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LA SOCIETÀ PER AZIONI


LA STRUTTURA FORMALE

Nozione del fenomeno S.p.a.


La S.p.a. si può definire come il più importante tipo di società oggi disciplinato nell’ordinamento (artt.2325
ss.). La spiegazione del suo successo si può trovare nell’efficace formula negoziale che identifica tale figura:
infatti nella S.p.a. confluiscono oggi una serie di “soluzioni giuridiche” che la caratterizzano quale efficiente
strumento di reperimento e utilizzo di risorse in vista della produzione d’impresa.
Per quanto riguarda la menzionata “formula negoziale”, si possono evidenziare i seguenti elementi.
a) L’idea che rappresenta il cuore della S.p.a. è quella di uno strumento che consente di raccogliere risorse
finanziarie, al servizio di una data attività, presso investitori di rischio “anonimi”, cioè soggetti
interessati a non essere personalmente coinvolti nella gestione dell’iniziativa, la quale deve dunque
essere affidata a professionisti diversi, veri e propri “fiduciari” degli investimenti suddetti. Perciò, da un
lato, l’attuazione del programma produttivo è di competenza in via esclusiva di amministratori dedicati e
competenti, specificamente incaricati di far fruttare gli investimenti e di permettere agli investitori di
ottenere un lucro; dall’altro questi ultimi mantengono (quali “soci”) una legittimazione a valutare e
apprezzare gli atti posti in essere dagli amministratori con le risorse investite ( che si esprime in
sostanza nel potere di nominarli e di rimuoverli).
Nella S.p.a. è titolare dell’iniziativa chi la supporta fornendole capitale e lo è solo nella misura ed entro i
limiti in cui gli si riconosca di avere operato tale apporto  infatti non è l’avere preso parte
personalmente al contratto di società ad identificare i soci, bensì la contribuzione al rischio (!!!) 
dunque si diventa soci nella misura in cui si presa il capitale. E dipende appunto dalla misura
dell’apporto di ciascuno la distribuzione dei risultati e del potere all’interno della società  cd principio
plutocratico, in virtù del quale, tra i soci, il potere è in linea di principio proporzionale alla ricchezza
investita e “capitalizzata”.
b) La responsabilità del socio è limitata, al contrario delle società di persone, al conferimento effettuato e
le società per azioni si dicono caratterizzate dalla cd autonomia patrimoniale perfetta.
c) L’investimento di mezzi finanziari nei confronti dell’attività è favorito dall’opportunità offerta a chi vi
contribuisce di operare un disinvestimento anticipato rispetto alla generale conclusione dell’iniziativa: è
infatti reso possibile ai soci di cedere a terzi le proprie quote di titolarità dell’investimento, collocandole
nel cd mercato secondario, grazie al meccanismo di suddivisione delle medesime quote in azioni.
La S.p.a. è destinata alla realizzazione di importanti progetti imprenditoriali, i quali esigono che il
vincolo di destinazione delle risorse in essi investite sia stabile e duraturo: dunque viene offerta la
possibilità ai soci di cedere la titolarità delle loro quote di interesse negli investimenti operati al fine di
evitare una eccessiva immobilizzazione delle risorse da parte dei singoli investitori  per permettere ciò
vengono appunto assegnate loro “azioni”, cioè frazioni standard dell’investimento in capitale, che
attribuiscono al loro titolare (sempre in coerenza con la caratterizzazione “anonima” del socio) diritti che
sono passibili di libero trasferimento senza che ciò comporti una qualche modifica nell’organizzazione e
che sono suscettibili di più facile valutazione da parte dei terzi eventualmente interessati al relativo
acquisto. Questa possibilità di rendere più agevole il disinvestimento permette l’accesso all’iniziativa
anche ai privati, la cui ottica di investimento è evidentemente di breve periodo.

Le tipologie di S.p.a.
Esistono una pluralità di varianti di S.p.a., cioè di specifiche diverse concrete manifestazioni della società:
- le società di medio-grandi dimensioni si distinguono dalle società piccole, entrambe individuate
guardando ai dati economici espressi dalle relative imprese (capitale investito o patrimonio netto, volumi
dei ricavi, esposizione finanziaria);
- le S.p.a. con composizioni sociali ampie e aperte alla partecipazione di nuovi soci si distinguono da quelle
a ristretta base familiare o comunque destinate allo svolgimento di iniziative idealmente riservate, e dunque
chiuse all’ingresso di investitori esterni;
- le società che si rivolgono ai mercati come luogo di reperimento di possibili investitori si distinguono

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dalle società prive di tale connotato; inoltre tra le prime si può effettuare un’ulteriore distinzione fra le
società le cui azioni sono quotate nei mercati finanziari regolamentati e le società le cui azioni sono
negoziate al di fuori di tali contesti;
- le società con titolarità diffusa solo presso i privati infine si distinguono dalle società le cui partecipazioni
sono, interamente o parzialmente, in mano pubblica.
Queste classificazioni sono utili innanzitutto per comprendere come il modello azionario venga in concreto
utilizzato in una molteplicità di direzioni.
L’art.2325-bis enuclea la categoria delle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio come
classe di S.p.a. destinataria di una particolare disciplina, individuata dalla specifica circostanza data dal
fatto che le azioni siano quotate in mercati regolamentati o diffuse in misura rilevante.
Dunque il genere di società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio è composto da due
(fatti)specie: le società con azioni quotate in mercati regolamentati e le società con azioni diffuse fra il
pubblico in misura rilevante  la nozione di quest’ultima figura si fonda su criteri dimensionali
dell’impresa e della compagine sociale: la società deve avere più di 500 soci diversi da quelli di controllo, e
che detengano complessivamente almeno il 5% del capitale.
Comunque sia può distinguersi un regime comune a tutte le S.p.a., indipendentemente dal grado di presenza
nei mercati regolamentati delle proprie azioni, e due distinti statuti speciali, uno dettato con riferimento
alle società facenti ricorso al mercato del capitale di rischio e un altro con riguardo a tutte le altre.

La società unipersonale
L’art.2328 prevede espressamente che la società possa essere costituita per atto unilaterale, dunque
superando la posizione restrittiva che in passato caratterizzava il nostro ordinamento, oggi il legislatore
ammette la possibilità di strutturare e svolgere un’attività lucrativa nella forma di una S.p.a. unilaterale
senza che ciò sia fonte di vizi dell’organizzazione o dell’insorgere di una speciale responsabilità a carico
dell’unico socio. La S.p.a. unilaterale può essere validamente costituita da un unico socio o vedere
successivamente ridotta ad un unico azionista la compagine sociale, senza che ciò provochi (come invece
accade nelle società di persone) il suo scioglimento.
La presenza di un unico azionista comporta tuttavia il gravare di specifici oneri a carico di soci e
amministratori, sia in tema di conferimenti che in ambito pubblicitario.
Dal punto di vista dei conferimenti, al contrario di quanto accade nell’ipotesi di pluralità di soci, l’azionista
è sempre obbligato a prestare da subito l’intero apporto di cui si sia impegnato con la sottoscrizione del
capitale sociale  infatti l’art.2342, c.2, stabilisce che al momento della sottoscrizione dell’atto costitutivo
vada versato presso una banca tutto l’ammontare dei conferimenti in denaro (e non soltanto il 25% come
previsto per le S.p.a. pluripersonali). Nel caso invece in cui la partecipazione del socio divenga totalitaria
successivamente alla costituzione, gli eventuali versamenti ancora da effettuare dovranno essere operati
entro 90 giorni (art.2342, c.4).
Per quanto riguarda invece il regime pubblicitario, la convergenza nelle mani di un’unica persona delle
quote di partecipazione societaria, obbliga gli amministratori a rendere pubblica questa circostanza
(art.2362) col deposito nel registro delle imprese di un’apposita dichiarazione, contenente le generalità
dell’azionista stesso (nome-cognome o denominazione sociale, data-luogo di nascita o di costituzione,
domicilio o sede e cittadinanza del socio). Specularmente, quando si costituisce o ricostituisce la pluralità di
soci, gli amministratori dovranno depositare apposita dichiarazione presso il registro delle imprese (c.2).
Questi adempimenti in materia di conferimenti e di pubblicità sono molto importanti perché è rispetto ad
essi che viene applicato il regime di responsabilità esclusiva della società col proprio patrimonio sociale
per le obbligazioni insorgenti dalla propria attività  l’art.2325, c.2, dispone che quando i conferimenti non
siano stati effettuati secondo quanto previsto dall’art.2342 o quando non sia stata attuata la pubblicità
prescritta dall’art.2362, in caso di insolvenza della società, per le obbligazioni sociali sorte nel periodo in
cui le azioni sono appartenute ad un'unica persona, questa ne risponde illimitatamente.
Va comunque evidenziato che la responsabilità illimitata opera nell’ipotesi di insolvenza della società,
pertanto è una responsabilità di tipo sussidiario, che insorge esclusivamente nel caso in cui la S.p.a. non
adempia le proprie obbligazioni e sempre che si riveli infruttuosa l’escussione del relativo patrimonio. È per
questa ragione che un tale gravame è destinato a farsi valere nell’ipotesi di fallimento della S.p.a.  inoltre

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l’art.147 l.fall. prevede che al socio in tale caso (al contrario di quanto avviene nelle società di persone) non
possa essere estesa la dichiarazione di fallimento quale conseguenza del fallimento della società.

La costituzione della S.p.a.


La costituzione della società per azioni (artt.2328 ss.) si articola in due fasi essenziali:
1) la stipulazione dell’atto costitutivo
2) l’iscrizione dell’atto costitutivo nel registro delle imprese.
1. Stipulazione dell’atto costitutivo
L’art.2328 stabilisce che la S.p.a. può essere costituita per contratto o per atto unilaterale. In entrambi i
casi deve provvedersi a redigere un formale atto costitutivo, i cui contenuti si ricavano dal 2° comma:
1) le generalità dei soci (nome, cognome, luogo e data di nascita) e degli eventuali promotori, nonché il
numero delle azioni assegnate a ciascuno di essi
2) la denominazione sociale e il comune dove sono poste la sede della società e le eventuali sedi secondarie
 la denominazione (cioè l’indicazione utilizzata dalla S.p.a. nei rapporti esterni ai fini della formale
imputazione dell’attività esercitata) può essere formata liberamente purché compaia l’indicazione “S.p.a.”
3) l’attività che costituisce l’oggetto sociale  vale a dire il tipo di attività economica che la società intende
svolgere; esso si intende correttamente precisato con l’indicazione del settore merceologico di
riferimento; è senz’altro possibile inoltre che vengano indicati più settori, il che sta a significare che la
società ha più oggetti
4) l’ammontare del capitale sottoscritto e di quello versato
5) il numero e l’eventuale valore nominale delle azioni, le loro caratteristiche e le modalità di emissione e
circolazione  tra queste l’unica indicazione realmente irrinunciabile è il numero delle azioni in quanto
in mancanza di caratteristiche e modalità di emissione si applicheranno le regole generali previste dal
codice; invece il valore nominale può del tutto mancare
6) il valore attribuito ai crediti ed ai beni conferiti in natura  sempreché vi siano tali conferimenti
7) le norme secondo le quali devono essere ripartiti gli utili
8) i benefici eventualmente accordati ai promotori e/o ai soci fondatori  per tali soggetti l’unico
beneficio può essere costituito da una partecipazione agli utili che non può superare complessivamente il
10% degli utili netti risultanti dal bilancio e per un periodo massimo di 5 anni.
9) il sistema di amministrazione adottato, il numero degli amministratori e i loro poteri, indicando quali
tra essi hanno la rappresentanza della società  a partire dalla riforma del 2003 la legge ha previsto una
possibilità di scelta fra 3 diversi sistemi di amministrazione, prima sconosciuti all’ordinamento ma, in
assenza di diversa indicazione, il modello di conduzione della società che si intenderà adottato sarà quello,
in forza dell’art.2380, comunemente denominato “tradizionale”, cioè basato sull’elezione di un consiglio
di amministrazione e di un collegio sindacale, quali organi rispettivamente di gestione e controllo
10) il numero dei componenti del collegio sindacale  l’art.2397 stabilisce che il consiglio sindacale
possa essere composto da 3 o 5 elementi, tuttavia per le società quotate si applicherà l’art.148 TUF, il
quale prevede che il numero dei componenti possa essere liberamente determinato, fissando come limite
minimo la soglia di 3 membri
11) la nomina dei primi amministratori e sindaci ovvero dei componenti del consiglio di sorveglianza e,
quando previsto, del soggetto incaricato di effettuare la revisione dei conti
12) l’importo globale, anche approssimativo, delle spese per la costituzione poste a carico della società 
ad es. spese notarili, spese per l’iscrizione
13) la durata della società, e se la società è costituita a tempo indeterminato, il periodo di tempo, comunque
non superiore ad 1 anno, decorso il quale i soci possono recedere liberamente  laddove la durata sia
precisata, è senz’altro possibile la relativa proroga, ma solo attraverso una modifica statutaria in quanto
non è ammissibile nelle società per azioni una proroga tacita.
L’art.2328, c.3, tratta dello statuto, precisando che esso contiene le norme relative al funzionamento della
società  tale documento ha per oggetto quindi le regole rivolte a stabilire come la S.p.a., una volta
costituita, sia destinata ad operare: in via esemplificativa compongono tale atto le formalità che attengono
all’emissione e circolazione delle azioni e le procedure sul funzionamento degli organi sociali.
Quanto invece ai rapporti tra statuto e atto costitutivo, viene precisato che il primo documento anche se
forma oggetto di atto separato, costituisce parte integrante del secondo.

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Si stabilisce infine che in caso di contrasto tra le clausole dell’atto costitutivo e quelle dello statuto
prevalgono le seconde.
Per quanto attiene alla forma dell’atto costitutivo, sempre l’art.2328, c.2, prevede che l’atto costitutivo
debba essere redatto per atto pubblico. Tale forma è rivolta a soddisfare una duplice esigenza: certificare la
dichiarazione privata con cui viene fondata la S.p.a. e vengono destinati i conferimenti a capitale, e operare
una verifica circa l’effettiva conformità a legge della suddetta dichiarazione.
La redazione per atto pubblico implica che la notaio sia affidata una essenziale funzione di controllo, i cui
contenuti si ricavano dal divieto al notaio di ricevere atti espressamente proibiti dalla legge o
manifestamente contrari al buon costume o all’ordine pubblico.
Infine, considerando che lo statuto è parte integrante dell’atto costitutivo, bisogna sostenere che la forma
notarile debba essere osservata sia per l’atto costitutivo che per lo statuto.

Le condizioni per la costituzione


L’art.2329 stabilisce che, affinché si possa procedere alla costituzione della S.p.a. debbano essere rispettate
3 diverse “condizioni”:
a) che sia sottoscritto per intero il capitale sociale;
b) che siano rispettate le disposizioni relative ai conferimenti  in particolare che sia versato presso la
banca il 25% dei conferimenti in denaro o, nel caso di società unipersonale il loro intero ammontare
(art.2342) e che il loro valore corrisponda interamente alla cifra del capitale sottoscritto, cioè al valore
nominale (artt.2343, 2343-ter).
c) che sussistano le autorizzazioni e le altre condizioni richieste dalle leggi speciali per la costituzione della
società, in relazione al suo particolare oggetto sociale  ad es. per l’attività bancaria la costituzione della
società è subordinata alla preventiva autorizzazione della Banca d’Italia, per l’attività sportiva l’iscrizione
è subordinata all’iscrizione nel registro delle imprese dell’atto costitutivo delle società sportive
professionistiche alla loro preventiva affiliazione a una o più federazioni sportive nazionali riconosciute
dal CONI.

Le modalità di costituzione istantanea e per pubblica sottoscrizione


Per integrare la complessa fattispecie costitutiva, il codice civile prevede due diversi procedimenti:
- costituzione istantanea (è la più immediata e l’unica effettivamente diffusa nella prassi)  prevede
semplicemente che i contenuti dell’organizzazione vengano decisi in ogni punto istantaneamente dai
sottoscrittori del capitale sociale al momento della stipula dell’atto costitutivo presso il notaio; vi è dunque
una contestualità tra la determinazione del programma di attività, la sua adozione da parte degli investitori
con la destinazione ad esso dei conferimenti tramite le sottoscrizioni, o la compiuta formulazione delle
clausole della società, che viene così a costituirsi;
- costituzione per pubblica sottoscrizione  prevede, per un verso, la possibilità che le fasi menzionate
(programma, sottoscrizioni, formulazione di atto costitutivo e statuto, stipula finale) avvengano in momenti
differenti, per un altro verso, che le sottoscrizioni siano sollecitate presso il pubblico e dunque tra
investitori sconosciuti e non spontaneamente mossi a concorrere all’iniziativa; tutto questo con la
presentazione di un progetto di S.p.a. (“programma”), da parte di promotori, che invitano gli interessati ad
aderirvi e a sottoscrivere quote di capitale, in modo che quando l’obiettivo programmato, in termini di
risorse da raccogliere, sia stato raggiunto, si pervenga alla stipulazione dell’atto costitutivo.
Questo procedimento ha avuto scarso successo nella prassi, dove anche nelle ipotesi di necessaria raccolta
di grandi capitali presso il pubblico, si è comunque preferito operare una costituzione istantaneamente tra
un numero ristretto di fondatori con una prima e non ancora definitiva attribuzione di risorse, per poi
successivamente eseguire una fase di raccolta ulteriore da attuare presso un maggior numero di
risparmiatori tramite un aumento di capitale.

2. Iscrizione dell’atto costitutivo nel registro delle imprese


L’ultimo adempimento per concludere il procedimento di costituzione di una S.p.a. è l’iscrizione nel registro
delle imprese. L’art.2330 stabilisce che il notaio che ha stipulato l’atto costitutivo debba depositarlo, entro
20 giorni, presso l’ufficio del registro delle imprese nella cui circoscrizione è stabilita la sede sociale. Se il
notaio non provvede nel termine stabilito, l’obbligo ricade sugli amministratori nominati nell’atto costitutivo

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e, nell’inerzia di entrambi (punita con sanzione amministrativa pecuniaria), tale formalità può effettuarsi da
parte di ogni socio a spese della società. Contestualmente al deposito si dovrà presentare la richiesta di
iscrizione, su cui l’ufficio del registro effettua un mero controllo di “regolarità formale della
documentazione”: ove l’esito risulterà positivo, l’ufficio iscriverà la società nel registro.
Con l’iscrizione nel registro delle imprese, come sancisce l’art.2331, la società acquista la personalità
giuridica, nel senso che diviene soggetto di diritto distinto dai soci e gode perciò di una piena e perfetta
autonomia patrimoniale (a differenza di quanto avviene nelle società di persone non è ipotizzabile una S.p.a.
irregolare, cioè priva di iscrizione): l’atto costitutivo e lo statuto divengono efficaci solo in questo
momento! Dunque l’ordinamento attribuisce alla pubblicità efficacia costitutiva, determinante per la
produzione degli effetti dell’atto.
È proprio in considerazione del necessario acquisto della capacità giuridica per entrare in contatto con i terzi
che è previsto un divieto di emettere azioni prima dell’iscrizione  si esclude cioè la possibilità di creare
strumenti giuridici (le azioni) suscettibili di attribuire, ai relativi titolari, poteri la cui stessa configurazione
dipende dalle regole non ancora operative di una data organizzazione.

Può succedere tuttavia che tra la stipula dell’atto costitutivo e l’iscrizione della società nel registro delle
imprese intercorra un periodo di tempo, e che in tale periodo vengano compiute determinate operazioni 
perciò vi è da capire quali siano gli effetti che la stipula dell’atto costitutivo sia in grado di produrre nel
periodo antecedente l’iscrizione.
Innanzitutto dalla citata stipula discende un irrevocabile vincolo dei sottoscrittori ai conferimenti (per quelli
in denaro almeno il 25% depositato presso un c/c bancario e per i beni in natura, la regola di immediata
liberazione degli stessi rende necessario un concreto programma di custodia e conservazione degli apporti):
vincolo che potrà sciogliersi, col diritto dei sottoscrittori alla restituzione delle somme versate, solo se entro
90 giorni dalla redazione dell’atto costitutivo l’iscrizione non abbia avuto luogo.
Per quanto riguarda le operazioni compiute in nome della costituente società prima dell’iscrizione sono
illimitatamente responsabili verso i terzi coloro che hanno agito; ad essi si aggiunge poi quella del socio
unico fondatore ed, in caso di pluralità di soci fondatori, i soci che hanno deciso, autorizzato o consentito il
compimento dell’operazione (art.2331, c.2). Per quanto riguarda invece la futura imputabilità della società,
una volta costituita, il 3° comma si limita a precisare che la società sarà responsabile quando, in seguito
all’iscrizione, abbia approvato un’operazione compiuta precedentemente a tale momento, essendo in tal
caso tenuta a rilevare coloro che hanno agito. Lo stesso obbligo, stando all’art.2338, la società lo assume
nei confronti dei promotori, in relazione alle spese da essi sostenute, sempre che siano state necessarie per la
costituzione dell’assemblea (perciò, anche qui, qualora siano state da essa approvate).

Le modificazioni dello statuto


Trattandosi di un’organizzazione la cui essenza consiste nella formulazione di un apparato di regole che
servono al raggiungimento di un determinato scopo (quello lucrativo), è plausibile che nel tempo la clausole
statutarie siano giudicate, in tale prospettiva, inefficienti, e dunque suscettibili di modifica.
Una tale eventualità può riguardare sia le clausole dello statuto in senso stretto, cioè quelle direttamente
relative al funzionamento dell’apparato organizzativo, sia le regole dell’atto costitutivo, cioè quelle che
identificano la società (ad es. la clausola che individua la sede o l’oggetto sociale). L’art.2436 prevede una
generale disciplina per tali modificazioni, riferendosi indiscriminatamente ad entrambe le categorie, ma non
ne fanno parte quelle clausole che si possono considerare quali dati storici dell’organizzazione (si pensi ai
nomi dei soci, o degli amministratori, o dei componenti del consiglio di sorveglianza).
Con la nascita della persona giuridica, l’organizzazione acquista anche un’autonomia rispetto al suo stesso
atto fondativo, e le modifiche statutarie sono sottratte alla regola, prevista invece per le società di persone,
dell’unanimità dei consensi dei soci, affidandole invece alla competenza degli organi sociali  è così che le
modificazioni dello statuto rientrano nella generale competenza dell’assemblea straordinaria dei soci, la
quale delibera con i normali quorum costitutivi e deliberativi previsti in relazione allo stesso.
Le nuove regole statutarie, una volta deliberate, possono essere adottate solo con l’osservanza di importanti
vincoli formali: l’art.2436 prevede che la delibera della modificazione dello statuto “produce effetti”
soltanto in seguito all’iscrizione nel registro delle imprese!

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A tal fine è il notaio che ha provveduto alla verbalizzazione della decisione a dover richiedere questa
iscrizione, mediante il deposito dell’atto e allegando le eventuali autorizzazioni richieste. Tuttavia, sempre
similmente a quanto accade in fase di costituzione, questi, prima del deposito, è tenuto a verificare
“l’adempimento delle condizioni stabilite dalla legge”  ciò significa che egli deve operare un controllo
sul rispetto delle norme, in linea con quello che si è detto incombere su di lui in relazione all’atto
costitutivo.
Se la verifica del notaio dà esito negativo, costui ne deve dare tempestiva comunicazione (max 30 giorni
dopo la verbalizzazione della delibera) agli amministratori, i quali a loro volta avranno altri 30 giorni per
scegliere: se convocare l’assemblea per valutare l’eventualità di assumere una nuova decisione che raccolga
e superi le segnalazioni critiche operate dal notaio, se ricorrere al tribunale affinché sia esso a ordinare (al
termine del cd procedimento di omologazione) l’iscrizione nel registro delle imprese con decreto soggetto
a reclamo, oppure se omettere di fare alcunché in modo che trascorsi i 30 giorni dalla comunicazione la
deliberazione divenga definitivamente inefficace.
Qualora l’esito del controllo notarile o giudiziale sia positivo, l’ufficio del registro delle imprese procederà
all’iscrizione.

La nullità della S.p.a.


L’art.2332 disciplina la nullità della società, cioè quei casi in cui le norme cui la previsione delle clausole
essenziali di atto costitutivo e statuto (art.2328), il procedimento della relativa creazione e modifica
(arrtt.2328, 2333-2335, 2346), nonché il controllo notarile e la pubblicità (artt.2330, 2346) non vengano
osservate e pertanto il procedimento costitutivo e le regole dell’organizzazione risultino a posteriori viziate.
Tale disposizione trova applicazione solo una volta avvenuta l’iscrizione della società nel registro delle
imprese, dunque prima di quel momento vigono le regole generali dettate in tema di contratti!
Però, mentre per il contratto è regola generale quella secondo cui ogni ipotesi di suo contrasto con norme
imperative ne determina la nullità (art.1418), nell’art.2332 è stabilita per la S.p.a. la diversa regola della
tassativa individuazione, da parte del legislatore, di quelle specifiche ipotesi di contrarietà alla legge che
giustificano una dichiarazione di invalidità della società  si prevede che la nullità della S.p.a. può essere
pronunciata solo nei seguenti casi:
1) mancata stipulazione dell’atto costitutivo nella forma dell’atto pubblico;
2) illiceità dell’oggetto sociale;
3) mancanza nell’atto costitutivo di ogni indicazione riguardante la denominazione della società, o i
conferimenti, o l’ammontare del capitale sociale o l’oggetto sociale.
Dunque, in base a tale norma, la violazione ad es. della maggioranza delle norme previste in tema di
costituzione della S.p.a. è irrilevante sul piano dell’invalidità  ciò al contrario di quanto avverrebbe
laddove si applicassero al rapporto sociale i principi contrattuali.
Un altro fondamentale punto in cui la disciplina dell’invalidità della S.p.a. si distacca in maniera rilevante da
quella dettata per i contratti è quello delle conseguenze dell’eventuale accertamento di un’ipotesi di nullità:
istituzionalmente il negozio nullo non produce effetti, dunque in ambito contrattuale occorre ripristinare sul
piano materiale lo stato delle cose che esisteva anteriormente al negozio dichiarato nullo (e ciò giustifica
potenziali richieste restitutorie di beni di fatto consegnati a chi li aveva invalidamente acquistati); invece la
dichiarazione di nullità della S.p.a. è caratterizzata dalla cd irretroattività dei relativi effetti è così che
l’iscrizione della S.p.a. nel registro delle imprese comporta la validità dell’azione a prescindere dalla
circostanza che l’atto costitutivo fosse stato stipulato in modo conforme alle regole che ne dovevano
costituire il presupposto  l’art.2332 prevede infatti che la dichiarazione di nullità non pregiudica
l’efficacia degli atti compiuti in nome della società dopo l’iscrizione nel registro delle imprese: dunque
nessuna pretesa restitutoria può essere fondata nei confronti degli eventuali terzi sull’eventualità che siano
stati accertati vizi di nullità della S.p.a.
Inoltre si vuole che a sua volta l’impegno formalmente assunto dal socio con la sottoscrizione del capitale
sociale sia efficace e irretrattabile anche se relativo ad una società nulla  sempre l’art.2332 stabilisce che i
soci non sono liberati dall’obbligo di conferimento fino a quando non sono soddisfatti i creditori sociali.

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Detto ciò, l’esigenza di certezza dell’azione sociale non comporta, tuttavia, che una S.p.a. nulla possa
continuare tranquillamente la sua attività. Ma siccome non può immaginarsi, in coerenza con il riferito
principio di irretroattività, una semplice scomparsa dell’organizzazione in precedenza eretta, il legislatore
dispone che una reazione adeguata al manifestarsi dell’eventuale nullità sia rappresentata dalla liquidazione
 si prevede così che la sentenza che dichiara la nullità nomina i liquidatori: sicché di fatto la nullità
finisce con l’affiancarsi alle ipotesi previste dall’art.2484 quale motivo di scioglimento del rapporto sociale
e conseguente estinzione della S.p.a.
La S.p.a. nulla è da considerare invece soggetta ai principi e alle regole generali sulla nullità contrattuale per
quegli aspetti su cui la disciplina dell’art.2332 non interviene. Così è senz’altro applicabile all’azione di
nullità della S.p.a. la regola che ne stabilisce l’imprescrittibilità e, del pari, è da ritenere che anche la
legittimazione all’azione di nullità competa a chiunque vi abbia interesse (chiaramente chi ha un concreto
interesse qualificato, cioè colui che sia titolare di una situazione giuridica soggettiva, il cui pieno
soddisfacimento sia per una qualche ragione impedito od ostacolato dall’esistenza della S.p.a. invalida).
Invece, per quanto riguarda la nullità parziale, laddove si consti che solo una clausola statutaria sia viziata,
l’art.2332 impedisce che la sua invalidità possa provocare conseguenze nei riguardi dell’atto costitutivo
nella sua interezza e dunque la nullità della società in quanto tale. Perciò la contrarietà all’ordinamento
giuridico rende la clausola in questione senz’altro nulla, sì che sarà possibile agire per ottenere una
pronuncia di invalidità parziale dello statuto, cioè limitatamente a detta clausola.

I patti parasociali
I patti parasociali sono negozi, stipulati tra i soci (non necessariamente fra tutti), che impongono a se
stessi determinati vincoli in relazione all’esercizio dei poteri amministrativi (specie nel voto) o limiti alla
libera facoltà di disporre delle azioni.
È vero che i soci definiscono le concrete modalità di realizzazione dell’interesse sociale con la redazione
dello statuto, e da questo punto di vista è oggetto di regolamentazione anche la posizione dell’azionista in
quanto socio attraverso la disciplina dell’insieme dei diritti che possono dirsi “formare” la partecipazione
sociale. Tuttavia è ipotizzabile che gli azionisti abbiano interesse a definire i vincoli del proprio
comportamento in società per meglio coordinare la propria azione e assicurarsi così reciprocamente in modo
più efficace la salvaguardia dell’interesse proprietario alla conservazione e valorizzazione dell’investimento
azionario  proprio in vista di questo interesse sono diffusi da lungo tempo nella prassi accordi che si
affiancano allo statuto nella regolamentazione delle posizioni degli azionisti e che, proprio perché
presuppongono la qualità di socio dei soggetti che vi partecipano, sono chiamati patti parasociali.
La causa di tali negozi non può definirsi “societaria”, non avendo come obiettivo il perseguimento del tipico
scopo associativo della produzione e distribuzione dell’utile, bensì la protezione dell’investimento operato
nella S.p.a. da ciascuno dei paciscenti, contro i pericoli che a quell’investimento potrebbero derivare dal
libero esercizio delle prerogative sociali da parte degli altri.
Dalla natura extrasociale di questi patti deriva che essi producono effetti di carattere obbligatorio tra le
parti, mentre ne viene esclusa l’idoneità a incidere nei confronti delle regole organizzative della S.p.a. 
perciò la violazione degli accordi in parola va trattata come un normale inadempimento contrattuale, con la
conseguenza di condurre al risarcimento danni eventualmente procurati alla controparte, ma mai alla
invalidità di atti della società. Pertanto qualora uno dei soci aderenti al patto votasse in modo differente da
quanto si è obbligato a fare, la delibera assembleare sarebbe in ogni caso valida, anche se il suo voto fosse
stato determinante; se egli cedesse le proprie azioni in violazione dell’impegno a non trasferirle a terzi, la
cessione sarebbe valida ed efficace nei confronti della società e l’acquirente ne diverrebbe in ogni caso socio.
Inoltre si pone il problema di stabilire se ed entro quale misura l’influenza dei patti parasociali sulla attività
sociale possa essere consentita considerando che, in ragione della connotazione extrasociale di tali accordi, il
diritto societario non se ne occupa centralmente. La questione si è posta storicamente con riguardo ai
sindacati di voto, cioè ai patti aventi ad oggetto l’esercizio del voto da parte dell’azionista, specie quelli che
impegnano ciascun socio contraente a votare secondo la decisione della maggioranza dei partecipanti
all’accordo. La stipula di questi negozi è stata in passato giudicata da alcuni, poiché potenzialmente idonea
ad alterare le dinamiche assembleari, come contrastante con le regole imperative di funzionamento della

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S.p.a. Dopo un intenso dibattito che aveva visto contrapporsi sul punto opposte posizioni, il legislatore (in
passato silente sul tema) ha finito col prendere esplicita posizione in favore della generale validità degli
accordi parasociali inserendo nel codice gli artt. 2341-bis e 2341-ter.
L’art.2341-bis considera rilevanti ai fini della relativa disciplina non tutti i patti incidenti sull’esercizio dei
diritti del socio ma unicamente quelli aventi un dato oggetto e determinate finalità. La disposizione si
applica infatti agli accordi che:
a) hanno per oggetto l’esercizio del diritto di voto nelle S.p.a. o nelle società che le controllano;
b) pongono limiti al trasferimento delle relative azioni o delle partecipazioni in società che le controllano;
c) hanno per oggetto o per effetto l’esercizio anche congiunto di un’influenza dominante su tali società.
Ciò premesso, la norma stabilisce che essi non possono avere durata superiore a 5 anni e si intendono
stipulati per tale durata anche se le parti hanno previsto un termine maggiore, laddove invece non sia del
tutto previsto un termine finale all’accordo, è disposto che ciascun socio possa recedervi con un preavviso di
180 giorni.
L’art.2341-ter si occupa invece della pubblicità dei patti parasociali, ove riguardino società che fanno
ricorso al mercato del capitale di rischio: è previsto che i patti devono essere comunicati alla società e
dichiarati in apertura di ogni assemblea con obbligo della trascrizione della dichiarazione verbale e relativo
deposito presso il registro delle imprese.

LA STRUTTURA FINANZIARIA

Gli elementi della struttura finanziaria


Come si è detto, il tipo S.p.a. è caratterizzato dall’apertura al reperimento di risorse finanziarie nel mercato
in vista della canalizzazione degli investimenti privati nell’organizzazione d’impresa. A fronte della
contribuzione effettuata, gli investitori ricevono strumenti rappresentativi della posizione che essi rivestono
nei confronti della società, posizione che a sua volta dipende dal tipo di operazione a cui va ricondotto
l’investimento effettuato.
Da questo punto di vista può distinguersi una raccolta nel mercato di risorse finanziarie essenziale al tipo
S.p.a., cioè necessaria per la stessa esistenza di tale forma organizzativa, da una raccolta solo eventuale.
a) È essenziale alla S.p.a. quella raccolta che interviene in occasione della creazione e assegnazione di quei
particolari strumenti finanziari costituiti dalle azioni  in questa circostanza infatti la società riceve il
capitale, cioè la provvista primaria “di rischio” con cui la medesima società lega a sé una specifica
categoria di investitori, gli azionisti  soggetti indispensabili al funzionamento dell’organizzazione,
titolari dei diritti di tipo patrimoniale e amministrativo derivanti dal conferimento effettuato. Invero gli
azionisti, poiché soci, non solo parteciperanno alla distribuzione degli utili e dell’avanzo di liquidazione,
ma avranno voce in capitolo in relazione all’esercizio della società. Inoltre le azioni sono destinate a
circolare: così si realizza quella possibilità di disinvestimento che costituisce altro connotato
caratterizzante la S.p.a. Per rendere poi più agevole tale circolazione, è stabilita la normale emissione di
titoli azionari, i quali – in quanto titoli di credito – rendono più sicuro l’acquisto della partecipazione nel
mercato.
b) È solo eventuale invece la raccolta di risorse sul mercato effettuata con la creazione e assegnazione degli
altri strumenti finanziari partecipativi (di cui fa menzione l’art.2346, ult. c.)  questi possono essere
emessi anche a fronte di una contribuzione non finanziaria (ad es. una prestazione d’opera), e
attribuiscono ai loro titolari diritti di tipo patrimoniale analoghi a quelli degli azionisti, poiché legati ai
risultati dell’attività sociale, nonché prerogative di tipo amministrativo in misura ridotta.
c) Sempre eventuale è poi l’emissione di obbligazioni, cioè strumenti con cui la S.p.a. si procura, sempre
nel mercato finanziario, risorse “a debito”, impegnandosi alla restituzione ad una data scadenza delle
somme ricevute effettuando pagamenti aggiuntivi a titolo di interessi  i titolari di obbligazioni, proprio
in ragione del fatto di contribuire alla formazione non del “capitale di rischio” ma del “capitale di
debito”, non godono degli stessi diritti partecipativi dei soci (ne dei titolari degli altri strumenti finanziari
partecipativi), ma è comunque stabilita una disciplina intesa a tutelare la loro posizione.
Detto ciò, per una migliore comprensione dei contenuti della struttura finanziaria della S.p.a. appena
descritta, è bene anzitutto analizzare la disciplina prevista dal codice civile a proposito del capitale sociale.

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Il capitale sociale
Con “capitale sociale” si intende l’insieme dei mezzi originariamente prestati dai soci e stabilmente
destinati dalla società allo svolgimento dell’attività produttiva che costituisce l’oggetto sociale.
Questo concetto riguarda:
- in primo luogo, un fatto  è capitale sociale ciò che è stato effettivamente prestato dai soci e così posto a
disposizione dell’attività comune. Infatti l’art.2329 prevede quale condizione per la stessa costituzione
della S.p.a. che il capitale sia integralmente sottoscritto, cioè che i soci abbiano assunto l’impegno ad
effettuare i conferimenti in misura pari alla cifra che si intende raggiungere quale capitale. Da questo punto
di vista la cifra del capitale sociale esprime un dato storico, e consente di raffrontare in ogni momento il
finanziamento operato dai soci in via stabile e strutturale (cd capitale di rischio);
- in secondo luogo, nelle S.p.a. il riferito concetto di una stabile destinazione di risorse all’attività sociale è
legato a una regola  all’originaria sottoscrizione del capitale sociale corrisponde anche un vincolo della
società al mantenimento nel corso del tempo del capitale sociale sottoscritto.
La previsione dell’adozione di un dato capitale sociale avviene con una clausola statutaria e ne consegue la
cd fissità del capitale sociale, cioè la sua tendenziale invariabilità nel tempo (infatti perché sia modificata la
cifra del capitale sociale non basta un’ordinaria decisione di tipo gestorio ma occorre che si proceda ad una
formale modifica dello statuto).
Inoltre dalla regola della fissità del capitale discende un rigoroso vincolo di non distribuzione presso gli
azionisti di risorse in misura corrispondente, che si manifesta principalmente:
a) nel divieto di ripartizione degli utili in caso di perdita del capitale sociale, fino a che il capitale non sia
reintegrato o ridotto in misura corrispondente;
b) nella previsione secondo cui la restituzione dei conferimenti ai soci e la conseguente riduzione “reale” del
capitale sociale non è libera, ma è condizionata a un giudizio sulla concreta sostenibilità dell’operazione
da parte della società, affidato in prima battuta ai creditori ma suscettibile di essere ulteriormente devoluto
al tribunale.
Nelle S.p.a. la scelta del capitale sociale da sottoscrivere non è pienamente libera: l’art.2327 prevede che la
S.p.a. debba costituirsi con un capitale non inferiore ai 50.000 € (cd capitale minimo). Questa soglia è
stata peraltro stabilita di recente dal decreto competitività del 2014 che, all’evidente fine di favorire la
nascita di nuove società per azioni (o la trasformazione in tali di iniziative imprenditoriali aventi diversa
forma), ha di molto abbassato il precedente limite, che fissava in 120.000 € la misura minima del capitale.
Pur non essendo contemplata tra le ipotesi la cui violazione determina la nullità della società, è sicuro che il
notaio non possa procedere alla stipula dell’atto costitutivo laddove verifichi che il capitale sottoscritto sia
inferiore a questa soglia. La previsione del capitale minimo è poi vincolante anche in seguito alla
costituzione della S.p.a. lungo tutto il corso dell’esistenza dell’ente  infatti il capitale sociale non può mai
ridursi al di sotto della misura indicata dall’art.2327, pena lo scioglimento laddove non si provveda secondo
quanto stabilito dall’art.2447 (norma che di fronte a tale eventualità consente la continuazione dell’attività
sociale solo qualora, alternativamente, si decida di ricostituire la provvista di capitale nella misura minima,
oppure si opti per la trasformazione della società in un tipo “minore”).

La formazione del capitale sociale


Come si è detto, la cifra del capitale sociale coincide con quella risultante dalle sottoscrizioni dei soci.
Con la dichiarazione di sottoscrizione del capitale (coincidente con la stipulazione dell’atto costitutivo),
chi la emette assume l’impegno di effettuare una prestazione in favore della S.p.a. – il conferimento – il cui
valore è determinato tenendo conto del capitale rappresentato dalle azioni da emettere a nome del
sottoscrittore, e corrispondente a una quota del complessivo capitale della società.
Riguardo ai conferimenti, la legge detta un’articolata disciplina (artt.2342 e 2343-quater) che forma il
complesso sistema del cd capitale reale  si tratta di previsioni complementari a quelle prima riferite
concernenti il capitale nominale, intese alla realizzazione del principio di effettività del capitale sociale:
l’intento legislativo è fare in modo che il rischio degli azionisti, cui è legato il loro fondamentale ruolo
nell’organizzazione sociale sia, appunto, effettivo, e non rimanga solo sulla carta.

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Dunque si prevede anzitutto che «se nell’atto costitutivo non è stabilito diversamente, il conferimento deve
farsi in denaro». Tuttavia la legge autorizza una deviazione da tale regola (dichiarando ammissibili
conferimenti diversi dal denaro) subordinandola al consenso dei soci espresso originariamente nell’atto
costitutivo o, in seguito, nella delibera di aumento del capitale sociale mediante conferimenti in natura.
L’art.2342 richiede che ¼ dei conferimenti in denaro (o l’intero ammontare in caso di società
unipersonale) debba essere versato dai soci presso una banca immediatamente alla sottoscrizione dell’atto
costitutivo, così prevedendo che la società disponga da subito di una parte dei mezzi ad essa destinati per
poter provvedere alle esigenze minime di start-up e ottenere una sorta di impiego cauzionale da parte dei
soci per garantire la serietà del loro coinvolgimento nell’iniziativa comune.
Questa limitazione al 25% del conferimento evita di costringere gli azionisti a un’immobilizzazione dei
propri risparmi che potrebbe in concreto rivelarsi prematura  è normale che la società programmi una
graduale realizzazione nel tempo degli investimenti programmati e dunque spetta agli amministratori
richiedere ai soci la prestazione dei versamenti residui nel momento in cui l’esigenza finanziaria della
società divenga attuale.
Se a questo punto il socio si rende inadempiente la società ha a disposizione un rimedio speciale in
alternativa a quelli ordinariamente spettanti al creditore per ottenere l’adempimento coattivo da parte del
debitore: ai sensi dell’art.2344, decorsi 15 giorni dalla pubblicazione di una diffida sulla Gazzetta Ufficiale,
gli amministratori possono offrire le azioni ancora non liberate, prima agli altri soci, poi nel mercato, e in
mancanza di compratori il socio può essere dichiarato decaduto, trattenendo la società le somme già riscosse
(e salva la richiesta di maggiori danni). Tale ipotesi rappresenta l’unico caso di esclusione del socio
previsto dalla legge per le S.p.a.  come visto, essa non presuppone una decisione degli altri soci, ma
l’espletamento di una procedura a cura degli amministratori. Peraltro, già durante la pendenza della stessa, il
socio inadempiente perde la possibilità di incidere nell’attività sociale, essendo stabilito che “il socio in
mora nei versamenti non può esercitare il diritto di voto”.
Per quanto riguarda invece i conferimenti diversi dal denaro, il legislatore vuole assicurare che il capitale
sociale, in sede di sua formazione, sia certo nel “se” e nel “quanto”, stabilendo: in primo luogo che la società
consegua la sicurezza della disponibilità delle prestazioni promesse a copertura del capitale sociale, in
modo che l’oggetto di tali prestazioni possa realmente essere considerato tra le risorse concretamente
utilizzabili nell’ambito dell’attività sociale ; in secondo luogo che il valore di tali risorse sia pari alla quota
di capitale sociale individualmente assunta dal conferente.
- al primo principio, di effettività “in senso stretto”, l’art.2342, c.3, stabilisce che le azioni corrispondenti ai
conferimenti di beni in natura e di crediti “devono essere integralmente liberate all’atto della
sottoscrizione”  questa esigenza corrisponde non tanto all’acquisizione immediata di tutte le utilità della
cosa conferita, bensì all’assunzione da parte degli amministratori della sicura e irrevocabile disponibilità
della fonte produttiva di tali utilità, di modo che l’eventualità di una loro futura acquisizione non dipenda
da fattori esterni alla società. È per questo che deve ritenersi ammissibile il conferimento di un bene non
solo in proprietà ma anche in godimento (conferimento di un diritto reale o personale di godimento su un
bene immobile, conferimento della licenza d’uso di un marchio): l’esecuzione immediata della prestazione
consisterà nel mettere materialmente a disposizione della società il bene, anche se poi le utilità d’uso
verranno percepite dalla medesima nel corso del tempo.
Inoltre, sempre in funzione della “effettività in senso stretto” è da ritenere essere dettato il divieto previsto
dall’art.2342, c.5, ai sensi del quale “non possono (invece) formare oggetto di conferimento le prestazioni
di opera o di servizi”: infatti il concorso di tali prestazioni alla formazione del capitale non è impedito
dalla difficoltà di una loro valutazione, bensì dalla naturale inidoneità delle medesime a fornire agli
amministratori quel controllo del fattore di produzione rappresentato dal singolo conferimento, che la sua
“imputazione a capitale” in via astratta presuppone.
- a soddisfare l’esigenza di integrità del capitale è invece dedicato l’art.2343, che stabilisce che l’emissione
e la consegna di azioni a fronte del conferimento di beni in natura o di crediti avvengono solo a seguito di
un complesso procedimento, che prevede:
a) l’allegazione all’atto costitutivo di una relazione giurata di un esperto indipendente, “nominato dal
tribunale nel cui circondario ha sede la società”, contenente la stima del valore del bene o del credito
apportati;

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b) il successivo controllo di tale stima (nei 180 giorni dall’iscrizione della società nel registro delle
imprese) da parte degli amministratori;
c) la proporzionale riduzione del capitale sociale nell’ipotesi in cui da una revisione degli amministratori
risulti che “il valore dei beni o crediti conferiti era inferiore di oltre un quinto a quello per cui avvenne il
conferimento”, a meno che il conferente non decida di integrare con versamento in denaro la propria
prestazione o di recedere del tutto dalla società (in quest’ultima soluzione è peraltro stabilito che egli
abbia diritto alla restituzione del conferimento solo qualora sia possibile in tutto o in parte in natura).
Il procedimento di stima previsto dall’art.2343 impone ai soci un vincolo costoso, per questo motivo sono
previste alcune ipotesi in cui il conferimento in natura possa essere realizzato, pur sempre nel rispetto delle
esigenze di effettività del capitale, ma senza che vi sia la necessità del deposito della stima da parte del
perito nominato dal tribunale  secondo l’art.2343-ter la perizia non è necessaria quando il valore attribuito
al conferimento in natura, ai fini della determinazione del capitale sociale e dell’eventuale soprapprezzo, è:
i. (per i titoli quotati nel mercato di capitali – azioni ed obbligazioni – e per gli strumenti quotati nel
mercato monetario – titoli di debito pubblico e certificati di deposito) pari o inferiore al prezzo medio
ponderato al quale tali strumenti finanziari sono stati negoziati nei 6 mesi precedenti il conferimento;
ii. (per i beni ed i crediti) corrispondente al fair value (valore di scambio del bene o del credito) iscritto nel
bilancio dell’esercizio precedente a quello nel quale è effettuato il conferimento;
iii. (per tutti gli altri beni per i quali è ammesso il conferimento) pari od inferiore ad una valutazione
operata da un esperto indipendente e dotato di adeguata e comprovata professionalità, non più di 6
mesi prima del conferimento e conforme ai principi e criteri generalmente riconosciuti per la
valutazione dei beni oggetto del conferimento.
L’art.2343-quater stabilisce poi che gli amministratori devono verificare, entro 30 giorni dall’iscrizione
della società nel registro delle imprese, che non siano intervenuti fatti eccezionali o fatti nuovi che abbiano
inciso sul valore del conferimento; nel caso tali fatti si siano verificati o si consti che l’esperto non possieda i
detti requisiti, occorrerà far luogo ad una ordinaria valutazione secondo le regole generali dell’art.2343.
Non è raro che le parti pongano in essere escamotage diretti a evitare l’effettivo versamento del capitale
sociale  nella prassi non è raro che l’impegno a conferire denaro venga assunto, a volte, solo
“nominalmente” dal sottoscrittore, che concorda con la società di non effettuare in tutto o in parte il proprio
conferimento, decidendosi di operare una compensazione tra il debito che sorge dalla sottoscrizione e un
credito che viene fatto derivare in capo al medesimo sottoscrittore da un altro negozio, appositamente
stipulato tra questi e la società (contratto di vendita, di fornitura, d’opera, ecc.). In tal modo il sottoscrittore
eseguirà una prestazione avente oggetto diverso dal denaro senza rispettare i vincoli posti dagli artt.2342-
2343, aggirando così le regole di legge.
Detto ciò, un tale aggiramento è dalla legge scongiurato, in quanto l’art.2343-bis prescrive che, ove un tale
acquisto intervenga nei 2 anni dall’iscrizione della S.p.a., a fronte di un corrispettivo pari almeno al decimo
del capitale sociale, e riguardi beni/crediti di promotori-fondatori-soci-amministratori, si operi come segue:
a) l’acquisto debba essere autorizzato dall’assemblea;
b) ai soci debba essere messa a disposizione una stima del bene da acquistare o la documentazione
comprovante la sussistenza di ipotesi di esenzione dalla stima;
c) il verbale dell’assemblea debba essere depositato e iscritto presso il registro delle imprese a cura degli
amministratori.
Dunque l’acquisto è consentito ma viene assistito da cautele che mirano a renderlo non suscettibile di
procurare il cd annacquamento del capitale sociale.
Comunque sia non tutti gli acquisti sono soggetti a tale normativa: sono esclusi gli acquisti effettuati a
condizioni normali nell’ambito delle operazione correnti della società, quelli operati sotto il controllo
dell’autorità giudiziaria o amministrativa, quelli intervenuti nei mercati regolamentati.
Sul piano delle conseguenze dell’eventuale mancato rispetto della previsione appena riferita, la violazione
della procedura di legge comporta la solidale responsabilità di amministratori e alienante per i danni
causati alla società, i soci e i terzi.

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Il soprapprezzo e gli apporti “fuori capitale”


Se per formare il capitale sociale servono gli apporti dei soci, non è vero l’inverso: cioè non è vero che ad
ogni apporto del socio corrisponda sempre un contributo a capitale sociale  è plausibile che al socio possa
essere richiesto, oltre a ciò che lo identifica come socio di S.p.a. (cioè il conferimento di quel capitale da
utilizzare produttivamente nell’attività sociale), di operare una prestazione ulteriore che venga a favorire più
in generale lo scopo comune, accrescendo il patrimonio della società senza per questo aumentare il capitale.
1) A questo ordine di idee corrisponde anzitutto il soprapprezzo, la cui prestazione è tipicamente prevista
dalla legge (ed in tal caso la società deve imporla, come si vedrà) nell’aumento di capitale sociale con
esclusione del diritto di opzione (art.2441, c.6) e considerata ammissibile nel contesto della costituzione
della S.p.a. prevedendosene la possibile menzione nell’attestazione depositata dall’esperto in caso di
conferimenti in natura. Il soprapprezzo costituisce un tipico “apporto” del socio (dunque non soggetto a
restituzione), il cui fondamento va rinvenuto nella negoziale determinazione del pagamento di una sorta di
corrispettivo a carico del singolo sottoscrittore per l’accesso alla società  si tratta di un’entità
certamente incrementativa del patrimonio sociale, ma non in sé “imputabile a capitale”: rappresenta un
supporto per agevolare o assicurare l’attuazione del programma sociale.
La prestazione del soprapprezzo impone la costituzione di una riserva, alla quale la legge dedica
l’art.2431 che ne impedisce la distribuzione “fino a quando la riserva legale non abbia raggiunto il limite
stabilito dall’art.2430”; una volta raggiunto invece la società potrà disporre dei fondi, a favore di tutti i
soci, come ritiene. Inoltre non è possibile un versamento del soprapprezzo dilazionato nel tempo: là dove
previsto esso va versato interamente al momento della sottoscrizione delle azioni (ciò in coerenza con la
sua peculiarità di “tassa sociale” prevista quale condizione per l’accesso all’organizzazione comune).
2) Diversa dal caso di soprapprezzo è l’ipotesi in cui il socio effettui un conferimento a capitale
individualmente esuberante: cioè, in sé imputato alla formazione del capitale complessivo della S.p.a.,
ma superiore alla quota di capitale nominale a lui assegnata, e dunque non proporzionale alla
partecipazione assunta. Si tratta del caso espressamente previsto dalla legge (art.2346, c.4) in cui un
azionista si obbliga ad un conferimento superiore rispetto a quello strettamente necessario in relazione alle
azioni da emettere in suo favore, in quanto strumentale all’emissione in favore di un altro socio di un
numero di azioni per un valore più che proporzionale rispetto al conferimento cui, a sua volta,
quest’ultimo si obbliga. Infatti la legge consente ai soci di scegliere una distribuzione delle azioni non
proporzionale al valore dei rispettivi conferimenti: il citato art.2346, dopo aver stabilito il criterio generale
dell’assegnazione a ciascun socio delle azioni in via “proporzionale alla parte del capitale sottoscritta e
per un valore non superiore a quello del suo conferimento”, aggiunge che “lo statuto può prevedere una
diversa assegnazione delle azioni”  si pensi al padre di famiglia imprenditore che, volendo avviare il
ricambio generazionale a favore dei propri figli, costituisca con i medesimi una S.p.a. conferendovi la
propria azienda (mentre i figli conferiscono ciascuno una modestissima somma si denaro), ma
concordando l’assegnazione a sé di un numero di azioni marginale.
3) Si deve infine dare conto della prassi dei soci di effettuare, per venire incontro a un bisogno della società,
“versamenti” a patrimonio, senza canalizzarli nelle forme procedimentali richieste dalla legge in relazione
all’aumento di capitale. Si parla di “apporti spontanei” alludendo alla circostanza che tali prestazioni non
corrispondono a nessun impegno del socio, ne determinano alcuna variazione della sua situazione
soggettiva nei rapporti con la società  nella prassi è più comune il ricorso alla denominazione di
versamenti in conto capitale o versamenti a fondo perduto, a seconda della generica destinazione dei
medesimi a sopperire a una potenziale futura esigenza di capitalizzazione o alla copertura di perdite.
Siccome non è prevista una disciplina per tali apporti, l’opinione prevalente è forse quella secondo cui i
versamenti sono assoggettabili analogicamente all’art.2431, dettato in tema di soprapprezzo  si
formerebbe dunque un’apposita riserva non distribuibile se non quando la riserva legale abbia raggiunto
il limite del quinto del capitale sociale.
Da tali tipologie di apporti vanno tenuti distinti gli eventuali prestiti che i soci eroghino alla società 
l’ipotesi non è infrequente, specie nelle società medio-piccole: il primo finanzia la seconda fornendole
risorse a titolo di capitale di debito, dunque ne diviene creditore come un qualsiasi terzo (ad es. la banca)
che abbia a sua volta prestato denaro alla società. Per questo motivo la fattispecie è radicalmente diversa da
quella del conferimento e degli apporti fuori capitale di cui abbiamo sin qui parlato e il suo trattamento
giuridico dipende dalle previsioni stabilite per il rapporto contrattuale cui si dà vita.

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Le azioni con prestazioni accessorie


L’art.2345 stabilisce che “oltre l’obbligo dei conferimenti, l’atto costitutivo può stabilire l’obbligo dei soci
di eseguire prestazioni accessorie non consistenti in denaro, determinandone il contenuto, la durata, le
modalità e il compenso, e stabilendo particolari sanzioni per il caso di inadempimento”.
Questo istituto consente alla società di vincolare gli azionisti assegnatari dei titoli in parola a fornire utilità
eterogenee rispetto ai conferimenti a capitale, là dove i soci ritengano tali utilità opportune in vista della
migliore realizzazione dell’attività sociale  ad es. si può immaginare il caso in cui il sottoscrittore si
obblighi (oltre al conferimento) a curare la contabilità della società per due ore la settimana per un anno.
Tali prestazioni vincolano i soci ad effettuare delle prestazioni che non possono formare oggetto di
conferimento e introducono un elemento personalistico nella partecipazione sociale.
Le azioni con prestazioni accessorie devono essere nominative e non sono trasferibili senza il consenso degli
amministratori dato che il trasferimento delle azioni comporta anche il trasferimento all’acquirente
dell’obbligo di eseguire la prestazione accessoria. Inoltre, salvo che non sia previsto diversamente dallo
statuto, tali obblighi possono essere modificati solo con il consenso di tutti i soci.

- LE AZIONI -
Nozione e caratteri
Ai sensi dell’art.2346, “la partecipazione sociale è rappresentata da azioni”. Tale previsione contiene tre
distinti precetti:
a) l’assegnazione di azioni attesta e misura la partecipazione al capitale sociale di ciascun socio;
b) dal numero e dal tipo di azioni assegnate discendono peso e caratteri della partecipazione all’attività
sociale;
c) il possesso o la disponibilità delle azioni, intese come titoli azionari, condizionano l’acquisto e l’esercizio
dei diritti partecipativi.
Dunque, in tali affermazioni, al termine “azioni” viene dato un significato ogni volta diverso: nel primo caso,
di partizioni del capitale sociale, nel secondo di insieme di situazioni giuridiche soggettive, nel terzo di
documenti destinati all’esercizio di quelle posizioni.
Guardando al primo profilo, col prevedere che le azioni “rappresentano” la partecipazione dei soci nella
società, si affida ad esse prima di tutto il compito di certificare formalmente (e cristallizzare) il contributo
del socio al capitale sociale. È così che le azioni indicano in che misura la collettività dei soci valuta il
conferimento apportato dal singolo in termini di risorsa finanziaria produttiva.
Ad es. un capitale sociale di € 60.000 viene suddiviso in 60 azioni (ogni azione vale 1.000 €  unità
minima di apporto finanziario) e ad un socio vengono assegnate 20 azioni a fronte del suo conferimento:
ciò indica che tale conferimento è stato valutato 20.000 €.
L’unità minima di apporto finanziario, predeterminata nello statuto, consente ai singoli investitori di
modulare liberamente la propria partecipazione al programma sociale e impone di considerare le
partecipazioni del tutto fungibili l’una alle altre sul piano dell’esercizio dell’attività d’impresa  in tal
modo si attua il principio della essenziale spersonalizzazione della partecipazione, reso efficacemente
con la tradizionale affermazione secondo cui le S.p.a. sono, non comunità di persone, ma unioni di “sacchi
di denaro”, in cui a rilevare sul piano della relazione tra gli associati è il valore monetario del contributo del
singolo se rapportato all’intera dotazione di capitale di rischio.
Per valore nominale delle azioni si intende la parte della dotazione di capitale di rischio che deve
considerarsi espressa dalla singola azione. Se le azioni attestano l’avvenuta sottoscrizione di frazioni del
capitale sociale, il loro valore nominale si esplicita nella formula [cap.soc / num.azioni]. Si tratta perciò di
un valore che deve necessariamente corrispondere alla divisione della cifra del capitale sociale per il numero
delle azioni emesse (nell’esempio prima citato dunque sarà 60.000 / 60 = 1.000). Il valore nominale ha un
fondamentale rilievo organizzativo sul piano dei rapporti tra la S.p.a. e i singoli azionisti: misura i diritti
spettanti a ciascuno di essi, diritti che competono appunto in proporzione alle azioni possedute, in quanto
rappresentative di una porzione predeterminata del capitale sociale.

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Il valore nominale delle azioni rappresenta dunque un dato formale, esprimendo in termini monetari l’unità
minima di investimento. Pertanto, in nessun modo questa espressione si deve intendere significativa di un
altro valore rappresentato dalle azioni: il valore reale  esso dipende dal valore del patrimonio netto
concretamente presente nella S.p.a. in un dato momento storico. Perciò è dato dalla divisione del valore del
patrimonio aziendale per il numero delle azioni emesse, mutando nel tempo al mutare di tale patrimonio
[patr.netto / num.azioni].
Sempre l’art.2346 consente tuttavia che una determinazione nello statuto del valore nominale delle azioni
manchi cosicché ove in effetti non compaia la relativa clausola nel corpo dell’atto costitutivo, si avrà una
S.p.a. con azioni senza valore nominale (anzi, non tanto “senza valore nominale”, bensì “senza indicazione
del valore nominale”). Infatti in tal caso lo statuo deve indicare solo il capitale sottoscritto ed il numero delle
azioni emesse, dunque la partecipazione al capitale del singolo azionista sarà espressa non in cifra monetaria
ma in una percentuale del numero complessivo delle azioni emesse  ad es. il capitale sociale di € 60.000 è
diviso in 60 azioni, e l’azionista che ha sottoscritto 20 azioni sarà titolare del 33,3% del capitale sociale, e
quindi del 33,3% dei diritti di voto e del diritto agli utili.
Invece nelle azioni con valore nominale lo statuto deve specificare non solo il capitale sottoscritto e il
numero delle azioni, ma anche il loro valore nominale  così ad es. il capitale sottoscritto di € 60.000, potrà
essere diviso in 60 azioni da 1.000 € ciascuna. Il valore nominale delle azioni resta invariato nel tempo e può
essere modificato solo con una modifica dell’atto costitutivo, dando luogo ad un ulteriore frazionamento o al
raggruppamento delle azioni.
Per tutte le azioni (con e senza valore nominale) vale la regola che in nessun caso il valore complessivo dei
conferimenti può essere inferiore all’ammontare complessivo del capitale sociale. Il che comporta che le
azioni non possono essere complessivamente emesse per una somma inferiore al loro valore nominale,
evitando così che il capitale realmente conferito dai soci sia inferiore a quello dichiarato. Le azioni possono
invece essere emesse per una somma superiore al loro valore nominale (emissione con soprapprezzo).
Ai sensi dell’art.2354, il valore nominale delle azioni o, per il caso di azioni senza valore nominale, “il
numero complessivo delle azioni emesse, nonché l’ammontare del capitale sociale” devono essere indicati
nei titoli azionari eventualmente emessi dalla società. La formalità è funzionale a far conoscere al
sottoscrittore il peso proporzionale della partecipazione assunta in rapporto al capitale complessivo, ma
implica un gravoso onere di correzione del titolo da parte degli amministratori in ogni caso in cui i dati in
parola dovessero divenire non più attuali (aumento o riduzione del capitale nominale).

Creazione delle azioni e aumento del capitale sociale


La creazione delle azioni si può avere in tre diverse occasioni:
a) al momento della costituzione della S.p.a.  essa richiede in primo luogo la sottoscrizione delle azioni
rappresentative del capitale, che interviene al momento della stipula dell’atto costitutivo o, nel caso di
pubblica sottoscrizione, successivamente alla pubblicazione del programma; in secondo luogo il
versamento presso una banca del 25% del valore nominale, da tenere depositato e con divieto per gli
amministratori di operarne il divieto fino a quando la società non sia iscritta. Tali fatti sono necessari e
sufficienti alla creazione delle azioni e alla relativa assegnazione al sottoscrittore senza che occorra altra
formalità. Tuttavia è possibile anche che le azioni siano assegnate ad un socio, mediante apposita clausola
dell’atto costitutivo, in modo non proporzionale alla sottoscrizione effettuata e dunque a fronte di un solo
parziale apporto del corrispondente capitale (il caso del padre imprenditore con i propri figli).
b) durante il corso dell’attività sociale, allorché si decida di accrescere la dotazione finanziaria di rischio
procedendo ad un aumento di capitale sociale tramite nuovi conferimenti (ovvero, come pure si dice
aumento di capitale “a pagamento”, o “reale”)  è infatti possibile che i soci, spontaneamente o
sollecitati dagli amministratori, ritengano di dover aggiornare nel corso della vita della società l’originaria
previsione del capitale sociale: o perché la considerano non adeguata all’attività che si sta svolgendo
oppure in vista di uno sviluppo futuro sul piano qualitativo o dimensionale dell’attività. In tal caso
l’aumento di capitale avviene raccogliendo nuove risorse finanziarie da destinare all’attività e da
sottoporre da subito al rigido regime vincolistico del capitale sociale. Trattandosi di una modifica all’atto
costitutivo, organo competente è, come per tutte le modificazioni statutarie ex art.2436, l’assemblea dei
soci, che delibera in sede straordinaria con le maggioranze previste in generale dall’art.2368. Tuttavia il

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legislatore riconosce un potere in tal senso anche agli amministratori, prevedendo che la decisione circa
l’aumento di capitale possa essere loro delegata in alcuni casi, stabili dall’art.2443, cioè: attraverso una
previsione statutaria inserita originariamente nell’atto costitutivo o con una modifica successiva, oppure
fino ad un ammontare predeterminato nella clausola statutaria di delega, o ancora per il periodo massimo
di 5 anni dalla data dell’iscrizione della società nel registro delle imprese  in tal modo il codice si apre
al sistema del cd “capitale autorizzato”, sistema per cui, in materia di struttura finanziaria, all’assemblea
spetta unicamente il ruolo di predeterminare l’importo massimo dell’investimento da destinare a una data
iniziativa, affidando invece agli amministratori il compito di individuare la misura concreta del capitale di
rischio di cui dotare la società in considerazione della situazione del mercato.
Nell’aumento di capitale sociale tramite nuovi conferimenti la delibera non è sufficiente per il mutamento
della cifra del capitale sociale in quanto devono intervenire anche nuove sottoscrizioni, cioè dichiarazioni
negoziali degli investitori con le quali vengono espressi impegni a conferire il denaro o gli altri beni
necessari a coprire il capitale nominale aggiuntivo  pertanto è corretto dire che l’adozione del nuovo
capitale e la creazione delle nuove azioni si perfeziona con la raccolta, da parte degli amministratori,
delle sottoscrizioni. Inoltre il legislatore prevede che con la delibera di aumento del capitale vada anche
determinato il termine finale entro il quale devono intervenire le sottoscrizioni  infatti qualora allo
scadere di quel termine il capitale raccolto sia inferiore al deliberato, l’aumento di capitale non può avere
luogo nemmeno in parte e i sottoscrittori sono liberati dal vincolo assunto.
Dunque è da ritenere che la precisazione del termine massimo per la raccolta delle nuove adesioni sia un
elemento essenziale della delibera di aumento di capitale!
c) sempre durante il corso dell’attività sociale ma operando un’emissione azionaria a prescindere dalla
raccolta di nuove risorse, dunque prevedendo che le azioni vengano assegnate “gratuitamente” a chi ne
sarà titolare (detto anche aumento di capitale “gratuito” o “nominale”)  l’aumento di capitale gratuito
consiste in una mera operazione contabile di imputazione a capitale (= di assoggettamento alla disciplina
del capitale) di valori patrimoniali già presenti in società (riserve disponibili o utili) senza incremento,
perciò, del patrimonio della stessa. Anche in tale fattispecie la decisione della società di modificare la
clausola originaria concernente il capitale sociale è motivata da una volontà di adeguamento delle risorse
stabilmente destinate all’attività ai suoi maggiori volumi effettivi ovvero da un piano di sviluppo della
medesima attività, ma, condizione necessaria perché si possa programmare un tale aumento di capitale
sociale, è che la società già possieda “fondi propri” in misura superiore rispetto a quelli corrispondenti
all’importo del capitale sociale precedentemente stabilito, e detenga detta porzione esuberante di risorse
quali fondi “disponibili” e cioè non vincolati rigidamente per legge a un determinato utilizzo. Con la
decisione di aumento di capitale cessa allora tale situazione di “disponibilità”  le risorse in questione
vengono sottoposte alla regola vincolistica del capitale, cioè esse perdono il connotato della disponibilità
e vengono assoggettate al precetto, assistito da sanzione penale ex art.2626 (reclusione fino a 1 anno),
della non restituibilità, tipica del “capitale sociale”.
L’aumento di capitale gratuito è previsto dall’art.2442, secondo cui «l’assemblea può aumentare il
capitale, imputando a capitale le riserve e gli altri fondi iscritti in bilancio in quanto disponibili» 
l’operazione dunque si concreta, in primo luogo, in una deliberazione dell’assemblea straordinaria
modificativa dello statuto, con cui si decide di imputare a capitale risorse patrimoniali che la società ha
già acquisito, e fino a quel momento detenuto quali fondi disponibili; in secondo luogo, l’operazione può
(ma non deve) concretarsi nell’emissione di nuove azioni: infatti il 2° comma dispone che in una tale
evenienza dette azioni «devono avere le stesse caratteristiche di quelle in circolazione, e devono essere
assegnate gratuitamente agli azionisti in proporzione di quelle da essi già possedute»  dunque non può
immaginarsi un aumento di capitale nominale che determini un’alterazione delle precedenti quote di
partecipazione all’organizzazione, ne può immaginarsi che i soci sopportino un sacrificio economico per
ottenere l’assegnazione di nuove azioni. L’unico caso previsto nel codice civile in cui un’alterazione del
precedente assetto partecipativo al capitale sociale può prodursi è quello previsto dall’art.2349, ai sensi
del quale “se lo statuto lo prevede, l’assemblea straordinaria può deliberare l’assegnazione di utili ai
prestatori di lavoro dipendenti delle società o società controllate mediante l’emissione, per un
ammontare corrispondente agli utili stessi, di speciali categorie di azioni da assegnare individualmente ai
prestatori di lavoro, con norme particolari riguardo alla forma, al modo di trasferimento ed ai diritti
spettanti agli azionisti”. Si tratta di una norma eccezionale, ispirata a favorire il cd azionariato dei
dipendenti  un sistema di determinazione di un premio di quest’ultimi, che si traduce in una parallela

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incentivazione del legame fiduciario tra i medesimi e la società, con potenziali effetti positivi nei
confronti dei risultati sociali.
Alternativamente all’emissione di nuove azioni, l’aumento di capitale gratuito può attuarsi anche
“mediante aumento del valore nominale delle azioni in circolazione” (art.2442, c.3).
Per quanto riguarda la disciplina dell’apporto del nuovo “capitale reale”, il codice si preoccupa di dettare
una serie di regole, rivolte ad assicurare l’effettività del capitale attraverso specifiche previsioni, in parte
analoghe a quelle previste in sede di costituzione per i conferimenti.
i) È vietata la realizzazione di un aumento di capitale fino a quando non consti l’integrale liberazione delle
azioni precedentemente emesse  è incoerente agli occhi del legislatore che si provveda a raccogliere nuova
finanza in un momento in cui una parte del finanziamento di cui la società abbia già diritto non sia stata
ancora riscossa, anche se nulla vieta di solo programmare la nuova raccolta di capitale prima del
completamento dell’operazione di riscossione della vecchia.
ii) In caso di conferimento in denaro, il 25% di questi deve essere versato all’atto della sottoscrizione.
iii) Le azioni di nuova emissione si devono liberare tramite conferimenti in denaro, a meno che si stabilisca
espressamente di accettare dai nuovi sottoscrittori apporti in natura ed una tale decisione compete
all’assemblea straordinaria  è evidente che anche in occasione dell’aumento di capitale permane la
necessità di garantire il rispetto del principio di effettività.

Il diritto di opzione
Come abbiamo visto, l’aumento di capitale sociale tramite nuovi conferimenti può alterare le precedenti
percentuali di partecipazione nella società degli azionisti. Infatti aumentando il numero delle azioni in
circolazione, aumenta la misura complessiva delle azioni su cui si andrà a calcolare le percentuali
partecipative di ciascun socio, e laddove accada che i nuovi obblighi di conferimento vengano assunti da
terzi o in modo non proporzionale dai precedenti soci, la misura complessiva dei rispettivi diritti e obblighi
varierà in corrispondenza dell’assetto derivante dalle nuove sottoscrizioni.
Il mutamento dei precedenti equilibri partecipativi è possibile fonte di pregiudizi degli interessi individuali
dei soci, in quanto la maggioranza potrebbe in tal modo approfittarne per diluire il peso di presenze avvertite
come “scomode”; inoltre un’alterazione non concordata della precedente distribuzione delle partecipazioni
può rilevare sotto il profilo dell’interesse della società all’efficienza della propria azione, in quanto tale
alterazione può cambiare i precedenti equilibri di governo aumentando la conflittualità tra azionisti.
Per queste ragioni il legislatore ha previsto il cd diritto di opzione  art.2441: «Le azioni di nuova
emissione e le obbligazioni convertibili in azioni devono essere offerte in opzione ai soci in proporzione al
numero delle azioni possedute»  in questo modo si impedisce agli amministratori il discrezionale (o
arbitrario) indirizzamento dell’offerta di sottoscrizione poiché il mantenimento della precedente quota di
capitale sociale del singolo socio viene fatto dipendere unicamente dalla sua decisione di accettare o meno
l’offerta rivoltagli dagli amministratori stessi; ovviamente, per poter mantenere tale quota, il socio dovrà
affrontare l’onere di incrementare il proprio investimento in società.
Per assicurare il rispetto del diritto di opzione dei soci, la legge predetermina il procedimento di raccolta
delle nuove sottoscrizioni: l’offerta societaria va pubblicata dagli amministratori nel registro delle imprese
(in via separata dalla delibera di aumento di capitale) e contestualmente resa nota attraverso un avviso
pubblicato sul sito internet della società, inoltre dal momento di questa pubblicazione decorre un termine, da
precisare nell’offerta medesima, non inferiore a 15 giorni.
Poi il legislatore stabilisce che le azioni cd inoptate (cioè quelle che rimangono non sottoscritte allo scadere
dell’offerta in opzione) non possono essere liberamente collocate, ciò sempre per evitare che gli
amministratori intervengano discrezionalmente/arbitrariamente sugli assetti della compagine sociale. È così
che coloro i quali abbiano esercitato tempestivamente il diritto di opzione, previa espressione di specifica
richiesta, hanno diritto di prelazione nell’acquisto delle azioni e delle obbligazioni convertibili in azioni che
siano rimaste non optate. Pertanto, solamente nel caso in cui residuino azioni non sottoscritte dopo che si sia
conclusa anche l’offerta dell’inoptato, gli amministratori saranno liberi di collocarle presso eventuali terzi.
Tuttavia, seppur la disciplina del diritto di opzione corrisponda ad un’esigenza apprezzabile e degna di
riconoscimento, determina evidenti limiti all’azione discrezionale degli organi sociali, non sempre

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trascurabili nell’ottica del migliore perseguimento degli scopi comuni è infatti ipotizzabile che l’aumento
di capitale si rilevi uno strumento importante per l’attuazione di programmi, suscettibili di arrecare grande
vantaggio alla S.p.a., ma che necessitino dell’ingresso di un terzo in società per il tramite della sottoscrizione
di un aumento di capitale. Per evitare dunque di comprimere oltre modo il potere della maggioranza, la
legge stabilisce che il diritto di opzione possa essere escluso in casi tipicamente individuati (e tale
esclusione deve essere deliberata dall’assemblea):
a) quando le azioni devono essere deliberate mediante conferimenti in natura;
b) quando l’interesse della società lo esige ( l’interpretazione di tale ipotesi è particolarmente dibattuta:
l’opinione più risalente afferma che, perché si giustifichi un’esclusione del diritto di opzione, occorre
che l’aumento di capitale con l’ingresso del terzo sia operazione strettamente essenziale alla
realizzazione dell’interesse sociale e dunque di fatto necessaria per la sopravvivenza della S.p.a.; per la
tesi oggi prevalente basta invece che la sottoscrizione dell’aumento di capitale ad opera del terzo sia
preferibile rispetto ad altre eventuali prospettazioni, in vista del raggiungimento degli scopi sociali);
c) quando le azioni sono offerte ai dipendenti della società o di società che la controllano o che sono da
essa controllate;
d) nelle sole società quotate il diritto di opzione può escludersi tout court, sebbene solo nei limiti del 10%
del capitale sociale preesistente.

Estinzione delle azioni e riduzione del capitale sociale


La riduzione del capitale sociale consiste nell’abbassamento della soglia di investimento stabilmente
destinato all’attività sociale, rispetto a quella precedentemente prevista dai soci con la determinazione del
capitale sociale. Al riguardo occorre distinguere due diverse ipotesi: la riduzione reale del capitale, che
determina un impoverimento della società con correlativa restituzione ai soci di parte delle risorse
precedentemente apportate, e la riduzione nominale, che la legge disciplina al verificarsi di perdite al
capitale realizzando semplicemente, senza uscita di risorse, un riallineamento tra l’importo del capitale
programmato nello statuto e l’importo (ormai più basso) del patrimonio netto di cui la società effettivamente
dispone in un dato momento storico.
Partendo dall’operazione di riduzione reale del capitale (art.2445), la relativa decisione è di competenza
esclusiva dell’assemblea straordinaria e sono stabilite due possibili diverse modalità di realizzazione  i
soci possono stabilire, alternativamente, o il rimborso del capitale versato (in denaro, mai con restituzione in
natura di parte dei conferimenti effettuati) o la liberazione dei soci dall’eventuale debito residuo ai
versamenti (fino a concorrenza con la misura di riduzione stabilita).
La decisione di riduzione del capitale può essere giustificata non solo da una constatata sovrabbondanza
delle risorse interne della società rispetto all’attività in corso, ma anche quando dette risorse non siano
eccessive  è dunque legittimo che la maggioranza dei soci persegua unicamente scopi di parziale
liquidazione dell’azienda, con correlativo ridimensionamento dell’affare intrapreso. Ma ciò, tuttavia, non
significa che la delibera di riduzione del capitale possa essere assunta senza che siano offerte spiegazioni al
riguardo: l’art.2445, c.2, stabilisce infatti che l’avviso di convocazione deve indicare le ragioni e le modalità
della riduzione.
Infine, la riduzione reale di capitale è soggetta ad un importante vincolo esterno alla società  art.2445, c.3:
«La deliberazione può essere eseguita soltanto dopo 90 giorni dal giorno dell’iscrizione nel registro delle
imprese, purché entro questo termine nessun creditore sociale anteriore all’iscrizione abbia fatto
opposizione». Infatti coloro che hanno fatto credito alla società ne hanno misurato la solvibilità tenendo
presente lo stabile contributo offerto dal capitale alla formazione della provvista finanziaria di rischio,
contributo che rappresenta pertanto una garanzia indiretta rispetto a tale solvibilità. Questa subordinazione
dell’eseguibilità dell’operazione alla mancata opposizione dei creditori si ricollega direttamente al vincolo di
indisponibilità che i soci avevano impresso originariamente al capitale: la riduzione ha infatti per effetto
proprio quello di sciogliere una parte di tale valore finanziario dal vincolo di indisponibilità. La legge lo
permette perché reputa meritevole in linea di principio l’interesse dei soci di rivedere il programma
finanziario originario della società, ma proprio in considerazione del vincolo inizialmente impresso e delle
funzioni cui lo stesso assolve, non rende una simile operazione del tutto libera per i soci ma la condiziona al
fatto che i creditori, con l’opposizione, non affermino una compromissione di quelle funzioni. Ciò tuttavia
non significa che la valutazione soggettiva dei creditori debba condizionare in termini assoluti le scelte dei

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soci: contro il rischio che i primi manifestino un’eccessiva prudenza in tale valutazione, il c.4 stabilisce che
la società possa rivolgersi al tribunale, e che questo “quando ritenga infondato il pericolo di pregiudizio
per i creditori oppure la società abbia prestato idonea garanzia, può disporre che l’operazione di riduzione
abbia comunque luogo nonostante l’opposizione”.
L’esecuzione di tale operazione comporta la riduzione del valore nominale delle azioni (necessariamente in
misura uguale per tutte le azioni) oppure l’estinzione di alcune azioni (in misura complessivamente
corrispondente alla riduzione decisa). L’estinzione dovrà rispettare il principio di parità di trattamento fra i
soci, dunque dovrà riguardare ciascuno di essi, proporzionalmente alla rispettiva partecipazione.
Venendo ora alla seconda ipotesi di riduzione del capitale, chiamata anche riduzione del capitale per perdite,
disciplinata dagli artt.2446-2447, è quella in cui il patrimonio netto della società è inferiore alla cifra del
capitale sottoscritto. Il legislatore interviene dunque con una serie di norme imperative.
a) Qualora la perdita del capitale sociale sia superiore a ⅓ rispetto alla misura dello stesso (cioè quando il
valore del patrimonio netto sia sceso al di sotto dei ⅔ del capitale nominale), gli amministratori hanno
l’obbligo di attivarsi convocando senza indugio l’assemblea, a cui dovranno sottoporre una relazione
sulla situazione patrimoniale della società. A questa riunione i soci non devono necessariamente adottare
decisioni di modifica alla cifra del capitale sociale: è previsto solamente che l’assemblea assuma gli
opportuni provvedimenti  dunque ciò che richiede l’art.2446 è di avvertire i soci della concreta
divergenza tra la regola ideale del capitale sociale posta nella clausola statutaria ed il capitale reale di cui
la società di fatto dispone, saranno poi i soci a decidere discrezionalmente se e in che senso la divergenza
sia da considerare intollerabile da subito, a seconda che giudichino l’anomalia temporanea o strutturale.
Tuttavia la stessa discrezionalità non è loro consentita qualora la perdita (nelle stesse proporzioni) perduri
per un altro esercizio  il legislatore infatti non consente di mantenere il capitale sociale non effettivo
oltre tale periodo, imponendo per un simile caso la modifica del capitale nominale in modo da renderla
corrispondente a quella effettivamente esistente; e tale modifica deve essere effettuata dall’assemblea
ordinaria o dal consiglio di sorveglianza, nel caso in cui questi organi non provvedano a deliberare la
riduzione del capitale, gli amministratori e i sindaci o il consiglio di sorveglianza stesso devono rivolgersi
al tribunale perché sia questo a disporre la riduzione medesima.
b) Qualora la perdita di oltre ⅓ del capitale sociale porti questo ad una misura inferiore al minimo (di
€ 50.000): non può infatti tollerarsi che la società venga ad assumere stabilmente un capitale inferiore al
minimo nel corso della sua attività. È così che in tale ipotesi l’art.2447 impone di convocare l’assemblea
“senza indugio” proponendo di deliberare la riduzione del capitale ed il contemporaneo aumento del
medesimo ad una cifra non inferiore al detto minimo (aumento ovviamente a pagamento).
Alternativamente a ciò, si può optare per la trasformazione in un tipo di società per il quale sia previsto
un capitale minimo inferiore, dovendosi altrimenti deliberare lo scioglimento della società.
c) Là dove invece la perdita sia inferiore al limite di ⅓ del capitale sociale, l’assemblea può comunque
decidere di ridurre il capitale così da operare un riallineamento tra la misura statutaria e quella effettiva
(cd riduzione facoltativa).
Anche la riduzione nominale, in tutti casi visti, comporta o la riduzione del valore nominale di tutte le
azioni o l’estinzione di alcune di esse, colpendo ciascun socio proporzionalmente alla partecipazione
posseduta (salvo che non esistano categorie di azioni postergate nella sopportazione delle perdite).
Guardando ora al secondo profilo attribuito al termine “azione” dall’art.2346, ossia quello di “rappresentare”
la partecipazione individuale all’attività sociale, con esso si intende identificare non la quota unitaria
dell’investimento in capitale di rischio ma una ideale porzione unitaria del rapporto che lega l’azionista
alla società  rapporto i cui contenuti sono rappresentati dai diritti e obblighi attribuiti dalle azioni
possedute. Col termine “partecipazione” a sua volta qui si intende, anziché il contributo a capitale in sé, il
suo effetto nei rapporti con l’organizzazione sociale.
Dunque, se da un lato l’assegnazione di azioni costituisce titolo per l’assunzione della partecipazione sociale,
dall’altro la medesima partecipazione (intesa quale insieme dei diritti del socio) rappresenta un elemento
fondamentale per la concreta integrazione di un’organizzazione che possa dirsi societaria e per il buon
funzionamento della governance, atteso il tipico ruolo assegnato ai soci di “controllori” nei confronti della
gestione svolta, in via esclusiva, dagli amministratori della S.p.a. sui beni comuni. Tale ruolo infatti è svolto
per il necessario tramite dei diritti partecipativi del socio, i quali a loro volta trovano continuo e perenne
incentivo nell’investimento operato dall’azionista.

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Le azioni sono le unità minime indifferenziate della partecipazione individuale all’attività sociale e ai suoi
risultati  pertanto si caratterizzano in quanto indivisibili, inscindibili e uguali.
- Il primo requisito è sancito dall’art.2347: si tratta di un dato del tutto in linea con la visione dell’azione
quale unità minima predefinita dell’investimento in S.p.a. L’indivisibilità dell’azione però non comporta
che essa non possa essere oggetto di contitolarità tra più persone, ma solo la necessità che una tale
eventuale contitolarità non contraddica la regola secondo cui l’azione deve appunto esprimere la misura
minima dell’investimento in quella specifica S.p.a. e quindi dell’unitaria partecipazione in società. Si
comprende dunque la previsione secondo cui nel caso di comproprietà di un’azione, i diritti dei
comproprietari devono essere esercitati da un rappresentante comune, ed in ordine alla nomina di tale
rappresentante, l’art.2347 rinvia alle norme previste in tema di comunione  dunque deve avvenire a
maggioranza, e non all’unanimità (come nel caso del mandato collettivo). L’indivisibilità della
partecipazione azionaria non significa naturalmente immutabilità della previsione circa il valore nominale
dell’azione (i due aspetti sono intrecciati: l’azione è l’unità minima di partecipazione in quanto
rappresenta l’unità minima di investimento, che è rappresentata dal suo valore nominale) ma essa, come
ogni altra clausola dell’atto costitutivo, può essere oggetto di modifica con l’osservanza della procedura
dell’art.2436. È possibile che l’assemblea straordinaria decida sia una variazione verso il basso sia un
aumento del valore nominale unitario delle azioni, cui sarà conseguenza nel primo caso il frazionamento
delle azioni in circolazione e nel secondo caso, all’opposto, il raggruppamento delle stesse in funzione
della formazione di una nuova unità partecipativa maggiore. In entrambe le ipotesi, l’operazione
implicherà il ritiro, ove emessi, dei titoli azionari che erano in circolazione e la consegna di nuovi
documenti adeguati alla modifica intervenuta.
- Le azioni sono qualificate anche come inscindibili, nel senso che non deve reputarsi ammissibile
nemmeno quel frazionamento che consista nel disporre in modo parziale del contenuto dell’azione in
favore di altri soggetti, con l’attribuzione ai medesimi solo di uno o più diritti azionari e non della
proprietà della (o di altro diritto reale sulla) intera partecipazione. Così è considerata illecita la vendita
del voto, almeno ove sia sganciata dalla parallela attribuzione di un diritto reale attuale o futuro sulla
partecipazione cui il voto accede.
- Infine, “le azioni – dispone l’art.2348 – devono essere di uguale valore e conferiscono ai loro possessori
uguali diritti”  dunque non è immaginabile una distinzione tra gli azionisti che si basi su concrete
previsioni statutarie concernenti questo o quel soggetto: ciò che realizza del resto la regola di
spersonalizzazione della partecipazione in S.p.a. Tuttavia, il principio di uguaglianza delle azioni non
implica affatto che le azioni debbano essere tutte identiche, anzi la legge consente esplicitamente la
creazione di categorie diverse di azioni, attributive di diritti particolari. Semplicemente, non è
ammissibile che la diversità della partecipazione azionaria sia legata, anziché al tipo di azione posseduta,
alla persona o al “tipo di persona” che venga a possederla, poiché in tal caso si verificherebbe una
contraddizione col principio della tendenziale fungibilità dell’incidenza del socio nell’attività comune e
con la stessa connotazione “capitalistica” della società. Si è così efficacemente affermato che “la struttura
della S.p.a. si sviluppa per categorie di relazioni di investimento, non per singoli rapporti”. Una
differenziazione tra gli azionisti (e non tra le azioni) può così determinarsi in concreto solo in
correlazione con l’eventualità che gli stessi possiedano diverse quantità delle azioni emesse da una S.p.a.
Secondo parte della dottrina, dalla rilevanza oggettiva delle azioni sotto il profilo organizzativo
discenderebbe inoltre il principio della cd autonomia delle azioni, secondo cui ognuna di esse
attribuirebbe al proprio possessore prerogative esercitabili in modo appunto autonomo, con la
conseguenza di potersi concepire la possibilità di un esercizio diversificato di prerogative sociali
fondamentali da parte del medesimo soggetto, come nell’ipotesi del cd voto divergente. Un socio così
potrebbe ad es. nei confronti della stessa delibera esprimere voto favorevole per una parte delle azioni
possedute e contrario per un’altra parte. Una tale possibilità sarebbe però temperata, secondo alcuni, dal
principio di buona fede o dal divieto di abuso del diritto, istituti il cui operare di fatto renderebbe lecito il
riferito esercizio diversificato dei diritti solo là dove giustificato da ragioni obbiettive.
Dalla titolarità delle azioni discende poi il diritto ad una serie di situazioni o prerogative soggettive,
tipicamente prevista in via inderogabile dalla legge: i diritti sociali, i quali si bipartiscono in diritti di tipo
patrimoniale e amministrativo.

