Le tipologie di S.p.a.
Esistono una pluralità di varianti di S.p.a., cioè di specifiche diverse concrete manifestazioni della società:
- le società di medio-grandi dimensioni si distinguono dalle società piccole, entrambe individuate
guardando ai dati economici espressi dalle relative imprese (capitale investito o patrimonio netto, volumi
dei ricavi, esposizione finanziaria);
- le S.p.a. con composizioni sociali ampie e aperte alla partecipazione di nuovi soci si distinguono da quelle
a ristretta base familiare o comunque destinate allo svolgimento di iniziative idealmente riservate, e dunque
chiuse all’ingresso di investitori esterni;
- le società che si rivolgono ai mercati come luogo di reperimento di possibili investitori si distinguono
dalle società prive di tale connotato; inoltre tra le prime si può effettuare un’ulteriore distinzione fra le
società le cui azioni sono quotate nei mercati finanziari regolamentati e le società le cui azioni sono
negoziate al di fuori di tali contesti;
- le società con titolarità diffusa solo presso i privati infine si distinguono dalle società le cui partecipazioni
sono, interamente o parzialmente, in mano pubblica.
Queste classificazioni sono utili innanzitutto per comprendere come il modello azionario venga in concreto
utilizzato in una molteplicità di direzioni.
L’art.2325-bis enuclea la categoria delle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio come
classe di S.p.a. destinataria di una particolare disciplina, individuata dalla specifica circostanza data dal
fatto che le azioni siano quotate in mercati regolamentati o diffuse in misura rilevante.
Dunque il genere di società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio è composto da due
(fatti)specie: le società con azioni quotate in mercati regolamentati e le società con azioni diffuse fra il
pubblico in misura rilevante la nozione di quest’ultima figura si fonda su criteri dimensionali
dell’impresa e della compagine sociale: la società deve avere più di 500 soci diversi da quelli di controllo, e
che detengano complessivamente almeno il 5% del capitale.
Comunque sia può distinguersi un regime comune a tutte le S.p.a., indipendentemente dal grado di presenza
nei mercati regolamentati delle proprie azioni, e due distinti statuti speciali, uno dettato con riferimento
alle società facenti ricorso al mercato del capitale di rischio e un altro con riguardo a tutte le altre.
La società unipersonale
L’art.2328 prevede espressamente che la società possa essere costituita per atto unilaterale, dunque
superando la posizione restrittiva che in passato caratterizzava il nostro ordinamento, oggi il legislatore
ammette la possibilità di strutturare e svolgere un’attività lucrativa nella forma di una S.p.a. unilaterale
senza che ciò sia fonte di vizi dell’organizzazione o dell’insorgere di una speciale responsabilità a carico
dell’unico socio. La S.p.a. unilaterale può essere validamente costituita da un unico socio o vedere
successivamente ridotta ad un unico azionista la compagine sociale, senza che ciò provochi (come invece
accade nelle società di persone) il suo scioglimento.
La presenza di un unico azionista comporta tuttavia il gravare di specifici oneri a carico di soci e
amministratori, sia in tema di conferimenti che in ambito pubblicitario.
Dal punto di vista dei conferimenti, al contrario di quanto accade nell’ipotesi di pluralità di soci, l’azionista
è sempre obbligato a prestare da subito l’intero apporto di cui si sia impegnato con la sottoscrizione del
capitale sociale infatti l’art.2342, c.2, stabilisce che al momento della sottoscrizione dell’atto costitutivo
vada versato presso una banca tutto l’ammontare dei conferimenti in denaro (e non soltanto il 25% come
previsto per le S.p.a. pluripersonali). Nel caso invece in cui la partecipazione del socio divenga totalitaria
successivamente alla costituzione, gli eventuali versamenti ancora da effettuare dovranno essere operati
entro 90 giorni (art.2342, c.4).
Per quanto riguarda invece il regime pubblicitario, la convergenza nelle mani di un’unica persona delle
quote di partecipazione societaria, obbliga gli amministratori a rendere pubblica questa circostanza
(art.2362) col deposito nel registro delle imprese di un’apposita dichiarazione, contenente le generalità
dell’azionista stesso (nome-cognome o denominazione sociale, data-luogo di nascita o di costituzione,
domicilio o sede e cittadinanza del socio). Specularmente, quando si costituisce o ricostituisce la pluralità di
soci, gli amministratori dovranno depositare apposita dichiarazione presso il registro delle imprese (c.2).
Questi adempimenti in materia di conferimenti e di pubblicità sono molto importanti perché è rispetto ad
essi che viene applicato il regime di responsabilità esclusiva della società col proprio patrimonio sociale
per le obbligazioni insorgenti dalla propria attività l’art.2325, c.2, dispone che quando i conferimenti non
siano stati effettuati secondo quanto previsto dall’art.2342 o quando non sia stata attuata la pubblicità
prescritta dall’art.2362, in caso di insolvenza della società, per le obbligazioni sociali sorte nel periodo in
cui le azioni sono appartenute ad un'unica persona, questa ne risponde illimitatamente.
Va comunque evidenziato che la responsabilità illimitata opera nell’ipotesi di insolvenza della società,
pertanto è una responsabilità di tipo sussidiario, che insorge esclusivamente nel caso in cui la S.p.a. non
adempia le proprie obbligazioni e sempre che si riveli infruttuosa l’escussione del relativo patrimonio. È per
questa ragione che un tale gravame è destinato a farsi valere nell’ipotesi di fallimento della S.p.a. inoltre
l’art.147 l.fall. prevede che al socio in tale caso (al contrario di quanto avviene nelle società di persone) non
possa essere estesa la dichiarazione di fallimento quale conseguenza del fallimento della società.
Si stabilisce infine che in caso di contrasto tra le clausole dell’atto costitutivo e quelle dello statuto
prevalgono le seconde.
Per quanto attiene alla forma dell’atto costitutivo, sempre l’art.2328, c.2, prevede che l’atto costitutivo
debba essere redatto per atto pubblico. Tale forma è rivolta a soddisfare una duplice esigenza: certificare la
dichiarazione privata con cui viene fondata la S.p.a. e vengono destinati i conferimenti a capitale, e operare
una verifica circa l’effettiva conformità a legge della suddetta dichiarazione.
La redazione per atto pubblico implica che la notaio sia affidata una essenziale funzione di controllo, i cui
contenuti si ricavano dal divieto al notaio di ricevere atti espressamente proibiti dalla legge o
manifestamente contrari al buon costume o all’ordine pubblico.
Infine, considerando che lo statuto è parte integrante dell’atto costitutivo, bisogna sostenere che la forma
notarile debba essere osservata sia per l’atto costitutivo che per lo statuto.
e, nell’inerzia di entrambi (punita con sanzione amministrativa pecuniaria), tale formalità può effettuarsi da
parte di ogni socio a spese della società. Contestualmente al deposito si dovrà presentare la richiesta di
iscrizione, su cui l’ufficio del registro effettua un mero controllo di “regolarità formale della
documentazione”: ove l’esito risulterà positivo, l’ufficio iscriverà la società nel registro.
Con l’iscrizione nel registro delle imprese, come sancisce l’art.2331, la società acquista la personalità
giuridica, nel senso che diviene soggetto di diritto distinto dai soci e gode perciò di una piena e perfetta
autonomia patrimoniale (a differenza di quanto avviene nelle società di persone non è ipotizzabile una S.p.a.
irregolare, cioè priva di iscrizione): l’atto costitutivo e lo statuto divengono efficaci solo in questo
momento! Dunque l’ordinamento attribuisce alla pubblicità efficacia costitutiva, determinante per la
produzione degli effetti dell’atto.
È proprio in considerazione del necessario acquisto della capacità giuridica per entrare in contatto con i terzi
che è previsto un divieto di emettere azioni prima dell’iscrizione si esclude cioè la possibilità di creare
strumenti giuridici (le azioni) suscettibili di attribuire, ai relativi titolari, poteri la cui stessa configurazione
dipende dalle regole non ancora operative di una data organizzazione.
Può succedere tuttavia che tra la stipula dell’atto costitutivo e l’iscrizione della società nel registro delle
imprese intercorra un periodo di tempo, e che in tale periodo vengano compiute determinate operazioni
perciò vi è da capire quali siano gli effetti che la stipula dell’atto costitutivo sia in grado di produrre nel
periodo antecedente l’iscrizione.
Innanzitutto dalla citata stipula discende un irrevocabile vincolo dei sottoscrittori ai conferimenti (per quelli
in denaro almeno il 25% depositato presso un c/c bancario e per i beni in natura, la regola di immediata
liberazione degli stessi rende necessario un concreto programma di custodia e conservazione degli apporti):
vincolo che potrà sciogliersi, col diritto dei sottoscrittori alla restituzione delle somme versate, solo se entro
90 giorni dalla redazione dell’atto costitutivo l’iscrizione non abbia avuto luogo.
Per quanto riguarda le operazioni compiute in nome della costituente società prima dell’iscrizione sono
illimitatamente responsabili verso i terzi coloro che hanno agito; ad essi si aggiunge poi quella del socio
unico fondatore ed, in caso di pluralità di soci fondatori, i soci che hanno deciso, autorizzato o consentito il
compimento dell’operazione (art.2331, c.2). Per quanto riguarda invece la futura imputabilità della società,
una volta costituita, il 3° comma si limita a precisare che la società sarà responsabile quando, in seguito
all’iscrizione, abbia approvato un’operazione compiuta precedentemente a tale momento, essendo in tal
caso tenuta a rilevare coloro che hanno agito. Lo stesso obbligo, stando all’art.2338, la società lo assume
nei confronti dei promotori, in relazione alle spese da essi sostenute, sempre che siano state necessarie per la
costituzione dell’assemblea (perciò, anche qui, qualora siano state da essa approvate).
A tal fine è il notaio che ha provveduto alla verbalizzazione della decisione a dover richiedere questa
iscrizione, mediante il deposito dell’atto e allegando le eventuali autorizzazioni richieste. Tuttavia, sempre
similmente a quanto accade in fase di costituzione, questi, prima del deposito, è tenuto a verificare
“l’adempimento delle condizioni stabilite dalla legge” ciò significa che egli deve operare un controllo
sul rispetto delle norme, in linea con quello che si è detto incombere su di lui in relazione all’atto
costitutivo.
Se la verifica del notaio dà esito negativo, costui ne deve dare tempestiva comunicazione (max 30 giorni
dopo la verbalizzazione della delibera) agli amministratori, i quali a loro volta avranno altri 30 giorni per
scegliere: se convocare l’assemblea per valutare l’eventualità di assumere una nuova decisione che raccolga
e superi le segnalazioni critiche operate dal notaio, se ricorrere al tribunale affinché sia esso a ordinare (al
termine del cd procedimento di omologazione) l’iscrizione nel registro delle imprese con decreto soggetto
a reclamo, oppure se omettere di fare alcunché in modo che trascorsi i 30 giorni dalla comunicazione la
deliberazione divenga definitivamente inefficace.
Qualora l’esito del controllo notarile o giudiziale sia positivo, l’ufficio del registro delle imprese procederà
all’iscrizione.
Detto ciò, l’esigenza di certezza dell’azione sociale non comporta, tuttavia, che una S.p.a. nulla possa
continuare tranquillamente la sua attività. Ma siccome non può immaginarsi, in coerenza con il riferito
principio di irretroattività, una semplice scomparsa dell’organizzazione in precedenza eretta, il legislatore
dispone che una reazione adeguata al manifestarsi dell’eventuale nullità sia rappresentata dalla liquidazione
si prevede così che la sentenza che dichiara la nullità nomina i liquidatori: sicché di fatto la nullità
finisce con l’affiancarsi alle ipotesi previste dall’art.2484 quale motivo di scioglimento del rapporto sociale
e conseguente estinzione della S.p.a.
La S.p.a. nulla è da considerare invece soggetta ai principi e alle regole generali sulla nullità contrattuale per
quegli aspetti su cui la disciplina dell’art.2332 non interviene. Così è senz’altro applicabile all’azione di
nullità della S.p.a. la regola che ne stabilisce l’imprescrittibilità e, del pari, è da ritenere che anche la
legittimazione all’azione di nullità competa a chiunque vi abbia interesse (chiaramente chi ha un concreto
interesse qualificato, cioè colui che sia titolare di una situazione giuridica soggettiva, il cui pieno
soddisfacimento sia per una qualche ragione impedito od ostacolato dall’esistenza della S.p.a. invalida).
Invece, per quanto riguarda la nullità parziale, laddove si consti che solo una clausola statutaria sia viziata,
l’art.2332 impedisce che la sua invalidità possa provocare conseguenze nei riguardi dell’atto costitutivo
nella sua interezza e dunque la nullità della società in quanto tale. Perciò la contrarietà all’ordinamento
giuridico rende la clausola in questione senz’altro nulla, sì che sarà possibile agire per ottenere una
pronuncia di invalidità parziale dello statuto, cioè limitatamente a detta clausola.
I patti parasociali
I patti parasociali sono negozi, stipulati tra i soci (non necessariamente fra tutti), che impongono a se
stessi determinati vincoli in relazione all’esercizio dei poteri amministrativi (specie nel voto) o limiti alla
libera facoltà di disporre delle azioni.
È vero che i soci definiscono le concrete modalità di realizzazione dell’interesse sociale con la redazione
dello statuto, e da questo punto di vista è oggetto di regolamentazione anche la posizione dell’azionista in
quanto socio attraverso la disciplina dell’insieme dei diritti che possono dirsi “formare” la partecipazione
sociale. Tuttavia è ipotizzabile che gli azionisti abbiano interesse a definire i vincoli del proprio
comportamento in società per meglio coordinare la propria azione e assicurarsi così reciprocamente in modo
più efficace la salvaguardia dell’interesse proprietario alla conservazione e valorizzazione dell’investimento
azionario proprio in vista di questo interesse sono diffusi da lungo tempo nella prassi accordi che si
affiancano allo statuto nella regolamentazione delle posizioni degli azionisti e che, proprio perché
presuppongono la qualità di socio dei soggetti che vi partecipano, sono chiamati patti parasociali.
La causa di tali negozi non può definirsi “societaria”, non avendo come obiettivo il perseguimento del tipico
scopo associativo della produzione e distribuzione dell’utile, bensì la protezione dell’investimento operato
nella S.p.a. da ciascuno dei paciscenti, contro i pericoli che a quell’investimento potrebbero derivare dal
libero esercizio delle prerogative sociali da parte degli altri.
Dalla natura extrasociale di questi patti deriva che essi producono effetti di carattere obbligatorio tra le
parti, mentre ne viene esclusa l’idoneità a incidere nei confronti delle regole organizzative della S.p.a.
perciò la violazione degli accordi in parola va trattata come un normale inadempimento contrattuale, con la
conseguenza di condurre al risarcimento danni eventualmente procurati alla controparte, ma mai alla
invalidità di atti della società. Pertanto qualora uno dei soci aderenti al patto votasse in modo differente da
quanto si è obbligato a fare, la delibera assembleare sarebbe in ogni caso valida, anche se il suo voto fosse
stato determinante; se egli cedesse le proprie azioni in violazione dell’impegno a non trasferirle a terzi, la
cessione sarebbe valida ed efficace nei confronti della società e l’acquirente ne diverrebbe in ogni caso socio.
Inoltre si pone il problema di stabilire se ed entro quale misura l’influenza dei patti parasociali sulla attività
sociale possa essere consentita considerando che, in ragione della connotazione extrasociale di tali accordi, il
diritto societario non se ne occupa centralmente. La questione si è posta storicamente con riguardo ai
sindacati di voto, cioè ai patti aventi ad oggetto l’esercizio del voto da parte dell’azionista, specie quelli che
impegnano ciascun socio contraente a votare secondo la decisione della maggioranza dei partecipanti
all’accordo. La stipula di questi negozi è stata in passato giudicata da alcuni, poiché potenzialmente idonea
ad alterare le dinamiche assembleari, come contrastante con le regole imperative di funzionamento della
S.p.a. Dopo un intenso dibattito che aveva visto contrapporsi sul punto opposte posizioni, il legislatore (in
passato silente sul tema) ha finito col prendere esplicita posizione in favore della generale validità degli
accordi parasociali inserendo nel codice gli artt. 2341-bis e 2341-ter.
L’art.2341-bis considera rilevanti ai fini della relativa disciplina non tutti i patti incidenti sull’esercizio dei
diritti del socio ma unicamente quelli aventi un dato oggetto e determinate finalità. La disposizione si
applica infatti agli accordi che:
a) hanno per oggetto l’esercizio del diritto di voto nelle S.p.a. o nelle società che le controllano;
b) pongono limiti al trasferimento delle relative azioni o delle partecipazioni in società che le controllano;
c) hanno per oggetto o per effetto l’esercizio anche congiunto di un’influenza dominante su tali società.
Ciò premesso, la norma stabilisce che essi non possono avere durata superiore a 5 anni e si intendono
stipulati per tale durata anche se le parti hanno previsto un termine maggiore, laddove invece non sia del
tutto previsto un termine finale all’accordo, è disposto che ciascun socio possa recedervi con un preavviso di
180 giorni.
L’art.2341-ter si occupa invece della pubblicità dei patti parasociali, ove riguardino società che fanno
ricorso al mercato del capitale di rischio: è previsto che i patti devono essere comunicati alla società e
dichiarati in apertura di ogni assemblea con obbligo della trascrizione della dichiarazione verbale e relativo
deposito presso il registro delle imprese.
LA STRUTTURA FINANZIARIA
Il capitale sociale
Con “capitale sociale” si intende l’insieme dei mezzi originariamente prestati dai soci e stabilmente
destinati dalla società allo svolgimento dell’attività produttiva che costituisce l’oggetto sociale.
Questo concetto riguarda:
- in primo luogo, un fatto è capitale sociale ciò che è stato effettivamente prestato dai soci e così posto a
disposizione dell’attività comune. Infatti l’art.2329 prevede quale condizione per la stessa costituzione
della S.p.a. che il capitale sia integralmente sottoscritto, cioè che i soci abbiano assunto l’impegno ad
effettuare i conferimenti in misura pari alla cifra che si intende raggiungere quale capitale. Da questo punto
di vista la cifra del capitale sociale esprime un dato storico, e consente di raffrontare in ogni momento il
finanziamento operato dai soci in via stabile e strutturale (cd capitale di rischio);
- in secondo luogo, nelle S.p.a. il riferito concetto di una stabile destinazione di risorse all’attività sociale è
legato a una regola all’originaria sottoscrizione del capitale sociale corrisponde anche un vincolo della
società al mantenimento nel corso del tempo del capitale sociale sottoscritto.
La previsione dell’adozione di un dato capitale sociale avviene con una clausola statutaria e ne consegue la
cd fissità del capitale sociale, cioè la sua tendenziale invariabilità nel tempo (infatti perché sia modificata la
cifra del capitale sociale non basta un’ordinaria decisione di tipo gestorio ma occorre che si proceda ad una
formale modifica dello statuto).
Inoltre dalla regola della fissità del capitale discende un rigoroso vincolo di non distribuzione presso gli
azionisti di risorse in misura corrispondente, che si manifesta principalmente:
a) nel divieto di ripartizione degli utili in caso di perdita del capitale sociale, fino a che il capitale non sia
reintegrato o ridotto in misura corrispondente;
b) nella previsione secondo cui la restituzione dei conferimenti ai soci e la conseguente riduzione “reale” del
capitale sociale non è libera, ma è condizionata a un giudizio sulla concreta sostenibilità dell’operazione
da parte della società, affidato in prima battuta ai creditori ma suscettibile di essere ulteriormente devoluto
al tribunale.
Nelle S.p.a. la scelta del capitale sociale da sottoscrivere non è pienamente libera: l’art.2327 prevede che la
S.p.a. debba costituirsi con un capitale non inferiore ai 50.000 € (cd capitale minimo). Questa soglia è
stata peraltro stabilita di recente dal decreto competitività del 2014 che, all’evidente fine di favorire la
nascita di nuove società per azioni (o la trasformazione in tali di iniziative imprenditoriali aventi diversa
forma), ha di molto abbassato il precedente limite, che fissava in 120.000 € la misura minima del capitale.
Pur non essendo contemplata tra le ipotesi la cui violazione determina la nullità della società, è sicuro che il
notaio non possa procedere alla stipula dell’atto costitutivo laddove verifichi che il capitale sottoscritto sia
inferiore a questa soglia. La previsione del capitale minimo è poi vincolante anche in seguito alla
costituzione della S.p.a. lungo tutto il corso dell’esistenza dell’ente infatti il capitale sociale non può mai
ridursi al di sotto della misura indicata dall’art.2327, pena lo scioglimento laddove non si provveda secondo
quanto stabilito dall’art.2447 (norma che di fronte a tale eventualità consente la continuazione dell’attività
sociale solo qualora, alternativamente, si decida di ricostituire la provvista di capitale nella misura minima,
oppure si opti per la trasformazione della società in un tipo “minore”).
Dunque si prevede anzitutto che «se nell’atto costitutivo non è stabilito diversamente, il conferimento deve
farsi in denaro». Tuttavia la legge autorizza una deviazione da tale regola (dichiarando ammissibili
conferimenti diversi dal denaro) subordinandola al consenso dei soci espresso originariamente nell’atto
costitutivo o, in seguito, nella delibera di aumento del capitale sociale mediante conferimenti in natura.
L’art.2342 richiede che ¼ dei conferimenti in denaro (o l’intero ammontare in caso di società
unipersonale) debba essere versato dai soci presso una banca immediatamente alla sottoscrizione dell’atto
costitutivo, così prevedendo che la società disponga da subito di una parte dei mezzi ad essa destinati per
poter provvedere alle esigenze minime di start-up e ottenere una sorta di impiego cauzionale da parte dei
soci per garantire la serietà del loro coinvolgimento nell’iniziativa comune.
Questa limitazione al 25% del conferimento evita di costringere gli azionisti a un’immobilizzazione dei
propri risparmi che potrebbe in concreto rivelarsi prematura è normale che la società programmi una
graduale realizzazione nel tempo degli investimenti programmati e dunque spetta agli amministratori
richiedere ai soci la prestazione dei versamenti residui nel momento in cui l’esigenza finanziaria della
società divenga attuale.
Se a questo punto il socio si rende inadempiente la società ha a disposizione un rimedio speciale in
alternativa a quelli ordinariamente spettanti al creditore per ottenere l’adempimento coattivo da parte del
debitore: ai sensi dell’art.2344, decorsi 15 giorni dalla pubblicazione di una diffida sulla Gazzetta Ufficiale,
gli amministratori possono offrire le azioni ancora non liberate, prima agli altri soci, poi nel mercato, e in
mancanza di compratori il socio può essere dichiarato decaduto, trattenendo la società le somme già riscosse
(e salva la richiesta di maggiori danni). Tale ipotesi rappresenta l’unico caso di esclusione del socio
previsto dalla legge per le S.p.a. come visto, essa non presuppone una decisione degli altri soci, ma
l’espletamento di una procedura a cura degli amministratori. Peraltro, già durante la pendenza della stessa, il
socio inadempiente perde la possibilità di incidere nell’attività sociale, essendo stabilito che “il socio in
mora nei versamenti non può esercitare il diritto di voto”.
Per quanto riguarda invece i conferimenti diversi dal denaro, il legislatore vuole assicurare che il capitale
sociale, in sede di sua formazione, sia certo nel “se” e nel “quanto”, stabilendo: in primo luogo che la società
consegua la sicurezza della disponibilità delle prestazioni promesse a copertura del capitale sociale, in
modo che l’oggetto di tali prestazioni possa realmente essere considerato tra le risorse concretamente
utilizzabili nell’ambito dell’attività sociale ; in secondo luogo che il valore di tali risorse sia pari alla quota
di capitale sociale individualmente assunta dal conferente.
- al primo principio, di effettività “in senso stretto”, l’art.2342, c.3, stabilisce che le azioni corrispondenti ai
conferimenti di beni in natura e di crediti “devono essere integralmente liberate all’atto della
sottoscrizione” questa esigenza corrisponde non tanto all’acquisizione immediata di tutte le utilità della
cosa conferita, bensì all’assunzione da parte degli amministratori della sicura e irrevocabile disponibilità
della fonte produttiva di tali utilità, di modo che l’eventualità di una loro futura acquisizione non dipenda
da fattori esterni alla società. È per questo che deve ritenersi ammissibile il conferimento di un bene non
solo in proprietà ma anche in godimento (conferimento di un diritto reale o personale di godimento su un
bene immobile, conferimento della licenza d’uso di un marchio): l’esecuzione immediata della prestazione
consisterà nel mettere materialmente a disposizione della società il bene, anche se poi le utilità d’uso
verranno percepite dalla medesima nel corso del tempo.
Inoltre, sempre in funzione della “effettività in senso stretto” è da ritenere essere dettato il divieto previsto
dall’art.2342, c.5, ai sensi del quale “non possono (invece) formare oggetto di conferimento le prestazioni
di opera o di servizi”: infatti il concorso di tali prestazioni alla formazione del capitale non è impedito
dalla difficoltà di una loro valutazione, bensì dalla naturale inidoneità delle medesime a fornire agli
amministratori quel controllo del fattore di produzione rappresentato dal singolo conferimento, che la sua
“imputazione a capitale” in via astratta presuppone.
- a soddisfare l’esigenza di integrità del capitale è invece dedicato l’art.2343, che stabilisce che l’emissione
e la consegna di azioni a fronte del conferimento di beni in natura o di crediti avvengono solo a seguito di
un complesso procedimento, che prevede:
a) l’allegazione all’atto costitutivo di una relazione giurata di un esperto indipendente, “nominato dal
tribunale nel cui circondario ha sede la società”, contenente la stima del valore del bene o del credito
apportati;
b) il successivo controllo di tale stima (nei 180 giorni dall’iscrizione della società nel registro delle
imprese) da parte degli amministratori;
c) la proporzionale riduzione del capitale sociale nell’ipotesi in cui da una revisione degli amministratori
risulti che “il valore dei beni o crediti conferiti era inferiore di oltre un quinto a quello per cui avvenne il
conferimento”, a meno che il conferente non decida di integrare con versamento in denaro la propria
prestazione o di recedere del tutto dalla società (in quest’ultima soluzione è peraltro stabilito che egli
abbia diritto alla restituzione del conferimento solo qualora sia possibile in tutto o in parte in natura).
Il procedimento di stima previsto dall’art.2343 impone ai soci un vincolo costoso, per questo motivo sono
previste alcune ipotesi in cui il conferimento in natura possa essere realizzato, pur sempre nel rispetto delle
esigenze di effettività del capitale, ma senza che vi sia la necessità del deposito della stima da parte del
perito nominato dal tribunale secondo l’art.2343-ter la perizia non è necessaria quando il valore attribuito
al conferimento in natura, ai fini della determinazione del capitale sociale e dell’eventuale soprapprezzo, è:
i. (per i titoli quotati nel mercato di capitali – azioni ed obbligazioni – e per gli strumenti quotati nel
mercato monetario – titoli di debito pubblico e certificati di deposito) pari o inferiore al prezzo medio
ponderato al quale tali strumenti finanziari sono stati negoziati nei 6 mesi precedenti il conferimento;
ii. (per i beni ed i crediti) corrispondente al fair value (valore di scambio del bene o del credito) iscritto nel
bilancio dell’esercizio precedente a quello nel quale è effettuato il conferimento;
iii. (per tutti gli altri beni per i quali è ammesso il conferimento) pari od inferiore ad una valutazione
operata da un esperto indipendente e dotato di adeguata e comprovata professionalità, non più di 6
mesi prima del conferimento e conforme ai principi e criteri generalmente riconosciuti per la
valutazione dei beni oggetto del conferimento.
L’art.2343-quater stabilisce poi che gli amministratori devono verificare, entro 30 giorni dall’iscrizione
della società nel registro delle imprese, che non siano intervenuti fatti eccezionali o fatti nuovi che abbiano
inciso sul valore del conferimento; nel caso tali fatti si siano verificati o si consti che l’esperto non possieda i
detti requisiti, occorrerà far luogo ad una ordinaria valutazione secondo le regole generali dell’art.2343.
Non è raro che le parti pongano in essere escamotage diretti a evitare l’effettivo versamento del capitale
sociale nella prassi non è raro che l’impegno a conferire denaro venga assunto, a volte, solo
“nominalmente” dal sottoscrittore, che concorda con la società di non effettuare in tutto o in parte il proprio
conferimento, decidendosi di operare una compensazione tra il debito che sorge dalla sottoscrizione e un
credito che viene fatto derivare in capo al medesimo sottoscrittore da un altro negozio, appositamente
stipulato tra questi e la società (contratto di vendita, di fornitura, d’opera, ecc.). In tal modo il sottoscrittore
eseguirà una prestazione avente oggetto diverso dal denaro senza rispettare i vincoli posti dagli artt.2342-
2343, aggirando così le regole di legge.
Detto ciò, un tale aggiramento è dalla legge scongiurato, in quanto l’art.2343-bis prescrive che, ove un tale
acquisto intervenga nei 2 anni dall’iscrizione della S.p.a., a fronte di un corrispettivo pari almeno al decimo
del capitale sociale, e riguardi beni/crediti di promotori-fondatori-soci-amministratori, si operi come segue:
a) l’acquisto debba essere autorizzato dall’assemblea;
b) ai soci debba essere messa a disposizione una stima del bene da acquistare o la documentazione
comprovante la sussistenza di ipotesi di esenzione dalla stima;
c) il verbale dell’assemblea debba essere depositato e iscritto presso il registro delle imprese a cura degli
amministratori.
Dunque l’acquisto è consentito ma viene assistito da cautele che mirano a renderlo non suscettibile di
procurare il cd annacquamento del capitale sociale.
Comunque sia non tutti gli acquisti sono soggetti a tale normativa: sono esclusi gli acquisti effettuati a
condizioni normali nell’ambito delle operazione correnti della società, quelli operati sotto il controllo
dell’autorità giudiziaria o amministrativa, quelli intervenuti nei mercati regolamentati.
Sul piano delle conseguenze dell’eventuale mancato rispetto della previsione appena riferita, la violazione
della procedura di legge comporta la solidale responsabilità di amministratori e alienante per i danni
causati alla società, i soci e i terzi.
- LE AZIONI -
Nozione e caratteri
Ai sensi dell’art.2346, “la partecipazione sociale è rappresentata da azioni”. Tale previsione contiene tre
distinti precetti:
a) l’assegnazione di azioni attesta e misura la partecipazione al capitale sociale di ciascun socio;
b) dal numero e dal tipo di azioni assegnate discendono peso e caratteri della partecipazione all’attività
sociale;
c) il possesso o la disponibilità delle azioni, intese come titoli azionari, condizionano l’acquisto e l’esercizio
dei diritti partecipativi.
Dunque, in tali affermazioni, al termine “azioni” viene dato un significato ogni volta diverso: nel primo caso,
di partizioni del capitale sociale, nel secondo di insieme di situazioni giuridiche soggettive, nel terzo di
documenti destinati all’esercizio di quelle posizioni.
Guardando al primo profilo, col prevedere che le azioni “rappresentano” la partecipazione dei soci nella
società, si affida ad esse prima di tutto il compito di certificare formalmente (e cristallizzare) il contributo
del socio al capitale sociale. È così che le azioni indicano in che misura la collettività dei soci valuta il
conferimento apportato dal singolo in termini di risorsa finanziaria produttiva.
Ad es. un capitale sociale di € 60.000 viene suddiviso in 60 azioni (ogni azione vale 1.000 € unità
minima di apporto finanziario) e ad un socio vengono assegnate 20 azioni a fronte del suo conferimento:
ciò indica che tale conferimento è stato valutato 20.000 €.
L’unità minima di apporto finanziario, predeterminata nello statuto, consente ai singoli investitori di
modulare liberamente la propria partecipazione al programma sociale e impone di considerare le
partecipazioni del tutto fungibili l’una alle altre sul piano dell’esercizio dell’attività d’impresa in tal
modo si attua il principio della essenziale spersonalizzazione della partecipazione, reso efficacemente
con la tradizionale affermazione secondo cui le S.p.a. sono, non comunità di persone, ma unioni di “sacchi
di denaro”, in cui a rilevare sul piano della relazione tra gli associati è il valore monetario del contributo del
singolo se rapportato all’intera dotazione di capitale di rischio.
Per valore nominale delle azioni si intende la parte della dotazione di capitale di rischio che deve
considerarsi espressa dalla singola azione. Se le azioni attestano l’avvenuta sottoscrizione di frazioni del
capitale sociale, il loro valore nominale si esplicita nella formula [cap.soc / num.azioni]. Si tratta perciò di
un valore che deve necessariamente corrispondere alla divisione della cifra del capitale sociale per il numero
delle azioni emesse (nell’esempio prima citato dunque sarà 60.000 / 60 = 1.000). Il valore nominale ha un
fondamentale rilievo organizzativo sul piano dei rapporti tra la S.p.a. e i singoli azionisti: misura i diritti
spettanti a ciascuno di essi, diritti che competono appunto in proporzione alle azioni possedute, in quanto
rappresentative di una porzione predeterminata del capitale sociale.
Il valore nominale delle azioni rappresenta dunque un dato formale, esprimendo in termini monetari l’unità
minima di investimento. Pertanto, in nessun modo questa espressione si deve intendere significativa di un
altro valore rappresentato dalle azioni: il valore reale esso dipende dal valore del patrimonio netto
concretamente presente nella S.p.a. in un dato momento storico. Perciò è dato dalla divisione del valore del
patrimonio aziendale per il numero delle azioni emesse, mutando nel tempo al mutare di tale patrimonio
[patr.netto / num.azioni].
Sempre l’art.2346 consente tuttavia che una determinazione nello statuto del valore nominale delle azioni
manchi cosicché ove in effetti non compaia la relativa clausola nel corpo dell’atto costitutivo, si avrà una
S.p.a. con azioni senza valore nominale (anzi, non tanto “senza valore nominale”, bensì “senza indicazione
del valore nominale”). Infatti in tal caso lo statuo deve indicare solo il capitale sottoscritto ed il numero delle
azioni emesse, dunque la partecipazione al capitale del singolo azionista sarà espressa non in cifra monetaria
ma in una percentuale del numero complessivo delle azioni emesse ad es. il capitale sociale di € 60.000 è
diviso in 60 azioni, e l’azionista che ha sottoscritto 20 azioni sarà titolare del 33,3% del capitale sociale, e
quindi del 33,3% dei diritti di voto e del diritto agli utili.
Invece nelle azioni con valore nominale lo statuto deve specificare non solo il capitale sottoscritto e il
numero delle azioni, ma anche il loro valore nominale così ad es. il capitale sottoscritto di € 60.000, potrà
essere diviso in 60 azioni da 1.000 € ciascuna. Il valore nominale delle azioni resta invariato nel tempo e può
essere modificato solo con una modifica dell’atto costitutivo, dando luogo ad un ulteriore frazionamento o al
raggruppamento delle azioni.
Per tutte le azioni (con e senza valore nominale) vale la regola che in nessun caso il valore complessivo dei
conferimenti può essere inferiore all’ammontare complessivo del capitale sociale. Il che comporta che le
azioni non possono essere complessivamente emesse per una somma inferiore al loro valore nominale,
evitando così che il capitale realmente conferito dai soci sia inferiore a quello dichiarato. Le azioni possono
invece essere emesse per una somma superiore al loro valore nominale (emissione con soprapprezzo).
Ai sensi dell’art.2354, il valore nominale delle azioni o, per il caso di azioni senza valore nominale, “il
numero complessivo delle azioni emesse, nonché l’ammontare del capitale sociale” devono essere indicati
nei titoli azionari eventualmente emessi dalla società. La formalità è funzionale a far conoscere al
sottoscrittore il peso proporzionale della partecipazione assunta in rapporto al capitale complessivo, ma
implica un gravoso onere di correzione del titolo da parte degli amministratori in ogni caso in cui i dati in
parola dovessero divenire non più attuali (aumento o riduzione del capitale nominale).
legislatore riconosce un potere in tal senso anche agli amministratori, prevedendo che la decisione circa
l’aumento di capitale possa essere loro delegata in alcuni casi, stabili dall’art.2443, cioè: attraverso una
previsione statutaria inserita originariamente nell’atto costitutivo o con una modifica successiva, oppure
fino ad un ammontare predeterminato nella clausola statutaria di delega, o ancora per il periodo massimo
di 5 anni dalla data dell’iscrizione della società nel registro delle imprese in tal modo il codice si apre
al sistema del cd “capitale autorizzato”, sistema per cui, in materia di struttura finanziaria, all’assemblea
spetta unicamente il ruolo di predeterminare l’importo massimo dell’investimento da destinare a una data
iniziativa, affidando invece agli amministratori il compito di individuare la misura concreta del capitale di
rischio di cui dotare la società in considerazione della situazione del mercato.
Nell’aumento di capitale sociale tramite nuovi conferimenti la delibera non è sufficiente per il mutamento
della cifra del capitale sociale in quanto devono intervenire anche nuove sottoscrizioni, cioè dichiarazioni
negoziali degli investitori con le quali vengono espressi impegni a conferire il denaro o gli altri beni
necessari a coprire il capitale nominale aggiuntivo pertanto è corretto dire che l’adozione del nuovo
capitale e la creazione delle nuove azioni si perfeziona con la raccolta, da parte degli amministratori,
delle sottoscrizioni. Inoltre il legislatore prevede che con la delibera di aumento del capitale vada anche
determinato il termine finale entro il quale devono intervenire le sottoscrizioni infatti qualora allo
scadere di quel termine il capitale raccolto sia inferiore al deliberato, l’aumento di capitale non può avere
luogo nemmeno in parte e i sottoscrittori sono liberati dal vincolo assunto.
Dunque è da ritenere che la precisazione del termine massimo per la raccolta delle nuove adesioni sia un
elemento essenziale della delibera di aumento di capitale!
c) sempre durante il corso dell’attività sociale ma operando un’emissione azionaria a prescindere dalla
raccolta di nuove risorse, dunque prevedendo che le azioni vengano assegnate “gratuitamente” a chi ne
sarà titolare (detto anche aumento di capitale “gratuito” o “nominale”) l’aumento di capitale gratuito
consiste in una mera operazione contabile di imputazione a capitale (= di assoggettamento alla disciplina
del capitale) di valori patrimoniali già presenti in società (riserve disponibili o utili) senza incremento,
perciò, del patrimonio della stessa. Anche in tale fattispecie la decisione della società di modificare la
clausola originaria concernente il capitale sociale è motivata da una volontà di adeguamento delle risorse
stabilmente destinate all’attività ai suoi maggiori volumi effettivi ovvero da un piano di sviluppo della
medesima attività, ma, condizione necessaria perché si possa programmare un tale aumento di capitale
sociale, è che la società già possieda “fondi propri” in misura superiore rispetto a quelli corrispondenti
all’importo del capitale sociale precedentemente stabilito, e detenga detta porzione esuberante di risorse
quali fondi “disponibili” e cioè non vincolati rigidamente per legge a un determinato utilizzo. Con la
decisione di aumento di capitale cessa allora tale situazione di “disponibilità” le risorse in questione
vengono sottoposte alla regola vincolistica del capitale, cioè esse perdono il connotato della disponibilità
e vengono assoggettate al precetto, assistito da sanzione penale ex art.2626 (reclusione fino a 1 anno),
della non restituibilità, tipica del “capitale sociale”.
L’aumento di capitale gratuito è previsto dall’art.2442, secondo cui «l’assemblea può aumentare il
capitale, imputando a capitale le riserve e gli altri fondi iscritti in bilancio in quanto disponibili»
l’operazione dunque si concreta, in primo luogo, in una deliberazione dell’assemblea straordinaria
modificativa dello statuto, con cui si decide di imputare a capitale risorse patrimoniali che la società ha
già acquisito, e fino a quel momento detenuto quali fondi disponibili; in secondo luogo, l’operazione può
(ma non deve) concretarsi nell’emissione di nuove azioni: infatti il 2° comma dispone che in una tale
evenienza dette azioni «devono avere le stesse caratteristiche di quelle in circolazione, e devono essere
assegnate gratuitamente agli azionisti in proporzione di quelle da essi già possedute» dunque non può
immaginarsi un aumento di capitale nominale che determini un’alterazione delle precedenti quote di
partecipazione all’organizzazione, ne può immaginarsi che i soci sopportino un sacrificio economico per
ottenere l’assegnazione di nuove azioni. L’unico caso previsto nel codice civile in cui un’alterazione del
precedente assetto partecipativo al capitale sociale può prodursi è quello previsto dall’art.2349, ai sensi
del quale “se lo statuto lo prevede, l’assemblea straordinaria può deliberare l’assegnazione di utili ai
prestatori di lavoro dipendenti delle società o società controllate mediante l’emissione, per un
ammontare corrispondente agli utili stessi, di speciali categorie di azioni da assegnare individualmente ai
prestatori di lavoro, con norme particolari riguardo alla forma, al modo di trasferimento ed ai diritti
spettanti agli azionisti”. Si tratta di una norma eccezionale, ispirata a favorire il cd azionariato dei
dipendenti un sistema di determinazione di un premio di quest’ultimi, che si traduce in una parallela
incentivazione del legame fiduciario tra i medesimi e la società, con potenziali effetti positivi nei
confronti dei risultati sociali.
Alternativamente all’emissione di nuove azioni, l’aumento di capitale gratuito può attuarsi anche
“mediante aumento del valore nominale delle azioni in circolazione” (art.2442, c.3).
Per quanto riguarda la disciplina dell’apporto del nuovo “capitale reale”, il codice si preoccupa di dettare
una serie di regole, rivolte ad assicurare l’effettività del capitale attraverso specifiche previsioni, in parte
analoghe a quelle previste in sede di costituzione per i conferimenti.
i) È vietata la realizzazione di un aumento di capitale fino a quando non consti l’integrale liberazione delle
azioni precedentemente emesse è incoerente agli occhi del legislatore che si provveda a raccogliere nuova
finanza in un momento in cui una parte del finanziamento di cui la società abbia già diritto non sia stata
ancora riscossa, anche se nulla vieta di solo programmare la nuova raccolta di capitale prima del
completamento dell’operazione di riscossione della vecchia.
ii) In caso di conferimento in denaro, il 25% di questi deve essere versato all’atto della sottoscrizione.
iii) Le azioni di nuova emissione si devono liberare tramite conferimenti in denaro, a meno che si stabilisca
espressamente di accettare dai nuovi sottoscrittori apporti in natura ed una tale decisione compete
all’assemblea straordinaria è evidente che anche in occasione dell’aumento di capitale permane la
necessità di garantire il rispetto del principio di effettività.
Il diritto di opzione
Come abbiamo visto, l’aumento di capitale sociale tramite nuovi conferimenti può alterare le precedenti
percentuali di partecipazione nella società degli azionisti. Infatti aumentando il numero delle azioni in
circolazione, aumenta la misura complessiva delle azioni su cui si andrà a calcolare le percentuali
partecipative di ciascun socio, e laddove accada che i nuovi obblighi di conferimento vengano assunti da
terzi o in modo non proporzionale dai precedenti soci, la misura complessiva dei rispettivi diritti e obblighi
varierà in corrispondenza dell’assetto derivante dalle nuove sottoscrizioni.
Il mutamento dei precedenti equilibri partecipativi è possibile fonte di pregiudizi degli interessi individuali
dei soci, in quanto la maggioranza potrebbe in tal modo approfittarne per diluire il peso di presenze avvertite
come “scomode”; inoltre un’alterazione non concordata della precedente distribuzione delle partecipazioni
può rilevare sotto il profilo dell’interesse della società all’efficienza della propria azione, in quanto tale
alterazione può cambiare i precedenti equilibri di governo aumentando la conflittualità tra azionisti.
Per queste ragioni il legislatore ha previsto il cd diritto di opzione art.2441: «Le azioni di nuova
emissione e le obbligazioni convertibili in azioni devono essere offerte in opzione ai soci in proporzione al
numero delle azioni possedute» in questo modo si impedisce agli amministratori il discrezionale (o
arbitrario) indirizzamento dell’offerta di sottoscrizione poiché il mantenimento della precedente quota di
capitale sociale del singolo socio viene fatto dipendere unicamente dalla sua decisione di accettare o meno
l’offerta rivoltagli dagli amministratori stessi; ovviamente, per poter mantenere tale quota, il socio dovrà
affrontare l’onere di incrementare il proprio investimento in società.
Per assicurare il rispetto del diritto di opzione dei soci, la legge predetermina il procedimento di raccolta
delle nuove sottoscrizioni: l’offerta societaria va pubblicata dagli amministratori nel registro delle imprese
(in via separata dalla delibera di aumento di capitale) e contestualmente resa nota attraverso un avviso
pubblicato sul sito internet della società, inoltre dal momento di questa pubblicazione decorre un termine, da
precisare nell’offerta medesima, non inferiore a 15 giorni.
Poi il legislatore stabilisce che le azioni cd inoptate (cioè quelle che rimangono non sottoscritte allo scadere
dell’offerta in opzione) non possono essere liberamente collocate, ciò sempre per evitare che gli
amministratori intervengano discrezionalmente/arbitrariamente sugli assetti della compagine sociale. È così
che coloro i quali abbiano esercitato tempestivamente il diritto di opzione, previa espressione di specifica
richiesta, hanno diritto di prelazione nell’acquisto delle azioni e delle obbligazioni convertibili in azioni che
siano rimaste non optate. Pertanto, solamente nel caso in cui residuino azioni non sottoscritte dopo che si sia
conclusa anche l’offerta dell’inoptato, gli amministratori saranno liberi di collocarle presso eventuali terzi.
Tuttavia, seppur la disciplina del diritto di opzione corrisponda ad un’esigenza apprezzabile e degna di
riconoscimento, determina evidenti limiti all’azione discrezionale degli organi sociali, non sempre
trascurabili nell’ottica del migliore perseguimento degli scopi comuni è infatti ipotizzabile che l’aumento
di capitale si rilevi uno strumento importante per l’attuazione di programmi, suscettibili di arrecare grande
vantaggio alla S.p.a., ma che necessitino dell’ingresso di un terzo in società per il tramite della sottoscrizione
di un aumento di capitale. Per evitare dunque di comprimere oltre modo il potere della maggioranza, la
legge stabilisce che il diritto di opzione possa essere escluso in casi tipicamente individuati (e tale
esclusione deve essere deliberata dall’assemblea):
a) quando le azioni devono essere deliberate mediante conferimenti in natura;
b) quando l’interesse della società lo esige ( l’interpretazione di tale ipotesi è particolarmente dibattuta:
l’opinione più risalente afferma che, perché si giustifichi un’esclusione del diritto di opzione, occorre
che l’aumento di capitale con l’ingresso del terzo sia operazione strettamente essenziale alla
realizzazione dell’interesse sociale e dunque di fatto necessaria per la sopravvivenza della S.p.a.; per la
tesi oggi prevalente basta invece che la sottoscrizione dell’aumento di capitale ad opera del terzo sia
preferibile rispetto ad altre eventuali prospettazioni, in vista del raggiungimento degli scopi sociali);
c) quando le azioni sono offerte ai dipendenti della società o di società che la controllano o che sono da
essa controllate;
d) nelle sole società quotate il diritto di opzione può escludersi tout court, sebbene solo nei limiti del 10%
del capitale sociale preesistente.
soci: contro il rischio che i primi manifestino un’eccessiva prudenza in tale valutazione, il c.4 stabilisce che
la società possa rivolgersi al tribunale, e che questo “quando ritenga infondato il pericolo di pregiudizio
per i creditori oppure la società abbia prestato idonea garanzia, può disporre che l’operazione di riduzione
abbia comunque luogo nonostante l’opposizione”.
L’esecuzione di tale operazione comporta la riduzione del valore nominale delle azioni (necessariamente in
misura uguale per tutte le azioni) oppure l’estinzione di alcune azioni (in misura complessivamente
corrispondente alla riduzione decisa). L’estinzione dovrà rispettare il principio di parità di trattamento fra i
soci, dunque dovrà riguardare ciascuno di essi, proporzionalmente alla rispettiva partecipazione.
