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Il caso Leopardi

A scuola era una favoletta, a volte sopravvive


nonostante duecento anni di lettura biografica
e critica e a 40 anni da un libro fondamentale
nella storiografia letteraria leopardiana come
La protesta di Leopardi di Walter Binni1: è
l’associazione “gobba-malattia-pessimismo”,
Leopardi cantore del nulla, della negatività,
della cancellazione della speranza. Lo è stato,
sino agli esiti piú desolati; ma Leopardi è
anche il poeta che canta la giovinezza, il
“tempo giovanil”, “piú caro / che la fama e
l’allor, piú che la pura / luce del giorno”;2 della
rimembranza che “molce”3 il cuore; della
bellezza della natura; dei colori dei paesaggi e
del mistero della notte; delle voci udite da
lontano o riemerse dalla lontananza del tempo.
È il cantore di una sincerità di vita che mai,
dopo Dante e Petrarca, ha raggiunto quella
intensità; è il poeta della fratellanza della
“Ginestra”; l’alchimista della lingua, che gioca
1 WALTER BINNI, La protesta di Leopardi, Sansoni, Milano 1973.
2 Le ricordanze 44-46. Cfr. GIACOMO LEOPARDI, Canti, a cura di
Niccolò Gallo e Cesare Garboli, Einaudi, Torino 1962-1993, p. 179.
3 “molceva” è lo stupendo verbo di A Silvia 44: inteneriva,
illanguidiva. Cfr. GIACOMO LEOPARDI, Canti, cit., p. 173.

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dal greco e dal latino per dire le sue
intermittenze del cuore. È la voce di un amore
per la vita che raggiunge vette struggenti e di
una delusione sconsolata come i piú neri
abissi; è capace di contraddirsi nel giro di
pochi giorni, come testimoniano molti passaggi
delle lettere e dello Zibaldone. Non è un
ideologo, il suo è un “pensiero liquido”, un
“pensiero poetante”4. È un autore vivo e
dilaniante di un’attualità che brucia. Altro che
poeta triste perché gobbo quindi solo. In vita
ebbe invece un’infinità di ammiratori, nei suoi
viaggi a Bologna, Firenze, Pisa, fino ai suoi
ultimi giorni napoletani. Ecco perché la lettura
del bellissimo libro di Pietro Citati, Leopardi5,
oltre a regalare la gioia di una scrittura fluida,
chiara e musicale, ha il senso di un atto di
giustizia critica. Leopardi di Pietro Citati è un
libro innamorato. Alcuni recensori hanno
scritto che Citati, nel suo intrecciare biografia
e letteratura, nell’annodare trama e ordito del
labirinto di vita e scrittura, è “erede di Sainte-
Beuve”6 o “ultimo erede di Sainte-Beuve” per
“l’attenzione alla biografia [...] costante della
saggistica di Citati”7. Era opinione e metodo di
Sainte-Beuve che biografia e opera in uno
4 È il titolo di uno dei libri piú belli della critica leopardiana degli
ultimi decenni, Il pensiero poetante. Saggio su Leopardi di ANTONIO
PRETE, Feltrinelli, Milano 1980.
5 PIETRO CITATI, Leopardi, Mondadori, Milano 2010, 438 pagine.
6 MARIO ANDREA RIGONI, “Leopardi, il genio vince l’infermità”
in Corriere della Sera, 16 ottobre 2010.
7 RAOUL BRUNI, “Come un’opera buffa” in L’Indice, anno XXVIII
n. 5, maggio 2011.

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scrittore fossero intrecciate, respirassero l’una
con l’altra, l’opera germogliasse dalla vita. Ma
il Leopardi di Citati va oltre. Citati è il
personaggio che narra: da Goethe (1970-1990)
ad Alessandro (1974-2004), Vita breve di
Katherine Mansfield (1980-2001), Kafka (1987-
2007), Tolstoj (1983-1996), fino a libri
stupendi come La colomba pugnalata su Proust
(1995-2008), La morte della farfalla (2006), La
malattia dell’infinito (2008)8. Citati racconta
Leopardi con la confidenza di chi narra la vita
di un amico; è colloquiale nel tono e raffinato
nella scrittura; ma ogni aneddoto, ogni
riferimento, ogni sguardo sul Leopardi
fanciullo o adulto è documentato con rigore
storico e filologico e offerto al lettore con la
naturalezza di un compagno di viaggio. In
questo Citati è unico: in passato, una prosa
critica così ammaliante e scientificamente
nitida era in Giovanni Macchia, Mario Praz,
Roberto Longhi, maestri oggi inarrivabili.
Insieme alla biografia, ricostruita soprattutto
attraverso gli epistolari e lo Zibaldone, Citati
segue l’opera di Leopardi nella sua cronologia,
ricostruendo, con le parole rimaste nei
documenti, i suoi pensieri, perfino le sue
emozioni. Affascina, in Citati, la capacità di
descrizione da dentro, come se l’autore fosse lo
spettatore invisibile, l’angelo wendersiano delle
giornate di Leopardi e della mente del poeta.
La pagina è tessuta nei pensieri al loro
8 Le date si riferiscono alla prima edizione e alla ristampa Adelphi.

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sbocciare o al loro infrangersi come onde
contro altri pensieri in contraddizione; è fatta
di odori, luci, sapori, cieli e stanze, carta e
pietra. Perché la poesia è fatta di corpo.

Infanzia e fanciullezza, l’allegria


Uno dei meriti del libro di Citati è che
l’intreccio tra opera e biografia libera la figura
di Giacomo Leopardi da detriti e limo, non
concede sconti a nessuno (dal conte Monaldo
ad Adelaide Antici, il fratello Carlo e la sorella
Paolina, le tante figure – alcune mediocri – che
hanno sfiorato la vita del poeta), nemmeno a
Giacomo. Ma attraverso questo lavoro
minerario la grandezza del poeta di Recanati
ne esce più rilucente.
A parte i biografi, ovviamente, nessuno
immagina Giacomo come un bambino tutto
“allegrezza pazza”, bambino giocherellone, una
furia scatenata. “Giacomo Taldegardo
Francesco Salesio Saverio Pietro Leopardi
nacque a Recanati venerdí 29 giugno 1798”9.
Nei ritratti di Monaldo e Adelaide, o nei loro
disegni per il figlio, Giacomo è tutto altarini e
devozione, un futuro vescovo o papa, mentre
per i fratelli, soprattutto Carlo, Giacomo è
“gioia, furia, allegrezza pazza, al punto che se
non si fosse contenuto avrebbe saltato, gettato
seggiole in aria, fino a farsi male per

9 PIETRO CITATI, Leopardi, Mondadori, Milano 2010, p. 19. D’ora


in poi il libro sarà citato come PCL.

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allegria”10. Ma subito, per il giovane Giacomo,
si definisce un mondo: la biblioteca di Palazzo
Leopardi, raggrumata da Monaldo per il figlio
anche come nèmesi alla propria ignoranza, e
l’universo della natura, del paesaggio, del
clima, da cui sarebbe germogliata tutta l’opera
di Leopardi, a cominciare dalle tante
struggenti invocazioni all’infanzia e alla
fanciullezza, alle “rimembranze”, non i ricordi
ma la loro musica. E l’infinito
dell’immaginazione, nutrito dai classici greci e
latini e dalle moderne letture francesi come
Rousseau. “Fuori dalla biblioteca c’era
l’universo, e Leopardi avrebbe sempre
ricordato cosa aveva visto intorno a sé
nell’infanzia e nell’adolescenza. Niente, allora,
gli appariva indifferente o insensato: ogni cosa
aveva un senso; il tuono e il vento e il sole e gli
astri e gli animali e le piante. Tutto sembrava
volergli parlare: lui interrogava le immagini e
gli alberi e i fiori e le nuvole, abbracciava i
sassi e i legni [...] Ogni cosa era nuova e
meravigliosa: i colori delle cose, la luce, le
stelle, il fuoco, il volo degli insetti, il canto
degli uccelli, le acque chiare delle fonti; e si
muoveva, ondeggiava e fluttuava come fluttua
la romanzesca immaginazione infantile”11.
Scrive Citati: “[...] qualsiasi apparenza – il sole
e la luna e il tuono e il vento e il giorno e la
notte e l’anno e il tempo e le stagioni e le messi

10 PCL, p. 20.
11 Ivi, pp. 21-22

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– aveva una “sembianza” o una “similitudine
umana”. Poi, al di sopra di tutto, più in alto,
più in alto, la fantasia intendeva ‘un suono
così dolce che tale non s’ode in questo mondo’.
Quella musica avrebbe echeggiato sullo sfondo
di ogni poesia di Leopardi, sebbene egli non la
esprimesse mai con le parole”12. Nella lezione
di Montaigne (parzialmente) e di Rousseau, era
l’immaginazione a generare poesia: “Nello
Zibaldone, Leopardi aggiungeva che, per lui, il
mondo era doppio: da un lato vedeva con gli
occhi una torre o una campagna, sentiva con
gli orecchi il suono di una campana; mentre
con l’immaginazione vedeva un’altra torre,
un’altra campagna, e udiva un altro suono.
‘Trista quella vita (ed è pur tale la vita
comunemente) che non vede, non ode, non
sente se non che oggetti semplici, quelli soli di
cui gli occhi, gli orecchi e gli altri sentimenti
ricevono la sensazione’13. Nel Leopardi
bambino e adolescente c’era un miscuglio di
candore infantile, piacere del gioco, ma già
un’indole sensibilissima alla fantasticheria,
indole in lui sviluppatissima prima della
malattia, che avrebbe solo acuito, tra slanci
delusi, innamoramenti brucianti e il bruit
incessante della vita, la sua lontananza.

