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La società a responsabilità

limitata
Lezioni sul modello societario più diffuso

Sabino Fortunato
Capitolo I
I caratteri fondamentali della s.r.l.

La s.r.l. come modello societario sperimentale. I principi direttivi e i caratteri tipologici


La società a responsabilità limitata (s.r.l.) è un tipo societario che definirei di carattere
“sperimentale”. Alcuni autori sottolineano il suo aspetto di frontiera, perché sembra situarsi in
posizione intermedia tra le società di persone e le società di capitali.
Il modello legale della s.r.l. resta ascrivibile alle società di capitali sia pure in forma attenuata. In
realtà la s.r.l. è divenuta sempre più un modello societario sperimentale:
• Per l’amplissima duttilità ad opera dell’autonomia corporativa;
• Per i continui interventi legislativi (comprese le recenti riforme del 2012 e del 2013 sulle s.r.l.
a capitale ridotto o semplificate).
Si tratta di un modello societario “polifunzionale”.
La disciplina è contenuta negli articoli 2462 -2483 del c.c., che sollevano problemi interpretativi.
È una disciplina profondamente innovativa rispetto a quella del codice del 1942, che regolava la
s.r.l. alla stregua di una “piccola società per azioni senza azioni”. La differenza consisteva nel fatto
che nelle s.r.l. la partecipazione sociale non poteva essere rappresentata da azioni, ma da quote. La
riforma del diritto societario (avviata con la legge delega del 2001 e attuata col d.lgs. n. 5 e 6 del
2003) ha modificato la posizione sistematica della s.r.l. nel quadro delle tipologie societarie
• L’art. 2 dispone che i modelli regolati devono essere costituiti da due tipi fondamentali: la
società per azioni e la società a responsabilità limitata, con ciò ponendo l’accento sulla esigenza
di una forte differenziazione degli stessi.
• L’art. 3 specifica i tre principi che hanno orientato il legislatore delegato, sancendo che:
o Autonomia e organicità delle regole dettate per la s.r.l.: la disciplina della s.r.l. è
concepita come un autonomo e organico complesso di norme rispetto alla disciplina
della S.p.A.;
o Rilevanza centrale della persona del socio e dei rapporti contrattuali fra i soci:
nella s.r.l. la figura del socio non rileva solo per l’apporto di capitale, ma anche per gli
elementi personalistici;
o Ampia autonomia statuaria e libertà di forme organizzative: l’autonomia statutaria
è ampiamente riconosciuta soprattutto con riferimento alla libertà di forme
organizzative: poche sono le regole inderogabili, mentre molte sono quelle disponibili
dall’autonomia corporativa dei soci, tali da rendere il modello s.r.l. estremamente
flessibile e adattabile alle esigenze concrete della compagine sociale.
È su questi tre principi che viene modellata la disciplina di una serie di istituti: dalla costituzione della
società ai conferimenti, dalla struttura organizzativa interna al contenuto e alla circolazione della
partecipazione sociale, dal diritto di recesso al finanziamento dei soci.
Il concetto di responsabilità limitata va inteso in un duplice senso:
1. Per le obbligazioni sociali risponde il solo patrimonio della società;
2. Il socio è obbligato nei confronti della società alla sola esecuzione del conferimento promesso.
A parte questo carattere tipologico comune della responsabilità limitata, la s.r.l. trova ulteriore e
specifica caratterizzazione nel divieto di emettere:
• Titoli rappresentativi della partecipazione sociale. In particolare, la s.r.l.:
o Non può emettere titoli rappresentativi del capitale di rischio (no azioni); o Non
può fare appello al pubblico risparmio, come accade invece per le S.p.A.
• Titoli obbligazionari che possano formare diretto oggetto di offerta al pubblico.
Sotto altro profilo, è consentito emettere titoli rappresentativi di capitale di credito. Nella disciplina
originaria il finanziamento sistematico e organico con ricorso al capitale esterno di terzi era consentito
alle sole S.p.A., che emettevano ed emettono “obbligazioni”.
Le s.r.l. oggi possono emettere “titoli di debito”, così facendo appello – sia pur indirettamente – al
pubblico risparmio sotto forma di capitale di credito.
La flessibilità del “modello”: diffuse regole disponibili e limitate regole inderogabili
Le legge delega individua nella s.r.l. un modello molto flessibile, dotato di minore rigidità rispetto al
modello S.p.A.
Quest’ultimo è un tipo societario caratterizzato da un elevato tasso di norme inderogabili, con una
disciplina pensata soprattutto nell’ottica della tutela dei creditori sociali e dei terzi nonché di alcune
situazioni individuali dei soci. Anche sul piano organizzativo la regolamentazione della S.p.A. è
particolarmente rigida, benché i modelli alternativi di amministrazione e controllo hanno introdotto
un qualche grado di flessibilità (ma si tratta di una flessibilità limitata).
Nella s.r.l. il principio dell’ampia autonomia statuaria e della libertà di forme organizzative rinvia
ad una disciplina legale minima e spesso disponibile, sino a giungere a veri e propri “vuoti normativi”.
Es. → Il legislatore stabilisce che si possono nominare amministratori soci o anche non soci, ma nulla
dispone in materia di revoca.
Sono “vuoti” che creano incertezze interpretative: ma si tratta spesso di vuoti normativi voluti
perché il legislatore ha inteso dare spazio all’esercizio dell’autonomia statutaria sancita dall’art. 3
della legge delega del 2001. Tuttavia, le lacune permangono e spesso creano difficoltà interpretative.
Giova sottolineare che le s.r.l. siano dotate di grande flessibilità: il legislatore della riforma preferisce
parlare di modelli societari, piuttosto che di tipi societari.
Già l’utilizzo di questa diversa terminologia è significativa nell’ottica perseguita in termini di “regole
di default”, regole di diritto disponibile dettate quale ausilio ai soci che intendono intraprendere
un’attività economica, applicabili sempre che i soci non abbiano dettato una differente disciplina.
È dunque esclusa ogni regola inderogabile? No! Esistono, sebbene siano ridotte all’osso. In
via di principio devono reputarsi inderogabili:
• Le regole dettate a tutela dei creditori sociali e dei terzi, in tema di formazione del capitale
sociale e di integrità del patrimonio sociale, dato il principio di responsabilità limitata che
governa il modello;

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• In tema di bilancio e di pubblicità, istituti che mirano a regolare la trasparenza e
l’informazione nei confronti del mercato.
• Regole a tutela della posizione individuale dei soci (si pensi alla disciplina sul controllo
individuale assegnata al socio nei confronti dell’amministrazione sociale e al suo diritto di
ispezione e di agire in responsabilità, tanto più che sembra venuto meno nella s.r.l. il
“controllo giudiziario” ex art. 2409 c.c.);
• La legittimazione ad agire a carico di amministratori e sindaci per i danni arrecati al
patrimonio sociale è attribuita al singolo socio, come accade nelle società di persone;
• Il diritto di recesso nei casi legali;
• La disciplina sui criteri di liquidazione della quota e i termini del relativo pagamento.
L’indisponibilità della regola legale è cosa diversa dalla indisponibilità del diritto: le regole
che attribuiscono il diritto di recesso, le modalità di liquidazione e il pagamento della quota
non sono derogabili dalla decisione maggioritaria, ma il socio mantiene la disponibilità del
suo diritto una volta che si siano verificate le condizioni per il suo sorgere.
Sono al contrario regole derogabili le regole dettate in tema di struttura organizzativa. Spesso è lo
stesso legislatore che attribuisce il potere di disposizione all’autonomia statuaria, ma in molte ipotesi
il legislatore tace volutamente. In via esemplificativa:
• Il principio di proporzionalità sorregge il rapporto che intercorre tra conferimenti,
partecipazione sociale e diritti spettanti al socio, nel senso che la quota attribuita al singolo
socio è proporzionale al valore dei conferimenti dal medesimo effettuati o promessi. Ma il
principio di proporzionalità è derogabile: i soci possono decidere che il peso della
partecipazione di un determinato socio sia maggiore del valore attribuito al conferimento da
lui effettuato; gli stessi diritti sociali possono essere differenziati in relazione alla singola
persona del socio con l’attribuzione di “diritti particolari” che nulla hanno a che fare con il
peso proporzionale della sua partecipazione sociale. L’unico limite è che il complesso dei
conferimenti di tutti i soci assicuri comunque la copertura dell’intero capitale sociale;
• La presenza di più amministratori nella s.r.l. comporta normalmente l’applicazione del
principio collegiale, per cui essi formano un consiglio di amministrazione che decide a
maggioranza. Ma l’atto costitutivo può prevedere che l’amministrazione sia affidata a più
persone che operino disgiuntamente o congiuntamente come nelle società di persone;
• Il legislatore tace sulla revoca degli amministratori ad opera dei soci. L’intento è quello di
affidare all’autonomia corporativa dei soci la relativa regolamentazione.

Il modello “legale”: società di capitali attenuata. I problemi interpretativi


Sorge così il problema della interpretazione del modello della s.r.l.: molte regole legislative hanno
carattere disponibile, ma sono destinate a trovare applicazione in mancanza di una deroga nell’atto
costitutivo. Di qui la possibilità di ricostruire un modello di default di tipo capitalistico.
Nella relazione accompagnatoria al d.lgs. n. 6/2003 si legge che “la s.r.l. cessa di presentarsi come
una piccola società per azioni […] Essa si caratterizza invece come una società personale la quale,
pur godendo del beneficio della responsabilità limitata, può essere sottratta alle rigidità di disciplina
richieste per le società per azioni”.
Il modello legale, applicabile in difetto di deroga, si fonda sul principio della responsabilità limitata
dei soci per le obbligazioni contratte dalla società con netta separazione tra il patrimonio personale
dei singoli soci e il patrimonio della società (c.d. autonomia patrimoniale perfetta), per cui la s.r.l.
designata dal legislatore è da ascrivere alle società di capitali.
Il principio della responsabilità limitata evoca la disciplina della S.p.A., ma non mancano regole di
carattere ibrido.
Es. → Si pensi alla disciplina della trasferibilità delle quote: la regola di default afferma il
principio della libera trasferibilità delle quote accostando le quote alle azioni, benché non siano
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incorporate in titoli di credito. Ma l’atto costitutivo può renderle assolutamente intrasferibili
secondo la regola propria della partecipazione delle società di persone il cui trasferimento è
subordinato al consenso unanime dei soci.
Questa flessibilità del modello legale ha indotto un autore a ricondurre la s.r.l. ad un modello
capitalistico attenuato ma pur sempre capitalistico.
Ci sono quindi norme inderogabili poste a tutela dei creditori e dei terzi, ma anche dei soci. Vi è poi
una disciplina legale disponibile orientata a modelli societari capitalistici.
In caso di lacuna normativa, si dovrà valorizzare il principio della tendenziale autosufficienza della
regolamentazione della s.r.l., nel senso che dovrà prioritariamente cercarsi una soluzione nei principi
propri del modello s.r.l.
In definitiva, bisogna sempre partire dal concreto atto costitutivo prima che dal modello legale onde
coglierne le peculiarità per impostare un corretto processo interpretativo della singola fattispecie.

La polifunzionalità (negoziale e legale) della s.r.l.


La grande flessibilità del modello societario della s.r.l. contribuisce a renderlo polifunzionale, nel
senso che è idoneo ad assolvere una pluralità di funzioni anche organizzative.
Tale flessibilità è sfruttata non solo dall’autonomia negoziale dei soci ma anche dal legislatore:
• La funzione naturale della s.r.l. è dare forma e veste alle imprese di piccole e medie
dimensioni dal punto di vista economico-patrimoniale, nonché a compagini sociali chiuse,
formate per lo più da soci legati da rapporti familiari e/o amicali;
• Non essendo mai stato introdotto un limite massimo al numero dei soci, la s.r.l. è stata usata
anche per le grandi imprese, spesso in funzione di società controllante di gruppi di imprese.
• Anche società per azioni quotate possono trovarsi sotto il controllo di una s.r.l., con la
conseguenza che la controllante è soggetta all’obbligo di redazione del bilancio consolidato e
all’obbligo della revisione legale dei conti.
La tipologia della s.r.l. si presta dunque ad essere piegata sia verso l’impresa di piccole e medie
dimensioni, sia verso la grande impresa, sia verso il modulo personalistico che verso il modulo
capitalistico.
A questa flessibilità interna si accompagna una sensibile flessibilità esterna, dovuta agli adattamenti
legislativi del modello.
• Attraverso la s.r.l. unipersonale il legislatore estende il beneficio della responsabilità limitata
all’imprenditore individuale (derogando al principio di cui all’art. 2740 c.c. della
responsabilità patrimoniale “universale” del debitore per le obbligazioni contratte) con
l’ulteriore vantaggio di poter trasformare senza modifiche statutarie l’iniziativa individuale in
iniziativa collettiva, collocando a terzi parte del capitale sociale sottoscritto;
• La s.r.l. è utilizzabile anche per dare vita a imprese artigiane, benché la sua compagine
sociale e la sua struttura debbano rispondere a determinati requisiti per poter essere qualificata
come tale: la maggioranza dei soci (o almeno uno, se sono solo in numero di due) deve
svolgere in prevalenza il proprio lavoro anche manuale nel processo produttivo dell’impresa
sociale, deve tenere altresì la maggioranza del capitale sociale e la maggioranza negli organi
deliberanti;
• Le società consortili possono assumere veste di s.r.l.;
• Le società cooperative possono assumere la veste di s.r.l. purché costituite con compagine
sociale ristretta;
• Analogo discorso vale per le imprese sociali, in cui è fatto divieto di perseguire uno scopo di
lucro soggettivo.

La diffusione e prevalenza statistica nella nuova s.r.l.

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Occorre evidenziare alcuni dati statistici sul livello di diffusione della tipologia delle s.r.l. sull’intero
territorio nazionale. L’analisi copre l’evoluzione delle società italiane dal 30 giugno 2005 al 1° marzo
2013, un arco temporale che coincide sostanzialmente col decennio post-riforma societaria.
Il dato più significativo che se ne ricava è che il tipo della s.r.l., già in passato il più diffuso tra le
società di capitali, emerge in posizione prioritaria rispetto anche alle società di persone.
Il modello della s.r.l. si è rilevato un modello di successo, nonostante i timori e le preoccupazioni
all’indomani della riforma per una sua possibile “implosione” a causa soprattutto dei poteri pervasivi
attribuiti ai singoli soci, anche di minoranza, in termini di diritto di ispezione e di controllo. Sotto il
profilo macroeconomico la riforma sembra aver raggiunto alcune delle sue finalità:
• Riservare alle S.p.A. le imprese di maggiori dimensioni;
• Estendere il beneficio della responsabilità limitata ad una platea più vasta di operatori onde
favorire l’intrapresa economica.
Anche alcuni istituti di recente introduzione sembrano aver avuto il favore degli operatori economici:
• Le s.r.l. unipersonali;
• Le s.r.l. che esercitano direzione e coordinamento;
• Le s.r.l. che hanno introdotto clausole di emissione di titoli di debito.

Capitolo II La costituzione

La costituzione simultanea della s.r.l. La forma dell’atto pubblico a pena di “nullità”. Atto
costitutivo e statuto
La disciplina della costituzione di una s.r.l. riprende il modello della S.p.A., con esclusione della
costituzione per pubblica sottoscrizione (le quote di s.r.l. non possono essere oggetto di sollecitazione
all’investimento).
È dunque consentita solo la costituzione per “atto simultaneo”, atto che – quando ha carattere
negoziale – può avere natura di contratto o di atto unilaterale, a seconda che la costituzione
coinvolga più parti o una sola parte e considerato che il nostro ordinamento consente la costituzione
delle società di capitali da parte dell’unico socio.
La riforma del 2003 ha reso possibile la costituzione della s.r.l. unipersonale sia al socio persona
fisica che al socio persona giuridica, e ha eliminato ogni limite quantitativo alle s.r.l. unipersonali che
l’unico socio può costituire.
La forma dell’atto costitutivo (sia esso contratto o atto unilaterale) è necessariamente quella dell’atto
pubblico (art. 2463) come per ogni altra società di capitali. La forma ha carattere essenziale, essendo
richiesta a pena di nullità della società.
La forma solenne condiziona l’iscrizione nel Registro delle imprese, da cui discende la personalità
giuridica della s.r.l. La costituzione della s.r.l. passa attraverso due fasi:
1. La stipulazione dell’atto costitutivo;
2. L’iscrizione nel registro delle imprese.
Per quanto concerne le differenze tra società di capitali e società di persone:
• Nelle società di persone, ai fini dell’iscrizione nel Registro delle imprese, l’atto costitutivo
può rivestire tanto la forma dell’atto pubblico quanto quella della scrittura privata autenticata,
ma il difetto di forma non comporta nullità, bensì mera irregolarità della società
• Il difetto di forma dell’atto costitutivo nelle società di capitali può invece essere fatto valere
come vizio di nullità dell’atto negoziale prima dell’iscrizione nel Registro delle imprese, e

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dovrebbe impedirne la stessa iscrizione, già in sede di disamina da parte del Conservatore del
Registro delle imprese; determina comunque, ove ciononostante avvenga, la nullità della
società che opera alla stregua di una causa di scioglimento della stessa ed è sanabile, prima
della sentenza che la dovesse accertare, ove si proceda alla redazione dell’atto costitutivo
mediante atto pubblico. A questa forma si collega il controllo notarile sulla legittimità dell’atto
costitutivo, che ha sostituito l’omologazione del Tribunale.
L’art. 2463 indica il contenuto minimo dell’atto costitutivo e dispone che siano esposte “le norme
relative al funzionamento della società, indicando quelle concernenti l’amministrazione, la
rappresentanza”. In realtà la distinzione tra atto costitutivo e statuto presente nella disciplina della
S.p.A. tende a non comparire nella disciplina delle s.r.l., ove il legislatore preferisce utilizzare il
termine “atto costitutivo” per ricomprendere non solo le clausole proprie della fase genetica ma
anche le norme di funzionamento a regime della società.
È consentito anche nella s.r.l., nonostante il silenzio e l’apparente opposta previsione del legislatore,
scindere il contenuto dell’atto costitutivo in due parti cosi da raccogliere le singole regole di
funzionamento in un atto separato denominato statuto?
In verità non si vede alcuna plausibile giustificazione a fondamento di tale divieto a danno
dell’autonomia negoziale. Alcuni autori sottolineano l’impossibilità o comunque la difficoltà di
distinguere le regole di funzionamento a carattere organizzativo dalle clausole attributive di diritti
specifici a singoli soci. Ma non sembra che questa difficoltà sia insormontabile. Di fatto la prassi
notarile spesso differenzia anche per le s.r.l. atto costitutivo e statuto, e non sembra che tale prassi
debba considerarsi illegittima.
È certo che quando ci si trovi di fronte a due atti separati lo statuto dovrà considerarsi “parte
integrante dell’atto costitutivo” e dovrà essere redatto per atto pubblico.
Più dubbio è, se in caso di contrasto fra le clausole dei due documenti, debba trovare applicazione la
regola solutoria del conflitto accolta dall’art. 2328, secondo cui “prevalgono le clausole dello statuto”
o debbano applicarsi le ordinarie regole interpretative del contratto “tenendo conto del contesto
generale del negozio e senza far prevalere comunque quelle contenute nello statuto”.
A me pare che l’opzione die soci a favore di una scissione dei due atti depone nel senso
dell’applicazione analogica dell’art. 2328; ma ancor più, non si può non tener conto della volontà dei
soci che hanno inteso raccogliere in apposito atto le regole di funzionamento della società, le quali
non potranno che prevalere su quelle eventualmente contenute nel separato atto costitutivo che ha la
diversa funzione di raccogliere le clausole contingenti legate alla fase genetica.

Il contenuto dell’atto costitutivo


Il contenuto dell’atto costitutivo, oltre a riferirsi alle regole di funzionamento, deve far riferimento
agli elementi essenziali dell’atto negoziale societario:
• I soci quali parti contraenti o il socio unico;
• La denominazione e la sede del nuovo soggetto societario;
• L’oggetto sociale e i mezzi con cui si intende perseguirlo (cioè capitale complessivo e singoli
conferimenti con relativa quota di partecipazione di ciascun socio); • Gli amministratori e gli
eventuali controllori;
• Le spese di costituzione.
Si tratta di elementi indispensabili a individuare la fattispecie negoziale che i soci hanno inteso
realizzare e che anche i terzi devono poter apprezzare. Vediamo nel dettaglio tali elementi:
A. L’atto costitutivo deve contenere gli elementi identificativi dei soci (persone fisiche o
collettività organizzate). Donde l’indicazione:
a. Per le prime di cognome e nome, data e luogo di nascita, domicilio e nazionalità;
b. Per le seconde di denominazione, sede e Stato di incorporazione.
B. Deve quindi identificarsi il nuovo soggetto di diritto che si viene a costituire:
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a. Con la denominazione, che può anche essere di fantasia o contenere anche il nome di
uno o più soci, ma che deve sempre accompagnarsi all’indicazione di s.r.l.;
b. Con l’indicazione del comune in cui sono situate la sede principale e le eventuali sedi
secondarie.
L’indicazione del tipo si è arricchita anche con l’indicazione di “s.r.l. semplificata”. Va
evidenziata l’innovazione che non vuole più l’indicazione dell’indirizzo completo della sede,
ma del solo comune, onde evitare che ogni modifica di indirizzo nell’ambito del medesimo
comune si traduca in una modifica dell’atto costitutivo.
L’esigenza di pubblicità dell’indirizzo completo a tutela dei terzi è raggiunta attraverso
l’obbligo imposto in sede di prima iscrizione nel Registro delle imprese di indicare nella
domanda l’indirizzo comprensivo della via e del numero civico e, in sede di successivo
mutamento, di depositare presso lo stesso Registro apposita dichiarazione degli
amministratori contenete il nuovo indirizzo. Nella domanda di iscrizione deve indicarsi anche
l’indirizzo di pec della società.
Va precisato che la sede sociale indica il luogo in cui è collocata la direzione e
l’amministrazione sociale, non necessariamente l’azienda ove si esplica l’attività produttiva; e
che sussiste una presunzione (relativa) che fa coincidere la sede sociale con la sede effettiva. C.
L’atto costitutivo deve indicare l’attività che costituisce l’oggetto sociale, e non più solo
l’oggetto sociale. La formula tende ad evitare l’indicazione di oggetti generici. L’elemento evoca
l’oggetto del contratto, che deve essere possibile, lecito, determinato o determinabile.
L’indicazione della attività sembra imporre la specificità non solo della generica attività
programmata, ma anche del settore merceologico specifico. Resta il problema della indicazione
di un oggetto sociale costituito da una pluralità di attività per specifiche, ma spesso eterogenee.
Non sembra tuttavia che questa prassi debba considerarsi illegittima.
Spesso vengono indicate nell’oggetto sociale attività strumentali al perseguimento dello
stesso, come il compimento di ogni attività finanziaria. È importante che si precisi che si tratta
di attività accessoria e strumentale, poiché le attività finanziarie a titolo principale sono per
legge riservate a particolari tipi di società all’uopo autorizzate.
Sussistono, comunque, attività vietate alla s.r.l., nel senso che esse possono esercitarsi
esclusivamente sotto altra forma tipologica (es. attività assicurative e bancarie).
D. Deve essere indicato l’ammontare del capitale sociale sottoscritto e versato, il quale non può
essere inferiore a € 10.000, limite peraltro che può ridursi sino ad 1 € nel caso di costituzione
di “s.r.l. semplificata” o nel caso di “s.r.l. ordinaria”, in tal modo svuotandosi in concreto il
requisito del capitale.
E. Il capitale è formato, in fase di costituzione, dai conferimenti dei singoli soci, per cui
dovranno descriversi per ciascuno l’obbligo assunto a tale titolo e il valore attribuito agli
eventuali conferimenti in natura e conferimenti di crediti.
F. Per ciascun socio deve specificarsi la “quota di partecipazione al capitale”, che può anche
non essere proporzionale all’obbligo di conferimento assunto.
G. Le regole di funzionamento della società possono essere disciplinate con atto separato. Tra
tali regole assumono rilievo quelle concernenti l’amministrazione e la rappresentanza,
probabilmente nel senso che dovranno indicarsi il modello di amministrazione e le regole
sulla nomina, revoca, funzionamento dell’organo amministrativo ed eventuali limiti al potere
rappresentativo.
H. L’atto costitutivo deve inoltre indicare le persone cui spetta l’amministrazione e l’eventuale
soggetto incaricato di effettuare la revisione legale dei conti.
I. L’atto costitutivo deve indicare “l’importo globale, almeno approssimativo, delle spese per la
costituzione poste a carico della società”. La mancanza di tale indicazione non comporta
alcuna conseguenza in termini di invalidità dell’atto costitutivo, avendo come effetto al più
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che le spese eventualmente sopportate da soci o da terzi non potranno porsi a carico della
società e gravare sul relativo bilancio.
L’art. 2331 attribuisce responsabilità illimitata e solidale verso i terzi di soggetti che hanno
agito in nome della società a cui si aggiunge il socio unico fondatore o il socio o i soci tra i
fondatori che hanno deciso, consentito o autorizzato il compimento dell’operazione.
• Quanto alla responsabilità della società verso i terzi, una volta che si sia costituita,
sussiste automaticamente per le spese necessarie purché l’atto costitutivo ne preveda
l’importo globale almeno approssimativo.
• Per l’accollo delle spese non necessarie occorre che, dopo la costituzione, l’organo
competente ratifichi l’operazione.
La durata della società non viene più considerata come elemento essenziale dell’atto costitutivo, in
quanto è ora espressamente consentita la società a tempo indeterminato. Tuttavia, in quest’ultima
ipotesi ogni socio ha diritto di recedere dalla società anche senza giusta causa con un preavviso di
almeno 180 giorni, che l’atto costitutivo può prolungare fino ad un anno.
Il diritto di recesso compete altresì nell’ipotesi in cui la società sia contratta a tempo determinato, ma
con un termine che supera la vita media del socio, venendosi allora ad equiparare ad una società a
tempo indeterminato.

Capitale sociale di un euro, s.r.l. semplificata e start-up innovativa


Quanto all’entità del capitale sociale in fase di costituzione, il penultimo comma dell’art. 2463
prevede che anche nell’ambito della s.r.l. ordinaria esso possa essere determinato in misura inferiore
a 10.000 €, purché non inferiore ad 1 €.
• In tal caso è imposto che i conferimenti devono essere effettuati tutti in denaro e non possono
essere costituiti da beni in natura o da crediti o da prestazioni d’opera o di servizi;
• Essi, inoltre, devono essere versati integralmente al momento della costituzione nelle mani
delle persone cui è affidata l’amministrazione
La possibilità di fissare il capitale sociale della s.r.l. ad un euro ha dato vita ad un altro sottotipo di
s.r.l., e cioè alla s.r.l. semplificata (s.r.l.s.).
In realtà, fra il 2012 e il 2013 il legislatore ha introdotto due modelli speciali di s.r.l.: •
La società a responsabilità limitata a capitale ridotto;
• La società a responsabilità limitata semplificata.
Nelle intenzioni il primo modello era destinato a favorire l’imprenditoria giovanile, tanto che era
previsto un limite massimo di 35 anni di età per potervi assumere la qualità di socio (limite poi
eliminato). Inoltre, è stata abrogata la norma che imponeva che l’amministratore dovesse essere scelto
necessariamente tra i soci.
Attualmente è disciplinato esclusivamente il modello della società a responsabilità limitata
semplificata (art. 2463-bis), che si caratterizza per le seguenti specificità:
a) I soci possono essere esclusivamente persone fisiche;
b) Il capitale sociale è fissato ad almeno 1 € e deve essere inferiore ai 10.000 €, sottoscritto e
interamente versato al momento della costituzione;
c) Il conferimento può essere esclusivamente in denaro e deve essere versato a mani dell’organo
amministrativo;
d) L’atto costitutivo deve corrispondere al contenuto di un “modello standard tipizzato” con
decreto del Ministro della Giustizia, di concreto col Ministro dell’economia e delle finanze e
del Ministro per lo sviluppo economico;
e) La denominazione sociale deve indicare che si tratta di s.r.l. semplificata.
La norma poi prevede che le clausole del modello standard tipizzato sono inderogabili. Dunque,
siamo di fronte ad un “modello rigido”.