Venendo ora alla seconda ipotesi di riduzione del capitale, chiamata anche riduzione del capitale per perdite,
disciplinata dagli artt.2446-2447, è quella in cui il patrimonio netto della società è inferiore alla cifra del
capitale sottoscritto. Il legislatore interviene dunque con una serie di norme imperative.
a) Qualora la perdita del capitale sociale sia superiore a ⅓ rispetto alla misura dello stesso (cioè quando il
valore del patrimonio netto sia sceso al di sotto dei ⅔ del capitale nominale), gli amministratori hanno
l’obbligo di attivarsi convocando senza indugio l’assemblea, a cui dovranno sottoporre una relazione
sulla situazione patrimoniale della società. A questa riunione i soci non devono necessariamente adottare
decisioni di modifica alla cifra del capitale sociale: è previsto solamente che l’assemblea assuma gli
opportuni provvedimenti dunque ciò che richiede l’art.2446 è di avvertire i soci della concreta
divergenza tra la regola ideale del capitale sociale posta nella clausola statutaria ed il capitale reale di cui
la società di fatto dispone, saranno poi i soci a decidere discrezionalmente se e in che senso la divergenza
sia da considerare intollerabile da subito, a seconda che giudichino l’anomalia temporanea o strutturale.
Tuttavia la stessa discrezionalità non è loro consentita qualora la perdita (nelle stesse proporzioni) perduri
per un altro esercizio il legislatore infatti non consente di mantenere il capitale sociale non effettivo
oltre tale periodo, imponendo per un simile caso la modifica del capitale nominale in modo da renderla
corrispondente a quella effettivamente esistente; e tale modifica deve essere effettuata dall’assemblea
ordinaria o dal consiglio di sorveglianza, nel caso in cui questi organi non provvedano a deliberare la
riduzione del capitale, gli amministratori e i sindaci o il consiglio di sorveglianza stesso devono rivolgersi
al tribunale perché sia questo a disporre la riduzione medesima.
b) Qualora la perdita di oltre ⅓ del capitale sociale porti questo ad una misura inferiore al minimo (di
€ 50.000): non può infatti tollerarsi che la società venga ad assumere stabilmente un capitale inferiore al
minimo nel corso della sua attività. È così che in tale ipotesi l’art.2447 impone di convocare l’assemblea
“senza indugio” proponendo di deliberare la riduzione del capitale ed il contemporaneo aumento del
medesimo ad una cifra non inferiore al detto minimo (aumento ovviamente a pagamento).
Alternativamente a ciò, si può optare per la trasformazione in un tipo di società per il quale sia previsto
un capitale minimo inferiore, dovendosi altrimenti deliberare lo scioglimento della società.
c) Là dove invece la perdita sia inferiore al limite di ⅓ del capitale sociale, l’assemblea può comunque
decidere di ridurre il capitale così da operare un riallineamento tra la misura statutaria e quella effettiva
(cd riduzione facoltativa).
Anche la riduzione nominale, in tutti casi visti, comporta o la riduzione del valore nominale di tutte le
azioni o l’estinzione di alcune di esse, colpendo ciascun socio proporzionalmente alla partecipazione
posseduta (salvo che non esistano categorie di azioni postergate nella sopportazione delle perdite).
Guardando ora al secondo profilo attribuito al termine “azione” dall’art.2346, ossia quello di “rappresentare”
la partecipazione individuale all’attività sociale, con esso si intende identificare non la quota unitaria
dell’investimento in capitale di rischio ma una ideale porzione unitaria del rapporto che lega l’azionista
alla società rapporto i cui contenuti sono rappresentati dai diritti e obblighi attribuiti dalle azioni
possedute. Col termine “partecipazione” a sua volta qui si intende, anziché il contributo a capitale in sé, il
suo effetto nei rapporti con l’organizzazione sociale.
Dunque, se da un lato l’assegnazione di azioni costituisce titolo per l’assunzione della partecipazione sociale,
dall’altro la medesima partecipazione (intesa quale insieme dei diritti del socio) rappresenta un elemento
fondamentale per la concreta integrazione di un’organizzazione che possa dirsi societaria e per il buon
funzionamento della governance, atteso il tipico ruolo assegnato ai soci di “controllori” nei confronti della
gestione svolta, in via esclusiva, dagli amministratori della S.p.a. sui beni comuni. Tale ruolo infatti è svolto
per il necessario tramite dei diritti partecipativi del socio, i quali a loro volta trovano continuo e perenne
incentivo nell’investimento operato dall’azionista.
Le azioni sono le unità minime indifferenziate della partecipazione individuale all’attività sociale e ai suoi
risultati pertanto si caratterizzano in quanto indivisibili, inscindibili e uguali.
- Il primo requisito è sancito dall’art.2347: si tratta di un dato del tutto in linea con la visione dell’azione
quale unità minima predefinita dell’investimento in S.p.a. L’indivisibilità dell’azione però non comporta
che essa non possa essere oggetto di contitolarità tra più persone, ma solo la necessità che una tale
eventuale contitolarità non contraddica la regola secondo cui l’azione deve appunto esprimere la misura
minima dell’investimento in quella specifica S.p.a. e quindi dell’unitaria partecipazione in società. Si
comprende dunque la previsione secondo cui nel caso di comproprietà di un’azione, i diritti dei
comproprietari devono essere esercitati da un rappresentante comune, ed in ordine alla nomina di tale
rappresentante, l’art.2347 rinvia alle norme previste in tema di comunione dunque deve avvenire a
maggioranza, e non all’unanimità (come nel caso del mandato collettivo). L’indivisibilità della
partecipazione azionaria non significa naturalmente immutabilità della previsione circa il valore nominale
dell’azione (i due aspetti sono intrecciati: l’azione è l’unità minima di partecipazione in quanto
rappresenta l’unità minima di investimento, che è rappresentata dal suo valore nominale) ma essa, come
ogni altra clausola dell’atto costitutivo, può essere oggetto di modifica con l’osservanza della procedura
dell’art.2436. È possibile che l’assemblea straordinaria decida sia una variazione verso il basso sia un
aumento del valore nominale unitario delle azioni, cui sarà conseguenza nel primo caso il frazionamento
delle azioni in circolazione e nel secondo caso, all’opposto, il raggruppamento delle stesse in funzione
della formazione di una nuova unità partecipativa maggiore. In entrambe le ipotesi, l’operazione
implicherà il ritiro, ove emessi, dei titoli azionari che erano in circolazione e la consegna di nuovi
documenti adeguati alla modifica intervenuta.
- Le azioni sono qualificate anche come inscindibili, nel senso che non deve reputarsi ammissibile
nemmeno quel frazionamento che consista nel disporre in modo parziale del contenuto dell’azione in
favore di altri soggetti, con l’attribuzione ai medesimi solo di uno o più diritti azionari e non della
proprietà della (o di altro diritto reale sulla) intera partecipazione. Così è considerata illecita la vendita
del voto, almeno ove sia sganciata dalla parallela attribuzione di un diritto reale attuale o futuro sulla
partecipazione cui il voto accede.
- Infine, “le azioni – dispone l’art.2348 – devono essere di uguale valore e conferiscono ai loro possessori
uguali diritti” dunque non è immaginabile una distinzione tra gli azionisti che si basi su concrete
previsioni statutarie concernenti questo o quel soggetto: ciò che realizza del resto la regola di
spersonalizzazione della partecipazione in S.p.a. Tuttavia, il principio di uguaglianza delle azioni non
implica affatto che le azioni debbano essere tutte identiche, anzi la legge consente esplicitamente la
creazione di categorie diverse di azioni, attributive di diritti particolari. Semplicemente, non è
ammissibile che la diversità della partecipazione azionaria sia legata, anziché al tipo di azione posseduta,
alla persona o al “tipo di persona” che venga a possederla, poiché in tal caso si verificherebbe una
contraddizione col principio della tendenziale fungibilità dell’incidenza del socio nell’attività comune e
con la stessa connotazione “capitalistica” della società. Si è così efficacemente affermato che “la struttura
della S.p.a. si sviluppa per categorie di relazioni di investimento, non per singoli rapporti”. Una
differenziazione tra gli azionisti (e non tra le azioni) può così determinarsi in concreto solo in
correlazione con l’eventualità che gli stessi possiedano diverse quantità delle azioni emesse da una S.p.a.
Secondo parte della dottrina, dalla rilevanza oggettiva delle azioni sotto il profilo organizzativo
discenderebbe inoltre il principio della cd autonomia delle azioni, secondo cui ognuna di esse
attribuirebbe al proprio possessore prerogative esercitabili in modo appunto autonomo, con la
conseguenza di potersi concepire la possibilità di un esercizio diversificato di prerogative sociali
fondamentali da parte del medesimo soggetto, come nell’ipotesi del cd voto divergente. Un socio così
potrebbe ad es. nei confronti della stessa delibera esprimere voto favorevole per una parte delle azioni
possedute e contrario per un’altra parte. Una tale possibilità sarebbe però temperata, secondo alcuni, dal
principio di buona fede o dal divieto di abuso del diritto, istituti il cui operare di fatto renderebbe lecito il
riferito esercizio diversificato dei diritti solo là dove giustificato da ragioni obbiettive.
Dalla titolarità delle azioni discende poi il diritto ad una serie di situazioni o prerogative soggettive,
tipicamente prevista in via inderogabile dalla legge: i diritti sociali, i quali si bipartiscono in diritti di tipo
patrimoniale e amministrativo.
1) Diritto agli utili e alla quota di liquidazione appartengono entrambi al genere di situazioni di stampo
patrimoniale. Si tratta di prerogative che derivano dalla stessa “essenza” della S.p.a. dato il suo fondarsi
sulla formula lucrativa. Infatti non potrebbe definirsi società per azioni quell’organizzazione che non
tendesse alla realizzazione di un lucro in senso oggettivo o non prevedesse il diritto dei soci a godere o
disporre degli utili conseguiti. È per questo che sarebbe sicuramente invalida una clausola che escludesse il
generale diritto agli utili o alla quota di liquidazione degli azionisti, anche là dove trovasse il favore
dell’unanimità dei soci e anche nell’ipotesi di società “chiuse”. Per quanto riguarda la quota di liquidazione
del socio, presupposto per l’esercizio di tale diritto è l’avvenuto pagamento dei creditori sociali, siccome gli
azionisti (in quanto soci) devono considerarsi titolari di una pretesa residuale (si tratta di una norma
imperativa molto importante, sanzionata penalmente nell’art.2626). Invece per la riscossione degli utili
prodotti dalla società non occorre attendere la fine della società, in quanto al socio spetta il diritto al
dividendo, che matura di anno in anno nella misura in cui la società produca un utile di esercizio
distribuibile e se ne decida effettivamente la distribuzione. In particolare, l’art.2433 stabilisce che la società
non può pagare dividendi sulle azioni se non per utili realmente conseguiti e risultanti da un bilancio
regolarmente approvato. Pertanto, perché di utili distribuibili si possa parlare, occorre che risultino
effettivamente utili di esercizio dal conto economico relativo all’anno in discussione e che gli utili da
distribuire trovino capienza nello stato patrimoniale della società al “netto” delle perdite eventualmente
prodottesi negli esercizi precedenti. Occorre inoltre che residui un patrimonio netto di valore almeno pari al
capitale sociale: è per questo che la distribuzione è impedita anche là dove le perdite pregresse siano tali da
intaccare il capitale stesso (questo perché altrimenti la distribuzione dell’utile di esercizio si tradurrebbe in
un parziale rimborso del capitale ai soci, contro il principio di irreversibilità della sua destinazione
all’attività sociale salvo che nel caso in cui sia deliberata una riduzione ex art.2445). Non finisce qui, perché
per il sorgere in capo al socio del diritto alla percezione del dividendo non basta neppure che un utile
distribuibile risulti dal bilancio approvato di anno in anno, ma è necessario che l’assemblea dei soci (oltre
ad approvare il bilancio) deliberi espressamente la distribuzione dei dividendi in una certa misura, dedotti
gli accantonamenti previsti ex lege o per statuto; e va notato che la maggioranza dei soci detiene in materia
un potere ampiamente discrezionale, sicché anche dinnanzi a un bilancio che registri utili ragguardevoli essa
può del tutto legittimamente decidere di trattenere le relative somme, istituendo un apposita riserva o
semplicemente rinviando ad esercizi successivi ogni decisione circa la loro distribuzione.
2) Diritto di recesso consiste nel potere di sciogliersi dalla società – per mezzo di una propria,
unilaterale manifestazione di volontà – e di ottenere anticipatamente la quota di liquidazione, da calcolare
sulla base di criteri che tengano conto dei valori che erano attribuibili alla partecipazione alla S.p.a. prima
delle modifiche non condivise dall’azionista recedente. Infatti questo strumento viene attribuito al socio per
evitare il rischio che egli debba subire la decisione di alterazioni organizzative dalle quali possa derivare un
abbassamento del valore di mercato delle azioni, e al contempo riconoscere comunque alla maggioranza il
potere di adottarle; dunque la legge si preoccupa di evitare che l’interesse del socio possa essere
pregiudicato dai significativi mutamenti che possono derivare al programma dalle modifiche dell’impianto
organizzativo decise dalla maggioranza degli azionisti, là dove il socio stesso non vi abbia acconsentito.
Tuttavia (art.2437) tale diritto è concesso solo al verificarsi di situazioni determinate, considerate dalla legge
quali ipotesi significative di alterazione dell’organizzazione, idonee ad incidere sul programma originario:
a) sono cause inderogabili di recesso le deliberazioni di modifica dell’oggetto sociale, trasformazione
della società, trasferimento della sede sociale all’estero, revoca dello stato di liquidazione, eliminazione
di una o più cause di recesso derogabili originariamente previste nello statuto, modifica dei criteri di
determinazione del valore delle azioni in caso di recesso, modifiche dello statuto concernenti i diritti di
voto o di partecipazione. La tutela della posizione del socio in relazione a queste ipotesi è garantita in
modo assoluto, ed è per questo che “è nullo ogni patto volto a escludere o rendere più gravoso l’esercizio
del diritto di recesso” riguardo a tali cause (perciò il socio recedente non è tenuto a motivare il recesso);
b) sono invece cause derogabili di recesso (dunque il recesso opera solo là dove lo statuto non disponga
diversamente) la proroga del termine della società e l’introduzione o la rimozione di vincoli alla
circolazione dei titoli azionari.
c) dalla parte opposta è consentito che la tutela del socio venga rafforzata con l’inserimento nello statuto
(ma solo delle società che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio) di “ulteriori cause di
recesso”, in aggiunta a quelle legalmente prefigurate. Anche se il punto è controverso, pare lecito credere
che tali ipotesi atipiche di recesso, create dall’autonomia privata, debbano comunque essere collegate a
importanti mutamenti del programma organizzativo e non a vicende economiche della società;
d) tuttavia un diritto di recesso ad nutum, cioè non collegato al verificarsi di particolari ragioni
giustificative (di tipo organizzativo o economico), è espressamente riconosciuto al socio nel caso in cui
la società sia costituita a tempo indeterminato. Ciò per evitare che, in assenza di un effettivo mercato
delle partecipazioni, il socio rimanga per sempre “prigioniero” dell’affare intrapreso e non possa mai
anticipatamente liquidare l’investimento. Però è stabilito un preavviso di almeno 180 giorni, peraltro
modificabile in aumento dallo statuto, fino al termine max di 1 anno. Questa possibilità di recesso ad
nutum non è invece offerta al socio in caso di società quotate in un mercato regolamentato, siccome egli
può benissimo rivolgersi agli acquirenti del mercato per vendere la propria partecipazione.
Quanto alle modalità di esercizio del diritto, il recesso deve essere esercitato (art.2437-bis), per tutte o
alcune delle azioni possedute, con lettera raccomandata, da spedire entro 15 giorni dall’iscrizione nel
registro delle imprese “della delibera che lo legittima”; nel caso invece che il recesso derivi da un fatto
diverso da una deliberazione, il termine di legge sarà di 30 giorni dalla conoscenza del fatto in parola da
parte del socio. Dal momento dell’esercizio del recesso le azioni del socio recedente devono rimanere
depositate presso la sede sociale, per evitarne una circolazione che sarebbe incompatibile col regolare e utile
svolgimento della procedura di liquidazione. Tuttavia si ritiene che la comunicazione della dichiarazione di
recesso e il deposito delle relative azioni non bastino affinché cessi la partecipazione del socio, occorrendo a
tal fine aspettare il completamento del rimborso della quota di liquidazione.
Invece riguardo al procedimento previsto per il calcolo della quota di liquidazione, la legge fissa precisi
criteri intesi a proteggere il valore dell’investimento azionario e il correlativo interesse del socio alla sua
monetizzazione al momento dell’uscita dalla S.p.a. È disposto che il valore di liquidazione venga stabilito
dagli amministratori tenuto conto della consistenza patrimoniale della società e delle sue prospettive
reddituali, nonché dell’eventuale valore di mercato delle azioni. Perciò si procede ad una valutazione del
patrimonio sociale in base ai suoi valori reali attuali, e non già in base ai (di regola inferiori) valori di
bilancio. Peraltro, per le azioni quotate la liquidazione è calcolata facendo riferimento alla media aritmetica
dei prezzi di chiusura nei 6 mesi che precedono la pubblicazione ovvero la ricezione dell’avviso di
convocazione dell’assemblea le cui deliberazioni legittimano il recesso.
Coloro che siano interessati a recedere possono prendere visione anticipatamente della determinazione del
valore delle azioni ai fini del recesso, la quale deve quindi essere approntata e può essere richiesta dal socio
nei 15 giorni precedenti alla data fissata per l’assemblea. Ove i soci intendano contestare la determinazione
effettuata dagli organi sociali, possono farlo con la stessa dichiarazione di recesso e in tale sede così
sollecitare la stima da parte di un esperto nominato dal tribunale, il quale è chiamato ad effettuarla tramite
relazione giurata.
Infine, è definita la procedura di liquidazione del socio della quota: le azioni del socio receduto devono
essere offerte in opzione agli altri soci proporzionalmente, e ai soci che esercitano l’opzione spetta anche un
diritto di prelazione per le eventuali azioni non optate dagli altri azionisti. Le azioni che residuano da una
tale procedura, se non vengono collocate nel mercato, devono essere rimborsate direttamente dalla società
(la quale provvederà al loro acquisto), attingendo a riserve disponibili o utili distribuibili. Nel caso in cui
questi fondi non sussistano, occorrerà che si deliberi, in alternativa allo scioglimento dell’intera S.p.a., una
riduzione “reale” del capitale sociale ex art.2445.
Dunque, il recesso non determina di per sé l’estinzione dell’azione (come accade invece nelle società di
persone) ma ne provoca il trasferimento, consentendo il mantenimento in società delle risorse programmate
originariamente per lo svolgimento dell’attività e così trovando un efficiente equilibrio tra l’interesse del
recedente al disinvestimento e quello della società alla prosecuzione dell’impresa secondo un immutato
programma finanziario; solo come extrema ratio, quando non si trovino acquirenti delle azioni, si dovrà
ridurre il capitale, con la conseguente estinzione di queste.
3) Diritto di voto a differenza dei precedenti, esso appartiene ai diritti di stampo amministrativo, cioè
alle prerogative che esprimono modi e termini di partecipazione del socio alla realizzazione dell’attività
sociale. Con l’esercizio di tale diritto gli azionisti hanno la possibilità di incidere in senso positivo sulla vita
e sulla governance della società: sia, direttamente, concorrendo alle scelte in materia di organizzazione
dell’attività sociale (di competenza esclusiva dell’assemblea); sia influendo indirettamente nei confronti
della gestione, specie attraverso il concorso nella nomina e nella revoca degli amministratori (o, più in
generale, dell’organo di gestione). Tuttavia la legge ammette espressamente (art.2351) che “lo statuto può
prevedere la creazione di azioni senza diritto di voto, con diritto di voto limitato a particolari argomenti,
con diritto di voto subordinato al verificarsi di particolari condizioni non meramente potestative”.
L’ammissione della meritevolezza di questa categoria si basa sulla potenziale esistenza di un interesse di
mercato a un investimento meramente passivo in una S.p.a., benché a titolo di capitale, dunque quando
l’investimento del socio non sia motivato da una spinta “imprenditoriale”, ma da un mero intento lucrativo.
Ma, poiché il controllo dell’insieme degli azionisti nei confronti dell’attività sociale rappresenta uno
strumento fondamentale di equilibrio dell’attività sociale, l’ordinamento riconosce all’autonomia statutaria
un potere non assoluto di creare azioni con diritto di voto escluso o limitato: l’art.2351 dispone che “il
valore di tali azioni non può complessivamente superare la metà del capitale sociale”.
Per quanto riguarda poi le regole concernenti la spettanza del voto e la conseguente dialettica tra gli azionisti
interessati alla governance sociale, vi è da dire che il codice accoglie, come regola ordinaria, il cd sistema 1
azione – 1 voto: ogni azione, stabilisce l’art.2351, attribuisce il diritto di voto (anche se è salva la possibilità
di azioni speciali a voto escluso o limitato a talune materie). L’unità di investimento rappresentata
dall’azione va quindi considerata quale unità di potere azionario: così, per aumentare la propria capacità di
incidere sulle sorti della società, il socio deve necessariamente operare un incremento proporzionale della
propria quota di investimento nel capitale sociale (ad es. acquistando azioni).
Tuttavia, in considerazione della estrema varietà dei modelli organizzativi per i quali è ipotizzabile l’utilizzo
della S.p.a., la legge prevede una serie di deroghe al principio appena menzionato, adottabili nelle ipotesi in
cui la società voglia essere caratterizzata da una stabile centralizzazione del comando o, all’opposto, da una
tendenziale democrazia partecipativa:
a) dal primo punto di vista una importante deviazione dalla regola generale è oggi contenuta nel nuovo c.4
dell’art.2351, ai sensi del quale “salvo quanto previsto da leggi speciali, lo statuto può prevedere la
creazione di azioni con diritto di voto plurimo anche per particolari argomenti o subordinato al
verificarsi di particolari condizioni non meramente potestative”; si precisa anche che “ciascuna azione a
voto plurimo può avere fino a un max di 3 voti” in questo modo, da un lato, si annullano o si riducono
sensibilmente le possibilità che la società sia soggetta a periodici cambi di maggioranza, dall’altro, si
rafforzano le probabilità che l’operato degli amministratori sia soggetto a un serio e continuo
monitoraggio. Va tuttavia evidenziato che un divieto di emissione di azioni a voto plurimo (prima del
2014 previsto per tutte le S.p.a.) è ancora in vigore per le società quotate, anche se esse mantengono
comunque le azioni a voto plurimo eventualmente già emesse anteriormente alla quotazione;
b) dal secondo punto di vista richiamato invece deve tenersi presente la previsione del c.3, secondo la quale
può statutariamente prevedersi che “in relazione alla quantità delle azioni possedute da uno stesso
soggetto, il diritto di voto sia limitato a una misura massima o disporne scaglionamenti”. Dunque è
immaginabile che il possesso nelle mani di persona di una certa percentuale di azioni conduca a una loro
“neutralizzazione” sul piano amministrativo, che operi: in un caso, in relazione alla quota posseduta al di
sopra di una soglia data (ad es. stabilendosi che il voto non spetti per la parte di azioni, posseduta dalla
stessa persona , eccedente il 5% del capitale sociale); in un altro caso, per “salti” tra uno scaglione e
l’altro (là dove si preveda ad es. che il voto non spetti al di sotto della soglia del 10%, e poi via via non
aumenti se non al raggiungimento ulteriore delle misure del 20%, 30% e così via).
3) Diritti della minoranza la S.p.a. può dirsi sede di varie “tensioni” o “contrapposizioni” tra soggetti
portatori di interessi distinti: oltre che la classica contrapposizione tra amministratori e soci, vi è anche
quella tra la maggioranza e la minoranza dei soci, in quanto ai primi spetta il potere di determinare o
indirizzare le scelte sociali, mentre i secondi cercano di evitare che l’esercizio del potere in parola realizzi
una ingiusta prevaricazione, strumentale al perseguimento di interessi personali non conseguenti alla
realizzazione della causa lucrativa comune. Al fine dunque di evitare che alcuni soci approfittino della loro
posizione, vengono riconosciuti agli azionisti detentori di quote minori del capitale sociale, i cd diritti della
minoranza, con i quali tali soggetti possono ottenere protezione adeguata contro eventuali abusi della
maggioranza, o sollecitare organi sociali all’adempimento dei propri doveri fiduciari nel perseguimento
dell’oggetto sociale. Tra tali situazioni si possono individuare le prerogative funzionali alla promozione
della regolare attività dell’assemblea (attraverso la facoltà di sollecitarne la convocazione, o il rinvio della
riunione per una migliore preparazione alla discussione, nonché la previsione del potere di impugnativa
delle delibere di tale organo), ma anche quelle ipotesi in cui la tutela accordata è occasionata da
comportamenti degli amministratori e comporta la possibilità di sollecitare l’intervento, nei loro confronti,
degli organi di vigilanza e controllo (in tali casi vengono in rilievo i casi del potere di denunzia spettante ai
soci: o nei confronti del collegio sindacale, per l’ipotesi di compimento da parte degli amministratori di fatti
censurabili, o al tribunale, nell’eventualità di fondato sospetto di gravi irregolarità nella gestione). In quasi
tutte queste ipotesi, le prerogative attribuite dalla legge sono riconosciute al socio solo al possesso di
particolari percentuali di capitale sociale. Tale delimitazione dei poteri di stimolo e sollecitazione del socio,
tipica del modello S.p.a., consente di attenuare il rischio di comportamenti ispirati a un intento puramente
emulativo o ricattatorio da parte di chi sia titolare di una sola azione o comunque di quote di investimento
marginali rispetto al capitale complessivamente destinato all’attività comune.
4) Pegno, usufrutto e sequestro di azioni i diritti fin qui descritti spettano al socio in quanto titolare
delle azioni; tuttavia questi possono subire una rilevante compressione là dove le azioni siano sottoposte a
vincoli di tipo reale o giudiziale poiché in tale caso l’interesse del socio alla partecipazione sociale si deve
conciliare con quello di altri soggetti, nell’interesse dei quali detti vincoli possono sorgere. In particolare,
l’art.2352 si occupa della disciplina del diritto di voto, stabilendo che in caso di pegno o usufrutto esso
spetta al creditore pignoratizio o all’usufruttuario, mentre in caso di sequestro lo stesso è esercitato dal
custode; il diritto di opzione spetta al socio in caso di aumento di capitale a pagamento ed al medesimo sono
attribuite le nuove azioni da esso sottoscritte (dunque queste nuove azioni non vanno ad accrescere il
contenuto dei diritti reali esistenti), mentre nel caso di aumento di capitale gratuito, il pegno l’usufrutto o il
sequestro si estendono alle azioni di nuova emissione; invece per gli altri diritti diversi da quelli menzionati,
mentre nel caso di sequestro ne è sempre disposto l’esercizio ad opera del custode, nell’ipotesi di pegno e
usufrutto è previsto che spettino sia al creditore pignoratizio o all’usufruttuario, sia al socio. Infine
l’opinione prevalente sostiene che tra i diritti riconosciuti al creditore pignoratizio e all’usufruttuario, o
esercitabili dal custode, non vi sia il recesso.
Le categorie di azioni
L’art.2348, dopo aver sancito il principio dell’uguaglianza di valore delle azioni e della pari dignità giuridica
dei loro possessori, precisa che “si possono tuttavia creare, con lo statuto o con successive modificazioni di
questo, categorie di azioni fornite di diritti diversi” in tal modo viene consentito alle S.p.a. di emettere
azioni speciali, differenti da quelle cd ordinarie perché caratterizzate dall’attribuzione di diritti non
coincidenti con quelli normalmente spettanti al socio in base al possesso dell’azione. La ratio
dell’emissione di queste azioni speciali è quella della diversificazione dell’offerta di strumenti finanziari di
raccolta del capitale, in considerazione della varietà degli interessi che possono esprimere gli investitori
presenti sul mercato e dunque dell’articolazione della “domanda di investimento” da essi concretamente
rappresentata. Ora veniamo alle categorie di azioni speciali:
a) con riguardo ai diritti di tipo amministrativo, possono crearsi categorie di azioni le quali attribuiscano ai
relativi possessori un privilegio patrimoniale consistente nel diritto a un utile maggiorato o
maggiormente garantito rispetto agli altri azionisti dunque agli azionisti speciali spetta o sempre una
percentuale di utile in più dell’utile eventualmente oggetto di distribuzione (rispetto a quella destinata
agli azionisti ordinari) o una priorità nella riscossione del diritto al dividendo entro certe percentuali;
b) la diversità della posizione patrimoniale dell’azionista può riguardare anche l’incidenza delle perdite
è cioè ammissibile la creazione di una categoria di azioni “postergate” che attribuisca all’azionista
speciale il diritto di subire l’imputazione delle eventuali perdite della società (in sede di riduzione del
capitale sociale) solo dopo che le stesse abbiano colpito la partecipazione degli altri soci;
c) sempre sul piano delle prerogative di tipo patrimoniale vi sono anche le cd azioni correlate, che si
caratterizzano in quanto fornite di diritti patrimoniali correlati ai risultati dell’attività sociale in un
determinato settore si tratta dunque di titoli che collegano la remunerazione dell’investimento del
socio, anziché a una proporzione tra questo e l’intero profitto della società, all’utile prodotto da essa in un
dato settore, e cioè da una particolare porzione dell’attività sociale o dalla realizzazione di uno specifico
affare;
d) infine, dal punto di vista dei diritti amministrativi del socio, si è già visto che l’art.2351 consente tanto il
potenziamento che la compressione della ordinaria posizione del medesimo, fino ad ammettere che si
possa creare azioni a voto plurimo o che si possa del tutto escludere il diritto di voto dell’azionista
(azioni a voto escluso o limitato); non è peraltro previsto che una tale esclusione o limitazione debba
essere “compensata” dal riconoscimento di un privilegio di tipo patrimoniale. Si potrà anche subordinare
il diritto di voto delle azioni speciali al verificarsi di particolari condizioni (azioni a voto condizionato)
ad es. che il diritto di voto spetti solo se, nell’esercizio precedente, non siano stati distribuiti utili.
Queste categorie non esauriscono quelle concretamente elaborabili dall’autonomia privata, stante il principio
della libertà di creazione si parla in tal caso di atipicità delle azioni speciali.
Gli unici limiti inderogabili sono rappresentati dal divieto del patto leonino (applicabile a tutti i tipi sociali)
e dal necessario rispetto di un equilibrio tra rischio e potere nell’allocazione del diritto di voto tra le varie
categorie (ad es. le azioni a voto escluso, limitato o condizionato non possono superare la metà di quelle
complessivamente emesse; nelle società quotate è ancora vietata l’emissione di azioni a voto plurimo).
Per una miglior disciplina del complesso rapporto che si viene a instaurare tra i soci attraverso l’emissione di
categorie di azioni diverse, il legislatore prevede l’istituzione di un organo particolare: l’assemblea speciale
degli azionisti di categoria, per il cui funzionamento è prevista l’applicazione delle regole dettate in materia
di assemblea straordinaria ex art.2376, c.2 tale art. dispone al c.1 che, allorché le deliberazioni
dell’assemblea pregiudichino i diritti di una categoria di azioni, esse devono essere approvate anche
dall’assemblea speciale degli appartenenti alla categoria interessata e ciò a pena di inefficacia di tali
medesime deliberazioni. Dunque, in altre parole, l’assemblea degli azionisti può, con le consuete
maggioranze, anche modificare i diritti delle azioni speciali, e non occorre il consenso individuale di tutti i
titolari di questa categoria, ma non può farlo nemmeno imponendo la propria decisione su quella dei soci di
categoria: dovrà perciò ottenere il consenso della maggioranza di questi, espressa in forma di delibera
dell’assemblea speciale.
Guardiamo ora al terzo profilo, cioè che al termine “azioni” viene dato dall’art.2346 anche il significato di
documentazioni destinate all’esercizio delle situazioni giuridiche soggettive.
Sappiamo che uno degli elementi fondamentali che spiegano la diffusione della S.p.a. è la possibilità offerta
agli azionisti di poter disinvestire prima della conclusione dell’affare, utilizzando la via d’uscita
rappresentata dal mercato secondario, cioè tramite il trasferimento delle azioni a terzi. Ciò significa
anzitutto prevedere l’astratta trasferibilità delle azioni, ma inoltre per garantire la possibilità e la facilità della
circolazione, è esigenza sentita dal legislatore quella approntare un sistema di regole rivolto a rendere
possibile la stessa circolazione di un efficiente mercato secondario delle azioni.
A questo scopo è previsto che la S.p.a. si possa avvalere di un particolare strumento: l’emissione di titoli
azionari, la cui trasmissione è governata dalle regole sui titoli di credito con tale operazione di emissione,
alla creazione e assegnazione delle azioni si accompagna la consegna al socio di documenti rappresentativi
delle suddette azioni questi diventeranno un mezzo necessario per permettere la cessione della
partecipazione e l’esercizio dei relativi diritti. Questi titoli azionari hanno un contenuto tipico, previsto
dall’art.2354, c.3, dovendo contenere: denominazione e sede della società, data dell’atto costitutivo e della
sua iscrizione e l’ufficio del registro dove la società è iscritta, il loro valore nominale o il numero
complessivo delle azioni emesse più l’ammontare del capitale sociale se si tratta di azioni senza valore
nominale, l’ammontare dei versamenti parziali sulle azioni non interamente liberate, diritti e obblighi
particolari ad essi inerenti. I titoli azionari devono essere sottoscritti dagli amministratori ed è valida anche
la sottoscrizione mediante la riproduzione meccanica della firma.
L’art.2354 fa salve inoltre le disposizioni delle leggi speciali in tema di strumenti finanziari negoziati o
destinati alla negoziazione nelle sedi di negoziazione. Si rinvia così al TUF, per il quale tali strumenti
finanziari (cioè quelli trattati in una sede di negoziazione) possono esistere solo in forma scritturale. Ne
consegue che per le azioni negoziate in mercati regolamentati, essendo anch’esse senz’altro qualificabili
come strumenti finanziari ai sensi della norma citata, un’emissione di titoli, nella tradizionale forma
cartacea, non può avvenire. Dunque il trasferimento e l’esercizio dei diritti relativi a queste azioni devono
effettuarsi in conformità alle regole previste dal TUF relative alla cd dematerializzazione degli strumenti
finanziari: le azioni saranno in particolare rappresentate da titoli scritturali, le cui regole di circolazione
sono analoghe a quelle dei titoli di credito, cosicché anche con essi viene favorita la creazione di un mercato
secondario e dunque la circolazione delle partecipazioni.
Lo statuto può anche stabilire l’adozione di un sistema intermedio tra quello dell’emissione cartolare e
della dematerializzazione totale degli strumenti finanziari, potendo prevedere che i titoli azionari, dopo
essere stati emessi (nella ordinaria forma cartacea), possano essere affidati in deposito dal singolo azionista
a un deposito centrale, con una decisione del tutto facoltativa da parte dello stesso, assoggettandoli così al
medesimo regime di circolazione previsto in caso di dematerializzazione si parla in tal caso di
dematerializzazione parziale (o dematerializzazione della circolazione) degli strumenti finanziari.
Infine va detto che la documentazione dell’azione in forma cartacea o scritturale non è obbligatoria (salvo
che per le azioni quotate, in relazione a quella scritturale) infatti l’art.2346, dopo aver stabilito che la
partecipazione sociale è rappresentata da azioni, precisa che lo statuto può escludere l’emissione dei relativi
titoli (e insieme anche la dematerializzazione). In una tale eventualità accade pertanto che all’atto della
creazione seguirà unicamente l’iscrizione nel libro dei soci dell’azionista, e il trasferimento delle azioni ha
effetto nei confronti della società dal momento dell’iscrizione in tale libro. In questo caso però la
circolazione non è soggetta alle regole cartolari e non viene dunque favorita la creazione di un mercato
secondario delle partecipazioni.
Come prima cosa, il possesso dei titoli azionari da parte dell’azionista consente di riconoscergli la cd
legittimazione attiva all’esercizio dei diritti attribuiti dalle azioni possedute. La legittimazione va tenuta
distinta dalla titolarità di un diritto: mentre quest’ultima concerne l’astratta spettanza del diritto medesimo,
la prima riguarda l’individuazione del soggetto cui compete in fatto il potere di esercitarlo efficacemente nei
rapporti coi terzi le due situazioni ordinariamente sono collegate nell’ordinamento, ma ciò non accade
sempre, specie nel diritto commerciale: ad es. nell’ipotesi dei titoli di credito, legittimato all’esercizio delle
relative pretese è il possessore del titolo, tuttavia tale possesso non gli attribuisce di per sé la titolarità del
diritto ma, appunto, solo la legittimazione, che consiste dunque nel potere di pretendere la prestazione dal
debitore senza dovere provare altrimenti la titolarità del diritto stesso. Perciò là dove prevista, la
separazione tra i due concetti realizza efficienza poiché consente il velocizzarsi dell’azione connessa
all’esercizio di un diritto, a maggior ragione quando è sottoposto ad un’ampia serie di trasferimenti.
La circolazione delle azioni, quando rappresentate da titoli, è caratterizzata da certezza e rapidità: infatti chi
acquista un titolo azionario ne può assumere subito la legittimazione (previo rispetto di alcune formalità), e
inoltre il possesso legittimo del documento conferisce indiscutibilmente all’acquirente la titolarità
dell’azione (almeno nello specifico senso di non potersi muovere nei confronti di tale soggetto una
contestazione connessa all’eventuale suo acquisto a non domino). Invero si applica ai titoli azionari la
regola previsa in materia cartolare dall’art.1994, secondo cui «chi ha acquistato in buona fede il possesso
di un titolo di credito, in conformità delle norme che ne disciplinano la circolazione, non è soggetto a
rivendicazione» (cd autonomia reale) l’investitore che decida pertanto di acquistare azioni, là dove siano
stati emessi i relativi titoli, non dovrà investigare circa la reale titolarità dell’ipotetico venditore: è sufficiente,
ai fini dell’acquisto di un’intaccabile titolarità, che gli sia garantita l’assunzione del possesso legittimo dei
titoli stessi.
Secondo l’originaria previsione dell’art.2354, i titoli potevano essere nominativi o al portatore, a scelta del
socio, se lo statuto o le leggi speciali non avessero stabilito diversamente. Tuttavia poco dopo l’emanazione
del cod. civ. un altro provvedimento smentì tale scelta normativa, stabilendo con norma tuttora vigente che
le azioni delle società aventi sede nello Stato devono essere nominative.
È chiaro che la possibilità di rendere le azioni trasferibili al portatore (cioè tramite la semplice consegna del
titolo) rende la circolazione agevole e consente una maggior velocità nel processo di indiretta liquidazione
dell’investimento azionario; al contempo, tuttavia, tale regime comporta vari problemi connessi al cd
anonimato delle partecipazioni: vanno considerati al riguardo l’aumento dei rischi di appropriazione
indebita o abusiva dei titoli e la minore rintracciabilità dell’investimento e della relativa ricchezza da parte
dell’autorità pubblica, ma anche, sul piano dell’organizzazione sociale, la minore possibilità di coesione
sociale, che riduce correlativamente la possibilità di controllo dei soci sulla governance.
Dunque, tenendo presente questi svantaggi dell’anonimato azionario, si comprende la scelta compiuta dal
legislatore sulla generale obbligatorietà delle azioni nominative. Fanno espressamente eccezione le azioni
di risparmio e quelle emesse dalle società di investimento a capitale variabile (SICAV) e dalle società di
investimento a capitale fisso (SICAF), che possono essere nominative o al portatore a scelta dall’azionista.
La nominatività azionaria comporta anzitutto l’applicazione di un particolare regime in tema di circolazione,
ossia 2 diverse modalità di trasferimento: il transfert e la girata autenticata.
L’art.2355, c.4, rinvia al sistema del transfert, disciplinato dall’art.2022 con questa modalità il
trasferimento azionario si opera con al cd doppia annotazione del nome dell’acquirente, sul titolo e sul libro
dei soci (dell’emittente) o col rilascio di un nuovo titolo intestato al nuovo socio. Queste formalità sono
operate a cura dell’amministratore e possono avvenire a richiesta o dell’alienante (se prova la propria
identità e capacità di disporre mediante apposita certificazione) o dell’acquirente (se esibisce il titolo e
dimostra il suo diritto mediante atto autentico).
Alternativamente a questa modalità, l’art.2355, c.3, stabilisce che il trasferimento delle azioni nominative
possa effettuarsi “mediante girata autenticata da un notaio o da altro soggetto secondo quanto previsto da
leggi speciali” in base all’art.2023, la girata deve essere piena e, ove le azioni non siano interamente
liberate, deve essere sottoscritta anche dal giratario. Comunque la circolazione mediante girata non elimina
la rilevanza del libro dei soci: infatti il giratario “ha diritto di ottenere l’annotazione del trasferimento nel
libro dei soci”.
In relazione poi alla disciplina della legittimazione all’esercizio dei diritti incorporati nel titolo azionario, vi
è da dire che la regola generale prevista dall’art.2021, secondo cui il possessore consegue la legittimazione
“per effetto dell’intestazione a suo favore contenuta nel titolo e nel registro dell’emittente”, per le azioni
vale solo per il caso di circolazione mediante transfert infatti nel trasferimento tramite girata, l’art.2355
prevede che il giratario che si dimostri possessore in base a una serie continua di girate “è comunque
legittimato ad esercitare i diritti sociali”. Perciò per poter esercitare i diritti sociali, nel caso di circolazione
mediante girata, non occorre che il possessore del titolo chieda e ottenga l’iscrizione nel libro dei soci ma
basterà esibire il documento munito di regolare girata, curando che questa sia l’ultima di una serie continua.
Invece, allorché siano emesse e circolino, là dove consentito, azioni al portatore, si applicherà un regime
molto più snello, poiché esse si trasferiscono con la consegna del titolo. L’esercizio dei diritti sociali avverrà
pertanto con la mera dimostrazione del possesso attuale del documento.
conformazione dell’interesse dei soci al “buon governo” della società. Inoltre, per consentire l’opponibilità
di tali limitazioni ai terzi acquirenti, in applicazione dei principi cartolari (in particolare della regola di
“letteralità”) è stabilito che le limitazioni al trasferimento delle azioni “debbano risultare dal titolo”.
a) Divieto di trasferimento è possibile che lo statuto vieti del tutto il trasferimento delle azioni, tuttavia
tale divieto è temporalmente contenuto ex lege (poiché altrimenti non potrebbe considerarsi compatibile
con i caratteri essenziali della S.p.a.), prescrivendosene la durata max di 5 anni dalla costituzione della
società o dal momento in cui tale divieto viene introdotto.
b) Clausole di prelazione sono clausole previste dallo statuto che hanno ampia diffusione in quanto con
esse viene stabilito che il socio che intenda trasferire le azioni sia vincolato a offrirle prima agli altri soci, i
quali avranno diritto (in proporzione alle rispettive partecipazioni) a essere preferiti rispetto al terzo
interessato al medesimo acquisto. Generalmente la clausola prevede che l’alienante debba comunicare la
propria intenzione di vendere alla società (con un atto chiamato denuntiatio) e che gli altri soci, da questa
informati, abbiano un certo periodo di tempo entro il quale far pervenire le loro eventuali dichiarazioni di
esercizio della prelazione. Se questa non è esercitata o se è esercitata solo parzialmente, l’alienante
medesimo è libero di cedere le proprie azioni al terzo con cui aveva originariamente trattato.
c) Clausola di gradimento è una vera e propria clausola di “chiusura” della compagine sociale, in
quanto si ha allorché il trasferimento delle azioni venga subordinato al consenso degli organi sociali (come
l’organo amministrativo o l’assemblea). In tale ipotesi, intento diretto degli azionisti è la selezione delle
persone che possono entrate a far parte della compagine sociale. Si tratta di una clausola in sé lecita in
quanto consente all’azionista l’astratta possibilità di disinvestire, è per questo che è sicuramente valida ed
efficace la clausola che puntualizzi ex ante i criteri in base ai quali debba essere concessa la possibilità di
entrare in società all’aspirante acquirente – clausola di gradimento non mero – ad es. si prevede che il
gradimento potrà essere negato all’acquirente che abbia rivestito nella sua carriera cariche politiche rilevanti
e perciò appaia potenzialmente pregiudizievole per l’immagine di assoluta neutralità politica che la società
vuole dare di sé. Invece quando si tratta di una clausola di mero gradimento, ossia che non indicano i criteri
sui quali la decisione degli organi sociali dovrà basarsi, l’art.2355-bis stabilisce che sia inefficace se non
prevede, a carico della società o degli altri soci, un obbligo di acquisto o il diritto di recesso dell’alienante.
l’acquisto possa avvenire solo con mezzi ulteriori rispetto a quelli che concretamente forniscono da
copertura alla cifra del capitale nominale, altrimenti tale operazione potrebbe comportare una indiretta
restituzione dei conferimenti ai soci, lesiva del principio di integrità del capitale sociale.
b) Possono essere oggetto di acquisto unicamente azioni interamente liberate (per le quali cioè non residui
un debito di conferimento a carico del socio alienante) là dove il debito fosse ancora sussistente,
all’acquisto di azioni proprie seguirebbe la compresenza nella S.p.a. acquirente delle qualità di creditore e
debitore, producendosi così l’estinzione dell’obbligazione suddetta per confusione: fatto che
contraddirebbe la regola di effettività del capitale sociale.
c) L’acquisto deve essere autorizzato dall’assemblea ordinaria, che ne fissa le modalità indicando il
numero massimo di azioni da acquistare, la durata (non superiore ai 18 mesi) per la quale
l’autorizzazione è accordata, il corrispettivo minimo e il corrispettivo massimo; inoltre, nel periodo di
detenzione delle proprie azioni il diritto di voto è sospeso, ma le azioni proprie sono tuttavia computate
ai fini del calcolo delle maggioranze e delle quote richieste per la costituzione e per le deliberazioni
dell’assemblea ( in tal modo è impedito agli amministratori di utilizzare le azioni proprie per
intervenire direttamente sulle dinamiche assembleari e viene limitata fortemente la possibilità dei soci di
riferimento di influire sulla concreta costruzione delle maggioranze); infine, finché le azioni rimangono
detenute dalla società emittente, il diritto agli utili e il diritto di opzione sono attribuiti
proporzionalmente alle altre azioni.
d) Il valore nominale delle azioni acquistate, nelle società che fanno ricorso al capitale di rischio non può
eccedere la quinta parte del capitale sociale, tenendosi conto a tal fine anche le azioni possedute dalle
società controllate.
Le azioni acquistate violando queste condizioni devono essere alienate, secondo modalità da determinarsi in
assemblea, entro un anno dal loro acquisto. In mancanza di vendita, si dovrà procedere al loro
annullamento e alla corrispondente riduzione del capitale sociale.
Le limitazioni previste dall’art. 2357 non si applicano quando l’acquisto di azioni proprie avviene:
- in esecuzione di una delibera dell’assemblea di riduzione del capitale sociale, da attuarsi mediante riscatto
e annullamento di azioni;
- a titolo gratuito, sempre che si tratti di azioni interamente liberate;
- per effetto di successione universale o di fusione o scissione;
- in occasione di esecuzione forzata per il soddisfacimento di un credito della società, sempre che si tratti di
azioni interamente liberate.
2) Sottoscrizione di azioni proprie la differenza con l’acquisto è che questo avviene a titolo derivativo,
mentre la sottoscrizione a titolo originario. In particolare è l’art.2357-quater che stabilisce il divieto per una
società di sottoscrivere azioni proprie e si tratta di un divieto assoluto, che non sono ammette deroghe, il cui
fondamento è ancora una volta ricondotto alla tutela del capitale sociale.
Esso opera infatti sia in sede di costituzione della società, sia in sede di aumento del capitale sociale.