12 Ivi, p. 22.
13 Ivi, p. 23

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La malattia
No, non era bello Leopardi. E in quanto alla
sua famosa gobba, ne aveva due. Giacomo
Leopardi era alto 1,41, aveva grosse gambe,
due gobbe che i ragazzi di Recanati deridevano
(mentre a Napoli gliele toccavano, quelle
gobbe, e gli chiedevano i numeri del lotto, ché
le gobbe portano fortuna). Giacomo pensava di
essere responsabile, colpevole, della sua
bruttezza, del suo rachitismo, ma non era così.
Uno dei meriti della biografia di Citati è di
raccontare la malattia, anzi il sistema di
malattie14, di Leopardi con una precisione e
crudeltà clinica. Il critico cita una lettera del
fratello di Giacomo, Carlo, che raccontava di
trovare Giacomo di notte “in ginocchio davanti
al tavolino per poter scrivere fino all’ultimo
momento,mentre il piccolo lume si
spegneva”15. Ma “Leopardi non diventò gobbo a
causa del rachitismo. La sua malattia era
infinitamente più grave e complicata: la
tubercolosi ossea (o morbo di Pott), come per
primo suppose Giovanni Pascoli: una malattia
metamorfica, mimica, che assume tutti gli
aspetti e forma un sistema saldissimo; il primo
dei sistemi che distrussero la vita di Leopardi,
colpendolo nelle ‘apparenze’, che tanto amava.
In una data che non possiamo precisare, il suo
corpo cominciò a non crescere più: la statura
si fermò a 1 metro e 41 centimetri; la parte

14 Ivi, p. 82.
15 Ivi, p. 33.

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alta rimase esilissima; i femori e le gambe si
svilupparono, mentre due grosse gibbosità si
formarono sia nella parte anteriore sia in
quella posteriore del corpo”16. Ma la sua
malattia, annota Citati, divenne
“un’enciclopedia degli orrori”17: impotenza,
oftalmia, lacrimazione, stitichezza, disturbi
dell’apparato digerente e del basso ventre,
insufficienza respiratoria, reumi di testa, di
gola e di petto, emorragia al naso, asma,
idropisia, bronchite, dolori addominali,
gonfiore delle ginocchia e delle caviglie,
versamento pleurico, inattività ghiandolare,
acutissima sensazione di freddo d’inverno, per
via della debolezza cardiocircolatoria. “Nulla”,
aggiunge Citati, “della vita di Leopardi – quei
venti terribili anni - obbedì al caso, o all’estro
di qualche piccola, indifferente malattia. Tutto
era sistema. Nessun medico tentò un’analisi o
un rimedio qualsiasi”18. Aggiunge il biografo:
“La cosa più grave era che Leopardi si sentiva
colpevole della propria malattia. Se soffriva
indicibilmente, ogni giorno della sua vita, se gli
cresceva la gobba, se un liquido maligno gli
riempiva il torace, se gli occhi lacrimavano,
egli credeva che la causa fosse una sola: gli
‘studi matti e disperatissimi’ dell’adolescenza.
Non sapeva che non era colpevole di niente. La
colpa era soltanto della natura”19.
16 Ibid.
17 Ibid.
18 PCL, p. 34.
19 Ibid.

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Ma non è finita qui, perché Giacomo, “oltre
che dalla tubercolosi ossea, era torturato da
un altro sistema molto più misterioso: la
depressione psicotica”20: nelle lettere a Pietro
Giordani21 Leopardi scriveva di un’ “ostinata
nera orrenda barbara malinconia che mi lima
e mi divora”, di una “notte fittissima, e
orribile”. Citati, con un’unghiata critica
geniale, osserva che “Leopardi parlava
dell’esperienza depressiva come di un
pensiero”22. È perfino ovvio annotare che la
depressione come pensiero è uno dei cardini
della psichiatria di origine fenomenologica e
della follia come linguaggio che arriva agli anni
’60 di Laing e Cooper (e in mezzo c’è l’universo
della teoria e della clinica).
Giacomo Leopardi morìa 39 anni nel 1837.

La noia
Quasi un secolo e mezzo prima di Sartre,
Leopardi dedicò pagine mirabili alla noia – un
parallelo con le néant rivelerebbe aspetti
interessanti – qualcosa di più orribile del
dolore e della disperazione perché approda
all’atonia23. “Quanto più violento e terribile fu
il suo dolore e la sua disperazione ne’ primi
anni, e ne’ primi saggi ch’egli fece della vita”
che “l’uomo di sentimento” passa a una quiete
20 PCL, p. 35.
21 Cfr. nota p. 418.
22 PCL, p. 35.
23 PCL, pp. 40-43, e note pp. 418-419.

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e rassegnazione costante, a una disperazione
non sensibile. Ma in queste righe Leopardi
scrive uno degli omaggi più intensi alla poesia:
nell’insensibilità al dolore, annota il poeta di
Recanati, “l’uomo perde il sentimento e il dono
della poesia, non sente più né la natura né la
bellezza: la sua grande immaginazione diventa
fredda, e smarrisce persino l’angoscia per la
nullità delle cose”: non c’è poesia senza la
ribellione al dolore, quando la percezione della
bellezza si scontra con la consapevolezza della
sua fragilità. Il nulla di Leopardi, osserva
Citati, rinvia a Pascal. Aggiunge il critico
toscano: “La noia è una passione moderna,
perché è la fine delle passioni [...] non è altro
che il vuoto dell’anima [...] la noia è sterile: è
una nebbia che incombe e un’acqua limacciosa
che ci affoga”24. In Ad Angelo Mai Leopardi
scrive “nebbia di tedio”. “La noia è un
paradosso, una coincidenza di estremi: la
morte nella vita, la morte sensibile, il nulla
nell’esistenza; l’essere e il niente che diventano
la stessa cosa”. Più avanti, rileggendo quella
che Citati definisce “la più tremenda lettera
dell’epistolario”25, il tema della noia, della
vanità, appare in tutta la sua luce nera:
“...sono così spaventato della vanità di tutte le
cose, e della condizione degli uomini, morte
tutte le passioni, come sono spente nell’animo
mio, che me ne vo fuori di me, considerando

24 Il corsivo è nel testo.


25 PCL, p. 91.

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ch’è un niente anche la mia disperazione”26. È
la lettera a Pietro Giordani del 19 novembre
1819. Commenta Citati: “Mai, credo, Leopardi
arrivò più a questo estremo degli estremi, a
questo abisso degli abissi, oltre il quale la
mente non riesce a giungere”27. Ed eccolo il
nulla: “Tutto gli era quasi indifferente. Non
aveva più speranze di felicità né per sé né per
gli altri: non aveva illusioni né passioni; non
pensava di poter fare grandi cose nel mondo.
[...] Così Leopardi si adattò a vivere e a
tollerare il tempo e gli anni. Aveva trovato la
calma: una specie di ‘quiete dello
spossamento’; o una ‘disperazione placida,
tranquilla, rassegnata’, che fluiva lentamente
dentro di lui”28. In un’altra lettera a Giordani
(26 ottobre 1821), Giacomo delineerà questo
ritratto di se stesso: “Non più giovane, non più
renitente alla fortuna [...] escluso dalla
speranza e dal timore, escluso dai minimi e
fuggitivi piaceri che tutti conoscono [...]
essendo stanco di far la guerra all’invincibile,
tengo il riposo in luogo della felicità, mi sono
coll’uso accomodato alla noia, nel che mi
credeva incapace d’assuefazione, e ho quasi
finito di patire”29. È inevitabile pensare, oltre
all’esistenzialismo francese, a Kafka, a
Beckett, agli autori della sottrazione del senso
e della cancellazione della forma come ordine:
26 Ivi, pp. 91-92.
27 Ivi, p. 92.
28 Ivi, p. 94.
29 Ibid., il corsivo è mio.

