
grande e a volte riserva anche delle sorprese; ma nella maggior
Il carico masticatorio immediato o precoce,
parte dei casi, intorno agli impianti si sviluppava un processo inducendo micromovimenti all’interfaccia
radiograficamente di osteolisi, cioè di riassorbimento osseo, e cellulare determina la incapsulazione fibrosa
clinicamente di infiammazione (vedi immagine a lato). dell’impianto endosseo con tessuto cicatriziale
poco differenziato e vascolarizzato.
Qual era il problema di questi impianti? Era che non esisteva, per
nessuno di loro, un protocollo che avesse una solidità nei termini
di predicibilità, di ripetibilità, evidenza scientifica, etc. Anche
perché c’era un problema: questi impianti venivano posizionati
con un’osteotomia che veniva realizzata con una turbina, cioè il
protocollo prevedeva che il taglio dell’osso per posizionare questi
impianti, avvenisse con una turbina, quindi con uno strumento
ad alta velocità che:
1. per quanto si potesse raffreddare, si raffreddava relativamente;
2. l’utilizzo dell’alta velocità creava un’osteotomia che non era così precisa alla dimensione dell’impianto;
3. questi impianti, subito dopo il posizionamento, venivano già caricati protesicamente perché non si teneva
proprio in conto l’idea che forse l’osso potesse avere bisogno di un po’ di tempo per guarire e per poter
incorporare l’impianto, perché non si conosceva l’esistenza dell’osteointegrazione, si pensava all’aspetto
clinico, “devo mettere qualcosa nell’osso che rimanga fermo per poter mettere una protesi sopra”. A volte
l’esito era positivo, altre volte negativo.
Questi impianti, sono quelli che oggi noi definiamo: endossei con fibro-incapsulazione o fibro-integrazione, perché
facendo un passo indietro e ragionando sulla guarigione del tessuto osseo, la prima cosa che fa l’ortopedico in caso
di frattura è immobilizzare l’osso, si chiama contenzione, cioè l’osso per guarire deve stare fermo; più vicini e fermi
stanno i due capi ossei, maggiore è la probabilità di guarigione, guarisce al 100% (tranne che non siate sfigati). Se
invece i capi ossei non sono molto vicini e li facciamo anche muovere, non si forma un callo osseo, ma si forma un
callo fibroso, cioè un callo che non riesce a ossificare.
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Estrapoliamo questo concetto e portiamolo a quegli impianti che venivano messi con questa tipologia:
Alessandro chiede se quest’impianto (vedi immagine a lato) è una vite di Tramonte, il prof conferma anche se non lo
sa con sicurezza (ci sono colleghi che in presenza di poco osso propongono un sovraperiosteo, il prof non lo
farebbe; colleghi che usano ancora le lame, queste viti, etc. che sono comunque stati adattati ai concetti illustrati
di seguito dal prof).
N.B.: Non è la forma dell’impianto, la morfologia, la macrostruttura dell’impianto che è anch’essa importante (dopo
il prof ci dirà quella che oggettivamente e scientificamente oggi è considerata la cosiddetta macromorfologia
“buona”), il prof non se la sente di dite che questa forma di vite è il problema da un punto di vista di
osteointegrazione, di sigillo marginale; questa vite può avere un problema di stabilità, che è un altro discorso.
Quindi i colleghi di cui parlava prima il prof, hanno mantenuto le morfologie implantari adattandole a quelli che sono
i concetti dell’implantologia moderna, la cosiddetta implantologia osteointegrata, però secondo il prof, una vite del
genere non può svolgere quelle funzioni biologiche che le nostre conoscenze oggi ci dicono che i nostri impianti ci
devono dare.
Altro esempio: negli anni ‘80-90 sono stati usati molto impianti lisci, non a vite, indipendentemente se era un
quadrato, un rettangolo, un cilindro, non ha importanza, ma erano impianti lisci che non si avvitavano nell’osso ma
andavano a pressione o comunque linearmente nell’osso. Li ha usati il prof in quegli anni, perché si pensava fossero
giusti, oggi il prof non metterebbe per nessun motivo un impianto senza filettatura. Per liscio intende con o senza
grezzatura (??non si capisce bene), non una superficie liscia o rugosa, dice di non confonderci.
Sono stati messi degli impianti cilindrici, o ancora degli impianti che erano dei cilindri vuoti, cavi, perché si pensava
che ci fosse una “carota di osso” all’interno. Immaginiamo un cilindro senza filettatura, quindi che va leggermente a
pressione all’interno che però non è pieno, ma è vuoto dentro e quindi si preparava il sito lasciando una “carota” di
osso all’interno e poi sopra ci andava l’impianto. Molto spesso queste “carote” si fratturavano, a volte rimanevano
altre volte non rimanevano, ma il dramma è stato che si sono fratturati centinaia di questi impianti, infatti sono stati
poi ritirati dal commercio perché si è visto che l’impianto deve avere, anche se minima, una sua solidità strutturale.
Quindi un impianto vuoto, cavo è troppo debole, nel senso che in situazioni masticatorie si può fratturare.
Questo per dire che le conoscenze evolvono mettendo in crisi, in dubbio le cose che sono state fatte, ma calandole sempre nel
momento in cui sono state fatte (un impianto cilindrico cavo fatto negli anni ’90 è accettabile, non lo è oggi).
In quegli anni quello che si cercava di fare erano quindi gli impianti endossei che solo successivamente sono stati
chiamati con fibroincapsulazione o fibrointegrazione perché l’implantologia moderna si basa su questi concetti che
sono stati introdotti per la prima volta da questa pubblicazione fondamentale del 1977, fermo restando che già
qualche anno prima, nel ‘69-70 c’era stato un primo report che riportava un protocollo per posizionare gli impianti
dentari, ma la serietà vuole che per avere un certo dato significativo, una certa terapia deve essere testata per 10
anni. Nel ‘77 quando la maggior parte degli implantologi parlavano e straparlavano
di questi impianti riportati nell’immagine, tant’è vero che le persone più coscienti
dicevano che “l’implantologia dentaria purtroppo non funziona”. C’era una grossa
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diatriba tra quelli favorevoli a questa implantologia e un grande numero di odontoiatri che ragionando logicamente,
clinicamente e biologicamente, ritenevano che magari qualche volta poteva andare bene ma sostenevano che in
generale l’implantologia dentaria non funzionasse (non a caso in passato si facevano i reimpianti dentari, le
trasposizioni di germe, si facevano terapie assurde perché quando si perdeva un dente purtroppo l’alternativa era
quella di fare una protesi rimovibile (che non piaceva a nessuno) o fissa andando a mutilare due elementi dentari
adiacenti).
Il prof ci tiene a sottolineare che non è che tutto il mondo è implantologia! Non è che i ponti o la protesi tradizionale o la
dentiera non si facciano più, la dentiera si fa e si continua a fare, perché a volte è necessaria la dentiera, il pz non vuole fare
l’implantologia o non può perché l’implantologia ha anche una terapia di implanto-protesi che ha un impegno diverso, ma si
continuano a fare anche i ponti. Quindi non è che ci sono gli impianti e la protesi fissa non si fa più; se il prof dovesse perdere un
dente, starebbe a riflettere se fare un impianto o un ponte perché a volte è più giusto fare un impianto, altre volte un ponte.
Quindi la terapia implantare è una delle soluzioni, è ovvio che ci ha risolto e ci risolve molti problemi, è ovvio che si
ricorre agli impianti molto spesso, forse più spesso rispetto alla protesi fissa, ma questo non significa che le altre
terapie siano state cancellate.
Nel ‘77 il gruppo svedese di Branemark che aveva scoperto un po’ ENDOSSEI CON OSTEOINTEGRAZIONE
casualmente questo meccanismo, di questo titanio che si legava Osseointegrated implants in the treatment
of the edentulous jaw: experience from a
nell’osso e non si riusciva più a staccarlo, fanno questa sperimentazione
10-years period.
su edentuli totali, prendono pz che non avevano più un dente alla
Branemark P., Hansson B., Adell R., Breine
mandibola, fanno un protocollo molto stringato, sia da un punto di vista
U., Lindstrom J., Hallen O., Ohman A.
chirurgico che protesico, che prevedeva 6 impianti messi nella zona Scand. J., Plast Reconstructive Surg., 1977
interforaminale della mandibola, questi si lasciavano 6 mesi nell’osso, e
dopo 6 mesi questi impianti si riaprivano, si facevano dei collegamenti e
si realizzava una protesi sollevata dai tessuti molli (come si può vedere
dall’immagine) che poggiava sui 6 impianti che andavano da premolare
a premolare grossomodo da un punto di vista protesico, da un punto di
vista chirurgico, nella zona sinfisaria, intraforaminale, e portava i quinti
e i sesti in estensione dietro poggiati su questa struttura avvitata.
Questa è la sintesi del protocollo di Branemark.
Con questo protocollo applicato ad un certo numero di pz, loro portavano nel ’77 i dati a 10 anni. Questa è stata una
bomba in campo odontoiatrico perché in un ambito come l’implantologia in cui si discuteva sul fatto che funzionasse
o meno, sono usciti questi signori dicendo “noi abbiamo fatto questo, abbiamo ottenuto questo, durano 10 anni” che
è un tempo importantissimo per validare o meno una terapia. Una terapia protesica in generale deve avere una
probabilità di durata di almeno 10 anni.
Ma che cosa è successo? Sulla base di ciò, siamo partiti con gli edentuli ENDOSSEI CON OSTEOINTEGRAZIONE
totali alla mandibola, siamo passati agli edentuli totali al mascellare, poi Osseointegrated implants in the
a edentulie parziali per arrivare alla mono-edentulia. treatment of the edentulous jaw:
Successivamente alla pubblicazione del ‘77 c’è stata quella dell’ ‘82 con experience from a 10-years period.
Branemark P., Hansson B., Adell R., Breine
i dati a 15 anni: se nel ‘77 le persone più intelligenti avevano “messo in
U., Lindstrom J., Hallen O., Ohman A.
moto il cervello” volendo capire che cosa era stato fatto per ottenere a
Scand. J., Plast Reconstructive Surg., 1977
10 anni un successo oggettivo, ma pochi se n’erano accorti, ancor di più
con i dati a 15 anni nell’ ‘82, dati estremamente favorevoli, perché i dati
erano circa il 90% di successo per gli impianti alla mandibola, circa l’80%
per gli impianti al mascellare superiore, ma erano numeri elevatissimi. I
successi in medicina non sono del 100%, noi vorremmo e ci auguriamo
di avere sempre il 100% ma questo realisticamente non esiste perché la
biologia non è una scienza esatta.
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Quando mettiamo una nostra soglia su una terapia che sia in un certo senso affidabile? Quando andiamo almeno
all’80%, cioè dall’80% a salire una terapia è considerata una terapia di successo, quel 20% è un 20% di variabilità
biologica che noi vorremmo sempre cancellare e
arrivare al 99,9% ma realisticamente è così.
ELEMENTI BASE PER L’OSTEOINTEGRAZIONE
Che cosa avevano codificato gli amici di Göteborg • Materiali altamente biocompatibili
(città svedese)? Quali erano gli elementi di un • Forma e superficie specifica dell’impianto
protocollo? • Stato del sito e procedura chirurgica controllata
(Fu spiegato molto bene in una di queste pubblicazioni • Adattamento preciso tra impianto ed osso
dell’ ‘81, quindi è sempre quel periodo anche se era • Stabilità primaria dell’impianto durante la guarigione ossea
iniziata negli anni ‘60 perciò si parla di 50 anni perché la • Assenza di carico protesico durante la guarigione ossea
sperimentazione era iniziata nel ‘66-67).
Gli elementi da cui non si poteva prescindere secondo questi studiosi sono:
1. materiale altamente biocompatibile; non dobbiamo pensare che le viti di Tramonte, le gabbie, le lame, etc.,
erano tutte in titanio, c’erano anche impianti fatti di leghe metalliche; secondo loro bisognava scegliere un
materiale, il materiale più biocompatibile è il titanio? Allora gli impianti devono essere fatti in titanio, tra
l’altro titanio di grado 4, sapete che il titanio fa una gradazione in gradi, perché il titanio 100% non esiste, è
pur sempre una lega di titanio, un po’ come l’oro ma i gradi del titanio indicano la maggiore purezza, la
maggiore % di titanio.
2. Dobbiamo dare all’impianto la forma che noi pensiamo essere quella più utile; secondo loro la forma più
utile era una vite, non una vite da osso (se facciamo l’esempio con il ferramenta, esistono le viti da osso e le
viti da metallo, quelle da osso hanno un passo più ampio, quelle da metallo hanno un passo più stretto), la
scelta fu per delle viti cilindriche non coniche con un passo molto vicino a quello della vite da metallo.
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3) Dobbiamo mettere l’impianto in un sito che sia, da un punto di vista osseo, sano e guaribile; e
la procedura chirurgica deve essere di tipo ortopedico, cioè una procedura che sia in grado di
essere controllata
4) Dobbiamo cercare di rendere quanto più congruenti lo spazio tra l’impianto e l’osso
5) Punto fondamentale, stabilità primaria, cioè l’impianto deve stare fermo nell’osso e lasciato
per un tempo tale da poter guarire, e perciò in questo periodo di guarigione vi doveva essere
l’assenza di carico protesico.
QUESTE SONO LE BASE DEL PROTOCOLLO DI UN TIZIO DI CUI NON CAPISCO IL NOME
N.B dal 77’ all’81’ in poi è cambiato tanto, non solo abbiamo incorporato quanto più possibile
l’implantologia, ma abbiamo anche capito tante cose in più sia sui tessuti molli ma anche su molti
di questi punti (prima elencati), e abbiamo capito che alcuni punti sono imprescindibili altri invece
sono stati completamente modificati.
Su che cosa ruotava tutto il sapere? Sulla definizione dell’osteointegrazione, che era alla base del
protocollo.
DEFINIZIONE: contatto diretto strutturale e funzionale tra osso vitale (quindi presenza di cellule
vive) e superficie implantare a livello di microscopia ottica, cioè un impianto si considera
osteointegrato se io per ipotesi prendo quell’impianto insieme all’osso, gli faccio una sezione e
vedo al microscopio ottico un contatto diretto tra le due superfici eterogenee (osseo e impianto)
senza quindi soluzione di continuità.
Branemarck aveva ipotizzato il concetto di osteointegrazione già nel 68’ affermando che l’osso
poteva guarire in presenza di titanio formando un rapporto con lo stesso, sulla base di ciò sono
stati effettuati una serie di esperimenti e suti allo scopo di capire come poter ottenere una
guarigione simile, fina ad elaborare un vero e proprio protocollo alla cui base vi è la definizione di
osteointegrazione precedentemente enunciata.
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Il termine anchilosi funzionale è stato coniato successivamente e per questo non ha avuto lo
stesso successo del termine osteointegrazione, ciò nonostante rende meglio l’idea del rapporto
che si genera tra osso e titanio, ecco perchè oggi parliamo di implantologia osteointegrata.
Il prof batte sul discorso della microscopia ottica perché se noi andiamo a livello della microscopia
elettronica si vede che in realtà non è l’osteocita che è a contatto con l’impianto, ma è la matrice
ossea (ricordate che l’osso è un tessuto connettivo mineralizzato, cioè fatto da cellule e una
matrice intercellulare all’interno della quale sono depositate idrossiapatite che permettono il
legame col titanio visto al microscopio elettronico), quindi osservando attentamente osserviamo
che i proteoglicani, componenti della matrice, si interpongono tra osso mineralizzato e gli ossidi
superficiali del titanio.
Quindi si evince un altro concetto importante ovvero che non è il titanio che si interfaccia con i
nostri tessuti biologici, ma e l’ossido del titanio, perché il titanio a contatto con l’aria prende
l’ossigeno e diventa ossido di titanio.
RICAPITOLANDO: Quindi da un punto di vista strettamente biologico, possiamo dire che a livello
ottico abbiamo un’interfaccia diretta tra osso e impianto, da un punto di vista elettronico
l’interfaccia avviene tra gli ossidi di titanio che sono in superficie sull’impianto e la matrice
extracellulare dell’osso (fatta di proteoglicani, fibre collagene, ecc…).
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Adesso cerchiamo di capire quali sono le affinità che possiamo sottolineare tra un dente ed un
impianto, e quali sono invece le divergenze che possono creare problemi, e vediamo poi quali
sono questi problemi.
(Adesso spiega l’anatomia dento-parodontale sottolineando i rapporti tra il dente e i tessuti molli,
invitandoci a rivederla perché è importante: parte da una sezione di un dente e dice che abbiamo
osso alveolare che è leggermente distante dalla giunzione amelo-cementizia, abbiamo il margine
gengivale, poi il solco che può essere di varia grandezza, il solco è rivestito da un lato dallo smalto
della corona, e dall’altro dall’epitelio sulculare, il solco a una certa profondità che noi
consideriamo di salute parodontale (fino a 3 mm, oltre è patologico), poi da epitelio sulculare
diventa epitelio giunzionale, quindi con gli emodesmosomi questo epitelio si lega allo smalto del
dente fino alla giunzione amelo-cementizia. Sotto tale giunzione non c’è più lo smalto ma c’è il
cemento radicolare che si interfaccia con il connettivo del margine gengivale detto connettivo
sovracrestale, dove le fibre collagene di questo connettivo si vanno ad inserire dentro al cemento
e queste fibre formano 4 fasci di fibre (poi rettifica dicendo 3+1):
• DENTO-GENGIVALI: quelle che s’inseriscono nel cemento e vanno verso la gengiva
• DENTO-ALVEOLARI: quelle che vanno dal cemento verso l’osso
• TRANSETTALI: quelle che dal cemento di un elemento dentale vanno al cemento
dell’elemento dentale adiacente
• Quelle che non s’inseriscono ma fanno parte della struttura del connettivo, e che hanno un
andamento circolare detto anche legamento circolare di KOELLIKER
Il vero attacco dento-parodontale è quello che avviene tra la radice del dente e l’osso alveolare
con l’interposizione del legamento parodontale.
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collagene si inseriscano dentro un qualcosa, e ciò a livello del titanio non è possibile quindi non c’è
attacco connettivale, e per questo motivo avremo delle fibre collagene (del connettivo) che si
organizzano parallelamente o circonferenzialmente alla parte sovraossea dell’impianto,
realizzando una specie di manicotto di tessuto sano intorno ad un materiale inorganico quale
titanio, quindi abbiamo fondamentalmente un tessuto cicatriziale (ovvero una integrazione di
tessuto connettivale intorno all’impianto).
Non c’è da meravigliarsi per la formazione di questo tessuto cicatriziale perché sia a livello osseo
che a livello dei tessuti molli abbiamo creato una ferita chirurgica, abbiamo inserito una
componente inorganica sull’osso e poi abbiamo riposizionato tutto al proprio posto permettendo
la cicatrizzazione dei tessuti molli e l’osteointegrazione dell’osso con l’impianto.
Quindi possiamo dire che tutto il tessuto perimplantare è un tessuto cicatriziale di una ferita
chirurgica, che è una cosa positiva.
E’ bene ricordare che la guarigione intorno all’impianto, sebbene ottimale, è pur sempre un punto
di debolezza perchè il sigillo che si viene a creare è meno efficace di quello che si realizza
normalmente intorno ad un elemento dentario naturale.
Difatti entrambi i sigilli sono suscettibili ad insulti batterici, ma il sigillo tra il tessuto molle e il
dente risponde meglio all’attacco batterico rispetto al sigillo formatosi tra tessuto molle e
impianto, in quanto essendo un tessuto cicatriziale (tessuto intorno all’impianto) è caratterizzato
sicuramente da una fibrosi maggiore rispetto al connettivo intorno al dente, che può essere un
aspetto positivo da un lato perché è più consistente, ma dall’altro no perché essendo povero di
cellule non è un tessuto adeso, ma il grosso problema è la carenza di vascolarizzazione come tutti
i tessuti cicatriziali, e per questo motivo si difende meno bene.
Quindi a livello del tessuto marginale noi abbiamo similitudini per quanto riguarda l’organizzazione
anatomica in quanto abbiamo una mucosa di rivestimento che simile alla gengiva (mucosa
perimplantere), un solco perimplantere, attacco epiteliale sull’impianto che sembra vada meglio
con il titanio a superficie liscia, e invece con un’organizzazione del connettivo sovracrestale del
tutto diversa da quella fisiologica in quanto appare come un manicotto di tessuto cicatriziale
intorno alla parte sovraossea dell’impianto.
Ragazzi adesso il prof da delle nozioni confuse sulla vascolarizzazione dentale, quindi andatevela
a rivedere da parodonto. Ricordatevi sempre che l’arteria sovraperiostea è presente anche
nell’impianto mentre è completamente assente il plesso di arterie del legamento parodontale
perché il legamento parodontale non è presente.
