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Per introdurre la terapia è necessario tenere a mente ben chiara la patogenesi delle malattie, in
quanto dobbiamo conoscere i target su cui andare ad agire.
La patogenesi è autoimmune, vi sono auto-anticorpi circolanti il cui target si trova a livello del
desmosoma nel caso delle bollose intraepiteliali, dell’emidesmosoma nel caso delle bollose
subepiteliali.
In alcuni casi possiamo decidere di iniziare, in prima linea, in associazione alla terapia cortico-
steroidea, una terapia con un farmaco immunosoppressore (adiuvante di prima linea) a scelta
tra:
Azatioprina, Ciclofosfamide e Micofenolato.
A differenza degli altri farmaci, il Micofenolato in Italia è off-label per la terapia di pemfigo e
pemfigoide, per cui difficilmente viene prescritto.
L’uso di questa terapia d’associazione è sempre più accettato dalla comunità scientifica.
Differenza tra farmaco labeled e farmaco off-label: un farmaco è off-label quando nel suo
foglietto illustrativo non è presente l’indicazione d’uso per quella patologia per cui noi lo vogliamo
sfruttare.
Quindi se volessi usare il Micofenolato per trattare un paziente trapiantato renale posso farlo
perchè il foglietto illustrativo secondo regolazione dell’AIFA indica che il Micofenolato ha questa
indicazione terapeutica.
Se invece voglio usare il Micofenolato per trattare un paziente con pemfigo, ne farò un uso off-
label, il che ha particolari implicazioni: quando si usa un farmaco off-label il clinico si assume la
responsabilità del trattamento al 100%.
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In Italia non è vietato fare terapie off-label, ma le procedure sono un po’ complicate, perchè dovrò
giustificare l’uso dello stesso al comitato tecnico-scientifico del policlinico.
Tranne rare eccezioni, si cerca sempre di lavorare con farmaci labeled.
Il cortisone è stato usato per la prima volta nella terapia di una patologia autoimmune agli inizi
degli anni ’50 alla Mayo Clinic di Rochester (USA) da un team composto prevalentemente da
reumatologi e da un biologo: questo biologo scoprì in laboratorio che il cosiddetto ‘compound E’
aveva una spiccata azione anti-infiammatoria, ma non si capiva il perchè.
Si provò a somministrare (non c’erano i comitati etici di oggi) questo compound E ad una paziente
giovane con artrite reumatoide che era completamente allettata e che non riuscivano a trattare in
alcun modo: la paziente, dopo pochissimi giorni, si alzò in piedi e cominciò a camminare,
ottenendo una remissione clinica strabiliante.
Per questa scoperta Slocumb, Hench e Polley vinsero anche il Nobel.
Oggi conosciamo bene i meccanismi d’azione di questa molecola magica che ha rivoluzionato la
terapia di moltissime malattie, fra cui le bollose, abbattendone in maniera importante la mortalità,
che si è ridotta fino quasi ad annullarsi: prima dell’introduzione del cortisone si moriva per Pemfigo,
mentre dopo la sua introduzione è diventata una malattia ‘controllabile’.
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I cortisonici sono molecole che agiscono su quasi tutte le linee cellulari, agendo direttamente su
macrofagi, linfociti T, B ed NK, cellule dendritiche, ovvero tutto il compartimento immunitario.
La loro azione si compie attraverso due diversi pathway intracellulari:
1. Pathway genomico
Una volta penetrate all’interno delle cellule, si legano a recettori citoplasmatici che ne
consentono la penetrazione all’interno del nucleo e l’attivazione della trascrizione di numerosi
mRNA associati a mediatori anti-infiammatori e contemporaneamente al blocco della
trascrizione di mediatori pro-infiammatori.
2. Pathway non genomico
Agiscono a livello di recettori localizzati sulla membrana cellulare attivando la produzione di un
secondo messaggero come il cAMP; si tratta di una funzione secondaria rispetto a quella
genomica.