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Tuttavia, c’è da chiedersi se siamo davvero di fronte ad un modello immodificabile. Certamente non
possono modificarsi o eliminarsi le clausole del modello standard, ma si ritiene che l’autonomia
corporativa sia libera di inserire clausole aggiuntive compatibili con quelle del modello standard. La
s.r.l. semplificata è agevolata anche sul piano dei costi, perché è esente dal pagamento dell’onorario
notarile, diritti di segreteria e imposta di bollo. I compensi notarili sono dovuti ove si provveda a
modificare con clausole aggiuntive il modello standard. A mio avviso, la s.r.l.s. non pone capo a un
nuovo tipo societario”, poiché:
• Mantiene fermi i caratteri tipologici fondamentali della s.r.l. ordinaria;
• Le norme della s.r.l. ordinaria trovano applicazione alla s.r.l.s. in quanto compatibili. In questo
senso si devono favorire le soluzioni interpretative che integrano il modello standard con la
disciplina della s.r.l. ordinaria che non si ponga in insanabile contrasto con le regole recepite in quel
modello.
Con l’intento poi di agevolare iniziative imprenditoriali che abbiano ad oggetto esclusivo o prevalente
lo sviluppo, la produzione o la commercializzazione di prodotti o servizi innovativi a livello
tecnologico (c. d. start-up innovative) sono state introdotte ulteriori modifiche al modello della s.r.l.
In realtà le start-up innovative possono rivestire forma di qualsiasi società di capitali, società
cooperativa o società europea. Le caratteristiche che le start-up innovative devono avere sono:
a) L’atto costitutivo può essere redatto o con atto pubblico notarile o anche con atto sottoscritto
digitalmente senza intervento del notaio, e deve essere conforme al modello standard
approvato con decreto del Ministro dello Sviluppo economico;
b) L’oggetto sociale è esclusivamente o prevalentemente limitato a sviluppo, produzione e
commercializzazione di prodotti o servizi innovativi ad alto contenuto tecnologico. La startup
deve essere titolare di almeno una privativa industriale o software inerente all’oggetto sociale.
Tali società possono riguardare qualsiasi settore merceologico, ma si individuano in
particolare start-up a vocazione sociale, start-up turismo e start-up incubatori certificati;
c) Le quote o azioni non devono essere quotate su mercati regolamentati o negoziate in un
sistema multilaterale;
d) La start-up deve essere di nuova costituzione o al più operativa da non più di 48 mesi dalla
costituzione;
e) Per tutto il periodo di start-up (4 anni) gli eventuali utili sono destinati a riserva in funzione
di rafforzamento patrimoniale e non possono essere distribuiti;
f) Le start-up vanno iscritte nel Registro delle imprese non solo nella sezione ordinaria ma
anche in una sezione speciale ad esse dedicata sin quando sussistono i requisiti sopradetti e
almeno sin quando dura il periodo agevolativo (4 anni dalla costituzione);
g) In tale periodo la start-up non è soggetta alle ordinarie procedure concorsuali, ma alla
procedura per crisi da sovraindebitamento.
Quando la start-up riveste la forma di s.r.l. sono previste deroghe alla disciplina della s.r.l. ordinaria,
e in particolare:
1. Nel caso di perdita superiore a 1/3 del capitale sociale è consentito rinviare al secondo
esercizio la riduzione del capitale e, nel caso in cui la perdita abbia portato il capitale sociale
al di sotto del minimo legale, è consentito rinviare all’esercizio successivo la riduzione e
l’aumento che porti il capitale nuovamente al minimo legale;
2. È possibile creare categorie di quote di partecipazioni dotate di diritti e/o contenuti differenti;
3. Le quote sono suscettibili di offerta al pubblico, in deroga al divieto di cui all’art. 2468, anche
tramite portali online per la raccolta di capitali (c.d. crowfunding);
4. È possibile compiere operazioni sulle proprie partecipazioni in attuazione di piani di
incentivazione per dipendenti e collaboratori;
5. Possono emettersi strumenti finanziari dotati di diritti patrimoniali o amministrativi, con
esclusione del diritto di voto, a fronte di apporti d’opera o di servizi da parte di soci o di terzi.

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Anche per le start-up innovative si è posto il quesito se ci si trovi di fronte ad un nuovo tipo
societario. La risposta è prevalentemente negativa, trattandosi di disciplina agevolativa
subordinata alla iscrizione in una sezione speciale del Registro delle imprese, destinata a venir
meno col venir meno dei relativi requisiti e comunque col decorso del tempo di durata delle
agevolazioni, con esclusiva permanenza dell’iscrizione nella sola sezione ordinaria.

La s.r.l. unipersonale
La situazione di unipersonalità della s.r.l. può determinarsi sia in fase costitutiva della società, sia in
fase di funzionamento. Sussiste unipersonalità anche nel caso in cui le quote rappresentanti l’intero
capitale sociale ricadano in comunione fra più soggetti giuridici, nel qual caso i “comunisti”
eserciteranno i propri diritti tramite il rappresentante comune.
• Nel momento genetico è consentito al socio unico, sia esso persona fisica o collettività
organizzata, di costituire una o più s.r.l. unipersonali con atto negoziale unilaterale da iscrivere
nel Registro delle imprese e di mantenere il beneficio della responsabilità limitata, purché
siano soddisfatte due condizioni relative l’una ai conferimenti e l’altra alla pubblicità;
• Analogamente è consentito conservare il beneficio della responsabilità limitata anche ove la
pluralità dei soci venga meno successivamente con concentrazione delle quote relative
all’intero capitale sociale nelle mani di un socio unico.
Il mantenimento della responsabilità limitata in capo al socio unico è subordinato, ai sensi dell’art.
2462, comma 2, al rispetto di entrambe le seguenti condizioni:
1) I conferimenti in fase costitutiva devono essere immediatamente e contestualmente liberati
(art. 2464). I conferimenti in denaro vanno eseguiti integralmente (e non solo per il 25%); i
conferimenti in natura, di credito e di prestazioni d’opera o servizi devono essere eseguiti
contestualmente nel pieno rispetto di quanto dispone l’art. 2464. Se la pluralità dei soci viene
meno successivamente, i versamenti ancora dovuti dovranno eseguirsi entro 90 giorni dalla
concentrazione del capitale sociale nelle mani del socio unico;
2) Quando si verifica la situazione di unipersonalità, devono essere adempiuti oneri di
pubblicità al fine di rendere nota tale situazione ai terzi. Gli amministratori devono, entro 30
giorni dalla variazione della compagine sociale, depositare per l’iscrizione nel Registro delle
imprese una dichiarazione contenente l’indicazione di nome e cognome o denominazione,
data e luogo di nascita o stato di costituzione, domicilio o sede e cittadinanza del socio unico.
Parimenti altra dichiarazione va depositata per segnalare il ricostituirsi della pluralità dei soci.
A tale onere può anche provvedere direttamente l’interessato. Inoltre, anche gli atti e la
corrispondenza della società devono indicare la situazione di unipersonalità.
Il mancato rispetto anche solo di una delle dette condizioni comporta che “in caso di insolvenza della
società, per le obbligazioni sorte nel periodo in cui l’intera partecipazione è appartenuta ad una sola
persona, questa risponde illimitatamente”. Si tratta di responsabilità solidale e sussidiaria rispetto
a quella della società, delimitata peraltro al solo “caso di insolvenza” della società e alle sole
obbligazioni assunte (sorte) nel periodo di concentrazione del capitale sociale. In quanto
responsabilità illimitata non estesa a tutte le obbligazioni sociali, esse non comporta l’eventuale
fallimento del socio unico per estensione ex art. 147 l. fall.
La situazione di unipersonalità può determinare l’insorgere di conflitti di interesse con i creditori
sociali, soprattutto se l’unico socio è anche amministratore della società. Perciò contratti e operazioni
stipulati tra la s.r.l. e l’unico socio sono opponibili ai creditori sociali solo se risultano documentati
dal libro delle decisioni degli amministratori o atto scritto avente una data certa anteriore al
pignoramento del terzo creditore.

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L’iscrizione nel Registro delle imprese. Il controllo notarile e le condizioni per la costituzione
Stipulato l’atto costitutivo si apre la seconda fase, cioè la fase della iscrizione della società nel
registro delle imprese, da cui consegue l’acquisto della personalità giuridica ovvero l’applicazione
di tutta la disciplina propria del tipo, con la netta separazione tra patrimonio sociale e patrimonio
individuale del singolo socio.
Al riguardo l’ultimo comma dell’art. 2463 richiama le norme dettate in materia di S.p.A.: gli articoli
dal 2329 al 2332 e l’art. 2341.
L’atto costitutivo è redatto per atto pubblico, per cui compete al notaio rogante depositare l’atto entro
20 giorni per l’iscrizione presso l’ufficio del Registro delle imprese nella cui circoscrizione è
collocata la sede sociale, allegando tutti i documenti che comprovino l’esistenza delle condizioni
richieste dalla legge per la costituzione. Ove non vi provveda il notaio, il deposito può essere
effettuato dagli amministratori o, in mancanza, da ciascun socio a spese della società.
L’atto costitutivo è soggetto sin dalla fase della sua formazione al controllo notarile, che sostituisce
il controllo di omologazione già spettante al Tribunale sugli atti societari da iscrivere nel registro
delle imprese.
Si tratta di un controllo di legalità formale e sostanziale allo stato degli atti, cioè nella misura in cui
i vizi di nullità e/o di annullabilità emergano dagli stessi atti rogati e allegati: un controllo da alcuni
definito di “tipicità”, cioè di corrispondenza dell’atto al modello legale inderogabile delle parti. Nella
fase della redazione dell’atto costitutivo quel controllo pone capo al rifiuto notarile di riceversi l’atto;
laddove invece nel caso di deliberazioni modificative dello statuto, limitandosi il notaio a fungere da
segretario di un’assemblea che si va sviluppando, il suo controlla può tradursi nel rifiuto di procedere
al deposito. A quel punto il notaio deve darne tempestivo avviso agli amministratori, che “nei 30
giorni successivi possono convocare l’assemblea per gli opportuni provvedimenti oppure ricorrere
al Tribunale per il provvedimento di omologazione; in mancanza, la deliberazione è definitivamente
inefficace” (art. 2436, comma 3).
Nel controllare l’adempimento delle condizioni stabilite dalla legge per la costituzione, il notaio deve
verificare la sussistenza di condizioni intrinseche all’atto come anche di condizioni estrinseche.
L’art. 2329 dispone che la verifica abbia ad oggetto in particolare:
1) L’integrale sottoscrizione del capitale sociale;
2) Il rispetto delle norme relative ai conferimenti. Il richiamo è alle norme dettate per la S.p.A.:
a. L’art. 2342 prevede che “i conferimenti devono effettuarsi in denaro e comportano il
versamento del 25% a mani degli amministratori, ovvero il versamento integrale se
trattasi di costituzione di società unipersonale. Parimenti devono essere integralmente
liberate le quote a fronte di conferimenti di beni in natura o di crediti”;
b. L’art. 2343 prevede che “i conferimenti di beni in natura o di crediti devono essere
accompagnati da una relazione giurata di stima redatta da un revisore legale o da
società di revisione legale, iscritti nell’apposito registro e designati dello stesso socio
conferente”. Anche il revisore e la società di revisione rispondono dei danni causati
alla società, ai soci e ai terzi;
c. L’art. 2343-ter prevede una serie di ipotesi in cui i conferimenti di particolari beni in
natura o di crediti possono essere esentati dall’essere accompagnati dalla relazione
giurata di stima.
3) L’esistenza delle autorizzazioni e altre condizioni richieste da leggi speciali per il particolare
oggetto sociale. Ovviamente i termini per l’adempimento degli oneri di pubblicità costitutiva
decorrono, per autorizzazioni che dovessero essere rilasciate dopo la stipula dell’atto, da
quando l’originale o la copia autentica del provvedimento è consegnato al notaio rogante; e
ove l’iscrizione sia avvenuta nonostante la mancanza o l’invalidità dell’autorizzazione, la
stessa Autorità competente al rilascio è legittimata a chiedere al Tribunale la cancellazione
della società dal Registro delle imprese.

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Il controllo di regolarità formale del Conservatore; la nullità della società; i benefici dei soci
fondatori
Una volta depositato l’atto costitutivo e i relativi allegati presso l’ufficio del Registro delle imprese,
il Conservatore provvede a iscriverlo con effetti di pubblicità costitutiva (art. 2331: con l’iscrizione
la società acquista personalità giuridica) “verificata la regolarità formale della documentazione” (art.
2330). Al Conservatore compete, dunque, solo un controllo di regolarità formale dei documenti
inoltrati, e non certo di validità dei medesimi.
Certo, anche al notaio potrebbe sfuggire un vizio che andava rilevato; e in tal caso se lui stesso o altri
abbiano richiesto l’iscrizione, chiunque vi abbia interesse può chiedere la sospensione cautelare
dell’iscrizione, poi eventualmente instaurando il giudizio di merito per far valere l’invalidità dell’atto.
Ma al Conservatore non compete affrontare questioni di validità, ma solo di completezza formale
della documentazione e al limite di corrispondenza degli atti a quelli per i quali la legge impone il
deposito e l’iscrizione.
Avvenuta l’iscrizione, l’atto costitutivo non può essere dichiarato invalido e si dovrà semmai
procedere alla dichiarazione di nullità della società. La nullità della società:
• Può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse, è imprescrittibile ed è rilevabile anche
d’ufficio;
• Non opera ex tunc con efficacia retroattiva, ma opera ex nunc dal momento in cui la sentenza
del Tribunale accerta la nullità e nomina i liquidatori della medesima facendo salvi gli atti e i
negozi compiuti nel frattempo dagli organi sociali, e non liberando i soci dall’obbligo di
effettuare i conferimenti dovuti, ove necessari a soddisfare le ragioni dei creditori sociali. La
sentenza va iscritta nel Registro delle imprese, ma la sua pronuncia può anche essere evitata,
ove gli organi sociali pongano in essere atti di sanatoria del vizio di nullità.
I vizi che possono provocare la nullità della società sono tassativi e ridotti a tre fattispecie:
• Mancata stipulazione dell’atto costitutivo in forma di atto pubblico
• Illiceità dell’oggetto sociale (contrarietà ordine pubblico, buon costume e norme imperative);
• Mancanza nell’atto costitutivo di ogni indicazione in merito alla denominazione sociale, ai
conferimenti, all’ammontare del capitale sociale o all’oggetto sociale.
Basta che gli amministratori o i soci convochino l’assemblea per procedere alla formalizzazione in
atto pubblico dell’atto costitutivo oppure integrarlo con i requisiti mancanti o eliminarne l’oggetto
sociale illecito sostituendolo con quello lecito, affinché si eviti la pronuncia di nullità della società. Il
vizio, pertanto, a differenza dei vizi di nullità propri del negozio giuridico, è sanabile e non solo
convertibile.
Da ultimo, va sottolineato che trova applicazione anche alla s.r.l. la possibilità che i soci fondatori si
riservino nell’atto costitutivo particolari benefici.
Capitolo IIII I patti parasociali

Il problema dei patti parasociali e della loro validità. Disciplina legale per società azionarie
quotate e non. Estensione anche ad altri tipi societari
Il tema dell’atto costitutivo nella s.r.l. comprende in sé il tema delle regole di funzionamento della
società, regole che possono trovare collocazione anche in un atto separato denominato “statuto”. Si
tratta di regole che anche durante la vita societaria possono essere modificate con apposite decisioni
dei soci e secondo le maggioranze disciplinate nel medesimo atto costitutivo.
La prassi (e successivamente anche il legislatore) hanno dato riconoscimento ai c.d. patti parasociali,
accordi che vengono stipulati fra alcuni o tutti i soci o anche fra questi e terzi, o componenti degli
organi sociali (amministratori o sindaci) o addirittura la stessa società, al fine di regolare in aggiunta

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o in difformità alle clausole statutarie l’esercizio di diritti dei soci o di influire comunque sul processo
di formazione della volontà degli organi sociali.
Si tratta di contratti collaterali o collegati al rapporto societario, che hanno perlopiù ad oggetto
l’esercizio dei diritti connessi alla partecipazione sociale denominati:
• “Sindacati di voto” quando regolano l’esercizio del diritto di voto dei “paciscenti” (cioè i
partecipanti al patto);
• “Sindacati azionari” quando regolano le vicende circolatorie della partecipazione stessa.
L’ambito di estensione e la validità dei patti parasociali sono stati in passato molto discussi. Dottrina
e giurisprudenza si mostravano contrari alla loro ammissibilità.
• Soprattutto i patti relativi all’esercizio del diritto di voto ove decisi a maggioranza e non
all’unanimità dei paciscenti apparivano contraddire i meccanismi di libera formazione della
volontà sociale e di libera espressione del voto individuale con alterazione delle regole
statutarie in materia di maggioranza (c.d. sindacati di voto);
• Analogamente in materia di circolazione della partecipazione sociale lo statuto può avere
previsto la regola della libera alienazione della stessa, ma alcuni soci possono essersi obbligati
in difformità alla clausola statutaria, a non vendere a terzi la propria partecipazione per un
determinato periodo temporale (c.d. sindacato di blocco). Ancora una volta, alcuni o tutti i
soci di fatto si vincolano a non applicare la regola statuaria.
La differenza fra la regola statutaria e la regola parasociale (ove ritenuta valida) sta nella diversa
efficacia vincolante delle stesse:
• La regola statuaria ha efficacia reale ed erga omnes;
• La regola parasociale ha efficacia meramente obbligatoria e relativa ai soli paciscenti.
Sta di fatto che l’atteggiamento di dottrina e giurisprudenza si sta progressivamente modificando,
sino ad arrivare al riconoscimento legislativo di alcune tipologie di patti parasociali dapprima in sede
di disciplina delle società per azioni quotate e poi in sede di riforma della disciplina codicistica delle
società per azioni di diritto comune.
L’avvenuto riconoscimento della validità dei patti parasociali a determinate condizioni per le S.p.A.
non comporta affatto che per gli altri tipi societari essi debbano considerarsi vietati. Nella S.p.A. “è
più sentita l’esigenza di garantire regole certe e definite in considerazione della maggiore rilevanza
per il pubblico e per il mercato finanziario”; con ciò, tuttavia, non si è inteso escludere la possibilità
che analoghi patti riguardino altre forme di società.
Le s.r.l. possono trovarsi assoggettate in materia di patti parasociali alla disciplina propria
alternativamente delle S.p.A. quotate o delle S.p.A. di diritto comune ove siano società controllanti
rispettivamente di una S.p.A. quotata o di S.p.A. di diritto comune.

I patti parasociali nella S.p.A. quotata (o sua controllante): artt. 122 e 123 TUF
La disciplina dettata per le società per azioni quotate (e per le relative controllanti, quindi anche se
si tratti di s.r.l.) ha carattere speciale ed esclude l’applicazione delle norme civilistiche in materia.
Essa ha ad oggetto solo alcune tipologie di patti parasociali, e in particolare quelli che tendono a
incidere o sul governo societario, o sugli assetti proprietari (art. 122 TUF). In particolare, vi rientrano
i patti, in qualsiasi forma stipulati, che hanno ad oggetto:
I. L’esercizio del diritto di voto;
II. L’istituzione di obblighi di preventiva consultazione per l’esercizio del diritto di voto;
III. La posizioni di limiti al trasferimento delle relative azioni o di strumenti finanziari che
attribuiscono diritti di acquisto o di sottoscrizione delle stesse;
IV. L’acquisto delle azioni o degli strumenti finanziari previsti sub-III.;
V. L’esercizio anche congiunto di un’influenza dominante su tali società;

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VI. Il favorire o il contrastare il conseguimento degli obiettivi di un’offerta pubblica di acquisto
o di scambio, ivi inclusi gli impegni a non aderire ad un’offerta.
I nuclei di disciplina di queste fattispecie si traducono in obblighi di pubblicità, regole di durata e
rimedi sanzionatori.
• Sotto il profilo degli obblighi di pubblicità, è previsto che questi patti, entro 5 giorni dalla
stipulazione, devono essere: o Comunicati alla Consob;
o Pubblicati per estratto sulla stampa quotidiana; o Depositati presso il Registro delle
imprese del luogo ove la società ha sede legale o Comunicati alle società con azioni
quotate destinatarie dei patti.
In altre parole, si impone la trasparenza dei patti medesimi, proprio perché essi sono destinati
a incidere sulla società che fanno appello al pubblico risparmio. Questi obblighi di
comunicazione, comunque, non si applicano a partecipazioni complessivamente inferiori alla
soglia del 2% del capitale sociale.
• Sotto il profilo sanzionatorio, la mancata pubblicità nei termini determina la nullità del patto
(anche se dovrebbe trattarsi di invalidità temporanea, destinata a sanarsi con l’adempimento
pur tardivo). Non solo, ma soprattutto il diritto di voto, inerente alle azioni quotate per le quali
non sono stati adempiuti gli obblighi in questione, non può essere esercitato, con la
conseguenza che le deliberazioni eventualmente approvate con quei voti determinanti sono
annullabili e l’impugnazione può essere proposta dalla Consob entro 180 giorni.
• Sotto il profilo della durata (art. 123 TUF), il vincolo non può superare il termine di 3 anni,
altrimenti la durata del patto di riduce automaticamente entro il limite temporale massimo
previsto dalla legge (sostituzione automatica della clausola temporale nulla con quella legale).
Sussistono, tuttavia, diversi correttivi:
o Il patto è rinnovabile alla scadenza (benché, a mio avviso, non dovrebbe ammettersi il
rinnovo tacito o per fatti concludenti, ma solo espresso, posto che va sempre e
comunque nuovamente pubblicizzato);
o Sono ammessi patti a tempo indeterminato, ma in questo caso ciascun contraente ha il
diritto di recedere in ogni momento con un preavviso di 6 mesi, da pubblicizzare;
o Ove venga lanciata un’offerta pubblica di acquisto o di scambio, gli azionisti potranno
sempre aderirvi, nonostante qualsiasi sindacato di blocco o azionario pattuito,
esercitando il diritto di recesso, che però produrrà effetti solo in caso di
perfezionamento del trasferimento delle azioni. Il legislatore intende così favorire la
contendibilità della società quotate, depotenziando patti che ostacolino eventuali
scalate concorrenti.

I patti parasociali nella S.p.A. non quotata (o sua controllante): artt. 2341-bis e 2341-ter c.c. La
disciplina dei patti parasociali per le S.p.A. di diritto comune o non quotate ripercorre il modello delle
società quotate. Quanto alla individuazione delle fattispecie regolate, si ripropongono i sindacati di
voto, i sindacati azionari e i sindacati di controllo.
In merito alla durata si modifica solo in termine massimo dei patti a tempo determinato, che si
allunga a 5 anni.
Per il resto si ripropongono i temi della nullità parziale con sostituzione automatica della clausola di
durata legale, del rinnovo alla scadenza dei patti a tempo indeterminato con il correttivo del recesso.
Quanto agli aspetti pubblicitari, essi si applicano solo alle società aperte (cioè alle società che fanno
ricorso al mercato del capitale di rischio), e si limitano all’obbligo di comunicazione del patto da
parte dei paciscenti alla società destinataria e di dichiarazione della loro esistenza in apertura di ogni
assemblea e trascrizione del relativo verbale da depositarsi nell’ufficio del Registro delle imprese. La
sanzione per la violazione degli obblighi pubblicitari non opera sul piano della validità del patto, ma

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solo sul piano del divieto di esercizio del diritto di voto e della annullabilità della deliberazione
eventualmente adottata con il voto determinante dei paciscenti.

Quale disciplina per i patti parasociali di s.r.l. che non controllano S.p.A.?
La disciplina sin qui esaminata è graduata a seconda che ci si trovi di fronte ad una società con azioni
quotate o sua controllante (anche s.r.l.) ovvero a S.p.A. non quotata o sua controllante (anche s.r.l.).
Peraltro investe una limitata tipologia di fattispecie di patti parasociali, benché fra le più rilevanti,
cioè quelle che incidono sugli assetti proprietari e sul governo societario.
Alle s.r.l. che non controllano S.p.A. si ritiene che non trovi comunque applicazione analogica la
disciplina dei patti parasociali dettata espressamente per la S.p.A..
• Certamente non sarebbero applicabili le disposizioni in tema di pubblicità che la stessa
disposizione codicistica limita alle sole società aperte; e la s.r.l. è una società chiusa;
• Probabilmente non trovano di per sé applicazione neppure le regole dettate in tema di durata
dei patti medesimi. L’assenza di disciplina specifica per la s.r.l. non implica il divieto dei patti
parasociali per questo tipo di società, come riconosce anche la Relazione che accompagna il
d.lgs. n. 6/2003 contenente la riforma del diritto societario, secondo cui non si è inteso
“escludere la possibilità che analoghi patti riguardino altre forme di società per le quali
resterà applicabile la disciplina generale dell’autonomia privata e dei contratti”.
Non ritengo, peraltro, che il limite sia costituito esclusivamente dal diritto di recesso ad nutum con
congruo preavviso, ove il patto abbia durata indeterminata. Occorre chiedersi cosa accada per i
patti a termine, che potrebbero comunque essere stipulati. Anche qui dovranno considerarsi
sostanzialmente a tempo indeterminato quei patti che vincolino un paciscente al di là della durata
della vita media di una persona.
Diversamente ritengo che può farsi applicazione del principio generale ricavabile dall’art. 1379 c.c.
La norma espressamente dispone che “il divieto di alienare stabilito per contratto ha effetto solo tra
le parti e non è valido se non è contenuto entro convenienti limiti di tempo e se non risponde ad un
apprezzabile interesse di una delle parti”. In altre parole: non solo legittimi limiti indefiniti e
indeterminati alla libera disponibilità del proprio patrimonio, nozione in cui si sono ricompresi diritti
soggettivi a contenuto patrimoniale di qualsiasi genere.
Ne consegue che anche sindacati di voto o sindacati sulle partecipazioni o sui diritti sociali sono
ammissibili, purché il vincolo non superi limiti temporali “convenienti” e risponda ad un
“apprezzabile interesse di una delle parti” del patto. Il limite temporale deve essere ragionevole in
relazione agli interessi in gioco e la meritevolezza di tutela di tali interessi è pur sempre valutata
dall’ordinamento, ovvero dall’autorità giudiziaria in sede di verifica della “causa concreta” del patto.
Dall’art.1379 si ricava altresì che i patti parasociali hanno efficacia puramente obbligatoria, e cioè
non sono opponibili erga omens nei confronti della società stessa. Questa efficacia obbligatoria
limitata ai paciscenti è principio applicabile a tutti i patti parasociali.
Dunque:
• Le regole statutarie e le relative modifiche, una volta pubblicate, sono opponibili erga omnes
(producono cioè un effetto reale con la conseguenza che la loro violazione rende nulli
eventuali delibere e negozi difformi);
• Le clausole di un patto parasociale obbligano solo le parti del patto; la relativa violazione
comporta non la invalidità dei negozi difformi, ma solo il risarcimento dei danni a carico
dell’inadempiente.
Capitolo IV Le basi finanziarie: i conferimenti

Le fonti di finanziamento dell’attività d’impresa nella s.r.l.

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Qualsiasi attività economica per potersi sviluppare ha bisogno di essere finanziata e ovviamente anche
la s.r.l. per attuare il proprio oggetto sociale deve poter attingere a risorse finanziarie da investire e
comunque da utilizzare nell’attività produttiva di beni o di servizi.
Gli strumenti di finanziamento della s.r.l. assumono tre forme istituzionali, sostanzialmente comuni
a tutte le società di capitali e in parte alle società di persone, tuttavia con specificità proprie:
1. Il primo e immancabile strumento è dato dall’apporto o conferimento dei soci, imputato o
meno a capitale sociale;
2. Il secondo eventuale è costituito dai finanziamenti o prestiti provenienti dagli stessi soci;
3. Il terzo, anche esso eventuale, è rappresentato dalla possibilità di fare ricorso a finanziamenti
anche esterni alla compagine sociale mediante l’emissione di titoli di debito, che richiamano
in qualche modo le obbligazioni emesse dalle S.p.A..
Le novità rispetto alla disciplina previgente la riforma del 2003 sono gli ultimi due strumenti.
L’attività di impresa della s.r.l. può essere finanziata anche da strumenti ordinari, come:
• Il ricorso al credito bancario, sia a breve che a lungo o medio termine;
• Il ricorso al c.d. autofinanziamento, che si attua con la destinazione a riserva degli utili
conseguiti nell’esercizio dell’attività produttiva della società.
Tuttavia, la disciplina di queste forme di finanziamento non evoca regole specifiche delle s.r.l.

Semplificazione e allargamento dei beni conferibili rispetto alla S.p.A.


La disciplina dei conferimenti nella s.r.l. si caratterizza, rispetto a quella dettata nella S.p.A., per un
intento di semplificazione della disciplina e per l’allargamento dei beni e servizi conferibili.
• La semplificazione delle regole che governano i conferimenti nella s.r.l. si coglie subito, in
quanto non è più richiesto – per i conferimenti in denaro – che il socio estingua il deposito di
almeno il 25% di quanto sottoscritto e dovuto presso una banca, dovendo invece mettere a
disposizione dell’amministratore della società il relativo versamento.
• Quanto all’allargamento dei beni e servizi conferibili, anche a capitale sociale, l’art. 2464
dispone che “possono essere conferiti tutti gli elementi dell’attivo suscettibili di valutazione
economica”. Tanto legittima nella s.r.l. anche la conferibilità a capitale sociale di prestazioni
d’opera o di servizi, che invece nella S.p.A. possono al più costituire oggetto di “prestazioni
accessorie” all’emissione di azioni che devono comunque essere liberate da conferimenti in
denaro o in natura di altro genere.
Il diverso principio sembra collegarsi alla circostanza della naturale destinazione alla
circolazione della partecipazione sociale azionaria: il conferimento incorporato nell’azione
deve essere separabile dalla persona del socio conferente.
In altre parole, la prestazione d’opera o di servizi comporta l’assunzione di una obbligazione
di facere da parte del socio rendendo quel bene sì suscettibile di valutazione economica, ma
fortemente caratterizzato dalla persona del socio e perciò non agevolmente da lui separabile
a fini circolatori della partecipazione sociale.

Nozioni: conferimento, sovrapprezzo, capitale sociale, patrimonio e patrimonio netto


Va precisata la nozione di conferimento, nozione che ricorre anche nella definizione generale del
“contratto di società” (art. 2247), ove il conferimento di beni e servizi è individuato come elemento
costitutivo della fattispecie.
Non vi è contratto di società se non vi è conferimento. Si tratta di un elemento reale o di un elemento
obbligatorio?