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La volta scorsa abbiamo fatto una disamina sui rapporti tra i tessuti parodontali in generale , tra dente e
tessuti epiteliale e connettivale(dente inteso come corona/radice) ed impianto inteso nella sua interezza in
rapporto con il tessuto osseo innanzitutto (osteintegrazione) e i tessuti molli. Nel dente noi siamo soliti
parlare, quando parliamo di parodonto, di due compartimenti: parodonto superficiale (che
fondamentalmente interessa la gengiva), parodonto profondo (che interessa la parte ossea con il
legamento parodontale). Per gli impianti abbiamo più o meno la stessa impostazione però aggiungiamo
(come vedremo) un terzo compartimento rappresentato dalla giunzione tra la parte endossea e la parte
extraossea; volendo semplificare, tra la vite endossea (impianto in senso stretto) ed il moncone, cosa che
nell’elemento dentario non esiste, il dente è tutt’uno, radice e corona che si continuano l’uno nell’altro
senza soluzione di continuità, perché la struttura portante del dente, che è la dentina, è sempre la stessa,
cambiano i tessuti di rivestimento (cemento a livello della radice, smalto a livello della corona). L’impianto
invece, per definizione, ha due componenti, una che è la componente di ancoraggio nell’osso e una invece
che è la componente di ancoraggio dell’elemento protesico. Quindi nell’impianto vedremo che
identifichiamo un compartimento cosiddetto ‘’intermedio’’, tra il compartimento profondo ed il
compartimento superficiale. Sul compartimento profondo oggi non ci soffermiamo perché ne abbiamo un
po' parlato nella lezione precedente, ricordiamoci che l’osteointegrazione è l’immagine che vediamo a dx.
Cioè l’osteointegrazione è il contatto diretto, a livello di microscopia ottica, tra l’impianto funzionale e il
tessuto osseo vitale. Nell’immagine a sx vediamo invece il dente, con il legamento parodontale che si
inserisce nella radice con le fibre orientate.
Se invece andiamo, come accennato l’altra volta, a livello di microscopia elettronica e non ottica, si vede
che non sono le cellule in contatto con l’impianto, ma è la matrice ossea (matrice extracellulare, qui
ialinizzata) che è a contatto con l’impianto, ed il titanio è sempre un ossido di titanio.
Se quindi l’osteointegrazione è un concetto istologico alla microscopia ottica, qual è il principio chimico-
fisico con cui l’osso ‘’si lega’’ all’impianto, tanto che lo possiamo prendere a martellate e l’impianto non se
ne viene? A livello biochimico e fisico-chimico ci sono legami ionici, forze di Van der Walls, e soprattutto
un’interazione biochimica tra i proteoglicani (importanti proteine della matrice ossea extracellulare) e
l’ossido di titanio, ipotizzando addirittura un legame chimico a livello di queste componenti
Quindi, dal punto di vista dell’interazione tra la superficie implantare e l’osso abbiamo delle oggettive, forti
e solide interazioni sia a livello di microscopia elettronica, a livello biochimico, e a livello istologico, tant’è
vero che un impianto, una volta che si è osteointegrato, pur non avendo il legamento parodontale (che è la
struttura che rende funzionale un elemento dentario), va avvicinandosi ad un elemento anchilotico, come
quest’ultimo è in grado di resistere ai carichi masticatori, altrettanto l’impianto fa questo tipo di
interazione.
Cosa significa questo? Che si è sviluppata, sulla base dell'interfaccia osso-impianto, tutta un'enorme linea di
ricerca scientifica che ha un pò caratterizzato la ricerca implantare negli ultimi 20 anni, diciamo dagli anni
'90 in poi, perchè nel momento in cui si è capito ancor di più l'importanza dell'interrelazione tra la
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superficie dell'impianto e l'osso, è ovvio che la ricerca andasse a cercare di trovare la superficie implantare
ideale, cioè quella che potesse avere un'osteointegrazione più veloce e che durava di più, etc.
Quindi si sono cominciate a studiare tutta una serie di caratteristiche delle superfici implantari che
riguardavano:
a) composizione di superficie (cioè di che materiale, di quali elementi deve essere fatto l'impianto)
b) come deve essere fatto l'impianto, che passo e che forma deve avere la spira, se questa è una cosa
importante o meno (macrotopografia)
c) ricordiamo che gli impianti di Branemark (i famosi iniziali) avevano una superficie ''al tornio'' cioè erano
macchinate e lisce. Aveva senso mantenere delle superfici lisce o aveva invece più senso parlare di superfici
non lisce, rugose? (microtopografia)
d) in ultimo la parola più importante, energia di superficie, che per molto tempo non ha avuto il rilievo che
meritava. Ciò perchè all'inizio ci si è molto più focalizzati sulla microtopografia (che significa superficie liscia
o non liscia, per così dire ''rugosa'') e la composizione (se dovesse essere in titanio commercialmente puro
in lega di titanio, in lega con altri elementi, etc., per cui davvero se ne sono viste e se ne vedono di superfici;
se noi prendiamo un catalogo possiamo vedere che la stessa azienda implantare ha 3-4 superifici diverse
nell'ambito della stessa tipologia di impianto, se prendiamo 20 aziende implantari, hanno 20 superifici
diverse, e ognuna dice di avere la superficie migliore rispetto alle altre. Quindi, abbiamo imparato molto,
ma sicuramente la parola fine non ce l'abbiamo).
Una cosa che è chiara, anche se oggi abbiamo avuto un ritorno, è che le superfici lisce le abbiamo
abbandonate preferendo delle superfici ''rugose'', ma non è un termine giusto, si dice piuttosto superfici
trattate, cioè...come si fa un impianto? Si fa con delle macchine del tutto simili a quelle utilizzate per fare le
viti del ferramenta, cioè il procedimento industriale è lo stesso, è un tornio che riduce, poi fa la filettatura o
altro, è tutto un processo meccanizzato, l'unica cosa è che la vite del ferramenta è in ferro o altro
materiale, mentre invece per gli impianti si hanno delle bacchette di titanio. Il tornio tende a fare delle
superfici lisce, che tuttavia non sono mai perfettamente lisce, infatti il termine tecnico è superficie
''macchinata'', cioè quello che esce dalla produzione industriale dalla macchina, e che ad occhio nudo
sembra liscia. Poi si è aperto tutto il mondo delle superfici ''trattate'', che è un termine più giusto rispetto a
''rugoso''. E' ovvio che l'effetto di un trattamento è rendere una superficie che nascerebbe liscia non liscia,
ed il contrario di liscio è rugoso, ma non è giusto parlare di ''rugoso'', è meglio parlare di superfici trattate
ed esistono, come vedremo, molti diversi modi per trattare una superficie.
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PRINCIPIO BIOLOGICO
Per quanto riguarda l'energia di superficie (al di là della composizione, del fatto ''macchinato o trattato'', a
vite o cilindrico e cioè la macrotopografia), essa è fondamentale, infatti l'impianto con quale elemento
biologico entra in contatto? Quando facciamo l'osteotomia (buco nell'osso...), a livello osseo abbiamo
sanguinamento, quindi quando inseriamo l'impianto sappiamo già che se è in titanio, non è in titanio, ma è
ossido di titanio, cioè quello che andrà ad interagire biochimicamente è l'ossido di titanio, il quale non
interagisce con osteocisti, osteoblasti o con gli osteoclasti, ma l'impianto interagisce inizialmente con il
sangue. Ottimo, perchè dal sangue vengono tutti i tessuti nelle fasi di guarigione, però questo sangue deve
diventare coagulo per poter svolgere la sua azione.
Il coagulo è composto dalla fibrina, e la cosa più importante per il coagulo è la stabilità, quindi la cosa più
importante è che il coagulo ''microscopico'' (perchè più è congruente l'interfaccia tra osteotomia ed
impianto, più piccolo è lo spazio del coagulo, quindi piccolo spazio ci aiuta nella stabilità)… ma cosa è
importante nella stabilità del coagulo? Che la fibrina, che è l’impalcatura del coagulo, si attacchi sulla
superficie implantare e si attacca meglio su una superficie rugosa piuttosto che su di una superficie liscia, e
ciò sarebbe già la spiegazione più semplice per rapportare a favore dell’argomentazione della superficie
rugosa. Se quella superficie rugosa ha determinate caratteristiche per cui la fibrina interagisce ancora
meglio, è sicuramente un fatto positivo. Se quella superficie rugosa attraverso i trattamenti, da un punto di
vista biochimico, interagisce meglio, qual è una delle proteine importanti? Fibronectina, tenascina, cioè
tutte proteine che si trovano normalmente nel sangue e che rappresentano per così dire la prima
strutturazione del tessuto di granulazione, al prof sembra dignitoso (raga sto periodo è un po' così….ho
riportato alla lettera).
Quindi, l’energia di superficie è detta anche tensione superficiale, e ci interessa perché tra le varie cose che
influenza, influenza la bagnabilità, ciò cosa significa? Che se prendiamo una goccia e la mettiamo su di un
tavolo su cui l’energia di superficie è elevata, la goccia rimane goccia, se invece è bassa la goccia si distende.
Quindi se è come abbiamo detto essere importante il contatto tra superficie e sangue ab inizio, è meglio
una superficie che abbia un’elevata bagnabilità (il prof ci dice tutto ciò perché vuole che noi capiamo cosa ci
viene proposto guardando una brochure, ascoltiamo una conferenza o dobbiamo convincere di
un’argomentazione, se queste cose non le sappiamo non ne capiamo niente). La bagnabilità è importante
perché più sangue rimane adeso per la bagnabilità della superficie implantare più il coagulo è stabile, tant’è
vero che un’azienda implantare molto importante cosa ha pensato per cercare di tenere protette le
superfici? Addirittura di metterle in un liquido per impedire che vi possa essere una contaminazione da
parte dell’ossigeno ambientale, perché una superficie in ossido di titanio senza contaminazione è più
bagnabile. Quindi ci sono tutta una serie di elementi razionali dietro ad alcune scelte, più la superficie è
bagnabile migliore ci si può aspettare che sia la performance biologica.
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(è una vecchia immagine, oggi non ci sarebbe soluzione di continuità con questa immagine a livello delle 4
cose che abbiamo detto e cioè microtopografia, macrotopografia, energia di superficie e composizione di
superficie).
cui nel tempo, nell’ambito dei tessuti biologici avveniva un distacco dell’idrossiapatite dal titanio e si aveva
così una reazione da corpo estraneo ovviamente perché l’organismo si difende, quindi c’era un reazione
attorno a questi impianti. Il secondo problema è che se il sigillo mucoso attorno a questi impianti non
reggeva bene ma c’era la formazione di un processo infiammatorio biologico, una mucosite o peggio ancora
una perimplantite, quando questo processo arrivava a livello dell’idrossiapatite era uno scatafascio, perché
trovava un materiale estremamente poroso di ampia colonizzazione batterica in cui i processi di distacco
aumentavano sempre di più, sono gli impianti che quando andavano incontro a perimplantite, nell’arco di
un tempo relativamente breve divenivano completamente non più osteointegrati. Il rivestimento in tps
(titanio plasma spray; rugosità per addizione) invece si è visto nel tempo che non erano le superfici migliori
perché erano troppo rugose; il problema della rugosità è di trovare il giusto grado di rugosità per interagire
meglio con le cellule e con la fibrina del coaugulo.
Poi ad un certo punto sono nate le superfici miste, un po' trattate ed un po' non trattate (terzo impianto da
dx) perché si vedeva che la rugosità/trattamento… in questo caso l’impianto è invece trattato per
sottrazione, cioè da una struttura liscia, l’impianto viene immerso in un liquido, un acido generalmente, e
quest’acido usura una parte della superficie e questa da liscia diventa rugosa; un’altra possibilità invece è la
sabbiatura, cioè non viene messo del materiale sopra, ma la sabbiatura con polveri molto sottili rende la
superficie da liscia in rugosa. Ovviamente poi le superfici vengono pulite, decontaminate, sterilizzate e così
via. Quindi come vediamo, ce ne è per tutti i tipi, oggi siamo arrivati anche alla sinterizzazione. Il secondo
impianto da dx presenta una superficie, che secondo un’azienda molto importante, prevede una superficie
mordenzata immersa in un liquido che la protegge dalla contaminazione ambientale.
Un’ulteriore evoluzione sono oggi le superfici, non da un punto di vista della microtopografia ma di
composizione, sappiamo che non solo si sono sperimentate oltre gli impianti in titanio puro, di vario grado
(grado 4, grado 5), ma anche delle leghe con il vanadio (min.28.09 non si capisce), ma la ricerca più recente
sta sperimentando dopo un fallimento, degli impianti in zirconia. Come sono state fatte delle strutture
protesiche a base di zirconia, che oggi sono entrate nella normalità della pratica clinica sostituendo le leghe
metalliche; un tempo le corone protesiche e anche le strutture più ampie, si facevano con le leghe
metalliche, generalmente leghe con oro; poi oggi abbiamo le leghe non a base di oro, sia preziose che non
preziose, ma il materiale metal-free più resistente è la zirconia, ma la zirconia da un punto di vista chimico è
un metallo, non è una ceramica come ad es. il disilicato, che fa parte dei materiali vetrosi; visto allora che la
zirconia è un metallo si è pensato di farci anche gli impianti perché così abbiamo non più il metallo ma dal
punto di vista estetico di trasparenza e translucenza, quando è molto superficiale, diventa migliore.
Non è stata una grande esperienza, la ricerca non è stata completamente abbandonata ma ha poco
interesse, mentre invece è stata fatta una lega titanio-zirconio che rende l’impianto molto resistente.
Questo è un vantaggio laddove andiamo a ridurre il diametro degli impianti, più l’impianto diventa piccolo,
più si indebolisce strutturalmente (c’è stata infatti un’esperienza negativa fatta da tanti odontoiatri con gli
impianti cilindrici cavi, si pensava che andassero bene mente invece non andavano bene strutturalmente e
si fratturavano).
Quindi non c’è dubbio che il titanio e l’osso vanno d’accordo tra di loro e non c’è dubbio che l’osso si trova
meglio a guarire con una superficie rugosa rispetto ad una superficie liscia. Perché negli ultimi anni sono
tornate in voga le superfici lisce? Le superfici rugose sono comparse intorno agli anni ’90 e in tutti gli anni
2000, fino a 4-5 anni fa si parlava solo di superfici rugose perché oggettivamente sia le caratteristiche fisico-
chimica dette prima ma anche i dati oggettivi della ricerca, contavano che c’erano maggiore successo e
durata con impianti con superfice trattata rispetto alla liscia, e che c’era più successo con le viti rispetto ai
cilindri e quindi avevamo dei punti fermi. Che cosa è successo? È emerso in contemporanea il problema
delle complicanze biologiche, cioè le infezioni perimplantari, come esistono gengivite e parodontite, così vi
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sono mucosite e perimplantite. Poiché il problema è grosso, mentre è più semplice trattare gengiviti e
parodontiti, quando ci si interfaccia con mucositi e soprattutto con le perimplantiti sono degli impicci. E se
dobbiamo trattare una perimplantite su una superficie rugosa, il grosso problema è che occorre
decontaminare e quindi eliminare i batteri che si trovano su questa superficie; già ciò è difficile farlo su una
vite, ma con una vite rugosa è quasi impossibile. Allora, nella preoccupazione di poter gestire meglio le
perimplantiti c’è un ritorno verso le superfici lisce, o integralmente lisce o anche un ritorno verso le
superfici ibride (4 impianto da sx) che hanno una parte liscia più in superficie ed una parte rugosa. Il Prof
non è proprio d’accordo al ritorno alle superfici lisce è come dire ‘’l’aribag salva le vite. Ma se il conducente
non ha messo la cintura di sicurezza, scoppia l’airbag, e si frattura il massiccio facciale, allora l’airbag non va
più bene’’. L’acquisizione di una migliore performance delle superfici rugose in termini di guarigione
intraossea non si può discutere finché non uscirà qualcosa di nuovo a confronto; tra una superficie rugosa
ed una liscia, in termini biologici di guarigione intraossea, i dati sono chiari. Allora è giusto che ci si possa
preoccupare di un’eventuale complicanza, ma non è che per questo motivo io debba buttare una migliore
guarigione. Quindi, il tentativo di farci tornare agli impianti completamente lisci per il prof. non va bene,
anche se la perimplantite è diventato un grosso problema come qualcuno vuole fare apparire, la
perimplantite è un grosso problema ma ad avviso del prof è sovrastimata per problemi che nascono dagli
odontoiatri in quanto vengono dalla selezione dei pz da un lato, dalla situazione del sito. Quindi in primo
luogo verificare che il pz sia adatto o non adatto, se il pz ha infatti perso i denti per parodontite, ma
continua a non lavarsi i denti, se noi mettiamo l’impianto non è che questo sia un qualcosa di miracoloso,
questi è semplicemente un supporto, questi si osteointegra in maniera magnifica, il problema non riguarda
l’osteointegrazione se siamo bravi e facciamo un buon intervento, non riguarda la protesi, ma riguarda il
mantenimento di quel sistema biologico; come il pz non è stato in grado di mantenere quel sistema
biologico perfetto (dento-parodontale) è improbabile che possa mantenere il sistema biologico che gli
abbiamo dato noi. Pertanto, se il pz ha una pessima igiene orale che l’ha portato ad avere la parodontite
che gli ha portato a perdere i denti, è anche un soggetto suscettibile quindi, e la suscettibilità ovviamente
ha la sua importanza (ci sono pz che hanno livelli non eccezionali di igiene orale ma non ammalano di
parodontite, e invece pz che hanno una discreta igiene orale e ammalano). Se il pz è suscettibile e gli
mettiamo l’impianto e non ha una buona igiene orale ed una buona manutenzione di quel sistema, un buon
mantenimento, è normale che finirà per avere perimplantite. Ma ciò, è colpa dell’impianto o del pz o del
sito o dell’odontoiatra che ha fatto determinate scelte?
Altra cosa, vogliamo parlare del malposizionamento implantare? Molte complicanze nascono da un
impianto messo male (quanti colleghi il prof sente dire ‘’ io ho cambiato, siccome con la bmw sono andato
a sbattere in faccia al muro, mi sono preso la mercedes così se vado a 200 km/h non vado in faccia al muro’’
e invece ci va lo stesso, non è colpa della bmw se non sai guidare).
Quindi, il titanio va bene con la superficie rugosa e quello che ci interessa è che si è visto che le superfici
migliori sono quelle che hanno una rugosità moderata. Che significa moderata? Come si misura la rugosità
di una superficie? Si usano i rugosimetri, che possono essere meccanici o a laser, cioè è una strumentazione
fisica che misura il grado di rugosità di una superficie (anche la scrivania che sembra liscia, se la mettiamo
sotto rugosimetro ha un suo valore di rugosimetria). Allora, si è fatta una gradazione che fino a 0,5 di Sa
(leggi S con a), che è uno dei parametri con cui si valuta la rugosimetria, le superfici sono considerate lisce
(non rugose), da 0,5 fino a 1,5 è moderatamente rugose, dopo 1,5….(non continua); le superfici migliori
sono quelle che hanno rugosità intermedia (0,5 a 1,5).
La topografia superficiale che sembra evidenziare una più favorevole interazione tissutale è
caratterizzata da PITS di rugosità di 1,3-10 micrometri ad elevata densità con valori di rugosità moderata
(Sa ca. 1,4 micrometri; 1-2 micrometri) ed attività biochimica e biofisica. Wannerber et al., 1996, 1998,
2001, 2006. Guizzardi et al., 2004
Tant’è vero che da un punto di vista di definizione, l’osteointegrazione è scivolata da un concetto statico ad
un concetto dinamico, cioè è un legame tra osso e impianto che deve essere in grado di resistere ai cicli
funzionali. Quindi l’osteointegrazione è quel processo biologico/chirurgico che consente di ottenere la
fissazione fisica e funzionamento efficace
OSTEOINTEGRAZIONE
Che cosa è molto importante oltre all’osteoinegrazione? Il compartimento superficiale, il quale è stato
sempre tenuto in scarsa considerazione, mentre invece è determinante in primis per l’estetica ma anche
per la stabilità della salute nel tempo dell’impianto stesso perché il compartimento superficiale, vale a dire
il rapporto tra i tessuti molli con gli impianti, rappresenta un elemento almeno tanto importante se non
addirittura di più rispetto alla componente dell’osteointegrazione. Quest’ultima è fondamentale, se
l’impianto non si osteointegra dobbiamo soltanto estrarlo, ma se l’impianto si è osteointegrato
quell’osteointegrazione si manterrà nel tempo e quindi avrà una sua logica se vi sono due condizioni:
1. Se i nostri carichi occlusali sono in grado di farla resistere, e questo non è un grosso problema, a
meno che non facciamo degli schemi protesici fuori logica ma degli schemi ricostruttivi protesici
secondo lo standard non è un problema
2. La seconda cosa fondamentale per la stabilità e la durata dell’osteointegrazione, che significa anche
il mantenimento della riabilitazione implanto-protesica, è la stabilità dei tessuti molli
24
Per gli impianti, per quanto riguarda i tessuti molli, il punto debole è la parte connettivale che non
determina attacco connettivale, quindi è un sistema molto più delicato. Nonostante questo però i tessuti
molli si dispongono intorno all’impianto e al moncone protesico (intorno a tutta l’unità implanto-protesica)
nello stesso modo in cui si dispongono intorno ai denti, cioè come intorno ai denti c’ è l’ampiezza biologica
analogamente attorno agli impianti c’è l’ampiezza biologica.