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1) Diritto agli utili e alla quota di liquidazione  appartengono entrambi al genere di situazioni di stampo
patrimoniale. Si tratta di prerogative che derivano dalla stessa “essenza” della S.p.a. dato il suo fondarsi
sulla formula lucrativa. Infatti non potrebbe definirsi società per azioni quell’organizzazione che non
tendesse alla realizzazione di un lucro in senso oggettivo o non prevedesse il diritto dei soci a godere o
disporre degli utili conseguiti. È per questo che sarebbe sicuramente invalida una clausola che escludesse il
generale diritto agli utili o alla quota di liquidazione degli azionisti, anche là dove trovasse il favore
dell’unanimità dei soci e anche nell’ipotesi di società “chiuse”. Per quanto riguarda la quota di liquidazione
del socio, presupposto per l’esercizio di tale diritto è l’avvenuto pagamento dei creditori sociali, siccome gli
azionisti (in quanto soci) devono considerarsi titolari di una pretesa residuale (si tratta di una norma
imperativa molto importante, sanzionata penalmente nell’art.2626). Invece per la riscossione degli utili
prodotti dalla società non occorre attendere la fine della società, in quanto al socio spetta il diritto al
dividendo, che matura di anno in anno nella misura in cui la società produca un utile di esercizio
distribuibile e se ne decida effettivamente la distribuzione. In particolare, l’art.2433 stabilisce che la società
non può pagare dividendi sulle azioni se non per utili realmente conseguiti e risultanti da un bilancio
regolarmente approvato. Pertanto, perché di utili distribuibili si possa parlare, occorre che risultino
effettivamente utili di esercizio dal conto economico relativo all’anno in discussione e che gli utili da
distribuire trovino capienza nello stato patrimoniale della società al “netto” delle perdite eventualmente
prodottesi negli esercizi precedenti. Occorre inoltre che residui un patrimonio netto di valore almeno pari al
capitale sociale: è per questo che la distribuzione è impedita anche là dove le perdite pregresse siano tali da
intaccare il capitale stesso (questo perché altrimenti la distribuzione dell’utile di esercizio si tradurrebbe in
un parziale rimborso del capitale ai soci, contro il principio di irreversibilità della sua destinazione
all’attività sociale salvo che nel caso in cui sia deliberata una riduzione ex art.2445). Non finisce qui, perché
per il sorgere in capo al socio del diritto alla percezione del dividendo non basta neppure che un utile
distribuibile risulti dal bilancio approvato di anno in anno, ma è necessario che l’assemblea dei soci (oltre
ad approvare il bilancio) deliberi espressamente la distribuzione dei dividendi in una certa misura, dedotti
gli accantonamenti previsti ex lege o per statuto; e va notato che la maggioranza dei soci detiene in materia
un potere ampiamente discrezionale, sicché anche dinnanzi a un bilancio che registri utili ragguardevoli essa
può del tutto legittimamente decidere di trattenere le relative somme, istituendo un apposita riserva o
semplicemente rinviando ad esercizi successivi ogni decisione circa la loro distribuzione.
2) Diritto di recesso  consiste nel potere di sciogliersi dalla società – per mezzo di una propria,
unilaterale manifestazione di volontà – e di ottenere anticipatamente la quota di liquidazione, da calcolare
sulla base di criteri che tengano conto dei valori che erano attribuibili alla partecipazione alla S.p.a. prima
delle modifiche non condivise dall’azionista recedente. Infatti questo strumento viene attribuito al socio per
evitare il rischio che egli debba subire la decisione di alterazioni organizzative dalle quali possa derivare un
abbassamento del valore di mercato delle azioni, e al contempo riconoscere comunque alla maggioranza il
potere di adottarle; dunque la legge si preoccupa di evitare che l’interesse del socio possa essere
pregiudicato dai significativi mutamenti che possono derivare al programma dalle modifiche dell’impianto
organizzativo decise dalla maggioranza degli azionisti, là dove il socio stesso non vi abbia acconsentito.
Tuttavia (art.2437) tale diritto è concesso solo al verificarsi di situazioni determinate, considerate dalla legge
quali ipotesi significative di alterazione dell’organizzazione, idonee ad incidere sul programma originario:
a) sono cause inderogabili di recesso le deliberazioni di modifica dell’oggetto sociale, trasformazione
della società, trasferimento della sede sociale all’estero, revoca dello stato di liquidazione, eliminazione
di una o più cause di recesso derogabili originariamente previste nello statuto, modifica dei criteri di
determinazione del valore delle azioni in caso di recesso, modifiche dello statuto concernenti i diritti di
voto o di partecipazione. La tutela della posizione del socio in relazione a queste ipotesi è garantita in
modo assoluto, ed è per questo che “è nullo ogni patto volto a escludere o rendere più gravoso l’esercizio
del diritto di recesso” riguardo a tali cause (perciò il socio recedente non è tenuto a motivare il recesso);
b) sono invece cause derogabili di recesso (dunque il recesso opera solo là dove lo statuto non disponga
diversamente) la proroga del termine della società e l’introduzione o la rimozione di vincoli alla
circolazione dei titoli azionari.
c) dalla parte opposta è consentito che la tutela del socio venga rafforzata con l’inserimento nello statuto
(ma solo delle società che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio) di “ulteriori cause di
recesso”, in aggiunta a quelle legalmente prefigurate. Anche se il punto è controverso, pare lecito credere
che tali ipotesi atipiche di recesso, create dall’autonomia privata, debbano comunque essere collegate a

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importanti mutamenti del programma organizzativo e non a vicende economiche della società;
d) tuttavia un diritto di recesso ad nutum, cioè non collegato al verificarsi di particolari ragioni
giustificative (di tipo organizzativo o economico), è espressamente riconosciuto al socio nel caso in cui
la società sia costituita a tempo indeterminato. Ciò per evitare che, in assenza di un effettivo mercato
delle partecipazioni, il socio rimanga per sempre “prigioniero” dell’affare intrapreso e non possa mai
anticipatamente liquidare l’investimento. Però è stabilito un preavviso di almeno 180 giorni, peraltro
modificabile in aumento dallo statuto, fino al termine max di 1 anno. Questa possibilità di recesso ad
nutum non è invece offerta al socio in caso di società quotate in un mercato regolamentato, siccome egli
può benissimo rivolgersi agli acquirenti del mercato per vendere la propria partecipazione.
Quanto alle modalità di esercizio del diritto, il recesso deve essere esercitato (art.2437-bis), per tutte o
alcune delle azioni possedute, con lettera raccomandata, da spedire entro 15 giorni dall’iscrizione nel
registro delle imprese “della delibera che lo legittima”; nel caso invece che il recesso derivi da un fatto
diverso da una deliberazione, il termine di legge sarà di 30 giorni dalla conoscenza del fatto in parola da
parte del socio. Dal momento dell’esercizio del recesso le azioni del socio recedente devono rimanere
depositate presso la sede sociale, per evitarne una circolazione che sarebbe incompatibile col regolare e utile
svolgimento della procedura di liquidazione. Tuttavia si ritiene che la comunicazione della dichiarazione di
recesso e il deposito delle relative azioni non bastino affinché cessi la partecipazione del socio, occorrendo a
tal fine aspettare il completamento del rimborso della quota di liquidazione.
Invece riguardo al procedimento previsto per il calcolo della quota di liquidazione, la legge fissa precisi
criteri intesi a proteggere il valore dell’investimento azionario e il correlativo interesse del socio alla sua
monetizzazione al momento dell’uscita dalla S.p.a. È disposto che il valore di liquidazione venga stabilito
dagli amministratori tenuto conto della consistenza patrimoniale della società e delle sue prospettive
reddituali, nonché dell’eventuale valore di mercato delle azioni. Perciò si procede ad una valutazione del
patrimonio sociale in base ai suoi valori reali attuali, e non già in base ai (di regola inferiori) valori di
bilancio. Peraltro, per le azioni quotate la liquidazione è calcolata facendo riferimento alla media aritmetica
dei prezzi di chiusura nei 6 mesi che precedono la pubblicazione ovvero la ricezione dell’avviso di
convocazione dell’assemblea le cui deliberazioni legittimano il recesso.
Coloro che siano interessati a recedere possono prendere visione anticipatamente della determinazione del
valore delle azioni ai fini del recesso, la quale deve quindi essere approntata e può essere richiesta dal socio
nei 15 giorni precedenti alla data fissata per l’assemblea. Ove i soci intendano contestare la determinazione
effettuata dagli organi sociali, possono farlo con la stessa dichiarazione di recesso e in tale sede così
sollecitare la stima da parte di un esperto nominato dal tribunale, il quale è chiamato ad effettuarla tramite
relazione giurata.
Infine, è definita la procedura di liquidazione del socio della quota: le azioni del socio receduto devono
essere offerte in opzione agli altri soci proporzionalmente, e ai soci che esercitano l’opzione spetta anche un
diritto di prelazione per le eventuali azioni non optate dagli altri azionisti. Le azioni che residuano da una
tale procedura, se non vengono collocate nel mercato, devono essere rimborsate direttamente dalla società
(la quale provvederà al loro acquisto), attingendo a riserve disponibili o utili distribuibili. Nel caso in cui
questi fondi non sussistano, occorrerà che si deliberi, in alternativa allo scioglimento dell’intera S.p.a., una
riduzione “reale” del capitale sociale ex art.2445.
Dunque, il recesso non determina di per sé l’estinzione dell’azione (come accade invece nelle società di
persone) ma ne provoca il trasferimento, consentendo il mantenimento in società delle risorse programmate
originariamente per lo svolgimento dell’attività e così trovando un efficiente equilibrio tra l’interesse del
recedente al disinvestimento e quello della società alla prosecuzione dell’impresa secondo un immutato
programma finanziario; solo come extrema ratio, quando non si trovino acquirenti delle azioni, si dovrà
ridurre il capitale, con la conseguente estinzione di queste.
3) Diritto di voto  a differenza dei precedenti, esso appartiene ai diritti di stampo amministrativo, cioè
alle prerogative che esprimono modi e termini di partecipazione del socio alla realizzazione dell’attività
sociale. Con l’esercizio di tale diritto gli azionisti hanno la possibilità di incidere in senso positivo sulla vita
e sulla governance della società: sia, direttamente, concorrendo alle scelte in materia di organizzazione
dell’attività sociale (di competenza esclusiva dell’assemblea); sia influendo indirettamente nei confronti
della gestione, specie attraverso il concorso nella nomina e nella revoca degli amministratori (o, più in
generale, dell’organo di gestione). Tuttavia la legge ammette espressamente (art.2351) che “lo statuto può
prevedere la creazione di azioni senza diritto di voto, con diritto di voto limitato a particolari argomenti,

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con diritto di voto subordinato al verificarsi di particolari condizioni non meramente potestative”.
L’ammissione della meritevolezza di questa categoria si basa sulla potenziale esistenza di un interesse di
mercato a un investimento meramente passivo in una S.p.a., benché a titolo di capitale, dunque quando
l’investimento del socio non sia motivato da una spinta “imprenditoriale”, ma da un mero intento lucrativo.
Ma, poiché il controllo dell’insieme degli azionisti nei confronti dell’attività sociale rappresenta uno
strumento fondamentale di equilibrio dell’attività sociale, l’ordinamento riconosce all’autonomia statutaria
un potere non assoluto di creare azioni con diritto di voto escluso o limitato: l’art.2351 dispone che “il
valore di tali azioni non può complessivamente superare la metà del capitale sociale”.
Per quanto riguarda poi le regole concernenti la spettanza del voto e la conseguente dialettica tra gli azionisti
interessati alla governance sociale, vi è da dire che il codice accoglie, come regola ordinaria, il cd sistema 1
azione – 1 voto: ogni azione, stabilisce l’art.2351, attribuisce il diritto di voto (anche se è salva la possibilità
di azioni speciali a voto escluso o limitato a talune materie). L’unità di investimento rappresentata
dall’azione va quindi considerata quale unità di potere azionario: così, per aumentare la propria capacità di
incidere sulle sorti della società, il socio deve necessariamente operare un incremento proporzionale della
propria quota di investimento nel capitale sociale (ad es. acquistando azioni).
Tuttavia, in considerazione della estrema varietà dei modelli organizzativi per i quali è ipotizzabile l’utilizzo
della S.p.a., la legge prevede una serie di deroghe al principio appena menzionato, adottabili nelle ipotesi in
cui la società voglia essere caratterizzata da una stabile centralizzazione del comando o, all’opposto, da una
tendenziale democrazia partecipativa:
a) dal primo punto di vista una importante deviazione dalla regola generale è oggi contenuta nel nuovo c.4
dell’art.2351, ai sensi del quale “salvo quanto previsto da leggi speciali, lo statuto può prevedere la
creazione di azioni con diritto di voto plurimo anche per particolari argomenti o subordinato al
verificarsi di particolari condizioni non meramente potestative”; si precisa anche che “ciascuna azione a
voto plurimo può avere fino a un max di 3 voti”  in questo modo, da un lato, si annullano o si riducono
sensibilmente le possibilità che la società sia soggetta a periodici cambi di maggioranza, dall’altro, si
rafforzano le probabilità che l’operato degli amministratori sia soggetto a un serio e continuo
monitoraggio. Va tuttavia evidenziato che un divieto di emissione di azioni a voto plurimo (prima del
2014 previsto per tutte le S.p.a.) è ancora in vigore per le società quotate, anche se esse mantengono
comunque le azioni a voto plurimo eventualmente già emesse anteriormente alla quotazione;
b) dal secondo punto di vista richiamato invece deve tenersi presente la previsione del c.3, secondo la quale
può statutariamente prevedersi che “in relazione alla quantità delle azioni possedute da uno stesso
soggetto, il diritto di voto sia limitato a una misura massima o disporne scaglionamenti”. Dunque è
immaginabile che il possesso nelle mani di persona di una certa percentuale di azioni conduca a una loro
“neutralizzazione” sul piano amministrativo, che operi: in un caso, in relazione alla quota posseduta al di
sopra di una soglia data (ad es. stabilendosi che il voto non spetti per la parte di azioni, posseduta dalla
stessa persona , eccedente il 5% del capitale sociale); in un altro caso, per “salti” tra uno scaglione e
l’altro (là dove si preveda ad es. che il voto non spetti al di sotto della soglia del 10%, e poi via via non
aumenti se non al raggiungimento ulteriore delle misure del 20%, 30% e così via).
3) Diritti della minoranza  la S.p.a. può dirsi sede di varie “tensioni” o “contrapposizioni” tra soggetti
portatori di interessi distinti: oltre che la classica contrapposizione tra amministratori e soci, vi è anche
quella tra la maggioranza e la minoranza dei soci, in quanto ai primi spetta il potere di determinare o
indirizzare le scelte sociali, mentre i secondi cercano di evitare che l’esercizio del potere in parola realizzi
una ingiusta prevaricazione, strumentale al perseguimento di interessi personali non conseguenti alla
realizzazione della causa lucrativa comune. Al fine dunque di evitare che alcuni soci approfittino della loro
posizione, vengono riconosciuti agli azionisti detentori di quote minori del capitale sociale, i cd diritti della
minoranza, con i quali tali soggetti possono ottenere protezione adeguata contro eventuali abusi della
maggioranza, o sollecitare organi sociali all’adempimento dei propri doveri fiduciari nel perseguimento
dell’oggetto sociale. Tra tali situazioni si possono individuare le prerogative funzionali alla promozione
della regolare attività dell’assemblea (attraverso la facoltà di sollecitarne la convocazione, o il rinvio della
riunione per una migliore preparazione alla discussione, nonché la previsione del potere di impugnativa
delle delibere di tale organo), ma anche quelle ipotesi in cui la tutela accordata è occasionata da
comportamenti degli amministratori e comporta la possibilità di sollecitare l’intervento, nei loro confronti,
degli organi di vigilanza e controllo (in tali casi vengono in rilievo i casi del potere di denunzia spettante ai
soci: o nei confronti del collegio sindacale, per l’ipotesi di compimento da parte degli amministratori di fatti

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censurabili, o al tribunale, nell’eventualità di fondato sospetto di gravi irregolarità nella gestione). In quasi
tutte queste ipotesi, le prerogative attribuite dalla legge sono riconosciute al socio solo al possesso di
particolari percentuali di capitale sociale. Tale delimitazione dei poteri di stimolo e sollecitazione del socio,
tipica del modello S.p.a., consente di attenuare il rischio di comportamenti ispirati a un intento puramente
emulativo o ricattatorio da parte di chi sia titolare di una sola azione o comunque di quote di investimento
marginali rispetto al capitale complessivamente destinato all’attività comune.
4) Pegno, usufrutto e sequestro di azioni  i diritti fin qui descritti spettano al socio in quanto titolare
delle azioni; tuttavia questi possono subire una rilevante compressione là dove le azioni siano sottoposte a
vincoli di tipo reale o giudiziale poiché in tale caso l’interesse del socio alla partecipazione sociale si deve
conciliare con quello di altri soggetti, nell’interesse dei quali detti vincoli possono sorgere. In particolare,
l’art.2352 si occupa della disciplina del diritto di voto, stabilendo che in caso di pegno o usufrutto esso
spetta al creditore pignoratizio o all’usufruttuario, mentre in caso di sequestro lo stesso è esercitato dal
custode; il diritto di opzione spetta al socio in caso di aumento di capitale a pagamento ed al medesimo sono
attribuite le nuove azioni da esso sottoscritte (dunque queste nuove azioni non vanno ad accrescere il
contenuto dei diritti reali esistenti), mentre nel caso di aumento di capitale gratuito, il pegno l’usufrutto o il
sequestro si estendono alle azioni di nuova emissione; invece per gli altri diritti diversi da quelli menzionati,
mentre nel caso di sequestro ne è sempre disposto l’esercizio ad opera del custode, nell’ipotesi di pegno e
usufrutto è previsto che spettino sia al creditore pignoratizio o all’usufruttuario, sia al socio. Infine
l’opinione prevalente sostiene che tra i diritti riconosciuti al creditore pignoratizio e all’usufruttuario, o
esercitabili dal custode, non vi sia il recesso.

Le categorie di azioni
L’art.2348, dopo aver sancito il principio dell’uguaglianza di valore delle azioni e della pari dignità giuridica
dei loro possessori, precisa che “si possono tuttavia creare, con lo statuto o con successive modificazioni di
questo, categorie di azioni fornite di diritti diversi”  in tal modo viene consentito alle S.p.a. di emettere
azioni speciali, differenti da quelle cd ordinarie perché caratterizzate dall’attribuzione di diritti non
coincidenti con quelli normalmente spettanti al socio in base al possesso dell’azione. La ratio
dell’emissione di queste azioni speciali è quella della diversificazione dell’offerta di strumenti finanziari di
raccolta del capitale, in considerazione della varietà degli interessi che possono esprimere gli investitori
presenti sul mercato e dunque dell’articolazione della “domanda di investimento” da essi concretamente
rappresentata. Ora veniamo alle categorie di azioni speciali:
a) con riguardo ai diritti di tipo amministrativo, possono crearsi categorie di azioni le quali attribuiscano ai
relativi possessori un privilegio patrimoniale consistente nel diritto a un utile maggiorato o
maggiormente garantito rispetto agli altri azionisti  dunque agli azionisti speciali spetta o sempre una
percentuale di utile in più dell’utile eventualmente oggetto di distribuzione (rispetto a quella destinata
agli azionisti ordinari) o una priorità nella riscossione del diritto al dividendo entro certe percentuali;
b) la diversità della posizione patrimoniale dell’azionista può riguardare anche l’incidenza delle perdite 
è cioè ammissibile la creazione di una categoria di azioni “postergate” che attribuisca all’azionista
speciale il diritto di subire l’imputazione delle eventuali perdite della società (in sede di riduzione del
capitale sociale) solo dopo che le stesse abbiano colpito la partecipazione degli altri soci;
c) sempre sul piano delle prerogative di tipo patrimoniale vi sono anche le cd azioni correlate, che si
caratterizzano in quanto fornite di diritti patrimoniali correlati ai risultati dell’attività sociale in un
determinato settore  si tratta dunque di titoli che collegano la remunerazione dell’investimento del
socio, anziché a una proporzione tra questo e l’intero profitto della società, all’utile prodotto da essa in un
dato settore, e cioè da una particolare porzione dell’attività sociale o dalla realizzazione di uno specifico
affare;
d) infine, dal punto di vista dei diritti amministrativi del socio, si è già visto che l’art.2351 consente tanto il
potenziamento che la compressione della ordinaria posizione del medesimo, fino ad ammettere che si
possa creare azioni a voto plurimo o che si possa del tutto escludere il diritto di voto dell’azionista
(azioni a voto escluso o limitato); non è peraltro previsto che una tale esclusione o limitazione debba
essere “compensata” dal riconoscimento di un privilegio di tipo patrimoniale. Si potrà anche subordinare
il diritto di voto delle azioni speciali al verificarsi di particolari condizioni (azioni a voto condizionato)
 ad es. che il diritto di voto spetti solo se, nell’esercizio precedente, non siano stati distribuiti utili.

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Queste categorie non esauriscono quelle concretamente elaborabili dall’autonomia privata, stante il principio
della libertà di creazione  si parla in tal caso di atipicità delle azioni speciali.
Gli unici limiti inderogabili sono rappresentati dal divieto del patto leonino (applicabile a tutti i tipi sociali)
e dal necessario rispetto di un equilibrio tra rischio e potere nell’allocazione del diritto di voto tra le varie
categorie (ad es. le azioni a voto escluso, limitato o condizionato non possono superare la metà di quelle
complessivamente emesse; nelle società quotate è ancora vietata l’emissione di azioni a voto plurimo).
Per una miglior disciplina del complesso rapporto che si viene a instaurare tra i soci attraverso l’emissione di
categorie di azioni diverse, il legislatore prevede l’istituzione di un organo particolare: l’assemblea speciale
degli azionisti di categoria, per il cui funzionamento è prevista l’applicazione delle regole dettate in materia
di assemblea straordinaria ex art.2376, c.2  tale art. dispone al c.1 che, allorché le deliberazioni
dell’assemblea pregiudichino i diritti di una categoria di azioni, esse devono essere approvate anche
dall’assemblea speciale degli appartenenti alla categoria interessata  e ciò a pena di inefficacia di tali
medesime deliberazioni. Dunque, in altre parole, l’assemblea degli azionisti può, con le consuete
maggioranze, anche modificare i diritti delle azioni speciali, e non occorre il consenso individuale di tutti i
titolari di questa categoria, ma non può farlo nemmeno imponendo la propria decisione su quella dei soci di
categoria: dovrà perciò ottenere il consenso della maggioranza di questi, espressa in forma di delibera
dell’assemblea speciale.
Guardiamo ora al terzo profilo, cioè che al termine “azioni” viene dato dall’art.2346 anche il significato di
documentazioni destinate all’esercizio delle situazioni giuridiche soggettive.
Sappiamo che uno degli elementi fondamentali che spiegano la diffusione della S.p.a. è la possibilità offerta
agli azionisti di poter disinvestire prima della conclusione dell’affare, utilizzando la via d’uscita
rappresentata dal mercato secondario, cioè tramite il trasferimento delle azioni a terzi. Ciò significa
anzitutto prevedere l’astratta trasferibilità delle azioni, ma inoltre per garantire la possibilità e la facilità della
circolazione, è esigenza sentita dal legislatore quella approntare un sistema di regole rivolto a rendere
possibile la stessa circolazione di un efficiente mercato secondario delle azioni.
A questo scopo è previsto che la S.p.a. si possa avvalere di un particolare strumento: l’emissione di titoli
azionari, la cui trasmissione è governata dalle regole sui titoli di credito  con tale operazione di emissione,
alla creazione e assegnazione delle azioni si accompagna la consegna al socio di documenti rappresentativi
delle suddette azioni  questi diventeranno un mezzo necessario per permettere la cessione della
partecipazione e l’esercizio dei relativi diritti. Questi titoli azionari hanno un contenuto tipico, previsto
dall’art.2354, c.3, dovendo contenere: denominazione e sede della società, data dell’atto costitutivo e della
sua iscrizione e l’ufficio del registro dove la società è iscritta, il loro valore nominale o il numero
complessivo delle azioni emesse più l’ammontare del capitale sociale se si tratta di azioni senza valore
nominale, l’ammontare dei versamenti parziali sulle azioni non interamente liberate, diritti e obblighi
particolari ad essi inerenti. I titoli azionari devono essere sottoscritti dagli amministratori ed è valida anche
la sottoscrizione mediante la riproduzione meccanica della firma.
L’art.2354 fa salve inoltre le disposizioni delle leggi speciali in tema di strumenti finanziari negoziati o
destinati alla negoziazione nelle sedi di negoziazione. Si rinvia così al TUF, per il quale tali strumenti
finanziari (cioè quelli trattati in una sede di negoziazione) possono esistere solo in forma scritturale. Ne
consegue che per le azioni negoziate in mercati regolamentati, essendo anch’esse senz’altro qualificabili
come strumenti finanziari ai sensi della norma citata, un’emissione di titoli, nella tradizionale forma
cartacea, non può avvenire. Dunque il trasferimento e l’esercizio dei diritti relativi a queste azioni devono
effettuarsi in conformità alle regole previste dal TUF relative alla cd dematerializzazione degli strumenti
finanziari: le azioni saranno in particolare rappresentate da titoli scritturali, le cui regole di circolazione
sono analoghe a quelle dei titoli di credito, cosicché anche con essi viene favorita la creazione di un mercato
secondario e dunque la circolazione delle partecipazioni.
Lo statuto può anche stabilire l’adozione di un sistema intermedio tra quello dell’emissione cartolare e
della dematerializzazione totale degli strumenti finanziari, potendo prevedere che i titoli azionari, dopo
essere stati emessi (nella ordinaria forma cartacea), possano essere affidati in deposito dal singolo azionista
a un deposito centrale, con una decisione del tutto facoltativa da parte dello stesso, assoggettandoli così al
medesimo regime di circolazione previsto in caso di dematerializzazione  si parla in tal caso di
dematerializzazione parziale (o dematerializzazione della circolazione) degli strumenti finanziari.

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Infine va detto che la documentazione dell’azione in forma cartacea o scritturale non è obbligatoria (salvo
che per le azioni quotate, in relazione a quella scritturale)  infatti l’art.2346, dopo aver stabilito che la
partecipazione sociale è rappresentata da azioni, precisa che lo statuto può escludere l’emissione dei relativi
titoli (e insieme anche la dematerializzazione). In una tale eventualità accade pertanto che all’atto della
creazione seguirà unicamente l’iscrizione nel libro dei soci dell’azionista, e il trasferimento delle azioni ha
effetto nei confronti della società dal momento dell’iscrizione in tale libro. In questo caso però la
circolazione non è soggetta alle regole cartolari e non viene dunque favorita la creazione di un mercato
secondario delle partecipazioni.
Come prima cosa, il possesso dei titoli azionari da parte dell’azionista consente di riconoscergli la cd
legittimazione attiva all’esercizio dei diritti attribuiti dalle azioni possedute. La legittimazione va tenuta
distinta dalla titolarità di un diritto: mentre quest’ultima concerne l’astratta spettanza del diritto medesimo,
la prima riguarda l’individuazione del soggetto cui compete in fatto il potere di esercitarlo efficacemente nei
rapporti coi terzi  le due situazioni ordinariamente sono collegate nell’ordinamento, ma ciò non accade
sempre, specie nel diritto commerciale: ad es. nell’ipotesi dei titoli di credito, legittimato all’esercizio delle
relative pretese è il possessore del titolo, tuttavia tale possesso non gli attribuisce di per sé la titolarità del
diritto ma, appunto, solo la legittimazione, che consiste dunque nel potere di pretendere la prestazione dal
debitore senza dovere provare altrimenti la titolarità del diritto stesso. Perciò là dove prevista, la
separazione tra i due concetti realizza efficienza poiché consente il velocizzarsi dell’azione connessa
all’esercizio di un diritto, a maggior ragione quando è sottoposto ad un’ampia serie di trasferimenti.
La circolazione delle azioni, quando rappresentate da titoli, è caratterizzata da certezza e rapidità: infatti chi
acquista un titolo azionario ne può assumere subito la legittimazione (previo rispetto di alcune formalità), e
inoltre il possesso legittimo del documento conferisce indiscutibilmente all’acquirente la titolarità
dell’azione (almeno nello specifico senso di non potersi muovere nei confronti di tale soggetto una
contestazione connessa all’eventuale suo acquisto a non domino). Invero si applica ai titoli azionari la
regola previsa in materia cartolare dall’art.1994, secondo cui «chi ha acquistato in buona fede il possesso
di un titolo di credito, in conformità delle norme che ne disciplinano la circolazione, non è soggetto a
rivendicazione» (cd autonomia reale)  l’investitore che decida pertanto di acquistare azioni, là dove siano
stati emessi i relativi titoli, non dovrà investigare circa la reale titolarità dell’ipotetico venditore: è sufficiente,
ai fini dell’acquisto di un’intaccabile titolarità, che gli sia garantita l’assunzione del possesso legittimo dei
titoli stessi.
Secondo l’originaria previsione dell’art.2354, i titoli potevano essere nominativi o al portatore, a scelta del
socio, se lo statuto o le leggi speciali non avessero stabilito diversamente. Tuttavia poco dopo l’emanazione
del cod. civ. un altro provvedimento smentì tale scelta normativa, stabilendo con norma tuttora vigente che
le azioni delle società aventi sede nello Stato devono essere nominative.
È chiaro che la possibilità di rendere le azioni trasferibili al portatore (cioè tramite la semplice consegna del
titolo) rende la circolazione agevole e consente una maggior velocità nel processo di indiretta liquidazione
dell’investimento azionario; al contempo, tuttavia, tale regime comporta vari problemi connessi al cd
anonimato delle partecipazioni: vanno considerati al riguardo l’aumento dei rischi di appropriazione
indebita o abusiva dei titoli e la minore rintracciabilità dell’investimento e della relativa ricchezza da parte
dell’autorità pubblica, ma anche, sul piano dell’organizzazione sociale, la minore possibilità di coesione
sociale, che riduce correlativamente la possibilità di controllo dei soci sulla governance.
Dunque, tenendo presente questi svantaggi dell’anonimato azionario, si comprende la scelta compiuta dal
legislatore sulla generale obbligatorietà delle azioni nominative. Fanno espressamente eccezione le azioni
di risparmio e quelle emesse dalle società di investimento a capitale variabile (SICAV) e dalle società di
investimento a capitale fisso (SICAF), che possono essere nominative o al portatore a scelta dall’azionista.
La nominatività azionaria comporta anzitutto l’applicazione di un particolare regime in tema di circolazione,
ossia 2 diverse modalità di trasferimento: il transfert e la girata autenticata.
L’art.2355, c.4, rinvia al sistema del transfert, disciplinato dall’art.2022  con questa modalità il
trasferimento azionario si opera con al cd doppia annotazione del nome dell’acquirente, sul titolo e sul libro
dei soci (dell’emittente) o col rilascio di un nuovo titolo intestato al nuovo socio. Queste formalità sono
operate a cura dell’amministratore e possono avvenire a richiesta o dell’alienante (se prova la propria
identità e capacità di disporre mediante apposita certificazione) o dell’acquirente (se esibisce il titolo e
dimostra il suo diritto mediante atto autentico).

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Alternativamente a questa modalità, l’art.2355, c.3, stabilisce che il trasferimento delle azioni nominative
possa effettuarsi “mediante girata autenticata da un notaio o da altro soggetto secondo quanto previsto da
leggi speciali”  in base all’art.2023, la girata deve essere piena e, ove le azioni non siano interamente
liberate, deve essere sottoscritta anche dal giratario. Comunque la circolazione mediante girata non elimina
la rilevanza del libro dei soci: infatti il giratario “ha diritto di ottenere l’annotazione del trasferimento nel
libro dei soci”.
In relazione poi alla disciplina della legittimazione all’esercizio dei diritti incorporati nel titolo azionario, vi
è da dire che la regola generale prevista dall’art.2021, secondo cui il possessore consegue la legittimazione
“per effetto dell’intestazione a suo favore contenuta nel titolo e nel registro dell’emittente”, per le azioni
vale solo per il caso di circolazione mediante transfert  infatti nel trasferimento tramite girata, l’art.2355
prevede che il giratario che si dimostri possessore in base a una serie continua di girate “è comunque
legittimato ad esercitare i diritti sociali”. Perciò per poter esercitare i diritti sociali, nel caso di circolazione
mediante girata, non occorre che il possessore del titolo chieda e ottenga l’iscrizione nel libro dei soci ma
basterà esibire il documento munito di regolare girata, curando che questa sia l’ultima di una serie continua.
Invece, allorché siano emesse e circolino, là dove consentito, azioni al portatore, si applicherà un regime
molto più snello, poiché esse si trasferiscono con la consegna del titolo. L’esercizio dei diritti sociali avverrà
pertanto con la mera dimostrazione del possesso attuale del documento.

La dematerializzazione delle azioni


Si è detto che, per le azioni negoziate (o destinate alla negoziazione) nei mercati regolamentati, il TUF
prevede inderogabilmente che esse “possono esistere solo in forma scritturale”: per tali azioni dunque è
stabilito un regime del tutto diverso da quello cartolare, caratterizzato dalla dematerializzazione
dell’emissione (o dematerializzazione totale)  cioè la creazione e la circolazione di documenti azionari è
integralmente sostituita da un sistema di iscrizioni e annotazioni delle azioni e dei nomi degli azionisti su
registri tenuti da appositi intermediari.
Comunque anche le azioni non quotate in mercati regolamentari possono essere assoggettate a questo
sistema, oppure al sistema della dematerializzazione parziale (che poi vedremo), ove lo statuto lo disponga.
Il sistema di dematerializzazione totale degli strumenti finanziari prevede, per il suo funzionamento, la
necessaria scelta da parte dell’emittente di un depositario centrale cui affidare il ruolo di contabilizzare
l’emissione e sovraintendere alle operazioni di trasferimento. In Italia è una sola la società che svolge una
tale attività: la Monte Titoli S.p.a. L’emittente deve comunicare al depositario centrale, all’atto
dell’emissione, le caratteristiche dell’emissione azionaria, nonché gli intermediari cui accreditare i titoli
emessi. La società che funge da depositario a sua volta deve aprire per ogni emissione un conto a nome
dell’emittente e accendere, per ogni intermediario che gliene faccia richiesta, i conti destinati a registrare le
disposizioni azionarie operate tramite lo stesso.
La legge detta una disciplina intesa a garantire ai titolari dei conti la stessa tutela prevista dalle norme
cartolari a favore del possessore. In particolare, in coerenza con la cd regola di autonomia in sede di
circolazione, dettata in materia di titoli di credito, il TUF previsa che “colui il quale ha ottenuto la
registrazione a suo favore, in base a titolo idoneo e in buona fede, non è soggetto a pretese o azioni da parte
di precedenti titolari”  così, anche in caso di dematerializzazione è protetto l’acquisto azionario a non
domino, purché sia avvenuto in buona fede e con l’osservanza delle formalità di legge. Il titolare di azioni
dematerializzate inoltre gode di una posizione equivalente a quella del possessore di un titolo cartaceo,
avendo riguardo all’altra regola fondamentale in materia di circolazione cartolare: quella della cd autonomia
obbligatoria (art.1993)  il TUF infatti stabilisce che a chi risulta titolare del conto presso l’intermediario
“l’emittente può opporre soltanto le eccezioni personali al soggetto stesso e quelle comuni a tutti gli altri
titolari degli stessi diritti”.
Quanto infine alla legittimazione dell’azionista, il titolare del conto presso l’intermediario ha la
legittimazione piena ed esclusiva all’esercizio dei relativi diritti relativi agli strumenti finanziari in esso
registrati, secondo la disciplina propria di ciascuno di essi. L’esercizio dei diritti da parte dell’azionista può
avvenire personalmente, ma anche per il tramite dello stesso intermediario, previo apposito mandato che
venga a questo espressamente conferito; per i diritti patrimoniali anzi il mandato all’intermediario opera ex
lege ed è inderogabile, essendo stabilito che tali diritti possono esercitarsi “soltanto tramite gli intermediari”.

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Dalla dematerializzazione totale si distingue la dematerializzazione parziale, che rappresenta l’originale e


più risalente forma di gestione accentrata delle azioni. In particolare questa differisce dalla precedente
perché l’adozione del relativo sistema non implica la mancata emissione di titoli azionari, la quale avviene
invece regolarmente. L’affidamento della negoziazione di azioni alle regole della gestione accentrata
dell’intermediario avviene così successivamente alla relativa emissione cartolare, a seguito di un deposito
presso l’intermediario stesso.
Premesso che anche in tal caso l’assoggettamento a gestione accentrata deve essere acconsentito a monte
dalla società, la disciplina della dematerializzazione della circolazione prevede, anzitutto, che l’effettiva
immissione delle azioni nel sistema dipenda da un atto volontario dell’azionista  costui può decidere di
affidare i propri titoli in deposito a un intermediario autorizzato, espressamente conferendogli per iscritto la
facoltà di procedere a un subdeposito presso la società di gestione accentrata. Nell’adempiere a tale facoltà,
il depositario apporrà sul titolo una particolare girata, in favore della società di gestione (in Italia la Monte
Titoli)  il titolo viene così affidato alla società di gestione in deposito regolare.
Una volta poi immessi i titoli in gestione accentrata, in relazione alla circolazione delle azioni da essi
rappresentate, si applica la medesima disciplina prevista con riguardo alla dematerializzazione totale  la
circolazione avverrà in forza di operazioni di giro che determineranno a favore del titolare del conto
accreditato gli effetti sopra richiamati.

La mancata emissione e il problema delle “tecniche diverse”


La S.p.a. può anche decidere di non adottare affatto strumenti rivolti ad agevolare la rapida e sicura
circolazione delle azioni, escludendo l’emissione dei relativi titoli (sia in forma cartacea che scritturale) 
rientra quindi nell’autonomia statutaria evitare la formazione del mercato secondario delle azioni, inteso
quale luogo in cui si creano le condizioni più favorevoli per la circolazione dei relativi investimenti.
Con riguardo alla circolazione delle azioni in caso di non emissione dei titoli, la legge stabilisce che “il
trasferimento delle azioni ha effetto nei confronti della società dal momento dell’iscrizione nel libro dei soci”
(art.2355)  tuttavia manca l’indicazione dei presupposti in presenza dei quali questa iscrizione debba
avvenire, così è prevalente l’opinione di chi richiama le norme dettate per l’annotazione sul libro dei soci in
tema di transfert di titoli nominativi (art.2022), le quali ricordiamo prevedono che l’iscrizione possa essere
richiesta tanto dall’alienante quanto dall’acquirente, indicando i requisiti che devono accompagnare le
rispettive richieste. Invece sul piano dell’opponibilità del trasferimento nei confronti di terzi, è da ritenere
che il momento a partire dal quale l’acquirente ottiene una effettiva disponibilità delle azioni sia sempre
quello dell’iscrizione nel libro dei soci.
Resta infine da comprendere cosa intende il legislatore quando afferma che lo statuto può al riguardo
prevedere anche “tecniche diverse” rispetto alla emissione e non emissione dei titoli azionari  per
tecniche diverse devono ritenersi richiamate non le tipiche ipotesi di dematerializzazione, ma ogni altra
ipotesi autonomamente configurabile dall’autonomia statutaria: un es. potrebbe essere rappresentato
dall’affidamento dei titoli azionari alla detenzione materiale di un soggetto fiduciario della S.p.a., con
riconoscimento della legittimazione, anziché al possessore del documento, a colui che il fiduciario di volta
in volta indichi.

I limiti statutari alla circolazione delle azioni


In linea di principio tutti i titoli azionari sono trasferibili liberamente (principio della libera circolazione
delle azioni)  è infatti essenza stessa dell’organizzazione azionaria che i soci abbiano la possibilità di
trasferire ad altri le proprie partecipazioni in modo da realizzare il disinvestimento dei capitali
precedentemente impegnati nell’iniziativa  tuttavia possono essere adottate regole di limitazione alla
circolazione delle azioni.
Là dove si tratti di una società che non faccia ricorso al mercato del capitale di rischio, gli azionisti possono
avere interesse a controllare e condizionare il ricambio nelle quote di titolarità dell’impresa, per evitare che
esso conduca ad un’alterazione dei precedenti assetti di governance (ciò non necessariamente in vista di un
interesse puramente individuale). È per questo che il legislatore prevede la possibilità che, nei casi di azioni
nominative o di mancata emissione dei relativi titoli, il principio di libera circolazione delle azioni possa
subire vincoli o condizionamenti ad opera dell’autonomia statutaria (art.2355-bis), in vista della concreta

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conformazione dell’interesse dei soci al “buon governo” della società. Inoltre, per consentire l’opponibilità
di tali limitazioni ai terzi acquirenti, in applicazione dei principi cartolari (in particolare della regola di
“letteralità”) è stabilito che le limitazioni al trasferimento delle azioni “debbano risultare dal titolo”.
a) Divieto di trasferimento  è possibile che lo statuto vieti del tutto il trasferimento delle azioni, tuttavia
tale divieto è temporalmente contenuto ex lege (poiché altrimenti non potrebbe considerarsi compatibile
con i caratteri essenziali della S.p.a.), prescrivendosene la durata max di 5 anni dalla costituzione della
società o dal momento in cui tale divieto viene introdotto.
b) Clausole di prelazione  sono clausole previste dallo statuto che hanno ampia diffusione in quanto con
esse viene stabilito che il socio che intenda trasferire le azioni sia vincolato a offrirle prima agli altri soci, i
quali avranno diritto (in proporzione alle rispettive partecipazioni) a essere preferiti rispetto al terzo
interessato al medesimo acquisto. Generalmente la clausola prevede che l’alienante debba comunicare la
propria intenzione di vendere alla società (con un atto chiamato denuntiatio) e che gli altri soci, da questa
informati, abbiano un certo periodo di tempo entro il quale far pervenire le loro eventuali dichiarazioni di
esercizio della prelazione. Se questa non è esercitata o se è esercitata solo parzialmente, l’alienante
medesimo è libero di cedere le proprie azioni al terzo con cui aveva originariamente trattato.
c) Clausola di gradimento  è una vera e propria clausola di “chiusura” della compagine sociale, in
quanto si ha allorché il trasferimento delle azioni venga subordinato al consenso degli organi sociali (come
l’organo amministrativo o l’assemblea). In tale ipotesi, intento diretto degli azionisti è la selezione delle
persone che possono entrate a far parte della compagine sociale. Si tratta di una clausola in sé lecita in
quanto consente all’azionista l’astratta possibilità di disinvestire, è per questo che è sicuramente valida ed
efficace la clausola che puntualizzi ex ante i criteri in base ai quali debba essere concessa la possibilità di
entrare in società all’aspirante acquirente – clausola di gradimento non mero – ad es. si prevede che il
gradimento potrà essere negato all’acquirente che abbia rivestito nella sua carriera cariche politiche rilevanti
e perciò appaia potenzialmente pregiudizievole per l’immagine di assoluta neutralità politica che la società
vuole dare di sé. Invece quando si tratta di una clausola di mero gradimento, ossia che non indicano i criteri
sui quali la decisione degli organi sociali dovrà basarsi, l’art.2355-bis stabilisce che sia inefficace se non
prevede, a carico della società o degli altri soci, un obbligo di acquisto o il diritto di recesso dell’alienante.

Le operazioni della società sulle proprie azioni


Attualmente sono disciplinate 3 tipi di operazioni.
1) Acquisto di azioni proprie  l’acquisto di azioni di propria stessa emissione può essere sotteso ad un
interesse di tipo organizzativo oppure finanziario. Nel primo caso si può manifestare ad es. nell’attuazione
di piani di compensi dei vertici societari basati sull’attribuzione di azioni ad amministratori esecutivi o altri
dirigenti aziendali, anche in seguito all’esercizio di apposite “opzioni” concesse a detti soggetti (cd stock
options); oppure la società può avere interesse a stabilizzare i propri valori di listino, attraverso il ritiro di
una certa quantità di flottante in periodi di forte speculazione, specie là dove gli organi non ritengano che le
fluttuazioni dei corsi siano effettivamente giustificate dall’andamento dell’attività sociale. Diversa è invece
l’ipotesi in cui le azioni proprie rappresentino per la società oggetto di business finanziario: si può infatti
immaginare che la S.p.a. concretamente consideri l’acquisto conveniente sul piano economico, avendo
riguardo alla possibilità di speculare sui valori di mercato in un’operazione di cd trading (ciò avviene
specialmente in quei momenti in cui gli amministratori ritengono che il prezzo corrente dei titoli emessi
dalla società non rispecchi le reali potenzialità dell’azienda, sicché l’eventuale acquisto con rivendita
successiva al rialzo potrebbe rivelarsi un affare assai lucroso, nel quale investire liquidità in esubero o
perfino destinare apposite risorse).
Tuttavia è preoccupazione sentita dal legislatore quella di evitare che l’acquisto di tali titoli realizzi risultati
pregiudizievoli rispetto a vari interessi coinvolti nell’organizzazione sociale: cioè che si intacchi in modo
significativo il capitale e, più in generale, la struttura finanziaria su cui la S.p.a. si regge, oppure che si
alterino i concreti equilibri di governance. È per questo motivo che l’art.2357 introduce 4 limiti all’acquisto
di azioni proprie, salve rimanendo solo alcune ipotesi particolari di esenzione per le quali questi vincoli si
applicano solo in parte.
a) La società non può acquistare azioni proprie se non nei limiti degli utili distribuibili e delle riserve
disponibili risultanti dall’ultimo bilancio regolarmente approvato  in tal modo si prevede che

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l’acquisto possa avvenire solo con mezzi ulteriori rispetto a quelli che concretamente forniscono da
copertura alla cifra del capitale nominale, altrimenti tale operazione potrebbe comportare una indiretta
restituzione dei conferimenti ai soci, lesiva del principio di integrità del capitale sociale.
b) Possono essere oggetto di acquisto unicamente azioni interamente liberate (per le quali cioè non residui
un debito di conferimento a carico del socio alienante)  là dove il debito fosse ancora sussistente,
all’acquisto di azioni proprie seguirebbe la compresenza nella S.p.a. acquirente delle qualità di creditore e
debitore, producendosi così l’estinzione dell’obbligazione suddetta per confusione: fatto che
contraddirebbe la regola di effettività del capitale sociale.
c) L’acquisto deve essere autorizzato dall’assemblea ordinaria, che ne fissa le modalità indicando il
numero massimo di azioni da acquistare, la durata (non superiore ai 18 mesi) per la quale
l’autorizzazione è accordata, il corrispettivo minimo e il corrispettivo massimo; inoltre, nel periodo di
detenzione delle proprie azioni il diritto di voto è sospeso, ma le azioni proprie sono tuttavia computate
ai fini del calcolo delle maggioranze e delle quote richieste per la costituzione e per le deliberazioni
dell’assemblea ( in tal modo è impedito agli amministratori di utilizzare le azioni proprie per
intervenire direttamente sulle dinamiche assembleari e viene limitata fortemente la possibilità dei soci di
riferimento di influire sulla concreta costruzione delle maggioranze); infine, finché le azioni rimangono
detenute dalla società emittente, il diritto agli utili e il diritto di opzione sono attribuiti
proporzionalmente alle altre azioni.
d) Il valore nominale delle azioni acquistate, nelle società che fanno ricorso al capitale di rischio non può
eccedere la quinta parte del capitale sociale, tenendosi conto a tal fine anche le azioni possedute dalle
società controllate.
Le azioni acquistate violando queste condizioni devono essere alienate, secondo modalità da determinarsi in
assemblea, entro un anno dal loro acquisto. In mancanza di vendita, si dovrà procedere al loro
annullamento e alla corrispondente riduzione del capitale sociale.
Le limitazioni previste dall’art. 2357 non si applicano quando l’acquisto di azioni proprie avviene:
- in esecuzione di una delibera dell’assemblea di riduzione del capitale sociale, da attuarsi mediante riscatto
e annullamento di azioni;
- a titolo gratuito, sempre che si tratti di azioni interamente liberate;
- per effetto di successione universale o di fusione o scissione;
- in occasione di esecuzione forzata per il soddisfacimento di un credito della società, sempre che si tratti di
azioni interamente liberate.
2) Sottoscrizione di azioni proprie  la differenza con l’acquisto è che questo avviene a titolo derivativo,
mentre la sottoscrizione a titolo originario. In particolare è l’art.2357-quater che stabilisce il divieto per una
società di sottoscrivere azioni proprie e si tratta di un divieto assoluto, che non sono ammette deroghe, il cui
fondamento è ancora una volta ricondotto alla tutela del capitale sociale.
Esso opera infatti sia in sede di costituzione della società, sia in sede di aumento del capitale sociale.
Del pari, è vietata la sottoscrizione da parte della società controllata nei confronti delle azioni emesse in
un aumento di capitale deliberato dalla controllante: in effetti, anche in una tale ipotesi l’atto di
sottoscrizione delle azioni, per un verso pone a rischio il rispetto del principio di effettività del capitale, per
l’altro realizza un investimento di risorse in un programma di attività nel quale le medesime possono
ritenersi già indirettamente inserite, quanto meno in via potenziale, integrandosi in tal modo in una sorta di
“circolo vizioso”, cioè un investimento nelle stesse risorse da investire.
In caso di violazione del divieto di autosottoscrizione è prevista come sanzione non la nullità della
sottoscrizione (come avviene invece per l’applicazione delle norme generali in materia contrattuale): le
azioni si intendono sottoscritte e devono essere liberate dai soggetti che materialmente hanno violato il
divieto (precisando l’inapplicabilità della norma ai soggetti che siano esenti da colpa); e ciò al fine di
consentire comunque l’effettiva acquisizione dei relativi conferimenti.
Ultima fattispecie da analizzare è quella della sottoscrizione reciproca di azioni, che si realizza quando due
società non legate da rapporti di controllo decidano in parallelo di costituirsi o aumentare il proprio capitale,
l’una sottoscrivendo, per il medesimo importo, l’emissione dell’altro  l’art. 2360 ne prevede il divieto (e
qui si ritiene che la sanzione sia la nullità). Infatti se due società si costituiscono o aumentano il capitale
sociale sottoscrivendo l’una il capitale dell’altra sia avrà una moltiplicazione illusoria di ricchezza nel senso
che aumenta il capitale sociale nominale delle due società senza che si incrementi il rispettivo capitale reale.

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3) Finanziamento per l’acquisto di azioni proprie  il codice stabilisce che la società non può,
direttamente o indirettamente, accordare prestiti, ne fornire garanzie per l’acquisto o la sottoscrizione delle
azioni proprie se non alle condizioni previste dall’art. 2358.
Tale articolo stabilisce che la concessione del finanziamento o delle garanzie è consentita previa
autorizzazione dell’assemblea straordinaria sulla base di una relazione degli amministratori che illustra
l’operazione sotto il profilo economico-giuridico, presentandone le ragioni e gli obiettivi imprenditoriali che
la giustificano, lo specifico interesse che l’operazione presenta per la società ed i rischi che essa comporta in
relazione alla liquidità e alla solvibilità della S.p.a. (attestando altresì che il finanziamento avviene a
condizioni di mercato). Il verbale dell’assemblea, corredato con la relazione degli amministratori, viene
pubblicato entro 30 giorni nel registro delle imprese.
Inoltre, l’art.2358 impone che per il finanziamento o la concessione di garanzie si ricorra a fondi tratti da
utili distribuibili e riserve disponibili, non destinati a fungere da copertura nei confronti al capitale sociale.
Se il finanziamento per l’acquisto di azioni proprie è consentito dalla legge (sebbene entro certi limiti), è
invece del tutto vietata l’accettazione di azioni proprie in garanzia.
In relazione alla violazione delle norme in parola la legge non detta previsioni, sicché si ritiene che
l’eventuale negozio di finanziamento o di prestazione di garanzia sarebbe nullo per contrasto con norma
imperativa.

Le obbligazioni
Come accennato in precedenza, il reperimento di risorse finanziarie nel mercato può avvenire anche con
strumenti diversi dalle azioni: è infatti prevista la possibilità per le società azionarie di emettere obbligazioni.
Con l’emissione di obbligazioni la S.p.a. riceve risorse finanziarie “a debito”, col conseguente impegno a
restituire ad una data scadenza la somma originariamente ricevuta (il capitale preso a debito) nonché,
normalmente, a effettuare pagamenti aggiuntivi nei confronti dei finanziatori, a titolo di interessi. È proprio
la previsione di un rimborso delle somme versate che rappresenta l’elemento che contraddistingue le
obbligazioni dalle azioni. Così, mentre l’emissione di azioni presuppone l’adesione del titolare, per effetto
della sottoscrizione del capitale, a un contratto di società, il rapporto sottostante la creazione di obbligazioni
è solitamente identificato in un mutuo o in un’altra operazione di tipo creditizio.
Come le azioni, anche le obbligazioni sono titoli di massa  infatti rappresentano frazioni di uguale valore
nominale e con uguali diritti di un’unica operazione finanziaria. Peraltro, al contrario di quanto avviene per
le azioni, non è prevista la possibilità di una mancata emissione delle obbligazioni, sicché la loro
caratterizzazione come titoli (cartacei o dematerializzati) è irrinunciabile. Più in particolare si tratta di titoli
di credito (appartenenti al genere dei titoli di debito, distinto a quello dei titoli partecipativi cui
appartengono le azioni) e ciò significa che, mentre le azioni attribuiscono al titolare la qualità di socio e di
compartecipe ai risultati positivi o negativi dell’attività di impresa, le obbligazioni attribuiscono al titolare il
diritto alla restituzione delle somme prestate e al pagamento degli interessi, normalmente svincolati dai
risultati economici conseguiti dalla società  ciò conferendo ai medesimi diritti i connotati di autonomia,
astrattezza e letteralità tipicamente caratterizzanti la fattispecie cartolare.
L’obbligazionista ha il diritto, alla scadenza pattuita, al rimborso del valore nominale del capitale prestato.
L’azionista, invece, ha diritto al rimborso del suo conferimento solo in sede di liquidazione della società e
sempre che risulti un attivo netto dopo che siano stati soddisfatti tutti i creditori sociali compresi gli
obbligazionisti.
Esistono diversi tipi di obbligazioni:
1) Obbligazioni a struttura semplice  prevedono la restituzione finale della somma prestata nonché il
pagamento di interessi, a loro volta da corrispondere o periodicamente a parte come interessi cedolari
oppure inglobati nel capitale di restituzione;
2) Obbligazioni indicizzate  quelle obbligazioni in cui la quantificazione della somma dovuta a titolo di
interessi è legata a parametri di diverso genere (indici di borsa, valutari);
3) Obbligazioni a premio  prevedono la corresponsione, da parte della società ad alcuni obbligazionisti
(normalmente individuati tramite sorteggio), di somme aggiuntive rispetto quelle ordinariamente spettanti
in base al rapporto di credito;

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4) Obbligazioni partecipative  sono quelle obbligazioni in cui i tempi e l’entità del pagamento degli
interessi possono variare anche in dipendenza dell’andamento economico della società;
5) Obbligazioni postergate  il rimborso del prestito è condizionato alla preventiva soddisfazione dei
diritti di altri creditori della società;
6) Obbligazioni convertibili in azioni  sono caratterizzate dal diritto dell’obbligazionista, a determinate
condizioni e seguendo precise procedure, all’assegnazione di azioni in cambio delle obbligazioni
possedute, sulla base di un dato rapporto di cambio.
Va rimarcato, infine, come l’emissione di obbligazioni rappresenti il principale strumento di reperimento di
finanziamento a credito alternativo rispetto al modello dell’intermediazione bancaria.

Il procedimento di emissione e i limiti legali


Fondamentalmente il procedimento di emissione si articola in due fasi: una prima delibera e la successiva
materiale emissione.
Ai sensi dell’art.2410, la delibera di creazione delle obbligazioni è di competenza degli amministratori: ma
ciò soltanto “se la legge o lo statuto non dispongono diversamente”  in tal caso la relativa competenza può
essere attribuita all’assemblea o al comitato esecutivo o a singoli amministratori delegati.
Comunque sia, da chiunque venga presa la decisione di emettere obbligazioni, la delibera deve risultare da
verbale redatto da un notaio e deve essere depositata e iscritta nel registro delle imprese secondo quanto
previsto dall’art.2436 (dunque il notaio deve esercitarne il controllo di legalità, e nel caso in cui esso dia
esito negativo, gli amministratori dovranno valutare se assumere una nuova delibera o ricorrere al tribunale).
La materiale emissione dei titoli si ha invece con la sottoscrizione, secondo le formalità stabilite nel bando,
da parte degli investitori, cui segue la consegna nei loro confronti dei titoli cartacei o la realizzazione delle
formalità previste in tema di dematerializzazione, là dove essi siano assoggettati alle relative regole,
ricorrendone i presupposti.
I titoli emessi possono essere nominativi o al portatore, e devono contenere le indicazioni elencate
dall’art.2414 (denominazione, oggetto e sede sociale, capitale sociale e riserve esistenti all’atto
dell’emissione, data della delibera di emissione, ammontare complessivo dell’emissione, ecc.).
L’ammontare delle obbligazioni emesse deve risultare dall’apposito libro delle obbligazioni: in tale libro
devono essere annotati anche le obbligazioni via via rimborsate, nonché il nome e cognome dei titolari di
obbligazioni nominative e di trasferimenti ed i vincoli relativi a queste ultime.
Per quanto riguarda i limiti legali all’emissione, vi è da dire che sebbene per regola generale gli
amministratori e la stessa società sono liberi di definire discrezionalmente la composizione del debito
finanziario della società, questa discrezionalità incontra un limite proprio nella materia obbligazionaria 
l’art.2412 stabilisce infatti un rigoroso limite all’entità del prestito obbligazionario cui la società può
ricorrere a servizio delle proprie esigenze di liquidità: «La società può emettere obbligazioni per somma
complessivamente non superiore al doppio del capitale sociale, della riserva legale e delle riserve
disponibili risultanti dall’ultimo bilancio approvato». I sindaci inoltre, al momento dell’emissione, devono
attestare il rispetto di tale limite. Così per es. se il capitale sottoscritto è 100, la riserva legale è 20 e le altre
riserve disponibili (statutarie e facoltative) 30, la società potrà emettere obbligazioni per un ammontare non
superiore a 300.
La ratio del divieto è fortemente discussa: tradizionalmente si contrappongono l’opinione secondo cui esso
sarebbe riconducibile all’esigenza di garantire gli obbligazionisti dell’esistenza di fondi sufficienti alla
restituzione del prestito, all’orientamento che tende a leggere la norma quale regola rivolta al contenimento
della “leva finanziaria” dell’impresa sociale per evitare un’eccessiva sproporzione tra debito e patrimonio
sociale. Però entrambe le tesi non convincono e la spiegazione della norma in commento sembra potersi
rinvenire altrove  nell’intento del legislatore di evitare che la società sia facilitata a intraprendere iniziative
azzardate, potendo scaricarne il peso finanziario su investitori sprovvisti di poteri di controllo proporzionati
al rischi assunto. Dunque tale previsione pare voler risolvere una tipica questione di contenimento dei
pericoli connessi all’affidamento fiduciario di risorse dal mercato alla società e ai suoi organi, garantendo il

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mantenimento di un’adeguata proporzione tra assunzione del rischio e potere d’iniziativa a beneficio del
prudente governo dell’attività sociale.
È per questo, quindi in conformità con la sua ratio, che lo stesso al’art.2412 prevede una serie di ipotesi in
cui tale limite non si applica:
a) nell’ipotesi in cui le obbligazioni eccedenti la citata soglia siano destinate alla sottoscrizione da parte di
investitori professionali soggetti a vigilanza prudenziale a norma delle leggi speciali (è chiaro infatti che tali
soggetti sono in grado di valutare al meglio i rischi assunti con la sottoscrizione dei titoli societari e decidere
se giudicare l’investimento più o meno prudente);
b) per l’emissione di obbligazioni destinate a essere quotate in mercati regolamentati o in sistemai
multilaterali di negoziazione (qui è il contesto regolamentare che circonda l’emissione che appare in sé in
grado di scongiurare l’eventualità di una sottoscrizione da parte di investitori inaccorti);
c) per l’emissione di obbligazioni che danno il diritto di acquisire ovvero di sottoscrivere azioni  cioè per
le obbligazioni convertibili in azioni o cui sono collegati warrants nei confronti di azioni emesse o di nuova
emissione;
d) qualora ricorrano particolari ragioni che interessano l’economia nazionale, sempre che la società sia in tal
caso autorizzata con provvedimento dell’autorità governativa all’emissione sopra la soglia di legge, e
comunque con l’osservanza dei limiti, delle modalità e delle cautele stabilite nel provvedimento stesso;
e) qualora le obbligazioni siano garantite da ipoteca di primo grado su immobili di proprietà della società
fino ai ⅔ del valore degli immobili medesimi.
La legge inoltre riconosce all’obbligazionista un interesse a monitorare il comportamento della società al
fine di rispettarne il programma contrattuale e tutelare il valore di scambio del titolo stesso. In tale
prospettiva sono previsti gli organi dell’assemblea degli obbligazionisti e del rappresentante comune.
L’assemblea degli obbligazionisti è l’organo deputato ad assumere tutte le decisioni che riguardano il
prestito obbligazionario e la posizione dei relativi sottoscrittori, in considerazione dell’interesse comune
degli stessi (art.2415).
La legge prevede un elenco delle competenze di tale organo, in particolare esso delibera:
- sulla nomina e sulla revoca del rappresentante comune;
- sulle modificazioni delle condizioni del prestito;
- sulle proposta di concordato;
- sulla costituzione di un fondo per le spese necessarie alla tutela dei comuni interessi e sul relativo
rendiconto;
- sugli altri oggetti di interesse comune agli obbligazionisti.
L’assemblea è convocata dagli amministratori della società o dal rappresentante comune degli
obbligazionisti. La convocazione è obbligatoria quando ne è fatta richiesta da tanti obbligazionisti che
rappresentano un ventesimo dei titoli emessi e non estinti. All’assemblea possono assistere amministratori e
sindaci. Per le delibere di modificazione delle condizioni del prestito è necessario, anche in seconda
convocazione, il voto favorevole degli obbligazionisti che rappresentano la metà delle obbligazioni emesse e
non estinte. Le deliberazioni dell’assemblea degli obbligazionisti sono iscritte nel registro delle imprese a
cura del notaio che ha redatto il verbale. Alle delibere dell’assemblea degli obbligazionisti si applica l’intera
disciplina dettata per le delibere assembleari nulle e annullabili.
Il rappresentante comune degli obbligazionisti non deve necessariamente essere scelto tra gli stessi
(art.2417) ma tale carica può essere rivestita da persone giuridiche autorizzate all’esercizio dei servizi di
investimento o da società fiduciarie. Si tratta di un organo necessario, atteso che nell’inerzia dell’assemblea
il rappresentante comune è nominato con decreto del tribunale, su domanda di uno o più obbligazionisti o
degli amministratori della società. Una volta nominato dura in carica non più di 3 esercizi, ma può essere
rieletto; può anche essere revocato ad nutum dall’assemblea degli obbligazionisti, spettandogli il diritto al
risarcimento del danno là dove la revoca sia senza giusta causa.
I doveri previsti dalla legge ne fanno una sorta di organo titolare di una funzione esecutiva, in quanto:
- esegue le deliberazioni dell’assemblea degli obbligazionisti;
- assiste alle operazioni di sorteggio delle obbligazioni, ove previste;
- deve tutelare gli interessi comuni degli obbligazionisti nei rapporti con la società;

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- deve assistere all’assemblea dei soci (evidentemente in modo da riferire agli obbligazionisti i principali
fatti societari);
- ha diritto di esaminare il libro delle obbligazioni e quello delle adunanze dei soci, nonché di ottenerne
estratti;
- ha la rappresentanza processuale degli obbligazionisti, anche nelle procedure concorsuali.
Infine, merita approfondire il discorso sulle obbligazioni convertibili in azioni siccome sono l’unico tipo
cui la legge dedica un’apposita disciplina all’interno del codice civile (art.2420-bis).
Tale strumento prevede che il rapporto originario, nato come concessione di credito dall’investitore alla
società, si converta nel corso dello svolgimento della relazione sociale  cioè la somma originariamente
acquisita dalla società a titolo di “capitale a debito”, a partire dalla conversione venga a considerarsi quale
“capitale di rischio”, attribuendo a quel punto all’investitore i titoli rappresentativi della sua mutata
situazione, in sostituzione di quelli primitivamente assegnatigli: dunque azioni al posto di obbligazioni.
In questo modo si realizza da un lato l’interesse della società a ottenere immediata liquidità, e dall’altro si
offre all’investitore la possibilità di effettuare un investimento potenzialmente suscettibile di tramutarsi in
iniziativa più redditizia trascorso un periodo iniziale di “studio” della società finanziata.
Questo meccanismo fa scaturire un problema di disciplina (ulteriore rispetto a quello ordinario) in quanto
questo tipo di obbligazioni sono assoggettate ad una serie di regole speciali, indirizzate a dare effettiva
protezione alla posizione dell’obbligazionista in quanto detentore di una “partecipazione potenziale”.
Anzitutto la delibera di emissione di obbligazioni convertibili in azioni è di competenza dell’assemblea
straordinaria (anziché del consiglio di amministrazione)  il motivo è che accanto alla decisione di
emissione di obbligazioni, la società assume anche la deliberazione di aumento del capitale sociale per un
ammontare corrispondente alle azioni da attribuire in conversione, destinato a prodursi effettivamente solo a
misura delle dichiarazioni di conversione eventualmente raccolte.
Comunque, come previsto per l’aumento di capitale, anche l’assunzione della delibera di emissione di
questo tipo di obbligazioni può essere delegato agli amministratori, ma soltanto se previsto dallo statuto,
fino ad un ammontare determinato e per il periodo max di 5 anni.
Per quanto riguarda poi la procedura di conversione, la legge prevede che le azioni siano emesse dagli
amministratori a scadenze semestrali, sulla base delle dichiarazioni di conversione nel frattempo intervenute.
Dunque la modifica del capitale sociale corrispondente all’aumento di capitale deliberato al servizio della
conversione avviene in modo progressivo, sebbene “per salti” (di 6 mesi in 6 mesi). Di ogni modifica poi gli
amministratori devono darne pubblicità mediante deposito presso il registro delle imprese.
Inoltre, siccome la delibera di emissione deve determinare anche “il rapporto di cambio e il periodo e le
modalità di conversione”, la legge si preoccupa di assicurare che questo rapporto rimanga inalterato
stabilendo che nel periodo di pendenza del prestito obbligazionario non si possano deliberare ne la riduzione
volontaria del capitale sociale, ne la modificazione delle disposizioni statutarie concernenti la ripartizione
degli utili; mentre se le modifiche statutarie sono diverse da queste ma pur sempre rilevanti sul piano
dell’interesse dell’obbligazionista ad avvalersi della facoltà di conversione, nel silenzio della legge si ritiene
che esse vadano comunque approvate dall’assemblea degli obbligazionisti quali ipotesi equiparabili ad una
modifica delle condizioni del prestito. Nel caso in cui ricorra un abuso da parte degli azionisti o della
maggioranza degli stessi, il rappresentante comune potrà impugnare le delibere dei soci.

Gli strumenti finanziari diversi da azioni e obbligazioni


Azioni e obbligazioni possono dirsi strumenti “tipici” della S.p.a.  rispetto ai quali cioè la legge prevede
una puntuale disciplina. D'altronde le azioni sono state in passato considerate dal legislatore quali esclusivi
strumenti da poter emettere in favore di chi voglia investire nell’iniziativa a titolo di rischio (cioè in vista
dell’ottenimento di utili e accettando l’eventualità di una integrale perdita del capitale impiegato), mentre le
obbligazioni sono strumenti alla cui previsione è stato tradizionalmente affidato il soddisfacimento
dell’interesse all’investimento nel credito a una data organizzazione d’impresa, cui far corrispondere
un’aspettativa a un guadagno più ridotto ma più sicuro rispetto quello delle azioni.
Tuttavia tali figure non esauriscono i modi con cui la S.p.a. può svolgere la sua “missione” di canalizzare
investimenti reperibili nel mercato finanziario verso la produzione d’impresa  è possibile infatti che la

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società abbia interesse a rivolgersi al pubblico degli investitori per raccogliere contribuzioni alla provvista di
rischio non rivolte però a incrementare il capitale azionario formalmente destinato al servizio dell’attività
comune ma suscettibili comunque di offrire un prezioso sostegno materiale al programma sociale, oppure
per sollecitare la domanda di investimento in crediti caratterizzati da un rimborso meno sicuro rispetto a
quanto ordinariamente accade col prestito obbligazionario, magari a fronte dell’offerta di una maggiore
remunerazione. È così che, in coerenza con il principio di libertà dell’iniziativa economica privata (art.41
Cost.) – il quale in sé implica che ogni operazione coerente col programma organizzativo d’impresa non
contrastante con l’utilità sociale dovrebbe essere consentita –, il legislatore prende in considerazione la
duplice esigenza della S.p.a. appena descritta, con una serie di norme intese a consentirle una autonoma
articolazione della propria struttura finanziaria  in tal modo viene permesso il ricorso a strumenti
finanziari “atipici”.
In particolare l’art.2346, dopo aver stabilito che “la partecipazione sociale è rappresentata da azioni”, al 6°
comma precisa che resta salva la possibilità della società di emettere altri strumenti finanziari partecipativi:
ciò a fronte di “apporti” non destinati a formare il capitale, e con l’attribuzione di diritti patrimoniali o anche
diritti amministrativi escluso il voto nell’assemblea generale degli azionisti.
Inoltre, sebbene la tipologia ordinaria dell’investimento finanziario nel credito alla S.p.a. rimanga tuttora
quella obbligazionaria, l’art.2411, c.3, stabilisce che la società è pure legittimata ad emettere strumenti che
da tale modello si discostino sensibilmente, nella misura in cui prevedano un rimborso del capitale che sia
invece condizionabile, sia per i tempi che per l’entità, “all’andamento economico della società”  così si
consente alla S.p.a. di ricorrere a strumenti finanziari di credito “ibridi” (noti fino alla fine del ‘900 solo
al settore della prassi bancaria): titoli suscettibili di intercettare categorie di investitori molto diverse dai
comuni obbligazionisti, perché caratterizzati da una propensione al rischio a questi ultimi del tutto estranea.
Per quanto riguarda gli strumenti finanziari emessi dalla società con contenuto partecipativo, la legge detta
una disciplina assai scarna. Innanzitutto, in relazione alla determinazione della prestazione, la norma
stabilisce soltanto che sia operato un “apporto”, dunque non un “conferimento”, ossia non una risorsa
destinata a contribuire alla formazione del capitale, il quale infatti non viene aumentato. Poi, quanto alle
prerogative, il compito di determinare i diritti patrimoniali è interamente affidato dalla legge all’autonomia
statutaria, riconoscendo così una discrezionalità che appare illimitata (anche se si ritiene che, per potersi
parlare di strumenti “partecipativi”, ai sottoscrittori di questi titoli deve essere riconosciuto quanto meno un
diritto agli utili). Nel caso invece in cui lo statuto preveda che ai portatori di strumenti finanziari spettino
anche prerogative di tipo amministrativo, la legge stabilisce (analogamente a quanto accade in materia di
categorie di azioni) la formazione di un’assemblea speciale, competente all’approvazione delle delibere
dell’assemblea generale dei soci che pregiudichino i diritti dei primi  è solo in tale assemblea che i
portatori di strumenti finanziari possono più in generale esprimere i propri voti ogni qual volta lo statuto
riconosca loro tale potere.
Come detto, l’art.2411, c.3, legittima la S.p.a. all’emissione di strumenti finanziari atipici “di debito”,
caratterizzati dal fatto che il rimborso della somma fornita dagli investitori non sia assicurato, bensì dipenda
dall’andamento economico della società  ad es. alla scadenza si rimborserà l’intera somma qualora la
società abbia raggiunto determinate soglie di fatturato, altrimenti solo l’80%.
Il regime giuridico di questa norma non solleva particolari questioni interpretative: infatti in essa viene
stabilita l’integrale applicabilità agli strumenti ora in esame delle norme dettate in tema di obbligazioni
societarie. Vi è comunque da precisare che la norma menziona esclusivamente la possibilità di un rimborso
di capitale condizionato all’andamento economico della società (dunque non può immaginare che il
rimborso sia parametrato a dati di mercato esterni alla società). Inoltre, con riguardo al rapporto tra le
fattispecie degli strumenti finanziari in generale “di debito” e quelli “partecipativi”, è assai dibattuto il tema
se si tratti di ipotesi alternative tra loro o se si possa immaginarsene una sovrapposizione (cioè ad es. che ai
possessori di strumenti finanziari partecipativi venga riconosciuto anche un diritto al rimborso). Nonostante
le due disposizioni abbiano origini differenti e nonostante abbiano una diversa collocazione nel codice civile,
la dottrina maggioritaria sposa la posizione più liberale, nell’intento di rispettare la regola di libertà e così
dare alla regola di autonomia la massima estensione possibile. Pertanto, viene considerata in prevalenza
lecita un’emissione di strumenti finanziari del tutto “ibridi”, la quale configuri un’operazione qualificabile
al contempo come “partecipazione” all’organizzazione d’impresa e credito nei confronti della stessa.

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LA STRUTTURA ORGANIZZATIVA
Le S.p.a. sono caratterizzate dalla presenza di una struttura organizzativa complessa, articolata in 3 distinti
organi sociali, ai quali la legge assegna specifiche funzioni e le cui competenze sono tendenzialmente
inderogabili da parte dello statuto. La tipologia degli organi sociali e le relative competenze variano a
seconda del sistema di amministrazione e controllo adottato dalla società  mentre il codice civile del ’42
prevedeva in origine un solo sistema organizzativo, basato sulla tradizionale tripartizione fra assemblea
(l’organo rappresentativo della compagine sociale), organo amministrativo (l’organo gestionale) e collegio
sindacale (l’organo di controllo interno), l’attuale disciplina – frutto della riforma del 2003 – prevede la
possibilità per le S.p.a. di adottare, previa apposita scelta statutaria, anche altri due sistemi alternativi: il
sistema monistico (di derivazione anglosassone) e il sistema dualistico (di derivazione tedesca), anche se
nella pratica sono scarsamente utilizzati. Qualora la società adotti uno dei due sistemi alternativi, mutano sia
la tipologia degli organi sociali che le relative competenze.
Indipendentemente dal sistema di amministrazione e controllo scelto, l’ordinamento delle S.p.a. prevede un
assetto societario interno caratterizzato dal principio della ripartizione fissa di competenze  questo
assetto ha come principale obiettivo quello di assicurare la definizione di meccanismi di governo
dell’impresa (cd corporate governance) che privilegino l’interesse all’efficienza della gestione.
In tale sistema, l’esercizio dell’impresa è interamente affidato all’organo amministrativo, specializzato
nell’attività di gestione e responsabile anche verso i creditori ed i terzi per i danni cagionati con il proprio
operato; viceversa, le decisioni di tipo amministrativo (relative al complessivo assetto della società e al
controllo dei risultati della gestione) sono generalmente rimesse alla competenza dei soci (l’assemblea).
Inoltre, le società azionarie sono caratterizzate dalla necessaria presenza, all’interno dell’organizzazione
societaria, di un’autonoma funzione di controllo sulla legalità e sulla correttezza della gestione
imprenditoriale e dell’assetto aziendale, nonché sulla regolarità dei bilanci e delle scritture contabili; anche
nell’interesse della minoranza e dei terzi: funzioni assegnate, la prima, al collegio sindacale (o al consiglio
di sorveglianza nel sistema dualistico, o al comitato di controllo nel sistema monistico), mentre la seconda al
revisore, salvo che lo statuto assegno anche tale compito al collegio sindacale (opzione consentita nelle sole
società che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio).

L’assemblea
L’assemblea dei soci è l’organo di base del sistema tradizionale: tale organo è presente in tutti i sistemi di
amministrazione e controllo, ma le sue competenze sono più limitate nel caso di opzione del sistema
dualistico.
In primo luogo, l’assemblea è l’organo rappresentativo degli azionisti della società, anche se non deve
essere necessariamente composto da tutti gli azionisti, vista la possibilità di creare per statuto azioni prive
del diritto di voto o a voto limitato.
In secondo luogo, l’assemblea è un organo insopprimibile e necessariamente collegiale: lo statuto può al
massimo consentire ai soci di esprimere il proprio voto per corrispondenza o elettronicamente, ferma
restando la necessità di convocare e tenere la seduta assembleare; pertanto, ogni avente diritto al voto
conserva il diritto di assistere personalmente ai lavori assembleari.
In terzo luogo, le competenze dell’assemblea sono tassativamente determinate dalla legge (art.2364) e, salvo
i limiti stabiliti dalla legge stessa (art.2365), non sono delegabili in favore di altri organi della società.
Infine, l’assemblea decide secondo la regola della maggioranza, sulla base di aliquote del capitale sociale
che sono fissate in misura variabile, a seconda della materia (cd quorum costitutivi e deliberativi).

 COMPETENZE
Le competenze dell’assemblea ordinaria e straordinaria sono stabilite dagli artt.2364-2365  tale
bipartizione, che presenta natura inderogabile, ha la funzione di assicurare che:
a) le decisioni periodicamente necessarie per il concreto funzionamento dell’organizzazione sociale siano
adottate in sede ordinaria, secondo regole di funzionamento più snelle e con maggioranze meno elevate;
b) le decisioni attinenti alle regole di funzionamento (modifiche statutarie), alle vicende evolutive
(liquidazione, trasformazione, fusione, scissione) ed alla struttura finanziaria della società (operazioni
sul capitale, obbligazioni convertibili), siano invece adottate in sede straordinaria, secondo regole che

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assicurino una maggiore partecipazione dei soci, grazie a quorum più elevati, ed una maggiore certezza di
regolarità della decisione, mediante la presenza del notaio in funzione di segretario verbalizzante.
Le competenze fondamentali e indisponibili dell’assemblea ordinaria (art.2364) sono le seguenti:
1) Approvazione del bilancio e destinazione degli utili;
2) Nomina e revoca degli altri organi sociali (amministratori, sindaci, revisori  con la sola eccezione
dei liquidatori che sono nominati in sede straordinaria);
3) Determinazione del compenso degli amministratori e dei sindaci;
4) Deliberazione dell’azione di responsabilità contro altri organi della società;
5) Ogni altra competenza genericamente rimessa da altre disposizioni di legge all’assemblea dei soci;
6) Deliberazione delle autorizzazioni eventualmente richieste per il compimento di atti degli
amministratori  questo punto in particolare consente allo statuto di prevede che, per certe operazioni,
gli amministratori debbano ottenere la preventiva autorizzazione dell’assemblea ordinaria (anche se
sappiamo che la gestione dell’impresa sociale spetta in modo esclusivo agli amministratori, senza che
l’assemblea abbia alcuna possibilità di ingerenza)  dunque tale norma rappresenta una forte
limitazione, in quanto sancisce e conferma il principio per cui l’assemblea non è un organo a
competenza generale e gli amministratori non sono meri mandatari dei soci, ma soggetti titolari di un
ufficio stabilmente e autonomamente preposto all’esercizio dell’attività imprenditoriale prevista dallo
statuto. Inoltre la norma precisa che, nel caso in cui l’assemblea conceda l’autorizzazione agli atti di
gestione prevista dallo statuto, resta in ogni caso ferma la piena responsabilità degli amministratori
per gli atti compiuti; mentre nel caso di diniego da parte dell’assemblea, gli amministratori sono del
tutto carenti di legittimazione al compimento dell’operazione, perciò se la compiranno lo stesso,
saranno esposti alla piena responsabilità per tutti i danni conseguenti all’operazione compiuta (oltre a
determinare la sussistenza di una giusta causa di revoca).
Invece le competenze fondamentali dell’assemblea straordinaria (art.2365) sono:
1) Modifiche dello statuo;
2) Nomina, sostituzione e determinazione dei poteri dei liquidatori e modalità della liquidazione;
3) Ogni altra materia attribuita dalla legge alla sua competenza  ci si riferisce alla deliberazione di non
emissione delle azioni, emissione di obbligazioni convertibili in azioni, autorizzazione alla
concessione di prestiti e garanzie per la sottoscrizione o l’acquisto di proprie azioni.
L’art.2365 prevede espressamente che l’estensione delle competenze può derivare solo da norme speciali di
legge, dunque si deve escludere la possibilità che lo statuto possa aumentare le competenze dell’assemblea
straordinaria.
L’assemblea è unica e generale se la società ha emesso solo azioni ordinarie.
Quando invece sono state emesse diverse categorie di azioni, all’assemblea generale si affiancano le
assemblee speciali di categoria.
In assenza di diversa disciplina, all’assemblea speciale si applicano le norme previste per l’assemblea
straordinaria, se le azioni non sono quotate in borsa; se le azioni speciali sono quotate in borsa si applicano
la disciplina dell’assemblea degli azionisti di risparmio.

 PROCEDIMENTO ASSEMBLEARE
L’assemblea è un tipico organo collegiale, il cui funzionamento è caratterizzato dal necessario rispetto di
tutte le fasi tipiche dei procedimenti collegiali, che nel caso delle S.p.a. sono regolate dal codice civile in
modo dettagliato e tendenzialmente vincolante.
I momenti essenziali del procedimento collegiale hanno tutti carattere formale (devono cioè rispettare
modalità e forme vincolate) e sono i seguenti:
 convocazione dell’organo, con relativo “ordine del giorno”
 costituzione e riunione
 discussione
 votazione e relativa deliberazione
 proclamazione
 verbalizzazione

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La prima fase del procedimento assembleare è quella della convocazione  decisa dall’organo
amministrativo (con alcune eccezioni) ogni qual volta lo ritenga opportuno; comunque, al verificarsi di
certe circostanze, essa diviene obbligatoria: quando si determinano perdite superiori ad ⅓ del capitale
sociale, quando si verifica una causa di scioglimento della società e in via generale è obbligatoria almeno
una volta l’anno per l’approvazione del bilancio. Il termine per la relativa delibera non può essere superiore
a 120 giorni dalla chiusura dell’esercizio, tuttavia lo statuto può prevedere un termine più lungo – fino a 180
giorni – nel caso di società tenute alla redazione del bilancio consolidato di gruppo ovvero quando lo
richiedono particolari esigenze relative alla struttura e all’oggetto della società. Il mancato rispetto del
termine di legge non comporta l’annullabilità della deliberazione assembleare ma espone gli amministratori
ad eventuali responsabilità).
La convocazione è altresì obbligatoria quando sussiste una richiesta della minoranza, e in particolare da tanti
soci che rappresentino 1/10 del capitale sociale (1/20 nelle società che fanno ricorso al mercato del capitale di
rischio).
La richiesta deve essere accompagnata dall’indicazione degli argomenti da trattare: non occorre pertanto
l’indicazione analitica dei punti dell’ordine del giorno.
L’ottemperanza all’obbligo di convocazione può anche avvenire da parte dell’organo di controllo (collegio
sindacale, consiglio di sorveglianza), in caso di inerzia dell’organo amministrativo. La convocazione deve
avvenire senza ritardo. L’art.2631 stabilisce il termine di 30 giorni e prevede sanzioni amministrative
pecuniarie a carico degli amministratori e dei sindaci  ciò significa che questo è comunque il termine max.
L’atto di convocazione dell’assemblea è di competenza dell’organo amministrativo, quindi dev’essere
deliberato collegialmente dal consiglio di amministrazione. Tuttavia questa regola sembra derogabile dallo
statuto, che può rimettere tale competenza anche a singole cariche amministrative (come il presidente del
c.d.a.). Una volta deliberata la convocazione da parte del consiglio, l’avviso di convocazione è emesso dal
presidente del c.d.a., a meno che il consiglio non autorizzi altro amministratore ad hoc.
Altri soggetti titolari del potere di convocazione, nelle sole ipotesi previste dalla legge, sono: i sindaci
(quando vengono a mancare tutti gli amministratori o l’amministratore unico, quando la convocazione sia
obbligatoria e l’organo amministrativo non vi provveda, quando il collegio ravvisi fatti censurabili di
rilevante gravità e vi sia necessità di provvedere), il tribunale, l’amministratore giudiziario, i liquidatori.
Le modalità di emanazione dell’avviso di convocazione variano a seconda delle caratteristiche della società.
Nelle società non quotate esso deve essere pubblicato per legge sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica
almeno 15 giorni prima di quello fissato per l’adunanza, anche se lo statuto può prevedere la pubblicazione
su almeno un quotidiano espressamente indicato, fermo restando il limite legale. Inoltre in tali società lo
statuto può prevedere, anche in alternativa alla Gazzetta o al quotidiano, modalità di convocazione ancora
più semplici e con termine ridotto, purché tali da garantire la prova dell’avvenuto ricevimento dell’avviso
almeno 8 giorni prima dell’assemblea  può dunque essere prevista la convocazione a mezzo raccomandata
con ricevuta di ritorno, ma anche per posta elettronica certificata, telefax o consegnata direttamente a mano.
L’avviso di convocazione deve contenere tutte le indicazioni relative alla data, all’ora, al luogo della
riunione, nonché l’ordine del giorno.
Nelle società quotate, l’assemblea è convocata almeno 30 giorni prima della data di svolgimento, mediante
avviso pubblicato su sito internet della società, nonché con le altre modalità eventualmente previste dalla
Consob con regolamento (è il TUF che prevede tali modalità). Il termine è anticipato a 40 giorni per
l’assemblea di nomina degli organi sociali.
Quanto al luogo della seduta, l’assemblea deve essere convocata nel comune dove ha sede la società, a
meno che lo statuto non autorizzi la convocazione anche in luoghi diversi.
L’ordine del giorno ha la funzione di informare i soci sulle “materie” in ordine alle quali si dovrà discutere
e deliberare (le deliberazioni prese su materie non all’ordine del giorno sono annullabili). Non è necessario
che sia indicato il contenuto di specifiche proposte che saranno avanzate dagli amministratori, comunque sia
può essere “sintetico” ma non “generico”. Invece per le società quotate è previsto (per motivi di maggiore
trasparenza) un obbligo degli amministratori di predisporre e pubblicare sul sito internet una relazione sulle
materie all’ordine del giorno.
L’assemblea si reputa validamente costituita quando tutti i soci sono presenti alla riunione (cd assemblea
totalitaria), con la conseguenza di sanare il mancato rispetto delle formalità iniziali (il difetto assoluto di

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convocazione è causa di nullità della delibera; l’irregolarità della convocazione ne provoca l’annullabilità).
Tale eventualità consente: di rendere possibile lo svolgimento di assemblee anche in assoluto difetto di
convocazione, di sanare ogni eventuale irregolarità procedimentale in fase di convocazione, di legittimare
l’assemblea ad assumere ogni determinazione di propria competenza anche al di fuori dell’ordine del giorno
previsto nell’avviso di convocazione.
A tal fine è sempre necessaria la presenza di tutti gli aventi diritto al voto, anche per delega, ma non occorre
la presenza di tutti gli amministratori e di tutti i sindaci, essendo sufficiente che assista ai lavori la
maggioranza dei componenti i rispettivi organi.
Costituzione dell’assemblea e validità delle deliberazioni  la validità delle deliberazioni assembleari di
una S.p.a. è subordinata al preventivo raggiungimento di un quorum costitutivo (cioè della presenza alla
riunione di un numero minimo di azioni richiesto per la validità della seduta) ed al successivo
raggiungimento di un quorum deliberativo (cioè di una maggioranza di voti favorevoli alla decisione, che
può essere calcolata secondo diversi criteri).
Il quorum costitutivo consiste nella regola per cui, se non intervengono alla seduta tanti soci da
rappresentare un certo numero di azioni, l’assemblea non può neppure iniziare i propri lavori: essa risulta
infatti non regolarmente costituita. La funzione di tale regola è quella di garantire che le decisioni, al fine di
una loro migliore ponderazione, vengano assunte con la partecipazione e il confronto tra un numero minimo
di soci, in quanto portatori di una quota dell’investimento azionario ritenuta adeguata (per questo motivo,
potrebbe bastare anche un solo socio, ove rappresenti l’aliquota di capitale sufficiente).
Per il calcolo del quorum costitutivo non devono contarsi le azioni prive in generale di intervento (come le
azioni di risparmio e le azioni a voto limitato), mente si devono computare le azioni “occasionalmente”
prive di tale diritto (ad es. quelle in possesso della stessa società o quelle dei soci che non hanno effettuato
gli adempimenti pubblicitari per i patti parasociali) anche se non intervenuti alla seduta  tali azioni non si
conteranno invece nel quorum deliberativo. Ciò significa, nel primo caso e non nel secondo, che viene
agevolata la possibilità di costituire regolarmente l’assemblea (se le azioni non si computano, significa che
la base di calcolo per il raggiungimento del quorum costitutivo è più ristretta). La ratio è quella di evitare
che situazioni occasionali incidano in modo tale da attribuire ad esigue minoranze rilevanti poteri
deliberativi, soprattutto in sede straordinaria.
Il quorum deliberativo risponde ad una funzione diversa: perché una decisione possa considerarsi adottata,
occorre che si siano espressi favorevolmente tanti soci da rappresentare una certa aliquota di capitale.
Per il calcolo di tale quorum la legge ricorre di volta in volta a due parametri: in alcuni casi esso è
computato sul capitale sociale complessivo della società, e in altri sul capitale concretamente presente in
assemblea (in questo secondo caso si tiene conto anche della posizione dei presenti non votanti o di coloro
che si sono espressamente e volontariamente astenuti). In entrambi tali parametri non si deve tenere conto
delle azioni del socio in conflitto di interessi e dei soci il cui voto sia occasionalmente sospeso.
La disciplina del quorum, costitutivo e deliberativo, è diversa per l’assemblea ordinaria e quella straordinaria.
Se, all’inizio della riunione si constata la mancata formazione del numero legale, il presidente
dell’assemblea deve dichiarare la mancata costituzione della seduta e l’assemblea dovrebbe essere convocata
a una nuova data. Per ovviare all’inconveniente di riavviare tutto il procedimento, l’art.2369 prevede
l’istituto della 2ª convocazione, il cui avviso può essere contestuale a quello della prima oppure emanato
separatamente. Essa deve essere fatta in un giorno diverso da quello della prima ma deve tenersi entro 30
giorni dalla precedente.
L’assemblea ordinaria, in 1ª convocazione, è regolarmente costituita quando è rappresentata almeno la metà
del capitale sociale, e delibera a maggioranza assoluta (ossia con il voto favorevole della metà più una delle
azioni). L’assemblea ordinaria, in 2ª convocazione, si considera validamente costituita qualunque sia la parte
del capitale sociale rappresentato in assemblea (dunque non è previsto alcun quorum costitutivo), mentre per
quanto riguarda il quorum deliberativo, non essendo stabilito, si applica l’art.2368 (maggioranza assoluta del
capitale presente).
La disciplina delle assemblee straordinarie è, invece, diversa a seconda che la società faccia o meno ricorso
al mercato del capitale di rischio.
In 1ª convocazione, per le società chiuse, non è previsto espressamente un quorum costitutivo, tuttavia lo
stesso risulta indirettamente dal fatto che il quorum deliberativo è rappresentato da percentuali dell’intero
capitale sociale con diritto di voto e non del solo capitale intervenuto in assemblea (come invece avviene per

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l’assemblea ordinaria)  pertanto, in 1ª convocazione, l’assemblea straordinaria delibera con il voto


favorevole di tanti soci che rappresentano più della metà del capitale sociale (maggioranza assoluta). In 2ª
convocazione è invece previsto il conseguimento sia di un quorum costitutivo che deliberativo: l’assemblea
straordinaria è considerata regolarmente costituita quando partecipa oltre ⅓ del capitale sociale e delibera
validamente con il voto favorevole di almeno i ⅔ del capitale rappresentato in assemblea. Comunque, per
alcune delibere di particolare rilevanza (ad es. cambiamento dell’oggetto sociale, trasformazione della
società, trasferimento della sede sociale all’estero), è richiesta, anche in 2ª convocazione, la maggioranza di
più di ⅓ del capitale sociale.
Invece, per le società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio (quindi anche per le società
quotate), il quorum costitutivo è pari alla metà del capitale sociale in 1ª convocazione e ad ⅓ in 2ª
convocazione. Riguardo al quorum deliberativo, è stabilito che l’assemblea straordinaria delibera sia in 1ª
che in 2ª convocazione con il voto favorevole di almeno i ⅔ del capitale rappresentato in assemblea.
I quorum legali di 1ª convocazione possono essere modificati in aumento dallo statuto, ma si ritiene
inammissibile per le S.p.a. una clausola statutaria che imponga l’unanimità o maggioranze così elevate da
attribuire un sostanziale potere di veto a qualsiasi socio  tali clausole sono pertanto nulle, con la
conseguente necessità di applicare in loro vece i quorum legali. Siccome l’art.2368, c.2, consente
espressamente deroghe in aumento, è da ritenere che sia invece illegittima la modificazione in diminuzione
dei quorum  ciò al fine di garantire un’adeguata rappresentatività delle maggioranze assembleari.

Diritto di intervento e diritto di voto  secondo l’art.2370, il diritto di intervenire in assemblea spetta –
oltre a tutti i componenti dell’organo amministrativo e dell’organo di controllo (per i quali è anzi un dovere)
– a tutti gli azionisti titolari di diritto di voto (o eccezionalmente a taluni soggetti diversi dagli azionisti,
come l’usufruttuario e il creditore pignoratizio).
Il diritto di intervento in assemblea ha dunque carattere puramente strumentale, e non gode di tutela
autonoma rispetto al diritto di voto  è per questo che non hanno diritto di intervento gli azionisti privi del
diritto di voto come gli azionisti di risparmio nelle società quotate, i titolari di azioni di godimento e senza
voto, il nudo proprietario o il debitore che abbia dato in pegno le proprie azioni (quando il voto sia attribuito
all’usufruttuario o al creditore pignoratizio) e l’azionista che abbia subìto un sequestro sulle proprie azioni
(in tal caso il voto spetta al custode). Comunque non vi sono ragioni per ritenere che la norma non possa
essere derogata dagli statuti, attribuendo in tal modo anche ai titolari di azioni prive di voto il diritto di pieno
intervento oppure solo il diritto di assistere alle adunanze assembleari.
Per essere ammesso alla singola assemblea, l’azionista deve dimostrare la propria legittimazione:
- nel caso in cui non siano stati emessi titoli, il socio si dovrà presentare alla riunione e il presidente
dell’assemblea dovrà verificare la corrispondenza tra la sua identità ed il nominativo iscritto a libro soci;
- nel caso in cui l’azione sia documentata in un titolo cartaceo, il socio dovrà esibire il titolo azionario  la
sua identità e la sua legittimazione cartolare verranno accertate seduta stante dal presidente dell’assemblea
(in questa ipotesi lo statuto può anche subordinare l’intervento del socio ad una prenotazione, da effettuarsi
mediante deposito dei titoli azionari presso la sede della società o presso anche indicate nell’avviso di
convocazione: il termine max che può essere stabilito nello statuto non è fissato dalla legge per le società
chiuse mentre è fissato in 2 giorni per le società aperte);
- nel caso di azioni soggette al regime di dematerializzazione, il controllo della legittimazione è demandato,
anziché al presidente dell’assemblea, agli intermediari presso cui sono registrate le azioni, che
effettueranno un’apposita comunicazione alla società dietro richiesta del socio.
Un’importante modalità alternativa di partecipazione, prevista sempre dall’art.2370 (c.4), è costituita
dall’ammissibilità dell’intervento telematico (con relativo voto) e del voto per corrispondenza, dietro
previsione di apposita clausola: nel primo caso – che si rivolge alle società chiuse – la partecipazione del
socio avviene mediante l’utilizzo di mezzi di telecomunicazione (come ad es. un audio-conferenza)  ai
soci che partecipano a distanza deve essere data la possibilità di intervenire attivamente anche nella
discussione assembleare e votare simultaneamente agli altri soci; nel secondo caso invece – immaginato per
le società aperte – il socio non partecipa alla seduta assembleare, ma invia il proprio voto prima della seduta,
in forma cartacea o elettronica, con le modalità indicate dallo statuto  tale sistema richiede però che
nell’avviso di convocazione siano testualmente formulate le singole proposte su cui dovrà esprimersi il voto
favorevole, contrario o di astensione, e non solo le materie di discussione all’ordine del giorno; il socio che

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esprime il suo voto per corrispondenza si considera intervenuto nell’assemblea, ed è per questo motivo che
le relative azioni vanno computate nel quorum costitutivo.

Il presidente dell’assemblea  ha un ruolo importante nel procedimento collegiale, in quanto gli spettano:
- il controllo sulla regolare costituzione dell’organo (incluso l’accertamento dell’identità e della
legittimazione dei presenti);
- la direzione dei lavori (lo svolgimento della discussione, formulazione delle proposte di deliberazione,
modalità di votazione e controllo sullo svolgimento della stessa);
- lo scrutinio e la proclamazione dei risultati;
- la verbalizzazione.
Il presidente dell’assemblea è rappresentato dalla persona indicata nello statuto (che fa usualmente
riferimento alla carica del presidente del c.d.a. o ad altra carica amministrativa, ma potrebbe anche limitarsi
a prevedere una procedura per la nomina del presidente, o in alcuni casi identificarla in un determinato socio
o amministratore), oppure, in mancanza, da quella eletta con il voto della maggioranza dei presenti
(maggioranza calcolata per teste). In caso di violazione delle norme che disciplinano l’attribuzione della
carica presidenziale, le deliberazioni assunte dall’assemblea sono annullabili.
Il presidente di norma è coadiuvato da un segretario, eletto nelle stesse modalità del primo, che lo assiste
nelle varie operazioni e collabora attivamente alla verbalizzazione, controfirmando il documento finale.
Nelle assemblee straordinarie le funzioni del segretario sono assorbite dal notaio al quale viene affidata la
verbalizzazione (nelle assemblee ordinarie invece il ricorso al notaio può essere previsto dallo statuto o
deciso dall’assemblea a maggioranza).
È stato ampiamente discusso se la funzione del presidente debba intendersi come funzione autonoma, cioè se
si debba considerare un organo della società, dotato di competenze autonome, o se sia un semplice
mandatario degli azionisti presenti in assemblea. L’art.2371 (come modificato dalla riforma del 2003)
afferma e precisa le competenze del presidente – prima inespresse – perciò sembra aver chiarito che la carica
del presidente esprime una funzione propria e non delegata. Pertanto le decisioni del presidente, nell’ambito
della propria competenza, non sono sindacabili o revocabili seduta stante da parte dell’assemblea. Il
carattere originario delle sue funzioni tuttavia non comporta la configurazione di un potere “assoluto” sulla
direzione dei lavori assembleari ma, almeno limitatamente alle materie che attengono a scelte discrezionali
(come l’ordine dei lavori, la sospensione della seduta o la scelta del sistema di votazione), egli deve tenere in
ragionevole conto l’opinione dei soci.
Il codice civile, diversamente da tutte le altre figure dell’organizzazione societaria, non disciplina l’ipotesi
della revoca del presidente  probabilmente al fine di assicurare anche sotto questo aspetto la massima
stabilità della carica. Infatti, almeno nel caso in cui il presidente è individuato mediante il ricorso a clausole
statutarie, è preferibile ritenere che egli non sia revocabile, neanche per giusta causa. Se invece è nominato
dall’assemblea, dovrebbe prevalere il principio della tendenziale revocabilità di tutte le cariche previste nel
diritto privato.

Svolgimento dei lavori e votazione  la disciplina legale dello svolgimento dei lavori non è molto
dettagliata, in quanto è per larga parte rimessa alle valutazioni e alle decisioni del presidente. Egli deve
innanzitutto procedere alla verifica della legittimazione in capo ai presenti, in seguito potrà inoltre regolare
la discussione, imponendo limiti di tempo agli interventi ed esercitando poteri di “polizia” interni se si
verificano abusi o scorrettezze da parte di qualcuno dei partecipanti.
Un punto importante nello svolgimento dei lavori assembleari è costituito dall’esercizio del diritto di
informazione da parte degli azionisti. Spesso gli interventi di questi consistono in domande rivolte agli
amministratori o ai sindaci e costoro hanno il dovere di rispondere (purché la domanda sia pertinente e la
materia di cui si tratta non sia coperta da segreto aziendale).
Nelle società quotate, il TUF ha introdotto il diritto per ogni azionista di porre domande sulle materie
all’ordine del giorno anche prima dell’assemblea. La società, che è tenuta a fornire risposta, può provvedere
mediante pubblicazione di un’apposita relazione sul sito internet della società, in modo da evitare
l’appesantimento del lavori assembleari.