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nei primi decenni dell’Ottocento Leopardi
aveva già i semi del pensiero novecentesco. Ma
c’è di più: nel capitolo “La mente di Leopardi”,
Citati affronta il tema dell’esclusione e del
disprezzo, altra gemma nera della filosofia,
letteratura (e cinema, naturalmente, la nuova
arte) del Novecento. “Il suo spirito era
assuefatto da lunghissimo tempo alla
solitudine e al silenzio”30, cosa che nella
società degli uomini porta all’esclusione. “Alla
propria assoluta, innocente e colpevole,
esclusione, Leopardi dedicò, a distanza di sette
anni, due capolavori: Ultimo canto di Saffo e Il
passero solitario”31. Citati propone una pagina
drammatica e lancinante di Leopardi: “L’uomo
d’immaginazione di sentimento e di
entusiasmo, privo della bellezza del corpo, è
verso la natura appresso a poco quello ch’è
verso l’amata un amante ardentissimo e
sincerissimo, non corrisposto nell’amore. Egli
si slancia fervidamente verso la natura, ne
sente profondissimamente tutta la forza, tutto
l’incanto, tutte le attrattive, tutta la bellezza,
l’ama con ogni trasporto, ma quasi che egli
non fosse punto corrisposto, sente che egli
non è partecipe di questo bello che ama ed
ammira, si vede fuor dalla sfera della bellezza,
come l’amante escluso dal cuore, dalle
tenerezze, dalle compagnie dell’amata ... Egli
insomma si vede e conosce escluso senza

30 PCL, p. 44.
31 Ibid.

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speranza”32. “In questa esclusione c’è una
colpa. Nelle due poesie la risposta è diversa. In
Ultimo canto di Saffo, la poetessa si chiede se
abbia peccato prima della nascita, in un eone
sconosciuto: o da bambina, quando la vita
ignora cosa sia il male. Ma evita di rispondere.
Sostiene che le sue parole sono incaute: non è
possibile accusare il fato o gli dèi; l’unica cosa
certa è il mistero degli eventi fissati dal
destino. Nel Passero solitario, Leopardi
confessa la propria colpa. Il poeta-passero non
condivide la gioia, il volo, l’amore, il canto, il
divertimento della vita, come gli altri passeri.
Un tempo, ha rifiutato la giovinezza e la gioia.
Ora si pente e, sconsolato, si volge indietro,
verso il tempo perduto.
Questa esclusione dalla natura e dal mondo è
una persecuzione. Come Leopardi scrisse a
Pietro Brighenti il 21 aprile 1820, si era
accorto ‘d’esser nato colla sacra e indelebile
maledizione del destino’. Il destino aveva molti
nomi: Dio, gli dèi, il fato, la fortuna, la
natura”33. Ma l’esclusione di “questo maledetto
dagli dèi”34 è più profonda di un’intonazione di
carattere o di un disegno del fato. Leopardi “si
rendeva conto che la società [...] non lo amava:
sentiva in lui qualcosa di ostile, di avverso, di
refrattario. [...] L’uomo non era fatto per la
società, come oggi la conosciamo. Essa è

32 PCL, p. 45.
33 Ibid.
34 PCL, p. 46.

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inconciliabile con la natura umana. Se
vogliamo entrare nella società, dobbiamo
spogliarci delle nostre qualità essenziali e
ingenite: libertà, indipendenza, uguglianza.
Quando era afflitto, o oppresso dalla
malinconia o dalla sventura, non tollerava ‘il
tuono della frivolezza e della dissipazione’, o
l’aspetto della ‘gioia insulsa’, che il mondo
emana come un cattivo profumo”35. Questi
accenti leopardiani andrebbero letti accanto
alle pagine pasoliniane sull’omologazione;
come il Leopardi del destino e dell’esclusione
ha un fratello, storico e metafisico, nel Pavese
dei Dialoghi con Leucò e del Mestiere di vivere36.
Pietro Citati ci soccorre anche nel leggere il
genio di Recanati come un preludio della
grande letteratura novecentesca. Se “per
Leopardi, leggere era già scrivere, e scrivere
era una forma di lettura”37 e “per capire un
testo bisogna diventare quel testo, pensando
con la stessa profondità dell’autore” è chiaro
che il testo non ha più un autore, sia Omero,
Virgilio o Leopardi38, così “lo Zibaldone era lì,
sotto i suoi occhi, come un’immensa e
mostruosa rovina, a dimostrargli quale forza di
dissoluzione lo possedesse. Senza saperlo,
Leopardi parlava di Flaubert, di Kafka, di

35 Ivi, p. 47. Il corsivo è nel testo.


36 Una lettura intrecciata di Leucò e delle Operette morali sarebbe
fertile di paralleli e confermerebbe, ancora, quanto Leopardi abbia
anticipato vari aspetti del Novecento.
37 PCL, p. 57.
38 Ivi, p. 58. Qui Citati rivela una sorta di autopoetica.

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Musil, di Gadda e di molti scrittori del
ventesimo secolo, divorati dallo spirito di
incompiutezza e dallo spirito di infinito”39.

La natura.
La grandezza della poesia di Leopardi - la sua
unicità nella letteratura italiana moderna -
può essere contemplata in alcune parole
fondamentali della sua poetica: natura,
infanzia, fanciullezza, rimembranza. Se
all’amore - Giacomo s’innamorò più volte -
Citati dedica pagine delicate, rilevando tra
l’altro il ruolo di un testo come la Nouvelle
Héloïse di Rousseau, “fuoco irradiante della
letteratura europea del diciottesimo e del
diciannovesimo secolo”40, presente nella
biblioteca di Monaldo, tra pagina letteraria e
tressaillement41, è naturalmente il tema della

39 Ivi, p. 59. Voglio citare la bellissima p. 60, dove Citati vede in


Leopardi anche un raffinato e “poetico” teorico della critica letteraria: “Il
lettore-scrittore era anche un critico letterario: o, almeno, un teorico della
critica letteraria. Leopardi aveva una grande diffidenza per i critici che oggi
potremmo dire ‘ideologici’: per gli ‘uomini naturalmente tardi e freddi di
cuore e d’immaginazione’, sebbene dotati di intelligenza e di cultura. Il vero
critico condivideva la pieghevolezza di Leopardi: aveva l’animo aperto,
mobile, caldo, vivace: era capace di immedesimarsi e ‘mettersi nei panni’
dello scrittore; la sua fantasia prendeva subito la forma che lo scrittore gli
suggeriva, seguendo ogni minimo impulso del testo. Possedeva un
fortissimo senso pittorico e musicale: sentiva vivamente ‘ogni leggero
tocco’ e, come la corda di una cetra, risuonava alle minime percosse della
mano. Infine, aveva la scienza del cuore: condivideva tutti i sentimenti, le
passioni, i fenomeni; e possedeva il ‘tatto fino e profondo’ nelle cose della
natura”.
40 Ivi, p. 128.
41 Cfr. le pp. 128-141. Il tressaillement, fondamentale nella poetica

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natura uno dei fulcri - intrecciato con gli altri,
ma tutta l’opera di Leopardi è un fuoco vivo di
sovrimpressioni, per usare un titolo
zanzottiano - della filosofia, poesia e teoria
critica del poeta marchigiano. All’inizio del
capitolo VIII, Citati fa un po’ di cronologia,
utile anche a capire il metodo leopardiano:
“Leopardi cominciò lo Zibaldone nel luglio o
agosto 1817: scrisse le Memorie del primo
amore nel dicembre 1817: il Discorso di un
italiano intorno alla poesia romantica tra il
marzo e il dicembre 1818: le canzoni All’Italia e
Sopra il monumento di Dante nel settembre-
ottobre 1818: la Vita abbozzata di Silvio Sarno
tra il marzo e il maggio 1819; L’infinito, Alla
luna e Odi, Melisso nel 1819, non sappiamo in
quale mese. Tra il primo e l’ultimo testo
corrono due anni o poco più di due anni, che
coincidono con una fase gravissima della
malattia di Leopardi (la quasi cecità) e il
disperato tentativo di fuga”42. In quegli anni la
riflessione sulla natura, l’infanzia, l’indefinito o
“vago”, parola amatissima da Leopardi, tra
letteratura antica e ricordanza, prende forma
sino a costituire il nodo centrale e
modernissimo della sua riflessione. Annota
bene Citati: “Come la natura, il poeta antico
lascia moltissimo alla fantasia e al cuore dei

leopardiana, è spiegato da Citati così: “L’emozione, l’ondeggiamento e


confusione di pensieri e sentimenti tanto più indistinti e indefinibili quanto
più vivi; lo stesso ondeggiamento che fa nascere in noi la poesia” (p. 134).
42 PCL, p. 142.