Dov’è che cambia? Nei denti siamo più d’accordo a parlare di circa 3 mm anche se sono misure molto
relative, negli impianti abbiamo maggiore incertezza sul solco in quanto il solco perimplantare può avere
profondità diverse perché dipende dallo spessore della mucosa dell’area edentula dove andiamo a
posizionare l’impianto, se in quella zona ci sono 5 mm di mucosa, 5 mm rimarranno. Cioè, se la distanza tra
la cresta ossea e la superficie mucosa è 5 mm, non è che se mettiamo l’impianto cambia. Questo perché il
sistema protesico implantare si organizza dalla cresta ossea a salire e noi sappiamo che dalla cresta ossea,
andando verso la parte superficiale, il connettivo perimplantare che è un connettivo di
guarigione/cicatriziale, non entra perpendicolarmente con le fibre ma si dispone per così dire ‘’a
manicotto’’. Che ampiezza ha questo connettivo? Come tutti i connettivi sovracrestali, cioè 1-1,5 mm. Dopo
tale connettivo inizia il nostro tragitto mucoso il quale ha sul fondo l’epitelio giunzionale (il quale abbiamo
detto si forma anche a livello degli impianti) la cui ampiezza è di 1-1,5mm. Se abbiamo 5mm, 1,5mm se li
prende il connettivo, 1-1,5mm se li prende l’epitelio, il resto sarò solco perimplantare. Se ho 7 mm, 3 mm
se li prende l’ampiezza biologica, il resto è solco perimplantare. Per i denti non è così! Tranne se abbiamo
la situazione patologica di pseudotasca, se abbiamo un’ipertrofia gengivale con una pseudotasca è un altro
discorso, ma in condizioni normali il dente determina il suo parodonto marginale quando erompe, e il
parodonto lo può perdere per malattia parodontale, l’unico caso in cui il parodonto marginale aumenta di
volume è nelle patologie gengivali di questo genere, ma si formerà una pseudotasca, non parliamo di solco
o pseudo-solco.
- Simile al dente
- 3-7 strati di cellule
- Strato basale con emidesmosomi in contatto diretto con la membrana basale che riveste anche il
titanio
La lamina densa con le fibrille di ancoraggio (fibronectina) si lega allo strato di proteoglicani che
ricopre la superficie del titanio Mc Kinney et al., 1985
La matrice extracellulare con le fibrille di ancoraggio (fibronectina) si lega allo strato di proteoglicani
che ricopre la superficie del titanio. Listgarten et al., 1992
Questo per dire che anche queste dimensioni che stanno intorno ai denti si ripetono negli impianti e
ovviamente di ripetono con una disposizione diversa:
- L’epitelio giunzionale, cioè quello che si attacca al colletto del dente, che forma l’attacco epiteliale
e l’attacco dento-parodontale, è uguale anche negli impianti fortunatamente perché l’epitelio è un
grande tessuto, si attacca quasi a tutto
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Qualcuno ha detto che facendo delle sperimentazioni ha visto che alcune superfici con determinate
caratteristiche di rugosità al microscopio mostravano che alcune fibre si erano inserite nel titanio
perpendicolarmente quasi a simulare l’attacco; diciamo che queste evidenze sono rimaste sporadiche e
purtroppo non è così, se questo avviene è del tutto occasionale e casuale, quello che noi ci dobbiamo
aspettare è che l’epitelio sicuramente si lega al titanio formando un attacco epiteliale e il connettivo si
dispone parallelamente o circonferenzialmente a formare un manicotto di tessuto. È un connettivo poco
vascolarizzato ,l’altra volta ripetemmo la vascolarizzazione dei denti, abbiamo una rete di vasi all’interno
del legamento parodontale e anche la rete di vasi interna ai setti ossei interradicolari e interdentali ove
anche lì, a seguito dei processi di guarigione, il vaso tende a ridursi, per cui la vascolarizzazione proviene
solo dai vasi sovraperiostei, quindi è un connettivo poco vascolarizzato ricco in matrice extra-cellulare e
povero di cellule. Ciò da un lato è bene perché come tutte le cicatrici sostiene, da un punto di vista di
sostegno meccanico va bene, da un punto di vista invece di reattività biologica no perché questa è legata
alla vascolarizzazione, quindi l’infiammazione non è una cosa negativa bensì positiva, il rossore, l’edema,
sono dei meccanismi con cui l’organismo si difende e reagisce, e quando questi non ci sono non è una cosa
positiva.
Dente Impianto
Fibroblasti 16% 5%
Collagene 63% 76%
Vasi 7% 3%
Se prendo il dente, c’è più collagene rispetto all’impianto che ha anche molto meno cellule e molto meno
vasi. Questi sono dati chiari ed oggettivi.
I tessuti molli, il compartimento superficiale, molti se ne interessano non per tutto quello che ci siamo detti
che è fondamentale e rappresenta la base, ma perché oggi ovviamente la richiesta estetica è salita. Quindi
si è attenti ai tessuti molli anche per la componente estetica che è comunque fondamentale, anche il prof
se dovesse mettere un impianto sul centrale vorrebbe che fosse un sistema implanto-protesico più simile
possibile al dente che c’era prima e sa benissimo che ci sono delle condizioni che possono portare a ciò e
altre invece no, perché?
L’altra volta il prof ci disse che quando è nata l’implantologia osteointegrata negli anni ’70 e soprattutto
’80, diciamo negli ’80 cioè 30 anni fa quando si è sviluppata, pur di non portare una dentiera chiunque
avrebbe accettato una soluzione del genere (prima colonna da sx), oggi ancora facciamo soluzioni così ma
veramente si sono ridotte moltissimo, anche nei pz completamente edentuli cerchiamo di trovare soluzioni
più estetiche, ma siccome c’è stato un grande sviluppo dell’implantologia soprattutto per le edentulie
28
parziali e soprattutto nelle monoedentulie che sono le più frequenti rispetto a quelle complete, siamo
passati da un’implantologia solo funzionale (l’importante era mettere qualcosa di fisso nella bocca che
consentisse di masticare) dove la principale preoccupazione ricadeva sugli aspetti chirurgici, soprattutto
quindi creare l’osteointegrazione; poi si è capito che invece i tessuti molli avevano importanza e aveva
importanza la protesi e quindi parliamo di implantologia funzionale-protesica (colonna centrale), vale a
dire che non è che dobbiamo ‘’mettere un chiodo nella bocca di uno’’ ma dobbiamo mettere un dente,
quindi parto dal dente, passo attraverso l’impianto e ritorno al dente, ma in questa implantologia
protesicamente guidata talvolta abbiamo dovuto accettare dei compromessi, nel caso dell’immagine non
c’erano tessuti molli, non sono stati creati chirurgicamente ma sono stati ricreati protesicamente ponendo
della gengiva finta, questa è una cosa che ancora si fa ma in casi sempre più ridotti; oggi invece quello che
dobbiamo fare (considerando che i pz lo richiedono anche se talvolta le richieste fatte sono impossibili)
avendo oggi le conoscenze e le capacità tecniche, è gestire la transizione, lasciando stare se l’abbiamo
gestita contestualmente, da una struttura biologica dento-parodontale ad una struttura artificiale
implanto-protesica (ultima colonna, implantologia estetica e biologica), questi due sistemi hanno molti
elementi di similitudine ma anche degli elementi di distinzione, ma dal punto di vista estetico il prof ritiene
che la soluzione implanto-protesica non sia molto diversa da quella che in origine era una situazione dento-
parodontale prima che quell’elemento dentario fosse stato considerato non recuperabile ed estratto;
lasciamo stare se noi decidiamo di togliere il dente e mettere l’impianto oppure aspettare x mesi dopo
l’estrazione, questo è un altro discorso che fa parte di un’altra logica di ragionamento, ma da un punto di
vista di concetti biologici di osteointegrazione, che riguardano tessuti molli e tessuti duri, oggi abbiamo
passi da gigante perché abbiamo aumentato le nostre conoscenze non solo sul compartimento profondo
osseo, ma anche moltissimo sul compartimento superficiale, se dobbiamo migliorare l’estetica facciamo
innesti connettivali, possiamo usare matrici di materiale alloplastico, veramente abbiamo a disposizione e
possiamo fare tante cose non solo per l’estetica ma anche per la funzione, quindi i tessuti molli sani e ben
organizzati sono anche una garanzia per il mantenimento dell’osteointegrazione.
Altra cosa importante da dire è che (questo poi lo vediamo la prossima volta) questo sistema ha un altro
punto debole rispetto al dente ed è la zona di passaggio tra impianto, o meglio la parte di ancoraggio
endossea (usiamo questo termine) e la parte di ancoraggio protesica; un dente non ha soluzioni di
continuità, è un pezzo, mentre invece qualunque impianto non è un pezzo (lasciamo stare se è ad una o
due fasi, poi la prossima volta parleremo dei dettagli chirurgici), da un punto di vista concettuale tra la
parte endossea dell’impianto e quella extraossea, sono due pezzi che si affrontano tra di loro e quindi c’è
una soluzione di continuità. Questo è importante perché i tessuti non sono molto felici quando ci sono
soluzioni di continuità, quando c’è un’interruzione i tessuti si devono adattare, devono trovare dei
meccanismi di adattamento, ed ecco perché negli impianti noi parliamo anche di un compartimento
intermedio, mentre invece il dente è un’unica unità.
29
30
La lezione scorsa abbiamo analizzato, dal punto d vista anatomo-patologico, come si organizzano i tessuti
introno ad un impianto. Abbiamo visto che al livello dell’osso vi è l’osteointegrazione, con contatto diretto
tra la superficie dell’impianto e il tessuto osseo. Invece al livello dei tessuti extra-ossei, o per meglio dire
Sovracrestali (quindi al di sopra della cresta ossea), essi si organizzano con le stesse tipologie tissutali dei
tessuti molli dentari. Per i Tessuti Sovracrestali distinguiamo [Figura 1]:
1. Epitelio Sulculare,
2. Epitelio Giunzionale,
3. Connettivo Sopracrestale
Attacco dento-gengivale
Connettivo perimplantare sovracrestale Figura 1
Tra questi due abbiamo delle differenze importanti. Quindi nel tempo diamo sempre più importanza ai
tessuti molli. Infatti si è parlato molto di osteointegrazione, ma troppo poco dei tessuti molli, i quali sono
invece fondamentatili non solo per l’estetica (e sotto questo punto di vista ci sono stati grandissimi passi
avanti nell’implanto-protesi), ma anche funzionale, perché i tessuti molli perimplantari, analogamente ai
tessuti molli dentari, rappresenta il sigillo fondamentale che separa l’ambiente esterno del cavo orale e
l’ambiente interno. Quindi i tessuti molli proteggono l’ambiente interno dai microorganismi che albergano
nel cavo orale, i quali possono accumularsi sia al livello del colletto della gengiva (con conseguente
patologia dento-parodontale), sia al livello della mucosa perimplantare al livello delle strutture protesiche
implantari (e determinare delle patologie biologiche chiamate Mucositi e Perimplantiti). Quindi quanto più
è in salute ed organizzato il tessuto molle perimplantare, tanto più questo sigillo sarà efficace ed efficiente
nel mantenere la stabilità dei tessuto e contrastare eventuali patologie batteriche.
Ora è importante fare un confronto tra dente e impianto, non più solo al livello istologico, ma anche dal
punto di vista clinico [Figura 2].
DENTE IMPIANTO
1) Gengiva libera 1) Mucosa libera
2) Gengiva aderente 2) Mucosa Perimplantare
1 e 2: Masticatoria (Cheratinizzata) non mobile 1 e 2: Masticatoria (non Cheratinizzata) non mobile
3) Linea Muco-gengivale 3) Linea Muco-gengivale
4) Mucosa di rivestimento Alveolare 4) Mucosa di rivestimento Alveolare
4: Non cheratinizzata mobile 4: Non cheratinizzata mobile
Figura 2
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1. Gengiva libera: la gengiva libera sarebbe la quota di gengiva che circonda il dente e va dal margine
gengivale libero fino al solco gengivale o della tasca. Questa gengiva libera è un tessuto
cheratinizzato, in quanto fa parte della gengiva. La gengiva, come sappiamo, va dal margine
gengivale alla line muco-gengivale, e per definizione è un tessuto cheratinizzato.
2. Gengiva aderente: questa è quella che aderisce al piano osseo sottostante e va dal fondo del solco
o della tasca, fino alla linea muco gengivale. E sappiamo che anche clinicamente c’è una
depressione nel passaggio tra la gengiva libera e la gengiva aderente; questa depressione è data
propri dall’inserimento delle fibre.
Questa gengiva (libera e aderente) è un tessuto masticatorio, quindi è cheratinizzato. Infatti
tutta la mucosa che sta sotto al palato, che è cheratinizzata, è tutta mucosa masticatoria.
Inoltre non è mobile perché è senza sottomucosa, e quindi non vi sono né stretture muscolari
né strutture di trazione. Infatti il connettivo si collega direttamente con la superficie ossea.
3. Poi vi è la linea Muco-Gengivale.
4. Infine vi è la Mucosa di rivestimento alveolare
Tale mucosa è un tessuto non cheratinizzato e mobile.
Se invece andiamo a considerare l’impianto, questa organizzazione appena vista non cambia, anche se ci
sono alcune differenze:
1. Non parliamo più di Gengiva libera ma di Mucosa libera, la quale ha la stessa definizione che
abbiamo usato per il dente, ma la mucosa libera per quanto riguarda gli impianti è molto più
variabile nelle sue dimensioni rispetto alla gengiva libera del dente. Questo perché intorno al
dente, in media, abbiamo un‘altezza di gengiva libera che va sempre da 1 ai 3mm; quando si
superano queste dimensioni significa che abbiamo o una tasca o una pseudo-tasca. Invece negli
impianti (dove non parliamo più di gengiva ma di mucosa) la dimensione della mucosa libera è
molto più variabile (anche di 4-5mm); ma questo non significa che sia una variazione patologica,
perché il tessuto molle perimplantare, è vero che è un’organizzazione che si avvicina alla
organizzazione della gengiva del dente, ma deriva pur sempre dalla guarigione di una ferita
chirurgica, quindi dalla formazione di un tessuto cicatriziale. In ogni caso se a seguito
dell’inserimento di un impianto ci fossero stati 10mm di mucosa in quel sito edentulo, i tessuti in
questi 10mm si dovranno organizzare come abbiamo visto: quindi si dovrà aver un certo connettivo
sopracrestale, il quale sarà di 1-2mm; poi ci sarà un parte di epitelio giunzionale, che è
normalmente di 1-1,5mm; e infine tutto il resto è mucosa libera, ma non patrologica. Sarà
patologica solo se si infiamma; dal punto di vista strutturale, anatomico e istologico è
assolutamente normale. Infatti non possiamo definire qual è il solco perimplantare fisiologico come
invece possiamo fare per il solco gengivale.
2. Mucosa perimplantare è analoga alla gengiva aderente, con la differenza non secondaria di essere
una mucosa non cheratinizzata, ma sempre non mobile.
3. La linea muco-gengivale è sempre la stessa
4. La mucosa alveolare anche rimane uguale a quella del dente.
Quindi quello che si apprezza è che sia da un punto di vista istologico, che dal punto di vista anatomo-
clinico, dente e impianto si avvicinano molto fra dio loro; ma con alcune differenze da valutare.
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Ciò che sta intorno ad un impianto si chiama Tragitto Mucoso, perché questi tessuti determinano il tragitto
attraverso il quale la parte intraossea e sopracrestale dell’impianto va in collegamento con la parte esterna.
Quindi è necessario indentificare una differenza sostanziale con il dente. Perché se con il dente abbiamo la
radice e la corona, ed è quindi una singola unità, con gli impianti si hanno invece due elementi:
L’impianto non è un’unica unità, ma a differenza del dente identifichiamo diverse parti: non solo un
compartimento intraosseo ed un compartimento dei tessuti molli, ma anche un compartimento intermedio
che ha delle peculiarità specifiche che a breve vedremo.
Tiene lontane le trazioni muscolari dal margine gengivale; quindi impedisce che, ogni qual volta ci
sia un movimento della mucosa alveolare, il margine gengivale si muova. E dato che il margine
gengivale è una zona dove in genere si accumulano batteri, è molto più vantaggioso averla ferma e
stabile piuttosto che mobile.
Durante lo spazzolamento una mucosa cheratinizzata è sicuramente più resistente di una non
cheratinizzata. Infatti tutti i pazienti che non hanno gengiva aderente hanno anche peggiori
condizioni di igiene orale. Questo perché quando ci si spazzola il margine gengivale senza una
mucosa cheratinizzata, si scatena auna sintomatologia dolorosa; in alcuni casi anche con
l’insorgenza di microlesioni superficiali da spazzolamento. Quindi si tende a spazzolare di meno,
favorendo l’accumulo di placca, che determina infiammazione del margine gengivale, la quale
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Per evitare di brancolare nel buio, alla luce di alcune ricerche effettuate con alcuni ricercatori svedesi, si è
trovato una definizione per la quale la gengiva aderente non è una conditio sine qua non per la salute
parodontale; ma se si hanno almeno 2mm di gengiva (quindi di mucosa cheratinizzata [sia gengiva libera
che aderente]) il dente di può trovare in una condizione parodontale più sicura. Quindi quando parliamo di
2mm di gengiva, questi 2mm possono essere dati da 1mm di gengiva libera e da 1mm di gengiva aderente.
Insomma, si ritiene che una quantità minima di mucosa cheratinizzata aiuti a prevenire l’insorgenza di
patologie; ma qualora essa manchi e il paziente riesce lo stesso a mantenere una buona igiene orale, non
necessariamente bisogna eseguire un intervento per aumentare la gengiva. Infatti in passato si facevano
molti interventi per incrementare i livelli di gengiva aderente, mentre tutt’oggi il numero di questi
interventi è notevolmente ridotto.
Se questo vale per i denti e ci spostiamo sugli impianti il discorso è analogo. Come è controverso per la
salute dei denti la quantità di gengiva adente, altrettanto lo è per la salute degli impianti. Analogamente ai
denti, è controversa la necessità di una quota di mucosa cheratinizzata non-mobile ai fini della salute dei
tessuti perimplantari. Però si cerca in goni caso di avere una quota anche minima di mucosa cheratinizzata
intorno ad un impianto, perché incrementa molto le probabilità di successo clinico. Infatti la mucosa
cheratinizzata attorno agli impianti è anche più importante che per gli elementi dentari; questo perché:
La presenza di tessuto cheratinizzato favorisce, come visto prima, l’igiene orale, sia per i denti che
per gli impianti.
Migliora il manicotto connettivale attorno all’impianto. Per gli impianti questa è una necessità in
più, per via della qualità del connettivo sopracrestale. Perché, mentre il connettivo sopracrestale
nei denti è geneticamente determinato e forma un vero e proprio attacco connettivale, negli
impianti il connettivo sopracrestale è un tessuto connettivo cicatriziale che si organizza in modo
non funzionale; infatti non ci sono fibre collagene che vanno verso il titanio. Di conseguenza si è
visto che la presenza di un tessuto cheratinizzato, che è un tessuto più “strutturato” (solido),
migliora la consistenza di questo manicotto di connettivo che si trova intorno all’impianto, e quindi
migliora anche la sua resistenza.
Figura 4
Qui [Figura 4] si vede come, a ridosso di questo impianto, non vi è nessuna traccia di epitelio cheratinizzato.
Se invece fosse stato un dente ci sarebbe sicuramente stato una certa quota di epitelio cheratinizzato.
Questo perché a determinare la cheratinizzazione, e quindi la struttura di un epitelio di superficie di una
mucosa, è la qualità del connettivo sottostante. Infatti quando si vuole ricreare un epitelio cheratinizzato,
posso fare un innesto palatale; tale innesto viene preso dal palato poiché è completamente cheratinizzato.
Viceversa, se invece di prenderlo dal palato lo si prende dalla guancia, non si ha il tessuto cheratinizzato.