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Il presidente deve anzitutto rispettare l’ordine del giorno evitando allargamenti o restrizioni ingiustificate
della materia in discussione. Anche la successione degli argomenti contenuta nell’ordine del giorno deve
essere rispettata, salvo che l’assemblea deliberi una inversione dell’ordine del giorno. La discussione deve
essere regolata in modo da evitare ogni discriminazione a danno di uno o più azionisti ed il presidente può
anche sciogliere la seduta se non sussistono le condizioni per un ordinato svolgimento dei lavori.
L’art.2374 prevede un diritto di rinvio dell’assemblea, attribuito a coloro i quali raggiungano la quota di ⅓
del capitale sociale (avente diritto di voto) e dichiarino di non essere sufficientemente informati sugli
argomenti in discussione  si tratta di un vero e proprio diritto della minoranza, ragion per cui, se la
richiesta di rinvio viene respinta, la delibera conseguente è annullabile. L’assemblea non può essere rinviata
ad oltre 5 giorni, sennò si dovrà provvedere ad una nuova convocazione.
Diversa invece dal rinvio su richiesta della minoranza è il rinvio che può essere deliberato anche a
maggioranza del capitale presente, di solito per finalità di consentire un’ulteriore riflessione sulle materie
all’ordine del giorno. Anche in tal caso l’assemblea è automaticamente riconvocata alla data indicata a
verbale, senza necessità di ulteriore convocazione (anche qui trova applicazione il termine max di 5 giorni).
Per quanto riguarda invece la votazione, deve anzitutto essere scelto il metodo, e questo è proprio un
compito del presidente, che deve comunque tenere conto di mozioni d’ordine approvate dall’assemblea,
salvo l’esistenza di apposite clausole nello statuto o nel regolamento. Fra i possibili metodi vi sono:
- le dichiarazioni verbali
- il metodo per alzata di mano
- il metodo per acclamazione
- l’utilizzo di schede precompilate.
La votazione deve essere simultanea  è causa di invalidità l’alterazione nella successione delle varie fasi.
Varie ragioni portano inoltre a ritenere che non sia ammissibile il sistema del voto segreto: l’art.2375
impone l’identificazione nel verbale dei soci favorevoli-contrari-astenuti; l’esercizio del diritto di
impugnazione e di recesso spettano ai soli soci dissenzienti o astenuti, i quali hanno l’onere di dichiarare il
proprio voto ed ottenerne la verbalizzazione; infine il voto segreto è incompatibile con la disciplina del
conflitto d’interessi, la cui applicazione impone di verificare come abbia votato ogni socio.
È controversa invece la possibilità di esercitare il cd voto divergente  quel voto per mezzo del quale un
socio, titolare di più azioni, voti in un certo modo con una parte di azioni e in modo differente con la restante
parte. La giurisprudenza nega la legittimità ritenendo che il comportamento del socio non può essere
contraddittorio ma la dichiarazione di voto deve essere necessariamente unitaria. Tuttavia tale orientamento
non è convincente in quanto in ipotesi speciali (come nel caso del fiduciario di più soggetti) il voto
divergente è del tutto normale; pertanto si deve ritenere che tale voto sia in linea di principio legittimo.
Subito dopo la votazione deve essere accertato il risultato dei lavori e il presidente deve effettuare la cd
proclamazione  cioè la dichiarazione che l’assemblea ha accolto o rigettato le singole proposte di
deliberazione. Solo a questo punto la trattazione del relativo punto all’ordine del giorno deve dichiararsi
esaurita. Può accadere che la proclamazione sia errata, o per errori materiali nel computo dei lavori o per
altre ragioni: in questo caso la delibera finale è certamente impugnabile, ma si discute se la decisione del
giudice possa essere soltanto invalidativa o possa essere anche correttiva. Nel caso di errori materiali di
calcolo la seconda soluzione sembra preferibile, mentre nel caso in cui il vizio risieda in errori giuridici
relativi a valutazioni antecedenti alla votazione (come l’esclusione dal voto di soggetti ritenuti in conflitto
d’interessi) la sentenza dovrà limitarsi ad annullare la deliberazione e gli amministratori dovranno convocare
nuovamente l’assemblea.

La verbalizzazione  le deliberazioni devono infine risultare da un verbale, che ha la funzione di


documentare lo svolgimento della riunione assembleare. Il verbale è obbligatorio e necessario, infatti la sua
mancanza determina la nullità della deliberazione (art.2379); mentre le irregolarità nella sua redazione
determinano l’annullabilità della delibera.
In caso di assemblea straordinaria, il verbale dev’essere redatto da un notaio, che lo sottoscrive insieme al
presidente. La presenza del notaio si spiega in ragione della funzione di controllo che a tale soggetto è
attribuita, in ordine alla legalità della deliberazione: stanti le competenze dell’assemblea straordinaria, le
delibere hanno ad oggetto il più delle volte una modifica dello statuto e dunque quell’insieme di regole

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fondamentali, che già in sede di costituzione sono soggette al controllo notarile di legalità. Il notaio che
ravvisi nella decisione concretamente adottata un profilo di nullità, è tenuto comunque alla redazione del
verbale, ma successivamente non procederà all’iscrizione nel registro delle imprese ex art.2436, bloccando
di fatto l’operatività della delibera.
Invece in caso di assemblea ordinaria il verbale è redatto insieme e sottoscritto dal presidente e dal
segretario (dunque la redazione del verbale comporta un rapporto di collaborazione tra questi due).
Quanto al contenuto del verbale, l’art.2375 precisa che esso deve essere “analitico”, cioè deve indicare
l’identità dei partecipanti, il capitale rappresentato in assemblea, le modalità ed il risultato delle votazioni, e
deve consentire l’identificazione dei soci favorevoli, astenuti o contrari. Con la sola eccezione della
indicazione delle modalità e del risultato della deliberazione, tutti gli altri elementi possono risultare da
allegati (come il cd foglio firme, che serve ad indicare i presenti alla seduta). Nel verbale devono essere
inoltre riassunte, su richiesta degli intervenienti, le relative dichiarazioni, purché siano pertinenti all’ordine
del giorno. La verbalizzazione inesatta o incompleta, quando è tale da impedire l’accertamento del contenuto,
degli effetti o della validità della delibera, determina l’annullabilità della deliberazione assembleare.
In ordine ai tempi di redazione, non è richiesta la contestualità, potendo il verbale essere legittimamente
redatto in data posteriore alla seduta assembleare, purché senza ritardo e in tempo utile per gli obblighi di
deposito e pubblicazione. L’omessa verbalizzazione entro i suindicati termini determina pertanto nullità
della deliberazione – salva la sanatoria per verbalizzazione tardiva, purché inderogabilmente intervenuta
prima della successiva assemblea – che può farsi valere nel termine ordinario di 3 anni.

La rappresentanza in assemblea  nelle S.p.a. è consentito agli azionisti partecipare all’assemblea


personalmente o mediante un rappresentante. Questa possibilità può risultare utile al socio per varie finalità:
- avvalersi di soggetti professionalmente qualificati
- ovviare ad una propria impossibilità o difficoltà a partecipare direttamente ai lavori
- rafforzare il legame parasociale con altri soci.
Tuttavia lo statuto delle società che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio può escludere o
limitare tale possibilità (ad es. imponendo che il delegato debba essere necessariamente un socio).
La rappresentanza in assemblea è oggi disciplinata dall’art.2372 e dal TUF. Il quadro normativo non è
affatto lineare ed in sostanza si prevedono 3 diversi regimi.
A) Alcune regole sono di carattere generale e valgono per tutte le società azionarie:
- la delega deve essere fornita per iscritto (forma ad substantiam) e i relativi documenti devono rimanere
conservati dalla società al fine di permettere il controllo successivo di regolarità della deliberazione;
- è prescritta la nullità della delega in bianco, cioè della delega priva di indicazione del nome del delegato
(il TUF prevede inoltre per le società quotate il divieto di nominare più di un delegato, da parte di ogni
socio, con la sola deroga per il caso in cui le azioni siano registrate su conti di più intermediari, nel caso in
cui il socio conferisca delega agli intermediari in questione);
- la procura è revocabile, nonostante ogni patto contrario, anche se sia conferita in rem propriam e cioè
anche nell’interesse del delegato  è da ammettersi anche la revoca tacita, che avviene mediante
presentazione personale dell’azionista in assemblea, in luogo del delegato (è poi previsto un divieto di
subdelega discrezionale da parte del delegato).
B) Nelle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio (ivi incluse le società quotate), la
procura può essere solo per singole assemblee, pertanto vale il divieto inderogabile di delega a tempo
indeterminato, e ciò ha la funzione di evitare abusi nel ricorso a tale istituto, quindi evitare un trasferimento
surrettizio di posizioni di potere, sganciato dal possesso azionario. Nelle società chiuse la delega per più
assemblee è invece ammessa (salvo deroga statutaria) anche se rimane temperata dalla revocabilità ad nutum
della procura da parte del socio.
C) Il regime delle società quotate prevede l’esenzione da alcune regole (che valgono dunque per le sole
società chiuse e per quelle con azioni diffuse) e la presenza di istituti appositi.
Le disposizioni che non si applicano alle quotate sono le seguenti:
- il numero massimo di delegati rappresentabili da parte di un singolo delegato è definito dall’art.23722, c.5,
in 20 per le società chiuse e 50-100-200 per le società aperte (rispettivamente fino a 5 mln, 25 mln e oltre)
anche se lo statuto può introdurre limitazioni più rigide  nelle società quotate, invece, i limiti non

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valgono, vista la clausola di deroga introdotta nel c.8;


- inoltre, sempre nelle società non quotate, vi è un divieto di delega a favore di membri degli organi di
amministrazione e controllo della società o di dipendenti della stessa (anche in tal caso il divieto si deve
ritenere operante solo per la rappresentanza volontaria e non nel caso in cui i soggetti di cui sopra
partecipino all’assemblea in qualità di rappresentanti legali o statutari di altri soggetti)  nelle società
quotate invece il punto è regolato dal TUF che non contempla divieti rigidi ma prevede una disciplina di
trasparenza applicabile a tutti i casi di potenziale conflitto di interessi del rappresentante e dei suoi
sostituti  l’ambito di tale fattispecie è ben più esteso di quello codicistico (perché include, oltre agli
organi di amministrazione e controllo, altri soggetti, fra cui principalmente il socio di controllo della
società) ma la disciplina è meno rigida, siccome si limita a prevedere la comunicazione per iscritto al
delegante delle circostanze da cui deriva il conflitto, nonché l’obbligatorietà delle istruzioni di voto per
ciascuna delibera.
Invece gli istituti specifici previsti dal regime delle società quotate sono:
- la delega può essere rilasciata a favore di un rappresentante obbligatoriamente designato dalla società, il
quale dovrà votare secondo le istruzioni di voto del socio e al quale i soci potranno conferire procura entro
la fine del 2° giorno di mercato aperto precedente la data di prima o unica convocazione dell’assemblea;
- per le società quotate diverse dalle cooperative è prevista una procedura di agevolazione della
rappresentanza assembleare, denominata sollecitazione di deleghe  trae spunto da analoghe discipline
previste nell’ordinamento statunitense, e mira a conciliare l’esigenza dei piccoli soci di partecipare
indirettamente alla votazione, con quella delle minoranze organizzate o anche di soggetti esterni che
intendano favorire la coagulazione del consenso nella base di risparmiatori su singole proposte deliberative
(la sollecitazione deve essere rivolta ad almeno 200 azionisti e deve essere accompagnata da
raccomandazioni, dichiarazioni o altre indicazioni idonee ad influenzare il voto);
- non costituisce “sollecitazione” il caso in cui il conferimento di deleghe sia effettuato a seguito di
raccomandazioni o altre indicazioni di voto da associazioni di azionisti, costituite per scrittura privata
autenticata ma non esercenti attività d’impresa e composte da almeno 50 soci, persone fisiche, ciascuna
delle quali non detenga più dello 0,1% del capitale sociale rappresentato da azioni con diritto di voto.

Il conflitto d’interessi  con l’esercizio del diritto di voto il socio concorre alla formazione della volontà
sociale in proporzione al numero delle azioni possedute. Tale esercizio è in linea di principio rimesso alla
totale discrezionalità del socio il quale deve esercitarlo in modo da non arrecare un danno al patrimonio
della società. Questo limite si desume dalla disciplina del conflitto d’interessi, secondo la quale versa in
conflitto di interesse l’azionista che in una determinata delibera ha, per conto proprio o altrui, un interesse
personale contrastante con l’interesse della società.
L’esercizio del diritto di voto nelle S.p.a. dunque non è libero e insindacabile, poiché queste costituiscono
organizzazioni complessivamente volte al perseguimento di un predeterminato fine, che è rappresentato
dall’interesse sociale. Mentre, però, la regola della “funzionalizzazione” del voto (cioè che questo debba
essere rivolto al perseguimento dell’interesse sociale) vale senz’altro per le deliberazioni dell’organo
amministrativo (gli amministratori hanno il dovere di perseguire tale interesse), per quanto riguarda il voto
dell’azionista si afferma la regola che esso incontra nel medesimo interesse solo un limite esterno, tracciato
dalla disciplina del conflitto d’interessi.
L’art.2373 costituisce attuazione di una regola generale dei procedimenti collegiali: quella per cui il
componente dell’organo, che si trovi in conflitto d’interessi con l’ente, dovrebbe in linea di principio
astenersi dalla partecipazione a votazioni sulla materia oggetto del conflitto.
Un tale conflitto di verifica quando l’interesse personale del socio sia contrapposto a quello della società,
cioè quando il socio è posto nell’alternativa di privilegiare l’interesse sociale o al contrario quello personale:
l’interesse personale, anche se oggettivo e determinante, non rileva invece se non risulta in oggettivo
contrasto con quello della società.
In sostanza, la legge non impone all’azionista di orientare il proprio voto in modo da perseguire al meglio
l’oggettivo interesse sociale; non gli impone neppure di partecipare alle assemblee e di votare (nemmeno
quando una certa delibera sia vitale per la società); di più, non si occupa neanche dell’ipotesi in cui
l’azionista persegua, con il proprio voto, un interesse extrasociale, finché questo non entra in contrasto con
quello sociale  la legge interviene solo in caso di conflitto, quando ad es. il socio proprietario di uno

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stabilimento sia chiamato a votare l’autorizzazione all’acquisto del medesimo da parte della società per un
prezzo assai più elevato rispetto a quello di mercato.
Il legislatore non sancisce un obbligo di astensione a carico dell’azionista in conflitto d’interessi, ma dispone
che il suo voto costituisca causa di annullabilità della deliberazione quando:
a) sia stato determinante (prova di resistenza), o
b) abbia contribuito all’approvazione di una deliberazione idonea a danneggiare la società (danno
potenziale).
La disciplina normativa rimette pertanto al socio la decisione se astenersi o votare e il presidente
dell’assemblea non può estrometterlo dalla riunione, sicché si corre il pericolo di annullamento della
deliberazione se il voto viene esercitato in direzione contraria all’interesse della società.
Dunque ciò che rileva è che la decisione sia oggettivamente conforme con l’interesse sociale e non con
l’interesse esterno del socio.
L’idoneità a danneggiare la società deve comunque essere intesa in senso oggettivo e non va confusa con la
circostanza che l’azionista, attraverso l’atto deliberativo, realizzi anche propri interessi personali, rispetto ai
quali l’interesse della società sia indifferente (per questa ragione la giurisprudenza ritiene che le delibere di
nomina a cariche sociali siano valide, anche nel caso in cui determinati azionisti abbiano votato per se stessi).
L’unica ipotesi in cui il codice vieta in via preventiva ed assoluta il voto è quella stabilita dall’art.2373, c.2,
per i soci-amministratori nelle deliberazioni riguardanti la loro responsabilità  in tali ipotesi il socio è
privo della legittimazione al voto, ragion per cui il presidente dell’assemblea ha il dovere di escluderlo dalla
votazione.

Abuso di maggioranza e di minoranza  situazione diversa dal conflitto d’interessi è quella che si può
determinare se una deliberazione viene assunta dalla maggioranza per danneggiare non la società, ma i soci
di minoranza: ipotesi qualificata come abuso di maggioranza (ad es. viene deliberato un aumento di capitale
anche se la società non ne ha specifico interesse, al solo fine di ridurre la quota di partecipazione dei soci di
minoranza, i quali non abbiano disponibilità per sottoscrivere le azioni di nuova emissione).
È normalmente accettata la tesi secondo cui la deliberazione assembleare, in quanto momento attuativo di un
rapporto privatistico di tipo patrimoniale, debba rispettare il principio di buona fede, ed è pertanto
annullabile la delibera per non conformità alla legge in caso di violazione  inoltre, ove la rimozione
dell’atto non basti, la sanzione consiste anche nel risarcimento del danno a carico dell’azionista e a favore
dei soci danneggiati. Generalmente si ritiene che il dovere di correttezza funga da limite esterno alla
altrimenti completa e insindacabile libertà di esercizio del diritto di voto da parte dell’azionista, sanzionando
il comportamento del socio che, pur non pregiudicando l’interesse sociale, persegua strumentalmente con il
voto l’obiettivo di arrecare danno agli altri soci  si può pensare alla ripetuta decisione della maggioranza
di non distribuire mai gli utili annuali, adottata nonostante l’assenza di esigenze finanziarie della società, ed
al chiaro scopo di indurre la minoranza a cedere a basso prezzo le proprie azioni.
Accanto al richiamo dell’abuso del voto, è presente talora quello alla figura dell’eccesso di potere. La
differenza consiste nel fatto che la figura dell’abuso richiede la prova del dolo (specifico) dei soci di
maggioranza a danno di quelli di minoranza, mentre per l’eccesso di potere dovrebbe bastare la prova
dell’inconfigurabilità oggettiva di un interesse sociale ragionevole alla base della delibera.
Il medesimo, ma speculare, problema porsi anche nei confronti della maggioranza, cioè il caso in cui
l’adozione della delibera sia impedita dal comportamento ostruzionistico di alcuni soci, finalizzato al
raggiungimento di interessi extrasociali (ad es. attività imprenditoriali in concorrenza con la società): è
questa l’ipotesi dell’abuso di minoranza. Ciò accade più facilmente quando le partecipazioni sono divise fra
due (o più) soci in parti uguali, sicché l’abuso di voto negativo di ciascuno porta alla paralisi dell’assemblea;
oppure nel caso di assemblee straordinarie di società aperte, in cui si delibera con il voto favorevole di
almeno ⅔ del capitale presente, sicché il socio detentore di più di ⅓ dello stesso può far rigettare con il
proprio voto qualsiasi proposta. Anche in tal caso l’azionista può essere mosso dall’intento di perseguire un
interesse personale in danno di quello sociale o da quello di danneggiare gli altri soci, contro il principio di
buona fede.
Rispetto a tali situazioni, deve certamente riconoscersi la responsabilità civile dell’azionista che abbia
tenuto una condotta abusiva. La giurisprudenza prevalente ritiene invece che non possa esprimersi, da parte
dei controinteressati, un’azione di annullamento del voto e di conseguente accertamento dell’approvazione

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della proposta sostenuta dal voto degli altri azionisti  pertanto l’annullamento delle delibere negative
dovrebbe avere il solo esito di imporre che l’assemblea venga riconvocata sullo stesso ordine del giorno.

 L’INVALIDITÀ DELLE DELIBERAZIONI ASSEMBLEARI


L’invalidità consiste nel vizio delle deliberazioni assembleari derivante dalla violazione di norme che
disciplinano le varie fasi del procedimento deliberativo o dal contenuto della delibera stessa.
Come nella disciplina dei contratti, il codice non regola unitariamente questo fenomeno, ma prevede due
diverse figure: l’annullabilità e la nullità. Tuttavia, mentre nella disciplina generale – quella dei contratti,
ex art.1412 – l’annullabilità costituisce rimedio speciale (la violazione di norme imperative di legge
determina infatti, salva diversa disposizione normativa, la nullità del contratto), nella disciplina societaria la
categoria generale e residuale (cioè quella che si applica per la maggior parte delle fattispecie ed in ogni
caso per tutte le violazioni non espressamente assistite da una sanzione tipica) è quella dell’annullabilità.
Inoltre, diversamente dalla disciplina dei contratti, l’annullabilità si determina non solamente quando viene
violata una norma imperativa, ma anche quando viene violata una norma dispositiva o una clausola
statutaria. La nullità invece si determina solamente quando ricorre una delle 3 cause tipiche previste
dall’art.2379: illiceità o impossibilità dell’oggetto, mancanza di convocazione, mancanza di verbalizzazione.
È vero che la deliberazione è un atto negoziale, per la regolamentazione dei cui vizi potrebbe pensarsi di
ricorrere alle disposizioni sui contratti (le quali costituiscono il sistema generale degli atti negoziali a
contenuto patrimoniale)  però il legislatore detta una disciplina apposita, totalmente autonoma rispetto a
quelle disposizioni, in quanto ravvisa l’opportunità di tutelare interessi e perseguire obiettivi diversi da
quelli sottesi alla disciplina delle invalidità contrattuali. In particolare il legislatore cerca di assicurare un
adeguato livello di tutela all’esigenza di stabilità degli atti societari, cercando un equilibrio tra questa
istanza e quella di assicurare il rispetto della disciplina societaria, tramite l’invalidazione delle delibere
viziate: è per questo che l’annullabilità è la forma generale di invalidità, che richiede un’impugnazione
tempestiva (90 giorni), e la nullità (contrariamente al principio, tipico dei contratti, dell’imprescrittibilità
dell’azione) deve essere fatta valere entro un dato termine (3 anni), mentre vi sono addirittura delibere che,
non appena ne viene data esecuzione (il che talora coincide con la stessa iscrizione della delibera nel registro
delle imprese, come nelle operazioni straordinarie di fusione, scissione e trasformazione), divengono non
impugnabili allo scopo di assicurare la definitività del riassetto organizzativo che esse implicano  per lo
stesso motivo, la legittimazione ad impugnare per annullabilità spetta, in linea di principio, non ad ogni
socio ma solo a chi detenga una determinata aliquota del capitale.
a) Annullabilità  l’art.2377 prevede 2 tipologie di cause di annullabilità. In via generale, il c.2 dispone
l’annullabilità delle deliberazioni che non siano prese in conformità della legge o dello statuto, e a sua volta
la difformità della deliberazione dalla legge o dallo statuto può determinarsi per la violazione di norme
sostanziali o procedimentali. Nel primo caso – vizi di contenuto –, se consistenti nella violazione di norme
imperative (cioè non derogabili dallo statuto), si determina un problema di distinzione dalla figura più grave
della “illiceità dell’oggetto”, che dà invece luogo a nullità; non sussistono invece difficoltà di valutazione se
la disposizione di ordine sostanziale è di fonte statutaria o se la norma di legge violata è derogabile. Anche
l’annullabilità per vizi di procedimento, derivante dalla violazione di norme aventi fonte legale o statutaria,
non pone rilevanti problemi di distinzione con le cause di nullità, che sono circoscritte alle due sole ipotesi
tipiche della omessa convocazione e della omessa verbalizzazione: qualunque altra violazione di norme
procedimentali, anche particolarmente grave, determina annullabilità e non nullità della deliberazione.
L’art.2377, c.5, prevede poi delle ipotesi specifiche di annullabilità, che costituiscono pur sempre violazioni
di tipo procedimentale, ma per le quali la mera sussistenza del vizio non è sufficiente a determinare
annullabilità della deliberazione, occorrendo invece che il vizio superi una determinata soglia di rilevanza
sostanziale: 1) la partecipazione all’assemblea di persone non legittimate (si pensi ad un delegato la cui
procura sia stata rilasciata in violazione dell’art.2372) è causa di annullamento solo se, a seguito della cd
prova di resistenza, la partecipazione sia risultata determinante per il raggiungimento del quorum
costitutivo; 2) lo stesso vale per l’invalidità dei singoli voti (si pensi ad un voto espresso in presenza di vizi
della volontà) o per il loro errato conteggio da parte del presidente dell’assemblea, anche in tal caso
occorrerà accertare se la violazione sia stata determinante per il raggiungimento della maggioranza; 3)
l’incompletezza o l’inesattezza del verbale sono invece cause di annullamento solo quando impediscono
l’accertamento del contenuto, degli effetti o della validità della delibera.

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La legittimazione ad impugnare le deliberazioni annullabili spetta, in primo luogo, ai soci assenti,


dissenzienti o astenuti (chiaramente soci assenti, dissenzienti o astenuti ma che avevano diritto di voto sulle
materie oggetto della deliberazione). Il nuovo art.2352, ult.co., ha poi risolto espressamente un problema
assai dubbio sotto la vecchia disciplina, stabilendo che i diritti amministrativi diversi dal voto – fra i quali
l’impugnazione – spettano (disgiuntamente) sia al socio, sia al creditore pignoratizio o all’usufruttuario;
mentre nel caso di sequestro delle azioni, spettano unicamente al custode.
È però posto un limite assai forte alle impugnative dei piccoli soci, in quanto la legittimazione ad impugnare
spetta solo a minoranze qualificate, che detengano determinate quote di capitale  il 5% del capitale
sociale, ridotto all’1‰ nelle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio (lo statuto può
tuttavia escludere o ridurre tale requisito).
I soci che non rappresentano la parte di capitale necessaria per essere legittimati a impugnare la
deliberazione assembleare hanno diritto al risarcimento del danno loro cagionato dalla non conformità
della deliberazione alla legge o allo statuto  e questo è un passaggio importante della disciplina, in quanto
vi si manifesta quell’intento legislativo di assicurare quanto più possibile la stabilità degli atti societari!!!
La legittimazione all’azione di annullamento è data pure agli amministratori ed al collegio sindacale
(nonché al consiglio di sorveglianza nel sistema dualistico). La legittimazione spetta anche, in generale, al
rappresentante comune degli azionisti di risparmio, nonché, in alcuni casi tassativamente previsti, alla
Consob (per le società quotate), alla Banca d’Italia (per le banche) e all’Ivass (per le assicurazioni).
Il termine per l’impugnativa è di 90 giorni e decorre dalla data della deliberazione, ovvero dall’iscrizione
nel registro delle imprese, o ancora dalla data del deposito nel registro se la delibera è soggetta solo a tale
obbligo (come nel caso del bilancio). Il termine è generalmente allungato a 180 giorni nel caso di
impugnativa promossa dalla Consob, dalla Banca d’Italia o dall’Ivass.
Con riferimento al procedimento di impugnazione, l’azione si propone mediante atto di citazione notificato
alla società. La proposizione dell’azione non sospende di per sé l’esecuzione della delibera da parte degli
amministratori; ma la sospensione cautelare può essere disposta dal tribunale su richiesta degli attori, previa
personale comparizione in tribunale degli amministratori e dei sindaci, se l’impugnazione appare sorretta da
valide ragioni e se sussiste il rischio di grave pregiudizio per le ragioni dell’istante: in particolare il giudice
dovrà valutare comparativamente il pregiudizio che riceverebbe la società dall’eventuale sospensione
cautelare, con il pregiudizio che riceverebbe il ricorrente dall’esecuzione della delibera.
b) Nullità  la cause di nullità delle deliberazioni assembleari sono tassativamente previste dall’art.2379 e
sono 3: una di tipo sostanziale e due di tipo procedimentale.
L’illiceità dell’oggetto è l’ipotesi più controversa in quanto pone il problema di distinguere tale figura dalla
non conformità della deliberazione alla legge, prevista dall’art.2377, c.2, quale causa di annullabilità.
Secondo la giurisprudenza il criterio generale di distinzione tra delibere nulle e annullabili per vizi
sostanziali è quello dell’interesse tutelato dalla norma violata  sarebbero nulle le delibere costituenti
violazione di norme inderogabili poste nell’interesse generale (ad es. la violazione dei criteri di redazione
del bilancio) mentre sarebbero semplicemente annullabili quelle costituenti violazione di norme, anche
inderogabili, ma poste nell’interesse e a tutela dei soli soci (ad es. la violazione delle disposizioni
inderogabili in materia di diritto di opzione o del diritto di recesso del socio).
Quanto alla mancata convocazione dell’assemblea, il vizio è causa di nullità solo se assoluto e sostanziale.
Questo vizio radicale si verifica per il semplice fatto che anche uno solo dei soci, aventi diritto di voto, non
sia stato avvertito nelle forme minime previste. La convocazione non è invece “omessa” (pertanto la delibera
non è nulla) ma soltanto irregolare (con conseguente annullabilità) se l’avviso non rispetta i termini minimi
di convocazione o se manca di alcuni suoi contenuti tipici secondo la legge o lo statuto. In particolare,
affinché la convocazione possa dirsi solo irregolare e non mancante, occorre che sia ricevuto prima dello
svolgimento dell’assemblea, da ciascuno degli aventi diritto al voto, un avviso, proveniente da almeno un
componente dell’organo di amministrazione o di controllo in carica, che contenga per lo meno la data
dell’assemblea.
La ratio del trattamento di un tale vizio (nullità e non annullabilità) è impedire che un azionista venga colto
di sorpresa da una decisione adottata a sua totale insaputa, stante che il termine di 90 giorni, previsto per
l’annullabilità, non sarebbe idoneo a tutelare adeguatamente i soci inconsapevoli. Inoltre, la gravità del vizio

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giustifica una legittimazione ad agire più ampia (la delibera sarà impugnabile anche dai soci che non
raggiungono le percentuali del 5% o 1‰.
Comunque, il vizio di nullità non può essere fatto valere da chi, anche successivamente all’assemblea, abbia
dato (in qualunque forma) il proprio assenso allo svolgimento della stessa.
La mancanza di verbale è causa di nullità solo se consiste nella mancanza assoluta di un documento,
sottoscritto dal presidente dell’assemblea o dal presidente del consiglio di amministrazione o del consiglio di
sorveglianza e dal segretario o dal notaio, contenente quanto meno l’indicazione dell’oggetto, e cioè sia
delle materie trattate sia della deliberazione concretamente assunta dall’assemblea.
La mancata indicazione di tutti gli elementi di cui all’art.2375 può essere invece solo causa di annullabilità;
analogamente, si avrà semplice annullabilità se il verbale è privo della sottoscrizione del presidente
dell’assemblea o di quella del segretario.
La nullità è però sanata con effetto retroattivo se la verbalizzazione interviene prima dell’assemblea
successiva, salvi i diritti acquisiti dai terzi che in buona fede ignoravano l’esistenza della deliberazione.
La legittimazione all’impugnazione spetta a chiunque vi abbia interesse, ivi compresi i soci che abbiano
votato a favore della deliberazione. La nullità può essere rilevata anche d’ufficio dal giudice.
A differenza dell’azione di nullità dei contratti, che non è soggetta a termini di prescrizione o decadenza, le
deliberazioni nulle possono essere invece impugnate nel termine di 3 anni dall’iscrizione o dal deposito nel
registro delle imprese, se previsti dalla legge, o in caso contrario, dalla trascrizione nel libro delle adunanze
dell’assemblea. Tale termine non vale per il caso “di scuola” delle deliberazioni che abbiano modificato
l’oggetto della società, prevedendo lo svolgimento di attività illecite o impossibili, nel qual caso l’azione è
imprescrittibile e in ogni caso per tutti i casi di illiceità assoluta del dispositivo e in particolare per la
modifica dello statuto mediante introduzione di clausole a loro volta nulle per contrasto con norme
imperative di legge.
c) Inesistenza e inefficacia  le deliberazioni assembleari possono essere oggetto di contestazione
attraverso il richiamo non soltanto delle figure tipiche dell’annullabilità e nullità.
L’inesistenza si riferisce al caso in cui la deliberazione sia solo apparente e manchi dei requisiti essenziali
della fattispecie  in tal caso non si tratta di invalidare e rimuovere gli effetti di una decisione pur sempre
assunta, ma semplicemente di accertare (con legittimazione da parte di chiunque vi abbia interesse e senza
limiti di tempo) l’assenza in concreto di qualsivoglia atto qualificabile come deliberazione di una certa
assemblea. L’inesistenza è una figura di creazione giurisprudenziale, originariamente applicata in caso di
violazioni procedimentali particolarmente gravi (mancata convocazione o raggiungimento della
maggioranza o verbalizzazione), ma è stata drasticamente ridimensionata con la riforma del 2003, come si
evince chiaramente dal fatto che la omessa convocazione e verbalizzazione sono state ora espressamente
qualificate come causa di “nullità”, soggette al nuovo termine prescrizionale di 3 anni. Ne consegue, altresì,
la scelta implicita del legislatore di non ritenere nulle, ma solamente annullabili, le altre fattispecie che la
giurisprudenza aveva ricondotto all’interno di tale figura. Tale opzione normativa è strettamente coerente
con il complessivo disegno riformatore in materia di invalidità delle delibere, che ha decisamente
privilegiato (rispetto al passato) l’interesse alla stabilità delle deliberazioni assembleari. Il ricorso alla
figura in questione deve ritenersi plausibile almeno per i casi limite di inesistenza materiale e allorché siano
contemporaneamente mancanti sia la convocazione che la verbalizzazione (quando sono omesse entrambe le
fasi, non può pertanto trovare applicazione il regime della nullità).
L’inefficacia è invece un vizio derivante dalla carenza di legittimazione rispetto al potere deliberativo
dell’assemblea (ad es. mancanza di titolarità dei diritti di cui si dispone, carenza di una condicio juris). Il
regime è simile a quello dell’inesistenza, in quanto la violazione può essere dedotta senza limiti di tempo ma
può essere fatta valere soltanto dai soggetti lesi (ed anche dagli amministratori) e può essere in linea di
principio sanata successivamente, ove ne sussistano i presupposti.

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Gli amministratori
Il sistema tradizionale, che si applica in assenza di una previsione statutaria, è basato sulla presenza di due
organi nominati dall’assemblea: l’organo amministrativo ed il collegio sindacale, mentre il controllo
contabile è affidato per legge ad un organo esterno alla società (revisore o società di revisione).
In questo sistema le S.p.a. non quotate possono avere sia un amministratore unico sia una pluralità di
amministratori che formano il consiglio di amministrazione. Nelle S.p.a. quotate è obbligatoria la
costituzione di un consiglio di amministrazione, dove almeno 1 amministratore deve essere espressione della
minoranza, ed inoltre almeno 1 componente (2, se il consiglio è composto da più di 7 membri) deve essere
un cd amministratore indipendente  deve cioè essere in possesso dei requisiti di indipendenza stabiliti per
i sindaci e degli ulteriori requisiti eventualmente previsti dallo statuto.

 COMPETENZE
Gli amministratori hanno competenza esclusiva sull’attività di gestione, e dunque per il compimento di
tutte le operazioni (atti e/o fatti) volte ad attuare l’oggetto sociale. La competenza esclusiva dell’organo
amministrativo in materia gestoria è regola inderogabile (art.2380-bis), sia per l’organizzazione interna della
società, sia come divieto dell’attribuzione ad un soggetto esterno alla società del potere di amministrazione.
Come si è visto, l’assemblea non ha poteri decisionali in materia gestoria ma, in tale materia può
indirettamente incidere soltanto grazie al potere di scelta dei “governanti” dell’impresa, al potere di
controllo (a cominciare dall’approvazione del bilancio) e al potere normativo (determinazione delle norme
statutarie, anche rispetto ai modelli di amministrazione e controllo); lo statuto può attribuirle invece solo un
potere autorizzatorio su singoli atti di competenza degli amministratori.
Questa regola di divisione dei poteri all’interno dell’organizzazione societaria è dettata in modo imperativo
 in questo modo l’ordinamento intende dare certezza ed efficienza al governo dell’impresa societaria,
rafforzando il ruolo del potere esecutivo interno. I soci possono sì scegliere fra i diversi modelli di governo,
ma si tratta di modelli legalmente tipici, rispetto ai quali l’autonomia statutaria ha potere di scelta, ma non di
creare varianti atipiche.
L’accezione di gestione va quindi intesa in senso lato, proprio per esigenze di efficienza organizzativa,
riferendola non solo alla produzione e commercializzazione dei beni e dei servizi, ma anche ai profili
finanziari funzionali alla produzione e alla commercializzazione degli stessi, nonché all’organizzazione
aziendale in senso stretto, cioè all’articolazione degli uffici interni.

 NOMINA E COSTITUZIONE DEL RAPPORTO DI AMMINISTRAZIONE


L’assemblea ordinaria nomina con propria deliberazione i preposti alla carica gestoria, il cui organo, nel
modello tradizionale, può avere composizione monocratica (amministratore unico) o pluripersonale
(consiglio di amministrazione)  soltanto nelle società quotate l’organo di amministrazione deve sempre
avere composizione pluripersonale. È lo statuto a fissare la composizione numerica dell’organo.
La competenza assembleare per la nomina è sancita dal codice civile alla stregua di un principio
fondamentale, inderogabile dagli statuti.
Per la nomina degli amministratori non sono stabilite norme generali a tutela delle minoranze, sicché la
maggioranza assembleare può legittimamente nominare l’intero consiglio di amministrazione  soltanto
nelle società quotate il modello legale impone sistemi di nomina di amministratori “di minoranza”.
Comunque, per la nomina alle cariche sociali lo statuto può stabilire norme particolari pertanto, fermo il
divieto di prevede modalità di nomina extra-assembleare, gli statuti possono esprimersi in vario modo:
- stabilendo norme volte a garantire proprio la cd rappresentanza delle minoranze  l’elezione con
scrutinio di lista è la tecnica maggiormente diffusa nella pratica per poter consentire la nomina di
rappresentanti di minoranza, tanto da essere stata razionalizzata dal legislatore, che ne ha imposto
l’adozione alle società quotate non solo per l’organo amministrativo ma pure per quello di controllo. Tale
tecnica, prevedendo la presentazione di più liste di candidati, consente tipicamente di trarre gli
amministratori da eleggere non soltanto dalla lista maggiormente votata, ma in parte anche da quella
seconda per numeri di voti ricevuti, ma questa seconda lista non deve essere neppure indirettamente
riconducibile al gruppo di maggioranza (ciò al fine di evitare facili elusioni del sistema tramite la
presentazione di liste di comodo). Nelle società quotate, dunque, è stabilito che almeno un componente del

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c.d.a. debba essere espresso da una lista di minoranza, salva naturalmente la facoltà dello statuto di
accentuare il criterio proporzionalistico dello scrutinio di lista, assegnando a liste minoritarie più seggi
consiliari. La legittimazione a presentare liste è attribuita agli azionisti che rappresentino determinate soglie
del capitale sociale fissate (salva la minore percentuale prevista nello statuto) dalla Consob;
- richiedendo che la composizione interna dell’organo amministrativo rispetti determinati requisiti dei
singoli membri
- fissando norme volte a garantire l’indipendenza (di parte) dei componenti del c.d.a.
Possono essere nominati amministratori di S.p.a. sia soci, sia terzi che non siano soci, ma lo statuto può
scegliere di limitare ai soli soci l’eleggibilità.
Tuttavia gli azionisti trovano dei limiti imperativi nella scelta degli amministratori  l’ordinamento prevede
cause legali espresse di ineleggibilità e di decadenza dalla carica: incapacità legale, fallimento e condanne
penali che comportino l’interdizione dagli uffici pubblici o privati. Pertanto la nomina di soggetto
ineleggibile è nulla, e se la causa di ineleggibilità sopravviene l’amministratore decadrà automaticamente
dall’ufficio. Stante la natura privata della società, sono ampi i margini di manovra degli statuti, che
potrebbero ampliare le cause di ineleggibilità e decadenza fissate dalla legge, fermo il principio di
competenza assembleare nella nomina e revoca degli amministratori; si pensi a cause di decadenza di tipo
sanzionatorio, come per il caso di più assenze ingiustificate dalle riunioni di consiglio.
Il modello legale non prevede invece requisiti di professionalità e onorabilità degli amministratori per tutte
le S.p.a., ma solo per le società quotate o per alcune società a statuto speciale. Ulteriori requisiti di
professionalità e/o onorabilità possono però essere stabiliti dallo statuto, nel modo più vario e in tutte le
S.p.a.
In aggiunta a qualità di professionalità e onorabilità, sono imposti per alcuni amministratori requisiti di
“indipendenza” nei confronti degli azionisti di controllo e del management  oltre che nelle società a
statuto speciale, in tutte le società quotate i consigli di amministrazione devono comprendere o almeno 1
consigliere indipendente, o 2 consiglieri indipendenti se il consiglio è composto da più di 7 componenti. In
tutte le S.p.a. poi, gli statuti possono legittimamente prevedere che uno o più amministratori siano
indipendenti rispetto agli azionisti e/o ad altri amministratori. Il requisito dell’indipendenza da parte di
alcuni componenti dell’organo amministrativo è teso ancora una volta a migliorare gli standard di
affidabilità sulla correttezza dei gestori, tramite la vigilanza affidata ad amministratori dotati di una
particolare autonomia di giudizio, segnatamente a fronte di situazioni di conflitto di interessi in cui siano
coinvolti ora il gruppo di controllo ora gli altri amministratori. L’amministratore che sia indipendente deve
rimanere tale per tutta la durata della carica, infatti «L’amministratore indipendente che, successivamente
alla nomina, perda i requisiti di indipendenza deve darne immediata comunicazione al consiglio di
amministrazione e, in ogni caso, decade dalla carica».
Però è problematica la definizione della figura di amministratore indipendente  in mancanza di una
definizione comune, è preferibile la prospettiva accolta a livello comunitario, che tende ad adottare una
nozione sostanzialistica più che formale, in cui si valuti se in fatto l’amministratore, in negativo, versi in
relazioni con la società o con soggetti ad essa legati, tali da comprometterne l’autonomia di giudizio anche
sull’operato del management e, in positivo, abbia la capacità di esprimere giudizi che siano pertinenti ed
anche autonomi. La nozione di indipendenza va pure intesa come relativa, in confronto dei soggetti verso cui
deve sussistere l’indipendenza, segnatamente rispetto alle peculiarità dei singoli assetti proprietari della
società e ai compiti affidati all’amministratore indipendente stesso.
È a tutt’oggi dubbia la legittimità della nomina come amministratore di una persona giuridica  sembra
preferibile l’orientamento tradizionale negativo, giacché la soluzione ammissiva rischia di depotenziarne la
funzionalità dell’organo amministrativo di S.p.a.  la soluzione positiva implica infatti, non solo un
indebolimento della collegialità consiliare, ma anche la sottrazione all’assemblea del potere di scelta di chi
in concreto eserciterà le funzioni gestorie, e dunque di valutare comparativamente quali soggetti, fra i
candidati alla carica, abbiano le caratteristiche individuali migliori per esercitarle.
Inoltre, l’art.2390 contiene uno dei tradizionali divieti di concorrenza ex lege, sanciti a carico di
determinati soggetti: il riferimento più vicino è dato dall’art.2301, in tema di divieto di concorrenza del
socio di S.n.c.
Anzitutto, il divieto di concorrenza viene in rilievo non già per atti sporadici, ma solo con riferimento a una
vera e propria attività svolta in altra impresa in rapporto di concorrenza attuale o potenziale con quella

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effettivamente svolta dalla società  il divieto riguarda, in particolare, alcune fattispecie tipizzate dalla
norma, che vieta espressamente all’amministratore l’esercizio di impresa individuale, di attività concorrente
per conto altrui, l’assunzione della qualità di socio illimitatamente responsabile, come pure l’assunzione
della qualità di amministratore o di direttore generale di altra impresa concorrente.
È però possibile un’autorizzazione in deroga al divieto, che deve essere assunta da una delibera formale
dell’assemblea ordinaria.
L’eventuale violazione del divieto di concorrenza può esporre l’amministratore a revoca per giusta causa e a
risarcimento dei danni.
Infine vi è da dire che l’assunzione della carica di amministratore non è automatica, ma richiede un atto di
accettazione, che può essere anche tacito. Sono fissati poi dal codice civile gli adempimenti pubblicitari
della nomina nel registro delle imprese, quale l’iscrizione dei relativi dati anagrafici nel termine di 30 giorni
dalla notizia della loro nomina, a cura di ciascun amministratore, termine che decorre dal momento
dell’accettazione da parte dell’eletto  eguale pubblicità è dovuta in caso di cessazione dalla carica.
La disciplina sull’amministrazione può trovare peraltro applicazione anche rispetto a soggetto non investito
formalmente della carica con un atto di nomina seguito da debita accettazione: l’amministratore di fatto.
Si tratta di un soggetto che, pur privo di investitura formale (spesso è l’azionista di maggioranza),
s’ingerisce sistematicamente nella gestione della società (tipicamente con investitura tacita, cioè con piena
consapevolezza e consenso da parte degli azionisti).
In tal caso, la giurisprudenza riconosce che l’amministratore di fatto abbia gli stessi poteri e, soprattutto, le
stesse responsabilità proprie dell’amministratore di diritto  anche se in realtà rimane una differenza netta
tra i due, in quanto il potere di fatto non è sufficiente a legittimare l’azione dell’amministratore nei rapporti
esterni (così, sarebbe priva di efficacia una procura speciale da lui rilasciata a favore di un soggetto esterno);
ed anche nei rapporti interni il rapporto fra l’amministratore di fatto e gli altri soggetti appartenenti
all’organizzazione societaria può dirsi eventualmente disciplinato da rapporti parasociali, ma non è tale da
inficiare le regole formali di funzionamento della società.

 CESSAZIONE
La durata massima della carica è di 3 anni (art.2383). La norma è inderogabile, pertanto sono
inammissibili amministratori a vita o in posizione privilegiata quanto al mantenimento della carica, il motivo
è quello di riservare sempre all’assemblea il ruolo di confermare periodicamente la fiducia ai gestori.
Peraltro non è sancita una regola di necessaria contemporaneità della data di cessazione delle cariche, anche
se lo statuto può imporre la sincronicità dei mandati gestori.
La norma precisa che il termine va operato per esercizi e non per anni solari, e che la scadenza si compie
con la data fissata per la convocazione dell’assemblea chiamata all’approvazione del bilancio d’esercizio (in
tal modo gli amministratori sono in grado di predisporre il bilancio relativo all’ultimo loro esercizio).
Le cause di cessazione dalla carica di amministratore sono:
a) per scadenza del termine;
b) per rinunzia (cd dimissioni);
c) revoca;
d) cause di decadenza previste ex lege dall’art.2383 o dallo statuto;
e) per decesso.
Laddove intervenga la cessazione dalla carica per una di tali cause, la disciplina tende a salvaguardare
l’efficienza dell’organizzazione societaria, ovviando a soluzioni di continuità nell’esercizio della funzione
amministrativa.
- Con riguardo alla scadenza del termine, viene fissata la regola della illimitata prorogatio dell’organo
amministrativo (cioè della permanenza in carica) fino alla sua sostituzione da parte dell’assemblea  gli
amministratori in prorogatio conservano i pieni poteri e non debbono pertanto limitarsi all’ordinaria
amministrazione.
- Le dimissioni sono ammesse dalla legge e non richiedono la forma scritta ad substantiam; non necessitano
neppure di una giustificazione e non comportano alcun obbligo di indennizzo verso la società. La rinunzia
ha effetto immediato, non necessitando di accettazione, e una volta comunicata non può essere revocata. La
regola dell’effetto immediato è però derogata quando essa comporterebbe una paralisi dell’organo
amministrativo, vuoi per il venir meno della maggioranza dei componenti in carica, vuoi per il venir meno

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dell’amministratore unico  in tali casi la rinunzia ha effetto solo al momento della sostituzione dell’organo,
e segnatamente nel momento in cui la maggioranza degli amministratori viene ricostituita. La
comunicazione delle dimissioni, quale dichiarazione unilaterale recettizia, deve essere indirizzata al
presidente del consiglio di amministrazione oltre che al presidente del collegio sindacale. La cessazione
degli amministratori deve essere pubblicizzata sul registro delle imprese nei 30 giorni successivi al
verificarsi dell’effetto estintivo, a cura del collegio sindacale (l’iscrizione ha valore di pubblicità notizia).
- La revoca dell’amministratore può essere esercitata, senza limiti, da parte dell’assemblea ordinaria (più
avanti vedremo che sono previste ipotesi di revoca di diritto e di revoca giudiziale). Quale eccezione a
questa regola, il potere di revoca dell’amministratore nominato da enti pubblici è attribuito allo stesso ente
pubblico che ha effettuato la nomina, e non all’assemblea. La delibera di revoca non richiede alcuna
motivazione e la sua efficacia non è subordinata all’esistenza di una giusta causa  la mancanza di giusta
causa, tuttavia, dà luogo al diritto al risarcimento del danno a favore dell’amministratore revocato (la
nozione di giusta causa risulterà integrata sia per un grave inadempimento degli obblighi gestori da parte del
revocato, sia là dove ricorra un giustificato motivo oggettivo, come ad es. quando l’assemblea abbia
revocato gli amministratori perché il nuovo azionista di controllo, che abbia acquistato la partecipazione
maggioritaria, intenda sostituire gli attuali gestori con persone di sua fiducia).
Se nel corso del mandato vengono a mancare uno o più amministratori per cause diverse dalla revoca (che
comporta la sostituzione del revocato ad opera della stessa assemblea che ne ha deliberato la revoca)
soccorre poi, per integrare l’organo, la disciplina della sostituzione degli amministratori, sempre improntata
all’esigenza di evitare soluzioni di continuità della funzione amministrativa.
Dunque, se rimane in carica la maggioranza degli amministratori di nomina assembleare, l’art.2386
prevede il potere di cooptazione di membri del consiglio di amministrazione, con deliberazione del
consiglio stesso (che deve essere approvata dai sindaci). L’amministratore cooptato dura in carica sino alla
assemblea immediatamente successiva alla sua nomina, la quale potrà confermarlo (anche implicitamente).
Quando invece viene meno la maggioranza degli amministratori nominati dall’assemblea, quelli rimasti in
carica devono convocare prontamente l’assemblea, per la sostituzione dei mancanti.
L’istituto della cooptazione ha natura eccezionale rispetto al principio di competenza assembleare nella
nomina degli amministratori, ed ha come ratio quella di consentire la continuità dell’organo amministrativo
senza dover ricorrere alla convocazione immediata di riunioni assembleari. Il consiglio di amministrazione
ha peraltro l’obbligo di attuare la cooptazione, salvo rimettere tempestivamente all’assemblea, in caso di
impossibilità di scelta di soggetti idonei a cooptare, la decisione ultima sulla composizione numerica
consiliare. Il procedimento di cooptazione non si applica ove l’assemblea sia in grado di esercitare la propria
competenza, come in caso di revoca dell’amministratore o là dove l’amministratore non venga meno nel
corso del mandato (come quando la cessazione della carica derivi da scadenza non contestuale del termine e
conseguente prorogatio dell’amministratore sino alla sostituzione da parte dell’assemblea).
Nel caso invece in cui vengano meno tutti gli amministratori e non si versi in un’ipotesi di prorogatio (ad es.
nel caso di morte dell’amministratore unico), sarà il collegio sindacale a dover convocare urgentemente
l’assemblea e a potere nel frattempo esercitare i poteri di amministrazione ordinaria.
Perciò, in linea di principio, il venir meno di uno o più amministratori lascia in carica i restanti, aprendo alla
sostituzione dei soli consiglieri venuti meno per cooptazione o comunque da parte dell’assemblea.
Infine, sono valide le clausole simul stabunt simul cadent, che – al fine di mantenere gli equilibri fra le
diverse componenti consiliari – prevedono la integrale decadenza dell’organo amministrativo in caso di
cessazione dalla carica nel corso del mandato da parte di uno o più amministratori: essendo cessato l’intero
consiglio, gli altri amministratori (che non siano cessati per la causa prevista nella clausola stessa) dovranno
provvedere all’immediata convocazione dell’assemblea per il rinnovo dell’intero consiglio.

 STRUTTURA E FUNZIONAMENTO DELL’ORGANO


L’organo amministrativo, nel modello tradizionale, può avere composizione numerica varia, secondo le
indicazioni dello statuto  il numero minimo degli amministratori può infatti corrispondere anche ad uno
solo (amministratore unico) anche se, nelle S.p.a. quotate, occorre prevedere necessariamente un consiglio di
amministrazione  invece per quanto riguarda il numero massimo, per tutte le società non vi è alcun limite.

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Quando gli amministratori sono più di uno, costituiscono il c.d.a., e l’amministrazione dovrà allora essere
attuata con metodo collegiale  ciò significa che le deliberazioni dovranno rispettare questo metodo
(convocazione – riunione – discussione – votazione – proclamazione – verbalizzazione) e avranno come
criterio decisionale quello di maggioranza.
Il presidente del c.d.a. copre un ruolo fondamentale per il buon funzionamento dell’organo. L’attuale
disciplina gli riconosce la titolarità di una serie di poteri cardine per esercitare funzioni non solo di
coordinamento dell’attività collegiale, ma anche di stimolo e di tutela dell’effettività del ruolo del consiglio.
Egli può essere nominato direttamente dall’assemblea o essere eletto dal consiglio stesso, sempre fra i suoi
componenti. Al presidente del c.d.a. spettano determinate competenze, stabilite dall’art.2381:
a) convoca il consiglio di amministrazione;
b) fissa l’ordine del giorno;
c) dirige la discussione e sottopone a votazione le deliberazioni;
d) proclama i risultati della votazione;
e) procede alla verbalizzazione, ove non sia previsto l’intervento del notaio;
f) cura la corretta informazione di tutti i componenti dell’organo, ai fini della ponderata adozione delle
deliberazioni.
Questi poteri sono attribuiti al presidente “salvo diversa previsione dello statuto”  la derogabilità della
disposizione comunque riguarda solo l’elenco delle competenze e non può spingersi fino alla soppressione
della carica o alla eliminazione pura e semplice di alcuna delle competenze menzionate.
Inoltre, nel definire i poteri tipici del presidente, la disciplina ha così pure formalizzato le fasi del
procedimento deliberativo consiliare:
- la convocazione di tutti i consiglieri è essenziale per la legittimità della deliberazione, nelle forme previste
dallo statuto. La convocazione è disposta dal presidente, che emana il relativo avviso;
- l’avviso deve contenere l’ordine del giorno, che non è derogabile da parte del consiglio;
- il presidente coordina i lavori del consiglio, cui è attribuita una serie di compiti comunemente riconosciuta
alla figura del presidente di un collegio  dichiarare aperta la seduta e regolarne la discussione secondo
l’ordine delle materie da trattare, dando e togliendo la parola ai singoli componenti, ponendo in votazione i
diversi deliberandi proposti, procedendo poi allo scrutinio e alla proclamazione del risultato;
- il consiglio adotta le proprie deliberazioni con il quorum costitutivo della “presenza della maggioranza
degli amministratori in carica”, e con il quorum deliberativo della “maggioranza assoluta dei presenti” (lo
statuto può legittimamente prevedere maggioranze qualificate per le deliberazioni ma non anche la regola
dell’unanimità, in quanto questa contrasterebbe con il principio di collegialità dell’organo e con l’esigenza
di efficienza della gestione dell’impresa sociale);
- fase tipica, infine, di ogni procedimento collegiale è quella della verbalizzazione, tuttavia il codice non ne
fa menzione (diversamente che per il collegio sindacale)  essa presenta diversi ordini di rilevanza, in
particolare costituisce un atto dovuto per gli amministratori, che devono tenere il libro obbligatorio delle
adunanze e delle deliberazioni del consiglio di amministrazione, rilevante dunque sul piano sia della
revocabilità per giusta causa, sia quale possibile irregolarità ai fini del controllo giudiziario.
Le deliberazioni del consiglio di amministrazione sono suscettibili di impugnazione in caso di non
conformità alla legge o allo statuto. La disciplina non distingue tra casi di annullabilità e di nullità: tutti i
vizi delle deliberazioni consiliari integrano così sempre una causa di annullabilità, da far valere nel termine
di 90 giorni dalla data della deliberazione, anche se si tratta di vizi che in relazione alle deliberazioni
dell’assemblea sono invece causa di nullità ex art.2379.
La legittimazione ad impugnare è attribuita agli amministratori assenti o dissenzienti o astenuti e al collegio
sindacale (ma non anche ai singoli sindaci), il quale avrà l’obbligo dell’impugnazione se la stessa è
necessaria per impedire la produzione di un danno alla società. Anche il singolo socio dispone di una
speciale legittimazione ad impugnare, ma solo quando la deliberazione sia lesiva dei suoi diritti, cioè quando
pregiudica situazioni soggettive che nascono all’interno dell’organizzazione societaria.
Quanto invece agli effetti dell’annullamento delle delibere consiliari, troveranno applicazione le regole
dettate per le delibere assembleari, a cominciare dalla regola per la quale l’eventuale annullamento
giudiziale della delibera ha effetto erga omnes, all’interno dell’organizzazione societaria, con il relativo
obbligo di prendere i “conseguenti provvedimenti” da parte degli amministratori. Rimangono in ogni caso

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salvi i diritti acquistati dai terzi di buona fede per atti compiuti in esecuzione della delibera, purché non
trovi applicazione la diversa regola dell’exceptio doli dettata dall’art.2384 (vedi infra).
Le funzioni amministrative possono essere delegate dal consiglio ad uno o più dei propri componenti (cd
amministratori delegati) o ad un collegio ristretto composto sempre da propri componenti denominato
comitato esecutivo. A questo organo delegato è affidata non solo la gestione complessiva, a cominciare dal
day-by-day management, ma anche la predisposizione delle linee strategiche dell’impresa, che però
dovranno essere oggetto di esame da parte del consiglio. Infatti se la delega attribuisce all’amministratore
delegato (o comitato esecutivo) il potere di gestione sulle materie delegate, il vertice del consiglio,
rimanendo titolare della funzione amministrativa nel suo complesso, anche se non eserciterà tipicamente le
funzioni gestorie in quelle stesse materie delegate, avrà comunque il dovere di vigilare sull’operato del
delegato, e quindi di intervenire ove occorra.
a) La delega del potere amministrativo è soggetta anzitutto all’autorizzazione di un’apposita clausola
statutaria o di una deliberazione dell’assemblea ordinaria, ed è attribuita con delibera consiliare, la quale
deve determinare il contenuto e i limiti della delega stessa  pertanto è esclusa l’ammissibilità di una delega
generica, attribuita cioè senza una puntuale determinazione dei poteri delegati, mentre è ammissibile una
delega generale. Alcune competenze però rimangono non delegabili (come la redazione del progetto di
bilancio o l’aumento del capitale delegato dall’assemblea) e dunque riservate ex lege al consiglio, senza
possibilità di deroghe statutarie. Gli organi delegati hanno comunque competenze ex lege, ancorché
derogabili a favore della competenza del consiglio; l’organo delegato è pure competente a deliberare sui
piani strategici industriali e finanziari della società, che il consiglio esamina quando vengono elaborati.
b) La delega, come già detto, può anche essere fatta a più amministratori delegati con deleghe su materie
identiche; inoltre essa può essere conferita pure ad un organo collegiale (composto sempre da componenti
del c.d.a.) che assume allora la denominazione di comitato esecutivo. Non è d’altra parte esclusa la
previsione di più comitati interni, che formalmente non sono titolari di deleghe amministrative, ma hanno la
funzioni anche solo istruttorie e rappresentative dell’attività deliberativa consiliare. Ai comitati, in quanto
organi collegiali, in linea di principio si applicano le regole del procedimento deliberativo del c.d.a., a
cominciare dalla disciplina dei quorum.
c) Il consiglio mantiene una competenza concorrente e sovraordinata sulle materie delegate, che fonda il
potere dello stesso di impartire direttive ai delegati e di avocare a sé la decisione su singole operazioni
rientranti in materie delegate, come pure di disporre la revoca della delega in qualsiasi momento, senza
necessità di giustificazione. Il consiglio nel suo insieme conserva, dunque, i seguenti poteri-doveri:
- indirizzo (impartire direttive)  implica il potere del consiglio di determinare regole vincolanti per gli
organi delegati, anche con contenuti di dettaglio;
- avocazione  consiste nella possibilità di sospendere gli effetti della delega per determinati atti;
- sostituzione (conseguente alla revoca della delega)  a differenza dell’avocazione ha carattere definitivo;
- controllo sull’operato degli organi delegati  discende dal permanere della piena competenza in capo al
consiglio di amministrazione, se così non fosse infatti la delega assumerebbe il significato di autoesonero da
qualsiasi responsabilità per determinati atti.
d) Al fine di valorizzare le funzioni di controllo del consiglio sull’attività degli organi delegati, l’art.2381
sancisce regole di corretta circolazione delle informazioni all’interno del consiglio  gli amministratori
delegati hanno anzitutto l’obbligo di fornire regolarmente le informazioni essenziali agli altri organi sociali
(c.d.a. e collegio sindacale), con periodicità non inferiore ai 6 mesi (e a 3 mesi nelle S.p.a. quotate), “sul
generale andamento della gestione e sulla sua prevedibile evoluzione nonché sulle operazioni di maggior
rilievo effettuate dalla società e dalle sue controllate”. Si tratta di un obbligo di reporting che ogni delegato
deve adempiere nell’ambito dell’area gestionale affidata alla sua cura.
e) L’obbligo di vigilanza del consiglio è fissato dalla disposizione per cui il consiglio “valuta, sulla base
della relazione degli organi delegati, il generale andamento della gestione”. La disciplina impone anche a
tutti gli amministratori un più generale obbligo di agire in modo informato e li rende responsabili di non
avere assunto le iniziative opportune, in relazione alle informazioni possedute, avendo il singolo
amministratore l’obbligo di attivarsi per impedire il realizzarsi di eventi dannosi (e a tal fine il codice
assegna a ciascun consigliere, delegato o meno, il diritto di chiedere agli organi delegati che in consiglio
siano fornite informazioni relative alla gestione della società).

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 INTERESSE SOCIALE, INTERESSI DEGLI AMMINISTRATORI E LE “PARTI CORRELATE”


Gli amministratori, diversamente dai soci, sono gestori di un interesse altrui, e come tali sono soggetti
regole di comportamento che nella funzione amministrativa attengono fondamentalmente all’obbligo di
diligente gestione e all’obbligo del perseguimento dell’interesse sociale.
Tuttavia può accadere che l’amministratore si ritrovi ad essere, rispetto ad una data decisione, portatore di
interessi, per conto proprio o altrui, diversi da quello sociale  al fine allora di prevenire distorsioni
nell’esercizio della discrezionalità amministrativa, l’ordinamento predispone una disciplina, inderogabile
dagli statuti, e rafforzata dalla tutela penale, che impone obblighi di trasparenza a carico degli
amministratori stessi, che dovranno informare sia tutti gli altri componenti dell’organo di gestione, sia i
sindaci, in tutti i casi in cui siano appunto portatori di interessi personali, per conto proprio o di terzi,
interferenti (non necessariamente in conflitto) in una data operazione della società  si pensi al caso in cui
l’amministratore stia negoziando una locazione di un immobile, sì funzionale all’esercizio dell’impresa, ma
di cui sia proprietaria altra società alla quale lo stesso amministratore partecipi come azionista qualificato.
L’obbligo di comunicazione agli altri amministratori e sindaci si aggrava, divenendo vero e proprio obbligo
di astensione, quando la situazione si presenti in capo ad un amministratore delegato. In tal caso, questi ha
l’obbligo di investire l’organo collegiale, alla cui decisione si dovrà poi conformare. Ove invece ad essere
portatore di un interesse in una determinata operazione sia invece l’amministratore unico, questi non è
obbligato ad astenersi, ma soltanto a comunicare ai sindaci la situazione in cui versa per poi “darne notizia
anche alla prima assemblea utile”. Il consigliere portatore dell’interesse, oltre all’obbligo di informare, avrà
poi quello di votare in modo non pregiudizievole all’interesse della società; non è invece obbligatoria
l’astensione del voto.
Una volta informato, il consiglio, per deliberare in presenza di un interesse di un amministratore, ha
l’obbligo di adeguata motivazione della deliberazione  la ratio induce a intendere in senso estensivo
l’obbligo di motivazione, anche là dove un amministratore sia interessato al non compimento di una data
operazione; come pure quando ricorra un amministratore interessato in positivo al compimento di
un’operazione, e il consiglio, contrariamente all’interesse di quell’amministratore, decida per il non
compimento dell’operazione.
La delibera assunta in violazione di tale disciplina è invalida. In particolare, in caso di mancato
adempimento degli obblighi sai di comunicazione sia di motivazione, o di voto determinante
dell’amministratore interessato, la delibera è soggetta ad impugnazione, entro 90 giorni, ma solo qualora
possa recare danno alla società. La legittimazione a impugnare è data, oltre che ai sindaci, a ciascun
amministratore, e – in deroga alla regola generale – a prescindere dal suo consenso alla deliberazione.
È ferma comunque la tutela risarcitoria per violazione della disciplina sugli interessi degli amministratori,
anche per il danno da lucro cessante. Essa sussiste anche per l’ipotesi in cui l’amministratore si approfitti
nell’interesse personale o di terzi, di informazioni che abbia acquisito nell’esercizio delle sue funzioni
all’interno della società (cd corporate opportunities).
Una disciplina speciale, che rafforza le cautele disposte da quella generale sugli interessi degli
amministratori, si applica soltanto alle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio. Essa di
sostanzia in un obbligo di informazione al mercato, nonché in un obbligo di istruttoria particolarmente
accurata per i casi in cui maggiore è il rischio di decisioni in conflitto di interessi; rischio che ricorre tutte le
volte in cui l’organo amministrativo deliberi di realizzare una certa operazione economica che abbia come
controparti soggetti particolarmente “prossimi” alla società, e che la disciplina qualifica come parti
correlate  la nozione di parti correlate è determinata da un regolamento della Consob: essa comprende
soggetti che appartengono all’area del controllo e del collegamento societario, a quella dei dirigenti con
responsabilità strategiche, e infine a quella dei soggetti “vicini” ai precedenti per legami personali.
Per la disciplina, “un’operazione con una parte correlata è un trasferimento di risorse, servizi o obbligazioni
fra parti correlate, indipendentemente dal fatto che sia stato pattuito un corrispettivo”; e sono incluse in tale
definizione le operazioni di fusione e di scissione, nonché “l’assegnazione di remunerazioni e benefici
economici, sotto qualsiasi forma, ai componenti degli organi di amministrazione e controllo e ai dirigenti
con responsabilità strategiche”.

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 COMPENSI
L’esercizio delle funzioni amministrative avviene normalmente a titolo oneroso (salva prova della rinuncia
espressa o tacita): il diritto al compenso dell’amministratore nasce direttamente ex lege e non richiede
apposita clausola statutaria, né deliberazioni assembleari di impegno.
In mancanza di apposita clausola statutaria, la competenza a determinare i compensi è così ripartita:
a) i compensi degli amministratori sono stabiliti dalla stessa assemblea che è competente a nominarli;
b) i compensi del comitato esecutivo possono essere stabiliti direttamente dall’assemblea o, in mancanza di
determinazione di questa, saranno stabiliti dal consiglio all’atto della nomina;
c) i compensi degli amministratori “investiti di particolari cariche in conformità allo statuto”, e cioè del
presidente e degli amministratori delegati, sono invece stabiliti dal c.d.a. all’atto della nomina o della
delega, previo parere del consiglio sindacale.
Dunque l’assemblea è incompetente a determinare i compensi del presidente e degli amministratori delegati,
però è espressamente ammessa una clausola statutaria che gli attribuisce il potere di stabilire un “tetto” per
la remunerazione di tutti gli amministratori, compresi quelli investiti di particolari cariche.
Non esistono massimi o minimi di legge, tuttavia la giurisprudenza ha ritenuto che le remunerazioni
palesemente eccessive siano illegittime per lesione dell’interesse sociale, con la conseguenza che la relativa
deliberazione, se presa con il voto determinante dell’amministratore interessato, sarà annullabile per
conflitto di interessi in quanto la determinazione del compenso sia irragionevole o sproporzionata, quale
indice di danno potenziale per la società.
La materia esige un pregnante grado di trasparenza  nelle società non quotate essa è moderata in quanto
è sufficiente indicare nella nota integrativa l’ammontare cumulativo dei compensi degli amministratori;
invece nelle S.p.a. quotate l’esigenza di trasparenza trova maggiore tutela, infatti è necessaria l’indicazione
analitica dei compensi percepiti da ciascun componente.
Quanto all’oggetto del compenso, che di regola consiste in un corrispettivo in denaro, l’art.2389 prevede
espressamente che esso possa essere costituito, in tutto o in parte, da una partecipazione agli utili conseguiti
dalla società, o dal diritto di opzione sulla sottoscrizione o sull’acquisto di azioni, con parametri che in
astratto dovrebbero incentivare i gestori a migliori performance.

 RAPPRESENTANZA
La società opera all’esterno necessariamente attraverso persone fisiche: è quindi necessaria l’individuazione
di una o più persone che abbiano il potere di agire in nome e per conto della società  si deve distinguere
in proposito fra rappresentanza volontaria e rappresentanza organica (o statutaria o legale).
La rappresentanza volontaria è eventuale ed è disciplinata dalle mere regole civilistiche generali (artt.1338
ss.): si tratta di una rappresentanza di secondo grado, cioè che può essere conferita con procura speciale da
parte del rappresentante organico (ad es. il collaboratore occasionale che, incaricato di curare per la società
l’acquisto di un macchinario, venga munito allo scopo di una corrispondente procura), ma che non può avere
carattere generale.
La rappresentanza organica è invece necessaria perché la società possa agire nel traffico giuridico. Tale
potere può essere attribuito solo ad uno o più amministratori, con indicazione inserita nello statuto (ad es. è
frequente l’attribuzione del potere di rappresentanza al presidente del c.d.a. e/o all’amministratore delegato).
Qualora siano individuati più amministratori quali rappresentanti, lo statuto stesso o, in mancanza,
l’assemblea, preciserà se il potere di rappresentanza è attribuito in via congiuntiva o disgiuntiva.
Per i rappresentanti statutari vige una disciplina di particolare tutela dei terzi contraenti, secondo
un’evoluzione normativa caratterizzata da una tutela sempre più estesa dell’affidamento dei terzi (rispetto
alla disciplina delle società personali e della rappresentanza commerciale). La regola vigente è nel senso che
il rappresentante statutario è necessariamente rappresentante generale (anche processuale), e che pertanto
può compiere qualsiasi tipo di atto in nome della società. Gli eventuali limiti statutari dell’ambito della
rappresentanza che fossero violati dal rappresentante nello spendere il nome della società non sono
opponibili, ancorché pubblicati nel registro delle imprese, tranne nel caso che quel terzo abbia
intenzionalmente agito a danno della società (cd exceptio doli)  perché la società possa pertanto oppure al
terzo che ha contrattato con la società l’inefficacia dell’atto compiuto dall’amministratore violando il limite

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al potere di rappresentanza fissato dallo statuto, non basta che si dimostri la mala fede del terzo, che
conosceva o ignorava colpevolmente il superamento di tale limite, ma occorre pure dar prova della volontà
di quel terzo di arrecare un danno alla società.
Rientra nella medesima disciplina dell’art.2384 il pur diverso caso in cui l’atto compiuto dal rappresentante
si ponga non tanto in violazione di espressi e precisi limiti statutari, ma risulti persino estraneo all’oggetto
sociale (cd atto ultra vires)  l’oggetto sociale costituisce infatti un limite implicito e generale ai poteri di
rappresentanza statutari, proprio perché traccia il perimetro del potere gestorio degli amministratori, di tal
che la società ne potrà opporre il superamento al terzo soltanto nella misura in cui sarà in grado di invocare
nella specie l’exceptio doli.
È infine da ritenere che la norma protegga i terzi (salvo l’exceptio doli) non solo nel caso di vizio del potere
rappresentativo derivante dalla violazione di clausole statutarie, ma anche nel caso di limiti legali, in cui il
vizio sia appunto costituito dalla violazione di una norma di legge.
Diverso trattamento riceve invece l’atto compiuto dal rappresentante in situazione di conflitto d’interessi 
atto che tradizionalmente trova un regime speciale più severo per il terzo, entrando in gioco la disciplina
dell’annullabilità ex art.1394, tutte le volte in cui il rappresentante abbia agito in conflitto d’interessi, senza
il supporto di una delibera autorizzativa del c.d.a.

 AZIONI DI RESPONSABILITÀ CONTRO GLI AMMINISTRATORI


Lo schema tradizionale della disciplina prevede 3 ipotesi di responsabilità civile degli amministratori:
verso la società, verso i creditori sociali, verso i singoli soggetti (soci o terzi estranei).
La responsabilità verso la società è di certo la più importante, anche perché spesso può assorbire le altre,
nella misura in cui il danno dei creditori o dei terzi si configuri come danno indiretto. Tale forma di
responsabilità degli amministratori è responsabilità contrattuale, per inadempimento dell’obbligo di
corretta amministrazione, e in particolare per violazione dei “doveri ad essi imposti dalla legge e dallo
statuto”, cui essi devono adempiere “con la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro
specifiche competenze” (art.2392). Il danno risarcibile si ravvisa in tutti i casi in cui la cattiva gestione porti
ad un deterioramento dello stato patrimoniale o del conto economico della società  gli amministratori
saranno dunque responsabili non solo per il danno emergente (ad es. per una sanzione amministrativa in cui
la società è incorsa per ritardo colpevole degli amministratori nell’ottemperare un obbligo di legge), ma
anche per il mancato guadagno (cd lucro cessante).
La responsabilità contrattuale degli amministratori è fondata su un criterio soggettivo di colpevolezza,
valutandosi cioè la loro diligenza in una prospettiva ex ante rispetto agli eventi successivi con cui può
concretizzarsi il pregiudizio  pertanto si guarda non al risultato negativo in sé, bensì al risultato che sia
derivato da una condotta degli amministratori difforme da quella esigibile da un gestore diligente. Dalla
disciplina emerge una distinzione fra l’obbligo generale di diligenza – in cui il comportamento dovuto non è
tipizzato dalla legge ma è da determinarsi in concreto alla stregua dei criteri della negligenza, imprudenza ed
imperizia – e gli obblighi specifici di diligenza – in cui il comportamento dovuto è tipizzato dalla legge e
quindi la colpa dell’amministratore si integra per il solo fatto di non aver adempiuto al comportamento
imposto dalla legge in presenza di date fattispecie. Tale distinzione ha immediate ricadute (come si vedrà) in
ordine all’onere della prova in giudizio.
La colpa dell’amministratore nella violazione dell’obbligo generale di diligenza va dunque valutata secondo
i 3 criteri tradizionali della negligenza, imprudenza e imperizia, conformati dalle regole speciali dettate per
gli amministratori di S.p.a.  con particolare riguardo al profilo dell’imprudenza, vi è da dire che l’obbligo
di diligente gestione si dirà violato soltanto allorché possa imputarsi all’amministratore di avere fatto scelte
assolutamente irrazionali e incompatibili con qualsivoglia logica di impresa: il compito dell’amministratore
è infatti quello di gestire un’attività produttiva, e il rischio è componente essenziale della stessa attività
d’impresa, così non potrebbe di certo imputarsi all’amministratore di avere intrapreso operazioni o strategie
particolarmente rischiose, rinunziando ad altre più prudenti. Se viene in rilievo la violazione dell’obbligo
generale di diligenza degli amministratori, la prova della colpa (o del dolo) dev’essere data dalla società
attrice.
Se invece viene in rilievo la violazione di un obbligo specifico di diligenza, l’onere della prova da parte della
società attrice resterà facilitato, in quanto resterà a suo carico soltanto la prova del fatto dell’inadempimento,
oltre che del nesso di causalità, ma non anche della colpevolezza  infatti la colpevolezza sussiste solo nel
caso in cui si dimostri che il comportamento degli amministratori ha implicato l’inosservanza di norme

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giuridiche o di norme tecniche. Resterà peraltro sempre salva la prova dell’errore scusabile da parte
dell’amministratore convenuto, il quale sarà esente da responsabilità ove dimostri un fatto impeditivo
l’adempimento.
La responsabilità degli amministratori è, poi, solidale, e si estende secondo la giurisprudenza anche ai cd
amministratori di fatto. In proposito la disciplina distingue fra una responsabilità diretta di ciascun
consigliere di amministrazione – che può sorgere soprattutto per gli atti di competenza del consiglio di cui
egli è componente, ma anche per atti direttamente imputabili al singolo amministratore – ed una
responsabilità per omessa o difettosa vigilanza – che può addebitarsi al singolo consigliere non delegato
rispetto ad atti di competenza di amministratori delegati. Il singolo amministratore può però riuscire a
sottrarsi al vincolo di solidarietà nella responsabilità con gli altri amministratori: il legislatore precisa da un
lato che gli amministratori devono adempiere i doveri della carica con la diligenza richiesta dalla natura
dell’incarico e dalle loro specifiche competenze e dall’altro lato che gli amministratori stessi non sono
solidamente responsabili in caso di funzioni in concreto attribuite ad uno o più amministratori  la regola
della solidarietà nella responsabilità vale quindi solo come criterio presuntivo: il singolo amministratore
potrà sempre dare la prova contraria dimostrando di essere estraneo al vincolo di solidarietà in ragione della
lontananza che in concreto separa il singolo comportamento dannoso compiuto da altro amministratore
rispetto alla sfera delle funzioni specificamente attribuitegli dall’organo di amministrazione o al proprio
ambito di competenze professionali. Chiaramente rimarrà fermo l’obbligo generale di agire in modo
informato, che non consentirà comunque ad un amministratore di sottrarsi al vincolo di solidarietà
semplicemente assumendo un comportamento passivo, invece di doverosamente contestare l’eventuale
carenza di adeguata istruttoria e di chiedere, se del caso, un supplemento di informazioni. Ma anche se
l’amministratore non sia in grado di sottrarsi al vincolo di solidarietà, egli dispone comunque di un mezzo
per separare la propria posizione rispetto agli atti produttivi di responsabilità, rispettando la procedura di
dissociazione, prevista dall’art.2392  tale procedura lo esonererà da responsabilità a 3 condizioni:
- che egli faccia annotare il suo dissenso senza ritardo nel libro delle adunanze del consiglio;
- che informi immediatamente del suo dissenso il presidente del collegio sindacale;
- che egli sia effettivamente esente da colpe (dunque non deve essere rimasto inadempiuto ne l’obbligo
di agire informati proprio di ciascun amministratore, ne l’obbligo di vigilanza e di intervento dei
consiglieri non-delegati sugli organi delegati).
Il promovimento dell’azione sociale di responsabilità necessita di deliberazione dell’assemblea ordinaria
 l’esercizio dell’azione può essere validamente deliberato, nell’assemblea ordinaria di approvazione del
bilancio, anche se non è indicato fra le materie da trattare (e ciò in deroga eccezionale al principio, proprio
dei procedimenti collegiali, per cui l’oggetto della deliberazione deve essere preventivamente indicato
nell’ordine del giorno), ma la deliberazione è consentita solo se la responsabilità appare legata a fatti
compresi nell’esercizio di cui si approva il bilancio, e non a fatti pregressi o successivi.
Oltre all’assemblea, anche il collegio sindacale ha competenza a deliberare il promovimento dell’azione
sociale di responsabilità, con la maggioranza qualificata dei ⅔ dei componenti.
La deliberazione dell’assemblea non richiede poi una specifica motivazione delle ragioni che spingono
l’assemblea ad avviare l’azione, ma deve contenere una precisa determinazione dei fatti che vengono
imputati agli amministratori e delle pretese che dovranno essere avanzate dalla società.
La deliberazione di esercizio dell’azione comporta la revoca ope legis degli amministratori, purché
approvata con il voto favorevole di una maggioranza dei presenti, rappresentativa di almeno 1/5 del capitale.
La revoca automatica comporta altresì l’obbligo dell’assemblea di provvedere alla nomina di nuovi
amministratori.
È poi nella piena disponibilità dell’assemblea deliberare espressamente la rinunzia all’azione o una
transazione con gli amministratori, senza che occorra al riguardo motivazione alcuna. La delibera di
rinunzia o transazione può essere però impedita dall’esercizio di un diritto di veto con voto contrario da
esprimersi in assemblea da parte di una minoranza qualificata.
Il termine di prescrizione dell’azione sociale di responsabilità è stabilito in 5 anni “dalla cessazione
dell’amministratore dalla carica” (e non dal momento in cui si è prodotto l’evento dannoso), dunque
l’amministratore che sia stato confermato per più di un triennio potrebbe essere chiamato a rispondere di
fatti avvenuti molti anni prima.

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Il legislatore attribuisce la legittimazione all’esercizio dell’azione sociale di responsabilità anche ad una


minoranza qualificata  la quota richiesta perché la minoranza possa esercitare l’azione è, nelle società
chiuse, di 1/5 (20%) e, in quelle aperte, di 1/40 (2,5%). Trattandosi di una norma sulla legittimazione,
l’art.2393-bis è solo parzialmente derogabile dallo statuto: nelle società chiuse si può abbassare il quorum o
innalzarlo fino a ⅓ (33,3%) mentre nelle società aperte si può solo abbassarlo, essendo ammessa solo una
deroga in melius per gli azionisti di minoranza.
L’azione esercitata dagli azionisti di minoranza ha un carattere surrogatorio  essa è pur sempre definita
dalla legge come “azione sociale di responsabilità” cosicché le somme dovute per effetto dell’eventuale
sentenza di condanna (o per l’eventuale transazione) vanno alla società, e non ai soci che hanno agito.
L’aspetto più critico dell’istituto, che ne disincentiva l’operatività, è rappresentato dall’accesso alle
informazioni necessarie per avviare e supportare, sul piano probatorio, l’azione da parte delle minoranze
stesse. Il sistema non consente infatti agli azionisti indagini esplorative all’interno dell’organizzazione
societaria, essendo loro precluso l’accesso a tutti i libri sociali e alla documentazione relativa
all’amministrazione.
L’azione di responsabilità verso i creditori sociali è fondata su 2 presupposti:
1) occorre anzitutto che sia addebitabile agli amministratori l’inosservanza degli obblighi inerenti alla
conservazione dell’integrità del patrimonio sociale;
2) l’azione poi può essere proposta dai creditori solo in via sussidiaria, cioè quando il patrimonio sociale
risulti insufficiente al soddisfacimento dei loro crediti.
Va subito chiarito che la fonte di tale responsabilità degli amministratori non può riguardare in sé i debiti
della società rimasti inadempiuti (per i quali gli amministratori tipicamente non rispondono), ma il
pregiudizio subito dai creditori a causa dell’incapienza del patrimonio sociale, appunto determinata dalla
violazione di obblighi gestori da parte degli amministratori.
È discusso se l’azione di responsabilità dei creditori sociali abbia natura di azione diretta o di azione
surrogatoria (dunque esperibile solo in caso di inerzia della società)  il dubbio deriva dal fatto che il danno
consiste in entrambi i casi in una diminuzione imputabile del patrimonio sociale, sicché per questo stesso
danno gli amministratori non potrebbero essere chiamati a rispondere due volte. L’orientamento
giurisprudenziale corrente propende però a favore della natura autonoma dell’azione, in quanto il codice
civile, nell’intestare al curatore la legittimazione alle azioni di responsabilità (quando la società fallisce), fa
appunto riferimento ad una pluralità di azioni.
La prescrizione (quinquennale) decorre, secondo i principi generali, dal momento in cui si è manifestato
l’evento dannoso, cioè l’insufficienza del patrimonio sociale: tipicamente, in caso di fallimento, l’insolvenza.
Anche se l’azione dei creditori può ritenersi giuridicamente autonoma rispetto a quella promossa dalla
società, la legge prende comunque in considerazione le possibili interferenze fra le due azioni, legate alla
circostanza che il danno subito dai creditori non è che il riflesso di quello stabilito dalla società. L’eventuale
rinunzia o transazione dell’azione sociale di responsabilità ha allora ricadute sull’azione di responsabilità dei
creditori: in particolare, la rinunzia è inopponibile ai creditori, mentre la transazione produce effetto anche
nei loro confronti.
È poco frequente che l’azione sociale venga promossa da parte della società (essendo gli amministratori
espressione della stessa maggioranza che dovrebbe deliberarne il promovimento) o dalle minoranze fruendo
della legittimazione loro riconosciuta dall’art.2393-bis, altrettanto raro è che gli stessi creditori promuovano
l’azione di responsabilità, infatti il pregiudizio patrimoniale tipicamente emerge quando l’insolvenza della
società è conclamata nell’ambito di una procedura concorsuale. È in questa sede che le azioni di
responsabilità vedono per lo più la luce: con il fallimento, la legittimazione a promuovere le azioni sin qui
esaminate spetta, non più alla società e ai creditori, ma in via esclusiva al curatore. Il codice civile accoglie
la tesi per cui, in caso di fallimento della società, l’azione del curatore costituisce sintesi delle azioni di cui
agli artt.2393-2394. Al curatore è dunque consentito di avvalersi della disciplina più favorevole, anche di
quella delle due azioni che sarebbe preclusa. Così, in punto di dies a quo del termine di prescrizione, si
applicherà la disciplina più favorevole per la curatela, e la prescrizione dell’azione decorrerà quindi dal
momento della conoscibilità per i creditori dell’insufficienza patrimoniale.
L’apertura di una procedura concorsuale sul presupposto dello stato di insolvenza della società non può però
mai configurare, di per sé, una responsabilità dell’amministratore su base presuntiva: secondo i principi

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dell’onere della prova in materia, il curatore ha i medesimi oneri relativamente ad allegazione e prova degli
specifici fatti su cui si fonda la responsabilità degli amministratori, il nesso causale e il danno risarcibile.
L’ordinamento attribuisce, infine, al singolo azionista o a terzi che siano stati direttamente danneggiati
dagli amministratori, per atti relativi alla gestione della società, la legittimazione a promuovere nei loro
confronti un’azione diretta di responsabilità civile. L’azione riguarda i casi in cui gli azionisti o i terzi
siano stati direttamente danneggiati  dunque non può avere ad oggetto danni riflessi che l’azionista può
subire per la perdita di valore delle sue azioni a seguito di atti di mala gestio degli amministratori che
abbiano depauperato il patrimonio sociale.
Il danno risarcibile va dunque ricondotto alla perdita patrimoniale derivante da una specifica vicenda, in cui
l’azionista o il terzo si siano trovati coinvolti singolarmente: ad es. la sottoscrizione di un aumento di
capitale o l’acquisto di azioni a prezzo eccessivo, indotti da un bilancio falso  in un caso come questo, il
comportamento doloso o colposo dell’amministratore, che ha causato pregiudizio al singolo socio o al terzo,
è solitamente la comunicazione di informazioni false; ma vi sono anche altri fatti produttivi di danno
risarcibile, come azioni discriminatorie compiute dagli amministratori a danno di un singolo azionista.
Nell’azione individuale di responsabilità, il socio o il terzo che agisce deve dare la prova specifica del fatto
colposo o doloso dell’amministratore, nonché del nesso di causalità con il danno direttamente subito.
La prescrizione dell’azione è quinquennale, in applicazione della regola generale; il termine di prescrizione
è da ritenere decorra dal momento in cui il danneggiato, con l’impiego dell’ordinaria diligenza, sia stato in
grado di venire a conoscenza dell’evento dannoso.
Il codice considera la figura del direttore generale, al fine di estenderle il regime speciale di responsabilità
civile dettato per gli amministratori, sempre che il direttore generale sia nominato dall’assemblea o dal
l’organo di amministrazione, ma sulla base di autorizzazione statutaria. Secondo i criteri di tipicità sociale,
per direttore generale si intende un funzionario dirigente, posto in posizione “apicale” nella struttura
aziendale, che opera in relazione diretta con l’organo e l’organizzazione degli uffici interni. È una figura non
obbligatoria, ma normale nelle imprese di dimensione medio-grande, che possono averne anche più di uno,
con mansioni di alta gestione oppure più limitate alla gestione esecutiva quotidiana, secondo scelte
organizzative proprie della società.
Il direttore generale non è soggetto alle cause di ineleggibilità proprie degli amministratori; può essere
titolare di un rapporto di lavoro autonomo o subordinato; può essere pure titolare di poteri di rappresentanza
legale della società (specie se necessari per esercitare funzioni di vertice sull’apparato aziendale). Inoltre
egli è subordinato gerarchicamente agli amministratori: potrà dunque legittimamente rifiutarsi di eseguire
una deliberazione dell’organo amministrativo solo quando, da tale esecuzione, possa derivare una
responsabilità a suo carico.

Il collegio sindacale
Nel modello di amministrazione tradizionale, la funzione di controllo è solitamente suddivisa tra un organo
sociale (il collegio sindacale) e, per i profili contabili, un soggetto esterno (il revisore legale dei conti).
Nelle S.p.a. il controllo apicale è perciò affidato al collegio sindacale, il quale anzitutto «vigila
sull’osservanza della legge e dello statuto» (art.2403).
Questo controllo di legalità non è soltanto formale, ma sostanziale, dato che il collegio deve vigilare anche
sul rispetto dei principi di corretta amministrazione; e tale controllo sostanziale sulla corretta gestione
comprende la vigilanza sull’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile adottato dalla
società e sul suo concreto funzionamento  si tratta più che altro di una vigilanza complessiva sull’attività,
che si estende sino alla valutazione dell’adeguatezza tecnico-produttiva, finanziaria e del personale, che può
implicare la creazione di idonei uffici di controllo interno; il controllo infatti non riguarda soltanto l’attività
degli amministratori, ma tutta l’attività sociale.
Tuttavia la vigilanza dei sindaci non può estendersi fino ad un controllo di merito, diversamente dal
controllo che esercita il consiglio di amministrazione rispetto agli organi di amministrazione delegata. È
dunque estranea al controllo sindacale ogni valutazione sulla convenienza, sull’opportunità e sul livello di
rischio delle decisioni di gestione  rispetto a tali decisioni i sindaci devono soltanto rilevare se la scelta
gestionale concreti una violazione delle regole di comportamento degli amministratori, perché
manifestamente irragionevole, o perché non supportata da adeguatezza organizzativa o finanziaria.

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La funzione di controllo dei sindaci deve essere continuativa, e potrà essere a campione, ove ciò sia imposto
da criteri di razionalità aziendale.
Al collegio sindacale, in definitiva, è assegnata una posizione di alta sorveglianza rispetto al complessivo
sistema societario dei controlli interni, la cui cura è di volta in volta demandata al revisore legale esterno o
allo stesso organo di amministrazione.
Al collegio sindacale delle società quotate è espressamente intestato il potere di vigilanza sia
sull’adeguatezza organizzativa dei cd sistemi di controllo interno, da predisporre da parte dell’organo
gestorio, sia sull’attività di revisione legale dei conti, affidata al revisore esterno  in particolare, in tali
società (e nei cd enti di interesse pubblico – EIP), il collegio sindacale assume la veste di “Comitato per il
controllo interno e la revisione contabile”, con compiti di vigilanza, oltre che sulla revisione legale dei conti
annuali e dei conti consolidati e sull’indipendenza del revisore, anche sul processo di informativa finanziaria
e sull’efficacia dei sistemi di controllo interno, di revisione interna e di gestione del rischio. E che il collegio
sindacale sia al vertice del sistema dei controlli è pure testimoniato dalla norma che, nelle società quotate (e
negli EIP), impone al revisore di presentare ai sindaci una relazione sulle questioni fondamentali emerse in
sede di revisione legale.
Ai sindaci non spettano però funzioni dirette di controllo contabile (cioè sulla regolare tenuta della
contabilità sociale e la corretta rilevazione nelle scritture contabili dei fatti di gestione) che oggi
l’ordinamento demanda a soggetti professionali esterni – i revisori legali dei conti – pur dovendo il collegio
sindacale revisionare la regolarità della funzione contabile.
Tuttavia, soltanto nelle S.p.a. chiuse che non siano tenuta alla redazione del bilancio consolidato, gli statuti
possono operare una scelta diversa, assegnando al collegio sindacale anche la funzione di controllo
contabile: in questo caso i sindaci dovranno tutti possedere la qualifica di revisori legali dei conti.
La ratio della separatezza tra vigilanza generale di legalità sull’attività sociale e controllo contabile poggia
sull’esigenza di affidare la funzione di controllo contabile in capo a soggetti specializzati, in modo da
lasciare all’organo di controllo generale controlli più sostanzialistici.
Oltre all’attività di controllo, il collegio sindacale ha compiti di informazione dell’assemblea e consultivi
obbligatori, anzitutto con riguardo alla relazione che deve essere depositata in occasione dell’approvazione
del bilancio di esercizio  tale relazione è fondamentale per l’informazione dei soci, in quanto il collegio in
essa deve riferire: l’attività svolta nell’adempimento dei propri doveri, la valutazione dei risultati
dell’esercizio sociale, le osservazioni e proposte in ordine al bilancio ed alla sua approvazione.
Fermo il dovere di segnalare le eventuali irregolarità o criticità riscontrate nell’esercizio delle proprie
funzioni di controllo sull’attività sociale, il collegio sindacale nella relazione resa in occasione del bilancio –
ove non abbia intestati anche i poteri di controllo contabile – non esprime però un “giudizio tecnico-
professionale” su di esso, poiché tale giudizio è riservato al revisore legale esterno.
Gli altri poteri del collegio sono tipizzati dalla legge. Rimangono eccezionali i poteri di amministrazione
attiva, come pure di approvazione di atti degli amministratori (in caso di cooptazione ex art.2386, c.5),
infine è la legge che tipizza i casi in cui il collegio sindacale deve rendere pareri obbligatori (ad es. in
materia di remunerazione degli amministratori che rivestano particolari cariche). Non sembra però precluso
ai sindaci di esprimere pareri facoltativi, se si ha riguardo all’esigenza di una leale cooperazione fra organi
societari, oltre che ad un’istanza generale di efficienza dell’organizzazione.
Sono poi di particolare rilievo i poteri reattivi di cui dispongono i sindaci, coi quali possono far fronte alle
irregolarità degli amministratori, tra cui il potere di convocare d’urgenza l’assemblea, quello di presentare la
denuncia al tribunale e quello di promuovere contro gli amministratori l’azione sociale di responsabilità.

 I SINDACI
L’organo di controllo ha composizione numerica rigida, potendo lo statuto scegliere soltanto fra due
alternative: 3 o 5 membri effettivi + 2 supplenti (solo nelle società quotate, fatto salvo il numero minimo, è
consentita una deroga verso l’alto).
I sindaci devono godere di determinati requisiti di professionalità: almeno uno deve essere revisore legale
dei conti, e gli altri devono essere iscritti in appositi albi professionali (avvocati, dottori commercialisti ed
esperti contabili, consulenti del lavoro) oppure scelti fra professori universitari in materie economiche o

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giuridiche. Tali requisiti sono richiesti a pena di nullità della nomina, o di successiva decadenza ope legis in
caso di perdita sopravvenuta. Solo nelle società che hanno potuto scegliere e hanno scelto di attribuire le
funzioni di controllo contabile al collegio sindacale (cioè le S.p.a. chiuse che non sono tenute alla redazione
del bilancio consolidato), l’organo deve essere composto esclusivamente da revisori legali dei conti.
È da ritenere che possa essere nominato a sindaco anche una società di revisione, ma non anche una
qualunque altra persona giuridica.
La nomina del collegio sindacale è di competenza inderogabile dell’assemblea ordinaria (salvo per i primi
sindaci, da indicare nell’atto costitutivo): l’omissione della nomina comporterà lo scioglimento della società
per impossibilità di regolare funzionamento dell’assemblea della società.
Una deroga alla competenza assembleare è quella prevista, su disposizione statutaria, per la nomina da parte
di ente pubblico purché proporzionale alla partecipazione dello stesso al capitale sociale; e la nomina di un
sindaco da parte dei portatori di strumenti finanziari partecipativi, sempre se così prevede lo statuto.
Alla nomina deve seguire l’accettazione, anche per comportamenti concludenti per i sindaci titolari, che va
iscritta nel registro delle imprese entro 30 giorni dalla delibera, a pena di sanzioni amministrative. Invece
l’accettazione del sindaco supplente deve essere espressa, giacché è chiamato a subentrare automaticamente
in caso di venir meno di un sindaco titolare.
Le cause di cessazione del rapporto attengono alle seguenti ragioni:
a) Decesso;
b) Scadenza del termine  i sindaci restano in carica per 3 esercizi, e scadono alla data dell’assemblea
convocata per l’approvazione del bilancio relativo al 3° esercizio della carica; la scadenza è simultanea
per l’intero collegio, anche là dove uno o più dei suoi componenti sia stato sostituito in corso di mandato;
fino alla nomina del nuovo collegio, i precedenti sindaci rimangono in carica in regime di prorogatio,
senza limitazioni di poteri;
c) Decadenza  le cause di decadenza si suddividono a seconda che attengano alla sopravvenuta perdita di
un requisito di eleggibilità, ovvero all’inadempimento di un dovere dei sindaci (sanzionato appunto con
la decadenza): le cause del primo tipo riguardano situazioni in cui il sindaco perde, dopo la nomina, i
necessari requisiti di professionalità o l’indipendenza richiestagli (con conseguente nullità, per illiceità
dell’oggetto, della delibera di nomina); le cause di decadenza del secondo tipo, di natura sanzionatoria,
scattano in caso di assenza ingiustificata, nell’arco di uno stesso esercizio sociale, o a 2 riunioni del
collegio sindacale, o alle assemblee, o ancora a 2 adunanze consecutive del c.d.a./comitato esecutivo;
d) Rinuncia  sempre ammissibile in ogni momento, senza che la società possa avanzare pretese
risarcitorie verso il sindaco dimissionario: è sufficiente che sia comunicata al presidente del collegio
sindacale, il quale avrà poi cura di comunicare la sostituzione al sindaco supplente, anche se esso
subentra automaticamente;
e) Revoca per giusta causa  vedi infra.
In tutti questi casi, per il venir meno di un componente, è previsto per il sindaci il sistema della supplenza,
invece di quello della cooptazione, che rimane proprio degli amministratori. È sempre ferma la regola per la
quale, nella prima assemblea possibile, deve provvedersi alla ricomposizione dell’organo collegiale, con la
nomina di sindaci effettivi e supplenti necessari per l’integrazione del collegio.
Il subentro dei supplenti, in ordine di età, è automatico ope legis e non abbisogna di accettazione (là dove il
supplente abbia già accettato la nomina), e ha effetto dal momento della causa di sostituzione, dunque non
dalla pur dovuta comunicazione da parte del presidente al supplente.
Punto debole dell’istituto rimane il meccanismo di nomina, dato alla competenza assembleare, secondo
regole di maggioranza  la maggioranza ha dunque la disponibilità della scelta di tutti i componenti
l’organo di controllo, nonostante essa stessa disponga della nomina dei soggetti (gli amministratori)
destinatari del controllo medesimo. Questa regola determina un potenziale intreccio di interessi fra
controllanti e controllati, che indebolisce tipicamente l’esercizio della funzione di controllo.
A fronte di tale regola di nomina, il rafforzamento dell’effettività delle funzioni dei sindaci si gioca,
anzitutto, sul fronte del principio di indipendenza dei componenti il collegio  si tratta di un principio che
trova ricadute sia sul piano dei requisiti di eleggibilità alla carica, sia sul piano dell’eventuale rimozione
dalla carica stessa  quanto ai primi vi è la conseguente nullità (per illiceità dell’oggetto) della delibera di
nomina, mentre in caso di loro sopravvenienza, di decadenza ope legis dalle funzioni.