Del pari, è vietata la sottoscrizione da parte della società controllata nei confronti delle azioni emesse in
un aumento di capitale deliberato dalla controllante: in effetti, anche in una tale ipotesi l’atto di
sottoscrizione delle azioni, per un verso pone a rischio il rispetto del principio di effettività del capitale, per
l’altro realizza un investimento di risorse in un programma di attività nel quale le medesime possono
ritenersi già indirettamente inserite, quanto meno in via potenziale, integrandosi in tal modo in una sorta di
“circolo vizioso”, cioè un investimento nelle stesse risorse da investire.
In caso di violazione del divieto di autosottoscrizione è prevista come sanzione non la nullità della
sottoscrizione (come avviene invece per l’applicazione delle norme generali in materia contrattuale): le
azioni si intendono sottoscritte e devono essere liberate dai soggetti che materialmente hanno violato il
divieto (precisando l’inapplicabilità della norma ai soggetti che siano esenti da colpa); e ciò al fine di
consentire comunque l’effettiva acquisizione dei relativi conferimenti.
Ultima fattispecie da analizzare è quella della sottoscrizione reciproca di azioni, che si realizza quando due
società non legate da rapporti di controllo decidano in parallelo di costituirsi o aumentare il proprio capitale,
l’una sottoscrivendo, per il medesimo importo, l’emissione dell’altro l’art. 2360 ne prevede il divieto (e
qui si ritiene che la sanzione sia la nullità). Infatti se due società si costituiscono o aumentano il capitale
sociale sottoscrivendo l’una il capitale dell’altra sia avrà una moltiplicazione illusoria di ricchezza nel senso
che aumenta il capitale sociale nominale delle due società senza che si incrementi il rispettivo capitale reale.
3) Finanziamento per l’acquisto di azioni proprie il codice stabilisce che la società non può,
direttamente o indirettamente, accordare prestiti, ne fornire garanzie per l’acquisto o la sottoscrizione delle
azioni proprie se non alle condizioni previste dall’art. 2358.
Tale articolo stabilisce che la concessione del finanziamento o delle garanzie è consentita previa
autorizzazione dell’assemblea straordinaria sulla base di una relazione degli amministratori che illustra
l’operazione sotto il profilo economico-giuridico, presentandone le ragioni e gli obiettivi imprenditoriali che
la giustificano, lo specifico interesse che l’operazione presenta per la società ed i rischi che essa comporta in
relazione alla liquidità e alla solvibilità della S.p.a. (attestando altresì che il finanziamento avviene a
condizioni di mercato). Il verbale dell’assemblea, corredato con la relazione degli amministratori, viene
pubblicato entro 30 giorni nel registro delle imprese.
Inoltre, l’art.2358 impone che per il finanziamento o la concessione di garanzie si ricorra a fondi tratti da
utili distribuibili e riserve disponibili, non destinati a fungere da copertura nei confronti al capitale sociale.
Se il finanziamento per l’acquisto di azioni proprie è consentito dalla legge (sebbene entro certi limiti), è
invece del tutto vietata l’accettazione di azioni proprie in garanzia.
In relazione alla violazione delle norme in parola la legge non detta previsioni, sicché si ritiene che
l’eventuale negozio di finanziamento o di prestazione di garanzia sarebbe nullo per contrasto con norma
imperativa.
Le obbligazioni
Come accennato in precedenza, il reperimento di risorse finanziarie nel mercato può avvenire anche con
strumenti diversi dalle azioni: è infatti prevista la possibilità per le società azionarie di emettere obbligazioni.
Con l’emissione di obbligazioni la S.p.a. riceve risorse finanziarie “a debito”, col conseguente impegno a
restituire ad una data scadenza la somma originariamente ricevuta (il capitale preso a debito) nonché,
normalmente, a effettuare pagamenti aggiuntivi nei confronti dei finanziatori, a titolo di interessi. È proprio
la previsione di un rimborso delle somme versate che rappresenta l’elemento che contraddistingue le
obbligazioni dalle azioni. Così, mentre l’emissione di azioni presuppone l’adesione del titolare, per effetto
della sottoscrizione del capitale, a un contratto di società, il rapporto sottostante la creazione di obbligazioni
è solitamente identificato in un mutuo o in un’altra operazione di tipo creditizio.
Come le azioni, anche le obbligazioni sono titoli di massa infatti rappresentano frazioni di uguale valore
nominale e con uguali diritti di un’unica operazione finanziaria. Peraltro, al contrario di quanto avviene per
le azioni, non è prevista la possibilità di una mancata emissione delle obbligazioni, sicché la loro
caratterizzazione come titoli (cartacei o dematerializzati) è irrinunciabile. Più in particolare si tratta di titoli
di credito (appartenenti al genere dei titoli di debito, distinto a quello dei titoli partecipativi cui
appartengono le azioni) e ciò significa che, mentre le azioni attribuiscono al titolare la qualità di socio e di
compartecipe ai risultati positivi o negativi dell’attività di impresa, le obbligazioni attribuiscono al titolare il
diritto alla restituzione delle somme prestate e al pagamento degli interessi, normalmente svincolati dai
risultati economici conseguiti dalla società ciò conferendo ai medesimi diritti i connotati di autonomia,
astrattezza e letteralità tipicamente caratterizzanti la fattispecie cartolare.
L’obbligazionista ha il diritto, alla scadenza pattuita, al rimborso del valore nominale del capitale prestato.
L’azionista, invece, ha diritto al rimborso del suo conferimento solo in sede di liquidazione della società e
sempre che risulti un attivo netto dopo che siano stati soddisfatti tutti i creditori sociali compresi gli
obbligazionisti.
Esistono diversi tipi di obbligazioni:
1) Obbligazioni a struttura semplice prevedono la restituzione finale della somma prestata nonché il
pagamento di interessi, a loro volta da corrispondere o periodicamente a parte come interessi cedolari
oppure inglobati nel capitale di restituzione;
2) Obbligazioni indicizzate quelle obbligazioni in cui la quantificazione della somma dovuta a titolo di
interessi è legata a parametri di diverso genere (indici di borsa, valutari);
3) Obbligazioni a premio prevedono la corresponsione, da parte della società ad alcuni obbligazionisti
(normalmente individuati tramite sorteggio), di somme aggiuntive rispetto quelle ordinariamente spettanti
in base al rapporto di credito;
4) Obbligazioni partecipative sono quelle obbligazioni in cui i tempi e l’entità del pagamento degli
interessi possono variare anche in dipendenza dell’andamento economico della società;
5) Obbligazioni postergate il rimborso del prestito è condizionato alla preventiva soddisfazione dei
diritti di altri creditori della società;
6) Obbligazioni convertibili in azioni sono caratterizzate dal diritto dell’obbligazionista, a determinate
condizioni e seguendo precise procedure, all’assegnazione di azioni in cambio delle obbligazioni
possedute, sulla base di un dato rapporto di cambio.
Va rimarcato, infine, come l’emissione di obbligazioni rappresenti il principale strumento di reperimento di
finanziamento a credito alternativo rispetto al modello dell’intermediazione bancaria.
mantenimento di un’adeguata proporzione tra assunzione del rischio e potere d’iniziativa a beneficio del
prudente governo dell’attività sociale.
È per questo, quindi in conformità con la sua ratio, che lo stesso al’art.2412 prevede una serie di ipotesi in
cui tale limite non si applica:
a) nell’ipotesi in cui le obbligazioni eccedenti la citata soglia siano destinate alla sottoscrizione da parte di
investitori professionali soggetti a vigilanza prudenziale a norma delle leggi speciali (è chiaro infatti che tali
soggetti sono in grado di valutare al meglio i rischi assunti con la sottoscrizione dei titoli societari e decidere
se giudicare l’investimento più o meno prudente);
b) per l’emissione di obbligazioni destinate a essere quotate in mercati regolamentati o in sistemai
multilaterali di negoziazione (qui è il contesto regolamentare che circonda l’emissione che appare in sé in
grado di scongiurare l’eventualità di una sottoscrizione da parte di investitori inaccorti);
c) per l’emissione di obbligazioni che danno il diritto di acquisire ovvero di sottoscrivere azioni cioè per
le obbligazioni convertibili in azioni o cui sono collegati warrants nei confronti di azioni emesse o di nuova
emissione;
d) qualora ricorrano particolari ragioni che interessano l’economia nazionale, sempre che la società sia in tal
caso autorizzata con provvedimento dell’autorità governativa all’emissione sopra la soglia di legge, e
comunque con l’osservanza dei limiti, delle modalità e delle cautele stabilite nel provvedimento stesso;
e) qualora le obbligazioni siano garantite da ipoteca di primo grado su immobili di proprietà della società
fino ai ⅔ del valore degli immobili medesimi.
La legge inoltre riconosce all’obbligazionista un interesse a monitorare il comportamento della società al
fine di rispettarne il programma contrattuale e tutelare il valore di scambio del titolo stesso. In tale
prospettiva sono previsti gli organi dell’assemblea degli obbligazionisti e del rappresentante comune.
L’assemblea degli obbligazionisti è l’organo deputato ad assumere tutte le decisioni che riguardano il
prestito obbligazionario e la posizione dei relativi sottoscrittori, in considerazione dell’interesse comune
degli stessi (art.2415).
La legge prevede un elenco delle competenze di tale organo, in particolare esso delibera:
- sulla nomina e sulla revoca del rappresentante comune;
- sulle modificazioni delle condizioni del prestito;
- sulle proposta di concordato;
- sulla costituzione di un fondo per le spese necessarie alla tutela dei comuni interessi e sul relativo
rendiconto;
- sugli altri oggetti di interesse comune agli obbligazionisti.
L’assemblea è convocata dagli amministratori della società o dal rappresentante comune degli
obbligazionisti. La convocazione è obbligatoria quando ne è fatta richiesta da tanti obbligazionisti che
rappresentano un ventesimo dei titoli emessi e non estinti. All’assemblea possono assistere amministratori e
sindaci. Per le delibere di modificazione delle condizioni del prestito è necessario, anche in seconda
convocazione, il voto favorevole degli obbligazionisti che rappresentano la metà delle obbligazioni emesse e
non estinte. Le deliberazioni dell’assemblea degli obbligazionisti sono iscritte nel registro delle imprese a
cura del notaio che ha redatto il verbale. Alle delibere dell’assemblea degli obbligazionisti si applica l’intera
disciplina dettata per le delibere assembleari nulle e annullabili.
Il rappresentante comune degli obbligazionisti non deve necessariamente essere scelto tra gli stessi
(art.2417) ma tale carica può essere rivestita da persone giuridiche autorizzate all’esercizio dei servizi di
investimento o da società fiduciarie. Si tratta di un organo necessario, atteso che nell’inerzia dell’assemblea
il rappresentante comune è nominato con decreto del tribunale, su domanda di uno o più obbligazionisti o
degli amministratori della società. Una volta nominato dura in carica non più di 3 esercizi, ma può essere
rieletto; può anche essere revocato ad nutum dall’assemblea degli obbligazionisti, spettandogli il diritto al
risarcimento del danno là dove la revoca sia senza giusta causa.
I doveri previsti dalla legge ne fanno una sorta di organo titolare di una funzione esecutiva, in quanto:
- esegue le deliberazioni dell’assemblea degli obbligazionisti;
- assiste alle operazioni di sorteggio delle obbligazioni, ove previste;
- deve tutelare gli interessi comuni degli obbligazionisti nei rapporti con la società;
- deve assistere all’assemblea dei soci (evidentemente in modo da riferire agli obbligazionisti i principali
fatti societari);
- ha diritto di esaminare il libro delle obbligazioni e quello delle adunanze dei soci, nonché di ottenerne
estratti;
- ha la rappresentanza processuale degli obbligazionisti, anche nelle procedure concorsuali.
Infine, merita approfondire il discorso sulle obbligazioni convertibili in azioni siccome sono l’unico tipo
cui la legge dedica un’apposita disciplina all’interno del codice civile (art.2420-bis).
Tale strumento prevede che il rapporto originario, nato come concessione di credito dall’investitore alla
società, si converta nel corso dello svolgimento della relazione sociale cioè la somma originariamente
acquisita dalla società a titolo di “capitale a debito”, a partire dalla conversione venga a considerarsi quale
“capitale di rischio”, attribuendo a quel punto all’investitore i titoli rappresentativi della sua mutata
situazione, in sostituzione di quelli primitivamente assegnatigli: dunque azioni al posto di obbligazioni.
In questo modo si realizza da un lato l’interesse della società a ottenere immediata liquidità, e dall’altro si
offre all’investitore la possibilità di effettuare un investimento potenzialmente suscettibile di tramutarsi in
iniziativa più redditizia trascorso un periodo iniziale di “studio” della società finanziata.
Questo meccanismo fa scaturire un problema di disciplina (ulteriore rispetto a quello ordinario) in quanto
questo tipo di obbligazioni sono assoggettate ad una serie di regole speciali, indirizzate a dare effettiva
protezione alla posizione dell’obbligazionista in quanto detentore di una “partecipazione potenziale”.
Anzitutto la delibera di emissione di obbligazioni convertibili in azioni è di competenza dell’assemblea
straordinaria (anziché del consiglio di amministrazione) il motivo è che accanto alla decisione di
emissione di obbligazioni, la società assume anche la deliberazione di aumento del capitale sociale per un
ammontare corrispondente alle azioni da attribuire in conversione, destinato a prodursi effettivamente solo a
misura delle dichiarazioni di conversione eventualmente raccolte.
Comunque, come previsto per l’aumento di capitale, anche l’assunzione della delibera di emissione di
questo tipo di obbligazioni può essere delegato agli amministratori, ma soltanto se previsto dallo statuto,
fino ad un ammontare determinato e per il periodo max di 5 anni.
Per quanto riguarda poi la procedura di conversione, la legge prevede che le azioni siano emesse dagli
amministratori a scadenze semestrali, sulla base delle dichiarazioni di conversione nel frattempo intervenute.
Dunque la modifica del capitale sociale corrispondente all’aumento di capitale deliberato al servizio della
conversione avviene in modo progressivo, sebbene “per salti” (di 6 mesi in 6 mesi). Di ogni modifica poi gli
amministratori devono darne pubblicità mediante deposito presso il registro delle imprese.
Inoltre, siccome la delibera di emissione deve determinare anche “il rapporto di cambio e il periodo e le
modalità di conversione”, la legge si preoccupa di assicurare che questo rapporto rimanga inalterato
stabilendo che nel periodo di pendenza del prestito obbligazionario non si possano deliberare ne la riduzione
volontaria del capitale sociale, ne la modificazione delle disposizioni statutarie concernenti la ripartizione
degli utili; mentre se le modifiche statutarie sono diverse da queste ma pur sempre rilevanti sul piano
dell’interesse dell’obbligazionista ad avvalersi della facoltà di conversione, nel silenzio della legge si ritiene
che esse vadano comunque approvate dall’assemblea degli obbligazionisti quali ipotesi equiparabili ad una
modifica delle condizioni del prestito. Nel caso in cui ricorra un abuso da parte degli azionisti o della
maggioranza degli stessi, il rappresentante comune potrà impugnare le delibere dei soci.
società abbia interesse a rivolgersi al pubblico degli investitori per raccogliere contribuzioni alla provvista di
rischio non rivolte però a incrementare il capitale azionario formalmente destinato al servizio dell’attività
comune ma suscettibili comunque di offrire un prezioso sostegno materiale al programma sociale, oppure
per sollecitare la domanda di investimento in crediti caratterizzati da un rimborso meno sicuro rispetto a
quanto ordinariamente accade col prestito obbligazionario, magari a fronte dell’offerta di una maggiore
remunerazione. È così che, in coerenza con il principio di libertà dell’iniziativa economica privata (art.41
Cost.) – il quale in sé implica che ogni operazione coerente col programma organizzativo d’impresa non
contrastante con l’utilità sociale dovrebbe essere consentita –, il legislatore prende in considerazione la
duplice esigenza della S.p.a. appena descritta, con una serie di norme intese a consentirle una autonoma
articolazione della propria struttura finanziaria in tal modo viene permesso il ricorso a strumenti
finanziari “atipici”.
In particolare l’art.2346, dopo aver stabilito che “la partecipazione sociale è rappresentata da azioni”, al 6°
comma precisa che resta salva la possibilità della società di emettere altri strumenti finanziari partecipativi:
ciò a fronte di “apporti” non destinati a formare il capitale, e con l’attribuzione di diritti patrimoniali o anche
diritti amministrativi escluso il voto nell’assemblea generale degli azionisti.
Inoltre, sebbene la tipologia ordinaria dell’investimento finanziario nel credito alla S.p.a. rimanga tuttora
quella obbligazionaria, l’art.2411, c.3, stabilisce che la società è pure legittimata ad emettere strumenti che
da tale modello si discostino sensibilmente, nella misura in cui prevedano un rimborso del capitale che sia
invece condizionabile, sia per i tempi che per l’entità, “all’andamento economico della società” così si
consente alla S.p.a. di ricorrere a strumenti finanziari di credito “ibridi” (noti fino alla fine del ‘900 solo
al settore della prassi bancaria): titoli suscettibili di intercettare categorie di investitori molto diverse dai
comuni obbligazionisti, perché caratterizzati da una propensione al rischio a questi ultimi del tutto estranea.
Per quanto riguarda gli strumenti finanziari emessi dalla società con contenuto partecipativo, la legge detta
una disciplina assai scarna. Innanzitutto, in relazione alla determinazione della prestazione, la norma
stabilisce soltanto che sia operato un “apporto”, dunque non un “conferimento”, ossia non una risorsa
destinata a contribuire alla formazione del capitale, il quale infatti non viene aumentato. Poi, quanto alle
prerogative, il compito di determinare i diritti patrimoniali è interamente affidato dalla legge all’autonomia
statutaria, riconoscendo così una discrezionalità che appare illimitata (anche se si ritiene che, per potersi
parlare di strumenti “partecipativi”, ai sottoscrittori di questi titoli deve essere riconosciuto quanto meno un
diritto agli utili). Nel caso invece in cui lo statuto preveda che ai portatori di strumenti finanziari spettino
anche prerogative di tipo amministrativo, la legge stabilisce (analogamente a quanto accade in materia di
categorie di azioni) la formazione di un’assemblea speciale, competente all’approvazione delle delibere
dell’assemblea generale dei soci che pregiudichino i diritti dei primi è solo in tale assemblea che i
portatori di strumenti finanziari possono più in generale esprimere i propri voti ogni qual volta lo statuto
riconosca loro tale potere.
Come detto, l’art.2411, c.3, legittima la S.p.a. all’emissione di strumenti finanziari atipici “di debito”,
caratterizzati dal fatto che il rimborso della somma fornita dagli investitori non sia assicurato, bensì dipenda
dall’andamento economico della società ad es. alla scadenza si rimborserà l’intera somma qualora la
società abbia raggiunto determinate soglie di fatturato, altrimenti solo l’80%.
Il regime giuridico di questa norma non solleva particolari questioni interpretative: infatti in essa viene
stabilita l’integrale applicabilità agli strumenti ora in esame delle norme dettate in tema di obbligazioni
societarie. Vi è comunque da precisare che la norma menziona esclusivamente la possibilità di un rimborso
di capitale condizionato all’andamento economico della società (dunque non può immaginare che il
rimborso sia parametrato a dati di mercato esterni alla società). Inoltre, con riguardo al rapporto tra le
fattispecie degli strumenti finanziari in generale “di debito” e quelli “partecipativi”, è assai dibattuto il tema
se si tratti di ipotesi alternative tra loro o se si possa immaginarsene una sovrapposizione (cioè ad es. che ai
possessori di strumenti finanziari partecipativi venga riconosciuto anche un diritto al rimborso). Nonostante
le due disposizioni abbiano origini differenti e nonostante abbiano una diversa collocazione nel codice civile,
la dottrina maggioritaria sposa la posizione più liberale, nell’intento di rispettare la regola di libertà e così
dare alla regola di autonomia la massima estensione possibile. Pertanto, viene considerata in prevalenza
lecita un’emissione di strumenti finanziari del tutto “ibridi”, la quale configuri un’operazione qualificabile
al contempo come “partecipazione” all’organizzazione d’impresa e credito nei confronti della stessa.
LA STRUTTURA ORGANIZZATIVA
Le S.p.a. sono caratterizzate dalla presenza di una struttura organizzativa complessa, articolata in 3 distinti
organi sociali, ai quali la legge assegna specifiche funzioni e le cui competenze sono tendenzialmente
inderogabili da parte dello statuto. La tipologia degli organi sociali e le relative competenze variano a
seconda del sistema di amministrazione e controllo adottato dalla società mentre il codice civile del ’42
prevedeva in origine un solo sistema organizzativo, basato sulla tradizionale tripartizione fra assemblea
(l’organo rappresentativo della compagine sociale), organo amministrativo (l’organo gestionale) e collegio
sindacale (l’organo di controllo interno), l’attuale disciplina – frutto della riforma del 2003 – prevede la
possibilità per le S.p.a. di adottare, previa apposita scelta statutaria, anche altri due sistemi alternativi: il
sistema monistico (di derivazione anglosassone) e il sistema dualistico (di derivazione tedesca), anche se
nella pratica sono scarsamente utilizzati. Qualora la società adotti uno dei due sistemi alternativi, mutano sia
la tipologia degli organi sociali che le relative competenze.
Indipendentemente dal sistema di amministrazione e controllo scelto, l’ordinamento delle S.p.a. prevede un
assetto societario interno caratterizzato dal principio della ripartizione fissa di competenze questo
assetto ha come principale obiettivo quello di assicurare la definizione di meccanismi di governo
dell’impresa (cd corporate governance) che privilegino l’interesse all’efficienza della gestione.
In tale sistema, l’esercizio dell’impresa è interamente affidato all’organo amministrativo, specializzato
nell’attività di gestione e responsabile anche verso i creditori ed i terzi per i danni cagionati con il proprio
operato; viceversa, le decisioni di tipo amministrativo (relative al complessivo assetto della società e al
controllo dei risultati della gestione) sono generalmente rimesse alla competenza dei soci (l’assemblea).
Inoltre, le società azionarie sono caratterizzate dalla necessaria presenza, all’interno dell’organizzazione
societaria, di un’autonoma funzione di controllo sulla legalità e sulla correttezza della gestione
imprenditoriale e dell’assetto aziendale, nonché sulla regolarità dei bilanci e delle scritture contabili; anche
nell’interesse della minoranza e dei terzi: funzioni assegnate, la prima, al collegio sindacale (o al consiglio
di sorveglianza nel sistema dualistico, o al comitato di controllo nel sistema monistico), mentre la seconda al
revisore, salvo che lo statuto assegno anche tale compito al collegio sindacale (opzione consentita nelle sole
società che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio).
L’assemblea
L’assemblea dei soci è l’organo di base del sistema tradizionale: tale organo è presente in tutti i sistemi di
amministrazione e controllo, ma le sue competenze sono più limitate nel caso di opzione del sistema
dualistico.
In primo luogo, l’assemblea è l’organo rappresentativo degli azionisti della società, anche se non deve
essere necessariamente composto da tutti gli azionisti, vista la possibilità di creare per statuto azioni prive
del diritto di voto o a voto limitato.
In secondo luogo, l’assemblea è un organo insopprimibile e necessariamente collegiale: lo statuto può al
massimo consentire ai soci di esprimere il proprio voto per corrispondenza o elettronicamente, ferma
restando la necessità di convocare e tenere la seduta assembleare; pertanto, ogni avente diritto al voto
conserva il diritto di assistere personalmente ai lavori assembleari.
In terzo luogo, le competenze dell’assemblea sono tassativamente determinate dalla legge (art.2364) e, salvo
i limiti stabiliti dalla legge stessa (art.2365), non sono delegabili in favore di altri organi della società.
Infine, l’assemblea decide secondo la regola della maggioranza, sulla base di aliquote del capitale sociale
che sono fissate in misura variabile, a seconda della materia (cd quorum costitutivi e deliberativi).
COMPETENZE
Le competenze dell’assemblea ordinaria e straordinaria sono stabilite dagli artt.2364-2365 tale
bipartizione, che presenta natura inderogabile, ha la funzione di assicurare che:
a) le decisioni periodicamente necessarie per il concreto funzionamento dell’organizzazione sociale siano
adottate in sede ordinaria, secondo regole di funzionamento più snelle e con maggioranze meno elevate;
b) le decisioni attinenti alle regole di funzionamento (modifiche statutarie), alle vicende evolutive
(liquidazione, trasformazione, fusione, scissione) ed alla struttura finanziaria della società (operazioni
sul capitale, obbligazioni convertibili), siano invece adottate in sede straordinaria, secondo regole che
assicurino una maggiore partecipazione dei soci, grazie a quorum più elevati, ed una maggiore certezza di
regolarità della decisione, mediante la presenza del notaio in funzione di segretario verbalizzante.
Le competenze fondamentali e indisponibili dell’assemblea ordinaria (art.2364) sono le seguenti:
1) Approvazione del bilancio e destinazione degli utili;
2) Nomina e revoca degli altri organi sociali (amministratori, sindaci, revisori con la sola eccezione
dei liquidatori che sono nominati in sede straordinaria);
3) Determinazione del compenso degli amministratori e dei sindaci;
4) Deliberazione dell’azione di responsabilità contro altri organi della società;
5) Ogni altra competenza genericamente rimessa da altre disposizioni di legge all’assemblea dei soci;
6) Deliberazione delle autorizzazioni eventualmente richieste per il compimento di atti degli
amministratori questo punto in particolare consente allo statuto di prevede che, per certe operazioni,
gli amministratori debbano ottenere la preventiva autorizzazione dell’assemblea ordinaria (anche se
sappiamo che la gestione dell’impresa sociale spetta in modo esclusivo agli amministratori, senza che
l’assemblea abbia alcuna possibilità di ingerenza) dunque tale norma rappresenta una forte
limitazione, in quanto sancisce e conferma il principio per cui l’assemblea non è un organo a
competenza generale e gli amministratori non sono meri mandatari dei soci, ma soggetti titolari di un
ufficio stabilmente e autonomamente preposto all’esercizio dell’attività imprenditoriale prevista dallo
statuto. Inoltre la norma precisa che, nel caso in cui l’assemblea conceda l’autorizzazione agli atti di
gestione prevista dallo statuto, resta in ogni caso ferma la piena responsabilità degli amministratori
per gli atti compiuti; mentre nel caso di diniego da parte dell’assemblea, gli amministratori sono del
tutto carenti di legittimazione al compimento dell’operazione, perciò se la compiranno lo stesso,
saranno esposti alla piena responsabilità per tutti i danni conseguenti all’operazione compiuta (oltre a
determinare la sussistenza di una giusta causa di revoca).
Invece le competenze fondamentali dell’assemblea straordinaria (art.2365) sono:
1) Modifiche dello statuo;
2) Nomina, sostituzione e determinazione dei poteri dei liquidatori e modalità della liquidazione;
3) Ogni altra materia attribuita dalla legge alla sua competenza ci si riferisce alla deliberazione di non
emissione delle azioni, emissione di obbligazioni convertibili in azioni, autorizzazione alla
concessione di prestiti e garanzie per la sottoscrizione o l’acquisto di proprie azioni.
L’art.2365 prevede espressamente che l’estensione delle competenze può derivare solo da norme speciali di
legge, dunque si deve escludere la possibilità che lo statuto possa aumentare le competenze dell’assemblea
straordinaria.
L’assemblea è unica e generale se la società ha emesso solo azioni ordinarie.
Quando invece sono state emesse diverse categorie di azioni, all’assemblea generale si affiancano le
assemblee speciali di categoria.
In assenza di diversa disciplina, all’assemblea speciale si applicano le norme previste per l’assemblea
straordinaria, se le azioni non sono quotate in borsa; se le azioni speciali sono quotate in borsa si applicano
la disciplina dell’assemblea degli azionisti di risparmio.
PROCEDIMENTO ASSEMBLEARE
L’assemblea è un tipico organo collegiale, il cui funzionamento è caratterizzato dal necessario rispetto di
tutte le fasi tipiche dei procedimenti collegiali, che nel caso delle S.p.a. sono regolate dal codice civile in
modo dettagliato e tendenzialmente vincolante.
I momenti essenziali del procedimento collegiale hanno tutti carattere formale (devono cioè rispettare
modalità e forme vincolate) e sono i seguenti:
convocazione dell’organo, con relativo “ordine del giorno”
costituzione e riunione
discussione
votazione e relativa deliberazione
proclamazione
verbalizzazione
La prima fase del procedimento assembleare è quella della convocazione decisa dall’organo
amministrativo (con alcune eccezioni) ogni qual volta lo ritenga opportuno; comunque, al verificarsi di
certe circostanze, essa diviene obbligatoria: quando si determinano perdite superiori ad ⅓ del capitale
sociale, quando si verifica una causa di scioglimento della società e in via generale è obbligatoria almeno
una volta l’anno per l’approvazione del bilancio. Il termine per la relativa delibera non può essere superiore
a 120 giorni dalla chiusura dell’esercizio, tuttavia lo statuto può prevedere un termine più lungo – fino a 180
giorni – nel caso di società tenute alla redazione del bilancio consolidato di gruppo ovvero quando lo
richiedono particolari esigenze relative alla struttura e all’oggetto della società. Il mancato rispetto del
termine di legge non comporta l’annullabilità della deliberazione assembleare ma espone gli amministratori
ad eventuali responsabilità).
La convocazione è altresì obbligatoria quando sussiste una richiesta della minoranza, e in particolare da tanti
soci che rappresentino 1/10 del capitale sociale (1/20 nelle società che fanno ricorso al mercato del capitale di
rischio).
La richiesta deve essere accompagnata dall’indicazione degli argomenti da trattare: non occorre pertanto
l’indicazione analitica dei punti dell’ordine del giorno.
L’ottemperanza all’obbligo di convocazione può anche avvenire da parte dell’organo di controllo (collegio
sindacale, consiglio di sorveglianza), in caso di inerzia dell’organo amministrativo. La convocazione deve
avvenire senza ritardo. L’art.2631 stabilisce il termine di 30 giorni e prevede sanzioni amministrative
pecuniarie a carico degli amministratori e dei sindaci ciò significa che questo è comunque il termine max.
L’atto di convocazione dell’assemblea è di competenza dell’organo amministrativo, quindi dev’essere
deliberato collegialmente dal consiglio di amministrazione. Tuttavia questa regola sembra derogabile dallo
statuto, che può rimettere tale competenza anche a singole cariche amministrative (come il presidente del
c.d.a.). Una volta deliberata la convocazione da parte del consiglio, l’avviso di convocazione è emesso dal
presidente del c.d.a., a meno che il consiglio non autorizzi altro amministratore ad hoc.
Altri soggetti titolari del potere di convocazione, nelle sole ipotesi previste dalla legge, sono: i sindaci
(quando vengono a mancare tutti gli amministratori o l’amministratore unico, quando la convocazione sia
obbligatoria e l’organo amministrativo non vi provveda, quando il collegio ravvisi fatti censurabili di
rilevante gravità e vi sia necessità di provvedere), il tribunale, l’amministratore giudiziario, i liquidatori.
Le modalità di emanazione dell’avviso di convocazione variano a seconda delle caratteristiche della società.
Nelle società non quotate esso deve essere pubblicato per legge sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica
almeno 15 giorni prima di quello fissato per l’adunanza, anche se lo statuto può prevedere la pubblicazione
su almeno un quotidiano espressamente indicato, fermo restando il limite legale. Inoltre in tali società lo
statuto può prevedere, anche in alternativa alla Gazzetta o al quotidiano, modalità di convocazione ancora
più semplici e con termine ridotto, purché tali da garantire la prova dell’avvenuto ricevimento dell’avviso
almeno 8 giorni prima dell’assemblea può dunque essere prevista la convocazione a mezzo raccomandata
con ricevuta di ritorno, ma anche per posta elettronica certificata, telefax o consegnata direttamente a mano.
L’avviso di convocazione deve contenere tutte le indicazioni relative alla data, all’ora, al luogo della
riunione, nonché l’ordine del giorno.
Nelle società quotate, l’assemblea è convocata almeno 30 giorni prima della data di svolgimento, mediante
avviso pubblicato su sito internet della società, nonché con le altre modalità eventualmente previste dalla
Consob con regolamento (è il TUF che prevede tali modalità). Il termine è anticipato a 40 giorni per
l’assemblea di nomina degli organi sociali.
Quanto al luogo della seduta, l’assemblea deve essere convocata nel comune dove ha sede la società, a
meno che lo statuto non autorizzi la convocazione anche in luoghi diversi.
L’ordine del giorno ha la funzione di informare i soci sulle “materie” in ordine alle quali si dovrà discutere
e deliberare (le deliberazioni prese su materie non all’ordine del giorno sono annullabili). Non è necessario
che sia indicato il contenuto di specifiche proposte che saranno avanzate dagli amministratori, comunque sia
può essere “sintetico” ma non “generico”. Invece per le società quotate è previsto (per motivi di maggiore
trasparenza) un obbligo degli amministratori di predisporre e pubblicare sul sito internet una relazione sulle
materie all’ordine del giorno.
L’assemblea si reputa validamente costituita quando tutti i soci sono presenti alla riunione (cd assemblea
totalitaria), con la conseguenza di sanare il mancato rispetto delle formalità iniziali (il difetto assoluto di
convocazione è causa di nullità della delibera; l’irregolarità della convocazione ne provoca l’annullabilità).
Tale eventualità consente: di rendere possibile lo svolgimento di assemblee anche in assoluto difetto di
convocazione, di sanare ogni eventuale irregolarità procedimentale in fase di convocazione, di legittimare
l’assemblea ad assumere ogni determinazione di propria competenza anche al di fuori dell’ordine del giorno
previsto nell’avviso di convocazione.
A tal fine è sempre necessaria la presenza di tutti gli aventi diritto al voto, anche per delega, ma non occorre
la presenza di tutti gli amministratori e di tutti i sindaci, essendo sufficiente che assista ai lavori la
maggioranza dei componenti i rispettivi organi.
Costituzione dell’assemblea e validità delle deliberazioni la validità delle deliberazioni assembleari di
una S.p.a. è subordinata al preventivo raggiungimento di un quorum costitutivo (cioè della presenza alla
riunione di un numero minimo di azioni richiesto per la validità della seduta) ed al successivo
raggiungimento di un quorum deliberativo (cioè di una maggioranza di voti favorevoli alla decisione, che
può essere calcolata secondo diversi criteri).
Il quorum costitutivo consiste nella regola per cui, se non intervengono alla seduta tanti soci da
rappresentare un certo numero di azioni, l’assemblea non può neppure iniziare i propri lavori: essa risulta
infatti non regolarmente costituita. La funzione di tale regola è quella di garantire che le decisioni, al fine di
una loro migliore ponderazione, vengano assunte con la partecipazione e il confronto tra un numero minimo
di soci, in quanto portatori di una quota dell’investimento azionario ritenuta adeguata (per questo motivo,
potrebbe bastare anche un solo socio, ove rappresenti l’aliquota di capitale sufficiente).
Per il calcolo del quorum costitutivo non devono contarsi le azioni prive in generale di intervento (come le
azioni di risparmio e le azioni a voto limitato), mente si devono computare le azioni “occasionalmente”
prive di tale diritto (ad es. quelle in possesso della stessa società o quelle dei soci che non hanno effettuato
gli adempimenti pubblicitari per i patti parasociali) anche se non intervenuti alla seduta tali azioni non si
conteranno invece nel quorum deliberativo. Ciò significa, nel primo caso e non nel secondo, che viene
agevolata la possibilità di costituire regolarmente l’assemblea (se le azioni non si computano, significa che
la base di calcolo per il raggiungimento del quorum costitutivo è più ristretta). La ratio è quella di evitare
che situazioni occasionali incidano in modo tale da attribuire ad esigue minoranze rilevanti poteri
deliberativi, soprattutto in sede straordinaria.
Il quorum deliberativo risponde ad una funzione diversa: perché una decisione possa considerarsi adottata,
occorre che si siano espressi favorevolmente tanti soci da rappresentare una certa aliquota di capitale.
Per il calcolo di tale quorum la legge ricorre di volta in volta a due parametri: in alcuni casi esso è
computato sul capitale sociale complessivo della società, e in altri sul capitale concretamente presente in
assemblea (in questo secondo caso si tiene conto anche della posizione dei presenti non votanti o di coloro
che si sono espressamente e volontariamente astenuti). In entrambi tali parametri non si deve tenere conto
delle azioni del socio in conflitto di interessi e dei soci il cui voto sia occasionalmente sospeso.
La disciplina del quorum, costitutivo e deliberativo, è diversa per l’assemblea ordinaria e quella straordinaria.
Se, all’inizio della riunione si constata la mancata formazione del numero legale, il presidente
dell’assemblea deve dichiarare la mancata costituzione della seduta e l’assemblea dovrebbe essere convocata
a una nuova data. Per ovviare all’inconveniente di riavviare tutto il procedimento, l’art.2369 prevede
l’istituto della 2ª convocazione, il cui avviso può essere contestuale a quello della prima oppure emanato
separatamente. Essa deve essere fatta in un giorno diverso da quello della prima ma deve tenersi entro 30
giorni dalla precedente.
L’assemblea ordinaria, in 1ª convocazione, è regolarmente costituita quando è rappresentata almeno la metà
del capitale sociale, e delibera a maggioranza assoluta (ossia con il voto favorevole della metà più una delle
azioni). L’assemblea ordinaria, in 2ª convocazione, si considera validamente costituita qualunque sia la parte
del capitale sociale rappresentato in assemblea (dunque non è previsto alcun quorum costitutivo), mentre per
quanto riguarda il quorum deliberativo, non essendo stabilito, si applica l’art.2368 (maggioranza assoluta del
capitale presente).
La disciplina delle assemblee straordinarie è, invece, diversa a seconda che la società faccia o meno ricorso
al mercato del capitale di rischio.
In 1ª convocazione, per le società chiuse, non è previsto espressamente un quorum costitutivo, tuttavia lo
stesso risulta indirettamente dal fatto che il quorum deliberativo è rappresentato da percentuali dell’intero
capitale sociale con diritto di voto e non del solo capitale intervenuto in assemblea (come invece avviene per
Diritto di intervento e diritto di voto secondo l’art.2370, il diritto di intervenire in assemblea spetta –
oltre a tutti i componenti dell’organo amministrativo e dell’organo di controllo (per i quali è anzi un dovere)
– a tutti gli azionisti titolari di diritto di voto (o eccezionalmente a taluni soggetti diversi dagli azionisti,
come l’usufruttuario e il creditore pignoratizio).
Il diritto di intervento in assemblea ha dunque carattere puramente strumentale, e non gode di tutela
autonoma rispetto al diritto di voto è per questo che non hanno diritto di intervento gli azionisti privi del
diritto di voto come gli azionisti di risparmio nelle società quotate, i titolari di azioni di godimento e senza
voto, il nudo proprietario o il debitore che abbia dato in pegno le proprie azioni (quando il voto sia attribuito
all’usufruttuario o al creditore pignoratizio) e l’azionista che abbia subìto un sequestro sulle proprie azioni
(in tal caso il voto spetta al custode). Comunque non vi sono ragioni per ritenere che la norma non possa
essere derogata dagli statuti, attribuendo in tal modo anche ai titolari di azioni prive di voto il diritto di pieno
intervento oppure solo il diritto di assistere alle adunanze assembleari.
Per essere ammesso alla singola assemblea, l’azionista deve dimostrare la propria legittimazione:
- nel caso in cui non siano stati emessi titoli, il socio si dovrà presentare alla riunione e il presidente
dell’assemblea dovrà verificare la corrispondenza tra la sua identità ed il nominativo iscritto a libro soci;
- nel caso in cui l’azione sia documentata in un titolo cartaceo, il socio dovrà esibire il titolo azionario la
sua identità e la sua legittimazione cartolare verranno accertate seduta stante dal presidente dell’assemblea
(in questa ipotesi lo statuto può anche subordinare l’intervento del socio ad una prenotazione, da effettuarsi
mediante deposito dei titoli azionari presso la sede della società o presso anche indicate nell’avviso di
convocazione: il termine max che può essere stabilito nello statuto non è fissato dalla legge per le società
chiuse mentre è fissato in 2 giorni per le società aperte);
- nel caso di azioni soggette al regime di dematerializzazione, il controllo della legittimazione è demandato,
anziché al presidente dell’assemblea, agli intermediari presso cui sono registrate le azioni, che
effettueranno un’apposita comunicazione alla società dietro richiesta del socio.
Un’importante modalità alternativa di partecipazione, prevista sempre dall’art.2370 (c.4), è costituita
dall’ammissibilità dell’intervento telematico (con relativo voto) e del voto per corrispondenza, dietro
previsione di apposita clausola: nel primo caso – che si rivolge alle società chiuse – la partecipazione del
socio avviene mediante l’utilizzo di mezzi di telecomunicazione (come ad es. un audio-conferenza) ai
soci che partecipano a distanza deve essere data la possibilità di intervenire attivamente anche nella
discussione assembleare e votare simultaneamente agli altri soci; nel secondo caso invece – immaginato per
le società aperte – il socio non partecipa alla seduta assembleare, ma invia il proprio voto prima della seduta,
in forma cartacea o elettronica, con le modalità indicate dallo statuto tale sistema richiede però che
nell’avviso di convocazione siano testualmente formulate le singole proposte su cui dovrà esprimersi il voto
favorevole, contrario o di astensione, e non solo le materie di discussione all’ordine del giorno; il socio che
esprime il suo voto per corrispondenza si considera intervenuto nell’assemblea, ed è per questo motivo che
le relative azioni vanno computate nel quorum costitutivo.
Il presidente dell’assemblea ha un ruolo importante nel procedimento collegiale, in quanto gli spettano:
- il controllo sulla regolare costituzione dell’organo (incluso l’accertamento dell’identità e della
legittimazione dei presenti);
- la direzione dei lavori (lo svolgimento della discussione, formulazione delle proposte di deliberazione,
modalità di votazione e controllo sullo svolgimento della stessa);
- lo scrutinio e la proclamazione dei risultati;
- la verbalizzazione.
Il presidente dell’assemblea è rappresentato dalla persona indicata nello statuto (che fa usualmente
riferimento alla carica del presidente del c.d.a. o ad altra carica amministrativa, ma potrebbe anche limitarsi
a prevedere una procedura per la nomina del presidente, o in alcuni casi identificarla in un determinato socio
o amministratore), oppure, in mancanza, da quella eletta con il voto della maggioranza dei presenti
(maggioranza calcolata per teste). In caso di violazione delle norme che disciplinano l’attribuzione della
carica presidenziale, le deliberazioni assunte dall’assemblea sono annullabili.
Il presidente di norma è coadiuvato da un segretario, eletto nelle stesse modalità del primo, che lo assiste
nelle varie operazioni e collabora attivamente alla verbalizzazione, controfirmando il documento finale.
Nelle assemblee straordinarie le funzioni del segretario sono assorbite dal notaio al quale viene affidata la
verbalizzazione (nelle assemblee ordinarie invece il ricorso al notaio può essere previsto dallo statuto o
deciso dall’assemblea a maggioranza).
È stato ampiamente discusso se la funzione del presidente debba intendersi come funzione autonoma, cioè se
si debba considerare un organo della società, dotato di competenze autonome, o se sia un semplice
mandatario degli azionisti presenti in assemblea. L’art.2371 (come modificato dalla riforma del 2003)
afferma e precisa le competenze del presidente – prima inespresse – perciò sembra aver chiarito che la carica
del presidente esprime una funzione propria e non delegata. Pertanto le decisioni del presidente, nell’ambito
della propria competenza, non sono sindacabili o revocabili seduta stante da parte dell’assemblea. Il
carattere originario delle sue funzioni tuttavia non comporta la configurazione di un potere “assoluto” sulla
direzione dei lavori assembleari ma, almeno limitatamente alle materie che attengono a scelte discrezionali
(come l’ordine dei lavori, la sospensione della seduta o la scelta del sistema di votazione), egli deve tenere in
ragionevole conto l’opinione dei soci.
Il codice civile, diversamente da tutte le altre figure dell’organizzazione societaria, non disciplina l’ipotesi
della revoca del presidente probabilmente al fine di assicurare anche sotto questo aspetto la massima
stabilità della carica. Infatti, almeno nel caso in cui il presidente è individuato mediante il ricorso a clausole
statutarie, è preferibile ritenere che egli non sia revocabile, neanche per giusta causa. Se invece è nominato
dall’assemblea, dovrebbe prevalere il principio della tendenziale revocabilità di tutte le cariche previste nel
diritto privato.
Svolgimento dei lavori e votazione la disciplina legale dello svolgimento dei lavori non è molto
dettagliata, in quanto è per larga parte rimessa alle valutazioni e alle decisioni del presidente. Egli deve
innanzitutto procedere alla verifica della legittimazione in capo ai presenti, in seguito potrà inoltre regolare
la discussione, imponendo limiti di tempo agli interventi ed esercitando poteri di “polizia” interni se si
verificano abusi o scorrettezze da parte di qualcuno dei partecipanti.
Un punto importante nello svolgimento dei lavori assembleari è costituito dall’esercizio del diritto di
informazione da parte degli azionisti. Spesso gli interventi di questi consistono in domande rivolte agli
amministratori o ai sindaci e costoro hanno il dovere di rispondere (purché la domanda sia pertinente e la
materia di cui si tratta non sia coperta da segreto aziendale).
Nelle società quotate, il TUF ha introdotto il diritto per ogni azionista di porre domande sulle materie
all’ordine del giorno anche prima dell’assemblea. La società, che è tenuta a fornire risposta, può provvedere
mediante pubblicazione di un’apposita relazione sul sito internet della società, in modo da evitare
l’appesantimento del lavori assembleari.
Il presidente deve anzitutto rispettare l’ordine del giorno evitando allargamenti o restrizioni ingiustificate
della materia in discussione. Anche la successione degli argomenti contenuta nell’ordine del giorno deve
essere rispettata, salvo che l’assemblea deliberi una inversione dell’ordine del giorno. La discussione deve
essere regolata in modo da evitare ogni discriminazione a danno di uno o più azionisti ed il presidente può
anche sciogliere la seduta se non sussistono le condizioni per un ordinato svolgimento dei lavori.
L’art.2374 prevede un diritto di rinvio dell’assemblea, attribuito a coloro i quali raggiungano la quota di ⅓
del capitale sociale (avente diritto di voto) e dichiarino di non essere sufficientemente informati sugli
argomenti in discussione si tratta di un vero e proprio diritto della minoranza, ragion per cui, se la
richiesta di rinvio viene respinta, la delibera conseguente è annullabile. L’assemblea non può essere rinviata
ad oltre 5 giorni, sennò si dovrà provvedere ad una nuova convocazione.
Diversa invece dal rinvio su richiesta della minoranza è il rinvio che può essere deliberato anche a
maggioranza del capitale presente, di solito per finalità di consentire un’ulteriore riflessione sulle materie
all’ordine del giorno. Anche in tal caso l’assemblea è automaticamente riconvocata alla data indicata a
verbale, senza necessità di ulteriore convocazione (anche qui trova applicazione il termine max di 5 giorni).
Per quanto riguarda invece la votazione, deve anzitutto essere scelto il metodo, e questo è proprio un
compito del presidente, che deve comunque tenere conto di mozioni d’ordine approvate dall’assemblea,
salvo l’esistenza di apposite clausole nello statuto o nel regolamento. Fra i possibili metodi vi sono:
- le dichiarazioni verbali
- il metodo per alzata di mano
- il metodo per acclamazione
- l’utilizzo di schede precompilate.
La votazione deve essere simultanea è causa di invalidità l’alterazione nella successione delle varie fasi.
Varie ragioni portano inoltre a ritenere che non sia ammissibile il sistema del voto segreto: l’art.2375
impone l’identificazione nel verbale dei soci favorevoli-contrari-astenuti; l’esercizio del diritto di
impugnazione e di recesso spettano ai soli soci dissenzienti o astenuti, i quali hanno l’onere di dichiarare il
proprio voto ed ottenerne la verbalizzazione; infine il voto segreto è incompatibile con la disciplina del
conflitto d’interessi, la cui applicazione impone di verificare come abbia votato ogni socio.