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suoi lettori”43. “La natura antica era l’infanzia:
l’infanzia di allora e di sempre. Tutto
l’universo, per la fantasia dei bambini, è
umanizzato. Nell’infanzia, il tuono, il vento, il
sole, gli astri e gli animali sono amici o nemici:
ogni oggetto ci accenna e ci parla [...] Per
questo aspetto, il Discorso è un testo
straordinario, dove la strada verso il primitivo
e la fanciullezza è ancora completamente
aperta”44. Leggiamo con attenzione questi
passaggi perché qui Leopardi arriva a definire
un catalogo dei suoni e del vedere dove
convivono, come fossero lo stesso soggetto, la
poesia come corpo delle cose e l’indefinito, che
troverà poi suggello in uno dei capolavori della
lirica moderna, L’infinito, fino a divenire, negli
ultimi anni, teoria della poesia. Scrive Citati:
“Il culmine dell’infanzia è il suono”45. “Esiste
qualcosa al di sopra della poesia: il suono, il
suono materiale e casuale, quando non è stato
ancora armonizzato, melodizzato e mediato
dalle mani degli uomini. Allora esso non imita
il sentimento della natura, dove è determinato,
ma lo trova in sé stesso, nella propria oscura
profondità. Lì giacciono tutti i sentimenti:
anche quelli vaghi e infiniti; e le sensazioni di
cui parla Leopardi – la dolcezza celestiale, il
principio del mondo”46. Ed ecco, in Leopardi –
e poi in Pascoli, tra sinestesia, onomatopea e,
43 Ivi, p. 144.
44 Ivi, p. 145-146.
45 Ivi, p. 146.
46 Ivi, pp. 146-147

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anche in lui, vaghezza dell’infanzia – le voci
delle lontananze, siano fisiche (il canto degli
uccelli, o canti solitari, melodie di ragazze
come Silvia, rintocchi di campane, suoni
portati dal vento) siano misteriosi echi della
memoria. È il preludio all’Infinito.

L’infinito vuoto.
È uno dei capitoli piú belli del libro di Citati. Il
critico cita Les rêveries du promeneur solitaire
di Rousseau, al soggiorno (1765) nell’isola di
Saint-Pierre, lago di Bienne, Svizzera. Un
luogo da idillio: “Le rive erano più selvagge e
romantiche di quelle del lago di Ginevra,
perché le rocce e i boschi costeggiavano
l’acqua da più vicino. C’erano una sola casa,
grande e comoda: campi, vigne, boschi,
frutteti, pascoli ombreggiati da arboscelli di
ogni specie, e un’alta terrazza con due file
d’alberi. Il silenzio era spezzato soltanto dal
grido delle aquile, dal canto interrotto di
qualche uccello e dallo scorrere dei torrenti”47.
Ricordando quel soggiorno, Rousseau iniziò a
scrivere Les rêveries... nel 1776: “Sulle rive del
lago di Bienne, Rousseau non aveva bisogno di
ricordare il passato né di anticipare il futuro:
non voleva uscire dal tempo per entrare
nell’eterno, ma abitare il presente, e togliergli
ogni traccia di durata e di successione. Era un
tempo immobile ed estatico, che aveva perduto
47 Ivi, p. 171.

ROBERTO LAMANTEA – IL CASO LEOPARDI | 18


ogni odore di tempo, senza sentimenti di
privazione né di gioia né di piacere né di
dolore. Restava un’unica sensazione: quella
dell’esistenza”. Queste “pagine memorabili”
sono “una specie di nuda mistica della vita”48.
Rousseau parla del “paese delle chimere”
(lettera del 26 gennaio 1762). Il testo arriva a
Giacomo attraverso una lettera del fratello
Carlo (12 dicembre 1822) che l’aveva letto in
due libretti di Pensées; Giacomo lo copia nello
Zibaldone il 7 maggio 1829. Citati analizza così
quel pensiero: “Anche se tutti i suoi sogni
fossero divenuti reali, non gli sarebbero
bastati: avrebbe immaginato, sognato,
desiderato ancora. Trovava in sé un vuoto
inesplicabile che nulla poteva riempire: un
certo slancio del cuore verso un’altra specie di
gioia, di cui non aveva idea e di cui sentiva il
bisogno”49.
Il capitolo sull’Infinito ha pagine memorabili
perché – parlando dell’Idillio del 181950 – Citati
dipinge un affresco della poesia moderna e
contemporanea, di teoria della poesia, dicendo
con esemplare chiarezza (e anche con
emozione) perché Leopardi è l’unico poeta
europeo dell’Ottocento italiano. L’infinito non è
la poesia della fantasticheria, annota il critico:
“in quel momento egli [Leopardi] non vuole
48 Ivi, p. 173.
49 Ibid.
50 Del 1819 è la composizione recanatese, molte le varianti fino
all’edizione bolognese del ’26 e le annotazioni nello Zibaldone sul tema
dell’infinito.

ROBERTO LAMANTEA – IL CASO LEOPARDI | 19


badare agli spettacoli dell’indefinito: con una
volontà ascetica, si proibisce qualsiasi
fantasticheria. [...] Egli guarda con occhi vuoti
e ciechi, con occhi distratti e che non vedono,
per accogliere la pura visione interna”51; Citati
sottolinea il valore del latinismo mi fingo:
“plasmare, dar forma, creare, dare origine,
modellare. Significa probabilmente anche
conoscere”52. Nel gennaio 182153 Leopardi
“aggiunse che né la nostra facoltà conoscitiva
né quella amorosa né quella immaginativa
sono capaci ‘dell’infinito, o di concepire
infinitamente’: dell’infinito, noi riusciamo a
possedere le apparenze, mai la sostanza. Noi
siamo capaci soltanto dell’indefinito, e di
concepire indefinitamente. [...] Quel tentativo,
che Leopardi fece guardando con occhi vuoti e
ciechi, è il disperato azzardo, la prova suprema
di pensare qualcosa che, a rigore, è quasi
impensabile. [...] Per cogliere una goccia pura
di infinito [...] deve immaginarlo vuoto,
immobile, sovranamente silenzioso. C’è
qualcosa di tremendo in questo tentativo,
come se uno di noi cercasse di immaginare Dio
al di fuori di ogni parola, di ogni tempo, di ogni
eternità, di ogni numero: un punto fermo e
invisibile nel cielo”.54 “I timori di Leopardi”,

51 PCL, p. 176.
52 Ibid. Corsivi nel testo.
53 Cfr. nota p. 426: Zibaldone 472.
54 PCL, p. 177. Di seguito Citati rinvia al famosissimo pensiero di
Pascal tradotto da Foscolo nell’Ortis sul supremo smarrimento davanti agli
“spaventosi spazi dell’universo che mi rinchiudono”, p. 177, nota p. 426: è

ROBERTO LAMANTEA – IL CASO LEOPARDI | 20


commenta Citati, “non assalgono né l’io, né il
pensiero, ma il cuore, la parte più fragile del
suo essere: ‘ove per poco Il cor non si spaura’
(vv. 7-8). Egli è abituato all’assenza di Dio”55.
Ed ecco tornare il tema della natura,
analizzato da Citati in pagine illuminate su
questo idillio leopardiano, e con la natura – il
vento, la siepe – il tema dell’indefinito: “Con il
vento risorge il limite, il ‘qui’, il ‘questo’, che
Leopardi aveva abolito col pensiero. [...]
Leopardi amava i suoni vaghi: i canti uditi da
lontano o che vanno a poco a poco
allontanandosi; o lo stormire del vento tra gli
alberi di una foresta. Essi erano per lui la voce
dell’indefinito, che aveva allontanato all’inizio
della poesia e che ora tornava ad assalirlo con
la sua dolcezza”.56
Seguono pagine assolutamente mirabili, tra le
vette della critica leopardiana, che, trattando
dell’Infinito, entrano nel cuore del pensiero
poetante del grande recanatese e di ogni
concezione lirica moderna nel respiro europeo
della parola.57 “L’immensità-mare, nella quale
il pensiero 683, p. 540 nell’edizione a cura di Carlo Carena, Einaudi, Torino
2004.
55 Ivi, p. 178.
56 Ivi, p. 179.
57 Leopardi è un caso unico nella letteratura italiana dell’Ottocento,
l’unico “europeo” in Italia, nessun altro può essere accostato a Hölderlin. La
tradizione lirica in Italia, anche in tutto il Novecento se si eccettuano il
Pascoli più sperimentale e il D’Annunzio più intimo, il primo Montale, poi
solo Zanzotto, non ha la profondità e la vertigine enigmatica di molta
letteratura tedesca e francese; anzi, oggi tende – sostenuta in questo da
un’incomprensibile politica editoriale – alla pagina piatta, grigia, a un
presunto canto del quotidiano e dell’antilirico che proclama l’ironia come

ROBERTO LAMANTEA – IL CASO LEOPARDI | 21


egli annega e naufraga, è l’ ‘indefinito’, oltre il
quale l’uomo non può giungere. O un infinito
impuro, mescolato al tempo, al ‘qui’, al
presente. Tutta la poesia è un gioco di
corrispondenze e di contrapposizioni. All’inizio,
c’è il regno del questo (quest’ermo colle, questa
siepe) – il luogo del qui e del limite; e negli
ultimi tre versi ci sono altri due questo:
quest’immensità, questo mare, che sono al
contrario il luogo dell’illimitatezza e
dell’indefinito. I due opposti vengono uniti
sotto il segno dello stesso aggettivo
determinativo. Nei primi versi, l’io (v. 7) – la
totalità della persona, che comprende in sé il
‘pensiero’ e il ‘cuore’ – finge, crea nel pensiero
gli interminati spazi, i sovrumani silenzi e la
profondissima quiete. Negli ultimi versi c’è
un’analoga prossimità: il pensiero ‘annega’
nell’immensità; e il naufragio è dolce all’io che
appare nell’ultimo verso. Questi due aspetti
della persona – io e pensiero – sono entrambi
presenti nei momenti estremi, e supremi, della
vicenda intellettuale di Leopardi”.58 Nella
stessa pagina, Citati offre un’annotazione
geniale: “Per la prima e l’ultima volta nei Canti,
Leopardi usa i verbi s’annega e naufragar. In
luoghi simili dello Zibaldone aveva impiegato il
verbo perdersi: ‘perde quasi se stesso nel
pensiero della immensità delle cose’; ‘un tempo
indeterminato, dove l’anima si perde’.

una bandiera senza averne la più lontana traccia.