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Sono cause legali di non eleggibilità e decadenza, non derogabili dagli statuti:
a) incapacità legale, fallimento, pene accessorie (cioè quelle previste anche per gli amministratori);
b) coniugio, parentela o affinità entro il 4° grado con amministratori della società o di altre società del
gruppo;
c) i rapporti di lavoro di carattere continuativo con la società o con altre società del gruppo;
d) gli “altri rapporti di natura patrimoniale che ne compromettano l’indipendenza” (ad es. un’importante,
anche se occasionale, consulenza, in considerazione specialmente del confronto fra i compensi di sindaco
e quelli derivanti dalla consulenza).
Altra regola a salvaguardia dell’indipendenza del sindaco è quella sull’invariabilità dei compensi: essi
devono essere fissati contestualmente alla nomina da parte l’assemblea, in misura equa nel quantum, e a
scadenza periodica annuale, senza che possano essere modificati nel corso del mandato, proprio per evitare
incentivi alla collusione. Il diritto al compenso si ritiene irrinunciabile.
Parimenti a salvaguardia dell’indipendenza del sindaco, è la regola indisponibile che vuole il sindaco
revocabile soltanto per giusta causa con deliberazione dell’assemblea ordinaria, la quale, per avere
efficacia, deve poi essere approvata con decreto del Tribunale. Questa deliberazione deve essere motivata
in ordine alla giusta causa, che può consistere o in un inadempimento ai doveri d’ufficio (non di scarsa
importanza), o in un giustificato motivo oggettivo legato al deterioramento dei rapporti fra sindaco e società,
o a vicende personali del sindaco che ne screditino il ruolo facendone venir meno l’affidabilità  giusta
causa da valutarsi sempre e comunque dal Tribunale, per evitare abusi, a salvaguardia del principio di
indipendenza dei sindaci.
Il collegio sindacale è pienamente collegiale  perciò le proprie deliberazioni contemplano le fasi basilari
di un collegio: convocazione con indicazione dell’ordine del giorno, riunione, discussione, votazione,
proclamazione e verbalizzazione. Deve riunirsi almeno ogni 3 mesi, salvo che la diligenza professionale
imponga riunioni più ravvicinate.
Non si tratta di un collegio cd perfetto (ossia che funzionerebbe solo con la presenza di tutti i suoi
componenti): esso infatti è regolarmente costituito con la maggioranza dei sindaci (quorum costitutivo) e
delibera a maggioranza assoluta dei presenti (quorum deliberativo). La convocazione è prerogativa del
presidente, e la riunione può avvenire anche con mezzi telematici se lo statuto ne indica le modalità.
Nell’esercizio delle sue funzioni, l’attività dei sindaci si articola fondamentalmente in 3 fasi, ed in ciascuna
fase i poteri dell’organo sono a volte individuali (attribuiti quindi disgiuntamente a ciascun sindaco) e a
volte collegiali (perciò esercitabili soltanto in forma collegiale); tali poteri sono da intendere come poteri-
doveri, il cui mancato esercizio dà luogo a responsabilità dei sindaci.
1ª fase) Istruttoria  i sindaci godono di poteri ispettivi individuali (esame dei documenti sociali,
ispezione degli stabilimenti, interrogazione dei dipendenti) laddove la richiesta di informazioni agli
amministratori è di competenza del collegio; nelle società quotate, però, i sindaci hanno anche poteri di
informazione individuali. Gli amministratori sono tenuti a fornire le informazioni richieste, a pena di
integrazione del reato di “impedito controllo”.
2ª fase) Valutativa  questa deve essere esercitata collegialmente. Al sindaco dissenziente rimane la
possibilità di far uso di strumenti di reazione, che rimangono nella sua disponibilità individuale.
3ª fase) Reattiva  questa si può concretare in diverse iniziative, secondo una graduazione di situazioni:
- per quanto riguarda i poteri da esercitarsi collegialmente, i sindaci possono e devono anzitutto convocare
l’assemblea in caso di omissione o ingiustificato ritardo degli amministratori nella convocazione
obbligatoria dell’assemblea; il collegio sindacale – dandone previo avviso al presidente del c.d.a. –
convocherà pure l’assemblea per l’adozione di provvedimenti urgenti in caso di fatti censurabili di
rilevante gravità, commessi dagli amministratori o rilevati all’interno di uffici della società in violazione
dei rispettivi doveri, ma tali fatti non devono attenere al merito delle scelte di gestione (è da ritenere che la
convocazione dell’assemblea senza la previa comunicazione al presidente del c.d.a. comporti l’invalidità
del procedimento deliberativo);
- in caso di gravi irregolarità nella gestione, i sindaci potranno poi presentare denuncia al Tribunale e,
nelle società quotate, alla Consob;
- il collegio sindacale è anche legittimato ad impugnare le deliberazioni assembleari o consiliari
illegittime, là dove ritenga nell’interesse sociale che tali deliberazioni siano da eliminare  ha quindi il
potere-dovere di promuovere l’esercizio dell’azione sociale di responsabilità nei confronti degli

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amministratori, con la maggioranza dei ⅔ dei componenti;


- al singolo sindaco è dato comunque di reagire individualmente rispetto ad accertate irregolarità, o
formulando rilievi in collegio, o intervenendo nella discussione in assemblea o in c.d.a., o denunziando al
P.M. gravi irregolarità rilevanti anche se il collegio abbia deliberato di desistere (ma quest’ultima solo
nelle società quotate).
L’intervento dei sindaci può essere poi sollecitato dagli azionisti, tramite apposita denuncia  ad ogni
socio è dato infatti di compulsare il collegio sindacale ad indagare su fatti censurabili, che il collegio invero
avrebbe già dovuto rilevare nell’esercizio delle funzioni di controllo (cd denuncia semplice). Se la denuncia
proviene però da una minoranza qualificata (1/20 del capitale sociale, o 1/50 nelle quotate), il collegio
sindacale, dopo aver indagato senza ritardo, dovrà riferirne alla prima assemblea utile. In ogni caso, e a
prescindere che la denunzia sia semplice o qualificata, i sindaci dovranno sollecitamente convocare
l’assemblea là dove, a seguito della relativa indagine, ravvisino fatti censurabili di rilevante gravità e vi sia
urgenza di provvedere.
I sindaci devono adempiere ai propri doveri con lo standard proprio della diligenza professionale, che
implica un certo grado di perizia. Essi, anzitutto, sono solidamente responsabili con gli amministratori
colpevoli di mala gestio, se il danno non si sarebbe prodotto se avessero vigilato in conformità dei propri
doveri. All’azione di responsabilità nei confronti dei sindaci si applica, in quanto compatibile, la disciplina
sull’azione contro gli amministratori. Si tratta di una responsabilità per fatto proprio, di tal che il sindaco
non risponde automaticamente in caso di accertata responsabilità degli amministratori, ma soltanto là dove
gli si possa imputare la violazione degli obblighi di vigilanza propri della carica, e sempre che si dia prova
del nesso di causalità fra il comportamento (commissivo od omissivo) del sindaco, in violazione dei propri
doveri, e la prodizione dell’evento dannoso a seguito del comportamento di mala gestio degli amministratori.
Tuttavia, nella pratica, è difficile dar prova del collegamento causale, onde il mancato compimento di un
atto dovuto da parte dei sindaci viene di norma inteso in termini di presunzione dell’efficienza causale
determinante sulla produzione del danno. In ogni caso occorre che si verifichi un danno, non essendo
sufficiente la mera inadempienza dei sindaci agli obblighi di vigilanza rispetto ad atti degli amministratori:
potrà in tal caso ipotizzarsi la revoca per giusta causa dei sindaci, ma non anche una loro responsabilità, in
mancanza del verificarsi del danno.
Possono aversi però anche casi in cui il danno è determinato esclusivamente dal comportamento dei sindaci,
che ne saranno allora essi soli responsabili: è il caso della violazione di segreti, con danno della società, o di
false attestazioni date gli azionisti o al pubblico, causa di danno per singoli azionisti o terzi; i quali singoli
azionisti o terzi, direttamente danneggiati dal comportamento dei sindaci, potranno promuovere un’azione
individuale contro di essi.
Anche la responsabilità dei sindaci è soggetta a prescrizione, al pari di quella degli amministratori.

Il revisore legale dei conti


Secondo un percorso evolutivo dell’ordinamento (prima sperimentato solo sulle società quotate e poi esteso
a tutte le S.p.a.) la funzione di controllo contabile, un tempo prerogativa del collegio sindacale, è stata
sottratta a quest’ultimo ed attribuita ad un revisore esterno (con la sola eccezione della riattribuzione
statutaria ai sindaci, nelle S.p.a. chiuse che non sono tenute alla redazione del bilancio consolidato).
La materia trova la propria regolamentazione nel d.lgs.39/2010, il quale istituisce un Registro dei revisori
legali in cui sono iscritti, sotto la vigilanza del Ministero dell’Economia, i soggetti abilitati alla revisione
legale dei conti.
La funzione di controllo contabile, esercitata dal revisore, ha come contenuto tipico anzitutto il compito di
verificare la regolare tenuta della contabilità sociale, e la corretta rilevazione nelle scritture contabili dei
fatti di gestione. Ulteriore compito del revisore è il giudizio sul bilancio di esercizio e, ove presente, sul
bilancio consolidato. Naturalmente, il revisore non deve “garantire” che il bilancio sia vero, avendo piuttosto
l’obbligo di “ricercare” il vero, cioè l’esistenza di possibili frodi contabili, secondo metodi, anche a
campione, dotati di razionalità aziendale.
Il revisore deve quindi formulare un giudizio sul bilancio, che presenta una tipologia quadripartita a
seconda dell’esito: positivo, positivo con rilievi, negativo, con impossibilità di emettere un giudizio. Se il
giudizio è positivo, il revisore attesta sia la conformità del bilancio alle norme che ne disciplinano la

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redazione e che il bilancio rappresenta in modo veritiero e corretto la situazione patrimoniale e finanziaria
della società ed anche il risultato economico di esercizio. Invece se il giudizio è positivo ma con rilievi,
oppure negativo, o ancora con la dichiarazione di impossibilità di renderlo, il revisore dovrà analiticamente
illustrarne i motivi.
Il controllo contabile deve esercitarsi “nel corso dell’esercizio”, dunque con continuità, e non solo a ridosso
del giudizio da esprimere sul bilancio. Anche se il legislatore non specifica quale sia la periodicità dovuta
dei controlli, è da ritenere che l’intensità della frequenza andrà opportunamente calibrata dal revisore
secondo criteri di diligenza professionale.
La vigente disciplina sulla revisione legale dei conti punta su regole che ne dovrebbero accentuare
l’indipendenza. Così, in punto di nomina del revisore, si tenta di non lasciare al gruppo di maggioranza
completa autonomia sulla scelta  la nomina da parte dell’assemblea è su proposta motivata dell’organo di
controllo; di tal che l’assemblea rimarrà libera di non nominare il soggetto designato dall’organo di
controllo, ma non di procedere alla nomina di un revisore diverso da quello proposto. In punto di durata
dell’incarico, la regola di base fissa 3 esercizi. Anche sotto il profilo del corrispettivo, quale profilo
sensibile per l’indipendenza del revisore, sono fissate regole imperative: esso deve essere adeguato
all’incarico, va previsto in sede di nomina, non è variabile salvo che siano previamente indicati i criteri per
l’adeguamento durante l’incarico.
La revoca del revisore può essere deliberata dall’assemblea solo per giusta causa, ma è soggetta a parere
(comunque non vincolante) dell’organo di controllo  e non all’approvazione del Tribunale, come avviene
invece per i sindaci. Il revisore può esercitare il recesso dall’incarico, salvo il risarcimento dei danni, ma
non in tempi e modi tali da non consentire alla società revisionata di provvedere diversamente  in questi
casi è previsto un temporaneo regime di prorogatio del revisore sino al perfezionamento del nuovo incarico
e comunque non oltre 6 mesi. Della revoca o recesso deve essere data motivata comunicazione al Ministero
dell’Economia.
Quasi come chiusura delle regole volte a rafforzare l’indipendenza del revisore, il d.lgs.39/2010 introduce
infine una clausola generale sull’indipendenza del revisore, il quale non deve essere coinvolto in alcun modo
nei processi decisionali della società revisionata (cd obiettività del revisore). Anche ai socie e all’organo
amministrativo della società revisionata è posto un divieto di ingerenza nell’espletamento della revisione
legale, a salvaguardia ancora una volta dell’indipendenza e obiettività della revisione.
Per espletare le funzioni di controllo contabile, il revisore esterno gode di poteri informativi, avendo il
diritto ad ottenere dagli amministratori documenti e notizie utili all’attività di revisione legale, ma anche
ispettivi, potendo procedere ad accertamenti, controlli ed esame di atti e documentazione.
Limite a tali poteri è l’utilità dell’acquisizione della documentazione ai fini della revisione, cosicché non si
può escludere che gli amministratori, non ravvisando detta utilità, si rifiutino di fornire tutta la
documentazione richiesta ad es. perché di difficile reperimento o insignificante nell’ambito del bilancio
revisionato. Ove il revisore resti di contrario avviso, non potrà che segnalare il fatto censurabile al collegio
sindacale. Il revisore, al pari dei sindaci, ha inoltre l’obbligo di riservatezza sui fatti e sui documenti
conosciuti in ragione dell’ufficio, dovendo rispettare i principi di deontologia professionale, riservatezza e
segreto professionale. Infine l’attività del revisore deve essere documentata, ed è al riguardo previsto
l’obbligo di conservazione decennale dei documenti e carte di lavoro relativamente all’attività svolta.
La responsabilità del revisore è solidale con gli amministratori verso la società, i soci e i terzi per i danni
cagionati in violazione dei propri doveri, secondo criteri di diligenza professionale. Nel caso in cui revisore
legale sia una società di revisione, responsabili in solido sono pure il responsabile della revisione (che
sottoscrive il giudizio di bilancio) e i dipendenti che hanno collaborato all’attività di revisione.
Diversamente dalla più severa disciplina applicabile ai sindaci, il regime di prescrizione, per tutte le azioni
di responsabilità contro il revisore, è fissato nel termine di 5 anni, che decorre dalla data della relazione di
revisione che rilevi nell’invocata responsabilità del revisore, e non già dal momento della cessazione
dell’incarico del revisore stesso.

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L’organismo di vigilanza
In base alla disciplina sulla cd responsabilità amministrativa delle società (d.lgs.231/2001), le S.p.a. hanno
l’onere, da un lato, di predisporre ed attuare un modello organizzativo idoneo a prevenire il compimento dei
reati (cd reati presupposto) e dei reati societari, dall’altro quello di istituire un organismo di vigilanza
(OdV) che abbia il compito di verificare il corretto funzionamento e l’osservanza di quel modello
organizzativo, curandone l’aggiornamento. Pertanto la società che non abbia adottato ed efficacemente
attuato un modello idoneo, o che non abbia configurato un funzionante OdV, sarà soggetta alle sanzioni
previste dalla legge a suo carico in caso di compimento di reati da parte di preposti alle funzioni
amministrative e di controllo sulla società stessa, o da parte di dipendenti. Dunque la mancata adozione ed
attuazione di idoneo modello di prevenzione di reati e/o il difetto di adeguata istituzione dell’OdV
esporranno gli amministratori a responsabilità verso la società, ma anche verso i creditori sociali, per
violazione di un obbligo specifico di diligenza, in ragione del pregiudizio legato all’applicazione alla società
delle sanzioni amministrative da reato che ne dovessero derivare.
L’OdV può essere costituito ad hoc come organismo a sé stante, ma la legge consente alla società anche di
identificarlo con l’organo di controllo della società (collegio sindacale nel sistema tradizionale, consiglio di
sorveglianza nel sistema dualistico, comitato per il controllo sulla gestione nel sistema monistico).

I sistemi alternativi di amministrazione e controllo


La riforma del 2003 ha introdotto nell’ordinamento italiano la possibilità di adottare, al posto del sistema
tradizione di amministrazione e controllo (basato sulla compresenza dell’organo amministrativo e del
collegio sindacale), due altri sistemi: il sistema dualistico ed il sistema monistico  ciò con gli obiettivi di
favorire per un verso investimenti in Italia da parte di imprese straniere, abituate a sistemi organizzativi
diversi da quello previsto nel codice civile, e di offrire per altro verso alle società una sufficiente varietà di
modelli organizzativi, atti a soddisfare le più differenti esigenze.
Il sistema dualistico, di derivazione tedesca, prevede la presenza di un consiglio di gestione, le cui
caratteristiche e competenze sono assimilabili a quelle del consiglio di amministrazione, e di un consiglio di
sorveglianza, che riunisce le principali competenze del collegio sindacale alle principali competenze
usualmente attribuite all’assemblea ordinaria, con la conseguenza di creare un organo intermedio fra
l’assemblea dei soci e l’organo di amministrazione, che diviene il vero e proprio fulcro dell’organizzazione
societaria.
Il sistema monistico, di derivazione anglosassone, si caratterizza invece per la presenza, all’interno
dell’organo amministrativo, di un comitato di controllo per la gestione, composto da amministratori
indipendenti, al quale sono affidate le principali funzioni assegnate nel sistema ordinario al collegio
sindacale.
Tratto comune dei due sistemi è quello per cui la revisione legale dei conti è affidata, senza eccezioni, al
revisore esterno, non potendo essere assegnata, neanche con espressa previsione statutaria, all’organo di
controllo interno. Ciò si spiega, nel sistema dualistico, per la concentrazione già rilevante di poteri in capo al
consiglio di sorveglianza (per il quale tra l’altro non valgono gli stessi requisiti di professionalità e
indipendenza del collegio sindacale), e nel sistema monistico, per la ridotta indipendenza del comitato di
controllo per la gestione (formato da componenti del c.d.a.)  in entrambi i casi pertanto, il legislatore ha
ritenuto indispensabile la nomina di un soggetto esterno e professionalmente qualificato, quanto meno per la
funzione di revisione contabile.
L’applicazione dei sistemi alternativi richiede un’apposita scelta statutaria, in sede di costituzione della
società o di successiva modifica  in particolare, in quest’ultimo caso, “salvo che la delibera disponga
altrimenti, la variazione di sistema ha effetto dalla data dell’assemblea convocata per l’approvazione del
bilancio relativo all’ultimo esercizio”.
Pertanto si può affermare una regola di residualità del sistema tradizionale, che troverà applicazione quanto
meno nel caso in cui lo statuto non formuli alcuna scelta in ordine al sistema di amministrazione e controllo
e nel caso in cui preveda (illegittimamente) sistemi del tutto atipici, ossia non contemplati dal legislatore.

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 IL SISTEMA DUALISTICO
Rispetto al sistema tradizionale, questo è caratterizzato da una maggiore separazione fra proprietà e
gestione: l’assemblea dei soci non provvede alla nomina degli amministratori, ma alla nomina di un organo
intermedio, cioè il consiglio di sorveglianza, al quale è affidato il controllo di legalità sulla gestione (tipico
del collegio sindacale) e una funzione generale di indirizzo (talora qualificata come controllo di merito) che
trova il suo fondamento nel potere di deliberare la nomina e la determinazione del compenso di
amministratori, la loro eventuale revoca anticipata e l’approvazione annuale del bilancio.
Rispetto al sistema tradizionale dunque si determina un accentramento del potere decisionale in mano al
gruppo di controllo, atteso che, in mancanza di clausole contrarie, nelle società (non quotate) il consiglio di
sorveglianza è espressione della sola maggioranza. Il sistema dualistico dovrebbe teoricamente assicurare
una maggiore efficacia dei controlli sulla gestione, grazie proprio all’accentramento presso un unico organo
delle funzioni di controllo di legalità e di merito  ma tale aspirazione non è perseguita in modo coerente
dal legislatore, che ha indebolito significativamente – nelle società non quotate – i requisiti di professionalità
e indipendenza dei consiglieri di sorveglianza, rispetto a quelli previsti per il collegio sindacale.
Comunque il ruolo del consiglio di sorveglianza può essere accentuato in modo significativo dallo statuto,
esercitando l’opzione che consente di assegnare a tale organo vere e proprie funzioni di alta
amministrazione, tramite l’attribuzione del potere deliberativo “in ordine alle operazioni strategiche e ai
piani industriali e finanziari della società, predisposti dal consiglio di gestione”.
Il consiglio di sorveglianza è un organo necessariamente collegiale, composto almeno da 3 soggetti (non
opera il limite max di 5 membri previsto per il collegio sindacale) che possono essere soci o non soci. Alla
nomina dei primi componenti provvede l’atto costitutivo, mentre i successivi sono nominati dall’assemblea
ordinaria. Nelle società quotate trovano applicazione norme simili a quelle previste per il collegio sindacale,
quindi è obbligatoria la nomina di 1 componente da parte della minoranza tramite il sistema di voto per lista.
I requisiti di professionalità nelle società non quotate sono inferiori rispetto a quelli previsti per il collegio
sindacale, in quanto essi devono ricorrere soltanto per 1 solo dei componenti, il quale deve necessariamente
risultare iscritto nel registro dei revisori legali  in tal modo il legislatore ha inteso consentire
evidentemente l’utilizzo del sistema dualistico anche in società di medie dimensioni. Nelle società quotate
invece tutti i consiglieri, a pena di decadenza, devono essere in possesso dei requisiti di professionalità e
onorabilità fissati dal Ministro della Giustizia.
Riguardo ai requisiti di indipendenza, nelle società non quotate è vietato solamente il cumulo (ma non la
parentela) con la carica di consigliere di gestione della società e la sussistenza di rapporti di lavoro o di
rapporti continuativi di consulenza e prestazioni d’opera che ne compromettano l’indipendenza. Invece nelle
società quotate i requisiti sono assimilati a quelli previsti per il collegio sindacale.
I consiglieri di sorveglianza hanno diritto a un compenso, la cui determinazione spetta all’assemblea
ordinaria; analogamente a quanto vale per il collegio sindacale, esso non può essere variato in corso di
mandato, al fine di assicurare l’indipendenza dell’organo di controllo.
Con riferimento alle cause di cessazione, identica è anche la disciplina della durata (3 esercizi) con
scadenza alla data di convocazione dell’assemblea per l’approvazione del relativo bilancio, ed efficacia della
cessazione al momento in cui l’organo viene ricostituito. Diversa è invece la disciplina della revoca, che
assicura minore indipendenza, dato che i consiglieri di sorveglianza sono liberamente revocabili, anche in
assenza di giusta causa (pertanto senza controllo preventivo del Tribunale), salvo il diritto al risarcimento
del danno, a condizione che la delibera sia approvata con il voto favorevole di almeno 1/5 del capitale sociale.
In caso di cessazione di singoli consiglieri non è previsto ne il ricorso a supplenti (come per i sindaci), ne la
cooptazione (come per gli amministratori)  è per questo che alla sostituzione dovrà provvedere
l’assemblea ordinaria senza indugio.
Le funzioni del consiglio di sorveglianza possono essere suddivise in funzioni di controllo (analoghe a
quelle spettanti al collegio sindacale) e funzioni di indirizzo della gestione, che derivano dall’assegnazione a
tale organo di alcune competenze spettanti nel modello tradizionale all’assemblea ordinaria dei soci.
- Quanto alle prime, il codice richiama integralmente i doveri del collegio sindacale: controllo sul rispetto
della legge e dello statuto, controllo sul rispetto dei principi di corretta amministrazione, controllo sulla
adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società.

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Meno incisivi però, soprattutto nelle società non quotate, sono i poteri assegnati dall’ordinamento per
l’esercizio delle funzioni tipiche  l’assistenza alle sedute dell’organo amministrativo e dell’assemblea è
prevista, ma è facoltativa, nel senso che non è prevista la decadenza in caso di assenza ingiustificata; quanto
ai poteri di ispezione, il consiglio di sorveglianza può chiedere notizie sulla gestione agli amministratori e
scambiare informazioni con gli organi corrispondenti delle società controllate, ma non si applica il potere
individuale di ispezione del singolo componente, al quale è pertanto precluso di procede ad atti individuali
di controllo (eventuali operazioni di ispezione documentale dovranno quindi essere deliberate dal collegio, il
quale potrà poi delegare singoli componenti ad effettuare gli accessi materiali presso la società); con
riferimento infine ai poteri di convocazione degli altri organi sociali, il consiglio di sorveglianza può
convocare l’assemblea in caso di omissione degli amministratori o di fatti censurabili e a seguito di denunzia
da parte dei soci, nel caso di gravi irregolarità inoltre il consiglio è legittimato alla denunzia.
La 2ª area di funzioni assegnata al consiglio di sorveglianza, attiene invece alle competenze solitamente
rimesse nel sistema tradizionale all’assemblea ordinaria, ed attinenti alla funzione di indirizzo (cd controllo
di merito). Il consiglio di sorveglianza, infatti:
a) nomina e revoca i componenti del consiglio di gestione;
b) ne determina il compenso (a meno che lo statuto non rimetta tale competenza all’assemblea);
c) approva il bilancio di esercizio e, ove redatto, anche il bilancio consolidato (che nel sistema tradizionale è
invece di competenza del c.d.a.);
d) autorizza l’esercizio dell’azione di responsabilità contro i consiglieri di gestione.
Come anticipato, i poteri del consiglio di sorveglianza possono essere accresciuti dallo statuto, prevedendo
la competenza a deliberare in ordine alle operazioni strategiche ed ai piani industriali e finanziari,
predisposti dal consiglio di gestione  in tal modo il consiglio di sorveglianza viene ad assumere un ruolo
formale di preminenza nella gestione sociale, potendosi riservare ad esso le decisioni di merito alla cd alta
amministrazione dell’impresa.
Per converso, il ruolo dell’assemblea ordinaria – fermo invece quello della straordinaria – viene
significativamente compromesso rispetto al sistema tradizionale. Infatti è tassativamente esclusa ogni
competenza deliberativa in materia di nomina e revoca dei consiglieri di gestione e anche la determinazione
del relativo compenso, che spetta solo se prevista dallo statuto e in alcuni casi (di mancata approvazione del
progetto di bilancio da parte del consiglio di sorveglianza, di apposita richiesta formulata da parte di ⅓ dei
componenti del consiglio di gestione o di sorveglianza). L’assemblea ordinaria mantiene, invece, la
competenza – concorrente con il consiglio di sorveglianza – in ordine all’azione di responsabilità nei
confronti degli amministratori, nonché – in via esclusiva – la competenza in materia di distribuzione degli
utili e di nomina del revisore. Ad esse, rispetto al sistema tradizionale, si aggiunge naturalmente la nomina
dei consiglieri di sorveglianza e la determinazione del relativo compenso.
Il codice detta poi alcune regole organizzative per il funzionamento del consiglio di sorveglianza.
- Il presidente è necessariamente eletto dall’assemblea, e non può pertanto essere nominato dal consiglio
stesso. I suoi poteri sono determinati dallo statuto, ma ad esso vanno in ogni caso attribuiti i tradizionali
poteri di convocazione e coordinamento dell’organo collegiale.
- Il consiglio deve riunirsi con cadenza trimestrale, come il collegio sindacale, dunque almeno ogni 90
giorni. Nelle società quotate però, il consiglio deve riunirsi ogni qualvolta un componente lo richieda,
indicando gli argomenti da trattare, e la riunione deve essere convocata senza indugio, a meno che non
risultino specifiche ragioni ostative.
- Per la validità della seduta è necessaria la presenza della maggioranza dei componenti, e le deliberazioni
sono assunte a maggioranza assoluta dei presenti. La mancata partecipazione alle sedute non costituisce
causa di decadenza automatica (come per i sindaci) ma potrebbe costituire giusta causa di revoca
dall’incarico da parte dell’assemblea.
- Le deliberazioni del consiglio sono soggette ad un particolare regime di impugnazione  l’unica sanzione
ammessa in via generale è l’annullabilità, e le delibere possono essere impugnate dai consiglieri di
sorveglianza assenti o dissenzienti, dai singoli soci (solo nel caso in cui la deliberazione risulti lesiva di un
loro diritto soggettivo) ed anche dal consiglio di gestione (ma per le sole competenze deliberative, non per
quelle relative all’esercizio della funzione di controllo). L’applicazione delle norme in materia di
impugnazione delle delibere assembleari è prevista nel solo caso dell’approvazione del bilancio di esercizio.

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Il regime della responsabilità si articola sulla falsariga di quello previsto per il collegio sindacale  i
componenti del consiglio di sorveglianza devono adempiere ai propri doveri con la diligenza richiesta dalla
natura dell’incarico. Come per i sindaci è prevista la responsabilità per omessa vigilanza nei confronti del
consiglio di gestione, per i fatti e le omissioni di questi ultimi, quando il danno non si sarebbe prodotto se i
consiglieri di sorveglianza avessero vigilato in conformità degli obblighi della loro carica. Tuttavia il regime
di responsabilità per omessa vigilanza mal si adatta alle eventuali competenze statutarie di alta
amministrazione, che possono essere affidate al consigli di sorveglianza  trattandosi di competenze
deliberative, è da ritenere che la responsabilità muti titolo, da responsabilità di tipo omissivo a responsabilità
di tipo commissivo  pertanto i consiglieri di sorveglianza risponderanno per concorso nella responsabilità
dei consiglieri di gestione.
Diversamente poi dal sistema tradizionale, nel quale è ammessa la figura dell’amministratore unico, nel
sistema dualistico è invece necessaria la costituzione di un organo collegiale, composto da almeno 2
componenti (anche non soci) al quale spetta in via esclusiva la gestione dell’impresa. Questo organo è il
consiglio di gestione.
La nomina dei primi componenti viene effettuata nell’atto costitutivo mentre i successivi sono nominati dal
consiglio di sorveglianza. Il numero dei componenti è determinato dallo statuto o in maniera fissa o
mediante l’introduzione di un limite max lasciando in tal caso libero il consiglio di sorveglianza di nominare
un numero inferiore di amministratori.
Il compenso è stabilito dal consiglio di sorveglianza, a meno che lo statuto assegni tale competenza
all’assemblea ordinaria.
La revoca dei consiglieri di gestione è di esclusiva competenza del consiglio di sorveglianza. Come nel
sistema tradizionale può avvenire anche in assenza di giusta causa, salvo in tal caso il risarcimento dei danni.
Anche le regole in materia di durata dell’incarico sono simili, con la sola differenza che i gestori scadono
alla data della riunione del consiglio di sorveglianza (anziché dell’assemblea) convocato per l’approvazione
del bilancio relativo all’ultimo esercizio della carica. In caso di cessazione anticipata di un consigliere, non
è previsto il ricorso alla cooptazione, e la sostituzione deve pertanto essere deliberata senza indugio dal
consiglio di sorveglianza. In caso di cessazione anticipata della totalità dei consiglieri invece subentra il
consiglio di sorveglianza nell’amministrazione ordinaria della società fino alla nomina (da effettuare con
urgenza) del nuovo consiglio di gestione.
Il codice civile non disciplina la figura del presidente del consiglio di gestione, ma non sussistono ostacoli
ad un’applicazione analogica alla disciplina del sistema tradizionale, con i limiti della compatibilità: la
nomina spetta pertanto al consiglio di sorveglianza (e non all’assemblea) e in via subordinata al consiglio di
gestione. Il codice invece rinvia espressamente alla disciplina del c.d.a. per quanto riguarda il
funzionamento del consiglio di gestione (convocazione – deliberazioni – interessi personali –
impugnazione delle deliberazioni), fermo restando che i poteri tradizionalmente attribuiti al collegio
sindacale spettano al consiglio di sorveglianza.
L’azione sociale di responsabilità contro gli amministratori può essere promossa a seguito di delibera
dell’assemblea ordinaria o su iniziativa della minoranza, come nel sistema tradizionale, ma anche a seguito
di delibera del consiglio di sorveglianza. Se il consiglio di sorveglianza delibera l’esercizio dell’azione con
una maggioranza pari almeno ai ⅔ dei componenti, gli amministratori oggetto della delibera cessano
dall’incarico per revoca automatica e il consiglio di sorveglianza provvede contestualmente alla sostituzione.

 IL SISTEMA MONISTICO
Tale sistema è caratterizzato dalla presenza di un comitato per il controllo sulla gestione, costituito
all’interno del consiglio di amministrazione, in sostituzione della figura del collegio sindacale e con
competenze assimilabili a quelle di quest’ultimo. Il sistema monistico presenta minori garanzie di
indipendenza della funzione di controllo, dato che i componenti del comitato sono nominati e revocati dallo
stesso c.d.a. di cui fanno parte. La caratteristica del sistema però è proprio quella di coinvolgere i soggetti
istituzionalmente deputati alla funzione di controllo nelle decisioni gestionali e di pervenire in tal modo ad
un esercizio più consapevole del compito principale loro assegnato, assicurando al contempo una struttura
organizzativa più semplificata rispetto al sistema tradizionale, vista la riduzione del numero degli organi
sociali  in definitiva, minore indipendenza controbilanciata da una maggiore responsabilizzazione.

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Per poter nominare regolarmente i membri del comitato, è previsto che almeno ⅓ dei componenti del c.d.a.
risulti in possesso dei requisiti di indipendenza stabiliti per i sindaci. Tutti i componenti del comitato di
controllo devono essere scelti fra i consiglieri che risultino in possesso di tali requisiti, nonché di ulteriori
requisiti di professionalità e onorabilità stabiliti dallo statuto. I componenti del comitato non possono inoltre
far parte del comitato esecutivo, ne ricevere deleghe e cariche particolari (ad es. quella di presidente del
c.d.a.), nonché altri incarichi che comportino di fatto l’esercizio di funzioni attinenti alla gestione
dell’impresa sociale. In definitiva, essi devono essere scelti tra i cd amministratori non esecutivi.
Nelle società quotate, almeno un amministratore indipendente deve essere inoltre nominato dalla minoranza,
attraverso il sistema del voto di lista.
Il numero dei componenti del comitato è stabilito dal c.d.a. (se il numero non è stabilito dallo statuto), ma il
comitato dev’essere composto nelle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio da almeno 3
componenti; se ne deduce che nelle altre S.p.a. il comitato deve essere composto da almeno 2 componenti,
trattandosi comunque di un organo necessariamente collegiale. Il presidente viene nominato dal comitato
stesso, a maggioranza assoluta dei componenti, e non dal c.d.a. Tuttavia nelle società quotate è individuato
nell’amministratore indipendente nominato dalla minoranza.
Il c.d.a., che provvede alla nomina, deve ritenersi titolare anche del potere di revoca dei componenti. Essa
può essere disposta anche senza giusta causa, salvo il risarcimento del danno. La revoca da componente del
comitato, disposta dal consiglio, non comporta però la cessazione dalla carica di amministratore, che può
essere deliberata solamente dall’assemblea ordinaria. In tutti i casi di cessazione anticipata dalla carica di un
componente del comitato (morte, decadenza, rinuncia, revoca), la sostituzione deve essere deliberata dal
c.d.a. scegliendo i nuovi componenti fra gli altri amministratori in possesso dei requisiti necessari o, in
mancanza, cooptando ove possibile preliminarmente nel consiglio nuovi amministratori.
Il compenso dei componenti del comitato è stabilito dal c.d.a., salvo che lo statuto preveda la competenza
dell’assemblea.
Le funzioni del comitato per il controllo sono simili a quelle del collegio sindacale. In realtà il codice
richiama solamente il controllo sull’adeguatezza della struttura organizzativa, amministrativa e contabile
della società, ma le altre funzioni contemplate per i sindaci – ossia il controllo di legalità ed il controllo sul
rispetto dei principi di corretta amministrazione – sono riferibili anche al comitato in quanto i componenti
sono amministratori e pertanto sono già tenuti come tali al rispetto dei principi di legalità e di corretta
gestione. Fra i doveri dei componenti del comitato rientra quello di assistere alle assemblee, ed alle
adunanze del c.d.a. e del comitato esecutivo. Diversamente dai sindaci però non è prevista la decadenza
automatica in caso di assenza e l’inadempienza può essere valutata come giusta causa di revoca dall’incarico
di componente del comitato o anche dalla carica di amministratore.
Non risultano richiamate dal codice neanche le norme in materia di poteri informativi dei sindaci,
prevedendosi espressamente solo il potere di scambiare informazioni con il soggetto incaricato della
revisione legale dei conti.
La disciplina del funzionamento del comitato di controllo è regolata per rinvio alla disciplina del collegio
sindacale  obbligo di riunioni trimestrali, obbligo di verbalizzazione delle sedute e di tenuta del libro delle
adunanze, previsione di un quorum costitutivo pari alla maggioranza dei componenti e di un quorum
deliberativo pari alla maggioranza dei presenti. Il comitato è convocato dal presidente.

Il controllo giudiziario sulla gestione


Per le S.p.a. l’ordinamento prevede, oltre a strumenti di controllo interno, anche meccanismi di controllo
esterno, disciplinati all’art.2409. In tal modo si consente ai soci, al collegio sindacale e al P.M. (nelle sole
società aperte) di attivare un controllo giudiziario sulla gestione, in caso di gravi irregolarità commesse
dagli amministratori in violazione dei propri doveri.
I presupposti per la denuncia al Tribunale sono tradizionalmente definiti come “fondato sospetto di gravi
irregolarità”  il fatto che non tutti i legittimati alla denuncia (in particolare i soci) hanno il potere di
ispezionare la documentazione sociale, spiega perché il legislatore indica quale presupposto del rimedio la
semplice presenza di indizi, che non devono dunque necessariamente raggiungere il livello di prova piena.

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Le gravi irregolarità devono attenere alla gestione, onde non dovrebbero rilevare irregolarità di tipo
“organizzativo”, per le quali sono previsti i normali rimedi invalidativi. Le gravi irregolarità devono quindi
consistere in violazioni dei doveri degli amministratori, che non riguardano mere violazioni della legalità
formale, ma che si traducano in atti idonei a danneggiare la società, o società controllate.
Rimangono dunque estranee al controllo giudiziario sulla gestione le ipotesi di gravi irregolarità a danno di
singoli azionisti di minoranza, là dove tali irregolarità non determinino un depauperamento del patrimonio
sociale o della capacità della società di produrre profitti.
Le gravi irregolarità devono poi essere imputabili agli amministratori, e non occorre che vi sia un
concorso nelle irregolarità da parte dei sindaci. Ne discende l’inapplicabilità del procedimento per una grave
irregolarità commessa in sede assembleare.
La legittimazione alla denunzia è in capo agli azionisti che rappresentino almeno il 10% del capitale sociale,
o il 5% per le società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio (gli statuti possono diminuire, ma
non aumentare, tali percentuali). La legittimazione è poi propria dell’organo di controllo (collegio
sindacale - consiglio di sorveglianza - comitato per il controllo sulla gestione a seconda del sistema di
amministrazione adottato) ed anche del P.M. (solo nelle società che fanno ricorso al mercato del capitale di
rischio). Pertanto i soci che non raggiungano le soglie di partecipazione per la legittimazione potranno
quindi rivolgere la denuncia all’organo di controllo o anche un esposto al P.M. (se la società è aperta) per
sollecitarne il ricorso ex art.2409.
La procedura prende avvio dalla denuncia presentata da uno dei precedenti legittimati presso il Tribunale
civile nella cui circoscrizione la società ha sede legale. Il Tribunale convoca anzitutto in camera di consiglio
gli amministratori e i sindaci, al fine di verificare la fondatezza della denuncia stessa, fissando altresì un
termine per la notifica.
Il Tribunale potrà decidere quindi l’archiviazione, per manifesta infondatezza della denuncia, oppure di
sospendere la procedura (per un tempo determinato) a seguito di “ravvedimento operoso” della società, che
abbia sostituito gli amministratori e i sindaci con altri soggetti di adeguata professionalità, a condizione che
questi ultimi si impegnino a procedere in autotutela ad un dettagliato e serio programma di risanamento.
In mancanza di “ravvedimento operoso”, e sempre che la denuncia sia fondata, il Tribunale può ordinare
l’ispezione giudiziale della società, nominando un ispettore  al termine dell’ispezione se le irregolarità
denunciate sussistono e sono attuali, il Tribunale può adottare opportuni provvedimenti provvisori (non
meglio identificati dalla legge, quindi determinabili con discrezionalità dal giudice) e la convocazione
dell’assemblea per le conseguenti deliberazioni. Nei casi più gravi, verrà nominato un amministratore
giudiziario, in sostituzione degli amministratori, ed eventualmente anche dei sindaci.
Il nominato amministratore giudiziario rimarrà in carica per il tempo fissato dal Tribunale e per lo
svolgimento delle funzioni di risanamento della società previste nell’atto di incarico; potrà compiere atti
eccedenti l’ordinaria amministrazione, ma solo se a ciò espressamente autorizzato dal Tribunale, il quale
mantiene un potere di vigilanza sull’azione dell’amministratore giudiziario.
Le spese del procedimento dovrebbero gravare sulla parte denunciante (i soci, o sulla società se la denuncia
è presentata dai sindaci o dal P.M.). E tuttavia, secondo i principi, là dove la denuncia sia fondata, le spese
saranno poste a carico del soggetto responsabile delle irregolarità denunciate o di chi abbia senza
fondamento resistito al reclamo.

La documentazione dell’attività sociale


L’attività della società deve essere documentata in un ampio complesso di scritture, chiamate a dare
evidenza storica ed una rappresentazione costante dei diversi aspetti in cui la vita dell’ente si articola.
Esse sono suddivise in più gruppi:
1) Conti dell’iniziativa economica  la società deve tenere i libri e le altre scritture contabili indicati
nell’art.2214, e ciò a prescindere dalla natura (commerciale o meno) dell’attività esercitata. Una
considerazione particolare merita il bilancio d’esercizio, documento periodico chiamato a dare una
rappresentazione della situazione patrimoniale e finanziaria della società al termine di ciascun esercizio e
del risultato economico di quest’ultimo, cui il codice dedica una disciplina capillare e rigorosa e che
assume un ruolo centrale nell’informazione societaria.
2) Libri sociali  sono scritture ulteriori, che riguardano i profili più propriamente societari dell’ente, la

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cui tenuta è comunque obbligatoria, e che sono raggruppabili in due categorie:


a) i libri in cui va documentata l’attività degli organi  contengono dunque i verbali delle relative
riunioni, infatti ogni organo ha il proprio libro: l’assemblea, l’organo amministrativo collegiale (se
l’amministratore è unico il libro non si tiene), il comitato esecutivo (se nominato), l’assemblea degli
obbligazionisti. A questi si aggiungono i documenti e le carte di lavoro relativi alla revisione legale dei
conti, conservati dal soggetto incaricato della stessa.
b) i libri che contengono le informazioni relative ai rapporti di investimento e finanziamento di natura
societaria  il libro dei soci e quelli, eventuali, delle obbligazioni e degli strumenti finanziari
correlati a patrimoni destinati, con indicazione dei proprietari dei titoli (se nominativi), dei
trasferimenti e dei vincoli.
La funzione informativa assolta dalla documentazione è di straordinaria importanza, ma è esplicata in grado
diverso dalle diverse scritture, a seconda della più o meno ampia accessibilità alle stesse: infatti le scritture
contabili e i libri sociali sono documenti interni, che neppure i soci possono consultare, se non in minima
parte, avendo diritto di esaminare e trarre estratti solo del libro soci e di quello delle adunanze assembleari.
L’estrema limitatezza del diritto di accesso da parte dei soci alla documentazione sociale, ed in particolare
l’impossibilità di esaminare qualsivoglia documento concernente l’attività d’impresa, è un elemento tipico
(sebbene non essenziale, poiché lo statuto potrebbe dilatare tale diritto) che caratterizza l’assetto
organizzativo interno della S.p.a.  gli azionisti, e la minoranza specialmente, sono privi di informazioni in
merito agli affari sociali e non possono accedervi direttamente.
La funzione informativa del mercato (e dunque degli stessi azionisti) è svolta invece dal bilancio, il quale
va depositato presso il registro delle imprese. Ciò ne spiega la centralità nella disciplina normativa e
l’insistenza del legislatore sulla sua correttezza, veridicità e chiarezza: esso infatti è l’unico strumento
attraverso cui i soci ed i terzi (creditori, fornitori, finanziatori, clienti) possono raccogliere dati e formarsi
giudizi sulla situazione patrimoniale e finanziaria della società e sull’andamento economico della gestione;
insomma, sulla sua stabilità e solvibilità, suo patrimonio e della sua esposizione debitoria. Esso è dunque
una fonte di informazione contabile fondamentale della S.p.a.

 IL BILANCIO D’ESERCIZIO
Il bilancio è l’insieme dei documenti, redatti con periodicità annuale dall’organo amministrativo ed
approvati dall’assemblea (o dal consiglio di sorveglianza nel sistema dualistico), che deve rappresentare in
modo veritiero e corretto la situazione patrimoniale e finanziaria della società e il risultato economico
dell’esercizio (art.2423).
Esso si compone di 4 documenti: stato patrimoniale, conto economico, rendiconto finanziario e nota
integrativa  i primi tre sono documenti contabili, cioè sequenze di voci e dei relativi valori numerici,
mentre il quarto è un documento descrittivo ed illustrativo.
Lo stato patrimoniale è la rappresentazione di una situazione statica, in quanto enuncia le attività e le
passività che compongono il patrimonio della società alla chiusura dell’esercizio e ne indica il valore.
Il conto economico è invece la sintesi di un processo dinamico, in quanto riepiloga ricavi realizzati e costi
sostenuti nel corso dell’esercizio, dalla sua apertura alla sua chiusura, ed evidenzia così per sottrazione il
risultato, positivo o negativo, dello stesso.
Il rendiconto finanziario è un prospetto contabile che fotografa le disponibilità liquide della società all’inizio
e alla fine dell’esercizio e registra le variazioni di tali disponibilità prodottesi nell’arco del medesimo.
La nota integrativa infine contiene dati numerici e notizie in forma narrativa che completano o illustrano le
informazioni ricavabili dai primi due documenti.
Il bilancio d’esercizio assolve a due funzioni fondamentali e funge anche da parametro di riferimento per
l’applicazione di numerosi istituti. Essenziale è la funzione informativa  esso – accessibile a chiunque in
quanto depositato presso il registro delle imprese – si rivolge a tutti gli attori del mercato, e consente loro di
evincere dati patrimoniali e finanziari, anche attraverso il raffronto tra bilanci dei diversi esercizi, capace di
evidenziare lo sviluppo nel tempo della situazione societaria; nei confronti dei soci esso funge altresì da
rendiconto dell’operato degli amministratori. Altrettanto importante è anche la funzione estimativa dei
risultati dell’attività  è il bilancio che determina se il patrimonio netto sia maggiore (e di quanto) rispetto
al capitale (cioè alla dotazione di risorse vincolate) e quale sia dunque l’utile eventualmente distribuibile ai

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soci. A queste inoltre si affianca una non marginale funzione organizzativa  numerose disposizioni
richiamano i dati di bilancio come parametro di riferimento e limite per la legittimità di certe operazioni
(quali ad es. l’emissione di obbligazioni o l’acquisto di azioni proprie).
I canoni fondamentali a cui il bilancio deve ispirarsi sono enunciati nell’art.2423: esso va redatto con
chiarezza e la rappresentazione fornita deve essere veritiera e corretta.
Il principio di verità è il fulcro dell’intera disciplina, e perché ciò si realizzi è necessario che gli elementi
patrimoniali, i proventi ed i costi iscritti siano reali e completi e che ciascun elemento sia iscritto secondo il
suo valore reale. Sul piano valutativo va fatta però una precisazione: per ciascun bene infatti è delineabile
un range di valori tutti veri o, meglio, tutti realistici  ad es. la tecnologia su cui poggia un impianto sarà
superata tra 8 o 10 anni? Entro quale periodo, dunque, il valore del bene andrà progressivamente ridotto
(ammortizzato)? La precarietà finanziaria di un debitore fa stimare nel 40 o nel 50% il valore presumibile
del recupero del credito?  Il principio di verità è allora il dovere non di cercare un valore assolutamente ed
univocamente certo, che non esiste, ma di esprimere una valutazione sì discrezionale, ma oggettiva,
tecnicamente corretta, ragionevole e realistica.
Il principio di chiarezza impone un’esposizione ordinata, comprensibile, trasparente, dettagliata e fruibile
dei dati forniti. Esso è di rango pari a quello di verità, poiché la funzione del bilancio non è soltanto quella
di determinare un risultato numerico, ma principalmente quella di somministrare un certo tipo di
informazioni con un certo grado di approfondimento; dunque anche un bilancio vero è viziato (nullo) se non
è chiaro. La chiarezza è anzitutto garantita dalla struttura delineata dalla legge per le diverse parti del
bilancio, ma tale principio impone altresì si rispettare l’ordine delle voci e la collocazione delle
informazioni previsti dalla legge, per favorirne la lettura e la comparazione tra bilanci diversi.
Il principio di correttezza funge semplicemente da corollario dei precedenti. Un bilancio è vero, in quanto
adotti i corretti criteri contabili e le corrette regole della scienza aziendalistica: correttezza sotto questo
profilo equivale dunque ad adeguatezza tecnica. Un bilancio è chiaro, in quanto i dati siano forniti in modo
non fuorviante e trasparente: da questo punto di vista, correttezza equivale a buona fede oggettiva.
I 3 principi fondamentali hanno una rilevante valenza precettiva autonoma e sono strumento di
interpretazione della restante disciplina. Essi sono sovraordinati rispetto alle disposizioni attuative, al
punto che quando in casi eccezionali, l’applicazione di una di esse è incompatibile con la rappresentazione
veritiera e corretta, la disposizione non deve essere applicata. Tale sovraordinazione si manifesta anche nella
previsione per cui non occorre rispettare gli obblighi che esse stabiliscono quando la loro osservanza abbia
effetti irrilevanti al fine di dare una rappresentazione veritiera e corretta. Le norme attuative non pongono
dunque vincoli formali fini a se stessi e la loro deroga (che deve essere però allora esplicata e motivata nella
nota integrativa) è lecita se ininfluente: ad es. si potranno raggruppare alcune voci dello stato patrimoniale o
del conto economico se la loro presentazione non sia necessaria per garantire la chiarezza del documento.
L’art.2423-bis enuncia i cd principi tecnici di redazione, ossia i criteri tecnici generali cui ci si deve
attenere nella sua elaborazione. Essi rispettano per definizione le clausole generali dell’art.2423. La loro
inderogabilità non subisce pertanto alcuna eccezione. Essi sono inoltre sovraordinati rispetto alle
disposizioni attuative che li seguono: ne costituiscono il fondamento logico, ma hanno anche valenza
precettiva autonoma e fungono da criterio interpretativo delle stesse.
a) Il principio di prudenza incide sull’iscrivibilità degli elementi dell’attivo e del passivo e sulla loro
valutazione. Esso è alla base di importanti disposizioni attuative (come il criterio valutativo del costo
storico) e di altri fondamentali principi di redazione, come il principio di realizzazione (per cui si possono
indicare esclusivamente gli utili realizzati alla data della chiusura dell’esercizio, cioè soltanto se
giuridicamente conseguiti dalla società, non invece se sono meramente attesi o sperati, per quanto alte siano
le probabilità della loro futura ed effettiva realizzazione) o il principio di dissimmetria (per cui, viceversa, le
diminuzioni patrimoniali devono essere iscritte non solo al momento della loro concretizzazione ma anche
quando sono solo temute e probabili). Il principio di prudenza impone infine di scegliere, quando due
valutazioni presentano un pari grado di attendibilità, quella di valore inferiore.
b) Il principio di continuità dell’attività consiste in un principio essenziale per comprendere quale tipo di
verità il bilancio deve offrire: esso non è chiamato a rappresentare il valore corrente dell’azienda sociale o di
mercato dei singoli beni, o il loro valore di liquidazione, ma quello d’uso per la società, in vista della
prosecuzione dell’attività. Tale principio va rispettato comunque, anche quando la società abbia in progetto
di cedere in futuro un determinato cespite o di liquidare l’intero patrimonio (sciogliendosi).

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c) Il principio di competenza costituisce il criterio temporale di selezione degli elementi patrimoniali da


iscrivere. Il bilancio d’esercizio è una bilancio per competenza e non per cassa  ciò significa che le poste
attive e passive vanno iscritte nel bilancio relativo all’esercizio a cui sono giuridicamente ed
economicamente imputabili, indipendentemente dalla data dell’effettivo incasso o pagamento. Il principio
non è in contrasto con quello di realizzazione, poiché incremento “realizzato” non è quello incassato, ma
quello giuridicamente certo.
d) Il principio di immodificabilità dei criteri di valutazione impone la conservazione del medesimo
criterio da un esercizio all’altro, al fine di favorire la compatibilità tra i bilancio ed evitare che il passaggio
da una regola all’altra possa essere strumentalmente utilizzato per attuare inammissibili politiche di bilancio,
cioè per far risultare una situazione patrimoniale più conveniente. La variazione è tuttavia possibile
(facoltativa) in casi eccezionali, in ipotesi in cui cioè essa non è necessaria per il rispetto del principio di
verità (in tal caso sarebbe obbligatoria), ma opportuna, pur risultando l’applicazione di ciascuno dei criteri
opzionabili di per sé ancora coerente con il principio di verità.
e) Il principio di valutazione separata degli elementi eterogenei iscrivibili sotto la medesima voce
garantisce la corretta emersione di ogni diminuzione patrimoniale, che un accorpamento di cespiti diversi
potrebbe invece occultare: in altre parole, impedisce che una perdita di cui è obbligatoria l’indicazione possa
venire compensata da utili non iscrivibili.
f) Il principio della prevalenza della sostanza sulla forma esige di tenere conto della sostanza
dell’operazione o del contratto, nella rilevazione e presentazione delle voci al di là della relativa veste
giuridica formale. Nel leasing ad es. la proprietà del bene rimane in capo al concedente, mentre il
concessionario ne ha solo il godimento: secondo la forma giuridica esso andrebbe iscritto all’attivo
patrimoniale del primo, mentre al conto economico del secondo il canone andrebbe registrato di anno in
anno tra i costi  ma poiché la funzione di tale contratto generalmente è quella di finanziare l’acquisto del
bene da parte del concessionario, che acquisisce da subito la disponibilità del bene e si propone di riscattarne
la proprietà al termine del rapporto (leasing finanziario), il bene andrebbe subito iscritto all’attivo
patrimoniale del concessionario, al costo (corrispondente alla quota di capitale dei canoni e della rata finale),
bilanciato al passivo dal debito nei confronti del concedente (che si ridurrà di pagamento in pagamento),
mentre nel conto economico di ciascun esercizio andrebbe iscritta, come costo per oneri finanziari, la quota
interessi del canone annuo.
La redazione del bilancio è un’operazione che richiede perizia ed abilità tecniche. Da tempo organismi
rappresentativi del mondo professionale elaborano in proposito criteri guida e regole molto puntuali: i
principi contabili. Di questi insiemi di regole tecniche il principale è quello degli IAS/IFRS redatti
dall’IASB e periodicamente aggiornati e integrati. In linea generale, nessuno di questi corpi di regole ha, di
per sé, valore normativo: infatti ad essi non può mai farsi ricorso quando risultino in contrasto con la
disciplina normativa. Tuttavia essi hanno assunto valore normativo pieno nelle società quotate e in quelle
operanti nei settori creditizio e finanziario, per effetto del d.lgs.38/2005  queste sono oggi obbligate a
redigere il loro bilancio d’esercizio e quello consolidato in conformità ai principi contabili internazionali,
dunque non più secondo la disciplina codicistica. Il cambiamento è importante perché il ricorso frequente al
criterio del fair value comporta il perseguimento di funzioni diverse e la possibile formazione di plusvalenze
che la disciplina codicistica non consentirebbe di far emergere. Ogni altra società (purché superi le soglie
che consentirebbero la redazione del bilancio in forma abbreviata) ha facoltà di redigere il bilancio
d’esercizio secondo i principi contabili internazionali, abbandonando le regole codicistiche; però la scelta è
irrevocabile, salvo che non ricorrano circostanze eccezionali.
A) Lo schema dello stato patrimoniale è articolato in due blocchi contrapposti: l’attivo e il passivo.
All’attivo vanno iscritti gli elementi patrimoniali positivi, ripartiti per macrovoci e sottovoci.
Fondamentalmente esso distingue le immobilizzazioni e dall’attivo circolante (alla prima categoria
appartengono i beni utilizzati durevolmente dalla società, alla seconda appartengono invece le rimanenze e
le disponibilità finanziarie non immobilizzate).
Al passivo invece vanno iscritti gli elementi patrimoniali negativi, sempre per voci. Si tratta dunque dei
debiti e dei fondi per rischi e oneri, in cui confluiscono le passività certe, anche se non nella data in cui si
realizzeranno, e le passività probabili. Ma ad esso va iscritto anche il patrimonio netto della società,
costituito dalla differenza tra il valore dell’attivo e degli elementi negativi testé indicati  di per sé non
costituisce una componente negativa del patrimonio (ossia un’ulteriore esposizione della società nei

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confronti di terzi) tale da determinare una diminuzione dell’attività, dunque la sua iscrizione al passivo è
puramente convenzionale e consente la chiusura contabile del bilancio con un pareggio tra attivo e passivo.
L’art.2426 detta i criteri di valutazione degli elementi del patrimonio, suddivisi per tipi. È utile evidenziare i
principali, che rivelano come il legislatore attui i principi generali esposti precedentemente  le
immobilizzazioni sono iscritte al costo d’acquisto o di produzione; gli incrementi di produttività derivanti da
spese di sviluppo sono iscrivibili al costo, ma per prudenza devono essere mantenute in società riserve tali
da coprire il loro valore; i crediti devono essere iscritti tenendo conto del valore presumibile di
realizzazione; le rimanenze (scorte di magazzino) e le attività finanziarie circolanti vanno iscritte al costo o,
se minore, al presumibile valore di realizzazione, desunto dall’andamento del mercato.
B) Il conto economico è un conto a scalare  il cui risultato cioè si forma attraverso la somma algebrica
progressiva dei ricavi, dei costi, degli altri proventi ed oneri (tutti per voci) e determina il risultato
economico – positivo o negativo – dell’esercizio.
Le prime due macrovoci riguardano il valore della produzione e i costi della stessa. Anche questo
documento è elaborato secondo il criterio della competenza, per cui i ricavi e i costi dell’esercizio non
necessariamente coincidono con gli incassi e gli esborsi del medesimo. In secondo luogo, il conto
rappresenta il valore integrale della produzione e del periodo e non solo il valore della produzione venduta:
perciò ai ricavi va aggiunto l’eventuale incremento delle rimanenze di magazzino. Le altre macrovoci
riguardano i proventi e gli oneri diversi da quelli nascenti dall’esercizio dell’attività. Al risultato della
somma algebrica delle varie voci vanno detratte le imposte per ottenere l’utile netto (o perdita) dell’esercizio.
C) Il rendiconto finanziario enuncia anzitutto l’ammontare delle disponibilità liquide della società
all’inizio e alla fine dell’esercizio e la relativa composizione: denaro in cassa, saldo dei conti correnti e
depositi banca, postali, ecc. Documenta inoltre i flussi finanziari prodottisi complessivamente nell’arco
dell’esercizio stesso, ossia le variazioni positive o negative di tali disponibilità, disaggregate per categorie.
La rilevazione avviene dunque per cassa e non per competenza, arricchendo il pacchetto di informazioni
sulla situazione finanziaria della società con la rilevazione delle sue risorse liquide e del loro trend, perciò
fornendo dati sulla sua solvibilità e capacità di far fronte agli impegni a breve termine e di autofinanziarsi.
D) La nota integrativa infine raccoglie una nutrita serie di informazioni illustrative dei dati contabili o
complementari a questi, utili per conoscere meglio la situazione societaria. Le informazioni contenute in tale
documento sono in parte numeriche, in parte narrative, e sono analiticamente prescritte dalla legge, senza
escludere che il principio di chiarezza esiga in concreto l’inserimento di notizie ulteriori. Si tratta di dati
relativi alla composizione delle voci contabili, alle loro variazioni, ai criteri di valutazione applicati, nonché
a taluni aspetti concernenti la struttura finanziaria della società.
Per le società che non hanno emesso titoli quotati e che non superano certe soglie dimensionali, è prevista la
possibilità (non l’obbligo) di redigere il bilancio in forma abbreviata, cioè raggruppando talune voci e
omettendo certe informazioni.
Non appartiene al bilancio invece la relazione degli amministratori  un resoconto, in parte narrativo e in
parte numerico, contenente un’analisi della situazione della società e dell’andamento/risultato della gestione,
nel suo complesso e nei vari settori in cui essa ha operato: dunque una descrizione dello scenario attuale e
delle prospettive dell’attività. A questa indicazione generica di contenuto segue l’elencazione analitica di
una serie di informazioni che la relazione deve “in ogni caso” fornire, e tra le quali rileva l’evoluzione
prevedibile della gestione, oltre ad alcuni indicatori e aspetti finanziari. Anche qui la legge riproduce
principi analoghi a quelli fondamentali del bilancio e la relazione deve offrire un’analisi “fedele, equilibrata
ed esauriente, coerente con l’entità e la complessità degli affari sociali”  ma essa rimane esterna al
bilancio stesso, cosicché la violazione di tali precetti o l’omissione delle informazioni prescritte non lo rende
falso, scorretto o non chiaro; d’altra parte essa non è neppure oggetto di approvazione assembleare.
Per quanto riguarda il procedimento di formazione, il progetto di bilancio è redatto dall’organo gestorio,
necessariamente in forma collegiale (trattandosi di materia non delegabile) e successivamente viene
sottoposto all’organo di controllo e al soggetto incaricato della revisione legale, il primo dovendo redigere
una propria relazione con la descrizione dell’attività svolta e le osservazioni in ordine al progetto stesso, il
secondo dovendo formulare il proprio giudizio sulla corrispondenza del medesimo a verità e sul rispetto
della disciplina che presiede alla sua redazione. Infine è l’assemblea ordinaria (o il consiglio di
sorveglianza nel sistema dualistico) che approva il bilancio.

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Progetto e relazioni (compresa quella degli amministratori) sono depositate presso la sede sociale nei 15
giorni antecedenti l’assemblea, e durante la stessa ogni socio può chiedere informazioni e chiarimenti.
Secondo l’orientamento oggi dominante, l’assemblea può modificare il progetto sottoposto alla sua
approvazione  il bilancio infatti non è un atto attraverso cui si esprime l’autonomia degli amministratori
nella scelta delle strategie di gestione ma, al contrario, deve essere vero. Il potere modificativo
dell’assemblea, quale organo che rende il bilancio un atto della società, è dunque coerente con la sua natura.
Solo con l’approvazione il bilancio acquista la rilevanza giuridica come tale e deve essere depositato
presso il registro delle imprese, con le relazioni che lo corredano.
Come ogni altra delibera, anche questa può essere invalida e può dunque venire impugnata  i vizi
procedimentali ne determinano come di consueto l’annullabilità o la nullità. Rilevante è però l’ipotesi di
nullità  siccome il bilancio costituisce l’oggetto della delibera, se esso non è conforme alla disciplina che
presiede alla sua redazione, la delibera è nulla per contrarietà a norme imperative, e dunque per illiceità
dell’oggetto. Nulla è anzitutto la delibera che approva il bilancio se non è conforme a verità: ciò accade
quando si omettono elementi patrimoniali esistenti o se ne indicano di fittizi o si procede a valutazioni
contrarie ai criteri legali. Comunque nullità si ha non solo quando il risultato finale diverge dal vero, ma
anche quando le violazioni si compensano, portando ad un risultato corretto, ma frutto della somma
algebrica di poste scorrette. Nullo è anche il bilancio vero ma non conforme al principio di chiarezza,
questo è infatti pariordinato al principio di verità e correttezza.
La nullità può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse  in tal modo si evitano impugnative
meramente ostruzionistiche, frequenti in passato nella prassi, ad opera di azionisti di minoranza
spregiudicati che risalivano fino ai bilanci più vecchi nel tentativo di danneggiare il più possibile la società
con un’azione che, mettendone in discussione la situazione patrimoniale passata e presente, poteva avere
un’eco pericoloso nel mercato, minando il credito di cui la stessa società godeva.
L’attuale disciplina ha posto peraltro ulteriori filtri e sbarramenti  anzitutto un termine di decadenza
flessibile, ma più severo di quello generale: l’impugnazione non può essere proposta contro un bilancio,
dopo l’approvazione di quello successivo; inoltre un requisito di legittimazione, che altrimenti sarebbe
assente: se il revisore non ha formulato rilievi sul bilancio, l’impugnazione può essere proposta, se proviene
dai soci, solo da quelli che (anche congiuntamente) rappresentano almeno il 5% del capitale.

 GLI ALTRI BILANCI (I BILANCI STRAORDINARI E IL BILANCIO CONSOLIDATO)


Il bilancio d’esercizio non è il solo documento rappresentativo della condizione patrimoniale che la società
deve redigere: diverse altre norme impongono la predisposizione di documenti simili al verificarsi di
determinati accadimenti  ad es. in caso di perdita di capitale, all’assemblea deve essere sottoposta una
“relazione sulla situazione patrimoniale”; in caso di fusione, al progetto va corredata pure una “situazione
patrimoniale” attuale; durante la liquidazione, vanno redatti i bilanci annuali ed al termine il bilancio finale
di liquidazione. In altri casi la redazione di documenti di analogo tenore è presupposta  nella
trasformazione da società di persone in società di capitali, occorre determinare il capitale sulla base dei
valori del patrimonio netto; in caso di recesso di un socio, occorre stabilire la sua quota di liquidazione. In
tutti questi casi si parla di bilanci straordinari.
Il d.lgs.127/1991 impone inoltre alle società al vertice di un gruppo di redigere annualmente, unitamente al
bilancio d’esercizio, il bilancio consolidato di gruppo  si tratta di un documento, articolato come il
primo, finalizzato a far emergere la situazione patrimoniale e finanziaria ed il risultato economico del
gruppo, come fossero un’unica realtà imprenditoriale. L’obbligo di redazione grava sulla capogruppo.
Il contenuto del consolidato lo si ottiene riprendendo tutte le poste attive e passive delle società incluse
nell’area del consolidamento, con esclusione però delle partecipazioni delle controllanti nelle controllate
(altrimenti il documento duplicherebbe ogni valore) e dei rapporti infragruppo. Per quanto attiene ai criteri
di valutazione, ai principi ed alla struttura, il consolidato rispecchia le direttive imposte per il bilancio
d’esercizio. L’unica differenza riguarda il procedimento, perché il consolidato – sempre redatto dagli
amministratori, sottoposto a revisione legale e pubblicato nel registro delle imprese – non è oggetto di
approvazione assembleare  tale caratteristica incide sui rimedi attivabili nel caso in cui il suo contenuto
sia viziato: il TUF prevede per le società quotate (e probabilmente è estensibile anche alle altre) un’azione di
accertamento della non conformità alle norme che disciplinano i criteri di redazione, che però ha effetti solo
inter partes e non impone agli amministratori di redigere un nuovo bilancio consolidato.

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LE SOCIETÀ QUOTATE
Il fatto che le azioni di una S.p.a. siano quotate in un dato mercato assume significato per l’organizzazione
societaria sotto un duplice profilo. Anzitutto il ricorso al mercato dei capitali di rischio comporta la necessità
per il legislatore di tenere conto delle conseguenze della “apertura” in sé della società alla partecipazione di
una moltitudine di soci, in buona parte detentori di quote minime di capitale sociale, nonché dell’ordinaria
presenza all’interno della compagine sociale di risparmiatori anziché di soci spinti da un interesse
imprenditoriale. Ma vi è anche da tenere conto di un differente tipo di dinamiche che entra specificamente in
gioco con la quotazione delle azioni, le quali giustificano la previsione secondo cui le regole del codice in
tema di S.p.a. trovano applicazione alle società che dette azioni abbiano emesso solo “in quanto non sia
diversamente disposto da altre norme di questo codice o di leggi speciali”. Deve in proposito richiamarsi la
circostanza che la quotazione sancisce l’ingresso dei titoli azionari in un vero e proprio mercato, avente ad
oggetto prodotti di tipo finanziario: ossia in un luogo in cui è presente e viene costantemente sollecitata una
domanda continuativa, tipicamente riferibile a risparmiatori e investitori professionali, di remunerazione di
mezzi finanziari posseduti in surplus da tali medesimi soggetti. E ne segue che con la quotazione medesima
le S.p.a. “emittenti” dei titoli oggetto di negoziazione divengono a loro volta parti – dal lato dell’offerta – di
questo contesto e accettano pertanto di assoggettarsi alle logiche e alle leggi che ne sono tipiche. Questa
disciplina trova evidentemente il suo fulcro nell’attenzione normativa nei confronti del processo di
formazione dei prezzi, con l’interesse a che, in un mercato regolato, questi si possano determinare
correttamente: cioè riflettano il valore che in un dato momento storico possa essere ragionevolmente atteso
dagli operatori. Anche se a fianco di un tale interesse se ne pone un altro, di pari grado in quanto connesso
alla rilevanza sociale della materia finanziaria, relativo alla protezione della stabilità della domanda di
collocamento di investimenti e risparmi, contro i rischi di improvvise cadute, indotte da comportamenti
disattenti o azzardati dei suoi operatori.
Da qui la presenza, tra le regole dettate a proposito dei mercati regolamentati e dunque destinate ad
applicarsi alle società le cui azioni vengano collocate in quei contesti, di norme concernenti la condotta della
S.p.a. emittente e dei suoi singoli attori (soci di controllo e organi), ispirate dalla prospettiva della coerenza
con le regole sopra cennate, e delle quali il TUF si occupa. In particolare, con riguardo ai poteri della
Consob, la legge precisa che l’azione di controllo dell’autorità di vigilanza del mercato nei confronti degli
emittenti deve essere ispirata alla tutela degli investitori nonché all’efficienza e alla trasparenza del
mercato del controllo societario e del mercato dei capitali. Poi, ulteriore importante precetto è quello della
uguaglianza tra gli investitori  infatti “gli emittenti quotati assicurano il medesimo trattamento a tutti i
portatori degli strumenti finanziari quotati che si trovino in identiche condizioni, ed ai medesimi soggetti
sono garantiti gli strumenti e le informazioni necessari per l’esercizio dei loro diritti”.
Dunque, le società con azioni quotate, in quanto facenti ricorso al mercato del capitale di rischio, sono –
assieme a quelle con titoli “diffusi” – destinatarie delle regole codicistiche specificamente dedicate a questa
categoria; inoltre, in quanto accedenti a un mercato regolato dal TUF, sono soggette alle relative previsioni,
ispirate dalle logiche che sono state prima richiamate.
Ai fini dell’applicazione delle sole norme codicistiche cui rinvia l’art.2325-bis, è da evidenziare che la
disposizione opera un generico riferimento alla circostanza che le azioni concretamente emesse siano
quotate in “mercati regolamentati”  sembra dunque corretto concludere che le regole da essa indirizzate si
applicano a prescindere dalla localizzazione in Italia del mercato nel quale le azioni siano ammesse a
negoziazione. Diversamente accade invece per quanto riguarda il secondo punto di vista prima richiamato,
relativo alla selezione della fonte delle regole di mercato indotte dalla quotazione  a tale proposito,
sono assoggettate al TUF le sole “società italiane con azioni quotate in mercati regolamentati italiani o di
altri Paesi dell’UE”, in tal modo escludendosi dal generale ambito applicativo del provvedimento sia le
società straniere, non aventi sede in Italia, pure se i titoli dovessero essere ammessi alla quotazione in un
mercato italiano, sia le società italiane con titoli quotati in mercati di Paesi extracomunitari.
Ciò premesso, in ordine alle condizioni circa l’ammissione-esclusione-sospensione delle azioni del dato
mercato, occorre osservare le previsioni del regolamento di mercato elaborato dalla società che ne ha la
gestione. In Italia, quale società di gestione opera la Borsa Italiana S.p.a. Ai sensi del Regolamento dei
mercati organizzati e gestiti dalla Borsa Italiana S.p.a., la richiesta di quotazione deve essere preceduta da
una delibera dell’organo competente: nei 2 mesi successivi la società di gestione decide intorno
all’ammissione e ne dà quindi comunicazione all’emittente, alla Consob e al mercato.

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In ordine alla precisazione circa la competenza dell’organo societario che formula la domanda di
ammissione alle quotazioni, è discusso se questo debba essere identificato nell’assemblea ordinaria o, come
appare preferibile, all’assemblea straordinaria.
Il provvedimento di ammissione, eventualmente emesso dalla società di gestione del mercato, non è tuttavia
sufficiente affinché le azioni siano effettivamente negoziate nel dato mercato  regola fondamentale ed
ineludibile è quella della trasparenza dei fatti concernenti l’impresa, in quanto decisivi per la stessa concreta
determinazione dei prezzi di negoziazione. In coerenza con tale principio , in ordine alla trasparenza
nell’accesso al mercato da parte della società la legge stabilisce la necessità di un documento informativo
iniziale, definito prospetto di quotazione. Attori dell’offerta sono, oltre all’emittente, l’offerente nonché i
soggetti intermediari che si assumono il compito di raccogliere le sottoscrizioni o le dichiarazioni di
acquisto: tra essi deve essere scelto, e indicato nei documenti d’offerta, il cd responsabile al collocamento. Il
prospetto informativo, redatto tenendo conto dei modelli predisposti dalla Consob, è soggetto a una
preventiva comunicazione a questa autorità ai fini dell’approvazione, la quale deve essere espressa. Il
prospetto non può essere pubblicato prima che intervenga detta approvazione.
Una volta che l’emittente abbia avuto accesso al mercato, i suoi obblighi informativi non sono
definitivamente assolti, anzi. La società a quel punto diviene soggetta a una penetrante ulteriore disciplina di
trasparenza, concernente lo svolgimento dell’attività d’impresa nella pendenza della negoziazione dei
relativi titoli e fondamentalmente rivolta all’esigenza di garantire il tempestivo aggiornamento sui fatti
d’impresa  è dunque previsto l’obbligo di adeguarsi a un pervasivo sistema di produzione e
comunicazione di informazioni regolamentate individuate dalla legge, da diffondere e depositare presso la
Consob e la società di regolamentazione del mercato, nonché soggette, quanto a modalità e termini di
diffusione al pubblico, alle indicazioni dell’autorità di vigilanza, “ferma restando la necessità di
pubblicazione tramite mezzi di informazione sui giornali quotidiani nazionali”.
Quanto ai contenuti di tale disciplina di trasparenza, la legge prevede in primo luogo una puntuale e capillare
informazione del mercato sulle principali operazioni poste in essere dalle società emittenti, nonché sulle
vicende dell’organizzazione reputate rilevanti (i soggetti tenuti all’obbligo informativo possono proporre
reclamo nei confronti della Consob, facendo valere la circostanza che dalla comunicazione al pubblico delle
informazioni sopra menzionate possa derivare loro grave danno, e l’Autorità di vigilanza può entro 7 giorni
consentire l’omissione della comunicazione sempre che ciò non possa indurre in errore il pubblico su fatti e
circostanza essenziali). In secondo luogo, si prevede un obbligo di continua informazione del mercato in
relazione a fatti, stavolta non puntualmente individuati ex lege, ma destinati a essere identificati in concreto
sulla base della loro rilevanza a incidere sui valori dei titoli negoziati (cd informazioni price sensitive).
La disciplina concernente la struttura finanziaria della S.p.a. riceve significative integrazioni dalle
previsioni del TUF in tema di società con azioni quotate  occorre tenere presente che l’assetto tipico
dell’azionariato della società quotata è del tutto diverso rispetto a quello della S.p.a. “ordinaria”. In questa è
dato normale e fisiologico la prevalente caratterizzazione dei soci come soggetti “attivi”, a cui è riferibile un
interesse “imprenditoriale”. Nelle S.p.a. quotate il quadro è invece molto più articolato e complesso: anche
qui è frequente la presenza di azionisti “imprenditori”, aventi personale diretto interesse nell’oggetto sociale
e nell’indirizzare l’attività attraverso la detenzione di partecipazioni di controllo, tuttavia accanto a tali
soggetti vi sono anche professionisti del mondo finanziario, holding e banche di investimento, inoltre una
larga parte delle azioni è di regola nelle mani, in via diretta o indiretta, di piccoli o piccolissimi investitori,
spesso risparmiatori, per loro natura del tutto lontani dall’idea di prendere parte alla vita sociale (cd apatia
razionale) e unicamente interessati alla conoscenza dei risultati d’esercizio per poter riscuotere gli eventuali
dividendi nonché operare scelte di mantenimento o trasferimento dell’investimento dall’una all’altra sede.
Con l’obiettivo di favorire la cd contendibilità del controllo, evitando che i soci rilevanti riescano, con un
investimento relativamente ridotto, a cristallizzare una posizione di potere acquisita, mantenendola in futuro
anche in seguito a risultati negativi e così di fatto sottraendo il controllo al giudizio del mercato, viene
esclusa l’ammissibilità per le società quotate dell’emissione di azioni a voto plurimo. La norma del TUF
però precisa che “le azioni a voto plurimo emesse anteriormente all’inizio delle negoziazioni in un mercato
regolamentato mantengono le loro caratteristiche e diritti”. Altra eccezione al divieto di emissione di azioni
a voto plurimo è stabilita dal fatto che, salvo diversa previsione statutaria, le azioni in parola possono essere
emesse dalla società quotata in seguito a fusione con società con azioni non quotate a voto plurimo, “al fine
di mantenere inalterato il rapporto tra le varie categorie di azioni”.

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In accordo invece con la constatazione secondo cui è del tutto comune in una società con azioni quotate che
l’acquisto dei relativi titoli sia operato da parte o per conto di meri risparmiatori, soggetti del tutto
disinteressati alla partecipazione alla governance, è prevista un’articolata disciplina, intitolata alle cd azioni
di risparmio, categoria di “azioni prive del diritto di voto” e “dotate di particolari privilegi di natura
patrimoniale”. Compete allo statuto determinare il contenuto del privilegio, le condizioni, i limiti, le
modalità e i termini per il suo esercizio, nonché i diritti spettanti agli azionisti di risparmio in caso di
esclusione dalle negoziazioni delle azioni ordinarie o di risparmio.
La considerazione della frequente presenza, all’interno della compagine delle S.p.a. con azioni quotate, di
soci la cui condotta è ispirata da logiche di breve termine è vista dal legislatore con una certa
preoccupazione per il timore che gli amministratori, nell’intento di ingraziarsi i favori di tali soci, possano
farsi guidare dalla prospettiva di conseguire risultati immediati (si parla di short termism della gestione), da
poter appunto spendere come successo nei confronti di parte dell’azionariato: trascurando così la
realizzazione di importanti spese od attività necessarie all’impresa nella prospettiva di un suo rafforzamento
o della stessa sua sostenibilità. Nel TUF sono perciò previsti 2 istituti peculiari, ispirati all’idea di
incentivare la fidelizzazione del socio, in modo da garantire la rappresentanza nell’ambito dell’interesse
sociale di istanze di medio-lungo periodo, destinate ad attutire il riferito rischio di short termism.
La prima figura di cd loyalty shares è quella della maggiorazione del dividendo  sul piano patrimoniale
può essere riconosciuto via statuto agli azionisti una sorta di “premio fedeltà”, attribuendo il diritto a una
certa maggiorazione del dividendo, rispetto a quello spettante alle altre azioni, a coloro che posseggano i
titoli per un “periodo continuativo indicato nello statuto”, purché non inferiore ad 1 anno. L’assegnazione
di tale maggiorazione, che non può eccedere del 10% il comune dividendo, può peraltro essere subordinata a
condizioni ulteriori. L’istituto riguarda soltanto i piccoli risparmiatori, essendo espressamente previsto che
non si applica in caso di partecipazione superiore allo 0,5%.
Il secondo istituto, di maggiore rilievo rispetto al precedente, è la cd maggiorazione del voto  anche in tal
caso il legislatore appronta una sorta di “premio fedeltà” per l’investitore che sia stabilmente legato a una
data S.p.a., stavolta però non riguardante il profilo patrimoniale della partecipazione ma amministrativo:
sempre via statuto può disporsi di attribuire un voto maggiorato, “fino a un max di 2 voti”, per ogni azione
posseduta dallo stesso socio di una S.p.a. con azioni quotate per un periodo continuativo di 2 anni. Sul piano
della disciplina, per il corretto utilizzo dello strumento, il legislatore prevede che l’attribuzione e
l’accertamento del voto maggiorato vada prevista via statuto, stabilendosi la necessaria trasparenza di detta
attribuzione con la creazione di un apposito elenco nel quale iscrivere i soci che effettivamente abbiano
maturato i requisiti per usufruire del beneficio. Inoltre è specificato che la cessione inter vivos delle azioni
che conferiscono voto maggiorato comporta sempre la perdita della maggiorazione del voto. Infine, in
coerenza con la finalità della norma, di stimolare la partecipazione attiva da parte dei detentori di
investimenti duraturi, il voto maggiorato può essere riconosciuto, in caso di fusione o scissione, anche alle
azioni spettanti in cambio di quelle cui era attribuito voto maggiorato, e che lo statuto può disporre che la
maggiorazione si estenda alle azioni di nuova emissione sottoscritte, in sede di aumento di capitale a
pagamento, da chi sia già un “socio fedele” della S.p.a. emittente.
La considerazione, da parte del legislatore, degli interessi collegati al mercato produce una significativa
innovazione regolamentare nei riguardi del titolare della partecipazione sociale, prevedendosi a carico di
questi obblighi del tutto sconosciuti nel contesto delle S.p.a. non quotate ed essenzialmente consistenti in
penetranti doveri di trasparenza circa la sua posizione di socio. Occorre tener presente che il TUF si occupa
della materia in ragione dell’influenza che la trasparenza degli assetti proprietari collegati a una S.p.a. è in
grado di produrre nei riguardi della piena realizzazione delle istanze di trasparenza ed efficienza del cd
mercato di controllo. È chiaro infatti che solo dalla conoscenza dell’articolazione dell’azionariato quanti
operano sul mercato trarranno consapevolezza della esistenza e composizione di posizioni di comando in
relazione a una data S.p.a., nonché della relativa stabilità. Ed è pure evidente che sulle valutazioni e
decisioni di investimento/disinvestimento degli attori del mercato influirà anche la conoscenza delle
“dinamiche” interne a tali assetti, e dunque del comportamento tenuto dai soci di riferimento di una società
nelle occasioni sociali e del grado di armonia o conflittualità manifestatosi.
L’art.120 TUF stabilisce dunque modi e termini della trasparenza nei confronti della società e, tramite la
Consob, del mercato, delle partecipazioni considerate “rilevanti” dal legislatore, cioè suscettibili di fare
presumere un’attenzione dell’azionista alla governance sociale e un suo conseguente interesse a un

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comportamento attivo in tale ambito. La soglia fissata dalla legge oltre la quale si realizza la fattispecie
tipica di partecipazione rilevante è quella dell’acquisto di azioni “in misura superiore al 3% del capitale
sociale”; una volta superata tale percentuale scatta un obbligo di darne comunicazione alla società
partecipata e alla Consob. Uguale obbligo di comunicazione opera all’avvenuto superamento delle
percentuali del 5 – 10 – e successivi multipli fino al 30%, nonché al raggiungimento delle ulteriori soglie del
50 – 66,6 – 90%. Inoltre, un obbligo di comunicazione di segno opposto scatta là dove la partecipazione si
riduca al di sotto delle menzionate soglie. È da sottolineare che la comunicazione va inviata direttamente
alla società quotata e alla Consob, mentre è a cura di quest’ultima che avviene la comunicazione al mercato.
Per l’ipotesi di inadempimento, oltre a una sanzione amministrativa è stabilita una sanzione di tipo civilistico,
atteso che in caso di omessa comunicazione il voto “inerente alle azioni quotate o agli strumenti finanziari”
a cui l’omissione è relativa è sospeso. In caso di inosservanza di tale disposizione, inoltre, se il voto è stato
determinante per la deliberazione, questa è annullabile e l’impugnativa può essere promossa anche dalla
Consob entro 6 mesi dalla deliberazione o dall’iscrizione della stessa nel registro delle imprese.
Sempre in tema di trasparenza degli assetti proprietari, il TUF si preoccupa anche di evitare che si diano
partecipazioni reciproche che eccedano le misure del 3% (per le PMI) e del 5% (per le altre società): ciò,
per impedire la sottrazione al gioco del mercato e la strumentalizzazione di quote partecipative, per effetto di
impliciti accordi tra gruppi di comando intesi al mantenimento o rafforzamento di posizioni di potere  in
caso di partecipazioni reciproche eccedenti tali limiti, la società che ha superato il limite successivamente
non può esercitare il diritto di voto inerente alle azioni eccedenti e deve alienarle entro 12 mesi dalla data in
cui ha superato il limite. In caso di mancata alienazione entro il termine previsto la sospensione del diritto di
voto si estende all’intera partecipazione.
Tassello importante della disciplina degli assetti proprietari delle società quotate è costituito dalla
regolamentazione dei patti parasociali  si tratta di evidenziare come tale fattispecie assuma una speciale
rilevanza in questo ambito, data l’attenzione dedicata dal legislatore agli assetti proprietari. Proprio in
ragione di tale incidenza, la disciplina del TUF dei patti parasociali si distingue rispetto a quella inserita nel
codice civile, soprattutto in quanto maggiormente improntata alla previsione di obblighi pubblicitari a carico
dei paciscenti, qui molto più intensi di quelli stabiliti per le comuni S.p.a., nonché per la fissazione di limiti
più stringenti in relazione alla durata dei patti in parola.
Quanto agli obblighi di trasparenza, è stabilito che gli accordi parasociali tra soggetti che congiuntamente
raggiungano le soglie di rilevanza ex art.120 TUF, devono essere: comunicati alla Consob, pubblicati per
estratto nella stampa quotidiana, depositati presso il registro delle imprese del luogo dove la società ha la sua
sede legale ed infine comunicati alla società con azioni quotate  l’importanza che la legge riconosce a tale
pubblicità risulta evidente anzitutto considerando l’urgenza con la quale ne richiede l’adempimento: esso
deve avvenire entro soli 5 giorni dalla stipulazione!! Soprattutto, però, questa rilevanza può adeguatamente
apprezzarsi tenendo presente la sanzione che la legge ricollega alla mancata ottemperanza agli obblighi in
parola: un tale inadempimento produce la radicale nullità dei patti stipulati!!
In ordine ai limiti temporali del rapporto parasociale, è disposto che i patti “non possano avere durata
superiore a 3 anni e si intendono stipulati per tale durata anche se le parti hanno previsto un termine
maggiore”. È espressamente precisato, tuttavia, che detti accordo “sono rinnovabili alla scadenza”. Ove
siano invece stipulati a tempo indeterminato, è ex lege importo un diritto di recesso, esercitabile con un
preavviso di 6 mesi.
L’o.p.a., ossia l’offerta pubblica di acquisto o scambio, consiste in ogni offerta, invito a offrire o
messaggio promozionale, in qualsiasi forma effettuati, finalizzato all’acquisto o allo scambio di prodotti
finanziari e rivolti a un numero di soggetti e di ammontare complessivo superiori a quelli indicati nel TUF
all’art.100. La specifica rilevanza dell’o.p.a. nei confronti della disciplina delle S.p.a. si produce solo
allorché l’offerta abbia a suo specifico oggetto azioni quotate in un mercato regolamentato: in tale occasione
il legislatore se ne occupa per fare in modo che la vicenda possa svolgersi ed essere adeguatamente valutata
dall’investitore tenendo presente la possibile sua incidenza sul piano del mercato del controllo.
Al riguardo rilevano gli istituti della cd passivity rule e dell’o.p.a. obbligatoria.
Il primo dei due istituti ha come presupposto la diretta considerazione, da parte del legislatore, del mercato
del controllo, e dunque della contendibilità della proprietà dell’impresa: contendibilità la cui efficiente
concreta realizzazione è potenzialmente stimolo per un governo dell’impresa che sia a sua volta efficiente.
La preoccupazione sentita dalla legge è quella che il tentativo di assunzione del controllo di una società per

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il tramite di un’offerta di acquisto delle relative azioni avente a oggetto un numero di titoli sufficiente al
raggiungimento della maggioranza dei voti possa essere ostacolato o impedito, dal socio che al momento
dell’o.p.a. detenga la partecipazione di controllo, con strumenti di vario genere (ad es. acquisto di azioni
proprie) idonei a soddisfare l’intento difensivo del gruppo di comando ma magari non in linea con un
genuino interesse sociale. L’idea del legislatore è quella di disporre senz’altro una regola di passività della
società bersaglio in pendenza di o.p.a., cioè quella della proibizione delle citate manovre contrarie al
successo dell’o.p.a., nell’ottica del menzionato favor legislativo verso la contendibilità del controllo  il
TUF prevede che “le società italiane quotate i cui titoli sono oggetto dell’offerta si astengono dal compiere
atti od operazioni che possono contrastare il conseguimento degli obiettivi dell’offerta” (si pensi alla
decisione di dismettere un ramo d’azienda strategico e reputato fondamentale dall’offerente).
Ma non solo, il TUF prevede anche che:
a) la regola di passività vale solo là dove ne sia prevista la deroga via statuto, della quale è peraltro previsto
obbligo di comunicazione alla Consob;
b) l’autonomia statutaria può prevedere di rafforzare la regola di passività affiancando ad essa una regola di
“neutralizzazione”, il cui principale contenuto consiste nello stabilire l’inefficacia, nel periodo di
pendenza dell’offerta, di eventuali limitazioni al trasferimento di titoli previste nello statuto o limitazioni
al diritto di voto previste nello statuto o nei patti parasociali, nonché nella temporanea inefficacia di
eventuali clausole prevedenti azioni a voto plurimo o voto maggiorato;
c) vige una “clausola di reciprocità” tale per cui le regole di sfavore per le difese da o.p.a. non si applicano
all’ipotesi di offerenti provenienti da Paesi stranieri, e in particolare in caso di offerta pubblica promossa
da chi non sia soggetto a tali disposizioni ovvero a disposizioni equivalenti.
Per quanto riguarda invece l’o.p.a. obbligatoria, vi è da dire che l’istituto trova fondamento nell’idea della
rilevanza che il mutamento del controllo in una società quotata, potenzialmente conseguente a un’o.p.a.,
assume dal punto di vista degli azionisti esterni alla maggioranza. Dall’esercizio dei poteri di controllo
discende infatti la definizione della politica aziendale e delle scelte strategiche operate dalla società, a ciò
legandosi di conseguenza precise attese reddituali nonché riflessi di altro genere, potenzialmente rilevanti
per l’investitore. Si comprende così come la configurazione di una nuova stabile maggioranza in una società
quotata comporta la possibilità che all’attività sociale sia impresso un nuovo corso sotto i profili indicati, sia
che si assista a una vera e propria sostituzione, nella posizione di controllo, di un imprenditore a un altro, sia
che si passi da una situazione di proprietà frammentata al formarsi delle condizioni di una direzione unitaria
da parte di un individuato gruppo di comando. Innanzi a un tale scenario l’investitore è esposto al rischio di
dover sopportare un duplice pregiudizio: da un lato può accadere che il nuovo assetto generi un
assestamento verso il basso del prezzo della società partecipata, il cui contraccolpo nel patrimonio
dell’investitore non è evitabile con un’ordinaria cessione sul mercato delle azioni successiva al mutamento
del controllo, la quale registrerebbe appunto detto ribassamento dei corsi; dall’altro lato l’acquisizione del
controllo normalmente comporta il pagamento di un premio, evidentemente corrispondente al valore latente
dei titoli negoziati, che verrebbe a essere lucrato unicamente da coloro che hanno ceduto la partecipazione al
nuovo acquirente, in contrasto col principio della distribuzione proporzionale tra gli investitori del
medesimo emittente del valore di mercato dei relativi titoli. Per impedire che tali pregiudizi si verifichino, il
nostro ordinamento prevede una regola di responsabilizzazione dell’acquirente, imponendogli l’obbligo di
estendere all’intera categoria degli investitori della società emittente la possibilità di vendere i titoli in essa
posseduti. Il legislatore prevede 2 diverse ipotesi di o.p.a. obbligatoria: l’o.p.a. successiva e l’o.p.a.
incrementale. Ad esse si affianca l’istituto dell’obbligo di acquisto cd residuale, sempre incombente su
dati soggetti in dipendenza del possesso di una determinata misura percentuale di titoli in una società quotata,
ma non comportante la necessità dell’emissione di un’offerta la pubblico. Tra queste fattispecie la più
importante è l’o.p.a. totalitaria successiva  chiunque, a seguito di acquisti ovvero di maggiorazione dei
diritti di voto, venga a detenere una partecipazione superiore a una soglia predeterminata, “promuove
un’offerta pubblica di acquisto rivolta a tutti i possessori di titoli sulla totalità dei titoli ammessi alla
negoziazione in un mercato regolamentato in loro possesso”. Perché scatti l’obbligo in parola è sufficiente
per legge l’acquisto di una partecipazione pari al 25% del capitale della società dei cui titoli si discute. Per
“partecipazione” deve intendersi specificamente una quota di titoli attributivi del diritto di voto nelle
deliberazioni assembleari riguardanti nomina e revoca degli amministratori o del consiglio di sorveglianza.
Solo il possesso di titoli aventi tali caratteristiche, nella misura indicata, è in grado di influenzare l’attività di
una società, con le conseguenze prima evidenziate. Operato l’acquisto della percentuale rilevante, sorge

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l’obbligo di offrire pubblicamente l’acquisto della totalità degli ulteriori titoli in circolazione  la legge
prevede la pubblicazione di un’offerta: nel termine max di 20 giorni dalla data di acquisto, avente ad oggetto
ciascuna categoria dei titoli emessi dalla società in questione, a un prezzo determinato ex lege. Infatti il TUF
prevede che “l’offerta sia promossa a un prezzo non inferiore a quello più elevato pagato dall’offerente e da
persone che agiscono di concerto con il medesimo, nei 12 mesi anteriori alla comunicazione, per acquisti di
titoli della medesima categoria”. Oltre che per l’ipotesi di acquisto di una partecipazione di controllo in
società con titoli quotati la legge prevede un obbligo di o.p.a. totalitaria cd incrementale, per il caso di
successivo aumento della partecipazione originariamente acquisita  là dove un soggetto già possieda una
quota superiore al 30% e consolidi significativamente tale posizione. L’obbligo di offerta totalitaria scatta
nel caso di acquisto, anche indiretto, di più del 5% del capitale rappresentato da titoli che rappresentano
diritti di voto, complessivamente realizzato in un periodo di 12 mesi. Infine il TUF prevede anche l’istituto
dell’obbligo di acquisto residuale  per tutelare i piccoli investitori contro il rischio di dover fronteggiare
una situazione di scarsa “liquidità” dell’investimento, cioè di difficoltà di cessione delle azioni nonché di
inadeguato funzionamento del meccanismo di formazione dei prezzi dei titoli derivante da una rarefazione
degli scambi di mercato, il legislatore impone a chi abbia acquistato una partecipazione almeno pari al 95%
del capitale rappresentato in titoli di una società quotata “l’obbligo di acquistare i restanti titoli da chi ne
faccia richiesta”. Al raggiungimento invece di una partecipazione pari al 90% del capitale con diritto di voto
l’obbligo di acquisto residuale concernente la totalità dei titoli della categoria interessata sussiste solo se il
detentore della partecipazione in discorso “non ripristina entro 90 giorni un flottante sufficiente ad assicurare
il regolare andamento delle negoziazioni”.
Infine, il TUF prevede una disciplina speciale pure in tema di organi delle società con azioni quotate, per lo
più riguardante non la previsione di istituti nuovi rispetto a quelli stabiliti nel codice civile, bensì regole in
più punti integrative della normativa generale in materia.
(A) Con riguardo all’integrazione rispetto alla disciplina codicistica dell’assemblea di S.p.a., per l’ipotesi di
società con azioni quotate le norme stabiliscono importanti deroghe all’ordinario procedimento assembleare,
ispirate all’intento di rafforzare i diritti dei soci e così rendere effettiva la concreta possibilità di
un’incidenza degli stessi soggetti nella vita sociale.
- Anzitutto va evidenziato il rafforzamento del diritto di informazione degli azionisti, operato attraverso
l’ampliamento dei termini dell’avviso di convocazione (40 invece che 30 giorni) e del relativi contenuti,
nonché l’imposizione di una relazione dettagliata intorno alle materie all’ordine del giorno.
- Poi deve rimarcarsi come venga facilitata la possibilità del socio di minoranza di utilizzare l’occasione
assembleare per sollecitare il pronunciamento dell’amministrazione e degli altri soci su profili considerati
rilevanti o urgenti; è riconosciuto a tutti gli azionisti il diritto di formulare domande e richiedere
chiarimenti in ordine alle materie all’o.d.g. nonché quello, attribuito a coloro che rappresentino almeno 1/40
del capitale sociale, di richiedere l’integrazione dell’o.d.g. con nuovi argomenti o di presentare sugli
argomenti comunicati nuove proposte di deliberazione.
- Infine è favorita la possibilità di soci rilevanti di partecipare attivamente all’assemblea e raccogliere
adesioni su posizioni competitive rispetto a quelle espresse da altri; infatti da un lato le speciali regole sulla
legittimazione del socio in assemblea facilitano la presenza in assemblea degli investitori istituzionali e il
mantenimento di voti a ridosso dell’occasione assembleare, dall’altro consentono a soci di minoranza di
raccogliere e aggregare consenso proveniente dalla vasta platea degli azionisti “passivi” e così contrapporsi
in modo potenzialmente significativo alle posizioni dei soci di controllo in relazione a temi ritenuti
fondamentali o strategici per la vita della società e la tutela degli investimenti effettuati.
Perciò l’intervento legislativo relativo all’assemblea nelle società quotate è rivolto a configurare il ruolo di
tale organo non tanto quale strumento di ponderazione collegiale delle scelte organizzative da adottare, bensì
come luogo di delineazione e aperta adozione, anche tra più alternative poste sul tavolo dai soci, delle linee
politico-strategiche seguite dal gruppo di controllo e del processo con cui vi si è giunti. E tutto ciò serve
affinché una tale vicenda sia sottoposta al giudizio esterno degli investitori, i quali valuteranno se optare (se
sono preesistenti azionisti) per il mantenimento o la modifica delle proprie precedenti scelte di investimento,
ovvero (se sono soggetti esterni alla compagine sociale) se investire nella S.p.a.
(B) Comunque è la disciplina dettata in tema di amministrazione e controllo delle S.p.a. quotate che può
dirsi rappresentare il cuore della cd corporate governance. Per comprendere adeguatamente origini e
fondamento di tale regime, va richiamata ancora la circostanza della polverizzazione dell’azionariato, che è

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di ostacolo al funzionamento di quel meccanismo di spontaneo monitoraggio dei soci sull’andamento e i


risultati della gestione ordinariamente presente nelle organizzazioni societarie: un meccanismo che, poiché
viene attivato là dove si instaura una relazione “proprietaria” tra socio e impresa, presuppone la detenzione
del primo di quote proporzionalmente significative del capitale. Ne segue la parallela entrata in crisi dello
strumento giuridico tipico di allineamento degli amministratori a criteri di lealtà e diligenza, la relazione
fiduciaria: venendo a mancare i soggetti cui è ordinariamente riferibile l’interesse (e l’onere) di sollecitare il
rispetto di quei criteri, quali oggetto a loro volta appunto di specifici doveri fiduciari, e agire per il concreto
relativo adempimento. Su tale sfondo l’intervento normativo di corporate governance in tema di società
quotate si giustifica in ragione della constatazione che la riferita crisi del tradizionale meccanismo fiduciario
non è adeguatamente compensata dall’azione “naturale” del mercato.
- L’innesto operato nella disciplina degli amministratori, da parte del TUF, delle norme in tema di nomina
dei membri dell’organo di gestione devono leggersi come regole attuative del metodo della prevenzione,
preordinate all’effettivo rispetto dei canoni di diligenza, lealtà e correttezza nella gestione. A tali principi
corrispondono: l’imperativa adozione, per la designazione dei membri del consiglio, del criterio del voto di
lista, e per il tramite di questo la nomina di rappresentanti delle minoranze; l’integrazione dell’organo di
gestione con uno o più amministratori indipendenti, la cui missione fondamentale è chiaramente quella di
sorvegliare affinché le decisioni consiliari non siano guidate dalla considerazione di interessi personali ai
gestori, in conflitto con quello della società; l’inderogabile rispetto, nella selezione degli amministratori, di
un criterio che assicuri l’equilibrio tra i generi, e con esso una considerazione di diversi angoli visuali
nell’assunzione delle decisioni e dunque una più attenta ponderazione delle stesse. A ciò si affianca la
regola per la quale i soggetti che svolgono funzioni di amministrazione e direzione “devono possedere i
requisiti di onorabilità stabiliti per i membri degli organi di controllo”.
- In relazione agli organi di controllo, è nella stessa logica di un’accentuata attenzione legislativa per una
azione preventiva che vanno lette le regole del TUF che specificano i requisiti di indipendenza dei membri
di detti organi e ne curano con particolare rigore la professionalità  in particolare è sancita la regola
dell’esistenza di limiti al cumulo degli incarichi dei soggetti in parola. Soprattutto però il TUF pare
assegnare a sindaci (e agli analoghi organi di controllo nei diversi sistemi dualistico e monistico) una
posizione di responsabilità del tutto particolare nella struttura corporativa: fornire ai sindaci, prima ancora
che gli strumenti per la censura di violazioni gestorie già compiute, le basi per individuare le violazioni
potenziali dei principi di legalità e correttezza. In tale direzione rileva senz’altro: la speciale disciplina dei
flussi informativi, con la espressa previsione di una comunicazione almeno trimestrale dagli amministratori
ai sindaci, avente ad oggetto l’attività svolta e le operazioni di maggior rilievo; gli estesi poteri di iniziativa
rispetto all’azione degli altri organi sociali, con la generale possibilità di convocazione dell’assemblea, del
consiglio di amministrazione, del comitato esecutivo; il rafforzamento dei poteri ispettivi, con la possibilità
di “avvalersi dei dipendenti della società”; soprattutto, l’attribuzione al collegio sindacale della veste di
Comitato per il controllo interno e la revisione contabile, con compiti di supervisione e direzione nei
confronti dei soggetti preposti al controllo interno, esplicitamente tenuti a riferire “anche al collegio
sindacale di propria iniziativa o su richiesta anche di uno solo dei sindaci”, nonché col ruolo di organo
sociale di riferimento nei confronti dei controllori esterni, quali i revisori o la Consob.
- Sempre coerente col quadro appena rappresentato la disciplina speciale sul controllo contabile,
centralmente affidato a società di revisione. Vanno ricordate in proposito le norme che forniscono agli
investitori una protezione rafforzata contro il pericolo che l’effettività delle verifiche contabili sia inficiata
dalla presenza di conflitti d’interessi: si spiega così la regola della necessaria rotazione degli incarichi, con
la previsione di un intervallo tra l’uno e l’altro di un periodo di almeno 3 anni; nonché quella del divieto di
porta girevole, preclusiva sia dell’affidamento di cariche sociali a soggetti che hanno precedentemente
preso parte all’attività di revisione nella S.p.a. delle cui cariche si tratta, sia all’inverso dell’assunzione di
compiti di revisione da parte di soggetti che siano stati in precedenza membri degli organi della società
revisionata. È certo un importante completamento poi, di tale disciplina, la figura del dirigente preposto
alla redazione dei documenti contabili societari.
(C) Un ruolo fondamentale, infine, nella definizione dell’impianto organizzativo e nella configurazione del
concreto assetto di corporate governance è affidato all’autonomia privata. Nello schema tipico, delineato
dalla legge, rimangono ampi spazi di decisione, consegnati ai privati dalla normativa generale italiana e dal
regime europeo, il quale concede campo di azione allo svolgersi di una concorrenza tra imprese che si
delinea, al contempo, sotto il profilo in questione, come competizione tra offerte che aspirano a farsi

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preferire anche in ragione di propri autonomi “presidi di sostenibilità”, indicati al mercato. La norma di
chiusura da questo punto di vista può considerarsi quella sulla pubblicazione della Relazione sul governo
societario e sugli assetti proprietari, la quale impone di affidare al mercato il giudizio circa la concreta
formula organizzativa adottata dalla S.p.a. quotata e le scelte sulle regole di governance che la compongono.
Tra queste scelte, assume poi importanza quella relativa ai codici di autodisciplina, cui è dato importante
rilievo dalla legge con lo stabilire che, non solo deve essere resa trasparente dalla S.p.a. l’adesione ai
medesimi, ma pure che la mancata adozione di singole disposizioni di detti codici deve essere motivata.