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Infatti quello che succede è che, dopo avere inserito l’innesto all’interno del sito ricevente, la porzione
epiteliale superficiale dell’innesto stesso andrà incontro a desquamazione e scompare, facendo rimanere
solo il connettivo dell’innesto. Quindi al livello del sito ricevente attecchirà solo il connettivo, e pian paino ci
sarà una guarigione per seconda intenzione. Verranno poi, durante la guarigione, le cellule epiteliali dai
tessuti limitrofi che hanno l’epitelio; ma ciò che darà l’informazione affinché le cellule si cheratizzino è il
connettivo sottostante. Quello che determina la presenza o meno della cheratinizzazione superficiale è il
connettivo; per questo motivo spesso si fanno gli innesti solo connettivali. Posso sia prendere l’epitelio che
non prenderlo affatto, sono solo scelte cliniche chirurgiche, perché quello che serve dal punto di vista
istologico è il connettivo. Ed è per questo che si preleva proprio il connettivo del palato, perché, in qualsiasi
punto lo si va prelevare, è un connettivo che supporta un tessuto cheratinizzato, per cui avrà le
informazioni necessarie per far cheratinizzare l’epitelio sovrastante. Se invece si prendesse il connettivo
dalla mucosa geniena, non avrebbe al capacità di indurre cheratinizzazione sulla superficie epiteliale.
Quindi nell’immagine di prima [figura 4] non si ha epitelio cheratinizzato perché abbiamo una mucosa
implantare. Se invece ci fosse stato un dente, nella stessa situazione, ci sarebbe stato almeno 1mm di
tessuto cheratinizzato dato dalla gengiva libera; la quale sarà cheratinizzata in quanto ci sarà un connettivo
sottostante che induce cheratinizzazione (connettivo dato dalle fibre del legamento parodontale e dal
connettivo sopracrestale). Ciò che varia è al massimo la quantità di gengiva cheratinizzata, ma in ogni caso
ci sarà almeno 1mm di gengiva libera che per definizione è cheratinizzata (sul versante vestibolare), anche
quando è assente la gengiva aderente. Negli impianti questo non ce lo abbiamo, non ci sarà mucosa
cheratinizzata per via della diversa qualità del connettivo. Può anche esservi, attorno all’impianto, una certa
quota di spazio sondabile, che è appunto il solco perimplantare; ma comunque non ci sarà mucosa
cheratinizzata; perché manca il legamento parodontale e il tessuto sopracrestale dentario.
Caso Clinico 1
utilizzavano gli Osteotomi, tutt’oggi invece ci sono molti modi differenti per eseguire questa pratica. Quindi
in alcune circostanze non si utilizzavano le frese per fare un osteotomia per creare l’alloggio per
l’inserimento degli impianti, ma si andava ad espandere la struttura ossea dall’interno. Ossia dopo aver
fatto un primo foro d’ingresso, si seguiva l’allargamento dell’osteotomia del sito chirurgico con una
espansione interna, senza usare le frese. Questo perché le frese per eseguire l’osteotomia asportano
tessuto; se invece si inserisce un espansore questo aumenta il diametro spostando le pareti. Inoltre
compatta l’osso, quindi un osso molto spugnoso con una densità 3 o 4, viene compresso e reso più
compatto e solido. Con questa preparazione manuale in questo caso clinico si sono inseriti 8 impianti, 4 per
emiarcata. Si può apprezzare dalle immagini la presenza di una cupoletta sulla superficie, la quale cupoletta
indica proprio l’osso che si è espanso e che accoglie l’impianto nel suo alloggiamento.
Ma la cosa più importante è rappresentata dalla guarigione dopo X mesi di osteointegrazione [Figura 6].
Quindi si sono
preparati i siti con gli
espansori (gli
Osteotomi), sono
stati sommersi gli
impianti affinché gli
impianti si
osteointegrassero. A
questo punto bisogna
dire che quando un
mascellare si
riassorbe, esso si
riassorbe in senso Figura 6
centripeto. Quindi i
tessuti esterni, in questo caso ben rappresentati dalle immagini occlusali e frontali [Figura 6], cambiano la
loro posizione. Guardando il frenulo, molto grande in questo caso, si nota come l’osso si riassorbe sia in
senso verticale che in senso orizzontale, andando sempre più verso osso basale. Quindi questo frenulo si
inserirà quasi in cresta, dato che si è riassorbito quasi tutto l’osso alveolare. Ma inoltre, guardando le
immagini, si potrebbe pensare che la cresta ossea sia al centro del tessuto edentulo. Ma non è cosi; infatti
quando ci sono le
edentulie totali, spesso c’è
una asimmetria tra
l’organizzazione dei tessuti
molli di rivestimento e
quella del tessuto osseo. E
questo si vede bene
proprio dalle immagini,
dove si nota che gli
impianti siano stati messi al
centro della cresta ossea;
ma nella successiva
Figura 7
immagine [Figura 7] si
vedono in trasparenza
(sulla superfice vestibolare della mucosa) la testa degli impianti. Questo perché il tessuto cheratinizzato è
tuto spostato palatalmente; vestibolarmente il tessuto cheratinizzato è completamente assente. Il centro
36
della cresta ossea è spostato rispetto ai tessuti molli; questo significa che se si andasse a fare la seconda
fase chirurgica, con l’esposizione di tali impianti nella zona lì dove sono posizionate le teste implantari, si
avrebbero gli impianti completamene in mucosa alveolare, ossia in mucosa non cheratinizzata. E valutando
ciò che abbiamo detto prima (ossia che il tessuto cheratinizzato o lo si inserisce chirurgicamente oppure
l’impianto da solo non ne avrà mai) in questo caso mi devo preoccupare della quantità di gengiva presente
in arcata. Per questo è molto importante, quando si fa una chirurgia implantare in due tempi, valutare con
attenzione l’esecuzione della seconda fase chirurgica; perché quando si fa la seconda fase chirurgica con la
scopertura degli impianti, solo in alcune circostanze la si può fare senza problemi, ossia quando ci si trova in
una situazione anatomicamente favorevole. Ma se la condizione è sfavorevole bisogna essere capaci di
trasformarla in una situazione favorevole. Quindi, in questo caso clinico, l’incisione per scoprire gli impianti
non è stata fatta lì dove sono presenti le teste degli impianti, ma è stata fatta dal lato palatale, prendendo
un po’ di tessuto palatale (che è cheratinizzato) e lo si è spostato vestibolarmente, in modo tale da
garantire vestibolarmente gli impianti in una mucosa cheratinizzata che altrimenti non avrebbero mai
avuto. E queste sono [Figura 7] le viti di guarigione una volta fatta l’esposizione degli impianti e tolto il
frenulo. Si vede come attorno ad ogni impianto c’è una bella quantità di mucosa perimplantare
cheratinizzata, che è quella che noi vogliamo per i motivi detti, e che da sola non ci sarebbe mai stata. Ci sta
perché è stata
fatta una
trasposizione,
durante la fase
chirurgica, di
tessuto palatale
in senso
vestibolare. Un
volta messi i 4
impianti per
emiarcata come
detto, sono state
fatte 2 barre, 1
Figura 8 per emiarcata
(una a destra ed
una a sinistra) [Figura 8]. Queste barre sono delle strutture metalliche che vengono avvitate sugli impianti.
Sulle barre sono presenti dei Fresaggi, ossia delle superfici che vengo rese tra di loro congruenti, affinché
garantiscano un cerco grado di frizione per dare una migliore ritenzione; infatti queste si chiamano
“Mesostrutture”. Infatti quando parliamo di impianti dal punto d vista protesico si distinguono 3 parti:
Tale protesi Amovo-inamovibile è differente dalla protesi Telescopica (o per meglio dire Conometrica), la
quale è una protesi con un sistema di ritenzione data da una superficie che ha un volume conico che si
incastra in un altro volume; di conseguenza è necessario che ci sia un ceto grado di convergenza. Le protesi
Amovo-inamovibile invece hanno una Sovrastruttura che si appoggia sulla Mesostruttura, ma la ritenzione
è data dalla frizione tra due pareti che sono fra di loro congruenti. Ma non basterebbe solo questo; infatti,
come si vede [figura 8], sono state aggiunte anche altre due strutture di ritenzione che si chiamano
Chiavistelli ( ). In questo genere di manufatto accade che la protesi, una volta che il paziente la mette
37
1. Chirurgici
2. Protesici; ossia Funzionali ed Estetici
3. Mantenimento.
38
Caso Clinico 2
In questi casi clinici stiamo valutando l’importanza dei tessuti molli, e soprattutto l’importanza di avere un
tessuto cheratinizzato intorno agli impianti. Nel caso precedente ci si è preoccupati dei tessuti cheratinizzati
presenti nella seconda fase chirurgica; qualora si fosse persa quella determinata occasione per avere gli
adeguati tessuti si sarebbe fatto un danno al paziente. In questo caso clinico, invece, le cose sono diverse
[Figura 9]. Questa
paziente è una ragazza
che, all’età di 14-15 anni,
fece un incidente con il
motorino, con
conseguente avulsione
traumatica dell’incisivo
centrale superiore di
sinistra (21). Ma, non solo
ebbe un’avulsione
traumatica, ma perse
anche una parte dell’osso
vestibolare. E tali tessuti
erano poi guariti come la
Figura 9
cicatrice di una ferita,
quindi il frenulo non si trovava più nella sua passione originaria ed era leggermente spostato, e inoltre non
vi era più la normale anatomia dei tessuti molli: il tessuto cheratinizzato era presente sulla porzione più
crestale, con importante deficit. Quindi c’era un deficit che era sia dei tessuti duri (dato che vi era una
riduzione dello spessore dell’osso [ma non dell’altezza]), ma anche dei tessuti molli. Infatti non era un
tessuto molle adatto, dato che non vi era un rapporto normale tra mucosa alveolare e tessuto aderente e/o
cheratinizzato. Dato che per mettere un impianto era necessario fare un intervento di ricostruzione di tale
porzione ossea, era necessario ricostruire anche un’adeguata anatomia del tessuti molli, dato che non è
possibile fare un intervento di ricostruzione ossea con la presenza di gengiva mobile (così come non è
possibile metter un impianto che emerge nel tessuto molle [aldilà dell’estetica, che comunque è
importante, dato che sarebbe inutile fare una riabilitazione implanto-protesica senza la presenza di una
”cornice rosa” adeguata]). Di conseguenza, prima di pensare su come fare per ricostruire l’osso per mettere
poi l’impianto, è necessario ragionare sui tessuti molli. Infatti in questo caso si è andati sul palato [Figura 9],
è stato fatto un sportello sul palato (una specie di portabagagli, con un lembo trapezoidale), è stato
sollevato tale lembo epitelio-connettivale a spessore parziale, e al di sotto si è preso un pezzo del
connettivo o del palato; a quel punto si è andati nella zona vestibolare dell’incisivo, è stato preparato un
letto (ossia un sito ricevente), e su questo letto è stato meso il connettivo che è stato preso dal palato. E
come abbiamo detto prima, il connettivo del palato è un connettivo che induce l’epitelio sovrastante a
cheratinizzarsi. Qui l’intervento è andato a buon fine con una buona guarigione. È possibile valutare nelle
immagini la differenza tra il prima e il dopo: c’è un cambio non solo di estetica, morfologico-architettonica,
ma anche della struttura, della consistenza tissutale e della tipologia istologica dei tessuti. Infatti in quella
zona è comparso, dopo l’intervento, un bello spessore di tessuto aderente e cheratinizzato. Solo dopo
questo intervento è stata fatta una ricostruzione ossea [Figura 10]. In queste fotografie è possibile
apprezzare il fascio vascolare naso-palatino, con la cresta sottile a lama di coltello e il foro naso-palatino
con il relativo fascio vascolare. Quindi è stato preso dell’osso autologo dall’altro versante del cavo orale, è
stato triturato e poi messo nella zona, facendo quella che è una GBR (Guide Bone Rigeneration, ossia
Rigenerazione Ossea Guidata) con osso autologo e membrana di rivestimento. Infine è stato suturato tutto.
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In questo schema [Figura 12] si vede invece che La posizione e la stabilità dei margine dei tessuti molli
perimplantari sono condizionati dallo spessore tissutale. Quindi, aldilà del fatto prima detto di tessuto
Figura 12
cheratinizzato o tessuto non cheratinizzato, è importante dire che più è spesso il tessuto intorno
all’impianto meglio è. Di conseguenza attorno agli impianti bisogna sempre garantire non solo qualche mm
di tessuto cheratinizzato, ma anche un adeguato spessore tissutale. Se abbiamo entrambi questo fattori, vi
è una maggiore probabilità di avere successo terapeutico.
W.L.M
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Lezione n° 5 di IMPLANTOLOGIA – Ramaglia – 02.05.18 Consiglia Grasso
1. Materiale altamente biocompatibile: su questo non si discute, era titanio 50 anni fa, rimane titanio tutt’ora.
Si è pensato anche a delle superfici rivestite con altri biomateriali, ad es. l’idrossiapatite, ma queste
esperienze sono fallite; si parla soltanto di diverse tipologie di superficie ma da un punto di vista di tipologia,
di biomateriale che utilizziamo per i nostri impianti, siamo rimasti sempre al titanio nelle varie forme
trattate.
Attualmente c’è una grossa sperimentazione che riguarda anche gli impianti in zirconia, il famoso “impianto
bianco” perché il metallo in bocca non riscuote particolare accettazione da parte dei pz. Oggi si va verso le
cosiddette metal-free, non da un punto di vista di composizione (perché sappiamo che comunque la zirconia
è un metallo), ma soprattutto da un punto di vista cromatico. Tuttavia ci sono delle difficoltà con la zirconia,
soprattutto per quanto riguarda le piattaforme e il combaciamento tra la piattaforma implantare e quella
protesica.
Un campo interessante riguarda alcune leghe miste (che un’azienda in particolare sta portando avanti), che
va soprattutto alla ricerca di una grande solidità e resistenza, robustezza, perché questo ci consentirebbe di
ridurre, a parità di resistenza, il diametro degli impianti, e questa è una cosa utile. Ma al di là di queste
tendenze di ricerca, la maggior parte degli impianti sono fatti ancora in titanio.
2. Per quanto riguarda la forma e la superficie abbiamo avuto evoluzioni enormi: da una forma iniziale
cilindrica siamo passati sempre più ad una forma conica o simil-conica. Nonostante gli impianti cilindrici
trovano ancora uso e applicazione in alcune circostanze, il trend è verso la forma conica.
Da un punto di vista di superficie abbiamo già accennato nelle lezioni precedenti le diverse tipologie di
superfici che abbiamo, come queste si sono evolute e come ancora siamo alla ricerca della “superficie
ideale” che non abbiamo trovato.
Certamente gli impianti Branemark, quando venivano fissati questi elementi base dell’osteointegrazione,
erano degli impianti a vite lisci; oggi gli impianti sono sempre a vite perché vogliamo una buona stabilità
primaria, e la stabilità primaria la otteniamo meglio con un sistema che ha una certa presa con
l’avvitamento rispetto ad un semplice sistema a pressione; hanno una forma più conica, e le superfici non
sono più lisce ma si tende ad avere delle superfici trattate per sottrazione, per addizione (come ci ha detto
l’altra volta).
3. Stato del sito e procedura chirurgica controllata: anche qui non è cambiato nulla, nel senso che la
procedura chirurgica non è improvvisata ma codificata, le sequenze di frese sono standardizzate per il
diametro dell’impianto, sono standardizzate per la tipologia dell’impianto, quindi per ogni tipologia di
impianto, per ogni dimensione implantare abbiamo una certa sequenza di frese.
Però è cambiato il modo di utilizzo della sequenza di frese!
Sullo stato nel sito, non c’è dubbio che deve essere un sito stabile, non infetto; invece relativamente alla
procedura chirurgica, mentre in passato eravamo obbligati ad utilizzare tutte le sequenze di frese per
42
arrivare alla massima congruenza tra sito implantare e impianto, oggi abbiamo capito che è fondamentale
ottenere la stabilità primaria, cioè l’impianto non si deve muovere, almeno non si deve muovere per quella
che è la nostra percezione. È ovvio che dei micro-movimenti a livello micrometrico, ci saranno sempre, ma
l’impianto per quanto riguarda la nostra percezione deve essere stabile perché la guarigione ossea ha
bisogno di stabilità. Quindi nella ricerca della stabilità primaria, al di là di utilizzare le filettature, la
congruenza della preparazione del sito, l’osso non è sempre uguale, per cui è vero che la sequenza di frese è
codificata, ma quella sequenza di frese è codificata e la usiamo tutta quando abbiamo un osso D1 che è
l’osso più consistente, con maggiore densità.
L’osso D1 richiede che si utilizzino tutte le frese che sono state allestite per quel tipo di impianto; anzi a
volte, sebbene oggi usiamo degli impianti auto-filettanti, abbiamo ancora dei filettatori, dei maschiatori, e
quando l’osso è estremamente compatto (un D1 importante), l’auto-filettatura non ce la fa e quindi
dobbiamo anche maschiare prima.
Se l’estremo di una scala è il D1 che è quello più compatto, l’altro estremo è il D4, quello meno compatto e
più spugnoso; se uso tutta la sequenza di frese nell’osso D4, è molto probabile che nel momento in cui metto
l’impianto, quell’impianto non abbia la stabilità primaria. Per cui oggi è necessario conoscere questi aspetti
perché noi dobbiamo adattare la sequenza delle frese e la preparazione del sito capendo dove dobbiamo
arrivare come sequenze delle frese o se conviene saltare qualche fresa.
Questo ce lo dà la tipologia, la densità ossea del sito:
nell’osso D1 dovrò utilizzare tutte le frese, altrimenti l’impianto non scende e, a volte, addirittura
devo maschiare;
nell’osso D2 probabilmente farò una preparazione, una sottopreparazione e quest’ultima la
possiamo fare in due modi: o terminando con una fresa di diametro minore rispetto all’ultima fresa
che avremmo dovuto utilizzare, e questa è la sottopreparazione dimensionale, oppure preparando
con la fresa del diametro corrispondente all’ultimo passaggio, ma di minore lunghezza e quindi è una
sottopreparazione non di diametro circonferenziale, ma di dimensione in altezza, in lunghezza.
Domanda di Greg: come si fa a valutare la consistenza dell’osso?
• Da un lato abbiamo la possibilità di valutarlo con le indagini con cui noi valutiamo l’osso che sono le
radiografie, quindi la soluzione più semplice è a occhio ed è quella più facile e dalla quale non ti puoi
sottrarre, perché un osso più denso è un osso più radiopaco, un osso meno denso è un osso più
radiotrasparente.
• Dall’anatomia sappiamo che ci sono delle zone dove l’osso tende ad essere più consistente, più denso, come
la sinfisi, la zona interforaminale mandibolare, tutte le altre calano, il minimo ce l’abbiamo nella zona molare
superiore ma anche molare inferiore.
Questi sono sistemi più semplicistici: quello visivo sulla radiografia e quello di conoscenza in anatomia.
• C’è poi un terzo sistema rappresentato dalle apparecchiature delle tomografie computerizzate, che invece
hanno la possibilità di leggere una scala di grigi, codificata dal dott. Hounsfield che, oltre ad aver inventato la
TC (tomografia computerizzata), stabilì che per definizione la massima densità era quella corrispondente
all’acqua. L’acqua ha una densità 1, questa è una convenzione, non è una cosa scientifica: l’acqua ha densità
1 e rispetto a quell’1 dell’acqua che è più radiopaco, andiamo a scendere sulla scala di grigi. Per cui ci sono
sistemi che ci danno una lettura con i colori dei grigi, o meglio sistemi che ci danno una lettura in unità
Hounsfield: (1000 è considerato quel volume e man mano…???non continua)
Per cui se un osso ha 100 unità Hounsfield è un osso molto spugnoso, se ne ha 900 è un osso molto
compatto.
• Una maggiore, ulteriore densità la si può avere con i software che assistono da un punto di vista digitale con
il computer una programmazione, una pianificazione impiantare. Quelli hanno la capacità, non solo di
leggere le unità Hounsfield, ma anche di trasformare quella lettura in una classificazione D1-D2-D3-D4 che
per il clinico è più semplice, perché se io leggo D3 capisco che è un osso medio.
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D2/D3 è un osso che non ci dà preoccupazioni, quelli che ci danno più preoccupazioni come densità sono il D1
perché è molto corticalizzato, e il D4 perché è molto poco corticalizzato. Quando ci troviamo con questi due
estremi:
con D4 dobbiamo molto sotto preparare; dobbiamo sotto preparare spesso sia in termini di dimensione
orizzontale, di circonferenza sia in altezza.
Nel D1 come abbiamo detto, usiamo tutta la sequenza di frese, a volte anche il maschiatore;
nel D2 e nel D3 entra in campo la sensibilità, l’esperienza del clinico, da questo non si può prescindere,
per questo esistono le curve di apprendimento (perché al di là di tutto quello che tu puoi stabilire prima
e tolto D1 e D4 che sono facili essendo gli estremi della scala, D2 e D3 sono più complicati).