58 PCL, p. 181. Corsivi nel testo.

ROBERTO LAMANTEA – IL CASO LEOPARDI | 22


Annegare, naufragio, perdersi, insieme a
immensità, mare, annullarsi, dissolversi,
fondersi, sono parole tipiche del linguaggio
mistico cristiano e islamico, e di quella
contraffazione del linguaggio mistico
(accompagnato da ‘estasi’ e ‘rapimento’) che è
la scrittura di Rousseau. [...] Ma quella di
Leopardi non è una mistica, o è una mistica
dove l’oggetto, invece di Dio, è la rêverie, la vita
interiore dell’individuo”.59 “La poesia, che
aveva cominciato orgogliosamente con la
creazione nel pensiero (v. 7) di un infinito
mentale, si conclude con il naufragio del
pensiero (v. 14) nel mare vago e ipnotico delle
associazioni”.60
Sempre sull’infinito “vuoto”, Leopardi riflette
nello Zibaldone, il 2 maggio 1826, sette anni
dopo la poesia: soltanto quello che non esiste,
la negazione dell’essere, il niente, il nulla è
“senza limiti”, ed è dunque infinito.61 Mirabili,
infine, le pagine conclusive del capitolo
sull’Infinito, dove Citati evidenzia come
Leopardi stilasse un catalogo del vedere e dei

59 Ibid.
60 Ivi, p. 182.
61 “Non solo la facoltà conoscitiva, o quella di amare, ma neanche
l’immaginativa è capace dell’infinito, o di concepire infinitamente, ma solo
dell’indefinito, e di concepire indefinitamente. [...] ...nelle immaginazioni le
più vaghe e indefinite, e quindi le più sublimi e dilettevoli, l’anima sente
espressamente una certa angustia, una certa difficoltà, un certo desiderio
insufficiente, un’impotenza decisa di abbracciar tutta la misura di quella sua
immaginazione, o concezione o idea”. Zibaldone 472-473, in Zibaldone di
pensieri, edizione critica e annotata a cura di Giuseppe Pacella, Garzanti,
Milano 1991, volume primo, p. 345.

ROBERTO LAMANTEA – IL CASO LEOPARDI | 23


suoni. Le sensazioni indefinite Leopardi le
trasforma “in archetipi, o in oggetti circondati
da una specie di aura o di venerazione. La luce
o l’ombra, o il canto possono presentarsi
soltanto in alcuni modi eletti. Infine, trasforma
il catalogo in una retorica: quegli oggetti della
vita, quei piaceri dell’esistenza che la natura ci
concede, sono le immagini che dovranno
comporre e costruire i Canti”.62
Primo archetipo, il vedere: “Le sensazioni
indefinite che Leopardi sceglie nel vasto
mondo del possibile comprendono una
campagna ‘arditamente declive’, in modo che
la vista non giunga in fondo alla valle: o un
viale di cui non arriviamo a scorgere la fine: o
una torre che pare innalzarsi sola
sull’orizzonte: o il cielo contemplato attraverso
una finestra o una porta: o la luce del sole e
della luna veduta da un luogo dove essi non si
vedono e non si scopre la sorgente di luce: o la
luce riflessa: o il penetrare della luce in un
luogo dove non si distingua, come attraverso
un canneto, una selva, o i balconi socchiusi: o
la luce veduta in un andito, o in una loggia: o
la luce confusa con le ombre, come sotto un
portico, o fra le rupi e i burroni di una valle, o
sui colli scorti dalla parte dell’ombra: o la luce
veduta nelle città, frastagliata dalle ombre,
dove lo scuro contrasta col chiaro: o la luce
che degrada a poco a poco, come sui tetti: o la
vastità del sole o della luna in una campagna
62 PCL, p. 184.

ROBERTO LAMANTEA – IL CASO LEOPARDI | 24


aperta: o il cielo puro o pieno di piccole nuvole:
o un salone ampio e disteso di cui scorgiamo
appena i muri estremi; o l’interno delle stanze
guardate dalle strade o attraverso le finestre
aperte”63: esempio, questa pagina di Citati, di
grande prosa, un elenco di amori, di quelle
cose di cui la letteratura di Leopardi è ricca, a
rivelare un immenso amore-piacere per la vita.
Secondo archetipo: l’udire: “...un canto udito
da lontano, o che pare lontano senza esserlo, o
che si vada a poco a poco allontanando, o che
l’orecchio perde nella vastità degli spazi: o un
canto udito in modo che non si vede il luogo
da cui parte: un canto che risuona più volte in
una stanza, dove non siamo: o un canto di
agricoltori invisibili: o un suono che si diffonde
largamente e vastamente, specie se non se ne
vede la causa: o il fragore del tuono in aperta
campagna: o lo stormire del vento quando
freme confusamente in una foresta o è udito
da lontano o dentro una città, senza che si
veda l’origine: o l’eco nell’oscurità: o la
velocità, o l’antico, o la molteplicità delle
sensazioni: o l’orologio della torre sentito dal
letto di una camera con le persiane chiuse,
mentre stridono le banderuole; o il canto
notturno di un contadino quando è finita la
festa”.64
Ed ecco l’unghiata del critico-scrittore: “Queste
situazioni sono simili: troviamo sempre la

63 Ibid.
64 Ivi, pp. 184-185.

ROBERTO LAMANTEA – IL CASO LEOPARDI | 25


distanza, lo scorcio, il contrasto, l’indistinto, il
riflesso [...] Le sensazioni ondeggiano davanti
agli occhi del lettore e del poeta. Dappertutto
aleggia l’invisibile e l’incomprensibile: tutto
sembra nato a caso, liquido e fluido come le
onde del mare, o vaporoso come una nuvola.
[...] Come diceva la Staël a proposito della
lingua tedesca, molte immagini si celano in
una sola parola: attorno a ogni parola si
muovono nubi e forme, che risvegliano una
folla di ricordi. C’è un tressaillement, una
confusione di pensieri e di sentimenti, tanto
piú indistinti e indefiniti quanto più vivi, ora
materiali ora spirituali, come accade
nell’esperienza amorosa”. 65

È la ricordanza a comporre poesia: “Dal ritorno


e dal rimbalzo di un’ ‘immagine antica’ ha
inizio la poesia: ‘Così che la sensazione
presente non deriva immediatamente dalle
cose, non è un’immagine degli oggetti, ma
della immagine fanciullesca; una ricordanza,
una ripetizione, una ripercussione o riflesso
della immagine antica”.66
65 Ivi, p. 185.Per i rinvii ai passi dello Zibaldone cfr. nota p. 427.
66 ANTONIO PRETE, Il pensiero poetante, cit., p. 50. Sul
raffinatissimo gioco presenza/assenza in Leopardi, nel capitolo dedicato
all’Infinito nel suo saggio (pp. 48-62), Prete legge l’idillio leopardiano alla
luce di Freud, Lacan, Bachelard, e annota: “La siepe leopardiana, fermata in
molti commenti e nell’immaginario vulgato come segno del paesaggio
leopardiano, è sintomo dell’assenza, dice per quel che non dice, è garanzia
d’un rapporto duraturo (sempre caro) non perché rinvia ad altro, ma perché
esclude l’altro, pronuncia la differenza. [...] Nell’universo della esclusione si
delinea l’avventura del pensiero: ciò che è escluso diventa l’oggetto della
vera appropriazione. Nella differenza comincia l’avventura del linguaggio.
[...] Il limite, sintomo dell’assenza, è condizione perché l’assenza si