La Consob (approfondimento a parte)


La Commissione Nazionale per la Società e la Borsa è una persona giuridica di diritto pubblico, che gode di
piena autonomia ed ha sede a Roma ed una sede secondaria operativa a Milano.
Le funzioni della Consob si sono progressivamente ampliate nel tempo: nata come organo di controllo della
borsa e delle società che in borsa collocano i propri titoli, è divenuta successivamente organo di controllo
dell’intero mercato mobiliare e dei soggetti che operano nello stesso.
La Consob ha prescritto specifici obblighi d’informazione preventiva del pubblico per una serie di
operazioni straordinarie come l’acquisto e la cessione di pacchetti azionari, l’acquisto e la vendita di azioni
proprie, la fusione e le scissioni, etc. Ha inoltre prescritto che siano messi tempestivamente a disposizione
del pubblico i documenti contabili periodici quali bilancio d’esercizio e la relazione finanziaria semestrale
degli amministratori.
La Consob è poi investita di ampi poteri di indagine e di intervento al fine di vigilare sulla correttezza delle
informazioni fornite. Le informazioni di cui è prescritta la pubblicazione devono essere depositate presso la
Consob e la società di gestione del mercato dove avviene la quotazione.

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LA SOCIETÀ A RESPONSABILITÀ LIMITATA


LA STRUTTURA FORMALE

Tipologia, costituzione e modifiche all’atto costitutivo


La S.r.l. risulta uno dei tipi societari più diffusi nella prassi: si stima che il numero di S.r.l. esistenti
rappresenti circa il 50% di tutte le società costituite nel nostro Paese  questa circostanza dipende
certamente dalla sua adattabilità e dalla sua utilizzabilità sia in contesti molto ristretti (come nelle società
familiari) che più ampi (come nei gruppi di società). Lo stesso è da dirsi per quanto riguarda il dato
dimensionale, posto che le S.r.l. – pur pensate per le piccole imprese – possono essere utilizzate anche per
imprese medio-grandi e questo è reso possibile dalla stessa normativa che non prevede tetti massimi riferiti
al capitale sociale (tranne, come si vedrà, per le S.r.l. semplificate e a capitale marginale) o altri parametri in
grado di delimitare l’area di applicazione del modello.
Prima della riforma del 2003, la S.r.l. era disciplinata prevalentemente da norme dedicate alle S.p.a., cui il
codice civile del ’42 per l’appunto rinviava. Questi richiami avevano suscitato però non pochi problemi, dati
i diversi interessi e le diverse esigenze che i due tipi societari possono presentare: la S.r.l. sembrava
necessitare di una normativa specifica volta a garantire uno spazio più ampio per l’autonomia privata e una
maggiore attenzione alla persona del socio rispetto alla S.p.a., caratterizzata di norma da una vasta
compagine societaria, da un esteso ricorso al mercato dei capitali di credito e di rischio e dalla necessità di
un maggior numero di norme imperative. La riforma del 2003, nell’introdurre un’articolata
regolamentazione, ha avuto come obiettivo primario quello di rendere la S.r.l. un tipo autonomo.
L’attuale disciplina è volta in primo luogo ad enfatizzare la figura dei singoli soci nell’ambito della società
e ad attribuire ai medesimi ampi poteri. Si muove dal presupposto, infatti, che i soci di S.r.l. siano di norma
un numero limitato e, soprattutto, siano interessati a partecipare attivamente alla vita della società (cd soci
imprenditori)  si comprendono così quelle norme, di cui si parlerà successivamente, che impediscono che
le partecipazioni dei soci siano rappresentate da azioni e possano costituire oggetto di offerta al pubblico di
prodotti finanziari e, contestualmente, attribuiscono ai singoli soci ampi poteri di controllo e di “ingerenza”
nella gestione societaria, non senza conseguenze sotto il profilo risarcitorio.
In secondo luogo, le regole attuali accentuano il ruolo dell’autonomia negoziale e dei rapporti contrattuali
tra i soci medesimi. L’ampia autonomia riconosciuta alle parti trova solo dei limiti in alcune norme
imperative poste principalmente a tutela dei terzi, in considerazione del fatto che la S.r.l. è pur sempre dotata
di autonomia patrimoniale perfetta.
Come anticipato, la S.r.l. è caratterizzata da un’ampia flessibilità derivante dalla presenza di una molteplicità
di norme dispositive che lasciano all’autonomia negoziale la possibilità di prospettare, anche sotto il profilo
organizzativo, soluzioni differenti e dalla rilevanza centrale assegnata proprio alla persona del socio. Così
che la S.r.l., pur restando una società di capitali e mantenendo un regime di autonomia patrimoniale perfetta,
può in diversi casi presentare diversi elementi personalistici ed avvicinarsi alle società di persone: si pensi
alla facoltà di adottare i sistemi di amministrazione disgiuntivi o congiuntivi, alla possibilità di introdurre
nell’atto costitutivo delle clausole di esclusione per giusta causa, alla eventualità di conferimenti di
prestazioni d’opera o di servizi. Ed è proprio questa possibile vicinanza con le società di persone che può
rendere, in alcuni casi, difficile per l’interprete accertare la disciplina applicabile in casi di lacune, poiché la
(pur ampia) disciplina prevista in alcuni casi non si occupa di aspetti anche rilevanti. Così, in presenza di
un’accertata lacuna, non appare corretto rinviare in ogni caso alle norme sulla S.p.a., essendo a volte più
opportuno, anche in considerazione dell’assetto concreto che è stato dato dalle parti, rivolgersi alla disciplina
in essere per le società di persone.
Infine occorre ricordare come, anche dopo la riforma del 2003, il legislatore sia nuovamente intervenuto in
tema di S.r.l. per facilitare la costituzione di questo tipo di società e di incentivarne l’utilizzo nel nostro
ordinamento, introducendo delle varianti al modello cd base, cercando soprattutto di semplificarne il
procedimento costitutivo e/o la struttura finanziaria, alleggerendo l’onere economico per i soci fondatori.
È infine necessario sottolineare che il legislatore ha deciso, nel 2017, di estendere alcune delle novità
normative a tutte le PMI, al fine di permettere a queste un ampio ricorso al mercato del capitale di rischio. Si

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tratta della possibilità di emettere categorie di quote, di offrire le partecipazioni al pubblico anche attraverso
portali a ciò dedicati e di effettuare operazioni sulle proprie quote, qualora queste siano compiute in
attuazione di piani di incentivazione.
Per quanto riguarda la costituzione, la S.r.l. può essere costituita unicamente mediante costituzione
simultanea, a differenza della S.p.a. per la quale è possibile anche una costituzione attraverso pubblica
sottoscrizione  questo rispecchia quanto sopra indicato in merito alla ridotta capacità della S.r.l. di
indirizzarsi verso un’ampia compagine sociale mediante appello al pubblico risparmio.
Ai sensi dell’art.2463, la S.r.l. può essere costituita con contratto o con atto unilaterale: è infatti permessa
la costituzione di una S.r.l. unipersonale, quindi con un unico socio (sia esso persona fisica o persona
giuridica). In tal caso però, dato che la possibilità che l’unicità del socio rappresenti un aspetto negativo
soprattutto per i terzi (considerata la mancanza di controllo interno), il legislatore prevede alcune
disposizioni volte principalmente a tutelare i creditori  si tratta dei principi già visti in materia di S.p.a.:
- gli amministratori (o il socio stesso), quando l’intera partecipazione appartiene ad un solo socio o muta la
persona dell’unico socio, devono depositare per l’iscrizione nel registro delle imprese entro 30 giorni dalla
avvenuta variazione della compagine sociale una dichiarazione contenente tutte le generalità dello stesso;
- allo scopo di tutelare l’integrità del capitale sociale, si richiede che, in presenza di un unico socio fondatore,
sia versato subito l’intero ammontare del capitale sottoscritto, mentre, se la pluralità dei soci viene meno
successivamente, i versamenti ancora dovuti devono essere effettuati entro 90 giorni da tale evento.
In caso di violazione di tali obblighi, come per la S.p.a., il socio risponde personalmente ed illimitatamente
delle obbligazioni sociali sorte nel periodo in cui è stato unico il socio, sempre che la società risulti
insolvente. È questa l’unica deroga prevista alla generale regola della responsabilità limitata: regola in forza
della quale per le obbligazioni sociali risponde soltanto la società con il suo patrimonio.
Per dare vita ad una S.r.l. occorre, innanzitutto, redigere l’atto costitutivo in forma di atto pubblico. Esso
deve necessariamente indicare i seguenti aspetti, oltre ovviamente ad altre previsioni che le parti possono
sempre decidere di inserire nel medesimo (come la durata della società, l’introduzione di vincoli alla
circolazione delle partecipazioni, l’attribuzione di diritti particolari a singoli soci, etc.):
a) gli elementi identificativi di ciascun socio;
b) gli elementi essenziali e identificativi della società  denominazione, comune dove è posta la sede,
l’attività economica che costituisce l’oggetto sociale;
c) gli elementi identificativi delle risorse destinate alla società e delle corrispondenti partecipazioni assunte
dai soci fondatori  l’ammontare del capitale sottoscritto e di quello versato, i conferimenti di ciascun
socio e il valore attribuito ai crediti e ai beni conferiti in natura, la quota di partecipazione di ogni socio;
d) le norme relative al funzionamento della società, le persone cui è affidata l’amministrazione, il sindaco o
il soggetto incaricato di effettuare la revisione legale dei conti, nel caso in cui la sua presenza sia richiesta
dalla legge o prevista dall’atto costitutivo.
Il legislatore, per la S.r.l. si riferisce unicamente all’atto costitutivo e non menziona lo statuto, a differenza
di quanto previsto nella S.p.a.  questa evenienza è stata ricondotta al fatto che nella S.r.l. viene accentuato
l’intento negoziale dei soci. Comunque sia nella prassi non sembrano sussistere ostacoli a che si possa
prevedere anche nelle S.r.l. la predisposizione dei due documenti: uno ove inserire i dati “storici” relativi
alla costituzione della società e uno ove inserire le regole organizzative. In quest’ultimo caso, secondo una
parte della dottrina, si renderà applicabile la regola generale in essere per la S.p.a. in base alla quale lo
statuto, anche se forma oggetto di un atto separato, costituisce parte integrante dell’atto costitutivo e, in caso
di contrasto tra le clausole dell’atto costitutivo e quelle dello statuto, prevalgono le seconde.
Passando ora al procedimento da seguire per la costituzione della società, il legislatore richiama la
disciplina in vigore per le S.p.a.  in entrambi i casi si tratta di erigere un’organizzazione capitalistica
avente personalità giuridica e di garantire la legalità della costituzione e l’effettività del capitale. Dunque è
necessario, anche per la S.r.l., che sia sottoscritto per intero il capitale sociale, siano rispettate le previsioni
relative ai conferimenti e sussistano le autorizzazioni e le altre condizioni richieste dalle leggi speciali per la
costituzione della società in relazione al suo particolare oggetto. Il notaio, una volta predisposto l’atto
costitutivo ed effettuato un controllo di legalità, deve depositarlo entro 20 giorni presso l’ufficio del registro
delle imprese, allegando i documenti comprovanti la sussistenza delle condizioni previste e, contestualmente,
richiedere l’iscrizione della società nel medesimo registro. L’ufficio del registro, verificata la regolarità
formale della documentazione, iscrive la società e, con l’iscrizione, questa acquista la personalità giuridica.

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Per le operazioni compiute in nome della società prima dell’iscrizione sono illimitatamente e solidalmente
responsabili verso i terzi, come nella S.p.a., coloro che hanno agito e, anche, il socio unico fondatore e quelli
tra i soci che nell’atto costitutivo o con atto separato hanno deciso, autorizzato o consentito il compimento
dell’operazione: qualora successivamente all’iscrizione la società approvi l’operazione, la stessa sarà
responsabile in sostituzione dei suddetti soggetti.
Come nella S.p.a., il legislatore limita poi i casi che possono dare luogo a nullità della società, una volta
avvenuta l’iscrizione nel registro delle imprese  la nullità può essere pronunciata solo in caso di:
- mancata stipulazione dell’atto costitutivo nella forma dell’atto pubblico;
- illiceità dell’oggetto sociale;
- mancanza nell’atto costitutivo di ogni indicazione riguardante la denominazione della società, i
conferimenti, l’ammontare del capitale sociale o l’oggetto sociale.
Le modifiche dell’atto costitutivo sono generalmente riservate alla competenza dei soci e, per garantire una
maggiore ponderazione e discussione in proposito, si prevede che questi ultimi debbano necessariamente
esprimersi, diversamente da quanto può accadere per altre loro decisioni, come si vedrà, in assemblea con il
voto favorevole di tanti soci in grado di rappresentare almeno al metà del capitale sociale.
Il verbale, trascritto nel libro delle decisioni dei soci, deve essere redatto da un notaio, il quale deve, previo
controllo di legalità, depositarlo e richiedere l’iscrizione nel registro delle imprese. Qualora il notaio non
ritenga adempiute le condizioni stabilite dalla legge, ne deve dare tempestiva comunicazione agli
amministratori, i quali possono convocare l’assemblea per gli opportuni provvedimenti oppure ricorrere al
tribunale per ottenere l’omologazione, in mancanza la decisione è definitivamente inefficace. Il tribunale,
qualora ritenga adempiute le condizioni richieste dalla legge, sentito il PM, ordina l’iscrizione nel registro
delle imprese. L’ufficio del registro, verificata la regolarità formale della documentazione, iscrive la delibera
nel registro  è solo con l’iscrizione che la delibera modificativa dell’atto costitutivo acquista efficacia.

LA STRUTTURA FINANZIARIA

Capitale sociale e conferimenti


In tema di capitale sociale e conferimenti la normativa in questione appare meno restrittiva rispetto a quella
dettata per la S.p.a., a dimostrazione dell’intento legislativo di incentivare l’utilizzo della S.r.l. anche per
iniziative di minore dimensione.
Il capitale sociale minimo non può essere inferiore a 10.000€ (a differenza della S.p.a. ove non può essere
inferiore a 50.000€).
Ulteriori differenze possono essere ravvisate per quanto riguarda le entità conferibili. Innanzitutto possono
essere conferiti tutti gli elementi dell’attivo suscettibili di valutazione economica: dunque sono molteplici i
conferimenti effettuabili nella S.r.l. – ad es. il cd know-how, l’avviamento commerciale – purché dotati di un
valore misurabile secondo parametri il più possibile oggettivi. Inoltre sono ammesse, a differenza della S.p.a.
ed in analogia con quanto avviene nelle società di persone, anche prestazioni d’opera o di servizi, in grado
di accentuare la caratterizzazione personalistica del tipo in esame; in tal caso però il legislatore prevede, a
tutela dei terzi e al fine di garantire l’effettiva formazione del capitale sociale, che il soggetto conferente
debba fornire alla società una polizza di assicurazione o una fideiussione bancaria con cui devono essere
garantiti, per l’intero valore ad essi assegnato, gli obblighi assunti.
Anche per quanto attiene i conferimenti in denaro e i conferimenti di beni in natura e di crediti sussistono
rilevanti differenze rispetto la S.p.a.:
- per quanto attiene i conferimenti in denaro, anche nella S.r.l. sono favoriti dal legislatore che, infatti,
dispone che in mancanza di una specifica indicazione nell’atto costitutivo, i conferimenti debbano essere
effettuati in denaro e che, in tal caso, già alla sottoscrizione debba essere versato agli amministratori
nominati nell’atto costitutivo almeno il 25% e l’intero sovrapprezzo, salvo il caso dell’unico socio, per il
quale il versamento deve riguardare l’intero ammontare sottoscritto. Tuttavia nelle S.r.l. è previsto che il
versamento possa essere sostituito dalla stipula, per un importo almeno analogo, di una polizza assicurativa
o di una fideiussione bancaria con le caratteristiche determinate con decreto del Presidente del Consiglio
dei ministri (ma dato che non è stato emanato, la disposizione resta inattuabile). Il socio può inoltre
cambiare in ogni momento la polizza o la fideiussione con il versamento dell’importo in denaro;
- relativamente invece ai conferimenti di beni in natura e di crediti, il legislatore dopo aver chiarito anche

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per la S.r.l. che le partecipazioni corrispondenti a tali conferimenti devono essere integralmente liberate al
momento della sottoscrizione, si limita a richiedere una relazione giurata (da allegare all’atto costitutivo)
predisposta da un revisore legale o da una società di revisione legale iscritti nell’apposito registro e scelti
dal socio stesso e non nominati, come nella S.p.a., dal tribunale. Nella relazione deve essere contenuta una
descrizione dei beni o crediti conferiti, nonché l’indicazione dei criteri di valutazione adottati e
l’attestazione che il loro valore sia almeno pari a quello ad essi attribuito per la determinazione del capitale
sociale e dell’eventuale sovrapprezzo, mentre non è richiesto, come avviene nella S.p.a., un controllo da
parte degli amministratori in ordine alle valutazioni contenute nella relazione e non sono quindi indicate le
conseguenze derivanti dall’eventuale accertamento di una differenza tra valore accertato e valore effettivo.
Viene poi previsto che il valore complessivo dei conferimenti effettuati non possa essere inferiore
all’ammontare globale del capitale sociale e si tratta di un principio a tutela dell’effettività del capitale
sociale. Può invece avvenire anche nelle S.r.l. che esso risulti superiore all’ammontare globale del capitale
sociale, data la presenza di eventuali sovrapprezzi versati dai soci che non vengono imputati a capitale, ma
iscritti in una specifica riserva.
Per la S.r.l. non è espressamente riconosciuta la possibilità di stabilire nell’atto costitutivo l’obbligo dei soci
di eseguire delle prestazioni accessorie, tuttavia la prevalente dottrina ammette tale possibilità data l’ampia
autonomia che dovrebbe contraddistinguere il tipo in esame.
Qualora il socio risulti inadempiente rispetto all’obbligo di effettuare i conferimenti promessi, si applicherà
la disciplina relativa al socio moroso  nel caso in cui il socio non esegua il conferimento nel termine
prescritto, gli amministratori devono diffidarlo ad adempiere entro 30 giorni – decorso il termine inutilmente,
gli amministratori, qualora non ritengano utile promuovere azione per l’adempimento, possono vendere la
partecipazione ad altri soci, in proporzione alla loro partecipazione, per il valore risultante dall’ultimo
bilancio approvato – solo in mancanza di offerte, e purché l’atto costitutivo lo consenta, la partecipazione
può essere venduta all’incanto – se la vendita non può avere luogo per mancanza di compratori, gli
amministratori escludono il socio, trattenendo le somme riscosse e, in questo caso, il capitale sociale deve
essere ridotto in misura corrispondente. Il socio moroso non può partecipare alle decisioni dei soci.
Per quanto riguarda l’aumento e la riduzione del capitale sociale, il legislatore dedica per la S.r.l.
un’apposita disciplina, pur essendo in gran parte simile a quella in essere per la S.p.a.
A. Pure qui sono previste due forme di aumento di capitale: uno nominale e gratuito e uno reale e oneroso.
a) L’aumento nominale consiste in una variazione meramente contabile, cioè nel passaggio a capitale di
riserve e/o di altri fondi iscritti in bilancio in quanto disponibili, così ampliando gli ammontari soggetti al
vincolo di destinazione proprio del capitale e dando alla società una maggiore solidità patrimoniale. In
questo caso non si farà luogo all’emissione di nuove quote, ma aumenterà l’eventuale valore nominale di
quelle in circolazione, mentre le partecipazioni, in termini percentuali, resteranno immutate.
b) L’aumento reale consiste in un effettivo incremento patrimoniale, dato che il capitale viene aumentato
mediante nuovi conferimenti effettuati dai soci o da soggetti terzi. La decisione di aumentare il capitale –
che di norma, trattandosi di modifica dell’atto costitutivo, spetta ai soci, ma che l’atto costitutivo può
anche attribuire agli amministratori – non può, però, essere attuata fin quando i conferimenti
precedentemente dovuti non siano stati integralmente eseguiti, così da evitare che la società possa ottenere
nuovo capitale di rischio fin quando non ha interamente ricevuto quello già promesso. I conferimenti
devono essere effettuati con le modalità previste per la costituzione, e l’aumento deve essere
integralmente sottoscritto, a meno che la decisione abbia espressamente consentito un aumento cd
scindibile: in questo caso il capitale è innalzato di un importo pari alle sottoscrizioni raccolte.
Ai soci spetta il diritto di sottoscrivere il capitale in proporzione alle partecipazioni possedute, così da poter
mantenere invariata la propria posizione all’interno della società  è questo l’equivalente del diritti di
opzione accordato agli azionisti di S.p.a. Il legislatore prevede che tale diritto possa essere escluso ma, in tal
caso, a differenza della S.p.a. ove la maggioranza dei soci può escludere o limitare il diritto di opzione in
presenza di determinate circostanze senza però la necessità di un’apposita previsione statutaria, occorre
un’esplicita indicazione proprio in tal senso nell’atto costitutivo, in considerazione dei possibili rilevanti
effetti patrimoniali e sugli assetti societari che tale ipotesi può determinare. L’atto costitutivo può così
stabilire che l’aumento possa essere attuato anche mediante offerta di partecipazioni di nuova emissione a
terzi. Date comunque le conseguenze che l’esclusione del diritto di sottoscrizione può determinare per i soci
medesimi, che possono vedere modificati i precedenti equilibri partecipativi, non solo è richiesta la
previsione di un’apposita clausola dell’atto costitutivo, ma è riconosciuto il diritto di recesso per coloro che

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non hanno consentito alla decisione. Nel caso in cui il diritto di sottoscrizione non venga escluso, la
decisione di emissione deve prevedere le modalità ed i termini entro i quali può essere esercitato tale diritto;
termini che comunque non possono essere inferiori a 30 giorni dal momento in cui viene comunicato ai soci
che l’aumento può essere sottoscritto. Infine, nei 30 giorni dall’avvenuta sottoscrizione, gli amministratori
devono depositare per l’iscrizione nel registro delle imprese un’attestazione che l’aumento è stato eseguito,
così da rendere conoscibile ai terzi la reale situazione della società.
Con riferimento all’aumento di capitale reale è sorto l’interrogativo se e in che termini il socio possa
sottoscriverlo, “utilizzando” dei crediti che egli vanta nei confronti della società o dei versamenti
precedentemente effettuati a favore della società. I versamenti in conto futuri aumenti di capitale sono dei
versamenti effettuati dai soci e vincolati alla sottoscrizione di futuri aumenti di capitale a pagamento da
parte dei soci che li hanno eseguiti. Diverso è il caso in cui vengano effettuati dei versamenti a favore della
società senza alcun diritto di rimborso, denominati nella prassi versamenti in conto capitale, in quanto tali
versamenti sono definitivamente acquisiti a patrimonio sociale ed integrano una riserva disponibile che può
essere liberamente utilizzata sia per ripianare le perdite che per aumentare gratuitamente il capitale sociale.
B. Anche nel caso di riduzione del capitale si può distinguere tra riduzione reale e riduzione nominale.
a) La riduzione reale comporta un’effettiva diminuzione del patrimonio sociale e può avere luogo (nel
rispetto del limite minimo del capitale sociale) mediante il rimborso ai soci delle quote pagate o mediante
la liberazione dall’obbligo dei versamenti ancora dovuti, senza che sia necessario indicare, come invece
avviene nella S.p.a., le ragioni di tale riduzione. Il legislatore prevede che la decisione in proposito possa
essere eseguita soltanto dopo 90 giorni dal giorno dell’iscrizione nel registro delle imprese della stessa,
purché entro tale termine nessun creditore sociale abbia fatto opposizione. Legittimati a proporre
opposizione sono solo i creditori anteriori all’iscrizione della decisione. In caso di opposizione, il
tribunale può comunque disporre che la riduzione abbia luogo quando ritenga infondato il pericolo di
pregiudizio per i creditori oppure la società abbia prestato idonea garanzia.
b) La riduzione nominale consiste in una semplice operazione contabile attraverso la quale si procede ad un
adeguamento del capitale sociale a fronte di una perdita già verificatasi. Vi possono essere dei casi di
riduzione del capitale per perdite facoltativi (rimessi quindi alla decisione dei soci) e altri obbligatori
(imposti dalla legge). In particolare il legislatore prevede due ipotesi di riduzione per perdite obbligatorie.
La prima scatta quando si verifica una perdita superiore ad ⅓ del capitale sociale  gli amministratori
devono senza indugio convocare l’assemblea dei soci e sottoporre loro una relazione sulla situazione
patrimoniale della società. L’assemblea assume gli opportuni provvedimenti, anche se non è per forza
tenuta a ridurre immediatamente il capitale sociale. Tuttavia, se entro l’esercizio successivo la perdita non
risulta diminuita a meno di ⅓, l’assemblea deve essere nuovamente convocata per l’approvazione del
bilancio e per la riduzione del capitale in proporzione delle perdite accertate. In mancanza, gli
amministratori devono chiedere al tribunale che venga disposta la riduzione del capitale in ragione delle
perdite risultanti dal bilancio. La seconda ipotesi prevista dal legislatore invece scappa quando la perdita,
oltre ad essere superiore di oltre ⅓ del capitale sociale, deve averlo ridotto al di sotto del minimo legale
 in questo caso non è più possibile attendere un esercizio per verificare gli sviluppi della situazione, ma
gli amministratori devono senza indugio convocare l’assemblea per deliberare la riduzione del capitale e il
contemporaneo aumento del medesimo ad una cifra non inferiore al minimo, ovvero la riduzione del
capitale e la trasformazione, oppure la nomina dei liquidatori e di ogni altro provvedimento relativo allo
svolgimento della fase di liquidazione, in conformità alla disciplina fissata, per le S.p.a.
Resta fermo che, in tutti i casi di riduzione del capitale per perdite, è esclusa ogni modificazione delle quote
di partecipazione e dei diritti spettanti ai soci: le perdite devono incidere proporzionalmente su tutti i soci, in
modo tale che ogni socio possa conservare, in misura percentuale ridotta, l’originario valore della quota di
partecipazione, come pure i connessi diritti. Comunque successivamente si vedrà che la disciplina in tema di
riduzione obbligatoria del capitale per perdite è derogata in caso di start up e PMI innovative S.r.l.

Le partecipazioni dei soci


In base all’art.2468, le partecipazioni dei soci nella S.r.l. non possono essere rappresentate da azioni  da
ciò deriva che le partecipazioni dei soci, a differenza di quanto avviene nella S.p.a., non possono essere
incorporate in titoli. Di norma poi si ritiene che le quote non possano neppure essere suddivise in frazioni
omogenee del capitale, ma che ciascun socio sia titolare di una sola partecipazione, di valore
tendenzialmente differente rispetto alle altre. L’unitarietà della partecipazione non ne implica l’indivisibilità.

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Le partecipazioni dei soci, d’altra parte, non possono costituire oggetto di offerta al pubblico di prodotti
finanziari, in tal modo impedendo alla S.r.l. di ricorrere al mercato dei capitali di rischio e confermando la
scelta legislativa di volerla strutturare come una società con una ristretta compagine societaria. Occorre però
segnalare che nell’ambito delle recenti modifiche normative avvenute nel 2017, il legislatore ha esteso a
tutte le S.r.l. PMI la possibilità – precedentemente prevista solo per le start up e PMI innovative – di offrire
al pubblico le proprie partecipazioni: in altre parole anche le S.r.l., purché rientranti nella nozione di PMI,
potranno raccogliere capitali di rischio dal pubblico mediante offerta delle partecipazioni, anche attraverso
portali appositamente dedicati.
Le partecipazioni dei soci sono determinate in misura proporzionale al conferimento effettuato, anche se è
possibile introdurre una diversa disposizione nell’atto costitutivo  è così lecita (come nella S.p.a.) che i
soci si accordino e introducano nell’atto costitutivo una previsione in base alla quale ad es. due soci
conferiscono entrambi una medesima somma, ma ad uno di essi è attribuita una partecipazione maggiore in
considerazione dei suoi intensi rapporti con possibili clienti e fornitori. La regola della proporzionalità è poi
richiamata dal legislatore anche in relazione ai diritti sociali  si riconosce che questi spettano ai soci in
misura proporzionale alla partecipazione da ciascuno posseduta; fermo restando che vi possono essere dei
diritti sociali che competono ai soci indipendentemente dall’entità della partecipazione detenuta.
L’atto costitutivo può anche prevede l’attribuzione a singoli soci di diritti particolari  questa è una
disposizione di grande importanza e centrale per comprendere il significato della S.r.l. come tipo in cui può
essere enfatizzata la rilevanza personale dei singoli soci; una disposizione che, proprio per questo motivo,
segna una differenza significativa con il modello azionario, ove come sappiamo possono essere create
categorie di azioni. L’assegnazione di diritti particolari può servire a “premiare” alcune peculiarità o
caratteristiche personali di un socio, necessarie o comunque opportune alla luce delle esigenze societarie. Il
legislatore specifica che i diritti particolari possono essere attribuiti solo ai soci (indipendentemente dalla
entità della partecipazione) e non a soggetti terzi, e possono riguardare l’amministrazione della società o la
distribuzione degli utili.
Pur nella vaghezza dei termini legislativi adottati, si può ritenere che, in relazione all’amministrazione,
possono essere attribuiti particolari privilegi per quanto riguarda:
- la facoltà di scelta di alcuni amministratori o di esprimere il proprio gradimento in ordine alle persone
designate dagli altri soci;
- la riserva a favore del socio stesso della funzione di amministratore;
- il diritto di veto o anche di decisione su determinati atti gestori.
Se queste sono alcune delle possibili articolazioni relative ai diritti particolari in materia di amministrazione,
vi è da ricordare che dal dettato normativo emerge un limite  vi sono infatti delle attribuzioni che sono in
ogni caso di competenza dell’organo amministrativo: la redazione del progetto di bilancio, la redazione del
progetto di fusione e di scissione, e la decisione di aumento del capitale sociale delegato.
Quanto invece ai privilegi riguardanti la distribuzione degli utili, si assume possibile prevedere clausole
che riservino ad uno o più soci percentuali qualificate e, quindi, disancorate dalla misura della
partecipazione sociale, vuoi degli utili di cui si sia deliberata la distribuzione, vuoi di quelli semplicemente
conseguiti (con la conseguenza che il socio avrà diritto di vedersi liquidata la percentuale di utili a lui
assegnata a prescindere dalla generale decisione). Tale privilegio può anche consistere in una priorità nel
prelievo del dividendo. Anche qui occorre individuare quali sono i principali limiti in materia all’autonomia
negoziale: anzitutto il divieto del patto leonino, che impedisce ad es. di un configurare un privilegio tale da
escludere del tutto la partecipazione di un socio alle perdite, in secondo luogo è illecita anche l’attribuzione
ad un socio del diritto a percepire una remunerazione in forma di interesse e non di utile.
Bisogna poi sottolineare che il legislatore ha voluto assegnare direttamente al socio i diritti particolari. Tale
assegnazione al socio e non alla partecipazione dovrebbe pertanto comportare che, in caso di trasferimento
di quest’ultima i diritti particolari non circolino con essa, ma si estinguano.
Una peculiare disciplina prevista per i diritti particolari consiste nella previsione che essi – data la loro
rilevanza nell’ambito della “vita societaria” – possano essere direttamente modificati (e anche eliminati)
solo con il consenso unanime dei soci, e appare lecito ritenere che la stessa regola debba applicarsi anche
nel caso di introduzione successiva dei medesimi nell’atto costitutivo. Tuttavia è fatta salva una diversa
disposizione dell’atto costitutivo  in tal modo i soci possono reintrodurre per le modifiche cd dirette la
regola maggioritaria, tipica delle società di capitali. È poi riconosciuto che, in presenza di un modifica cd
indiretta (attuata cioè non attraverso una formale variazione dell’atto costitutivo ma mediante il compimento

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di un’operazione gestoria approvata dai soci a maggioranza) suscettibile di incidere indirettamente sul diritto
particolare, spetti al socio non consenziente il diritto al recesso.
Infine occorre ricordare che la prevalente dottrina esclude la possibilità di creare nella S.r.l. delle categorie
di quote, e dunque delle serie di partecipazioni, dotate oggettivamente di diritti diversi da quelli spettanti
alle altre partecipazioni, e come tali attributive di questi diritti in modo indifferenziato a chiunque venga ad
acquisirle. Questa posizione trovava conferma nella legge che ha introdotto la nuova disciplina delle S.r.l.
nel 2003, ove si chiarisce che si è ritenuto coerente con le caratteristiche personali del tipo societario non
prevedere la possibilità di categorie di quote, che implicherebbe una loro oggettivizzazione e, quindi, una
perdita del collegamento con la persona del socio. Tuttavia tale possibilità è stata riconosciuta dal legislatore,
prima in tema di start-up innovative S.r.l. e recentemente, nel 2017, estesa a tutte le S.r.l. PMI.
Le partecipazioni nella S.r.l. sono liberamente trasferibili per atto tra vivi e per successione a causa di
morte, salvo contraria disposizione dell’atto costitutivo. Quest’ultimo può limitare il trasferimento delle
partecipazioni introducendo ad es. clausole di gradimento (mero e non mero) o di prelazione (propria o
impropria) o, anche, escludendo del tutto la trasferibilità delle stesse (in tal caso non opera il limite di 5
anni fissato per le S.p.a.). Tutto ciò fa sì che la S.r.l. possa, spesso, caratterizzarsi come società chiusa
nell’ambito della quale le partecipazioni non risultano liberamente trasferibili, consentendo di dare rilievo
alle persone dei soci e di conservare il più possibile l’originario equilibrio nella compagine sociale. In
particolare, la legittimità di clausole che escludono radicalmente e per sempre il trasferimento segna una
notevole differenza rispetto alla S.p.a., mentre per quanto riguarda gli altri tipi di clausola (gradimento e
prelazione), si può richiamare la disciplina prevista per le S.p.a. Il legislatore, a tutela dell’interesse del socio
(o dei suoi eredi) a non restare “prigionieri” della società, prevede che il egli o i suoi eredi possano esercitare
il diritto di recesso: l’atto costitutivo può stabilire un termine non superiore a 2 anni dalla costituzione della
società o dalla sottoscrizione della partecipazione prima del quale il recesso non può essere esercitato.
La disciplina relativa al trasferimento della partecipazione si compone di varie fasi:
- innanzitutto occorre stipulare l’atto di trasferimento per iscritto con sottoscrizione autentica da parte di un
notaio (si tratta di una forma non richiesta ad substantiam, sicché tra le parti l’atto è valido anche se
stipulato oralmente: la forma è necessaria per la successiva iscrizione nel registro delle imprese e per
l’opponibilità alla società e ai terzi);
- l’atto di trasferimento, per essere efficace nei confronti della società, deve poi essere depositato a cura del
notaio autenticante presso l’ufficio del registro delle imprese nella cui circoscrizione è stabilita la sede
sociale. È dal momento del deposito che il trasferimento della partecipazione ha effetto di fronte alla
società. L’adempimento rilevante per la società è, quindi, il deposito e non la successiva (ed eventuale)
iscrizione nel registro delle imprese  questa previsione non ha mancato di sollevare critiche, dato che
essa rende possibile l’acquisto della qualità di socio nei confronti della società ancora prima che sia
completato il procedimento di iscrizione.
- l’atto di trasferimento deve poi essere iscritto nel registro delle imprese e, in caso di contrasto tra più
acquirenti a fronte di una doppia alienazione della medesima partecipazione, è preferito colui che, per
primo, ha effettuato in buona fede la suddetta iscrizione nel registro delle imprese, anche se il suo titolo è
di data posteriore. In definitiva, la norma dà rilevanza ad un elemento oggettivo (l’iscrizione nel registro) e
ad uno soggettivo (la buona fede), non sempre di immediata accertabilità  nel caso quindi di doppia
alienazione sarà preferito colui che abbia: i) iscritto per primo il proprio acquisto nel registro delle imprese;
ii) che sia in buona fede.
In forza dell’art.2474, la S.r.l. non può in alcun caso acquistare o accettare in garanzia partecipazioni
proprie, oppure accordare prestiti o fornire garanzia per il loro acquisto o la loro sottoscrizione. Sotto
questo profilo sussistono dunque rilevanti differenze con la disciplina in essere per la S.p.a.
Per quanto riguarda le conseguenze rilevanti dalla violazione dei divieti, la prevalente dottrina considera
nullo l’atto contrario alla norma di cui all’art.2474.
La partecipazione può formare oggetto di espropriazione  il pignoramento si esegue mediante
notificazione al debitore e alla società e successiva iscrizione nel registro delle imprese. L’ordinanza del
giudice dell’esecuzione che dispone la vendita della partecipazione deve essere notificata alla società a cura
del creditore. Nel caso di partecipazione non liberamente trasferibile si applica una particolare disciplina
volta a tutelare sia l’interesse della società ad evitare l’ingresso nella compagine sociale di estranei non
graditi, sia l’interesse dei creditori a soddisfarsi sulla partecipazione. Innanzitutto è prevista una fase

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preordinata al raggiungimento di un accordo sulla cessione della partecipazione tra creditore, debitore e
società. Se l’accordo non viene raggiunto, la vendita ha luogo all’incanto. Tuttavia, per impedire che la
partecipazione possa essere trasferita a soggetti “non graditi”, si riconosce la possibilità per la società di
rendere la vendita priva di effetto qualora, entro 10 giorni dall’aggiudicazione, essa presenti un altro
acquirente in grado di offrire lo stesso prezzo. Infine, la partecipazione può formare oggetto anche di pegno,
usufrutto e sequestro (conservativo e giudiziario), richiamando le disposizioni stabilite per la S.p.a.

I finanziamenti dei soci


Anche nella S.r.l., come si è visto per la S.p.a., i soci possono spontaneamente procedere a dei versamenti
alla società, erogando dunque somme che non vengono imputate a capitale, ma che pur sempre
rappresentano per i soci operazioni di investimento nell’attività d’impresa, a tutolo di capitale di rischio.
Si usa solitamente distinguere tra versamenti effettuati dai soci a favore della società senza alcun diritto di
rimborso, denominati nella prassi versamenti in conto capitale, e versamenti effettuati dai soci a favore della
società vincolati alla sottoscrizione di futuri aumenti di capitale e che dovranno essere restituiti nel caso in
cui l’aumento di capitale cui sono subordinati non sia deliberato entro il termine convenuto, chiamati
versamenti in conto futuri aumenti di capitale.
I finanziamenti di cui ora ci occupiamo, per contro, rappresentano operazioni effettuate a titolo di capitale
di credito, con diritto al rimborso pieno, a favore del socio finanziatore, alla scadenza pattuita  così il
socio intende assumere per la somma erogata, la veste di puro e semplice creditore della società, concorrente
sul patrimonio di questa per il soddisfacimento della propria pretesa restitutoria al pari di ogni altro creditore.
Nelle S.r.l. era prassi (almeno prima della riforma del 2003) costituire la società con un capitale sociale pari
al minimo legale, anche se manifestamente inadeguato rispetto all’oggetto sociale, e dotare la stessa di
risorse finanziarie attraverso dei finanziamenti rimborsabili elargiti dai soci medesimi, i quali in questo
modo fornivano alla società capitale di credito, piuttosto che capitale di rischio. Così che la società veniva a
trovarsi in una situazione definita di sottocapitalizzazione nominale. Questo fenomeno poteva, però,
determinare dei pregiudizi per i creditori sociali, che si trovavano a concorrere con i soci per quanto
riguardava i finanziamenti da questi ultimi effettuati, vedendosi così ridotte le prospettive di
soddisfacimento nei confronti della società medesima. Per arginare questa situazione il legislatore del 2003
ha previsto, con norma imperativa, che il rimborso dei finanziamenti effettuati dai soci a favore della
società sia postergato rispetto alla soddisfazione degli altri creditori. Tuttavia non sempre tale
postergazione trova applicazione: essa opera solo qualora i finanziamenti siano stati elargiti dal socio in un
momento in cui risultava, anche in considerazione del tipo di attività esercitata dalla società, un eccessivo
squilibrio dell’indebitamento rispetto al patrimonio netto oppure una situazione finanziaria nella quale
sarebbe stato ragionevole un conferimento piuttosto che un finanziamento.
Viene infine previsto che, se la società fallisce e il finanziamento è già stato rimborsato al socio nell’anno
precedente la dichiarazione di fallimento, esso debba essere restituito.
La disciplina ora richiamata si applica ai finanziamenti “in qualsiasi forma effettuati”  in tal modo la
norma si estende a qualsiasi atto in grado di comportare un’attribuzione patrimoniale compatibile con
l’obbligo di futuro rimborso della medesima.
Concludendo, ci si è chiesti se la disciplina ora indicata possa essere applicata per analogia o in via indiretta
alle altre società di capitali (ad es. ad una S.p.a.): dottrina e parte della giurisprudenza tendono a dare
risposta positiva, almeno con riferimento alle società con base azionaria ristretta e con soci partecipi
all’attività economica.

I titoli di debito
L’art.2483 consente alla S.r.l. di emettere titoli di debito, cioè titoli di massa rappresentativi ciascuno della
frazione predeterminata di un debito pecuniario. In tal modo la S.r.l. può ricorrere, sia pure indirettamente e
con dei limiti, al mercato del capitale di credito. Per poter procedere all’emissione è necessaria la presenza
di un’apposita previsione nell’atto costitutivo; poi è sempre quest’ultimo che deve individuare a chi
compete decidere sull’emissione (tra soci e amministratori) e con che modalità e maggioranze necessarie,
oltre che determinare eventuali limiti all’emissione  limiti che, a differenza di quanto avviene nella S.p.a.
per le obbligazioni, non vengono indicati dalla legge ma rimessi in toto all’autonomia delle parti. Spetta poi

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al soggetto individuato nell’atto costitutivo stabilire le condizioni del prestito e le modalità del rimborso. La
stessa decisione di emissione deve essere iscritta a cura degli amministratori presso il registro delle imprese.
Per la modifica delle condizioni del prestito e delle modalità di rimborso, la società deve ottenere il
consenso di tutti i possessori dei titoli, a meno che la stessa decisione di emissione non preveda come
sufficiente il previo consenso della maggioranza di questi.
Considerata la minore affidabilità sotto il profilo organizzativo e patrimoniale della S.r.l. rispetto la S.p.a., il
legislatore prevede che i titoli di debito debbano essere sottoscritti unicamente da investitori professionali
soggetti a vigilanza prudenziale a norma di leggi speciali, i quali possono, però, una volta sottoscritti i titoli,
immetterli nel mercato secondario vendendoli ad altri soggetti. Al fine di tutelare i successivi acquirenti dei
titoli contro il rischio economico insito nella sottoscrizione degli stessi e consistente, principalmente, nella
possibilità che la società risulti insolvente e non sia, pertanto, in grado di rimborsare il debito contratto, si
riconosce che, in caso di successiva circolazione, chi li trasferisce debba rispondere della solvenza della
società. Tale garanzia opera purché l’acquirente non sia anch’esso un investitore professionale o un socio
della società medesima.

L’uscita del socio dalla società


Oltre che nelle ordinarie dinamiche di circolazione dei beni, anche l’uscita del socio di S.r.l. dalla società
può radicarsi nelle cause di estinzione del rapporto tipiche dei sistemi societari: il recesso e l’esclusione.
Anche qui, come nella S.p.a., l’uscita del socio si attua di regola attraverso una cessione della quota e non
attraverso la sua estinzione; quest’ultima, con conseguente riduzione del capitale sociale, è infatti eventuale.
Di tenore analogo a quello della S.p.a. è l’istituto del recesso, che anche qui svolge la funzione di
bilanciamento tra potere della maggioranza e interessi della minoranza dissenziente di fronte alle scelte più
radicali assunte dalla prima  è a questa ratio (anche se non solo) che si deve la presenza di cause legali
inderogabili di recesso, molto simili a quelle previste a favore dell’azionista. Tuttavia l’atto costitutivo può
ampliare il novero delle ipotesi in cui al socio è consentito porre termine alla propria permanenza in società:
l’introduzione di cause statutarie di recesso può assolvere la medesima funzione di quelle legali, ma anche
realizzare obiettivi diversi, consentendo di dare rilievo a circostanze che i soci reputino fondamentali per il
mantenimento del vincolo con la società (ad es. il raggiungimento di certi obiettivi economici o finanziari).
Cause inderogabili di recesso (art.2473)  il recesso è consentito ai soci che non hanno acconsentito a:
1) cambiamento dell’oggetto sociale (il mutamento però deve essere significativo, come nella S.p.a.);
2) cambiamento del tipo di società (come nella S.p.a. ogni trasformazione legittima il recesso);
3) fusione o scissione;
4) revoca dello stato di liquidazione;
5) trasferimento della sede all’estero;
6) eliminazione di una o più cause di recesso statutarie;
7) compimento di operazioni che comportano una sostanziale modifica dell’oggetto sociale statutario o una
rilevante modifica dei diritti particolari dei soci;
8) se la società è costituita a tempo indeterminato, ciascun socio può recedere liberamente in qualsiasi
momento, con un preavviso di almeno 180 giorni, elevabile dall’atto costitutivo al max sino ad 1 anno
(è lecito ritenere che il recesso spetti pure nel caso in cui la durata sia fissata, ma tale da eccedere
l’aspettativa di vita dei soci).
Ulteriori cause sono enunciate in altre disposizioni:
9) aumento di capitale con esclusione del diritto di opzione;
10) introduzione o soppressione di clausole compromissorie (questa causa è comune a tutte le società);
11) modifica dei diritti particolari dei soci (quando questa sia consentita a maggioranza);
12) è fatto salvo il diritto di recesso previsto dalla disciplina sui gruppi (art.2497-quater);
13) il diritto è pure accordato al socio, qualora l’atto costitutivo vieti il trasferimento delle quote o lo
subordini al mero gradimento di organi sociali, di soci o di terzi.
Come si è detto, l’atto costitutivo può introdurre ulteriori cause convenzionali di recesso, perseguendo gli
interessi più disparati, ma è discusso se possa spingersi fino a prevedere il recesso ad nutum, cioè sino a
consentire a ciascun socio, in una società costituita a tempo determinato, di sciogliersi dal vincolo senza
motivo ed in qualsiasi momento.

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La legittimazione all’esercizio del diritto spetta, quando la causa consista in una decisione dei soci, a quelli
non consenzienti (dunque ad assenti, astenuti e contrari) ed invece a qualunque socio, per il recesso ad
nutum dalla società a tempo indeterminato o le cui quote non siano trasferibili. Se si tratta di cause
convenzionali, la legittimazione dipende dal tipo di causa; non è escluso che, rispetto a determinate
fattispecie, l’atto costitutivo la attribuisca soltanto a taluni soci, come diritto particolare.
La norma non chiarisce se il recesso possa essere parziale (cioè solo per una parte della quota): il principio
dell’unitarietà della partecipazione di S.r.l. parrebbe disporre in senso negativo, perché unico è il diritto che
il socio può scegliere di esercitare o meno, tuttavia non è un principio assoluto e la quota è normalmente
divisibile in sede di circolazione.
Anche in relazione alle modalità di esercizio del diritto, il codice rimanda all’atto costitutivo. Questo è
dunque libero di definire i termini e le forme entro cui la dichiarazione di recesso (atto unilaterale del
recedente) deve essere comunicata alla società; tuttavia, per le ipotesi legali, l’autonomia statutaria non può
stabilire condizioni e termini che rendano eccessivamente gravoso l’esercizio del diritto. Nel silenzio
dell’atto costitutivo si applica l’art.2437-bis  dichiarazione mediante raccomandata spedita alla società
entro 15 giorni dall’iscrizione nel registro delle imprese della delibera legittimante, o dalla sua trascrizione
nel libro delle decisioni dei soci, se non è prevista iscrizione; entro 30 giorni dalla conoscenza del fatto
legittimante, diverso da una decisione dei soci. Il recesso è irrevocabile da parte del socio.
Anche le modalità di attuazione del disinvestimento e di rimborso del recedente sono affidate all’atto
costitutivo. In linea di principio, come nella S.p.a., non si produce l’estinzione del rapporto partecipativo, ma
si procede prima attraverso la cessione della quota ad altri soggetti: questi possono essere gli altri soci,
proporzionalmente alle rispettive partecipazioni, o anche uno o più terzi, individuati concordemente dai soci.
In mancanza di interessati, la quota è liquidata ricorrendo alle riserve disponibili (o agli utili) della società.
Solo qualora tali riserve non siano sufficienti, si riduce il capitale, estinguendo la partecipazione; ma poiché
si tratta di una riduzione reale, i creditori vi si possono opporre, e se, per effetto dell’opposizione la
riduzione e il rimborso vengono impediti, la società viene posta in liquidazione. Il termine entro cui si deve
procedere al rimborso è di 180 giorni dalla comunicazione del recesso; decorso tale termine il recedente può
agire nei confronti della società quale titolare di un diritto di credito nei confronti della stessa.
Il valore della somma (in denaro) spettante al recedente – a titolo di corrispettivo nel caso di cessione della
partecipazione e a titolo di rimborso in caso di pagamento mediante riserve disponibili o riduzione del
capitale – deve essere determinato proporzionalmente al patrimonio sociale, applicando criteri di
valutazione non contabili, ma tali da riflettere il valore reale del patrimonio stesso nel momento in cui il
recesso diviene efficace.
Deriva invece dalle società di persone l’istituto dell’esclusione, come rimedio al verificarsi di fatti che
rendono inopportuna la permanenza in società di un determinato socio. L’espulsione qui si verifica contro,
indipendentemente dalla sua volontà, e si giustifica proprio perché, in questo tipo societario, le vicende che
attengono alla persona del socio non restano irrilevanti. Ma dal momento che per l’appunto alle parti è
rimesso il compito di decidere se ed in che misura valorizzare l’elemento personalistico, l’introduzione di
questo istituto non è disposta dalla legge in determinati casi tipizzati, come invece nelle società di persone,
ma è affidata alle scelte statutarie. Ai sensi dell’art.2473-bis, «l’atto costitutivo può prevedere specifiche
ipotesi di esclusione per giusta causa del socio»  a differenza delle società di persone e se si eccettua
l’ipotesi legale dell’esclusione del socio moroso, lo strumento espulsivo è previsto come meramente
eventuale e rimesso all’autonomia statutaria: in assenza di un’apposita disposizione dell’atto costitutivo, e
con l’eccezione indicata, nessun socio può essere escluso, neppure in presenza di gravi motivi, ne può essere
invocata la risoluzione del contratto ex artt.1453 ss., istituto che risulta inapplicabile al contratto sociale.
È dunque all’autonomia negoziale che compete in primis l’individuazione delle cause di esclusione: ed in
ciò non vi è limite se non quello della giusta causa. In effetti l’esclusione è legittima solo al verificarsi di
fatti, relativi alla persona di uno dei soci, che rendono oggettivamente non più opportuna la sua
permanenza in società, alla luce di interessi, meritevoli di tutela, cui i soci stessi, nell’esercizio della loro
autonomia negoziale, hanno voluto dare rilevanza. La giusta causa può consistere:
a) nella violazione, da parte del socio, degli obblighi nascenti dal rapporto sociale, diversi dall’obbligo di
conferimento (poiché l’inadempimento di questo è già causa legale di esclusione);
b) in altri comportamenti del socio, reputati incompatibili con l’attività sociale;
c) nella perdita, da parte del socio, di taluni requisiti soggettivi;
d) nel sopravvenire di altri fatti relativi alla sua persona.

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Il requisito della giusta causa opera su due livelli. Innanzitutto è condizione di legittimità della clausola
dell’atto costitutivo: occorre che, nel quadro del concreto assetto di interessi su cui poggia la società,
l’espulsione del socio risulti perseguire un interesse obiettivamente meritevole dei soci. Inoltre, quando la
fattispecie prevista non si riferisca ad una vicenda di cui basti accertare se si è o no verificata (come sarebbe
ad es. il fallimento del socio), ma richieda una valutazione discrezionale (ad es. il carattere riservato e
l’importanza delle notizie divulgate dal socio), la giusta causa opera anche come criterio di valutazione della
gravità e rilevanza del fatto in concreto verificatosi, ancora in rapporto all’interesse che la clausola persegue.
Il codice pone inoltre un secondo requisito di validità, esigendo che le ipotesi di esclusione siano “specifiche”
 cioè enunciate nell’atto costitutivo in modo preciso e non generico: il requisito di specificità tutela
l’interesse di ciascun socio a poter conoscere ex ante le conseguenze del proprio comportamento o dei fatti
che lo riguardano. Perciò non basta che la clausola richiami genericamente alla giusta causa, e neppure basta
che si riferisca a “inadempimenti del socio” o alla “violazione del dovere di correttezza e buona fede” o a
“comportamenti e fatti incompatibili con la prosecuzione del rapporto”; occorre invece che l’accadimento
rilevante sia preindividuato in termini puntuali, sebbene non sia escluso che l’accertamento del suo
verificarsi e della sua gravità possa richiedere una valutazione discrezionale. Proprio la presenza di tale
requisito fa sì che l’elencazione statutaria sia da considerarsi sempre tassativa.
Rimessa all’autonomia statutaria è anche la determinazione della procedura di esclusione  l’atto
costitutivo potrà così prevedere ipotesi di esclusione automatica (cioè immediatamente conseguente al
verificarsi della causa) oppure attribuire alla collettività dei soci o degli amministratori il potere di decidere
se escludere o no il socio in relazione a cui si sia realizzato l’evento legittimante l’estromissione (esclusione
facoltativa). La decisione, se di competenza dei soci, è da questi assunta a maggioranza calcolata per quote e
non per teste, senza tenere conto della quota del socio da escludere; se la competenza è degli amministratori,
l’attribuzione del potere segue il regime di amministrazione. Tale decisione deve essere motivata e va
comunicata all’escluso in modo da informarlo con chiarezza dei motivi che ne sono a fondamento. L’atto
costitutivo può inoltre stabilire un termine, decorrente dal verificarsi del fatto legittimante, entro cui la
decisione deve essere assunta; nel silenzio, deve essere presa in un tempo ragionevole, tale da far ritenere
che il fatto presenti per la società una rilevanza ancora attuale.
In ogni caso, l’escluso ha diritto di opporsi, davanti al Tribunale, potendo altresì chiedere la sospensione
dell’esecuzione. In ordine invece all’attuazione dell’esclusione, cioè alle forme attraverso cui l’escluso
viene privato della titolarità della quota e riceve la liquidazione del suo valore, l’art.2473-bis rinvia alla
disciplina del recesso. Anche il valore della quota di liquidazione è determinato mediante i criteri enunciati
per la disciplina del recesso, dunque secondo il valore reale della partecipazione.

LA STRUTTURA ORGANIZZATIVA
La disciplina concernente la struttura organizzativa della S.r.l. si sviluppa secondo due linee direttrici
fondamentali: l’estrema flessibilità del sistema di governo dell’impresa e l’attribuzione ai soci di un ruolo
attivo e centrale nella vita della società. Questi principi discendono direttamente dalla vocazione di tale tipo
societario, impressa dalla riforma del 2003: riflettono la volontà normativa di differenziandolo dalla S.p.a.
attraverso il riconoscimento di un’estesa libertà statutaria nella definizione delle regole di amministrazione e
per mezzo dell’attribuzione ai soci di incisivi poteri di ingerenza e controllo sulla gestione.
Il modello legale, quello cioè operante se l’atto costitutivo non dispone diversamente, si delinea secondo
uno schema che in realtà sembra analogo al sistema di governance tradizionale della S.p.a.  i soci sono
chiamati a decidere sulle modifiche strutturali dell’ente (cioè dell’atto costitutivo) e a nominare gli
amministratori, vi è un organo amministrativo unipersonale o collegiale cui è affidata la gestione
dell’impresa, e un organo per il controllo contabile e amministrativo (se le dimensioni proprietarie o
patrimoniali della società superano una certa soglia). Tuttavia la coincidenza è solo apparente perché nella
S.p.a. la struttura organizzativa per uffici è caratterizzata da una spiccata rigidità: l’azionista non ha poteri
gestori ne di controllo diretto, egli aderisce o disapprova le strategie imprenditoriali adottate dall’organo
amministrativo investendo o disinvestendo dalla società.
Nella S.r.l., per contro, i soci sono, singolarmente o collegialmente, parte attiva dell’organismo  essi non
sono affatto esclusi dalla gestione, ma possono trovarsi chiamati ad assumere ogni relativa decisione, se lo
richieda la minoranza o uno degli amministratori, e ciascun partecipante ha accesso a tutte le informazioni e
ai documenti societari, potendo promuovere individualmente l’azione di responsabilità e chiedere la revoca
degli amministratori infedeli. Su questo schema legale può poi innestarsi l’autonomia negoziale, cui ai soci

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è data facoltà di ricorrere per dare una coloritura ancor più marcatamente personalistica al proprio modello
organizzativo  l’atto costitutivo può così arricchire le competenze gestorie della collettività dei soci,
spostando a piacimento l’equilibrio di poteri con l’organo amministrativo, può assegnare anche a singoli
soci specifiche prerogative, come il potere di nomina dei componenti dell’organo, o il diritto di assumere le
funzioni o il potere di veto su alcune operazioni imprenditoriali; l’autonomia statutaria può anche snellire le
procedure collegiali e persino adottare i regimi di amministrazione, disgiuntiva o congiuntiva, tipici delle
società di persone. In tale articolazione organizzativa, l’osservanza dei principi di corretta amministrazione
resta uno dei capisaldi del sistema; ma la vigilanza e l’attivazione dei consueti meccanismi reattivi sono
affidate eminentemente alla dialettica tra soci ed alla loro iniziativa: l’intervento dell’autorità giudiziaria è
escluso ed anche il controllo contabile e amministrativo è in linea di principio assente; questo tuttavia ritorna,
come indispensabile, quando la società superi certi livelli dimensionali o si trova al vertice di un gruppo.

Le competenze dei soci e i procedimenti decisionali


I soci hanno una competenza potenziale su ogni profilo della gestione imprenditoriale, che concorre con la
competenza degli amministratori e che l’autonomia statutaria può rafforzare ma non comprimere, se non a
favore di prerogative riconosciute a singoli soci, e dunque sempre in vista di un più diretto e personale
coinvolgimento di questi nell’esercizio dell’impresa.
Le competenze della collettività dei soci si distinguono in:
a) competenze necessarie  queste sono inderogabilmente affidate alla decisione del gruppo dei soci; le
ragioni di questa riserva legale consistono o nella rilevanza delle materie stesse, poiché riguardano
l’assetto fondamentale dell’ente (modifiche dell’atto costitutivo, operazioni gestorie che comportano una
sostanziale modifica dell’oggetto statutario, rilevanti modifiche dei diritti dei soci) o nella necessità di
rispettare il normale equilibrio di poteri e di funzioni tra gli organi (approvazione del bilancio, nomina
del titolare del controllo o del revisore);
b) competenze normali  queste sono derogabili: si tratta della nomina degli amministratori e della
distribuzione degli utili;
c) competenze legali eventuali  il codice prevede che i soci decidano sugli argomenti che uno o più
amministratori, o tanti soci che rappresentano almeno ⅓ del capitale, sottopongono alla loro
approvazione: si tratta di una competenza gestoria illimitata (potenzialmente concernente cioè qualsiasi
operazione imprenditoriale), concorrente con quella degli amministratori, ma meramente eventuale in
quanto attivabile solo su richiesta dei soggetti indicati;
d) competenze esclusive statutarie  l’atto costitutivo può attribuire ai soci ulteriori e rafforzate
competenze in ambito gestorio: la formula generale stabilisce che i soci decidono su tutte le materie
riservate alla loro competenza dall’atto costitutivo; la disposizione va posta a confronto con quella più
restrittiva dedicata alle autorizzazioni assembleari nella S.p.a., poiché nella S.r.l. l’autonomia statutaria
non incontra alcun limite di materia: la clausola può assegnare ai soci il potere decisionale, vincolante
per gli amministratori, su qualsiasi argomento comprimendo a piacere la competenza di questi ultimi.
Il coinvolgimento dei soci nella gestione è dunque, nella S.r.l., istituzionalizzato. Questo ruolo si rispecchia
nella disciplina della responsabilità per gli atti di mala gestio, per i quali infatti rispondono in solido con gli
amministratori i soci che li hanno intenzionalmente decisi o autorizzati; si tratta di una disposizione, non a
caso assente nella disciplina della S.p.a., che riveste una posizione centrale nel sistema normativo della S.r.l.
Il procedimento attraverso cui la collettività dei soci assume le proprie decisioni non ha necessariamente
natura assembleare  il codice consente all’atto costitutivo di “prevedere che le decisioni dei soci siano
adottate mediante consultazione scritta o sulla base del consenso espresso per iscritto”. Ciò spiega il ricorso
al termine “decisione”, che indica ogni atto del gruppo dei soci. Le “deliberazioni” costituiscono pertanto
solo una specie, un sottoinsieme del genus “decisioni”, individuando quelle adottate in assemblea; accanto a
queste si possono perciò profilare “decisioni non assembleari”, aventi il medesimo contenuto ed effetti, ma
la cui formazione è soggetta a regole almeno parzialmente diverse.
Il metodo assembleare (collegiale: la delibera è assunta nel corso di una riunione) resta per la verità, nella
valutazione normativa, il modello principale e naturale, in quanto il più adatto, attraverso il dibattito ed il
confronto tra i soci, all’assunzione di scelte ponderate ed equilibrate; esso rafforza l’efficienza dell’azione
societaria. Per tale motivo le materie di maggiore importanza – modifiche all’atto costitutivo, operazioni
gestorie fondamentali) devono essere inderogabilmente trattate in assemblea. Inoltre l’adozione di

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procedure non collegiali (per le altre materie) non è ammessa se non vi è una corrispondente clausola
dell’atto costitutivo.
I procedimenti non assembleari perseguono obiettivi di efficienza da un punto di vista diverso  essi
consentono l’assunzione di decisioni con maggiore agilità e ne semplificano l’iter di formazione. Questa
semplificazione paga, evidentemente, il prezzo della rinuncia alla discussione ed al confronto aperto tra i
votanti, che viene lasciato all’iniziativa dei singoli. Tuttavia, anche quando l’atto costitutivo li preveda,
questi metodi soccombono, di fronte alla richiesta, avanzata da uno o più amministratori o dai soci che
rappresentano almeno ⅓ del capitale, di sottoporre l’argomento alla discussione dell’assemblea.
Il procedimento dell’assemblea dei soci si snoda secondo il modello comune alle S.p.a. (convocazione –
intervento dei soci – discussione – votazione – proclamazione dei risultati – verbalizzazione), ma la
disciplina risulta molto più scarna e frammentaria, il che pone il problema del significato da attribuire al
silenzio del legislatore e dell’integrazione delle eventuali lacune. Dunque, il ricorso alla disciplina dettata
per le S.p.a. è certo legittimo, tuttavia l’applicazione in via analogica di quella disciplina non può essere
automatica e generalizzata: la S.r.l. ha proprie specificità sia per il maggiore spazio concesso all’autonomia
statutaria, sia per la centralità che le persone dei soci hanno all’interno della struttura organizzativa  ciò
comporta che il silenzio su un determinato profilo (regolato invece nelle S.p.a.) potrebbe indicare non la
presenza di una lacuna ma semplicemente un’apertura alla libertà negoziale dei soci.
a) La convocazione avviene nelle forme indicate nell’atto costitutivo, tali comunque da assicurare la
tempestiva informazione di tutti i soci sugli argomenti da trattare. Nel silenzio dell’atto costitutivo, vi si
procede mediante lettera raccomandata spedita almeno 8 giorni prima della riunione, e questa viene svolta
presso la sede sociale. La norma tace su chi sia legittimato a procedere alla convocazione, deve tuttavia
ritenersi che lo siano senz’altro gli amministratori ed eventualmente l’organo di controllo, se nominato.
b) Hanno diritto di intervenire tutti i soci. Il principio è espresso dall’art.2479 ed è inderogabile. Pertanto
non è ammessa nelle S.r.l. la creazione di quote senza diritto di voto o con diritto di voto condizionato o
limitato a particolari argomenti; questo limite all’autonomia statutaria si spiega con la centralità della
posizione del socio nel tipo S.r.l. e con il fatto che non si profila qui l’esigenza di intercettare investitori
interessati alla sola redditività del proprio investimento e da non coinvolgere invece nel governo dell’ente.
c) L’assemblea, presieduta dalla persona indicata nell’atto costitutivo (che spesso la individua nel presidente
del c.d.a. o nell’amministratore unico) o designata dagli intervenuti, è validamente costituita se sono presenti
tanti soci che rappresentino almeno la metà del capitale (quorum costitutivo). Essa delibera con il voto
favorevole della maggioranza del capitale presente o, nelle modifiche all’atto costitutivo o operazioni
gestorie fondamentali, con una maggioranza rafforzata, che rappresenti almeno la metà del capitale sociale
(quorum deliberativo). Il voto espresso da ciascun socio ha un peso proporzionale alla sua partecipazione.
Non è dunque formalmente prevista, nelle S.r.l., un’articolazione dell’assemblea in ordinaria e straordinaria,
ma, non diversamente che nelle S.p.a., le deliberazioni più rilevanti richiedono maggioranze più elevate e
sono soggette a regole formali più rigide (verbalizzazione notarile per le modifiche dell’atto costitutivo).
Neppure è prevista la scansione in una prima e in una seconda convocazione, con quorum più favorevoli in
questa per l’assunzione delle decisioni. Pertanto, se non si raggiunge il quorum costitutivo nella prima e
unica riunione prevista, è necessario riavviare ex novo l’iter procedimentale con una nuova convocazione.
L’atto costitutivo, tuttavia, può introdurre un’assemblea di seconda convocazione, riducendo l’aliquota di
capitale prevista dalla norma.
d) Anche delle assemblee di S.r.l. deve essere redatto il verbale (per atto pubblico, se si tratta di
deliberazioni modificative dell’atto costitutivo), da trascrivere nel libro delle decisioni dei soci. Il contenuto
e i tempi della sua redazione sono disciplinati in via analogica  esso deve dunque essere formato senza
ritardo e deve indicare, almeno in allegato, l’identità dei partecipanti e il voto espresso da ciascuno di essi.
e) Una volta adottate (con la proclamazione presidenziale dei risultati), le delibere sono immediatamente
efficaci, tranne quelle modificative dell’atto costitutivo, che acquistano efficacia con l’iscrizione nel registro.
Nessuna norma è invece dedicata alle tecniche non collegiali, che il legislatore si limita ad individuare nella
“consultazione scritta” e nel “consenso espresso per iscritto”. Si tratta di formule generiche che lasciano
ampia libertà nella determinazione dell’iter procedimentale  ciò che caratterizza questi meccanismi
decisori è l’assenza di collegialità: l’atto è assunto al di fuori di qualsiasi riunione tra i soci, con benefici in
termini di speditezza e di costi. Alcuni principi risultano tuttavia inderogabili  tutti i soci devono essere

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informati in tempo utile dell’avvio del procedimento e tutti debbono potervi prendere parte; non basterebbe
dunque, come invece si ammette nelle società di persone, la raccolta dei consensi della sola maggioranza,
senza interpellare la minoranza. È anche previsto un quorum distinto rispetto a quello per l’assunzione delle
delibere assembleari: la decisione è presa con il voto favorevole di una maggioranza che rappresenti almeno
la metà del capitale, ma lo statuto può disporre diversamente, sia innalzandolo che riducendolo.
Le decisioni non assembleari hanno la medesima natura giuridica delle deliberazioni  esse non
rappresentano un contratto tra i soci, ma un atto avente valore organizzativo interno alla società.
La disciplina dell’invalidità delle decisioni non distingue fra quelle assembleari e quelle non collegiali. Il
sistema è analogo a quello delle S.p.a. e, come questo, risulta totalmente autonomo rispetto allo schema
nullità/annullabilità, proprio delle invalidità contrattuali: non a caso la norma codicistica ricorre sempre al
termine generico di impugnazione.
Come nelle S.p.a., i vizi invalidanti si dividono in 2 categorie: quella, generale, della non conformità alla
legge o all’atto costitutivo e quella, più grave e specifica, comprendente l’assenza assoluta di informazione
e l’illiceità o impossibilità dell’oggetto. La decisione è impugnabile in entrambe le ipotesi, ma diversi sono i
soggetti legittimati e i termini, esattamente come nella S.p.a.
a) L’assenza assoluta di informazione consiste nella mancata comunicazione ad uno o più soci dell’avvio
del procedimento decisionale e corrisponde al vizio di “mancata convocazione”: la genericità
dell’espressione dipende solo dal fatto che, in caso di decisione non collegiale, il coinvolgimento dei soci
non avviene per mezzo di una “convocazione” ma, per l’appunto, informandoli dell’inizio della procedura.
L’illiceità o impossibilità dell’oggetto discendono dalla contrarietà a norme imperative, ordine pubblico
o buon costume, o dall’impossibilità materiale o giuridica del contenuto della decisione.
b) Ogni altro vizio rientra nel difetto di conformità alla legge o all’atto costitutivo: ogni irregolarità
procedimentale (compresa la mancata verbalizzazione della delibera assembleare), il conflitto di interessi
de socio il cui voto sia stato determinante per l’assunzione di una decisione potenzialmente dannosa per la
società, l’abuso del diritto di voto a danno degli altri soci.
Legittimato all’impugnazione è ciascun socio che non abbia consentito alla decisione, ciascun
amministratore e l’organo di controllo (se presente), nei casi sub b); invece lo è chiunque vi abbia interesse
nei casi sub a). Proprio perché la legittimazione del socio non dipende, come invece nella S.p.a., dalle
dimensioni della sua partecipazione, non è qui prevista la tutela risarcitoria.
La decisione va impugnata negli stretti termini di 90 giorni nei casi sub b) e di 3 anni nei casi sub a),
decorrenti dalla trascrizione della decisione nel libro delle decisioni dei soci. È impugnabile senza limiti di
tempo, invece, la delibera che introduce un oggetto sociale impossibile o illecito.

L’amministrazione della società


Ai sensi dell’art.2475, “l’amministrazione della società è affidata a uno o più soci nominati con decisione
dei soci”, se l’atto costitutivo non dispone diversamente.
Gli amministratori hanno una competenza gestoria generale, nell’ambito dell’oggetto sociale: loro è il
compito di elaborare piani strategici imprenditoriali e di darvi attuazione. Tuttavia non è qui riprodotto il
principio consacrato per le S.p.a., per cui, la competenza degli amministratori di S.r.l. non è esclusiva  la
collettività dei soci conserva una competenza legale concorrente sull’intera gestione, ma non solo: l’atto
costitutivo può sottrarre talune prerogative agli amministratori per attribuirle in via esclusiva proprio ai soci.
La nomina (la carica può essere assunta tanto dai soci quanto, se lo consente l’atto costitutivo, da soggetti
esterni) avviene con decisione presa dai soci stessi, ma anche sotto questo profilo l’autonomia negoziale può
disporre diversamente  ad es. attribuendo ad uno o più soci individualmente il diritto particolare di
designare gli amministratori, oppure di indicare una rosa di nomi tra cui la collettività dovrà poi scegliere.
La nomina va iscritta nel registro delle imprese (a cura dell’amministratore che, dunque, deve accettarla) e
l’eventuale invalidità del relativo atto non è opponibile ai terzi che non ne fossero a conoscenza.
La durata della carica non è indicata dalla legge  dunque l’atto costitutivo o quello di nomina che
determina la durata e può procedersi anche ad una nomina a tempo indeterminato. Inoltre, gli amministratori
sono rieleggibili. Non è disciplinata nemmeno l’ipotesi di revoca, il che non significa però che non sia
legittima. Ma occorre distinguere: gli amministratori che sono tali in forza di un atto di nomina della
collettività dei soci o di uno di essi, sono revocabili in qualunque momento dai soggetti titolari del potere di
nomina; in assenza di giusta causa, come nelle S.p.a., la società è tenuta al risarcimento del danno, ma se la

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carica era a tempo indeterminato il risarcimento è dovuto solo se non viene dato un congruo preavviso. Ogni
socio può poi chiedere la revoca in via giudiziaria in caso di gravi irregolarità compiute dall’amministratore.
Invece, coloro cui la carica è attribuita come diritto particolare, non sono revocabili se non in quest’ultimo
caso, dal momento che il loro diritto è immodificabile senza il consenso unanime dei soci.
Sotto il profilo delle forme di esercizio del potere gestorio, il sistema organizzativo può essere affidato ad
un amministratore unico o ad una pluralità di soggetti, secondo la previsione statutaria o la decisione dei
soci al momento della nomina. In caso di pluralità di amministratori, il modello legale prevede che
l’esercizio delle funzioni avvenga in forma consiliare, cioè mediante costituzione di un consiglio di
amministrazione, che è la forma tipica delle S.r.l. Tuttavia lo stesso atto costitutivo può optare per i sistemi
propri delle società di persone, ossia per l’amministrazione disgiuntiva o congiuntiva, oppure per un
sistema misto. Il solo limite è che la redazione del progetto di bilancio e di quelli di fusione e scissione,
nonché l’aumento di capitale delegato, devono essere decisi in forma collegiale. Il passaggio dall’uno
all’altro sistema è possibile in ogni momento, ma richiede una modifica dell’atto costitutivo.
La disciplina dell’amministrazione consiliare è praticamente assente e pertanto va ricostruita applicando
analogicamente la disciplina delle S.p.a. Tuttavia il silenzio normativo vale ad attribuire all’atto costitutivo
la più ampia libertà nel determinare il procedimento deliberativo, che può assumere forme non collegiali e
più snelle. Dell’invalidità delle decisioni consiliari, il codice contempla solo l’ipotesi del conflitto d’interessi,
attribuendo a ciascun amministratore, al sindaco e al revisore legale, se presenti, il potere di impugnare entro
90 giorni dalla sua adozione la decisione dannosa per la società, assunta con il voto determinante del
consigliere in conflitto.
Vi è da dire anche che nel 2003 è stato istituito il cd arbitraggio gestionale  l’atto costitutivo può
prevedere che siano deferiti ad uno o più terzi i contrasti tra coloro che hanno il potere di amministrazione,
in ordine alle decisioni da adottare nella gestione della società. Si tratta di una soluzione utilizzabile ad es.
nell’amministrazione disgiuntiva quando uno degli amministratori si oppone all’atto deciso da un altro.
La rappresentanza legale è attribuita agli amministratori secondo i criteri indicati nell’atto costitutivo: è
normale che essa sia collegata a certe cariche (di presidente del consiglio, di amministratore delegato) nel
sistema consiliare, e segua invece le regole di esercizio del potere gestorio negli altri sistemi (sia dunque
attribuita disgiuntamente a ciascun amministratore, nell’amministrazione disgiuntiva, e in quella congiuntiva,
specie all’unanimità, a tutti con firma congiunta). Anche qui come nelle S.p.a. tale rappresentanza è
generale ed i relativi limiti, anche se risultanti dall’atto costitutivo iscritto nel registro delle imprese, non
sono opponibili ai terzi, a meno che non si provi che essi abbiano agito intenzionalmente a danno della
società (cd exceptio doli).
L’art.2476 stabilisce che “gli amministratori sono solidalmente responsabili verso la società dei danni
derivanti dall’inosservanza dei doveri ad essi imposti dalla legge e dall’atto costitutivo per
l’amministrazione della società”. Il principio, comune a tutti i tipi societari, consacra l’obbligo degli
amministratori di gestire indipendentemente l’impresa per l’attuazione dell’oggetto sociale. Nell’ambito
della discrezionalità tecnica che ogni attività imprenditoriale per definizione presenta, gli amministratori
sono liberi di determinare i tempi, le strategie e le modalità del suo esercizio, definendo e realizzando tutte le
operazioni in cui essa si snoda; proprio perché, tuttavia, la discrezionalità loro riconosciuta è di natura
tecnica, essa richiede che la gestione di svolga secondo il consueto criterio della diligenza professionale.
La responsabilità degli amministratori è solidale, sicché ciascuno risponde dell’intero danno nei confronti
della società, salvo il diritto di regresso nei confronti degli altri nella misura e secondo il grado della
rispettiva colpa. Tuttavia, la responsabilità non si estende a chi, conoscendo il fatto dannoso abbia fatto
constatare il proprio dissenso. Vi è dunque, per chi intenda sottrarsi ex ante all’obbligo risarcitorio, l’onere
di segnalare la propria contrarietà alla medesima  in base al sistema di governo adottato, variano le
modalità della sua comunicazione e le funzioni che esso deve esplicare: in seno al consiglio di
amministrazione disgiuntiva è necessaria l’opposizione al compimento dell’atto, nell’amministrazione
congiuntiva all’unanimità l’esercizio del potere di veto. Va peraltro evidenziato che la legge richiede che
l’amministratore sia altresì immune da colpa: anche su quello di S.r.l. grava quindi l’obbligo di agire in
modo informato, sicché risponde dei danni anche chi non abbia avuto conoscenza del fatto lesivo per avere
colpevolmente violato il dovere di vigilanza.
La responsabilità, inoltre, grava nei termini sin qui illustrati senza distinzioni a prescindere dal titolo in virtù
del quale l’amministratore riveste la carica, anche sul socio cui il potere gestorio sia accordato come diritto

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particolare: tale diritto è infatti da intendersi anche come dovere di amministrare con la diligenza
professionale consueta e nell’interesse della società.
L’azione di responsabilità è proponibile individualmente da qualunque socio, a prescindere dall’entità della
sua partecipazione  anche sotto questo profilo si manifesta il carattere personalistico del tipo S.r.l. La
legittimazione individuale (inderogabile) costituisce d’altra parte il pendant del diritto di controllo sulla
gestione, pure affidato individualmente ad ogni socio; essa comunque non esclude che la stessa società
(previa decisione dei soci) possa promuovere l’azione.
La responsabilità non coinvolge tuttavia solo gli amministratori, infatti il codice sancisce la responsabilità
solidale dei soci che abbiano intenzionalmente deciso o autorizzato il fatto dannoso. Questa disposizione
costituisce uno dei cardini del sistema organizzativo della S.r.l. e si fonda sul principio del diretto ed
istituzionale coinvolgimento dei soci nell’amministrazione  essa, in effetti, rappresenta il logico corollario
della competenza gestoria generale, che la legge attribuisce loro in concorrenza con gli amministratori, e che
l’atto costitutivo può ulteriormente rafforzare rendendola esclusiva.
Il comportamento esigibile del socio è articolato:
a) egli non deve decidere, o concorrere con il proprio voto a che venga decisa, un’operazione dannosa;
b) egli non deve neppure autorizzarla (non lo esime dalla responsabilità il fatto di aver rimesso agli altri
soci la decisione definitiva);
c) egli ha altresì l’obbligo di non impedire, con il proprio voto o esercitando il diritto di veto che gli fosse
riconosciuto statutariamente, un’operazione il cui compimento risultasse necessario per evitare un danno,
per cui anche il diniego di autorizzazione o la decisione negativa possono esporre il socio alla
responsabilità in esame;
d) in questi medesimi casi, la semplice omissione invece, non risulta di regola censurabile, non ponendosi
configurare in generale un dovere dei soci di attivarsi in vista dell’esercizio dei loro diritti.

Il controllo
L’esistenza di un organo di vigilanza indipendente nelle S.r.l. è meramente eventuale e diviene obbligatoria
solo se si verificano le condizioni fissate dall’art.2477. In generale, il controllo è invece affidato
individualmente a ciascuno dei soci  quelli che non partecipano all’amministrazione infatti “hanno diritto
di avere dagli amministratori notizie sullo svolgimento degli affari sociali e di consultare, anche tramite
professionisti di loro fiducia, i libri sociali e i documenti relativi all’amministrazione” (art.2476, c.2). Tali
diritti spettano ai soci non amministratori (gli altri hanno accesso alle stesse informazioni già in quanto
amministratori ed hanno anzi, in virtù della carica, un dovere di controllo) in ogni caso, e dunque anche
quando sia presente il sindaco. Non rientra invece tra i diritti del socio il compimento di atti di ispezione.
Si tratta di un diritto non eliminabile ne comprimibile dall’atto costitutivo, neppure nel caso in cui sia
presente il sindaco, perché appartiene a quegli elementi che caratterizzano il tipo S.r.l. in ragione dei suoi
tratti personalistici e del diretto coinvolgimento dei soci nella vita dell’impresa. L’atto costitutivo resta
invece libero di accrescere i diritti di controllo, come di regolarne le modalità di esercizio.
Solo al superamento di determinate soglie dimensionali si rende obbligatoria l’attivazione di una funzione
di controllo svolta da un soggetto indipendente e professionalmente qualificato. Le condizioni sono:
a) l’essere la società obbligata a redigere il bilancio consolidato, e dunque, sostanzialmente, l’essere al
vertice di un gruppo;
b) l’essere controllante di altra società obbligata alla revisione legale dei conti (ad es. di una S.p.a.);
c) il superare, per 2 esercizi consecutivi, due dei limiti relativi all’ammontare dell’attivo dello stato
patrimoniale (4.400.000 €) e dei ricavi (8.800.000 €) e al numero medio dei dipendenti occupati (50).
Le ragioni della previsione normativa sono intuitive  al verificarsi di queste circostanze, l’interesse alla
corretta gestione dell’impresa non è più solo una questione interna alla compagine sociale, ma la sua
protezione va “esternalizzata” come nelle S.p.a. I soci non amministratori conservano i diritti previsti
dall’art.2476, c.2 (inderogabili), ma al loro controllo si affianca quello dell’ufficio all’uopo costituito.
Quanto al tipo di controllo obbligatorio, il codice si esprime oggi in termini ambigui, richiedendo la nomina
di un “organo di controllo o di un revisore” e lasciando così il dubbio se la società sia libera di scegliere a
piacimento tra un controllo sulla gestione e uno contabile. In realtà appare preferibile una lettura più
rigorosa, che risulti più coerente con la ratio del precetto: il controllo obbligatorio deve inderogabilmente
riguardare entrambi i profili, gestorio e contabile. L’organo di cui è richiesta la nomina è comunque

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monocratico, se l’atto non dispone diversamente, e ad esso si applica la disciplina sui sindaci di S.p.a. 
tale rinvio consente di sancire automaticamente anche per la S.r.l. l’immodificabilità delle funzioni e dei
poteri attribuiti al titolare del controllo, a causa del carattere generale e indisponibile degli interessi protetti.
Tale soggetto ha dunque il compito di vigilare “sull’osservanza della legge e dello statuto, sul rispetto dei
principi di corretta amministrazione” e “sull’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e
contabile adottato dalla società”; egli ha inoltre il compito (se non è nominato un revisore) di verificare
costantemente “la regolare tenuta della contabilità sociale e la corretta rilevazione dei fatti di gestione nelle
scritture contabili”, nonché di esprimere in un’apposita relazione il giudizio sul bilancio.
La nomina compete necessariamente alla collettività dei soci, che, se lo statuto lo consente, può procedervi
anche con decisione non collegiale. La collettività dei soci deve provvedervi entro 30 giorni, termine
decorso il quale la designazione è fatta dal tribunale su istanza di qualunque interessato. La revoca del
titolare del controllo richiede la sussistenza di una giusta causa e l’approvazione del tribunale.
Al di fuori delle ipotesi di nomina obbligatoria, l’atto costitutivo può comunque prevedere la presenza di un
“organo di controllo” monocratico o pluripersonale (dunque o un sindaco o un collegio sindacale) e/o di un
revisore, in questo caso potendone determinare anche le competenze, con una certa libertà (controllo
facoltativo). L’affidamento di poteri di vigilanza a soggetti esterni, indipendenti e professionalmente
qualificati, può svolgere la duplice funzione di incrementare le garanzie per i soci non amministratori e di
favorire l’immagine della società sul mercato. Proprio per quest’ultima ragione, deve ritenersi che la
presenza, sia pur facoltativa, di un ufficio deputato al controllo susciti nei terzi un affidamento che limita
parzialmente l’autonomia dei soci nelle decisioni relative alle sorto ed ai poteri di tale ufficio. È vero anche
che la stessa legge affida all’atto costitutivo il compito di definirne i poteri, ma la libertà negoziale deve
rispettare il criterio della coerenza rispetto alle funzioni tipiche dell’ufficio stesso.

I SUB MODELLI DI S.R.L.