Quando il prof dice che generalmente ci troviamo con siti che sono D2/D3, nessuno potrà dire “questa è
la sequenza”, quindi starà a noi decidere.
Ci aiutiamo con i vari sistemi e ad es. arriviamo alla conclusione che è un osso D3, 500 unità Hounsfield, e
allora? Cosa è importante? È importante la prima fresa che utilizziamo; quindi tutto questo lo possiamo
stabilire prima e avere già un’idea, ma la cosa più importante è quando noi mettiamo la prima fresa, non la
fresa a pallina o la fresa lanceolata che serve per fare l’invito, la prima fresa che si chiama “fresa pilota” che
è una fresa cilindrica, lunga alla quale noi stabiliamo la nostra lunghezza di lavoro, la lunghezza a cui
vogliamo mettere l’impianto, è la fresa più sottile di quella lunghezza. Quando entra quella fresa , là devo
capire (e purtroppo questa è soltanto una questione di esperienza anche se ci sono dei trucchi che il prof ci
dirà di seguito) che resistenza incontro: se questa prima fresa scende “come nel burro” è un D4, ma
mettiamo che siamo tra un D2 e un D3, se incontro un po’ di resistenza è una via di mezzo, se incontro molta
più resistenza probabilmente è un D2. Tra l’altro l’osso è molto variabile, a volte troviamo dei buchi e la fresa
va dentro perché non è che radiograficamente noi riusciamo a vedere…(non continua). I buchi sono delle zone
dove c’è più midollare rispetto a quella che noi ci aspettiamo, per questo la prima fresa è importante!
Qual è un trucco che ci può aiutare da questo punto di vista? Non solo la resistenza che incontriamo e quindi
una questione legata alla nostra sensibilità, ma anche quanto osso resta su quella fresa (RICORDA: QUANTO
OSSO RESTA SU QUELLA FRESA!).
Se abbiamo una resistenza molto bassa, nelle spire della fresa non resta niente, perché è quasi la pressione
stessa che fa scendere l’osso; al contrario se ho grossa resistenza restano dei trucioli nelle spire della fresa.
Se l’osso è molto poco denso, non rimane quasi niente, se rimangono dei trucioli e questi sono biancastri,
vuol dire che è un osso abbastanza consistente, se invece i trucioli sono più rossastri, “ a pappetta”, che
fanno pensare meno a dei trucioli ossei, vuol dire che siamo in una situazione intermedia, nel senso che c’è
una certa consistenza, ma una consistenza molto midollare.
La cosa più importante è quando mettiamo la prima fresa, la resistenza e quello che resta sulla fresa che tra
l’altro non si butta mai perché se rimane dell’osso nella fresatura, quell’osso va conservato, può servire per
fare delle piccole correzioni. Se rimane molto osso biancastro è più consistente, se non rimane niente
andiamo quasi verso il D3. A noi fa piacere quando troviamo un minimo di resistenza e da quella resistenza
esce fuori nelle spire della fresa un po’ di tessuto osseo misto a sangue, il che significa che c’è una bella
midollare perché noi siamo contenti quando mettiamo l’impianto nella midollare (non è bello mettere
l’impianto nella corticale). L’osso D1 non ci entusiasma, anzi al contrario, perché è un osso poco
vascolarizzato; per ottenere l’osteointegrazione abbiamo bisogno di una buona vascolarizzazione. Mentre il
D4 ha una buona vascolarizzazione ma non ha nessuna resistenza meccanica, il D1 ha troppa resistenza
meccanica (che non ci serve) ma non ha vascolarizzazione. Ecco perché l’ideale è il D2/D3, meglio il D2 che il
D3, che hanno una buona vascolarizzazione, una buona componente midollare e anche un minimo di
resistenza. Questo va di pari passo con il punto successivo:
4. Adattamento preciso tra l’impianto e l’osso: l’adattamento deve essere preciso da questa sequenza di frese,
ma noi dobbiamo sempre ricercare una stabilità primaria che o ce la dà la resistenza ossea di per sé, o deve
derivare dalla nostra tecnica di preparazione.
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Come faccio a valutare la stabilità primaria?
• Punto 1: torniamo sempre alla sensibilità chirurgica, ma la sensibilità chirurgica è relativa perché che
cosa fissiamo sul nostro motore chirurgico? Quando noi andiamo ad inserire l’impianto, riduciamo il
numero di giri. Procedura chirurgica controllata significa, non solo dal punto di vista di sequenza di frese
ma anche di velocità di preparazione, l’osso soffre del surriscaldamento, quindi noi non dobbiamo
surriscaldare l’osso. E come facciamo a non surriscaldare l’osso? In quattro modi:
1) irrighiamo, anzi per essere più efficaci facciamo un’irrigazione fredda. Prendiamo la soluzione
fisiologica che utilizziamo in applicazione ai nostri micromotori per avere una fonte di liquido
refrigerata (solo a quello serve) e la mettiamo pure in frigorifero, quindi irrighiamo con
soluzione fredda;
2) utilizziamo delle frese di buona qualità, perché una fresa che non è buona non taglia, impatta
e surriscalda, quindi frese non troppo consumate e di buona qualità;
3) facciamo una sequenza di frese normali, perché se passo da un diametro 0-1 a un diametro 8
con un solo passaggio, quando inserisco l’8 ci sarà un notevole attrito (è come l’endodonzia); se
invece facciamo 1-3-5-7 ho una preparazione progressiva che ovviamente mi riduce il
surriscaldamento;
4) la velocità del micromotore deve essere abbastanza bassa; il micromotore per chirurgia, per
impianti, ha una caratteristica: non ha bisogno di un grandissimo numero di giri però ha bisogno
di un’altra caratteristica, la forza, perché sappiamo che quando aumenta il numero di giri, la
capacità della fresa migliora, riducendo il numero di giri, la fresa deve essere tagliente, ma deve
avere anche una forza di rotazione che si chiama torque, perché se vado piano e non ho forza
sufficiente, non riesco ad utilizzare l’azione di fresaggio. Allora i micromotori per chirurgia
hanno dei valori di torque regolabili, oltre la velocità. Quando noi prepariamo il sito, lo facciamo
intorno a 1500 giri al minuto; anche se ci sono delle deviazioni rispetto al protocollo originario,
questo non è cambiato: l’osso si prepara ad una velocità maggiore, l’impianto si inserisce ad una
velocità molto minore, parliamo di 25 giri al minuto. Quindi, mentre prepariamo l’osso a 1500-
1000-800, (l’osso si prepara da almeno 800 fino a 1500), l’impianto si mette intorno ai 25-40 giri
al minuto. A quella velocità, se il micromotore non è sufficientemente potente in termini di
forza, di torque, l’impianto si ferma, per questo ci vogliono dei micromotori adatti (non
possiamo utilizzare il micromotore che abbiamo al riunito, perché non ha un torque sufficiente
in quanto più si scende in termini di velocità, più bisogna aumentare la forza). I micromotori per
impianti hanno un’altra caratteristica: questo torque, questa forza può essere regolata. Per
questo motivo il torque è un parametro importante perché esso è una misura della resistenza
all’avvitamento del nostro impianto; più è resistente, più avrò stabilità primaria. Per cui la
stabilità primaria, la valutiamo, in parte, quando andiamo ad inserire l’impianto con la
resistenza che noi sentiamo che quell’impianto incontra nell’ultimo avvitamento (e quello è un
fatto di sensibilità) però abbiamo anche dei dati oggettivi e cioè il torque, perché noi possiamo
fissare il nostro torque massimo di avvitamento. Il torque si misura, almeno nel nostro campo,
in N x cm, in cui Newton è la misura della forza: quanta forza ci vuole per spostare di 1 cm quella
resistenza. Per cui se ho 20N, significa che per avvitare quell’impianto per 1 cm è stata
necessaria una forza di 20N. allora per definizione e per ricerca clinica, un valore che ha un suo
significato è 30N, 30N è considerato un buon torque di inserimento. Questo non vuol dire che se
inserisco un impianto a 20N, non si osteointegra; anche i valori di 15N sono buoni valori di
stabilità primaria. 30-35N è un valore che serve più che altro per un’eventuale sollecitazione
immediata dell’impianto, cioè nel caso di un impianto che ha meno di 30-35N di forza di
inserimento è impensabile poter applicare sopra un eventuale carico perché non ce la fa. Ma il
torque di inserimento di 15-20N ai fini dell’osteointegrazione è più che sufficiente. Quindi
quando mettiamo un impianto (al di là del fatto che ci sono dei micromotori che ci danno la lettura del
torque che noi abbiamo realizzato), fissiamo un torque massimo, ad es. 25N; io so che se mentre
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sto mettendo l’impianto, si ferma, vuol dire che ha raggiunto i 25N, se per me operatore è
importante sapere il torque di inserimento. Poi ci sono anche dei sistemi che ci dicono che l’ho
messo a 25N, ho messo tutto l’impianto e l’impianto non si è fermato, quindi vuol dire che ho
avuto un torque minore di 25N; ci sono dei sistemi che alla fine dell’inserimento, quando stacchi
il pedale, ti dicono “il tuo inserimento massimo è stato 18N”.
• Un altro sistema per valutare la stabilità primaria è un sistema che si basa sulla frequenza di risonanza
(IRF), è un apparecchio che si chiama Ostel (nome commerciale ed è l’unico sistema presente sul
mercato), il quale è come se mandasse delle onde e poi le legge, come l’ecografia, e a seconda di
quanto torna l’onda indietro, questo sistema ha una scala di valori di ISQ, e a seconda di quella scala di
valori di ISQ , tramite una tabella la trasformiamo in valore di stabilità.
• Quindi questi sono i due sistemi che oggi utilizziamo per valutare la stabilità, ma il terzo sistema (che
compete a noi) è che quando abbiamo messo un impianto, al di là del torque che può servire o meno a
fare eventualmente un carico immediato, poi sarà la macchina, sarà l’Ostel, oppure ISQ, quello che
vogliamo, ma noi abbiamo degli obblighi clinici da fare e cioè: 1) preparare come il prof ci ha detto,
mettere l’impianto, vedere cosa troviamo in termini di resistenza, dopodiché una volta messo
l’impianto, dobbiamo prendere una pinzetta e vedere se quell’impianto si muove perché la stabilità
primaria minima è quella non percepibile clinicamente. Anche un torque di 10, mi dà una stabilità
primaria non percepibile clinicamente, ma se clinicamente, quando abbiamo messo l’impianto, questo si
muove anche poco, quell’impianto non ha stabilità primaria.
A questo punto cosa bisogna fare? Dipende: se dobbiamo fare un qualcosa che richiede un carico
immediato, o delle procedure particolari, quell’impianto non va bene, quindi o lo si svita e se ne mette
uno più grande oppure vediamo cosa fare. Ora tralasciando le soluzioni, se quell’impianto può rimanere
lì, sicuramente è un impianto che deve essere protetto il che significa lasciarlo per un po’ di tempo
nell’osso per guarire e coprirlo anche con i tessuti molli. È l’unica possibilità se l’impianto si muove un
po’ (ovviamente se si muove moltissimo non va bene) quindi il concetto importanate è che: una leggera
mobilità è compatibile con l’ottenimento dell’osteointegrazione se quella mobilità non è sollecitata!
Stabilità primaria significa che l’impianto non si deve muovere, ma muovere rispetto a cosa? È ovvio che
se sull’impianto metto una corona o qualsiasi cosa, e quell’impianto per le forze neanche di
masticazione ma di deglutizione, fonazione etc., viene sollecitato, è ovvio che quella non è una
guarigione con stabilità primaria durante la guarigione ossea e quell’impianto non si osteointegra. Se
l’impianto si muove ma perché sono io che lo sollecito e lo metto nelle condizioni di stare fermo perché
se io non lo sollecito quell’impianto è fermo e lo mantengo fermo perché lo proteggo dalle sollecitazioni
esterne, le probabilità di osteointegrazione sono comunque elevate. Non parliamo di un arto, di un
braccio o di una gamba, ma parliamo di un qualcosa che deve avere una sua stabilità da sé. È ovvio che
le sollecitazioni mettono in crisi quella stabilità.
5. Ultimo punto che si lega al discorso appena fatto che riguarda l’assenza di carico, è stato messo anche
questo un po’ in discussione perché nel passato i tempi erano davvero molto lunghi.
In che cosa consiste un impianto?
(Il prof dà per scontato che lo
sappiamo). Di una parte endossea,
di una parte extraossea, il moncone
applicato sul modello, poi può
essere fatto a misura sul pz,
prodotto industrialmente e
modificato, su questo moncone poi
applichiamo una corona protesica,
e oggi abbiamo la possibilità, come abbiamo visto la volta scorsa, di ripristinare almeno in maniera mimetica, da un
punto di vista di biomimetismo, di avvicinarci moltissimo a quello che si è perso. Ripetiamo adesso i vari passaggi
soffermandoci su qualcosa in particolare.
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Perché il titanio rimane il materiale principe per gli impianti?
PROPRIETÀ DEL TITANIO
Per questi motivi: perché hanno tutte le migliori
caratteristiche per essere considerati da un punto di vista • Metallo bioinerte
nell’ambito dei metalli, il metallo più bio-inerte, con le migliori • Basso peso specifico (4,5g/cc)
capacità. Ad es. è resistente ma è leggero; a differenza di altri • Vantaggioso rapporto modulo elasticità/peso
metalli è uno scarso conduttore termico, è uno scarso specifico
• Elevata resistenza alla rottura
conduttore elettrico, etc.
• Non corrosivo
Ovviamente ci sono varie tipologie di titanio: parliamo di • Scarso conduttore elettrico
titanio commercialmente puro, il quale ha oltre il 99% di • Scarso conduttore termico
titanio, la parte rimanente sono altri tipi di molecole, anzi di • Strato superficiale di ossido osteoconduttivo
ioni, però a volte viene unito in leghe le quali danno una • Resistente come acciaio ma più leggero del 45%
maggiore resistenza ma perdono un po’ in biocompatibilità.
Abbiamo discusso se gli impianti devono essere a vite o a cilindro e abbiamo detto
che oggi preferiamo la vite perché la vite ci aiuta nella stabilità primaria.
Da che cosa è data la stabilità primaria? Da due elementi: sicuramente dalle spire
che mi danno la cosiddetta macroritenzione, ma la stabilità primaria ci è data
aggiuntivamente dalla microritenzione di una superficie quando questa superficie
non è liscia. Quindi una superficie degli impianti trattata (sottrazione, addizione,
gli impianti plasman spree??) ci danno quella ruvidità superficiale che aumenta
ulteriormente la stabilità primaria.
Macroritenzione: spire
Microritenzione: superficie
È ovvio che più è grande la piattaforma, migliore è l’emergenza protesica, cioè è un problema legato più
all’emergenza protesica che non alla resistenza ai carichi; se ho una piattaforma più larga, l’emergenza sarà più
dolce, più vicina alla naturale emergenza dei denti. Per cui è ovvio che laddove dobbiamo mettere un molare
cerchiamo di mettere un impianto di dimensioni leggermente più grandi, ma se l’osso ce lo consente, non è che devo
mettere per forza un impianto più grande e poi a svantaggio dell’osso che lo circonda. Per cui alla fine oggi lavoriamo
con tre dimensioni implantari (tutto questo discorso si è molto ristretto): lavoriamo con impianti che sono un po’ più
piccoli di diametro, fondamentalmente intorno ai 3,25 e 3 per la parte endossea e che hanno una parte di
piattaforma, cioè quella che poi si collegherà al moncone intorno ai 3,3-3,4mm e che sono chiamati mini-impianti.
Abbiamo gli impianti standard che hanno un diametro intorno a 3,75-4 (più 4 che 3,75) per la parte endossea e una
piattaforma di 4,1-4,2-4,3 a seconda delle case implantari, e poi abbiamo gli impianti cosiddetti larghi, large, che
hanno un diametro di 5 o a volte di 6 con una piattaforma di 5 o 6. Questi sono gli impianti con cui noi oggi
lavoriamo; sceglieremo l’’impianto adatto sicuramente in rapporto a quella che sarà la riabilitazione protesica, ma
non è quello l’elemento unico e assoluto, l’altro elemento che deve combaciare con le esigenze protesiche è il
volume osseo disponibile.
La procedura chirurgica deve essere controllata.
PROCEDURA CHIRURGICA CONTROLLATA
Dove si incide quando facciamo un impianto? Prima si
• Lembi adeguati con guarigione per prima intenzione
incideva lontano perché si pensava che fosse opportuno far per stabilire il coagulo
cadere la linea di incisione distante da dove andava messo • Frese calibrate con taglio incrementale con
l’impianto; si è visto che questo non serve per cui le nostre adattamento preciso tra impianto ed osso
linee di incisione sono in cresta, anzi, un lembo in cresta è il • Evitare il surriscaldamento osseo
miglior lembo perché è quello che ha un’ottima • Controllo dell’infezione pre, intra e post-operatoria
vascolarizzazione sia su un versante che sull’altro, perché è
quello che divide proprio in due la vascolarizzazione di un sito edentulo.
Dobbiamo controllare l’infezione, cosa significa? Quando è nata l’implantologia, gli impianti venivano messi in una
sala operatoria, c’era una completa ossessione del discorso della sterilità, della contaminazione batterica. Per cui per
un po’ di anni gli impianti si mettevano secondo una procedura di campo sterile che poteva essere ottenuta solo in
sala operatoria. Si è visto che poi questo non era necessario: gli impianti si possono tranquillamente mettere in un
campo pulito, e questo significa poter avere una chirurgia ambulatoriale. Un campo sterile lo abbiamo soltanto in
una sala operatoria o in sale “quasi” sale operatorie, un campo pulito in un’attività ambulatoriale. Questo significa
che bisogna osservare le buone norme di qualità e di sicurezza della chirurgia ambulatoriale odontoiatrica (nel
nostro caso), per cui laddove possiamo arrivare alla sterilità, andiamo alla sterilità, certamente non avremo la
sterilità di ambiente che è quella che si tende più in sala operatoria, una sterilità di campo non l’abbiamo perché la
bocca è comunque infetta, ma sicuramente le buone norme di campo pulito ci devono essere. Un pz che ha una
bocca piena di placca e tartaro non potrà mai fare un intervento di implantologia o anche un’estrazione di un
elemento dentario, quindi devono essere messe in campo tutte le buone pratiche (che il prof ci ha insegnato) di
campo pulito ambulatoriale. Poi ci sono alcune procedure che si fanno in sala operatoria in cui abbiamo il campo
sterile ma per l’implantologia e l’osteointegrazione non serve la sterilità totale.
Dobbiamo proteggere il nostro pz con una terapia antimicrobica nonostante abbiamo fatto una disinfezione del cavo
orale eliminando placca e tartaro, abbiamo fatto una disinfezione chimica del cavo orale facendo utilizzare un
colluttorio di clorexidina. Quindi quando si utilizzano dei biomateriali e l’impianto è un biomateriale, anzi è un
dispositivo protesico-medico, è più che indicata la copertura antibiotica. Gli antibiotici non vanno utilizzati in
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maniera incongrua ma solo quando servono perché ci sono poi le resistenze etc., ma l’uso di un biomateriale, di uno
dispositivo medico, alloplastico quale è l’impianto, ci induce a proteggere il pz con una copertura antibiotica.
Come la possiamo fare?
• Possiamo fare una profilassi antibiotica chirurigica che significa dare l’antibiotico alla massima dose 1 o 2
ore prima che protegge il pz nell’intraoperatorio e nella contaminazione del dispositivo medico, il quale
potrebbe essere contaminato, benché gli impianti sono sterili (cioè l’impianto di per sé esce da un
confezionamento sterile però potrebbe non esser andato a buon fine il confezionamento, potrebbe essersi
contaminato quando l’abbiamo aperto). Quindi il pz va protetto con la profilassi antibiotica ad es. 2 g di
amoxicillina clavulanico, 1 ora prima della procedura. Questa profilassi antibiotica protegge il pz durante
l’intervento.
• Se noi invece vogliamo proteggere il pz anche nel post operatorio perché non vogliamo o temiamo che
possano insorgere complicanze infettive, non basta la profilassi pre-operatoria ma bisogna fare anche una
classica terapia antibiotica post-operatoria, non sempre lo facciamo per le estrazioni, ma per gli impianti
preferiamo fare la profilassi pre-operatoria e la terapia post-operatoria. Nel momento in cui diamo la terapia
post-operatoria, la profilassi la facciamo iniziando lo stesso tipo di terapia che facciamo nel post-operatorio 1
giorno prima, cioè anziché dare 2 g di antibiotico la mattina o 1 o 2 ore prima dell’intervento, iniziamo la
terapia antibiotica classica alternata ogni 12 ore, la iniziamo 1 giorno prima, quindi il giorno prima e il giorno
dell’intervento, così il picco ematico dell’antibiotico già si trova al suo livello quando il pz viene operato.