ROBERTO LAMANTEA – IL CASO LEOPARDI | 26


Leopardi romantico?
Nel libro Leopardi antiromantico e altri saggi sui
“Canti”67, Pier Vincenzo Mengaldo dimostra in
modo esemplare l’infondatezza filosofica e
stilistica dell’assunto che vorrebbe Leopardi
come il maggiore poeta romantico della
letteratura italiana. Mengaldo va anche piú in
là, e sottolinea con ironia, riprendendo
Baldacci, come l’Italia una letteratura
romantica non l’abbia proprio avuta, come
invece l’Europa tra Settecento e Ottocento,
Germania e Inghilterra soprattutto, la Francia
fino al simbolismo e Baudelaire. È una lettura
utile, a questo punto del voyage nel libro di
Citati, con cui – senza citarlo – Mengaldo
concorda: “Lo sciogliersi ad ogni riga del
pensiero poetico anche il più aguzzo in canto o
in musica è appunto ciò che fa di Leopardi un
poeta unico, non solo da noi”.68 Perché

trasformi un una presenza simbolica, e si popoli di forme, di evocazioni, di


memoria. Ed è sintomo del desiderio d’infinito, sintomo della sua non
colmabilità; non limite al desiderio, ma sintomo del suo sconfinamento,
della sua illimitatezza. Il leopardiano ‘desiderio illimitato’ paradossalmente
è rappresentato sulla scena da un limite, che si presenta come caro alla
memoria” (pp. 51-52). Più avanti Prete sottolinea; “...sulla soglia dove
l’interrogazione non ha risposte, dove il desiderio sperimenta l’incolmabilità
e il perpetuo rinvio di immagini desideranti, l’abbandono del pensiero,
l’abbandono del rapporto di possesso col pensiero (‘il pensier mio’),
permette di attingere quel non-sapere che è la radice del desiderio. Permette
di riandare a quell’ ‘ignoranza’ dei fanciulli da cui partono le immagini che
fanno della vita una sopravvivenza, la quale può tornare ad essere vita nei
momenti in cui quelle immagini si ripetono. La coincidenza di ignoranza del
fanciullo e di sapienza dell’antico è la terra della poesia” (pp. 59-60).
67 PIER VINCENZO MENGALDO, Leopardi antiromantico e altri
saggi sui “Canti”, Il Mulino, Bologna 2012.
68 MENGALDO, cit, p. 9.

ROBERTO LAMANTEA – IL CASO LEOPARDI | 27


Leopardi, al di là di uno dei tanti luoghi
comuni storiografici ed ermeneutici sull’opera
del poeta marchigiano, non è un romantico?
Leopardi ama l’allegoria “ma sempre limpida
ed esplicata, e mai esposta a scivolare nel
simbolismo [...] L’allegoria leopardiana è
prodotto di un pensiero, non di una
sensibilità”.69 “Non è comunque cosa
indifferente [...] aver indicato che il maggiore, e
di gran lunga, lirico italiano dell’età moderna
procede per una strada che è tutt’altra da
quella dei romantici e dei loro continuatori
simbolisti [...] lo stile sobrio e casto, di cui gli
echi della tradizione fanno parte, sta al
materialismo come lo stile diffuso e
accumulativo dei romantici, che ha sempre
bisogno di dire qualche parola in più, allo
spiritualismo. Ciò non toglie ovviamente che,
con diversi mezzi, anche Leopardi abbia
portato il suo forte contributo a quelle che
sembrano le svolte basilari della poesia
europea tra fine Settecento e primo Ottocento,
fra Hölderlin e Keats”; Leopardi, conclude
Mengaldo nella Premessa, è “l’unico grande
poeta europeo di quel cinquantennio ancora
nutrito del pensiero dei Philosophes e non del
pensiero a quello opposto dell’idealismo e
spiritualismo romantici”.70
Leopardi antiromantico? Giacomo non amava
Byron, che in quegli anni era un’icona

69 Ivi, p. 10.
70 Ivi, pp. 11-12.

ROBERTO LAMANTEA – IL CASO LEOPARDI | 28


(Chateubriand lo divinizzava). Mengaldo rileva
le affinità con Hölderlin, Keats, Schelling, ma
anche con l’antiromantico Schiller e avvia
un’analisi raffinata delle differenze. Nello stile:
“Già il leopardista francese Norbert Jonard
aveva segnalato la povertà di metafore (e
similitudini) in Leopardi [...] la differenza dai
romantici, già notevole nelle Canzoni e nei
Canti fiorentini e napoletani, è vistosissima nel
tratto Idilli-Canti pisano recanatesi in cui
Leopardi realizza una sua inarrivabile poetica
della sobrietà e naturalezza”.71 È la differenza
nella tecnica ossessiva nei romantici (lo
studioso cita Lamartine, Hugo, Shelley, Vigny,
Musset, Coleridge, Keats, Puškin, Lermontov,
Brentano e il simbolismo, piú volte nomina
Novalis. “[...] emerge la differenza da Leopardi,
poeta di purezza greca, sensista anche in
poesia come lui stesso ha più volte richiamato,
e come descrittore, anche di sentimenti, mai
riassuntivo ed emblematico ma sempre, per
dirla così, distributivo e addetto al singolare
concreto (cfr. prima di tutto le grandi aperture
della Quiete e del Sabato)”.72
Ci sono poi quelle che Mengaldo chiama
differenze assolute: “La prima è l’assenza,
assoluta appunto in Leopardi, di
quell’esotismo che dei romantici è una delle
sigle”.73 Leopardi è estraneo al gusto

71 Ivi, p. 15.
72 Ivi, p. 17.
73 Ibid.

ROBERTO LAMANTEA – IL CASO LEOPARDI | 29


medievistico; ha “il sentimento e la certezza
dell’irrecuperabilità dell’Antico da parte dei
moderni”74; infine “non è cosa per nulla
leopardiana il culto per il magico-fantastico e
per il satanico”75, il meraviglioso-demoniaco, il
macabro-mortuario, protagonisti di tanta
novellistica, narrativa e poesia di quei decenni:
è prezioso il “catalogo” che fornisce Mengaldo
(sino alla “deliziosa Ondine di La Motte-
Fouqué”, che qui ci piace sottoscrivere). E la
natura? C’è un solo luogo dove Leopardi sfiora
quei temi, nella figura della Natura gigantessa
insensibile nel Dialogo della Natura e di un
Islandese nelle Operette morali, testo (1824)
che segna anche la svolta nella visione della
malvagità assoluta della Natura: “Leopardi non
ha bisogno del demoniaco proprio perché
demoniaca è la Natura tutta in quanto tale [...]
E quando Leopardi capovolge la propria
concezione originaria di natura, cancella
precisamente quell’idea roussoviana di bontà
originaria della natura stessa, pervertita da
uomini, società e storia, che continua ad
essere spesso la base dell’ideologia
76
romantica”. In più, la natura di Leopardi non
è un mistero (quante stupende visioni di orridi
e crepacci, di boschi e rovine, quanta mitologia
della Notte nel romanticismo!): “...con
razionalismo quasi galileiano o diderottiano”,

74 MENGALDO, Leopardi..., cit, p. 18.


75 Ibid.
76 Ivi, p. 20.

ROBERTO LAMANTEA – IL CASO LEOPARDI | 30


nello Zibaldone (2705 ss., 22 maggio 1823),
prima del Dialogo..., Leopardi annota che “la
natura ci sta tutta spiegata davanti, nuda e
aperta”. E a proposito della notte: “...molte
liriche di Leopardi, poeta della luna, sono in
tutto o in parte dei notturni – verrebbe da dire,
come nel suo omologo Chopin – garanti
dell’intimità e della solitudine a lui care, e
dell’espandersi dei sentimenti che solo nella
solitudine è possibile. Ma nessun passo suo
celebra l’autenticità della notte e la superiorità
sul giorno; anzi gli ultimi versi – forse – da lui
scritti, nel Tramonto della luna, ci dicono con
inaudita anche per lui potenza la gloria del
sorgere del sole. S’impone il confronto con
un’opera chiave del primo Romanticismo, gli
Inni alla notte di Novalis, dove, precedendo
l’eterna notte wagneriana [...] si parla [...] di
cielo e luce della Notte, della Notte come
‘Madre’, e addirittura del ‘Sole’ della Notte”.77 Il
retroterra, avverte Mengaldo, è spiritualistico e
irrazionalistico, inaccettabile per Leopardi. Il
“punto cruciale” è “l’assoluta continuità di
Leopardi, che semmai piú volte lo radicalizza,
col materialismo e razionalismo illuministici,
di contro all’antilluminismo spiritualistico se
non irrazionalistico dei romantici”.78 In
Leopardi si danno la mano, sottolinea più
avanti lo studioso, “antiromanticamente, ...un
sensismo spinto all’estremo, ma anche

77 Ivi, pp. 21-22.


78 Ivi, p. 23.

ROBERTO LAMANTEA – IL CASO LEOPARDI | 31


rovesciato in universale carità, l’idea sempre
viva dell’universale e per così dire imparziale
malvagità della natura e infine quella che è
certo una delle conquiste intellettuali più
notevoli dello Zibaldone, delle Operette e dei
Canti, cioè una concezione del mondo non solo
antiantropocentrica, ma anche
antigeocentrica, in cui l’uomo è un mero
accidente”.79 Mengaldo analizza inoltre, nella
dinamica Leopardi-romanticismo, i temi del
corpo e dell’ineffabile caro a Schlegel (per il
quale “ogni bellezza è allegoria”, mentre Hugo,
al contrario del sensista Leopardi, parla di
“invisibile”, e il critico commenta: “...mai nello
Zibaldone l’ineffabilità è una categoria di
pensiero”), per concludere con un’unghiata:
“Anche in Italia [...] la storia letteraria
dell’Ottocento si è svolta, come in tanti hanno
notato, quasi come se Leopardi non fosse
esistito. [...] E comunque nel secolo passato in
cui la poesia di Leopardi ha nutrito tutti i
migliori, il suo pensiero è rimasto molto a
lungo fuori del circolo filosofico a causa
dell’obiettiva alleanza di cattolicesimo e
idealismo, anche in veste di sinistra (poche
cose Croce ha capito così poco come Leopardi).
Con le parole pungenti di Baldacci ‘un
connubio tra socialismo e cristianesimo che ha
messo per sempre la mordacchia a tutti i
problemi che più urgevano al filosofo di
Recanati’; e anche in interpretazioni recenti
79 Ivi, p. 26.