Le S.r.l. semplificate
Introdotte nel nostro ordinamento dal legislatore, sul modello di altre esperienze straniere, nel 2012  esse
possono avere un capitale minimo inferiore a 10.000 € (ma non sotto al minimo di 1€): si tratta di uno
strumento volto ad incentivare la nascita di nuove iniziative imprenditoriali che non necessitano di un
capitale sociale minimo elevato e con costi di costituzione ridotti. In altre parole, il legislatore intende
incentivare l’utilizzo del tipo S.r.l. alleggerendo i vincoli nella fase costitutiva e/o le risorse finanziarie
necessarie per dare vita ad una società di capitali.
È opinione prevalente che la S.r.l. semplificata sia riconducibile al tipo S.r.l. e non rappresenti pertanto un
tipo autonomo  è lo stesso legislatore ad affermare che per tutti gli altri aspetti non espressamente
contemplati dall’art.2463-bis, si rinvia alla disciplina in essere per la S.r.l. ordinaria, in quanto compatibile.
La scelta di tale sub modello non è irreversibile, potendo la società evolvere verso la S.r.l. ordinaria (cd
conversione progressiva: operazione che non dà luogo ad una trasformazione in senso tecnico e, quindi,
non è soggetta alla relativa disciplina, proprio perché si resta all’interno del tipo S.r.l.) oppure trasformarsi
in un qualunque altro tipo di società, o partecipare ad operazioni di fusione e scissione con società diverse.
Anzi, è naturale pensare che la costituzione in forma di S.r.l.s. sia voluta dai soci fondatori solo per la fase di
avvio dell’attività, e che poi gli stessi preferiscano passare ad una S.r.l. ordinaria (in virtù della maggiore
autonomia ivi riconosciuta) o ad un altro tipo di società.
È invece discusso se sia possibile che una S.r.l. ordinaria possa divenire semplificata ed in che termini (cd
conversione regressiva). Un’operazione cui dovrebbe naturalmente collegarsi una riduzione di capitale. Le
ipotesi astrattamente configurabili sarebbero 2: quella di una conversione in S.r.l.s. quando i soci vogliano
procedere ad una riduzione reale del capitale, portandolo al di sotto della soglia dei 10.000 €; e quella, forse
più rilevante, in cui la S.r.l. ordinaria abbia perduto parte (più di ⅓) del proprio capitale iniziale, trovandosi a
disporre di un capitale inferiore a tale soglia, nel qual caso la conversione in S.r.l.s. potrebbe rappresentare,
se lecita, il modo di adempiere agli obblighi imposti , mantenendo, senza effettuare nuovi investimenti (ossia
senza dover riportare il capitale a 10.000 €, mediante un aumento), la veste di società di capitali e con essa il
beneficio della responsabilità limitata per i soci. Parte della dottrina nega in generale la convertibilità in
S.r.l.s. basandosi sul fatto che l’accessibilità alla disciplina di questa dovrebbe essere possibile solo in fase di
costituzione. Altra parte della dottrina, seguita pure dai notai, invece lo ammette in considerazione del

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principio di conservazione delle imprese e di autonomia statutaria dei soci  chi propende per tale
possibilità arriva allora a sostenere che il nuovo limite di 1€ non rappresenti unicamente una sorta di
“agevolazione” in sede di costituzione della società, bensì rappresenti in generale il nuovo limite minimo del
capitale sociale nella S.r.l. In questa prospettiva si deduce non solo la legittimità della conversione
regressiva, ma anche la trasformabilità in S.r.l.s. di società di persone e pure di una S.p.a. e anche la
possibilità di procedere ad operazioni di fusione o scissione di società, che diano vita ad una S.r.l.s.
La S.r.l.s. può essere costituita da chiunque, purché persona fisica  non sono quindi ammessi soci
persone giuridiche. La costituzione avviene mediante contratto o atto unilaterale, redatto dal notaio, a tutolo
gratuito, in conformità ad un modello standard. Questo modello appare, in realtà, piuttosto scarno e non
contempla ad es. la possibilità di indicare una durata, o di optare per una amministrazione congiuntiva o
disgiuntiva, o di nominare un organo di controllo, o ancora di prevedere ulteriori casi di recesso (oltre a
quelli legali). Tale modello non è modificabile dalle parti, e ciò rappresenta un forte limite all’autonomia
negoziale, tratto invece caratterizzante la S.r.l. ordinaria.
Al fine di permettere ai terzi di conoscere lo status particolare della suddetta società, nell’atto costitutivo
occorre indicare che la società è una S.r.l.s. e tale indicazione deve apparire anche negli atti e nella
corrispondenza della società e nello spazio elettronico destinato alla comunicazione collegato con la rete
telematica ad accesso pubblico, assieme all’ammontare del capitale sottoscritto e versato, la sede della
società e l’ufficio del registro presso cui la stessa è iscritta.
La S.r.l.s. deve avere un capitale sociale sottoscritto e interamente versato pari almeno ad 1€ e inferiore a
10.000 €. Il conferimento deve farsi necessariamente in denaro ed essere versato all’organo amministrativo
 dunque non sono ammessi – almeno nella fase costitutiva – conferimenti di opera o servizi, di beni in
natura, o di crediti.
È discusso se queste regole in tema di conferimenti debbano applicarsi solo nella fase costitutiva o anche in
caso di aumento del capitale (comunque inferiore a 10.000 €)  secondo una corrente di pensiero tali norme
non dovrebbero applicarsi dato che non vi sarebbero quelle esigenze di speditezza, di semplificazione e di
immediata disponibilità di un capitale iniziale liquido che caratterizzerebbero l’atto costitutivo.
Sotto il profilo finanziario, va sottolineato che la S.r.l.s. non è una società senza capitale; per quanto
minimo, esso è sempre presente e ad esso risulta applicabile la disciplina generale. Perciò, in caso di perdite
che abbiano ridotto il patrimonio netto al di sotto della soglia minima di 1€, la società non potrà
sopravvivere, dovendo, come ogni altra S.r.l. e ogni S.p.a., procedere alla reintegrazione delle risorse
mediante aumento di capitale o trasformandosi in una società di persone (con perdita, allora, del beneficio
della responsabilità limitata). Tale aspetto assume una rilevanza particolare, perché sancisce l’impossibilità
di mantenere in vita imprese beneficianti della responsabilità limitata (ossia società di capitali) che abbiano
un patrimonio netto nullo o negativo.
Certo è che la sostanziale irrilevanza delle risorse con cui una S.r.l.s. può essere costituita si traduce, per i
soggetti interessati, nel riconoscimento normativo della possibilità di esercitare un’attività produttiva senza
esporre praticamente alcuna porzione del proprio patrimonio al rischio d’impresa, scaricando sul mercato
l’intero rischio di insuccesso dell’iniziativa. Proprio questa possibilità di costituire una S.r.l. dotata di
autonomia patrimoniale perfetta ma con capitale irrisorio ha suscitato diverse critiche  ad es. per tale
società è assai difficoltoso il ricorso al credito, ma soprattutto crea dei problemi per i creditori sociali.

Le S.r.l. a capitale marginale


Nel 2013 il legislatore ha riconosciuto che pure la S.r.l. ordinaria (e non solo quindi la S.r.l.s.) possa essere
costituita con un capitale sociale inferiore a 10.000 €, ma purché pari ad almeno 1€  qualora ciò
avvenisse (e la S.r.l. avesse, quindi, un capitale marginale), il legislatore fissa una disciplina più rigorosa in
tema di conferimenti e riserva legale, mentre per il resto si applica la disciplina generale.
Innanzitutto il legislatore impone che, in presenza di un capitale sociale inferiore a 10.000 € (e purché pari
ad 1€), i conferimenti debbano essere effettuati esclusivamente in denaro ed essere versati per intero alle
persone cui è affidata l’amministrazione  in definitiva, come nelle S.r.l.s. e a differenza di quanto accade
nelle S.r.l. ordinarie, in caso di costituzione di una S.r.l. a capitale marginale i conferimenti non possono
essere diversi dal denaro e devono essere interamente versati.

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Viene inoltre prevista una disciplina più rigorosa rispetto alla disciplina generale relativa alla riserva legale;
disciplina sicuramente da considerarsi positivamente per quanto riguarda la tutela dei terzi, ma che potrà
risultare efficace solo qualora la società sia in grado di generare effettivamente degli utili.
In base all’art.2430 è richiesto che dagli utili netti annuali sia dedotta una somma corrispondente almeno alla
20ª parte di essi, così da costituire una riserva legale, fino a che questa non abbia raggiunto il 5° del capitale
sociale. L’art.2463, c.5, impone invece di dedurre dagli utili netti risultanti dal bilancio una somma pari
almeno ad 1/5 degli stessi, fino a che la suddetta riserva e il capitale sociale non abbiano raggiunto
l’ammontare di 10.000 €. Una volta raggiunto tale ammontare, all’accantonamento si applicherà invece la
disciplina generale di cui all’art.2430. La citata riserva può poi essere utilizzata solo per imputazione a
capitale (cioè in caso di aumento di capitale) e per copertura di eventuali perdite con obbligo di sua
reintegrazione laddove essa sia diminuita: non sono invece stati introdotti ne un termine di scadenza entro il
quale la società è obbligata a raggiungere la suddetta soglia della riserva legale, ne l’obbligo di imputare a
capitale quanto accantonato.
La funzione di queste regole è di permettere agli operatori economici di avviare un’attività d’impresa
sostanzialmente senza investirvi risorse proprie (o investendo risorse modestissime) e ciononostante
garantendosi il beneficio di limitazione del rischio d’impresa; e affidando poi al mercato la valutazione se
l’iniziativa sia meritevole o no di fiducia (ad es. facendone credito). La regola particolare in tema di riserva
legale serve poi a garantire che la società, con le sue forze, raggiunga se possibile rapidamente quelle
dimensioni di patrimonio indisponibile che sono proprie delle S.r.l. ordinarie.
Infine occorre ricordare che, a differenza della S.r.l.s. ove, da un lato, vi è la possibilità di beneficiare di
risparmi e semplificazioni nella fase costitutiva ma, dall’altro, i soci devono necessariamente essere persone
fisiche e occorre adottare uno statuto standardizzato e molto elementare, nel caso di S.r.l. con capitale
marginale – salvo le regole peculiari in tema di conferimenti e formazione della riserva legale – si applica la
disciplina generale fissata per le S.r.l.  quindi vi è la medesima libertà di definire nell’atto costitutivo le
regole organizzative e di far partecipare, in qualità di soci, sia persone fisiche che persone giuridiche.
Da qui l’interrogativo se si tratti veramente di un sub modello oppure, più semplicemente, di un regime
speciale relativamente al capitale sociale, conferimenti e riserva legale.

Le S.r.l. start-up e PMI innovative: in generale le S.r.l. PMI


Il legislatore ha introdotto una peculiare disciplina prima in tema di start-up innovative, poi estesa in parte
alle PMI innovative, che sotto molteplici profili deroga alla disciplina generale.
Non solo si prevede una deroga alla rigorosa disciplina in tema di riduzione del capitale sociale per perdite
( in presenza di perdite superiori ad ⅓ del capitale sociale, il termine di norma fissato in 1 esercizio è
posticipato al 2° esercizio e, nel caso invece di perdite superiori ad ⅓ e tali da ridurre il capitale al di sotto
del minimo legale, l’assemblea convocata senza indugio può deliberare di rinviare la decisione alla chiusura
dell’esercizio successivo), ma vengono introdotte specifiche previsioni che si pongono in totale dissonanza
rispetto alla disciplina generale. Tuttavia si tratta (almeno per le start-up) di una specialità a tempo, dato che
le deroghe si applicano solo per i primi 5 anni.
Ci si riferisce alla possibilità di:
a) creare categorie di quote fornite di diritti diversi, ivi inclusa la possibilità di prevedere delle categorie di
quote che non attribuiscono diritto di voto o che attribuiscono al socio diritto di voto in misura non
proporzionale alla partecipazione detenuta ovvero diritto di voto limitato a specifici argomenti o
subordinato al verificarsi di particolari condizioni non meramente potestative;
b) offrire al pubblico le quote di partecipazione, anche attraverso portali on-line dedicati;
c) effettuare operazioni sulle proprie quote, a condizione che l’operazione sia compiuta in attuazione di
piani di incentivazione che prevedano l’assegnazione di quote ad es. a dipendenti, collaboratori, etc;
d) emettere, a seguito dell’apporto da parte dei soci o di terzi anche di opera o servizi, strumenti finanziari
partecipativi forniti di diritti patrimoniali o anche di diritti amministrativi, escluso il voto nelle decisioni
dei soci, come nelle S.p.a.
Occorre poi ricordare che le start-up S.r.l. possono essere costituite mediante l’adozione di un modello
uniforme (sicuramente più ampio ed articolato rispetto a quello previsto per la S.r.l.s.) adottato con apposito
decreto del Ministero dello sviluppo economico e, in tal caso, è possibile evitare l’intervento del notaio
attraverso la sottoscrizione dell’atto con firma digitale.

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È necessario infine sottolineare che il legislatore ha recentemente deciso (nel 2017) di estendere alcune delle
novità normative – prima destinate unicamente alle start-up e PMI innovative – a tutte le PMI, al chiaro
fine di permettere ad un elevato numero di società un ampio ricorso al mercato del capitale di rischio.
Si tratta della possibilità di emettere categorie di quote, offrire le partecipazioni al pubblico anche attraverso
portali a ciò dedicati, ricorrere al regime alternativo e intermediato di intestazione e trasferimento delle
quote, effettuare operazioni sulle proprie quote qualora queste siano compiute in attuazione di piani di
incentivazione.
Tali opportunità, fino a poco tempo fa riservate alle sole S.p.a., mettono ora anche le S.r.l. PMI in
condizione di attrarre nuovi capitali. Molte di queste previsioni comportano però un radicale cambiamento
nella struttura partecipativa e finanziaria della S.r.l., avvicinando la S.r.l. PMI alla S.p.a., e dando luogo così
ad alcuni interrogativi. Ci si è domandati anche quanto sia conciliabile con la tutela del pubblico risparmio il
fatto che le S.r.l. start-up e PMI innovative (ed ora tutte le S.r.l. PMI) possano sollecitare il mercato del
capitale di rischio mediante offerta al pubblico delle proprie quote, senza che a ciò corrisponda la rigida
disciplina della S.p.a. sotto il profilo dei doveri e responsabilità degli amministratori, nonché dei controlli. Il
dubbio nasce dal fatto che i provvedimenti sopraindicati, risultando finalizzati a favorire la nascita e lo
sviluppo di nuove iniziative imprenditoriali, paiono aver talora completamente trascurato altri valori, come
ad es. la tutela del mercato.

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LA SOCIETÀ IN ACCOMANDITA PER AZIONI


Caratteri generali
La S.a.p.a. si caratterizza principalmente per il fatto di avere, al pari della S.a.s., soci accomandanti e soci
accomandatari, mentre le quote di partecipazioni dei soci (siano essi accomandanti o accomandatari) sono
rappresentate, come nella S.p.a., da azioni.
In realtà si tratta di un tipo poco diffuso nella prassi e che, quindi, riveste un’importanza di gran lunga
minore all’interno della famiglia delle società di capitali rispetto alla S.p.a. e alla S.r.l.
In forza dell’art.2452, i soci accomandanti sono obbligati nei limiti della quota di capitale sottoscritta e a
differenza della S.a.s. non sono previste deroghe a tale previsione; invece i soci accomandatari rispondono
solidalmente e illimitatamente per le obbligazioni sociali. In definitiva in questa società opera una duplice
responsabilità: sia da parte della società con il proprio patrimonio, sia da parte dei soci accomandatari (i
quali, come si vedrà, sono amministratori di diritto della società). È tuttavia riconosciuto il carattere
sussidiario della responsabilità dei soci accomandatari  i creditori sociali non possono pretendere il
pagamento dai soci accomandatari se non dopo l’escussione del patrimonio sociale.
Nel disciplinare la S.a.p.a. il legislatore introduce specifiche norme – volte principalmente ad attribuire ampi
poteri ai soci accomandatari – e, per il resto, rinvia in termini generali alla disciplina relativa alla S.p.a., in
quanto compatibile. Le norme “particolari” dedicate alla S.a.p.a. rendono tale tipo societario uno strumento
pensato ed utilizzato (seppur raramente) soprattutto in relazione a società familiari, in quanto consente un
assetto di governo in grado di privilegiare la continuità della gestione imprenditoriale, in particolare
attraverso l’apposita disciplina in tema di nomina e revoca degli accomandatari.

I soci accomandatari
La disciplina della S.a.p.a. si caratterizza fondamentalmente per il ruolo particolarmente accentuato
riconosciuto ai soci accomandatari  rispetto ad una S.p.a., in cui prevale la logica dell’investimento
“anonimo” e dell’uguaglianza di posizione e di ruolo tra gli azionisti, in una S.a.p.a. la posizione (cioè i
poteri) degli accomandatari, rispetto agli accomandanti, non dipende dal dato oggettivo di un certo possesso
azionario, ma dalla qualifica soggettiva di accomandatario, occorrendo in tal caso una delibera assunta dai
soci con le maggioranze richieste per l’assemblea straordinaria di S.p.a. e il consenso unanime degli attuali
accomandatari. Insomma, i poteri propri dell’accomandatario sono legati ad una qualifica soggettiva, non
soltanto al possesso di un certo numero di azioni.
A differenza della S.a.s. – ove possono esservi accomandatari non amministratori – i soci accomandatari
nella S.a.p.a. sono di diritto amministratori. Inoltre il nome di almeno uno di questi deve apparire nella
denominazione sociale, assieme all’indicazione di S.a.p.a.
L’amministrazione nella S.a.p.a. è così attribuita a soci e non può essere affidata a soggetti terzi  si spiega
allora come mai la società si scioglie, oltre che nei casi comuni a tutte le società di capitali, se cessano
dall’ufficio tutti gli amministratori e, nel termine di 180 giorni, non si provvede alla loro sostituzione.
Gli accomandatari sono amministratori a tempo indeterminato ed è prevista una particolare disciplina
relativa alla revoca e alla sostituzione degli stessi, volta a rafforzare la posizione dei medesimi e,
conseguentemente, a comprimere i poteri dell’assemblea, costretta ad operare nel rispetto di maggioranze
più elevate e a vedere condizionata l’efficacia delle proprie decisioni all’approvazione degli amministratori.
La revoca degli amministratori deve essere deliberata con la maggioranza prescritta per le deliberazioni
dell’assemblea straordinaria della S.p.a. – ossia almeno i ⅔ del capitale rappresentato in assemblea – (se
avviene senza giusta causa può dar luogo ad un risarcimento del danno in favore dell’amministratore
revocato) e, nel caso occorra sostituire l’amministratore che, per qualunque causa, abbia cessato dal suo
ufficio, la nomina – effettuata dai soci in assemblea, sempre con la maggioranza prescritta per le
deliberazioni dell’assemblea straordinaria di S.p.a. – deve essere approvata, pena l’inefficacia della stessa,
dall’unanimità degli altri amministratori rimasti in carica  in definitiva spetta agli amministratori un diritto
di veto sulla nomina dei nuovi.

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Un diritto di veto (sempre in capo agli accomandatari) spetta anche in caso di modifiche all’atto costitutivo
che devono essere adottate dall’assemblea con le maggioranze prescritte per quella straordinaria di S.p.a. e
che devono, appunto, essere approvate (anche) da tutti i soci accomandatari.
Come contrappeso all’ampio potere riconosciuto ai soci accomandatari il legislatore introduce un’apposita
norma relativa gli organi di controllo tesa a garantire un’ampia indipendenza degli stessi rispetto ai primi:
i soci accomandatari non hanno il diritto di voto per le azioni ad essi spettanti nelle deliberazioni
dell’assemblea che riguardano la nomina e la revoca dei sindaci (o dei componenti del consiglio di
sorveglianza) e l’esercizio dell’azione di responsabilità.

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LO SCIOGLIMENTO E LA LIQUIDAZIONE DELLE SOCIETÀ DI CAPITALI


LO SCIOGLIMENTO
Il codice civile disciplina oggi unitariamente, per tutte e tre le società di capitali, quella particolare fase della
vita della società che, dal verificarsi di una causa di scioglimento, passando attraverso la liquidazione del
patrimonio sociale – ossia la sua traduzione in denaro – conduce alla sua estinzione.
Con lo scioglimento la società prosegue e mantiene la propria personalità giuridica.

Le cause di scioglimento
Le cause di scioglimento delle società di capitali sono elencate nell’art.2484, anche se non si tratta di una
elencazione esaustiva (in quanto si rinvia alle “altre cause previste dalla legge”). Inoltre, alle cause di
scioglimento legali si possono eventualmente affiancare anche cause convenzionali, introdotte mediante
apposita previsione statutaria.
Le cause legali ex art.2484 sono:
1) Decorso del termine  tale causa di scioglimento, nel passato necessaria, è oggi, per effetto della
riconosciuta possibilità di costituire anche una società di capitali a tempo indeterminato, una causa destinata
ad operare soltanto per quelle società il cui atto costitutivo preveda una scadenza; comunque sia, quando
anche sia previsto un termine di scadenza, è sempre possibile prorogarlo per mezzo di una modifica
statutaria però, per le S.p.a. e S.a.p.a. che non facciano ricorso al mercato del capitale di rischio, la
deliberazione dell’assemblea straordinaria di proroga del termine deve essere assunta con il quorum
deliberativo rafforzato di più di ⅓ del capitale sociale, mentre nessuna eccezione ai quorum stabiliti per le
modifiche statutarie è prevista per la S.r.l.; va poi ulteriormente sottolineato che nella S.p.a. e nella S.a.p.a.,
salva diversa previsione statutaria, il socio che non abbia concorso all’approvazione della deliberazione di
proroga del termine ha diritto di recedere dalla società, nella S.r.l. invece, visto che la proroga del termine
non rientra tra le cause per le quali viene attribuito il diritto di recesso, questo spetta soltanto a fronte di una
espressa previsione statutaria; la proroga del termine deve comunque essere deliberata espressamente, non
essendo ipotizzabile nelle società di capitali una proroga tacita;
2) Conseguimento dell’oggetto sociale / sopravvenuta impossibilità di conseguirlo  mentre
l’impossibilità di conseguimento può manifestarsi qualunque sia l’oggetto sociale, il suo conseguimento può
ipotizzarsi solo là dove sia stata dedotta come oggetto un’attività destinata a concludersi (ad es. la
realizzazione di una determinata opera); l’impossibilità può essere sia materiale che giuridica, come
avverrebbe nel caso che lo svolgimento di una determinata attività economica, prima consentito, venga in
seguito vietato ai privati per effetto di un intervento legislativo; essa deve inoltre essere assoluta e definitiva
e avere carattere oggettivo, senza dipendere dunque da una mera impossibilità soggettiva della società;
prevedendosi che tale causa operi “salvo che l’assemblea, all’uopo convocata senza indugio, non deliberi le
opportune modifiche statutarie”, al suo verificarsi lo scioglimento non è inevitabile, al pari di quanto accade
con riferimento alla causa consistente nella riduzione del capitale al di sotto del minimo legale; è evidente
allora che in tale ipotesi gli amministratori siano obbligati a convocare l’assemblea per le eventuali
modifiche statutarie, prima di procedere all’accertamento del verificarsi della causa di scioglimento; nella
normalità dei casi, l’assemblea per evitare lo scioglimento dovrà mettere mano all’oggetto sociale, ma
correttamente nella legge si fa un più generico riferimento alle “opportune modifiche statutarie”, in quanto il
rimedio potrebbe anche consistere in una deliberazione di trasformazione, o in un aumento di capitale, ecc;
3) Impossibilità di funzionamento / continuata inattività dell’assemblea  secondo l’opinione più
accreditata anche in giurisprudenza, la paralisi dell’organo deve, per assurgere a causa di scioglimento,
impedire l’adozione di delibere necessarie ed essenziali per il funzionamento della società, quali
l’approvazione del bilancio d’esercizio e il rinnovo degli organi sociali; classico è il caso della società
partecipata da 2 soci, titolari ciascuno della metà del capitale sociale, che votino stabilmente l’uno contro le
proposte dell’altro;
4) Riduzione del capitale sotto il minimo legale  non qualunque riduzione al di sotto del minimo legale
integra la causa di scioglimento in oggetto, bensì solo quella che si realizzi per effetto di una perdita di oltre
⅓ del capitale, cioè a dire di una perdita che renderebbe obbligatoria la riduzione del capitale;

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5) Recesso del socio  ciò avviene quando per il rimborso della partecipazione si renda necessaria la
riduzione del capitale sociale ma tale operazione risulti impedita dall’opposizione vincente da parte di uno o
più creditori sociali;
6) Deliberazioni dell’assemblea  rientra sempre nell’autonomia dei privati e può considerarsi espressione
del principio generale di risolubilità convenzionale dei contratti di durata la possibilità di deliberare lo
scioglimento della società prima della scadenza del termine; poiché si tratta, in ogni caso, di apportare una
modifica all’atto costitutivo, la relativa decisione deve essere assunta dall’assemblea straordinaria nella S.p.a.
e dall’assemblea nella S.r.l.
Tra le cause legali di scioglimento previste in norme diverse dall’art.2484, va ricordata, in primo luogo,
quella che si determina per effetto della dichiarazione di nullità della società già iscritta nel registro delle
imprese, perché di applicazione generale, in quanto, pur prevista espressamente per le sole S.p.a., opera
anche nelle altre due società di capitali per effetto dei rinvii. In secondo luogo, perché di applicazione
soltanto settoriale, vanno segnalate quella prevista per la S.a.p.a. (la cessazione dell’ufficio di tutti gli
amministratori) e quella prevista pe le sole società quotate (mancato ripristino del rapporto dovuto tra azioni
ordinarie e azioni di risparmio e/o con voto limitato). È opportuno segnalare infine che nell’art.2484 non si
fa alcun riferimento espresso al fallimento  quindi per le società di capitali non rappresenta più
un’autonoma causa di scioglimento, mentre continua ad esserlo per le società di persone.
È lasciata poi all’autonomia privata la possibilità di prevedere nei documenti costitutivi della società cause
di scioglimento ulteriori rispetto a quelle legali (ad es. per il mancato superamento di certe soglie di
fatturato a una certa data). Qualora ciò si verifichi, sembra preferibile ritenere, quanto meno con riferimento
a cause convenzionali di scioglimento che non necessitino di una decisione, bensì di un mero accertamento,
che alla mancata indicazione dell’organo a ciò deputato non debba conseguire l’inefficacia o addirittura
l’invalidità della previsione, potendosi estendere anche a tali fattispecie il potere generalmente riconosciuto
dalla legge all’organo di gestione.

Gli effetti
Gli effetti dello scioglimento si producono soltanto con l’iscrizione nel registro delle imprese della
deliberazione assembleare (nel caso di scioglimento anticipato) oppure della dichiarazione con cui l’organo
di gestione abbia accertato il verificarsi di una delle altre cause previste. In vista degli adempimenti
pubblicitari, l’organo di gestione deve procedere “senza indugio” all’accertamento della causa di
scioglimento, nonché convocare, ove ciò sia necessario, l’assemblea per le deliberazioni relative alla
liquidazione. Tali adempimenti sono essenziali, quindi, in caso di omissione da parte degli amministratori,
spetta al tribunale, su istanza di singoli soci o amministratori o dei sindaci, di provvedere con decreto, da
iscriversi nel registro delle imprese, all’accertamento del verificarsi di una causa di scioglimento, e ciò
anche in pendenza di controversia tra i soci circa la sussistenza di tale causa.
Al di là degli obblighi specifici imposti, al verificarsi di una causa di scioglimento, gli amministratori
subiscono un ridimensionamento del loro potere di gestione  essi conservano sì il potere di gestire, ma
soltanto ai fini della conservazione dell’integrità e del valore del patrimonio sociale. Quindi se eccedono i
limiti nella gestione, o omettono di compiere atti di gestione finalizzati alla conservazione del patrimonio
sociale, gli amministratori assumono responsabilità per gli eventuali danni arrecati alla società, ai soci, ai
creditori sociali e ai terzi. È importante infine mettere in evidenza che si tratta di mera responsabilità per
danni, con l’ovvio corollario della necessità che venga accertato il nesso di causalità tra il comportamento e
il pregiudizio, e non di responsabilità per debito, nel senso che gli amministratori dovrebbero rispondere
direttamente nei confronti del terzo delle obbligazioni illecitamente assunte in nome della società.

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IL PROCEDIMENTO DI LIQUIDAZIONE
Quello di liquidazione delle società di capitali è un procedimento complesso, che si apre con la nomina dei
liquidatori (ove necessaria) e che è, secondo l’opinione tradizionale, inderogabile, anche quando non vi
siano attività e passività da liquidare.

La nomina e la revoca dei liquidatori


Secondo l’art.2487 la nomina dei liquidatori compete all’assemblea, che delibera con le maggioranze
previste per le modificazioni dello statuto o dell’atto costitutivo, tuttavia senza il controllo notarile. Una
deliberazione assembleare ad hoc non è comunque sempre necessaria  la stessa legge prevede
l’eventualità che le disposizioni in tema di liquidazione possano essere già esaustivamente contenute nello
statuto o nell’atto costitutivo, e che dunque potrebbero nominativamente indicare ex ante i liquidatori.
Anche se è ovvio che nella S.p.a. spetta all’assemblea straordinaria, con relativa verbalizzazione notarile,
provvedere alla nomina, il legislatore nell’art.2487 si riferisce genericamente alla “assemblea” in
considerazione del fatto che la disciplina dello scioglimento e della liquidazione è dettata indifferentemente
per tutte le società di capitali, ivi compresa la S.r.l., per la quale la distinzione tra assemblea ordinaria e
straordinaria viene meno.
La deliberazione assembleare ha un contenuto complesso, perché alla nomina dei liquidatori (con
indicazione del loro numero e delle regole di funzionamento dell’organo, sempre che a ciò non abbiano già
provveduto i documenti costitutivi della società), si accompagna:
- l’indicazione dei criteri in base ai quali deve svolgersi la liquidazione;
- la definizione dei poteri dei liquidatori con specifico riguardo alla cessione dell’azienda e, in generale, dei
beni sociali;
- l’individuazione degli atti necessari per la conservazione del valore dell’impresa, ivi compreso l’eventuale
esercizio provvisorio della stessa, in funzione del migliore realizzo.
Premesso che l’omissione di tali indicazioni non pregiudica la validità della nomina, l’ampliamento del
potere disciplinare dei soci, sino alla puntuale previsione delle linee di svolgimento della liquidazione (cui i
liquidatori devono attenersi) finisce, quando si tratti di S.p.a., per segnare una profonda differenza tra la
“gestione” durante il normale svolgimento dell’attività – che è di assoluta competenza dell’organo
amministrativo – e la “gestione” nella fase di liquidazione che può essere in toto governata dai soci.
Comunque l’assenza nella deliberazione di nomina di ulteriori indicazioni può porre, ove tali indicazioni
non siano già contenute nei documenti costitutivi della società, una serie di problemi: circa le regole di
funzionamento dell’organo deputato alla liquidazione, se i liquidatori sono più di uno dovrebbero operare
secondo il metodo collegiale; per quanto riguarda la rappresentanza, si deve ritenere che gli amministratori
abbiano la rappresentanza generale della società, e questa, in assenza di positive indicazioni assembleari a
riguardo, dovrebbe spettare disgiuntamente a ciascuno dei liquidatori; e ancora, non essendo previsto dalla
legge un termine per la durata in carica dei liquidatori, si deve intendere che essi rimangano in carica per
tutto il corso della liquidazione.
In caso di inerzia degli amministratori nell’accertamento del verificarsi di una causa di scioglimento, il
codice stabilisce l’intervento sostitutivo del tribunale ma non solo: l’autorità giudiziaria interviene in
sostituzione degli amministratori anche nel caso di mancata convocazione dell’assemblea per la nomina dei
liquidatori e nel caso di mancata costituzione o mancata deliberazione dell’assemblea, attraverso la nomina
diretta degli stessi. Dunque, il quadro che ne risulta quando si registra la totale inerzia dell’organo
amministrativo è assai complesso: chi intenda far accertare lo scioglimento della società e ottenere la
nomina dei liquidatori rischia di doversi rivolgere addirittura 3 volte di seguito al tribunale  1 per far
accertare lo scioglimento, 1 per ottenere la convocazione dell’assemblea ed 1 per far nominare i liquidatori!
A differenza di quanto prevede per gli amministratori, la legge, nel disciplinare la revoca dei liquidatori,
non riserva in toto alla maggioranza assembleare il relativo potere, disciplinando anche la revoca giudiziale
“su istanza di soci, dei sindaci o del P.M.”, seppur soltanto ove ricorra una giusta causa.
Quanto alla revoca assembleare, anche in assenza di una previsione espressa, è da ritenere che, in assenza di
una giusta causa, spetti ai liquidatori il risarcimento del danno. Il potere di revoca dell’assemblea comunque

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non incontra alcun limite, neanche quando la nomina dei liquidatori fosse già contenuta nello statuto o
nell’atto costitutivo, o fosse stata effettuata dal tribunale.
Quanto invece alla revoca giudiziale, è da sottolineare che la legittimazione alla relativa istanza attribuita al
P.M. dà un rilievo pubblicistico alla vicenda liquidativa della società di capitali.
La pubblicità della nomina dei liquidatori e l’eventuale determinazione dei loro poteri, così come della
revoca e delle modifiche a questi secondi, si realizza mediante iscrizione nel registro delle imprese, da
effettuarsi a cura degli stessi liquidatori. Quanto alla tempestività con cui debbono essere adempiuti tali
obblighi pubblicitari, sembra debba valere il termine di 30 giorni.
Sempre con l’intento di fornire un’adeguata informazione ai terzi, la legge prescrive anche l’obbligo di
aggiungere alla denominazione sociale l’indicazione che si tratta di società in liquidazione. Tale aggiunta –
che non può essere considerata una modifica della denominazione – non necessita di essere realizzata
mediante il procedimento di modifica dell’atto costitutivo o dello statuto.
L’iscrizione della nomina dei liquidatori nel registro delle imprese non è importante solo ai fini pubblicitari,
ma anche perché segna il momento in cui cessano dalla carica gli amministratori e avviene il passaggio dei
poteri in capo ai liquidatori. A tal fine, gli amministratori consegnano ai liquidatori i libri sociali (libro degli
inventari e libro giornale in primis), nonché una situazione dei conti alla data di effetto dello scioglimento ed
un rendiconto sulla loro gestione relativo al periodo successivo all’ultimo bilancio approvato.

I poteri e gli obblighi dei liquidatori. La responsabilità


A differenza di quanto previsto per le società di persone, nelle società di capitali non è previsto per i
liquidatori il divieto di compiere nuove operazioni, divieto sostituito dal riconoscimento del potere di
“compiere tutti gli atti utili per la liquidazione della società”, salvo i limiti emergenti dall’atto costitutivo o
dallo statuto, ovvero dalla deliberazione di nomina. Non essendo possibile enunciare il catalogo degli atti
che possono essere considerati utili per la liquidazione, il tema più delicato sul quale si è concentrata
l’attenzione degli interpreti è quello della continuazione dell’attività dell’impresa (“il suo esercizio
provvisorio” come recita l’art.2487)  ci si chiede cioè, se la decisione di proseguire nell’attività, oltre che
essere eventualmente contenuta nella deliberazione assembleare di nomina, possa essere frutto di una
autonoma scelta dei liquidatori. Al riguardo sembra preferibile la soluzione positiva, alla luce soprattutto del
tassativo riconoscimento ai liquidatori del potere di compiere tutti gli atti utili, con l’unico limite segnato da
eventuali diverse diposizioni statutarie o adottate in sede di nomina, che sole potrebbero escludere a priori
dal novero dei poteri dei liquidatori quello di proseguire nell’attività d’impresa.
Passando a considerare gli obblighi incombenti sui liquidatori, va sottolineato che, al di là degli obblighi
specifici, si afferma – sulla scorta di quanto previsto per gli amministratori di S.p.a. – il generale dovere dei
liquidatori di agire nell’adempimento dei loro obblighi con la professionalità e la diligenza richieste dalla
natura dell’incarico  dovere generale che ha ad oggetto la cura dell’attività di liquidazione, la quale
consiste, previo procacciamento dei fondi necessari attraverso l’alienazione dei beni costituenti il patrimonio
sociale, essenzialmente nel pagamento dei creditori sociali alla cui integrale soddisfazione è subordinata la
ripartizione dell’attivo residuo tra i soci. Ciò spiega bene anche la specifica attenzione dedicata dalla legge
alla gestione delle risorse della società  si prevedono infatti: il potere dei liquidatori di chiedere ai soci i
versamenti ancora dovuti circa i conferimenti promessi – il divieto, derogabile a determinate condizioni, di
ripartire tra i soci acconti sul risultato della liquidazione – una specifica responsabilità dei liquidatori per
illecita ripartizione di tali acconti.
La responsabilità dei liquidatori per i danni derivanti dall’inosservanza dei doveri loro imposti è
disciplinata secondo le norme in tema di responsabilità degli amministratori. A tale disposizione di carattere
generale vanno però aggiunte le due previsioni specifiche di responsabilità nei confronti dei creditori sociali
per il caso di illecita ripartizione tra i soci di acconti sul risultato della liquidazione e per il caso di
cancellazione della società dal registro delle imprese, senza avere – con colpa – provveduto al pagamento
dei creditori sociali. Il quadro che ne risulta è di soltanto apparente semplicità: in primo luogo, in
considerazione del fatto che la disciplina della liquidazione oggi è unica per le società azionarie e per le
S.r.l., è inevitabile che vi siano evidenti differenze di regime  si pensi soltanto all’azione sociale
promuovibile dal singolo socio nella S.r.l. e all’assenza della previsione espressa nella disciplina della
medesima società dell’azione dei creditori sociali; in secondo luogo, si tratta di comprendere se il rinvio alle

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norme sulla responsabilità degli amministratori comporti, o meno, l’applicazione integrale di queste: la
questione si è posta tradizionalmente circa l’applicabilità ai liquidatori di S.p.a. della revoca automatica,
così come si propone per i liquidatori di S.r.l. in relazione alla revoca “cautelare”.

Gli organi sociali durante la liquidazione


«Le disposizioni sulle decisioni dei soci, sulle assemblee e sugli organi amministrativi e di controllo si
applicano, in quanto compatibili, anche durante la liquidazione». Così recita il codice, e se è evidente che
così disponendo la legge ha voluto confermare la continuità della struttura organizzativa della società
anche nel corso della fase di liquidazione, meno evidenti sono sia quali siano in concreto le decisioni dei
soci o le deliberazioni assembleari da ritenere compatibili con la liquidazione (quindi assumibili anche in
tale fase), ma anche quale significato si debba attribuire al riferimento alla continuità delle diposizioni sugli
organi amministrativi, che a differenza degli organi di controllo che permangono in carica per tutta la fase di
liquidazione, cessano all’atto dell’iscrizione nel registro delle imprese della nomina dei liquidatori.
Circa la questione relativa all’individuazione delle decisioni sociali compatibili con la liquidazione, non vi
è dubbio che con la disciplina attuale, in cui trova spazio anche la continuazione dell’attività d’impresa, e
alla luce della disciplina di istituti quali la trasformazione, la fusione e la scissione, l’esplicazione del potere
deliberativo dei soci non incontra molti ostacoli. Così è certamente possibile durante la liquidazione, sia
pure soltanto sino a quando non sia iniziata la distribuzione dell’attivo, deliberare una fusione o una
scissione. Così ancora si ritiene che è consentita, anche in pendenza di una procedura concorsuale, la
deliberazione di una trasformazione. Ancora maggiore libertà si ritiene dai più che vi sia nella deliberazione
delle operazioni sul capitale sociale.

I bilanci
Anche nella fase di liquidazione vige la regola della redazione periodica del bilancio d’esercizio, cui sono
tenuti i liquidatori e che deve essere presentato per l’approvazione all’assemblea o ai soci.
Il bilancio d’esercizio nella liquidazione ha la medesima struttura di quello “di funzionamento” e si
compone, dunque, di stato patrimoniale, conto economico e nota integrativa. Tuttavia il codice stabilisce a
tale struttura il limite della compatibilità “con la natura, le finalità e lo stato di liquidazione”, il che porta ad
affermare che, soprattutto con riferimento ai criteri di valutazione, il bilancio nella fase di liquidazione si
fonda necessariamente su di un sistema contabile flessibile, che può subire modificazioni nel progredire
dell’attività liquidativa e che deve trovare adeguata motivazione nella nota integrativa.
In tale contesto, assume importanza la relazione che accompagna il bilancio, nella quale i liquidatori devono
“illustrare l’andamento, le prospettive, anche temporali, della liquidazione, ed i principi e criteri adottati per
realizzarla”. Ai liquidatori poi compete di dare continuità ai bilanci, anche nel passaggio alla fase di
liquidazione  particolare attenzione è dedicata dalla legge al primo bilancio di competenza dei liquidatori,
in cui nella relativa nota integrativa, questi – allegandovi i due documenti contabili (situazione dei conti alla
data di effetto dello scioglimento e rendiconto sulla gestione relativo al periodo successivo all’ultimo
bilancio approvato) – devono dare conto delle variazioni nei criteri di valutazione adottati rispetto
all’ultimo bilancio predisposto dagli amministratori, nonché delle ragioni e conseguenze di tali variazioni.
Probabilmente nell’intento di espungere dai registri delle imprese società inattive da molti anni e per le quali
nessuno si preoccupa di portare a termine la liquidazione, si prevede che il mancato deposito “per oltre 3
anni consecutivi” del bilancio d’esercizio nel corso della liquidazione comporti la cancellazione d’ufficio
della società interessata, con la conseguenza della sua estinzione.

La revoca della liquidazione


L’art.2487-bis sancisce la revocabilità a maggioranza della liquidazione: «La società può in ogni
momento revocare lo stato di liquidazione con deliberazione dell’assemblea presa con le maggioranze
richieste per le modificazioni dell’atto costitutivo o dello statuto».
La scelta di trattare la decisione di revocare lo stato di liquidazione, quanto alle maggioranze richieste, alla
stregua di una normale modifica statutaria è in qualche misura mitigata dalla previsione che attribuisce
inderogabilmente al socio non consenziente il diritto di recedere dalla società  tuttavia tale ipotesi lascia

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un po’ perplessi alla luce della considerazione che, per effetto del suo esercizio, la società che ne abbia
deliberato la revoca potrebbe nuovamente essere precipitata nello stato di liquidazione.
La disciplina è poi completata dalla disposizione che appresta una specifica tutela per i creditori sociali
(l’opposizione) modellata su quella prevista per l’ipotesi di riduzione effettiva del capitale.
Il ritorno della società all’ordinaria operatività è comunque condizionato alla rimozione della causa di
scioglimento che aveva determinato l’apertura della liquidazione e delle eventuali altre cause che siano
insorte nel corso della stessa (rimozione che può richiedere una modifica statutaria). E in tale contesto la
necessità di verificare la sussistenza del capitale minimo richiesto per il tipo imporrà la redazione di un
bilancio straordinario.
L’aspetto maggiormente delicato circa la deliberazione di revoca concerne, tuttavia, lo spazio temporale
nell’ambito del quale è possibile sfruttare tale opportunità. Quanto al momento iniziale, a partire dal quale si
possa propriamente discorrere di “revoca dello stato di liquidazione”, sembra indubitabile dover fare
riferimento, seguendo l’opinione nettamente prevalente, a quello in cui si realizza l’effetto dello
scioglimento, cioè all’atto della realizzazione della pubblicità. Quanto al momento finale, oltre il quale
diviene irreversibile il fenomeno dissolutorio della società, gli interpreti si dividono fra: i) chi, aderendo in
toto alla lettera della legge, lo fa coincidere con quello della cancellazione della società dal registro delle
imprese; ii) chi genericamente ritiene consentita la revoca anche quando si sia già provveduto a pagamenti ai
creditori e a ripartizioni tra i soci; iii) chi fa riferimento all’approvazione del bilancio finale; iv) chi infine
anticipa il dies ad quem a quello del deposito di tale bilancio presso il registro delle imprese. Ed è proprio
quest’ultima la tesi più convincente, poiché il deposito del bilancio finale interviene “compiuta la
liquidazione”, cioè quando i creditori sociali sono stati già pagati – o quando avrebbero dovuto esserlo – non
avrebbe alcun senso apprestare uno strumento di loro tutela per una fase in cui i creditori non sono più tali.
Importante è infine il tema della ricostituzione dell’organo di gestione e del passaggio delle consegne tra i
liquidatori e i nuovi amministratori in conseguenza della revoca dello stato di liquidazione, dovendosi
escludere che possano considerarsi nuovamente in carica gli amministratori sostituiti dai liquidatori dopo
l’accertamento dello scioglimento della società. Quanto al primo punto, è evidente che nella medesima
assemblea che delibera la revoca, o in una successiva convocata ad hoc, si dovranno nominare i nuovi
amministratori. Quanto al secondo punto, la disciplina della successione tra i liquidatori e i nuovi
amministratori deve essere ricavata per analogia dall’art.2487-bis.

La chiusura della liquidazione: bilancio finale, cancellazione ed estinzione della società


Compiuta la liquidazione, nel senso della conversione in denaro del patrimonio e di pagamento dei creditori
sociali, si apre la fase finale della liquidazione, che attraverso la redazione del bilancio finale da parte dei
liquidatori, la sua approvazione da parte dei soci e la ripartizione tra questi dell’attivo residuo, oppure il
deposito delle somme non riscosse, porta alla richiesta della cancellazione della società dal registro delle
imprese e al deposito dei libri sociali nel medesimo ufficio.
Il bilancio finale, pur conservando la medesima struttura del bilancio d’esercizio, da questo si differenzia
per il contenuto e la funzione, e anche per le modalità di approvazione. Circa il contenuto e la funzione, il
bilancio finale, che ha rilevanza informativa esclusivamente nei confronti dei soci, con la duplice funzione
di rappresentare il rendiconto finale della gestione svolta dai liquidatori e di determinare la quota dell’attivo
residuo spettante a ogni azione, ovvero a ogni socio nella S.r.l., si compone di due parti: bilancio finale in
senso stretto e piano di riparto dell’eventuale attivo finale a favore dei soci.
Quanto poi all’approvazione del bilancio finale, si prevede prima il deposito, assieme alla relazione dei
sindaci e del soggetto incaricato della revisione contabile, presso il registro delle imprese competente e, poi,
un termine di 90 giorni dall’iscrizione durante il quale ciascuno dei soci può proporre reclamo avanti il
tribunale e nel contraddittorio con i liquidatori. Premesso che, se sono più di uno, i reclami vanno riuniti in
un’unica causa che viene decisa con sentenza che fa stato anche nei confronti dei soci che non abbiano
partecipato al giudizio, va sottolineato che la mancata proposizione del reclamo vale quale approvazione
tacita del bilancio dei 90 giorni, alla quietanza rilasciata dal socio senza riserve all’atto del pagamento della
quota di riparto. Queste modalità offrono un quadro che attesta come, esaurita la liquidazione, venga anche
meno l’applicazione delle regole propriamente societarie; non si spiegherebbe altrimenti perché il bilancio
finale vada depositato presso il registro delle imprese e non presso la sede sociale, perché non vada

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approvato dall’assemblea secondo il metodo collegiale, e perché infine debba essere approvato da tutti i soci
seppur con l’applicazione del metodo del “silenzio assenso”.
Una volta che sia stato approvato il bilancio finale di liquidazione, i liquidatori devono chiedere la
cancellazione della società dal registro delle imprese. Disposta la cancellazione da parte dell’ufficio del
registro, ove permangano creditori sociali non ancora compiutamente soddisfatti, questi avranno azione
esclusivamente nei confronti dei soci, oppure anche nei confronti dei liquidatori ove il mancato pagamento
sia dipeso da colpa di questi. Così dispone l’art.2495, c.2, premettendo però l’inciso “ferma restando
l’estinzione della società” conseguente alla sua cancellazione. Tale inciso sancisce, dunque, l’efficacia
costitutiva della cancellazione della società di capitali, con l’effetto che la sua estinzione si realizza anche
quando, all’atto della cancellazione, residuino rapporti giuridici non compiutamente definiti.
Gli interpreti si dividono tuttavia sull’irreversibilità o meno della cancellazione, in relazione non tanto
all’esistenza di passività insoddisfatte, fattispecie da ritenersi compiutamente disciplinata dall’art.2495, c.2,
(salva, per la verità, la possibilità di dichiarare anche nell’anno successivo la cancellazione, il fallimento
della società, la quale dunque a fini concorsuali può considerarsi tuttora esistente), quanto in relazione alla
sussistenza di attività non distribuite ai soci. Infatti, mentre una parte della dottrina e della giurisprudenza
rimane correttamente ferma nel sostenere la definitività dell’effetto estintivo prodotto dalla cancellazione,
affermando che le eventuali sopravvenienze o sussistenze attive andranno regolate secondo la disciplina
della comunione tra gli ex soci, altra parte ritiene in tale ipotesi utilizzabile lo strumento della cancellazione
d’ufficio dal registro delle imprese, per mezzo del quale potrebbe ottenersi la “cancellazione (d’ufficio) della
cancellazione della società”, con l’effetto di rimuovere retroattivamente gli effetti di quest’ultima.

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L’ARTICOLAZIONE DEL RISCHIO D’IMPRESA


Articolare il rischio d’impresa significa adottare strumenti giuridici che, nell’esercizio di una pluralità di
attività produttive o nello svolgimento di una pluralità di affari, da parte di un medesimo soggetto, gli
consentano di esporre al rischio di un loro insuccesso esclusivamente una parte del suo patrimonio.
È noto a questo proposito che è principio generale del nostro ordinamento quello consacrato nell’art.2470:
«Il debitore risponde dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri”  tale
principio opera senza eccezioni al riguardo delle obbligazioni assunte, da parte di un imprenditore,
nell’esercizio della propria attività: questi risponde delle medesime con tutti i suoi beni, siano essi o no
destinati all’attività stessa. Ed opera, in linea generale, anche con riferimento alle società: non è raro che una
società sia attiva su più di un settore, così come non è raro che essa intraprenda plurime operazioni
commerciali rilevanti. Dunque, in base a questo principio, delle obbligazioni scaturenti da ciascuno di questi
settore o operazioni la società risponde in genere con l’intero proprio patrimonio, il che significa che il
rischio d’impresa, per ognuno dei settori ed affari, è esteso a tutto il patrimonio stesso.
Tuttavia è comprensibile, nell’economia moderna, che le strutture organizzative aspirino alla delimitazione,
e dunque alla ripartizione, di questo rischio  il legislatore ritiene questo interesse meritevole di tutela e
appresta perciò taluni strumenti giuridici per la sua realizzazione.
A questo scopo risponde anzitutto la creazione di un gruppo di società. Il soggetto (persona fisica o, più
spesso, giuridica) che detenga le partecipazioni di controllo in una pluralità di società è in condizione di
dirigere più attività giuridicamente riferibili a soggetti di diritto distinti l’uno dall’altro (con autonomia
patrimoniale, e dunque di rischio, perfetta), ma aventi economicamente un unico centro di riferimento (la
capogruppo). Il legislatore regola questo fenomeno non per impedirlo, ma al fine di assicurare che
l’integrazione proprietaria tra le diverse società del gruppo non si traduca in una commistione di interessi tra
le medesime, tale da pregiudicare la sana gestione delle diverse attività.
Altro strumento giuridico per la realizzazione di effetti simili è la creazione, possibile nelle S.p.a., di
patrimoni desinati ad uno specifico affare. Tali società possono individuare e destinare determinate
risorse allo svolgimento di una data operazione economica, isolandole giuridicamente dal restante loro
patrimonio. Quello “destinato” è a tutti gli effetti un patrimonio separato, a cui viene limitato il rischio
d’impresa relativo all’affare.

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Sezione Sesta

L’articolazione del rischio di impresa.

Introduzione.

Articolare il rischio d'impresa, da parte di un soggetto, significa adottare strumenti giuridici che,
nell'esercizio di una pluralità di attività produttive o nello svolgimento di una pluralità di affari, consentano
di esporre al rischio di un loro insuccesso esclusivamente una parte del suo patrimonio.
Principio generale del nostro ordinamento, ai sensi dell'articolo 2740 è:’’ il debitore risponde
dell'adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri’’. È altresì noto che tale principio
opera senza eccezioni al riguardo delle obbligazioni assunte, da parte dell'imprenditore, nell'esercizio della

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propria attività: questi risponde delle medesime con tutti i suoi beni, siano essi o no destinati all'attività
stessa.
Lo stesso principio opera, in linea generale, anche con riferimento alle società: non è raro che una società
sia attiva in più di un settore (ad esempio in quelli della telefonia fissa e mobile, in quelli della produzione di
apparecchiature informatiche e televisive), così come non è raro che essa intraprenda plurime operazioni
commerciali rilevantissime (si pensi alla ricerca e allo sfruttamento dei giacimenti petroliferi in diverse aree
del pianeta). Dunque, in base al suddetto principio, delle obbligazioni scaturenti da ciascuno di questi
settori o operazioni la società risponde in genere con l'intero proprio patrimonio, il che significa che il
rischio d'impresa, per ognuno dei settori ed affari, è esteso a tutto il patrimonio stesso.
È però comprensibile, nell'economia moderna, l’aspirazione delle strutture organizzative alla delimitazione
e dunque alla ripartizione di questo rischio. Poichè il legislatore ritiene questo interesse meritevole di
tutela, ha previsto alcuni strumenti giuridici atti a consentire legittimamente, l'articolazione del rischio di
impresa. Essi sono:

- Alla realizzazione di questo obiettivo risponde anzitutto la creazione di un gruppo di società. Si è


visto che S.P.A. e S.R.L. possono essere partecipate anche da un unico socio. È perciò consentito ad
un soggetto (persona fisica o giuridica) di dare vita ad una pluralità di società unipersonali, che a
loro volta potrebbero essere socie uniche di altre società a valle, in modo da esercitare una
pluralità di attività che, giuridicamente, sono certo riferibili ai soggetti di diritto distinti l'uno
dall'altro, ma che, economicamente, hanno pur sempre un unico centro di riferimento: la
capogruppo. Attraverso questa via, e così possibile svolgere un'attività complessa, articolandola in
più attività settoriali, ciascuna giuridicamente imputata ad una singola società del gruppo, la quale,
in quanto dotata di autonomia patrimoniale perfetta, nè assume interamente su di sé il relativo
rischio. L'articolazione di quest'ultimo è perciò pienamente realizzata. Si vedrà che il legislatore
regola questo fenomeno ( artt 2497 e ss), ma non per impedirlo, bensì al fine di assicurare che
l'integrazione proprietaria tra le diverse società del gruppo non si traduca in una commistione
d'interessi tra le medesime, tale da pregiudicare la sana gestione delle diverse attività e quindi da
determinare, a danno dei creditori e, se presenti, dei soci di minoranza delle singole società, non
già una articolazione, ma una non virtuosa contaminazione tra i separati rischi d'impresa.

- Altro strumento giuridico per la realizzazione di effetti simili è la creazione, possibile nelle S.P.A. di
patrimoni destinati ad uno specifico affare ( art 2447-bis). Le società azionarie, cioè, possono
individuare e destinare determinate risorse allo svolgimento di una data operazione economica,
isolandole giuridicamente dal restante loro patrimonio. Quello ‘’ destinato’’ è, infatti, a tutti gli
effetti un patrimonio separato, a cui viene limitato il rischio d'impresa relativo all'affare, e che,
specularmente, non si trova esposto al rischio d'impresa derivante dalla restante attività della
società.

Entrambi questi strumenti rispondono, come si è detto, ad un'esigenza particolarmente avvertita


nell'economia moderna e a cui il legislatore non resta insensibile. Si tratta di un'esigenza, che si inserisce in
una più ampia istanza, cui rispondono pure altri istituti più o meno recenti del diritto commerciale: l'istanza
generale di consentire l'esercizio di un'attività produttiva con limitazione del rischio e con l'affidamento poi
al mercato del compito di valutare se l'attività meriti credito oppure no.
Naturalmente, il legislatore non è neppure insensibile alla necessità di evitare distorsioni od abusi
nell'impiego di questi strumenti, e ciò né spiega la relativa disciplina.

Capitolo 66:I gruppi di società

A differenza di altri paesi, ove sono diffuse le c.d. public companies (e cioè, le società nelle quali le azioni
sono di titolarità di una molteplicità di soggetti e manca un socio che detiene una percentuale rilevante,
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tale da permettergli di esercitare un controllo sulla società), in Italia la proprietà è spesso concentrata in
capo a pochi soggetti ed è, di norma, possibile ravvisare un socio di controllo. La mera situazione di
controllo comporta l'applicazione di una apposita disciplina volta, tra l'altro, a salvaguardare il corretto
svolgersi del rapporto tra controllante e controllata e a fornire una adeguata informazione.
Il soggetto che si trova in una posizione di controllo e sovente contraddistinto da un interesse ‘’
partecipativo’’ nei confronti della società controllata: in altre parole, chi si trova in una posizione di
controllo non solo è in grado, ma spesso esercita un'influenza dominante che può, anche, sfociare in una
più pregnante attività di direzione e coordinamento nei confronti della società controllata o delle società
controllate, nel caso in cui la situazione di controllo coinvolga soggetti. Questo fenomeno (l'effettivo
esercizio di un'attività di direzione e coordinamento) caratterizza allora, come vedremo, i gruppi di società,
cioè quelle strutture organizzative, molto diffuse nel nostro ordinamento, cui ora il legislatore, con la
riforma del 2003, ha dedicato apposite norme contenute negli articoli 2497 e ss; norme che, a fini
meramente descrittivi, verranno in seguito suddivise in norme c.d. Fisiologiche – tese a garantire la
trasparenza in ordine all'esistenza del gruppo e alle operazioni poste in essere nell'ambito dello stesso e
una ‘’ via d'uscita’’ per i soci delle società eterodirette – e norme c.d. Patologiche - che si occupano degli
abusi della capogruppo e dei finanziamenti elargiti a società sottocapitalizzate-.
Complessivamente, le norme in esame sono volte principalmente a tutelare, sia nel corso della vita
fisiologica del gruppo, sia in presenza di eventi patologici, i soci di minoranza e i creditori sociali delle
società soggette ad attività di direzione e coordinamento, mentre del tutto trascurati risultano i creditori
sociali e gli eventuali soci di minoranza della capogruppo.

I.Il controllo

Molteplici sono le nozioni di controllo presenti nel nostro ordinamento. Il legislatore si è, infatti, in diverse
occasioni preoccupato di individuare delle fattispecie, non sempre tra loro coincidenti, di controllo, anche
in leggi speciali a carattere settoriale.

1.la nozione di controllo di cui all’art 2359

In base a tale norma possono essere individuate tre distinte forme di controllo:
- controllo di diritto; si ha quando una società dispone della maggioranza dei voti esercitabili
nell'assemblea ordinaria di un'altra società.

- controllo di fatto; quando la società detenga (non la maggioranza dei voti esercitabili
nell'assemblea ordinaria, ad esempio il 51% del capitale: nel qual caso si avrebbe infatti, controllo
di diritto ma) voti sufficienti (in considerazione della fattispecie concreta) per esercitare
un'influenza dominante nell'assemblea ordinaria.

NB= nelle ipotesi ora indicare il soggetto controllante è in grado di esercitare un'influenza dominante (non
rileva in concreto che l'abbia esercitato); influenza che si esplica, principalmente, nel potere di nominare,
revocare, ecc…, attraverso il proprio voto determinante in assemblea, gli amministratori. Mentre nel
controllo di diritto questo è possibile grazie al fatto di detenere la maggioranza dei voti, in quella di fatto
tale potere deriva dalla circostanza che, in quella società, anche per effetto della diffusione delle restanti
partecipazioni in campo a diversi soggetti e/o dell'assenteismo di molti, chi detiene una percentuale
elevata, anche se non pari alla maggioranza, è in grado di prevalere sugli altri soci in assemblea ordinaria.
Il legislatore ha statuito che, per configurare un controllo di diritto o di fatto, si computano anche i voti
spettanti a società controllate, società fiduciarie e a persona interposta (c.d. controllo indiretto); mentre
non si computano i voti spettanti per conto di terzi. Se quindi, la società A detiene il controllo della società
B, e questa a sua volta detiene il controllo di C, si può dire che la società C e controllata indirettamente da
A.

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Secondo la prevalente dottrina non è invece rilevante ai sensi dell'art 2359 il c.d. controllo congiunto, che
si ha quando più soggetti esercitano congiuntamente un'influenza dominante su una società mediante ad
esempio la stipula di un patto parasociale, anche se nessuno di essi è in grado da solo di esercitare il
controllo.
Diversamente, si ritiene possa rilevare il caso in cui un soggetto, che ha stipulato un patto parasociale con
altri soci sia in grado di imporre le proprie decisioni all'interno del sindacato stesso e, attraverso questo,
alla società partecipata (c.d. controllo da sindacato).

- controllo contrattuale; che si verifica qualora una società risulti sotto l'influenza dominante di
un'altra in virtù di particolari vincoli contrattuali con essa (ipotesi questa da tenere distinta dai
contratto di dominio di cui si parlerà successivamente). È il caso, ad esempio, di una società A che
ha come unico cliente la società B e, in tal modo, si trova ad essere in una situazione oggettiva di
dipendenza economica rispetto a quest'ultima, dato che il venir meno dell'accordo contrattuale
potrebbe seriamente compromettere la prosecuzione dell'attività imprenditoriale della prima.

Accanto alla fattispecie di controllo, sempre nel medesimo articolo, il legislatore introduce anche la
fattispecie di collegamento: sono considerate collegate le società sulle quali un'altra esercita un’influenza
notevole (che dovrebbe caratterizzarsi, rispetto all'influenza dominante, per una minore incisività).
L'influenza si presume in capo a colui che, nell'assemblea ordinaria, è in grado di esercitare almeno 1/5 dei
voti ovvero 1/10 se la società ha azioni quotate in mercati regolamentati. Poche sono, però, le previsioni
che si occupano di quest'ultima fattispecie che, assume un rilievo minore rispetto a quella di controllo
sopra indicata.

2.La disciplina applicabile in caso di controllo.

La posizione di controllo esprime di per sè esclusivamente una possibilità: quella di esercitare l'influenza
dominante di cui si è detto. Essa rileva in quanto tale, dunque a prescindere dal fatto che detta influenza
venga o meno in concreto esercitata: vi sono, in vero, alcune norme applicabili già in presenza di un mero
controllo, molte delle quali previste per le S.P.A. ma, in diversi casi suscettibili di applicazione anche ad altri
tipi societari.
In definitiva, la possibilità che una società possa esercitare un'influenza dominante su un'altra da un luogo
all'applicazione di una apposita e complessa disciplina, che si trova la propria fonte in disposizioni
normative volte a tutelare una molteplicità di esigenze e interessi.
In particolare, le finalità cui è volta la disciplina in esame appaiono le seguenti:
- accentuare gli obblighi di vigilanza da parte degli organi amministrativi e di controllo della
controllante sull'attività delle società controllate. Il dovere di vigilanza trova riscontro l'articolo
2381,co5, che stabilisce che gli organi delegati debbano riferire al consiglio di amministrazione e al
collegio sindacale sul generale andamento della gestione, nonché sulle operazioni di maggior rilievo
effettuate dalla società e dalle sue controllate, e nell'articolo 2403-bis co2, che prevede, in capo al
collegio sindacale, il potere di richiedere agli amministratori notizie, anche con riferimento al
società controllate, sull'andamento delle operazioni sociali o su determinati affari e di scambiare
informazioni con i corrispondenti organi delle società controllate in merito ai sistemi di
amministrazione e controllo e all'andamento generale dell'attività sociale.
Lo scopo di tali regole è intuitivo: quantunque le diverse società (controllante e controllate)
conservino giuridicamente la loro autonomia soggettiva, si forma, tra le medesime, una unità
rilevante almeno sul piano economico e una interazione di cui gli organi della controllante non
possono non tener conto nell'espletamento dei compiti. In altre parole, l'andamento dell'attività
delle controllate, non è senza significato per la controllante e, dunque, non può essere trascurato
dagli organi di questa.

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- fornire, in generale, a tutti gli interessati una corretta ed adeguata informazione in merito alla
sussistenza del controllo e all'andamento generale della controllante e delle controllate. Questa
esigenza è tutelata mediante diverse disposizioni codicistiche volte a far emergere dalle scritture
contabili una serie di dati ed informazioni. Si considerino ad esempio gli articoli 2428, 2424 e 2429,
in forza dei quali occorre tra l'altro: indicare nello stato patrimoniale le partecipazioni detenute in
altre società e i rapporti finanziari (crediti, debiti e garanzie) tra società controllante e controllate;
effettuare, nella relazione sulla gestione, un'analisi dei vari settori in cui la società ha operato,
anche attraverso imprese controllate; depositare, nella sede della società controllante copia
integrale dell'ultimo bilancio delle controllate insieme al bilancio della prima.
Sempre in quest'ottica va considerato l'obbligo previsto dalla L. 127/1991, di predisporre un
bilancio consolidato e cioè, come si è visto, un bilancio da cui è possibile evincere la situazione
patrimoniale, finanziaria ed economica di tutte le società (controllante e controllate) nel loro
insieme e nel quale sono elisi i valori delle partecipazioni detenute dalla controllante nelle
controllate, i crediti e i debiti fra le società incluse nel consolidamento, i proventi e gli oneri
derivanti dai rapporti intercorsi tra le medesime, gli utili e le perdite conseguenti a tali rapporti. In
definitiva, il risultato che appare dal bilancio consolidato che essere quello generato dall'attività
delle varie società nei confronti dei terzi e non quello che le medesime hanno realizzato operando
tra di loro.

- garantire la conservazione del capitale sociale della società controllante e controllate in caso di
operazioni intercorse tra le suddette società ed evitare delle alterazioni nei meccanismi di
formazione delle maggioranze assembleari. Tale esigenza trova riscontro nelle norme, già
esaminate, dedicate all'acquisto e alla sottoscrizione di azioni o quote della controllante da parte
della controllata. In forza degli articoli 2359-bis e 2359-quinquies la società controllata non può
sottoscrivere azioni o quote della controllante (e in caso di violazione del divieto, le azioni o quote
si intendono sottoscritte dagli amministratori della prima a meno che non dimostrino di essere
esenti da colpa); mentre può acquistare azioni o quote della stessa, solo nei limiti degli utili
distribuibili e delle riserve disponibili risultanti dall'ultimo bilancio approvato e, nel caso di società
controllante facente ricorso al mercato del capitale di rischio, sempre che il valore nominale delle
azioni o quote acquistate non ecceda la quinta parte del capitale della controllante medesima. Nel
caso tali limiti non vengano rispettati, sorge l'obbligo di alienare le partecipazioni entro un anno dal
loro acquisto e, qualora questo non sia possibile, la società controllante deve procedere al loro
annullamento e alla corrispondente riduzione del capitale, con rimborso secondo i criteri fissati per
il recesso (articolo 2359-ter).
È poi previsto che possono essere acquistate soltanto azioni interamente liberate e l'acquisto
debba essere autorizzato dall'assemblea ordinaria della controllata a norma dell'articolo 2357,co2.
Una volta acquistate azioni o quote della controllante, la società controllata non può esercitare,
nell'assemblea della prima, i diritti di voto inerenti alle suddette partecipazioni.

Emerge complessivamente da queste norme una visione che, come vedremo, caratterizza anche i gruppi di
società e che tende a dare della società controllante e controllate, almeno sotto il profilo economico, una
rappresentazione unitaria.

II.I gruppi.

I gruppi di società sono delle forme organizzative nell'ambito delle quali vi è un soggetto (capogruppo) che
esercita un'attività di direzione e coordinamento nei confronti di altre società, che mantengono la loro
autonomia giuridica e patrimoniale. L'elemento connotante del fenomeno è dato, dunque, dall’attività di
direzione coordinamento. Si passa qui da una situazione di possibilità di influenza dominante, ad una
situazione di effettività dell'esercizio di una attività di direzione e coordinamento.
Molteplici possono essere i benefici derivanti dall'appartenenza ad un gruppo per le singole società
coinvolte: si pensi ad esempio, alla possibilità di utilizzare un marchio di gruppo assai notorio o di ricorrere

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a dei prestiti intragruppo a condizioni migliori rispetto a quelli di mercato, ancora, di disporre di un maggior
potere contrattuale e di beneficiare di importanti economie di scala. Non è però possibile trascurare i rischi
che la stessa appartenenza può determinare: si consideri l'eventualità che la capogruppo, nel dare
attuazione ad una politica in gruppo, impartisca direttive pregiudizievoli nei confronti di alcune società a
vantaggio di altre (ad esempio imponga ad una società di acquistare un bene da un'altra a condizioni
svantaggiose o costringa una società ad emettere una fideiussione gratuita a favore di un'altra). In tali casi,
la capogruppo potrà, comunque, ottenere un beneficio dal compimento di tali direttive, se la stessa detiene
una posizione di controllo non solo nella società pregiudicata, ma anche nella società che ne ha tratto
vantaggio. I soggetti più esposti al verificarsi di eventi patologici nell'ambito dei gruppi sono, invece, i soci di
minoranza e i creditori sociali delle società sottoposte ad attività di direzione e coordinamento, i quali non
potranno certo beneficiare di direttive pregiudizievoli imposte alla società con cui intrattengono rapporti.
Precedentemente alla riforma del 2003 non era presente nell'ordinamento italiano, a differenza di quanto
avveniva in altri ordinamenti come quello tedesco ad esempio, una normativa specifica per i gruppi di
società: fatta eccezione per quella relativa ai gruppi bancari prevista nel TUB, e per i gruppi finanziari nel
TUF. Si discuteva, pertanto, sulla necessità di introdurre una disciplina ad hoc, ovvero sulla sufficienza della
normativa generale a disciplinare i problemi ‘’ tipici’’ dei gruppi (quali ad esempio i conflitti di interessi tra
diversi soggetti coinvolti) e a tutelare i cosiddetti soggetti deboli (creditori sociali e soci di minoranza delle
diverse società coinvolte).
L'attuale disciplina, frutto della riforma del 2003, affronta questi temi nel Capo IX, ossia degli articoli
2497ss. Nel silenzio della legge si può ritenere che la disciplina si applica tutti tipi di società, anche alle
società di persone.

1.La fattispecie: l’attività di direzione e coordinamento.

Presupposto per l'applicabilità della disciplina sopra menzionata è l'esercizio da parte della capogruppo di
una attività di direzione e coordinamento. Il legislatore non si preoccupa di chiarire in che cosa consista
questa attività e questo genera, come vedremo, molteplici difficoltà. Di norma, essa consiste nel fatto che
la capogruppo svolge una attività di pianificazione in ordine alle principali scelte imprenditoriali attinenti
alle società del gruppo (scelte strategiche ed operative di carattere finanziario, industriale, commerciale)in
forza di una più ampia politica di gruppo e, qui, la conseguente attività di coordinamento e di indirizzo
mediante direttive impartite alle diverse società.
Prima della riforma del diritto societario del 2003, la dottrina la giurisprudenza si erano più volte
interrogate in merito alla liceità o meno dell'esercizio dell'attività di direzione coordinamento, in particolare
in considerazione della generale autonomia che dovrebbe caratterizzare l'operato degli organi delle distinte
società. Il gruppo, infatti, nel dare vita ad una organizzazione complessa non fa venire meno la distinta
soggettività delle singole società coinvolte. Questo determina, quindi, diversi interrogativi; interrogativi cui
ora sembra aver dato risposte il legislatore con le norme fissate dagli articoli 2497 ss. Da tali norme, infatti,
pur non emergendo la definizione di attività di direzione coordinamento ed un espresso riconoscimento
della legittimità di questa, è possibile trarre un generalizzato accoglimento in merito alla liceità in sé
dell'attività di direzione e coordinamento purché la stessa non leda principi generali fissati o richiamati
dalle medesime norme (principi di trasparenza e di corretta amministrazione).
Il legislatore, anche al fine di agevolare l'onere della prova, introduce una presunzione relativa (superabile
quindi con prova contraria) in merito all'esistenza e all'esercizio di un'attività di direzione e coordinamento.
L'articolo 2497-sexies afferma, infatti, che si presume, salvo prova contraria, che l'attività di direzione e di
coordinamento sia esercitata dalla società o dall'ente tenuto al consolidamento dei bilanci o, comunque,
dal soggetto in posizione di controllo ai sensi dell'articolo 2359.
Nell'articolo 2497-septies il legislatore statuisce poi, che le disposizione del Capo IX si applicano anche a chi
esercita attività di direzione e coordinamento di società sulla base di un contratto una clausola contenuta
nello statuto. In questo caso, l'attività di direzione e coordinamento è esercitata da un soggetto che non si
trova in una posizione di controllo, ma che è legittimato in forza di un contratto o di una clausola statutaria
ad esplicare una attività di direzione coordinamento nei confronti di altre società. La suddetta norma non

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sembra legittimare, nel nostro ordinamento, i cosiddetti contratti di dominio e cioè i contratti con i quali
una società si sottopone al dominio altrui, alienando, così, a soggetti terzi il governo dell'impresa.
Prima della riforma del 2003 la prevalente dottrina aveva considerato nulli tali contratti, per la loro
contrarietà rispetto ai principi inderogabili dell'ordinamento societario. Tale principio sembra confermarsi
anche a seguito dell'introduzione delle norme in tema di gruppi di società: se le norme di cui agli articoli
2497 ss sembra legittimare quei contratti tra società con i quali ci si assoggetta all'attività di direzione e
coordinamento di un'altra, questo non vuol dire, però, che l'assoggettamento possa sfociare in un
comportamento abusivo. Il soggetto, che esercita attività di direzione coordinamento grazie ad un apposito
contratto, non può impartire direttive anche pregiudizievoli nei confronti della società eterodiretta, a meno
che il danno arrecato non sia stato da altri vantaggi a favore di quest'ultima. Depone, in questo senso,
l'articolo 2497 che, come vedremo, prevede espressamente una responsabilità del soggetto che esercita
attività di direzione coordinamento, nel caso in cui non rispetti i principi di corretta gestione societaria e
imprenditoriale e determini, così, un danno per le società eterodirette.
Occorre anche segnalare che contratti di coordinamento possono essere stipulati pure in quei gruppi ove
già un soggetto esercita attività di direzione coordinamento: in tali casi, i contratti possono essere diretti a
regolamentare nel dettaglio i rapporti tra capogruppo e società controllate, mediante ad esempio
l'istituzione di luoghi informali (comitati di gruppo) di incontro e di confronto; la determinazione delle
forme e delle modalità procedimentali di trasmissione dal vertice alle società eterodirette degli atti di
indirizzo e delle direttive di gruppo; la fissazione dei criteri e delle modalità dei flussi informativi
infragruppo; l'individuazione delle aree o funzioni imprenditoriali interessate e, cioè, degli ambiti in cui si
esplica la gestione etero-diretta e coordinata.
Sempre attraverso la stipula di un contratto è, infine, possibile dare vita un gruppo c.d. Orizzontale o
paritetico, nell'ambito del quale si instaura tra società uno coordinamento di carattere finanziario e/o
organizzativo: le società si accordano su come dirigere e coordinare le rispettive attività d'impresa in
assenza, però, di vincoli di subordinazione.

2.Le norme c.d.fisiologiche.

Le norme che si occupano degli aspetti fisiologici dei gruppi hanno come obiettivo principale quello di
garantire la massima trasparenza ed informazione in ordine:
- all'esistenza del gruppo; per quanto riguarda la necessità di rendere edotti i terzi dell'esistenza del
gruppo, il legislatore impone, innanzitutto, la creazione di un'apposita sezione del registro delle
imprese e l'iscrizione, appunto, da parte delle diverse società coinvolte nella suddetta sezione.
L'iscrizione, ai sensi dell’art 2497-bis,co 1 deve avvenire nel più breve tempo possibile a cura degli
amministratori della società eterodiretta, i quali incorrono in responsabilità ai sensi del co 3 del
medesimo articolo, se non adempiono siffatto obbligo, ovvero non provvedono alla cancellazione
dal registro nel caso in cui venga meno l'esercizio dell'attività di direzione coordinamento. In questi
casi gli amministratori rispondono dei danni che la mancata conoscenza dei fatti abbia recato ai
soci o ai terzi. All'iscrizione nel registro delle imprese, prevista dalla norma richiamata, viene
generalmente riconosciuto valore di pubblicità notizia.
- alle operazioni poste in essere nell'ambito dello stesso e agli effetti derivanti dal compimento di
queste; vi sono altre disposizioni che come obiettivo hanno quello di rendere trasparente
l'operatività stessa del gruppo. Si tratta dell'articolo 2497-bis, co5 che prevede che gli
amministratori devono indicare nella relazione sulla gestione i rapporti intercorsi con chi esercita
attività di direzione e coordinamento e con le altre società che vi sono soggette. Nella relazione
sulla gestione deve essere indicato inoltre, l'effetto che l'attività di direzione e coordinamento ha
avuto sull'esercizio dell'impresa sociale e sui suoi risultati. La relazione sulla gestione potrà così
diventare un utile strumento per i soci ed i terzi che vorranno, ad esempio, esercitare un'azione di
responsabilità ai sensi dell'articolo 2497, ovvero, al contrario, per gli amministratori al fine di
provare la mancanza del danno alla luce dei risultati che l’attività di direzione e coordinamento
globalmente e complessivamente ha determinato. Sempre gli amministratori della società

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eterodiretta devono esporre,poi, in un'apposita sezione della nota integrativa, un prospetto


riepilogativo dei dati essenziali dell'ultimo bilancio della capogruppo.
- alle motivazioni sottese all'assunzione di determinate decisioni adottate sotto l'influenza della
capogruppo.; Inoltre il legislatore vuole garantire, trasparenza anche in ordine alle motivazioni che
hanno indotto ad assumere una particolare decisione sotto l'influenza della capogruppo. L'articolo
2497-ter prevede, così, che le decisioni adottate dalle Società soggette ad attività di direzione e
coordinamento, quando da queste influenzata, debbono essere analiticamente motivate e recare
puntuale indicazione delle ragioni e degli interessi la la cui valutazione ha inciso sulle suddette
decisioni, non essendo, quindi, sufficiente il ricorso a formulazioni generiche e astratte. La disciplina
fissata dovrebbe applicarsi sia alle deliberazioni consiliari e assembleari, sia a quelle decisioni
assunte a prescindere da un'apposita deliberazione. Per garantire, poi, anche al terzo l'accesso alle
suddette informazioni, si prevede che debba essere data un'adeguata informazione delle decisioni
e delle motivazioni sottese nella relazione sulla gestione, documento soggetto a pubblicità ai sensi
dell'articolo 2435.

In definitiva, delle norme richiamate, emerge come la relazione sulla gestione (documento accessibile ai
terzi) risulti fondamentale per comprendere appieno l'operatività del gruppo. Dalla relazione devono, infatti,
trasparire, da un lato, i rapporti intragruppo che si sono creati e gli effetti che dagli stessi sono derivati per
le singole società; dall'altro lato, tutte le decisioni adottate sotto l'influenza della capogruppo, indicando per
ognuna di queste le motivazioni e le ragioni per cui si è deciso di adottarle.

3.Le norme c.d. patologiche. La responsabilità di cui all’art 2497

Le norme c.d. Patologiche, sono dirette ad arginare le possibili distorsioni nell'esercizio dell'attività di
direzione coordinamento. La principale previsione è quella di cui all'articolo 2497. In forza di tale previsione
legislativa è possibile per i soci e i creditori di una società eterodiretta esercitare un’azione di responsabilità
nei confronti della capogruppo. Si tratta di una tutela obbligatoria o risarcitoria dei soci e dei creditori della
società soggetta all'attività di direzione e coordinamento, a scapito di una possibile tutela reale o invalida
toria.

- La legittimazione attiva e attribuite ai soci e ai creditori della società soggetta all'attività di


direzione e coordinamento, ai quali, quindi, spetta il risarcimento eventualmente riconosciuto. La
responsabilità nei confronti dei soci sussiste se si è verificato un pregiudizio alla redditività ed al
valore della partecipazione sociale; mentre quella nei confronti dei creditori sociali, nel caso di
lesioni cagionata all'integrità del patrimonio della società eterodiretta. Per i creditori sociali la
norma, riconosce che il pregiudizio rilevante consiste nella lezione cagionata all'integrità di tale
patrimonio; per i soci invece, appare prevalente la tesi in base alla quale il pregiudizio rilevante non
sarebbe altro che la conseguenza del minor valore del patrimonio della società soggetta all'attività
di direzione e coordinamento: in questo caso il danno subito dal socio dovrebbe, dunque,
considerarsi indiretto, costituendo solo il riflesso o la ripercussione sul patrimonio del socio del
danno arrecato direttamente alla società. A sostegno di questa tesi leggiamo l'articolo 2497,c1 che
statuisce che ‘’ non vi è responsabilità del danno risulta mancante alla luce del risultato
complessivo delle attività di direzione coordinamento, ovvero integralmente eliminato anche a
seguito di operazioni a ciò dirette’’.
- Per poter configurare la responsabilità ai sensi dell'articolo 2497 co1, è necessario che ricorrano i
seguenti presupposti:
a. Sia stata posta in essere un'attività di direzione coordinamento da parte di una società o di un
ente, limitando, in tal modo, l'ambito applicativo del co 1 della suddetta norma ai soli soggetti
diversi dalle persone fisiche. ; La nozione di ‘’ ente’’ fa riferimento sia soggetti privati
(associazioni), sia dei pubblici. Per enti si devono intendere, ai sensi dell'articolo 2497, i soggetti
giuridici collettivi, diversi dallo Stato, che detengono la partecipazione sociale nell'ambito della

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propria attività imprenditoriale ovvero per finalità di natura economica e finanziaria. Dunque,
gli enti pubblici diversi dallo Stato, risultano soggetti alla disciplina in esame.
Il legislatore per agevolare l'onere della prova, ha introdotto le presunzioni di cui all'articolo
2497-sexies e la pubblicità nell'ambito dell'articolo 2497-bis: pubblicità, però, che non
rappresenta una condizione necessaria per l'esercizio dell'azione di responsabilità. Potrà così
essere esercitata un'azione di responsabilità, ai sensi dell'articolo 2497, anche nei confronti di
un soggetto che, pur non comparendo nell'apposita sezione del registro delle imprese di cui
all'articolo 2497-bis, anche in concreto, esercitato attività di direzione coordinamento.
b. La capogruppo abbia agito nell'interesse imprenditoriale proprio o altrui e in violazione dei
principi di corretta gestione societaria ed imprenditoriale; alcuni interrogativi sorgono in
relazione al requisito della ‘’ della violazione dei principi di corretta gestione societaria e
imprenditoriale’’, in quanto non è immediato l'accertamento della loro violazione da parte
dell'autorità giudiziaria dall'altro perché il richiamo a questo principio rischia di aprire la strada
ad una valutazione del merito delle decisioni assunte nei gruppi da parte del giudice in
contrasto con gli standard giurisprudenziali, oggi consolidati in termini di accoglimento della
c.d. business judgment rule , che precludono una valutazione ex post della correttezza delle
scelte gestionali poste in essere dagli amministratori di una società, a meno che macroscopici
errori o un'inadeguata informazione preventiva siano alla base della stessa.
c. La violazione dei suddetti principi abbia determinato, un pregiudizio; il pregiudizio, secondo la
tesi prevalente, consiste in un danno patito dalla società eterodiretta, di riflesso, dagli attori. In
forza dell'articolo 2497 co1, la responsabilità per abusivo esercizio dell'attività di direzione e
coordinamento non sussiste qualora il danno risulti mancante alla luce del risultato
complessivo delle attività di direzione e coordinamento ovvero sia integralmente eliminato
anche a seguito di operazioni a ciò dirette. È’ stato, infatti, più volte ribadito che, nell'ambito
dei gruppi di società, è opportuno utilizzare un criterio valutativo che non si fermi al singolo
atto, alla singola operazione, ma che guardi all'attività esercitata e che tenga conto dei
molteplici rapporti in essere nel gruppo e dei possibili vantaggi che una società può trarre
dall'appartenenza al gruppo ovvero da altre operazioni in grado di compensare un pregiudizio
precedentemente subito (c.d. Vantaggi compensativi). Prima della riforma, la giurisprudenza
teorica e pratica era divisa nel riconoscere la possibilità di tenere conto anche dei vantaggi
incerti, ovvero di quelli difficilmente quantificabili. Una conferma della tesi dei vantaggi
compensativi intesa in senso estensivo è fornita dall'articolo 2634,c3, dove è previsto che: ‘’
non è ingiusto il profitto della società collegata o del gruppo, se è compensato da vantaggi,
conseguiti o fondatamente prevedibili, derivanti dal collegamento o dall'appartenenza al
gruppo’’. Viceversa, la disposizione di cui all'articolo 2497 sembra voler aderire ad
un'interpretazione restrittiva della nozione di vantaggi compensativi (che dunque non tiene
conto dei vantaggi incerti o non quantificabili e che ritiene necessaria una effettiva
proporzionalità fra pregiudizio subito e vantaggio compensativo) nel momento in cui statuisce
che ‘’ il danno deve risultare mancante alla luce del risultato complessivo delle attività di
direzione e coordinamento, ovvero integralmente eliminato anche a seguito di operazioni a ciò
dirette’’. E stato altresì rilevato che, sul piano processuale, il vantaggio compensativo deve
essere recepito e provato dal convenuto, salvo che esso risulti dimostrato nella relazione sulla
gestione (artt 2428 e 2497-bis,co5): nel qual caso spetta all'attore dover contestare la
fondatezza dei fatti e delle ragioni in essa pubblicati.

- Al co3 dell'articolo 2497 si prevede che il socio ed i creditori sociali possono agire contro la società
o l’ente capogruppo, solo se non sono stati soddisfatti dalla società soggetta all'attività di direzione
e coordinamento. La disposizione in esame, se con riferimento i creditori sociali può essere
facilmente compresa (il creditore sociale non può agire contro la capogruppo per la lesione
cagionata all'integrità del patrimonio della società eterodiretta, se quest'ultima lo ha, comunque
soddisfatto) e rispecchia un principio generale operante anche con riguardo all'azione di
responsabilità di cui all'articolo 2394, diversamente suscita molteplici interrogativi se riferita ai soci.

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Più precisamente, non si comprende come il socio di una società, soggetta all'attività di direzione
coordinamento, possa ottenere da quest'ultima soddisfazione per un pregiudizio arrecato da
un'altra. Se, infatti, il danno per cui il socio richiede risarcimento è quello subito in primis dalla
società eterodiretta, quest'ultima non solo subisce un pregiudizio da un'altra, ma è tenuta a
risarcire di tale pregiudizio i propri soci. Inoltre, non si può non rilevare come il soddisfacimento di
socio ottiene dalla società partecipata avvenga a spese dalla stessa e, quindi, a spese dei i creditori
sociali, degli altri soci di minoranza anch'essi danneggiati oltre che, pro quota, dello stesso socio
che agisce. Tale socio, infatti, continuando a partecipare alla suddetta società, finisce per perdere,
in misura proporzionale all'entità della partecipazione, il ristoro appena ottenuto.
- Ai sensi del co2 dell'articolo 2497, sono responsabili, in solido con la capogruppo, coloro i quali
abbiano preso parte al fatto lesivo e quanti ne abbiano, comunque, tratto beneficio
consapevolmente. Grazie a tale previsione è possibile estendere la responsabilità, di cui all'articolo
2497,co1, ad una molteplicità di soggetti, anche non appartenenti al gruppo di società, e non per
forza persone giuridiche. In virtù del co2 sarà, infatti, possibile configurare una responsabilità in
capo:
1. agli amministratori e/o sindaci della capogruppo e della società soggetta all'attività di direzione
e coordinamento.
2. Ai soci della società capogruppo.
3. Alle società c.d. Sorelle.
4. A quei soggetti terzi che hanno preso parte al fatto lesivo o, comunque, tratto beneficio dal
compimento del medesimo. (Si pensi ad esempio a delle banche coinvolte nell'ambito di
un'operazione finanziaria posta in essere da una società del gruppo su indicazione della
capogruppo).

Per quanto riguarda coloro che non hanno partecipato al fatto lesivo, ma ne hanno
consapevolmente tratto beneficio, la responsabilità è limitata dalla legge al vantaggio conseguito.

- Alquanto discussa e, infine, la natura della responsabilità di cui all'articolo 2497. Il problema non è
meramente teorico in quanto dalla natura della responsabilità possono derivare importanti
conseguenze attinenti, ad esempio, all'onere della prova (certamente più impegnativo per l'attore
nel caso di responsabilità extracontrattuale), al termine di prescrizione applicabile (rispettivamente
di 5 anni e la responsabilità extracontrattuale è di 10 anni per quella contrattuale), al danno
risarcibile (estendibile anche a quello non prevedibile nel solo caso di responsabilità
extracontrattuale). La dottrina maggioritaria considera la responsabilità di cui all'articolo 2497
avente natura contrattuale. In particolare, si perviene a tale conclusione sulla base dell'assunto che
la responsabilità in questione deriverebbe dalla violazione di obblighi giuridici preesistenti (obblighi
legali), quali, nella specie, le regole di corretta gestione societaria e imprenditoriale e questo
farebbe si che la responsabilità assuma appunto natura contrattuale, secondo la disciplina degli artt
1218 ss.

4(Segue). I finanziamenti intragruppo.

E’ assai frequente che, nell'ambito dei gruppi, vengano effettuati da parte della capogruppo o da parte di
una società appositamente dedicata dei finanziamenti a favore delle altre entità. Molto spesso tali flussi
finanziari servono per porre riparo ad una situazione di sottocapitalizzazione presente in alcune unità del
gruppo medesimo. Non è possibile, lo si è visto, nelle società c.d. Chiuse, dove i soci frequentemente
forniscono le risorse necessarie per lo svolgimento dell'attività imprenditoriale, preferendo, però, utilizzare
lo strumento del finanziamento, piuttosto che quello del conferimento.
Per evitare che una siffatta forma di finanziamento pregiudichi gli altri creditori il legislatore ha introdotto
nelle S.r.l., un'apposita norma, l'articolo 2467, espressamente richiamata anche nei gruppi di società
dall'articolo 2497-quinquies.

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Per effetto di tale richiamo, il rimborso dei finanziamenti effettuati a favore di una società appartenente ad
un gruppo deve essere postergato rispetto alla soddisfazione degli altri creditori, se è già avvenuto
nell'anno precedente la dichiarazione di fallimento, deve essere restituito.
Rilevante è il perimetro soggettivo di applicazione di tale regola. Essa si applica ai finanziamenti effettuati
dal soggetto che esercita attività di direzione e coordinamento, nonchè dalle altre società sottoposte alla
suddetta attività. Vi rientrano, quindi, anche i finanziamenti posti in essere tra società c.d. Sorelle. Non
risultano, invece, sottoposti alla citata disciplina i finanziamenti posti in essere dalle società eterodirette a
favore della capogruppo.
Affinchè operi la postergazione e, se del caso, la restituzione è necessario, in base al richiamo all'articolo
2467, che il finanziamento sia stato effettuato in un momento in cui la società beneficiaria del medesimo,
anche in considerazione del tipo di attività esercitata, risultasse avere un eccessivo squilibrio
dell'indebitamento rispetto al patrimonio netto, oppure una situazione finanziaria nella quale sarebbe stato
ragionevole un conferimento ( supra§61).
L'articolo 2467 fa riferimento ai finanziamenti in qualsiasi forma effettuati. Tale locuzione è interpretabile
in senso estensivo, così che potrebbero rientrarvi anche i finanziamenti natura (ad esempio concessione di
beni in godimento o prestazioni di servizi), nonché le fideiussioni e, più genericamente, le garanzie.

5.Il recesso nei gruppi di società.

Per tutelare i soci di minoranza delle società soggette ad attività di direzione e coordinamento davanti ad
eventi in grado di modificare le condizioni di rischio dell'investimento, il legislatore introduce, nell'articolo
2497-quater, alcuni casi di recesso. Casi che si sommano a quelli previsti con specifico riferimento ai diversi
tipi societari.
- Innanzitutto l'articolo 2497-quater prevede che il socio della società eterodiretta possa recedere
quando la capogruppo abbia deliberato la trasformazione che implichi il mutamento del suo scopo
sociale.
- Il recesso spetta anche nel caso venga modificato l'oggetto sociale della capogruppo, consentendo
alla medesima l'esercizio di attività in grado di alterare in modo sensibile e diretto le condizioni
economiche e patrimoniali della società eterodiretta. Il recesso è, anche in questa ipotesi, collegato
ad una circostanza che coinvolge, non la società dalla quale si procede, ma quella che esercita
attività di direzione e coordinamento. In tale caso, però, il socio che intende recedere deve
dimostrare che la circostanza richiamata, ovvero quella che modifica dell'oggetto sociale, produce
delle conseguenze anche nell'ambito della Società soggetta alla suddetta attività di direzione. Il
legislatore introduce, con riferimento a questa seconda ipotesi, un criterio, quello della sussistenza
di una sensibile e diretta modificazione delle condizioni economiche e patrimoniali della società
soggetta ad attività di direzione e coordinamento, difficile da accertare nei singoli casi concreti e
che può dare luogo a delle contestazioni. Esempio: la società capogruppo amplia il proprio oggetto
sociale ad un’ attività in grado di esercitare una forma di concorrenza con la società eterodiretta,
oppure, al contrario, rinuncia a talune attività e questo rende improbabile che la capogruppo possa
continuare a servirsi dei prodotti e dei servizi della società eterodiretta.
- Il socio può inoltre recedere (questa volta soltanto per l'intera partecipazione) quando sia stata
pronunciata a suo favore una condanna di chi esercita attività di direzione e coordinamento ai sensi
dell'articolo 2497. Al socio della società eterodiretta, in presenza di abusi da parte della
capogruppo, e così concesso non solo uno strumento di tutela risarcitoria ma, anche, il diritto di
recesso. Detto che, singolarmente, potrà produrre effetti negativi per la medesima società
eterodiretta e non nei confronti della società e ha posto in essere gli abusi. La condanna, per dare
luogo alla possibilità di recesso, deve essere adottata con decisione esecutiva.
- Infine, è riconosciuta al socio la possibilità di recedere all'inizio e alla cessazione dell'attività di
direzione e di coordinamento. La facoltà di recedere è, però, legata in quest'ultimo caso alla
sussistenza di diverse condizioni:
-non si deve trattare di una società con azioni quotate in mercati regolamentati
-non deve essere stata promessa un'offerta pubblica di acquisto

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In altre parole, il recesso è accordato solo qualora non sussistano altre forme di exit in capo al
socio, quali la possibilità di vendita delle azioni nei mercati o di aderire ad un'offerta pubblica
d'acquisto. Il legislatore pone, quindi, una precisa alternativa anche se sono evidenti le differenze:
nel caso del recesso ( a differenza dell’o.p.a. o della vendita sui mercati) l'onere di soddisfazione dei
soci che intendono sciogliere il rapporto sociale spetta, in ultima stanza, alla società. Infine,
affinché il recesso possa essere esercitato, è necessario che si verifichi un'alterazione delle
condizioni di rischio dell'investimento. In definitiva, il socio che intende recedere deve dimostrare
che l'inizio o la cessazione dell'attività di direzione e coordinamento abbia determinato un
mutamento del livello di rischio dell'investimento. Si comprende la difficoltà, per il socio che
intende recedere, di accertare e di dimostrare, nei singoli casi concreti, la sussistenza di tale
requisito e questo pone alcuni dubbi sull'efficacia dello strumento di tutela introdotto dalla
legislatore.

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Capitolo 67: I Patrimoni destinati a “ Specifici affari”.

Le S.p.a. possono essere titolari di distinte attività di impresa e, possono limitare il rischio ad esse connesso
alle risorse economiche specificamente destinate a ciascuna attività, in deroga al principio di universalità
della responsabilità patrimoniale declinato dall'articolo 2740. La limitazione della responsabilità della
società ad un patrimonio destinato è volta a stimolare l'investimento in nuove intraprese, giacché consente
un'organizzazione dell'iniziativa economica funzionale alla migliore ripartizione dei rischi connessi alle
distinte attività contestualmente esercitata dalla S.p.a.
Tale effetto di reciproca insensibilità delle vicende economiche inerenti alle singole ‘’ divisioni aziendali’’
può conseguirsi, come si è visto, tramite la costituzione di una controllata per ogni ‘’ settore’’ nel quale la
società intende articolare la propria attività. Anche la destinazione patrimoniale ‘’ a specifici affari’’ che
approfondiremo in questo paragrafo è tecnica di articolazione dell'iniziativa economica e di correlativa
ripartizione del rischio di impresa, e dunque alternativa e concorrente al gruppo di società.
Tecnica i cui vantaggi consisterebbero nel risparmio dei costi di costituzione e di funzionamento degli
organi di nuove società controllate per la realizzazione di un singolo affare, di durata tendenzialmente, ma
non necessariamente, perfetto.
Dobbiamo distinguere tra due fattispecie di destinazione patrimoniale a specifici affari contemplate
dall'articolo 2447-bis:
- patrimoni destinati ‘’ operativi’’ o ‘’ industriali’’ contemplati alla lettera a.  Gli unici che si
pongono in un rapporto di alternatività e di concorrenza con il gruppo di imprese.
- Finanziamenti destinati a specifici affari contemplati alla b.
Entrambe le tipologie, pur nella radicale diversità della disciplina, condividono tuttavia la caratteristica della
strumentalità del patrimonio ad una operazione economica puntualmente identificata; tale è lo specifico
affare, che può consistere in operazioni economiche di portata elementare e deputate ad esaurirsi in un
breve arco temporale, in un'attività imprenditoriale complessa ed esercitata in via continuativa dalla
società: si pensi ad esempio ad una S.p.a., operante nel settore della ristorazione, che decide di costituire
un patrimonio destinato per l'esercizio di una struttura ricettiva alberghiera.