• Il dato letterale dell’art. 2247 sembra deporre per la realità dell’operazione societaria;

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• Tuttavia altre disposizioni, a partire da quelle che sembrano escludere la necessaria
liberazione immediata e integrale delle quote/partecipazioni sottoscritte, e che quindi
sembrano consentire una esecuzione differita rispetto al momento costitutivo dei conferimenti
soprattutto in denaro, depongono in senso contrario alla realità e favorevole alla
consensualità del contratto/negozio societario. Quest’ultima è l’opinione dominante e
comunemente accettata.
Ne consegue che il conferimento si identifica nella “obbligazione del socio di eseguire il
conferimento, cioè la prestazione di bene o servizio promesso, in favore della società” secondo le
regole proprie del singolo tipo societario, obbligazione assunta con l’adesione alla società e a fronte
della quale il socio riceve una quota del capitale sociale, acquisendo lo status di socio.
L’assunzione della qualità o status di socio è dunque subordinata alla promessa di investimento nel
“capitale sociale” della società, all’obbligo di dotare la società del c.d. capitale di rischio o mezzi
propri secondo la “cifra” definita e programmata nell’atto costitutivo, cifra che prende anche il nome
di capitale sociale nominale.
Occorre un’ulteriore precisazione: in realtà, con il contratto di società i soci si obbligano ad effettuare
un conferimento imputato o imputabile a capitale sociale, ma possono altresì obbligarsi a
conferimenti o apporti non di capitale, cioè che non vanno a copertura di quella cifra nominale definita
in atto costitutivo (o nella delibera di aumento) e che sono detti conferimenti non di capitale.
Es. → Conferimento a sovrapprezzo, un apporto del socio che non viene imputato a capitale
sociale ma ad una particolare riserva da sovrapprezzo.
• La funzione, in genere, di questi apporti fuori capitale è quella di rafforzare il patrimonio
sociale, senza però assoggettare la relativa aliquota o parte di patrimonio ai rigidi vincoli di
indistribuibilità dell’aliquota a copertura del capitale sociale. Infatti, l’eventuale riduzione
effettiva del capitale sociale nominale (non dovuta a perdite), con conseguente rimborso ai
soci delle quote pagate o mediante liberazione dell’obbligo dei versamenti ancora dovuti, va
adottata con deliberazione di modifica dell’atto costitutivo entro i limiti di rispetto del capitale
minimo e con attribuzione ai creditori sociali di un diritto di opposizione (art. 2482).
• La riserva da sovrapprezzo è invece disciplinata dall’art. 2431, secondo cui “le somme
percepite a tale titolo non possono essere distribuite fino a che la riserva di legge non abbia
raggiunto il limite stabilito dall’art. 2430”, corrispondente al quinto del capitale sociale. Un
vincolo, dunque, di indistribuibilità temporaneo, superato il quale le corrispondenti aliquote
dell’attivo del patrimonio sociale si rendono disponibili per la distribuzione con semplice
decisione dei soci e senza alcuna modifica statutaria.
Per meglio comprendere il funzionamento del “capitale nominale” e delle “riserve” e il rilievo in
questo ambito dei conferimenti, occorre distinguere la nozione di “patrimonio sociale” da quella di
“patrimonio netto”:
• Per patrimonio sociale si intende il complesso di diritti e obblighi, di situazioni giuridiche
soggettive attive e passive che sono attribuite ad un soggetto giuridico, quale centro autonomo
di imputazione (nel nostro caso la società).
o Il patrimonio sociale può non coincidere con il patrimonio di bilancio, perché non tutte
le situazioni giuridiche sono iscrivibili in attivo o in passivo del bilancio.
• Il patrimonio netto è a sua volta rappresentato dalla differenza algebrica tra attività e
passività imputabili al soggetto, potendo avere:
o Segno positivo allorché le attività siano superiori alle passività; o Segno negativo
qualora le attività siano inferiori alle passività (deficit patrimoniale). Il patrimonio netto,
in termini di bilancio d’esercizio, trova rappresentazione nel passivo per motivi di
bilanciamento con l’attivo, ma è detto “passivo ideale” per distinguerlo dal “passivo
reale”, che è costituito da effettive situazioni debitorie della società.

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Il patrimonio netto è composto a sua volta da “capitale” e da una pluralità di “riserve”, la cui
distinzione si fonda sulla circostanza di rappresentare differenti discipline di “vincoli di
indistribuibilità” di corrispondenti aliquote dell’attivo del patrimonio sociale.
• Il capitale nominale viene determinato con una “cifra fissa” dai soci in sede costitutiva della
società o in sede di aumento o riduzione dello stesso con modifica statutaria: esso indica in
realtà l’impegno programmatico che i soci assumono a vincolare alla destinazione produttiva
corrispondenti aliquote dell’attivo del patrimonio sociale e a liberarle da tale impegno solo
nel rispetto di determinate regole;
• Ma la stessa cosa è a dirsi per la riserva da sovrapprezzo o la riserva da rivalutazione o la
riserva statutaria, nel senso che anche esse rinviano a vincoli di indistribuibilità di
corrispondenti aliquote dell’attivo eliminabili solo con il rispetto di differenti regole.
In questo senso, se è vero che il capitale nominale o la riserva da sovrapprezzo e altre riserve
richiamano corrispondenti aliquote dell’attivo, è altresì vero che tali nozioni esprimono soprattutto
“concetti normativi”. E occorre qui fare chiarezza: in realtà i conferimenti non restano congelati nel
patrimonio sociale, ma sono nella piena disponibilità degli amministratori ai fini dell’esercizio
dell’attività produttiva e subiscono la trasformazione in macchinari, impianti, merci, ecc.
Ciò significa che conferimenti a capitale e apporti o utili a riserve esprimono valori nel patrimonio
sociale, con la conseguenza che il capitale nominale o la riserva rinviano alle corrispondenti regole
giuridiche in merito alla indistribuibilità o distribuibilità delle aliquote dell’attivo in termini valoristici
cui fanno riferimento non già a singoli beni o cespiti iscritti nell’attivo di bilancio.
Quando si parla di “capitale reale” si intende fare riferimento ai valori dell’attivo corrispondenti
inizialmente al valore dei conferimenti compiuti o promessi, ma successivamente a valori indistinti
dell’attivo patrimoniale.

Conferimento, interessi tutelati e principio di proporzionalità della quota sociale. I conferimenti


in danaro
Per quanto riguarda le regole che disciplinano i conferimenti nella s.r.l., esse risultano più semplificate
e più flessibili rispetto all’analoga disciplina dettata nella S.p.A. In via di principio, la disciplina dei
conferimenti tende a tutelare molteplici nuclei di interessi.
• Innanzitutto, l’interesse degli stessi soci a dotare la società di un minimo di patrimonio con
cui avviare o incrementare l’attività produttiva dell’impresa sociale, interesse questo
indisponibile nella misura in cui il legislatore impone un minimo legale di capitale sociale e,
al di là del minimo legale, disponibile e modulabile secondo gli accordi programmatici dei
soci stessi in quanto collettività organizzata. o A tal proposito, l’imposizione del minimo
legale del capitale sociale può essere interpretata come rappresentativo della serietà
dell’impegno assunto dai soci alla contrazione del vincolo societario che produce effetti reali
nei confronti dei terzi.
• Nel contempo bisogna considerare l’interesse del socio, contrapposto a quello degli altri soci,
ad un trattamento tendenzialmente paritario nell’assunzione dell’obbligo di conferimento,
donde il naturale principio di proporzionalità fra entità del conferimento e quota attribuita
al singolo socio, peraltro principio disponibile dalla diversa volontà dei soci purché sia
assicurata comunque la copertura integrale del capitale sociale fissato statuariamente.
• L’interesse del singolo socio, ma anche l’interesse dei terzi creditori sociali, stanno a
fondamento del principio di tendenziale effettività del capitale sociale, che si manifesta in
particolare nelle regole cautelative sui conferimenti in natura e sui conferimenti d’opera e/o
di servizi, principio allora indisponibile dai soci in quanto posto a tutela dei terzi.
L’atto costitutivo deve stabilire non solo l’entità del conferimento del singolo socio, ma anche
l’ammontare della quota spettante al singolo socio. In realtà la mancata precisazione di tali
elementi non vizia di per sé l’atto costitutivo, in quanto in mancanza di specificazione deve intendersi
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che ogni socio sia obbligato ad un conferimento paritario nei limiti del capitale sociale fissato ed a
ogni socio spetterà una quota di partecipazione altrettanto paritaria.
Se poi risultano determinati i conferimenti di ciascun socio, ma non anche l’entità della quota ad essi
spettante, questa si intende proporzionale all’ammontare del conferimento di ognuno.
Senonché, analogamente a quanto accade nella S.p.A., il principio di proporzionalità è derogabile
dalla diversa volontà dei soci, è principio naturale e non imperativo, per cui l’atto costitutivo potrebbe
fissare una quota non proporzionale al conferimento assunto. Ad una condizione: che il valore dei
conferimenti non può essere complessivamente inferiore all’ammontare globale del capitale sociale.
In altre parole: a tutela dei terzi deve essere garantita la copertura/effettività del capitale sociale fissato
nell’atto costitutivo (o in sede di aumento).
La tipologia dei beni conferibili a capitale nella s.r.l. è solo in parte analoga a quella della S.p.A.
• Nella S.p.A. quella tipologia è indicata con espressioni specifiche, ammettendosi conferimenti
in denaro, di beni, in natura e di crediti, ed escludendosi che possano formare oggetto di
conferimenti le prestazioni di opere e servizi;
• Nella s.r.l., invece, l’art. 2464 utilizza dapprima una espressione generica, stabilendo che
“possono essere conferiti tutti gli elementi dell’attivo suscettibili di valutazione economica”;
quindi individua puntualmente: o Conferimenti in denaro; o Conferimenti di beni in natura e
di crediti; o Conferimenti di prestazioni di opere o di servizi.
Ciò comporta che nella S.p.A. la conferibilità è legata non solo alla possibilità di attribuire un valore
economico all’oggetto conferito, ma anche alla separabilità di quell’oggetto dalla persona del socio,
onde rendere la partecipazione sociale in via di principio liberamente circolabile.
Nella s.r.l., l’oggetto del conferimento è sempre possibile, alla sola condizione che gli si possa
attribuire un valore economico, sì da entrare nel processo produttivo dell’impresa sociale.
Come nella S.p.A., se non è diversamente stabilito nell’atto costitutivo il conferimento deve
effettuarsi in denaro (art. 2464): tale conferimento deve essere liberato in fase costitutiva e in fase di
sottoscrizione dell’aumento almeno per il 25% con versamento a mani dell’amministratore o degli
amministratori nominati, restando a questi ultimi il compito di richiamare gli ulteriori decimi nel
momento ritenuto più opportuno (nella s.r.l. unipersonale dovranno liberarsi integralmente). Il
conferimento in denaro può essere sostituito, in fase iniziale, da fideiussione bancaria o polizza
assicurativa di pari importo, che può essere in qualsiasi momento sostituita dal versamento in denaro.
Il legislatore ha insomma previsto che il socio, anziché conferire il denaro, si limiti a conferire una
garanzia; ma questa modalità è attualmente rimasta lettera morta.
Il conferimento in danaro è, peraltro, l’unico ammesso nelle s.r.l. che fissino il minimo legale del
capitale sociale al di sotto dei 10.000 €, e deve essere integralmente liberato.

I conferimenti in natura e gli “acquisti pericolosi”


Accanto ai conferimenti in denaro, l’atto costitutivo può consentire espressamente altre tipologie:
• Conferimenti in natura;
• Conferimenti di crediti;
• Conferimenti di prestazioni d’opera o di servizi.
A mio avviso, conferimenti in natura e di crediti sono assoggettati alla medesima disciplina. Non
ritengo condivisibile la posizione di chi sostiene che ogni conferimento che non sia in denaro vada
assimilato ai conferimenti in natura.
• Conferimento in natura è la dazione di qualsiasi bene materiale o immateriale suscettibile
di valutazione economica.Il conferimento in natura può attuarsi:
o A titolo di trasferimento in proprietà alla società, nel qual caso garanzia per evizione
e trasferimento dei rischi sono regolati dalle norme sulla vendita;
o A titolo di godimento, e in quel caso i rischi restano a carico del conferente e la
garanzia è regolata dalle norme sulla locazione.
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• Conferimento di credito è la cessione di un credito alla società; è assimilato alla cessione
pro solvendo del credito, nel senso che il cedente risponde della solvenza del debitore ceduto.
È evidente che conferimenti in natura e conferimenti di credito pongono problemi di valutazione dei
beni o crediti conferiti, e sorge quindi la necessità di attestarne la stima ad opera di un terzo esperto.
Di qui l’obbligo del conferente di produrre e far allegare all’atto costitutivo una relazione giurata di
stima, redatta da un revisore legale o da una società di revisione legale, contenente:
• La descrizione dei beni o crediti;
• L’indicazione dei criteri di valutazione adottati;
• L’attestazione che il loro valore è almeno pari a quello ad essi attribuito ai fini della
determinazione del capitale sociale e dell’eventuale soprapprezzo (art. 2465, comma 1). La
necessità di una relazione giurata di stima è presente anche nella S.p.A., ma nella sr.l. appare
semplificata, nel senso che il terzo esperto non è designato dal tribunale ma è scelto dallo
stesso socio conferente. Non sembra poi che l’esperto debba essere caratterizzato da
indipendenza formale, nel senso che non deve aver avuto precedenti rapporti professionali
con la società o con il socio. La norma si limita a richiedere la garanzia che discende dalla
particolare professionalità di revisore iscritto nell’apposito registro.
La disciplina della s.r.l., inoltre, non richiama l’ulteriore disposizione dettata in materia di S.p.A. che
impone agli amministratori di controllare la relazione entro 180 giorni successivi alla iscrizione della
società (o della delibera di aumento) e di provvedere alla “revisione della stima” nel caso in cui
sussistano “fondati motivi”, impedendo nelle more l’alienazione delle azioni.
Inoltre, nel caso in cui la revisione della stima faccia emergere un valore del cespite inferiore a 1/5
del valore per cui avvenne il conferimento, si pongono tre alternative:
1. Il socio integra in denaro l’ammontare mancante;
2. Il socio recede dalla società con diritto alla restituzione del conferimento e corrispondente
riduzione del capitale;
3. La società deve ridurre il capitale dell’importo mancante.
Il mancato richiamo di tale disciplina nella s.r.l. sembra intenzionale.
La quota attribuita al socio a fronte di conferimenti in natura e di credito deve essere
immediatamente liberata al momento della sottoscrizione: l’obbligo va adempiuto al momento della
sottoscrizione con il trasferimento di proprietà o in godimento del bene o la cessione del credito.
La relazione giurata di stima deve essere redatta altresì nell’ipotesi dei c.d. acquisti pericolosi che la
s.r.l. dovesse effettuare nei due anni dall’iscrizione della società nel Registro delle imprese di beni o
crediti dei soci fondatori, soci e amministratori e per un corrispettivo pari o superiore al decimo del
capitale sociale. Anche in questa ipotesi sorge l’esigenza di tutela dell’interesse del singolo socio alla
parità di trattamento rispetto agli altri soci e della tutela dei creditori sociali alla effettività del capitale
sociale. Ad ulteriore cautela è anche disposto che l’acquisto debba essere autorizzato con decisione
dei soci, salvo che non sia altrimenti previsto nell’atto costitutivo. Sfuggono comunque a questa
disciplina gli “acquisti pericolosi” effettuati a condizioni normali nell’ambito di operazioni correnti
della società o che avvengano su mercati regolamentati o sotto il controllo dell’autorità giudiziaria o
amministrativa. Sussiste, infine, la responsabilità solidale di amministratori e alienante per i danni
causati alla società, a soci e a terzi per la violazione delle norme sugli acquisti pericolosi.

I conferimenti in prestazioni d’opera o di servizi


La novità più significativa nella disciplina dei conferimenti nella s.r.l. è la possibilità di prevedere in
atto costitutivo il conferimento a capitale mediante prestazione d’opera o servizi, conferimento
che non è affatto assimilabile ai conferimenti in natura, ma che costituisce un tertium genus accanto
ai conferimenti tipici in danaro e ai conferimenti in natura.
Nella S.p.A. le prestazioni d’opera o di servizi non possono essere oggetto di conferimento a capitale
sociale, ma solo di “prestazioni accessorie” rispetto ad azioni che devono comunque essere liberate
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con conferimenti in denaro o in natura. La ragione di tale differenziazione è legata alla separabilità di
quest’ultima tipologia di conferimenti dalla persona del socio. Peraltro, proprio le azioni con
prestazioni accessorie sono assoggettate ad un particolare regime circolatorio, in quanto devono
essere sempre nominative e possono essere trasferite a terzi solo col consenso degli amministratori.
La rilevanza della persona del socio e l’introduzione nella s.r.l. di una più spinta personalizzazione
tipologica, ha reso possibile prevedere come oggetto di conferimenti a capitale anche le prestazioni
d’opera o di servizi.
Il legislatore ha dovuto, però, risolvere due problemi a tutela degli interessi dei residui soci e dei terzi,
quanto alla effettività della copertura del capitale:
• La difficoltà valutativa della prestazione d’opera o di servizi;
• La certezza della esecuzione della esecuzione della prestazione legata al rischio
dell’inadempimento anche oggettivo (impossibilità sopravvenuta).
I due problemi sono stati risolti con l’imposizione dell’obbligo di prestare una garanzia,
contestualmente alla sottoscrizione della quota a liberarsi con il conferimento d’opera o servizi, per
la durata e l’intero ammontare del valore attribuito al conferimento.
La distinzione tra “opera” e “servizi” non è sempre chiara, ma è riconducibile alla distinzione tra
obbligazione di risultato e obbligazione di mezzi. Entrambe comportano l’assunzione di un facere:
• La prestazione d’opera sembra evocare la spendita di energie lavorative indirizzate al
conseguimento di un determinato risultato (opus) al cui raggiungimento la prestazione deve
considerarsi adempiuta;
• La prestazione di servizi implica la spendita di energie lavorative per un periodo di tempo
definito, presumibilmente periodico o continuativo.
La controprestazione del conferimento d’opera o di servizi è l’attribuzione della quota, e quindi della
qualità di socio. Pertanto, non si applicano le regole del contratto di lavoro, ma la disciplina societaria.
Quanto alla natura del conferimento in oggetto, il testo letterale della norma è alquanto ambiguo.
L’art. 2464, dopo aver disciplinato conferimento in denaro e conferimenti di beni in natura, al comma
6 dispone che “il conferimento può anche avvenire mediante la prestazione di una polizza assicurativa
o di una fideiussione bancaria con cui vengono garantiti, per l’intero valore ad essi assegnato, gli
obblighi assunti dal socio aventi per oggetto la prestazione d’opera o di servizi a favore della società.
In tal caso, se l’atto costitutivo lo prevede, la polizza o la fideiussione possono essere sostituite dal
socio con il versamento a titolo di cauzione del corrispondente importo in danaro presso la società”.
La norma sembra individuare l’oggetto del conferimento nella prestazione di una polizza di
assicurazione o di una fideiussione bancaria; ciò ha dato adito all’interpretazione che ha individuato
l’oggetto del conferimento nel valore della polizza o fideiussione o nella somma di denaro sostitutiva
a titolo di cauzione. Senonché non può essere trascurata la circostanza che la polizza e la fideiussione
sono poste a garanzia di una prestazione principale, individuata dalla stessa norma negli obblighi
assunti dal socio aventi per oggetto la prestazione d’opera o di servizi a favore della società.
L’opinione prevalente individua pertanto, nella disposizione sopracitata, l’oggetto del conferimento
direttamente nella prestazione d’opera o di servizi. E tuttavia vi è la tendenza ad assimilare tali
conferimenti ai conferimenti in natura (comprensivi di tutti i conferimenti non in denaro).
Non ritengo che i conferimenti d’opera o di servizi siano assimilabili né ai conferimenti in denaro né
ai conferimenti in natura, ma costituiscono un tertium genus con loro specifica disciplina.
Il conferimento d’opera o servizi non è liberabile al momento della sottoscrizione, in quanto la
prestazione è tutta da eseguire. Né può dirsi che al posto della esecuzione dell’opera o del servizio
sta la dazione della garanzia, che ha sempre carattere accessorio.
La funzione della garanzia, che deve essere fornita per l’intero valore degli obblighi assunti dal socio
e che dunque si commisura a quel valore negozialmente definito tra le parti, è quella:
• Di ridimensionare i problemi valutativi al momento della sottoscrizione del conferimento;

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• Di assicurare con la sua escussione la copertura del valore riportato in attivo quale credito
verso il socio nell’ipotesi di inadempimento totale o parziale o di analoga impossibilità ad
effettuare la prestazione dell’opus o del servizio in fase successiva.
Rientra nella responsabilità degli amministratori verificare e attestare che la prestazione sia stata
eseguita per il valore attribuito e che si rifletterà nella diminuzione del credito verso il socio, sostituito
dal valore dell’opus acquisita o dal valore della prestazione di servizio incorporato nell’attivo
complessivamente considerato.
Capitolo V Le basi finanziarie: i finanziamenti dei soci

Sottocapitalizzazione nominale e reale delle società di capitali. I rimedi adottati nella prassi
Oltre che con il conferimento di capitale o anche non a capitale in sede costitutiva o in sede di aumento
del capitale sociale, il finanziamento della società a responsabilità limitata (come anche di altre
tipologie societarie) tende a realizzarsi tramite versamenti a titolo di prestito.
Il fenomeno si è venuto sempre più incrementando man mano che ha finito per perdere importanza
vincolante l’apporto a titolo di conferimento in connessione alla riduzione del minimo legale imposto
all’entità del capitale nominale. In effetti, dotare una s.r.l. di un capitale reale di € 10.000 o addirittura
di € 1 significa non fornire alcuna base finanziaria effettiva alla società. In concreto, la società dovrà
cercare di ottenere le risorse finanziarie necessarie in altro modo.
Il capitale sociale ha così perso la funzione di rappresentare un elemento costitutivo di un patrimonio
sociale congruo allo scopo, cioè di un patrimonio di destinazione sufficiente:
• Per l’attuazione del programma negoziale dell’attività;
• Per fornire ai creditori sociali una garanzia.
Non che il capitale sociale non continui ad assolvere tali funzioni, ma di certo la sua entità obbligatoria
non è commisurata ad alcun criterio di congruità ai detti scopi, sicché finisce per rappresentare più
un elemento di serietà dell’impegno sociale assunto dal socio che un elemento di dotazione delle
risorse necessarie al perseguimento dello scopo-mezzo della società.
In questo senso si è parlato di sottocapitalizzazione (nominale o reale) della s.r.l.: il capitale investito
dai soci non è idoneo a consentire una effettiva realizzazione dell’oggetto sociale. La
sottocapitalizzazione nominale potrebbe non essere da sola indice di sottocapitalizzazione reale.
Ovviamente la situazione è ancor più grave se alla sottocapitalizzazione nominale si accompagna la
sottocapitalizzazione reale.
Autorevole dottrina ha ritenuto che una società che risulti sottocapitalizzata dalla fase costitutiva deve
considerarsi nulla per contrarietà dell’atto costitutivo a norma imperativa e perciò non omologabile.
Senonché, nel nostro ordinamento non sembra potersi ricostruire un principio che imponga alla S.p.A.
o alla s.r.l., al di là del minimo legale del capitale nominale, di dotarsi fin dal momento costitutivo di
mezzi propri congrui all’attuazione dell’oggetto sociale.
In materia infatti non si può invocare una sorta di principio di simmetria: la scarsità di risorse
finanziarie sopravvenuta nella fase di attuazione dell’oggetto sociale programmato non può essere
assimilata alla scarsità iniziale di risorse finanziarie quando la realizzazione dell’oggetto sociale
neppure è stata avviata ed è in divenire.
Spesso le società di capitali italiane soffrono non solo di sottocapitalizzazione nominale, ma anche
reale. Per ovviare a tale inconveniente, gli stessi soci hanno adottato la consuetudine di fornire risorse
finanziarie a vario titolo che possono identificarsi in apporti non a capitale o in veri e propri prestiti.
Le denominazioni che assumono gli apporti sono molteplici: versamento in conto futuro aumento
capitale, versamento in conto capitale, versamento a fondo perduto, ecc.
In via di principio, tali voci individuano riserve di apporti, la cui disciplina dipende dalla destinazione
che i soci hanno inteso imprimere ai versamenti effettuati.

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• Un versamento in conto futuro aumento del capitale sociale può avere ad oggetto un
programmato aumento da deliberare entro un prefissato termine, scaduto il quale senza che si
sia a ciò provveduto il versamento deve considerarsi restituibile al socio;
• Se poi il versamento è stato effettuato senza riferimento ad una specifica delibera di aumento,
sembra potersi assimilare ad un versamento in conto capitale idoneo a legittimare una
riserva di patrimonio con i caratteri della facoltatività;
• Il versamento a fondo perduto, a sua volta, comporta un apporto fuori capitale che mira a
coprire perdite che si sono già manifestate e che perciò stesso determina una riserva destinata
a compensarsi con la perdita, senza che ne sia ipotizzabile una restituzione.
In ogni caso si tratta di apporti che scontano il regime del “capitale di rischio” per i singoli soci,
capitale cioè che può essere utilizzato a copertura di perdite e che quindi corre il rischio di impresa
analogamente al capitale sociale.
Il finanziamento dei soci effettuato a titolo di prestito dà luogo invece a capitale di credito: fa
assumere ai soci la posizione di creditori sullo stesso piano dei terzi creditori sociali, e in quanto tali
essi vantano nei confronti della loro società un diritto alla restituzione del finanziamento erogato. Il
finanziamento può recare un termine per la restituzione espressamente negoziato con la società o può
essere stato effettuato senza determinazione del termine. In questa seconda ipotesi dovrebbe
applicarsi l’art. 1817 c.c., secondo cui il termine di restituzione è stabilito dal giudice.
Tuttavia, prima che intervenisse la riforma delle società di capitali del 2003, dottrina e giurisprudenza
dubitavano che i finanziamenti dei soci potessero qualificarsi sempre e comunque in termini di mutuo.
Nella misura in cui si potesse ritenere che il finanziamento del socio assumeva una funzione
sostitutiva del conferimento, la volontà negoziale doveva considerarsi elusiva di una implicita norma
imperativa a tutela dei terzi con conseguente riqualificazione forzosa del finanziamento in termini di
conferimento, e dunque senza che il socio potesse vantare un diritto alla restituzione entro il termine
negoziato o eventualmente stabilito dal giudice.

I “finanziamenti anomali” dei soci come prestiti soggetti a disciplina speciale


La soluzione adottata dal legislatore con la riforma del diritto societario nel dettare una disciplina
specifica dei finanziamenti dei soci nella s.r.l. con l’art. 2467, rispetta la volontà negoziale dei soci,
mantenendo la qualificazione dei finanziamenti in termini di mutuo o prestito alla società, ma
laddove siano effettuati in situazioni anomale ne disciplina gli effetti soprattutto sul piano restitutorio
penalizzando i soci rispetto ad ogni altro comune creditore sociale.
L’art. 2467 individua i finanziamenti anomali dei soci e, al comma 1, ne qualifica gli effetti sul
piano della disciplina restitutoria. E così viene disposto che “si intendono finanziamenti dei soci a
favore della società quelli, in qualsiasi forma effettuati, che sono stati concessi:
1. In un momento in cui, anche in considerazione del tipo di attività esercitata dalla società, risulti
un eccessivo squilibrio dell’indebitamento rispetto al patrimonio netto;
2. Oppure in una situazione finanziaria della società nella quale sarebbe stato ragionevole un
conferimento”. L’effetto che è:
1. Il rimborso dei finanziamenti dei soci a favore della società è postergato rispetto alla
soddisfazione degli altri creditori;
2. Se avvenuto nell’anno precedente la dichiarazione di fallimento della società, deve essere
restituito.
La disposizione solleva non pochi problemi interpretativi.
Ma essa è altresì richiamata dall’art. 2497-quinquies dettata in tema di “direzione e coordinamento di
società”, per cui “ai finanziamenti effettuati a favore della società da chi esercita attività di direzione
e coordinamento nei suoi confronti o da altri soggetti ad essa sottoposti si applica l’art.

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2467”. E ciò solleva l’ulteriore problema dell’ambito applicativo di quella disciplina, posto che la
società controllata finanziata nel gruppo può appartenere non solo al tipo s.r.l., ma anche al tipo S.p.A.
o ad altro tipo societario.
Il quadro dei finanziamenti dei soci si completa infine con disposizioni di diritto fallimentare che
sembrano addirittura ribaltare il principio della postergazione del credito restitutorio del socio
finanziatore nell’opposto principio della prededucibilità del finanziamento compiuto in favore della
propria impresa in crisi.