È controversa invece la possibilità di esercitare il cd voto divergente quel voto per mezzo del quale un
socio, titolare di più azioni, voti in un certo modo con una parte di azioni e in modo differente con la restante
parte. La giurisprudenza nega la legittimità ritenendo che il comportamento del socio non può essere
contraddittorio ma la dichiarazione di voto deve essere necessariamente unitaria. Tuttavia tale orientamento
non è convincente in quanto in ipotesi speciali (come nel caso del fiduciario di più soggetti) il voto
divergente è del tutto normale; pertanto si deve ritenere che tale voto sia in linea di principio legittimo.
Subito dopo la votazione deve essere accertato il risultato dei lavori e il presidente deve effettuare la cd
proclamazione cioè la dichiarazione che l’assemblea ha accolto o rigettato le singole proposte di
deliberazione. Solo a questo punto la trattazione del relativo punto all’ordine del giorno deve dichiararsi
esaurita. Può accadere che la proclamazione sia errata, o per errori materiali nel computo dei lavori o per
altre ragioni: in questo caso la delibera finale è certamente impugnabile, ma si discute se la decisione del
giudice possa essere soltanto invalidativa o possa essere anche correttiva. Nel caso di errori materiali di
calcolo la seconda soluzione sembra preferibile, mentre nel caso in cui il vizio risieda in errori giuridici
relativi a valutazioni antecedenti alla votazione (come l’esclusione dal voto di soggetti ritenuti in conflitto
d’interessi) la sentenza dovrà limitarsi ad annullare la deliberazione e gli amministratori dovranno convocare
nuovamente l’assemblea.
fondamentali, che già in sede di costituzione sono soggette al controllo notarile di legalità. Il notaio che
ravvisi nella decisione concretamente adottata un profilo di nullità, è tenuto comunque alla redazione del
verbale, ma successivamente non procederà all’iscrizione nel registro delle imprese ex art.2436, bloccando
di fatto l’operatività della delibera.
Invece in caso di assemblea ordinaria il verbale è redatto insieme e sottoscritto dal presidente e dal
segretario (dunque la redazione del verbale comporta un rapporto di collaborazione tra questi due).
Quanto al contenuto del verbale, l’art.2375 precisa che esso deve essere “analitico”, cioè deve indicare
l’identità dei partecipanti, il capitale rappresentato in assemblea, le modalità ed il risultato delle votazioni, e
deve consentire l’identificazione dei soci favorevoli, astenuti o contrari. Con la sola eccezione della
indicazione delle modalità e del risultato della deliberazione, tutti gli altri elementi possono risultare da
allegati (come il cd foglio firme, che serve ad indicare i presenti alla seduta). Nel verbale devono essere
inoltre riassunte, su richiesta degli intervenienti, le relative dichiarazioni, purché siano pertinenti all’ordine
del giorno. La verbalizzazione inesatta o incompleta, quando è tale da impedire l’accertamento del contenuto,
degli effetti o della validità della delibera, determina l’annullabilità della deliberazione assembleare.
In ordine ai tempi di redazione, non è richiesta la contestualità, potendo il verbale essere legittimamente
redatto in data posteriore alla seduta assembleare, purché senza ritardo e in tempo utile per gli obblighi di
deposito e pubblicazione. L’omessa verbalizzazione entro i suindicati termini determina pertanto nullità
della deliberazione – salva la sanatoria per verbalizzazione tardiva, purché inderogabilmente intervenuta
prima della successiva assemblea – che può farsi valere nel termine ordinario di 3 anni.
Il conflitto d’interessi con l’esercizio del diritto di voto il socio concorre alla formazione della volontà
sociale in proporzione al numero delle azioni possedute. Tale esercizio è in linea di principio rimesso alla
totale discrezionalità del socio il quale deve esercitarlo in modo da non arrecare un danno al patrimonio
della società. Questo limite si desume dalla disciplina del conflitto d’interessi, secondo la quale versa in
conflitto di interesse l’azionista che in una determinata delibera ha, per conto proprio o altrui, un interesse
personale contrastante con l’interesse della società.
L’esercizio del diritto di voto nelle S.p.a. dunque non è libero e insindacabile, poiché queste costituiscono
organizzazioni complessivamente volte al perseguimento di un predeterminato fine, che è rappresentato
dall’interesse sociale. Mentre, però, la regola della “funzionalizzazione” del voto (cioè che questo debba
essere rivolto al perseguimento dell’interesse sociale) vale senz’altro per le deliberazioni dell’organo
amministrativo (gli amministratori hanno il dovere di perseguire tale interesse), per quanto riguarda il voto
dell’azionista si afferma la regola che esso incontra nel medesimo interesse solo un limite esterno, tracciato
dalla disciplina del conflitto d’interessi.
L’art.2373 costituisce attuazione di una regola generale dei procedimenti collegiali: quella per cui il
componente dell’organo, che si trovi in conflitto d’interessi con l’ente, dovrebbe in linea di principio
astenersi dalla partecipazione a votazioni sulla materia oggetto del conflitto.
Un tale conflitto di verifica quando l’interesse personale del socio sia contrapposto a quello della società,
cioè quando il socio è posto nell’alternativa di privilegiare l’interesse sociale o al contrario quello personale:
l’interesse personale, anche se oggettivo e determinante, non rileva invece se non risulta in oggettivo
contrasto con quello della società.
In sostanza, la legge non impone all’azionista di orientare il proprio voto in modo da perseguire al meglio
l’oggettivo interesse sociale; non gli impone neppure di partecipare alle assemblee e di votare (nemmeno
quando una certa delibera sia vitale per la società); di più, non si occupa neanche dell’ipotesi in cui
l’azionista persegua, con il proprio voto, un interesse extrasociale, finché questo non entra in contrasto con
quello sociale la legge interviene solo in caso di conflitto, quando ad es. il socio proprietario di uno
stabilimento sia chiamato a votare l’autorizzazione all’acquisto del medesimo da parte della società per un
prezzo assai più elevato rispetto a quello di mercato.
Il legislatore non sancisce un obbligo di astensione a carico dell’azionista in conflitto d’interessi, ma dispone
che il suo voto costituisca causa di annullabilità della deliberazione quando:
a) sia stato determinante (prova di resistenza), o
b) abbia contribuito all’approvazione di una deliberazione idonea a danneggiare la società (danno
potenziale).
La disciplina normativa rimette pertanto al socio la decisione se astenersi o votare e il presidente
dell’assemblea non può estrometterlo dalla riunione, sicché si corre il pericolo di annullamento della
deliberazione se il voto viene esercitato in direzione contraria all’interesse della società.
Dunque ciò che rileva è che la decisione sia oggettivamente conforme con l’interesse sociale e non con
l’interesse esterno del socio.
L’idoneità a danneggiare la società deve comunque essere intesa in senso oggettivo e non va confusa con la
circostanza che l’azionista, attraverso l’atto deliberativo, realizzi anche propri interessi personali, rispetto ai
quali l’interesse della società sia indifferente (per questa ragione la giurisprudenza ritiene che le delibere di
nomina a cariche sociali siano valide, anche nel caso in cui determinati azionisti abbiano votato per se stessi).
L’unica ipotesi in cui il codice vieta in via preventiva ed assoluta il voto è quella stabilita dall’art.2373, c.2,
per i soci-amministratori nelle deliberazioni riguardanti la loro responsabilità in tali ipotesi il socio è
privo della legittimazione al voto, ragion per cui il presidente dell’assemblea ha il dovere di escluderlo dalla
votazione.
Abuso di maggioranza e di minoranza situazione diversa dal conflitto d’interessi è quella che si può
determinare se una deliberazione viene assunta dalla maggioranza per danneggiare non la società, ma i soci
di minoranza: ipotesi qualificata come abuso di maggioranza (ad es. viene deliberato un aumento di capitale
anche se la società non ne ha specifico interesse, al solo fine di ridurre la quota di partecipazione dei soci di
minoranza, i quali non abbiano disponibilità per sottoscrivere le azioni di nuova emissione).
È normalmente accettata la tesi secondo cui la deliberazione assembleare, in quanto momento attuativo di un
rapporto privatistico di tipo patrimoniale, debba rispettare il principio di buona fede, ed è pertanto
annullabile la delibera per non conformità alla legge in caso di violazione inoltre, ove la rimozione
dell’atto non basti, la sanzione consiste anche nel risarcimento del danno a carico dell’azionista e a favore
dei soci danneggiati. Generalmente si ritiene che il dovere di correttezza funga da limite esterno alla
altrimenti completa e insindacabile libertà di esercizio del diritto di voto da parte dell’azionista, sanzionando
il comportamento del socio che, pur non pregiudicando l’interesse sociale, persegua strumentalmente con il
voto l’obiettivo di arrecare danno agli altri soci si può pensare alla ripetuta decisione della maggioranza
di non distribuire mai gli utili annuali, adottata nonostante l’assenza di esigenze finanziarie della società, ed
al chiaro scopo di indurre la minoranza a cedere a basso prezzo le proprie azioni.
Accanto al richiamo dell’abuso del voto, è presente talora quello alla figura dell’eccesso di potere. La
differenza consiste nel fatto che la figura dell’abuso richiede la prova del dolo (specifico) dei soci di
maggioranza a danno di quelli di minoranza, mentre per l’eccesso di potere dovrebbe bastare la prova
dell’inconfigurabilità oggettiva di un interesse sociale ragionevole alla base della delibera.
Il medesimo, ma speculare, problema porsi anche nei confronti della maggioranza, cioè il caso in cui
l’adozione della delibera sia impedita dal comportamento ostruzionistico di alcuni soci, finalizzato al
raggiungimento di interessi extrasociali (ad es. attività imprenditoriali in concorrenza con la società): è
questa l’ipotesi dell’abuso di minoranza. Ciò accade più facilmente quando le partecipazioni sono divise fra
due (o più) soci in parti uguali, sicché l’abuso di voto negativo di ciascuno porta alla paralisi dell’assemblea;
oppure nel caso di assemblee straordinarie di società aperte, in cui si delibera con il voto favorevole di
almeno ⅔ del capitale presente, sicché il socio detentore di più di ⅓ dello stesso può far rigettare con il
proprio voto qualsiasi proposta. Anche in tal caso l’azionista può essere mosso dall’intento di perseguire un
interesse personale in danno di quello sociale o da quello di danneggiare gli altri soci, contro il principio di
buona fede.
Rispetto a tali situazioni, deve certamente riconoscersi la responsabilità civile dell’azionista che abbia
tenuto una condotta abusiva. La giurisprudenza prevalente ritiene invece che non possa esprimersi, da parte
dei controinteressati, un’azione di annullamento del voto e di conseguente accertamento dell’approvazione
della proposta sostenuta dal voto degli altri azionisti pertanto l’annullamento delle delibere negative
dovrebbe avere il solo esito di imporre che l’assemblea venga riconvocata sullo stesso ordine del giorno.
giustifica una legittimazione ad agire più ampia (la delibera sarà impugnabile anche dai soci che non
raggiungono le percentuali del 5% o 1‰.
Comunque, il vizio di nullità non può essere fatto valere da chi, anche successivamente all’assemblea, abbia
dato (in qualunque forma) il proprio assenso allo svolgimento della stessa.
La mancanza di verbale è causa di nullità solo se consiste nella mancanza assoluta di un documento,
sottoscritto dal presidente dell’assemblea o dal presidente del consiglio di amministrazione o del consiglio di
sorveglianza e dal segretario o dal notaio, contenente quanto meno l’indicazione dell’oggetto, e cioè sia
delle materie trattate sia della deliberazione concretamente assunta dall’assemblea.
La mancata indicazione di tutti gli elementi di cui all’art.2375 può essere invece solo causa di annullabilità;
analogamente, si avrà semplice annullabilità se il verbale è privo della sottoscrizione del presidente
dell’assemblea o di quella del segretario.
La nullità è però sanata con effetto retroattivo se la verbalizzazione interviene prima dell’assemblea
successiva, salvi i diritti acquisiti dai terzi che in buona fede ignoravano l’esistenza della deliberazione.
La legittimazione all’impugnazione spetta a chiunque vi abbia interesse, ivi compresi i soci che abbiano
votato a favore della deliberazione. La nullità può essere rilevata anche d’ufficio dal giudice.
A differenza dell’azione di nullità dei contratti, che non è soggetta a termini di prescrizione o decadenza, le
deliberazioni nulle possono essere invece impugnate nel termine di 3 anni dall’iscrizione o dal deposito nel
registro delle imprese, se previsti dalla legge, o in caso contrario, dalla trascrizione nel libro delle adunanze
dell’assemblea. Tale termine non vale per il caso “di scuola” delle deliberazioni che abbiano modificato
l’oggetto della società, prevedendo lo svolgimento di attività illecite o impossibili, nel qual caso l’azione è
imprescrittibile e in ogni caso per tutti i casi di illiceità assoluta del dispositivo e in particolare per la
modifica dello statuto mediante introduzione di clausole a loro volta nulle per contrasto con norme
imperative di legge.
c) Inesistenza e inefficacia le deliberazioni assembleari possono essere oggetto di contestazione
attraverso il richiamo non soltanto delle figure tipiche dell’annullabilità e nullità.
L’inesistenza si riferisce al caso in cui la deliberazione sia solo apparente e manchi dei requisiti essenziali
della fattispecie in tal caso non si tratta di invalidare e rimuovere gli effetti di una decisione pur sempre
assunta, ma semplicemente di accertare (con legittimazione da parte di chiunque vi abbia interesse e senza
limiti di tempo) l’assenza in concreto di qualsivoglia atto qualificabile come deliberazione di una certa
assemblea. L’inesistenza è una figura di creazione giurisprudenziale, originariamente applicata in caso di
violazioni procedimentali particolarmente gravi (mancata convocazione o raggiungimento della
maggioranza o verbalizzazione), ma è stata drasticamente ridimensionata con la riforma del 2003, come si
evince chiaramente dal fatto che la omessa convocazione e verbalizzazione sono state ora espressamente
qualificate come causa di “nullità”, soggette al nuovo termine prescrizionale di 3 anni. Ne consegue, altresì,
la scelta implicita del legislatore di non ritenere nulle, ma solamente annullabili, le altre fattispecie che la
giurisprudenza aveva ricondotto all’interno di tale figura. Tale opzione normativa è strettamente coerente
con il complessivo disegno riformatore in materia di invalidità delle delibere, che ha decisamente
privilegiato (rispetto al passato) l’interesse alla stabilità delle deliberazioni assembleari. Il ricorso alla
figura in questione deve ritenersi plausibile almeno per i casi limite di inesistenza materiale e allorché siano
contemporaneamente mancanti sia la convocazione che la verbalizzazione (quando sono omesse entrambe le
fasi, non può pertanto trovare applicazione il regime della nullità).
L’inefficacia è invece un vizio derivante dalla carenza di legittimazione rispetto al potere deliberativo
dell’assemblea (ad es. mancanza di titolarità dei diritti di cui si dispone, carenza di una condicio juris). Il
regime è simile a quello dell’inesistenza, in quanto la violazione può essere dedotta senza limiti di tempo ma
può essere fatta valere soltanto dai soggetti lesi (ed anche dagli amministratori) e può essere in linea di
principio sanata successivamente, ove ne sussistano i presupposti.
Gli amministratori
Il sistema tradizionale, che si applica in assenza di una previsione statutaria, è basato sulla presenza di due
organi nominati dall’assemblea: l’organo amministrativo ed il collegio sindacale, mentre il controllo
contabile è affidato per legge ad un organo esterno alla società (revisore o società di revisione).
In questo sistema le S.p.a. non quotate possono avere sia un amministratore unico sia una pluralità di
amministratori che formano il consiglio di amministrazione. Nelle S.p.a. quotate è obbligatoria la
costituzione di un consiglio di amministrazione, dove almeno 1 amministratore deve essere espressione della
minoranza, ed inoltre almeno 1 componente (2, se il consiglio è composto da più di 7 membri) deve essere
un cd amministratore indipendente deve cioè essere in possesso dei requisiti di indipendenza stabiliti per
i sindaci e degli ulteriori requisiti eventualmente previsti dallo statuto.
COMPETENZE
Gli amministratori hanno competenza esclusiva sull’attività di gestione, e dunque per il compimento di
tutte le operazioni (atti e/o fatti) volte ad attuare l’oggetto sociale. La competenza esclusiva dell’organo
amministrativo in materia gestoria è regola inderogabile (art.2380-bis), sia per l’organizzazione interna della
società, sia come divieto dell’attribuzione ad un soggetto esterno alla società del potere di amministrazione.
Come si è visto, l’assemblea non ha poteri decisionali in materia gestoria ma, in tale materia può
indirettamente incidere soltanto grazie al potere di scelta dei “governanti” dell’impresa, al potere di
controllo (a cominciare dall’approvazione del bilancio) e al potere normativo (determinazione delle norme
statutarie, anche rispetto ai modelli di amministrazione e controllo); lo statuto può attribuirle invece solo un
potere autorizzatorio su singoli atti di competenza degli amministratori.
Questa regola di divisione dei poteri all’interno dell’organizzazione societaria è dettata in modo imperativo
in questo modo l’ordinamento intende dare certezza ed efficienza al governo dell’impresa societaria,
rafforzando il ruolo del potere esecutivo interno. I soci possono sì scegliere fra i diversi modelli di governo,
ma si tratta di modelli legalmente tipici, rispetto ai quali l’autonomia statutaria ha potere di scelta, ma non di
creare varianti atipiche.
L’accezione di gestione va quindi intesa in senso lato, proprio per esigenze di efficienza organizzativa,
riferendola non solo alla produzione e commercializzazione dei beni e dei servizi, ma anche ai profili
finanziari funzionali alla produzione e alla commercializzazione degli stessi, nonché all’organizzazione
aziendale in senso stretto, cioè all’articolazione degli uffici interni.
c.d.a. debba essere espresso da una lista di minoranza, salva naturalmente la facoltà dello statuto di
accentuare il criterio proporzionalistico dello scrutinio di lista, assegnando a liste minoritarie più seggi
consiliari. La legittimazione a presentare liste è attribuita agli azionisti che rappresentino determinate soglie
del capitale sociale fissate (salva la minore percentuale prevista nello statuto) dalla Consob;
- richiedendo che la composizione interna dell’organo amministrativo rispetti determinati requisiti dei
singoli membri
- fissando norme volte a garantire l’indipendenza (di parte) dei componenti del c.d.a.
Possono essere nominati amministratori di S.p.a. sia soci, sia terzi che non siano soci, ma lo statuto può
scegliere di limitare ai soli soci l’eleggibilità.
Tuttavia gli azionisti trovano dei limiti imperativi nella scelta degli amministratori l’ordinamento prevede
cause legali espresse di ineleggibilità e di decadenza dalla carica: incapacità legale, fallimento e condanne
penali che comportino l’interdizione dagli uffici pubblici o privati. Pertanto la nomina di soggetto
ineleggibile è nulla, e se la causa di ineleggibilità sopravviene l’amministratore decadrà automaticamente
dall’ufficio. Stante la natura privata della società, sono ampi i margini di manovra degli statuti, che
potrebbero ampliare le cause di ineleggibilità e decadenza fissate dalla legge, fermo il principio di
competenza assembleare nella nomina e revoca degli amministratori; si pensi a cause di decadenza di tipo
sanzionatorio, come per il caso di più assenze ingiustificate dalle riunioni di consiglio.
Il modello legale non prevede invece requisiti di professionalità e onorabilità degli amministratori per tutte
le S.p.a., ma solo per le società quotate o per alcune società a statuto speciale. Ulteriori requisiti di
professionalità e/o onorabilità possono però essere stabiliti dallo statuto, nel modo più vario e in tutte le
S.p.a.
In aggiunta a qualità di professionalità e onorabilità, sono imposti per alcuni amministratori requisiti di
“indipendenza” nei confronti degli azionisti di controllo e del management oltre che nelle società a
statuto speciale, in tutte le società quotate i consigli di amministrazione devono comprendere o almeno 1
consigliere indipendente, o 2 consiglieri indipendenti se il consiglio è composto da più di 7 componenti. In
tutte le S.p.a. poi, gli statuti possono legittimamente prevedere che uno o più amministratori siano
indipendenti rispetto agli azionisti e/o ad altri amministratori. Il requisito dell’indipendenza da parte di
alcuni componenti dell’organo amministrativo è teso ancora una volta a migliorare gli standard di
affidabilità sulla correttezza dei gestori, tramite la vigilanza affidata ad amministratori dotati di una
particolare autonomia di giudizio, segnatamente a fronte di situazioni di conflitto di interessi in cui siano
coinvolti ora il gruppo di controllo ora gli altri amministratori. L’amministratore che sia indipendente deve
rimanere tale per tutta la durata della carica, infatti «L’amministratore indipendente che, successivamente
alla nomina, perda i requisiti di indipendenza deve darne immediata comunicazione al consiglio di
amministrazione e, in ogni caso, decade dalla carica».
Però è problematica la definizione della figura di amministratore indipendente in mancanza di una
definizione comune, è preferibile la prospettiva accolta a livello comunitario, che tende ad adottare una
nozione sostanzialistica più che formale, in cui si valuti se in fatto l’amministratore, in negativo, versi in
relazioni con la società o con soggetti ad essa legati, tali da comprometterne l’autonomia di giudizio anche
sull’operato del management e, in positivo, abbia la capacità di esprimere giudizi che siano pertinenti ed
anche autonomi. La nozione di indipendenza va pure intesa come relativa, in confronto dei soggetti verso cui
deve sussistere l’indipendenza, segnatamente rispetto alle peculiarità dei singoli assetti proprietari della
società e ai compiti affidati all’amministratore indipendente stesso.
È a tutt’oggi dubbia la legittimità della nomina come amministratore di una persona giuridica sembra
preferibile l’orientamento tradizionale negativo, giacché la soluzione ammissiva rischia di depotenziarne la
funzionalità dell’organo amministrativo di S.p.a. la soluzione positiva implica infatti, non solo un
indebolimento della collegialità consiliare, ma anche la sottrazione all’assemblea del potere di scelta di chi
in concreto eserciterà le funzioni gestorie, e dunque di valutare comparativamente quali soggetti, fra i
candidati alla carica, abbiano le caratteristiche individuali migliori per esercitarle.
Inoltre, l’art.2390 contiene uno dei tradizionali divieti di concorrenza ex lege, sanciti a carico di
determinati soggetti: il riferimento più vicino è dato dall’art.2301, in tema di divieto di concorrenza del
socio di S.n.c.
Anzitutto, il divieto di concorrenza viene in rilievo non già per atti sporadici, ma solo con riferimento a una
vera e propria attività svolta in altra impresa in rapporto di concorrenza attuale o potenziale con quella
effettivamente svolta dalla società il divieto riguarda, in particolare, alcune fattispecie tipizzate dalla
norma, che vieta espressamente all’amministratore l’esercizio di impresa individuale, di attività concorrente
per conto altrui, l’assunzione della qualità di socio illimitatamente responsabile, come pure l’assunzione
della qualità di amministratore o di direttore generale di altra impresa concorrente.
È però possibile un’autorizzazione in deroga al divieto, che deve essere assunta da una delibera formale
dell’assemblea ordinaria.
L’eventuale violazione del divieto di concorrenza può esporre l’amministratore a revoca per giusta causa e a
risarcimento dei danni.
Infine vi è da dire che l’assunzione della carica di amministratore non è automatica, ma richiede un atto di
accettazione, che può essere anche tacito. Sono fissati poi dal codice civile gli adempimenti pubblicitari
della nomina nel registro delle imprese, quale l’iscrizione dei relativi dati anagrafici nel termine di 30 giorni
dalla notizia della loro nomina, a cura di ciascun amministratore, termine che decorre dal momento
dell’accettazione da parte dell’eletto eguale pubblicità è dovuta in caso di cessazione dalla carica.
La disciplina sull’amministrazione può trovare peraltro applicazione anche rispetto a soggetto non investito
formalmente della carica con un atto di nomina seguito da debita accettazione: l’amministratore di fatto.
Si tratta di un soggetto che, pur privo di investitura formale (spesso è l’azionista di maggioranza),
s’ingerisce sistematicamente nella gestione della società (tipicamente con investitura tacita, cioè con piena
consapevolezza e consenso da parte degli azionisti).
In tal caso, la giurisprudenza riconosce che l’amministratore di fatto abbia gli stessi poteri e, soprattutto, le
stesse responsabilità proprie dell’amministratore di diritto anche se in realtà rimane una differenza netta
tra i due, in quanto il potere di fatto non è sufficiente a legittimare l’azione dell’amministratore nei rapporti
esterni (così, sarebbe priva di efficacia una procura speciale da lui rilasciata a favore di un soggetto esterno);
ed anche nei rapporti interni il rapporto fra l’amministratore di fatto e gli altri soggetti appartenenti
all’organizzazione societaria può dirsi eventualmente disciplinato da rapporti parasociali, ma non è tale da
inficiare le regole formali di funzionamento della società.
CESSAZIONE
La durata massima della carica è di 3 anni (art.2383). La norma è inderogabile, pertanto sono
inammissibili amministratori a vita o in posizione privilegiata quanto al mantenimento della carica, il motivo
è quello di riservare sempre all’assemblea il ruolo di confermare periodicamente la fiducia ai gestori.
Peraltro non è sancita una regola di necessaria contemporaneità della data di cessazione delle cariche, anche
se lo statuto può imporre la sincronicità dei mandati gestori.
La norma precisa che il termine va operato per esercizi e non per anni solari, e che la scadenza si compie
con la data fissata per la convocazione dell’assemblea chiamata all’approvazione del bilancio d’esercizio (in
tal modo gli amministratori sono in grado di predisporre il bilancio relativo all’ultimo loro esercizio).
Le cause di cessazione dalla carica di amministratore sono:
a) per scadenza del termine;
b) per rinunzia (cd dimissioni);
c) revoca;
d) cause di decadenza previste ex lege dall’art.2383 o dallo statuto;
e) per decesso.
Laddove intervenga la cessazione dalla carica per una di tali cause, la disciplina tende a salvaguardare
l’efficienza dell’organizzazione societaria, ovviando a soluzioni di continuità nell’esercizio della funzione
amministrativa.
- Con riguardo alla scadenza del termine, viene fissata la regola della illimitata prorogatio dell’organo
amministrativo (cioè della permanenza in carica) fino alla sua sostituzione da parte dell’assemblea gli
amministratori in prorogatio conservano i pieni poteri e non debbono pertanto limitarsi all’ordinaria
amministrazione.
- Le dimissioni sono ammesse dalla legge e non richiedono la forma scritta ad substantiam; non necessitano
neppure di una giustificazione e non comportano alcun obbligo di indennizzo verso la società. La rinunzia
ha effetto immediato, non necessitando di accettazione, e una volta comunicata non può essere revocata. La
regola dell’effetto immediato è però derogata quando essa comporterebbe una paralisi dell’organo
amministrativo, vuoi per il venir meno della maggioranza dei componenti in carica, vuoi per il venir meno
dell’amministratore unico in tali casi la rinunzia ha effetto solo al momento della sostituzione dell’organo,
e segnatamente nel momento in cui la maggioranza degli amministratori viene ricostituita. La
comunicazione delle dimissioni, quale dichiarazione unilaterale recettizia, deve essere indirizzata al
presidente del consiglio di amministrazione oltre che al presidente del collegio sindacale. La cessazione
degli amministratori deve essere pubblicizzata sul registro delle imprese nei 30 giorni successivi al
verificarsi dell’effetto estintivo, a cura del collegio sindacale (l’iscrizione ha valore di pubblicità notizia).
- La revoca dell’amministratore può essere esercitata, senza limiti, da parte dell’assemblea ordinaria (più
avanti vedremo che sono previste ipotesi di revoca di diritto e di revoca giudiziale). Quale eccezione a
questa regola, il potere di revoca dell’amministratore nominato da enti pubblici è attribuito allo stesso ente
pubblico che ha effettuato la nomina, e non all’assemblea. La delibera di revoca non richiede alcuna
motivazione e la sua efficacia non è subordinata all’esistenza di una giusta causa la mancanza di giusta
causa, tuttavia, dà luogo al diritto al risarcimento del danno a favore dell’amministratore revocato (la
nozione di giusta causa risulterà integrata sia per un grave inadempimento degli obblighi gestori da parte del
revocato, sia là dove ricorra un giustificato motivo oggettivo, come ad es. quando l’assemblea abbia
revocato gli amministratori perché il nuovo azionista di controllo, che abbia acquistato la partecipazione
maggioritaria, intenda sostituire gli attuali gestori con persone di sua fiducia).
Se nel corso del mandato vengono a mancare uno o più amministratori per cause diverse dalla revoca (che
comporta la sostituzione del revocato ad opera della stessa assemblea che ne ha deliberato la revoca)
soccorre poi, per integrare l’organo, la disciplina della sostituzione degli amministratori, sempre improntata
all’esigenza di evitare soluzioni di continuità della funzione amministrativa.
Dunque, se rimane in carica la maggioranza degli amministratori di nomina assembleare, l’art.2386
prevede il potere di cooptazione di membri del consiglio di amministrazione, con deliberazione del
consiglio stesso (che deve essere approvata dai sindaci). L’amministratore cooptato dura in carica sino alla
assemblea immediatamente successiva alla sua nomina, la quale potrà confermarlo (anche implicitamente).
Quando invece viene meno la maggioranza degli amministratori nominati dall’assemblea, quelli rimasti in
carica devono convocare prontamente l’assemblea, per la sostituzione dei mancanti.
L’istituto della cooptazione ha natura eccezionale rispetto al principio di competenza assembleare nella
nomina degli amministratori, ed ha come ratio quella di consentire la continuità dell’organo amministrativo
senza dover ricorrere alla convocazione immediata di riunioni assembleari. Il consiglio di amministrazione
ha peraltro l’obbligo di attuare la cooptazione, salvo rimettere tempestivamente all’assemblea, in caso di
impossibilità di scelta di soggetti idonei a cooptare, la decisione ultima sulla composizione numerica
consiliare. Il procedimento di cooptazione non si applica ove l’assemblea sia in grado di esercitare la propria
competenza, come in caso di revoca dell’amministratore o là dove l’amministratore non venga meno nel
corso del mandato (come quando la cessazione della carica derivi da scadenza non contestuale del termine e
conseguente prorogatio dell’amministratore sino alla sostituzione da parte dell’assemblea).
Nel caso invece in cui vengano meno tutti gli amministratori e non si versi in un’ipotesi di prorogatio (ad es.
nel caso di morte dell’amministratore unico), sarà il collegio sindacale a dover convocare urgentemente
l’assemblea e a potere nel frattempo esercitare i poteri di amministrazione ordinaria.
Perciò, in linea di principio, il venir meno di uno o più amministratori lascia in carica i restanti, aprendo alla
sostituzione dei soli consiglieri venuti meno per cooptazione o comunque da parte dell’assemblea.
Infine, sono valide le clausole simul stabunt simul cadent, che – al fine di mantenere gli equilibri fra le
diverse componenti consiliari – prevedono la integrale decadenza dell’organo amministrativo in caso di
cessazione dalla carica nel corso del mandato da parte di uno o più amministratori: essendo cessato l’intero
consiglio, gli altri amministratori (che non siano cessati per la causa prevista nella clausola stessa) dovranno
provvedere all’immediata convocazione dell’assemblea per il rinnovo dell’intero consiglio.
Quando gli amministratori sono più di uno, costituiscono il c.d.a., e l’amministrazione dovrà allora essere
attuata con metodo collegiale ciò significa che le deliberazioni dovranno rispettare questo metodo
(convocazione – riunione – discussione – votazione – proclamazione – verbalizzazione) e avranno come
criterio decisionale quello di maggioranza.
Il presidente del c.d.a. copre un ruolo fondamentale per il buon funzionamento dell’organo. L’attuale
disciplina gli riconosce la titolarità di una serie di poteri cardine per esercitare funzioni non solo di
coordinamento dell’attività collegiale, ma anche di stimolo e di tutela dell’effettività del ruolo del consiglio.
Egli può essere nominato direttamente dall’assemblea o essere eletto dal consiglio stesso, sempre fra i suoi
componenti. Al presidente del c.d.a. spettano determinate competenze, stabilite dall’art.2381:
a) convoca il consiglio di amministrazione;
b) fissa l’ordine del giorno;
c) dirige la discussione e sottopone a votazione le deliberazioni;
d) proclama i risultati della votazione;
e) procede alla verbalizzazione, ove non sia previsto l’intervento del notaio;
f) cura la corretta informazione di tutti i componenti dell’organo, ai fini della ponderata adozione delle
deliberazioni.
Questi poteri sono attribuiti al presidente “salvo diversa previsione dello statuto” la derogabilità della
disposizione comunque riguarda solo l’elenco delle competenze e non può spingersi fino alla soppressione
della carica o alla eliminazione pura e semplice di alcuna delle competenze menzionate.
Inoltre, nel definire i poteri tipici del presidente, la disciplina ha così pure formalizzato le fasi del
procedimento deliberativo consiliare:
- la convocazione di tutti i consiglieri è essenziale per la legittimità della deliberazione, nelle forme previste
dallo statuto. La convocazione è disposta dal presidente, che emana il relativo avviso;
- l’avviso deve contenere l’ordine del giorno, che non è derogabile da parte del consiglio;
- il presidente coordina i lavori del consiglio, cui è attribuita una serie di compiti comunemente riconosciuta
alla figura del presidente di un collegio dichiarare aperta la seduta e regolarne la discussione secondo
l’ordine delle materie da trattare, dando e togliendo la parola ai singoli componenti, ponendo in votazione i
diversi deliberandi proposti, procedendo poi allo scrutinio e alla proclamazione del risultato;
- il consiglio adotta le proprie deliberazioni con il quorum costitutivo della “presenza della maggioranza
degli amministratori in carica”, e con il quorum deliberativo della “maggioranza assoluta dei presenti” (lo
statuto può legittimamente prevedere maggioranze qualificate per le deliberazioni ma non anche la regola
dell’unanimità, in quanto questa contrasterebbe con il principio di collegialità dell’organo e con l’esigenza
di efficienza della gestione dell’impresa sociale);
- fase tipica, infine, di ogni procedimento collegiale è quella della verbalizzazione, tuttavia il codice non ne
fa menzione (diversamente che per il collegio sindacale) essa presenta diversi ordini di rilevanza, in
particolare costituisce un atto dovuto per gli amministratori, che devono tenere il libro obbligatorio delle
adunanze e delle deliberazioni del consiglio di amministrazione, rilevante dunque sul piano sia della
revocabilità per giusta causa, sia quale possibile irregolarità ai fini del controllo giudiziario.
Le deliberazioni del consiglio di amministrazione sono suscettibili di impugnazione in caso di non
conformità alla legge o allo statuto. La disciplina non distingue tra casi di annullabilità e di nullità: tutti i
vizi delle deliberazioni consiliari integrano così sempre una causa di annullabilità, da far valere nel termine
di 90 giorni dalla data della deliberazione, anche se si tratta di vizi che in relazione alle deliberazioni
dell’assemblea sono invece causa di nullità ex art.2379.
La legittimazione ad impugnare è attribuita agli amministratori assenti o dissenzienti o astenuti e al collegio
sindacale (ma non anche ai singoli sindaci), il quale avrà l’obbligo dell’impugnazione se la stessa è
necessaria per impedire la produzione di un danno alla società. Anche il singolo socio dispone di una
speciale legittimazione ad impugnare, ma solo quando la deliberazione sia lesiva dei suoi diritti, cioè quando
pregiudica situazioni soggettive che nascono all’interno dell’organizzazione societaria.
Quanto invece agli effetti dell’annullamento delle delibere consiliari, troveranno applicazione le regole
dettate per le delibere assembleari, a cominciare dalla regola per la quale l’eventuale annullamento
giudiziale della delibera ha effetto erga omnes, all’interno dell’organizzazione societaria, con il relativo
obbligo di prendere i “conseguenti provvedimenti” da parte degli amministratori. Rimangono in ogni caso
salvi i diritti acquistati dai terzi di buona fede per atti compiuti in esecuzione della delibera, purché non
trovi applicazione la diversa regola dell’exceptio doli dettata dall’art.2384 (vedi infra).
Le funzioni amministrative possono essere delegate dal consiglio ad uno o più dei propri componenti (cd
amministratori delegati) o ad un collegio ristretto composto sempre da propri componenti denominato
comitato esecutivo. A questo organo delegato è affidata non solo la gestione complessiva, a cominciare dal
day-by-day management, ma anche la predisposizione delle linee strategiche dell’impresa, che però
dovranno essere oggetto di esame da parte del consiglio. Infatti se la delega attribuisce all’amministratore
delegato (o comitato esecutivo) il potere di gestione sulle materie delegate, il vertice del consiglio,
rimanendo titolare della funzione amministrativa nel suo complesso, anche se non eserciterà tipicamente le
funzioni gestorie in quelle stesse materie delegate, avrà comunque il dovere di vigilare sull’operato del
delegato, e quindi di intervenire ove occorra.
a) La delega del potere amministrativo è soggetta anzitutto all’autorizzazione di un’apposita clausola
statutaria o di una deliberazione dell’assemblea ordinaria, ed è attribuita con delibera consiliare, la quale
deve determinare il contenuto e i limiti della delega stessa pertanto è esclusa l’ammissibilità di una delega
generica, attribuita cioè senza una puntuale determinazione dei poteri delegati, mentre è ammissibile una
delega generale. Alcune competenze però rimangono non delegabili (come la redazione del progetto di
bilancio o l’aumento del capitale delegato dall’assemblea) e dunque riservate ex lege al consiglio, senza
possibilità di deroghe statutarie. Gli organi delegati hanno comunque competenze ex lege, ancorché
derogabili a favore della competenza del consiglio; l’organo delegato è pure competente a deliberare sui
piani strategici industriali e finanziari della società, che il consiglio esamina quando vengono elaborati.
b) La delega, come già detto, può anche essere fatta a più amministratori delegati con deleghe su materie
identiche; inoltre essa può essere conferita pure ad un organo collegiale (composto sempre da componenti
del c.d.a.) che assume allora la denominazione di comitato esecutivo. Non è d’altra parte esclusa la
previsione di più comitati interni, che formalmente non sono titolari di deleghe amministrative, ma hanno la
funzioni anche solo istruttorie e rappresentative dell’attività deliberativa consiliare. Ai comitati, in quanto
organi collegiali, in linea di principio si applicano le regole del procedimento deliberativo del c.d.a., a
cominciare dalla disciplina dei quorum.
c) Il consiglio mantiene una competenza concorrente e sovraordinata sulle materie delegate, che fonda il
potere dello stesso di impartire direttive ai delegati e di avocare a sé la decisione su singole operazioni
rientranti in materie delegate, come pure di disporre la revoca della delega in qualsiasi momento, senza
necessità di giustificazione. Il consiglio nel suo insieme conserva, dunque, i seguenti poteri-doveri:
- indirizzo (impartire direttive) implica il potere del consiglio di determinare regole vincolanti per gli
organi delegati, anche con contenuti di dettaglio;
- avocazione consiste nella possibilità di sospendere gli effetti della delega per determinati atti;
- sostituzione (conseguente alla revoca della delega) a differenza dell’avocazione ha carattere definitivo;
- controllo sull’operato degli organi delegati discende dal permanere della piena competenza in capo al
consiglio di amministrazione, se così non fosse infatti la delega assumerebbe il significato di autoesonero da
qualsiasi responsabilità per determinati atti.
d) Al fine di valorizzare le funzioni di controllo del consiglio sull’attività degli organi delegati, l’art.2381
sancisce regole di corretta circolazione delle informazioni all’interno del consiglio gli amministratori
delegati hanno anzitutto l’obbligo di fornire regolarmente le informazioni essenziali agli altri organi sociali
(c.d.a. e collegio sindacale), con periodicità non inferiore ai 6 mesi (e a 3 mesi nelle S.p.a. quotate), “sul
generale andamento della gestione e sulla sua prevedibile evoluzione nonché sulle operazioni di maggior
rilievo effettuate dalla società e dalle sue controllate”. Si tratta di un obbligo di reporting che ogni delegato
deve adempiere nell’ambito dell’area gestionale affidata alla sua cura.
e) L’obbligo di vigilanza del consiglio è fissato dalla disposizione per cui il consiglio “valuta, sulla base
della relazione degli organi delegati, il generale andamento della gestione”. La disciplina impone anche a
tutti gli amministratori un più generale obbligo di agire in modo informato e li rende responsabili di non
avere assunto le iniziative opportune, in relazione alle informazioni possedute, avendo il singolo
amministratore l’obbligo di attivarsi per impedire il realizzarsi di eventi dannosi (e a tal fine il codice
assegna a ciascun consigliere, delegato o meno, il diritto di chiedere agli organi delegati che in consiglio
siano fornite informazioni relative alla gestione della società).
COMPENSI
L’esercizio delle funzioni amministrative avviene normalmente a titolo oneroso (salva prova della rinuncia
espressa o tacita): il diritto al compenso dell’amministratore nasce direttamente ex lege e non richiede
apposita clausola statutaria, né deliberazioni assembleari di impegno.
In mancanza di apposita clausola statutaria, la competenza a determinare i compensi è così ripartita:
a) i compensi degli amministratori sono stabiliti dalla stessa assemblea che è competente a nominarli;
b) i compensi del comitato esecutivo possono essere stabiliti direttamente dall’assemblea o, in mancanza di
determinazione di questa, saranno stabiliti dal consiglio all’atto della nomina;
c) i compensi degli amministratori “investiti di particolari cariche in conformità allo statuto”, e cioè del
presidente e degli amministratori delegati, sono invece stabiliti dal c.d.a. all’atto della nomina o della
delega, previo parere del consiglio sindacale.
Dunque l’assemblea è incompetente a determinare i compensi del presidente e degli amministratori delegati,
però è espressamente ammessa una clausola statutaria che gli attribuisce il potere di stabilire un “tetto” per
la remunerazione di tutti gli amministratori, compresi quelli investiti di particolari cariche.
Non esistono massimi o minimi di legge, tuttavia la giurisprudenza ha ritenuto che le remunerazioni
palesemente eccessive siano illegittime per lesione dell’interesse sociale, con la conseguenza che la relativa
deliberazione, se presa con il voto determinante dell’amministratore interessato, sarà annullabile per
conflitto di interessi in quanto la determinazione del compenso sia irragionevole o sproporzionata, quale
indice di danno potenziale per la società.
La materia esige un pregnante grado di trasparenza nelle società non quotate essa è moderata in quanto
è sufficiente indicare nella nota integrativa l’ammontare cumulativo dei compensi degli amministratori;
invece nelle S.p.a. quotate l’esigenza di trasparenza trova maggiore tutela, infatti è necessaria l’indicazione
analitica dei compensi percepiti da ciascun componente.
Quanto all’oggetto del compenso, che di regola consiste in un corrispettivo in denaro, l’art.2389 prevede
espressamente che esso possa essere costituito, in tutto o in parte, da una partecipazione agli utili conseguiti
dalla società, o dal diritto di opzione sulla sottoscrizione o sull’acquisto di azioni, con parametri che in
astratto dovrebbero incentivare i gestori a migliori performance.
RAPPRESENTANZA
La società opera all’esterno necessariamente attraverso persone fisiche: è quindi necessaria l’individuazione
di una o più persone che abbiano il potere di agire in nome e per conto della società si deve distinguere
in proposito fra rappresentanza volontaria e rappresentanza organica (o statutaria o legale).
La rappresentanza volontaria è eventuale ed è disciplinata dalle mere regole civilistiche generali (artt.1338
ss.): si tratta di una rappresentanza di secondo grado, cioè che può essere conferita con procura speciale da
parte del rappresentante organico (ad es. il collaboratore occasionale che, incaricato di curare per la società
l’acquisto di un macchinario, venga munito allo scopo di una corrispondente procura), ma che non può avere
carattere generale.
La rappresentanza organica è invece necessaria perché la società possa agire nel traffico giuridico. Tale
potere può essere attribuito solo ad uno o più amministratori, con indicazione inserita nello statuto (ad es. è
frequente l’attribuzione del potere di rappresentanza al presidente del c.d.a. e/o all’amministratore delegato).
Qualora siano individuati più amministratori quali rappresentanti, lo statuto stesso o, in mancanza,
l’assemblea, preciserà se il potere di rappresentanza è attribuito in via congiuntiva o disgiuntiva.
Per i rappresentanti statutari vige una disciplina di particolare tutela dei terzi contraenti, secondo
un’evoluzione normativa caratterizzata da una tutela sempre più estesa dell’affidamento dei terzi (rispetto
alla disciplina delle società personali e della rappresentanza commerciale). La regola vigente è nel senso che
il rappresentante statutario è necessariamente rappresentante generale (anche processuale), e che pertanto
può compiere qualsiasi tipo di atto in nome della società. Gli eventuali limiti statutari dell’ambito della
rappresentanza che fossero violati dal rappresentante nello spendere il nome della società non sono
opponibili, ancorché pubblicati nel registro delle imprese, tranne nel caso che quel terzo abbia
intenzionalmente agito a danno della società (cd exceptio doli) perché la società possa pertanto oppure al
terzo che ha contrattato con la società l’inefficacia dell’atto compiuto dall’amministratore violando il limite
al potere di rappresentanza fissato dallo statuto, non basta che si dimostri la mala fede del terzo, che
conosceva o ignorava colpevolmente il superamento di tale limite, ma occorre pure dar prova della volontà
di quel terzo di arrecare un danno alla società.
Rientra nella medesima disciplina dell’art.2384 il pur diverso caso in cui l’atto compiuto dal rappresentante
si ponga non tanto in violazione di espressi e precisi limiti statutari, ma risulti persino estraneo all’oggetto
sociale (cd atto ultra vires) l’oggetto sociale costituisce infatti un limite implicito e generale ai poteri di
rappresentanza statutari, proprio perché traccia il perimetro del potere gestorio degli amministratori, di tal
che la società ne potrà opporre il superamento al terzo soltanto nella misura in cui sarà in grado di invocare
nella specie l’exceptio doli.
È infine da ritenere che la norma protegga i terzi (salvo l’exceptio doli) non solo nel caso di vizio del potere
rappresentativo derivante dalla violazione di clausole statutarie, ma anche nel caso di limiti legali, in cui il
vizio sia appunto costituito dalla violazione di una norma di legge.
Diverso trattamento riceve invece l’atto compiuto dal rappresentante in situazione di conflitto d’interessi
atto che tradizionalmente trova un regime speciale più severo per il terzo, entrando in gioco la disciplina
dell’annullabilità ex art.1394, tutte le volte in cui il rappresentante abbia agito in conflitto d’interessi, senza
il supporto di una delibera autorizzativa del c.d.a.
giuridiche o di norme tecniche. Resterà peraltro sempre salva la prova dell’errore scusabile da parte
dell’amministratore convenuto, il quale sarà esente da responsabilità ove dimostri un fatto impeditivo
l’adempimento.