I.I patrimoni destinati c.d. “ Operativi” o “ industriali”.

Il principio di fondo su cui si basa l'istituto è quello della separazione patrimoniale. Seppur con specifici
presupposti e limiti, il patrimonio destinato risponde in via esclusiva delle obbligazioni nascenti dallo
specifico affare, mentre su di esso non possono soddisfarsi creditori estranei all'affare medesimo (articolo
2447-quinquies).
Il patrimonio destinato c.d. Operativo o industriale solo per effetto di una deliberazione costitutiva, che
indica ‘’ lo specifico affare’’ ( art 2447-ter,lett a). Tale delibera è adottata dal consiglio di amministrazione
della S.p.a. salva diversa disposizione dello statuto che può quindi consentire l'attribuzione della relativa
competenza all'assemblea. In tale atto organizzativo viene dunque consacrata la scelta gestoria di destinare
ad una certa attività una serie di beni e rapporti giuridici facenti parte del patrimonio sociale,
analiticamente individuati nella delibera dove vanno altresì puntualizzate modalità e le regole relative al
loro impiego nel contesto della nuova intrapresa della società.

Sono previsti alcuni limiti legali alla costituzione di tali vincoli di destinazione:
- non è consentito costituire patrimoni destinati in relazione ad affari attinenti all'attività il cui
esercizio è oggetto di riserva di legge, quali l'attività bancaria o assicurativa ( art 2447-bis c2); ciò al
fine di evitare elusioni della specifica riserva attraverso l'istituto in esame.
- E’ previsto per tale fattispecie di patrimonio destinato al limite quantitativo: il complessivo valore
dei patrimoni destinati operativi non può eccedere il 10% del patrimonio netto della società. Soglia
introdottasi sia a tutela dei creditori sociali preesistenti, che subiscono una riduzione del
patrimonio posto a garanzia delle loro pretese, sia a salvaguardia dei soci rispetto alla
determinazione degli amministratori di investire nello specifico affare porzioni rilevanti di
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patrimonio netto, che rappresenta quel maggior valore della gestione produttiva esclusivamente
riservato ai soci.

Fulcro della deliberazione costitutiva è il piano economico-finanziario deputato ad attestare la congruità


del patrimonio destinato rispetto alla realizzazione dell'affare ( art 2447-ter,lettc). Il legislatore ha
assegnato al piano un fondamentale valore organizzativo consistente in ciò, che il giudizio tecnico degli
amministratori ivi manifestato, per un verso, vale a giustificare la limitazione di responsabilità della società
nella specifica intrapresa e, per l'altro, costituisce l'unico strumento di apprezzamento della decisione
gestoria di destinazione patrimoniale da parte dei terzi.

Il legislatore non ha mancato di prefigurare l'evenienza che lo specifico affare risulti attrattivo per
finanziatori esterni: la delibera può dunque prevedere eventuali apporti dei terzi, le modalità di controllo
sulla gestione e di partecipazione ai risultati dell'intrapresa ( art 2447-ter,lett d), nonché la correlativa
possibilità di emettere strumenti finanziari di partecipazione all'affare ( art 2447-ter,lett e), così agevolando
lo smobilizzo dell'investimento ed offrendo al contempo alla S.p.a. il vantaggio della persistenza delle
risorse economiche al servizio dello specifico affare pur nell'ipotesi di mutamento della persona
dell'investitore.
L'inquadramento giuridico di questi contratti di investimento in patrimoni destinati può variare in ragione
della configurazione del rapporto di investimento previsto nella deliberazione costitutiva del vincolo. Non è
contestabile la sussunzione nello schema dell'associazione in partecipazione (articolo 2549) del rapporto
sotteso agli apporti dei terzi a patrimoni destinati.
E’ previsto un articolato sistema legale di tutela dei sottoscrittori dei titoli in esame, che consiste nella
previsione di:
- un libro sociale indicante le loro caratteristiche
- l'ammontare dei titoli emessi ed estinti  art 2447-sexies
- la generalità degli intestatari degli strumenti nominativi
- i relativi trasferimenti ed i vincoli ad esse inerenti
- un'organizzazione di gruppo, articolata in assemblee speciali e rappresentante comune e, quindi,
largamente modellata su quella delle obbligazioni, come attestano anche i rinvii alla disciplina art
2447-octies.

La delibera costitutiva del patrimonio destinato deve essere sottoposta al controllo di legalità formale e
sostanziale a cura del notaio rogante, tenuto a depositarla per l'iscrizione nel registro delle imprese.
All'iscrizione nel registro delle imprese della delibera costitutiva del vincolo, la legge assegna efficacia
costitutiva parziale: la sua omissione impedisce infatti il decorso del termine di 60 giorni entro il quale i
creditori sociali anteriori all'iscrizione possono fare opposizione; pertanto, quand'anche la deliberazione
fosse attuata, sarebbe inefficace nei loro confronti. Corso il termine di 60 giorni dall'iscrizione della
deliberazione costitutiva di vincolo nel registro delle imprese ‘’ i creditori della società non possono far
valere alcun diritto sul patrimonio destinato allo specifico affare, né, salvo che per la parte spettante la
società, sui flutti o proventi da esso derivanti’’ (articolo 2447-quinquies,c1).
Se il patrimonio destinato è composto anche da beni immobili o mobili registrati, il vincolo è opponibile ai
creditori sociali soltanto a seguito della trascrizione della destinazione patrimoniale nei pubblici registri.
Sono tuttavia previsti alcuni presupposti e i limiti di operatività del regime di separazione patrimoniale.
Presupposti:
- l'iscrizione della deliberazione costitutiva del patrimonio separato nel registro delle imprese
- espressa menzione del vincolo di destinazione negli atti compiuti in relazione allo specifico affare:
l'omissione di tale menzione determina l'imputazione degli atti, benché inerenti ‘’ allo specifico
affare’’ all'intero patrimonio sociale (art 2447-quinquies,ult co).

Il legislatore consente di pattuire, nella delibera costitutiva del vincolo, una responsabilità sussidiaria della
società per le obbligazioni contratte in relazione allo specifico affare.

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La separazione patrimoniale non influisce però sulla responsabilità per le obbligazioni derivanti dal fatto
illecito. Ciò, sia nel senso che i creditori involontari possono sempre contare sulla responsabilità illimitata
della società, sia nel senso che delle obbligazioni da fatto illecito compiuto nella gestione ordinaria della
società rispondono non solo il patrimonio sociale, ma anche di eventuali compendi destinati.

- Ulteriore condizione di operatività della separazione patrimoniale è la tenuta di una distinta


contabilità dello specifico affare oggetto di destinazione patrimoniale. Gli amministratori della
società devono separatamente tenere, per ciascun patrimonio destinato, un libro giornale un libro
degli inventari e la corrispondenza relativa allo specifico affare (art 2447-sexies).
- Inoltre, per ogni patrimonio destinato gli amministratori devono redigere una separato rendiconto
(che è un vero e proprio bilancio, composti da Stato patrimoniale e conto economico) dello
specifico affare da allegare al bilancio della società

L'articolo 2447-novies distingue tra:


- cause legali di estinzione della separazione, individuate nella realizzazione o sopravvenuta
impossibilità dell'affare e nel fallimento della società.:
-La realizzazione dell'affare ovvero la sopravvenuta impossibilità di conseguirlo non comportano
problemi che sono state integralmente soddisfatte le obbligazioni contratte nello svolgimento della
specifica intrapresa. Gli amministratori redigono un rendiconto finale che, accompagnato da una
relazione dei sindaci e del soggetto incaricato della revisione contabile, deve essere depositato
presso l'ufficio del registro delle imprese. I creditori dello specifico affare, per salvaguardare le loro
ragioni devono chiedere la liquidazione del patrimonio dedicato entro 90 giorni dal deposito del
rendiconto.
-Il fallimento della società, (art 2447-novies,ult co) l'accertamento dello stato della società
insolvenza della società comporta la formazione di distinte masse attive e passive del patrimonio
generale e del compendio dedicato, sul quale potranno soddisfarsi le pretese dei soli creditori
particolari dello specifico affare. In ogni modo, va tenuto presente che il fallimento determina
l'impossibilità di prosecuzione dell'affare da parte della società fallita, non già oggettivo
impedimento alla sua realizzazione da parte di altra società in bonis. L'articolo 155 L.Fall. infatti,
prevede, nel caso di dichiarazione di fallimento della società con patrimonio destinato non
incapiente, l'attribuzione dell'amministrazione di quest'ultimo al curatore che vi provvede non
soltanto realizzando una gestione separata, ma perseguendo l'affare e disponendo la sua cessione
a terzi per conservarne la funzione produttiva; solo se la cessione non è possibile, il curatore
procede alla liquidazione del patrimonio secondo le regole dello scioglimento della società. Il
corrispettivo della cessione, al netto dei debiti, o il residuo attivo della liquidazione sono acquisiti
dal curatore nell'attivo fallimentare, , detratto quanto spettante ai terzi che vi abbiano effettuato
apporti ai sensi dell'articolo 2447-ter,co1,lett d fra i quali vanno naturalmente ricompresi i
possessori di strumenti finanziari partecipativi all'affare.
Quanto invece all'insolvenza del patrimonio destinato, essa è disciplinata esclusivamente delle
disposizioni sulla liquidazione della società. Ai sensi dell'articolo 156 L.Fall.,’’ se a seguito del
fallimento della società o nel corso della sua gestione, il curatore rileva che il patrimonio destinato
e incapiente provvede, previa autorizzazione del giudice delegato, alla sua liquidazione secondo le
regole della liquidazione della società’’. E se dovesse risultare incapiente il patrimonio destinato di
una società in bonis non sarebbe ipotizzabile un ‘’ fallimento’’ autonomo del patrimonio, alla cui
liquidazione dunque gli amministratori della società dovranno procedere secondo le normali regole
di liquidazione della società.
- cause convenzionali, che la delibera costitutiva del patrimonio destinato può prevedere (ad
esempio è possibile stabilire che la fusione o scissione della società determini estinzione dei sui
vincoli di destinazione patrimoniale).

II.I finanziamenti destinati ad uno specifico affare.

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Le Società azionarie possono altresì stipulare contratti di finanziamento destinati a specifici affari con terzi
disposti a sovvenzionare la realizzazione di nuove iniziative economiche al fine di conseguirne i futuri
proventi (es: finanziamento della linea ferroviaria ad alta velocità remunerato con i proventi ricavati dalla
vendita dei biglietti dei treni per un certo numero di anni). Al finanziatore non è dunque offerta la garanzia
sui beni costituenti il patrimonio sociale; la garanzia ed il rimborso del finanziamento avvengono
esclusivamente con i valori conseguiti nell'esercizio dell'impresa: i proventi dell'affare sovvenuto (art 2447-
decies) isolati per effetto di una separazione patrimoniale pur dotata di efficacia reale. Tale separazione
mira a precludere ai creditori sociali l'esercizio di azioni esecutive sui proventi stessi, nonché sui loro frutti e
su quelli degli investimenti effettuati con tali proventi in attesa del rimborso al finanziatore. Poichè il
finanziamento viene utilizzato dalla società per la realizzazione di una data iniziativa i cui proventi sono
destinati in via esclusiva al suo rimborso totale o parziale, ben si comprende come le modalità di
compimento dello specifico affare sovvenuto coinvolgono, in misura rilevante, interessi di terzi. Da qui la
necessità di descrivere analiticamente operazione sovvenuta nel contratto, di individuarne
specificatamente l'oggetto e di puntualizzarne modalità e tempi di realizzazione, costi previsti e ricavi
attesi; e poi è necessario elaborare un piano finanziario dell'operazione che costituisce parte integrante del
contratto ed esplicita le eventuali garanzie che la società presta per il rimborso del finanziamento.

La società è quindi tenuta all'adozione di ‘’ sistemi di incasso e di contabilizzazione idonei ad individuare in


ogni momento i proventi dell'affare ed a tenerli separati dal restante patrimonio sociale’’.
La stipulazione del contratto di finanziamento destinato prospetta la necessità di costanti controlli del
finanziatore aventi ad oggetto le condizioni di esecuzione dell'attività sovvenuta e la stessa determinazione
dell'entità dei proventi dell'affare destinati al rimborso del finanziatore stesso. Del contratto vanno perciò
definiti, in particolare, ‘’ i controlli che il finanziatore, o soggetto da lui delegato, può effettuare
sull'esecuzione dell'operazione’’- art 2447 decies,co2,lett e.
La realizzazione dello specifico affare con risorse nuove apportate dal finanziatore e non già provenienti dal
patrimonio della società giustifica la mancata previsione del diritto dei creditori sociali di opposizione alla
stipulazione del contratto di finanziamento.

Un cenno conclusivo meritano gli effetti del fallimento della società sul contratto di finanziamento
destinato in corso di esecuzione.
In caso di fallimento della società impeditivo della realizzazione dell'operazione, il finanziatore ha diritto di
insinuarsi al passivo per il suo intero credito, al netto dei proventi già ricevuti, nonché dei frutti di essi e
degli investimenti effettuati in attesa del rimborso. – art 2447-decies,co6.; il finanziatore è altresì
legittimato ad esercitare azioni esecutive sui beni strumentali destinati al perseguimento dell'affare: beni
questi che, prima della dichiarazione di fallimento, possono costituire esclusivamente oggetto di azioni
conservative a tutela dei diritti dei creditori sociali.
Ma la dichiarazione di fallimento della società non determina, di per sé, lo scioglimento del contratto di
finanziamento destinato quando non impedisca la realizzazione o la continuazione dell’operazione. Si pensi
ai casi di esercizio provvisorio d'impresa o di affitto d'azienda nel fallimento ovvero all'ipotesi, più semplice,
in cui il curatore reputi conveniente nell'interesse dei creditori e di una migliore liquidazione del patrimonio
della società fallita ultimare ‘’ lo specifico affare’’ sovvenuto.

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Sezione Settima: Le società con scopo mutualistico.

Capitolo 68: Le società cooperative.

I.La mutualità e i principi del modello cooperativistico.

1.La funzione sociale e le fonti della disciplina.

Le società cooperative nascono nella metà dell'ottocento per reagire alle profonde disuguaglianze generate
dalla rivoluzione industriale. In quel periodo storico si avvertiva l'esigenza di un modello d'impresa di
stampo democratico, idoneo ad incrementare il benessere dei ceti meno abbienti, offrendo beni primari e
soprattutto occasioni di lavoro in un mercato caratterizzato da una forte disoccupazione.
Tale funzione sociale dell'impresa cooperativa ‘’ a carattere di mutualità e senza fini di speculazione
privata’’ consiste nel rendere possibile ai soci cooperatori la realizzazione dei loro bisogni ed economie
individuali anche attraverso la riduzione dei costi ed il miglioramento dei servizi. La funzione sociale della
cooperazione e salvaguardata dalla costituzione nell'articolo 45, che invita il legislatore a promuovere e
favorire l'incremento della cooperazione a carattere mutualistico e non speculativo, con i mezzi più idonei
ad assicurarne le finalità, anche mediante opportuni controlli.
La disciplina civilistica delle società cooperative è molto articolata e piuttosto disorganica. Essa consta di un
nucleo di norme generali collocate nel codice civile ( artt 2511-2545.octiesdecies), incisivamente modificate
dalla riforma del 2003, e di numerose disposizioni contenute in numerose leggi speciali: alcune applicabili a
tutte le società cooperative (L.59/1992), altri invece relative a cooperative operanti in determinati settori
produttivi (cooperative agricole, cooperative di credito ecc), regolate secondo le norme del codice civile in
quanto compatibili (art 2520).
Le eventuali lacune della disciplina specifica delle società cooperative vanno colmate con il richiamo al
regime residuale delle disposizioni della società per azioni ( art 2519,co1). Tuttavia, l'atto costitutivo della
società cooperativa può prevedere che trovano applicazione, in quanto compatibili, le norme sulla società a
responsabilità limitata, e a condizione che il numero dei soci cooperatori sia inferiore a 20 ovvero l'attivo
patrimoniale non sia superiore a 1 milione di euro; se il numero dei soci e inferiore a nove, l'adozione del
regime residuale della società a responsabilità limitata, in luogo di quello della società per azioni, diviene
necessaria.

Per le obbligazioni sociali risponde esclusivamente la società con il proprio patrimonio ( art 2518).

2.Lo scopo mutualistico e i suoi corrolari.

Il codice civile qualifica le società cooperative in base a due requisiti fondamentali ( art 2511):
- lo scopo mutualistico
- il capitale variabile
La variabilità del capitale costituisce una delle conseguenze dello scopo mutualistico.
Il codice civile non prevede una definizione di scopo mutualistico. Per delinearne i tratti caratteristici
occorre tuttora risalire all'originaria relazione codice civile n°1025 secondo cui l'attività di impresa
prevalente della società cooperative consiste, a seconda del settore di attività,’’ nel fornire beni,servizi o
occasioni di lavoro direttamente ai membri dell'organizzazione a condizioni più vantaggiose di quelle che
otterrebbero sul mercato’'.  I soci riescono a conseguire un determinato bene o servizio ad un prezzo
inferiore a quello, in quanto la società si accontenta di coprire costi di produzione (nelle cooperative di
consumo); analogamente, nelle cooperative di lavoro, i soci lavoratori riescono a conseguire un salario
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maggiore rispetto a quelli di mercato, giacché la società distribuisce loro a questo titolo l'intero ricavo
tratto dalla vendita a terzi dei suoi prodotti, anche qui rinunciando a trattenere il proprio profitto
imprenditoriale.
Detto ciò, si evince che diversamente dalle società lucrative, lo scopo-fine perseguito dai soci di una società
cooperativa consiste dunque nel soddisfacimento di un particolare bisogno economico ( casa, lavoro,generi
di consumo,credito,ecc..) e non già della più elevata remunerazione del capitale investito in società (lucro
soggettivo).

Dal punto di vista dell'impresa, lo scopo mutualistico non incide sugli elementi tipici del contratto di
società:
- lo scopo mutualistico non vieta che i criteri di gestione della società tendano a massimizzare la
produzione di utili
- l'esercizio in comune di attività economica costituisce lo scopo-mezzo anche delle società
cooperative.
- L'articolo 2521,co2 consente espressamente all'atto costitutivo di una cooperativa di prevedere che
la società svolga la propria attività anche con terzi. Ciò rende possibile alla Società cooperativa di
acquisire e mantenere livelli di efficienza e di competitività sul mercato.

Dal punto di vista dei soci, la mutualità comporta che il rapporto associativo sia qualificato dalla c.d.
Gestione di servizio, ossia dalla tendenziale destinazione ai soci dei beni e dei servizi prodotti dalla
cooperativa.
L'effettiva realizzazione della gestione di servizio rende necessaria la previsione, nell'atto costitutivo della
Società cooperativa, di requisiti soggettivi per l'ammissione di nuovi soci ( art 2527); se ne deduce che la
stessa la cooperativa non è aperto a chiunque ma soltanto a coloro che sono potenzialmente idonei ad
intrattenere il rapporto mutualistico con la società o che, più esplicitamente, nutrono un effettivo interesse
a ottenere quella prestazione.
Il socio non è portatore di un diritto soggettivo alle prestazioni mutualistiche ma, dispone soltanto di una ‘’
legittima pretesa’’ di essere preferito a terzi nell'erogazione della prestazione mutualistica da parte della
cooperativa: pretesa che si traduce in un potere di controllo indiretto sull'attività mutualistica
effettivamente svolta dalla società, ad esempio consistente nell'impugnativa di delibere che privilegino i
terzi negli scambi mutualistici o che violino il principio di parità di trattamento tra soci nell'esecuzione dei
rapporti mutualistici ( art 2516).
Deve inoltre osservarsi che le prestazioni mutualistiche conseguite dai soci non discendono direttamente
dal rapporto sociale, ma trovano la propria fonte in autonomi contratti di scambio stipulati tra la
cooperativa ed i suoi soci: ad esempio il contratto di compravendita di beni prodotti dalla cooperativa 8 di
consumo).
E’dunque dalla stipulazione degli scambi mutualistici ed in proporzione all'entità degli stessi che il singolo
socio trae il vantaggio tipico che costituisce il fondamento della partecipazione in questo tipo societario.

La mutualità comporta una reciprocità di prestazioni tra la cooperativa e i suoi soci, sicché è condizione
essenziale per la realizzazione dell'esercizio mutualistico dell'impresa, la sussistenza di una pluralità di
scambi.
Lo scopo mutualistico ha notevole incidenza anche sulla struttura della società cooperativa: struttura
aperta della cooperativa, cristallizzata sul principio della porta aperta secondo cui coloro che posseggono i
requisiti soggettivi di partecipazione sanciti dall'atto costitutivo della cooperativa meritano una specifica
tutela nell’ ammissione alla società e meritano l'accesso; al contrario, occorre agevolare l'uscita dalla
società dei soci non più interessati alla fruizione della prestazione mutualistica ( art 2528).
Il principio della porta aperta è strettamente connesso all'altra fondamentale caratteristica strutturale
menzionata già nella nozione di società cooperativa: la variabilità del capitale. Ciò in quanto l'entrata ed
uscita dei soci dalla cooperativa comporta un automatico mutamento del capitale senza necessità di una
formale modifica dell'atto costitutivo in seguito ad una delibera dell'assemblea straordinaria, come invece
previsto nelle società a capitale fisso.

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Il capitale variabile costituisce insomma requisito strutturale necessario a consentire il conseguimento dello
scopo mutualistico. Tale peculiarità del capitale si traduce altresì nell'assenza di limiti minimi all'entità dello
stesso, sia che la società adotti il regime della spa sia quello della srl.

Fra i principi fondamentali dell'impresa cooperativa va annoverato il suo carattere democratico, insito nel
voto capitario: ad ogni socio spetta un solo voto qualunque sia il valore della quota un numero di azioni
possedute ( art 2538,co2). Al fine di evitare che alcuni soci acquisiscano comunque situazioni di
predominio, e anche stabilito un limite massimo al possesso di quote e di azioni ( art 25255,co2).

3.Le cooperative a mutualità prevalente.

Dobbiamo distinguere tra:


- cooperative a mutualità prevalente
- cooperative c.d. Diverse
La distinzione assume rilevanza esclusivamente fiscale, risolvendosi in disposizioni volte a subordinare la
fruizione delle agevolazioni tributarie a drastiche limitazioni legali del lucro soggettivo dei soci.

Sono cooperative a mutualità prevalente quella che, in ragione del tipo di scambio mutualistico praticato,
svolgono prevalentemente la loro attività in favore dei soci, consumatori o utenti di beni o servizi, oppure si
avvalgono prevalentemente, nello svolgimento della loro attività, delle prestazioni lavorative dei soci.
Al fine di godere dei benefici fiscali, le cooperative a mutualità prevalente devono essere iscritte in una
specifica sezione dell'albo delle cooperative, tenuto presso il ministero dello sviluppo economico, nel quale
depositano annualmente i propri bilanci.
I criteri legali per la definizione della prevalenza e i requisiti statutari di prevalenza sono previsti dal codice
civile, negli artt 2513 e 2514.
I criteri legali sono ancorati a parametri basati sul tipo di scambio mutualistico praticato dalla cooperativa e
devono essere documentati dagli amministratori e dai sindaci nella nota integrativa al bilancio della società.
Le cooperative a mutualità prevalente devono inoltre prevedere nei propri atti costitutivi quattro clausole
statutarie antilucrative:
- il divieto di distribuire dividendi in misura superiore all'interesse massimo dei buoni fruttiferi
postali aumentato di due punti e mezzo rispetto al capitale effettivamente versato
- il divieto di remunerare gli strumenti finanziari offerti in sottoscrizione ai soci cooperatori in misura
superiore al 2% rispetto al limite massimo previsto per i dividendi
- il divieto di distribuire le riserve tra i soci cooperatori
- l'obbligo di devoluzione, in caso di scioglimento della società, dell'intero patrimonio sociale,
dedotto soltanto il capitale sociale ed i dividendi eventualmente maturati ai fondi mutualistici per
la promozione e lo sviluppo della cooperazione
Il mancato rispetto, per due esercizi consecutivi, dei criteri legali di prevalenza o la modifica, con delibera
adottata con le maggioranze dell'assemblea straordinaria delle clausole statutarie antilucrative,
comportano la perdita della qualifica di cooperativa a mutualità prevalente ( art 2514 c2).

II.La struttura formale. Costituzione e modifiche dell’atto costitutivo.

1.La costituzione. La nullità della società.

L'atto costitutivo, redatto per atto pubblico a pena di nullità, deve stabilire la disciplina dei rapporti
mutualistici e puntualizzare quindi le regole per lo svolgimento dell'attività, cui contenuto può essere
specificato nei regolamenti mutualistici. Aali regolamenti possono essere adottati contestualmente alla
stipula dell'atto stesso e costruirne parte integrante; oppure possono essere predisposti dagli
amministratori ed approvati dall'assemblea con le maggioranze dell'assemblea straordinaria.
Il contenuto dell'atto costitutivo riprende le indicazioni viste per la spa con qualche peculiarità:

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- le generalità dei soci, il cui numero non può essere qui inferiore a nove se la cooperativa e
modellata sulla spa, o a tre se adottano schema della srl
- La denominazione sociale che, in qualunque modo formata, deve contenere l'indicazione di società
cooperativa
- La quota di capitale sottoscritta da ciascuno di essi deve essere contenuta nei limiti legali
- l'indicazione specifica dell'oggetto sociale con riferimento ai requisiti e agli interessi dei soci.
L'oggetto sociale assume infatti nelle cooperative un rilievo centrale, poiché consente di qualificare
lo scopo mutualistico programmato ed al contempo di selezionare, mediante la sua correlazione ai
requisiti soggettivi ed agli interessi dei soci, i soggetti effettivamente interessati a quel bisogno
economico che la cooperativa si prefigge di appagare; di qui la necessità che l'oggetto sociale risulti
coerente con l'attività e le qualifiche professionali dei soci.
- L'indicazione, nell'atto costitutivo dei requisiti, condizioni e procedura per l'ammissione dei soci,
oltrechè del luogo e del tempo in cui devono essere eseguiti i conferimenti. I criteri di ammissione
devono risultare non discriminatori e, comunque, coerenti con lo scopo mutualistico e l'attività
economica svolta dalla società, puntualizzare nell'oggetto sociale (art 2527,co1). Non possono
divenire soci quanti esercitano in proprio interesse in concorrenza con quella della cooperativa.
- Ulteriori indicazioni dell'atto costitutivo delle cooperative sono le condizioni per l'eventuale recesso
dell'esclusione dei soci.
- le regole, per la ripartizione degli utili e dei criteri per la distribuzione dei ristorni, che
costituiscono la specifica tecnica per il conseguimento del vantaggio mutualistico da parte dei soci.

Il notaio che ha ricevuto l'atto costitutivo deve depositarlo entro 20 giorni presso l'ufficio del registro delle
imprese nella cui circoscrizione è stabilita la sede della società. Al momento del deposito il notaio deve
allegare i documenti attestanti l'esistenza delle condizioni per la costituzione ai sensi dell'articolo 2329.
I soci sono dunque tenuti a versare il 25% dei conferimenti in danaro presso una banca ed occorre una
relazione giurata di stima per i conferimenti in natura.
L'iscrizione nel registro delle imprese ha efficacia costitutiva, in quanto la società cooperativa acquista
personalità giuridica e viene ad esistenza come soggetto di diritto distinto dalle persone dei soci.

Si applicano alle società cooperativa le cause tassative della nullità della spa e gli effetti di tale disciplina,
con la conseguenza che la dichiarazione di nullità non ha carattere retroattivo, ma opera come causa di
scioglimento ed è sanabile.
- Mancanza dell'atto costitutivo nella forma dell'atto pubblico
- illiceità dell'oggetto sociale
- mancanza nell'atto costitutivo di ogni indicazione inerente la denominazione sociale, i conferimenti
e l'oggetto sociale

2.Le modifiche statutarie.

Le modifiche dell'atto costitutivo devono essere deliberate dall'assemblea, sottoposte al controllo


ed iscritta nel registro delle imprese (art 2545-novies ).
Le cooperative, sono società a capitale variabile, sicché l'aumento e la riduzione del capitale, conseguente
all'ingresso o all'uscita dei soci non comportano di regola modifiche dell'atto costitutivo. Resta comunque
ferma la facoltà della società di deliberare aumenti di capitale a pagamento con conseguente
riconoscimento ai soci del diritto di opzione sulle azioni di nuova emissione; in tal caso, l'ingresso di nuovi
soci implica un'esclusione dall'assemblea o una limitazione del diritto di opzione, che può essere
autorizzata dall'assemblea soltanto su proposta motivata degli amministratori.

III.La struttura finanziaria della cooperativa.

1.Partecipazione,investimenti e finanziamenti nella società cooperativa.

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Come detto le cooperative sono regolate dalle disposizioni sulla spa in quanto compatibili. L'atto costitutivo
della cooperativa può tuttavia prevedere che trovino applicazione, in quanto compatibili, le disposizioni
sulla srl, ma tale facoltà risulta delimitata da due limiti legali:
- essa si trasforma in uno specifico obbligo allorché il numero dei soci sia inferiore a nove, poiché
non è consentito applicare le norme sulla spa
- al contrario, le norme sulla srl non possono applicarsi se la cooperativa ha un numero di soci
superiore 20 e l'attivo patrimoniale superiore ad 1 milione di euro (dove quindi richiamare
necessariamente le disposizioni in tema di spa).
Detto ciò, se la cooperativa, per legge o per statuto, abbiano adottato lo schema della srl, la partecipazione
sociale deve essere necessariamente rappresentata da quote; al contrario la cooperativa modellata sullo
schema della spa deve rappresentare la partecipazione sociale in azioni.

La legge prevede limiti massimi al valore delle azioni e delle quote tenibili da un socio:
- in assenza di diversa previsione normativa, nessun socio può avere una quota superiore a €
100.000, né tante azioni il cui valore superi tale ammontare; l'atto costitutivo delle cooperative con
più di 500 soci può elevare tale limite fino alla soglia del 2% del capitale sociale.
Sono esenti da questi limiti le azioni o quote:
- liberate attraverso conferimenti di beni in natura o crediti
- assegnate gratuitamente ai soci mediante l'utilizzo di riserve indivisibili ai sensi dell’art 2545-
quinquies,co3
- assegnate gratuitamente ai soci a titolo di distribuzione dei ristorni
- detenuta da soci persone giuridiche
- limiti non si applicano neppure ai sottoscrittori di strumenti finanziari dotati di diritti di
amministrazione.
È prevista anche una disciplina speciale della partecipazione eccedente il limite: essa deve essere riscattata
o alienata nell'interesse del socio dagli amministratori e, in ogni caso, il socio non può godere dei relativi
diritti patrimoniali, che sono destinati a riserva indivisibile.

La variabilità del capitale, essenziale caratteristica delle cooperative, comporta che le azioni non rechino
indicazione dell'ammontare del capitale sociale, né di quello dei versamenti parziali per le azioni non
interamente liberate; devono ritenersi incompatibili con la cooperativa le azioni senza valore nominale.

È possibile inoltre creare categorie di azioni fornite di diritti diversi in relazione all'oggetto della
prestazione mutualistica O, della cooperativa modellata sulla srl, attribuire ad alcuni soci diritti particolari.

Con la L.59/1992, il legislatore ha inteso favorire il reperimento di mezzi finanziari da parte della società
cooperativa: oltre ad elevare i limiti massimi della partecipazione di ciascun socio, ha soprattutto elaborato
ulteriori forme di finanziamento, consistenti nella figura del socio sovventore e delle azioni di
partecipazione cooperativa.
I soci sovventori sono una categoria di soci senza scopo mutualistico, bensì animata dall’'intento di
conseguire una remunerazione adeguata al proprio investimento nell'impresa, che lo statuto può elevare
fino ad un massimo di punti rispetto al tasso di remunerazione spettante ai soci cooperatori. Le azioni
attribuite ai soci sovventori devono essere nominative e liberamente trasferibili.
L'atto costitutivo può disporre l'attribuzione, a ciascun socio sovventore, di più voti ( anche in relazione ai
conferimenti) ma fino ad un massimo di cinque; in ogni caso, i voti attribuiti ai sovventori non possono
superare 1/3 dei voti spettanti a tutti i soci.
Le azioni di partecipazione cooperativa invece costituiscono una categoria speciale di azioni caratterizzata
in virtù dell'assenza del diritto di voto e della sussistenza del privilegio nella ripartizione degli utili e del
rimborso del capitale, inderogabilmente fissato nel 2% in più rispetto a quella delle quote e delle azioni dei
soci della cooperativa. Tali azioni devono essere offerte in misura non inferiore alla metà del totale
emissione di opzione ai soci e ai lavoratori dipendenti della cooperativa.

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Condizione per l'emissione di azioni di partecipazione cooperativa è inoltre, l'adozione di procedure di


programmazione pluriennale finalizzate allo sviluppo o all'ammodernamento aziendale. I diritti patrimoniali
dei possessori di azioni di partecipazione cooperativa sono salvaguardati dalla loro organizzazione comune,
che consta di un'assemblea speciale e di rappresentante comune, la cui disciplina calca quella di azioni di
risparmio.

Gli statuti delle società cooperative sono soliti prevedere una particolare forma di autofinanziamento che
gode di specifiche agevolazioni fiscali: i prestiti dei soci. La raccolta dei prestiti può riguardare
esclusivamente soci iscritti da almeno tre mesi. Il limite massimo dei prestiti non può eccedere il triplo del
patrimonio risultante dall'ultimo bilancio approvato; inoltre, a tutela dei soci, valgono le medesime regole
di trasparenza delle operazioni contrattuali.
Le cooperative possono reperire risorse finanziarie anche mediante l'emissione di obbligazioni secondo i
criteri e nei limiti stabiliti dal CICR. Le cooperative che emettono obbligazioni devono tuttavia sottoposti
all'obbligo di certificazione annuale del bilancio e rispettare le regole in tema di informazione al pubblico.

Regole più restrittive sono previste per le cooperative modellate sul regime della srl, che possono offrire in
sottoscrizione soltanto strumenti finanziari privi di diritti amministrativi ai soli investitori qualificati, per
tali dovendosi intendere gli investitori professionali soggetti a vigilanza prudenziale abilitati alla
sottoscrizione dei titoli di debito della srl.

2.Le vicende delle partecipazioni sociali.

Il trasferimento della quota o delle azioni dei soci cooperatori ed inefficace nei confronti della società, se la
cessione non è autorizzata dagli amministratori ( art 2530,co1).
A tal fine è previsto un articolato procedimento volto a contemperare il diritto soggettivo del socio a cedere
la propria partecipazione con l'obbligo della società di valorizzare il perseguimento dello scopo mutualistico
con la garanzia di una adeguata coesione della compagine sociale. Il socio che intende trasferire la propria
partecipazione sociale deve darne comunicazione agli amministratori con lettera raccomandata che indichi
le generalità dell'acquirente. Entro 60 giorni dal ricevimento della richiesta, gli amministratori devono
comunicare al socio il provvedimento che concede o nega l'autorizzazione al trasferimento. Il silenzio,
decorso questo termine, vale assenso: il socio è libero di trasferire la propria partecipazione e la società
può iscrivere nel libro soci l'acquirente provvisto dei requisiti soggettivi che dispone, pertanto, di un diritto
soggettivo all'iscrizione. Il provvedimento che nega l'autorizzazione al trasferimento deve essere motivato,
non essendo quindi più rimesso alla discrezionalità degli amministratori; ed il socio, entro 60 giorni dal
ricevimento del diniego, può proporre opposizione al tribunale.
È altresì possibile prevedere nell'atto costitutivo un divieto di circolazione della quota o delle azioni. In tal
caso il socio può esercitare, dopo il decorso di due anni dal suo ingresso in società, il diritto di recesso, con
un preavviso di 90 giorni ( art 2530,co6).
Se la quota trasferita non è interamente liberata, il socio trasferente risponde verso la società per i
conferimenti ancora dovuti per un anno dal giorno in cui la cessione si è verificata. L'atto costitutivo delle
cooperative può autorizzare gli amministratori ad acquistare o rimborsare quote o azioni proprie, alla sola
condizione che la consistenza del patrimonio netto sia almeno pari al 25% del totale dell'indebitamento
della società. Inoltre, l'articolo 2529 estende alle cooperative la regola secondo cui la società non può
acquistare azioni proprie se non nei limiti degli utili distribuibili e delle riserve disponibili risultanti
dall'ultimo bilancio regolarmente approvato.

3.Il procedimento di ammissione di nuovi soci.

Uno dei cardini della Società cooperativa consiste, nel principio della porta aperta, secondo cui l'ingresso di
nuovi soci, attraverso la sottoscrizione di nuovo capitale, avviene secondo una procedura semplificata che
non implica una modifica dell'atto costitutivo.

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Tale procedura è oggi piuttosto articolata, allo scopo di limitare la discrezionalità dell'organo
amministrativo, in passato fonte di non pochi abusi, e di garantire al contempo trasparenza sulle modalità
di accesso praticate dalle singole cooperative.
L'ammissione di un nuovo socio è deliberata dagli amministratori su domanda dell'interessato . La delibera
di ammissione deve essere comunicate all'interessato e annotata a cura degli amministratori nel libro dei
soci.
Il consiglio di amministrazione deve, entro 60 giorni, motivare l'eventuale deliberazione di rigetto della
domanda di ammissione e comunicarla agli interessati: i quali, entro 60 giorni dalla comunicazione del
diniego, possono chiedere che sull'istanza si pronunci l'assemblea nella prossima riunione, quand'anche
non appositamente convocata per la delibera sulle domande non accolte. La decisione dell'assemblea di
ammissione del nuovo socio è senz'altro vincolante per gli amministratori.
Questi vincoli procedimentali aumentano la tutela degli aspiranti soci in caso di ingiustificato rigetto della
domanda di ammissione, disponendo essi dell'azione di responsabilità nei confronti degli amministratori ai
sensi dell'articolo 2395.

L'atto costitutivo della cooperativa può prevedere l'inserimento del nuovo socio cooperatore in una
categoria speciale attributiva di diritti diversi da quelli degli altri soci, dove egli nutra un interesse ad
espletare un periodo di formazione professionale (c.d. soci in prova)  Deroga anche se temporanea, al
principio di parità di trattamento tra soci.
Al termine di questo periodo, che può protrarsi fino ad un massimo di cinque anni, i soci sono ammessi a
godere di tutti i diritti spettanti agli altri soci cooperatori. In ogni caso i soci ammessi a tale categoria
speciale non possono superare 1/3 del numero totale dei soci cooperatori.

4.Lo scioglimento del singolo rapporto sociale.

Il rapporto sociale si scioglie anche delle cooperative per: recesso, esclusione e morte del socio.

a) Recesso: è previsto il divieto di recesso parziale ( art 2532,co1), che mira a scongiurare
comportamenti opportunistici dei soci, incentivati dal voto per teste. Il socio cooperatore può
recedere nei casi previsti dalla legge e dall'atto costitutivo. L'unica ipotesi di recesso legale
espressamente prevista la presenza nell'atto costitutivo di un divieto cessione della quota. In tal
caso, il socio può recedere con un preavviso di 90 giorni, sempre che siano decorsi due anni dal suo
ingresso nella società.
Ulteriori fattispecie legali di recesso dalla Società cooperativa si ricavano dalla disciplina della spa (
art 2437) o della srl (art 2473), a seconda del modello adottato, in virtù del generale rinvio
contenuto nell'articolo 2519.
Quanto al recesso statutario, è discussa l'ammissibilità di clausole che riconoscono il diritto di
recesso ad nutum; parimenti controversa e la legittimità di clausole che richiamino la disciplina del
recesso per giusta causa delle società di persone.
È previsto un articolato procedimento, secondo cui la dichiarazione di recesso deve essere
comunicata con raccomandata alla società. Gli amministratori devono esaminarla entro 60 giorni
dalla ricezione la loro valutazione è non già discrezionale, bensì vincolata al mero accertamento dei
presupposti del recesso; se quest'ultimi non sono ritenuti sussistenti, gli amministratori devono
darne immediata comunicazione al socio che, entro 60 giorni, può proporre opposizione al
tribunale ( art 2532,co2).
Assai peculiare è la disciplina degli effetti del recesso, pervasa dall’istanza di salvaguardare
l'interesse della cooperativa a non essere privata della apporto mutualistico del socio recedente:
infatti, gli effetti che incidono sul rapporto sociale si producono dal giorno della comunicazione del
provvedimento di accoglimento della domanda; al contrario, gli effetti del recesso sui rapporti
mutualistici tra socio e società vengono differiti alla chiusura dell'esercizio in corso, se e comunicato
tre mesi prima, o, in caso contrario, alla chiusura dell'esercizio successivo. È prevista una diversa

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regolamentazione, legale o convenzionale al riguardo, che potrebbe stabilire anche un diverso


termine di preavviso.

b) L'esclusione del socio: può essere disposta per cause legali e per ipotesi convenzionali
specificamente previste dallo statuto della società.
Cause legali di esclusione facoltativa sono:

-l'inadempimento, totale o parziale, dei conferimenti relativi alle azioni o quote sottoscritte: in
questo caso, il socio può essere escluso soltanto in seguito all'intimazione degli amministratori ad
adempiere è ad una successiva delibera dell'organo amministrativo o dell'assemblea ( 2531).
-Gravi inadempienze delle obbligazioni che derivano dalla legge, dal contratto sociale, dal
regolamento o dal rapporto mutualistico.
-La mancanza o la perdita dei requisiti soggettivi di partecipazione alla società.
-L'interdizione, l'inabilitazione del socio, o la sua condanna ad una pena che importa l'interdizione,
anche temporanea, dai pubblici uffici.
-Casi di mancata attuazione del conferimento previsti per le società di persone (sopravvenuta
inidoneità ad eseguire il conferimento d'opera promesso o il perimento della cosa conferita in
godimento o in proprietà dovuto a causa non imputabile agli amministratori ( art 2286,co2e3)
-il fallimento del socio

Cause convenzionali di esclusione, possono essere previste dall'atto costitutivo che, secondo
l'opinione prevalente e corretta, devono riguardare pur sempre l'inadempimento degli obblighi
previsti dal contratto sociale o dal rapporto mutualistico, costituendo pertanto specificazione di
quelle previste dalla legge.

L'esclusione deve essere deliberata dagli amministratori; può essere decisa dall'assemblea soltanto
qualora una clausola statutaria prevede espressamente tale competenza. In ogni caso, il
provvedimento di esclusione, recante obbligatoriamente una motivazione congrua e specifica, deve
essere comunicato al socio, il quale entro 60 giorni dalla comunicazione può proporre opposizione
al tribunale.
Diversamente da recesso, l'esclusione del socio determina lo scioglimento immediato anche dei
rapporti mutualistici pendenti, salvo diversa disposizione statutaria ( 2533,co4).

c) Morte del socio: la particolare rilevanza dell’intuitus personae della cooperativa emerge anche
dalle conseguenze della morte del socio: è previsto che, in questo caso, il rapporto sociale si
scioglie e gli eredi hanno diritto alla liquidazione della quota o al rimborso delle azioni. E’ tuttavia
consentita una previsione statutaria che consente agli eredi provvisti dei necessari requisiti
soggettivi di subentrare nella partecipazione del socio deceduto, nominando, se la quota non è
divisibile, un rappresentante comune.

Il socio receduto, escluso o gli eredi del socio defunto hanno diritto di ottenere la liquidazione della quota,
che deve avvenire sulla base del bilancio dell'esercizio in cui si è verificata la causa di scioglimento del
singolo rapporto sociale. Lo scopo mutualistico incide anche sulle modalità di liquidazione della quota,
rendendole piuttosto disincentivanti per il socio: infatti, il principale indice di valutazione resta il bilancio e
si ammette esplicitamente l'introduzione statutaria di criteri diversi.
La liquidazione della quota comprende anche il rimborso del sovrapprezzo, ove versato, sussistente nel
patrimonio della società e non destinato ad un aumento gratuito del capitale ( art 2535).
È prevista una responsabilità del socio uscente, o degli eredi del socio defunto, nei confronti della società
per il pagamento dei conferimenti non versati per un anno dal giorno in cui si è verificato il recesso,
l'esclusione o la morte del socio dante causa o dal giorno in cui si è perfezionato il trasferimento della
partecipazione sociale. Se nel corso di quest'anno si manifesta l'insolvenza della società, il socio uscente e

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gli eredi del socio defunto restano obbligati nei confronti della società nei limiti di quanto ricevuto per la
liquidazione della quota o il rimborso delle azioni (art 2536).

IV.L’organizzazione della società cooperativa.

L'organizzazione della società cooperativa ricalca quella delle spa o delle srl a seconda del modello
normativo adottato nello statuto o imposto dalla legge. Presenta però importanti novità nella disciplina dei
singoli organi.

1.L’assemblea

La disciplina dell'assemblea è permeata dal carattere democratico della cooperativa che si manifesta
soprattutto nella regola del voto per teste: ciascun socio cooperatore dispone cioè di un solo voto
qualunque sia il valore della quota o il numero di azioni possedute ( art 2538,co2). Il voto capitario incide
anche sulle modalità del computo delle maggioranze per la costituzione o per la validità delle deliberazioni,
che sono calcolate secondo il numero dei voti spettanti ai soci.
Eccezione:
- ai soci cooperatori persone giuridiche l'atto costitutivo può attribuire più voti fino ad un massimo di
cinque, in relazione all'ammontare della quota conferita oppure al numero dei loro membri.
- Nel caso dei soci sovventori, a cui l'atto costitutivo può attribuire un diritto di voto proporzionale ai
conferimenti effettuati: i voti globalmente attribuiti ai sovventori, però, non devono superare il
limite di un terzo di quelli spettanti ai soci cooperatorideroga che è stata successivamente estesa
ai titolari di strumenti finanziari con la puntualizzazione che limite del terzo deve essere riferito
all'insieme dei soci presenti o rappresentati in ciascuna assemblea generale.
- Le cooperative consortili (realizzano lo scopo mutualistico attraverso l'integrazione delle rispettive
imprese o di talune fasi di esse – art 2538,co4 - ; si pensi alla cooperativa agricola che acquista, si
trasforma e rivende le derrate prodotte dei propri soci imprenditori), in cui l'atto costitutivo può
prevedere che il diritto di voto sia attribuito in ragione della partecipazione allo scambio
mutualistico (e dunque in ragione dell'interesse economico, sia pure di tipo mutualistico, che
ciascun socio manifesta nella cooperativa).

La legittimazione al voto spetta esclusivamente ai soci iscritti da almeno 90 giorni nel libro dei soci: questo
al fine di impedire che gli amministratori decidano l'ammissione di un consistente numero di soci in
prossimità di una certa assemblea per influenzarne gli esiti.
Allo scopo di agevolare l'attiva partecipazione dei soci alla decisione della società, l'atto costitutivo può
prevedere il voto per corrispondenza o espressa mediante altri mezzi di telecomunicazione, c.d. voto
elettronico. In tal caso è necessario che l'avviso di convocazione contenga per esteso la deliberazione
proposta; ove si pongano in votazione proposte diverse da quelle indicate nell'avviso, i voti per
corrispondenza non possono accontentarsi nel quorum costitutivo dell'assemblea.
Nelle cooperative disciplinate secondo le norme della spa ciascun socio può rappresentare in assemblea
fino ad un massimo di 10 soci.

Espressione del carattere democratico della sodalizio è l'istituto, tipico delle cooperative, delle assemblee
separate, preordinato ad agevolare l'attiva partecipazione dei soci alla vita sociale specialmente nelle
cooperative di grandi dimensioni ( art 2540). Per effetto di questo sistema applicabile alle sole cooperative
con azioni non quotate nei mercati regolamentati, la formazione della volontà sociale avviene per gradi: le
assemblee separate vengono convocate nei luoghi, indicati dallo statuto, in cui risiede un certo numero di
soci per deliberare su tutte le materie che formano oggetto dell'ordine del giorno dell'assemblea generale e

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per eleggere i soci delegati. L'assemblea generale è costituita dai soci delegati designati nelle assemblee
separate e delibera definitivamente sugli argomenti indicati all'ordine del giorno.
La disciplina prevede l'obbligo statutario di svolgere assemblee separate se la compagine sociale supera
determinati limiti dimensionali, che variano a seconda che la società svolge la propria attività in più
province ( 3000 soci) o realizzi più gestioni mutualistiche (500 soci).
Le delibere delle assemblee separate non possono essere autonomamente impugnate. Concorrono però
alla formazione della volontà sociale e ciò giustifica il riconoscimento della legittimazione all’ impugnativa
delle deliberazioni dell'assemblea generale anche i soci assenti e dissenzienti nelle assemblee separate,
allorché il voto espresso dai delegati delle assemblee separate irregolarmente tenute sia stato
determinante per l'approvazione della delibera dell'assemblea generale ( art 2540,co 4e5).

Da non confondere con le assemblee separate sono le assemblee speciali, la cui previsione è necessaria per
salvaguardare le prerogative riconosciute a ciascuna categoria di soci o di possessori di strumenti finanziari
emessi dalla cooperativa. L'assemblea speciale di ciascuna categoria è infatti chiamata deliberare, tra
l'altro, sul approvazione delle deliberazioni dell'assemblea generale della società cooperativa che
pregiudicano i diritti della categoria ( art 2541,co1,n°1)

2.L’organo amministrativo e l’organo di controllo.

La maggioranza degli amministratori deve essere scelta tra i soci cooperatori ovvero tra le persone indicate
dai soci cooperatori persone giuridiche. L'atto costitutivo può inoltre prevedere che uno o più
amministratori siano scelti tra gli appartenenti alle diverse categorie di soci in proporzione all'interesse di
ciascuna categoria nutre nell'attività sociale. Ai possessori di strumenti finanziari può essere riconosciuto
dallo statuto il diritto alla nomina degli amministratori, entro il limite delle terzo del totale dei componenti
del consiglio. È altresì possibile che la designazione di taluni amministratori sia riservata allo stato o ad enti
pubblici, fermo restando che la maggioranza degli amministratori resti di nomina assembleare ( art 2542).
Sul piano delle competenze, è inoltre stabilito che gli amministratori non possono delegare i poteri in
materia di ammissione, di recesso ed esclusione dei soci, nonché le altre decisioni che incidono sui rapporti
mutualistici con i soci ( art 2544,co1).

Il collegio sindacale è necessario nelle società cooperative nei casi in cui è obbligatoria la nomina del
sindaco nella srl, nonché quando la società ha emesso strumenti finanziari non partecipativi ( titoli di
debito, obbligazioni).

Spesso gli statuti delle società cooperative prevedono un ulteriore organo sociale atipico: il collegio dei
probiviri, con la funzione di prevenire le controversie tra soci e tra soci e società e di sanzionare
comportamenti non corretti sul piano deontologico. Il loro compito si arresterebbe ad una sorta di riesame
delle decisioni degli altri organi sociali ( assemblea e amministratori), che assumerebbero quindi carattere si
definitività soltanto in seguito alla conferma del collegio dei probiviri.
Nella prassi statutaria sono però molto diffuse clausole che affidano ai probiviri una vera e propria funzione
arbitrale nella decisione delle controversie insorte con specifico riguardo a quelle di esclusione dei soci; con
la conseguenza che la decisione dei probiviri avrebbe valore di lodo arbitrale e resterebbe precluso il
successivo ricorso all'autorità giudiziaria. Ciò è possibile, solo se la rimessione della controversia ai probiviri
sia fondata su di una espressa clausola compromissoria contenuta nello statuto di conferisca, a pena di
nullità, ad un soggetto estraneo alla società, il potere di nomina di tutto il collegio arbitrale, al fine di
assicurarne nell'imparzialità.

3.La vigilanza amministrativa e il controllo giudiziario.

La vigilanza amministrativa sulle cooperative è finalizzata a verificare l'effettivo e corretto perseguimento


dello scopo mutualistico e la tutela della funzione sociale della cooperativa.

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Gli strumenti di attuazione della vigilanza previsti dalla L. 220/2002 ( e già dalla legge Basevi) sono la
revisione ordinaria e le ispezioni straordinarie.
1. Le revisioni ordinarie sono eseguite, almeno con cadenza biennale e con oneri a carico delle
cooperative, dalle associazioni nazionali di rappresentanza e tutela del movimento cooperativo
tramite propri revisori. Il revisore è chiamato a verificare la natura mutualistica dell'ente, l'assenza
di finalità lucrative ed il rispetto dei limiti di legge al riguardo, l'effettività della base sociale e la
partecipazione dei soci alla vita sociale ed allo scambio mutualistico, nonché la legittimazione
dell'ente a beneficiare delle agevolazioni fiscali. In caso di accertamento di irregolarità, il revisore
può diffidare la cooperativa a provvedere alla regolarizzazione entro un certo termine, decorso il
quale in assenza di ottemperanza, il verbale di revisione può essere trasmesso al ministero per gli
opportuni provvedimenti sanzionatori.
2. Le ispezioni straordinarie, al pari della vigilanza sui principi mutualistici, sono invece di competenza
del ministero delle attività produttive per accertare il rispetto delle norme di legge, regolamentari e
statutarie, la sussistenza dei requisiti per il godimento di agevolazioni tributarie e di altra natura, il
regolare funzionamento amministrativo-contabile dell'ente.

I provvedimenti sanzionatori che possono essere adottati dall'autorità di vigilanza in caso di irregolare
funzionamento delle società operative sono:
- la gestione commissariale, che consiste nella revoca di amministratori e sindaci e
nell'assegnazione della gestione della società ad un commissario, determinandone poteri e durata;
- lo scioglimento autoritativo, nei casi più gravi, accertato che la cooperativa non persegue lo scopo
mutualistico e non è in grado di raggiungere i fini per cui è stata costituita.
- La liquidazione coatta amministrativa, se si accerta l'insolvenza della società.

E poi oggi esteso a tutte le società cooperativa il controllo giudiziario sulla gestione. Esso assicura una
vigilanza più incisiva e meno discrezionale e, di riflesso, una tutela diretta dei soci di minoranza, così
maggiormente incentivati all'investimento in cooperativa.
In particolare, se vi è il fondato sospetto che gli amministratori, in violazione dei loro doveri, abbiano
compiuto gravi irregolarità nella gestione suscettibili di arrecare danno la società, i soci che siano titolari del
meno di un 10º del capitale possono fare denunzia al tribunale ( art 2545-quinquiesdecies).
Le particolarità della disciplina delle cooperative consistono nel necessario coordinamento tra controllo
giudiziario ed amministrativo, al fine di scongiurare indebite sovrapposizioni di funzioni.
Il ricorso deve essere notificato a cura dei correnti anche all'autorità di vigilanza e il tribunale, sentiti in
camera di consiglio amministratori, sindaci e le autorità di vigilanza, può dichiarare improcedibile il ricorso
se per i medesi fatti era già stato nominato un ispettore o un commissario dall'autorità di vigilanza.
Al contrario, quest'ultima dispone la sospensione del procedimento amministrativo iniziato dalla stessa se il
tribunale ha nominato un ispettore o un amministratore giudiziario per porre rimedio ai medesimi fatti.

V.Il bilancio. Utili e ristorni.

1.Il bilancio e le riserve

Il procedimento di formazione del bilancio delle società cooperative, ricalca quello delle società per azioni;
impone solo qualche informazione supplementare, da fornire soci, circa le modalità di gestione praticate
negli allegati al bilancio: gli amministratori e i sindaci elle rispettive relazioni, devono fornire una
indicazione specifica dei criteri seguiti nella gestione sociale per il conseguimento dello scopo mutualistico.
Importante nelle cooperative è il concetto di riserva indivisibile: con il quale si esprime l'esigenza di
escludere i fondi così qualificati dal calcolo del valore della quota di partecipazione del socio, sia in
occasione dello scioglimento del singolo rapporto sociale, che nel caso di dissoluzione della società. Proprio
quest'ultimo limite vale distinguere il connotato di indivisibilità dal carattere di indisponibilità, tipico altresì
di talune riserve delle società lucrative ed invece indicativo soltanto del vincolo di destinazione impressa
dalla legge o dallo statuto ai fondi accantonati: le riserve indisponibili, benché utilizzabili esclusivamente

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per determinati scopi, vanno infatti certamente incluse nel computo del valore delle quote di
partecipazione e non risultano, pertanto, permanentemente sottratte alla proprietà dei soci; al contrario, il
regime dell’ indivisibilità può ma non deve necessariamente accompagnarsi al vincolo di indisponibilità:
alcune riserve indivisibili sono invero disponibili ai fini della gestione sociale per scopi che non comportino
una loro distribuzione anche indiretta ai soci.
L'altra destinazione obbligatoria è data dal contributo annuale del 3% degli utili netti annuali ai fondi
mutualistici per la promozione e lo sviluppo della cooperazione, che costituiscono una forma di
autofinanziamento obbligatorio al movimento cooperativo nel suo complesso ( c.d. ‘’mutualità
solidaristica’’).
Possono essere disposte destinazioni facoltative degli utili e l'assemblea della Società cooperativa ha un
ruolo centrale al riguardo. In particolare, l'assemblea può determinarsi, per sopperire ad esigenze di
finanziamento della società, alla creazione di riserve facoltative con gli utili accantonati: fondi questi che
possono poi essere assegnati ai soci nel rispetto delle modalità e dei limiti previsti dall'articolo 2545-
quinquies; può altresì destinare utili a ben individuati e definiti i fini mutualistici in relazione al peculiare
tipo di scambio che connota la gestione di servizio nell'evoluzione dell'attività della singola cooperativa.

2.Gli utili e i ristorni.

Tratto caratteristico dello scopo mutualistico è la presenza di significativi limiti legali e statutari alla
distribuzione dei dividendi delle società cooperative. Va ricordato che tali società ben possono perseguire
un lucro oggettivo. Quanto al lucro soggettivo, ossia alla distribuzione del profitto conseguito in
proporzione alla quota posseduta da ciascun socio ( dividendi) e quindi la funzione di remunerazione
dell'investimento, esso non è escluso dall'ordinamento, il quale tuttavia introduce limiti significativi al suo
perseguimento, allo scopo di preservare la funzione tipica della cooperativa.
La variabilità del capitale comporta anzitutto, a tutela dei creditori sociali, che le cooperative non quotate
possono distribuire dividendi ai soci cooperatori soltanto a condizione che il rapporto tra patrimonio netto
e complessivo indebitamento della società sia superiore ad un quarto. Tale vincolo, che non si applica ai
soci finanziatori ed ai possessori di strumenti finanziari, impone dunque alle cooperative eccessivamente
indebitate la destinazione ad autofinanziamento degli utili generati.
Spetta poi all'atto costitutivo indicare le regole e le modalità e la percentuale massima di ripartizione dei
dividendi tra soci cooperatori.
Le cooperative a mutualità prevalente devono osservare il divieto di distribuire i dividendi in misura
superiore all'interesse massimo dei buoni fruttiferi postali, aumentato di due punti e mezzo rispetto al
capitale effettivamente versato ( art 2514,co1,lett a). Ciò significa che l'eventuale previsione statutaria di
una ripartizione degli utili in percentuale più elevata vale a rendere la cooperativa in fatto mutualità non
pravalente,con conseguente perdita delle agevolazioni tributarie.
L’art 2545-quinquies,co3, consente all'autonomia statutaria di autorizzare l'assemblea ordinaria ad
assegnare ai soci le riserve indivisibili sia attraverso l'emissione degli strumenti finanziari previsti
dall'articolo 2526, sia mediante aumento gratuito del capitale, da attuarsi con un incremento proporzionale
delle quote sottoscritte e versate ovvero con emissione di nuove azioni.
Nelle cooperative a mutualità prevalente, il divieto di distribuire riserve fra i cooperatori consente
l'aumento delle sue quote sottoscritte dai soci finanziatori.
Le limitazioni al lucro soggettivo coinvolgono altresì il profilo dei diritti patrimoniali del socio uscente e degli
eredi del socio defunto, ai quali restano interamente sottratte le riserve indivisibili. In ogni caso, le riserve
divisibili possono essere assegnate, se non disposto altrimenti in statuto, attraverso l'emissione di
strumenti finanziari liberamente trasferibili e devono esserlo laddove il patrimonio netto sia inferiore ad un
quarto del complessivo indebitamento della società.

La tecnica, risalente nota, con la quale i soci della cooperativa conseguono a determinate scadenze e non al
momento del perfezionarsi dello scambio con la società, il vantaggio mutualistico è il ristorno. Si tratta di
una tecnica composta, le cui modalità di attuazione sono diverse, ad esempio nelle cooperative di consumo

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ed in quelli di produzione e lavoro: nelle prime, il ristorno consiste infatti nel rimborso ai soci della quota di
prezzo eccedente il costo di produzione di beni e servizi e consente l'ottenimento del risparmio di spesa
nelle loro acquisto dalla società in correlazione ai bisogni del socio; le seconde, il vantaggio mutualistico è
invece perseguito dai soci in termini di integrazione della retribuzione per la prestazione di lavoro resa la
cooperativa è risulta pertanto proporzionato, di regola, all'impegno profuso ed ai meriti dal socio
cooperatore.
Il ristorni devono distinguersi dagli utili in senso proprio, benché condividano con essi il carattere di
aleatorietà: i ristorni sono infatti pur sempre una componente dell'avanzo di gestione, sicchè non possono
essere distribuiti ai soci se il bilancio si è chiuso in perdita. Ciò che allora distingue i ristorni dagli utili sono i
criteri di loro ripartizione: criteri ‘’ proporzionali alla quantità e qualità degli scambi mutualistici’’ e non già
al capitale conferito da ciascun socio ( art 2545-sexies,co1).
Per altro verso, non si applicano ai ristorni i limiti alla distribuzione degli utili sopra esaminati. Le ragioni
sono evidenti: qui non vi è l'esigenza di limitare un lucro soggettivo, che, se fosse perseguibile
illimitatamente, snaturerebbe la funzione stessa della cooperativa; si tratta, al contrario, di consentire ai
soci di trarre appieno i beneficio tipico inerente agli scambi mutualistici posti in essere.
L'articolo 2545-sexies non offre indicazioni decisive ad avvalorare una qualificazione dei ristorni in termini
di costi, da detrarre dunque dell'avanzo complessivo di gestione per ottenere l'esatto ammontare dell'utile
netto sul quale calcolare la percentuale da destinare a riserva legale.
VI.Lo scioglimento della società e la devoluzione patrimoniale obbligatoria.

La Società cooperativa si scioglie:


- per le cause tipiche delle società di capitali,
- per l’integrale perdita del capitale sociale, in considerazione della sua variabilità ( art 2545-
duodecies).
- Per la mancata reintegrazione del numero minimo dei soci ( nove o tre, a seconda del modello
normativo adottato) entro un anno da quando è sceso al di sotto del limite legale, in conseguenza
della quale la società è posta in liquidazione.
- Lo scioglimento della società cooperativa può inoltre conseguire ad un provvedimento
dell'autorità amministrativa nell'esercizio della sua attività di vigilanza. Ed al provvedimento
autoritativo può conseguire lo scioglimento della società anche senza passare per la fase di
liquidazione, invece necessaria per gli altri casi.

Nel caso di insolvenza della società, l’ autorità governativa cui compete il controllo sulla società dispone la
liquidazione coatta amministrativa.
Le società cooperative che svolgono attività commerciale possono essere tuttavia soggette anche al
fallimento; la dichiarazione di fallimento preclude la liquidazione coatta amministrativa e, per converso, il
provvedimento che dispone quest'ultima esclude la successiva dichiarazione di fallimento.
La più vistosa differenza delle cooperative rispetto alle società lucrative è la quota di liquidazione. Mentre
infatti nelle società lucrative l'esito finale della liquidazione è la ripartizione ai soci dell'eventuale residuo
attivo, le società cooperativa (a mutualità prevalente) sono invece obbligate per legge a destinare il residuo
attivo di liquidazione, detratto solo il capitale versato e rivalutato e i dividendi eventualmente maturati, ai
fondi mutualistici per la promozione e lo sviluppo della cooperazione ( c.d. devoluzione disinteressata): ciò
al fine di evitare che le risorse finanziarie accumulate dalla società grazie alle agevolazioni fiscali vengano
sottratte al movimento cooperativo ( c.d. proprietà cooperativa).

VII.Cooperazione e integrazione fra società cooperative: consorzi e gruppi cooperativi.

Forme di integrazione fra imprese cooperative sono:


- cooperative di secondo grado, la cui attività ausiliaria si esaurisce in una mera operazione di servizi
tesa a facilitare il perseguimento dello scopo mutualistico delle associate
- gruppo cooperativo gerarchico eterogeneo, nel quale le società cooperative o i loro consorzi,
controllano società lucrative.

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- Gruppo cooperativo paritetico ( art 21545-septies) che trova la fonte in un contratto che vincola le
imprese ad un'attività di direzione e coordinamento, equiordinato, consistente nell'elaborazione
concertata delle decisioni strategiche e non in una semplice gestione accentrata di servizi, risorse
finanziarie e di informazioni. Nel modello organizzativo più semplice, sia ha alla presenza di un
comitato direttivo di gruppo, composto da un numero tendenzialmente paritario di rappresentanti
delle società associate. L'articolo 2545-septies sembra prediligere una tipologia di gruppo paritetico
nella quale le funzioni di direzione e di controllo del sodalizio siano esercitate da una società
cooperativa centrale che funga da ‘’ veicolo ‘’ per la formazione della volontà comune e da ufficio
esecutivo del gruppo, al cui capitale partecipano esclusivamente imprese al contempo aderenti al
contratto di gruppo paritetico. Parti del gruppo cooperativo paritetico possono essere, oltre che le
società cooperative, gli enti mutualistici, pubblici o privati, cui fa riferimento l'articolo 2517, purché
risulti espressamente dal contratto.
Fra i requisiti naturali del contratto di gruppo, vi sono le condizioni di adesione al sodalizio: spetta
all'autonomia privata l’individuazione dell'organo della singola cooperativa competente a decidere
l'annessione al gruppo.
Trova applicazione al gruppo cooperativo paritetico la disciplina generale dell'attività di direzione e
coordinamento, con l’ulteriore correttivo che i criteri di compensazione e l'equilibrio nella
distribuzione dei vantaggi derivanti dall'attività comune devono essere qui esplicitati nel contratto
di gruppo ( art 2545-septies,co1,n°5).
La tutela delle imprese cooperative in seno al gruppo paritetico è affidata al diritto di recesso dal
contratto e specificamente previsto che l'accordo indichi i casi di recesso.

VIII.Le società cooperative quotate

Il testo unico della finanza prevede una serie di disposizioni riservate alle società cooperative con azioni
quotate in borsa.
Le maggioranze vanno calcolate con riferimento non al capitale, ma al numero complessivo delle persone
dei soci.
Le cooperative sono inoltre esonerate dalla disciplina speciale dell'assemblea e degli amministratori di
società quotate, sostituita da una regola che consente la convocazione dell'assemblea straordinaria in terza
convocazione, se i soci intervenuti in seconda convocazione non rappresentino il numero dei voti richiesto
per la costituzione, e dalla facoltà dei soci che rappresentano almeno un 40º del numero complessivo di
soci di chiedere l'integrazione dell'ordine del giorno. Alle società cooperative non si applica poi la specifica
disciplina delle deleghe di voto nelle società quotate.
Uniche società cooperative quotate risultano le banche popolari la cui struttura interna non prospetta
incompatibilità sostanziali con la quotazione dei relativi titoli di partecipazione nei mercati regolamentati.

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Capitolo 69: Le mutue assicuratrici

Le mutue assicuratrici o società di mutua assicurazione, costituiscono un peculiare tipo di società


cooperativa nel quale l'acquisto e permanenza della qualità di socio è subordinato alla stipulazione di un
contratto di assicurazione con la società, con la conseguenza che il singolo rapporto sociale si scioglie come
l'estinguersi dell’assicurazione ( art 2546,co3).
Proprio l'interdipendenza tra rapporto sociale e rapporto assicurativo vale a distinguere nettamente le
mutue assicuratrici delle più diffuse cooperative di assicurazione. In queste ultime i soci cooperatori non
hanno alcun diritto di ottenere le prestazioni assicurative, a meno che non stipulino con la società un
eventuale contratto di assicurazione, che qui resta in ogni caso autonomo e distinto dal rapporto sociale. Al
contrario, i soci delle mutue assicuratrici devono necessariamente essere al contempo assicurati e
l'opinione prevalente tende ad escludere, di riflesso, l’ammissibilità di clausole dello statuto della società
che consentono agli assicurati di non acquisire la qualifica di soci della mutua di assicurazione.
Tali Società sono da una parte regolate secondo la disciplina generale delle cooperative, applicabile nei
limiti di compatibilità con la loro struttura, dall'altra restano soggette alla vigilanza dell’IVASS ed ai controlli
stabiliti dalle leggi speciali sull'esercizio dell'assicurazione. ( art 2547).
Ne consegue che l'atto costitutivo delle mutue assicuratrici di essere redatto per atto pubblico e la sua
iscrizione nel registro delle imprese è subordinata all’avvenuta autorizzazione all'esercizio dell'attività
assicurativa da parte dell’IVASS.
Al pari delle altre società cooperative, le mutue assicuratrici sono società dotate di personalità giuridica, in
cui le obbligazioni sociali sono garantite esclusivamente dal patrimonio sociale ( art 2546,co1).
La necessaria coesistenza della qualità di socio e di assicurato comporta che i contributi dei soci abbiano al
contempo la funzione di apporto al patrimonio sociale ed il pagamento della rata del premio assicurativo. Il
che li rende affatto peculiari e non del tutto assimilabili conferimenti: ciò in quanto, benché destinati alla
formazione del patrimonio sociale, non possono fungere da parametro per la misurazione della
partecipazione sociale; né d'altro canto, i contributi dei soci costituiscono premi assicurativi in senso
tecnico, poiché non rappresentano il mero prezzo di una copertura assicurativa. Infatti i premi sono fissi e
predeterminati, i contributi dei soci alla mutua assicuratrice possono invece variare sia in aumento che in
diminuzione entro il limite massimo previsto dall'atto costitutivo.

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L'atto costitutivo può prevedere la costituzione di fondi di garanzia per il pagamento delle indennità,
mediante speciali conferimenti di assicurati o di terzi, attribuendo a questi ultimi la qualità di socio ( soci
sovventori).
Ed allo scopo di evitare che questi soci non assicurati possano acquisire un'influenza dominante nella
gestione della società, è previsto che l'atto costitutivo, pur non potendo attribuire soci sovventori, più voti,
non deve comunque valicare il limite di 5, in relazione all'ammontare del conferimento, comunque non
soggetto ai limiti, ai conferimenti ed alla distribuzione agli utili previsti dalla disciplina delle società
cooperative. Inoltre e soprattutto, i voti attribuiti ai soci sovventori, devono risultare in ogni caso inferiori al
numero dei voti spettanti ai soci assicurati, ai quali va dunque garantita in ogni caso la maggioranza.

La maggioranza degli amministratori deve essere costituita da soci assicurati ( art 2548,co3).

Sezione ottava: Le operazioni straordinarie

Capitolo 71:Le Fusioni.

La Fusione è uno strumento di concentrazione fra imprese societarie.


Trattasi in particolare di concentrazione giuridica, in quanto consente l’unificazione in una sola società di
due o più società preesistenti.
La fusione è sottoposta al controllo sulle concentrazioni previsto dalla disciplina antimonopolistica.
La disciplina civilistica della fusione è stata modificata in sede di attuazione della terza direttiva
comunitaria 2001/35/CE dal d.lgs. 22/1991.
L’ultima riforma è contenuta nei DD.lgs 147/2009 e 123/2012.

I.Forme, fondamento ed effetti della fusione tra società.

La fusione è l'unificazione di due o più società in una sola.L’art 2501 prevede due forme di fusione:
a) con la costituzione di una nuova società, che prende il posto di tutte le società che si fondano.
( fusione in senso stretto);
b) mediante assorbimento in una società preesistente di una o più altre società (fusione per
incorporazione).

La fusione è uno strumento di concentrazione delle imprese societarie che consente di ampliarne la
dimensione e la competitività sul mercato in questa prospettiva è agevolata sotto diversi profili dalla
legislazione tributaria. La fusione inoltre è un istituto che dà luogo ad una concentrazione giuridica e non
solo economica. La fusione determina perciò la riduzione ad unità dei patrimoni delle singole società e la
confluenza dei rispettivi soci in unica struttura organizzativa che continua l’attività di tutte le società
preesistenti.
La società incorporante o che risulta dalla fusione " assumono diritti e gli obblighi delle società partecipanti
alla fusione, proseguendo in tutti i loro rapporti, anche processuali, anteriori alla fusione".

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rapporto sociale si scioglie con l’estinguersi dell’assicurazione (art. 2546).


Queste vanno distinte dalle cooperative di assicurazione (più diffuse): in queste i soci
cooperatori non hanno alcun diritto di ottenere prestazioni assicurative, a meno che
non stipulino un contratto di assicurazione; i soci delle mutue assicuratrici devono
necessariamente essere assicurati ed essere soci della mutua assicurazione. Tali
società seguono la disciplina delle cooperative, ma sono soggette alla vigilanza
dell’Ivass.
L’atto costitutivo delle mutue assicuratrici deve essere redatto per atto pubblico e la
sua iscrizione nel registro delle imprese è subordinata alla avvenuta autorizzazione
all’esercizio dell’attività assicurativa da parte dell’Ivass. Le mutue assicuratrici sono
società dotate di personalità giuridica, in cui le obbligazioni sociali sono garantite
esclusivamente dal patrimonio sociale. La necessaria coesistenza della qualità di socio
e di assicurato comporta che in questo tipo di società sono previsti contributi periodici
dei soci: il che li rende peculiari e non assimilabili ai conferimenti. I contributi non sono
parametro della misurazione della partecipazione sociale né sono premi assicurativi
(perché non è solo il prezzo della copertura assicurativa; i premi sono fissi, i contributi
possono variare).
L’atto costitutivo può anche prevedereSEZIONE OTTAVA
la creazione di fondi di garanzia per il
pagamento delle indennità, LEmediante
OPERAZIONI STRAORDINARIE
speciali conferimenti di assicurati o
terzi,
36. LE attribuendo anche a questi la qualità di socio (soci sovventori). I voti dei
TRASFORMAZIONI
soci sovventori (max 5) devono
I. Nozione. La disciplina comuneessere comunque
alle inferiori ai voti spettanti ai
singole fattispecie
soci assicurati.
Nel codice civile del 1942 la trasformazione veniva definita come modifica dell’atto
costitutivo avente ad oggetto il cambiamento del tipo di società. Caratteristica
peculiare era il suo realizzarsi prescindendo dall’estinzione della società e della
successiva costituzione del nuovo tipo; è dunque la stessa società che assume nuova
veste giuridica, con li stessi diritti ed obblighi che aveva in precedenza. Tale continuità
comporta vantaggi economici e finanziari, scongiurando la dispersione di risorse
economiche.
Con la riforma del 2003, alle tradizionali operazioni vengono affiancate nuove
fattispecie di trasformazione (eterogenee) più radicale, ovvero che consiste nel
mutamento della forma giuridica dell’impresa. Non è stata prevista una nozione di
trasformazione; si è ritenuto qualificare giuridicamente la trasformazione in virtù
dell’effetto di continuità dei rapporti giuridici: con la trasformazione l’ente trasformato
conserva i diritti e gli obblighi e prosegue in tutti i rapporti anche processuali dell’ente
che ha effettuato la trasformazione (art 2498).
Proprio per i suoi vantaggi economici e fiscali, vi è sostanziale assenza di limiti espliciti
all’operazione. Ex art 2499 la trasformazione è possibile anche in pendenza di
procedura concorsuale, purché non vi siano incompatibilità con le finalità
(incompatibilità difficili da individuare, soprattutto a seguito della l. fallimentare 2006).
Secondo le regole generali una società di capitali deve rispettare alcune regole
formali: è necessario che la trasformazione risulti da atto pubblico (contenente le
indicazioni richieste dalla legge) e segua le regole di pubblicità relative e quelle per la
cancellazione dell’ente che effettua la trasformazione. L’efficacia della trasformazione
decorre dall’ultimo degli adempimenti pubblicitari (art. 2500).
Norma comune a tutte le fattispecie di trasformazione è l’art 2500bis che riguarda
l’invalidità della trasformazione: l’invalidità della trasformazione non può essere
pronunciata una volta eseguita la sua iscrizione nel registro delle imprese
(salvaguardia della stabilità ed irretrattabilità). La portata sanante della disposizione
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non si estende però alle eventuali deliberazioni invalide. Resta salvo il diritto al
risarcimento del danno.

II. Le trasformazioni omogenee


L’attuale disciplina utilizza la formula convenzionale “trasformazioni omogenee” per
definire sia il passaggio da società di capitali ad altri enti, sia il passaggio da consorzi,
società consortili, comunioni d’azienda, associazioni riconosciute e fondazioni a
società di capitali.
A questa disciplina si applica anche una regolamentazione specifica a protezione dei
creditori (art 2500novies). La “trasformazione omogenea” è invece il cambiamento di
tipo di società non implicante anche la modifica del cd. scopo-fine.
Unica eccezione riguarda le società cooperative a mutualità non prevalente in società
di capitali, non qualificata come eterogenea, pur implicando un mutamento dello
scopo-fine.
Le trasformazioni omogenee possono avvenire fra tipi appartenenti alla stessa
famiglia:
- trasformazione di società di persone in altra società personale : unanimità.
- trasformazione di s.p.a. in altra s. di capitali: deliberata dall’assemblea
straordinaria con verbalizzazione e deposito per l’iscrizione.
- trasformazione di s.r.l. in altra s. di capitali : decisa dall’assemblea dei soci e
verbale redatto da notaio. L’atto costitutivo deve contenere gli elementi essenziali
del tipo di destinazione
A parte si trovano le trasformazioni implicanti il passaggio da società di persone a
società di capitali (cd. trasformazione progressiva) e l’operazione inversa (cd.
trasformazione regressiva).

1. La trasformazione cd. Progressiva


La trasformazione di società di persone in società di capitali consiste in :
a) Decisione di trasformazione: favorire l’adozione di modelli societari capitalistici in
deroga al consenso unanime dei soci. La trasformazione è decisa con il consenso della
maggioranza dei soci determinata secondo la parte attribuita a ciascuno negli utili ed
è temperata dal diritto di recesso per chi non ha concorso alla decisione;
b) Formazione del capitale della società risultante dalla trasformazione: il capitale va
determinato sulla base dei valori attuali degli elementi dell’attivo e passivo, fissato in
una cifra non eccedente il patrimonio netto risultante da una relazione giurata di stima
(= redazione di un vero e proprio bilancio straordinario) di trasformazione di un
esperto (terzo ed imparziale); ciò a tutela dei terzi e dei creditori sociali. Se il
patrimonio netto è inferiore al minimo legale stabilito per la costituzione della società,
i soci devono effettuare nuovi conferimenti. La trasformazione deve risultare da atto
pubblico ed essere iscritta nel registro delle imprese;
c) Tutela dei soci: è sancito il diritto di ciascun socio all’assegnazione di un numero di
azioni/quota proporzionale alla partecipazione sociale detenuta nella società personale
(art. 2500quater). Il socio d’opera ha diritto all’assegnazione di un numero di
azioni/quota corrispondente alla partecipazione agli utili che l’atto costitutivo gli
riconosceva; questo comporta che le azioni/quote assegnate ad altri soci debbano
ridursi proporzionalmente a quelle attribuite al prestatore d’opera ;
d) Responsabilità dei soci per le obbligazioni sociali sorte anteriormente all’iscrizione:
l’esigenza di tutela dei creditori sociali impone che la trasformazione in società di
capitali non liberi i soci a responsabilità illimitata dalla responsabilità per le

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obbligazioni sociali sorte prima dell’iscrizione dell’atto di trasformazione nel registro


delle imprese, se non risulta che gli stessi creditori sociali abbiano dato il loro
consenso alla trasformazione. Vi è però un procedimento volto ad agevolare la
liberazione dei soci dalla responsabilità illimitata: il consenso dei creditori sociali si
presume se i creditori ai quali la deliberazione di trasformazione sia stata comunicata
non lo abbiano esplicitamente negato entro 60 giorni dalla ricezione della
comunicazione (silenzio-assenso). In caso di fallimento della società la sentenza che
dichiara il fallimento produce anche il fallimento dei soci illimitatamente responsabili,
solo se è pronunciata entro l’anno dall’iscrizione dell’atto di trasformazione nel
registro delle imprese e se l’insolvenza attenga a debiti esistenti alla data della
trasformazione.

2. La trasformazione cd. Regressiva


La trasformazione di società di capitali in società di persone (cd. trasformazione
regressiva) è sottoposta a gravose regole procedurali. La deliberazione di
trasformazione deve essere adottata con le maggioranza previste per le modifiche
statutarie, ma è richiesto il consenso dei soci che con la trasformazione assumono
responsabilità illimitata (art. 2500sexies).
Tale consenso è elemento negoziale ed individuale esterno alla deliberazione e
autonomo. Questo può essere validamente prestato anche non contestualmente
all’assemblea, quindi sono legittimati anche i soci astenuti, contrari o assenti.
I soci che con la trasformazione assumono responsabilità illimitata necessitano di una
tutela più incisiva del mero diritto di recesso (art. 2437 e 2473), in quanto rispondono
personalmente anche per le obbligazioni sorte anteriormente all’iscrizione
(responsabilità dei nuovi soci nelle società personali art 2269). Gli amministratori
inoltre, a tutela dei soci, devono predisporre una relazione che illustri motivazioni ed
effetti della trasformazione.
Ciascun socio ha diritto all’assegnazione, nella società di persone risultante dalla
trasformazione, di una partecipazione proporzionale al valore della sua quota o azioni
(art 2500 sexies).

3. La trasformazione nelle società cooperative


È vietata solo la trasformazione di società cooperative a mutualità prevalente in
società lucrative. Divieto mitigato con la possibilità di un passaggio dal regime di
prevalenza a quello diverso operato contestualmente, ossia nella medesima
assemblea. È sancita, comunque, la liceità sia della trasformazione delle altre società
cooperative in società lucrative o in consorzi (con regole speciali), sia della
trasformazione eterogenea di società di capitali in cooperative.
Le società cooperative (NON a mutualità prevalente) possono deliberare la
trasformazione in qualsiasi società lucrativa con il voto favorevole di una maggioranza,
che rappresenti almeno la metà dei soci (che diventa di due terzi se i soci sono meno
di 50 o se sono più di 10000).
La trasformazione è però onerosa in quanto la società cooperativa che intende
trasformarsi deve devolvere il valore effettivo del suo patrimonio ai fondi mutualistici
per la promozione e lo sviluppo della cooperazione: i soci cooperatori possono
determinarsi a perseguire lo scopo lucrativo, ma non gli è consentito sottrarre le
risorse accumulate dalla società al movimento cooperativo nel suo complesso.
Gli amministratori devono allegare alla deliberazione di trasformazione una relazione
giurata di un esperto designato dal tribunale e la cooperativa deve essere soggetta a

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revisione da parte dell’autorità di vigilanza.

III. Le trasformazioni eterogenee


La disciplina attuale consente di realizzare la continuità dell’attività d’impresa, anche
nel passaggio da società di capitali a società con diverso scopo-fine, ad enti collettivi
non societari o a comunioni d’azienda, da enti collettivi non societari, da comunione
d’azienda o da società consortili a società di capitali. Questa trasformazione è detta
“eterogenea”: implica modifiche ben più radicali del mero cambiamento del tipo
societario, incidente sullo scopo-fine dell’ente e/o sulla forma giuridica, mutandone
profondamente il suo assetto organizzativo.

Il procedimento nella trasformazione di società di capitali in altri enti a tutela dei soci
si sostanzia nella previsione di un quorum rafforzato dei due terzi degli aventi diritto al
voto. Gli amministratori devono predisporre una relazione che illustri le motivazioni e
gli effetti della trasformazione, che va depositata entro 30 giorni nella sede della
società.
Nella trasformazione eterogenea in società di capitali, la deliberazione di
trasformazione può essere assunta a maggioranza, in deroga all’unanimità. Il
patrimonio dell’ente è sottoposto alla relazione di stima e l’atto di trasformazione
risulta da atto pubblico.
La tutela dei creditori è affidata al diritto di opposizione: la trasformazione eterogenea
non ha effetto con l’iscrizione dell’atto nel registro delle imprese, ma dopo 60 giorni,
salvo che consti il consenso dei creditori. Entro il termine, i creditori possono fare
opposizione al tribunale.
La trasformazione di associazioni in società di capitali può essere esclusa dall’atto
costitutivo o dalla legge; non possono invece trasformarsi associazioni che abbiano
ricevuto contributi pubblici. Il capitale della società risultante è diviso in parti uguali.
La trasformazione delle fondazioni in società di capitali è disposta dall’autorità
governativa.

IV. Le trasformazioni atipiche


La disciplina si fonda su un principio generale: le parti possono utilizzare l’istituto per sostituire
liberamente il modello organizzativo dell’attività d’impresa inizialmente prescelto con modalità
tali da preservarne produttività, efficienza e continuità di rapporti giuridici.
Si ritengono ammissibili fattispecie di trasformazione atipiche, a condizione che non contrastino
con norme inderogabili e non ledano gli interessi di soci e terzi.
Il principio di economia degli atti negoziali induce a considerare lecite:
- la trasformazione eterogenea di consorzi;
- la trasformazione eterogenea di società di persone;
- la trasformazione eterogenea di società di persone in impresa individuale.
Non si configurano come “trasformazione” innominata né il passaggio da impresa individuale a
società di capitali unipersonale, né l’operazione inversa.

37. LE FUSIONI
La fusione è uno strumento di concentrazione tra imprese societarie: è un tipo di
concentrazione giuridica, in quanto consente l’unificazione in una sola società di due o
più società preesistenti. È sottoposta al controllo previsto dalla disciplina
antimonopolistica.
Per effetto delle direttive comunitarie, le fusioni che coinvolgono società azionarie

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L'atto costitutivo può prevedere la costituzione di fondi di garanzia per il pagamento delle indennità,
mediante speciali conferimenti di assicurati o di terzi, attribuendo a questi ultimi la qualità di socio ( soci
sovventori).
Ed allo scopo di evitare che questi soci non assicurati possano acquisire un'influenza dominante nella
gestione della società, è previsto che l'atto costitutivo, pur non potendo attribuire soci sovventori, più voti,
non deve comunque valicare il limite di 5, in relazione all'ammontare del conferimento, comunque non
soggetto ai limiti, ai conferimenti ed alla distribuzione agli utili previsti dalla disciplina delle società
cooperative. Inoltre e soprattutto, i voti attribuiti ai soci sovventori, devono risultare in ogni caso inferiori al
numero dei voti spettanti ai soci assicurati, ai quali va dunque garantita in ogni caso la maggioranza.

La maggioranza degli amministratori deve essere costituita da soci assicurati ( art 2548,co3).

Sezione ottava: Le operazioni straordinarie

Capitolo 71:Le Fusioni.

La Fusione è uno strumento di concentrazione fra imprese societarie.


Trattasi in particolare di concentrazione giuridica, in quanto consente l’unificazione in una sola società di
due o più società preesistenti.
La fusione è sottoposta al controllo sulle concentrazioni previsto dalla disciplina antimonopolistica.
La disciplina civilistica della fusione è stata modificata in sede di attuazione della terza direttiva
comunitaria 2001/35/CE dal d.lgs. 22/1991.
L’ultima riforma è contenuta nei DD.lgs 147/2009 e 123/2012.

I.Forme, fondamento ed effetti della fusione tra società.

La fusione è l'unificazione di due o più società in una sola.L’art 2501 prevede due forme di fusione:
a) con la costituzione di una nuova società, che prende il posto di tutte le società che si fondano.
( fusione in senso stretto);
b) mediante assorbimento in una società preesistente di una o più altre società (fusione per
incorporazione).

La fusione è uno strumento di concentrazione delle imprese societarie che consente di ampliarne la
dimensione e la competitività sul mercato in questa prospettiva è agevolata sotto diversi profili dalla
legislazione tributaria. La fusione inoltre è un istituto che dà luogo ad una concentrazione giuridica e non
solo economica. La fusione determina perciò la riduzione ad unità dei patrimoni delle singole società e la
confluenza dei rispettivi soci in unica struttura organizzativa che continua l’attività di tutte le società
preesistenti.
La società incorporante o che risulta dalla fusione " assumono diritti e gli obblighi delle società partecipanti
alla fusione, proseguendo in tutti i loro rapporti, anche processuali, anteriori alla fusione".

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Le società incorporate,o fuse, si estinguono per effetto della fusione.


Questa previsione attesta che la fusione costituisce una peculiare vicenda modificativa degli atti costitutivi
delle società coinvolte in cui complessi imprenditoriali, risultano preservati, integrati e potenziati
nell’incorporante o nella società risultante dalla fusione. Questa continuazione di rapporti investe anche i
soci, ai quali vengono attribuite, in cambio delle partecipazioni sociali originariamente detenuta ( quindi
annullate), azioni o quote dell’ incorporante o della società risultante dalla fusione.

La fusione può aver luogo sia fra società dello stesso tipo ( fusione omogenea), sia fra società di tipo
diverso ( fusione eterogenea). La fusione fra società eterogenee comporta anche la trasformazione di una o
più delle società che si fondono. Per le fusioni eterogenee valgono perciò gli stessi limiti esposti per la
trasformazione.

Con particolare riferimento alle fusioni infragruppo, si distingue poi:


- Fusione diretta, allorché la società controllante incorpora uno o più controllate
- fusione inversa, della quale è invece la società controllata ad assumere la veste di incorporante, al
fine di limitare le formalità necessarie per l'esecuzione dell'operazione concentrazione.

II.Le fusioni di società in liquidazione o soggette a procedure concorsuali

La partecipazione alla fusione non è consentita alle società per azioni in liquidazione che abbiano iniziato la
distribuzione dell'attivo ( art 2501,co2). Letta dunque in positivo la norma rende possibile la fusione anche
tra società in liquidazione. Il limite in essa contemplato, non sussiste invece per le fusioni cui non
partecipano società con capitale rappresentato da azioni, ossia fusioni tra srl o tra cooperative modellate
sulla srl.
Quindi la fusione non può essere attuata tra Spa in stato di liquidazione, mentre la fusione tra srl o società
di persone può essere attuata a prescindere dallo stato di avanzamento della liquidazione.
Nb= La preclusione alla fusione tra spa in liquidazione che abbiano già iniziato la distribuzione dell’attivo
non è, però, assoluta: la sua esecuzione implica soltanto una preventiva deliberazione di revoca della
liquidazione, con l'osservanza di tutte le cautele previste in favore dei soci ( recesso) o dei creditori
(opposizione).

L'attuale disciplina, frutto della riforma del 2003, non prevede alcun divieto di partecipazione alla fusione
per le società sottoposte a procedure concorsuali. In quest'ottica la fusione è uno strumento per il
superamento della crisi d'impresa.

III.Il procedimento di fusione.

Si articola in tre fasi consecutive:


- il progetto di fusione
- La delibera di fusione
- l'atto di fusione

1.Il progetto di fusione ed i relativi allegati.

Il progetto di fusione deve essere redatto dagli amministratori e deve avere identico contenuto per tutte
le società partecipanti alla fusione e dallo stesso devono risultare, fra le altre, le seguenti indicazioni (art
2501-ter,co1):

a) il tipo, la denominazione o ragione sociale, la sede delle società partecipanti alla fusione.

b) l'atto costitutivo della nuova società risultante dalla fusione o di quella incorporante.

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c) il rapporto di cambio delle azioni o quote; vale a dire il rapporto in base al quale saranno assegnate ai
soci delle società che si estinguono le azioni o quote della società incorporante o della nuova società.

d) data a decorrere dalla quale le operazioni delle società partecipanti alla fusione sono imputate al bilancio
della società incorporante o risultante dalla fusione

e) il trattamento in ipotesi riservato a particolari categorie di soci o possessori di titoli diversi dalle azioni
(strumenti finanziari partecipativi e non)

f) vantaggi particolari eventualmente proposti agli amministratori.

Rapporto di cambio delle azioni o quote: indice numerico in base al quale saranno assegnate le azioni o
quote della società derivante dalla fusione ai soci delle società incorporate confusa ( ad es: 5 azioni della
società B incorporata daranno diritto ad ottenere una azione della società Y incorporante). L'indicazione e
la motivazione del rapporto di cambio consente ai soci di valutare l'effettiva convenienza della fusione
forma, perciò, oggetto di uno specifico giudizio di congruità formulato da un esperto.

Occorre altresì indicare nel progetto di eventuale conguaglio in denaro da attribuire ai soci per compensare
i resti che possono risultare dall'applicazione della cambio: nelle società azionarie il conguaglio non può
essere superiore al 10% del valore nominale delle azioni o delle quote assegnate.

Il progetto di fusione deve essere iscritto nel registro delle imprese con funzione di pubblicità legale
mediante due modalità alternative:
- tradizionale deposito per l'iscrizione nel registro delle imprese del luogo ove hanno sede le società
partecipanti alla fusione
- sfruttando le moderne tecnologie, la pubblicazione nel sito Internet della società, con le modalità
atte a garantire la sicurezza del sito medesimo, l'autenticità dei documenti e la certezza della data
di pubblicazione.
Al fine di rendere possibile ai soci una approfondita disamina del suo contenuto è previsto un termine
minimo di 30 giorni che deve intercorrere tra l'iscrizione del progetto e la data fissata per la decisione di
fusione. (Termine ridotto a 15 giorni nelle fusioni tra società non azionarie).
I soci possono però ritenere preminenti le esigenze di celerità del procedimento e quindi rinunciare a
questo termine con il consenso unanime.

La documentazione informativa non si esaurisce però nel progetto di fusione in quanto è prescritta la
redazione preventiva di altri tre documenti:
1) la situazione patrimoniale ( art. 2501-quater);
2) la relazione degli amministratori ( art. 2501-quinquies);
3) la relazione degli esperti ( art. 2501- sexies).

Gli amministratori di ciascuna delle società partecipanti alla fusione devono redigere una situazione
patrimoniale aggiornata della propria società, con l'osservanza delle norme sul bilancio di esercizio. Si tratta
di un vero e proprio bilancio di esercizio infrannuale (c.d. bilancio di fusione), la cui funzione prevalente è
quella di fornire un quadro contabile aggiornato ai soci e ai possessori di strumenti finanziari di tutte le
società partecipanti alla fusione, affinché possano consapevolmente esprimere il proprio voto in
assemblea.
Gli amministratori delle società partecipanti alla fusione devono redigere una relazione la quale illustri e
giustifichi il progetto di fusione e in particolare il rapporto di cambio, in modo da mettere i soci in
condizione di verificare i metodi di valutazione utilizzati dagli amministratori nella determinazione del
rapporto di cambio. La fissazione del rapporto di cambio è affidata alla discrezionalità degli amministratori,

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che non sono tuttavia legittimati a valutazioni arbitrarie e devono pronunciarsi sulla base dei dati
economici completi e veritieri.
È inoltre prescritto che per ciascuna società partecipante alla fusione uno o più esperti devono redigere
una relazione sulla congruità del rapporto di cambio ed esprimere un parere sull'adeguatezza del metodo
o dei metodi seguiti dagli amministratori. Per le società quotate gli esperti sono scelti fra le società di
revisione ( art. 2501-sexies) sottoposte a vigilanza della Consob.
Il progetto di fusione, le relazioni degli amministratori e degli esperti, le situazioni patrimoniali di tutte le
società partecipanti alla fusione, i bilanci degli ultimi tre esercizi delle stesse, devono restare depositati in
copia nelle sedi di ciascuna delle società partecipanti alla fusione durante i 30 giorni che precedono
l'assemblea e finché la fusione sia deliberata.