A 47° c’è la necrosi ossea, quindi cerchiamo di non superare EVITARE IL SURRISCALDAMENTO
questa temperatura, quindi irrighiamo. L’irrigazione può
Necrosi ossea se T è maggiore di 47°C per 1 minuto
essere interna o esterna e abbiamo poi 2 possibilità che per
molti anni sono state antagoniste tra loro, vale a dire se • Irrigazione
l’impianto o meglio l’implantologia dovesse essere di tipo • Bassa velocità di fresatura iniziale: circa 1500 RPM
sommerso o di tipo non sommerso. • Bassissima velocità di maschiatura e/o
posizionamento: 15/20 RPM
CASO CLINICO 3: Per farci capire quello che il prof ci ha appena detto,
prendiamo un caso frontale: questa è un’implantologia sommersa, o
meglio, in questa fase, se immaginiamo di non vedere la radiografia,
definiremmo questo, un intervento di implantologia dentaria con un
impianto due pezzi o bone level. Quindi se nascondessimo la
radiografia che ci dice già cosa abbiamo fatto, diremmo che in questa
situazione abbiamo optato per un impianto a livello osseo, un due
pezzi a livello dell’osso. Arrivati a questo punto posso decidere (come è stato fatto in questo caso), di mettere una
piccola vite che si chiama vite tappo, che serve solo per chiudere la filettatura dell’esagono, e chiudere i tessuti
sopra (la si può osservare in radiografia). Da questo punto di vista era possibile andare verso una guarigione
sommersa oppure si poteva applicare su questa piattaforma implantare in fase intraoperatoria non la piccola vite
per poi metterci sopra i tessuti ma mettere quella vite lunga che abbiamo visto quando facciamo la seconda fase
chirurgica e avremmo trasformato questo intervento da intervento sommerso a intervento non sommerso,
prendendo il vantaggio, per la successiva ricostruzione protesica, di non avere un vincolo di metallo a livello della
gengiva, ma il metallo sarà sotto la gengiva, per cui poi con il moncone si stabilirà quanto esco fuori o meno rispetto
alla gengiva.
Comunque in questo caso abbiamo fatto una classica implantologia
sommersa, abbiamo poi riaperto, messo la vite di guarigione, fatto il
moncone e si osservi il risultato estetico. Abbiamo l’impianto che sta
sopra, abbiamo poi il moncone protesico che finirà probabilmente
all’interno del canale mucoso e poi o la corona protesica che sta al di
sopra. Quindi non ho problemi di posizionare i margini protesici.
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CASO CLINICO 4: Vediamo un caso analogo con un approccio di tipo non
sommerso: è la stessa cosa soltanto che è stato messo un impianto che
nasce un pezzo, cioè che ha una componente endossea e una componente
extraossea intramucosa.
Il prof per non avere problemi estetici ha posizionato l’impianto un po’ più
in profondità, cioè teoricamente facendo riferimento al caso precedente,
classico, di implantologia non sommersa, avremmo dovuto vedere la testa
dell’impianto, invece non la vediamo perché è stato messo 1 mm più sotto,
non è stato fatto il protocollo corretto, ma oggi quel protocollo è stato
superato. Per cui se decidessimo di utilizzare un pezzo e non vogliamo
problemi estetici, dobbiamo metterlo un po’ più in profondità, cioè
dobbiamo un po’ forzare, alterare il protocollo. Infatti quando guarisce,
guarisce sotto gengiva, ma non abbiamo bisogno di fare una seconda fase
chirurgica perché comunque abbiamo già l’accesso all’impianto,
prendiamo le impronte e possiamo risolvere anche questo caso in maniera
estetica come l’altro caso. Questo per farci capire che da un punto di vista
clinico, oggi siamo, fortunatamente, al di là di una settorializzazione tra
sommerso e non sommerso, sono due opportunità che noi abbiamo.
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Se non sbaglio l’altra volta vi avevo lasciati con la differenza tra la procedura sommersa e la procedura non
sommersa. Vi ho spiegato quali sono le differenze concettuali tra le due procedure e avevamo anche
discusso del fatto che oggi siamo andati leggermente oltre una stretta distinzione tra una procedura
sommersa e non sommersa. Questo perchè entrambe le procedure sono ugualmente valide, con punti di
forza e di debolezza, che abbiamo già detto l’altra volta, per cui possiamo adattare la nostra procedura a
seconda del caso clinico, a seconda del paziente, a seconda del sito dove dobbiamo mettere l’impianto.
Quindi decidere se portare avanti un protocollo di tipo sommerso che richiede una fase chirurgica in più
rispetto a un protocollo non sommerso che ci riduce l’invasività, togliendoci una di queste fasi chirurgiche.
Avevamo anche detto che con la procedura sommersa noi andiamo a sommergere il nostro impianto al di
sotto dei tessuti molli. Lo facciamo di solito laddove noi abbiamo una maggiore preoccupazione sul risultato
estetico, essendo più legati all’imprevedibilità del margine gengivale, di dove questo si posizionerà al
termine della fase chirurgica e di guarigione. Quindi se noi utilizziamo un sistema classico a livello osseo il
problema non si pone, se invece decidiamo di utilizzare un sistema non sommerso nei casi antiestetici
dobbiamo affondare leggermente e quindi un po’ stravolgere quella che è la filosofia del sistema non
sommerso. Questa è la conferma che queste barriere concettuali le abbiamo abbondantemente superate.
Quindi la cosa che vorrei che voi metabolizzaste bene è che non esiste il sistema implantare ideale, anzi
sarebbe stupido ragionare in questi termini. Sta a noi decidere la procedura clinica che andiamo a
realizzare, che tipo di protocollo vogliamo seguire, che tipo di impianto vogliamo inserire, che tipo di
protesi vogliamo fare.
Diverso invece il discorso quando noi andiamo nei settori posteriori, dove l’aspetto estetico può essere
meno importante, e quindi può trovare migliore indicazione l’utilizzo di un sistema non sommerso. Anche
se vi devo dire che nel tempo anche sui settori laterali sono aumentate le attenzioni estetiche perché il
metallo visibile non fa piacere a nessuno. Allora cerchiamo oggi anche nei settori laterali di usare un
sistema sommerso oppure se utilizziamo un altro tipo di impianto cerchiamo di approfondirlo un po’ di più.
osteointegrazione più veloce. Diciamo che, alla mandibola possiamo aspettare un paio di mesi, al
mascellare, che è un osso più spugnoso, aspettiamo 3 mesi. Se vogliamo essere più tranquilli ci allunghiamo
di un ulteriore mese, ma oltre i 4 mesi di osteointegrazione, laddove non fosse un post estrattivo,
difficilmente ci allunghiamo. Quando arriva la fase che noi reputiamo sufficiente di integrazione, quindi
diciamo 4 mesi, e la verifichiamo con le nostre conoscenze e con i reperti radiografici, dobbiamo fare la
seconda fase chirurgica.
La seconda fase chirurgica in caso di impianti sommersi è una fase molto importante. Perché è la fase in cui
noi possiamo migliorare le condizioni dei tessuti molli, che non erano soddisfacenti quando abbiamo
posizionato gli impianti. Qual è la cosa cui noi dobbiamo prestare maggiore attenzione quando facciamo un
intervento? La cosa più importante che deve essere nostro elemento giuda nella seconda fase chirurgica
non deve essere solo quella di fare un lembo per scoprire la piattaforma dell’impianto, ma la cosa di cui
preoccuparci contestualmente all’apertura della piattaforma dell’impianto, è che noi dobbiamo fare un
ragionamento sul tessuto molle cheratinizzato. Come per i denti l’assenza di un tessuto cheratinizzato non
inficia la salute dei tessuti perimplantari come non inficia la salute dei tessuti parodontali, però nei tessuti
perimplantari abbiamo due elementi sfavorevoli. Uno comune a quello con i denti, cioè quando non c’è
tessuto cheratinizzato (che significa alla fine avere anche un po’ di tessuto aderente) le manovre di igiene
orale diventano molto fastidiose per i pazienti, perchè se passo la setola dello spazzolino su una mucosa
alveolare che non è cheratinizzata, facilmente mi procuro delle lesioni e del dolore. Oppure per evitare non
spazzolo bene, si accumula la placca ed è ancora peggio. Quindi questo vale per i denti e per gli impianti.
Nell’ipotesi invece che io sia un soggetto che riesce a spazzolare bene, senza ferirmi, senza farmi danni
eccetera, non serve che ci sia tessuto cheratinizzato perché ci sia salute. Tessuto cheratinizzato è funzionale
ad un mantenimento igienico. Questo vale per dente e per impianti. Negli impianti la situazione si aggrava
perché non c’è un attacco connettivale, abbiamo un contatto connettivale che viene come tessuto di
guarigione di una cicatrice. La presenza di un tessuto cheratinizzato rende questo manicotto fibroso, che è
intorno all’impianto, più stabile rispetto ad una mucosa non cheratinizzata.
Secondo elemento discriminante per l’impianto è che intorno ad un elemento dentario almeno 1 mm di
tessuto cheratinizzato lo abbiamo sempre, perché è il tessuto cheratinizzato che fa parte della parete
esterna del solco gengivale fisiologico. L’input di cheratinizzazione di questo epitelio viene sempre dai
connettivi, infatti se prendo un pezzettino di connettivo dalla cute e lo metto su una mucosa in bocca,
ovunque io lo metta, mi determina un epitelio cheratinizzato uguale all’epitelio cheratinizzato della cute. Se
io prendo un connettivo dal palato, mucosa masticatoria cheratinizzata, lo metto in qualsiasi punto della
bocca, si formerà l’epitelio cheratinizzato non di tipo cutaneo, ma di tipo masticatorio, perché è il
connettivo che determina geneticamente l’input alle cellule epiteliali di che tipo di tipizzazione assumere.
L’input viene dal legamento parodontale, per cui anche quando non c’è gengiva cheratinizzata aderente,
noi abbiamo una gengiva non aderente perché è parete del solco o della tasca, ma è cheratinizzata con
input proveniente dal connettivo del legamento parodontale. Quando abbiamo invece un impianto il
legamento parodontale non lo abbiamo, quindi se intorno è tutta mucosa alveolare, cioè mucosa non
cheratinizzata, tale rimane anche quando faccio la commissione e determino un solco artificiale. Questo
perchè è il tragitto mucoso che io vado a determinare in questa fase di scopertura. Dunque non è altro che
un tragitto mucoso attraverso una mucosa cicatriziale della zona edentula che assumerà una serie di
caratteristiche simili a quelle del solco, anche se di profondità variabile, ma non assume le caratteristiche
istologiche per quello che vi ho appena detto.
Ora che avete ben in testa quali sono i problemi biologici, voi non sbaglierete mai le vostre procedure
cliniche, se voi non conoscete le questioni biologiche andrete a casaccio, e quindi qualche volta vi andrà
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bene, e qualche volta vi andrà male. Quando andiamo a fare una riapertura, non dobbiamo solo
preoccuparci di fare un accesso alla piattaforma implantare e quindi di creare un tragitto mucoso tra
l’esterno e l’impianto, ma dobbiamo anche garantirci che i tessuti molli che sono intorno all’impianto siano
il più possibile tessuti cheratinizzati.
Una volta che si è stabilizzato dopo qualche settimane intorno alla vite di guarigione il nostro tessuto molle,
prendiamo le impronte con dei sistemi di transfert, creiamo dei modelli, su quei modelli creiamo dei
monconi che possono essere in metallo, metal free, più estetici, generalmente in zirconia. In questo caso ci
sono dei monconi in metallo, questi monconi vengono avvitati e su questi
due monconi avvitati abbiamo realizzato due corone cementate. Perché
adesso arriva un’ulteriore fase in cui dovete fare una scelta dopo aver
preso l’impronta. Cioè se la protesi che volete andare a realizzare sul
vostro impianto sia una protesi avvitata, cioè che si mantiene perché c’è
una vite che fissa la protesi all’impianto, oppure voi volete una
mesostruttura al moncone, in cui è il moncone che si avvita all’impianto e
al di sopra di questo moncone analogamente a come avviene su un
supporto dentario.
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Quando c’è stata cementazione, può esserci un po’ di infiammazione dovuta soprattutto alle manovre di
rimozione del cemento (cosa fondamentale).
La procedura per avere una protesi cementata soprattutto per quel che riguarda le varie prove che bisogna
fare, la definizione dei punti di contatto, ecc ecc, sono tutte cose che si realizzano sui modelli ma vanno poi
verificate in bocca perché modelli e bocca non corrispondono al 100% sono più semplici quando abbiamo
una protesi cementata. Questo perché se fosse avvitata, ogni volta, ad ogni prova dovremmo svitare e
riavvitare. Quindi il vantaggio di una protesi cementata è che la prova è molto più veloce.
Lo svantaggio invece è che dobbiamo avere più elementi di precisione perché quando la protesi è avvitata
noi lavoriamo su prodotti che sono realizzati industrialmente e sono precisi. Quando andiamo su una
protesi cementata sono lavori che richiedono più fasi e amplificano l’eventuale margine d’errore. Il punto
delicato della protesi cementata è che non da la solidità di sistema che noi abbiamo con l’avvitata che è più
stabile e solida. Secondo problema della cementata, anche se da un punto di vista di clinica garantisce un
percorso di lavoro più comodo, è che dobbiamo stare molto attenti a dove andiamo a posizionare in questo
tragitto mucoso, la linea di finitura del moncone, perché molto spesso vedo monconi che sono posizionati
molto in profondità come linea di finitura rispetto al tragitto mucoso. Questo significa che quando andate a
cementare la protesi, avete grosse difficoltà ad andare a cementare qua dentro. Tant’è vero che una delle
cause delle complicanze biologiche dei tessuti perimplantari (perimplantiti) è la presenza di residui di
cementi nei tragitti mucosi, e non è tanto infrequente. Quindi fate in modo che quando realizzate protesi
cementate, queste abbiano una linea di finitura che sia raggiungibile dopo la fase di cementazione per
poter asportare il cemento in eccesso.
Il terzo svantaggio clinico di una protesi cementata è che rimuovere una protesi su impianti dopo la
cementazione risulta molto complicato. Questo perché a differenza dei denti dove noi abbiamo da un lato il
moncone dentario e dall’altro la struttura artificiale mediati da un cemento, negli impianti invece abbiamo
un moncone realizzato per essere ritentivo con un elemento protesico cementato al di sopra, nel tempo i
due sistemi che sono stati prodotti entrambi in laboratorio (non come prima dove avevamo il moncone
dentario) anche se mettono i cosiddetto spaziatori la congruità tra moncone protesico e corona protesica
rende molto difficile staccare col tempo le due strutture, tranne che uno non le distrugga. Questo è un
grosso problema che fa tendere alla protesi avvitata che consente una possibilità di ritorno a quella
struttura protesica ogni volta che vogliamo. La protesi avvitata trova sempre maggiore indicazione quanto
più è complessa la riabilitazione che andiamo a fare.
Assolutamente! Essendo moncone e cappa realizzati al di fuori della bocca su un qualcosa che non è
mediato da un sistema di impronta e quindi di trasformazione, la ritenzione tra la corona e moncone è
molto più forte. Tanto è vero che il cemento ha un ruolo molto più secondario nella cementazione tanto
che spesso in cemento provvisorio usato all’inizio diventa poi anche il cemento definitivo.
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Dunque dopo tutto quello che ci siamo detti possiamo concludere che sono pochi gli elementi per la scelta
di un sistema impiantare, ma sono importanti!
Il sistema impiantare sommerso o non sommerso, di questa o quella azienda sarà vostra libera scelta, il mio
consiglio è di scegliere i prodotti di qualità e la qualità un minimo di costo ce l’ha. Allora voi di cosa vi
dovete preoccupare?
In primis che l’azienda che scegliete produca prodotti precisi e puliti perché non tutti gli impianti sono
uguali. Per esempio l’impianto è fatto con un tornio che è una macchina che deve essere lubrificata per
lavorare, anche con olio. Allora una volta prodotto l’impianto che non è , se non per materiale, molto
diverso dalla vite del ferramente, c’è bisogno di un attentissimo controllo di qualità, di sterilizzazione, di
decontaminazione, di detersione dell’impianto che non è per nulla una cosa banale per un’azienda. Quindi
il prodotto costa di più. Se poi mi chiedete se gli impianti sono sovrastimati economicamente io vi rispondo
di si. Se noi prendiamo le migliori aziende implantari, noi scontiamo non solo la ricerca e l’innovazione che
è anche giusto pagare come investimento e mi fa piacere farlo per avere un prodotto sempre
all’avanguardia, (esempio automobile “sono tutte macchine di formula 1 ma c’è differenza tra una ferrari e
una macchina che arriva sempre ultima. Stessa cosa vale per gli impianti che non sono tutti uguali) ma
scontiamo anche, seconda cosa, il marketing. Questo per via della commercializzazione che viene riversato
su di noi. In Italia ci sono 300-400 impianti sul mercato per un prezzo di impianto che va dai 300 ai 50 Euro.
Capite bene che è un range enorme. Allora non si può dire siano tutti uguali e dovete capire le
caratteristiche di tutti, senza dubbio l’impianto di 300 non vale tali soldi. Ne vale di meno perché ci sono
una serie di voci che vi ho appena detto. Attenzione però che non è che l’impianto che costa di meno è un
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affare, chiedetevi sempre perché. ( divagazione sulla sanità pubblica e le problematiche di gestione nella
nostra struttura sociale).
Flessibilià, ribadisco che non dovete abbracciare “solo sistema sommerso”, “solo sistema non sommerso”…
dovete essere flessibili. Poi l’innovazione!
Un’altra cosa a cui tengo molto è che la terapia impiantare è una terapia che deve partire da un progetto
protesico per arrivare ad una realizzazione protesica. Io sono più vicino alla fase chirurgica, ma sarei uno
stupido se io pensassi che il successo di una terapia implanto protesica è tutto nelle mani del chirurgo.
Assolutamente no! O lavorerete in team o da soli, ma se lavorate da soli è meglio perchè io che lo metto ho
gia ragionato sulla protesi che sarà e lavoro in virtù di ciò. Fare un lembo non è difficile, fare un buco
nell’osso non è difficile e neanche avvitare una vite in quel buco, è una cosa che si impara.
Se siete indecisi fate fare una ceratura diagnostica, e vi fate fare la mascherina che vi dice dove devono
stare i denti. Apro il lembo e vedo se ho osso. Sfatiamo il mito della chirurgia protesicamente guidata:
posso farla protesicamente guidata ma ho anche un margine di compromesso. Posso compensare
protesicamente: se metto la mscherina e vedo che l’osso non è sufficiente, posso usare il moncone
angolato. Non devo necessariamente mettere l’impianto dritto, posso metterlo inclinato e correggo
l’inclinazione col moncone. Partite quindi sempre dal progetto protesico. Non esise edentulia che non
possa essere trattata con impianti, ciò che dovete valutare è se è opportuno o non oppportuno.
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Vi faccio un esempio: avete due denti preparati per una protesi precedente ed una edentulia singola tra i
denti corretta con un impianto. Tutto fantastico e bellissimo, ma secondo voi è stata una scelta terapeutica
giusta? Io non lo so, sicuramente un impianto e tutti denti singoli consentono una igiene migliore, di
passare il filo interdentale tra tutti i denti. Dobbiamo valutare se la richiesta del paziente la dobbiamo
accogliere o meno. E’ più facile mantenere 3 corone singole che non un ponte. Se però per avere quel bel
risultato, devi fare 10 interventi, rigenerazioni, lembi, spendere un sacco di soldi, ti deve venire il dubbio se
ne vale la pena. Su alcune cose possiamo essere categorici e dire NO. A volte sono richieste che hanno la
loro logicità. Ovviamente al paziente va specificato tutto ciò che si deve fare, la strada da percorrere.
L’implantologia è nata sulle edentulie totali. I dati a lungo termine sono legati ai primi casi di edentulie
totali, poi l’abbiamo traslata alle altre edentulie. Lungo termine sono 10 anni, medio termine sono a 5 anni.
L’edentulia totale si può fare in tanti modi:
possiamo mettere 2 impianti e sopra una protesi mobile overdenture, su 2 o 4 impianti possiamo mettere
agganci singoli e realizzare sopra una barra e su questa barra una overdenture (rimovibile ridotta che si
aggancia); oppure mettiamo una serie di impianti e costruire invece una protesi fissa (cementata o
avvitata). La protesi cementata la cito soltanto, ma le protesi fisse su impianti devono essere avvitate e oggi
abbiamo ridotto anche il numero degli impianti. Possiamo accontentarci anche di 4 impianti. Numero
minimo di impianti di una protesi fissa di una arcata edentula è 4 impianti.