La fattispecie
La fattispecie dei “finanziamenti anomali” definita al comma 2 dell’art. 2467 presenta almeno tre
profili interpretativi problematici.
1. Nozione ampia. In primo luogo, sono considerati anomali i finanziamenti dei soci a favore
della società “in qualsiasi forma effettuati”: ciò comporta che rilevano non solo gli apporti a
titolo di mutuo di risorse finanziarie o di altri beni fungibili, ma anche impegni del socio che
possano in futuro comportare suoi esborsi finanziari a favore della società, come la dazione
di garanzie per ottenere da terzi prestiti. O ancora lettere di patronage o garanzie atipiche o
accollo dei debiti sociali. È dubbio che possa rientrare nella fattispecie anche la sola dilazione
oltre i termini ordinari dei pagamenti. Probabilmente anche i prestiti recati da titoli di debito,
eventualmente successivamente acquistati dai soci in situazioni di “anomalia” o i “versamenti
in conto capitale” compiuti in tale situazione dovranno considerarsi soggetti all’art. 2467;
2. Squilibrio patrimoniale e squilibrio finanziario. In secondo luogo, l’anomalia del
finanziamento è definita in base a due criteri alternativi e autonomi: deve trattarsi di
finanziamento concesso o in una situazione di squilibrio patrimoniale o in una situazione di
squilibrio finanziario della società.
a. La prima ipotesi ricorre allorché sussista “un eccessivo squilibrio dell’indebitamento
rispetto al patrimonio netto”; in altre parole: i mezzi propri della società risultano in
relazione al tipo di attività esercitata sproporzionati a fronte dei mezzi di terzi
(valutazione di carattere aziendalistico);
b. Anche la seconda ipotesi presuppone una valutazione di tipo aziendalistico, che può
utilizzare il rendiconto finanziario per misurare il grado di liquidità della società e la
sua capacità di adempiere con regolarità le obbligazioni a breve o a medio-lungo
termine. Peraltro, in questa seconda ipotesi il criterio della situazione finanziaria si
coniuga con il test di ragionevolezza, cioè con la valutazione rimessa al giudice sulla
base di criteri aziendalistici che in tale stato di cose sarebbe stato più ragionevole da
parte dei soci effettuare un conferimento piuttosto che un prestito.
3. Momento rilevante. Il terzo profilo investe l’individuazione del momento in cui rileva la
segnalata anomalia: e cioè se la situazione patrimoniale o finanziaria debba valutarsi al
momento della richiesta da parte della società o dell’impegno sottoscritto dal socio o al
momento della effettiva erogazione. Peraltro, può aver rilievo anche il momento della
restituzione al socio del finanziamento effettuato, soprattutto ai fini della responsabilità di
amministratori e soci e per gli eventuali obblighi restitutori del socio nei confronti della
società fallita. Ma su questi aspetti occorre guardare alla disciplina applicabile ai detti
finanziamenti anomali, fissata al comma 1 dell’art. 2467.

La disciplina della postergazione e della revoca fallimentare del pagamento


La prima regola, di diritto sostanziale, dispone che la restituzione dei “finanziamenti anomali” dei
soci può compiersi esclusivamente in maniera postergata rispetto alle ragioni degli altri creditori
sociali. Ciò non incide sulla qualificazione del credito del socio, ma solo sulla sua esigibilità, che
diventa possibile e doverosa per la società non già alla eventualmente concordata scadenza, ma solo

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quando è assicurata la soddisfazione di tutti gli altri creditori della società (siano essi privilegiati o
anche puramente chirografari).
A questo punto si contrappongono due opinioni:
• Secondo alcuni autori la postergazione può avere modo di manifestarsi solo in una situazione
di liquidazione, volontaria o coattiva, della società o del relativo patrimonio, allorché si
determini uno stato di concorso fra creditori in sede esecutiva. Ciò perché:
o Solo allora ha senso parlare di gradazione delle ragioni dei creditori;
o Durante la vita normale della società quest’ultima non potrebbe legittimamente
rifiutare l’adempimento del credito di restituzione al socio che fosse nel frattempo
pervenuto a scadenza.
• Secondo altri autori la postergazione qualifica il credito di restituzione del socio anche durante
la vita normale della società, nel senso che il pagamento alla scadenza sarà consentito solo se
la società può dimostrare che la situazione patrimoniale, attuale e prevedibile, permetta:
o Non solo il pagamento dei crediti del socio;
o Ma anche il regolare pagamento dei creditori tutti della società, sia quelli antecedenti
alla scadenza del prestito sia di quelli successivi previsti e prevedibili.
Ovviamente una restituzione non conforme a tale prospettazione è fonte di responsabilità per
gli amministratori, e probabilmente anche per il socio nei cui confronti il singolo creditore
leso potrà agire per il risarcimento danni. Ne potrebbero rispondere tutti i soci che avessero
deciso di procedere alla restituzione delle cd. “anticipazioni soci”.
La seconda regola, di diritto fallimentare, dispone che se il rimborso del finanziamento anomalo al
socio è avvenuto nell’anno precedente la dichiarazione di fallimento della società, il relativo importo
deve essere restituito evidentemente al curatore del fallimento, così reintegrando il patrimonio sociale
per la soddisfazione prioritaria degli altri creditori sociali. Gli effetti richiamano l’azione revocatoria
di diritto, nel senso che il curatore potrà limitarsi ad esigere dal socio la restituzione del pagamento
provando che esso è avvenuto nell’atto antecedente la dichiarazione di fallimento anche solo con una
iniziativa stragiudiziale.
Peraltro, ciò non esclude il concorso di altre possibili azioni revocatorie fallimentari in generale ai
pagamenti compiuti dal fallito. Si pensi a:
• La revocatoria dei pagamenti di debiti liquidi ed esigibili ricompresi fra i c.d. “atti normali”,
che diventano inopponibili alla massa dei creditori se compiuti nei 6 mesi che precedono la
sentenza dichiarativa di fallimento e a condizione che il curatore fornisca la prova della
conoscenza da parte del terzo dello stato di insolvenza della società;
• La revocatoria di diritto dei pagamenti anticipati dei debiti che scadono contestualmente alla
data di dichiarazione del fallimento o posteriormente e che siano stati eseguiti nei due anni
precedenti.
È possibile che sia più agevole per il curatore l’esercizio di queste due azioni, a seconda delle
circostanze, dovendo egli fornire la prova della anomalia del finanziamento del socio al momento del
suo insorgere o della sua erogazione per invocare la revocatoria di diritto ex art. 2467.
Ritengo che il socio, che abbia restituito alla curatela quanto in maniera inopponibile alla massa gli
sia stato restituito, abbia poi diritto di insinuarsi al passivo ex art. 70, co. 2, l. fall., ma ovviamente il
suo credito resta postergato alla soddisfazione di tutti gli altri creditori sociali.

Ambito di applicazione della speciale disciplina ex art. 2467 c.c. La disposizione sui “gruppi”
(art. 2497-quinquies) e la disposizione sulle soluzioni negoziate dalla crisi di impresa (art.
182quater l. fall.)
Un ulteriore problema che solleva la disciplina recata dall’art. 2467 è se essa sia espressiva di un
principio generale che vada al di là del tipo s.r.l., nella cui specifica sede è dettata, o debba

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considerarsi di stretta interpretazione senza potersi estendere al di là delle ipotesi indicate. La
questione è complicata dalla presenza di disposizioni addirittura di segno opposto.
• Da un canto l’art. 2497-quinquies in tema di gruppi societari prevede che “ai finanziamenti
effettuati a favore della società da chi esercita attività di direzione e coordinamento nei suoi
confronti o da altri soggetti ad essa sottoposti si applica l’art. 2467”;
• D’altro canto, l’art. 182-quater in tema di concordato preventivo e di accordi di
ristrutturazione dei debiti prevede che “in deroga agli art. 2467 e 2497-quinquies del codice
civile, il primo e il secondo comma del presente articolo si applicano anche ai finanziamenti
effettuati dai soci fino alla concorrenza dell’80% del loro ammontare. Si applicano i commi
primo e secondo quando il finanziatore ha acquisito la qualità di socio in esecuzione
dell’accordo di ristrutturazione dei debiti o del concordato preventivo”, e cioè i finanziamenti
dei soci diventano addirittura “prededucibili” rispetto ad altri creditori concorsuali.
Quanto precede suggerisce di distinguere i finanziamenti dei soci che si realizzano nel corso della
vita normale della società da quelli che sono collegati alle soluzioni negoziate della crisi di impresa.

L’art. 2497-quinquies è certamente norma che amplia l’ambito di applicazione della disciplina sui
finanziamenti anomali dei soci anche a tipi societari diversi dalla s.r.l., nella misura in cui essi
facciano parte di un gruppo e ricevano finanziamenti da un socio particolare, cioè dalla società che
su di essi esercita direzione e coordinamento ovvero da una società sottoposta a comune direzione e
coordinamento (c.d. società sorella).
Autorevole dottrina ritiene che l’art. 2467 contenga un principio generale di diritto dell’impresa teso
a stabilire una regola di corretto finanziamento dell’impresa medesima e perciò estensibile ad ogni
altra tipologia societaria. L’opinione maggioritaria si interroga, invece, sulla ratio delle disposizioni
dettate in via specifica per le s.r.l. e per società soggette a direzione e coordinamento.
Sotto questo secondo profilo si tende a giustificare la particolare disciplina dei finanziamenti anomali
dei soci nella s.r.l. in ragione degli estesi poteri di informativa che il singolo socio può attivare in
tale tipologia societaria ai sensi dell’art. 2476, poteri che gli consentono di accedere in ogni tempo ad
ogni documentazione societaria e di ottenere dagli amministratori tutti le informazioni utili a valutare
la situazione patrimoniale e finanziaria della società e a rendersi conto del livello di effettiva
capitalizzazione della società.
Quanto ai finanziamenti effettuati da soggetti esercenti direzione e coordinamento nei gruppi societari
o da società sorelle, la speciale disciplina troverebbe fondamento nella posizione di controllo del
socio, che:
• Per un verso è in grado di ottenere di fatto informativa sullo stato delle società controllate dai
relativi amministratori;
• Per altro verso è in grado di incidere sulle decisioni gestorie di tali società.
Tutto ciò rende estremamente problematica l’applicazione analogica della disciplina speciale dettata
dall’art. 2467 al di fuori del tipo s.r.l. e delle situazioni di direzione e coordinamento. Anche nella
S.p.A. “chiusa” il singolo socio non gode di poteri di informativa cosi ampi come nella s.r.l.; e tutt’al
più potrà estendersi quella disciplina al finanziamento anomalo compiuto dal socio controllante in
analogia con quanto previsto dall’art. 2497-quinquies o dal socio accomandatario nella s.a.p.a.
Escludo, peraltro, che quella disciplina possa estendersi alle società cooperative, non solo per
l’impossibilità che un socio ivi possa assumere posizioni di dominio, considerato il principio del voto
per testa, ma anche per i limiti quantitativi imposti alla sottoscrizione delle quote o azioni per ciascun
socio e per il carattere fisiologico che in esse possono assumere i finanziamenti stessi dei soci.
In una logica diversa si muove l’opposta regola della prededucibilità dei crediti da finanziamento
all’impresa in crisi già conclamata e ufficializzata ed effettuato anche dai soci in esecuzione di un
concordato preventivo o di un accordo di ristrutturazione dei debiti omologati o in funzione delle
relative domande a condizione, in questi casi, che:

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• Il finanziamento sia previsto nel piano;
• Il Tribunale abbia disposto la prededuzione nel provvedimento di ammissione alla procedura
del concordato o nel provvedimento di omologazione dell’accordo di ristrutturazione. La
funzione della prededucibilità ha carattere incentivante rispetto ai possibili finanziatori
dell’impresa in crisi. Questa incentivazione tocca:
• Gli stessi soci, che così dimostrano agli altri creditori di essere i primi a credere nel piano
presentato ed eventualmente omologato. Ai soci che sono tali al momento dell’insorgere della
crisi l’incentivo è dato nei limiti dell’80% del finanziamento effettuato, dovendo per il residuo
20% correre comunque il rischio della postergazione;
• L’incentivo alla prededuzione si estende invece all’intero finanziamento in favore del terzo
che diventi socio proprio per effetto dell’esecuzione del concordato o dell’accordo.

Capitolo VI Le basi finanziarie: i titoli di debito

I presupposti per l’emissione dei titoli di debito: previsione statuaria e sottoscrizione di


intermediari finanziari professionali vigilati
L’art. 2483, stranamente collocato nella Sezione V dedicata alle “modificazioni dell’atto costitutivo”,
disciplina il terzo pilastro della struttura finanziaria della s.r.l., sempre facendo ampio spazio
all’autonomia corporativa e demandando all’atto costitutivo l’opzione per la introduzione dell’istituto
dei “titoli di debito” nella regolamentazione della specifica società.
Se l’atto costitutivo lo prevede, la società può emettere titoli di debito. In tal caso l’atto costitutivo
attribuisce la relativa competenza ai soci o agli amministratori determinando gli eventuali limiti, le
modalità e le maggioranze necessarie per la decisione.
Si tratta dell’apertura della s.r.l. a forme di finanziamento esterno e sistematiche, di cui sino alla
riforma del 2003 potevano godere esclusivamente le S.p.A. o altri enti attraverso l’emissione delle
obbligazioni (titoli incorporanti diritti di credito conseguenti alla sottoscrizione di prestiti di massa e
naturalmente destinati alla circolazione).
Tra i titoli di debito e le obbligazioni societarie sussistono alcune similitudini ma anche molte
differenze.
1. Il primo presupposto che legittima l’emissione dei titoli di debito è la previsione statuaria. La
clausola autorizzatoria, oltre che consentire l’emissione, sembra dover regolare competenza e
contenuto della decisione. Nella S.p.A. la competenza all’emissione delle obbligazioni è
attribuita per legge all’organo amministrativo. Tuttavia, lo statuto può prevedere diversamente
(eccetto che per le obbligazioni convertibili in azioni, per la cui la emissione è necessaria la
deliberazione dell’assemblea straordinaria, e ferma la possibilità di delega da questa agli
amministratori). Inoltre, è sempre la legge a disciplinare i contenuti principali della decisione.
2. Il secondo presupposto riguarda i soggetti legittimati alla sottoscrizione di tali titoli in fase di
emissione. “I titoli emessi ai sensi dei precedenti commi possono essere sottoscritti soltanto da
investitori professionali soggetti a vigilanza prudenziale a norma delle leggi speciali. In caso
di successiva circolazione dei titoli di debito, chi li trasferisce risponde della solvenza della
società nei confronti degli acquirenti che non siano investitori professionisti, ovvero soci della
società medesima.” La legge introduce un vincolo che limita la categoria dei sottoscrittori ai
soli investitori professionali soggetti a vigilanza prudenziale, pur senza impedire la successiva
circolazione dei detti titoli. Nella S.p.A. sussistono limiti quantitativi all’emissione, ma non
limiti soggettivi in merito ai sottoscrittori e alla successiva circolazione. Gli ultimi commi
ritornano sul contenuto della decisione, richiedendo che essa disciplini “le condizioni del
prestito e le modalità del rimborso” e che possa anche prevederne la modificabilità “previo
consenso della maggioranza dei possessori dei titoli”; e che di detta decisione venga data
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pubblicità entro 30 giorni, a cura degli amministratori, mediante iscrizione nel Registro delle
imprese. Vengono infine fatte “salve le disposizioni di leggi speciali relative a particolari
categorie di società e alle riserve di attività”.

Tipologia dei titoli di debito e contenuto della clausola statuaria


Il primo problema interpretativo che solleva la disciplina dei titoli di debito riguarda la tipologia dei
titoli che possono essere emessi. La dottrina appare piuttosto divisa:
• Secondo alcuni autori, potendosi i titoli di debito assimilare alle obbligazioni societarie,
devono essere considerati alla stregua di titoli di massa che possono essere emessi in serie
con identico taglio e contenuto, al limite fatte salve le differenze fra diverse emissioni. Si
tratterebbe allora di titoli di credito causali e a letteralità incompleta;
• Altri autori considerano possibile l’emissione di titoli individuali, analoghi alle cambiali
finanziarie, commisurati alle esigenze e disponibilità dei singoli investitori professionali
presso cui i titoli sono originariamente collocati;
• Altri ancora riconoscono alla società un’ampia libertà nella fase di emissione, non solo in
merito alla contestuale creazione di titoli di massa e titoli individuali, ma anche in merito alla
successiva circolabilità o meno degli stessi, nel senso che la caratteristica della circolabilità
non appare necessaria, potendosi creare anche titoli impropri o di mera legittimazione, come
tali non incorporanti il diritto di credito.
A me pare che si debba riconoscere un’ampia libertà alla s.r.l. nella emissione delle tipologie dei titoli
di debito. La materia è regolata, oltre che dall’art. 2483, anche da una deliberazione del Comitato
interministeriale per il credito e il risparmio (CIRC), n. 1058 del 19 luglio 2005.
Il provvedimento del CIRC fissa i limiti entro cui può essere effettuata la raccolta di risparmio
mediante acquisizione di fondi con obbligo di rimborso da soggetti diversi dalle banche. I titoli di
debito sono ivi qualificati “strumenti finanziari di raccolta del risparmio”. Essi sono emessi con un
taglio minimo unitario non inferiore ad € 50.000. Ma tale minimo non impedisce che i titoli possano
emettersi in serie o anche in via individualizzata, né che se ne possa impedire la successiva
circolazione se non nelle forme proprie della cessione del contratto piuttosto che del titolo di credito.
Quanto alla clausola statutaria che ne prevede l’emissione, il suo duplice contenuto è certamente
essenziale sotto il profilo autorizzatorio, ma sembra meno essenziale relativamente alla
individuazione dell’organo competente e al contenuto decisorio.
L’assenza della clausola autorizzatoria si traduce in un limite legale al potere gestorio degli
amministratori o al potere decisionale dei soci, con la conseguenza che la violazione di tale limite da
parte degli amministratori determinerebbe l’inopponibilità della decisione e delle conseguenti
sottoscrizioni alla società e agli altri terzi, creditori sociali compresi, non trovando applicazione l’art.
2475-bis, comma 2.
La responsabilità risarcitoria dovrebbe far capo agli amministratori che hanno agito in difetto di
potere rappresentativo e gestorio e, ove la società si fosse arricchita indebitamente con l’emissione
dei titoli, al terzo sottoscrittore potrebbe spettare anche un’azione di indebito arricchimento nei
confronti della società onde conseguire la restituzione delle somme eventualmente versate.
Dunque, sono due le forme di tutela azionabili dai terzi sottoscrittori:
1. Il risarcimento del danno da parte degli amministratori che hanno agito in violazione di un
limite legale al loro potere gestorio e di rappresentanza;
2. L’azione per indebito arricchimento nei confronti della società nei limiti in cui questa si
avvantaggia dell’emissione dei titoli di debito.
La clausola statutaria dovrebbe anche stabilire l’organo competente ad adottare la decisione. Secondo
la dottrina, la clausola potrebbe prevedere non solo la competenza esclusiva di uno degli organi, ma
anche una competenza congiunta o disgiunta di amministratori e soci.

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Il problema più spinoso è stabilire cosa accada se questo secondo contenuto disciplinare della clausola
statutaria sia del tutto assente. La dottrina appare divisa, in quanto:
• Secondo alcuni autori, il silenzio dell’atto costitutivo in merito alla individuazione
dell’organo competente comporterebbe la nullità dell’eventuale emissione;
• Secondo altri, si dovrebbe colmare la lacuna mediante un processo interpretativo sistematico.
o Alcuni autori ritengono applicabile per analogia la disciplina della S.p.A.: gli
amministratori sarebbero competenti ad emettere titoli di debito. Questa tesi appare preferibile, in
ragione del fatto che i soci sono soggetti che subiscono l’indebitamento. Indicativo di una competenza
che si incardina sui soci, nel silenzio dell’atto costitutivo, è il fatto che ai fini dell’emissione dei titoli
di debito è necessaria una clausola statuaria autorizzatoria, il che dimostra che non siamo di fronte ad
un ordinario atto di natura gestoria.

Assenza di limiti quantitativi e responsabilità solidale e sussidiaria dell’intermediario


professionale
La disciplina legale non prevede limiti quantitativi alla emissione dei titoli di debito, a differenza
di quanto avviene nelle S.p.A., dove l’art-2412 sancisce che non possono emettersi obbligazioni “per
somma complessivamente non eccedente il doppio del capitale sociale, della riserva legale e delle
riserve disponibili risultanti dall’ultimo bilancio approvato”.
Tale limite, che impone un rapporto tra mezzi propri e mezzi di terzi, è superabile in varie circostanze.
La ragione dell’assenza di limiti quantitativi per la s.r.l. probabilmente è da ricercarsi nella
circostanza che i titoli di debito sono sottoscritti da investitori professionali i quali valutano, al
momento della emissione e della sottoscrizione, l’opportunità di una certa entità di emissione dei
titoli in relazione alla capacità di assorbimento del mercato. Il limite è dunque rimesso al giudizio
professionale degli investitori professionali chiamati a rispondere della solvenza della società in caso
di successiva circolazione.
In questa eventuale fase di circolazione, i titoli potranno pervenire nelle mani di altri investitori
professionali o di soci o di terzi, il che non è senza rilievo sulla responsabilità sussidiaria
dell’originario sottoscrittore. Questi, infatti, risponde della solvenza della società solo nei confronti
di terzi, non anche di altri investitori professionali o di soci.
L’analoga disposizione dettata per le spa non esclude la responsabilità sussidiaria nei confronti dei
soci, il che è conseguenza dei diversi poteri di controllo che sono riconosciuti ai soci di s.r.l., molto
penetranti e diretti (mentre quelli dei soci di S.p.A. sono blandi e intermediati). L’investitore risponde
per l’intero importo del titolo, e non solo nei limiti di quanto ricevuto oltre spese e interessi. La
circolazione del titolo può riguardare, oltre all’investitore professionale originario, anche altri
investitori professionali. Ci si è chiesto se la responsabilità sussidiaria nei confronti del portatore
finanziario del titolo per l’insolvenza della società ricada esclusivamente sul sottoscrittore originario
o sull’ultimo investitore professionale o anche solidamente su ciascun investitore professionale
coinvolto nella circolazione.
• Secondo alcuni, la responsabilità ricade esclusivamente sul primo investitore professionale
sottoscrittore, in quanto ha consentito il ricorso al finanziamento esterno da parte della s.r.l.;
• Secondo altri, la responsabilità ricadrebbe anche sui successivi investitori professionali in
maniera solidale.
La decisione di emissione dei titoli di credito deve anche fissare le condizioni del prestito, comprese
le modalità di rimborso, condizioni che sono pubblicizzate mediante l’iscrizione della decisione nel
Registro delle imprese. La pubblicità assume valore di pubblicita dichiarativa, per cui, una volta
adottata la decisione, gli amministratori possono già metterla in esecuzione e l’iscrizione nel Registro
delle imprese serve a rendere possibile un completamento della conoscenza delle condizioni del
prestito stesso da parte dei terzi. Non è detto che il titolo di debito che circola contenga l’indicazione
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di tutti questi elementi, potendo rinviare ai dettagli contenuti nella decisione pubblicata nel Registro
delle imprese (letteralità del titolo per relationem).
La decisione può anche regolare l’eventuale modifica di tali condizioni, ma essa presuppone il
consenso della maggioranza dei possessori di titoli.

Leggi speciali e norme agevolative


L’ultimo comma dell’art. 2343 fa salve le disposizioni di leggi speciali riferite a “particolari categorie
di società” o a riserve di attività. La norma non sembra avere uno specifico valore precettivo
limitandosi a rinviare alla legislazione speciale che deroga o potrebbe derogare alle condizioni dettate
dall’art. 2343.
Ancora più di recente alcuni provvedimenti legislativi hanno ulteriormente rafforzato la possibilità di
accesso al mercato del capitale di credito per le società non quotate in mercati regolamentati, società
di medie e piccole dimensioni che non siano banche o microimprese. Tali società, che possono
rivestire la forma della S.p.A. o della s.r.l. o di cooperative, sono legittimate ad emettere
rispettivamente obbligazioni o titoli di debito o strumenti finanziari partecipativi.
Capitolo VII La partecipazione sociale o quota

La quota o partecipazione nella s.r.l. Caratteri tipologici e principio di unitarietà della quota
La partecipazione sociale nella s.r.l. è disciplinata dagli artt. 2468-2474. Queste norme:
• Si occupano del contenuto della partecipazione sociale;
• Regolano le vicende circolatorie della partecipazione, partendo dal principio della libera
trasferibilità come elemento naturale, ma disponibile dalla diversa volontà dei soci;
• Introducono un divieto assoluto di operazioni sulle quote;
• Si occupano delle vicende estintive della partecipazione per recesso ed eventuale esclusione.
Innanzitutto, una precisazione terminologica: il legislatore utilizza indifferentemente il
termine quota o partecipazione; la rubrica dell’art. 2468 fa riferimento alle “quote di
partecipazione”, mentre nel corpo della norma si parla di “partecipazioni sociali” o di
“partecipazione” tout court.
• La “partecipazione sociale” indica la posizione del socio come parte del contratto sociale;
• La “quota” indica la frazione del capitale sociale che ricade nella titolarità del socio.
Evidentemente le due espressioni finiscono per indentificare lo stesso fenomeno.
L’art. 2468 individua due caratteri tipologici della partecipazione sociale:
1. Il primo carattere esclude che la partecipazione del socio possa essere rappresentata da azioni,
possa cioè essere incorporata in un documento destinato alla circolazione;
2. Il secondo carattere esclude che la partecipazione possa essere oggetto di sollecitazione al
pubblico risparmio, oggetto cioè di una “offerta al pubblico di prodotti finanziari”.
I due requisiti convergono verso una personalizzazione della partecipazione sociale legando la quota
sociale alla persona del singolo socio.
La prima connotazione della quota si traduce in due profili:
• La quota non può essere incorporata in un titolo di credito destinato alla circolazione, come
accade invece per le azioni. Potrebbe anche essere documentata da un certificato che i notai
sono soliti rilasciare, ma sarebbe solo un documento di legittimazione. Il che significa che
non basta la trasmissione del certificato per determinare il trasferimento della partecipazione
sociale. La partecipazione circola con lo scambio dei consensi tra alienante e acquirente;
• La quota di una s.r.l. ha carattere unitario, non corrisponde come l’azione ad una porzione
uguale e ulteriormente indivisibile del capitale sociale in cui esso è a priori frazionato, per
cui l’azionista è titolare di tanti quanta del capitale sociale. Nella s.r.l. il meccanismo è quello
dell’attribuzione di una quota unica e unitaria alla persona del socio.

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Una delle caratteristiche fondamentali della quota o della partecipazione sociale nella s.r.l. è dunque
il carattere unitario che la quota ha nei confronti del socio, nel senso che ogni socio ha solo una
quota della s.r.l., quale che sia il suo ammontare, legata complessivamente alla sua persona (c.d.
principio di unitarietà della quota)
Ciò deriva dal differente rilievo che assume la persona del socio nella s.r.l. rispetto alla S.p.A.
• Nella S.p.A. il socio non vale come persona, ma come investitore che possiede tante azioni; •
Nella s.r.l. la quota è unica in capo alla persona del singolo socio, e la sua entità esprime il
“peso” del socio in proporzione all’intero capitale sociale. Il principio di unitarietà solleva
però dei problemi.
1. Sorge innanzitutto la questione della divisibilità o indivisibilità naturale della quota in fase di
circolazione, quando cioè si debba procedere all’alienazione della quota a terzi o alla
successione mortis causa. In particolare, nel caso di successione ereditaria e in presenza di
una pluralità di eredi, ci si chiede se la quota debba cadere in comunione fra gli eredi o se sia
possibile dividere tra i singoli eredi la partecipazione, con la conseguenza che la società deve
subire l’esercizio dei diritti connessi non da uno ma da più soci.
Si ritiene che il principio di unitarietà non possa essere interpretato nel senso di impedire la
normale circolazione della partecipazione.
Al momento in cui si verifica un evento circolatorio, il socio può scindere la propria quota
alienandola a terzi in maniera parziale e comunque divisa.
Analogamente, si dovrà ritenere divisibile la quota del defunto fra più eredi. Il tutto sempre
che non sia previsto diversamente da una clausola dell’atto costitutivo.
Ove l’atto costitutivo preveda la indivisibilità, il trasferimento a più terzi avverrà in
comproprietà. Il problema ha rilievo pratico nel caso della successione mortis causa, quando
la quota di partecipazione ricade nella comunione ereditaria a favore quindi di più eredi. Gli
eredi acquistano la titolarità in comproprietà e devono quindi procedere ad una divisione della
quota o l’acquistano già divisa, per cui ognuno è titolare di una parte uguale della
partecipazione sociale che faceva capo al de cuius? Se la regola è quella della divisibilità in
fase di trasmissione, l’acquisto si verifica già in parti divise.
2. Un ulteriore problema che solleva il principio di unitarietà è dato dalla possibilità o meno di
un esercizio frazionato dei diritti sociali. In particolare, si ritiene che non sia consentito il “voto
divergente da parte del socio”, per cui con una data percentuale della quota si voti in una direzione e
con altra percentuale della medesima quota si voti in senso opposto. Il voto divergente è invece
ammesso nella S.p.A., ove è altresì ammesso il recesso parziale. Peraltro, alcuni autori sembrano
ammettere il recesso parziale anche nella s.r.l., mentre altri sono decisamente contrari, facendo leva
sul principio di unilateralità della quota. A mio avviso, ritengo ammissibile una clausola statuaria che
legittimi nella s.r.l. il recesso parziale. La seconda caratteristica tipologica esclude che la
partecipazione sociale nella s.r.l. possa essere oggetto di sollecitazione al pubblico risparmio. Questo
fa della s.r.l. una società chiusa, tendenzialmente a ristretta base sociale, che rende impossibile
l’esistenza di un mercato del capitale di rischio per la s.r.l., sollevando il problema di come si possa
attribuire alla partecipazione di s.r.l. un “valore di mercato”. Ciò nonostante, la regola di default in
materia di circolazione delle partecipazioni di s.r.l. è quella della loro libera trasferibilità, regola
analoga a quella che si applica nella S.p.A., che contribuisce a collocare il tipo s.r.l. comunque tra i
tipi societari capitalistici.