La responsabilità degli amministratori è, poi, solidale, e si estende secondo la giurisprudenza anche ai cd
amministratori di fatto. In proposito la disciplina distingue fra una responsabilità diretta di ciascun
consigliere di amministrazione – che può sorgere soprattutto per gli atti di competenza del consiglio di cui
egli è componente, ma anche per atti direttamente imputabili al singolo amministratore – ed una
responsabilità per omessa o difettosa vigilanza – che può addebitarsi al singolo consigliere non delegato
rispetto ad atti di competenza di amministratori delegati. Il singolo amministratore può però riuscire a
sottrarsi al vincolo di solidarietà nella responsabilità con gli altri amministratori: il legislatore precisa da un
lato che gli amministratori devono adempiere i doveri della carica con la diligenza richiesta dalla natura
dell’incarico e dalle loro specifiche competenze e dall’altro lato che gli amministratori stessi non sono
solidamente responsabili in caso di funzioni in concreto attribuite ad uno o più amministratori la regola
della solidarietà nella responsabilità vale quindi solo come criterio presuntivo: il singolo amministratore
potrà sempre dare la prova contraria dimostrando di essere estraneo al vincolo di solidarietà in ragione della
lontananza che in concreto separa il singolo comportamento dannoso compiuto da altro amministratore
rispetto alla sfera delle funzioni specificamente attribuitegli dall’organo di amministrazione o al proprio
ambito di competenze professionali. Chiaramente rimarrà fermo l’obbligo generale di agire in modo
informato, che non consentirà comunque ad un amministratore di sottrarsi al vincolo di solidarietà
semplicemente assumendo un comportamento passivo, invece di doverosamente contestare l’eventuale
carenza di adeguata istruttoria e di chiedere, se del caso, un supplemento di informazioni. Ma anche se
l’amministratore non sia in grado di sottrarsi al vincolo di solidarietà, egli dispone comunque di un mezzo
per separare la propria posizione rispetto agli atti produttivi di responsabilità, rispettando la procedura di
dissociazione, prevista dall’art.2392 tale procedura lo esonererà da responsabilità a 3 condizioni:
- che egli faccia annotare il suo dissenso senza ritardo nel libro delle adunanze del consiglio;
- che informi immediatamente del suo dissenso il presidente del collegio sindacale;
- che egli sia effettivamente esente da colpe (dunque non deve essere rimasto inadempiuto ne l’obbligo
di agire informati proprio di ciascun amministratore, ne l’obbligo di vigilanza e di intervento dei
consiglieri non-delegati sugli organi delegati).
Il promovimento dell’azione sociale di responsabilità necessita di deliberazione dell’assemblea ordinaria
l’esercizio dell’azione può essere validamente deliberato, nell’assemblea ordinaria di approvazione del
bilancio, anche se non è indicato fra le materie da trattare (e ciò in deroga eccezionale al principio, proprio
dei procedimenti collegiali, per cui l’oggetto della deliberazione deve essere preventivamente indicato
nell’ordine del giorno), ma la deliberazione è consentita solo se la responsabilità appare legata a fatti
compresi nell’esercizio di cui si approva il bilancio, e non a fatti pregressi o successivi.
Oltre all’assemblea, anche il collegio sindacale ha competenza a deliberare il promovimento dell’azione
sociale di responsabilità, con la maggioranza qualificata dei ⅔ dei componenti.
La deliberazione dell’assemblea non richiede poi una specifica motivazione delle ragioni che spingono
l’assemblea ad avviare l’azione, ma deve contenere una precisa determinazione dei fatti che vengono
imputati agli amministratori e delle pretese che dovranno essere avanzate dalla società.
La deliberazione di esercizio dell’azione comporta la revoca ope legis degli amministratori, purché
approvata con il voto favorevole di una maggioranza dei presenti, rappresentativa di almeno 1/5 del capitale.
La revoca automatica comporta altresì l’obbligo dell’assemblea di provvedere alla nomina di nuovi
amministratori.
È poi nella piena disponibilità dell’assemblea deliberare espressamente la rinunzia all’azione o una
transazione con gli amministratori, senza che occorra al riguardo motivazione alcuna. La delibera di
rinunzia o transazione può essere però impedita dall’esercizio di un diritto di veto con voto contrario da
esprimersi in assemblea da parte di una minoranza qualificata.
Il termine di prescrizione dell’azione sociale di responsabilità è stabilito in 5 anni “dalla cessazione
dell’amministratore dalla carica” (e non dal momento in cui si è prodotto l’evento dannoso), dunque
l’amministratore che sia stato confermato per più di un triennio potrebbe essere chiamato a rispondere di
fatti avvenuti molti anni prima.
dell’onere della prova in materia, il curatore ha i medesimi oneri relativamente ad allegazione e prova degli
specifici fatti su cui si fonda la responsabilità degli amministratori, il nesso causale e il danno risarcibile.
L’ordinamento attribuisce, infine, al singolo azionista o a terzi che siano stati direttamente danneggiati
dagli amministratori, per atti relativi alla gestione della società, la legittimazione a promuovere nei loro
confronti un’azione diretta di responsabilità civile. L’azione riguarda i casi in cui gli azionisti o i terzi
siano stati direttamente danneggiati dunque non può avere ad oggetto danni riflessi che l’azionista può
subire per la perdita di valore delle sue azioni a seguito di atti di mala gestio degli amministratori che
abbiano depauperato il patrimonio sociale.
Il danno risarcibile va dunque ricondotto alla perdita patrimoniale derivante da una specifica vicenda, in cui
l’azionista o il terzo si siano trovati coinvolti singolarmente: ad es. la sottoscrizione di un aumento di
capitale o l’acquisto di azioni a prezzo eccessivo, indotti da un bilancio falso in un caso come questo, il
comportamento doloso o colposo dell’amministratore, che ha causato pregiudizio al singolo socio o al terzo,
è solitamente la comunicazione di informazioni false; ma vi sono anche altri fatti produttivi di danno
risarcibile, come azioni discriminatorie compiute dagli amministratori a danno di un singolo azionista.
Nell’azione individuale di responsabilità, il socio o il terzo che agisce deve dare la prova specifica del fatto
colposo o doloso dell’amministratore, nonché del nesso di causalità con il danno direttamente subito.
La prescrizione dell’azione è quinquennale, in applicazione della regola generale; il termine di prescrizione
è da ritenere decorra dal momento in cui il danneggiato, con l’impiego dell’ordinaria diligenza, sia stato in
grado di venire a conoscenza dell’evento dannoso.
Il codice considera la figura del direttore generale, al fine di estenderle il regime speciale di responsabilità
civile dettato per gli amministratori, sempre che il direttore generale sia nominato dall’assemblea o dal
l’organo di amministrazione, ma sulla base di autorizzazione statutaria. Secondo i criteri di tipicità sociale,
per direttore generale si intende un funzionario dirigente, posto in posizione “apicale” nella struttura
aziendale, che opera in relazione diretta con l’organo e l’organizzazione degli uffici interni. È una figura non
obbligatoria, ma normale nelle imprese di dimensione medio-grande, che possono averne anche più di uno,
con mansioni di alta gestione oppure più limitate alla gestione esecutiva quotidiana, secondo scelte
organizzative proprie della società.
Il direttore generale non è soggetto alle cause di ineleggibilità proprie degli amministratori; può essere
titolare di un rapporto di lavoro autonomo o subordinato; può essere pure titolare di poteri di rappresentanza
legale della società (specie se necessari per esercitare funzioni di vertice sull’apparato aziendale). Inoltre
egli è subordinato gerarchicamente agli amministratori: potrà dunque legittimamente rifiutarsi di eseguire
una deliberazione dell’organo amministrativo solo quando, da tale esecuzione, possa derivare una
responsabilità a suo carico.
Il collegio sindacale
Nel modello di amministrazione tradizionale, la funzione di controllo è solitamente suddivisa tra un organo
sociale (il collegio sindacale) e, per i profili contabili, un soggetto esterno (il revisore legale dei conti).
Nelle S.p.a. il controllo apicale è perciò affidato al collegio sindacale, il quale anzitutto «vigila
sull’osservanza della legge e dello statuto» (art.2403).
Questo controllo di legalità non è soltanto formale, ma sostanziale, dato che il collegio deve vigilare anche
sul rispetto dei principi di corretta amministrazione; e tale controllo sostanziale sulla corretta gestione
comprende la vigilanza sull’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile adottato dalla
società e sul suo concreto funzionamento si tratta più che altro di una vigilanza complessiva sull’attività,
che si estende sino alla valutazione dell’adeguatezza tecnico-produttiva, finanziaria e del personale, che può
implicare la creazione di idonei uffici di controllo interno; il controllo infatti non riguarda soltanto l’attività
degli amministratori, ma tutta l’attività sociale.
Tuttavia la vigilanza dei sindaci non può estendersi fino ad un controllo di merito, diversamente dal
controllo che esercita il consiglio di amministrazione rispetto agli organi di amministrazione delegata. È
dunque estranea al controllo sindacale ogni valutazione sulla convenienza, sull’opportunità e sul livello di
rischio delle decisioni di gestione rispetto a tali decisioni i sindaci devono soltanto rilevare se la scelta
gestionale concreti una violazione delle regole di comportamento degli amministratori, perché
manifestamente irragionevole, o perché non supportata da adeguatezza organizzativa o finanziaria.
La funzione di controllo dei sindaci deve essere continuativa, e potrà essere a campione, ove ciò sia imposto
da criteri di razionalità aziendale.
Al collegio sindacale, in definitiva, è assegnata una posizione di alta sorveglianza rispetto al complessivo
sistema societario dei controlli interni, la cui cura è di volta in volta demandata al revisore legale esterno o
allo stesso organo di amministrazione.
Al collegio sindacale delle società quotate è espressamente intestato il potere di vigilanza sia
sull’adeguatezza organizzativa dei cd sistemi di controllo interno, da predisporre da parte dell’organo
gestorio, sia sull’attività di revisione legale dei conti, affidata al revisore esterno in particolare, in tali
società (e nei cd enti di interesse pubblico – EIP), il collegio sindacale assume la veste di “Comitato per il
controllo interno e la revisione contabile”, con compiti di vigilanza, oltre che sulla revisione legale dei conti
annuali e dei conti consolidati e sull’indipendenza del revisore, anche sul processo di informativa finanziaria
e sull’efficacia dei sistemi di controllo interno, di revisione interna e di gestione del rischio. E che il collegio
sindacale sia al vertice del sistema dei controlli è pure testimoniato dalla norma che, nelle società quotate (e
negli EIP), impone al revisore di presentare ai sindaci una relazione sulle questioni fondamentali emerse in
sede di revisione legale.
Ai sindaci non spettano però funzioni dirette di controllo contabile (cioè sulla regolare tenuta della
contabilità sociale e la corretta rilevazione nelle scritture contabili dei fatti di gestione) che oggi
l’ordinamento demanda a soggetti professionali esterni – i revisori legali dei conti – pur dovendo il collegio
sindacale revisionare la regolarità della funzione contabile.
Tuttavia, soltanto nelle S.p.a. chiuse che non siano tenuta alla redazione del bilancio consolidato, gli statuti
possono operare una scelta diversa, assegnando al collegio sindacale anche la funzione di controllo
contabile: in questo caso i sindaci dovranno tutti possedere la qualifica di revisori legali dei conti.
La ratio della separatezza tra vigilanza generale di legalità sull’attività sociale e controllo contabile poggia
sull’esigenza di affidare la funzione di controllo contabile in capo a soggetti specializzati, in modo da
lasciare all’organo di controllo generale controlli più sostanzialistici.
Oltre all’attività di controllo, il collegio sindacale ha compiti di informazione dell’assemblea e consultivi
obbligatori, anzitutto con riguardo alla relazione che deve essere depositata in occasione dell’approvazione
del bilancio di esercizio tale relazione è fondamentale per l’informazione dei soci, in quanto il collegio in
essa deve riferire: l’attività svolta nell’adempimento dei propri doveri, la valutazione dei risultati
dell’esercizio sociale, le osservazioni e proposte in ordine al bilancio ed alla sua approvazione.
Fermo il dovere di segnalare le eventuali irregolarità o criticità riscontrate nell’esercizio delle proprie
funzioni di controllo sull’attività sociale, il collegio sindacale nella relazione resa in occasione del bilancio –
ove non abbia intestati anche i poteri di controllo contabile – non esprime però un “giudizio tecnico-
professionale” su di esso, poiché tale giudizio è riservato al revisore legale esterno.
Gli altri poteri del collegio sono tipizzati dalla legge. Rimangono eccezionali i poteri di amministrazione
attiva, come pure di approvazione di atti degli amministratori (in caso di cooptazione ex art.2386, c.5),
infine è la legge che tipizza i casi in cui il collegio sindacale deve rendere pareri obbligatori (ad es. in
materia di remunerazione degli amministratori che rivestano particolari cariche). Non sembra però precluso
ai sindaci di esprimere pareri facoltativi, se si ha riguardo all’esigenza di una leale cooperazione fra organi
societari, oltre che ad un’istanza generale di efficienza dell’organizzazione.
Sono poi di particolare rilievo i poteri reattivi di cui dispongono i sindaci, coi quali possono far fronte alle
irregolarità degli amministratori, tra cui il potere di convocare d’urgenza l’assemblea, quello di presentare la
denuncia al tribunale e quello di promuovere contro gli amministratori l’azione sociale di responsabilità.
I SINDACI
L’organo di controllo ha composizione numerica rigida, potendo lo statuto scegliere soltanto fra due
alternative: 3 o 5 membri effettivi + 2 supplenti (solo nelle società quotate, fatto salvo il numero minimo, è
consentita una deroga verso l’alto).
I sindaci devono godere di determinati requisiti di professionalità: almeno uno deve essere revisore legale
dei conti, e gli altri devono essere iscritti in appositi albi professionali (avvocati, dottori commercialisti ed
esperti contabili, consulenti del lavoro) oppure scelti fra professori universitari in materie economiche o
giuridiche. Tali requisiti sono richiesti a pena di nullità della nomina, o di successiva decadenza ope legis in
caso di perdita sopravvenuta. Solo nelle società che hanno potuto scegliere e hanno scelto di attribuire le
funzioni di controllo contabile al collegio sindacale (cioè le S.p.a. chiuse che non sono tenute alla redazione
del bilancio consolidato), l’organo deve essere composto esclusivamente da revisori legali dei conti.
È da ritenere che possa essere nominato a sindaco anche una società di revisione, ma non anche una
qualunque altra persona giuridica.
La nomina del collegio sindacale è di competenza inderogabile dell’assemblea ordinaria (salvo per i primi
sindaci, da indicare nell’atto costitutivo): l’omissione della nomina comporterà lo scioglimento della società
per impossibilità di regolare funzionamento dell’assemblea della società.
Una deroga alla competenza assembleare è quella prevista, su disposizione statutaria, per la nomina da parte
di ente pubblico purché proporzionale alla partecipazione dello stesso al capitale sociale; e la nomina di un
sindaco da parte dei portatori di strumenti finanziari partecipativi, sempre se così prevede lo statuto.
Alla nomina deve seguire l’accettazione, anche per comportamenti concludenti per i sindaci titolari, che va
iscritta nel registro delle imprese entro 30 giorni dalla delibera, a pena di sanzioni amministrative. Invece
l’accettazione del sindaco supplente deve essere espressa, giacché è chiamato a subentrare automaticamente
in caso di venir meno di un sindaco titolare.
Le cause di cessazione del rapporto attengono alle seguenti ragioni:
a) Decesso;
b) Scadenza del termine i sindaci restano in carica per 3 esercizi, e scadono alla data dell’assemblea
convocata per l’approvazione del bilancio relativo al 3° esercizio della carica; la scadenza è simultanea
per l’intero collegio, anche là dove uno o più dei suoi componenti sia stato sostituito in corso di mandato;
fino alla nomina del nuovo collegio, i precedenti sindaci rimangono in carica in regime di prorogatio,
senza limitazioni di poteri;
c) Decadenza le cause di decadenza si suddividono a seconda che attengano alla sopravvenuta perdita di
un requisito di eleggibilità, ovvero all’inadempimento di un dovere dei sindaci (sanzionato appunto con
la decadenza): le cause del primo tipo riguardano situazioni in cui il sindaco perde, dopo la nomina, i
necessari requisiti di professionalità o l’indipendenza richiestagli (con conseguente nullità, per illiceità
dell’oggetto, della delibera di nomina); le cause di decadenza del secondo tipo, di natura sanzionatoria,
scattano in caso di assenza ingiustificata, nell’arco di uno stesso esercizio sociale, o a 2 riunioni del
collegio sindacale, o alle assemblee, o ancora a 2 adunanze consecutive del c.d.a./comitato esecutivo;
d) Rinuncia sempre ammissibile in ogni momento, senza che la società possa avanzare pretese
risarcitorie verso il sindaco dimissionario: è sufficiente che sia comunicata al presidente del collegio
sindacale, il quale avrà poi cura di comunicare la sostituzione al sindaco supplente, anche se esso
subentra automaticamente;
e) Revoca per giusta causa vedi infra.
In tutti questi casi, per il venir meno di un componente, è previsto per il sindaci il sistema della supplenza,
invece di quello della cooptazione, che rimane proprio degli amministratori. È sempre ferma la regola per la
quale, nella prima assemblea possibile, deve provvedersi alla ricomposizione dell’organo collegiale, con la
nomina di sindaci effettivi e supplenti necessari per l’integrazione del collegio.
Il subentro dei supplenti, in ordine di età, è automatico ope legis e non abbisogna di accettazione (là dove il
supplente abbia già accettato la nomina), e ha effetto dal momento della causa di sostituzione, dunque non
dalla pur dovuta comunicazione da parte del presidente al supplente.
Punto debole dell’istituto rimane il meccanismo di nomina, dato alla competenza assembleare, secondo
regole di maggioranza la maggioranza ha dunque la disponibilità della scelta di tutti i componenti
l’organo di controllo, nonostante essa stessa disponga della nomina dei soggetti (gli amministratori)
destinatari del controllo medesimo. Questa regola determina un potenziale intreccio di interessi fra
controllanti e controllati, che indebolisce tipicamente l’esercizio della funzione di controllo.
A fronte di tale regola di nomina, il rafforzamento dell’effettività delle funzioni dei sindaci si gioca,
anzitutto, sul fronte del principio di indipendenza dei componenti il collegio si tratta di un principio che
trova ricadute sia sul piano dei requisiti di eleggibilità alla carica, sia sul piano dell’eventuale rimozione
dalla carica stessa quanto ai primi vi è la conseguente nullità (per illiceità dell’oggetto) della delibera di
nomina, mentre in caso di loro sopravvenienza, di decadenza ope legis dalle funzioni.
Sono cause legali di non eleggibilità e decadenza, non derogabili dagli statuti:
a) incapacità legale, fallimento, pene accessorie (cioè quelle previste anche per gli amministratori);
b) coniugio, parentela o affinità entro il 4° grado con amministratori della società o di altre società del
gruppo;
c) i rapporti di lavoro di carattere continuativo con la società o con altre società del gruppo;
d) gli “altri rapporti di natura patrimoniale che ne compromettano l’indipendenza” (ad es. un’importante,
anche se occasionale, consulenza, in considerazione specialmente del confronto fra i compensi di sindaco
e quelli derivanti dalla consulenza).
Altra regola a salvaguardia dell’indipendenza del sindaco è quella sull’invariabilità dei compensi: essi
devono essere fissati contestualmente alla nomina da parte l’assemblea, in misura equa nel quantum, e a
scadenza periodica annuale, senza che possano essere modificati nel corso del mandato, proprio per evitare
incentivi alla collusione. Il diritto al compenso si ritiene irrinunciabile.
Parimenti a salvaguardia dell’indipendenza del sindaco, è la regola indisponibile che vuole il sindaco
revocabile soltanto per giusta causa con deliberazione dell’assemblea ordinaria, la quale, per avere
efficacia, deve poi essere approvata con decreto del Tribunale. Questa deliberazione deve essere motivata
in ordine alla giusta causa, che può consistere o in un inadempimento ai doveri d’ufficio (non di scarsa
importanza), o in un giustificato motivo oggettivo legato al deterioramento dei rapporti fra sindaco e società,
o a vicende personali del sindaco che ne screditino il ruolo facendone venir meno l’affidabilità giusta
causa da valutarsi sempre e comunque dal Tribunale, per evitare abusi, a salvaguardia del principio di
indipendenza dei sindaci.
Il collegio sindacale è pienamente collegiale perciò le proprie deliberazioni contemplano le fasi basilari
di un collegio: convocazione con indicazione dell’ordine del giorno, riunione, discussione, votazione,
proclamazione e verbalizzazione. Deve riunirsi almeno ogni 3 mesi, salvo che la diligenza professionale
imponga riunioni più ravvicinate.
Non si tratta di un collegio cd perfetto (ossia che funzionerebbe solo con la presenza di tutti i suoi
componenti): esso infatti è regolarmente costituito con la maggioranza dei sindaci (quorum costitutivo) e
delibera a maggioranza assoluta dei presenti (quorum deliberativo). La convocazione è prerogativa del
presidente, e la riunione può avvenire anche con mezzi telematici se lo statuto ne indica le modalità.
Nell’esercizio delle sue funzioni, l’attività dei sindaci si articola fondamentalmente in 3 fasi, ed in ciascuna
fase i poteri dell’organo sono a volte individuali (attribuiti quindi disgiuntamente a ciascun sindaco) e a
volte collegiali (perciò esercitabili soltanto in forma collegiale); tali poteri sono da intendere come poteri-
doveri, il cui mancato esercizio dà luogo a responsabilità dei sindaci.
1ª fase) Istruttoria i sindaci godono di poteri ispettivi individuali (esame dei documenti sociali,
ispezione degli stabilimenti, interrogazione dei dipendenti) laddove la richiesta di informazioni agli
amministratori è di competenza del collegio; nelle società quotate, però, i sindaci hanno anche poteri di
informazione individuali. Gli amministratori sono tenuti a fornire le informazioni richieste, a pena di
integrazione del reato di “impedito controllo”.
2ª fase) Valutativa questa deve essere esercitata collegialmente. Al sindaco dissenziente rimane la
possibilità di far uso di strumenti di reazione, che rimangono nella sua disponibilità individuale.
3ª fase) Reattiva questa si può concretare in diverse iniziative, secondo una graduazione di situazioni:
- per quanto riguarda i poteri da esercitarsi collegialmente, i sindaci possono e devono anzitutto convocare
l’assemblea in caso di omissione o ingiustificato ritardo degli amministratori nella convocazione
obbligatoria dell’assemblea; il collegio sindacale – dandone previo avviso al presidente del c.d.a. –
convocherà pure l’assemblea per l’adozione di provvedimenti urgenti in caso di fatti censurabili di
rilevante gravità, commessi dagli amministratori o rilevati all’interno di uffici della società in violazione
dei rispettivi doveri, ma tali fatti non devono attenere al merito delle scelte di gestione (è da ritenere che la
convocazione dell’assemblea senza la previa comunicazione al presidente del c.d.a. comporti l’invalidità
del procedimento deliberativo);
- in caso di gravi irregolarità nella gestione, i sindaci potranno poi presentare denuncia al Tribunale e,
nelle società quotate, alla Consob;
- il collegio sindacale è anche legittimato ad impugnare le deliberazioni assembleari o consiliari
illegittime, là dove ritenga nell’interesse sociale che tali deliberazioni siano da eliminare ha quindi il
potere-dovere di promuovere l’esercizio dell’azione sociale di responsabilità nei confronti degli
redazione e che il bilancio rappresenta in modo veritiero e corretto la situazione patrimoniale e finanziaria
della società ed anche il risultato economico di esercizio. Invece se il giudizio è positivo ma con rilievi,
oppure negativo, o ancora con la dichiarazione di impossibilità di renderlo, il revisore dovrà analiticamente
illustrarne i motivi.
Il controllo contabile deve esercitarsi “nel corso dell’esercizio”, dunque con continuità, e non solo a ridosso
del giudizio da esprimere sul bilancio. Anche se il legislatore non specifica quale sia la periodicità dovuta
dei controlli, è da ritenere che l’intensità della frequenza andrà opportunamente calibrata dal revisore
secondo criteri di diligenza professionale.
La vigente disciplina sulla revisione legale dei conti punta su regole che ne dovrebbero accentuare
l’indipendenza. Così, in punto di nomina del revisore, si tenta di non lasciare al gruppo di maggioranza
completa autonomia sulla scelta la nomina da parte dell’assemblea è su proposta motivata dell’organo di
controllo; di tal che l’assemblea rimarrà libera di non nominare il soggetto designato dall’organo di
controllo, ma non di procedere alla nomina di un revisore diverso da quello proposto. In punto di durata
dell’incarico, la regola di base fissa 3 esercizi. Anche sotto il profilo del corrispettivo, quale profilo
sensibile per l’indipendenza del revisore, sono fissate regole imperative: esso deve essere adeguato
all’incarico, va previsto in sede di nomina, non è variabile salvo che siano previamente indicati i criteri per
l’adeguamento durante l’incarico.
La revoca del revisore può essere deliberata dall’assemblea solo per giusta causa, ma è soggetta a parere
(comunque non vincolante) dell’organo di controllo e non all’approvazione del Tribunale, come avviene
invece per i sindaci. Il revisore può esercitare il recesso dall’incarico, salvo il risarcimento dei danni, ma
non in tempi e modi tali da non consentire alla società revisionata di provvedere diversamente in questi
casi è previsto un temporaneo regime di prorogatio del revisore sino al perfezionamento del nuovo incarico
e comunque non oltre 6 mesi. Della revoca o recesso deve essere data motivata comunicazione al Ministero
dell’Economia.
Quasi come chiusura delle regole volte a rafforzare l’indipendenza del revisore, il d.lgs.39/2010 introduce
infine una clausola generale sull’indipendenza del revisore, il quale non deve essere coinvolto in alcun modo
nei processi decisionali della società revisionata (cd obiettività del revisore). Anche ai socie e all’organo
amministrativo della società revisionata è posto un divieto di ingerenza nell’espletamento della revisione
legale, a salvaguardia ancora una volta dell’indipendenza e obiettività della revisione.
Per espletare le funzioni di controllo contabile, il revisore esterno gode di poteri informativi, avendo il
diritto ad ottenere dagli amministratori documenti e notizie utili all’attività di revisione legale, ma anche
ispettivi, potendo procedere ad accertamenti, controlli ed esame di atti e documentazione.
Limite a tali poteri è l’utilità dell’acquisizione della documentazione ai fini della revisione, cosicché non si
può escludere che gli amministratori, non ravvisando detta utilità, si rifiutino di fornire tutta la
documentazione richiesta ad es. perché di difficile reperimento o insignificante nell’ambito del bilancio
revisionato. Ove il revisore resti di contrario avviso, non potrà che segnalare il fatto censurabile al collegio
sindacale. Il revisore, al pari dei sindaci, ha inoltre l’obbligo di riservatezza sui fatti e sui documenti
conosciuti in ragione dell’ufficio, dovendo rispettare i principi di deontologia professionale, riservatezza e
segreto professionale. Infine l’attività del revisore deve essere documentata, ed è al riguardo previsto
l’obbligo di conservazione decennale dei documenti e carte di lavoro relativamente all’attività svolta.
La responsabilità del revisore è solidale con gli amministratori verso la società, i soci e i terzi per i danni
cagionati in violazione dei propri doveri, secondo criteri di diligenza professionale. Nel caso in cui revisore
legale sia una società di revisione, responsabili in solido sono pure il responsabile della revisione (che
sottoscrive il giudizio di bilancio) e i dipendenti che hanno collaborato all’attività di revisione.
Diversamente dalla più severa disciplina applicabile ai sindaci, il regime di prescrizione, per tutte le azioni
di responsabilità contro il revisore, è fissato nel termine di 5 anni, che decorre dalla data della relazione di
revisione che rilevi nell’invocata responsabilità del revisore, e non già dal momento della cessazione
dell’incarico del revisore stesso.
L’organismo di vigilanza
In base alla disciplina sulla cd responsabilità amministrativa delle società (d.lgs.231/2001), le S.p.a. hanno
l’onere, da un lato, di predisporre ed attuare un modello organizzativo idoneo a prevenire il compimento dei
reati (cd reati presupposto) e dei reati societari, dall’altro quello di istituire un organismo di vigilanza
(OdV) che abbia il compito di verificare il corretto funzionamento e l’osservanza di quel modello
organizzativo, curandone l’aggiornamento. Pertanto la società che non abbia adottato ed efficacemente
attuato un modello idoneo, o che non abbia configurato un funzionante OdV, sarà soggetta alle sanzioni
previste dalla legge a suo carico in caso di compimento di reati da parte di preposti alle funzioni
amministrative e di controllo sulla società stessa, o da parte di dipendenti. Dunque la mancata adozione ed
attuazione di idoneo modello di prevenzione di reati e/o il difetto di adeguata istituzione dell’OdV
esporranno gli amministratori a responsabilità verso la società, ma anche verso i creditori sociali, per
violazione di un obbligo specifico di diligenza, in ragione del pregiudizio legato all’applicazione alla società
delle sanzioni amministrative da reato che ne dovessero derivare.
L’OdV può essere costituito ad hoc come organismo a sé stante, ma la legge consente alla società anche di
identificarlo con l’organo di controllo della società (collegio sindacale nel sistema tradizionale, consiglio di
sorveglianza nel sistema dualistico, comitato per il controllo sulla gestione nel sistema monistico).
IL SISTEMA DUALISTICO
Rispetto al sistema tradizionale, questo è caratterizzato da una maggiore separazione fra proprietà e
gestione: l’assemblea dei soci non provvede alla nomina degli amministratori, ma alla nomina di un organo
intermedio, cioè il consiglio di sorveglianza, al quale è affidato il controllo di legalità sulla gestione (tipico
del collegio sindacale) e una funzione generale di indirizzo (talora qualificata come controllo di merito) che
trova il suo fondamento nel potere di deliberare la nomina e la determinazione del compenso di
amministratori, la loro eventuale revoca anticipata e l’approvazione annuale del bilancio.
Rispetto al sistema tradizionale dunque si determina un accentramento del potere decisionale in mano al
gruppo di controllo, atteso che, in mancanza di clausole contrarie, nelle società (non quotate) il consiglio di
sorveglianza è espressione della sola maggioranza. Il sistema dualistico dovrebbe teoricamente assicurare
una maggiore efficacia dei controlli sulla gestione, grazie proprio all’accentramento presso un unico organo
delle funzioni di controllo di legalità e di merito ma tale aspirazione non è perseguita in modo coerente
dal legislatore, che ha indebolito significativamente – nelle società non quotate – i requisiti di professionalità
e indipendenza dei consiglieri di sorveglianza, rispetto a quelli previsti per il collegio sindacale.
Comunque il ruolo del consiglio di sorveglianza può essere accentuato in modo significativo dallo statuto,
esercitando l’opzione che consente di assegnare a tale organo vere e proprie funzioni di alta
amministrazione, tramite l’attribuzione del potere deliberativo “in ordine alle operazioni strategiche e ai
piani industriali e finanziari della società, predisposti dal consiglio di gestione”.
Il consiglio di sorveglianza è un organo necessariamente collegiale, composto almeno da 3 soggetti (non
opera il limite max di 5 membri previsto per il collegio sindacale) che possono essere soci o non soci. Alla
nomina dei primi componenti provvede l’atto costitutivo, mentre i successivi sono nominati dall’assemblea
ordinaria. Nelle società quotate trovano applicazione norme simili a quelle previste per il collegio sindacale,
quindi è obbligatoria la nomina di 1 componente da parte della minoranza tramite il sistema di voto per lista.
I requisiti di professionalità nelle società non quotate sono inferiori rispetto a quelli previsti per il collegio
sindacale, in quanto essi devono ricorrere soltanto per 1 solo dei componenti, il quale deve necessariamente
risultare iscritto nel registro dei revisori legali in tal modo il legislatore ha inteso consentire
evidentemente l’utilizzo del sistema dualistico anche in società di medie dimensioni. Nelle società quotate
invece tutti i consiglieri, a pena di decadenza, devono essere in possesso dei requisiti di professionalità e
onorabilità fissati dal Ministro della Giustizia.
Riguardo ai requisiti di indipendenza, nelle società non quotate è vietato solamente il cumulo (ma non la
parentela) con la carica di consigliere di gestione della società e la sussistenza di rapporti di lavoro o di
rapporti continuativi di consulenza e prestazioni d’opera che ne compromettano l’indipendenza. Invece nelle
società quotate i requisiti sono assimilati a quelli previsti per il collegio sindacale.
I consiglieri di sorveglianza hanno diritto a un compenso, la cui determinazione spetta all’assemblea
ordinaria; analogamente a quanto vale per il collegio sindacale, esso non può essere variato in corso di
mandato, al fine di assicurare l’indipendenza dell’organo di controllo.
Con riferimento alle cause di cessazione, identica è anche la disciplina della durata (3 esercizi) con
scadenza alla data di convocazione dell’assemblea per l’approvazione del relativo bilancio, ed efficacia della
cessazione al momento in cui l’organo viene ricostituito. Diversa è invece la disciplina della revoca, che
assicura minore indipendenza, dato che i consiglieri di sorveglianza sono liberamente revocabili, anche in
assenza di giusta causa (pertanto senza controllo preventivo del Tribunale), salvo il diritto al risarcimento
del danno, a condizione che la delibera sia approvata con il voto favorevole di almeno 1/5 del capitale sociale.
In caso di cessazione di singoli consiglieri non è previsto ne il ricorso a supplenti (come per i sindaci), ne la
cooptazione (come per gli amministratori) è per questo che alla sostituzione dovrà provvedere
l’assemblea ordinaria senza indugio.
Le funzioni del consiglio di sorveglianza possono essere suddivise in funzioni di controllo (analoghe a
quelle spettanti al collegio sindacale) e funzioni di indirizzo della gestione, che derivano dall’assegnazione a
tale organo di alcune competenze spettanti nel modello tradizionale all’assemblea ordinaria dei soci.
- Quanto alle prime, il codice richiama integralmente i doveri del collegio sindacale: controllo sul rispetto
della legge e dello statuto, controllo sul rispetto dei principi di corretta amministrazione, controllo sulla
adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società.
Meno incisivi però, soprattutto nelle società non quotate, sono i poteri assegnati dall’ordinamento per
l’esercizio delle funzioni tipiche l’assistenza alle sedute dell’organo amministrativo e dell’assemblea è
prevista, ma è facoltativa, nel senso che non è prevista la decadenza in caso di assenza ingiustificata; quanto
ai poteri di ispezione, il consiglio di sorveglianza può chiedere notizie sulla gestione agli amministratori e
scambiare informazioni con gli organi corrispondenti delle società controllate, ma non si applica il potere
individuale di ispezione del singolo componente, al quale è pertanto precluso di procede ad atti individuali
di controllo (eventuali operazioni di ispezione documentale dovranno quindi essere deliberate dal collegio, il
quale potrà poi delegare singoli componenti ad effettuare gli accessi materiali presso la società); con
riferimento infine ai poteri di convocazione degli altri organi sociali, il consiglio di sorveglianza può
convocare l’assemblea in caso di omissione degli amministratori o di fatti censurabili e a seguito di denunzia
da parte dei soci, nel caso di gravi irregolarità inoltre il consiglio è legittimato alla denunzia.
La 2ª area di funzioni assegnata al consiglio di sorveglianza, attiene invece alle competenze solitamente
rimesse nel sistema tradizionale all’assemblea ordinaria, ed attinenti alla funzione di indirizzo (cd controllo
di merito). Il consiglio di sorveglianza, infatti:
a) nomina e revoca i componenti del consiglio di gestione;
b) ne determina il compenso (a meno che lo statuto non rimetta tale competenza all’assemblea);
c) approva il bilancio di esercizio e, ove redatto, anche il bilancio consolidato (che nel sistema tradizionale è
invece di competenza del c.d.a.);
d) autorizza l’esercizio dell’azione di responsabilità contro i consiglieri di gestione.
Come anticipato, i poteri del consiglio di sorveglianza possono essere accresciuti dallo statuto, prevedendo
la competenza a deliberare in ordine alle operazioni strategiche ed ai piani industriali e finanziari,
predisposti dal consiglio di gestione in tal modo il consiglio di sorveglianza viene ad assumere un ruolo
formale di preminenza nella gestione sociale, potendosi riservare ad esso le decisioni di merito alla cd alta
amministrazione dell’impresa.
Per converso, il ruolo dell’assemblea ordinaria – fermo invece quello della straordinaria – viene
significativamente compromesso rispetto al sistema tradizionale. Infatti è tassativamente esclusa ogni
competenza deliberativa in materia di nomina e revoca dei consiglieri di gestione e anche la determinazione
del relativo compenso, che spetta solo se prevista dallo statuto e in alcuni casi (di mancata approvazione del
progetto di bilancio da parte del consiglio di sorveglianza, di apposita richiesta formulata da parte di ⅓ dei
componenti del consiglio di gestione o di sorveglianza). L’assemblea ordinaria mantiene, invece, la
competenza – concorrente con il consiglio di sorveglianza – in ordine all’azione di responsabilità nei
confronti degli amministratori, nonché – in via esclusiva – la competenza in materia di distribuzione degli
utili e di nomina del revisore. Ad esse, rispetto al sistema tradizionale, si aggiunge naturalmente la nomina
dei consiglieri di sorveglianza e la determinazione del relativo compenso.
Il codice detta poi alcune regole organizzative per il funzionamento del consiglio di sorveglianza.
- Il presidente è necessariamente eletto dall’assemblea, e non può pertanto essere nominato dal consiglio
stesso. I suoi poteri sono determinati dallo statuto, ma ad esso vanno in ogni caso attribuiti i tradizionali
poteri di convocazione e coordinamento dell’organo collegiale.
- Il consiglio deve riunirsi con cadenza trimestrale, come il collegio sindacale, dunque almeno ogni 90
giorni. Nelle società quotate però, il consiglio deve riunirsi ogni qualvolta un componente lo richieda,
indicando gli argomenti da trattare, e la riunione deve essere convocata senza indugio, a meno che non
risultino specifiche ragioni ostative.
- Per la validità della seduta è necessaria la presenza della maggioranza dei componenti, e le deliberazioni
sono assunte a maggioranza assoluta dei presenti. La mancata partecipazione alle sedute non costituisce
causa di decadenza automatica (come per i sindaci) ma potrebbe costituire giusta causa di revoca
dall’incarico da parte dell’assemblea.
- Le deliberazioni del consiglio sono soggette ad un particolare regime di impugnazione l’unica sanzione
ammessa in via generale è l’annullabilità, e le delibere possono essere impugnate dai consiglieri di
sorveglianza assenti o dissenzienti, dai singoli soci (solo nel caso in cui la deliberazione risulti lesiva di un
loro diritto soggettivo) ed anche dal consiglio di gestione (ma per le sole competenze deliberative, non per
quelle relative all’esercizio della funzione di controllo). L’applicazione delle norme in materia di
impugnazione delle delibere assembleari è prevista nel solo caso dell’approvazione del bilancio di esercizio.
Il regime della responsabilità si articola sulla falsariga di quello previsto per il collegio sindacale i
componenti del consiglio di sorveglianza devono adempiere ai propri doveri con la diligenza richiesta dalla
natura dell’incarico. Come per i sindaci è prevista la responsabilità per omessa vigilanza nei confronti del
consiglio di gestione, per i fatti e le omissioni di questi ultimi, quando il danno non si sarebbe prodotto se i
consiglieri di sorveglianza avessero vigilato in conformità degli obblighi della loro carica. Tuttavia il regime
di responsabilità per omessa vigilanza mal si adatta alle eventuali competenze statutarie di alta
amministrazione, che possono essere affidate al consigli di sorveglianza trattandosi di competenze
deliberative, è da ritenere che la responsabilità muti titolo, da responsabilità di tipo omissivo a responsabilità
di tipo commissivo pertanto i consiglieri di sorveglianza risponderanno per concorso nella responsabilità
dei consiglieri di gestione.
Diversamente poi dal sistema tradizionale, nel quale è ammessa la figura dell’amministratore unico, nel
sistema dualistico è invece necessaria la costituzione di un organo collegiale, composto da almeno 2
componenti (anche non soci) al quale spetta in via esclusiva la gestione dell’impresa. Questo organo è il
consiglio di gestione.
La nomina dei primi componenti viene effettuata nell’atto costitutivo mentre i successivi sono nominati dal
consiglio di sorveglianza. Il numero dei componenti è determinato dallo statuto o in maniera fissa o
mediante l’introduzione di un limite max lasciando in tal caso libero il consiglio di sorveglianza di nominare
un numero inferiore di amministratori.
Il compenso è stabilito dal consiglio di sorveglianza, a meno che lo statuto assegni tale competenza
all’assemblea ordinaria.
La revoca dei consiglieri di gestione è di esclusiva competenza del consiglio di sorveglianza. Come nel
sistema tradizionale può avvenire anche in assenza di giusta causa, salvo in tal caso il risarcimento dei danni.
Anche le regole in materia di durata dell’incarico sono simili, con la sola differenza che i gestori scadono
alla data della riunione del consiglio di sorveglianza (anziché dell’assemblea) convocato per l’approvazione
del bilancio relativo all’ultimo esercizio della carica. In caso di cessazione anticipata di un consigliere, non
è previsto il ricorso alla cooptazione, e la sostituzione deve pertanto essere deliberata senza indugio dal
consiglio di sorveglianza. In caso di cessazione anticipata della totalità dei consiglieri invece subentra il
consiglio di sorveglianza nell’amministrazione ordinaria della società fino alla nomina (da effettuare con
urgenza) del nuovo consiglio di gestione.
Il codice civile non disciplina la figura del presidente del consiglio di gestione, ma non sussistono ostacoli
ad un’applicazione analogica alla disciplina del sistema tradizionale, con i limiti della compatibilità: la
nomina spetta pertanto al consiglio di sorveglianza (e non all’assemblea) e in via subordinata al consiglio di
gestione. Il codice invece rinvia espressamente alla disciplina del c.d.a. per quanto riguarda il
funzionamento del consiglio di gestione (convocazione – deliberazioni – interessi personali –
impugnazione delle deliberazioni), fermo restando che i poteri tradizionalmente attribuiti al collegio
sindacale spettano al consiglio di sorveglianza.
L’azione sociale di responsabilità contro gli amministratori può essere promossa a seguito di delibera
dell’assemblea ordinaria o su iniziativa della minoranza, come nel sistema tradizionale, ma anche a seguito
di delibera del consiglio di sorveglianza. Se il consiglio di sorveglianza delibera l’esercizio dell’azione con
una maggioranza pari almeno ai ⅔ dei componenti, gli amministratori oggetto della delibera cessano
dall’incarico per revoca automatica e il consiglio di sorveglianza provvede contestualmente alla sostituzione.
IL SISTEMA MONISTICO
Tale sistema è caratterizzato dalla presenza di un comitato per il controllo sulla gestione, costituito
all’interno del consiglio di amministrazione, in sostituzione della figura del collegio sindacale e con
competenze assimilabili a quelle di quest’ultimo. Il sistema monistico presenta minori garanzie di
indipendenza della funzione di controllo, dato che i componenti del comitato sono nominati e revocati dallo
stesso c.d.a. di cui fanno parte. La caratteristica del sistema però è proprio quella di coinvolgere i soggetti
istituzionalmente deputati alla funzione di controllo nelle decisioni gestionali e di pervenire in tal modo ad
un esercizio più consapevole del compito principale loro assegnato, assicurando al contempo una struttura
organizzativa più semplificata rispetto al sistema tradizionale, vista la riduzione del numero degli organi
sociali in definitiva, minore indipendenza controbilanciata da una maggiore responsabilizzazione.
Per poter nominare regolarmente i membri del comitato, è previsto che almeno ⅓ dei componenti del c.d.a.
risulti in possesso dei requisiti di indipendenza stabiliti per i sindaci. Tutti i componenti del comitato di
controllo devono essere scelti fra i consiglieri che risultino in possesso di tali requisiti, nonché di ulteriori
requisiti di professionalità e onorabilità stabiliti dallo statuto. I componenti del comitato non possono inoltre
far parte del comitato esecutivo, ne ricevere deleghe e cariche particolari (ad es. quella di presidente del
c.d.a.), nonché altri incarichi che comportino di fatto l’esercizio di funzioni attinenti alla gestione
dell’impresa sociale. In definitiva, essi devono essere scelti tra i cd amministratori non esecutivi.
Nelle società quotate, almeno un amministratore indipendente deve essere inoltre nominato dalla minoranza,
attraverso il sistema del voto di lista.
Il numero dei componenti del comitato è stabilito dal c.d.a. (se il numero non è stabilito dallo statuto), ma il
comitato dev’essere composto nelle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio da almeno 3
componenti; se ne deduce che nelle altre S.p.a. il comitato deve essere composto da almeno 2 componenti,
trattandosi comunque di un organo necessariamente collegiale. Il presidente viene nominato dal comitato
stesso, a maggioranza assoluta dei componenti, e non dal c.d.a. Tuttavia nelle società quotate è individuato
nell’amministratore indipendente nominato dalla minoranza.
Il c.d.a., che provvede alla nomina, deve ritenersi titolare anche del potere di revoca dei componenti. Essa
può essere disposta anche senza giusta causa, salvo il risarcimento del danno. La revoca da componente del
comitato, disposta dal consiglio, non comporta però la cessazione dalla carica di amministratore, che può
essere deliberata solamente dall’assemblea ordinaria. In tutti i casi di cessazione anticipata dalla carica di un
componente del comitato (morte, decadenza, rinuncia, revoca), la sostituzione deve essere deliberata dal
c.d.a. scegliendo i nuovi componenti fra gli altri amministratori in possesso dei requisiti necessari o, in
mancanza, cooptando ove possibile preliminarmente nel consiglio nuovi amministratori.
Il compenso dei componenti del comitato è stabilito dal c.d.a., salvo che lo statuto preveda la competenza
dell’assemblea.
Le funzioni del comitato per il controllo sono simili a quelle del collegio sindacale. In realtà il codice
richiama solamente il controllo sull’adeguatezza della struttura organizzativa, amministrativa e contabile
della società, ma le altre funzioni contemplate per i sindaci – ossia il controllo di legalità ed il controllo sul
rispetto dei principi di corretta amministrazione – sono riferibili anche al comitato in quanto i componenti
sono amministratori e pertanto sono già tenuti come tali al rispetto dei principi di legalità e di corretta
gestione. Fra i doveri dei componenti del comitato rientra quello di assistere alle assemblee, ed alle
adunanze del c.d.a. e del comitato esecutivo. Diversamente dai sindaci però non è prevista la decadenza
automatica in caso di assenza e l’inadempienza può essere valutata come giusta causa di revoca dall’incarico
di componente del comitato o anche dalla carica di amministratore.
Non risultano richiamate dal codice neanche le norme in materia di poteri informativi dei sindaci,
prevedendosi espressamente solo il potere di scambiare informazioni con il soggetto incaricato della
revisione legale dei conti.
La disciplina del funzionamento del comitato di controllo è regolata per rinvio alla disciplina del collegio
sindacale obbligo di riunioni trimestrali, obbligo di verbalizzazione delle sedute e di tenuta del libro delle
adunanze, previsione di un quorum costitutivo pari alla maggioranza dei componenti e di un quorum
deliberativo pari alla maggioranza dei presenti. Il comitato è convocato dal presidente.
Le gravi irregolarità devono attenere alla gestione, onde non dovrebbero rilevare irregolarità di tipo
“organizzativo”, per le quali sono previsti i normali rimedi invalidativi. Le gravi irregolarità devono quindi
consistere in violazioni dei doveri degli amministratori, che non riguardano mere violazioni della legalità
formale, ma che si traducano in atti idonei a danneggiare la società, o società controllate.
Rimangono dunque estranee al controllo giudiziario sulla gestione le ipotesi di gravi irregolarità a danno di
singoli azionisti di minoranza, là dove tali irregolarità non determinino un depauperamento del patrimonio
sociale o della capacità della società di produrre profitti.
Le gravi irregolarità devono poi essere imputabili agli amministratori, e non occorre che vi sia un
concorso nelle irregolarità da parte dei sindaci. Ne discende l’inapplicabilità del procedimento per una grave
irregolarità commessa in sede assembleare.
La legittimazione alla denunzia è in capo agli azionisti che rappresentino almeno il 10% del capitale sociale,
o il 5% per le società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio (gli statuti possono diminuire, ma
non aumentare, tali percentuali). La legittimazione è poi propria dell’organo di controllo (collegio
sindacale - consiglio di sorveglianza - comitato per il controllo sulla gestione a seconda del sistema di
amministrazione adottato) ed anche del P.M. (solo nelle società che fanno ricorso al mercato del capitale di
rischio). Pertanto i soci che non raggiungano le soglie di partecipazione per la legittimazione potranno
quindi rivolgere la denuncia all’organo di controllo o anche un esposto al P.M. (se la società è aperta) per
sollecitarne il ricorso ex art.2409.