Se ne ho 6, ho un paracadute. Questo è meno vero alla mandibola, ma anche alla mandibola, se posso,
metto 6 impianti. 4 impianti è un limite che va bene se io non ho osso e non voglio sottoporre il paziente a
ricostruzioni ossee. Sono folle se posso mettere 6 impianti e ne metto 4, come sono folle se metto 16
impianti. Posso capire 8 impianti al mascellare superiore perché l’osso è più spugnoso, non li capisco alla
mandibola. la mandibola va bene con 6. Più aumenta la distanza tra gli impianti e meglio è.
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CASO CLINICO:
Altra possibilità: overdenture, c’è una situazione al limite e vediamo se il paziente può o non può
spazzolare. Su due impianti possiamo fare una piccola barra che serve a
dare una maggiore stabilità e ritenzione della protesi. Ha un aggancio
posteriore. Qeusto lo facciamo per impianti ravvicinati.
Valutiamo:
Valutare i presupposti anatomici.. vuole riavere i denti come prima di averli persi?
Digressione sul fatto che le complicanze in implantologia insorgono dopo molto tempo, per questo non
abbiamo molti contenziosi medico-legali…
A questo paziente meglio che faccio una barra, che è più facile da pulire rispetto alle strutture avvitate (le
toronto) che potete smontare solo voi.
La volta precedente abbiamo parlato della varie tipologie di edentulie che si possono risolvere con l’ausilio
degli impianti. Le abbiamo distinte in edentulie:
Totali
Parziali
Monoedentulie.
Abbiamo visto quindi le varie possibilità. Ovviamente le possibilità maggiori sono nell’ambito dell’edentulie
totali, perché si possono risolvere con un numero variabile di impianti. Numero variabile significa da 2 ad
“infinito” (facendo riferimento al grottesco caso clinico in cui sono stati utilizzati 16 impianti in un’arcata).
In ogni caso il minimo sono 2 impianti, a livello mandibolare; quanto invece a livello del mascellare
superiore 2 impianti sono troppo pochi per le caratteristiche strutturali dell’osso; infatti due impianti a
livello mascellare non hanno una sufficiente stabilità nel tempo. In realtà non vi è nulla di categorico, ma
secondo l’evidenza scientifica due impianti indipendenti fra loro, con due attacchi a pallina ed una protesi
Overdenture (la quale è una protesi in cui gli impianti svolgono un ruolo di ritenzione e non di supporto,
perché poggia moltissimo sulle mucose), vanno bene per la mandibola. E gli impianti nel caso di
Overdenture servono moltissimo, perché i pazienti con creste ossee molto riassorbite, le quali non
garantivano stabilità alla protesi mobile, con questi due impianti con attacco a pallina riescono a risolvere
radicalmente il problema dal punto di vista funzionale, estetico ed anche e soprattutto relazionale. Quindi,
questa soluzione dell’Overdenture al mascellare superiore ha meno riscontro di durata nel tempo, ha
minore predicibilità, per cui al livello del mascellare si preferiscono avvitare come minimo 4 impianti, i quali
possono essere anche indipendenti fra di loro. Ovviamente se questi 2 (a livello mandibolare) o,
soprattutto, 4 (a livello mascellare) impianti li uniamo fra di loro con una barra si avrà un grande vantaggio.
Infatti la barra fa aumentare la quota di supporto alla struttura implantare; questo perché, partendo da
attacchi indipendenti, ovviamente il rapporto del carico misto (implanto-muscoso) tende a cambiare a
favore di quello implantare e si riduce quello mucoso. Quindi la barra tenderà a migliorare non solo la
ritenzione della protesi, ma anche il suo carico, ossia il supporto. Ribadendo, la barra determinerà due
effetti:
1. Aumenta il carico sugli impianti. Perché quando ci sono degli impianti indipendenti con una
Overdenture, quest’ultima poggia molto sulle mucose, e gli impianti svolgono per lo più una
funzione di ritenzione. Quanto invece se si mette una barra, oltre alla ritenzione si avrà anche una
funzione di supporto.
2. Inoltre il vantaggio della barra, soprattutto al mascellare superiore, è quello di splintare gli impianti
fra loro. Questo è positivo perché gli impianti legati e splintati fra loro, con una mesostruttura o con
una sovrastruttura, ovviamente hanno una maggiore stabilità biomeccanica ai movimenti laterali. E
quello che deve preoccupare non sono i carichi assiali, ma quelli eccentrici (laterali). Se un impianto
è singolo, questo sarà esposto maggiormente ai carichi eccentrici; se invece un impianto è legato,
ovviamente i carichi eccentrici saranno ridotti perché si distribuiranno su tutta la struttura,
soprattutto nel caso di edentulia totali al mascellare superiore dove utilizziamo una struttura Cross-
arch, che va dal lato destro al lato sinistro.
Inoltre abbiamo detto che 4 impianti è anche il numero minimo di impianti per poter ipotizzare la scelta tra
una protesi rimovibile ed una fissa. Ma per quanto riguarda la protesi fissa bisogna chiarire bene alcuni
concetti. Infatti in una edentulia totale si ha quasi sempre un riassorbimento osseo, il che significa
un’alterazione anche della cresta mucosa, dato quando l’osso alveolare si ritira viene a mancare il suo
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alveolare non bisogna preoccuparsi solo della sua realizzazione (che non è complicata), ma bisogna
preoccuparsi anche e soprattutto che il paziente possa mantenerla nel tempo. Perché se si fa una buona
protesi, sia dal punto di vista estetico che funzionale, ma poi il paziente non è in grado di asportare
quotidianamente la placca, questa protesi diventa ingestibile. Infatti poi si gestiscono facendo venire spesso
i pazienti a controllo, svitando le protesi avvitate, per poi pulire; e questo richiede tempo, e non sempre i
pazienti riescono a venire. Ci sarà quindi un sistema di terapia di supporto nel tempo che non è facile da
portare avanti, anche dal punto di vista economico. Proprio per questo è sempre più ricorrente l’utilizzo
delle protesi fisse nelle quali si uniscono gli impianti fra di loro con una barra, e si fa una protesi fissa che si
può però asportare grazie ad un sistema Conometrico, o di chiavistelli, oppure di fresaggio. Questa
soluzione però ha un problema comunicativo con i pazienti, perché in genere questi intendono la protesi
fissa come qualcosa di saldo come i denti naturali. In ogni caso questa soluzione [Figura 3], che è un
Toronto Bridge, è spesso più brutta, ma è anche più detergibile, perché è scostata dalla cresta alveolare.
Ma con questa protesi il paziente avrà una continua infiltrazione di saliva tra il fornice vestibolare e il
pavimento della bocca, o ritenzione di cibo quando mangia. Quindi tutt’oggi si fanno delle protesi che
poggiano sulle mucose, con dei piccoli accessi grazie ai quali il paziente può detergere, ma deve essere lo
stesso molto bravo. Ricordiamo allora che aumentando il numero degli impianti possiamo sempre più
andare verso quella che è una protesi fissa, ma questa può essere anche una protesi Amovo-Inamovibile,
ossia una protesi che una volta bloccata è fissa ma che il paziente può anche rimuovere da solo. Quando
invece l’osso è presente e si vuole eseguire una protesi dentaria, è necessario fare una buona progettazione
protesica, avere una dima di riferimento, e mette gli impianti nelle zone dove capitano i denti.
Edentulie Parziali
Figura 4 Figura 5
Prima di procedere però, è importante analizzare il concetto del se legare o meno tra loro denti e impianti.
Questo perché quando affrontiamo edentulie parziali ci si può trovare in questa circostanza. La regola di
base ci dice: “denti con denti, impianti con impianti”. Quindi di base bisogna rispettare questa regola.
Questo per una questione biomeccanica, per due motivi:
1. Dente e impianti sotto un carico masticatorio hanno due comportamenti differenti. Il dente ha una
sua mobilità minima fisiologica di 0,2mm, quanto invece l’impianto non ce l’ha. Quindi quando
carichiamo una struttura come un ponte, con da un lato un impianto e dall’altro un dente, con le
forze di masticazione il dente sotto carico tende ad ammortizzare le forze. Quindi le strutture che
sono rigide non riescono a seguire questa flessione, e di conseguenza si può avere decementazione
del manufatto protesico fisso dal moncone del dente (perché ovviamente non è possibile avvitare
la protesi fissa su un dente), anche se in maniera impercettibile. Ma quando si decementa un
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manufatto protesico, accade che ci saranno infiltrazioni, con conseguente accumulo di placca e nel
tempo avvio di processi cariosi. Per questo bisogna sempre mantenere i denti con i denti, e gli
impianti con gli impianti. Ma ci sono, in alcune circostanze estreme, delle situazioni dove per non
legare un impianto ad un dente è necessario un piano di trattamento troppo complesso ed
invasivo. Allora, in estrema ratio, è possibile collegare denti ed impianti, con però una importante
accortezza: proteggere l’elemento dentario dalla decementazione. Quindi bisogna prepararlo
maggiormente ed eseguire un cosiddetto Sistema Doppio, con una Cappa di Protezione
sull’elemento dentario affinché quest’ultimo risulti essere protetto da un rivestimento dato da una
cappa in metallo, sulla quale cappa verrà poi realizzata la struttura protesica che si aggancia anche
all’impianto. La cappa è importante in questi casi, perché rappresenta l’unica protezione per il
dente qualora ci sia und decementazione, evitando l’insorgenza di processi cariosi per le
infiltrazioni. Ma chiaramente non sono soluzioni semplici da gestire.
2. Inoltre per via del carico masticatorio nel tempo l’impianto rimane lì dove viene inserito, mentre
invece il dente va progressivamente in inclusione. Come se vi fosse un forza ortodontica su
quell’elemento dentario. Quindi quando possibile separiamo sempre denti ed impianti.
Per quanto riguarda le soluzioni, nelle edentulie parziali possiamo eseguire quello che preferiamo, con 1, 2
o più impianti, l’importante è una buona progettazione protesica. Nel caso di questa edentulia distale sono
state inseriti due impianti [Figura 6]. Ovviamente quando c’è osso a sufficienza, nei settori posteriori
utilizziamo impianti con una piattaforma
di diametro più ampio, di circa 5mm,
rispetto agli standard che sono di 4mm;
questo soprattutto per l’emergenza
protesica, perché se bisogna mettere un
molare, più piccola è la piattaforma
protesica più l’emergenza del molare
risulterà svasata e a cavolfiore, invece più
è ampia la piattaforma più l’emergenza
sarà armonica. Però bisogna tener
presente che, se prima si pensava che
maggiore è il dente maggiore deve essere
la dimensione dell’impianto, in verità si è
visto che questo non serve a niente, anzi
è peggio se non si lascia abbastanza osso
Figura 6 intorno. Quindi l’importante è che nei
In ogni caso quando si risolvono delle edentulie parziali, sia Distali che Intercalate, quello che si fa è
riproporre una situazione dentaria assente; nel progetto protesico si pianifica dove inserire gli impianti, sui
quali verranno posizionati dei monconi, e su questi monconi verrà saldata la protesi. Ma a questo punto
bisogna aprire un’importante dibattito sulla scelta della corretta ritenzione delle protesi fissa. La protesi
fissa può essere infatti Cementata o Avvitata. Per alcuni è migliore la cementata, per altri l’avvitata. Infatti
se sui denti la protesi fissa può essere solo cementata (perché, come detto, non si può avvitare sul dente),
sugli impianti è possibile scegliere. Prendendo in analisi il caso di prima [Figura 8] (dove bisogna riprodurre
4-5-6, con un tavolato occlusale non eccessivamente grande, dato che bisogna evitare grossi carichi
occlusali), andando poi in senso generale, il Professore chiede se sia meglio una protesi fissa cementata o
avvitata, e per quale motivo. La decisone di eseguire una piuttosto che l’altra ovviamente deve essere
comunicata all’Odontotecnico.
Qualora si volesse eseguire una protesi fissa cementata, il Tecnico deve produrre dei monconi che
possono essere ottenuti con varie tecniche, e in vari metalli (Titanio, Cromo-cobalto, Zirconia) e
vengono inseriti poi paralleli fra loro, per posizionare così la struttura protesica sovrastante;
Invece per la protesi avvitata l’odontotecnico realizza una strutta protesica senza l’intermediazione
di un moncone, ma che si poggia direttamente sulla piattaforma implantare, con un buco al centro
attraverso il quale passa la vite, e così la struttura protesica si avvita e si fissa.
Ricapitolando: la protesi fissa cementata è data da un moncone che si avvita sull’impianto, e un manufatto
protesico che si cementa su tali monconi; invece la protesi avvitata ha un’unica struttura che si avvita
68
direttamente sugli impianti. Questo per quanto riguarda le edentulie parziali. A volte, invece, per le
edentuli totali è possibile anche avere dei monconi intermedi che hanno il ruolo di portare la piattaforma
implantare più fuori alla gengiva, per poi avvitarci la struttura protesica.
Il professore ribadisce allora la domanda: è meglio una protesi fissa cementata o avvitata? Ovviamente
dipende dai casi, ma in generale (per le edentulie multiple distali o intercalate) sugli impianti è meglio una
protesi fissa avvitata. Per vari motivi:
1. Perché la protesi fissa avvitata è possibile applicarla e toglierla tutte le volte che si vuole, e questo è
importantissimo. Anche perché se la protesi cementata è su elementi dentari naturali
monconizzati, allora la posso rimuovere; se invece è cementata su impianti, in questo caso è
diverso. Questo perché non abbiamo più, come in quella sui monconi naturali, un contatto tra lega
metallica e tessuto dentario, ma avremo un contatto tra due superfici metalliche, quella
dell’moncone implantare e quella della struttura protesica; e due superfici metalliche, quando sono
preparate in laboratorio con un buon parallelismo, tendono molto ad avere un effetto conometrico
che è anche più efficace dell’effetto della cementazione. Per cui nel tempo, sotto carichi
masticatori, l’effetto conometrico porta ad una situazione tale che se si vuole staccare il manufatto
protesico cementato sugli impianti non ci si riesce. Oppure bisogna forzare con un martellino,
andando però a danneggiare la struttura, o addirittura bisogna in alcuni casi tagliarla. Quindi una
protesi avvitata, quando possibile, è migliore perché permette di montarla e smontarla tutte le
volte che si vuole, per manutenzione o per riparazione.
2. Un altro importante problema per la protesi fissa cementata è la gestione del comento, che può
insinuarsi e causare nel tempo una perimplantite. Questo problema viene bypassato con quella
avvitata. Infatti una delle cause delle patologie infiammatorie peri-implantari è il fatto che possono
rimanere, nei tragitti mucosi, dei residui di cemento. Però questo può essere condizionato da come
è fatta la protesi: se c’è un tragitto mucoso di 5 mm, e l’odontotecnico in quel tragitto mucoso fa
un moncone implantare con un margine di finitura sotto 4mm nel tragitto, è chiaro che il cemento
da lì sarà impossibile da togliere perché troppo in profondità. In questo caso l’odontotecnico deve
essere governato dall’odontoiatra, dato che l’odontotecnico tenderà a fare sempre il margine di
finitura molto in basso nel tragitto, perché in questo modo si nasconde di più l’emergenza del
dente, e inoltre il profilo di emergenza del dente sarà armonico; se invece parte in alto ci sarà un
profilo molto meno armonico e più a cavolfiore. Quindi quando si fa una protesi cementata è
necessario comunicare all’odontotecnico che il margine di finitura del moncone implantare deve
essere poco all’interno del solco tragitto mucoso, perché in questo modo dopo la cementazione,
con uno specillo, è possibile andare a rimuovere completamente il cemento in eccesso. Bisogna
però poi valutare se l’emergenza di tali denti è compatibile con l’igiene domiciliare; perché se la
linea di finitura è troppo superficiale, si rischia di avere un profilo di emergenza troppo a cavolfiore,
e quindi dei sottosquadri difficili da detergere.
Il problema è che la protesi avvitata non sempre la possiamo fare. Per fare una protesi avvitata è necessario
che ci siano determinate condizioni:
I. Ci deve essere una vite che possa passare attraverso la struttura protesica senza compromettere
l’estetica. Se l’accesso è nascosto, allora è possibile fare la protesi avvitata; se l’accesso è visibile,
potrei ancora farla, ma bisogna mascherare bene quell’accesso per motivi estetici. È ovvio che un
accesso posteriore è più facile da mascherare rispetto ad un accesso anteriore. Quindi se bisogna
eseguire una protesi nel settore frontale, in cui fare un foro per la vite significa avere un danno
all’estetica per il paziente, allora si preferisce una cementata; se invece ci troviamo in un settore
posteriore, dato che l’estetica non è importante, anche se traspare la vite non è un problema, e
quindi si preferisce l’avvitata.
69
II. Inoltre vi è un problema di resistenza della struttura. Perché se, ad esempio, si ha la portesi di un
molare con un foro d’accesso per la vite al centro, la struttura di quel molare conserverà una sua
resistenza, anche per quanto riguarda il rivestimento ceramico che va fuori. Ma se l’accesso della
vite invece di stare al centro sta in prossimità di una cuspide, in quella zona la struttura sarà molto
più debole e si possono avere chipping e sfaldature.
In ogni caso, quando è possibile è sempre indicata la protesi avvitata, perché come visto la si può montare e
smontare a piacimento, non si ha il problema del cemento, e permette di conseguenza una migliore
manutenzione in termini di detersione. Però i risultati nel tempo, dal punto di vista scientifico, dicono che
sono efficaci ed efficienti sia le protesi avvitate che quelle cementate. Quindi tutto ciò che è stato detto
non riguarda l’affidabilità, la predicibilità o la durata, ma riguarda aspetti gestionali e tecnici.
Figura 9
Figura 10
dato, in casi di edentulia dei 4 incisivi, l’indicazione dell’inserimento dei 2 impianti al posto di un laterale e
di un centrale (ad esempio 12 e 21), perché se non si mette alcun impianto nella zona dei centrali la strutta
protesica di pontic andrà a schiacciare le mucose e con il tempo questa zona andrà incontro a
riassorbimento, perché non è sostenuta da niente; ma il Professor non è d’accordo. Ovviamente il
problema principale in un settore frontale come questo è l’estetica, dato che ogni aspetto funzionale
(fonatoria, masticatoria, etc) lo si riesce a risolvere; ma l’estetica è molto più difficile da gestire. Per estetica
intendiamo che deve avere dei denti fatti bene, deve aver una gengiva sana, ma soprattutto corretto
posizionamento vestibolare e interdentale della mucosa. Con i denti finti è possibile fare ciò che più
aggrada, ma per la gengiva bisogna accontentarsi di quella che il paziente tiene, cercando i condizionarla
nel miglior modo possibile, senza danneggiarla. Sappiamo che i riassorbimenti ossei avvengono dove non
sono presenti i denti, per cui già il fatto che in questo settore frontale si sono persi 3 denti (11-12-22)
significa che si favorisce un riassorbimento osseo. Questo è stato un caso di Post-estrattivo Precoce
Ritardato, ossia sono stati tolti i denti, e gli impianti non sono stati messi subito ma dopo 2-3 mesi. In questi
mesi si è aspettato che guarissero i tessuti molli, quindi in Figura 10 già vediamo la situazione dopo un certo
riassorbimento osseo post-estrattivo (ma comunque di osso ce n’era ancora a sufficienza), e con i tessuti
molli guariti. L’osso nel tempo si continua a riassorbire nell’arco dei 12mesi, non tanto nella verticalità ma
soprattutto nella trasversalità. Il riassorbimelo osseo avviene lì dove non sono presenti i denti; di
conseguenza ci sarà riassorbimento al livello die centrali, ma poco a livello dei laterali. Ci sarà meno
riassorbimento all’altezza dei laterali perché è presenta la parete mesiale dei canini, che con il loro
parodonto supportano l’osso limitrofo. Quindi le papilla a ridosso dei canini rimarranno tali ( [Figura 10]).