Il cortisonico spara a 360° su tutte le linee cellulari, ha un ampio spettro, per cui presenta numerosi
effetti terapeutici:
- immunosoppressivo
- anti-allergico
- anti-infiammatorio
- anti-dolorifico (reumatologi e ortopedici associano spesso cortisonici a immunosoppressori al
fine di ottenere un effetto antidolorifico, che rimane secondario agli effetti principali)
- riduzione della permeabilità capillare
Tuttavia, un farmaco poco specifico, con numerosi target cellulari su cui agire, avrà anche
numerosissimi effetti collaterali:
- infezioni (sistema immunitario)
- miositi e miopatie (tessuto muscolare)
- osteoporosi e necrosi asettica del femore (tessuto osseo)
- assottigliamento della cute
- iperglicemia, aumento di peso, ritenzione di fluidi, Cushing iatrogeno (metabolismo);
il paziente con Cushing si presenta con addome globoso, facies lunaris e arti assottigliati:
l’azione dei glucocorticoidi causa una redistribuzione del tessuto adiposo, che si concentra a
livello del viso e del tronco, determinando un assottigliamento degli arti
- insufficienza dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, disordini neuropsichiatrici (SNC)
- cataratta, glaucoma (occhio)
- ipertensione (sistema circolatorio, rene)
Sono nate quindi delle linee guida per i clinici che consigliano le precauzioni da mettere in atto per
cercare di minimizzare gli effetti collaterali, specialmente in pazienti con comorbidità.
Paziente con Pemfigo Volgare, Diabete di tipo 2 ed osteoporosi lieve: il dosaggio 0.5 mg/kg/die è
un dosaggio accettabile da questo paziente? Può andare a compromettere la situazione
metabolica o accelerare il metabolismo osseo?
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Paziente donna di 60 anni in fase post-menopausa con Pemfigo Volgare, con probabile
osteopenia/osteoporosi: il dosaggio standard è adeguato?
Per rispondere a queste domande sarà necessario fare un pannello di esami (indagini
strumentali e sierologiche) e delle consulenze che mi forniscano delle informazioni sulla
condizione metabolica al tempo 0, in modo tale da poter decidere in maniera cosciente se si tratta
di una terapia attuabile o no.
L’azione immunosoppressiva potente nella fase di attacco potrebbe anche andare a riaccendere e
riattivare delle infezioni quiescenti che neanche il paziente sa di avere: è necessario condurre un
pannello che comprenda i più comuni agenti infettivi (in relazione a incidenza e prevalenza) o che
comunque la comunità scientifica indica come necessari prima di indurre il paziente in uno stato di
immunosoppressione.
Sono compresi quindi test per: epatite B e C, HIV, Tubercolosi, Herpes Zoster, Strongiloidosi.
Per mettere in terapia un paziente è necessario avere quindi un ampio baseline di informazioni tra
test e consulenze, per cui risulta molto complicato trattarlo in una struttura non ospedaliera: sono
richieste consulenze non solo in caso di patologie preesistenti, come quella col diabetologo in caso
di diabete, ma anche consulenze di tipo preventivo, come per es. con l’oculista per valutare la
presenza di cataratte, eritemi congiuntivali (valutare se sono o non sono associati alla malattia) e
comunque chiedendo il parere ai vari specialisti se vi sono eventuali controindicazioni
all’introduzione di una terapia corticosteroidea ad alto dosaggio.
Protocollo terapeutico
Fase di attacco
- Prednisone 75-100 mg/die (corrispondono a 0.5-1.5 mg/kg/die in un paziente normopeso)
Si può associare uno tra:
- Azatioprina 50-100 mg/die (pemfigo)
- Ciclofosfamide 50-100 mg/die (pemfigoide)
Fase di mantenimento
- Riduzione costante e graduale (‘tapering’) del Prednisone di 5 mg ogni 2 giorni.
- Risciaqui con Clorexidina allo 0.12%.
- Nistatina o altri agenti anti-micotici topici/sistemici.
Clorexidina e Nistatina permettono di ridurre il rischio di sovrainfezioni delle lesioni da parte di
batteri e/o funghi, facilitando una rapida riepitelizzazione delle stesse.