Il principio di proporzionalità e le sue deroghe


Accanto al principio di unitarietà si colloca il principio di proporzionalità, pur sempre avente
carattere naturale e perciò disponibile.
• La quota è di regola proporzionale al conferimento effettuato da ciascun socio, e i diritti sociali
sono anch’essi proporzionali al peso della partecipazione sociale;

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• Il conferimento determina proporzionalmente il peso della partecipazione sociale, e il peso
della partecipazione sociale determina a sua volta il peso dei diritti collegati alla
partecipazione sociale, dei diritti sociali che spettano al singolo socio;
Tuttavia, l’atto costitutivo può introdurre la non proporzionalità della quota rispetto al
conferimento effettuato con una sola limitazione: il valore complessivo dei conferimenti non
può mai essere inferiore al valore globale del capitale sociale nominale (art. 2464).
• Può esservi altresì la non proporzionalità tra quota e diritti attribuiti ai singoli soci, nel senso
che “resta salva la possibilità che l’atto costitutivo preveda l’attribuzione a singoli soci di
particolari diritti riguardanti l’amministrazione della società o la distribuzione degli utili”.
Ne deriva che, in via di principio, i diritti amministrativi e i diritti patrimoniali che discendono
dal possesso della quota sono proporzionali al peso della quota stessa rispetto al capitale
sociale, ma l’atto costitutivo può attribuire al socio diritti particolari che posso avere sia
natura amministrativa che patrimoniale.

Natura giuridica della quota come “bene mobile immateriale”


La natura giuridica della quota o partecipazione sociale nella s.r.l. è sempre stata molto discussa:
attualmente l’opinione prevalente qualifica la quota di s.r.l. come “bene giuridico immateriale”.
Quanto alla natura giuridica della quota, nel corso del tempo sono state sostenute molte opinioni.
1. Secondo una prima tesi, la quota di s.r.l. si riduce ad un “diritto di credito del socio verso la
società di natura essenzialmente patrimoniale”. Ma la tesi appare riduttiva, perché dimentica
di dare rilievo a tutti gli altri diritti discendenti dalla partecipazione sociale;
2. Una seconda opinione ravvisa nella quota di s.r.l. l’espressione dello status di socio,
comprensivo dei diritti e obblighi che fanno capo al socio per la sua adesione al contratto di
società. In sostanza la quota si identifica nella posizione contrattuale del socio con la
conseguente applicazione della disciplina della “cessione del contratto” nel caso di
circolazione della quota ai sensi dell’art. 1406 e la necessità di acquisire ogni volta il consenso
di tutte le altre parti contraenti. Anche questa tesi può considerarsi superata, poiché
incompatibile con la disciplina positiva che parte dal principio della naturale libera
circolazione della quota di s.r.l. senza necessità di acquisire il consenso di tutti i soci;
3. Una terza opinione individua nella quota un “unico diritto patrimoniale sui generis”, cui
accedono come situazioni strumentali i diritti amministrativi e le posizioni organiche del
socio. Anche questa tesi appare inaccettabile, perché si riduce ad una descrizione degli effetti
ricollegati alla partecipazione sociale senza offrire giusto rilievo ai diritti amministrativi;
4. Da ultimo la quarta tesi, divenuta prevalente, vede nella quota di s.r.l. un “bene giuridico
immateriale” che, non potendo essere incorporato in una res, rappresenta situazioni
immateriali. In questo senso si era già espressa la Cassazione nel 1986, affermando che la
partecipazione in una s.r.l. va considerata come una “situazione unitaria soggettiva di ciascun
socio nell’organizzazione societaria e che assume la consistenza di una individualità
ontologica oggettiva rispetto alla quale ciascun socio si trova in una situazione oggettiva di
appartenenza”. Si tratta di un bene che appartiene al singolo socio: la quota non è incorporata
in un documento, una res, come accade per l’azione, ma è pur sempre un bene, benché
immateriale, cui si applica la disciplina giuridica dei beni materiali.
Ulteriore conferma ci offre il diritto positivo che, con la riforma del 2003, ha espressamente
previsto che la partecipazione di s.r.l. è possibile oggetto di “pegno, usufrutto e sequestro”
nonché di espropriazione forzata. Attualmente l’art. 2472 dispone che “la partecipazione può
formare oggetto di espropriazione” e che “il pignoramento si esegue mediante notificazione
al debitore e alla società e successiva iscrizione nel registro delle imprese”.
5. Questa circostanza ha dato luogo alla elaborazione di una quarta tesi, che ravvisa nella quota
della s.r.l. un “bene mobile immateriale sui generis iscritto in pubblici registri” alla stregua di

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beni mobili registrati. Ma il Registro delle imprese non è equiparabile al registro dei beni
mobili soggetti a registrazione. È certamente un pubblico registro, ma l’art. 2470 valorizza
l’elemento della buona fede nel conflitto fra più acquirenti della stessa quota, richiedendo che
la prevalenza di chi abbia per primo iscritto l’atto di trasferimento si determina nel concorso
della buona fede. L’art. 2684 (beni mobili registrati), invece, prescinde dalla buona fede.
Si conferma così la tesi che individua nella partecipazione sociale di s.r.l. un bene mobile immateriale.

I diritti particolari del singolo socio: attribuzione o modifica; contenuto; eventuale circolazione
Occorre soffermarsi su tre aspetti specifici relativi ai “diritti particolari” dei soci, che possono
rompere l’equilibrio del principio di proporzionalità. Si tratta di verificare:
• Quali regole disciplinano l’attribuzione e la modifica dei diritti particolari;
• Quale possa essere il loro contenuto;
• Se sia possibile una loro eventuale circolazione.
La possibilità di attribuire al singolo socio diritti particolari determina una forte personalizzazione
della partecipazione sociale, che solleva la questione di fondo se essi facciano parte della quota
sociale in quanto tale o siano posizioni proprie del socio, con la conseguenza che non possono
disgiungersi dalla sua persona e non possono essere trasferiti a terzi. L’opinione prevalente va nella
seconda direzione segnalata.
Distinzione dei diritti individuali
In primo luogo, occorre distinguere tra “diritti particolari” e “diritti individuali”:
• I diritti individuali venivano concepiti come diritti immodificabili dall’organizzazione
corporativa, appunto come veri e propri diritti soggettivi dei singoli soci; una eventuale loro
disposizione da parte della società mediante una deliberazione assembleare o amministrativa
dava luogo non tanto alla invalidità della delibera ma alla inefficacia della stessa. Trattandosi
di res inter alios acta, la delibera era inefficace a disporre del diritto altrui;
• I diritti particolari non sono assimilabili ai diritti “individuali” dei soci poiché essi sono
collegati alla struttura organizzativa della società, sono posizioni corporative attribuite al
singolo socio. La loro creazione e la loro modificazione è strettamente connessa alle regole di
organizzazione corporativa della società.
Quanto alla attribuzione dei diritti particolari, è necessaria l’unanimità dei consensi dei soci. Il
problema si pone in sede di modifica dell’atto costitutivo preesistente; le modifiche sono riservate
all’assemblea dei soci, che delibera con il quorum costitutivo e deliberativo pari alla metà del capitale
sociale. Lo statuto potrebbe introdurre maggioranze più qualificate per le modifiche statutarie. Può
valere lo stesso principio maggioritario anche per le successive attribuzioni di diritti particolari ai
singoli soci? Ritengono che anche in questo caso debba applicarsi il principio di unanimità, come può
ricavarsi dal comma 4 dell’art. 2468, secondo cui “salvo diversa disposizione dell’atto costitutivo e
salvo quanto previsto dall’art. 2473, i diritti previsti dal precedente comma possono essere modificati
solo con il consenso di tutti i soci”. È vero che la disposizione si riferisce all’ipotesi di modifica del
diritto particolare già attribuito; ma credo che a maggior ragione il principio di unanimità debba
affermarsi in fase costitutiva del diritto e non solo di successiva modifica o cancellazione.
Il legislatore tende a considerare questo diritto come una “posizione corporativa” voluta da tutti i soci
come elemento essenziale dell’assetto organizzativo della compagine societaria.
Si tratta di regola disponibile dalla diversa clausola statutaria; il che solleva l’ulteriore problema della
tutela del socio titolare del diritto particolare in presenza di una clausola coeva che legittimi una
modifica/cancellazione a maggioranza. Dico “coeva” perché ritengo che la clausola maggioritaria,
che dovesse introdursi dopo la già avvenuta attribuzione di diritti particolari, esige l’unanimità. La
tutela del socio non è di tipo invalidante l’avversa decisione maggioritaria dei soci, ma è raggiunta
con l’attribuzione al socio dissenziente del diritto di recesso ex art. 2473, che viene espressamente
richiamato. Tale diritto è riconosciuto al socio che si trovi di fronte ad una rilevante modificazione
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dei diritti attribuiti ai soci a noma dell’art. 2468. Il recesso spetta ad ogni socio dissenziente, non solo
al titolare della posizione modificata/cancellata. Ovviamente, la cancellazione del diritto è certamente
da considerare “rilevante modificazione”.
Le modifiche, peraltro, possono essere di due distinte tipologie:
• Modifiche dirette, ossia che incidono direttamente sulla configurazione statutaria del diritto
particolare, che esigono l’unanimità dei consensi salvo diversa clausola statutaria, allora con
il bilanciamento del recesso in favore dei soci dissenzienti;
• modificazioni indirette, che discendono di fatto dal compimento di operazioni gestorie il cui
effetto si traduce in una alterazione del diritto particolare del singolo socio, pur senza
comportarne la modifica statutaria.
Anche in questa seconda ipotesi, nonostante sussista una sostanziale violazione della regola statutaria,
la decisione gestoria non è da considerarsi invalida, collocandosi la tutela del socio leso e degli altri
soci dissenzienti ancora una volta sul piano del diritto al disinvestimento, cioè del diritto di recesso.
Il legislatore attribuisce la competenza su tali decisioni gestorie non agli amministratori, ma ai soci.
L’art. 2479 dispone che “in ogni caso sono riservate alla competenza dei soci le decisioni di compiere
operazioni che comportano una sostanziale modificazione dell’oggetto sociale determinato nell’atto
costitutivo e una rilevante modificazione dei diritti dei soci”. In sintesi:
• Il principio dell’unanimità per le modifiche dirette è comunque derogabile, introducendovi la
clausola di modifica maggioritaria nel quel caso il socio dissenziente deve poter esercitare il
diritto di recesso in analogia con quanto accade per le modifiche indirette;
• La modifica indiretta, in via di fatto per effetto del compimento di operazioni che violano i
diritti particolari statutari che però non risultano formalmente modificati, sono di norma
adottabili dai soci secondo il principio di maggioranza per le modifiche statutarie, con il
bilanciamento della assegnazione al socio dissenziente del diritto di recesso;
• L’attribuzione e la modificazione, in via diretta e formale, dei diritti particolari segue di noma
il principio della unanimità.

Contenuto
Sul contenuto che i diritti particolari del socio possono assumere, l’art. 2468 è piuttosto laconico, in
quanto si limita a stabilire che essi possono riguardare “l’amministrazione della società o la
distribuzione degli utili”.
L’interpretazione che ne offrono dottrina e giurisprudenza è molto ampia, in quanto vi si
comprendono non solo i diritti inerenti all’amministrazione della società e la distribuzione di utili,
ma anche qualsiasi diritto amministrativo e qualsiasi diritto patrimoniale anche diritti atipici.
Facciamo delle esemplificazioni, partendo dai diritti amministrativi:
a) L’atto costitutivo potrebbe attribuire direttamente ad un socio la carica di amministratore della
società. L’atto costitutivo contiene normalmente la nomina dei primi amministratori, che
tuttavia sono di regola soggetti alla disciplina ordinaria sulla durata e sulla revocabilità della
carica. Bisogna quindi effettuare una adeguata interpretazione dell’atto costitutivo per
stabilire se la carica di amministratore è stata attribuita al socio come “diritto particolare”. In
questa ipotesi, il socio affianca gli altri amministratori ordinari o nominati con ordinaria
decisione dei soci in assemblea o con decisione scritta. È evidente che tale socio
amministratore gode di una posizione più stabile rispetto agli altri amministratori.
Innanzitutto, non sembra possibile una revoca ad nutum da parte della maggioranza dei soci.
Nella S.p.A. l’amministratore è in ogni tempo revocabile, anche senza giusta causa,
considerata la natura fiduciaria del rapporto che lo lega alla società. Il difetto di giusta causa
lo legittima solo ad ottenere il risarcimento dei danni.
L’amministratore di s.r.l., nominato tale per diritto particolare, potrà essere revocato solo per
giusta causa mediante decisione a maggioranza dei soci o anche mediante provvedimento

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giudiziario su istanza anche di un singolo socio. Ad analoghe conclusioni si deve pervenire
quando l’atto costitutivo attribuisce al socio specifici poteri gestori, senza nominarlo
amministratore con poteri di generale gestione della società.
b) L’atto costitutivo potrebbe attribuire ad un socio il potere di nominare direttamente uno o più
o tutti gli amministratori. Si deve ritenere che a colui al quale è attribuito il potere di nomina
deve ritenersi attribuito anche il potere di revoca e anche ad nutum, salvi i rapporti regolati
fra socio titolare del diritto di nomina e il terzo amministratore da lui nominato. Non credo
che il terzo possa insorgere contro la società per far valere un eventuale difetto di giusta causa,
ma dovrà far valere le proprie ragioni, e solo sul piano risarcitorio, nei confronti del socio
titolare del diritto particolare. Anche in questo caso, tuttavia, spetterà sempre alla decisione
dei soci la revoca per giusta causa, così come ogni altro singolo socio potrà provocare la
revoca giudiziale sempre per giusta causa del terzo amministratore.
c) L’atto costitutivo potrebbe attribuire ad un socio, che pure non sia in possesso di una quota
pari almeno ad 1/3 del capitale sociale, il potere di chiedere la devoluzione della trattazione
di determinati argomenti di carattere gestorio o comunque di qualsiasi argomento;
d) La clausola statutaria potrebbe attribuire al socio il potere di veto al compimento di
determinate operazioni gestorie o il diritto ad essere componente dell’organo di controllo.
Facciamo ora delle esemplificazioni in tema di diritti patrimoniali:
a) L’atto costitutivo potrebbe attribuire al singolo socio diritti alla distribuzione degli utili in via
privilegiata e secondo una data percentuale rispetto agli altri soci, e ciò a prescindere dalla
decisione di distribuzione dell’utile;
b) L’atto costitutivo potrebbe attribuire al singolo socio anche un privilegio nella liquidazione
della quota in caso di scioglimento della società;
c) La clausola statutaria potrebbe consentire che il socio partecipi in via postergata al
ripianamento delle perdite in sede di riduzione del capitale per perdite;
È molto discusso, invece, se si possa dar vita a vere e proprie categorie di soci dotate di diritti
amministrativi e patrimoniali differenziati, come accade nelle S.p.A. Alcuni ritengono che ciò
contrasti con il dato letterale che parla di “particolari diritti” del socio e non di categorie di soci.
L’opinione prevalente, tuttavia, sembra di diverso avviso.
Anche sulla configurabilità di diritti particolari atipici esistono diversità di opinioni. In particolare,
ci si chiede se possa attribuirsi al singolo un diritto di recesso ad nutum, dall’esercizio cioè
assolutamente discrezionale e senza motivazione; o ancora un diritto di sottoscrizione dell’aumento
di capitale a prescindere dalla sottoscrizione di altri soci; o se possano annettersi quaote a voto
plurimo o a voto limitato.

Circolazione?
Da ultimo occorre affrontare il problema della eventuale circolazione dei diritti particolari, sia
unitamente alla quota, sia separatamente dalla quota. Posto che tali diritti sono attribuiti alla persona
del singolo socio, non sembra concepibile una loro separata circolazione dalla quota ma anche
unitamente alla quota. L’eventuale trasferimento a terzi della quota deve considerarsi certamente
possibile, ma comporta l’estinzione dei diritti particolari collegati. Potrebbe, ciononostante, l’atto
costitutivo prevedere la trasferibilità dei diritti particolari unitamente alla quota, derogando anche alla
regola del consenso unanime dei soci.

Le vicende circolatorie della partecipazione sociale. Il principio della libera trasferibilità e le


sue limitazioni
Le partecipazioni sociali di s.r.l. sono di regola liberamente trasferibili, sia per atto tra vivi, sia mortis
causa. Ma il principio della libera trasferibilità è derogabile dalla diversa volontà dei soci espressa
con apposita clausola statutaria.

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Si è soliti distinguere almeno quattro tipologie di clausole che pongono limiti alla libera circolazione
delle quote di srl:
1. La clausola di intrasferibilità assoluta;
2. La clausola di trasferibilità subordinata al mero gradimento;
3. La clausola di trasferibilità subordinata al mero gradimento motivato; 4. La clausola di
prelazione.
Se ne può aggiungere una quinta tipologia, di recente entrata nella prassi, e cioè le clausole di
convendita (c.d. tag-along) o di trascinamento (c.d. drag-along), che prevendono in caso di vendita
da parte di un socio il diritto e/o l’obbligo dell’altro socio o degli altri soci di vendere contestualmente
le loro partecipazioni.
1. La clausola di intrasferibilità assoluta può avere ad oggetto il trasferimento per atto tra viti
o il trasferimento successorio per causa di morte o entrambi. Per evitare che il socio resti
prigioniero della società, la legge gli attribuisce un diritto di recesso indisponibile da parte
dell’organizzazione societaria. Vi è solo un limite temporale all’esercizio del diritto di
recesso, determinabile con apposita clausola statutaria, ai fine di dare un minimo di stabilità:
il recesso non può essere esercitato prima che sia decorso il termine che può fissarsi in un
massimo di due anni dalla costituzione della società o dall’acquisto di una partecipazione per
“sottoscrizione”, evidentemente in caso di aumento del capitale sociale. Peraltro, si ritiene che
il socio che voglia recedere dalla società in presenza di una clausola di assoluta intrasferibilità,
debba dare alla società un congruo preavviso, scaduto il quale il recesso sarà efficace.
2. La clausola di trasferibilità subordinata al mero gradimento consente la circolazione della
quota a condizione che venga manifestato il consenso (anche) immotivato di un organo sociale
o di altri soci o di terzi, senza che siano posti limiti o condizioni che delimitino la
discrezionalità di quel consenso, o quando vengono posti limiti o condizioni di fatto impeditivi
del trasferimento. Il mancato consenso produce le stesse conseguenze della clausola di
intrasferibilità assoluta. L’art. 2469 dispone che “qualora l’atto costitutivo preveda la
intrasferibilità delle partecipazioni o ne subordini il trasferimento al gradimento di organi
sociali, di soci o di terzi senza prevederne condizioni e limiti, o ponga condizioni e limiti che
impediscono il trasferimento in caso di morte, il socio o i suoi eredi possono esercitare il
diritto di recesso”. In tali casi l’atto costitutivo può stabilire un termine non superiore a 2 anni
dalla costituzione della società o dalla sottoscrizione della partecipazione, prima del quale il
recesso non può essere esercitato. La clausola legittima quindi il socio al diritto recesso.
3. Diversa è la disciplina che governa la clausola di trasferibilità soggetta a gradimento
motivato in base a condizioni oggettive predeterminate (es. clausola che ammetta il
trasferimento mortis causa solo nei confronti degli eredi figli). Si tratta di un gradimento
motivato che delimita le ipotesi di trasferibilità della partecipazione sociale, con la
conseguenza che, se si verificano le condizioni previste nella clausola stessa, il soggetto è
abilitato a trasferire ad altri la propria partecipazione.
Nelle tre ipotesi di intrasferibilità assoluta, trasferibilità subordinata al mero gradimento e
trasferibilità sottoposta a gradimento motivato, laddove non si attivi in concreto il trasferimento il
socio ha la possibilità di uscire dalla società esercitando il diritto di recesso.
4. La clausola di prelazione attribuisce in genere agli altri soci il diritto di rendersi acquirente,
a parità di condizioni, della partecipazione che un socio intenda vendere a terzi. L’eventuale
negozio di trasferimento si ritiene valido tra le parti, ma inopponibile a società e socio
interessato ad esercitare la prelazione, per effetto della collocazione statutaria della clausola
che produce effetti reali a seguito della pubblicazione dell’atto costitutivo nel Registro delle
imprese e che prevale anche se il negozio traslativo fosse depositato a sua volta nel Registro.
Secondo il Consiglio Notarile di Milano sarebbe ammissibile anche una clausola di prelazione

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c.d. impropria, che attribuisce il diritto di acquistare la quota in vendita a un prezzo diverso e
inferiore, anche significativamente, a quello del terzo acquirente, secondo criteri predefiniti o
affidati ad un terzo arbitratore. Nell’ipotesi di prezzo inferiore, spetterebbe al socio alienante
il diritto di recesso.
È discusso, inoltre, se il diritto di prelazione spetti anche nel caso di trasferimenti a titolo
gratuito. Ma mi parrebbe che in tal caso la prelazione sia inapplicabile. Peraltro il Comitato
Notarile Triveneto ritiene legittima la clausola di prelazione anche in caso di trasferimento a
titolo gratuito solo ove siano previsti meccanismi correttivi che consentano al socio che
intendeva trasferire la partecipazione di realizzare il valore economico delle stesse.
5. Particolare rilievo hanno assunto recentemente le clausole di covendita o di trascinamento
note in precedenza più come patti parasociali.
a. Con la clausola di covendita (c.d. tag-along) , il socio (perlopiù di maggioranza) che
intenda vendere la propria quota si obbliga nei confronti degli altri soci (perlopiù di
minoranza) a far sì che il terzo acquirente si impegni ad acquisire alle medesime
condizioni economiche le quote degli altri soci che ritengano a loro volta di alienare
le proprie quote. La natura giuridica del patto è discussa: alcuni la riconducono ad un
mandato conferito dagli altri soci al socio alienante, altri autori ad un preliminare di
vendita in cui il socio alienate si obbliga ad acquistare, per sé o per la persona da
nominare, la partecipazione degli altri soci sotto condizione sospensiva della vendita
della propria quota; altri ancora vi ravvisano una promessa del fatto del terzo.
b. Con la clausola di trascinamento (c.d. drag-along) è il socio non alienante (perlopiù
di minoranza) obbligato ad alienare al terzo acquirente della quota del socio alienante
(perlopiù di maggioranza) alle condizioni da questo pattuito. Anche in tal caso vi è chi
ravvisa un mandato ad alienare conferito al socio alienante e chi vi coglie una opzione
di acquisto a favore del terzo.
Le clausole sollevano dubbi di legittimità e questioni sulla natura parasociale delle stesse.
Al riguardo, e con riferimento più in generale alle clausole cui si è qui discusso, va ricordato
che le citate limitazioni alla circolazione possono essere contenute in patti parasociali
producendo effetti meramente obbligatori tra i paciscenti e il diritto al risarcimento danni
contro il socio/paciscente inadempiente; ovvero nell’atto costitutivo/statuto, cosi rendendosi
opponibili erga omnes per effetto dell’iscrizione nel Registro delle imprese. La relativa
violazione renderà inefficaci gli atti dispositivi verso la società.
Altro problema di carattere generale riguarda le modalità da seguire per l’inserimento o la
modifica/soppressione di tali clausole nell’atto costitutivo: se cioè debba seguirsi la regola
dell’unanimità ovvero la regola delle modificazioni statutarie a maggioranza, sul presupposto che si
tratta pur sempre di posizioni corporative concernenti non tanto il singolo socio ma l’organizzazione
della società.
• Prima della riforma, il tema veniva risolto nel senso più rigoroso dell’unanimità;
• Dopo la riforma, l’art. 2579 (secondo cui “le decisioni dei soci che comportano una rilevante
modificazione dei diritti dei soci vanno adottate in sede assembleare nel rispetto delle maggioranze
per le modifiche statutarie”) fa propendere per la regola maggioritaria. Al di là dei limiti statuari
alla circolazione delle quote di s.r.l., l’art. 2474 dispone che “in nessun caso la società può
acquistare o accettare in garanzia partecipazioni proprie ovvero accordare prestiti o fornire
garanzia per il loro acquisto o la loro sottoscrizione”. Si tratta di un divieto assoluto e inderogabile.
La giustificazione di tale divieto assoluto sembra doversi ricercare nella personalizzazione della
partecipazione sociale nella s.r.l., che impedisce la oggettivizzazione necessaria a sganciarla dalla
persona del socio. La violazione del divieto dovrebbe comportare la nullità dei negozi dispositivi, ma
vi è chi propende per una applicazione analogica dell’art. 2357, secondo cui il negozio dispositivo
resterebbe valido ed efficace ma sorgerebbe al contempo l’obbligo della società di alienare le quote

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secondo modalità fissate dall’assemblea entro un anno dall’acquisto o, in mancanza, di procedere
all’annullamento delle quote con corrispondente riduzione del capitale sociale. Tale riduzione
verrebbe disposta dal Tribunale su istanza degli amministratori o dell’eventuale organo di controllo.

Le modalità del trasferimento


Stabilito che il principio della libera trasferibilità della quota può essere derogato dalla contraria
disposizione statutaria, occorre verificare quali modalità vanno rispettate per effettuarne il
trasferimento sia per atto tra vivi che per successione a causa di morte.
È opportuno fare due precisazioni:
• Nel nostro ordinamento, gli atti traslativi della proprietà/titolarità di un bene non sono soggetti
a particolari requisiti di forma: sono a forma libera, per cui l’effetto traslativo si produce solo
con lo scambio dei consensi tra alienante e acquirente. È fatta eccezione per gli atti relativi ai
beni immobili che esigono la forma scritta ad substantiam, cioè a pena di nullità, e per gli altri
atti specialmente indicati dalla legge. E la partecipazione sociale di s.r.l. è un bene mobile
immateriale, anche se nel patrimonio sociale fossero contenuti beni immobili, né altre
disposizioni impongono espressamente la forma scritta a pena di nullità.
• La seconda precisazione riguarda l’abolizione del libro dei soci nella s.r.l., quale strumento
per la opponibilità alla società degli atti traslativi della quota o comunque comportanti vincoli
su di essa. La modifica dell’art. 2470 è intervenuta dopo un duplice intervento legislativo:
o Dapprima la legge n. 310/2993 ha abrogato il libro dei soci e ha subordinato l’efficacia
verso la società dei trasferimenti delle partecipazioni sociali nella s.r.l. alla iscrizione
nel Registro delle imprese.
o Il successivo d.l. n. 185/2008, convertito nella l. n. 2/2009, ha sostituito il riferimento
alla “iscrizione” con il riferimento al “deposito”.
L’attuale disciplina rende opponibile alla società e ai terzi l’atto dispositivo sulla quota dall’avvenuto
deposito dei relativi atti presso il Registro delle imprese, il che pone fine alla polemica se l’efficacia
si produca dal momento del deposito o da quando il conservatore del registro ordini l’iscrizione.
Al fine del deposito, tuttavia, è necessario che:
• Quanto al trasferimento inter vivos, l’atto sia munito della sottoscrizione autenticata e venga
depositato dal notaio autenticante entro 30 giorni. L’atto può essere munito anche solo di
“firma digitale”, e può osì essere depositato entro 30 giorni a cura di un intermediario abilitato.
• In caso di trasferimento a causa di morte, il deposito della documentazione necessaria è
compiuto a cura dell’erede o legatario.
Il deposito presso il Registro delle imprese è necessario per il legittimo esercizio dei diritti collegati
alla quota nei confronti della società e dei terzi con efficacia di pubblicità dichiarativa.
L’art. 2470 contiene al riguardo una importante novità, che vale a risolvere l’eventuale conflitto che
dovesse insorgere nei confronti dei terzi nel caso in cui il socio, con più atti successivi, dovesse
alienare a più aventi causa la stessa o parte della stessa quota. Il conflitto è risolto a favore del terzo
che abbia per primo effettuato l’iscrizione nel Registro delle imprese, purché in buona fede. Dunque,
il terzo acquirente è preferito rispetto ad un altro acquirente, e prevale nel conflitto, anche se il suo
titolo sia in data anteriore rispetto a quello dell’altro acquirente, a condizione che abbia effettuato per
primo, in buona fede, il deposito del suo titolo nel Registro delle imprese.
Il trasferimento di quota non ancora integralmente liberata obbliga l’acquirente subentrante ai
versamenti ancora dovuti verso la società, ma il socio alienante risponde solidamente degli stessi
per tre anni dall’iscrizione del trasferimento nel Registro delle imprese, peraltro in via sussidiaria,
cioè dopo che la richiesta dell’acquirente socio moroso sia rimasta infruttuosa (art. 2472).
Qualche regola specifica vige laddove le vicende circolatorie riguardino alcune ipotesi particolari:
• La concentrazione dell’intero capitale in capo ad un unico socio. Laddove la circolazione
determini tale evento, ovvero si verifichi il mutamento della persona dell’unico socio, gli
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amministratori sono tenuti a depositare per l’iscrizione nel Registro delle imprese una
dichiarazione che contenga l’indicazione di:
o Nome e cognome, data e luogo di nascita, domicilio e cittadinanza (unico socio); o
Denominazione, Stato di costituzione e sede (collettività organizzata).
Apposita dichiarazione va anche formulata laddove si ricostituisca la pluralità dei soci. E lo
stesso unico socio, o chi cessa di essere tale, può provvedere direttamente all’assolvimento
della indicata pubblicità avendone interesse. La mancata pubblicità renderebbe l’unico socio
illimitatamente responsabile nei confronti dei terzi per le obbligazioni contratte dalla società
in tale periodo di concentrazione e nel caso di insolvenza della società.
Gli adempimenti pubblicitari da parte degli amministratori vanno compiuti entro 30 giorni
“dall’iscrizione nel libro dei soci” e con l’indicazione della “data di tale iscrizione”.
• La cessione della quota di un socio d’opera o di servizi. In tal caso, la dottrina maggioritaria
ritiene che la quota è liberamente trasferibile, salvo ovviamente la contraria disposizione
dell’atto costitutivo. Non si trasferirebbe tuttavia l’intera posizione sociale, rimanendo fermo
l’impegno del socio alienante a completare l’opera o il servizio pur sempre garantito dalla
fideiussione; né di tale obbligazione risponderebbe anche l’acquirente, trattandosi di quota
già liberata. Si ammette che:
o Per le prestazioni infungibili, il socio alienante potrebbe accordarsi con la società per
liberarsi, sostituendo la prestazione con il versamento di una somma di denaro;
o Per le prestazioni fungibili, potrebbe invece stipulare un negozio di accollo tra
cedente e acquirente che, dovrebbe però essere accettato anche dalla società, onde
liberare il cedente dal suo obbligo; nel contempo, la società dovrebbe ottenere la
fideiussione dall’accollante.
Nell’ipotesi di trasferimento mortis causa, l’erede o il legatario non subentrerebbe
automaticamente nell’obbligo di eseguire l’opera o il servizio, e tuttavia mal si comprende
che fine faccia l’impegno fideiussorio, che a mio avviso fa parte dell’asse ereditario. Si
sostiene comunque che società ed erede o legatario possano accordarsi perché questi versi
direttamente una somma di denaro, svincolando il garante, o che subentri negli obblighi del
de cuius prestando una nuova fideiussione.
• La macchinosità di tali soluzioni conferma che il conferimento d’opera o di servizi non può
affatto assimilarsi né al conferimento in natura, né al conferimento in danaro, ma costituisce
un tertium gneus. Infatti:
o È del tutto contraddittorio ritenere che la partecipazione d’opera o di servizi si scinda
in due tronconi: la partecipazione si trasferirebbe perché liberata dalla fideiussione,
che viene allora a fungere da conferimento di danaro, trascurando che essa crea solo
una obbligazione accessoria a quella principale (che resta pur sempre l’impegno alla
esecuzione dell’opera o del servizio); l’obbligo dell’opera o servizio resterebbe in
capo al cedente con relativo impegno fideiussorio;
o E solo il consenso delle parti potrebbe diversamente disciplinare la sorte di
quell’obbligo e di quell’impegno fideiussorio, il che vale quanto a dire che il socio
d’opera non può liberamente alienare se non con il consenso della società l’intera sua
partecipazione. Tale soluzione finisce per evocare la disciplina delle azioni con
prestazioni accessorie, le quali non sono alienabili senza il consenso degli
amministratori.
o Se non sono alienabili liberamente azioni il cui conferimento di capitale è di danaro o
in natura, figurarsi se si possa considerare liberamente trasferibile una partecipazione
il cui conferimento è direttamente la prestazione d’opera o di servizi da eseguirsi.
Quindi l’applicazione analogia dell’art. 2345 si impone.