2.(Segue).Le fusioni semplificate.

Il legislatore ha previsto ipotesi in cui è possibile applicare semplificazioni.


- Fusione in cui non partecipano società con capitale rappresentato da azioni ( art 2505-quater). In
questo caso le semplificazioni consistono nella riduzione alla metà dei termini che scandiscono il
procedimento di fusione e nel disapplicazione dei limiti alla fusione sovraesposti: a quest'ultimo
proposito, srl e società di persone in liquidazione possono procedere ad una fusione anche qualora
abbiano iniziato la distribuzione dell'attivo.
- Fusione per incorporazione di società interamente possedute o di società posseduta al 90% ( art
2505 e 2505-bis), nel qual caso è data la possibilità che la delibera di fusione sia adottata dagli
organi amministrativi delle singole società. I soci della società incorporante che rappresentino il 5%
del capitale sociale possono comunque richiedere che la delibera di fusione sia adottata nelle
forme ordinarie. Ancora, nell’ incorporazione di società interamente possedute non deve essere
determinato alcun rapporto di cambio ne occorre stabilire modalità di assegnazione delle azioni o
quote della società risultante dalla fusione, in quanto unico socio dell'incorporata è l’incorporante:
di qui la superfluità di taluni adempimenti procedimentali, quali la relazione degli amministratori e
la relazione degli esperti volte appunto alla verifica della congruità del cambio.

3.La decisione di fusione

La fusione viene decisa da ciascuna delle società che vi partecipano "mediante l'approvazione del relativo
progetto" ( art. 2502).
Nelle società di persone tale approvazione avviene con il consenso della maggioranza dei soci determinata
secondo la parte in cui ciascuno degli utili, salvo il diritto di recesso del socio che non abbia consentito alla
fusione.
Nelle Spa la fusione deve essere invece deliberata dall'assemblea straordinaria con le normali maggioranze.
Al socio non consenziente non è riconosciuto il diritto di recesso, a meno che la fusione sia eterogenea o
comunque implichi una modifica statutaria per la quale è espressamente previsto tale diritto.
Nelle srl la delibera di fusione è sempre assunta a maggioranza e richiede l'osservanza del metodo
assembleare. Al socio che non abbia consentito alla fusione spetta il diritto di recesso.
La decisione di fusione può apportare modifiche al progetto di fusione ‘’ che non incidono sui diritti dei soci
o dei terzi’’.
Le delibere di fusione delle singole società devono essere iscritte nel registro delle imprese, previo controllo
di legalità da parte del notaio verbalizzante se la società risultante dalla fusione è una società di capitali.
Invece, al di fuori di questa ipotesi è sufficiente il deposito della decisione per l'iscrizione nel registro delle
imprese.

4.La tutela dei creditori e dei possessori di obbligazioni.

La fusione può essere attuata solo dopo che siano trascorsi 60 giorni dall'iscrizione nel registro delle
imprese dell'ultima delibera delle società che vi partecipano. Entro tale termine, ciascun creditore anteriore

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alla pubblicazione del progetto di fusione può proporre opposizione alla fusione ( art 2503). L'opposizione
sospende l'attuazione della fusione fino all'esito del relativo giudizio da parte del tribunale. Tuttavia il
tribunale, qualora ritenga infondato il pericolo di pregiudizio per i creditori oppure la società abbia prestato
idonea garanzia, dispone che la fusione sia attuata nonostante l'opposizione.
FUSIONE ANTICIPATA: è possibile solo se sussiste uno dei seguenti requisiti:
- consenso di tutti i creditori delle società partecipanti anteriori all'iscrizione o alla pubblicazione dei
progetti di fusione
- pagamento dei creditori non consenzienti
- deposito delle somme corrispondenti presso una banca

La fusione attuata mediante costituzione di una nuova società di capitali o tramite incorporazione in una
società di capitali non libera automaticamente i soci dall'eventuale responsabilità illimitata per le
obbligazioni delle rispettive società partecipanti alla fusione forte prima dell'ultima iscrizione dell'atto di
fusione; affinché tale liberazione possa realizzarsi deve risultare che i creditori abbiano dato il proprio
consenso alla fusione: consenso che si presume se i creditori, ai quali la deliberazione di fusione sia stata
comunicata con lettera raccomandata o con altri mezzi che garantiscano la prova dell'avvenuto
ricevimento, non lo abbiano espressamente negato nel termine di 60 giorni dal ricevimento della
comunicazione.

5.L’atto di fusione.

Il procedimento di fusione si conclude con la stipulazione dell'atto di fusione ( art. 2504 ). L'atto di fusione
deve essere sempre redatto per atto pubblico, anche se la società incorporante o la nuova società
risultante dalla fusione è una società di persone. Entro 30 giorni dalla stipulazione, il notaio rogante deve
depositare l'atto di fusione per l'iscrizione presso l'ufficio del registro delle imprese dei luoghi ove è posta la
sede di tutte le società partecipanti alla fusione e di quello della società risultante dalla fusione. L'ultima di
tali iscrizioni dell'atto ha efficacia costitutiva della fusione: ‘’ la società che risulta dall'operazione o quella
incorporante assumono i diritti e gli obblighi delle società partecipanti alla fusione, proseguendo in tutti i
loro rapporti anche processuali anteriori alla fusione’’. I soci maturano il diritto di ottenere azioni o quote
della società incorporante o risultante dalla fusione in sostituzione delle azioni o quote delle società
incorporate o fue in base al rapporto di cambio approvato dall'assemblea. Si produce perciò l'unificazione
soggettiva patrimoniale delle diverse società.

6.L’esecuzione della fusione e la rappresentazione contabile delle differenze di fusione.

Conseguita l'efficacia costitutiva della fusione con l'ultima iscrizione dell'atto di fusione nel registro delle
imprese, gli amministratori possono compiere gli atti di esecuzione della fusione:
- annullamento delle azioni emesse dalle società incorporate o fuse
- emissione di nuove azioni
- pagamento e conguagli
- liquidazione dei soci recedenti
- adempimenti contabili quali bilanci di chiusura delle società incorporate o fuse e bilancio di
apertura dell'incorporante

L’art 2504-bis,co4 detta i criteri di redazione del primo bilancio successivo alla fusione, stabilendo il
principio generale secondo cui le attività e le passività sono iscritte ai valore risultanti dalle scritture
contabili alla data di efficacia della fusione ( principio di continuità contabile).

Differenze di fusione: poiché la società incorporante nel procedere alla determinazione del rapporto di
parte, assume a base di tale calcolo valori delle attività e passività delle incorporate divergenti rispetto a
quelli indicati nei bilanci rispettivi è possibile che si determini una discrepanza tra i valori contabili che
confluiscono nel bilancio dell'incorporante e ad esempio il valore corrispondente all'incremento di capitale

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dell'incorporante, resosi necessario per soddisfare i soci dell'incorporata in base al rapporto di cambio: una
tale discrepanza genera la c.d. differenza di concambio.
In altri casi l’incorporante già possiede una partecipazione nell’ incorporata, che a fusione realizzata va
necessariamente annullata nel bilancio dell'incorporante. C.d differenza da annullamento.
Ebbene, emerge un avanzo di fusione se il patrimonio contabile della società incorporata registra
un'eccedenza rispetto al valore per cui era iscritta, nel bilancio dell'incorporante, la partecipazione
nell'incorporata da annullare ( avanzo da annullamento) o rispetto all'incremento di capitale
corrispondente alle partecipazioni che incorporante assegna in attuazione del rapporto di cambio (avanzo
di concambio).
Tuttavia, ben più frequente è il disavanzo di fusione, soprattutto se il bilancio della società è redatto
secondo i principi del codice civile, che impongono criteri di valutazione prudenziali. Ciò comporta che
spesso il patrimonio netto della società incorporata ha un valore contabile inferiore rispetto a quello in cui
è iscritta, nel bilancio dell'incorporante, la partecipazione nell'incorporata (disavanzo da annullamento),
oppure al valore complessivo delle partecipazioni che la società incorporante assegna ai soci
dell'incorporata in esecuzione del rapporto di cambio (disavanzo da concambio). In ambedue le ipotesi, il
disavanzo deve essere imputato, ove possibile, anche gli elementi dell'attivo e del passivo delle società
partecipanti alla fusione e, per la differenza, ad avviamento, con un correlativo piano di ammortamento
entro cinque anni.

IV.L’invalidità della fusione ed i rimedi risarcitori.

È stata introdotta una specifica regola sull'invalidità della fusione secondo cui, una volta eseguite le
iscrizioni dell'atto di fusione, la sua invalidità non può essere pronunciata. Resta salvo il diritto al
risarcimento del danno eventualmente spettante ai soci o ai terzi danneggiati dalla fusione ( art 2504-
quater). Tale regola trova giustificazione nell'esigenza di stabilizzare in via definitiva la nuova
organizzazione societaria generata dalla fusione.
Resta salvo solo il diritto al risarcimento dei danni eventualmente spettante ai soci o ai terzi danneggiati
dalla fusione, che potranno perciò a tal fine agire nei confronti degli amministratori delle società
partecipanti alla fusione e/o della società risultante dalla stessa. (tutela obbligatoria ex art 2504-quater
co2). Ed in particolare i soci devono ritenersi legittimati ad agire per il risarcimento sia dei danni
direttamente su proprio patrimonio, sia dei pregiudizi patiti dalla società incorporata o incorporante
(c.d.danno riflesso). Legittimati all'esercizio delle azioni risarcitorie sono, oltre ai soci, i loro creditori
particolari, nonché i creditori della società. L'azione risarcitoria può esercitarsi nei confronti degli
amministratori della società incorporante o incorporata, nonché degli esperti e della società risultante dalla
fusione.
E legittimato passivo dell'azione è altresì l'eventuale socio di controllo che ha tratto un ingiusto beneficio
derivato dalla fusione.

V.La fusione a seguito di acquisizione con indebitamento.

Si tratta delle fusioni realizzate nell’ambito di un c.d. leveraged buy-out, particolare tecnica per l’acquisto
del controllo di una società, di origine statunitense. Chi intende acquisire il controllo di una società
esercitata da altra società (c.d.società obiettivo o target) costituisce un’apposita spa con modesto capitale
sociale (c.d.newco), che ottiene un cospicuo prestito utilizzato nell’acquisto delle azioni della società
bersaglio. L'operazione è così congegnata:
a. uno o più soggetti costituiscono una società con modesto capitale sociale
b. questa nuova società ottiene un finanziamento utilizzato per l'acquisto della partecipazione di
controllo di una società obiettivo
c. acquisito il controllo della società obiettivo, viene deliberata la fusione per incorporazione di
quest'ultima nella società acquirente,c.d. newco. ed il finanziamento da questa ottenuto è
rimborsato con gli utili futuri della società bersaglio incorporata e/o con la vendita di parte delle
attività della stessa.

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La particolarità dell'operazione consiste nella circostanza che il rimborso del finanziamento ottenuto per
l'acquisizione è effettuato dalla società incorporante con le attività apportate dalla società obiettivo
incorporata: il cui patrimonio non può tuttavia considerarsi una garanzia in senso tecnico per l'ottenimento
del prestito da parte dell'incorporante, sicchè l'operazione non incontra i limiti posti dall'articolo 2358 in
ordine alle garanzie fornite dalla società per l'acquisto o la sottoscrizione di nuove azioni.

Nel leveraged buy – out la restituzione del prestito concesso alla società acquirente è sostanzialmente
garantita dal patrimonio della società bersaglio.

VI.Le fusioni transfrontaliere.

Per ‘’fusione transfrontaliera’’ deve intendersi una fusione in cui siano coinvolte società fra le quali almeno
una è costituita ai sensi della legge di un diverso Stato. Si tratta di operazioni che, differentemente dalle
funzioni nazionali finora esaminate, è soggetta ai limiti previsti dal diritto internazionale privato.
Quindi la fusione transfrontaliera è ammissibile soltanto alla triplice condizione che:
- la legge applicabile a tutte le società coinvolte preveda specificamente l'istituto
- ne consenta l'applicazione anche con una società di diritto straniero
- abbiamo una disciplina compatibile con la diversa normativa applicabile a queste ultime.
Tutto ciò rende queste operazioni difficilmente attuabili e quindi poco frequenti.
Al fine di agevolare la realizzazione di fusioni transfrontaliere intracomunitarie, ossia tra società di diversi
Stati dell'unione europea, il d.lgs 108/2008, ha introdotto una specifica disciplina, che prevede alcune
particolarità del procedimento di fusione rispetto alle regole applicabili alle funzioni nazionali.
- Innanzitutto, la fusione transfrontaliera non può essere utilizzata per aggirare specifici divieti e
vincoli previsti dall'ordinamento interno.
- Il progetto di fusione deve contenere oltre ai requisiti richiesti dall'articolo 2501-ter, ulteriori
indicazioni di notevole rilevanza per i soci ed i creditori delle società partecipanti alla fusione
transfrontaliera ed in particolare: forma, denominazione e sede statutaria della società risultante
dalla fusione della legge regolatrice di questa e di ciascuna delle società coinvolte nell'operazione.
- Il progetto deve essere pubblicato sia nel registro delle imprese sia, per estratto, nella Gazzetta
ufficiale 30 giorni prima della delibera di fusione.
- Quanto alla fase deliberativa, va sottolineato che ai soci che non hanno consentito all’operazione
spetta il diritto di recesso qualora la società risultante dalla fusione sia estera; la quota di
liquidazione deve calcolarsi secondo le regole del codice civile applicabili alla società da cui si
recede.
- Approvata la fusione, ciascuna società partecipante all'operazione deve farsi rilasciare, da
un'autorità indicata per ciascuno degli Stati membri dell'unione, un certificato preliminare alla ione,
che attesta il regolare e legittimo adempimento di tutti gli atti e le formalità necessarie alla
realizzazione dell'operazione, nonché l'inesistenza di circostanze impeditive al suo
perfezionamento quali l'opposizione dei creditori. Questo certificato poi deve trasmettersi nel
termine di sei mesi dal suo rilascio, all'autorità dello stato della società risultante dall'operazione,
specificamente deputata al controllo di legittimità sull'esecuzione della fusione transfrontaliera,
che rilascia un’attestazione: se la fusione deve eseguirsi in Italia, tale controllo è di competenza del
notaio, che deve espletarlo entro 30 giorni dal ricevimento delle singole delibere e dei certificati
preliminari.
- Gli adempimenti pubblicitari sono diversi a seconda che la società risultante dalla fusione sia
italiana o estera. Nella prima ipotesi, il deposito per l'iscrizione, dell’atto di fusione, dei certificati
preliminari e dell’attestazione, nel registro delle imprese del luogo ove hanno sede le società, deve
avvenire entro 30 giorni dalla data del certificato definitivo.

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Capitolo 72: Le scissioni

I.Nozione e forme di scissione.

La sua disciplina era assente nel codice civile del 1942 ed è stata introdotta soltanto con il D.lgs 22/1991.
Oggi le norme in tema di scissione sono contenute negli articoli 2506 e ss.

Con la scissione il patrimonio di una società è scomposta ed assegnato in tutto o in parte ad altre società,
con contestuale assegnazione ai soci della prima di azioni o quote delle società beneficiarie del
trasferimento patrimoniale . Con la scissione si ha la suddivisione di un unico patrimonio sociale e di
un'unica compagine societaria in più società. Nella scissione infatti le azioni o quote delle società
beneficiarie del trasferimento patrimoniale sono acquistate direttamente dai soci della società che si scinde
in base ad un determinato rapporto di cambio.
La scissione può assumere forme diverse. Può essere innanzitutto totale o parziale:
- nella scissione totale, l'intero patrimonio della società che si scinde è trasferita in più società beneficiarie.
La prima società perciò si estingue senza che però si abbia liquidazione della stessa, dato che l'attività
continua tramite le società beneficiarie della scissione che assumono diritti e gli obblighi corrispondenti alla
quota di patrimonio loro trasferita. – art 2506,co6.
- nella scissione parziale, invece, solo parte del patrimonio della società che si scinde viene trasferito ad
una o più altre società beneficiarie. La società scissa resta perciò in vita sia pure con un patrimonio ridotto e
continua l’attività parallelamente alle società beneficiarie, di cui entrano a far parte i soci della prima
acquistando partecipazioni anche delle società beneficiarie.
Beneficiarie della scissione possono essere:

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A) società di nuova costituzione, che nascono per gemmazione dalla società che si scinde (c.d. scissione in
senso stretto); l'atto di scissione funge in tal caso da atto costitutivo della nuova società in cui soci almeno
inizialmente corrispondono a quelli della società estinta.
B) l'assegnazione di tutto o parte del patrimonio della società scissa a società beneficiarie già preesistenti
dar luogo ad una c.d. scissione per incorporazione: tale operazione caratterizzata dall'aumento di capitale
delle società beneficiarie al servizio dell'attribuzione delle loro azioni o quote ai soci della società scissa.

Scissione omogenea: ove il patrimonio della scissa sia assegnato a società beneficiarie del medesimo tipo
Scissione eterogenea: se tutte le società beneficiarie o anche una sola di esse è di tipo diverso dalla società
scissa.

NB= non è consentita la scissione ( totale o parziale) di società azionarie in liquidazione che abbia iniziato la
ripartizione dell'attivo. Al pari delle fusioni, sono oggi invece consentite scissioni di società sottoposte a
procedure concorsuali.

II.il procedimento di scissione.

Il procedimento di scissione ricalca quello dettato per la fusione.

1.Il progetto di scissione e le relazioni

Gli amministratori della società partecipante alla scissione devono redigere un unitario progetto di
scissione, sottoposto alla stessa pubblicità prevista per il progetto di fusione. Oltre alle indicazioni stabilite
per quest'ultimo ( situazione patrimoniale, relazione degli amministratori e relazione degli esperti) il
progetto di scissione deve contenere:

a) l'esatta descrizione degli elementi patrimoniali da assegnare a ciascuna delle società beneficiarie
b) i criteri di distribuzione ai soci delle azioni o quote delle società beneficiarie.

L'indicazione del rapporto di cambio è qui necessaria ma non sufficiente, poiché occorre definire anche la
misura in cui i soci partecipano in ciascuna delle società beneficiarie.

Nella scissione totale, le attività di incerta attribuzione sono ripartite fra la società beneficiarie in
proporzione della quota di patrimonio netto trasferita a ciascuna di esse. Delle passività di dubbia
imputazione ne rispondono invece in solido tutte le società beneficiarie. Nella scissione parziale, le relative
attività restano in testa alla società trasferente.
Delle passività di incerta destinazione ne rispondono in solido sia questa sia le società beneficiarie.

2.Le regole specifiche a tutela dei soci. Scissione non proporzionale e scissione asimmetrica.

Dal progetto di scissione devono risultare i criteri di distribuzione delle azioni o quote della società
beneficiarie. E’ così consentito decidere a maggioranza una scissione che preveda l'attribuzione delle
partecipazioni in soci non proporzionale alla loro partecipazione originaria; in tal caso, viene assicurata ai
soci che non approvano la scissione una tutela particolare consistente nel riconoscimento di un loro diritto
di far acquistare le proprie partecipazioni. Tale obbligo di acquisto e coloro che ne sono soggetti devono
risultare dal progetto di scissione.

3.la decisione e l’atto di scissione. La tutela dei creditori. Gli effetti della scissione.

Il progetto deve essere approvato dai soci e pubblicato secondo le medesime regole.
La stipula dell'atto di scissione può essere effettuata, infatti, soltanto dopo 60 giorni dall'iscrizione nel
registro delle imprese dell'ultima decisione di scissione. Entro questo termine ciascun creditore anteriore

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alla pubblicazione del progetto di scissione può proporre opposizione alla scissione (art 2506-ter,co5). È
possibile una stipula anticipata dell'atto di scissione, allorché vi sia il consenso di tutti i creditori anteriori
alla pubblicazione del progetto, il pagamento dei creditori non consenzienti o il deposito presso un istituto
di credito delle somme necessarie per pagarli, oppure quando la relazione sulla congruità del rapporto di
cambio si è redatta da un'unica società di revisione che attesti, sotto la propria responsabilità, che la
situazione patrimoniale e finanziaria delle società partecipanti alla scissione non rende necessaria garanzia
a tutela dei creditori.
Un'ulteriore tutela per i creditori è la responsabilità solidale di ciascuna società coinvolta nell'operazione,
sia pure nei limiti del valore effettivo del patrimonio netto ad essa rimasto o assegnato, per i debiti della
società scissa non soddisfatti dalla società cui fanno carico.

L'atto di scissione deve risultare da atto pubblico. Nell'ipotesi di scissione in senso stretto, l'atto di scissione
vale anche come atto costitutivo della società risultante dalla scissione: deve perciò indicare anche tutti i
loro soci e le azioni e le quote a ciascuno di essi spettanti, benché sia pur sempre stipulato e sottoscritto dai
soli amministratori della società scissa in esecuzione della decisione di scissione.
La scissione acquista efficacia costitutiva nel momento in cui avviene l'ultima iscrizione dell'atto di scissione
nel registro delle imprese ove sono iscritte le beneficiarie; tale adempimento comporta, dunque, che le
beneficiarie assumono i diritti e gli obblighi della società scissa a ciascun assegnati nell'atto di scissione.
Dal momento in cui la scissione acquista efficacia, essa diviene inattaccabile, non essendo più consentito
dichiararne l'invalidità. I soci ed i creditori danneggiati dalla scissione possono soltanto esperire i rimedi e
risarcitori.

Sezione nona: Profili di diritto internazionale privato e dell’UE.

Capitolo 73: Le società estere. ‘’La trasformazione’’ internazionale.

I.Il principio di libertà di stabilimento e la concorrenza fra ordinamenti.

La crescente ‘’ globalizzazione’’ delle attività economiche e l'internazionalizzazione degli scambi hanno


evidentemente favorito la mobilità delle imprese, con la crescente preoccupazione dei diversi stati di
predisporre regole efficienti ed idonee ad attrarre capitali sul proprio territorio, favorendo ‘’ la nascita, la
crescita e la competitività delle imprese’’. Tale processo oggi coinvolge anche le piccole e medie imprese
sempre più intenzionate a espatriare dal territorio di origine. Ciò per la duplice intenzione di ricercare
regimi fiscali, lavoristici e previdenziali più favorevoli, sistemi giudiziari più rapidi ed efficienti, nonché di
sfruttare la notevole crescita economica dei paesi emergenti.
Ed in questi nuovi scenari non mancano,però, imprenditori che trasferiscono all'estero la propria attività al
fine di perseguire finalità illecite come ad esempio frodi fiscali e sottrarre risorse economiche ai propri
creditori.
Il ruolo del diritto internazionale privato quindi, consiste da un lato nel consentire agli imprenditori lo
spostamento degli investimenti nei mercati più attrattivi, che assicurano il maggior profitto con i minori
oneri; dall'altro, nell'evitare che, mediante questi trasferimenti possano perseguirsi disegni fraudolenti.

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A causa della profonda crisi economica e finanziaria che ha inevitabilmente accentuato l'imposizione
fiscale, riscuote molto interesse presso gli operatori italiani il problema di mobilità transfrontaliera delle
imprese.
Si allude al trasferimento della sede sociale all'estero contemplata nell'articolo 2437,co1,lett c, con
contestuale mutamento della legge applicabile alla società, senza procedere allo scioglimento, alla
liquidazione dell'ente e alla sua successiva costituzione secondo il diritto dello Stato d'arrivo con
l'inevitabile dispersione di risorse economiche che questo procedimento implicherebbe e che invece
l'istituto della trasformazione (2498) consente di evitare.
Questa operazione di ‘’ trasformazione internazionale’’ - che assicurerebbe la continuità dei rapporti
giuridici alla società che ha mutato nazionalità e legge applicabile – è stata ritenuta del tutto lecita dalla
giurisprudenza comunitaria in ossequio al principio della libertà di stabilimento. Invece presenta profili di
maggiore delicatezza e problematicità nei casi in cui il trasferimento della sede sociale sia disposto in stati
extracomunitari, anche e soprattutto in considerazione dei rischi per i creditori sociali sottesi ad una simile
operazione.
Fermo restando comunque che queste ultime operazioni resterebbero integralmente soggette ai principi di
diritto internazionale privato, per i quali i trasferimenti di sede statutaria all'estero hanno efficacia soltanto
se posti in essere conformemente alle leggi degli Stati interessati: ciò significa che il trasferimento di sede è
efficace alla sola condizione che venga rispettato sia il diritto italiano quando l'ordinamento dello Stato in
cui la sede è trasferita.

Capitolo 80: La disciplina dei mercati (cenni).

I.Dalla borsa mercato ‘’pubblico’’ alla privatizzazione dei mercati.

Nel settore mobiliare con la parola ‘’mercato’’ si intende il luogo in cui avvengono il collocamento e gli
scambi degli strumenti finanziari (azioni quotate, titoli di stato ecc..); un sistema, dunque in cui vengono
eseguite, secondo regole e meccanismi propri dello stesso, questo genere di operazioni finanziarie.
Il legislatore riserva alla disciplina dei mercati l'intero Titolo I della Parta III del TUF.
La disciplina dei mercati ha subito nell'arco degli ultimi 20 anni, profonde trasformazioni a partire dalla
direttiva ISD 93/22/CEE. Prima di tale direttiva, la disciplina del mercato borsistico in Italia era improntata
secondo un modello pubblicistico, fondato sul presupposto che la Borsa fosse un mercato ‘’ ufficiale’’
istituito per legge o per provvedimento amministrativo, gestito e controllato da una pubblica autorità
operante in regime di monopolio.
Con il recepimento della direttiva ISD - come la quale è stato introdotto il principio del mutuo
riconoscimento anche per i mercati, da cui discende che la qualificazione di un mercato come ‘’
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regolamentato’’ in uno Stato membro porta con sé la possibile estensione di operatività negli altri paesi
dell'unione europea - ha preso invece l'avvio il processo di progressiva ‘’ privatizzazione’’ del mercato
borsistico italiano.
Tale processo è passato attraverso la ‘’ trasformazione’’ della Borsa in società per azioni, con l'abbandono
della forma dell'ente pubblico, e l'introduzione di nuovi soggetti con funzioni di gestione di controlli
settore: le società di gestione dei mercati regolamentati di cui all'articolo 61 TUF, il quale dispone: ‘’
l'attività di organizzazione e gestione dei mercati regolamentati di strumenti finanziari ha carattere
d'impresa ed è esercitata da società per azioni, anche senza scopo di lucro’’. Sempre nel testo dell'articolo
61,co1 TUF si desume, inoltre, che l'adozione del modello privatistico ha comportato il superamento della
struttura monopolistica dei mercati finanziari. La distinzione tra ‘’ mercato’’ e ‘’ società di gestione’’
comporta, infatti, la possibilità della presenza di più mercati regolamentati, gestiti da diverse società in
concorrenza tra loro.
Con l'emanazione del TUF, accanto ai mercati regolamentati veniva dato spazio ai c.d. Mercati non
regolamentati, la cui disciplina però era caratterizzato da regole minimali, di origine nazionale ( non
europea) e con un'impostazione di tipo light touch. In particolare, i mercati non regolamentati erano
genericamente qualificati, a livello di normativa primaria, come ‘’ sistemi di scambi organizzati di strumenti
finanziari’’ (SSO) pervenire distinti poi, a livello di normativa secondaria ( del. Consob 14035/2003), in SSO
bilaterali e SSO multilaterali.
SSO bilaterali: generalmente caratterizzati dalla presenza di un intermediario che, nell'ambito della
prestazione del servizio di negoziazione per conto proprio, svolgeva in maniera sistematica e organizzata
un'attività di negoziazione per conto proprio su specifici strumenti finanziari trattati nell'ambito del sistema
quest'ultimo gestito.
SSO multilaterali: era invece caratterizzata dalla presenza di una società che organizzava un sistema di
negoziazione di strumenti finanziari in cui erano presenti proposte di acquisto o di vendita provenienti da
diversi intermediari che potevano incrociarsi direttamente fra di loro, senza necessariamente dover
ricorrere all'interposizione per conto proprio del gestore del sistema.

Per effetto del recepimento della direttiva MiFID l'assetto sin qui descritto (e caratterizzato dunque da una
netta separazione fra disciplina dei mercati regolamentati e la disciplina dei mercati non regolamentati) ha
subito però un ulteriore rilevante evoluzione, nel senso che dalla direttiva citata, i mercati regolamentati
sono ritenuti una sottospecie della più ampia figura delle trading venues (sedi di negoziazione), cui
appartengono anche i sistemi multilaterali di negoziazione ( MTF –multilateral trading facilities), che per
molti aspetti sono affini ai mercati regolamentati e gli internalizzatori sistematici, imprese di investimento
che svolgono attività di negoziazione per conto proprio in modo organizzato, e possono essere assimilati
alle imprese di investimento che operano per conto proprio distinguendosi da esse proprio per le modalità
e la frequenza con cui pongono in essere operazioni.
In questo modo, nell'impostazione MiFID viene superata la netta separazione tra mercati regolamentati e
non per passare ad un sistema articolato dove i mercati regolamentati e i sistemi alternativi di negoziazione
vengono nella sostanza equiparati.
Di conseguenza, la disciplina dei mercati, pur continuando ad essere contenuta nel Titolo I della Parte III del
TUF, risulta ora però articolata in un Capo I ( artt 60-ter-77), dedicato ai mercati regolamentati; in un Capo
II ( art 77-bis-79), dedicato ai sistemi di negoziazione diversi dei mercati regolamentati, e in un capo II bis
(artt 79-bis – 79-ter) contenente disposizioni comuni.
Tale articolazione riflette peraltro la scelta di fondo della direttiva, che è stata quella di individuare diversi
possibili luoghi alternativi di scambio di strumenti finanziari, appunto le trading venues, e di eliminare del
tutto l'obbligo di concentrazione delle operazioni in borsa ancora in essere in alcuni paesi dell'unione
europea.
In altri termini, con la MiFID si è realizzato in completo superamento della tradizionale concezione per cui la
negoziazione di strumenti finanziari deve avvenire in preferenza all'interno di luoghi di scambi organizzati e
dotati di un carattere di ufficialità.
Contestualmente, considerato il rischio di frammentazione delle informazioni relative alla trasparenza delle
negoziazioni nelle molteplici tipologie di trading venues, la MiFID ha introdotto una disciplina globale di

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trasparenza volta a ‘’ rafforzare l'efficacia del processo globale di formazione dei prezzi’’, obbligatorio per
tutte le operazioni aventi ad oggetto le azioni ammesse alla negoziazione in un mercato regolamentato in
uno Stato membro e facoltativo per le operazioni su strumenti finanziari diversi dalle azioni ammesse alla
negoziazione in un mercato regolamentato di uno Stato membro.
Ancora, nell'impostazione MiFID, può dirsi superata la netta separazione prima esistente fra la disciplina dei
mercati e quella degli intermediari oggi in parte interconnesse come significativamente rappresentato dalle
scelte compiute in particolare con riguardo ai sistemi multilaterali di negoziazione.
Di conseguenza, il recepimento nel contesto normativo nazionale ha comportato l'inclusione nell'elenco dei
servizi e attività di investimento di cui all’art 1,co5 TUF di una nuova attività di investimento denominata
‘’gestione di sistemi multilaterali di negoziazione’’, sottoposta a riserva di autorizzazione nell'ambito della
disciplina degli intermediari.
E i sistemi multilaterali possono essere gestiti sia dai gestori dei mercati regolamentati che dagli
intermediari abilitati, confermandosi così che si tratta di un'attività a cavallo tra la disciplina dei mercati e
quella degli intermediari.
Nonostante il completo superamento della visione pubblicistica dei mercati mobiliari, il sicuro permanere di
un interesse pubblico - riconducibile alla tutela del risparmio di cui all'articolo 47 Cost - nell'esercizio
dell'attività di gestione dei mercati giustifica la sottoposizione dell'attività medesima a controlli ed
autorizzazioni da parte della consob e del ministro dell'economia.

II.I mercati regolamentati e la società di gestione dei mercati.

Anche dopo il recepimento della direttiva MiFID la nozione di mercato regolamentato mantiene tuttavia nel
nostro ordinamento un rilievo primario.
I mercati regolamentati sono quei mercati organizzati in base al Titolo III della direttiva e con riferimento ai
quali si applicano alcune discipline specifiche ( es. quella sull’abuso del mercato), volte ad assicurare
l'integrità e il buon funzionamento dei mercati stessi secondo standard elevati.
Il legislatore italiano ha ritenuto che la forma giuridica più appropriata per l'esercizio dell'attività di gestione
dei mercati regolamentati sia quella della società per azioni, pur se contraddistinta dalla possibile assenza
di uno scopo lucrativo e dalla soggezione a particolari controlli, motivati dall'esigenza di salvaguardare gli
interessi pubblici coinvolti.
Per lo svolgimento dell'attività di organizzazione e gestione dei mercati sono previsti dal TUF, peraltro con
ampie rinvii alla normativa secondaria Consob, requisiti in capo alle società di gestione piuttosto simili a
quelli fissati dalla disciplina degli intermediari.
L'oggetto sociale delle società di gestione è limitato dall’art 61,co 2, lett b, TUF dove è previsto che le
medesime non possono esercitare attività che non siano ‘’ connesse’’ o ‘’ strumentali’’ all'organizzazione e
alla gestione dei mercati, e la medesima disposizione rinvia alla Consob anche la fissazione delle risorse
finanziarie necessarie allo svolgimento dell'attività.
Norme particolari sono dettate poi dall'articolo 61 TUF per quanto riguarda i requisiti degli esponenti
aziendali della società di gestione e dei soggetti che partecipano in misura rilevante al capitale, nonché per
il trasferimento di partecipazioni significative.
Alle società di gestione dei mercati sono stati conferiti poteri di autoregolamentazione e di intervento sul
funzionamento dei mercati stessi: dell'articolo 62,co 1 TUF l'organizzazione e la gestione del mercato sono
disciplinate da un regolamento deliberato dall'assemblea ordinaria o dal consiglio di sorveglianza della
società di gestione. Come tale, il regolamento è un atto di autonomia privata e non un atto amministrativo;
di conseguenza, l'adesione al mercato da parte di un intermediario o di un'emittente comporta
l'accettazione delle regole che disciplinano il mercato stesso, così come formulate nel regolamento
approvato dalla società di gestione secondo lo schema del contratto per adesione di cui agli artt 1341 e
1342 c.c.
Le competenze delle società di gestione in relazione all'organizzazione e al funzionamento del mercato
sono elencate dall’art 64 TUF, che attribuisce loro, fra l'altro, il potere di adottare ‘’ tutti gli atti necessari
per il buon funzionamento del mercato’’; di disporre le condizioni e le modalità di ammissione, di
esclusione e di sospensione degli strumenti finanziari e degli operatori della negoziazione; di disporre le

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condizioni e modalità per lo svolgimento delle negoziazioni e gli eventuali obblighi di operatori ed
emittenti; di disporre le modalità di accertamento, pubblicazione e diffusione dei prezzi, i tipi di contratti
ammessi alla negoziazioni e i criteri per la determinazione dei quantitativi minimi negoziabili.
Sui mercati regolamentati le autorità di vigilanza non esercitano quindi alcuna attività di gestione ma solo di
vigilanza esterna, diretta a garantire la trasparenza del mercato, l'ordinato svolgimento delle negoziazioni e
la tutela degli investitori.

Capitolo 81: La disciplina degli emittenti.

I.I principi.

Raccolta finanziaria diretta: le imprese, per soddisfare i propri bisogni finanziari, ricorrono al mercato
mobiliare, nell'ambito di una vicenda caratterizzata dall'emissione di strumenti destinati al collocamento
presso il pubblico degli investitori e alla successiva negoziazione.
È importante sottolineare il rapporto di stretta connessione che intercorre tra i due momenti: nel senso che
l'emissione degli strumenti, o di ulteriori prodotti a quelli collegati, implica la loro sottoscrizione da parte
dell'investitore in sede di collocamento, la quale di norma avviene nel presupposto della successiva
possibilità di ritrasferimento degli stessi strumenti. E poiché ad ogni strumento corrisponde l'assunzione di
impegni dell'impresa a una specifica remunerazione dell'investitore per i mezzi finanziari così prestati, la
riferita facoltà di ritrasferimento degli strumenti finanziari di per sé e crea una continua potenziale offerta
delle corrispondenti situazioni finanziarie attive nel c.d. mercato secondario: situazioni in cui valore di
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scambio è collegato al confronto con analoghe offerte concorrenti presenti nel medesimo contesto spazio-
temporale, sì che il prezzo del suddetto trasferimento dipende dagli esiti di tale confronto.
Con l’'emissione di strumenti finanziari, insomma, i prodotti finanziari ed emittenti entrano a far parte
integrante del mercato finanziario in senso stretto: partecipano all'offerta concorrente di prodotti finanziari
e sollecitano in tal modo la domanda di remunerazione di mezzi finanziari in surplus tipicamente riferibile al
risparmiatore.
Va considerato che, in quanto strumento di efficiente allocazione delle risorse, dato che sulla domanda di
investimento finanziario dei risparmiatori, direzionandola in considerazione dei prezzi dei prodotti offerti.
In questo modo, si capisce l'importanza riconosciuta nelle società che fanno ricorso al mercato del capitale
di rischio, al profilo dell’exit del socio, cioè del diritto alla trasferimento degli strumenti finanziari detenuti.
Tale exit, poiché di regola innescato dai bassi rendimenti constatati in relazione al titolo e l'intento di
ridimensionare l'investimento verso prodotti più competitivi rispetto a quelli originariamente posseduti,
viene ritenuto uno strumento indiretto di stimolo per la gestione, suscettibile di affiancare l'altro, più
tradizionale, del potere di ‘’ pungolo’’ esercitato dagli azionisti durante l'esercizio dei diritti amministrativi.
Allo stesso tempo, nel ricorrere al mercato gli emittenti sono, a loro volta in grado di influire sul concreto
svolgersi delle negoziazioni.
Invero, affinché la domanda di allocazione del risparmio possa selezionare efficientemente l'offerta di
strumenti finanziari in base al relativo valore di scambio è indispensabile che questo rifletta contenuti e
qualità dei prodotti offerti. E siccome tali dati coincidono con le aspettative di reddito generate dagli
emittenti, le norme del mercato finanziario non possono non intervenire sul comportamento di tali
soggetti, così da fare in modo che i prezzi riflettono in modo adeguato i valori in gioco.
Vi è insomma, un rapporto di compenetrazione reciproca tra disciplina societaria e disciplina del mercato
finanziario.

Il TUF nella sua Parte IV si occupa della disciplina degli emittenti, il cui Titolo I è riservato alla previsione di
disposizioni generali.
Rilevano l'articolo 91 e 92, la cui attenta considerazione si mostra utilissima per comprendere le coordinate
dell'intervento legislativo sul tema, della disciplina di mercato degli emittenti.
Art 91 TUF relativo ai poteri della Consob, precisa che l'azione di controllo dell'autorità di vigilanza del
mercato nei confronti degli emittenti deve essere ispirata ‘’ alla tutela degli investitori nonché all'efficienza
e alla trasparenza del mercato del controllo societario e del mercato dei capitali’’.
Emerge da qui la filosofia di fondo della materia:
- prima regola è la salvaguardia degli investitori, e ciò perché la loro fiducia nell'adeguatezza e
solidità dell'investimento operato è il perno su cui si basa sia l'originaria formazione sia la
sopravvivenza del mercato mobiliare.
- Seconda regola è la trasparenza ed efficienza del mercato dei capitali, cioè la tempestiva
circolazione delle informazioni concernenti l'impiego, da parte degli emittenti, dei mezzi finanziari
posti loro a disposizione dagli investitori, in modo che la domanda di investimento finanziario sia
correttamente influenzata dai contenuti della relativa offerta e che quest'ultima possa da ciò trarre
adeguato stimolo al proprio miglioramento.
- La terza regola, della trasparenza ed efficienza del mercato del controllo deriva dalla constatazione
che le negoziazioni sugli strumenti finanziari veicolano, oltre che di capitali, potenziali posizioni di
controllo nella spa emittenti, cosicché non solo l'istanza di trasparenza non può non concernere
entrambi questi aspetti, ma il mercato del controllo concorre con quello dei capitali ha la funzione
di stimolo sopra evidenziata.

L’art 92 TUF prevede, poi, l’ulteriore norma dell’uguaglianza fra gli investitori, là dove stabilisce al co1 che
gli emittenti quotati ‘’assicurano il medesimo trattamento ai portatori degli strumenti finanziari quotati che
si trovino in identiche condizioni ‘’; il co2 della disposizione, inoltre, impone che ai medesimi soggetti siano
garantiti ‘’ gli strumenti e le informazioni necessari per l'esercizio dei loro diritti’’. Si è in presenza, in tale
ipotesi, di ‘’ sotto-principi’’, specificativi della regola di efficienza del mercato dei capitali e attinenti al
versante interno agli emittenti, relativo alla loro governance: essi vanno ricondotti all'idea che l'integrità del

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credito finanziario accordato dagli investitori agli emittenti con la sottoscrizione e l'acquisto di strumenti
finanziari dipenda dal corretto svolgimento di detta governance e che da questa integrità a sua volta possa
dipendere il corretto funzionamento delle dinamiche di mercato.

Al puntuale svolgimento dei principi e delle regole generali della disciplina degli emittenti sono dedicati i
Titoli II e III della Parte IV del TUF, i cui contenuti saranno di seguito illustrati.

II. Appello al pubblico risparmio e sollecitazione all’investimento. L’obbligo di pubblicazione del prospetto
d’offerta.

La materia della sollecitazione dell'investimento diffuso, è affrontata dalla legge con le norme in tema di
offerta al pubblico di sottoscrizione e vendita di prodotti finanziari: regole previste dagli articoli 93-bis e
101 TUF, le quali possono dirsi riguardare ‘’ l'ingresso nel mercato’’ di un dato valore mobiliare ovvero, se si
vuole, la ‘’ creazione di un mercato’’ per uno specifico prodotto riferibile a un dato emittente.
Ciò premesso, il legislatore stabilisce attraverso le norme del TUF e del Reg. Emittenti, una articolata
regolamentazione della vicenda imperniata sull'obbligo degli emittenti, concernente le offerte avente
l’Italia come ‘’ Stato membro d'origine’’ o quelle ‘’ aventi ad oggetto prodotti finanziari diversi dagli
strumenti finanziari comunitari’’ ( art 94,co1), di dirigere e pubblicare anteriormente all'offerta un
prospetto informativo, previa autorizzazione della Consob. Si tratta di un documento, relativo all'offerta da
svolgere il quale deve contenere ‘’ tutte le informazioni che, a seconda delle caratteristiche dell'emittente e
dei prodotti finanziari offerti, sono necessarie affinché gli investitori possono pervenire a un fondato
giudizio sulla situazione patrimoniale e finanziaria, sui risultati economici e sulle prospettive dell'emittente
e degli eventuali garanti, nonché sui prodotti finanziari e sui relativi diritti.
Si ritiene che la disciplina si spieghi avendo riguardo al più generale interesse alla corretta formazione e al
buon funzionamento del mercato, quale rigoroso meccanismo di selezione qualitativa dell'offerta da parte
della domanda. Infatti, se compito del mercato, riconosciuto dal legislatore, è orientare gli acquisti in
considerazione dei prezzi dei prodotti, primo presupposto perché un tale meccanismo possa realizzarsi e
che questi prezzi siano adeguatamente informati: nel mercato finanziario questo significa: necessità di
acquisizione e valutazione delle informazioni da parte degli operatori.
Nel dettaglio, premesso che è ‘’ offerta al pubblico’’ ogni ‘’ comunicazione rivolta a persone’’, e dunque
ogni ipotesi di sollecitazione di una cerchia di soggetti indeterminata ex ante,l’art 100 TUF stabilisce in
negativo i confini normativi della fattispecie, stabilendo che le regole in tema di appello al pubblico
risparmio non si applicano a una serie di casi, tra i quali merita segnalare le offerte rivolte ai soli investitori
qualificati, nonché quelle riguardanti un numero di soggetti non superiore a 150 e relative a prodotti aventi
valori rientranti in parametri quantitativi indicati dettagliatamente dalla Consob. Sono esclusi dalla
disciplina dell'offerta al pubblico anche i depositi bancari e postali non rappresentati da strumenti
finanziari.
Va inoltre evidenziato che la comunicazione operata con il prospetto deve contenere ‘’ sufficienti
informazioni’’ sulle condizioni dell'offerta e dei prodotti finanziari che ne sono oggetto ‘’così da mettere un
investitore in grado di decidere o acquistare o di sottoscrivere tali prodotti finanziari’’.
Attore dell’offerta sono, oltre all'emittente, l'offerente nonché i soggetti intermediari che si assumono il
compito di raccogliere le sottoscrizioni o le dichiarazioni di acquisto: tra essi deve essere scelto, è indicato
nei documenti d'offerta, il c.d. Responsabile del collocamento.
Il prospetto informativo redatto è soggetto ad una preventiva comunicazione alla Consob per
l'approvazione, la quale deve essere espressa.
L’art 94,co1 precisa che ‘’ il prospetto non può essere pubblicato ‘’ prima che intervenga detta
approvazione.
La Consob può esigere che in questo documento vengono incluse informazioni supplementari rispetto a
quelle derivanti dalle passate indicazioni generali. Un supplemento di informazioni è pure richiesto per ‘’
qualunque fatto nuovo significativo’’ che sia rilevante e ‘’ sopravvenga o sia rilevato tra il momento in cui è
approvato il prospetto è quello in cui è definitivamente chiuso l'offerta al pubblico’’. Inoltre, durante il

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periodo della sollecitazione tutti i soggetti coinvolti nell'offerta sono soggetti al potere di controllo
spettante alla Consob.
Ancora, in base all’art 34-sexies,co1 Reg. Emittenti, i medesimi soggetti, durante il periodo di pendenza
dell'offerta, sono espressamente gravati dall'obbligo di attenersi ‘’ ai principi di correttezza e trasparenza e
parità di trattamento dei destinatari dell'offerta al pubblico e si trovino in identiche condizioni’’ e debbono
astenersi ‘’ dal diffondere notizie non coerenti con il prospetto o idonee ad influenzare l'andamento delle
adesioni’’.
Ai sensi dell’art 94,co1 è prevista una forma di responsabilità in capo ‘’ all'emittente, all'offerente e
all'eventuale garante, a seconda dei casi, nonché alle persone responsabili delle informazioni contenute nel
prospetto ciascuno in relazione alle parti di propria competenza’’, per i danni arrecati agli investitori e
derivanti dal ‘’ ragionevole affidamento’’ che questi hanno risposto ‘’ sulla veridicità e completezza delle
informazioni contenute nel prospetto’’.
Dunque, le perdite o il mancato guadagno dell'investitore riconducibili a informazioni errate o omesse
riferibili ai soggetti sopra citati, lo legittimano ad agire per ottenere il risarcimento nei limiti in cui su tali
informazioni fosse ragionevole fare affidamento in vista di un determinato obiettivo, poi deluso.
Si tratta di una responsabilità aggravata non dovendo l’investitore provare che il difetto informativo sia
stato di fatto dovuto al dolo o alla colpa dei medesimi soggetti sopra citati, bensì incombendo sugli stessi
l'onere di ‘’ aver adottato ogni diligenza allo scopo di assicurare che le informazioni in questione fossero
conformi ai fatti e non presentassero condizioni tali da alterarne il senso’’.
Uno stesso onere incombe sul responsabile del collocamento, il quale venisse eventualmente coinvolto
nell'azione di responsabilità, su cui pertanto grava a monte un obbligo di dirigente controllo della veridicità
e completezza delle notizie contenute nel prospetto.
Questione delicata, è l’ eventuale responsabilità della Consob in caso di danni da prospetto. Dall'eventuale
mancato diligente esercizio del potere di controllo, può farsi derivare la responsabilità della Consob, in
concorso con gli altri soggetti nominati, per i danni che gli investitori non avrebbero subito se la vigilanza
fosse stata esercitata adeguatamente.

III. L’offerta pubblica di acquisto e di cambio

L'offerta pubblica di acquisto e di cambio si deve distinguere dalla sollecitazione all'investimento.


Offerta pubblica di acquisto e di cambio :’’ ogni offerta,invito a offrire o messaggio promozionale, in
qualsiasi forma effettuati, finalizzato all'acquisto o allo scambio di prodotti finanziari e rivolti a un numero
di soggetti e di ammontare complessivo superiori a quelli indicati nel regolamento previsto dall'articolo
100,co1,lett b e c’’.
Al contrario di quanto accade nell’ipotesi di cui all’art 93-bis e ssTUF, a proposito dell’opa la legge si occupa
di fare in modo che la vicenda possa svolgersi ed essere adeguatamente valutata dal investitore tenendo
presente la possibile sua incidenza, oltre che con riferimento al mercato dei capitali, sul piano del mercato
del controllo.
Sottesa alla fattispecie ora in commento è la considerazione delle seguenti finalità:
- alla base delle generali previsioni di cui agli articoli 101-bis ss TUF vi è una ragione di trasparenza.
Con l'appello del pubblico risparmio perché disinvesta, si attiva un ulteriore momento della
dinamica del mercato, la quale ancora una volta presuppone un'adeguata informazione degli attori
che vi partecipano in relazione ai valori coinvolti nell'operazione, in modo che essi possano
raggiungere gli obiettivi di cui al medesimo mercato è il potenziale strumento.
- In secondo luogo, il tema del potenziale riassetto degli assetti proprietari solleva il problema della
cura dell'efficienza del mercato del controllo e dunque, nella specie, dell'interesse normativo a
evitare che la sollecitazione del ricambio di potere, all'interno di una data spa, inneschi reazioni da
parte dei emittenti non coerenti all'obiettivo finale della strumentalità delle negoziazioni al
miglioramento dell'offerta finanziaria.
- Infine, il legislatore si occupa di Opa e di mercato del controllo per uno scopo diverso e avendo
riguardo al problema di garantire la tutela degli investitori delle possibili conseguenze
pregiudizievoli che il mutamento del controllo possa comportare nei confronti del valore

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dell'investimento, considerata la rilevanza che la posizione di controllo assume nei confronti delle
politiche di impresa e dei prezzi a cui titoli oggetto di offerta vengono scambiati, tenendo conto
delle relative attese sul piano reddituale prospettico.
- Si rileva spesso, inoltre, l’esigenza che al mutamento della posizione di controllo segua una
distribuzione presso tutti gli investitori del c.d. Premio di maggioranza, che un investitore è in
ipotesi disposto a pagare per l'acquisto di quote di controllo in una data società.
Tali obiettivi inducono Il legislatore a individuare l'ipotesi nelle quali sorge, a carico di chi abbia acquisito
una partecipazione di controllo in un emittente, l'obbligo di procedere a un'offerta pubblica di acquisto,
avente ad oggetto la totalità degli strumenti dello stesso genere di quelli già acquistati e per un prezzo in
linea con quello praticato nei precedenti acquisti.

1.Le disposizioni generali; la ‘’ passivity rule’’.

La procedura e le modalità dell’opa sono previste dagli articoli 102 e 103 TUF, con disposizioni destinate ad
applicarsi, quanto all'oggetto, a tutte le offerte di acquisto o scambio di prodotti finanziari, qualunque essi
siano: senza che rilevi, pertanto, il fatto che questi siano meno quotati, ovvero la circostanza che si tratti o
meno di titoli dotati di diritto di voto.
Un'esclusione generale è soltanto stabilita per il caso di offerte avente ad oggetto ‘’ titoli emessi dalle
banche centrali degli Stati comunitari’’ ovvero per quelli promossi dagli stessi soggetti o dalla Banca
centrale europea.
Inoltre le norme in esame non si applicano agli investitori qualificati.
L'inizio del procedimento di offerta è disciplinato dall'articolo 102 TUF;
- intenzione dell'offerente di voler promuovere un’opa
- approntamento del documento d'offerta.
La prima va trasmessa alla Consob senza indugio, nel momento in cui la citata intenzione è maturata,
tramite un apposito comunicato, il quale va contestualmente reso pubblico.
L'inizio della promozione dell'offerta vera propria avviene invece ‘’ presentando alla Consob un
documento destinato alla pubblicazione. Tale presentazione deve intervenire nel termine di 20 giorni dalla
data del precedente comunicato: termine perentorio, decorso il quale è stabilito che il documento d'offerta
deve essere dichiarato non più ricevibile, con l'ulteriore conseguenza del divieto di presentazione di una
nuova offerta da parte del medesimo offerente sugli stessi titoli nei successivi 12 mesi.
Ai fini della divulgazione dell'offerta, la Consob deve preventivamente verificare entro 15 giorni dalla
presentazione nei suoi confronti del relativo documento, se esso consente ai possessori dei prodotti cui è
destinata di formarsi un fondato giudizio sull'offerta stessa.
Ove si tratti di offerte relative a prodotti non quotati o diffusi lo spazio di tempo di cui la Consob dispone
per la verifica è raddoppiato. Trascorsi questi termini, anche in mancanza di espressa autorizzazione, il
documento si intende approvato.
Esso va quindi trasmesso allo stesso emittente, per fare in modo che il suo consiglio di amministrazione
possa, assolvendo all'obbligo previsto nell’art 103,co3 TUF, diffondere ‘’ un comunicato contenente ogni
dato utile per l'apprezzamento dell'offerta e la propria valutazione sulla medesima’’.
Si apre così la fase di pendenza dell'offerta la quale, una volta efficace è irrevocabile ed è rivolta a tutti i
titolari dei prodotti finanziari che ne formano oggetto; l'offerta può essere inoltre condizionata e nel
relativo documento può essere indicata la percentuale minima, oltre che massima, dei titoli che si
intendono acquistare.
La durata dell'appello va concordata con la società di gestione del mercato, da un minimo di 15 e un
massimo di 25 giorni.
La Consob, esercita un potere di controllo nel periodo d'offerta nei confronti dell'emittente, il quale è
soggetto agli obblighi informativi previsti dall’ art 115 TUF.
Nello stesso periodo di tempo lo stesso emittente è tenuto al dovere di correttezza e al rispetto della parità
di trattamento dei destinatari dell'offerta i quali si trovino in identiche condizioni.
È inoltre possibile che si pubblichino offerte concorrenti con la prima, provenienti da altri soggetti, nei limiti
indicati dall'articolo 44 Re. Emitt. (tali offerte possono intervenire fino a cinque giorni prima la data di

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chiusura del periodo di adesione; sono ammessi inoltre, a determinate condizioni, rilanci da parte dello
stesso offerente, rispetto alla sua precedente offerta).
La Consob può sospendere o far decadere l’offerta se accerti violazioni dei suddetti principi

LIMITI entro i quali la società bersaglio possa difendersi contro l'offerta, con strumenti intesi ad impedirne
o a renderne difficoltosa la riuscita, ostacolando l'utilizzo dell'Opa quale strumento di ricambio del
controllo di una data società. A tale riguardo la regola è quella della passivity rule: cioè quella della
proibizione delle citate manovre contrarie al successo dell'opa, nell'ottica di un favor legislativo verso la c.d.
contendibilità del controllo.
L'idea presupposta da una tale soluzione è quella che i titoli di una data società possono essere oggetto
concreto di mira altrui allora che il loro valore potenziale sia superiore a quello attuale e nella misura in cui
tale distanza sia determinata da un'inefficiente direzione, riconducibile al inadeguato esercizio dei poteri di
controllo.
È in quest'ottica che si deve leggere l'articolo 104 TUF, ai sensi del quale ‘’ le società italiane in cui titoli
sono oggetto dell'offerta si astengono dal compiere atti od operazioni che possono contrastare il
conseguimento degli obiettivi dell'offerta’’.
La condivisibilità ed efficienza di questa soluzione, però, non può ritenersi scontata, dato il dibattito
esistente in proposito oltre che in Italia nell’intera Europa, nel quale sono state rappresentate posizioni
anche molto distanti nel contesto dei lavori relativi all'armonizzazione delle legislazioni in argomento.
Tali lavori sono d'altra parte culminati con una direttiva, 2004/25/CE, dalla cui attuazione sono derivate una
serie di modifiche al precedente testo legislativo.
Si è così previsto essenzialmente che:
- La regola di passività, descritta, vale solo là dove non ne sia prevista la deroga via statuto
- l'autonomia statutaria può prevedere, invece, di rafforzare la regola di passività affiancando ad essa
una regola di ‘’neutralizzazione’’, il cui principale contenuto consiste nello stabilire inefficacia, nel
periodo di pendenza dell'offerta, di eventuali ‘’ limitazioni al trasferimento di titoli previste nello
statuto o limitazioni al diritto di voto previste nello statuto o nei patti parasociali’’
- dice una ‘’ clausola di reciprocità’’, tale per cui le regole di sfavore per le difese da Opa,fin qui
riferite, non si applicano all'ipotesi gli offerenti provenienti da paesi stranieri, e in particolare ‘’ in
caso di offerta pubblica promossa da chi non sia soggetto a tali disposizioni ovvero da disposizioni
equivalenti’’.

2.L’opa obbligatoria

All’interno della disciplina dell’Opa il legislatore prevede il più circoscritto, in quanto applicabile solamente
alle società quotate, regime dell’Opa obbligatoria di cui agli artt. 105 e successivi. Al suo interno sono
riscontrabili gli istituti:
- dell’Opa totalitaria successiva, di cui all’art. 106,. Ton riguardo al primo degli istituti
summenzionati, la disposizione normativa di riferimento prevede che chiunque, a seguito di
acquisti, senza specificare come avveniva in passato se a titolo oneroso o gratuito (pur tenendo
conto della gratuità degli acquisti tra le varie cause di esenzione all’obbligo in oggetto ex art. 49,
v. infra in nota 12), venga a detenere una partecipazione superiore alla soglia del trenta per cento
promuove un'offerta pubblica di acquisto rivolta a tutti i possessori di titoli sulla totalità dei titoli
ammessi alla negoziazione in un mercato regolamentato in loro possesso.
La ratio di tale disposizione normativa si sostanzia nel proposito legislativo di garantire un eguale
trattamento economico tra soci nelle more dell’Opa.
La normativa in esame muove palesemente dal rilievo per cui chi acquista una partecipazione
superiore alla soglia sopra menzionata si pone, di regola, nella condizione di controllare la società
quotata e che tale vantaggio – il cosiddetto premio di maggioranza o di controllo – è normalmente
rispecchiato nel prezzo di acquisto, per ciò stesso superiore a quello di mercato. L'obbligo di offerta
pubblica totalitaria, che ne consegue, fa sì che del plusvalore lucrato dal venditore del pacchetto
azionario di maggioranza siano posti in condizione di beneficiare anche gli altri soci, i quali, al

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momento del loro investimento iniziale, riscontravano un assetto societario profondamente


differente da quello contingente.
Ciò detto, primo presupposto perché scatti l'obbligo in parola è, l'acquisto di una partecipazione
pari al 30% del capitale della società dei cui titoli si discute. Per partecipazione, deve intendersi una
quota di titoli attributivi del diritto di voto nelle deliberazioni assembleari specificatamente
riguardanti nomina o revoca degli amministratori o del consiglio di sorveglianza.
Solo in possesso di titoli aventi tali caratteristiche, infatti, nella misura indicata, è in grado di
influenzare l'attività di una società.
L'obbligo di offerta opera anche nell'ipotesi in cui l'assunzione della percentuale sopraindicata
avvenga in dipendenza di un suo acquisto indiretto, cioè tramite la detenzione del controllo in una
società ‘’ il cui patrimonio è prevalentemente costituito da titoli emessi da altra società’’; nell’art 45
Reg. Emitt è specificato che si ha prevalenza quando:
il valore contabile delle partecipazioni nella società quotata rappresenta più di un terzo dell'attivo
della società partecipante, tenendo presente il relativo bilancio
il valore attribuito alle partecipazioni da acquirente e alienante nella cessione rappresenta la
componente principale del prezzo di acquisto dei titoli delle società partecipante.
Allorchè peraltro, la società ‘’ tramite’’ di un acquisto in diretto rilevante sia a sua volta quotata,
l'acquisto del relativo controllo comporta la c.d. opa a cascata: l'acquirente sarà cioè dovuto a
lanciare un’opa successiva avente ad oggetto i titoli sia della società partecipante sia della società
partecipata.
Operato l’acquisto della percentuale rilevante, sorge dunque l'obbligo di offrire pubblicamente
l'acquisto della totalità degli ulteriori titoli in circolazione. In particolare, la legge prevede la
pubblicazione di un'offerta:
-nel termine massimo di 20 giorni dalla data dell'acquisto
-avente ad oggetto ciascuna categoria di titoli emessi dalla società in questione
-ad un prezzo determinato ex lege ( requisito molto importante il quale prevede che ‘’ l'offerta è
promossa a un prezzo non inferiore a quello più elevato pagato dall'offerente e la persone che
agiscono di concerto con il medesimo, nei 12 mesi anteriori alla comunicazione di cui all’art 102,co1
TUF per acquisti di titoli della medesima categoria’’.). Detto corrispettivo, inoltre, può essere a sua
volta in tutto o in parte rappresentato da altri titoli: in tal caso si parla di offerta pubblica di
scambio ( OPS).

- dell’Opa totalitaria incrementale, art. 107. Essa è obbligatoria per il caso di successivo aumento
della partecipazione originariamente acquisita: là dove, in particolare, un soggetto già possieda
una quota superiore al 30% e consolidi significativamente tale posizione. Nella fattispecie in esame
è rilevante per il legislatore la circostanza che la società dei cui titoli si tratta si viene a trovare in
una situazione di minore contendibilità del controllo, e dunque di maggiore stabilità del governo da
parte del socio di maggioranza, al quale sarà più facile imporre le proprie scelte strategiche
all'impresa, senza essere esposto in termini significativi al rischio di subire attacchi dall'esterno alla
posizione di potere. L'obbligo di offerta totalitaria, per l'ipotesi in questione, scatta nel caso di
acquisto anche indiretto, di più del 5% del capitale rappresentato da titoli che rappresentano diritti
di voto, complessivamente realizzato in un periodo di 12 mesi.
Esenzioni all'obbligo di promozione di offerta totalitaria in cui analizzato: l'obbligo di Opa non
opera la dove un altro socio possiede una partecipazione di controllo della società emittente
ovvero per:
-operazioni di salvataggio di società in crisi
-trasferimento tra società sottoposte a comune controllo o tra società controllante e controllanti
-esercizio dei diritti di opzione o di sottoscrizione o di conversione
-operazioni che prevedono una detenzione temporanea delle partecipazioni acquistate o di derivati
aventi ad oggetto le stesse
-assunzione di partecipazioni conseguente a fusione o scissione, purché approvate con voto
determinante delle minoranze estranee al controllo

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-trasferimento conseguente a successione o donazione


Altre importanti esenzioni dall'obbligo di lancio di offerta totalitaria sono previste in dipendenza di
due specifiche ipotesi di offerta preventiva: là dove cioè l'acquirente superi la percentuale
rilevante ai fini Opa in conseguenza dei risultati di una precedente offerta pubblica di acquisto, da
lui lanciata nei confronti dei titoli della società partecipata. In particolare, l'articolo 106,co4 TUF
stabilisce in primo luogo che l’obbligo in discussione non sorge in caso di offerta preventiva
totalitaria: cioè se l'acquisto della percentuale rilevante sia pervenuto in conseguenza della
promozione di un'offerta pubblica volontaria,’’ rivolta a tutti i possessori di titoli per la totalità dei
titoli in loro possesso’’. Altre ipotesi tipica è quella dell'offerta preventiva parziale, disciplinata
dall’art 107 TUF. Qui è previsto che si possa avere diritto all'esenzione dall'obbligo di Opa totalitaria
anche allorché l'acquisto della partecipazione potenzialmente rilevante ex art 106,co1 TUF, sia
conseguito ad un’offerta volontaria avente ad oggetto il 60% dei titoli con diritto di voto della
società target. Tuttavia, affinchè l'obbligo di Opa totalitaria successiva effettivamente non scatti è
necessario che ricorrano ulteriori condizioni e in particolare:
-che l'offerente non abbia acquistato, nell'anno precedente offerta, partecipazioni nella società in
questione in misura superiore all'1%
-che l'offerta sia stata approvata dalla maggioranza degli azionisti di minoranza non legati
all'offerente e al vecchio socio detentore di una partecipazione di maggioranza, anche relativa.

- del c.d. obbligo di acquisto c.d. residuale di cui all’art. 108. Tutelare, infatti, i piccoli investitori
contro il rischio di dover fronteggiare una situazione di scarsa liquidità dell'investimento, cioè le
difficoltà di cessione delle azioni, nonché di inadeguato funzionamento del meccanismo di
formazione dei prezzi dei titoli derivante da una rarefazione degli scambi di mercato, il legislatore
impone a chi abbia acquistato una partecipazione almeno pari al 95% del capitale rappresentato in
titoli di una società quotata ‘’ l'obbligo di acquistare i restanti titoli da chi ne fa richiesta’’. Il
detentore della partecipazione in parola è tenuto all'acquisto negli specifici confronti di coloro che
ne facciano singolarmente richiesta.
Al raggiungimento, invece, di una partecipazione pari al 90% del capitale con diritto di voto
l'obbligo di acquisto residuale concernente la totalità dei titoli della categoria interessata sussiste
solo se il detentore della partecipazione in discorso ‘’ non ripristina entro 90 giorni un flottante
sufficiente ad assicurare il regolare andamento delle negoziazioni’’. La legge impone gli obblighi di
offerta di acquisto disciplinati negli articoli 106 e 108 TUF a carico non soltanto di coloro che
isolatamente raggiungono il possesso delle soglie rilevanti ai sensi di tali disposizioni ma pure,
solidalmente, in capo alle persone che ‘’agiscono di concerto’’, allorché il superamento delle
percentuali in parola segua agli acquisti effettuati anche da una sola di esse.
La nozione di acquisto di concerto è data dall’art 101-bis,co4 TUF, ai sensi del quale la fattispecie è
integrata dall'ipotesi in cui più investitori ‘’ cooperano tra di loro sulla base di un accordo, espresso
o tacito, verbale o scritto, ancorché invalido o inefficace, volto ad acquisire, mantenere e rafforzare
il controllo della società emittente o a contrastare il conseguimento degli obiettivi di un’offerta
pubblica di acquisto o di scambio’’.

- Ulteriore Istituto contemplato nella sezione del TUF dedicata allo obbligatoria è quello del diritto di
acquisto, che pure riguarda il caso in cui un soggetto venga a detenere una percentuale di titoli pari
al 95% del capitale, avendo però riguardo specificamente all'ipotesi in cui tale situazione si verifica
‘’ a seguito di un'offerta di da totalitaria’’: in tale eventualità l'offerente ha diritto di acquistare i
titoli residui, sempre che abbia dichiarato l'intenzione di avvalersene nel presente documento
d'offerta. Inoltre, nel caso in cui l'offerente intende valersi del diritto all'acquisto in parola ‘’ il
trasferimento ha efficacia dal momento della comunicazione dell'avvenuto deposito del prezzo di
acquisto presso una banca alla società emittente, che provvede alle conseguenti annotazioni nel
libro dei soci.

IV.L’informazione societaria

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La prima regola previste dal legislatore del TUF in tema di partecipazione degli emittenti al buon
funzionamento del mercato, comune a tutti loro e dunque indipendente dal tipo di strumento collocato e
negoziato, ha per oggetto la trasparenza dei fatti concernenti l’impresa. Dunque, oltre che nel momento in
cui l'emittente procedere al collocamento dei propri prodotti, anche nell'intero periodo in cui gli strumenti
finanziari che ha emesso sono negoziati all'interno di un contesto di mercato i fatti che lo riguardano
devono essere oggetto di informazione nei confronti degli operatori, in quanto decisivi per la stessa
concreta determinazione dei prezzi di negoziazione.
La legge a questo proposto, stabilisce ancora una volta la necessità di un documento informativo iniziale,
definito prospetto di quotazione, per la cui disciplina richiama le previsioni generali stabiliti in tema di
prospetto nell'appello al pubblico risparmio.
L’art 113,co1 TUF dispone che ‘’ prima della data stabilita per l'inizio delle negoziazioni degli strumenti
finanziari in un mercato regolamentato l'emittente o la persona che chiede l'ammissione alle negoziazioni
pubblica un prospetto’’.
Ancora va richiamato l'ampio potere regolamentare assegnato alla Consob in ordine alla modalità e termini
di pubblicazione del prospetto di quotazione, nonché la circostanza che alla stessa, insieme alle società di
gestione del mercato nel quale i titoli sono in concreto quotati spettano quindi poteri di controllo,
l'esercizio dei quali può condurre, nell'ipotesi di constatata violazione delle norme di legge e regolamentari,
alla sospensione delle negoziazioni o, perfino, nell'ipotesi più gravi, all'esclusione dal mercato.

Una volta che l’emittente abbia avuto accesso al dato mercato, i suoi obblighi informativi non sono dunque
definitivamente assolti, per effetto dell'originario prospetto. Accade anzi, all'opposto. Questi diviene a
questo punto soggetto ad una penetrante ulteriore disciplina di trasparenza, concernente lo svolgimento
dell'attività di impresa nella pendenza delle negoziazioni dei relativi titoli e fondamentalmente rivolta
all'esigenza di garantire il tempestivo aggiornamento sui fatti dell'impresa.
È dunque previsto l'obbligo, a carico degli emittenti, di adeguarsi a un pervasivo sistema di produzione e
comunicazione ‘’ di informazioni regolamentate’’ individuate dalla legge, da diffondere e depositare presso
la Consob e la società di regolamentazione del mercato, nonché soggette, quanto a modalità e termini di
diffusione al pubblico, alle indicazioni dell'autorità di vigilanza, espresse nell'esercizio del suo potere
regolamentare ‘’, ferma restando la necessità di pubblicazione tramite mezzi di informazione sui giornali
quotidiani nazionali’’.
Quanto ai contenuti di tale disciplina di trasparenza, in vista delle evidenziate finalità la legge in particolare
prevede, in primo luogo, una puntuale e capillare informazione del mercato sulle principali operazioni
poste in essere dalla società emittenti, nonché sulle vicende dell'organizzazione reputata rilevanti, quali
individuate dalla Consob con proprio regolamento.
Così, ai sensi degli artt 70 e ss del Reg.Emitt. è previsto un articolato sistema di comunicazione, sia in via
preventiva che successivamente al compimento dei fatti considerati, di una serie di operazioni
straordinarie. A sensi del co 6 dell’art 114, i soggetti tenuti all'obbligo informativo possono proporre
reclamo nei confronti della Consob, facendo valere la circostanza che dalla comunicazione al pubblico delle
informazioni sopra menzionate possa derivare loro grave danno. Questa può, entro sette giorni, consentire
l'omissione della comunicazione ‘’ sempre che ciò non possa indurre in errore il pubblico su fatti e
circostanze essenziali’’. E inoltre previsto il meccanismo del silenzio assenso, sì che, trascorso il termine
citato senza che la Consob si sia pronunciata, di reclamo si deve intendere accolto.
In secondo luogo, con la fondamentale previsione dell'articolo 114,co1 TUF, si prevede un obbligo di
continuata informazione del mercato in relazione ai fatti, stavolta non puntualmente individuati ex ante
dal legislatore, ma destinati a essere identificate in concreto sulla base della loro rilevanza a incidere sui
valori dei titoli negoziati. È pertanto fatto obbligo agli emittenti di comunicare al pubblico ‘’ senza indugio’’
le c.d informazioni price sensitive: fattispecie la quale a sua volta si identifica con quella di informazione
privilegiata, cioè con quella notizia ‘’ di carattere preciso, che non è stata resa pubblica, concernente
direttamente o indirettamente, uno o più emittenti strumenti finanziari o uno o più strumenti finanziari
che, se resa pubblica, potrebbe influire in modo sensibile sui prezzi di tali strumenti finanziari’’.

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E’ tuttavia stabilito dall'articolo 114,co3 TUF che i soggetti tenuti all'informazione possono ritardare la
comunicazione al pubblico ‘’ sotto la propria responsabilità’’, nei limiti indicati dalla Consob nel
regolamento emittenti e sempre che ciò non possa indurre in errore il pubblico su fatti e circostanze
essenziali e purché sia garantita la riservatezza da parte di quanti siano a conoscenza della notizia.

V.Lo statuto speciale delle società con azioni quotate nei mercati regolamentati. Ragioni generali e
obiettivi specifici dell’intervento normativo.

Il Capo II del Titolo III della Parte IV del TUF, dedicata agli emittenti, contiene una serie di disposizioni,
distribuite in più sezioni, concernenti la ‘’ disciplina delle società con azioni quotate’’ e più precisamente
applicabili, ai sensi dell'articolo 119, alle ‘’ società italiane con azioni quotate in mercati regolamentati
italiani o di altri paesi dell'unione europea’’. Si tratta quindi di una disciplina che integra in più punti l'altra,
dettata dal codice civile a proposito delle ‘’ società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio’’.
La normativa codicistica riguardante le spa facenti ricorso al mercato del capitale di rischio contenuta
all'articolo 2325-bis, persegue la finalità di adattare il generale modello organizzativo di partecipazione
all'attività di una spa alle peculiari dinamiche scaturenti dall'effettiva esistenza di un mercato delle azioni
emesse dalla stessa spa. Si è anche notato poi, come ciò comporti una riduzione degli spazi dell'autonomia
rispetto a quelli che le vengono riservati nel sistema normativo generale concernente le spa. In tale quadro,
l'intervento imperativo sulle S.p.A. del legislatore del TUF, appunto operato con le disposizioni contenute
tra gli articoli 119 e 165-septies di cui adesso veniamo ad occuparci, si caratterizza come ancora più intenso
in confronto a quello poc'anzi ricordato, divenendo a tratti pervasivo. Invero, con le disposizioni citate non
solo vengono previsti maggiori limiti all'operare delle regole di autonomia, ma si delinea in positivo un
ulteriore nuovo statuto dell'attività sociale, stabilendosi regole organizzative del tutto particolari spesso
fonte di obblighi aggiuntivi in capo ai soggetti in quella coinvolti.

La ragione di previsioni speciali per le società quotate è ancora una volta da ricollegare alla considerazione
legislativa delle particolari esigenze del mercato finanziario e all'attuazione dei principi sanciti dall'articolo
91 TUF.
Si deve tornare a evidenziare come presupposto per l'applicabilità delle norme in parola, per espresso
disposto dell'articolo 119 TUF, sia il fatto che l'emittente sottopone a quotazione le proprie azioni. Infatti, la
circostanza che si tratti di titoli i quali conferiscono diritti partecipativi, comporta la necessità che la loro
concreta valorizzazione da parte di un dato mercato, cioè appunto la relativa ‘’ quotazione’’, pure rifletta il
valore proporzionalmente assegnabile a siffatti diritti e dunque alla data società in dipendenza della
concreta conformazione dei primi. Ne segue la preoccupazione del legislatore, in obbedienza ai principi di
trasparenza ed efficienza dei mercati, di dettare un sistema di norme rivolto ad assicurare, per quanto
possibile, la fedeltà del prezzo di quotazione all’ integrale valore dell'emittente: di creare le condizioni
affinché questo possa dare conto anche dell'avvenuta sottoposizione al mercato, da parte dell'emittente,
oltre che dell'impresa in sé, della sua organizzazione di governo e delle variazioni che essa subisce nel corso
del tempo. Da ciò si può affermare che la disciplina delle società quotate riguarda in sintesi la corporate
governance delle stesse, da intendere in senso lato come insieme delle regole dirette ad ‘’ assicurare una
conduzione corretta, trasparente ed efficace dell'impresa societaria’’.

Quindi :
- l'obiettivo finale cui le regole citate puntano è quello, prima indicato, della rigorosa fedeltà del
prezzo di quotazione al valore della spa emittente, dunque comprensivo dell'apprezzamento delle
concrete scelte che la medesima spa prende in tema di governance.
- Due sono gli strumenti normativi di massima utilizzati dal legislatore in vista dell'effettivo
raggiungimento di quell'obiettivo: 1) l'estensione anche all'ambito della governance di una
dettagliata disciplina di trasparenza, per far si che l'analisi degli operatori di mercato rilevante per

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la formazione di un'adeguata quotazione dei titoli contempli pure tale profilo, e 2) la speciale
previsione di regole organizzative rivolte a: 1) consentire lo svolgersi di dinamiche di governo
coerenti con la rilevanza esercitata nei confronti dello stesso dal mercato; 2) prevenire indebiti
trasferimenti di ricchezza interni alla società e così evitare che le citate quotazioni siano incise da
vicende a rigore non collegate ai risultati d'impresa, suscettibili di alterare in modo anomalo la
domanda e così deviarla dall'assolvimento del suo compito di automatica selezione dell'offerta in
base al merito dei suoi prodotti.

Quanto ai contenuti dello statuto speciale in esame, nelle varie sezioni del capo del TUF sono affrontati i
seguenti argomenti:
- disciplina dei c.d. assetti proprietari, il cui compito essenziale è rendere consapevoli il mercato e la
stessa spa della composizione e degli equilibri della compagine sociale, permettendo agli organi
sociali di tenerne conto nella determinazione delle proprie scelte di base di tipo politico e
strategico, nonché agli investitori di formulare un giudizio più completo sui titoli negoziati.
- La disciplina delle azioni di risparmio, ispirata dall'intento di rendere possibile e compatibile con i
principi del mercato mobiliare l'emissione di azioni che, in quanto prive del diritto di voto, non
partecipano alle stesse dinamiche di governance proprie delle altre categorie.
- Normativa riguardante i diritti dei soci e la governance in senso stretto, cioè le regole speciali sugli
organi incaricati della gestione e della vigilanza della spa quotata, nonché della revisione contabile,
il relativo rapporto e le relazioni intercorrenti tra essi e gli azionisti.

1.Gli assetti proprietari. Partecipazioni rilevanti e partecipazioni reciproche.

L'articolo 120 TUF e le disposizioni del regolamento emittenti in esso attuative stabiliscono modi e termini
della trasparenza nei confronti della società e, tramite la Consob, del mercato, delle partecipazioni
considerate ‘’ rilevanti’’ dal legislatore, cioè suscettibili di fare presumere un’attenzione dell'azionista nella
governance sociale e un suo conseguente interesse ha un comportamento attivo in tale ambito.
In particolare, la soglia fissata dalla legge oltre la quale si realizza la fattispecie tipica di ‘’ partecipazione
rilevante’’ è, ai sensi dell'articolo 120,co2 TUF, quella dell'acquisto di azioni ‘’ in misura superiore al 2% del
capitale sociale (quello rappresentato da azioni con diritto di voto)’’: secondo tale disposizione, una volta
superata la percentuale, scatta l'obbligo di darne comunicazione alla società partecipata e alla Consob.
Uguale obbligo di comunicazione opera, all'avvenuto superamento delle percentuali del 5,10, e successivi
multipli fino al 30%, nonché al raggiungimento delle ulteriori soglie del 50%, 66,6%, 75%, 90% e 95%.
Per l'assolvimento dell'obbligo di comunicazione, occorre ancora una volta tenere presente le norme
dettate dalla Consob in via regolamentare. È da sottolineare che la comunicazione va inviata, direttamente
alla società quotata e alla Consob, mentre è a cura di quest'ultima che avviene la comunicazione al
mercato. Per l'ipotesi di inadempimento, oltre ad una sanzione amministrativa è stabilita una sanzione di
tipo civilistico, atteso che in caso di omessa comunicazione il voto inerente alle azioni quotate o altri
strumenti finanziari a cui l'omissione è relativa, è sospeso.
In caso di inosservanza di tale disposizione, inoltre, se il voto è stato determinante per la deliberazione,
questa è annullabile e l'impugnativa può essere promossa anche dalla Consob entro sei mesi dalla
deliberazione o dall'iscrizione della stessa nel registro delle imprese.

Sempre in tema di trasparenza degli assetti proprietari, il legislatore si preoccupa altresi di evitare che si
diano partecipazioni reciproche che eccedano la misura del 2%: ciò, per impedire la sottrazione al gioco del
mercato e la strumentalizzazione di quote partecipative, per effetto di impliciti accorti tra gruppi di
comando intesi al mantenimento o rafforzamento di posizioni di potere. Si prevede così che in caso di
partecipazioni reciproche eccedenti i limiti sopra nominati ‘’ la società che ha superato il limite
successivamente non può esercitare il diritto di voto inerente alle azioni o quote eccedenti e deve alienarle
entro 12 mesi dalla data in cui ha superato il limite. In caso di mancata alienazione entro il termine previsto
la sospensione del diritto di voto si estende all'intera partecipazione.

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Come per le partecipazioni rilevanti anche in questo caso, la violazione delle regole di sospensione del
diritto di voto comporta, l’annullabilità della delibera presa; la legittimazione all’impugnativa è di nuovo
estesa alla Consob, ed è esercitabile nel più ampio termine dei sei mesi dalla decisione o dalla relativa
iscrizione.
Il rigore del divieto di partecipazioni reciproche eccedenti il 2% è attenuato allorché le medesime
partecipazioni si giustifichino nel quadro del rafforzamento di intese industriali tra società. Per evitare,
infatti, di pregiudicare oltremisura la possibilità di tali intese si prevede che il limite di tolleranza della
percentuale partecipativa è elevato al 5% là dove il superamento della soglia inferiore del 2% abbia luogo ‘’
a seguito di un accordo preventivamente autorizzato dall'assemblea ordinaria delle società interessate’’.
Altre si è disposto che non si applica ‘’ quando i limiti ivi indicati sono superati a seguito di un’offerte
pubblica di acquisto o di scambio, diretta a conseguire almeno il 60% delle azioni ordinarie’’.

2.I patti parasociali nelle società quotate; la relazione sul governo e gli assetti proprietari.

Tassello importante della disciplina degli assetti proprietari delle società quotate è costituito dalla
regolamentazione dei patti parasociali.
La disciplina del TUF dei patti parasociali si distingue rispetto a quella, a suo tempo tratteggiata, inserita nel
codice civile, soprattutto in quanto maggiormente improntata alla previsione di obblighi pubblicitari a
carico dei paciscenti, qui molto più intensi di quelli stabiliti per le comuni spa, nonché per la fissazione di
limiti più stringenti in relazione alla durata dei patti in parola.
Obblighi di trasparenza: è stabilito che gli accordi parasociali riguardanti le società quotate o le società che
le controllano devono essere:
- comunicati alla Consob
- pubblicati per estratto nella stampa quotidiana
- depositati presso il registro delle imprese ove la società ha la sua sede legale
- comunicati alla società con azioni quotate.
Questa pubblicità deve avvenire entro cinque giorni dalla stipulazione; in caso di inadempimento è prevista
la sanzione della nullità dei patti stipulati.
Inoltre, l'esercizio del voto inerente alle azioni quotate nelle quali non sono stati adempiuti gli obblighi
previsti non può essere esercitato, pena l'annullabilità della deliberazione comunque presa, ove detto voto
sia stato determinante, proponibile anche dalla Consob nel consueto termine di sei mesi..

Limiti temporali del rapporto parasociale: è disposto che i patti ‘’ non possono avere durata superiore a tre
anni e si intendono stipulati per tale durata anche se le parti hanno previsto un termine maggiore’’. Inoltre,
è espressamente precisato, che detti accordi ‘’ sono rinnovabili alla scadenza’’. Nel caso in cui siano invece
stipulati a tempo indeterminato, è ex lege imposto un diritto di recesso, esercitabile con un preavviso di sei
mesi.

Questa disciplina si applica:


- ai patti, in qualunque forma stipulati, aventi per oggetto l'esercizio del diritto di voto nelle società
con azioni quotate e nelle società che le controllano;
- ai patti che istituiscono obblighi di preventiva consultazione per l'esercizio del diritto di voto;
- ai patti che pongono limiti al trasferimento delle relative azioni o di strumenti finanziari che
attribuiscono diritti acquisto o di sottoscrizione delle stesse ovvero che prevedono l'acquisto di tali
azioni o strumenti finanziari;
- ai patti aventi per oggetto o per effetto l’esercizio anche congiunto di un'influenza dominante;
- al patti volti a favorire o a contrastare gli obiettivi di un’opa.

3.La struttura finanziaria. Le azioni di risparmio.

Il TUF, in tale materia, si limita a disciplinare in via isolata, 2 istituti:

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1. maggiorazione del dividendo, previsto dall'articolo 127-quater. La disposizione stabilisce la


possibilità che sia riconosciuto via statuto agli azionisti una sorta di ‘’ premio fedeltà’’, in particolare
attribuendosi il diritto a una certa maggiorazione del dividendo, rispetto a quello spettante alle
altre azioni, a coloro che posseggono i titoli per un ‘’ periodo continuativo indicato nello statuto’’,
purché non inferiore ad un anno. La maggiorazione non può eccedere del 10% il comune dividendo
e può peraltro essere subordinata a condizioni ulteriori. L'istituto riguarda soltanto i piccoli
risparmiatori, essendo espressamente previsto che non si applica in caso di partecipazione
superiore al 0,5%, per quella parte che eccede tale misura, o nell'ipotesi in cui le azioni possedute
siano state conferite in un patto parasociale avente a oggetto una partecipazione
complessivamente pari al 30% o comunque comportante un’influenza dominante.
2. Azioni di risparmio, previsto negli articoli 145 e ss. Questa figura è stata caratterizzata dal mancato
riconoscimento del diritto di voto ai relativi titolari a fronte della attribuzione di diritti patrimoniali
ben determinati, con una evidente destinazione alle esclusivo collocamento presso il pubblico dei
risparmiatori. Lo scarso successo della categoria nella prassi ha peraltro condotto il legislatore del
TUF alla riforma della primitiva disciplina, la quale è essenzialmente consistita nella eliminazione di
una qualunque individuazione da parte della legge di un contenuto patrimoniale tipico. L'articolo
145,co1 TUF, si limita così a stabilire che le società quotate ‘’ possono emettere azioni prive del
diritto di voto’’, solo aggiungendo, con riguardo ai contenuti di detta categoria, la specificazione
che esse sono ‘’ dotate di particolari privilegi di natura patrimoniale’’: per il resto, compete allo
statuto di determinare ‘’ il contenuto del privilegio, le condizioni, i limiti, le modalità ed i termini
per il suo esercizio’’, nonché ‘’ i diritti spettanti agli azionisti di risparmio in caso di esclusione dalle
negoziazioni delle azioni ordinarie o di risparmio’’.
Tali azioni devono contenere la denominazione di ‘’ azioni di risparmio’’ e possono essere al
portatore, a meno che appartengono ad amministratori, sindaci o direttori generali: in tal caso sono
nominative.
Inoltre, il capitale rappresentato dalle azioni di risparmio e le altre azioni al voto limitato ( in
conformità del principio contenuto nell’art 2351 c.c.), non superi la metà del capitale, in
conseguenza di una riduzione del capitale per perdite, per più di due anni: stabilendosi che entro
tale termine il rapporto sopra indicato ( della metà) vada ristabilito mediante emissione di azioni
ordinarie.
In quanto privi di potere decisionale, gli azionisti di risparmio necessitano di un sistema di tutela
della loro posizione e delle connesse prerogative. A tale scopo, il legislatore prevede
un'organizzazione analoga a quella ordinariamente caratterizzante le obbligazioni: e in effetti le
azioni di risparmio sono spesso state considerate figura ‘’ ibrida’’, intermedia tra le azioni ordinarie
e le obbligazioni o comunque molto vicina a queste ultime. Ne segue la previsione, accanto
all'assemblea speciale, competente sulle materie indicate dall'articolo 146 .co 1 TUF , di un
rappresentante comune degli azionisti di risparmio. Al rappresentante comune sono riconosciuti
oltre i poteri previsti dall'articolo 2418 c.c. per il rappresentante degli obbligazionisti, anche il
diritto di ‘’ assistere all'assemblea della società e di impugnare le deliberazioni’’, nonché la regola
per cui deve darglisi un'adeguata informazione ‘’ sulle operazioni societarie che possono
influenzare l'andamento delle quotazioni delle azioni di categoria’’.

4.Le regole di governo.

Il TUF prevede una disciplina speciale anche in tema di organi delle società con azioni quotate, perlopiù
riguardante non la previsione di istituti nuovi rispetto a quelli stabiliti nel codice civile bensì regole in più
punti integrative della normativa generale in materia, ispirate all'idea della formulazione di un sistema di
c.d. corporate governance che possa considerarsi strumentale all'efficienza del mercato finanziario. Una
siffatta disciplina è stata già illustrata in precedenza, nella parte dedicata agli organi della spa: qui ci si
limiterà a chiarire il collegamento funzionale delle disposizioni in questione con l'ambito tematico delle
società quotate.

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In tale prospettiva, va per prima cosa tenuta presente, ancora una volta, la circostanza che la quotazione
dei titoli di una spa presuppone sia la c.d. polverizzazione della proprietà azionaria (per cui ciascun
investitore risulta proprietario di quote minime del capitale di rischio destinato all'impresa), sia la
particolare qualità di tale azionariato, in grande quantità composto, in via diretta o indiretta da
risparmiatori: cioè da soggetti caratterizzati da un interesse nei confronti dell'attività esclusivamente
orientato al conseguimento di una rendita finanziaria e non alla partecipazione all'esercizio dell'attività
medesima. A ciò consegue un netto cambiamento nelle dinamiche di governo dell'impresa, rispetto a
quelle prese in considerazione dal legislatore del codice civile.
a) Di fronte alla riferita a situazione di polverizzazione dell’azionariato il c.d. controllo di merito
nei confronti dell'operato degli amministratori di società quotate, affinché si svolga in modo
efficiente, non può essere normativamente affidato ( come avviene per le spa di diritto
comune) allo spontaneo esercizio, da parte degli azionisti dei diritti sociali (di partecipazione al
governo e di sollecitazioni della gestione).
Ben più pregnante è, invece, il ruolo di controllo che è destinato a svolgere indirettamente, nei
confronti della gestione sociale, lo stesso gioco di mercato: ossia i movimenti della domanda di
investimento, la quale si manterrà alta solo se del pari alti saranno i risultati di suddetta
gestione. Cosicché, là dove un tale gioco possa adeguatamente dispiegarsi, gli amministratori
saranno indotti all'efficienza in quanto spinti dall'intento di scongiurare il temuto esercizio del
diritto di exit da parte degli azionisti, potenzialmente foriero di un deleterio ribasso nei corsi dei
titoli negoziati.
-Proprio alla prospettiva, così, di fornire agli investitori sufficienti elementi per guidare la
relativa domanda, si collocano anzitutto le speciali previsioni concernenti il rafforzato obbligo
informativo incombente sugli amministratori nei confronti degli azionisti.
Nell'ottica di una migliore percezione dell'informazione societaria da parte di soggetti che si
muovono nel mercato, si spiegano le previsioni in tema di diritti dei soci, l'avviso di
convocazione dell'assemblea o le informazioni da offrire ai soci in ordine alle decisioni da
prendere, attraverso la relazione dettagliata intorno alle materie all'ordine del giorno, nonché
la possibilità fornita agli azionisti di formulare domande e di chiedere chiarimenti in ordine alle
materie all’ordine del giorno.
-Del resto, l'intera serie di regole speciali del TUF concernente l'assemblea mostra come nelle
società quotate quest’organo non possa configurarsi quale sede assegnata ai soci per
esprimere un apprezzamento realmente collegiale sul dettaglio della gestione. L’assemblea
rappresenta piuttosto il luogo in cui, sulla scorta delle informazioni ricevute, formalizzare
l'approvazione del rendiconto di gestione e con questo sancire o meno la conferma sociale
degli indirizzi politico-strategici dell'attività seguiti dagli amministratori. Ed è certo coerente con
tale diverso ruolo dell'organo assembleare la previsione nel TUF di meccanismi formativi della
deliberazione strumentali al particolare sistema della raccolta ‘’ referendaria’’ di consensi su
proposte preformate, quali quello del voto per corrispondenza o del voto su delega con
istruzioni di voto ovvero ancora lo stesso istituto della sollecitazione di deleghe: un sistema,
evidentemente diverso dall'altro, sotteso al procedimento assembleare tradizionale, della
discussione collegiale degli argomenti all'ordine del giorno con contestuale formazione delle
proposte di delibera.
-Tutto ciò serve affinché i riferiti indirizzi, una volta approvati, vengano sottoposti al giudizio
esterno degli investitori: i quali finalmente decideranno se optare per il mantenimento o la
modifica delle proprie scelte di investimento, attraverso le decisioni sull'eventuale exit. Ed è in
questo contesto che va soprattutto enfatizzato il ruolo dei c.d. Investitori istituzionali (ossia
principalmente dei fondi comuni di investimento): i quali, in quanto grandi collettori del
risparmio privato e dunque detentori unitari di larghe quote dell’investimento in spa, sono
chiamati, nel direzionare gli investimenti loro affidati dai risparmiatori, a verificare la coerenza
tra le scelte aziendali seguite dagli emittenti e le politiche generali alle quali il regolamento del
singolo fondo stabilisce di conformare la propria gestione. Cosicché, potrebbe dirsi che

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nell'esercitare il citato ruolo di controllo di merito il mercato finisce con l'essere impersonato
dai suddetti investitori istituzionali.

b) È in secondo luogo preoccupazione sentita dai moderni legislatori, che l’efficiente


indirizzamento della domanda di investimento non sia impedito da manovre distrattive da
parte dei fiduciari (cioè dei componenti degli organi sociali, o dei soci di controllo), le quali
siano a loro volta di disturbo alla adeguata percezione da parte degli investitori del merito
dell'impresa e in questo modo ostacolino il meccanismo di corretta formazione dei prezzi di
negoziazione dei titoli. Per prevenire, così, l'effettiva possibilità del verificarsi di dette manovre,
il legislatore del TUF impone regole speciali intese al rafforzamento o un miglioramento dei
sistemi di controllo interno agli organi sociali, destinati a innescare un meccanismo di
spontaneo rispetto dei principi di lealtà dell'azione fiduciaria: in tale ottica si vedano le
previsioni circa la nomina di esponenti della minoranza sia negli organi di gestione che di
controllo, o le speciali regole sui requisiti per l’eleggibilità alle cariche sociali (artt 147-ter e ss
TUF), nonchè la disciplina sulle c.d. operazioni con parti correlate ( art 2391-bis c.c.).

c) Importanza del rafforzamento del c.d. Controllo sulla correttezza nei confronti dell'operato
degli amministratori e dell'intera struttura aziendale: il quale si concreta nella previsione sia di
regole e figura e del tutto nuove, quale il dirigente preposto alla redazione dei documenti
contabili societari o la previsione di un poderoso incremento dell'informazione finanziaria, sia
nell'ampliamento dei poteri e doveri dei consueti organi di controllo societari, sia ancora nelle
speciali norme relative all'attività di revisione contabile, soprattutto avendo riguardo al
riconoscimento di un dovere di relazione alla Consob dei fatti censurabili e dei problemi
constati in sede di giudizio sul bilancio ( art 155 TUF).

Il quadro che ne deriva è con evidenza, quello di uno speciale apparato di norme, molto articolato
complesso specie se si considera la sua minuziosa integrazione da parte dei regolamenti Consob e dalla
stessa autonomia privata ( con i c.d. codici di autodisciplina).
Ma si tratta pure di un quadro che può dirsi ancora in movimento, sicché non è difficile prevedere una
evoluzione del sistema.
Di fronte all'evidente crisi economico finanziaria importanti voci si stanno pronunciando per l'opportunità
di una revisione del modello fin qui di seguito: quali siano i contenuti di una tale revisione è forse presto
per poterlo dire.

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