Lesioni transitorie
Lesioni che guariscono entro una settimana (di solito pochi giorni); compaiono spesso durante la
fase di mantenimento in cui stiamo riducendo progressivamente la dose, il che indica come il
sistema immunitario si stia adattando a dosaggi sempre più bassi.
In questi casi possiamo aiutare il paziente introducendo una terapia con corticosteroidi orale
locoregionale, ovvero mediante:
- unguento al Clobetasolo (0.05%)
- colluttorio al Metilprednisolone (fiala da 2 g diluita in 500 cc di soluzione salina)
- infiltrazione intralesionale di Triamcinolone (10 mg / 0.25 mL per lesione)
Esistono numerosissime molecole che fanno parte della categoria dei corticosteroidi, e queste
differiscono tra loro in particolare in relazione alla loro potenza.
Queste molecole sono disponibili in varie formulazioni, come appunto colluttori, unguenti (più
densi), infiltrazioni intra-lesionali.
La scelta della formulazione si basa sulla clinica:
- paziente 1 con 15 lesioni bollose su palato duro, mucosa geniena, labbro superiore ed inferiore
- paziente 2 con molteplici lesioni bollose gengivali
- paziente 3 con 1-2 lesioni bollose ravvicinate nel fornice vestibolare inferiore
Al paziente 1 presriveremo un collutorio al Metilprednisolone, data l’ampia diffusione delle lesioni.
Al paziente 2 prescriveremo un unguento al Clobetasolo dato che le lesioni sono localizzate alla
regione gengivale, evitando così di estendere l’azione dei corticosteroidi a livello della restante
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mucosa sana; questo presidio topico è utilizzato anche per altre lesioni ulcerative o erosive del
cavo orale, tra cui lichen erosivo-ulcerativo e aftosi.
Al paziente 3 con lesione singola o al massimo due lesioni molto ravvicinate possiamo pensare
anche di effettuare un’infiltrazione intralesionale di Triamcinolone (che ha una potenza maggiore e
maggior assorbimento locale), oppure usiamo sempre l’unguento al Clobetasolo.
Effetto collaterale più comune in corso di terapia topica con farmaci cortico-steroidei: le sovra-
infezioni batteriche e micotiche.
Per prevenire le infezioni micotiche, locali oro-faringee ma anche diffuse (es. candidosi del tratto
gastro-esofageo ed intestinale), è presente nel protocollo terapeutico la Nistatina, riducendo il
rischio di insorgenza delle stesse.
Recidive o Relapses/Flares
Il paziente sviluppa almeno 3 lesioni, le quali non guariscono spontaneamente entro 1 settimana.
Quindi se il paziente ci informa dello sviluppo di nuove lesioni, la prima cosa da fare è stabilire se
si tratta di lesioni transitorie o di vere recidive: nel primo caso procediamo con terapia topica, nel
secondo caso invece è necessario rivalutare la terapia sistemica.
Tipologie di remissione
Un paziente può essere ‘on therapy’ oppure ‘off therapy’.
Per i pazienti on therapy distinguiamo:
- remissione completa —> assenza di nuove lesioni e guarigione delle precedenti anche ad un
dosaggio di terapia minimo (minimal therapy: dosaggio minimo raggiunto durante la fase di
mantenimento, ovvero <10 mg/die di prednisone con o senza terapia adiuvante a dosaggio
minimo)
- remissione parziale —> lesioni transient che guariscono entro 1 settimana, in minimal therapy
(compresa la terapia cortico-steroidea locale)
Per i pazienti off therapy distinguiamo:
- remissione completa —> paziente che ha sospeso da almeno 2 mesi la terapia sistemica e che
non presente alcuna nuova lesione (si parla di ‘paziente guarito clinicamente’: N.B. si tratta di
una terapia sintomatica e non eziologica, quindi in futuro vi potranno essere delle recidive)
- remissione parziale —> paziente che ha sospeso da almeno 2 mesi la terapia sistemica e che
presenta solo lesioni transient che guariscono entro 1 settimana
Ovviamente per definire un paziente guarito non ci possiamo basare esclusivamente sulla clinica,
ma è fondamentale che vi sia anche una remissione immunologica: in ognuna di queste 4 possibili
situazioni (paziente on oppure off therapy, con remissione completa o parziale) possiamo avere
ELISA positivi ed ELISA negativi.