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• La cessione della quota di s.r.l. non ancora iscritta nel Registro delle imprese. È possibile
cedere tale quota? Il problema si è riproposto dopo la riforma societaria del 2003, posto che
in precedenza l’opinione prevalente considerava nullo un tale trasferimento con riguardo a
tutte le società di capitali in forza di quanto disposto dall’art. 2331, secondo cui: “l’emissione
e la vendita delle azioni prima dell’iscrizione della società sono nulle”.
Il vigente art. 2331 prevede invece che “prima dell’iscrizione nel registro è vietata l’emissione
delle azioni”, ma nulla dice in merito alla loro cessione. Sta di fatto, però, che di una quota di
s.r.l. in senso stretto come bene mobile immateriale attuale e presente è impossibile parlare
sino a quando la s.r.l. non venga ad esistenza per effetto della iscrizione nel Registro delle
imprese. Prima di allora:
o O siamo di fronte alla cessione della posizione contrattuale del socio con la necessità
di acquisire il consenso di tutti gli altri soci;
o O siamo di fronte alla cessione di un bene futuro che produce un vincolo obbligatorio
tra le parti contraenti, ma che è destinato a produrre gli effetti traslativi solo con il
venire ad esistenza di questo bene, e cioè dopo l’iscrizione della società.
• La cessione di quota in regime di comunione legale. Poiché l’acquisto di quota di s.r.l. non
comporta l’assunzione di una responsabilità limitata, essa ricade nella comunione legale
anche se fosse compiuta da uno solo dei coniugi (art. 177 c.c.). Tuttavia, secondo alcuni autori
troverebbe applicazione l’art. 178, che esclude dalla immediata comunione l’acquisto di beni
destinati all’esercizio dell’impresa e li fa ricadere in comunione c.d. de residuo solo al
momento dello scioglimento del regime di comunione legale. Ma tale soluzione imporrebbe
una indagine sull’intento meramente speculativo o di esercizio imprenditoriale del coniuge
acquirente. È piuttosto da ritenere che il coniuge non risultante ufficialmente nell’atto di
acquisto, per legittimarsi all’esercizio dei diritti sociali nei confronti della società, dovrà
ottenere l’iscrizione della sua contitolarità nel Registro delle imprese.
La legge Mancino del 1993 ha abrogato nella s.r.l. il libro dei soci. Senonché, va precisato che
nonostante l’abrogazione legislativa nella prassi, molte s.r.l. hanno conservato tale libro anche
disciplinandolo statuariamente. È legittima tale previsione? E che effetti discendono da eventuale
clausola statutaria che dovesse subordinare l’opponibilità del trasferimento di quota alla società oltre
che alla previa iscrizione nel registro delle imprese anche alla annotazione nel libro dei soci? Le
opinioni sono abbastanza contrastanti.
Parte della dottrina e dei consigli notarili considerano legittime le clausole previste nell’atto
costitutivo che impongono l’annotazione del trasferimento della quota nel libro soci quale esercizio
dell’autonomia corporativa. La giurisprudenza di merito è spesso di contrario avviso sul presupposto
che l’abrogazione del libro dei soci è dettata da norma imperativa e che l’atto costitutivo non potrebbe
introdurre ulteriori limitazioni alla efficacia del trasferimento della quota una volta adempiute le
formalità del deposito presso il Registro delle imprese. Peraltro, la conoscenza della società sulla
composizione della compagine sociale non ne sarebbe agevolata, non potendo gli amministratori
limitarsi alla verifica della iscrizione nel libro dei soci, ma dovendo in ogni caso consultare il Registro
delle imprese, cui si collega l’opponibilità ad essa del trasferimento di quota.
Tuttavia, bisogna riconoscere che nulla impedisce all’autonomia corporativa, nel rispetto della
normativa di legge che impone il deposito presso il Registro delle imprese della documentazione
necessaria, di subordinarne l’esercizio dei diritti sociali anche all’iscrizione nel libro soci che l’atto
costitutivo abbia al riguardo disciplinato.

I vincoli sulla partecipazione sociale: espropriazione, pegno, usufrutto e sequestro


La partecipazione sociale nella s.r.l. può essere assoggettata a vincoli che ne limitano il godimento, il
possesso e la disponibilità, il che conferma che la quota è qualificabile in termini di “bene mobile”,
sia pure immateriale, suscettibile di costituire oggetto di:

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• Espropriazione;
• Diritti reali limitati (pegno e usufrutto);
• Atti cautelativi sulla disponibilità del bene (sequestro conservativo o giudiziario).
La riforma del 2003 ha fatto espressa chiarezza sulla “pignorabilità” della quota, introducendo l’art.
2471 (espropriazione della partecipazione) che al primo comma dispone “la partecipazione può
formare oggetto di espropriazione”. I commi successivi individuano le distinte fasi del procedimento
espropriativo da seguire al fine di:
• Stabilire se siamo di fronte ad un pignoramento presso terzi (la società) o comunque
direttamente a carico del socio-debitore;
• Offrire alla società la possibilità di evitare intrusioni nella compagine sociale da parte di terzi
non graditi.
Nella prima fase il pignoramento si esegue mediante notificazione al debitore e alla società e
successiva iscrizione nel Registro delle imprese. Il vincolo pignoratizio, che produce l’effetto di
indisponibilità del bene sino a quando dura il procedimento espropriativo, si costituisce mediante la
notificazione del pignoramento al debitore e alla società, successivamente si procede alla iscrizione
nel Registro delle imprese dell’atto notificato. È venuta meno l’annotazione nel libro dei soci. In
passato si discuteva se il pignoramento della quota dovesse eseguirsi nelle forme del pignoramento
presso terzi, mediante citazione della società dinanzi al giudice dell’esecuzione per rendere la
dichiarazione del terzo sulla sussistenza della quota del socio debitore. L’opinione oggi prevalente è
nel senso di ritenere perfezionato il pignoramento della quota con la sola notificazione al debitore e
alla società, laddove l’iscrizione nel Registro delle imprese avrebbe solo efficacia dichiarativa.
L’istanza di vendita della quota che apre la seconda fase della procedura esecutiva va depositata entro
90 giorni dalla ultima notifica a pena di estinzione della procedura stessa. La norma non precisa chi
è legittimato a depositare l’atto di pignoramento per l’iscrizione nel Registro delle imprese. Mi
sembra che ciò si traduca in una notifica su istanza del creditore procedente tramite l’Ufficiale
giudiziario. Né la norma dispone in merito alla custodia delle quote così pignorate. È probabile che il
custode possa essere nominato nella stessa persona titolare della partecipazione sociale, ma potrebbe
nominarsi anche un terzo. Si applicheranno le regole per il pignoramento mobiliare. L’ordinanza
giudiziaria, che dispone la vendita della partecipazione sociale, deve essere notificata alla società a
cura del creditore, ma non anche al debitore che è già parte del procedimento.
La pignorabilità della quota è preordinata alla vendita coatta della stessa a terzi per la soddisfazione
delle ragioni del creditore sul ricavato. Ma il terzo acquirente potrebbe non essere gradito al resto
della compagine sociale.
Il problema si rende più acuto nel caso in cui l’atto costitutivo abbia introdotto limiti alla circolazione
della quota. La soluzione individuata dal legislatore al terzo comma dell’art. 2471 prevede che, “se
la partecipazione non è liberamente trasferibile e il creditore, il debitore e la società non si
accordano sulla vendita della quota stessa, la vendita ha luogo all’incanto; ma la vendita è priva di
effetto se, entro 10 giorni dall’aggiudicazione, la società presenta un altro acquirente che offre lo
stesso prezzo”. Più nel dettaglio:
a) Laddove si raggiunga un accordo tra il creditore, il debitore e la società in ordine alla
individuazione di un terzo che subentri nella posizione del socio pignorato ad un determinato
prezzo, il processo esecutivo si chiude con la vendita della partecipazione sociale concordata
tra le parti in gioco;
b) Se invece l’accordo non si raggiunge, la vendita viene comunque eseguita all’incanto, ma
riconoscendo alla società una sorta di “diritto di prelazione”, nel senso che essa ha la
possibilità di rendere quella vendita priva di efficacia se entro 10 giorni dalla aggiudicazione
indichi una persona di suo gradimento disponibile ad acquistare la partecipazione sociale al
prezzo e alle condizioni di aggiudicazione.

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Questa disciplina trova applicazione anche nel caso di fallimento del socio, nella procedura esecutiva
concorsuale.

L’art. 2471-bis individua gli altri vincoli reali che possono essere disposti sulla partecipazione sociale
nella s.r.l., stabilendo che “la partecipazione può formare oggetto di pegno, usufrutto e sequestro” e
che, “salvo quanto disposto al comma 3 dell’articolo precedente, si applicano le disposizioni
dell’articolo 2352”, il quale disciplina analoghi istituti in materia di vincoli sulle azioni, regolando:
• I diritti patrimoniali (diritto agli utili, diritto alla liquidazione della quota);
• I diritti amministrativi (diritto di voto e diritto d’opzione). Esaminiamo
singolarmente i detti vincoli:
1. Il sequestro della partecipazione viene genericamente indicato dalla norma, senza precisare
se si tratti di sequestro conservativo o di sequestro giudiziario.
a. Il sequestro conservativo è consentito dalla legge nei limiti in cui è ammesso il
pignoramento ed è diretto ad assicurare al creditore la garanzia del proprio credito
contro il rischio di possibili sottrazioni e alterazioni. Esso crea un vincolo di
indisponibilità destinato a tradursi in pignoramento quanto il creditore sia munito di
titolo esecutivo;
b. Il sequestro giudiziario è una misura cautelare che tende ad affidare ad un custode la
gestione e conservazione del bene su cui sussista una controversia relativa al possesso
o alla proprietà del bene medesimo o anche solo a fini probatori.
2. Il pegno è un diritto reale di garanzia convenzionalmente costituito sul bene a favore di un
creditore e che presuppone lo spossessamento del titolare;
3. L’usufrutto è un diritto reale di godimento che attribuisce all’usufruttuario il diritto di far
propri i frutti del bene, rispettandone comunque la destinazione economica e ferma la nuda
proprietà dello stesso in capo al titolare.
L’art. 2471-bis non chiarisce come si costituiscano i detti vincoli e rinvia all’art. 2352, che in realtà
si occupa della regolamentazione relativa alla spettanza dei diritti e obblighi collegati alla
partecipazione ma non delle formalità di costituzione.
• Il sequestro conservativo segue le regole del codice di procedura civile;
• Gli altri diritti reali limitati sulla quota si costituiscono con atti negoziali o per eventi legali,
che vanno resi pubblici mediante deposito presso il Registro delle imprese.
Quanto ai diritti e agli obblighi connessi alla partecipazione, il richiamato art. 2352 disciplina
innanzitutto l’esercizio del diritto di voto, stabilendo che nel caso di sequestro esso spetti al custode
e che nel caso di pegno o di usufrutto esso spetti di regola al creditore pignoratizio o all’usufruttuario
salvo convenzione contraria. È dunque consentito alle parti di regolare una differente attribuzione del
diritto di voto, ma evidentemente tale patto deve essere iscritto nel Registro delle imprese.
Al di là dell’esistenza del patto contrario, ci si è chiesto se sulle deliberazioni che dovessero alterare
la “destinazione o sostanza economica” della quota, il diritto di voto vada comunque riconosciuto al
socio. L’opinione prevalente mantiene fermo il diritto di voto in capo al creditore pignoratizio o
usufruttuario, ma considera risarcibile il danno che dovesse essere da questi arrecato al socio da un
esercizio del diritto di voto lesivo della destinazione economica del bene.
Il diritto di voto è il diritto amministrativo per eccellenza, e si potrebbe allora ritenere che anche la
spettanza degli altri diritti amministrativi debba regolarsi allo stesso modo del diritto di voto.
Tuttavia, l’art. 2352 dispone che “salvo che dal titolo o dal provvedimento del giudice risulti
diversamente, i diritti amministrativi diversi da quelli presenti nell’articolo spettano:
• Nel caso di pegno o usufrutto: sia al socio, sia al creditore pignoratizio o all’usufruttuario;
• Nel caso di sequestro sono esercitati dal custode”.

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In merito al diritto ai diritti patrimoniali, va detto che il diritto agli utili deve naturalmente
attribuirsi all’usufruttuario, mentre il vincolo del pignoramento e del sequestro si estenderanno sul
credito agli utili cosi come sul diritto alla liquidazione della quota.
Una specifica disciplina è dettata dall’art. 2352 nell’ipotesi di aumento del capitale sociale a
pagamento (mediante esecuzione di nuovi conferimenti) e della spettanza del diritto di opzione
(denominato nella s.r.l. “diritto di sottoscrizione”). Il diritto è attribuito direttamente al socio, che fa
proprie per intero le nuove quote sottoscritte su cui non si estendono i vincoli gravanti sulla quota già
esistente; ma il diritto di opzione è esercitato per il tramite del creditore pignoratizio o
dell’usufruttuario. A tal fine bisogna distinguere a seconda che si tratti di pegno o di usufrutto:
• Se si tratta di pegno, il socio deve far pervenire le somme necessarie alla sottoscrizione
almeno 3 giorni prima della scadenza posta all’esercizio del diritto e, in mancanza, qualora
gli altri soci non si offrano di acquistare il diritto di opzione, questo deve essere alienato per
suo conto a mezzo banca od intermediario autorizzato alla negoziazione nei mercati
regolamentati. Il ricavato sarà attribuito al socio.
• In caso di usufrutto, l’usufruttuario è tenuto ad anticipare le somme necessarie alla
sottoscrizione, che gli saranno restituite al termine dell’usufrutto.
• Nell’ipotesi di sequestro, questi diritti devono considerarsi attribuiti al custode.
Ove l’aumento del capitale sociale si realizzi a titolo gratuito, cioè mediante il passaggio a capitale
di riserve disponibili, il comma 3 dell’art. 2353 stabilisce che “il pegno, l’usufrutto o il sequestro si
estendono alle quote di nuova emissione”.
Da ultimo, l’art. 2352 disciplina anche su chi ricada l’obbligo dei versamenti ancora dovuti:
• Nel caso di pegno, il socio deve provvedere al versamento delle somme necessarie almeno 3
giorni prima della scadenza e, in mancanza, il creditore pignoratizio può vendere le quote per
il tramite di banca o intermediario abilitato, con la conseguenza che sulla somma ricavata
dalla vendita coattiva il creditore pignoratizio potrà soddisfare le proprie ragioni di credito;
• Nel caso di usufrutto, l’usufruttuario deve provvedere al versamento, salvo il suo diritto alla
restituzione al termine dell’usufrutto.

Capitolo VIII Recesso ed esclusione del socio

La risoluzione del rapporto societario limitatamente al singolo socio


Il rapporto societario può anche risolversi. E ciò non tanto nella fase liquidatoria della società, in cui
si provvede a liquidare l’intero patrimonio sociale e a soddisfare i creditori sociali per poi attribuire
a ciascun socio sul residuo valore della quota che gli spetta con definitiva estinzione del rapporto
sociale. In questa fase l’estinzione del rapporto sociale tocca tutti i soci, ed è conseguenza di un
procedimento diretto all’estinzione della società.
Nella fase fisiologica dell’attività sociale può determinarsi una risoluzione del rapporto individuale
tra singolo socio e società per effetto di due istituti:
• Il recesso, che si manifesta per volontà del socio attraverso una sua dichiarazione negoziale
unilaterale recettizia al verificarsi di determinate condizioni stabilite dalla legge o dall’atto
costitutivo (art. 2473).
o È un istituto tradizionale della disciplina societaria, incluse le società di capitali; o È
parte integrante e inderogabile del modello legale della s.r.l..
• L’esclusione, che è invece effetto della volontà della società pur sempre al verificarsi di
determinate condizioni previamente definite in atto costitutivo (art. 2473-bis).
o È un istituto tipico delle società di persone, che non esisteva e non esiste in via di
principio nelle società di capitali.

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L’esclusione non fa parte del modello legale tipico della s.r.l., che anche sotto questo
profilo conferma la sua natura capitalistica, sia pure attenuata. Essa può essere inserita
nell’atto costitutivo come elemento di ulteriore accentuazione della rilevanza della
persona del socio, nella prospettiva di rendere la s.r.l. adeguata alle esigenze
perseguite in concreto dalla specifica compagine sociale.
o Deve essere introdotta con apposita clausola statutaria.

Recesso del socio


Benché il recesso sia un istituto tradizionale delle società di capitali, la disciplina introdotta con la
riforma del 2003 è radicalmente innovativa rispetto a quella preesistente.
Il diritto di recesso era, tanto nella S.p.A. quanto nella s.r.l., istituto eccezionale e di stretta
interpretazione, limitato a tre casi tassativamente indicati dal legislatore e che non potevano essere
ampliati attraverso l’esercizio dell’autonomia corporativa. In sostanza, il recesso mirava a tutelare la
posizione del socio nell’ipotesi di modificazioni radicali delle basi societarie, attraverso modifiche
statutarie che comportassero la trasformazione del tipo societario, il trasferimento della sede all’estero
e il cambiamento dell’oggetto sociale, offrendo al socio dissenziente rispetto a tali mutamenti la
possibilità del disinvestimento mediante la risoluzione del rapporto societario.
La tassatività era giustificata:
• Dall’esigenza di tutela dei creditori sociali, la cui unica garanzia era ed è rappresentata dal
patrimonio sociale. Il recesso riduce la garanzia generica dei creditori sociali, poiché produce
il depauperamento del patrimonio sociale per effetto dell’obbligo della società di liquidare la
quota al socio uscente;
• Dalla tutela dello stesso interesse della società a mantenere la destinazione produttiva al
patrimonio sociale;
• Dalla possibilità per il socio di vendere liberamente sul mercato la propria partecipazione
senza il consenso degli altri soci.
La nuova disciplina ha profondamente mutato la funzione del recesso nelle società di capitali.
1. In primo luogo, il recesso non è più concepito come un istituto di carattere eccezionale, tanto
che sono aumentate le ipotesi di recesso legale indisponibili dall’autonomia corporativa;
2. È consentito ai soci introdurre statuariamente ipotesi di recesso convenzionale;
3. La disciplina del recesso è tendenzialmente omogenea sia nelle S.p.A. che nelle s.r.l.
La funzione del recesso nelle società di capitali acquista allora il senso di una via di fuga, di un
possibile disinvestimento da parte del socio, affinché non resti prigioniero della società. E ciò assume
un particolare rilievo nella s.r.l., ove le partecipazioni sociali non hanno un mercato di riferimento,
non esiste che eccezionalmente un mercato del capitale di rischio per le s.r.l.
• Il recesso legale funge da correttivo a tutela del singolo socio nei confronti delle decisioni
della maggioranza su questioni importanti della vita sociale, in particolare su quelle che
riguardano il programma societario e quelle che coinvolgono le modalità di esercizio
all’interno dell’organizzazione corporativa dei diritti connessi alla partecipazione sociale;
• Il recesso convenzionale può ulteriormente allargare la tutela dell’interesse del socio al
disinvestimento.
Ma come raggiungere un adeguato equilibrio tra le ragioni del socio dissenziente, quelle della società
e quelle dei creditori sociali? Infatti, vi sono tre nuclei di interessi da conciliare:
1. L’interesse del socio non consenziente a non restare prigioniero della società, quando il suo
assetto subisce modifiche sostanziali;
2. L’interesse della maggioranza dei soci di poter modificare, pendente societatae, le basi
essenziali dell’organizzazione corporativa e del programma societario;

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3. L’interesse dei creditori societari a non vedere diminuita la loro generica garanzia
patrimoniale per effetto del rimborso della quota al socio recedente. Il nuovo equilibrio è stato
perseguito:
• Incrementando i casi del recesso legale e consentendo all’autonomia corporativa di introdurre
nell’atto costitutivo casi di recesso convenzionale;
• Riducendo per quanto possibile l’eventualità del depauperamento del patrimonio sociale,
impedendo che la liquidazione della quota avvenga prioritariamente con risorse esterne alla
società e solo in ultima analisi con le sue riserve disponibili ed eventuale riduzione del capitale
sociale.
Quali cause possono determinare il recesso legale del socio? La maggior parte è individuata nell’art.
2473, secondo cui “in ogni caso” il diritto di recesso compete ai soci che non hanno consentito:
i. Al cambiamento dell’oggetto o del tipo di società;
ii. Alla fusione o scissione;
iii. Alla revoca dello stato di liquidazione;
iv. Al trasferimento della sede all’estero;
v. All’eliminazione di una o più cause di recesso perviste dall’atto costitutivo;
vi. Al compimento di operazioni che comportano una sostanziale modificazione dell’oggetto
della società determinato nell’atto costitutivo o una rilevante modificazione dei diritti
attribuiti ai soci a noma dell’art. 2468, comma 4.
Restano salve le disposizioni in materia di recesso per le società soggette ad attività di direzione e
coordinamento. L’espressione “in ogni caso” indica che ci troviamo di fronte a cause indisponibili da
una diversa previsione statutaria.
Ulteriore causa di recesso legale è prevista dall’art. 2473 nel caso di società contratta a tempo
indeterminato, cui dottrina e giurisprudenza assimilano anche l’ipotesi di società contratta a tempo
determinato ma che supera la vita media del socio. Il recesso può essere esercitato “in ogni momento”,
e tuttavia con un “preavviso di almeno 180 giorni”, potendo l’atto costitutivo prevedere un “periodo
di preavviso di durata maggiore purché non superiore ad un anno” Le cause di recesso legale sono
contemplate anche da altre disposizioni:
• Nell’ipotesi di aumento a pagamento del capitale sociale, l’atto costitutivo può prevedere,
salvo per il caso di cui all’art. 2482-ter (quando cioè l’aumento è deliberato dopo la riduzione
del capitale per perdite di oltre un terzo), che l’aumento possa essere attuato anche mediante
offerta di quote di nuova emissione a terzi; in tal caso spetta ai soci che non hanno consentito
alla decisione il diritto di recesso (art. 2481-bis);
• Ai sensi dell’art. 2497-quater, il socio di società soggetta ad attività di direzione e
coordinamento può recedere:
o Quando la società o l’ente che esercita l’attività di direzione e coordinamento ha
deliberato una trasformazione che implica il mutamento del suo scopo sociale, ovvero
ha deliberato una modifica del suo oggetto sociale consentendo l’esercizio di attività
che alterino in modo sensibile e diretto le condizioni economiche e patrimoniali della
società soggetta ad attività di direzione e coordinamento;
o Quando a favore del socio sia stata pronunciata, con decisione esecutiva, condanna da
chi esercita attività di direzione e coordinamento ai sensi dell’art. 2497; in tal caso il
diritto di recesso può essere esercitato soltanto per l’intera partecipazione del socio;
o All’inizio e alla cessazione dell’attività di direzione e coordinamento, quando non si
tratta di una società con azioni quotate in mercati regolamentati e ne deriva
un’alterazione delle condizioni di rischio dell’investimento e non venga promossa
un’offerta pubblica di acquisto.

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In tutte queste ipotesi si applicano disposizioni previste per il diritto di recesso del socio nella
società per azioni o in quella a responsabilità limitata.
• Sussiste anche il diritto di recesso quando si proceda a introdurre o sopprimere statuariamente
una clausola compromissoria, derogatoria della giurisdizione del Giudice ordinario a favore
del giudizio arbitrale.
• Ulteriore caso di recesso legale discende dalla clausola di intrasferibilità della partecipazione
sociale o di trasferimento soggetto al mero gradimento, casi in cui peraltro l’atto costitutivo
può stabilire un termine, non superiore a due anni dalla costituzione della società o dalla
sottoscrizione della partecipazione anche dal suo acquisto, prima del quale il recesso non può
essere esercitato.
Quanto alle cause di recesso convenzionale, esse sono liberamente determinate dall’atto costitutivo,
che ne disciplina anche le “modalità”. Due fattispecie sono particolarmente discusse:
• Il recesso per giusta causa;
• Il recesso ad nutum (cioè del tutto discrezionale).
Alcuni autori sostengono che si tratterebbe di clausole illegittime, in quanto:
• Il recesso per giusta causa introdurrebbe una condizione estremamente generica;
• Il recesso ad nutum si porrebbe in contrasto con la disciplina della società a termine, eludendo
il vincolo che il socio assume in questa tipologia di società.
Tuttavia, il legislatore sembra attribuire all’autonomia corporativa un ampio spazio sotto il profilo
della individuazione dei casi convenzionali di recesso.
L’art. 2473 affida all’autonomia corporativa anche la determinazione delle modalità di esercizio del
diritto di recesso. Nel quel caso, però, si pone il problema di quali regole applicare in difetto della
disciplina statutaria su dette modalità. Data la sostanziale omogeneità di disciplina e di funzione del
recesso nella società per azioni e nella società a responsabilità limitata, l’opinione prevalente ritiene
che si possano applicare in via analogica le regole dettate in materia di S.p.A.
La legittimazione all’esercizio del diritto di recesso spetta al socio non consenziente alle decisioni
che ne danno causa, laddove per il socio non consenziente è da intendere:
• Il socio dissenziente;
• Il socio astenuto o assente;
• Il socio che ha ottenuto l’annullamento del proprio voto favorevole.
In alcuni casi può non esservi una decisione assembleare o dei soci da cui dissentire, per cui la
legittimazione spetterà a qualsiasi socio; oppure al socio nei cui confronti si sia realizzata la situazione
ipotizzata nella clausola statutaria.
Da quale momento si produce l’effetto risolutorio del rapporto sociale? Il problema è piuttosto
complesso. Il recesso si esprime attraverso una dichiarazione unilaterale del socio a carattere
recettizio, che produce i suoi effetti dal momento in cui perviene nella sfera di conoscibilità della
società destinataria. Dovrebbe conseguirne la risoluzione immediata, salva l’ipotesi di preavviso. La
conseguenza della risoluzione immediata dovrebbe riflettersi sulla perdita di legittimazione del socio
all’esercizio di ogni diritto sociale, ma sul punto la dottrina ha posizioni differenziate.
Alcuni ritengono che in realtà il processo produca tutti i suoi effetti solo dal momento della effettiva
liquidazione della quota al socio recedente, che altrimenti si troverebbe nelle more privo di ogni
tutela; quindi anche nel periodo intermedio egli mantiene inalterati i suoi diritti di socio. È più dubbio
che possa esercitare i diritti patrimoniali, visto che il valore della quota si determina con riferimento
al momento della dichiarazione del recesso.
La liquidazione della quota al socio recedente deve avvenire entro 180 giorni dalla comunicazione
alla società del recesso (o dalla scadenza del preavviso “in proporzione del patrimonio sociale”, il cui
valore è determinato “tenendo conto del suo valore di mercato al momento della dichiarazione di
recesso”. Peraltro, raramente esisterà un valore di mercato della quota, per cui si intende come valore

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corrente ed effettivo, non valori meramente contabili e di bilancio. Il legislatore tende ad assicurare
al socio che recede il valore effettivo del suo investimento.
Sul valore di liquidazione si dovrà formare il consenso delle parti. Se il socio non dovesse accettare
la proposta della società, la determinazione è affidata alla relazione giurata di un terzo esperto
nominato dal Tribunale, che funge da arbitro.
Il rimborso, peraltro, segue una graduazione di situazioni che persegue la finalità di evitare quanto
più possibile l’impoverimento del patrimonio sociale. Infatti, la liquidazione deve attuarsi in via
prioritaria con risorse esterne:
• In primo luogo, la quota del socio recedente deve essere offerta a tutti gli altri soci residui;
• In seconda battuta, la quota viene offerta ad un terzo individuato dai soci medesimi. Se anche
questa situazione non dovesse verificarsi, il rimborso sarà effettuato utilizzando riserve disponibili
della società o, in mancanza, le risorse conseguenti alla riduzione corrispondente del capitale sociale.
Ma la riduzione del capitale è soggetta alla eventuale opposizione dei creditori sociali. In tale
eventualità non si fa luogo al rimborso della singola quota, ma se la società vuole mantenere la
delibera che ha determinato l’esercizio del recesso da parte del socio deve porsi in liquidazione. La
liquidazione potrà essere evitata solo se la società revoca la delibera che ha legittimato il recesso;
così come il recesso può essere reso inefficace da una decisione di scioglimento della società.
I casi di recesso legale sono inderogabili dall’autonomia corporativa. Ma in realtà l’indisponibilità
tocca l’intera disciplina del recesso, compresi i criteri che presiedono al rimborso della quota.