La procedura prende avvio dalla denuncia presentata da uno dei precedenti legittimati presso il Tribunale
civile nella cui circoscrizione la società ha sede legale. Il Tribunale convoca anzitutto in camera di consiglio
gli amministratori e i sindaci, al fine di verificare la fondatezza della denuncia stessa, fissando altresì un
termine per la notifica.
Il Tribunale potrà decidere quindi l’archiviazione, per manifesta infondatezza della denuncia, oppure di
sospendere la procedura (per un tempo determinato) a seguito di “ravvedimento operoso” della società, che
abbia sostituito gli amministratori e i sindaci con altri soggetti di adeguata professionalità, a condizione che
questi ultimi si impegnino a procedere in autotutela ad un dettagliato e serio programma di risanamento.
In mancanza di “ravvedimento operoso”, e sempre che la denuncia sia fondata, il Tribunale può ordinare
l’ispezione giudiziale della società, nominando un ispettore al termine dell’ispezione se le irregolarità
denunciate sussistono e sono attuali, il Tribunale può adottare opportuni provvedimenti provvisori (non
meglio identificati dalla legge, quindi determinabili con discrezionalità dal giudice) e la convocazione
dell’assemblea per le conseguenti deliberazioni. Nei casi più gravi, verrà nominato un amministratore
giudiziario, in sostituzione degli amministratori, ed eventualmente anche dei sindaci.
Il nominato amministratore giudiziario rimarrà in carica per il tempo fissato dal Tribunale e per lo
svolgimento delle funzioni di risanamento della società previste nell’atto di incarico; potrà compiere atti
eccedenti l’ordinaria amministrazione, ma solo se a ciò espressamente autorizzato dal Tribunale, il quale
mantiene un potere di vigilanza sull’azione dell’amministratore giudiziario.
Le spese del procedimento dovrebbero gravare sulla parte denunciante (i soci, o sulla società se la denuncia
è presentata dai sindaci o dal P.M.). E tuttavia, secondo i principi, là dove la denuncia sia fondata, le spese
saranno poste a carico del soggetto responsabile delle irregolarità denunciate o di chi abbia senza
fondamento resistito al reclamo.
IL BILANCIO D’ESERCIZIO
Il bilancio è l’insieme dei documenti, redatti con periodicità annuale dall’organo amministrativo ed
approvati dall’assemblea (o dal consiglio di sorveglianza nel sistema dualistico), che deve rappresentare in
modo veritiero e corretto la situazione patrimoniale e finanziaria della società e il risultato economico
dell’esercizio (art.2423).
Esso si compone di 4 documenti: stato patrimoniale, conto economico, rendiconto finanziario e nota
integrativa i primi tre sono documenti contabili, cioè sequenze di voci e dei relativi valori numerici,
mentre il quarto è un documento descrittivo ed illustrativo.
Lo stato patrimoniale è la rappresentazione di una situazione statica, in quanto enuncia le attività e le
passività che compongono il patrimonio della società alla chiusura dell’esercizio e ne indica il valore.
Il conto economico è invece la sintesi di un processo dinamico, in quanto riepiloga ricavi realizzati e costi
sostenuti nel corso dell’esercizio, dalla sua apertura alla sua chiusura, ed evidenzia così per sottrazione il
risultato, positivo o negativo, dello stesso.
Il rendiconto finanziario è un prospetto contabile che fotografa le disponibilità liquide della società all’inizio
e alla fine dell’esercizio e registra le variazioni di tali disponibilità prodottesi nell’arco del medesimo.
La nota integrativa infine contiene dati numerici e notizie in forma narrativa che completano o illustrano le
informazioni ricavabili dai primi due documenti.
Il bilancio d’esercizio assolve a due funzioni fondamentali e funge anche da parametro di riferimento per
l’applicazione di numerosi istituti. Essenziale è la funzione informativa esso – accessibile a chiunque in
quanto depositato presso il registro delle imprese – si rivolge a tutti gli attori del mercato, e consente loro di
evincere dati patrimoniali e finanziari, anche attraverso il raffronto tra bilanci dei diversi esercizi, capace di
evidenziare lo sviluppo nel tempo della situazione societaria; nei confronti dei soci esso funge altresì da
rendiconto dell’operato degli amministratori. Altrettanto importante è anche la funzione estimativa dei
risultati dell’attività è il bilancio che determina se il patrimonio netto sia maggiore (e di quanto) rispetto
al capitale (cioè alla dotazione di risorse vincolate) e quale sia dunque l’utile eventualmente distribuibile ai
soci. A queste inoltre si affianca una non marginale funzione organizzativa numerose disposizioni
richiamano i dati di bilancio come parametro di riferimento e limite per la legittimità di certe operazioni
(quali ad es. l’emissione di obbligazioni o l’acquisto di azioni proprie).
I canoni fondamentali a cui il bilancio deve ispirarsi sono enunciati nell’art.2423: esso va redatto con
chiarezza e la rappresentazione fornita deve essere veritiera e corretta.
Il principio di verità è il fulcro dell’intera disciplina, e perché ciò si realizzi è necessario che gli elementi
patrimoniali, i proventi ed i costi iscritti siano reali e completi e che ciascun elemento sia iscritto secondo il
suo valore reale. Sul piano valutativo va fatta però una precisazione: per ciascun bene infatti è delineabile
un range di valori tutti veri o, meglio, tutti realistici ad es. la tecnologia su cui poggia un impianto sarà
superata tra 8 o 10 anni? Entro quale periodo, dunque, il valore del bene andrà progressivamente ridotto
(ammortizzato)? La precarietà finanziaria di un debitore fa stimare nel 40 o nel 50% il valore presumibile
del recupero del credito? Il principio di verità è allora il dovere non di cercare un valore assolutamente ed
univocamente certo, che non esiste, ma di esprimere una valutazione sì discrezionale, ma oggettiva,
tecnicamente corretta, ragionevole e realistica.
Il principio di chiarezza impone un’esposizione ordinata, comprensibile, trasparente, dettagliata e fruibile
dei dati forniti. Esso è di rango pari a quello di verità, poiché la funzione del bilancio non è soltanto quella
di determinare un risultato numerico, ma principalmente quella di somministrare un certo tipo di
informazioni con un certo grado di approfondimento; dunque anche un bilancio vero è viziato (nullo) se non
è chiaro. La chiarezza è anzitutto garantita dalla struttura delineata dalla legge per le diverse parti del
bilancio, ma tale principio impone altresì si rispettare l’ordine delle voci e la collocazione delle
informazioni previsti dalla legge, per favorirne la lettura e la comparazione tra bilanci diversi.
Il principio di correttezza funge semplicemente da corollario dei precedenti. Un bilancio è vero, in quanto
adotti i corretti criteri contabili e le corrette regole della scienza aziendalistica: correttezza sotto questo
profilo equivale dunque ad adeguatezza tecnica. Un bilancio è chiaro, in quanto i dati siano forniti in modo
non fuorviante e trasparente: da questo punto di vista, correttezza equivale a buona fede oggettiva.
I 3 principi fondamentali hanno una rilevante valenza precettiva autonoma e sono strumento di
interpretazione della restante disciplina. Essi sono sovraordinati rispetto alle disposizioni attuative, al
punto che quando in casi eccezionali, l’applicazione di una di esse è incompatibile con la rappresentazione
veritiera e corretta, la disposizione non deve essere applicata. Tale sovraordinazione si manifesta anche nella
previsione per cui non occorre rispettare gli obblighi che esse stabiliscono quando la loro osservanza abbia
effetti irrilevanti al fine di dare una rappresentazione veritiera e corretta. Le norme attuative non pongono
dunque vincoli formali fini a se stessi e la loro deroga (che deve essere però allora esplicata e motivata nella
nota integrativa) è lecita se ininfluente: ad es. si potranno raggruppare alcune voci dello stato patrimoniale o
del conto economico se la loro presentazione non sia necessaria per garantire la chiarezza del documento.
L’art.2423-bis enuncia i cd principi tecnici di redazione, ossia i criteri tecnici generali cui ci si deve
attenere nella sua elaborazione. Essi rispettano per definizione le clausole generali dell’art.2423. La loro
inderogabilità non subisce pertanto alcuna eccezione. Essi sono inoltre sovraordinati rispetto alle
disposizioni attuative che li seguono: ne costituiscono il fondamento logico, ma hanno anche valenza
precettiva autonoma e fungono da criterio interpretativo delle stesse.
a) Il principio di prudenza incide sull’iscrivibilità degli elementi dell’attivo e del passivo e sulla loro
valutazione. Esso è alla base di importanti disposizioni attuative (come il criterio valutativo del costo
storico) e di altri fondamentali principi di redazione, come il principio di realizzazione (per cui si possono
indicare esclusivamente gli utili realizzati alla data della chiusura dell’esercizio, cioè soltanto se
giuridicamente conseguiti dalla società, non invece se sono meramente attesi o sperati, per quanto alte siano
le probabilità della loro futura ed effettiva realizzazione) o il principio di dissimmetria (per cui, viceversa, le
diminuzioni patrimoniali devono essere iscritte non solo al momento della loro concretizzazione ma anche
quando sono solo temute e probabili). Il principio di prudenza impone infine di scegliere, quando due
valutazioni presentano un pari grado di attendibilità, quella di valore inferiore.
b) Il principio di continuità dell’attività consiste in un principio essenziale per comprendere quale tipo di
verità il bilancio deve offrire: esso non è chiamato a rappresentare il valore corrente dell’azienda sociale o di
mercato dei singoli beni, o il loro valore di liquidazione, ma quello d’uso per la società, in vista della
prosecuzione dell’attività. Tale principio va rispettato comunque, anche quando la società abbia in progetto
di cedere in futuro un determinato cespite o di liquidare l’intero patrimonio (sciogliendosi).
confronti di terzi) tale da determinare una diminuzione dell’attività, dunque la sua iscrizione al passivo è
puramente convenzionale e consente la chiusura contabile del bilancio con un pareggio tra attivo e passivo.
L’art.2426 detta i criteri di valutazione degli elementi del patrimonio, suddivisi per tipi. È utile evidenziare i
principali, che rivelano come il legislatore attui i principi generali esposti precedentemente le
immobilizzazioni sono iscritte al costo d’acquisto o di produzione; gli incrementi di produttività derivanti da
spese di sviluppo sono iscrivibili al costo, ma per prudenza devono essere mantenute in società riserve tali
da coprire il loro valore; i crediti devono essere iscritti tenendo conto del valore presumibile di
realizzazione; le rimanenze (scorte di magazzino) e le attività finanziarie circolanti vanno iscritte al costo o,
se minore, al presumibile valore di realizzazione, desunto dall’andamento del mercato.
B) Il conto economico è un conto a scalare il cui risultato cioè si forma attraverso la somma algebrica
progressiva dei ricavi, dei costi, degli altri proventi ed oneri (tutti per voci) e determina il risultato
economico – positivo o negativo – dell’esercizio.
Le prime due macrovoci riguardano il valore della produzione e i costi della stessa. Anche questo
documento è elaborato secondo il criterio della competenza, per cui i ricavi e i costi dell’esercizio non
necessariamente coincidono con gli incassi e gli esborsi del medesimo. In secondo luogo, il conto
rappresenta il valore integrale della produzione e del periodo e non solo il valore della produzione venduta:
perciò ai ricavi va aggiunto l’eventuale incremento delle rimanenze di magazzino. Le altre macrovoci
riguardano i proventi e gli oneri diversi da quelli nascenti dall’esercizio dell’attività. Al risultato della
somma algebrica delle varie voci vanno detratte le imposte per ottenere l’utile netto (o perdita) dell’esercizio.
C) Il rendiconto finanziario enuncia anzitutto l’ammontare delle disponibilità liquide della società
all’inizio e alla fine dell’esercizio e la relativa composizione: denaro in cassa, saldo dei conti correnti e
depositi banca, postali, ecc. Documenta inoltre i flussi finanziari prodottisi complessivamente nell’arco
dell’esercizio stesso, ossia le variazioni positive o negative di tali disponibilità, disaggregate per categorie.
La rilevazione avviene dunque per cassa e non per competenza, arricchendo il pacchetto di informazioni
sulla situazione finanziaria della società con la rilevazione delle sue risorse liquide e del loro trend, perciò
fornendo dati sulla sua solvibilità e capacità di far fronte agli impegni a breve termine e di autofinanziarsi.
D) La nota integrativa infine raccoglie una nutrita serie di informazioni illustrative dei dati contabili o
complementari a questi, utili per conoscere meglio la situazione societaria. Le informazioni contenute in tale
documento sono in parte numeriche, in parte narrative, e sono analiticamente prescritte dalla legge, senza
escludere che il principio di chiarezza esiga in concreto l’inserimento di notizie ulteriori. Si tratta di dati
relativi alla composizione delle voci contabili, alle loro variazioni, ai criteri di valutazione applicati, nonché
a taluni aspetti concernenti la struttura finanziaria della società.
Per le società che non hanno emesso titoli quotati e che non superano certe soglie dimensionali, è prevista la
possibilità (non l’obbligo) di redigere il bilancio in forma abbreviata, cioè raggruppando talune voci e
omettendo certe informazioni.
Non appartiene al bilancio invece la relazione degli amministratori un resoconto, in parte narrativo e in
parte numerico, contenente un’analisi della situazione della società e dell’andamento/risultato della gestione,
nel suo complesso e nei vari settori in cui essa ha operato: dunque una descrizione dello scenario attuale e
delle prospettive dell’attività. A questa indicazione generica di contenuto segue l’elencazione analitica di
una serie di informazioni che la relazione deve “in ogni caso” fornire, e tra le quali rileva l’evoluzione
prevedibile della gestione, oltre ad alcuni indicatori e aspetti finanziari. Anche qui la legge riproduce
principi analoghi a quelli fondamentali del bilancio e la relazione deve offrire un’analisi “fedele, equilibrata
ed esauriente, coerente con l’entità e la complessità degli affari sociali” ma essa rimane esterna al
bilancio stesso, cosicché la violazione di tali precetti o l’omissione delle informazioni prescritte non lo rende
falso, scorretto o non chiaro; d’altra parte essa non è neppure oggetto di approvazione assembleare.
Per quanto riguarda il procedimento di formazione, il progetto di bilancio è redatto dall’organo gestorio,
necessariamente in forma collegiale (trattandosi di materia non delegabile) e successivamente viene
sottoposto all’organo di controllo e al soggetto incaricato della revisione legale, il primo dovendo redigere
una propria relazione con la descrizione dell’attività svolta e le osservazioni in ordine al progetto stesso, il
secondo dovendo formulare il proprio giudizio sulla corrispondenza del medesimo a verità e sul rispetto
della disciplina che presiede alla sua redazione. Infine è l’assemblea ordinaria (o il consiglio di
sorveglianza nel sistema dualistico) che approva il bilancio.
Progetto e relazioni (compresa quella degli amministratori) sono depositate presso la sede sociale nei 15
giorni antecedenti l’assemblea, e durante la stessa ogni socio può chiedere informazioni e chiarimenti.
Secondo l’orientamento oggi dominante, l’assemblea può modificare il progetto sottoposto alla sua
approvazione il bilancio infatti non è un atto attraverso cui si esprime l’autonomia degli amministratori
nella scelta delle strategie di gestione ma, al contrario, deve essere vero. Il potere modificativo
dell’assemblea, quale organo che rende il bilancio un atto della società, è dunque coerente con la sua natura.
Solo con l’approvazione il bilancio acquista la rilevanza giuridica come tale e deve essere depositato
presso il registro delle imprese, con le relazioni che lo corredano.
Come ogni altra delibera, anche questa può essere invalida e può dunque venire impugnata i vizi
procedimentali ne determinano come di consueto l’annullabilità o la nullità. Rilevante è però l’ipotesi di
nullità siccome il bilancio costituisce l’oggetto della delibera, se esso non è conforme alla disciplina che
presiede alla sua redazione, la delibera è nulla per contrarietà a norme imperative, e dunque per illiceità
dell’oggetto. Nulla è anzitutto la delibera che approva il bilancio se non è conforme a verità: ciò accade
quando si omettono elementi patrimoniali esistenti o se ne indicano di fittizi o si procede a valutazioni
contrarie ai criteri legali. Comunque nullità si ha non solo quando il risultato finale diverge dal vero, ma
anche quando le violazioni si compensano, portando ad un risultato corretto, ma frutto della somma
algebrica di poste scorrette. Nullo è anche il bilancio vero ma non conforme al principio di chiarezza,
questo è infatti pariordinato al principio di verità e correttezza.
La nullità può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse in tal modo si evitano impugnative
meramente ostruzionistiche, frequenti in passato nella prassi, ad opera di azionisti di minoranza
spregiudicati che risalivano fino ai bilanci più vecchi nel tentativo di danneggiare il più possibile la società
con un’azione che, mettendone in discussione la situazione patrimoniale passata e presente, poteva avere
un’eco pericoloso nel mercato, minando il credito di cui la stessa società godeva.
L’attuale disciplina ha posto peraltro ulteriori filtri e sbarramenti anzitutto un termine di decadenza
flessibile, ma più severo di quello generale: l’impugnazione non può essere proposta contro un bilancio,
dopo l’approvazione di quello successivo; inoltre un requisito di legittimazione, che altrimenti sarebbe
assente: se il revisore non ha formulato rilievi sul bilancio, l’impugnazione può essere proposta, se proviene
dai soci, solo da quelli che (anche congiuntamente) rappresentano almeno il 5% del capitale.
LE SOCIETÀ QUOTATE
Il fatto che le azioni di una S.p.a. siano quotate in un dato mercato assume significato per l’organizzazione
societaria sotto un duplice profilo. Anzitutto il ricorso al mercato dei capitali di rischio comporta la necessità
per il legislatore di tenere conto delle conseguenze della “apertura” in sé della società alla partecipazione di
una moltitudine di soci, in buona parte detentori di quote minime di capitale sociale, nonché dell’ordinaria
presenza all’interno della compagine sociale di risparmiatori anziché di soci spinti da un interesse
imprenditoriale. Ma vi è anche da tenere conto di un differente tipo di dinamiche che entra specificamente in
gioco con la quotazione delle azioni, le quali giustificano la previsione secondo cui le regole del codice in
tema di S.p.a. trovano applicazione alle società che dette azioni abbiano emesso solo “in quanto non sia
diversamente disposto da altre norme di questo codice o di leggi speciali”. Deve in proposito richiamarsi la
circostanza che la quotazione sancisce l’ingresso dei titoli azionari in un vero e proprio mercato, avente ad
oggetto prodotti di tipo finanziario: ossia in un luogo in cui è presente e viene costantemente sollecitata una
domanda continuativa, tipicamente riferibile a risparmiatori e investitori professionali, di remunerazione di
mezzi finanziari posseduti in surplus da tali medesimi soggetti. E ne segue che con la quotazione medesima
le S.p.a. “emittenti” dei titoli oggetto di negoziazione divengono a loro volta parti – dal lato dell’offerta – di
questo contesto e accettano pertanto di assoggettarsi alle logiche e alle leggi che ne sono tipiche. Questa
disciplina trova evidentemente il suo fulcro nell’attenzione normativa nei confronti del processo di
formazione dei prezzi, con l’interesse a che, in un mercato regolato, questi si possano determinare
correttamente: cioè riflettano il valore che in un dato momento storico possa essere ragionevolmente atteso
dagli operatori. Anche se a fianco di un tale interesse se ne pone un altro, di pari grado in quanto connesso
alla rilevanza sociale della materia finanziaria, relativo alla protezione della stabilità della domanda di
collocamento di investimenti e risparmi, contro i rischi di improvvise cadute, indotte da comportamenti
disattenti o azzardati dei suoi operatori.
Da qui la presenza, tra le regole dettate a proposito dei mercati regolamentati e dunque destinate ad
applicarsi alle società le cui azioni vengano collocate in quei contesti, di norme concernenti la condotta della
S.p.a. emittente e dei suoi singoli attori (soci di controllo e organi), ispirate dalla prospettiva della coerenza
con le regole sopra cennate, e delle quali il TUF si occupa. In particolare, con riguardo ai poteri della
Consob, la legge precisa che l’azione di controllo dell’autorità di vigilanza del mercato nei confronti degli
emittenti deve essere ispirata alla tutela degli investitori nonché all’efficienza e alla trasparenza del
mercato del controllo societario e del mercato dei capitali. Poi, ulteriore importante precetto è quello della
uguaglianza tra gli investitori infatti “gli emittenti quotati assicurano il medesimo trattamento a tutti i
portatori degli strumenti finanziari quotati che si trovino in identiche condizioni, ed ai medesimi soggetti
sono garantiti gli strumenti e le informazioni necessari per l’esercizio dei loro diritti”.
Dunque, le società con azioni quotate, in quanto facenti ricorso al mercato del capitale di rischio, sono –
assieme a quelle con titoli “diffusi” – destinatarie delle regole codicistiche specificamente dedicate a questa
categoria; inoltre, in quanto accedenti a un mercato regolato dal TUF, sono soggette alle relative previsioni,
ispirate dalle logiche che sono state prima richiamate.
Ai fini dell’applicazione delle sole norme codicistiche cui rinvia l’art.2325-bis, è da evidenziare che la
disposizione opera un generico riferimento alla circostanza che le azioni concretamente emesse siano
quotate in “mercati regolamentati” sembra dunque corretto concludere che le regole da essa indirizzate si
applicano a prescindere dalla localizzazione in Italia del mercato nel quale le azioni siano ammesse a
negoziazione. Diversamente accade invece per quanto riguarda il secondo punto di vista prima richiamato,
relativo alla selezione della fonte delle regole di mercato indotte dalla quotazione a tale proposito,
sono assoggettate al TUF le sole “società italiane con azioni quotate in mercati regolamentati italiani o di
altri Paesi dell’UE”, in tal modo escludendosi dal generale ambito applicativo del provvedimento sia le
società straniere, non aventi sede in Italia, pure se i titoli dovessero essere ammessi alla quotazione in un
mercato italiano, sia le società italiane con titoli quotati in mercati di Paesi extracomunitari.
Ciò premesso, in ordine alle condizioni circa l’ammissione-esclusione-sospensione delle azioni del dato
mercato, occorre osservare le previsioni del regolamento di mercato elaborato dalla società che ne ha la
gestione. In Italia, quale società di gestione opera la Borsa Italiana S.p.a. Ai sensi del Regolamento dei
mercati organizzati e gestiti dalla Borsa Italiana S.p.a., la richiesta di quotazione deve essere preceduta da
una delibera dell’organo competente: nei 2 mesi successivi la società di gestione decide intorno
all’ammissione e ne dà quindi comunicazione all’emittente, alla Consob e al mercato.
In ordine alla precisazione circa la competenza dell’organo societario che formula la domanda di
ammissione alle quotazioni, è discusso se questo debba essere identificato nell’assemblea ordinaria o, come
appare preferibile, all’assemblea straordinaria.
Il provvedimento di ammissione, eventualmente emesso dalla società di gestione del mercato, non è tuttavia
sufficiente affinché le azioni siano effettivamente negoziate nel dato mercato regola fondamentale ed
ineludibile è quella della trasparenza dei fatti concernenti l’impresa, in quanto decisivi per la stessa concreta
determinazione dei prezzi di negoziazione. In coerenza con tale principio , in ordine alla trasparenza
nell’accesso al mercato da parte della società la legge stabilisce la necessità di un documento informativo
iniziale, definito prospetto di quotazione. Attori dell’offerta sono, oltre all’emittente, l’offerente nonché i
soggetti intermediari che si assumono il compito di raccogliere le sottoscrizioni o le dichiarazioni di
acquisto: tra essi deve essere scelto, e indicato nei documenti d’offerta, il cd responsabile al collocamento. Il
prospetto informativo, redatto tenendo conto dei modelli predisposti dalla Consob, è soggetto a una
preventiva comunicazione a questa autorità ai fini dell’approvazione, la quale deve essere espressa. Il
prospetto non può essere pubblicato prima che intervenga detta approvazione.
Una volta che l’emittente abbia avuto accesso al mercato, i suoi obblighi informativi non sono
definitivamente assolti, anzi. La società a quel punto diviene soggetta a una penetrante ulteriore disciplina di
trasparenza, concernente lo svolgimento dell’attività d’impresa nella pendenza della negoziazione dei
relativi titoli e fondamentalmente rivolta all’esigenza di garantire il tempestivo aggiornamento sui fatti
d’impresa è dunque previsto l’obbligo di adeguarsi a un pervasivo sistema di produzione e
comunicazione di informazioni regolamentate individuate dalla legge, da diffondere e depositare presso la
Consob e la società di regolamentazione del mercato, nonché soggette, quanto a modalità e termini di
diffusione al pubblico, alle indicazioni dell’autorità di vigilanza, “ferma restando la necessità di
pubblicazione tramite mezzi di informazione sui giornali quotidiani nazionali”.
Quanto ai contenuti di tale disciplina di trasparenza, la legge prevede in primo luogo una puntuale e capillare
informazione del mercato sulle principali operazioni poste in essere dalle società emittenti, nonché sulle
vicende dell’organizzazione reputate rilevanti (i soggetti tenuti all’obbligo informativo possono proporre
reclamo nei confronti della Consob, facendo valere la circostanza che dalla comunicazione al pubblico delle
informazioni sopra menzionate possa derivare loro grave danno, e l’Autorità di vigilanza può entro 7 giorni
consentire l’omissione della comunicazione sempre che ciò non possa indurre in errore il pubblico su fatti e
circostanza essenziali). In secondo luogo, si prevede un obbligo di continua informazione del mercato in
relazione a fatti, stavolta non puntualmente individuati ex lege, ma destinati a essere identificati in concreto
sulla base della loro rilevanza a incidere sui valori dei titoli negoziati (cd informazioni price sensitive).
La disciplina concernente la struttura finanziaria della S.p.a. riceve significative integrazioni dalle
previsioni del TUF in tema di società con azioni quotate occorre tenere presente che l’assetto tipico
dell’azionariato della società quotata è del tutto diverso rispetto a quello della S.p.a. “ordinaria”. In questa è
dato normale e fisiologico la prevalente caratterizzazione dei soci come soggetti “attivi”, a cui è riferibile un
interesse “imprenditoriale”. Nelle S.p.a. quotate il quadro è invece molto più articolato e complesso: anche
qui è frequente la presenza di azionisti “imprenditori”, aventi personale diretto interesse nell’oggetto sociale
e nell’indirizzare l’attività attraverso la detenzione di partecipazioni di controllo, tuttavia accanto a tali
soggetti vi sono anche professionisti del mondo finanziario, holding e banche di investimento, inoltre una
larga parte delle azioni è di regola nelle mani, in via diretta o indiretta, di piccoli o piccolissimi investitori,
spesso risparmiatori, per loro natura del tutto lontani dall’idea di prendere parte alla vita sociale (cd apatia
razionale) e unicamente interessati alla conoscenza dei risultati d’esercizio per poter riscuotere gli eventuali
dividendi nonché operare scelte di mantenimento o trasferimento dell’investimento dall’una all’altra sede.
Con l’obiettivo di favorire la cd contendibilità del controllo, evitando che i soci rilevanti riescano, con un
investimento relativamente ridotto, a cristallizzare una posizione di potere acquisita, mantenendola in futuro
anche in seguito a risultati negativi e così di fatto sottraendo il controllo al giudizio del mercato, viene
esclusa l’ammissibilità per le società quotate dell’emissione di azioni a voto plurimo. La norma del TUF
però precisa che “le azioni a voto plurimo emesse anteriormente all’inizio delle negoziazioni in un mercato
regolamentato mantengono le loro caratteristiche e diritti”. Altra eccezione al divieto di emissione di azioni
a voto plurimo è stabilita dal fatto che, salvo diversa previsione statutaria, le azioni in parola possono essere
emesse dalla società quotata in seguito a fusione con società con azioni non quotate a voto plurimo, “al fine
di mantenere inalterato il rapporto tra le varie categorie di azioni”.
In accordo invece con la constatazione secondo cui è del tutto comune in una società con azioni quotate che
l’acquisto dei relativi titoli sia operato da parte o per conto di meri risparmiatori, soggetti del tutto
disinteressati alla partecipazione alla governance, è prevista un’articolata disciplina, intitolata alle cd azioni
di risparmio, categoria di “azioni prive del diritto di voto” e “dotate di particolari privilegi di natura
patrimoniale”. Compete allo statuto determinare il contenuto del privilegio, le condizioni, i limiti, le
modalità e i termini per il suo esercizio, nonché i diritti spettanti agli azionisti di risparmio in caso di
esclusione dalle negoziazioni delle azioni ordinarie o di risparmio.
La considerazione della frequente presenza, all’interno della compagine delle S.p.a. con azioni quotate, di
soci la cui condotta è ispirata da logiche di breve termine è vista dal legislatore con una certa
preoccupazione per il timore che gli amministratori, nell’intento di ingraziarsi i favori di tali soci, possano
farsi guidare dalla prospettiva di conseguire risultati immediati (si parla di short termism della gestione), da
poter appunto spendere come successo nei confronti di parte dell’azionariato: trascurando così la
realizzazione di importanti spese od attività necessarie all’impresa nella prospettiva di un suo rafforzamento
o della stessa sua sostenibilità. Nel TUF sono perciò previsti 2 istituti peculiari, ispirati all’idea di
incentivare la fidelizzazione del socio, in modo da garantire la rappresentanza nell’ambito dell’interesse
sociale di istanze di medio-lungo periodo, destinate ad attutire il riferito rischio di short termism.
La prima figura di cd loyalty shares è quella della maggiorazione del dividendo sul piano patrimoniale
può essere riconosciuto via statuto agli azionisti una sorta di “premio fedeltà”, attribuendo il diritto a una
certa maggiorazione del dividendo, rispetto a quello spettante alle altre azioni, a coloro che posseggano i
titoli per un “periodo continuativo indicato nello statuto”, purché non inferiore ad 1 anno. L’assegnazione
di tale maggiorazione, che non può eccedere del 10% il comune dividendo, può peraltro essere subordinata a
condizioni ulteriori. L’istituto riguarda soltanto i piccoli risparmiatori, essendo espressamente previsto che
non si applica in caso di partecipazione superiore allo 0,5%.
Il secondo istituto, di maggiore rilievo rispetto al precedente, è la cd maggiorazione del voto anche in tal
caso il legislatore appronta una sorta di “premio fedeltà” per l’investitore che sia stabilmente legato a una
data S.p.a., stavolta però non riguardante il profilo patrimoniale della partecipazione ma amministrativo:
sempre via statuto può disporsi di attribuire un voto maggiorato, “fino a un max di 2 voti”, per ogni azione
posseduta dallo stesso socio di una S.p.a. con azioni quotate per un periodo continuativo di 2 anni. Sul piano
della disciplina, per il corretto utilizzo dello strumento, il legislatore prevede che l’attribuzione e
l’accertamento del voto maggiorato vada prevista via statuto, stabilendosi la necessaria trasparenza di detta
attribuzione con la creazione di un apposito elenco nel quale iscrivere i soci che effettivamente abbiano
maturato i requisiti per usufruire del beneficio. Inoltre è specificato che la cessione inter vivos delle azioni
che conferiscono voto maggiorato comporta sempre la perdita della maggiorazione del voto. Infine, in
coerenza con la finalità della norma, di stimolare la partecipazione attiva da parte dei detentori di
investimenti duraturi, il voto maggiorato può essere riconosciuto, in caso di fusione o scissione, anche alle
azioni spettanti in cambio di quelle cui era attribuito voto maggiorato, e che lo statuto può disporre che la
maggiorazione si estenda alle azioni di nuova emissione sottoscritte, in sede di aumento di capitale a
pagamento, da chi sia già un “socio fedele” della S.p.a. emittente.
La considerazione, da parte del legislatore, degli interessi collegati al mercato produce una significativa
innovazione regolamentare nei riguardi del titolare della partecipazione sociale, prevedendosi a carico di
questi obblighi del tutto sconosciuti nel contesto delle S.p.a. non quotate ed essenzialmente consistenti in
penetranti doveri di trasparenza circa la sua posizione di socio. Occorre tener presente che il TUF si occupa
della materia in ragione dell’influenza che la trasparenza degli assetti proprietari collegati a una S.p.a. è in
grado di produrre nei riguardi della piena realizzazione delle istanze di trasparenza ed efficienza del cd
mercato di controllo. È chiaro infatti che solo dalla conoscenza dell’articolazione dell’azionariato quanti
operano sul mercato trarranno consapevolezza della esistenza e composizione di posizioni di comando in
relazione a una data S.p.a., nonché della relativa stabilità. Ed è pure evidente che sulle valutazioni e
decisioni di investimento/disinvestimento degli attori del mercato influirà anche la conoscenza delle
“dinamiche” interne a tali assetti, e dunque del comportamento tenuto dai soci di riferimento di una società
nelle occasioni sociali e del grado di armonia o conflittualità manifestatosi.
L’art.120 TUF stabilisce dunque modi e termini della trasparenza nei confronti della società e, tramite la
Consob, del mercato, delle partecipazioni considerate “rilevanti” dal legislatore, cioè suscettibili di fare
presumere un’attenzione dell’azionista alla governance sociale e un suo conseguente interesse a un
comportamento attivo in tale ambito. La soglia fissata dalla legge oltre la quale si realizza la fattispecie
tipica di partecipazione rilevante è quella dell’acquisto di azioni “in misura superiore al 3% del capitale
sociale”; una volta superata tale percentuale scatta un obbligo di darne comunicazione alla società
partecipata e alla Consob. Uguale obbligo di comunicazione opera all’avvenuto superamento delle
percentuali del 5 – 10 – e successivi multipli fino al 30%, nonché al raggiungimento delle ulteriori soglie del
50 – 66,6 – 90%. Inoltre, un obbligo di comunicazione di segno opposto scatta là dove la partecipazione si
riduca al di sotto delle menzionate soglie. È da sottolineare che la comunicazione va inviata direttamente
alla società quotata e alla Consob, mentre è a cura di quest’ultima che avviene la comunicazione al mercato.
Per l’ipotesi di inadempimento, oltre a una sanzione amministrativa è stabilita una sanzione di tipo civilistico,
atteso che in caso di omessa comunicazione il voto “inerente alle azioni quotate o agli strumenti finanziari”
a cui l’omissione è relativa è sospeso. In caso di inosservanza di tale disposizione, inoltre, se il voto è stato
determinante per la deliberazione, questa è annullabile e l’impugnativa può essere promossa anche dalla
Consob entro 6 mesi dalla deliberazione o dall’iscrizione della stessa nel registro delle imprese.
Sempre in tema di trasparenza degli assetti proprietari, il TUF si preoccupa anche di evitare che si diano
partecipazioni reciproche che eccedano le misure del 3% (per le PMI) e del 5% (per le altre società): ciò,
per impedire la sottrazione al gioco del mercato e la strumentalizzazione di quote partecipative, per effetto di
impliciti accordi tra gruppi di comando intesi al mantenimento o rafforzamento di posizioni di potere in
caso di partecipazioni reciproche eccedenti tali limiti, la società che ha superato il limite successivamente
non può esercitare il diritto di voto inerente alle azioni eccedenti e deve alienarle entro 12 mesi dalla data in
cui ha superato il limite. In caso di mancata alienazione entro il termine previsto la sospensione del diritto di
voto si estende all’intera partecipazione.
Tassello importante della disciplina degli assetti proprietari delle società quotate è costituito dalla
regolamentazione dei patti parasociali si tratta di evidenziare come tale fattispecie assuma una speciale
rilevanza in questo ambito, data l’attenzione dedicata dal legislatore agli assetti proprietari. Proprio in
ragione di tale incidenza, la disciplina del TUF dei patti parasociali si distingue rispetto a quella inserita nel
codice civile, soprattutto in quanto maggiormente improntata alla previsione di obblighi pubblicitari a carico
dei paciscenti, qui molto più intensi di quelli stabiliti per le comuni S.p.a., nonché per la fissazione di limiti
più stringenti in relazione alla durata dei patti in parola.
Quanto agli obblighi di trasparenza, è stabilito che gli accordi parasociali tra soggetti che congiuntamente
raggiungano le soglie di rilevanza ex art.120 TUF, devono essere: comunicati alla Consob, pubblicati per
estratto nella stampa quotidiana, depositati presso il registro delle imprese del luogo dove la società ha la sua
sede legale ed infine comunicati alla società con azioni quotate l’importanza che la legge riconosce a tale
pubblicità risulta evidente anzitutto considerando l’urgenza con la quale ne richiede l’adempimento: esso
deve avvenire entro soli 5 giorni dalla stipulazione!! Soprattutto, però, questa rilevanza può adeguatamente
apprezzarsi tenendo presente la sanzione che la legge ricollega alla mancata ottemperanza agli obblighi in
parola: un tale inadempimento produce la radicale nullità dei patti stipulati!!
In ordine ai limiti temporali del rapporto parasociale, è disposto che i patti “non possano avere durata
superiore a 3 anni e si intendono stipulati per tale durata anche se le parti hanno previsto un termine
maggiore”. È espressamente precisato, tuttavia, che detti accordo “sono rinnovabili alla scadenza”. Ove
siano invece stipulati a tempo indeterminato, è ex lege importo un diritto di recesso, esercitabile con un
preavviso di 6 mesi.
L’o.p.a., ossia l’offerta pubblica di acquisto o scambio, consiste in ogni offerta, invito a offrire o
messaggio promozionale, in qualsiasi forma effettuati, finalizzato all’acquisto o allo scambio di prodotti
finanziari e rivolti a un numero di soggetti e di ammontare complessivo superiori a quelli indicati nel TUF
all’art.100. La specifica rilevanza dell’o.p.a. nei confronti della disciplina delle S.p.a. si produce solo
allorché l’offerta abbia a suo specifico oggetto azioni quotate in un mercato regolamentato: in tale occasione
il legislatore se ne occupa per fare in modo che la vicenda possa svolgersi ed essere adeguatamente valutata
dall’investitore tenendo presente la possibile sua incidenza sul piano del mercato del controllo.
Al riguardo rilevano gli istituti della cd passivity rule e dell’o.p.a. obbligatoria.
Il primo dei due istituti ha come presupposto la diretta considerazione, da parte del legislatore, del mercato
del controllo, e dunque della contendibilità della proprietà dell’impresa: contendibilità la cui efficiente
concreta realizzazione è potenzialmente stimolo per un governo dell’impresa che sia a sua volta efficiente.
La preoccupazione sentita dalla legge è quella che il tentativo di assunzione del controllo di una società per
il tramite di un’offerta di acquisto delle relative azioni avente a oggetto un numero di titoli sufficiente al
raggiungimento della maggioranza dei voti possa essere ostacolato o impedito, dal socio che al momento
dell’o.p.a. detenga la partecipazione di controllo, con strumenti di vario genere (ad es. acquisto di azioni
proprie) idonei a soddisfare l’intento difensivo del gruppo di comando ma magari non in linea con un
genuino interesse sociale. L’idea del legislatore è quella di disporre senz’altro una regola di passività della
società bersaglio in pendenza di o.p.a., cioè quella della proibizione delle citate manovre contrarie al
successo dell’o.p.a., nell’ottica del menzionato favor legislativo verso la contendibilità del controllo il
TUF prevede che “le società italiane quotate i cui titoli sono oggetto dell’offerta si astengono dal compiere
atti od operazioni che possono contrastare il conseguimento degli obiettivi dell’offerta” (si pensi alla
decisione di dismettere un ramo d’azienda strategico e reputato fondamentale dall’offerente).
Ma non solo, il TUF prevede anche che:
a) la regola di passività vale solo là dove ne sia prevista la deroga via statuto, della quale è peraltro previsto
obbligo di comunicazione alla Consob;
b) l’autonomia statutaria può prevedere di rafforzare la regola di passività affiancando ad essa una regola di
“neutralizzazione”, il cui principale contenuto consiste nello stabilire l’inefficacia, nel periodo di
pendenza dell’offerta, di eventuali limitazioni al trasferimento di titoli previste nello statuto o limitazioni
al diritto di voto previste nello statuto o nei patti parasociali, nonché nella temporanea inefficacia di
eventuali clausole prevedenti azioni a voto plurimo o voto maggiorato;
c) vige una “clausola di reciprocità” tale per cui le regole di sfavore per le difese da o.p.a. non si applicano
all’ipotesi di offerenti provenienti da Paesi stranieri, e in particolare in caso di offerta pubblica promossa
da chi non sia soggetto a tali disposizioni ovvero a disposizioni equivalenti.
Per quanto riguarda invece l’o.p.a. obbligatoria, vi è da dire che l’istituto trova fondamento nell’idea della
rilevanza che il mutamento del controllo in una società quotata, potenzialmente conseguente a un’o.p.a.,
assume dal punto di vista degli azionisti esterni alla maggioranza. Dall’esercizio dei poteri di controllo
discende infatti la definizione della politica aziendale e delle scelte strategiche operate dalla società, a ciò
legandosi di conseguenza precise attese reddituali nonché riflessi di altro genere, potenzialmente rilevanti
per l’investitore. Si comprende così come la configurazione di una nuova stabile maggioranza in una società
quotata comporta la possibilità che all’attività sociale sia impresso un nuovo corso sotto i profili indicati, sia
che si assista a una vera e propria sostituzione, nella posizione di controllo, di un imprenditore a un altro, sia
che si passi da una situazione di proprietà frammentata al formarsi delle condizioni di una direzione unitaria
da parte di un individuato gruppo di comando. Innanzi a un tale scenario l’investitore è esposto al rischio di
dover sopportare un duplice pregiudizio: da un lato può accadere che il nuovo assetto generi un
assestamento verso il basso del prezzo della società partecipata, il cui contraccolpo nel patrimonio
dell’investitore non è evitabile con un’ordinaria cessione sul mercato delle azioni successiva al mutamento
del controllo, la quale registrerebbe appunto detto ribassamento dei corsi; dall’altro lato l’acquisizione del
controllo normalmente comporta il pagamento di un premio, evidentemente corrispondente al valore latente
dei titoli negoziati, che verrebbe a essere lucrato unicamente da coloro che hanno ceduto la partecipazione al
nuovo acquirente, in contrasto col principio della distribuzione proporzionale tra gli investitori del
medesimo emittente del valore di mercato dei relativi titoli. Per impedire che tali pregiudizi si verifichino, il
nostro ordinamento prevede una regola di responsabilizzazione dell’acquirente, imponendogli l’obbligo di
estendere all’intera categoria degli investitori della società emittente la possibilità di vendere i titoli in essa
posseduti. Il legislatore prevede 2 diverse ipotesi di o.p.a. obbligatoria: l’o.p.a. successiva e l’o.p.a.
incrementale. Ad esse si affianca l’istituto dell’obbligo di acquisto cd residuale, sempre incombente su
dati soggetti in dipendenza del possesso di una determinata misura percentuale di titoli in una società quotata,
ma non comportante la necessità dell’emissione di un’offerta la pubblico. Tra queste fattispecie la più
importante è l’o.p.a. totalitaria successiva chiunque, a seguito di acquisti ovvero di maggiorazione dei
diritti di voto, venga a detenere una partecipazione superiore a una soglia predeterminata, “promuove
un’offerta pubblica di acquisto rivolta a tutti i possessori di titoli sulla totalità dei titoli ammessi alla
negoziazione in un mercato regolamentato in loro possesso”. Perché scatti l’obbligo in parola è sufficiente
per legge l’acquisto di una partecipazione pari al 25% del capitale della società dei cui titoli si discute. Per
“partecipazione” deve intendersi specificamente una quota di titoli attributivi del diritto di voto nelle
deliberazioni assembleari riguardanti nomina e revoca degli amministratori o del consiglio di sorveglianza.
Solo il possesso di titoli aventi tali caratteristiche, nella misura indicata, è in grado di influenzare l’attività di
una società, con le conseguenze prima evidenziate. Operato l’acquisto della percentuale rilevante, sorge
l’obbligo di offrire pubblicamente l’acquisto della totalità degli ulteriori titoli in circolazione la legge
prevede la pubblicazione di un’offerta: nel termine max di 20 giorni dalla data di acquisto, avente ad oggetto
ciascuna categoria dei titoli emessi dalla società in questione, a un prezzo determinato ex lege. Infatti il TUF
prevede che “l’offerta sia promossa a un prezzo non inferiore a quello più elevato pagato dall’offerente e da
persone che agiscono di concerto con il medesimo, nei 12 mesi anteriori alla comunicazione, per acquisti di
titoli della medesima categoria”. Oltre che per l’ipotesi di acquisto di una partecipazione di controllo in
società con titoli quotati la legge prevede un obbligo di o.p.a. totalitaria cd incrementale, per il caso di
successivo aumento della partecipazione originariamente acquisita là dove un soggetto già possieda una
quota superiore al 30% e consolidi significativamente tale posizione. L’obbligo di offerta totalitaria scatta
nel caso di acquisto, anche indiretto, di più del 5% del capitale rappresentato da titoli che rappresentano
diritti di voto, complessivamente realizzato in un periodo di 12 mesi. Infine il TUF prevede anche l’istituto
dell’obbligo di acquisto residuale per tutelare i piccoli investitori contro il rischio di dover fronteggiare
una situazione di scarsa “liquidità” dell’investimento, cioè di difficoltà di cessione delle azioni nonché di
inadeguato funzionamento del meccanismo di formazione dei prezzi dei titoli derivante da una rarefazione
degli scambi di mercato, il legislatore impone a chi abbia acquistato una partecipazione almeno pari al 95%
del capitale rappresentato in titoli di una società quotata “l’obbligo di acquistare i restanti titoli da chi ne
faccia richiesta”. Al raggiungimento invece di una partecipazione pari al 90% del capitale con diritto di voto
l’obbligo di acquisto residuale concernente la totalità dei titoli della categoria interessata sussiste solo se il
detentore della partecipazione in discorso “non ripristina entro 90 giorni un flottante sufficiente ad assicurare
il regolare andamento delle negoziazioni”.
Infine, il TUF prevede una disciplina speciale pure in tema di organi delle società con azioni quotate, per lo
più riguardante non la previsione di istituti nuovi rispetto a quelli stabiliti nel codice civile, bensì regole in
più punti integrative della normativa generale in materia.
(A) Con riguardo all’integrazione rispetto alla disciplina codicistica dell’assemblea di S.p.a., per l’ipotesi di
società con azioni quotate le norme stabiliscono importanti deroghe all’ordinario procedimento assembleare,
ispirate all’intento di rafforzare i diritti dei soci e così rendere effettiva la concreta possibilità di
un’incidenza degli stessi soggetti nella vita sociale.
- Anzitutto va evidenziato il rafforzamento del diritto di informazione degli azionisti, operato attraverso
l’ampliamento dei termini dell’avviso di convocazione (40 invece che 30 giorni) e del relativi contenuti,
nonché l’imposizione di una relazione dettagliata intorno alle materie all’ordine del giorno.
- Poi deve rimarcarsi come venga facilitata la possibilità del socio di minoranza di utilizzare l’occasione
assembleare per sollecitare il pronunciamento dell’amministrazione e degli altri soci su profili considerati
rilevanti o urgenti; è riconosciuto a tutti gli azionisti il diritto di formulare domande e richiedere
chiarimenti in ordine alle materie all’o.d.g. nonché quello, attribuito a coloro che rappresentino almeno 1/40
del capitale sociale, di richiedere l’integrazione dell’o.d.g. con nuovi argomenti o di presentare sugli
argomenti comunicati nuove proposte di deliberazione.
- Infine è favorita la possibilità di soci rilevanti di partecipare attivamente all’assemblea e raccogliere
adesioni su posizioni competitive rispetto a quelle espresse da altri; infatti da un lato le speciali regole sulla
legittimazione del socio in assemblea facilitano la presenza in assemblea degli investitori istituzionali e il
mantenimento di voti a ridosso dell’occasione assembleare, dall’altro consentono a soci di minoranza di
raccogliere e aggregare consenso proveniente dalla vasta platea degli azionisti “passivi” e così contrapporsi
in modo potenzialmente significativo alle posizioni dei soci di controllo in relazione a temi ritenuti
fondamentali o strategici per la vita della società e la tutela degli investimenti effettuati.