Esistono casi di remissione clinica completa ma il paziente ha valori elevati di anti-Desmogleine,
così come vi sono casi di remissione clinica parziale (o raramente di pazienti con una fase attiva di
malattia) con anti-Desmogleine negativi.
E’ necessario quindi monitorare con test ELISA l’andamento immunologico della patologia e
rapportarlo alla situazione clinica: nel Pemfigo Volgare di solito (ma non sempre) la remissione
immunologica segue quella clinica.
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I meccanismi d’azione di questi farmaci/tecniche sono molto più selettivi, sembrano terapie
‘perfette’ con effetti collaterali minimi o quasi nulli rispetto all’ampio spettro dei cortisonici:
perchè li usiamo come seconda linea?
1. Si tratta di farmaci e tecniche relativamente ‘giovani’ e perciò non supportati da studi long-term
che ne validano e consolidano l’efficacia, anche perchè siamo nel campo delle malattie rare,
per le quali fare ricerca risulta spesso complesso a causa della ridotta numerosità campionaria.
2. Si tratta di farmaci e tecniche estremamente costosi, e in medicina dobbiamo valutare anche il
rapporto costo/efficacia: se con una terapia di prima linea riusciamo a trattare efficacemente il
70-80% dei pazienti, con 1/10 dei costi rispetto a queste nuove tecniche, perchè dovremmo
usare farmaci così costosi come i MAB in prima linea e gravare pesantemente sul SSN
pubblico? Nel caso la terapia di prima linea non vada a buon fine (20% dei pazienti) allora
possiamo introdurre queste terapie innovative di seconda linea.
A Boston, negli USA, pazienti ’ustionati vivi’ a causa delle lesioni bollose vengono mandati a
casa a morire senza trattamento perchè non hanno l’assicurazione sanitaria; dobbiamo
apprezzare e non gravare sul nostro SSN, che rimane il migliore al mondo, in quanto tutti
possono accedere gratuitamente alle cure, anche a terapie così costose come quelle di
seconda linea.
Non completamente supportata dalla letteratura è l’opzione di utilizzare direttamente terapie di
seconda linea in pazienti che presentano un fenotipo clinico particolarmente grave.
Altri farmaci indicati nella slide sulla second-line therapy:
- Ciclosfosfamide —> è un immunosoppressore generalmente utilizzato come adiuvante di prima
linea nella terapia gold standard dei pemfigoidi, al posto della Azatioprina (usata nel pemfigo)
- Dapsone —> non è in commercio in Italia; utilizziamo un suo analogo, la Sulfasalazina, solo in
casi selezionati, come adiuvante alla first line
- Metrotrexato —> in Italia è off-label per le malattie bollose
La plasmaferesi terapeutica è una tecnica che prevede l’uso di filtri particolari al fine di ripulire il
sangue da sostanze specifiche, nel nostro caso dagli auto-anticorpi patogeni.
Attraverso questo processo di filtrazione o centrifugazione si riesce a dividere le componenti
cellulari corpuscolate dal plasma.
I filtri specifici utilizzati sono diretti, nel caso del Pemfigo, contro le DSG 1 e 3, lasciando inalterato
il sangue del paziente.
Come abbiamo detto inizialmente, gli autoanticorpi patogeni costituiscono solo una parte del
meccanismo patogenetico della malattia, in cui hanno un ruolo anche il compartimento B e T, su
cui questa terapia non agisce. Si tratta quindi di una terapia che dovrebbe essere intesa come
‘complementare’ ad una terapia che sia in grado di agire più a monte sul meccanismo
patogenetico.
Questa tecnica, comunque, in Italia non è utilizzata: la scuola tedesca è stata la prima ad
indirizzare verso la produzione di questi filtri specifici per le desmogleine; in Italia non abbiamo
esperienza nè abbiamo centri trasfusionali dotati di questi filtri.