Esclusione del socio


L’art. 2473-bis legittima l’atto costitutivo a introdurre nell’organizzazione della compagine sociale
l’istituto della esclusione del socio. Si tratta di una novità assoluta per le società di capitali, in cui è
al più presente l’esclusione legale del socio moroso per mancata esecuzione dei conferimenti dovuti.
• Per quanto concerne l’esclusione legale, l’art. 2466 dispone che il procedimento si attiva con la
diffida degli amministratori al socio moroso ad effettuarlo entro i successivi 30 giorni. Di fronte
all’ulteriore inadempimento gli amministratori possono seguire due vie alternative: o Insistere per
l’esecuzione dei conferimenti dovuti qualora lo ritengano utile; o Procedere alla vendita coattiva
della quota in favore degli altri soci, che avranno il diritto all’acquisto in proporzione alla loro
partecipazione e in base al valore risultante dall’ultimo bilancio approvato.
Se neppure i soci dovessero rendersi acquirenti, la quota è venduta all’incanto purché ciò sia
previsto nell’atto costitutivo. Se la vendita non si realizza per mancanza di acquirenti, allora
la società esclude il socio con corrispondente riduzione del capitale sociale e trattiene tutte le
somme riscosse a titolo risarcitorio. L’esclusione sociale del socio moroso è concepita come
ultima ratio, potendosi prima procedere a mantenere integro il patrimonio sociale.
• L’esclusione convenzionale è disciplinata statuariamente. L’art. 2473-bis esige però che
l’atto costitutivo preveda specifiche ipotesi di esclusione per giusta causa. Non sembra
ammissibile, a tutela del socio investito dal provvedimento risolutorio, una clausola di
semplice “esclusione per giusta causa”, dovendo essa individuare in via specifica le ipotesi
integranti la giusta causa.
L’esclusione ha carattere sanzionatorio nei confronti del socio, per cui la specifica giusta
causa deve avere carattere soggettivo, ossia deve tradursi in un fatto addebitabile al socio che
è venuto meno al principio di leale collaborazione con la società.
Ove ricorra una delle clausole specifiche tipizzate nell’atto costitutivo, la norma rende
applicabili le disposizioni in precedenza dettate in materia di recesso, “esclusa la possibilità
del rimborso della partecipazione mediante riduzione del capitale sociale”.
• Sotto il profilo procedimentale, lo statuto dovrà evidentemente fissare le regole nel rispetto
del principio di contestazione al socio escludendo delle cause rilevanti. Ma potrebbe al

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riguardo sussistere carenza di regolamentazione, per cui si pone il problema di individuare
l’organo competente a deliberare l’esclusione del socio.
Si potrebbe essere tentati di applicare analogicamente la disciplina delle società di persone,
da cui l’istituto dell’esclusione per giusta causa trae origine. Qui la competenza è attribuita a
tutti gli altri soci con decisione adottata a maggioranza per teste. Il particolare criterio di
calcolo della maggioranza in questa ipotesi potrebbe collegarsi sia alla rilevanza della persona
del socio in quanto tale, sia alla circostanza che l’esclusione incide direttamente sul contratto
sociale, comportandone la modifica. L’ingresso di un nuovo socio o l’espulsione di un socio
modifica le basi soggettive del contratto sociale nelle società di persone.
• Questa ratio non reggerebbe nelle società di capitali, compresa la s.r.l., ove la modificazione
soggettiva della parte contrattuale non provoca una modifica statutaria della società. D’altro
canto, ancora prima di rivolgersi alla disciplina delle società di persone, il canone
interpretativo dell’autonomia della disciplina della s.r.l. impone di ricercare nella stessa
normativa della s.r.l. una possibile soluzione analogica. Qui l’esclusione, sia pure legale, per
morosità del socio è affidata alla decisione degli amministratori. Ed anche in altra società di
capitali, qual è la cooperativa, l’esclusione è affidata alla decisione degli amministratori che
non fanno altro che dare esecuzione al contratto sulla base di specifici predefiniti nello stesso
statuto. A me pare che la competenza, nel silenzio dell’atto costitutivo, possa anche nella s.r.l.
incardinarsi in capo all’organo amministrativo, che si troverà a fare applicazione delle giuste
cause specifiche predeterminate nello stesso atto costitutivo.
Il richiamo alla disciplina dei diritti particolari è incongruo rispetto alla materia della
esclusione del socio, rispetto alla quale l’organo amministrativo deve limitarsi a fare
applicazione di giuste cause predefinite statuariamente e non assumere decisioni discrezionali
come quelle implicanti la modificazione o cancellazione dei diritti particolari dei soci. Sarà,
semmai, sempre possibile che gli amministratori o soci titolari di un terzo del capitale sociale
rimettano la decisione ai soci.
• Il socio escluso ha diritto di opporsi, potrà cioè instaurare un giudizio per contestare
l’avversa decisione che tocca direttamente il suo diritto ad essere socio, ma dubito che
l’esclusione debba ritenersi inefficace per tutto il termine entro cui l’impugnativa della
decisione di esclusione potrà essere esperita, come è sancito in materia di società di persone.
Il che non esclude che il socio possa ottenere giudizialmente un provvedimento cautelare
d’urgenza che sospenda l’efficacia di quella decisione nelle more che si definisca il giudizio
d’impugnativa.
• La liquidazione della quota al socio escluso segue le regole temporali di valutazione e
graduazione esaminate in materia di recesso. Alla esclusione potrebbe accompagnarsi anche
una richiesta risarcitoria della società ai danni dell’escluso, che può di fatto abbattere il
rimborso dovuto. L’unica modalità di rimborso vietata è quella che dovesse comportare la
necessità di riduzione del capitale sociale.
Ma allora, in mancanza di risorse interne per liquidare la quota al socio escluso, cosa ne consegue?
Mi sembra che i soci, in difetto di risorse interne per la liquidazione della quota del socio escluso,
possono procedere alla revoca dell’esclusione onde evitare lo scioglimento della società. Altrimenti
non hanno altra opzione che procedere allo scioglimento e liquidazione della società.

Capitolo IX Le decisioni dei soci

L’organizzazione corporativa della s.r.l.


Il modello legale della organizzazione corporativa della s.r.l. è pur sempre ispirato a quello delle
società di capitali, in particolare della S.p.A., ma non senza significative differenze.

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La struttura si articola in organi, ciascuno dei quali elabora la volontà sociale nell’assolvimento di
una determinata funzione operativa. Il modello legale prevede, come nella S.p.A.:
• L’assemblea dei soci, quale organo che adotta le decisioni fondamentali per la vita della
società, relative soprattutto alla strutturazione dell’organizzazione e alle modifiche statutarie;
• L’organo amministrativo, cui competono le decisioni gestorie;
• Eventualmente, o talvolta obbligatoriamente, un organo di controllo o un revisore esterno.
Ma due principi governano il quadro normativo della struttura interna della s.r.l., che spiegano
altresì le marcate differenze con l’organizzazione corporativa della S.p.A.:
• Il principio di semplificazione, che investe le forme organizzative degli indicati organi e
soprattutto i relativi processi decisionali, in considerazione della compagine sociale
normalmente ristretta e chiusa connotata da rapporti personali intensi:
• Il principio dell’autonomia corporativa, cui è riconosciuto uno spazio molto più ampio che
nella disciplina della S.p.A. (il cui modello è rigido e completo), laddove nella s.r.l. (il cui
modello legale è flessibile e minimo) ha carattere normalmente suppletivo e incompleto. Ne
consegue che il modello legale della s.r.l., in difetto di contrarie clausole statutarie, può ridursi
all’assemblea dei soci e ad un organo amministrativo monocratico (amministratore unico) o
pluripersonale (nel qual caso dorma un consiglio di amministrazione).
L’organo di controllo o il revisore esterno non è obbligatorio, se non nelle ipotesi espressamente
contemplate. Peraltro, l’autonomia corporativa può consentire che:
• Determinate decisioni dei soci siano adottate non in forma assembleare, ma con decisioni
scritte extra assembleari, di tipo non collegiale;
• Le competenze dei soci siano allargate anche a questioni di carattere gestorio; • La gestione
venga affidata agli amministratori anche in forma congiunta o disgiunta;
• Il controllo sia affidato ad un sindaco unico o anche ad un revisore esterno.

Le decisioni dei soci: le competenze


Le “decisioni dei soci” trovano la loro regolamentazione negli artt. 2479-bis e 2479-ter, ed è già
significativo che la sezione ad esse dedicata non si intitoli alla “assemblea”, come accade nella S.p.A.
L’espressione è volutamente ampia e generica, così da ricomprendere non solo le deliberazioni
assembleari, ma anche gli atti decisionali conseguenti a consultazione scritta o consenso espresso per
iscritto in forma non collegiale.
Ne consegue che l’organo decisionale dei soci è di default l’assemblea, in cui la volontà sociale si
forma nel rispetto del principio collegiale che presuppone una convocazione dei soci e l’unità
temporale (se non anche spaziale) della riunione, della discussione e della decisione; ma l’atto
costitutivo può anche introdurre la previsione di un organo referendario in cui la volontà sociale si
formi senza una convocazione e il rispetto dell’unità spazio-temporale, ma con una consultazione
scritta o il voto espresso per iscritto in luoghi e tempi diversi.
Esaminiamo innanzitutto le materie che sono attribuite alla competenza dell’organo decisionale dei
soci, questione che pone anche il problema se quest’organo può sostituire integralmente l’organo
amministrativo, che in tal modo non si porrebbe più come organo necessario nella s.r.l.
E infatti l’art. 2479 si apre con l’affermazione che “i soci decidono sulle materie riservate alla loro
competenza dall’atto costitutivo”. La norma non sembra porre limiti all’autonomia corporativa, per
cui lo statuto potrebbe attribuire alla competenza dei soci tutte le decisioni inerenti la vita sociale,
così rendendo inutile la presenza di un organo di amministrazione in senso stretto.
Ma prima di giungere a tale conclusione è necessario verificare se dal sistema disciplinare della s.r.l.
non possano ricavarsi indici contrari alla stessa. In effetti alcuni autori sottolineando come dall’ultimo
comma dell’art. 2475 si ricavi l’esistenza di una sfera di competenze inderogabili dell’organo
amministrativo (“la redazione del progetto di bilancio e dei progetti di fusione e scissione, nonché
le decisioni di aumento del capitale ai sensi dell’art. 2481, sono di competenza dell’organo
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amministrativo”). La ragione di questa riserva inderogabile (“in ogni caso”) discende dalla
circostanza che tali decisioni presuppongono una conoscenza approfondita della vita della società,
che solo persone incaricate della gestione quotidiana dell’impresa possono avere.
Esiste, dunque, sempre e comunque nella s.r.l. un organo amministrativo. Ma è parimenti vero che le
sue competenze, ferme quelle inderogabili ex art. 2475, possono in vario modo essere erose a favore
dell’organo decisionale dei soci, il quale può essere investito secondo tre modalità differenziate:
• In forza di una competenza legale inderogabile prevista dal comma 2 dell’art. 2479;
• In forza di una competenza statutaria (art. 2479) che può estendersi ad ogni materia, tranne
che a quelle inderogabilmente riservate all’organo di amministrazione ex art. 2475;
• In forza di una competenza devolutoria, posto che l’organo decisionale dei soci può esser
chiamato ad esprimersi su qualsiasi materia su iniziativa di uno o più amministratori o di tanti
soci che rappresentino almeno 1/3 del capitale sociale.
La competenza legale inderogabile investe le decisioni organizzative fondamentali e le modifiche
statuarie o che riguardino i diritti particolari dei soci. In particolare, e in ogni caso, sono riservate alla
competenza dei soci:
• L’approvazione del bilancio e la distribuzione degli utili;
• La nomina, se prevista nell’atto costitutivo, degli amministratori;
• La nomina di sindaci e del presidente del collegio sindacale o del soggetto incaricato di
effettuare la revisione legale dei conti;
• Le modificazioni dell’atto costitutivo;
• La decisione di compiere operazioni che comportano una sostanziale modificazione
dell’oggetto sociale o una rilevante modificazione dei diritti dei soci. Si aggiungono anche
competenze legali in altre norme sparse, come:
• La nomina dei liquidatori e la determinazione dei loro compiti o poteri;
• L’adozione degli “opportuni provvedimenti” in caso di perdite per oltre 1/3 del capitale;
• L’acquisizione di partecipazioni in imprese che comportino l’assunzione di responsabilità
illimitata per le obbligazioni sociali.
Le competenze inderogabili dei soci sono in gran parte sovrapponibili a quelle fissate per l’assemblea
di S.p.A. nel modello c.d. latino di amministrazione e controllo. Peraltro, nella disciplina della s.r.l.
nulla si dice in merito alla determinazione dei compensi e alla delibera sulla responsabilità di
amministratori e sindaci, né sulla approvazione dell’eventuale regolamento assembleare; né il
legislatore distingue tra assemblea ordinaria e straordinaria, benché richieda maggioranze
deliberative diverse. Ma ovviamente lo statuto della s.r.l. potrà ben regolare tali profili.
Ciò che differenzia decisamente S.p.A. e s.r.l. sul piano delle competenze dei soci è il potere
riconosciuto ai soci di s.r.l. di esprimersi in pieno su materie gestorie, laddove nella S.p.A. l’art. 2364
consente solo che l’assemblea deliberi “sulle autorizzazioni eventualmente richieste dallo statuto per
il compimento di atti degli amministratori, ferma restando la loro responsabilità per gli atti compiuti”.
Quanto, invece, alla competenza dei soci di s.r.l. regolata dal n. 5 dell’art. 2479, essa si differenzia
dal n. 4 poiché non comporta una modifica formale dello statuto, pur risolvendosi nel compimento di
atti gestori che modificano sostanzialmente l’oggetto sociale o in maniera rilevante i diritti particolari
dei soci, cioè di atti che violino le previsioni statutarie in materia pur senza modificarle formalmente.
In questo caso, gli atti gestori sono attribuiti alla competenza inderogabile dei soci che deliberano
necessariamente in forma assembleare e nel rispetto delle maggioranze previste per le modifiche dello
statuto (il voto favorevole di almeno la metà del capitale sociale).
Ci si è chiesto piuttosto se l’adozione di tali decisioni debba necessariamente accompagnarsi ad una
modifica dello statuto, ma ritengo che il rimedio voluto dal legislatore sia di tipo in senso lato
indennitario, legittimando il socio non consenziente ad esercitare il diritto di recesso.

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Alla tipologia delle operazioni gestorie che ricadono sotto la disciplina dell’art. 2479, n. 5, devono
ricondursi le acquisizioni di partecipazioni in altre imprese se ne risulti modificato l’oggetto sociale
statuario: il riferimento è all’art. 2361.
Mi parrebbe, poi, che le operazioni previste dal comma.2 dell’art. 2361 devono assoggettarsi nella
s.r.l. ad analoga disciplina dettata per la S.p.A. Si tratta, in questo caso, dell’acquisizione di
partecipazioni, da cui discende l’assunzione per la società acquirente di responsabilità illimitata: nella
S.p.A. non vengono vietate, ma sono attribuite alla competenza dell’assemblea e oggetto di specifica
informativa nella nota integrativa del bilancio d’esercizio. La stessa disciplina deve, in via analogica,
applicarsi alla s.r.l.

Le modalità di adozione delle decisioni dei soci La deliberazione assembleare


Le decisioni dei soci possono essere adottate in forma assembleare oppure, prevendendolo
espressamente, l’atto costitutivo in forma referendiaria (mediante consultazione scritta o consenso
espresso per iscritto.
1. La forma assembleare è quella naturale, nel senso che investe tutte le decisioni dei soci ove
l’atto costitutivo non disponga diversamente. Ma anche in tale eventualità, talune materie sono
inderogabilmente devolute alla decisione di tipo assembleare. In particolare:
a. Le modificazioni dell’atto costitutivo;
b. La decisione di compiere operazioni che comportano una sostanziale modificazione
dell’organo sociale determinato nell’atto costitutivo o una rilevante modificazione dei
diritti dei soci;
c. La riduzione obbligatoria conseguente a perdite del capitale sociale per oltre 1/3;
d. L’eventuale attribuzione per statuto di altre materie alla decisione assembleare,
comprese materie gestorie;
e. L’attribuzione devolutiva di ogni altra materia, sia gestoria e sia per statuto adottabile
in forma referendiaria, che comunque su istanza di uno o più amministratori o del
socio che ne rappresenti almeno 1/3 del capitale sociale può essere sottoposta alla
assemblea dei soci. Tale percentuale deve considerarsi derogabile in melius dall’atto
costitutivo.
2. L’assemblea è organo collegiale, che per le modalità di svolgimento implica maggiore
ponderazione della decisione e più rafforzata tutela delle minoranze. La deliberazione
assembleare si sviluppa attraverso varie fasi, e la completa assenza di ciascuna veniva
considerata vizio integrante non l’inesistenza giuridica (prima della riforma del 2003).
Elementi essenziali e costitutivi della fattispecie deliberativa veniva considerati:
a. La convocazione;
b. La riunione con i suoi quorum costitutivi;
c. La decisione con le sue maggioranze deliberative;
d. La proclamazione del risultato;
e. La verbalizzazione.
La categoria dell’inesistenza, però, è stata avversata dal legislatore del 2003.
Esaminiamo ora la disciplina delle distinte fasi del procedimento deliberativo (art. 24709-bis):
1. Esso prende avvio con la convocazione dell’assemblea, che si materializza in un atto indicante
l’ordine del giorno, cioè gli argomenti da trattare, il luogo, la data e l’ora di riunione. La
convocazione assume particolare importanza perché definisce la competenza specifica della
singola assemblea, nel senso che se l’argomento da trattare non è indicato nell’ordine del
giorno non può essere trattato e la relativa decisione sarebbe invalida.

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Una regola di default stabilisce poi che la convocazione:
• Riveste normalmente la forma (scritta) di lettera raccomandata;
• È spedita ai soci almeno 8 giorni prima dell’adunanza;
• È inviata al domicilio risultante dal registro delle imprese.
Quindi è sufficiente che la società provi di avere inviato in detto termine la convocazione,
mentre incombe sul socio destinatario la prova di averla ricevuta in termine così breve che gli
ha reso impossibile conseguire una adeguata informazione sugli argomenti da trattare o di
partecipare consapevolmente alla riunione. Peraltro, in caso di mutamento di indirizzo, è
onere dei soci provvedere a fare annotare nel Registro delle imprese il nuovo recapito.
La regola appena indicata è derogabile dall’atto costitutivo, che “determina i modi di
convocazione dell’assemblea dei soci” con l’unico limite che siano tali comunque da
assicurare la tempestiva informazione sugli argomenti da trattare.
L’atto costitutivo potrebbe disciplinare il potere di convocazione dell’assemblea,
individuando i soggetti legittimati, eventualmente attribuendolo anche al singolo socio.
La legittimazione attiva alla convocazione spetta all’organo amministrativo per la funzione
propulsiva che gli si deve riconoscere, nonché a tanti soci che detengono almeno 1/3 del
capitale sociale.La legitttimazione, secondo il prof,anche di un solo amministratore come
della maggioranza dei soci si desume dalla disposizione che attribuisce loro il potere
devolutivo della trattazione di qualsiasi materia all’assemblea dei soci
Può ritenersi che il potere di convocazione spetti anche all’organo di controllo nell’inerzia
dell’organo amministrativo.
La disciplina della convocazione non trova applicazione nell’ipotesi di assemblea totalitaria;
l’ultimo comma dell’art. 2479-bis dispone che “in ogni caso la deliberazione si intende
adottata quando ad essa partecipa l’intero capitale sociale e tutti gli amministratori e sindaci
sono presenti o informati della riunione e nessuno si oppone alla trattazione dell’argomento”.
Si suole dire in proposito che la competenza dell’assemblea totalitaria è generale, ma
instabile o precaria. Può deliberare su qualsiasi argomento, anche non previsto in apposito
ordine del giorno, ma nessuno deve opporsi alla trattazione. È dunque necessario che:
• Tutti i soci (l’intero capitale sociale) siano presenti alla riunione, anche per delega;
• Tutti gli amministratori e i sindaci siano anch’essi presenti alla riunione oppure è
sufficiente che siano informati della stessa;
• Nessuno si opponga alla trattazione, ovviamente nessuno dei soci presenti, ma a mio
avviso anche nessuno degli amministratori o sindaci pur informati ma non presenti,
purché facciano pervenire la loro trattazione degli argomenti.
Va segnalata la diversa disciplina dell’assemblea totalitaria nella s.r.l. rispetto alla S.p.A. In
quest’ultimo tipo societario, l’assemblea totalitaria sussiste quando “è rappresentato l’intero
capitale sociale e partecipa all’assemblea la maggioranza dei componenti degli organi
amministrativi e di controllo. Tuttavia, in tale ipotesi ciascuno dei partecipanti può opporsi
alla discussione degli argomenti sui quali non si ritenga sufficientemente informato”. La
presenza di tutti i soci deve accompagnarsi necessariamente alla presenza della maggioranza
dei componenti degli organi di amministrazione e di controllo e alla mancata opposizione
anche solo di un partecipante.
2. La seconda fase del procedimento deliberativo comporta la riunione dei soci (e dei
componenti degli organi di amministrazione ed eventualmente di controllo) in un medesimo
luogo (normalmente la sede sociale) e nel medesimo spazio temporale, affinché si possa
svolgere la discussione sugli argomenti posti all’ordine del giorno e quindi votare. A tal fine.
come per la S.p.A., è previsto che l’assemblea sia diretta da un Presidente che, come dispone
l’art. 2479-bis, è indicato nell’atto costitutivo o, in mancanza, è designato dagli intervenuti.
Al presidente dell’assemblea compete:

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• Verificare la regolarità della costituzione dell’assemblea, che presuppone
l’accertamento della identità e la legittimazione dei presenti;
• Regolare lo svolgimento dell’assemblea, assegnando la parola a chi ha il diritto di
intervento e, se del caso, contigentandone i tempi;
• Accertare i risultati delle votazioni con la proclamazione degli stessi.
Il diritto di intervento, in via di principio, spetta a tutti i soci, tranne che non siano morosi;
spetta in generale a coloro che possono esercitare il diritto di voto, e quindi al creditore
pignoratizio e all’usufruttario, salvo patto contrario iscritto nel Registro delle imprese, nonché
al custode in caso di sequestro della quota.
Il socio, comunque, può farsi rappresentare in assemblea da chiunque, cui sia attribuita la
delega senza particolari formalità benché per iscritto, considerato che la relativa
documentazione deve essere conservata presso la società. Vi è, tuttavia, chi propende per la
applicazione analogica dell’art. 2372 quanto al divieto di conferire la delega:
• Agli amministratori;
• Ai membri degli organi di controllo;
• Ai dipendenti della società;
• Alle società da questa controllate;
• Agli amministratori, membri dell’organo di controllo o dipendenti delle stesse.
L’assemblea è regolarmente costituita con il quorum della metà del capitale sociale. Lo statuto può
prevedere quorum costitutivi più bassi o più alti salvo, a mio avviso, che per le modifiche statuarie e
per il compimento di operazioni che comportino una sostanziale modifica dell’oggetto sociale o una
rilevante modifica dei diritti particolari dei soci, decisioni per le quali il quorum può essere soltanto
innalzato. Può anche consentire la partecipazione dell’assemblea a distanza, mediante
videoconferenza o mezzi di comunicazione telematica.
3. Alla discussione segue la fase deliberativa, che avrà ad oggetto una proposta su cui si esprime
il voto dei soci, il cui peso è proporzionale alla partecipazione.La proposta è approvata a
maggioranza assoluta dei presenti. Per le decisioni di modifica statutaria o di compimento di
operazioni che comportino una sostanziale modifica dell’oggetto sociale o una rilevante
modifica dei diritti particolari dei soci, il quorum deliberativo coincide con il q uorum
costitutivo, e cioè con il voto favorevole di tanti soci che rappresentino almeno la metà del
capitale sociale. Ovviamente, se fosse presente l’intero capitale sociale, il quorum deliberativo
si attesterà alla metà più uno del capitale sociale. L’atto costitutivo può anche consentire il
voto per corrispondenza, oltre che per mezzi di collegamento telematico, e può prevedere
quorum deliberativi più bassi o più alti, salvo che per le decisioni ex art. 2479, co. 2, nn. 4 e
5 (ove il quorum può solo essere innalzato).
Secondo l’opinione prevalente, sarebbe anche consentito che lo statuto imponga per ogni
decisione la unanimità dei consensi, ma la Cassazione (sent. n. 7663/2005) ha dichiarato la
nullità di una clausola della s.r.l. che prevedeva la unanimità per tutte le operazioni
straordinarie.
Il voto del socio è proporzionale alla entità della sua partecipazione. Non sembra ammissibile
che lo statuto introduca il voto per teste, né forme che deroghino al principio di
proporzionalità. L’esito della votazione dovrà essere accertato e proclamato dal Presidente
dell’assemblea.
4. Le attività e gli accertamenti compiuti dal Presidente sono oggetto di verbalizzazione. La
norma non prevede la necessaria presenza di un segretario che assolva a tale compito, salvo
che per l’ipotesi in cui si dovrà redigere verbale per atto pubblico, nel quel caso è necessaria
la presenza del notaio in funzione di segretario. L’atto costitutivo, ovviamente, può
disciplinare la nomina di un segretario per l’assemblea; in mancanza, il Presidente potrà
decidere di farlo designare dall’assemblea o anche di designarlo direttamente o, infine,

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provvedere direttamente alla redazione del verbale. Il verbale potrà essere redatto anche in un
momento successivo alla chiusura dell’assemblea, e sarà sottoscritto dal Presidente e, se
nominato, dal segretario.
Il verbale dovrà essere trascritto, a cura degli amministratori, nel libro delle decisioni dei soci
e, se del caso, depositato o iscritto nel Registro delle imprese. Le decisioni sono normalmente
immediatamente efficaci, salvo le modifiche statutarie che diventano tali solo dopo
l’iscrizione nel Registro delle imprese. Sono revocabili o modificabili, per motivi di merito o
di legittimità, fatti salvi i diritti acquisiti in caso di loro esecuzione.
Le decisioni scritte dei soci di tipo referendiario
Presupposto essenziale per l’adozione di decisioni di tipo extrassembleare è la loro previsione
nell’atto costitutivo, in assenza della quale si deve sempre utilizzare il metodo assembleare.
1. Il metodo alternativo a quello collegiale è individuato nella “consultazione scritta” o nel
“consenso espresso per iscritto”, il che introduce meccanismi di formazione della
maggioranza di tipo referendiario.
L’introduzione nella s.r.l. della eventualità di tale metodo decisionale avvicina la disciplina
di questo tipo al modello delle società personali, nelle quali l’opinione prevalente ritiene non
necessaria l’assemblea. Secondo alcuni autori e secondo buona parte della giurisprudenza, nelle
società di persone le decisioni sia dei soci che degli amministratori potrebbero adottarsi anche
senza l’interpello di tutti i soci o di tutti gli amministratori, essendo sufficiente il solo
raggiungimento della maggioranza. Questo principio, di dubbia ammissione, deve considerarsi
del tutto inammissibile nella s.r.l., poiché l’art. 2479 dispone che “ogni socio ha il diritto di
partecipare alle decisioni previste dal presente articolo”, e per altro verso l’art. 2479 commina
la sanzione di invalidità alle decisioni che siano adottate “in assenza assoluta di informazione”.
Ne deriva che l’informazione deve ritenersi elemento essenziale di validità delle decisioni dei
soci e deve precedere e, probabilmente, seguire la decisione stessa. Una decisione scritta pur
adottata dalla maggioranza richiesta ma senza che vi sia alcun coinvolgimento partecipativo o
alcuna informativa anche solo di un socio sarebbe lesiva dei diritti indisponibili del singolo socio.
2. Esaminiamo il procedimento da seguire per l’adozione di una decisione scritta dei soci.
Occorre capire se possa individuarsi una differenza tra la “consultazione scritta” e il “consenso
espresso per iscritto”. La dottrina ha cercato di differenziare queste due forme di decisione extra
assembleare facendo leva su vari elementi:
a. La consultazione scritta muoverebbe da un atto di impulso su un testo scritto già formulato
ma modificabile, su cui tutti i soci sono chiamati ad esprimere la loro opinione e i loro
emendamenti. Successivamente si procede alla formulazione del testo definitivo su cui
raccogliere le espressioni di voto.
b. Il consenso espresso per iscritto, secondo alcuni, presuppone un unico testo
immodificabile su cui raccogliere il consenso dei soci; secondo altri, anche la presenza di
dichiarazioni autonome dei singoli soci, purché concordanti nel contenuto. Tutti i soci
devono essere messi nella condizione di partecipare alla decisione e devono essere informati
dell’argomento e del contenuto della decisione ad adottarsi. Sarebbe invalida una decisione
adottata in assenza assoluta di informazione da parte di ciascun socio. Inoltre, il testo
contenente la decisione deve essere formulato con chiarezza.
A chi compete il potere di iniziativa nell’attivazione del procedimento di consultazione o di consenso
per iscritto? La norma non lo precisa, e la questione potrebbe trovare regolamentazione specifica
nell’atto costitutivo. In mancanza, è condivisibile che si possa e si debba fare applicazione analogica
delle disposizioni inerenti al potere di convocazione dell’assemblea, sì che il potere di impulso del
procedimento extra-assembleare spetterà a chi ha il potere di sollecitare la decisione dei soci su
qualsiasi argomento.