Ci si preoccupa invece di mantenere le papille più centrali, dato che nel tempo le creste tenderanno ad
appiattirsi. Inoltre ciò di cui mi devo preoccupare è che gli impianti non stiano vicini, ma devono trovarsi ad
almeno 3mm di distanza tra di loro affinché non vi sia riassorbimento, e ancora migliore è una distanza di
5mm; quindi più sono distanti meglio è. Ricordiamo che chiaramente la papilla deve avere il supporto
osseo, e il massimo di distanza tra l’apice della papilla e la cresta ossea affinché la papilla sopravviva sono
5mm. A più di 5mm non avrò mai nessun tessuto molle intra-orale gengivale; è ovviamente più facile che
sopravviva a 3 mm, difficile ma possibile a 5mm, impossibile a 6mm, dato che non gli arriva un trofismo
sufficiente. Infine diciamo che i tessuti molli liberi si possono comprimere grazie alla protesi; ossia è
possibile fare degli spostamenti per compressione dei tessuti molli. Di conseguenza, valutando tutto ciò che
ci siamo detti, mettere un impianto sul 12 va benissimo, ma non va affatto bene metterlo sul 21; questo
perché l’impianto, in ogni caso, non ferma il riassorbimento osseo. Infatti è scientificamente provato che il
riassorbimento osseo è indipendente dall’impianto, dato che è geneticamente determinato e dipende da
altri fattori. Appunto il riassorbimento osseo post-estrattivo non viene modificato dall’impianto. Altra cosa
importante è che una volta che l’osso si è stabilizzato, se ci si mette l’impianto questo può dare un minimo
di stimolo per avere un osso stabilizzato, ma un osso in fase di riassorbimento post-estrattivo per 12 mesi
cammina indipendentemente dall’impianto. Quindi in questo caso ho solo due punti di osso fissi, ossia i
picchi a ridosso dei canini ( [Figura 10]); questi due picchi ossei non si modificheranno perché saranno
indipendenti dal riassorbimento post-estrattivo, e questi due punti devono essere di riferimento. Infatti
posizionerò i due impianti (come livello osseo) tenendo in considerazione queste due creste ossee, senza
calcolare invece ciò che accade nella zona centrale. Poi si andranno a modificare le papille grazie alla
protesi, la quale (avendo 2 elementi liberi centrali) mi consente di mantenere questa papilla perché la si
schiaccia a quei 5mm che abbiamo detto prima, permettendo la sua sopravvivenza. Invece intorno
all’impianto si ha che progressivamente l’osso si riassorbe e il tessuto molle lo segue; quindi si avrebbe più
difficoltà a gestire una situazione quando si ha un impianto a livello centrale, dato che è inutile. Si vede
71
Monoedentulia
Nel caos delle Monoedentulie gli impianti sono davvero una risorsa straordinaria. Qui [Figura 13] si può
apprezzare l’agenesia di un laterale. Viene fatto il
trattamento ortodontico per ricreare lo spazio. Il paziente
era piuttosto complicato perché (anche se è in
discussione nel caso di un agenesia se chiudere o aprire
gli spazi) aveva i denti leggermente diastemati [Figura 15].
Infatti c’era una Discrepanza Dento-Alveolare, per cui
nonostante i denti fossero stati ortodonticamente
posizionati, un po’ di diastemi li aveva lo stesso, per via di
questa discrepanza. Quando c’è il diastema il Maryland
bisogna assolutamente scartarlo, dato che si vedrebbe.
Inoltre se si stacca il Maryland in un momento critico
Figura 13 (mentre si è in vacanza in un posto esotico) è difficile
gestire la situazione. Infatti il Maryland è un sistema
adesivo, ed ogni sistema adesivo si può staccare,
nonostante si cerchi di riprodurre Maryland sempre più
piccoli, resistenti (in Disilicato di litio o in Zirconia) ed
adesivi, ma non è mai una scelta sicura. Bisogna ricordare
che dobbiamo fare al paziente quello che faremmo per
noi stessi. Quindi in questo caso l’impianto è la soluzione
migliore. Abbiamo la cresta ossea con spazio limitato, ma
è stato fatto un piccolo intervento con un piccolo accesso,
e passionato l’impianto [Figura 14].
Figura 14
72
Chiaramente per poter realizzare una corretta riabilitazione implanto-protesica è fondamentale seguire una
check-list, per eseguire correttamente Diagnosi e Piano di Trattamento:
Anamnesi Medica
Anamnesi Odontoiatrica
Esame Orale
Esame Rx
Modelli di studio; dato che il progetto protesico deve essere ben preciso, anche se per piccoli
progetti è possibile, con l’esperienza, anche fare una panificazione mentale, senza necessariamente
fare mascherine, cerature e altro. Quindi per casi semplici è possibile fare un progetto menatale,
invece nei casi più complessi è doveroso fare i modelli studio, anche se in verità è sempre
consigliato farli.
Aspettativa e Motivazione del paziente; dato che ci sono pazienti che si accontentano di cose più
semplici, e altri che hanno aspettative maggiori.
Fattori di rischio (Fumo, Bruxismo, etc.)
Anatomia e Struttura ossea; è importantissimo valutare i volumi ossei, se sono presenti o meno, e
nel caso siano assenti eventualmente rigenerarli.
Spazi Protesici.
73
Ovviamente quando ci dedichiamo alla Chirurgia Implantare è fondamentale avere un profonda conoscenza
dell’anatomia. L’anatomia è alla base di qualsiasi tipo di chirurgia: orale, implantare, parodontale, etc.
Infine vediamo una Sequenza Standard di posizionamento implantare, indipendentemente dal tipo di
edentulia che si sta affrontando:
Riprende dall’ultima lezione facendo un ripasso sulla sequenza delle frese per osteotomia a fini implantari
Il caso in questione è un’edentulia totale ma il discorso vale anche per un edentulia parziale o una
monoedetulia.
Questa è la sequenza classica di una osteotomia a fini implantari ovvero una cavità artificiale nell’osso
all’interno della quale andiamo a posizionare l’impianto .
Questa sequenza è più o meno condivisa da tutte le scuole fermo restando che ci possono essere delle
modifiche del sistema. Il concetto fondamentale è che però si tratta di una successione di fasi
Quando sono 2 gli impianti da inserire lasciamo l’indicatore di posizione e lo utilizziamo come perno di
riferimento per il parallelismo .
8b)con un dispositivo di montaggio , generalmente già montato sull’ impianto , e questo connettore per
micromotore posizioniamo l’impianto autofilettante fino alla sua posizione finale .
Prima di procedere con l’osteotomia è fondamentale una valutazione dei tessuti molli , finalizzata a
valutare la loro capacità di favorire la guarigione dell’osso e l’integrazione dell’impianto .
In questo caso , all’ opt ,da un punto di vista di volume osseo ,la dimensione ossea verticale è sufficiente , e
questo è confermato anche all’esame clinico , più complessa è la valutazione della quota ossea orizzontale
non valutabile alla opt ma clinicamente insufficiente.
Si è quindi ricorso alla diagnostica tridimensionale (cone beam o dentalscan) . che ha confermato
l’assenza di quota ossea sufficiente trasversalmente .
NB: la GBR può essere effettuata sia prima dell’impianto che contestualmente all’inserimento
dell’impianto .
Prima ancora , in realtà , evidenziato un problema di architettura (qualità, spessore insufficiente , assenza di
mucosa cheratinizzata ) dei tessuti molli , con presenza di trazioni che arrivavano in cresta ( esito
dell’avulsione traumatica dell’incisivo centrale e della guarigione del trauma ) è stato pianificato
un’intervento di innesto connettivale atto a ripristinare l’architettura tessutale ,di modo che fosse idonea
per la fase ricostruttiva (GBR ) .
77
Alla fase rigenerativa è seguita quella implantare e lo scollamento del lembo ha evidenziato la quota di
osso rigenerata .
Questa fase deve essere preceduta da una progettazione protesica , che può essere sia digitale che
analogica .
Sebbene si stia sempre più affermando il mondo digitale , la progettazione analogica rappresenta ad oggi la
prima scelta . Di fatto ,la prima diventa indispensabile solo in alcune circostanze .
78
Quindi , una volta entrati chirurgicamente può darsi che questa idealità protesica sia riscontrata e allora si
può procedere tranquillamente con il fresaggio seguendo la dima chirurgica; ma la situazione si potrebbe
rivelare anche diversa dal progetto e a quel punto sta all’operatore scegliere se seguire la dima ,correndo il
rischio di mettere l’impianto in una certa posizione che non sarà sufficiente per fermarsi e che richiederà
ulteriori interventi di rigenerazione ossea e mucosa oppure scendere a compromessi.
Nel caso in questione , non si tratta di una dima chirurgica in senso stretto , ovvero una dima per chirurgia
guidata , che mi guida in tutti i passaggi e in questo caso ,anche qualora il progetto fosse ineccepibile
,sarebbe preferibile fermarsi in corso d’opera per valutare se l’intervento sta procedendo bene .
Questa invece , più che una dima chirurgica in senso stretto è una dima di posizionamento , indica la
posizione in cui dovrebbe andare il centro dell’impianto,
Da questo momento in poi la preparazione procede ,senza ausilio della dima ,seguendo con la stessa
sequenza .
E’ ovvio che ,dopo aver fatto la prima preparazione , l’indicatore di posizione verrà inserito con la dima in
modo da avere una conferma sulla correttezza dell’asse .
Queste sono tutte le fasi e non cambiano assolutamente sia che si tratti di sella edentula che di
monoedentulia come in questo caso.
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COMPARTIMENTO INTERMEDIO
Se vi ricordate il corso è iniziato illustrandovi i rapporti tra la struttura implantoprotesica , i tessuti molli e i
tessuti duri , quindi vi ho parlato di tutti i compartimenti .
Il primo a cui la ricerca si è interessata è il compartimento osseo , perché l’obiettivo era quello di trovare un
sistema per poter fissare i corpi estranei nell’osso e che garantisse ,applicando un carico masticatorio, una
stabilità, nel tempo , del sistema .
Abbiamo studiato il compartimento intemedio e abbiamo visto come funziona. Quali sono le cose che lo
rendono simile e dissimile al dente. Vi ho poi spiegato il compartimento superficiale , con la mucosa
perinplantare e le relative similitudini e discordanze con gli elementi dentari .
Abbiamo capito che tutto sommato la mucosa perimplantare è molto simile al parodonto di superficie
fermo restando che abbiamo una grossa differenza data dall ‘assenza di un attacco connettivale che invece
caratterizza il dente .
Il dente è un qualcosa che fa parte del nostro patrimonio genetico , cresce e si sviluppa con noi , ha un suo
percorso istologico, anatomico, funzionale ben deteminato.
La struttura implantoprotesica è una struttura completamente artificiale con un tessuto cicatriziale (osseo
e mucoso) e una struttura artificiale che in parte sta fuori e in parte sta dentro l’osso .
Quindi dopo che aver posizionato un impianto, e mi riferisco ad un impianto sommerso secondo il sistema
di branemark , che cosa succede ? .
Dopo la prima fase chirurgica, l’osso rimane stabile non subisce riassorbimenti , però quando con la
seconda fase chirurgica ,si viene a creare una apertura (collegamento ) tra il sistema osseo interno e quello
esterno , i tessuti si devono riorganizzare per proteggere l’organismo .
80
Ci riesce bene l’epitelio con l’attacco epiteliale , ci riesce male con il connettivale (che forma un contatto
connettivale ).
Questo è molto importante perché il tessuto molle normalmente segue il tessuto osseo e quindi c’è il
rischio che possa avere molta recessione .
Questo aspetto nel trattamento delle edentulie totali aveva poca importanza , ma man mano che siamo
andati avanti in aree edentule estetiche 1/10 di mm in più o in meno fanno la differenza perché può essere
causa di esposizione del margine metallico.
Allora vediamo nella realtà che cosa succede e lo vedete bene qua .
Questo è un impianto dopo la osteointegrazione. Questo è un impianto dopo un anno , vedete come c’è
stato un rimodellamento radiograficamente visibile dell’osso marginale ?
Se noi avessimo lasciato dopo la fase chirurgica e la fase di osteointegrazione questo impianto qui (
sommerso) , negli anni sarebbe rimasto cosi ,ma appena siamo andati a creare un’alterazione con un a
connessione esterna c’è stato una riorganizzazione dei tessuti marginali molli ma anche del tessuto
marginale osseo .
Gli studi che si sono occupati di misurare tutto questo hanno proprio evidenziato che la quota in mm di
osso riassorbito è più o meno 1.5 mm massimo 1.8 nel primo anno e 0.2 mm all’anno in seguito.
Ma la cosa interessante è che il riassorbimento non è solo verticale ma abbiamo anche un riassorbimento
orizzontale che è circa 1.4mm, sempre nel primo anno.
Questo è dovuto all’adattamento dei tessuti ovvero alla realizzazione di quel contatto connettivale che si
realizza a 360° intorno al dente .
Perchè avviene questo riassorbimento ? Come vedete ci sono varie ipotesi che sono state immaginate , chi
ipotizza che sia collegato al carico , chi all’ampiezza biologica ( adattamento dei tessuti molli correlato a
riassorbimento osseo ) ,chi alle caratteristiche dell’ inpianto che è fatto da due pezzi quindi anche se
precisissimo si crea una soluzione di continuità tra impianto e pilastro.
C’è chi associa tutto alla struttura del collo dell’impianto o alla superficie implantare.
La teoria più accreditata, anche se non vi è certezza in letteratura , è quella dell’ampiezza biologica. Perché
quando vi ho parlato del compartimento superficiale vi ho detto che grosso modo , come vedete , le
dimensioni di solco ,attacco connettivale ed epiteliale si ripetono anche a livello dell’impianto.
81
La maggiore variabile l’abbiamo a livello del solco perché dipende dallo spessore della gengiva , perché
se la gengiva è molto spessa questo solco sarà più profondo, cosa che nei denti è difficile da riscontrare in
condizioni fisiologiche ;ma aldilà di questi rari casi le dimensione sono più o meno le stesse.
Fintanto che l’impianto è nell’osso coperto, questi tessuti non si devono organizzare a formare
un’ampiezza biologica intorno a qualcosa che da dentro va verso fuori , nel momento in cui noi mettiamo
una connessione , questi tessuti geneticamente devono proteggere il nostro organismo organizzandosi in
una maniera similare a quella del dente e quindi devono formare un solco, un attacco epiteliale e
connetivale(non ci riescono e fanno un contatto connetivale ) , ma le dimensioni grossomodo sono queste .
Ecco perché nel primo anno , quando si organizzano i tessuti molli marginali spesso abbiamo una certa
quota consistente di perdita ossea .
Una volta che questo sistema si è stabilizzato e i tessuti sono in salute il riassorbimento osseo si ferma , o
tuttalpiù si riassorbono 2/10 di mm all’anno ( 1mm ogni 5 anni)
Ed ecco la differenza fondamentale tra sistema sommerso e sistema non sommerso ( o meglio tra il sistema
un pezzo e due pezzi) , i due sistemi hanno una differenza importante dal punto di vista biologico.
Il sistema un pezzo consiste in un impianto che è un unico pezzo nella fase intraossea e nella fase
extraossea della mucosa ,sopra al quale va sempre posizionato il moncone
Per arrivare al moncone nell’impianto sommerso ,invece, ho bisogno di una vite di guarigione che mi crei il
tragitto transmucoso.
In altri termini la differenza tra sistema sommerso e non sommerso che vi ho detto abbiamo superato è che
l’impianto un pezzo è già superficializzato in prima fase chirurgica, con il sistema 2 pezzi posso avere già in
prima battuta il tragitto transmucoso se metto immediatamente la vite di guarigione , altrimenti metto la
vite tappo e ho un impianto sommerso .
Se questo non ha importanza dal punto di vista clinico , assume importanza dal punto di vista biologico .
Nel sistema non sommerso con impianto un pezzo il passaggio tra impianto e moncone si realizza lontano
dall’osso ,nell’impianto sommerso ( credo che intenda 2 pezzi) sia che lo realizzi in un tempo o in 2 tempi il
passaggio tra impianto e moncone avviene a livello dell’osso , e questa differenza è fondamentale perché
l’organismo soffre le soluzioni di continuità e anche se il passaggio tra impianto e moncone è realizzato a
livello industriale ovviamente le nostre cellule sono in grado di leggere questa discontinuità .
Per cui ,benchè ci sia un’adeguata osteointegrazione, la guarigione ,da un punto di vista biologico ,l’attacco
epiteliale nei sistemi a 2 pezzi tende a formarsi fino a questo livello (estensione apicale epitelio), mentre
l’epitelio in una situazione in cui è lontana dall’osso tende a fermarsi lontano dall’osso stesso
Questo fa la differenza, tant’è vero che noi abbiamo che si riassorbe meno osso nell’impianto ad un pezzo
rispetto all’impianto a due pezzi.
L’altra cosa che si è riscontrata è che li dove abbiamo questa connessione si forma un infiltrato
infiammatorio, perché, non solo l’epitelio tende a scendere fino là ,ma questa soluzione di continuità viene
letta dall’organismo come non self e scatena una reazione infiammatoria secondaria che va di pari passo al
riassorbimento osseo .
Questa è la parte endossea , quando mettiamo la connessione abbiamo un certo riassorbimento osseo
perché si deve formare il sistema d’attacco del tessuto mucoso perimplantare , si determina un piccolo
riassorbimento verticale , ma si determina anche un riassorbimento orizzontale per l’infiltrato
infiammatorio , assolutamente non percettibile. Lo percepiamo solo negli studi istologici .
Quindi ricapitolando la connessione potrebbe essere responsabile di infiltrato intorno al dente che è quello
che mi determina , come vedete nel passaggio da questa fase iniziale a questa fase stabilizzata ,la
formazione di un collo di riassorbimento in cui il riassorbimento , che dovrebbe essere solo verticale , è
anche orizzontale ( il prof dice che è a calice ).
Quindi ,la soluzione per chi crede alla colonizzazione batterica , è stata l’introduzione di tutta una serie di
artifizi per cercare di ridurre questa colonizzazione batterica attraverso la parte interna dell’impianto .
Il prof. Non ci crede molto , pero’ dipende ovviamente se voi utilizzate prodotti di qualità.
Le evidenze biologiche e sperimentali ci dicono che è stata abbastanza interessante questa esperienza
clinica, quella di dire se il problema è dato dalla vicinanza tra la parte intraossea e la parte extraossea
portiamo la parte extraossea (cioè il pilastro) più all’interno.
Se lo porto più all’interno quella parte dell’ infiltrato non interferisce con l’osso e quindi non mi da
riassorbimento . Ed è nato il concetto di avere una discrepanza tra il diametro della piattaforma implantare,
84
e il diametro della piattaforma del moncone protesico (PLATFORM SWITCHING O RIDUZIONE DELLA
PIATTAFORMA ).
se poi quel qualcosa in più sarà realmente efficace purtroppo al momento non lo sappiamo.
Tutto ciò non ha messo a tacere quelle che sono le varie ipotesi in merito alle
problematiche del compartimento intermedio.
Quando vado a progettare un caso molto estetico , io non solo devo preoccuparmi di mettere l’impianto in
un volume osseo sufficiente a garantire un adeguata osteointegrazione , ma mi devo anche preoccupare di
quelli che saranno i tessuti molli perimplantari e della stabilità del tutto .
ognuno di noi nella bocca ha diversi spessori . più il tessuto è spesso più e stabile , più e sottile e più è
instabile.
3) Il posizionamento dell’impianto , perché io posso avere una tonnellata di osso , uno spessore fantastico
di tessuti molli ma sono una capra come implantologo , e quindi comunque faccio un danno .
Per rispettare i tessuti molli e quindi l’estetica, l’impianto deve avere delle posizioni precise .
Io incido sollevo un lembo trovo osso qua, in senso apico coronale per avere una stabilità del tessuto , cioè
io voglio che il tessuto rimanga cosi che mi consenta di far un bel dente qua in mezzo . Quindi secondo voi
in senso verticale dove lo devo mettere?
A livello della cresta , dovete metterlo a 3 4 mm dalla CEJ perché abbiamo detto che ci vogliono 3 mm di
tessuti molli per poter fare una buona ampiezza biologica per cui a volte anche se abbiamo l’osso lo
togliamo.
Se io apro l’osso ce l’ho a meno di 3 mmm dalla giunzione amelocementizia del dente adiacente io faccio un
osteotomia , perché questo mi consente di ottenere 1 mm di solco 1 mm di attacco epiteliale e 1 di attacco
connettivale poi c’è l’osso. Quindi dal mio margine gengivale devo aver 4 mm dal margine osseo ( 1 mm in
più rispetto alla distanza dalla CEJ )
Mesio- distale ci sono 2 problemi per quanto riguarda la distanza dalla piattaforma implantare al dente e da
dente a dente. Ricordate che l’osso vicino al dente è un osso che non si muove mai tranne che per
patologia perché è un osso che fa parte del legamento parodontale .
L’osso attorno ad un impianto quando noi andiamo a collegare questo impianto si modifica con
riassorbimento verticale e orizzontale
Secondo voi la distanza minima tra dente e impianto quanto deve essere? 1. 5 mm( considerato che il
riassorbimento è di 1,4)perché nella peggiore delle ipotesi che si riassorbe 1,4 mm io ho 1,5 mm il picco mi
verra sempre mantenuto dal legamento parodontale del dente adiacente. Se io lo metto a mezzo
millimetro dal dente faccio un danno . se io vado anche ad una misura minima quel ½ millimetro mi è
sufficiente a mantenere quel legamento parodontale
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Quando ragiono tra due impianti devo ragionare molto peggio perché devo sommare 1,4 e 1.4 quinid quasi
3 mm, quindi mi devo aspettare che almeno 3 mm li posso perdere . quindi se io posso avere un impianto
abbastanza vicino ad un dente 2 impianti devono stare abbastanza lontani tra di loro almeno 3 mm o anche
più .