Immunoglobuline umane
Le immunoglobuline, prodotte dai linfociti B, costituiscono una parte importante delle proteine
sieriche (circa il 20-30%); sono formate da 2 catene leggere e 2 catene pesanti tenute insieme da
ponti disolufuro; le regioni variabili delle catene leggere e pesanti costituiscono i siti di legame degli
antigeni; la parte costante non partecipa al riconoscimento dell’antigene, ma interviene nella
funzione effettrice: stimola l’intervento di cellule del sistema immunitario.
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L’indicazione principe alla terapia con immunoglobuline sono le immunodeficienze, gruppo ampio
di condizioni patologiche, di solito pediatriche, in cui vi sono mutazioni che alterano componenti
importanti del sistema immunitario umorale, per cui vi è un deficit di immunoglobuline che può
essere compensato attraverso questi emoderivati.
Il professor Ahmed, indiano-americano, è stato uno dei primi fautori dell’introduzione delle
immunoglobuline umane nella terapia delle malattie bollose, avvenuta progressivamente negli
ultimi 20 anni.
Le immunoglobuline hanno almeno una trentina di meccanismi effettori che agiscono sui
meccanismi patogenetici delle malattie autoimmuni.
Nelle malattie bollose, qual è il meccanismo più importante?
Le immunoglobuline somministrate per via endovenosa vanno a spiazzare le immunoglobuline
patogene dal loro sito di legame con l’antigene, e le inducono inoltre all’eliminazione per via renale
(determinando una ‘plasmaferesi farmacologica’).
Per ottenere questo risultato, è necessario un dosaggio massivo, molto elevato, di
immunoglobuline: per fare un paragone, nelle immunodeficienze si utilizzano dosaggi di 400 mg/
kg, mentre nelle malattie bollose somministriamo 2-3 g/kg.
Il differente dosaggio ha un razionale basato sul meccanismo d’azione:
- nelle immunodeficienze le immunoglobuline hanno la funzione di terapia sostitutiva di rimpiazzo
- nelle malattie bollose le immunoglobuline, per ottenere l’effetto di plasmaferesi farmacologica,
devono essere a sufficienza per stimolare il rapido catabolismo degli anticorpi circolanti
Anticorpi monoclonali
Nascono per un uso in campo oncologico, poi la loro efficacia e potenza terapeutica è stata estesa
all’uso in campo immunologico, infiammatorio ed autoimmune.
La prima malattia autoimmune per la quale sono stati fatti studi riguardo l’uso di anticorpi
monoclonali è l’artrite reumatoide. Da quel momento sono stati fatti passi in avanti e sono stati
stilati protocolli che vengono oggi utilizzati anche nel campo delle malattie bollose.
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I primi anticorpi monoclonali erano anticorpi murini (derivati dai topi, hanno come suffisso OMAB),
sviluppati mediante la fusione di cellule mielomatose umane con linfociti B produttori di Ig derivanti
da topi immunizzati (tecnica dell’ibridoma). Questi anticorpi murini inducevano la formazione di
anticorpi umani anti-Ig murine: avevano una certa immunogenicità.
Per ridurre questa immunogenicità sono stati sviluppati in seguito:
- anticorpi chimerici —> sono in parte murini (regioni variabili) ed in parte umani (regioni costanti);
hanno come suffisso XIMAB
- anticorpi umanizzati —> sono quasi completamente umani, fatta eccezione per la parte che si
lega all’antigene bersaglio; hanno come suffisso ZUMAB
- anticorpi umani —> sono completamente di derivazione da cellule umane; hanno come suffisso
UMAB
Gli anticorpi monoclonali utilizzati nelle malattie bollose sono anticorpi anti-linfociti B CD20+.