ROBERTO LAMANTEA – IL CASO LEOPARDI | 32


piú aperte e complici non può sfuggire certa
tendenza a elidere precisamente il
materialismo del filosofo e poeta”.80

Il giardino di Leopardi
È certo tema centrale in Leopardi e, postilla
all’analisi di Mengaldo, la natura non è la
porta del meraviglioso fantastico né ha il
fascino dell’orrido sino a sfiorare il demoniaco
di molta letteratura romantica tedesca e
inglese. La riflessione di Leopardi sulla natura
è filosofica dalla svolta del 1824, spiega la
souffrance come essenza dell’essere, non è
paesaggio incantato o décor ma interroga le
cellule, gli atomi, le molecole, le relazioni tra
gli esseri viventi. “Con gli occhi e i capelli
nerissimi [la Natura] è la moderna regina della
Tenebra” osserva Citati nelle pagine sul
Dialogo della Natura e di un Islandese:
“Leopardi non aveva mai rappresentato la
Natura e non la rappresenterà mai più,
nemmeno nella Ginestra. Ora la dispone in un
luogo incognito all’uomo. Dunque, è una
straniera”.81 La Natura non è malvagia,
dell’uomo non s’avvede neanche, potrebbe
anche annientare la specie umana, non se ne
accorgerebbe. È la vertigine, assolutamente
laica, del pensiero di Leopardi. Il Dialogo della
Natura e di un Islandese dalle Operette morali

80 Ivi, p. 30.
81 PCL, p. 246.

ROBERTO LAMANTEA – IL CASO LEOPARDI | 33


va accostato a un passo famoso dello
Zibaldone, che segue l’operetta di due anni: la
pagina sul giardino fiorito del 19-22 aprile
1826 (Zib. 4174-4177), scritta a Bologna:
“Tutto è male. Cioè tutto quello che è, è male;
che ciascuna cosa esista è un male; ciascuna
cosa esiste per fin di male; l’esistenza è un
male e ordinata al male; il fine dell’universo è
il male; l’ordine e lo stato, le leggi, l’andamento
naturale dell’universo non sono altro che male,
né diretti ad altro che al male”.82 Commenta
Citati (che però curiosamente non prosegue
fino al passo sul giardino fiorito, Zib. 4175-
4176): “Con quale spaventosa lucidità, con
quali occhi terrificanti e terrificati condannava
l’Essere identico al male e il male identico
all’Essere. Tutto era cosa. Nella sua
enumerazione, Leopardi aveva dimenticato
(volutamente) un nome: Dio. Se ascoltiamo la
metafisica classica, Dio è sovranamente
l’Essere: Ego sum qui sum, come diceva la
Genesi; e dunque l’egualmente sovrana
necessità e perfezione. Con una forza
rarissima Leopardi contestava e malediva
appunto l’Essere, e Dio-Essere, Dio-necessità,
e Dio-perfezione. Se usiamo un’altra
espressione, malediva il Tutto”.83

Ecco la pagina dello Zibaldone.

82 Ivi, p. 253. In Zibaldone, cit. volume secondo, pp. 2296-2299


83 PCL, p. 253.

ROBERTO LAMANTEA – IL CASO LEOPARDI | 34


“Non gli uomini solamente, ma il genere umano fu e
sarà sempre infelice di necessità. Non il genere
umano solamente ma tutti gli animali. Non gli
animali soltanto ma tutti gli altri esseri al loro modo.
Non gl’individui, ma le specie, i generi, i regni, i globi,
i sistemi, i mondi.
Entrate in un giardino di piante, d’erbe, di fiori. Sia
pur quanto volete ridente. Sia nella più mite stagione
dell’anno. Voi non potete volger lo sguardo in
nessuna parte che voi non vi troviate del patimento.
Tutta quella famiglia di vegetali è in istato di
souffrance, qual individuo più, qual meno. Là quella
rosa è offesa dal sole, che gli ha dato la vita; si
corruga, langue, appassisce. Là quel giglio è
succhiato crudelmente da un’ape, nelle sue parti più
sensibili, più vitali. Il dolce mele non si fabbrica dalle
industriose, pazienti, buone, virtuose api senza
indicibili tormenti di quelle fibre delicatissime, senza
strage spietata di teneri fiorellini. Quell’albero è
infestato da un formicaio, quell’altro da bruchi, da
mosche, da lumache, da zanzare; questo è ferito nella
scorza e cruciato dall’aria o dal sole che penetra nella
piaga; quello è offeso nel tronco, o nelle radici;
quell’altro ha più foglie secche; quest’altro è roso,
morsicato nei fiori; quello trafitto, punzecchiato nei
frutti. Quella pianta ha troppo caldo, questa troppo
fresco; troppa luce, troppa ombra; troppo umido,
troppo secco. L’una patisce incomodo e trova ostacolo
e ingombro nel crescere, nello stendersi; l’altra non
trova dove appoggiarsi, o si affatica e stenta per
arrivarvi. In tutto il giardino tu non trovi una
pianticella sola in istato di sanità perfetta. Qua un
ramicello è rotto o dal vento o dal suo proprio peso; là
un zeffiretto va stracciando un fiore, vola con un
brano, un filamento, una foglia, una parte viva di
questa o quella pianta, staccata e strappata via.
Intanto tu strazi le erbe co’ tuoi passi; le stritoli, le

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ammacchi, ne spremi il sangue, le rompi, le uccidi.
Quella donzelletta sensibile e gentile, va dolcemente
sterpando e infrangendo steli. Il giardiniere va
saggiamente troncando, tagliando membra sensibili,
colle unghie, col ferro. [...] Lo spettacolo di tanta
copia di vita all’entrare in questo giardino ci rallegra
l’anima, e di qui è che questo ci pare essere un
soggiorno di gioia. Ma in verità questa vita è trista e
infelice, ogni giardino è quasi un vasto ospitale (luogo
ben più deplorabile che un cemeterio), e se questi
esseri sentono, o vogliamo dire, sentissero, certo è
che il non essere sarebbe per loro assai meglio che
l’essere”.

Tutto negativo, quindi? Naturalmente no.


Citati si diverte a sottolineare come Leopardi
abbia “distrutto il principio di non
contraddizione”84. “Non v’ha altro di buono che
quel che non è; le cose che non son cose”: “Ma
cosa sono le cose che non son cose? Usando un
altro linguaggio, anni prima, Leopardi aveva
studiato il loro immenso e misterioso regno: il
possibile. ‘Chi può conoscere i limiti della
possibilità?’ aggiungeva il 22 aprile. [...]
‘L’infinita possibilità è l’unica cosa assoluta’. E
cos’era Dio se non il trionfo del possibile? Dio
non è migliore di tutti gli esseri possibili,
perché non esiste un migliore o un peggiore
assoluto, ma racchiude in sé tutte le
possibilità, ed esiste in tutti i modi possibili.
[...] Le cose che non son cose non comprendono
solo il possibile: ma i riflessi dell’indefinito, gli

84 Ibid.

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oggetti doppi visti con l’immaginazione,
l’infanzia, il ricordo, il ricordo involontario, il
paese delle chimere di Rousseau, le illusioni,
gli inganni, le larve, i fantasmi; e
probabilmente anche il nulla”. 85

Rovesciamento stupendo, sillogismo visto


dall’altro lato del cannocchiale: tutto Leopardi
è così, e il libro di Citati è un magnifico viaggio
in questo paesaggio di apparenti
contraddizioni, al punto che annota: “Il suo
sguardo [di Leopardi] andava sempre altrove,
anche oltre ciò che è, per definizione, l’altrove.
Il suo tutto comprendeva il Tutto, e ciò che è al
di fuori del Tutto, e ciò che è al di fuori di ciò
che è al di fuori dell’al di fuori del Tutto”.86
Ma com’è possibile vivere e pensare
conoscendo la souffrance strutturale degli
esseri viventi, pur consolati, si fa per dire,
dalle cose che non son cose? Con le illusioni. È
un’altra operetta, meno nota e anch’essa del
1824, l’Elogio degli uccelli, ad aprire, nella
filosofia e nella prosa leopardiana, una porta
di luce. Elogio degli uccelli fu composto dal 29
ottobre al 5 novembre 1824 e pubblicato la
prima volta nell’edizione delle Operette del
1827.87 Leopardi prende a prestito il nome di
Amelio, “oscuro filosofo neoplatonico e
discepolo di Plotino del III secolo d.C., per
85 Ivi, pp. 253-254.
86 Ivi, p. 254.
87 Cfr. GIACOMO LEOPARDI, Operette morali, a cura di Sergio
Solmi, Ricciardi, Milano-Napoli 1956, edizione Einaudi, Torino 1976, p.
153.