Perciò l’intervento legislativo relativo all’assemblea nelle società quotate è rivolto a configurare il ruolo di
tale organo non tanto quale strumento di ponderazione collegiale delle scelte organizzative da adottare, bensì
come luogo di delineazione e aperta adozione, anche tra più alternative poste sul tavolo dai soci, delle linee
politico-strategiche seguite dal gruppo di controllo e del processo con cui vi si è giunti. E tutto ciò serve
affinché una tale vicenda sia sottoposta al giudizio esterno degli investitori, i quali valuteranno se optare (se
sono preesistenti azionisti) per il mantenimento o la modifica delle proprie precedenti scelte di investimento,
ovvero (se sono soggetti esterni alla compagine sociale) se investire nella S.p.a.
(B) Comunque è la disciplina dettata in tema di amministrazione e controllo delle S.p.a. quotate che può
dirsi rappresentare il cuore della cd corporate governance. Per comprendere adeguatamente origini e
fondamento di tale regime, va richiamata ancora la circostanza della polverizzazione dell’azionariato, che è
preferire anche in ragione di propri autonomi “presidi di sostenibilità”, indicati al mercato. La norma di
chiusura da questo punto di vista può considerarsi quella sulla pubblicazione della Relazione sul governo
societario e sugli assetti proprietari, la quale impone di affidare al mercato il giudizio circa la concreta
formula organizzativa adottata dalla S.p.a. quotata e le scelte sulle regole di governance che la compongono.
Tra queste scelte, assume poi importanza quella relativa ai codici di autodisciplina, cui è dato importante
rilievo dalla legge con lo stabilire che, non solo deve essere resa trasparente dalla S.p.a. l’adesione ai
medesimi, ma pure che la mancata adozione di singole disposizioni di detti codici deve essere motivata.
tratta della possibilità di emettere categorie di quote, di offrire le partecipazioni al pubblico anche attraverso
portali a ciò dedicati e di effettuare operazioni sulle proprie quote, qualora queste siano compiute in
attuazione di piani di incentivazione.
Per quanto riguarda la costituzione, la S.r.l. può essere costituita unicamente mediante costituzione
simultanea, a differenza della S.p.a. per la quale è possibile anche una costituzione attraverso pubblica
sottoscrizione questo rispecchia quanto sopra indicato in merito alla ridotta capacità della S.r.l. di
indirizzarsi verso un’ampia compagine sociale mediante appello al pubblico risparmio.
Ai sensi dell’art.2463, la S.r.l. può essere costituita con contratto o con atto unilaterale: è infatti permessa
la costituzione di una S.r.l. unipersonale, quindi con un unico socio (sia esso persona fisica o persona
giuridica). In tal caso però, dato che la possibilità che l’unicità del socio rappresenti un aspetto negativo
soprattutto per i terzi (considerata la mancanza di controllo interno), il legislatore prevede alcune
disposizioni volte principalmente a tutelare i creditori si tratta dei principi già visti in materia di S.p.a.:
- gli amministratori (o il socio stesso), quando l’intera partecipazione appartiene ad un solo socio o muta la
persona dell’unico socio, devono depositare per l’iscrizione nel registro delle imprese entro 30 giorni dalla
avvenuta variazione della compagine sociale una dichiarazione contenente tutte le generalità dello stesso;
- allo scopo di tutelare l’integrità del capitale sociale, si richiede che, in presenza di un unico socio fondatore,
sia versato subito l’intero ammontare del capitale sottoscritto, mentre, se la pluralità dei soci viene meno
successivamente, i versamenti ancora dovuti devono essere effettuati entro 90 giorni da tale evento.
In caso di violazione di tali obblighi, come per la S.p.a., il socio risponde personalmente ed illimitatamente
delle obbligazioni sociali sorte nel periodo in cui è stato unico il socio, sempre che la società risulti
insolvente. È questa l’unica deroga prevista alla generale regola della responsabilità limitata: regola in forza
della quale per le obbligazioni sociali risponde soltanto la società con il suo patrimonio.
Per dare vita ad una S.r.l. occorre, innanzitutto, redigere l’atto costitutivo in forma di atto pubblico. Esso
deve necessariamente indicare i seguenti aspetti, oltre ovviamente ad altre previsioni che le parti possono
sempre decidere di inserire nel medesimo (come la durata della società, l’introduzione di vincoli alla
circolazione delle partecipazioni, l’attribuzione di diritti particolari a singoli soci, etc.):
a) gli elementi identificativi di ciascun socio;
b) gli elementi essenziali e identificativi della società denominazione, comune dove è posta la sede,
l’attività economica che costituisce l’oggetto sociale;
c) gli elementi identificativi delle risorse destinate alla società e delle corrispondenti partecipazioni assunte
dai soci fondatori l’ammontare del capitale sottoscritto e di quello versato, i conferimenti di ciascun
socio e il valore attribuito ai crediti e ai beni conferiti in natura, la quota di partecipazione di ogni socio;
d) le norme relative al funzionamento della società, le persone cui è affidata l’amministrazione, il sindaco o
il soggetto incaricato di effettuare la revisione legale dei conti, nel caso in cui la sua presenza sia richiesta
dalla legge o prevista dall’atto costitutivo.
Il legislatore, per la S.r.l. si riferisce unicamente all’atto costitutivo e non menziona lo statuto, a differenza
di quanto previsto nella S.p.a. questa evenienza è stata ricondotta al fatto che nella S.r.l. viene accentuato
l’intento negoziale dei soci. Comunque sia nella prassi non sembrano sussistere ostacoli a che si possa
prevedere anche nelle S.r.l. la predisposizione dei due documenti: uno ove inserire i dati “storici” relativi
alla costituzione della società e uno ove inserire le regole organizzative. In quest’ultimo caso, secondo una
parte della dottrina, si renderà applicabile la regola generale in essere per la S.p.a. in base alla quale lo
statuto, anche se forma oggetto di un atto separato, costituisce parte integrante dell’atto costitutivo e, in caso
di contrasto tra le clausole dell’atto costitutivo e quelle dello statuto, prevalgono le seconde.
Passando ora al procedimento da seguire per la costituzione della società, il legislatore richiama la
disciplina in vigore per le S.p.a. in entrambi i casi si tratta di erigere un’organizzazione capitalistica
avente personalità giuridica e di garantire la legalità della costituzione e l’effettività del capitale. Dunque è
necessario, anche per la S.r.l., che sia sottoscritto per intero il capitale sociale, siano rispettate le previsioni
relative ai conferimenti e sussistano le autorizzazioni e le altre condizioni richieste dalle leggi speciali per la
costituzione della società in relazione al suo particolare oggetto. Il notaio, una volta predisposto l’atto
costitutivo ed effettuato un controllo di legalità, deve depositarlo entro 20 giorni presso l’ufficio del registro
delle imprese, allegando i documenti comprovanti la sussistenza delle condizioni previste e, contestualmente,
richiedere l’iscrizione della società nel medesimo registro. L’ufficio del registro, verificata la regolarità
formale della documentazione, iscrive la società e, con l’iscrizione, questa acquista la personalità giuridica.
Per le operazioni compiute in nome della società prima dell’iscrizione sono illimitatamente e solidalmente
responsabili verso i terzi, come nella S.p.a., coloro che hanno agito e, anche, il socio unico fondatore e quelli
tra i soci che nell’atto costitutivo o con atto separato hanno deciso, autorizzato o consentito il compimento
dell’operazione: qualora successivamente all’iscrizione la società approvi l’operazione, la stessa sarà
responsabile in sostituzione dei suddetti soggetti.
Come nella S.p.a., il legislatore limita poi i casi che possono dare luogo a nullità della società, una volta
avvenuta l’iscrizione nel registro delle imprese la nullità può essere pronunciata solo in caso di:
- mancata stipulazione dell’atto costitutivo nella forma dell’atto pubblico;
- illiceità dell’oggetto sociale;
- mancanza nell’atto costitutivo di ogni indicazione riguardante la denominazione della società, i
conferimenti, l’ammontare del capitale sociale o l’oggetto sociale.
Le modifiche dell’atto costitutivo sono generalmente riservate alla competenza dei soci e, per garantire una
maggiore ponderazione e discussione in proposito, si prevede che questi ultimi debbano necessariamente
esprimersi, diversamente da quanto può accadere per altre loro decisioni, come si vedrà, in assemblea con il
voto favorevole di tanti soci in grado di rappresentare almeno al metà del capitale sociale.
Il verbale, trascritto nel libro delle decisioni dei soci, deve essere redatto da un notaio, il quale deve, previo
controllo di legalità, depositarlo e richiedere l’iscrizione nel registro delle imprese. Qualora il notaio non
ritenga adempiute le condizioni stabilite dalla legge, ne deve dare tempestiva comunicazione agli
amministratori, i quali possono convocare l’assemblea per gli opportuni provvedimenti oppure ricorrere al
tribunale per ottenere l’omologazione, in mancanza la decisione è definitivamente inefficace. Il tribunale,
qualora ritenga adempiute le condizioni richieste dalla legge, sentito il PM, ordina l’iscrizione nel registro
delle imprese. L’ufficio del registro, verificata la regolarità formale della documentazione, iscrive la delibera
nel registro è solo con l’iscrizione che la delibera modificativa dell’atto costitutivo acquista efficacia.
LA STRUTTURA FINANZIARIA
per la S.r.l. che le partecipazioni corrispondenti a tali conferimenti devono essere integralmente liberate al
momento della sottoscrizione, si limita a richiedere una relazione giurata (da allegare all’atto costitutivo)
predisposta da un revisore legale o da una società di revisione legale iscritti nell’apposito registro e scelti
dal socio stesso e non nominati, come nella S.p.a., dal tribunale. Nella relazione deve essere contenuta una
descrizione dei beni o crediti conferiti, nonché l’indicazione dei criteri di valutazione adottati e
l’attestazione che il loro valore sia almeno pari a quello ad essi attribuito per la determinazione del capitale
sociale e dell’eventuale sovrapprezzo, mentre non è richiesto, come avviene nella S.p.a., un controllo da
parte degli amministratori in ordine alle valutazioni contenute nella relazione e non sono quindi indicate le
conseguenze derivanti dall’eventuale accertamento di una differenza tra valore accertato e valore effettivo.
Viene poi previsto che il valore complessivo dei conferimenti effettuati non possa essere inferiore
all’ammontare globale del capitale sociale e si tratta di un principio a tutela dell’effettività del capitale
sociale. Può invece avvenire anche nelle S.r.l. che esso risulti superiore all’ammontare globale del capitale
sociale, data la presenza di eventuali sovrapprezzi versati dai soci che non vengono imputati a capitale, ma
iscritti in una specifica riserva.
Per la S.r.l. non è espressamente riconosciuta la possibilità di stabilire nell’atto costitutivo l’obbligo dei soci
di eseguire delle prestazioni accessorie, tuttavia la prevalente dottrina ammette tale possibilità data l’ampia
autonomia che dovrebbe contraddistinguere il tipo in esame.
Qualora il socio risulti inadempiente rispetto all’obbligo di effettuare i conferimenti promessi, si applicherà
la disciplina relativa al socio moroso nel caso in cui il socio non esegua il conferimento nel termine
prescritto, gli amministratori devono diffidarlo ad adempiere entro 30 giorni – decorso il termine inutilmente,
gli amministratori, qualora non ritengano utile promuovere azione per l’adempimento, possono vendere la
partecipazione ad altri soci, in proporzione alla loro partecipazione, per il valore risultante dall’ultimo
bilancio approvato – solo in mancanza di offerte, e purché l’atto costitutivo lo consenta, la partecipazione
può essere venduta all’incanto – se la vendita non può avere luogo per mancanza di compratori, gli
amministratori escludono il socio, trattenendo le somme riscosse e, in questo caso, il capitale sociale deve
essere ridotto in misura corrispondente. Il socio moroso non può partecipare alle decisioni dei soci.
Per quanto riguarda l’aumento e la riduzione del capitale sociale, il legislatore dedica per la S.r.l.
un’apposita disciplina, pur essendo in gran parte simile a quella in essere per la S.p.a.
A. Pure qui sono previste due forme di aumento di capitale: uno nominale e gratuito e uno reale e oneroso.
a) L’aumento nominale consiste in una variazione meramente contabile, cioè nel passaggio a capitale di
riserve e/o di altri fondi iscritti in bilancio in quanto disponibili, così ampliando gli ammontari soggetti al
vincolo di destinazione proprio del capitale e dando alla società una maggiore solidità patrimoniale. In
questo caso non si farà luogo all’emissione di nuove quote, ma aumenterà l’eventuale valore nominale di
quelle in circolazione, mentre le partecipazioni, in termini percentuali, resteranno immutate.
b) L’aumento reale consiste in un effettivo incremento patrimoniale, dato che il capitale viene aumentato
mediante nuovi conferimenti effettuati dai soci o da soggetti terzi. La decisione di aumentare il capitale –
che di norma, trattandosi di modifica dell’atto costitutivo, spetta ai soci, ma che l’atto costitutivo può
anche attribuire agli amministratori – non può, però, essere attuata fin quando i conferimenti
precedentemente dovuti non siano stati integralmente eseguiti, così da evitare che la società possa ottenere
nuovo capitale di rischio fin quando non ha interamente ricevuto quello già promesso. I conferimenti
devono essere effettuati con le modalità previste per la costituzione, e l’aumento deve essere
integralmente sottoscritto, a meno che la decisione abbia espressamente consentito un aumento cd
scindibile: in questo caso il capitale è innalzato di un importo pari alle sottoscrizioni raccolte.
Ai soci spetta il diritto di sottoscrivere il capitale in proporzione alle partecipazioni possedute, così da poter
mantenere invariata la propria posizione all’interno della società è questo l’equivalente del diritti di
opzione accordato agli azionisti di S.p.a. Il legislatore prevede che tale diritto possa essere escluso ma, in tal
caso, a differenza della S.p.a. ove la maggioranza dei soci può escludere o limitare il diritto di opzione in
presenza di determinate circostanze senza però la necessità di un’apposita previsione statutaria, occorre
un’esplicita indicazione proprio in tal senso nell’atto costitutivo, in considerazione dei possibili rilevanti
effetti patrimoniali e sugli assetti societari che tale ipotesi può determinare. L’atto costitutivo può così
stabilire che l’aumento possa essere attuato anche mediante offerta di partecipazioni di nuova emissione a
terzi. Date comunque le conseguenze che l’esclusione del diritto di sottoscrizione può determinare per i soci
medesimi, che possono vedere modificati i precedenti equilibri partecipativi, non solo è richiesta la
previsione di un’apposita clausola dell’atto costitutivo, ma è riconosciuto il diritto di recesso per coloro che
non hanno consentito alla decisione. Nel caso in cui il diritto di sottoscrizione non venga escluso, la
decisione di emissione deve prevedere le modalità ed i termini entro i quali può essere esercitato tale diritto;
termini che comunque non possono essere inferiori a 30 giorni dal momento in cui viene comunicato ai soci
che l’aumento può essere sottoscritto. Infine, nei 30 giorni dall’avvenuta sottoscrizione, gli amministratori
devono depositare per l’iscrizione nel registro delle imprese un’attestazione che l’aumento è stato eseguito,
così da rendere conoscibile ai terzi la reale situazione della società.
Con riferimento all’aumento di capitale reale è sorto l’interrogativo se e in che termini il socio possa
sottoscriverlo, “utilizzando” dei crediti che egli vanta nei confronti della società o dei versamenti
precedentemente effettuati a favore della società. I versamenti in conto futuri aumenti di capitale sono dei
versamenti effettuati dai soci e vincolati alla sottoscrizione di futuri aumenti di capitale a pagamento da
parte dei soci che li hanno eseguiti. Diverso è il caso in cui vengano effettuati dei versamenti a favore della
società senza alcun diritto di rimborso, denominati nella prassi versamenti in conto capitale, in quanto tali
versamenti sono definitivamente acquisiti a patrimonio sociale ed integrano una riserva disponibile che può
essere liberamente utilizzata sia per ripianare le perdite che per aumentare gratuitamente il capitale sociale.
B. Anche nel caso di riduzione del capitale si può distinguere tra riduzione reale e riduzione nominale.
a) La riduzione reale comporta un’effettiva diminuzione del patrimonio sociale e può avere luogo (nel
rispetto del limite minimo del capitale sociale) mediante il rimborso ai soci delle quote pagate o mediante
la liberazione dall’obbligo dei versamenti ancora dovuti, senza che sia necessario indicare, come invece
avviene nella S.p.a., le ragioni di tale riduzione. Il legislatore prevede che la decisione in proposito possa
essere eseguita soltanto dopo 90 giorni dal giorno dell’iscrizione nel registro delle imprese della stessa,
purché entro tale termine nessun creditore sociale abbia fatto opposizione. Legittimati a proporre
opposizione sono solo i creditori anteriori all’iscrizione della decisione. In caso di opposizione, il
tribunale può comunque disporre che la riduzione abbia luogo quando ritenga infondato il pericolo di
pregiudizio per i creditori oppure la società abbia prestato idonea garanzia.
b) La riduzione nominale consiste in una semplice operazione contabile attraverso la quale si procede ad un
adeguamento del capitale sociale a fronte di una perdita già verificatasi. Vi possono essere dei casi di
riduzione del capitale per perdite facoltativi (rimessi quindi alla decisione dei soci) e altri obbligatori
(imposti dalla legge). In particolare il legislatore prevede due ipotesi di riduzione per perdite obbligatorie.
La prima scatta quando si verifica una perdita superiore ad ⅓ del capitale sociale gli amministratori
devono senza indugio convocare l’assemblea dei soci e sottoporre loro una relazione sulla situazione
patrimoniale della società. L’assemblea assume gli opportuni provvedimenti, anche se non è per forza
tenuta a ridurre immediatamente il capitale sociale. Tuttavia, se entro l’esercizio successivo la perdita non
risulta diminuita a meno di ⅓, l’assemblea deve essere nuovamente convocata per l’approvazione del
bilancio e per la riduzione del capitale in proporzione delle perdite accertate. In mancanza, gli
amministratori devono chiedere al tribunale che venga disposta la riduzione del capitale in ragione delle
perdite risultanti dal bilancio. La seconda ipotesi prevista dal legislatore invece scappa quando la perdita,
oltre ad essere superiore di oltre ⅓ del capitale sociale, deve averlo ridotto al di sotto del minimo legale
in questo caso non è più possibile attendere un esercizio per verificare gli sviluppi della situazione, ma
gli amministratori devono senza indugio convocare l’assemblea per deliberare la riduzione del capitale e il
contemporaneo aumento del medesimo ad una cifra non inferiore al minimo, ovvero la riduzione del
capitale e la trasformazione, oppure la nomina dei liquidatori e di ogni altro provvedimento relativo allo
svolgimento della fase di liquidazione, in conformità alla disciplina fissata, per le S.p.a.
Resta fermo che, in tutti i casi di riduzione del capitale per perdite, è esclusa ogni modificazione delle quote
di partecipazione e dei diritti spettanti ai soci: le perdite devono incidere proporzionalmente su tutti i soci, in
modo tale che ogni socio possa conservare, in misura percentuale ridotta, l’originario valore della quota di
partecipazione, come pure i connessi diritti. Comunque successivamente si vedrà che la disciplina in tema di
riduzione obbligatoria del capitale per perdite è derogata in caso di start up e PMI innovative S.r.l.
Le partecipazioni dei soci, d’altra parte, non possono costituire oggetto di offerta al pubblico di prodotti
finanziari, in tal modo impedendo alla S.r.l. di ricorrere al mercato dei capitali di rischio e confermando la
scelta legislativa di volerla strutturare come una società con una ristretta compagine societaria. Occorre però
segnalare che nell’ambito delle recenti modifiche normative avvenute nel 2017, il legislatore ha esteso a
tutte le S.r.l. PMI la possibilità – precedentemente prevista solo per le start up e PMI innovative – di offrire
al pubblico le proprie partecipazioni: in altre parole anche le S.r.l., purché rientranti nella nozione di PMI,
potranno raccogliere capitali di rischio dal pubblico mediante offerta delle partecipazioni, anche attraverso
portali appositamente dedicati.
Le partecipazioni dei soci sono determinate in misura proporzionale al conferimento effettuato, anche se è
possibile introdurre una diversa disposizione nell’atto costitutivo è così lecita (come nella S.p.a.) che i
soci si accordino e introducano nell’atto costitutivo una previsione in base alla quale ad es. due soci
conferiscono entrambi una medesima somma, ma ad uno di essi è attribuita una partecipazione maggiore in
considerazione dei suoi intensi rapporti con possibili clienti e fornitori. La regola della proporzionalità è poi
richiamata dal legislatore anche in relazione ai diritti sociali si riconosce che questi spettano ai soci in
misura proporzionale alla partecipazione da ciascuno posseduta; fermo restando che vi possono essere dei
diritti sociali che competono ai soci indipendentemente dall’entità della partecipazione detenuta.
L’atto costitutivo può anche prevede l’attribuzione a singoli soci di diritti particolari questa è una
disposizione di grande importanza e centrale per comprendere il significato della S.r.l. come tipo in cui può
essere enfatizzata la rilevanza personale dei singoli soci; una disposizione che, proprio per questo motivo,
segna una differenza significativa con il modello azionario, ove come sappiamo possono essere create
categorie di azioni. L’assegnazione di diritti particolari può servire a “premiare” alcune peculiarità o
caratteristiche personali di un socio, necessarie o comunque opportune alla luce delle esigenze societarie. Il
legislatore specifica che i diritti particolari possono essere attribuiti solo ai soci (indipendentemente dalla
entità della partecipazione) e non a soggetti terzi, e possono riguardare l’amministrazione della società o la
distribuzione degli utili.
Pur nella vaghezza dei termini legislativi adottati, si può ritenere che, in relazione all’amministrazione,
possono essere attribuiti particolari privilegi per quanto riguarda:
- la facoltà di scelta di alcuni amministratori o di esprimere il proprio gradimento in ordine alle persone
designate dagli altri soci;
- la riserva a favore del socio stesso della funzione di amministratore;
- il diritto di veto o anche di decisione su determinati atti gestori.
Se queste sono alcune delle possibili articolazioni relative ai diritti particolari in materia di amministrazione,
vi è da ricordare che dal dettato normativo emerge un limite vi sono infatti delle attribuzioni che sono in
ogni caso di competenza dell’organo amministrativo: la redazione del progetto di bilancio, la redazione del
progetto di fusione e di scissione, e la decisione di aumento del capitale sociale delegato.
Quanto invece ai privilegi riguardanti la distribuzione degli utili, si assume possibile prevedere clausole
che riservino ad uno o più soci percentuali qualificate e, quindi, disancorate dalla misura della
partecipazione sociale, vuoi degli utili di cui si sia deliberata la distribuzione, vuoi di quelli semplicemente
conseguiti (con la conseguenza che il socio avrà diritto di vedersi liquidata la percentuale di utili a lui
assegnata a prescindere dalla generale decisione). Tale privilegio può anche consistere in una priorità nel
prelievo del dividendo. Anche qui occorre individuare quali sono i principali limiti in materia all’autonomia
negoziale: anzitutto il divieto del patto leonino, che impedisce ad es. di un configurare un privilegio tale da
escludere del tutto la partecipazione di un socio alle perdite, in secondo luogo è illecita anche l’attribuzione
ad un socio del diritto a percepire una remunerazione in forma di interesse e non di utile.
Bisogna poi sottolineare che il legislatore ha voluto assegnare direttamente al socio i diritti particolari. Tale
assegnazione al socio e non alla partecipazione dovrebbe pertanto comportare che, in caso di trasferimento
di quest’ultima i diritti particolari non circolino con essa, ma si estinguano.
Una peculiare disciplina prevista per i diritti particolari consiste nella previsione che essi – data la loro
rilevanza nell’ambito della “vita societaria” – possano essere direttamente modificati (e anche eliminati)
solo con il consenso unanime dei soci, e appare lecito ritenere che la stessa regola debba applicarsi anche
nel caso di introduzione successiva dei medesimi nell’atto costitutivo. Tuttavia è fatta salva una diversa
disposizione dell’atto costitutivo in tal modo i soci possono reintrodurre per le modifiche cd dirette la
regola maggioritaria, tipica delle società di capitali. È poi riconosciuto che, in presenza di un modifica cd
indiretta (attuata cioè non attraverso una formale variazione dell’atto costitutivo ma mediante il compimento
di un’operazione gestoria approvata dai soci a maggioranza) suscettibile di incidere indirettamente sul diritto
particolare, spetti al socio non consenziente il diritto al recesso.
Infine occorre ricordare che la prevalente dottrina esclude la possibilità di creare nella S.r.l. delle categorie
di quote, e dunque delle serie di partecipazioni, dotate oggettivamente di diritti diversi da quelli spettanti
alle altre partecipazioni, e come tali attributive di questi diritti in modo indifferenziato a chiunque venga ad
acquisirle. Questa posizione trovava conferma nella legge che ha introdotto la nuova disciplina delle S.r.l.
nel 2003, ove si chiarisce che si è ritenuto coerente con le caratteristiche personali del tipo societario non
prevedere la possibilità di categorie di quote, che implicherebbe una loro oggettivizzazione e, quindi, una
perdita del collegamento con la persona del socio. Tuttavia tale possibilità è stata riconosciuta dal legislatore,
prima in tema di start-up innovative S.r.l. e recentemente, nel 2017, estesa a tutte le S.r.l. PMI.
Le partecipazioni nella S.r.l. sono liberamente trasferibili per atto tra vivi e per successione a causa di
morte, salvo contraria disposizione dell’atto costitutivo. Quest’ultimo può limitare il trasferimento delle
partecipazioni introducendo ad es. clausole di gradimento (mero e non mero) o di prelazione (propria o
impropria) o, anche, escludendo del tutto la trasferibilità delle stesse (in tal caso non opera il limite di 5
anni fissato per le S.p.a.). Tutto ciò fa sì che la S.r.l. possa, spesso, caratterizzarsi come società chiusa
nell’ambito della quale le partecipazioni non risultano liberamente trasferibili, consentendo di dare rilievo
alle persone dei soci e di conservare il più possibile l’originario equilibrio nella compagine sociale. In
particolare, la legittimità di clausole che escludono radicalmente e per sempre il trasferimento segna una
notevole differenza rispetto alla S.p.a., mentre per quanto riguarda gli altri tipi di clausola (gradimento e
prelazione), si può richiamare la disciplina prevista per le S.p.a. Il legislatore, a tutela dell’interesse del socio
(o dei suoi eredi) a non restare “prigionieri” della società, prevede che il egli o i suoi eredi possano esercitare
il diritto di recesso: l’atto costitutivo può stabilire un termine non superiore a 2 anni dalla costituzione della
società o dalla sottoscrizione della partecipazione prima del quale il recesso non può essere esercitato.
La disciplina relativa al trasferimento della partecipazione si compone di varie fasi:
- innanzitutto occorre stipulare l’atto di trasferimento per iscritto con sottoscrizione autentica da parte di un
notaio (si tratta di una forma non richiesta ad substantiam, sicché tra le parti l’atto è valido anche se
stipulato oralmente: la forma è necessaria per la successiva iscrizione nel registro delle imprese e per
l’opponibilità alla società e ai terzi);
- l’atto di trasferimento, per essere efficace nei confronti della società, deve poi essere depositato a cura del
notaio autenticante presso l’ufficio del registro delle imprese nella cui circoscrizione è stabilita la sede
sociale. È dal momento del deposito che il trasferimento della partecipazione ha effetto di fronte alla
società. L’adempimento rilevante per la società è, quindi, il deposito e non la successiva (ed eventuale)
iscrizione nel registro delle imprese questa previsione non ha mancato di sollevare critiche, dato che
essa rende possibile l’acquisto della qualità di socio nei confronti della società ancora prima che sia
completato il procedimento di iscrizione.
- l’atto di trasferimento deve poi essere iscritto nel registro delle imprese e, in caso di contrasto tra più
acquirenti a fronte di una doppia alienazione della medesima partecipazione, è preferito colui che, per
primo, ha effettuato in buona fede la suddetta iscrizione nel registro delle imprese, anche se il suo titolo è
di data posteriore. In definitiva, la norma dà rilevanza ad un elemento oggettivo (l’iscrizione nel registro) e
ad uno soggettivo (la buona fede), non sempre di immediata accertabilità nel caso quindi di doppia
alienazione sarà preferito colui che abbia: i) iscritto per primo il proprio acquisto nel registro delle imprese;
ii) che sia in buona fede.
In forza dell’art.2474, la S.r.l. non può in alcun caso acquistare o accettare in garanzia partecipazioni
proprie, oppure accordare prestiti o fornire garanzia per il loro acquisto o la loro sottoscrizione. Sotto
questo profilo sussistono dunque rilevanti differenze con la disciplina in essere per la S.p.a.
Per quanto riguarda le conseguenze rilevanti dalla violazione dei divieti, la prevalente dottrina considera
nullo l’atto contrario alla norma di cui all’art.2474.
La partecipazione può formare oggetto di espropriazione il pignoramento si esegue mediante
notificazione al debitore e alla società e successiva iscrizione nel registro delle imprese. L’ordinanza del
giudice dell’esecuzione che dispone la vendita della partecipazione deve essere notificata alla società a cura
del creditore. Nel caso di partecipazione non liberamente trasferibile si applica una particolare disciplina
volta a tutelare sia l’interesse della società ad evitare l’ingresso nella compagine sociale di estranei non
graditi, sia l’interesse dei creditori a soddisfarsi sulla partecipazione. Innanzitutto è prevista una fase
preordinata al raggiungimento di un accordo sulla cessione della partecipazione tra creditore, debitore e
società. Se l’accordo non viene raggiunto, la vendita ha luogo all’incanto. Tuttavia, per impedire che la
partecipazione possa essere trasferita a soggetti “non graditi”, si riconosce la possibilità per la società di
rendere la vendita priva di effetto qualora, entro 10 giorni dall’aggiudicazione, essa presenti un altro
acquirente in grado di offrire lo stesso prezzo. Infine, la partecipazione può formare oggetto anche di pegno,
usufrutto e sequestro (conservativo e giudiziario), richiamando le disposizioni stabilite per la S.p.a.
I titoli di debito
L’art.2483 consente alla S.r.l. di emettere titoli di debito, cioè titoli di massa rappresentativi ciascuno della
frazione predeterminata di un debito pecuniario. In tal modo la S.r.l. può ricorrere, sia pure indirettamente e
con dei limiti, al mercato del capitale di credito. Per poter procedere all’emissione è necessaria la presenza
di un’apposita previsione nell’atto costitutivo; poi è sempre quest’ultimo che deve individuare a chi
compete decidere sull’emissione (tra soci e amministratori) e con che modalità e maggioranze necessarie,
oltre che determinare eventuali limiti all’emissione limiti che, a differenza di quanto avviene nella S.p.a.
per le obbligazioni, non vengono indicati dalla legge ma rimessi in toto all’autonomia delle parti. Spetta poi
al soggetto individuato nell’atto costitutivo stabilire le condizioni del prestito e le modalità del rimborso. La
stessa decisione di emissione deve essere iscritta a cura degli amministratori presso il registro delle imprese.
Per la modifica delle condizioni del prestito e delle modalità di rimborso, la società deve ottenere il
consenso di tutti i possessori dei titoli, a meno che la stessa decisione di emissione non preveda come
sufficiente il previo consenso della maggioranza di questi.
Considerata la minore affidabilità sotto il profilo organizzativo e patrimoniale della S.r.l. rispetto la S.p.a., il
legislatore prevede che i titoli di debito debbano essere sottoscritti unicamente da investitori professionali
soggetti a vigilanza prudenziale a norma di leggi speciali, i quali possono, però, una volta sottoscritti i titoli,
immetterli nel mercato secondario vendendoli ad altri soggetti. Al fine di tutelare i successivi acquirenti dei
titoli contro il rischio economico insito nella sottoscrizione degli stessi e consistente, principalmente, nella
possibilità che la società risulti insolvente e non sia, pertanto, in grado di rimborsare il debito contratto, si
riconosce che, in caso di successiva circolazione, chi li trasferisce debba rispondere della solvenza della
società. Tale garanzia opera purché l’acquirente non sia anch’esso un investitore professionale o un socio
della società medesima.
La legittimazione all’esercizio del diritto spetta, quando la causa consista in una decisione dei soci, a quelli
non consenzienti (dunque ad assenti, astenuti e contrari) ed invece a qualunque socio, per il recesso ad
nutum dalla società a tempo indeterminato o le cui quote non siano trasferibili. Se si tratta di cause
convenzionali, la legittimazione dipende dal tipo di causa; non è escluso che, rispetto a determinate
fattispecie, l’atto costitutivo la attribuisca soltanto a taluni soci, come diritto particolare.
La norma non chiarisce se il recesso possa essere parziale (cioè solo per una parte della quota): il principio
dell’unitarietà della partecipazione di S.r.l. parrebbe disporre in senso negativo, perché unico è il diritto che
il socio può scegliere di esercitare o meno, tuttavia non è un principio assoluto e la quota è normalmente
divisibile in sede di circolazione.
Anche in relazione alle modalità di esercizio del diritto, il codice rimanda all’atto costitutivo. Questo è
dunque libero di definire i termini e le forme entro cui la dichiarazione di recesso (atto unilaterale del
recedente) deve essere comunicata alla società; tuttavia, per le ipotesi legali, l’autonomia statutaria non può
stabilire condizioni e termini che rendano eccessivamente gravoso l’esercizio del diritto. Nel silenzio
dell’atto costitutivo si applica l’art.2437-bis dichiarazione mediante raccomandata spedita alla società
entro 15 giorni dall’iscrizione nel registro delle imprese della delibera legittimante, o dalla sua trascrizione
nel libro delle decisioni dei soci, se non è prevista iscrizione; entro 30 giorni dalla conoscenza del fatto
legittimante, diverso da una decisione dei soci. Il recesso è irrevocabile da parte del socio.
Anche le modalità di attuazione del disinvestimento e di rimborso del recedente sono affidate all’atto
costitutivo. In linea di principio, come nella S.p.a., non si produce l’estinzione del rapporto partecipativo, ma
si procede prima attraverso la cessione della quota ad altri soggetti: questi possono essere gli altri soci,
proporzionalmente alle rispettive partecipazioni, o anche uno o più terzi, individuati concordemente dai soci.
In mancanza di interessati, la quota è liquidata ricorrendo alle riserve disponibili (o agli utili) della società.
Solo qualora tali riserve non siano sufficienti, si riduce il capitale, estinguendo la partecipazione; ma poiché
si tratta di una riduzione reale, i creditori vi si possono opporre, e se, per effetto dell’opposizione la
riduzione e il rimborso vengono impediti, la società viene posta in liquidazione. Il termine entro cui si deve
procedere al rimborso è di 180 giorni dalla comunicazione del recesso; decorso tale termine il recedente può
agire nei confronti della società quale titolare di un diritto di credito nei confronti della stessa.
Il valore della somma (in denaro) spettante al recedente – a titolo di corrispettivo nel caso di cessione della
partecipazione e a titolo di rimborso in caso di pagamento mediante riserve disponibili o riduzione del
capitale – deve essere determinato proporzionalmente al patrimonio sociale, applicando criteri di
valutazione non contabili, ma tali da riflettere il valore reale del patrimonio stesso nel momento in cui il
recesso diviene efficace.
Deriva invece dalle società di persone l’istituto dell’esclusione, come rimedio al verificarsi di fatti che
rendono inopportuna la permanenza in società di un determinato socio. L’espulsione qui si verifica contro,
indipendentemente dalla sua volontà, e si giustifica proprio perché, in questo tipo societario, le vicende che
attengono alla persona del socio non restano irrilevanti. Ma dal momento che per l’appunto alle parti è
rimesso il compito di decidere se ed in che misura valorizzare l’elemento personalistico, l’introduzione di
questo istituto non è disposta dalla legge in determinati casi tipizzati, come invece nelle società di persone,
ma è affidata alle scelte statutarie. Ai sensi dell’art.2473-bis, «l’atto costitutivo può prevedere specifiche
ipotesi di esclusione per giusta causa del socio» a differenza delle società di persone e se si eccettua
l’ipotesi legale dell’esclusione del socio moroso, lo strumento espulsivo è previsto come meramente
eventuale e rimesso all’autonomia statutaria: in assenza di un’apposita disposizione dell’atto costitutivo, e
con l’eccezione indicata, nessun socio può essere escluso, neppure in presenza di gravi motivi, ne può essere
invocata la risoluzione del contratto ex artt.1453 ss., istituto che risulta inapplicabile al contratto sociale.
È dunque all’autonomia negoziale che compete in primis l’individuazione delle cause di esclusione: ed in
ciò non vi è limite se non quello della giusta causa. In effetti l’esclusione è legittima solo al verificarsi di
fatti, relativi alla persona di uno dei soci, che rendono oggettivamente non più opportuna la sua
permanenza in società, alla luce di interessi, meritevoli di tutela, cui i soci stessi, nell’esercizio della loro
autonomia negoziale, hanno voluto dare rilevanza. La giusta causa può consistere:
a) nella violazione, da parte del socio, degli obblighi nascenti dal rapporto sociale, diversi dall’obbligo di
conferimento (poiché l’inadempimento di questo è già causa legale di esclusione);
b) in altri comportamenti del socio, reputati incompatibili con l’attività sociale;
c) nella perdita, da parte del socio, di taluni requisiti soggettivi;
d) nel sopravvenire di altri fatti relativi alla sua persona.
Il requisito della giusta causa opera su due livelli. Innanzitutto è condizione di legittimità della clausola
dell’atto costitutivo: occorre che, nel quadro del concreto assetto di interessi su cui poggia la società,
l’espulsione del socio risulti perseguire un interesse obiettivamente meritevole dei soci. Inoltre, quando la
fattispecie prevista non si riferisca ad una vicenda di cui basti accertare se si è o no verificata (come sarebbe
ad es. il fallimento del socio), ma richieda una valutazione discrezionale (ad es. il carattere riservato e
l’importanza delle notizie divulgate dal socio), la giusta causa opera anche come criterio di valutazione della
gravità e rilevanza del fatto in concreto verificatosi, ancora in rapporto all’interesse che la clausola persegue.
Il codice pone inoltre un secondo requisito di validità, esigendo che le ipotesi di esclusione siano “specifiche”
cioè enunciate nell’atto costitutivo in modo preciso e non generico: il requisito di specificità tutela
l’interesse di ciascun socio a poter conoscere ex ante le conseguenze del proprio comportamento o dei fatti
che lo riguardano. Perciò non basta che la clausola richiami genericamente alla giusta causa, e neppure basta
che si riferisca a “inadempimenti del socio” o alla “violazione del dovere di correttezza e buona fede” o a
“comportamenti e fatti incompatibili con la prosecuzione del rapporto”; occorre invece che l’accadimento
rilevante sia preindividuato in termini puntuali, sebbene non sia escluso che l’accertamento del suo
verificarsi e della sua gravità possa richiedere una valutazione discrezionale. Proprio la presenza di tale
requisito fa sì che l’elencazione statutaria sia da considerarsi sempre tassativa.
Rimessa all’autonomia statutaria è anche la determinazione della procedura di esclusione l’atto
costitutivo potrà così prevedere ipotesi di esclusione automatica (cioè immediatamente conseguente al
verificarsi della causa) oppure attribuire alla collettività dei soci o degli amministratori il potere di decidere
se escludere o no il socio in relazione a cui si sia realizzato l’evento legittimante l’estromissione (esclusione
facoltativa). La decisione, se di competenza dei soci, è da questi assunta a maggioranza calcolata per quote e
non per teste, senza tenere conto della quota del socio da escludere; se la competenza è degli amministratori,
l’attribuzione del potere segue il regime di amministrazione. Tale decisione deve essere motivata e va
comunicata all’escluso in modo da informarlo con chiarezza dei motivi che ne sono a fondamento. L’atto
costitutivo può inoltre stabilire un termine, decorrente dal verificarsi del fatto legittimante, entro cui la
decisione deve essere assunta; nel silenzio, deve essere presa in un tempo ragionevole, tale da far ritenere
che il fatto presenti per la società una rilevanza ancora attuale.
In ogni caso, l’escluso ha diritto di opporsi, davanti al Tribunale, potendo altresì chiedere la sospensione
dell’esecuzione. In ordine invece all’attuazione dell’esclusione, cioè alle forme attraverso cui l’escluso
viene privato della titolarità della quota e riceve la liquidazione del suo valore, l’art.2473-bis rinvia alla
disciplina del recesso. Anche il valore della quota di liquidazione è determinato mediante i criteri enunciati
per la disciplina del recesso, dunque secondo il valore reale della partecipazione.
LA STRUTTURA ORGANIZZATIVA
La disciplina concernente la struttura organizzativa della S.r.l. si sviluppa secondo due linee direttrici
fondamentali: l’estrema flessibilità del sistema di governo dell’impresa e l’attribuzione ai soci di un ruolo
attivo e centrale nella vita della società. Questi principi discendono direttamente dalla vocazione di tale tipo
societario, impressa dalla riforma del 2003: riflettono la volontà normativa di differenziandolo dalla S.p.a.
attraverso il riconoscimento di un’estesa libertà statutaria nella definizione delle regole di amministrazione e
per mezzo dell’attribuzione ai soci di incisivi poteri di ingerenza e controllo sulla gestione.
Il modello legale, quello cioè operante se l’atto costitutivo non dispone diversamente, si delinea secondo
uno schema che in realtà sembra analogo al sistema di governance tradizionale della S.p.a. i soci sono
chiamati a decidere sulle modifiche strutturali dell’ente (cioè dell’atto costitutivo) e a nominare gli
amministratori, vi è un organo amministrativo unipersonale o collegiale cui è affidata la gestione
dell’impresa, e un organo per il controllo contabile e amministrativo (se le dimensioni proprietarie o
patrimoniali della società superano una certa soglia). Tuttavia la coincidenza è solo apparente perché nella
S.p.a. la struttura organizzativa per uffici è caratterizzata da una spiccata rigidità: l’azionista non ha poteri
gestori ne di controllo diretto, egli aderisce o disapprova le strategie imprenditoriali adottate dall’organo
amministrativo investendo o disinvestendo dalla società.
Nella S.r.l., per contro, i soci sono, singolarmente o collegialmente, parte attiva dell’organismo essi non
sono affatto esclusi dalla gestione, ma possono trovarsi chiamati ad assumere ogni relativa decisione, se lo
richieda la minoranza o uno degli amministratori, e ciascun partecipante ha accesso a tutte le informazioni e
ai documenti societari, potendo promuovere individualmente l’azione di responsabilità e chiedere la revoca
degli amministratori infedeli. Su questo schema legale può poi innestarsi l’autonomia negoziale, cui ai soci
è data facoltà di ricorrere per dare una coloritura ancor più marcatamente personalistica al proprio modello
organizzativo l’atto costitutivo può così arricchire le competenze gestorie della collettività dei soci,
spostando a piacimento l’equilibrio di poteri con l’organo amministrativo, può assegnare anche a singoli
soci specifiche prerogative, come il potere di nomina dei componenti dell’organo, o il diritto di assumere le
funzioni o il potere di veto su alcune operazioni imprenditoriali; l’autonomia statutaria può anche snellire le
procedure collegiali e persino adottare i regimi di amministrazione, disgiuntiva o congiuntiva, tipici delle
società di persone. In tale articolazione organizzativa, l’osservanza dei principi di corretta amministrazione
resta uno dei capisaldi del sistema; ma la vigilanza e l’attivazione dei consueti meccanismi reattivi sono
affidate eminentemente alla dialettica tra soci ed alla loro iniziativa: l’intervento dell’autorità giudiziaria è
escluso ed anche il controllo contabile e amministrativo è in linea di principio assente; questo tuttavia ritorna,
come indispensabile, quando la società superi certi livelli dimensionali o si trova al vertice di un gruppo.
procedure non collegiali (per le altre materie) non è ammessa se non vi è una corrispondente clausola
dell’atto costitutivo.
I procedimenti non assembleari perseguono obiettivi di efficienza da un punto di vista diverso essi
consentono l’assunzione di decisioni con maggiore agilità e ne semplificano l’iter di formazione. Questa
semplificazione paga, evidentemente, il prezzo della rinuncia alla discussione ed al confronto aperto tra i
votanti, che viene lasciato all’iniziativa dei singoli. Tuttavia, anche quando l’atto costitutivo li preveda,
questi metodi soccombono, di fronte alla richiesta, avanzata da uno o più amministratori o dai soci che
rappresentano almeno ⅓ del capitale, di sottoporre l’argomento alla discussione dell’assemblea.
Il procedimento dell’assemblea dei soci si snoda secondo il modello comune alle S.p.a. (convocazione –
intervento dei soci – discussione – votazione – proclamazione dei risultati – verbalizzazione), ma la
disciplina risulta molto più scarna e frammentaria, il che pone il problema del significato da attribuire al
silenzio del legislatore e dell’integrazione delle eventuali lacune. Dunque, il ricorso alla disciplina dettata
per le S.p.a. è certo legittimo, tuttavia l’applicazione in via analogica di quella disciplina non può essere
automatica e generalizzata: la S.r.l. ha proprie specificità sia per il maggiore spazio concesso all’autonomia
statutaria, sia per la centralità che le persone dei soci hanno all’interno della struttura organizzativa ciò
comporta che il silenzio su un determinato profilo (regolato invece nelle S.p.a.) potrebbe indicare non la
presenza di una lacuna ma semplicemente un’apertura alla libertà negoziale dei soci.
a) La convocazione avviene nelle forme indicate nell’atto costitutivo, tali comunque da assicurare la
tempestiva informazione di tutti i soci sugli argomenti da trattare. Nel silenzio dell’atto costitutivo, vi si
procede mediante lettera raccomandata spedita almeno 8 giorni prima della riunione, e questa viene svolta
presso la sede sociale. La norma tace su chi sia legittimato a procedere alla convocazione, deve tuttavia
ritenersi che lo siano senz’altro gli amministratori ed eventualmente l’organo di controllo, se nominato.
b) Hanno diritto di intervenire tutti i soci. Il principio è espresso dall’art.2479 ed è inderogabile. Pertanto
non è ammessa nelle S.r.l. la creazione di quote senza diritto di voto o con diritto di voto condizionato o
limitato a particolari argomenti; questo limite all’autonomia statutaria si spiega con la centralità della
posizione del socio nel tipo S.r.l. e con il fatto che non si profila qui l’esigenza di intercettare investitori
interessati alla sola redditività del proprio investimento e da non coinvolgere invece nel governo dell’ente.
c) L’assemblea, presieduta dalla persona indicata nell’atto costitutivo (che spesso la individua nel presidente
del c.d.a. o nell’amministratore unico) o designata dagli intervenuti, è validamente costituita se sono presenti
tanti soci che rappresentino almeno la metà del capitale (quorum costitutivo). Essa delibera con il voto
favorevole della maggioranza del capitale presente o, nelle modifiche all’atto costitutivo o operazioni
gestorie fondamentali, con una maggioranza rafforzata, che rappresenti almeno la metà del capitale sociale
(quorum deliberativo). Il voto espresso da ciascun socio ha un peso proporzionale alla sua partecipazione.
Non è dunque formalmente prevista, nelle S.r.l., un’articolazione dell’assemblea in ordinaria e straordinaria,
ma, non diversamente che nelle S.p.a., le deliberazioni più rilevanti richiedono maggioranze più elevate e
sono soggette a regole formali più rigide (verbalizzazione notarile per le modifiche dell’atto costitutivo).
Neppure è prevista la scansione in una prima e in una seconda convocazione, con quorum più favorevoli in
questa per l’assunzione delle decisioni. Pertanto, se non si raggiunge il quorum costitutivo nella prima e
unica riunione prevista, è necessario riavviare ex novo l’iter procedimentale con una nuova convocazione.