Quasi tutti i linfociti B esprimono l’antigene di superficie CD20, un recettore di membrana che viene
espresso durante la fase di maturazione; fanno eccezione, all’interno del compartimento B, le
cellule staminali emopoietiche e le cellule pro-B, ed anche le plasmacellule differenziate Ig-
secernenti. La stragrande maggioranza dei linfociti B in corso di differenziazione è target della
terapia (circa l’80%), tuttavia residua una componente del compartimento B (circa il 20%) che
corrisponde praticamente alle plasmacellule Ig-secernenti differenziate, le quali non saranno
influenzate dalla terapia.
Questa è una delle cause che posso determinare il raro insuccesso terapeutico della terapia con
anticorpi monoclonali anti-CD20.
Il CD20, una volta legato dall’anticorpo specifico, non viene internalizzato (come di solito accade),
non circola nel sangue come antigene libero, per cui il legame CD20-MAB (antigene-anticorpo)
non va in competizione con altri anticorpi: è un meccanismo pulito, targeted, che agisce
specificamente sulla linea cellulare B, tenendo sempre in considerazione che riusciamo ad agire
solo sull’80% del meccanismo patogenetico.
Si tratta di farmaci prodotti in laboratorio derivanti da cloni di linfociti B che producono Ig dirette
contro lo stesso antigene, e per tale motivo sono molto meno costosi rispetto agli emoderivati (che
dipendono dalla presenza di donazioni di sangue).
Per questi motivi associati ai costi ed alle disponibilità, la nostra scuola ha switchato negli scorsi 20
anni dall’uso di terapia a base di Ig ad alto dosaggio prima verso la terapia mista con Ig e MAB,
fino ad arrivare alla monoterapia con MAB.
Lymphoma protocol
E’ il protocollo maggiormente utilizzato e consiste in una infusione EV da 375 mg/mq da ripetere a
distanza di una settimana, per un totale di 4 settimane, con dismissione seguente della terapia
steroidea in modo graduale a seconda della velocità di remissione dei sintomi.
N.B. Il dosaggio non è in mg/kg, ma in mg per metro quadro di superficie corporea (mq): la
superficie corporea (BSA: Body Surface Area) del paziente si calcola facilmente con dati come
peso e altezza; si moltiplica poi il valore di BSA per 375 mg.
Arthritis protocol
Prevede una infusione EV da 1000 mg (dosaggio fisso) da ripetere a distanza di 15 giorni (per un
totale di 2 infusioni), con dismissione seguente della terapia steroidea in modo graduale a seconda
della velocità di remissione dei sintomi.
Anche questo protocollo ha ottenuto ottimi risultati in relazione all’efficacia.
In caso di non-risposta o risposta parziale —> una infusione EV da 500 mg a distanza di 6 mesi
In caso di recidiva —> una infusione EV da 500 mg
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Cosa sono MABTHERA e TRUXIMA?
MABTHERA è il nome commerciale del Rituximab, mentre il TRUXIMA è un anticorpo monoclonale
anti-CD20 biosimilare al Rituximab.
Cos’è un biosimilare? Un farmaco biologico identico all’originator (ovvero il MABTHERA).
Il MABTHERA è stato brevettato dalla Roche (lo scopo del brevetto è favorire il guadagno
dell’azienda che ha prodotto per prima il farmaco, in modo tale da ammortizzare i costi che ha
dovuto sostenere nella sperimentazione), poi dopo circa 20 anni il brevetto è scaduto e sono
comparsi i biosimilari, molecole biologicamente identiche all’originator, altrettanto approvate
ovviamente dall’AIFA e altre organizzazioni.
Il costo dei biosimilari è più basso, per cui il TRUXIMA è rientrato nelle sperimentazioni cliniche per
la terapia del pemfigo: è opinione della prof (non ancora supportata dalla letteratura, ma in fase di
valutazione) che l’efficacia clinica del TRUXIMA sia leggermente inferiore rispetto a quella
dell’originator, sia in termini di remissione che in termini di % di effetti collaterali.
Valutare l’efficacia di queste terapie è molto complesso: per queste malattie è difficile creare pool
di pazienti omogenei, per non parlare del fatto che molti lavori hanno usato gruppi con pazienti con
pemfigo sia oro-faringeo (anti-DSG3) che mucocutaneo (anti-DSG1 e anti-DSG3).
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