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attribuirlo a un personaggio di sua fantasia”88;
per Citati “Gentiliano Amelio era etrusco: [...]
aveva vissuto ventiquattro anni assieme a
Plotino a Roma: [...] il maestro lo chiamava
Amerio, perché Amerio significa ‘indivisibile’.
[...] [Gli uccelli] non provano mai noia, a
differenza degli altri animali. [...] Quando
volano, vedono dall’alto spettacoli immensi e
variatissimi, grandi spazi di terra, paesi e
paesi, fiumi lucenti. E, in questo, sono simili
ai grandi poeti, che anch’essi vedono le idee e
le cose dall’alto. [...] Mentre gli uomini più
hanno vita, più sono infelici, gli uccelli più
hanno vita, più godono una quasi estatica
felicità. Mai Leopardi aveva scritto una prosa
così ricca di movimento, di vibrazioni, di brillii,
di pétillements, come in questo Elogio che
l’allievo di Plotino scrive silenziosamente in un
giorno del terzo secolo”.89 Ed ecco il passaggio-
chiave, ben evidenziato da Citati: “Quelle voci
di gioia risonanti e solenni, quegli applausi
alla vita universale, quelle testimonianze della
felicità delle cose, che ci pervengono attraverso
il canto-riso degli uccelli, sono false, aggiunge
Leopardi in un inciso. Nell’universo non c’è
allegria, né gioia, né felicità. Mentre cantano,
ridono, volano, si muovono, si spostano,
immaginano, guardano e vibrano di vita, gli
uccelli ci ingannano. [...] Ma questo inganno è
uno dei tanti benefici inganni della natura,

88 Ibid.
89 PCL, pp. 268-271.

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almeno della più antica natura leopardiana, la
quale cerca, con la menzogna, di renderci la
vita più sopportabile. L’idea della felicità è,
sempre, un inganno. Tutte le illusioni, le
meravigliose e colorate illusioni, sono inganni;
eppure costituiscono la parte essenziale della
nostra esistenza, senza la quale non ci
resterebbe che morire. La sola cosa importante
è che qualcosa, che forse porta il nome di
‘natura’, continui a donarci illusioni; e che in
noi vibri ancora il ricordo di quell’incantevole
riso uccellesco, che una volta era la nostra
voce”.90
Abbiamo voluto citare questa pagina perché,
forse, è una delle più belle pagine di critica
leopardiana mai scritte. Tra l’altro la gioia, il
“grandissimo uso d’immaginativa”; “quella
ricca, varia, leggera, instabile e fanciullesca”
dote degli uccelli, e il passaggio: “l’uccello
quanto alla vispezza e alla mobilità di fuori, ha
col fanciullo una manifesta similitudine”91,
hanno un’evidente similitudine con la poetica
pascoliana del Fanciullino.92

L’albero dei ricordi


Il ricordo, la rimembranza, la ricordanza, sono
temi centrali nella poetica leopardiana, ma
90 Ivi, p. 272.
91 GIACOMO LEOPARDI, Operette morali, ed. cit., pp. 158-159.
92 Si ricorda qui la recente edizione di Nottetempo, Roma 2012, con
un saggio di Giorgio Agamben, che riprende l’edizione Feltrinelli, Milano
1982, del celebre manifesto di Pascoli.

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sono anche una tecnica o meglio, una genesi
della poesia. Citati sottolinea come Leopardi
possedesse una memoria immensa, ma un
colle o un torrente o un cielo divenissero
poetici sono se “lontani”: “Se voleva farli
diventare poetici, doveva allontanarli da sé e
trasformarli in passato, o volgere loro le spalle,
perché si perdessero nella lontananza. [...]
Quando era giovanissimo, Leopardi era
affascinato dai ricordi involontari”.93 E tra i
ricordi trionfano quelli infantili, perché tessuti
di vago e indefinito: “Quando il bambino vede
una campagna, una pittura, un’immagine, o
sente un suono, un racconto, una favola, il
suo piacere è sempre vago e indefinito: l’idea
che le visioni destano in lui è sempre
indeterminata e senza limiti; i minimi oggetti
riempiono l’anima di infinito e si perdono nel
vago. [...] E se proviamo ancora, nel resto della
vita, immagini e sensazioni indefinite, per la
massima parte non derivano direttamente
dalle cose, ma sono ricordanze, ripetizioni,
ripercussioni, riflessi di ricordi infantili. [...]
viviamo ormai stabilmente nel mondo del
riflesso, come la luna. Siamo nel luogo della
seconda volta. Ma la seconda volta è il paese
più sublime dove possiamo abitare: l’unica
beatitudine che ci è concessa, perché ripete il
sole assoluto dell’infanzia. Mentre abitiamo il
regno della seconda volta, ci attirano
soprattutto (almeno nei tempi moderni) le
93 PCL, p. 328.

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immagini lontane, quasi perdute e
irrecuperabili. [...] Sono la voce di ciò che è
perduto: per sempre perduto. Così entriamo
nel paese della malinconia, aperto soltanto ai
poeti moderni: talvolta esso li può rendere
superiori a Omero ed Esiodo, che non
conoscevano questa distanza, questo
94
struggimento e questo dolore”. È la genesi
della poesia leopardiana e della poesia
moderna e, qui sì almeno nell’intonazione,
della lirica romantica. Ecco A Silvia, Il passero
solitario, Il risorgimento, a cui Citati dedica
pagine memorabili. In A Silvia “non è il ricordo
che torna all’improvviso alla mente, ma la
mente che ricorda. Il verbo non è sovvienti o
rammenti (come nelle prime stesure) né ricordi,
ma rimembri: questo vasto, intimo e
contemplativo verbo petrarchesco apparso in
Chiare, fresche et dolci acque (v. 5), la poesia
dello spavento amoroso”.95 Esiste anche un’ora
delle ricordanze: “Non è la notte piena, come
potrebbe far credere la presenza delle stelle
scintillanti in cielo: ma il tardo tramonto o
l’inizio della notte. Mentre la poesia inizia [Le
ricordanze], Leopardi vede ancora da lontano i
monti diventati azzurri, che la notte avrebbe
celato. Nelle Ricordanze siamo sempre in
bilico: sui margini tra giorno e notte, tra
presente e passato, tra attualità e ricordo, e
tra due sensazioni che si incontrano e si

94 Ivi, pp. 330-331.


95 Ivi, p. 346. E su Il passero solitario cfr. pp. 353-359.

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dissolvono l’una nell’altra”.96 Mentre in
Aspasia ad annunciare l’irrompere della figura
nel verso “è un altro senso: non la vista e
l’udito, che sono stati un soave preannuncio,
ma l’odorato, che compie da solo, senza
soccorsi, l’ultimo passo”97: “... E mai non sento
/ mover profumo di fiorita piaggia, / né di fiori
olezzar vie cittadine, / ch’io non ti vegga ancor
qual eri il giorno / che ne’ vezzosi
appartamenti accolta, / tutti odorati de’ novelli
fiori / di primavera, del color vestita / della
bruna viola, a me si offerse / l’angelica tua
forma ...”. Che sia la ricordanza o lo sguardo, o
il canto degli uccelli o un profumo di fiori,
quella di Leopardi è poesia di sensi.

“Leopardi morì con moltissima grazia, e in


tono minore, come in tono minore aveva
vissuto quasi tutta la sua vita, celando o
velando i dolori, le angosce, la desolazione, le
passioni, la solitudine, il dono di essere un
genio immenso”: così si congeda Citati dal suo
autore.98. Il critico e scrittore fiorentino ha
scritto la pagina migliore per dire perché
Leopardi è senza tempo: “Questa era una delle
sue grandi facoltà: non appartenere a nessuna
epoca, né a quella presente né a quella
passata; non viveva nel quarto secolo prima di
Cristo né nel 1750 o nel 1826. Era a casa

96 Ivi, p. 360.
97 Ivi, p. 387.
98 Ivi, p. 412.

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dappertutto e da nessuna parte. La sua
radicale estraneità al tempo gli permise di
comprendere il diciannovesimo e ventesimo
secolo, la società borghese e quella di massa.
Se leggiamo lo Zibaldone, lampi ci richiamano
di continuo alla memoria Nietzsche e Spengler,
Adorno e David Riesman. Cosí Leopardi, il non
moderno, ci sembra straordinariamente
moderno, come se abitasse e guardasse e
studiasse cosa avviene oggi”.99

luglio 2012

99 Ivi, p. 298.

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