L’atto costitutivo, tuttavia, può introdurre un’assemblea di seconda convocazione, riducendo l’aliquota di
capitale prevista dalla norma.
d) Anche delle assemblee di S.r.l. deve essere redatto il verbale (per atto pubblico, se si tratta di
deliberazioni modificative dell’atto costitutivo), da trascrivere nel libro delle decisioni dei soci. Il contenuto
e i tempi della sua redazione sono disciplinati in via analogica esso deve dunque essere formato senza
ritardo e deve indicare, almeno in allegato, l’identità dei partecipanti e il voto espresso da ciascuno di essi.
e) Una volta adottate (con la proclamazione presidenziale dei risultati), le delibere sono immediatamente
efficaci, tranne quelle modificative dell’atto costitutivo, che acquistano efficacia con l’iscrizione nel registro.
Nessuna norma è invece dedicata alle tecniche non collegiali, che il legislatore si limita ad individuare nella
“consultazione scritta” e nel “consenso espresso per iscritto”. Si tratta di formule generiche che lasciano
ampia libertà nella determinazione dell’iter procedimentale ciò che caratterizza questi meccanismi
decisori è l’assenza di collegialità: l’atto è assunto al di fuori di qualsiasi riunione tra i soci, con benefici in
termini di speditezza e di costi. Alcuni principi risultano tuttavia inderogabili tutti i soci devono essere
informati in tempo utile dell’avvio del procedimento e tutti debbono potervi prendere parte; non basterebbe
dunque, come invece si ammette nelle società di persone, la raccolta dei consensi della sola maggioranza,
senza interpellare la minoranza. È anche previsto un quorum distinto rispetto a quello per l’assunzione delle
delibere assembleari: la decisione è presa con il voto favorevole di una maggioranza che rappresenti almeno
la metà del capitale, ma lo statuto può disporre diversamente, sia innalzandolo che riducendolo.
Le decisioni non assembleari hanno la medesima natura giuridica delle deliberazioni esse non
rappresentano un contratto tra i soci, ma un atto avente valore organizzativo interno alla società.
La disciplina dell’invalidità delle decisioni non distingue fra quelle assembleari e quelle non collegiali. Il
sistema è analogo a quello delle S.p.a. e, come questo, risulta totalmente autonomo rispetto allo schema
nullità/annullabilità, proprio delle invalidità contrattuali: non a caso la norma codicistica ricorre sempre al
termine generico di impugnazione.
Come nelle S.p.a., i vizi invalidanti si dividono in 2 categorie: quella, generale, della non conformità alla
legge o all’atto costitutivo e quella, più grave e specifica, comprendente l’assenza assoluta di informazione
e l’illiceità o impossibilità dell’oggetto. La decisione è impugnabile in entrambe le ipotesi, ma diversi sono i
soggetti legittimati e i termini, esattamente come nella S.p.a.
a) L’assenza assoluta di informazione consiste nella mancata comunicazione ad uno o più soci dell’avvio
del procedimento decisionale e corrisponde al vizio di “mancata convocazione”: la genericità
dell’espressione dipende solo dal fatto che, in caso di decisione non collegiale, il coinvolgimento dei soci
non avviene per mezzo di una “convocazione” ma, per l’appunto, informandoli dell’inizio della procedura.
L’illiceità o impossibilità dell’oggetto discendono dalla contrarietà a norme imperative, ordine pubblico
o buon costume, o dall’impossibilità materiale o giuridica del contenuto della decisione.
b) Ogni altro vizio rientra nel difetto di conformità alla legge o all’atto costitutivo: ogni irregolarità
procedimentale (compresa la mancata verbalizzazione della delibera assembleare), il conflitto di interessi
de socio il cui voto sia stato determinante per l’assunzione di una decisione potenzialmente dannosa per la
società, l’abuso del diritto di voto a danno degli altri soci.
Legittimato all’impugnazione è ciascun socio che non abbia consentito alla decisione, ciascun
amministratore e l’organo di controllo (se presente), nei casi sub b); invece lo è chiunque vi abbia interesse
nei casi sub a). Proprio perché la legittimazione del socio non dipende, come invece nella S.p.a., dalle
dimensioni della sua partecipazione, non è qui prevista la tutela risarcitoria.
La decisione va impugnata negli stretti termini di 90 giorni nei casi sub b) e di 3 anni nei casi sub a),
decorrenti dalla trascrizione della decisione nel libro delle decisioni dei soci. È impugnabile senza limiti di
tempo, invece, la delibera che introduce un oggetto sociale impossibile o illecito.
carica era a tempo indeterminato il risarcimento è dovuto solo se non viene dato un congruo preavviso. Ogni
socio può poi chiedere la revoca in via giudiziaria in caso di gravi irregolarità compiute dall’amministratore.
Invece, coloro cui la carica è attribuita come diritto particolare, non sono revocabili se non in quest’ultimo
caso, dal momento che il loro diritto è immodificabile senza il consenso unanime dei soci.
Sotto il profilo delle forme di esercizio del potere gestorio, il sistema organizzativo può essere affidato ad
un amministratore unico o ad una pluralità di soggetti, secondo la previsione statutaria o la decisione dei
soci al momento della nomina. In caso di pluralità di amministratori, il modello legale prevede che
l’esercizio delle funzioni avvenga in forma consiliare, cioè mediante costituzione di un consiglio di
amministrazione, che è la forma tipica delle S.r.l. Tuttavia lo stesso atto costitutivo può optare per i sistemi
propri delle società di persone, ossia per l’amministrazione disgiuntiva o congiuntiva, oppure per un
sistema misto. Il solo limite è che la redazione del progetto di bilancio e di quelli di fusione e scissione,
nonché l’aumento di capitale delegato, devono essere decisi in forma collegiale. Il passaggio dall’uno
all’altro sistema è possibile in ogni momento, ma richiede una modifica dell’atto costitutivo.
La disciplina dell’amministrazione consiliare è praticamente assente e pertanto va ricostruita applicando
analogicamente la disciplina delle S.p.a. Tuttavia il silenzio normativo vale ad attribuire all’atto costitutivo
la più ampia libertà nel determinare il procedimento deliberativo, che può assumere forme non collegiali e
più snelle. Dell’invalidità delle decisioni consiliari, il codice contempla solo l’ipotesi del conflitto d’interessi,
attribuendo a ciascun amministratore, al sindaco e al revisore legale, se presenti, il potere di impugnare entro
90 giorni dalla sua adozione la decisione dannosa per la società, assunta con il voto determinante del
consigliere in conflitto.
Vi è da dire anche che nel 2003 è stato istituito il cd arbitraggio gestionale l’atto costitutivo può
prevedere che siano deferiti ad uno o più terzi i contrasti tra coloro che hanno il potere di amministrazione,
in ordine alle decisioni da adottare nella gestione della società. Si tratta di una soluzione utilizzabile ad es.
nell’amministrazione disgiuntiva quando uno degli amministratori si oppone all’atto deciso da un altro.
La rappresentanza legale è attribuita agli amministratori secondo i criteri indicati nell’atto costitutivo: è
normale che essa sia collegata a certe cariche (di presidente del consiglio, di amministratore delegato) nel
sistema consiliare, e segua invece le regole di esercizio del potere gestorio negli altri sistemi (sia dunque
attribuita disgiuntamente a ciascun amministratore, nell’amministrazione disgiuntiva, e in quella congiuntiva,
specie all’unanimità, a tutti con firma congiunta). Anche qui come nelle S.p.a. tale rappresentanza è
generale ed i relativi limiti, anche se risultanti dall’atto costitutivo iscritto nel registro delle imprese, non
sono opponibili ai terzi, a meno che non si provi che essi abbiano agito intenzionalmente a danno della
società (cd exceptio doli).
L’art.2476 stabilisce che “gli amministratori sono solidalmente responsabili verso la società dei danni
derivanti dall’inosservanza dei doveri ad essi imposti dalla legge e dall’atto costitutivo per
l’amministrazione della società”. Il principio, comune a tutti i tipi societari, consacra l’obbligo degli
amministratori di gestire indipendentemente l’impresa per l’attuazione dell’oggetto sociale. Nell’ambito
della discrezionalità tecnica che ogni attività imprenditoriale per definizione presenta, gli amministratori
sono liberi di determinare i tempi, le strategie e le modalità del suo esercizio, definendo e realizzando tutte le
operazioni in cui essa si snoda; proprio perché, tuttavia, la discrezionalità loro riconosciuta è di natura
tecnica, essa richiede che la gestione di svolga secondo il consueto criterio della diligenza professionale.
La responsabilità degli amministratori è solidale, sicché ciascuno risponde dell’intero danno nei confronti
della società, salvo il diritto di regresso nei confronti degli altri nella misura e secondo il grado della
rispettiva colpa. Tuttavia, la responsabilità non si estende a chi, conoscendo il fatto dannoso abbia fatto
constatare il proprio dissenso. Vi è dunque, per chi intenda sottrarsi ex ante all’obbligo risarcitorio, l’onere
di segnalare la propria contrarietà alla medesima in base al sistema di governo adottato, variano le
modalità della sua comunicazione e le funzioni che esso deve esplicare: in seno al consiglio di
amministrazione disgiuntiva è necessaria l’opposizione al compimento dell’atto, nell’amministrazione
congiuntiva all’unanimità l’esercizio del potere di veto. Va peraltro evidenziato che la legge richiede che
l’amministratore sia altresì immune da colpa: anche su quello di S.r.l. grava quindi l’obbligo di agire in
modo informato, sicché risponde dei danni anche chi non abbia avuto conoscenza del fatto lesivo per avere
colpevolmente violato il dovere di vigilanza.
La responsabilità, inoltre, grava nei termini sin qui illustrati senza distinzioni a prescindere dal titolo in virtù
del quale l’amministratore riveste la carica, anche sul socio cui il potere gestorio sia accordato come diritto
particolare: tale diritto è infatti da intendersi anche come dovere di amministrare con la diligenza
professionale consueta e nell’interesse della società.
L’azione di responsabilità è proponibile individualmente da qualunque socio, a prescindere dall’entità della
sua partecipazione anche sotto questo profilo si manifesta il carattere personalistico del tipo S.r.l. La
legittimazione individuale (inderogabile) costituisce d’altra parte il pendant del diritto di controllo sulla
gestione, pure affidato individualmente ad ogni socio; essa comunque non esclude che la stessa società
(previa decisione dei soci) possa promuovere l’azione.
La responsabilità non coinvolge tuttavia solo gli amministratori, infatti il codice sancisce la responsabilità
solidale dei soci che abbiano intenzionalmente deciso o autorizzato il fatto dannoso. Questa disposizione
costituisce uno dei cardini del sistema organizzativo della S.r.l. e si fonda sul principio del diretto ed
istituzionale coinvolgimento dei soci nell’amministrazione essa, in effetti, rappresenta il logico corollario
della competenza gestoria generale, che la legge attribuisce loro in concorrenza con gli amministratori, e che
l’atto costitutivo può ulteriormente rafforzare rendendola esclusiva.
Il comportamento esigibile del socio è articolato:
a) egli non deve decidere, o concorrere con il proprio voto a che venga decisa, un’operazione dannosa;
b) egli non deve neppure autorizzarla (non lo esime dalla responsabilità il fatto di aver rimesso agli altri
soci la decisione definitiva);
c) egli ha altresì l’obbligo di non impedire, con il proprio voto o esercitando il diritto di veto che gli fosse
riconosciuto statutariamente, un’operazione il cui compimento risultasse necessario per evitare un danno,
per cui anche il diniego di autorizzazione o la decisione negativa possono esporre il socio alla
responsabilità in esame;
d) in questi medesimi casi, la semplice omissione invece, non risulta di regola censurabile, non ponendosi
configurare in generale un dovere dei soci di attivarsi in vista dell’esercizio dei loro diritti.
Il controllo
L’esistenza di un organo di vigilanza indipendente nelle S.r.l. è meramente eventuale e diviene obbligatoria
solo se si verificano le condizioni fissate dall’art.2477. In generale, il controllo è invece affidato
individualmente a ciascuno dei soci quelli che non partecipano all’amministrazione infatti “hanno diritto
di avere dagli amministratori notizie sullo svolgimento degli affari sociali e di consultare, anche tramite
professionisti di loro fiducia, i libri sociali e i documenti relativi all’amministrazione” (art.2476, c.2). Tali
diritti spettano ai soci non amministratori (gli altri hanno accesso alle stesse informazioni già in quanto
amministratori ed hanno anzi, in virtù della carica, un dovere di controllo) in ogni caso, e dunque anche
quando sia presente il sindaco. Non rientra invece tra i diritti del socio il compimento di atti di ispezione.
Si tratta di un diritto non eliminabile ne comprimibile dall’atto costitutivo, neppure nel caso in cui sia
presente il sindaco, perché appartiene a quegli elementi che caratterizzano il tipo S.r.l. in ragione dei suoi
tratti personalistici e del diretto coinvolgimento dei soci nella vita dell’impresa. L’atto costitutivo resta
invece libero di accrescere i diritti di controllo, come di regolarne le modalità di esercizio.
Solo al superamento di determinate soglie dimensionali si rende obbligatoria l’attivazione di una funzione
di controllo svolta da un soggetto indipendente e professionalmente qualificato. Le condizioni sono:
a) l’essere la società obbligata a redigere il bilancio consolidato, e dunque, sostanzialmente, l’essere al
vertice di un gruppo;
b) l’essere controllante di altra società obbligata alla revisione legale dei conti (ad es. di una S.p.a.);
c) il superare, per 2 esercizi consecutivi, due dei limiti relativi all’ammontare dell’attivo dello stato
patrimoniale (4.400.000 €) e dei ricavi (8.800.000 €) e al numero medio dei dipendenti occupati (50).
Le ragioni della previsione normativa sono intuitive al verificarsi di queste circostanze, l’interesse alla
corretta gestione dell’impresa non è più solo una questione interna alla compagine sociale, ma la sua
protezione va “esternalizzata” come nelle S.p.a. I soci non amministratori conservano i diritti previsti
dall’art.2476, c.2 (inderogabili), ma al loro controllo si affianca quello dell’ufficio all’uopo costituito.
Quanto al tipo di controllo obbligatorio, il codice si esprime oggi in termini ambigui, richiedendo la nomina
di un “organo di controllo o di un revisore” e lasciando così il dubbio se la società sia libera di scegliere a
piacimento tra un controllo sulla gestione e uno contabile. In realtà appare preferibile una lettura più
rigorosa, che risulti più coerente con la ratio del precetto: il controllo obbligatorio deve inderogabilmente
riguardare entrambi i profili, gestorio e contabile. L’organo di cui è richiesta la nomina è comunque
monocratico, se l’atto non dispone diversamente, e ad esso si applica la disciplina sui sindaci di S.p.a.
tale rinvio consente di sancire automaticamente anche per la S.r.l. l’immodificabilità delle funzioni e dei
poteri attribuiti al titolare del controllo, a causa del carattere generale e indisponibile degli interessi protetti.
Tale soggetto ha dunque il compito di vigilare “sull’osservanza della legge e dello statuto, sul rispetto dei
principi di corretta amministrazione” e “sull’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e
contabile adottato dalla società”; egli ha inoltre il compito (se non è nominato un revisore) di verificare
costantemente “la regolare tenuta della contabilità sociale e la corretta rilevazione dei fatti di gestione nelle
scritture contabili”, nonché di esprimere in un’apposita relazione il giudizio sul bilancio.
La nomina compete necessariamente alla collettività dei soci, che, se lo statuto lo consente, può procedervi
anche con decisione non collegiale. La collettività dei soci deve provvedervi entro 30 giorni, termine
decorso il quale la designazione è fatta dal tribunale su istanza di qualunque interessato. La revoca del
titolare del controllo richiede la sussistenza di una giusta causa e l’approvazione del tribunale.
Al di fuori delle ipotesi di nomina obbligatoria, l’atto costitutivo può comunque prevedere la presenza di un
“organo di controllo” monocratico o pluripersonale (dunque o un sindaco o un collegio sindacale) e/o di un
revisore, in questo caso potendone determinare anche le competenze, con una certa libertà (controllo
facoltativo). L’affidamento di poteri di vigilanza a soggetti esterni, indipendenti e professionalmente
qualificati, può svolgere la duplice funzione di incrementare le garanzie per i soci non amministratori e di
favorire l’immagine della società sul mercato. Proprio per quest’ultima ragione, deve ritenersi che la
presenza, sia pur facoltativa, di un ufficio deputato al controllo susciti nei terzi un affidamento che limita
parzialmente l’autonomia dei soci nelle decisioni relative alle sorto ed ai poteri di tale ufficio. È vero anche
che la stessa legge affida all’atto costitutivo il compito di definirne i poteri, ma la libertà negoziale deve
rispettare il criterio della coerenza rispetto alle funzioni tipiche dell’ufficio stesso.
Le S.r.l. semplificate
Introdotte nel nostro ordinamento dal legislatore, sul modello di altre esperienze straniere, nel 2012 esse
possono avere un capitale minimo inferiore a 10.000 € (ma non sotto al minimo di 1€): si tratta di uno
strumento volto ad incentivare la nascita di nuove iniziative imprenditoriali che non necessitano di un
capitale sociale minimo elevato e con costi di costituzione ridotti. In altre parole, il legislatore intende
incentivare l’utilizzo del tipo S.r.l. alleggerendo i vincoli nella fase costitutiva e/o le risorse finanziarie
necessarie per dare vita ad una società di capitali.
È opinione prevalente che la S.r.l. semplificata sia riconducibile al tipo S.r.l. e non rappresenti pertanto un
tipo autonomo è lo stesso legislatore ad affermare che per tutti gli altri aspetti non espressamente
contemplati dall’art.2463-bis, si rinvia alla disciplina in essere per la S.r.l. ordinaria, in quanto compatibile.
La scelta di tale sub modello non è irreversibile, potendo la società evolvere verso la S.r.l. ordinaria (cd
conversione progressiva: operazione che non dà luogo ad una trasformazione in senso tecnico e, quindi,
non è soggetta alla relativa disciplina, proprio perché si resta all’interno del tipo S.r.l.) oppure trasformarsi
in un qualunque altro tipo di società, o partecipare ad operazioni di fusione e scissione con società diverse.
Anzi, è naturale pensare che la costituzione in forma di S.r.l.s. sia voluta dai soci fondatori solo per la fase di
avvio dell’attività, e che poi gli stessi preferiscano passare ad una S.r.l. ordinaria (in virtù della maggiore
autonomia ivi riconosciuta) o ad un altro tipo di società.
È invece discusso se sia possibile che una S.r.l. ordinaria possa divenire semplificata ed in che termini (cd
conversione regressiva). Un’operazione cui dovrebbe naturalmente collegarsi una riduzione di capitale. Le
ipotesi astrattamente configurabili sarebbero 2: quella di una conversione in S.r.l.s. quando i soci vogliano
procedere ad una riduzione reale del capitale, portandolo al di sotto della soglia dei 10.000 €; e quella, forse
più rilevante, in cui la S.r.l. ordinaria abbia perduto parte (più di ⅓) del proprio capitale iniziale, trovandosi a
disporre di un capitale inferiore a tale soglia, nel qual caso la conversione in S.r.l.s. potrebbe rappresentare,
se lecita, il modo di adempiere agli obblighi imposti , mantenendo, senza effettuare nuovi investimenti (ossia
senza dover riportare il capitale a 10.000 €, mediante un aumento), la veste di società di capitali e con essa il
beneficio della responsabilità limitata per i soci. Parte della dottrina nega in generale la convertibilità in
S.r.l.s. basandosi sul fatto che l’accessibilità alla disciplina di questa dovrebbe essere possibile solo in fase di
costituzione. Altra parte della dottrina, seguita pure dai notai, invece lo ammette in considerazione del
principio di conservazione delle imprese e di autonomia statutaria dei soci chi propende per tale
possibilità arriva allora a sostenere che il nuovo limite di 1€ non rappresenti unicamente una sorta di
“agevolazione” in sede di costituzione della società, bensì rappresenti in generale il nuovo limite minimo del
capitale sociale nella S.r.l. In questa prospettiva si deduce non solo la legittimità della conversione
regressiva, ma anche la trasformabilità in S.r.l.s. di società di persone e pure di una S.p.a. e anche la
possibilità di procedere ad operazioni di fusione o scissione di società, che diano vita ad una S.r.l.s.
La S.r.l.s. può essere costituita da chiunque, purché persona fisica non sono quindi ammessi soci
persone giuridiche. La costituzione avviene mediante contratto o atto unilaterale, redatto dal notaio, a tutolo
gratuito, in conformità ad un modello standard. Questo modello appare, in realtà, piuttosto scarno e non
contempla ad es. la possibilità di indicare una durata, o di optare per una amministrazione congiuntiva o
disgiuntiva, o di nominare un organo di controllo, o ancora di prevedere ulteriori casi di recesso (oltre a
quelli legali). Tale modello non è modificabile dalle parti, e ciò rappresenta un forte limite all’autonomia
negoziale, tratto invece caratterizzante la S.r.l. ordinaria.
Al fine di permettere ai terzi di conoscere lo status particolare della suddetta società, nell’atto costitutivo
occorre indicare che la società è una S.r.l.s. e tale indicazione deve apparire anche negli atti e nella
corrispondenza della società e nello spazio elettronico destinato alla comunicazione collegato con la rete
telematica ad accesso pubblico, assieme all’ammontare del capitale sottoscritto e versato, la sede della
società e l’ufficio del registro presso cui la stessa è iscritta.
La S.r.l.s. deve avere un capitale sociale sottoscritto e interamente versato pari almeno ad 1€ e inferiore a
10.000 €. Il conferimento deve farsi necessariamente in denaro ed essere versato all’organo amministrativo
dunque non sono ammessi – almeno nella fase costitutiva – conferimenti di opera o servizi, di beni in
natura, o di crediti.
È discusso se queste regole in tema di conferimenti debbano applicarsi solo nella fase costitutiva o anche in
caso di aumento del capitale (comunque inferiore a 10.000 €) secondo una corrente di pensiero tali norme
non dovrebbero applicarsi dato che non vi sarebbero quelle esigenze di speditezza, di semplificazione e di
immediata disponibilità di un capitale iniziale liquido che caratterizzerebbero l’atto costitutivo.
Sotto il profilo finanziario, va sottolineato che la S.r.l.s. non è una società senza capitale; per quanto
minimo, esso è sempre presente e ad esso risulta applicabile la disciplina generale. Perciò, in caso di perdite
che abbiano ridotto il patrimonio netto al di sotto della soglia minima di 1€, la società non potrà
sopravvivere, dovendo, come ogni altra S.r.l. e ogni S.p.a., procedere alla reintegrazione delle risorse
mediante aumento di capitale o trasformandosi in una società di persone (con perdita, allora, del beneficio
della responsabilità limitata). Tale aspetto assume una rilevanza particolare, perché sancisce l’impossibilità
di mantenere in vita imprese beneficianti della responsabilità limitata (ossia società di capitali) che abbiano
un patrimonio netto nullo o negativo.
Certo è che la sostanziale irrilevanza delle risorse con cui una S.r.l.s. può essere costituita si traduce, per i
soggetti interessati, nel riconoscimento normativo della possibilità di esercitare un’attività produttiva senza
esporre praticamente alcuna porzione del proprio patrimonio al rischio d’impresa, scaricando sul mercato
l’intero rischio di insuccesso dell’iniziativa. Proprio questa possibilità di costituire una S.r.l. dotata di
autonomia patrimoniale perfetta ma con capitale irrisorio ha suscitato diverse critiche ad es. per tale
società è assai difficoltoso il ricorso al credito, ma soprattutto crea dei problemi per i creditori sociali.
Viene inoltre prevista una disciplina più rigorosa rispetto alla disciplina generale relativa alla riserva legale;
disciplina sicuramente da considerarsi positivamente per quanto riguarda la tutela dei terzi, ma che potrà
risultare efficace solo qualora la società sia in grado di generare effettivamente degli utili.
In base all’art.2430 è richiesto che dagli utili netti annuali sia dedotta una somma corrispondente almeno alla
20ª parte di essi, così da costituire una riserva legale, fino a che questa non abbia raggiunto il 5° del capitale
sociale. L’art.2463, c.5, impone invece di dedurre dagli utili netti risultanti dal bilancio una somma pari
almeno ad 1/5 degli stessi, fino a che la suddetta riserva e il capitale sociale non abbiano raggiunto
l’ammontare di 10.000 €. Una volta raggiunto tale ammontare, all’accantonamento si applicherà invece la
disciplina generale di cui all’art.2430. La citata riserva può poi essere utilizzata solo per imputazione a
capitale (cioè in caso di aumento di capitale) e per copertura di eventuali perdite con obbligo di sua
reintegrazione laddove essa sia diminuita: non sono invece stati introdotti ne un termine di scadenza entro il
quale la società è obbligata a raggiungere la suddetta soglia della riserva legale, ne l’obbligo di imputare a
capitale quanto accantonato.
La funzione di queste regole è di permettere agli operatori economici di avviare un’attività d’impresa
sostanzialmente senza investirvi risorse proprie (o investendo risorse modestissime) e ciononostante
garantendosi il beneficio di limitazione del rischio d’impresa; e affidando poi al mercato la valutazione se
l’iniziativa sia meritevole o no di fiducia (ad es. facendone credito). La regola particolare in tema di riserva
legale serve poi a garantire che la società, con le sue forze, raggiunga se possibile rapidamente quelle
dimensioni di patrimonio indisponibile che sono proprie delle S.r.l. ordinarie.
Infine occorre ricordare che, a differenza della S.r.l.s. ove, da un lato, vi è la possibilità di beneficiare di
risparmi e semplificazioni nella fase costitutiva ma, dall’altro, i soci devono necessariamente essere persone
fisiche e occorre adottare uno statuto standardizzato e molto elementare, nel caso di S.r.l. con capitale
marginale – salvo le regole peculiari in tema di conferimenti e formazione della riserva legale – si applica la
disciplina generale fissata per le S.r.l. quindi vi è la medesima libertà di definire nell’atto costitutivo le
regole organizzative e di far partecipare, in qualità di soci, sia persone fisiche che persone giuridiche.
Da qui l’interrogativo se si tratti veramente di un sub modello oppure, più semplicemente, di un regime
speciale relativamente al capitale sociale, conferimenti e riserva legale.
È necessario infine sottolineare che il legislatore ha recentemente deciso (nel 2017) di estendere alcune delle
novità normative – prima destinate unicamente alle start-up e PMI innovative – a tutte le PMI, al chiaro
fine di permettere ad un elevato numero di società un ampio ricorso al mercato del capitale di rischio.
Si tratta della possibilità di emettere categorie di quote, offrire le partecipazioni al pubblico anche attraverso
portali a ciò dedicati, ricorrere al regime alternativo e intermediato di intestazione e trasferimento delle
quote, effettuare operazioni sulle proprie quote qualora queste siano compiute in attuazione di piani di
incentivazione.
Tali opportunità, fino a poco tempo fa riservate alle sole S.p.a., mettono ora anche le S.r.l. PMI in
condizione di attrarre nuovi capitali. Molte di queste previsioni comportano però un radicale cambiamento
nella struttura partecipativa e finanziaria della S.r.l., avvicinando la S.r.l. PMI alla S.p.a., e dando luogo così
ad alcuni interrogativi. Ci si è domandati anche quanto sia conciliabile con la tutela del pubblico risparmio il
fatto che le S.r.l. start-up e PMI innovative (ed ora tutte le S.r.l. PMI) possano sollecitare il mercato del
capitale di rischio mediante offerta al pubblico delle proprie quote, senza che a ciò corrisponda la rigida
disciplina della S.p.a. sotto il profilo dei doveri e responsabilità degli amministratori, nonché dei controlli. Il
dubbio nasce dal fatto che i provvedimenti sopraindicati, risultando finalizzati a favorire la nascita e lo
sviluppo di nuove iniziative imprenditoriali, paiono aver talora completamente trascurato altri valori, come
ad es. la tutela del mercato.
I soci accomandatari
La disciplina della S.a.p.a. si caratterizza fondamentalmente per il ruolo particolarmente accentuato
riconosciuto ai soci accomandatari rispetto ad una S.p.a., in cui prevale la logica dell’investimento
“anonimo” e dell’uguaglianza di posizione e di ruolo tra gli azionisti, in una S.a.p.a. la posizione (cioè i
poteri) degli accomandatari, rispetto agli accomandanti, non dipende dal dato oggettivo di un certo possesso
azionario, ma dalla qualifica soggettiva di accomandatario, occorrendo in tal caso una delibera assunta dai
soci con le maggioranze richieste per l’assemblea straordinaria di S.p.a. e il consenso unanime degli attuali
accomandatari. Insomma, i poteri propri dell’accomandatario sono legati ad una qualifica soggettiva, non
soltanto al possesso di un certo numero di azioni.
A differenza della S.a.s. – ove possono esservi accomandatari non amministratori – i soci accomandatari
nella S.a.p.a. sono di diritto amministratori. Inoltre il nome di almeno uno di questi deve apparire nella
denominazione sociale, assieme all’indicazione di S.a.p.a.
L’amministrazione nella S.a.p.a. è così attribuita a soci e non può essere affidata a soggetti terzi si spiega
allora come mai la società si scioglie, oltre che nei casi comuni a tutte le società di capitali, se cessano
dall’ufficio tutti gli amministratori e, nel termine di 180 giorni, non si provvede alla loro sostituzione.
Gli accomandatari sono amministratori a tempo indeterminato ed è prevista una particolare disciplina
relativa alla revoca e alla sostituzione degli stessi, volta a rafforzare la posizione dei medesimi e,
conseguentemente, a comprimere i poteri dell’assemblea, costretta ad operare nel rispetto di maggioranze
più elevate e a vedere condizionata l’efficacia delle proprie decisioni all’approvazione degli amministratori.
La revoca degli amministratori deve essere deliberata con la maggioranza prescritta per le deliberazioni
dell’assemblea straordinaria della S.p.a. – ossia almeno i ⅔ del capitale rappresentato in assemblea – (se
avviene senza giusta causa può dar luogo ad un risarcimento del danno in favore dell’amministratore
revocato) e, nel caso occorra sostituire l’amministratore che, per qualunque causa, abbia cessato dal suo
ufficio, la nomina – effettuata dai soci in assemblea, sempre con la maggioranza prescritta per le
deliberazioni dell’assemblea straordinaria di S.p.a. – deve essere approvata, pena l’inefficacia della stessa,
dall’unanimità degli altri amministratori rimasti in carica in definitiva spetta agli amministratori un diritto
di veto sulla nomina dei nuovi.
Un diritto di veto (sempre in capo agli accomandatari) spetta anche in caso di modifiche all’atto costitutivo
che devono essere adottate dall’assemblea con le maggioranze prescritte per quella straordinaria di S.p.a. e
che devono, appunto, essere approvate (anche) da tutti i soci accomandatari.
Come contrappeso all’ampio potere riconosciuto ai soci accomandatari il legislatore introduce un’apposita
norma relativa gli organi di controllo tesa a garantire un’ampia indipendenza degli stessi rispetto ai primi:
i soci accomandatari non hanno il diritto di voto per le azioni ad essi spettanti nelle deliberazioni
dell’assemblea che riguardano la nomina e la revoca dei sindaci (o dei componenti del consiglio di
sorveglianza) e l’esercizio dell’azione di responsabilità.
Le cause di scioglimento
Le cause di scioglimento delle società di capitali sono elencate nell’art.2484, anche se non si tratta di una
elencazione esaustiva (in quanto si rinvia alle “altre cause previste dalla legge”). Inoltre, alle cause di
scioglimento legali si possono eventualmente affiancare anche cause convenzionali, introdotte mediante
apposita previsione statutaria.
Le cause legali ex art.2484 sono:
1) Decorso del termine tale causa di scioglimento, nel passato necessaria, è oggi, per effetto della
riconosciuta possibilità di costituire anche una società di capitali a tempo indeterminato, una causa destinata
ad operare soltanto per quelle società il cui atto costitutivo preveda una scadenza; comunque sia, quando
anche sia previsto un termine di scadenza, è sempre possibile prorogarlo per mezzo di una modifica
statutaria però, per le S.p.a. e S.a.p.a. che non facciano ricorso al mercato del capitale di rischio, la
deliberazione dell’assemblea straordinaria di proroga del termine deve essere assunta con il quorum
deliberativo rafforzato di più di ⅓ del capitale sociale, mentre nessuna eccezione ai quorum stabiliti per le
modifiche statutarie è prevista per la S.r.l.; va poi ulteriormente sottolineato che nella S.p.a. e nella S.a.p.a.,
salva diversa previsione statutaria, il socio che non abbia concorso all’approvazione della deliberazione di
proroga del termine ha diritto di recedere dalla società, nella S.r.l. invece, visto che la proroga del termine
non rientra tra le cause per le quali viene attribuito il diritto di recesso, questo spetta soltanto a fronte di una
espressa previsione statutaria; la proroga del termine deve comunque essere deliberata espressamente, non
essendo ipotizzabile nelle società di capitali una proroga tacita;
2) Conseguimento dell’oggetto sociale / sopravvenuta impossibilità di conseguirlo mentre
l’impossibilità di conseguimento può manifestarsi qualunque sia l’oggetto sociale, il suo conseguimento può
ipotizzarsi solo là dove sia stata dedotta come oggetto un’attività destinata a concludersi (ad es. la
realizzazione di una determinata opera); l’impossibilità può essere sia materiale che giuridica, come
avverrebbe nel caso che lo svolgimento di una determinata attività economica, prima consentito, venga in
seguito vietato ai privati per effetto di un intervento legislativo; essa deve inoltre essere assoluta e definitiva
e avere carattere oggettivo, senza dipendere dunque da una mera impossibilità soggettiva della società;
prevedendosi che tale causa operi “salvo che l’assemblea, all’uopo convocata senza indugio, non deliberi le
opportune modifiche statutarie”, al suo verificarsi lo scioglimento non è inevitabile, al pari di quanto accade
con riferimento alla causa consistente nella riduzione del capitale al di sotto del minimo legale; è evidente
allora che in tale ipotesi gli amministratori siano obbligati a convocare l’assemblea per le eventuali
modifiche statutarie, prima di procedere all’accertamento del verificarsi della causa di scioglimento; nella
normalità dei casi, l’assemblea per evitare lo scioglimento dovrà mettere mano all’oggetto sociale, ma
correttamente nella legge si fa un più generico riferimento alle “opportune modifiche statutarie”, in quanto il
rimedio potrebbe anche consistere in una deliberazione di trasformazione, o in un aumento di capitale, ecc;
3) Impossibilità di funzionamento / continuata inattività dell’assemblea secondo l’opinione più
accreditata anche in giurisprudenza, la paralisi dell’organo deve, per assurgere a causa di scioglimento,
impedire l’adozione di delibere necessarie ed essenziali per il funzionamento della società, quali
l’approvazione del bilancio d’esercizio e il rinnovo degli organi sociali; classico è il caso della società
partecipata da 2 soci, titolari ciascuno della metà del capitale sociale, che votino stabilmente l’uno contro le
proposte dell’altro;
4) Riduzione del capitale sotto il minimo legale non qualunque riduzione al di sotto del minimo legale
integra la causa di scioglimento in oggetto, bensì solo quella che si realizzi per effetto di una perdita di oltre
⅓ del capitale, cioè a dire di una perdita che renderebbe obbligatoria la riduzione del capitale;
5) Recesso del socio ciò avviene quando per il rimborso della partecipazione si renda necessaria la
riduzione del capitale sociale ma tale operazione risulti impedita dall’opposizione vincente da parte di uno o
più creditori sociali;
6) Deliberazioni dell’assemblea rientra sempre nell’autonomia dei privati e può considerarsi espressione
del principio generale di risolubilità convenzionale dei contratti di durata la possibilità di deliberare lo
scioglimento della società prima della scadenza del termine; poiché si tratta, in ogni caso, di apportare una
modifica all’atto costitutivo, la relativa decisione deve essere assunta dall’assemblea straordinaria nella S.p.a.
e dall’assemblea nella S.r.l.
Tra le cause legali di scioglimento previste in norme diverse dall’art.2484, va ricordata, in primo luogo,
quella che si determina per effetto della dichiarazione di nullità della società già iscritta nel registro delle
imprese, perché di applicazione generale, in quanto, pur prevista espressamente per le sole S.p.a., opera
anche nelle altre due società di capitali per effetto dei rinvii. In secondo luogo, perché di applicazione
soltanto settoriale, vanno segnalate quella prevista per la S.a.p.a. (la cessazione dell’ufficio di tutti gli
amministratori) e quella prevista pe le sole società quotate (mancato ripristino del rapporto dovuto tra azioni
ordinarie e azioni di risparmio e/o con voto limitato). È opportuno segnalare infine che nell’art.2484 non si
fa alcun riferimento espresso al fallimento quindi per le società di capitali non rappresenta più
un’autonoma causa di scioglimento, mentre continua ad esserlo per le società di persone.
È lasciata poi all’autonomia privata la possibilità di prevedere nei documenti costitutivi della società cause
di scioglimento ulteriori rispetto a quelle legali (ad es. per il mancato superamento di certe soglie di
fatturato a una certa data). Qualora ciò si verifichi, sembra preferibile ritenere, quanto meno con riferimento
a cause convenzionali di scioglimento che non necessitino di una decisione, bensì di un mero accertamento,
che alla mancata indicazione dell’organo a ciò deputato non debba conseguire l’inefficacia o addirittura
l’invalidità della previsione, potendosi estendere anche a tali fattispecie il potere generalmente riconosciuto
dalla legge all’organo di gestione.
Gli effetti
Gli effetti dello scioglimento si producono soltanto con l’iscrizione nel registro delle imprese della
deliberazione assembleare (nel caso di scioglimento anticipato) oppure della dichiarazione con cui l’organo
di gestione abbia accertato il verificarsi di una delle altre cause previste. In vista degli adempimenti
pubblicitari, l’organo di gestione deve procedere “senza indugio” all’accertamento della causa di
scioglimento, nonché convocare, ove ciò sia necessario, l’assemblea per le deliberazioni relative alla
liquidazione. Tali adempimenti sono essenziali, quindi, in caso di omissione da parte degli amministratori,
spetta al tribunale, su istanza di singoli soci o amministratori o dei sindaci, di provvedere con decreto, da
iscriversi nel registro delle imprese, all’accertamento del verificarsi di una causa di scioglimento, e ciò
anche in pendenza di controversia tra i soci circa la sussistenza di tale causa.
Al di là degli obblighi specifici imposti, al verificarsi di una causa di scioglimento, gli amministratori
subiscono un ridimensionamento del loro potere di gestione essi conservano sì il potere di gestire, ma
soltanto ai fini della conservazione dell’integrità e del valore del patrimonio sociale. Quindi se eccedono i
limiti nella gestione, o omettono di compiere atti di gestione finalizzati alla conservazione del patrimonio
sociale, gli amministratori assumono responsabilità per gli eventuali danni arrecati alla società, ai soci, ai
creditori sociali e ai terzi. È importante infine mettere in evidenza che si tratta di mera responsabilità per
danni, con l’ovvio corollario della necessità che venga accertato il nesso di causalità tra il comportamento e
il pregiudizio, e non di responsabilità per debito, nel senso che gli amministratori dovrebbero rispondere
direttamente nei confronti del terzo delle obbligazioni illecitamente assunte in nome della società.
IL PROCEDIMENTO DI LIQUIDAZIONE
Quello di liquidazione delle società di capitali è un procedimento complesso, che si apre con la nomina dei
liquidatori (ove necessaria) e che è, secondo l’opinione tradizionale, inderogabile, anche quando non vi
siano attività e passività da liquidare.
non incontra alcun limite, neanche quando la nomina dei liquidatori fosse già contenuta nello statuto o
nell’atto costitutivo, o fosse stata effettuata dal tribunale.
Quanto invece alla revoca giudiziale, è da sottolineare che la legittimazione alla relativa istanza attribuita al
P.M. dà un rilievo pubblicistico alla vicenda liquidativa della società di capitali.
La pubblicità della nomina dei liquidatori e l’eventuale determinazione dei loro poteri, così come della
revoca e delle modifiche a questi secondi, si realizza mediante iscrizione nel registro delle imprese, da
effettuarsi a cura degli stessi liquidatori. Quanto alla tempestività con cui debbono essere adempiuti tali
obblighi pubblicitari, sembra debba valere il termine di 30 giorni.
Sempre con l’intento di fornire un’adeguata informazione ai terzi, la legge prescrive anche l’obbligo di
aggiungere alla denominazione sociale l’indicazione che si tratta di società in liquidazione. Tale aggiunta –
che non può essere considerata una modifica della denominazione – non necessita di essere realizzata
mediante il procedimento di modifica dell’atto costitutivo o dello statuto.
L’iscrizione della nomina dei liquidatori nel registro delle imprese non è importante solo ai fini pubblicitari,
ma anche perché segna il momento in cui cessano dalla carica gli amministratori e avviene il passaggio dei
poteri in capo ai liquidatori. A tal fine, gli amministratori consegnano ai liquidatori i libri sociali (libro degli
inventari e libro giornale in primis), nonché una situazione dei conti alla data di effetto dello scioglimento ed
un rendiconto sulla loro gestione relativo al periodo successivo all’ultimo bilancio approvato.
norme sulla responsabilità degli amministratori comporti, o meno, l’applicazione integrale di queste: la
questione si è posta tradizionalmente circa l’applicabilità ai liquidatori di S.p.a. della revoca automatica,
così come si propone per i liquidatori di S.r.l. in relazione alla revoca “cautelare”.
I bilanci
Anche nella fase di liquidazione vige la regola della redazione periodica del bilancio d’esercizio, cui sono
tenuti i liquidatori e che deve essere presentato per l’approvazione all’assemblea o ai soci.
Il bilancio d’esercizio nella liquidazione ha la medesima struttura di quello “di funzionamento” e si
compone, dunque, di stato patrimoniale, conto economico e nota integrativa. Tuttavia il codice stabilisce a
tale struttura il limite della compatibilità “con la natura, le finalità e lo stato di liquidazione”, il che porta ad
affermare che, soprattutto con riferimento ai criteri di valutazione, il bilancio nella fase di liquidazione si
fonda necessariamente su di un sistema contabile flessibile, che può subire modificazioni nel progredire
dell’attività liquidativa e che deve trovare adeguata motivazione nella nota integrativa.
In tale contesto, assume importanza la relazione che accompagna il bilancio, nella quale i liquidatori devono
“illustrare l’andamento, le prospettive, anche temporali, della liquidazione, ed i principi e criteri adottati per
realizzarla”. Ai liquidatori poi compete di dare continuità ai bilanci, anche nel passaggio alla fase di
liquidazione particolare attenzione è dedicata dalla legge al primo bilancio di competenza dei liquidatori,
in cui nella relativa nota integrativa, questi – allegandovi i due documenti contabili (situazione dei conti alla
data di effetto dello scioglimento e rendiconto sulla gestione relativo al periodo successivo all’ultimo
bilancio approvato) – devono dare conto delle variazioni nei criteri di valutazione adottati rispetto
all’ultimo bilancio predisposto dagli amministratori, nonché delle ragioni e conseguenze di tali variazioni.
Probabilmente nell’intento di espungere dai registri delle imprese società inattive da molti anni e per le quali
nessuno si preoccupa di portare a termine la liquidazione, si prevede che il mancato deposito “per oltre 3
anni consecutivi” del bilancio d’esercizio nel corso della liquidazione comporti la cancellazione d’ufficio
della società interessata, con la conseguenza della sua estinzione.
un po’ perplessi alla luce della considerazione che, per effetto del suo esercizio, la società che ne abbia
deliberato la revoca potrebbe nuovamente essere precipitata nello stato di liquidazione.
La disciplina è poi completata dalla disposizione che appresta una specifica tutela per i creditori sociali
(l’opposizione) modellata su quella prevista per l’ipotesi di riduzione effettiva del capitale.
Il ritorno della società all’ordinaria operatività è comunque condizionato alla rimozione della causa di
scioglimento che aveva determinato l’apertura della liquidazione e delle eventuali altre cause che siano
insorte nel corso della stessa (rimozione che può richiedere una modifica statutaria). E in tale contesto la
necessità di verificare la sussistenza del capitale minimo richiesto per il tipo imporrà la redazione di un
bilancio straordinario.
L’aspetto maggiormente delicato circa la deliberazione di revoca concerne, tuttavia, lo spazio temporale
nell’ambito del quale è possibile sfruttare tale opportunità. Quanto al momento iniziale, a partire dal quale si
possa propriamente discorrere di “revoca dello stato di liquidazione”, sembra indubitabile dover fare
riferimento, seguendo l’opinione nettamente prevalente, a quello in cui si realizza l’effetto dello
scioglimento, cioè all’atto della realizzazione della pubblicità. Quanto al momento finale, oltre il quale
diviene irreversibile il fenomeno dissolutorio della società, gli interpreti si dividono fra: i) chi, aderendo in
toto alla lettera della legge, lo fa coincidere con quello della cancellazione della società dal registro delle
imprese; ii) chi genericamente ritiene consentita la revoca anche quando si sia già provveduto a pagamenti ai
creditori e a ripartizioni tra i soci; iii) chi fa riferimento all’approvazione del bilancio finale; iv) chi infine
anticipa il dies ad quem a quello del deposito di tale bilancio presso il registro delle imprese. Ed è proprio
quest’ultima la tesi più convincente, poiché il deposito del bilancio finale interviene “compiuta la
liquidazione”, cioè quando i creditori sociali sono stati già pagati – o quando avrebbero dovuto esserlo – non
avrebbe alcun senso apprestare uno strumento di loro tutela per una fase in cui i creditori non sono più tali.
Importante è infine il tema della ricostituzione dell’organo di gestione e del passaggio delle consegne tra i
liquidatori e i nuovi amministratori in conseguenza della revoca dello stato di liquidazione, dovendosi
escludere che possano considerarsi nuovamente in carica gli amministratori sostituiti dai liquidatori dopo
l’accertamento dello scioglimento della società. Quanto al primo punto, è evidente che nella medesima
assemblea che delibera la revoca, o in una successiva convocata ad hoc, si dovranno nominare i nuovi
amministratori. Quanto al secondo punto, la disciplina della successione tra i liquidatori e i nuovi
amministratori deve essere ricavata per analogia dall’art.2487-bis.
approvato dall’assemblea secondo il metodo collegiale, e perché infine debba essere approvato da tutti i soci
seppur con l’applicazione del metodo del “silenzio assenso”.
Una volta che sia stato approvato il bilancio finale di liquidazione, i liquidatori devono chiedere la
cancellazione della società dal registro delle imprese. Disposta la cancellazione da parte dell’ufficio del
registro, ove permangano creditori sociali non ancora compiutamente soddisfatti, questi avranno azione
esclusivamente nei confronti dei soci, oppure anche nei confronti dei liquidatori ove il mancato pagamento
sia dipeso da colpa di questi. Così dispone l’art.2495, c.2, premettendo però l’inciso “ferma restando
l’estinzione della società” conseguente alla sua cancellazione. Tale inciso sancisce, dunque, l’efficacia
costitutiva della cancellazione della società di capitali, con l’effetto che la sua estinzione si realizza anche
quando, all’atto della cancellazione, residuino rapporti giuridici non compiutamente definiti.
Gli interpreti si dividono tuttavia sull’irreversibilità o meno della cancellazione, in relazione non tanto
all’esistenza di passività insoddisfatte, fattispecie da ritenersi compiutamente disciplinata dall’art.2495, c.2,
(salva, per la verità, la possibilità di dichiarare anche nell’anno successivo la cancellazione, il fallimento
della società, la quale dunque a fini concorsuali può considerarsi tuttora esistente), quanto in relazione alla
sussistenza di attività non distribuite ai soci. Infatti, mentre una parte della dottrina e della giurisprudenza
rimane correttamente ferma nel sostenere la definitività dell’effetto estintivo prodotto dalla cancellazione,
affermando che le eventuali sopravvenienze o sussistenze attive andranno regolate secondo la disciplina
della comunione tra gli ex soci, altra parte ritiene in tale ipotesi utilizzabile lo strumento della cancellazione
d’ufficio dal registro delle imprese, per mezzo del quale potrebbe ottenersi la “cancellazione (d’ufficio) della
cancellazione della società”, con l’effetto di rimuovere retroattivamente gli effetti di quest’ultima.