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L’atto costitutivo potrà semmai ampliare la platea dei legittimati, estendendo il potere di iniziativa a
percentuali qualificate di soci, al singolo socio o all’organo di controllo.
Il consenso dovrà essere espresso necessariamente per iscritto; il voto potrà essere favorevole o
contrario, così come il socio può astenersi o non votare affatto, nel qual caso dovrà considerarsi
assente. Il socio potrà esprimere il proprio voto anche per rappresentanza, e la documentazione
relativa dovrà essere comunicata per essere conservata presso la società. La questione più
significativa è se debba apporsi un termine entro cui il socio deve manifestare il proprio voto.
• Talvolta il termine è previsto nello statuto;
• In mancanza, vi è chi ritiene applicabile il termine di 8 gg della spedizione della proposta
scritta definitiva e immodificabile.
Comunque, il termine deve essere congruo, per consentire a tutti i soci di far pervenire il proprio voto.
Entro questo termine potrà anche farsi pervenire la revoca del consenso già manifestato. Le
manifestazioni di voto dovranno farsi pervenire a chi ha assunto l’iniziativa e, secondo alcuni, anche
al Presidente dell’assemblea eventualmente previsto in atto costitutivo.
Il quorum decisionale necessario ai fini dell’approvazione è più alto rispetto a quello previsto per le
decisioni assembleari di pari contenuto, in quanto si richiede il voto favorevole di almeno la metà del
capitale sociale. È chiaro che se tutti i soci hanno espresso il proprio voto, l’approvazione esige la
metà più uno del capitale sociale.
L’unico modo per rendere possibile un voto favorevole che si attesti anche solo alla metà del capitale
sociale è considerare assente, e quindi non computabile nel quorum costitutivo, il socio che non abbia
fornito alcuna risposta.
Il soggetto che ha assunto l’iniziativa e cui sono pervenute le comunicazioni scritte di adesione dovrà
inoltrare la decisione agli amministratori, affinché questi provvedano alla sua trascrizione nel libro
delle decisioni dei soci. A tal fine si ritiene che, in mancanza di regolamentazione nell’atto costitutivo,
la verifica della legittimità del procedimento e la proclamazione del risultato spetti all’organo di
amministrazione. Tuttavia, dette decisioni sono spesso adottate in contrasto con gli amministratori,
ed è agevole ipotizzare una loro attività di boicottaggio, soprattutto in fase esecutiva.

L’invalidità delle decisioni dei soci. Il procedimento di impugnazione


La riforma del 2003 ha cercato, sia nella disciplina della S.p.A. che in quella della s.r.l., di dettare una
normativa sulla invalidità delle deliberazioni e delle decisioni dei soci che riducesse quanto più
possibile gli spazi della categoria di creazione giurisprudenziale e dottrinaria della inesistenza. Nel
contempo ha sempre più allargato la distanza tra la categoria della nullità del contratto e quella della
nullità delle deliberazioni assembleari nella S.p,A, come anche della “invalidità” delle decisioni nella
s.r.l..
Quanto alla invalidità, va osservato che l’art. 2479-ter non utilizza la distinzione tra annullabilità o
nullità, ma si limita a qualificare genericamente tutti i vizi da cui possono essere affette le decisioni
dei soci nella s.r.l. in termini di generica “invalidità”; tuttavia, le regole di diritto positivo che
governano la rilevanza dei vari vizi finiscono per porre capo a tre regimi di invalidità come accade
nella S.p.A:
• L’invalidità assimilabile alla annullabilità, in quanto caratterizzata da una legittimazione
chiusa all’impugnativa e da un breve termine di decadenza;
• L’invalidità assimilabile ad una nullità sanabile, molto diversa da quella del contratto perché
pur essendo caratterizzata da una legittimazione alla impugnativa è però soggetta ad un
(ampio) termine di decadenza;
• L’invalidità assimilabile ad una nullità insanabile, ben più vicina alla categoria contrattuale,
in quanto a legittimazione aperta e imprescrittibile né soggetta a termini di decadenza. Una
ulteriore premessa riguarda l’unitarietà della disciplina dei vizi, sia che si tratti di deliberazioni

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assembleari, sia che si tratti di decisioni scritte extra-assembleari, benché taluni vizi possono
più incisivamente riguardare le decisioni extra-assembleari.
1. Quanto alla invalidità definibile come annullabilità, essa colpisce le “decisioni dei soci che
non sono prese in conformità della legge o dell’atto costitutivo” e che “possono essere
impugnate dai soci che non vi hanno consentito, da ciascun amministratore e dal collegio
sindacale entro 90 giorni dalla loro trascrizione nel libro delle decisioni dei soci”. L’art.
2497-ter, comma 1, individua così:
• I vizi rilevanti, e cioè la “non conformità” della decisione alle norme di legge o alle
clausole statutarie;
• I soggetti legittimati all’impugnativa, identificati nei soci non consenzienti, in
ciascun amministratore individualmente considerato, nel collegio sindacale;
• Il breve termine di decadenza, computato in 90 giorni dalla trascrizione decisione
nel relativo libro,termine che in mancanza di quella trascrizione non decorrerà a
vantaggio dell’eventuale impugnante e a svantaggio della stabilità della decisione per
la società.Si conferma dunque che l’annullabilità è categoria di invalidità “a
legittimazione chiusa”.
2. L’invalidità assimilabile alla nullità sanabile è disciplinata del secondo periodo del
penultimo comma dell’art. 2497-ter: “le decisioni aventi oggetto illecito e impossibile e quelle
prese in assenza assoluta di informazione possono essere impugnate da chiunque vi abbia
interesse entro 3 anni dalla trascrizione indicata nel primo periodo del precedente primo
comma”. Anche qui la disposizione individua:
• I classici vizi rilevanti, analoghi a quelli indicati dall’art. 2397 per la nullità delle
deliberazioni assembleari di S.p.A., e cioè l’illiceità o impossibilità dell’oggetto della
decisione, e tuttavia vi aggiunge un nuovo vizio costituito dalla assoluta assenza di
informazione;
• I soggetti legittimati attraverso la formula di “chiunque vi abbia interesse”, che
determina una legittimazione aperta;
• Il termine pur ampio di decadenza della impugnativa, fissato in 3 anni dalla solita
trascrizione nel libro delle decisioni dei soci.
Inoltre:
• In merito alle decisioni nulle per oggetto illecito o impossibile nasce il problema di
differenziarle dalle decisioni annullabili per non conformità alla legge.
È evidente che anche per decisioni ad oggetto illecito è predicabile il criterio della
difformità dalla legge, in quanto l’illiceità si traduce nella contrarietà a norma
imperativa, all’ordine pubblico o al buon costume. E la non conformità alla legge deve
riguardare il contrasto della decisione con norma imperativa. La nullità presuppone
un vizio dell’oggetto della decisione, cioè di contenuto del decisum, e sotto questo
profilo potrebbe delinearsi un discrimen, nel senso che: o La difformità a norma
imperativa del contenuto deliberativo determinerebbe la nullità;
o La difformità a norma imperativa del procedimento di formazione della
decisione determinerebbe la annullabilità.
Talvolta anche il vizio di contenuto può dare luogo alla mera annullabilità, allorché la
norma imperativa sia posta a tutela non di un interesse generale ma di interessi
particolari.
Una ulteriore precisazione va fatta in merito alla interpretazione del termine “oggetto”
della decisione, avendo autorevole dottrina proposto di indentificare l’oggetto con
l’argomento in sé posto all’ordine del giorno. Di qui la conseguenza che decisioni, per
esempio, di approvazione di bilancio d’esercizio non potrebbero mai considerarsi

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nulle avendo ad oggetto un tema certamente lecito. Diversamente sarebbe se l’oggetto
fosse, ad esempio, apertura di una casa di prossenitismo che è di per sé attività vietata
dall’ordinamento. Senonché così si rende la categoria della nullità del tutto residuale.
L’opinione e la giurisprudenza ritengono, pertanto, che per oggetto debba intendersi
il “contenuto deliberato”, insomma l’intero testo della decisione.
Quanto poi alle decisioni nulle, perché prese in assenza assoluta di informazione,
la novità sta forse più nella formulazione che nella sostanza. Se per “informazione” si
intende quella preventiva alla decisione o anche l’informazione successiva che si
traduce nella verbalizzazione, secondo parte della dottrina precedente alla riforma del
2003 la sua assoluta carenza determinava la inesistenza della fattispecie deliberativa,
cioè l’impossibilità di conoscere il dato materiale denominato deliberazione. Il
legislatore del 2003 ha qualificato invece il vizio di assoluta carenza di informazione
come vizio di nullità. e in verità sotto molteplici profili sanabile, innanzitutto per
decorso del termine triennale di decadenza.
• La legittimazione all’impugnativa delle decisioni nulle ha carattere aperto, in quanto
è il concreto interesse di qualsiasi soggetto leso dalla decisione nulla che lo legittima
a chiederne la declaratoria di nullità.
E può avervi interesse anche il socio consenziente, che pure ha votato a favore. Non
sembra essere richiamato il potere del giudice di rilevare d’ufficio il vizio di nullità,
ma vi è chi ritiene che a quel potere rinvia la stessa “legittimazione aperta”.
• Il termine triennale di decadenza dalla trascrizione nel libro delle decisioni dei soci:
o Rappresenta una decisiva innovazione della riforma del 2003, tesa a dare
maggiore stabilità agli atti societari; o È in contrasto con la categoria della nullità
contrattuale, che è imprescrittibile.
3. Residua una sola ipotesi assimilabile alla nullità contrattuale, che è la nullità radicale e
insanabile della decisione che adotta come “oggetto sociale” l’esercizio di una attività illecita
o impossibile, nel quel caso la nullità è imprescrittibile e può essere fatta valere senza limiti
di tempo.
4. Quanto alla inesistenza giuridica della fattispecie “decisione dei soci”, nella sua duplice
articolazione di deliberazione assembleare e di decisione scritta extra-assembleare, vi è da
chiedersi se permangano spazi per la applicazione della categoria della inesistenza, nonostante
gli sforzi del legislatore di ricondurre ogni vizio nella categoria della invalidità. Secondo
alcuni autori è compito dell’interprete ricostruire la fattispecie normativa cui il legislatore
ritiene di dare rilevanza giuridica, gli elementi cioè della realtà sociale assunti nella norma
come giuridicamente rilevanti e tali che una volta individuati nel fatto concreto determinano
gli effetti giuridici riconducibili a quella fattispecie. Questo processo di sussunzione può
condurre ad escludere la presenza di elementi essenziali alla identificazione della fattispecie,
da cui consegue la “inesistenza giuridica della stessa”.
Non vi è dubbio che alcuni di questi elementi siano stati normativamente riclassificati come
vizi di nullità e spesso sanabili. Tuttavia, non pare che possa individuarsi una “decisione ei
soci” laddove si sia proceduto alla integrale falsificazione dei fatti materiali eventualmente
verbalizzati: l’esistenza della documentazione di una decisione mai adottata, perché attestante
una riunione che non si è mai tenuta, o una votazione che non è mai avvenuta, non può
integrare l’esistenza di una decisione dei soci.
5. L’ultimo comma dell’art. 2479-ter contiene un esteso rinvio alle regole di procedimento
dell’impugnativa, dettate in sede di S.p.A. per le deliberazioni invalide.
Innanzitutto, si riconferma la vincolatività del principio maggioritario, in quanto “le
deliberazioni dell’assemblea, prese in conformità della legge e dell’atto costitutivo, vincolano
tutti i soci, ancorché non intervenuti o dissenzienti”.

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In secondo luogo, si ribadisce che “l’annullamento della deliberazione ha effetto rispetto a
tutti i soci ed obbliga gli amministratori, il consiglio di sorveglianza e il consiglio di gestione
a prendere i conseguenti provvedimenti sotto la propria responsabilità. In ogni caso sono salvi
i diritti acquistati in buona fede dai terzi in base ad atti compiuti in esecuzione della
deliberazione”.
In terzo luogo, si rende applicabile, nel corso del giudizio di impugnazione, anche alle
decisioni invalide di s.r.l., il meccanismo di sostituzione della decisione impugnata con altra
che rimuova il vizio denunciato. E infatti “l’annullamento della deliberazione non può avere
luogo se la deliberazione impugnata è sostituita con altra presa in conformità della legge o
dello statuto. In tal caso il giudice provvede sulle spese di lite, ponendole di norma a carico
della società, e sul risarcimento dell’eventuale danno”. Ma “restano salvi i diritti acquisiti dai
terzi sulla base della deliberazione sostituita”. Questo meccanismo di sostituzione della
decisione viziata è dunque ammissibile nella s.r.l. Il Tribunale assolve dunque ad una funzione
conciliativa, pur dovendo, nel caso di sostituzione, provvedere sulle spese e sull’eventuale
risarcimento danni.
Ai sensi dell’art. 2378, il procedimento di impugnazione si avvia “con atto di citazione
davanti al Tribunale del luogo ove la società ha la sede” e “tutte le impugnazioni relative alla
medesima deliberazione devono essere istruite congiuntamente e decise con unica sentenza”.
La trattazione della causa di merito ha inizio trascorso il termine stabilito per l’impugnazione.
La legittimazione del socio deve essere dimostrata con la prova del possesso della quota al
momento della proposizione dell’atto di citazione. È possibile la successione nel diritto
controverso ai sensi dell’art. 111 c.p.c. in capo all’acquirente o successore della quota che,
intervenendo, potrà proseguire il giudizio.
Con autonomo ricorso depositato contestualmente al deposito, anche in copia, della citazione,
l’impugnante può chiedere la sospensione dell’esecuzione della deliberazione. In caso di
eccezionale e motivata urgenza, il Presidente del Tribunale, omessa la convocazione della
società convenuta, provvede sull’istanza con decreto motivato,che deve altresì contenere la
designazione del giudice per la trattazione della causa di merito e la fissazione entro 15 giorni
dell’udienza per la conferma\modifica\revoca dei provvedimenti emanati con il
decreto,nonchè la fissazione del termine per la notificazione alla controparte del ricorso e del
decreto.Il giudice,sentiti gli amministratori e gli eventuali sindaci,provvede valutando
comparativamente il pregiudizio che subirebbe il ricorrente dalla esecuzione e quello che
subirebbe la società dalla sospensione dell’esecuzione della decisione;può disporre in
qualunque momento che I soci opponenti prestino idonea garanzia per l’eventuale
risarcimento
I dispositivi del provvedimento di sospensione della sentenza che decide sulla impugnazione
devono essere iscritti a cura degli amministratori nel Registro delle imprese.

Casi speciali o specifici di invalidità


Varie disposizioni disciplinano casi particolari di invalidità delle decisioni dei soci.
1. L’art. 2479-ter prevede l’ipotesi di invalidità per conflitto di interessi del socio
riconducibile alla annullabilità della decisione. Essa ricorre in presenza di 3 presupposti:
o Il socio deve essere portatore, per conto proprio o di terzi, di un interesse confliggente
con quello della società;
o La decisione deve essere stata approvata con il voto determinante del socio in conflitto
ai fini del raggiungimento della maggioranza (c.d. prova di resistenza);
o La decisione adottata deve presentare una potenzialità di danno per la società, e cioè
il danno non deve essere necessariamente attuale.

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Al socio non è fatto divieto di votare, ma è richiesto al socio di confermare il proprio voto
all’interesse sociale. In mancanza, il voto non è necessariamente annullato, ma determina la
invalidità della decisione ove ricorrano contestualmente tutti e tre i vizi sopra richiamati.
Situazione ben diversa è quella che dispone un vero e proprio divieto di voto a carico del
socio-amministratore, quando si dovesse decidere sulla sua responsabilità. In tale ipotesi,
l’art. 2373, comma 2, dettato per la S.p.A., contempla un vero e proprio divieto di voto in
capo al socio che sia anche amministratore della cui responsabilità si discute. (il prof è
d’accordo con l’applicazione analogica della disciplina della spa per la srl)
2. L’art. 2377, comma 5, dispone che “La deliberazione non può essere annullata:
o Per la partecipazione all’assemblea di persone non legittimate, salvo che tale
partecipazione sia stata determinante ai fini della regolare costituzione dell’assemblea;
o Per l’invalidità di singoli voti o per il loro errato conteggio, salvo che il voto invalido
o l’errore di conteggio siano stati determinanti ai fini del raggiungimento della
maggioranza richiesta;
o Per l’incompletezza o inesattezza del verbale, salvo che impediscano l’accertamento
del contenuto degli effetti e della validità della deliberazione”.
Si tratta di vizi procedimentali che possono incidere sul quorum costitutivo, sul quorum
deliberativo o sulla verbalizzazione della decisione. Prima della riforma, la mancanza di tali
elementi poteva essere apprezzata come integrante vizi di inesistenza della deliberazione. Ora
il legislatore ne dispone il rilievo in termini di sola annullabilità. Il difetto di legittimazione
primaria e/o secondaria alla partecipazione al processo decisionale comporta annullabilità
solo nel caso in cui esso faccia venir meno il quorum costitutivo della decisione. Parimenti
l’annullamento del voto o anche l’errore materiale di calcolo rilevano sempre in termini di
annullabilità solo se determinanti per il raggiungimento del quorum deliberativo. Infine,
l’incompletezza o inesattezza della verbalizzazione comportano vizi di annullamento solo se
impediscono l’accertamento di contenuto, effetti e condizioni di validità della decisione.
3. L’art. 2379-bis, rubricato “sanatoria della nullità”, precisa entro che limiti possono rilevare i
vizi della convocazione e della verbalizzazione, sempre nel duplice intento di escludere
l’inesistenza della decisione e di qualificare l’eventuale vizio solo in termini di nullità
sanabile. E così:
o Il vizio di mancata convocazione è sanato per chi “anche successivamente abbia
dichiarato il suo assenso allo svolgimento dell’assemblea” o o allo svolgimento del
procedimento decisionale extra-assembleare;
o Parimenti, il vizio di mancanza del verbale è sanato se la verbalizzazione si realizza
comunque “prima dell’assemblea successiva”. Gli effetti della decisione decorrono
comunque dalla data in cui è stata adottata e sono fatti salvi i diritti dei terzi che in
buona fede ignoravano la decisione successivamente verbalizzata.
Altri vizi della convocazione e della verbalizzazione sono degradati a mere irregolarità
irrilevanti sul piano della invalidità della deliberazione. Al riguardo, deve ritenersi applicabile
in via analogica anche l’art. 2379, comma 3, il quale dispone che il vizio di formazione della
convocazione è sanato, anzi, è considerato irrilevante, se essa:
o Proviene da un componente dell’organo di amministrazione o di controllo della
società;
o È idonea a consentire a coloro che hanno diritto di intervenire di essere
preventivamente avvertiti della convocazione e della data di assemblea.
Parimenti, deve considerarsi irrilevante il vizio di verbalizzazione se “il verbale contiene la
data della deliberazione e il suo oggetto ed è sottoscritto dal Presidente dell’assemblea, o dal
Presidente del consiglio di amministrazione o dal notaio”. Si riducono cosi al minimo i
requisiti essenziali del verbale, che è tale se contiene:
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o La data della delibera; o L’oggetto della delibera;
o La sottoscrizione del Presidente dell’assemblea o del solo Presidente del consiglio di
amministrazione o del solo notaio.
4. L’art. 2397-ter limita l’impugnabilità delle deliberazioni invalide per vizi di nullità ex art.
2379 di aumento del capitale sociale e di riduzione effettiva dello stesso ex art. 2445, se
l’impugnazione viene proposta dopo che siano trascorsi 190 giorni dalla iscrizione della
deliberazione nel Registro delle imprese ovvero, quando il vizio sia di mancata convocazione,
allorché siano trascorsi 90 giorni dall’approvazione del bilancio dell’esercizio in cui la
deliberazione è stata anche parzialmente eseguita. La non impugnabilità per decadenza in tali
casi non esclude il risarcimento danni eventualmente spettante a soci e a terzi.
5. L’art. 2434-bis a sua volta introduce limitazioni alla impugnabilità della decisione di
“approvazione del bilancio”, nel senso che tali vizi di annullabilità quanto quelli di nullità
non possono più farsi valere una volta che sia stata effettuata “l’approvazione del bilancio
dell’esercizio successivo”. Ritengo che il rinvio all’intero art. 2434-bis comporti anche
l’applicazione del limite alla legittimazione dei soci all’impugnativa in presenza di bilancio
che ha ricevuto dal soggetto incaricato della revisione legale dei conti un “giudizio privo di
rilievi”, per cui si richiede che il socio o i soci impugnanti detengano almeno il 5% del capitale
sociale. Inoltre, il bilancio d’esercizio nel corso del quale è dichiarata l’invalidità del bilancio
impugnato deve tener conto delle ragioni della stessa invalidità.
Questa disciplina sembra partire dal presupposto che i vizi dell’approvazione del bilancio
d’esercizio:
o O si sono trasmessi nel successivo bilancio approvato, e allora è contro quest’ultima
decisione che va proposta la impugnazione;
o O non si sono trasmessi e hanno trovato sanatoria nella approvazione del nuovo
bilancio.
Se alla informazione non chiara né veritiera e corretta si accompagna anche la lesione di
interessi e diritti patrimoniali di soci e di terzi, il vizio del bilancio potrà essere fatto valere
senza limitazioni temporali, ma entro termini di prescrizione del diritto patrimoniale leso, e
sia pure senza forza di giudicato ma incidentalmente e strumentalmente all’accertamento della
lesione dell’interesse e/o diritto patrimoniale.

Capitolo X Gli amministratori

Essenzialità dell’organo amministrativo e competenze


La disciplina dell’amministrazione nella s.r.l. è contenuta in 4 disposizioni, dall’art. 2375 all’art.
2476, e si tratta di un modello legale molto scarno che lascia ampio spazio all’autonomia corporativa.
Il presupposto di questa tecnica è che si vuole consentire ai soci stessi in sede di atto costitutivo di
integrare la disciplina in relazione alle concrete esigenze di quella specifica compagine sociale. Il
primo problema che solleva il modello legale di s.r.l. riguarda addirittura la essenzialità o meno
dell’organo amministrativo nell’ambito della struttura organizzativa della società.
1. Per un verso, l’art. 2463, nel fissare il contenuto dell’atto costitutivo, sembra presupporre
l’esistenza di un organo amministrativo, in quanto richiede che si indichino le norme relative
al funzionamento della società (in particolare concernenti amministrazione, rappresentanza e
persone cui è affidata l’amministrazione);
2. Per altro verso, l’art. 2479 affida pur sempre all’atto costitutivo di determinare le “materie
riservate” alla competenza dei soci, senza porre particolari limitazioni a tale devoluzione
statutaria di competenze.

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Di qui il dubbio se l’atto costitutivo possa attribuire all’organo decisionale dei soci ogni questione di
carattere gestorio, così esautorando e anzi rendendo inutile la presenza di uno specifico organo
amministrativo. E tanto più che nell’ambito di s.r.l. non è richiamato l’art. 2380, che nella S.p.A.
delimita una sfera di competenze inderogabili degli amministratori quando sancisce che la gestione
dell’impresa spetta agli amministratori i quali compiono le operazioni necessarie per l’attuazione
dell’oggetto sociale.
Senonchè il codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza,modificando il I comma dell’art 2475 cc
ha disposto che “la gestione dell’impresa si svolge nel rispetto della disposizione di cui l’art 2086(II
comma) e spetta solo agli amministratori,i quali compiono le operazioni necessarie per l’attuazione
dell’oggetto sociale” riprendendo accanto all’obbligo di istituire assetti organizzativi,amministrativi
e contabili adeguati alla natura e alla dimensione dell’impresa(novella art 2086) anche il principio di
esclusività gestoria in capo agli amministratori.Però non sono abrogate disposizioni con cui si
attribuiscono poteri amministragti ai singoli soci
Al di là del criterio generale di delimitazione delle sfere di competenza dell’organo amministrativo e
dell’organo decisionale dei soci, si può concordare con l’opinione che individua nell’ultimo comma
dell’art. 2475 alcune materie che devono considerarsi inderogabilmente attribuite alla competenza
dell’organo amministrativo anche nella s.r.l.:
• La redazione del progetto di bilancio e dei progetti di fusione e scissione; • Le decisioni di
aumento del capitale ai sensi dell’art. 2481.
Il che presuppone la necessaria esistenza dell’organo amministrativo e la impossibilità che queste
materie possano essere devolute statuariamente alla decisione dei soci. La ragione di tale sfera
indisponibile è da ricollegare alla necessaria conoscenza dell’intera attività gestoria della società che
la redazione dei progetti indicati comporta.Si tratta di progetti(bilancio come rendiconto
annuale,situazioni patrimoniali ed eco per fusione o scissione..)che esigono una conoscenza
continuativa della gestione sociale e che non possono incardinarsi se non in persone che siano investiti
di compiti gestori;inoltre la istituzione degli assetti oganizzativi esige una conoscenza estesa di tutte
le esigenze operative della società(requisito della competenza in capo al soggetto investito di tali
compiti)
Il criterio generale di ripartizione di competenze fra soci e amministratori che sembra desumersi dal
modello legale della s.r.l., in mancanza di diversa previsione statutaria, è quello di una competenza
generale e residuale dell’organo amministrativo nel compimento degli atti necessari all’attuazione
dell’oggetto sociale e di una competenza specifica dell’organo decisionale dei soci.
• Le materie attribuite alla competenza dei soci sono definite dalla legge o dall’atto costitutivo;
• Le materie su cui decide l’organo amministrativo sono residualmente ricavabili in forza della
generica espressione “operazioni necessarie per l’attuazione dell’oggetto sociale”.
Gli amministratori sono chiamati a decidere tutto ciò che non è deciso dai soci, e dunque pongono in
essere tanto atti di amministrazione conservativa, quanto atti di amministrazione dispositiva del
patrimonio sociale.
Peraltro, rispetto all’esercizio di attività economiche non è agevole distinguere tra atti di
straordinaria amministrazione e atti di ordinaria amministrazione.
• Rispetto ad attività statiche di mera conservazione del patrimonio, il criterio può correre tra
atti di mero godimento e atti dispositivi;
• Rispetto ad attività dinamiche, tese alla produzione di nuova ricchezza, il criterio non corre
più tra conservazione e disposizione: atti di ordinaria amministrazione possono essere tutti
quelli che hanno carattere dispositivo riconducibili all’attuazione dell’oggetto sociale. Per
stabilire il carattere ordinario o straordinario dell’atto gestorio bisognerà guardare alla
ricorrenza statistica di determinati atti nella realizzazione dell’oggetto sociale perseguito,
piuttosto che di quello statutario:

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• Laddove siamo di fronte ad atti di amministrazione non ricorrenti allora probabilmente
possiamo dire di essere dinanzi ad atti di straordinaria amministrazione;
• A fronte di atti di amministrazione ricorrenti si può parlare di atti di ordinaria
amministrazione.
Il criterio della “ricorrenza statistica degli atti” guida la definizione dell’atto di gestione come di
ordinaria o di straordinaria amministrazione.

Nomina dell’amministratore
L’amministrazione della società è affidata ad uno o più soci, nominati con decisione dei soci presa
ai sensi dell’art. 2479, salvo diversa disposizione dell’atto costitutivo (art. 2475).
In via normale, l’amministrazione è attribuita, con decisione dei soci, a uno o più soci come nelle
società di persone, ma l’atto costitutivo potrebbe derogarvi sotto un duplice profilo:
• Nel senso di rendere possibile la nomina ad amministratore anche di un terzo non socio (come
accade nella S.p.A.);
• Nel senso di prevedere meccanismi di nomina che non si traducano in una decisione dei soci.
Ovviamente:
1. I primi amministratori vengono nominati all’unanimità nell’atto costitutivo;
2. Quelli successivi con decisione maggioritaria dei soci;
3. Ma lo statuto potrebbe anche attribuire un diritto particolare ad uno o più soci che si sostanzia
nel diritto di amministrare o piuttosto nel diritto di designare uno o più amministratori.
Non è invece prevista una nomina giudiziale degli amministratori, non essendo applicabile l’art.
2409 alle s.r.l., che nella S.p.A. legittima il Tribunale anche a revocare amministratori nel caso di
compimento di irregolarità gestorie particolarmente gravi e a sostituirli con amministratori di nomina
giudiziaria con compiti e durata predefiniti.
Né sembra consentito procedere, in caso di organo collegiale e nel silenzio dello statuto alla nomina,
per cooptazione da parte degli stessi amministratori. Anche in questo caso si tratta di un meccanismo
disciplinato nella S.p.A. e non richiamato dalle regole legali della s.r.l. L’art. 2386 prevede infatti
che, se nel corso dell’esercizio vengono a mancare uno o più amministratori, ma permane in carica la
maggioranza nominata dall’assemblea, questi ultimi provvedono a sostituirli con deliberazione
approvata dal collegio sindacale, anche se la relativa nomina dura fino alla prossima assemblea, che
dovrà provvedere a confermarli o meno. Tale disposizione non è applicabile analogicamente alla
s.r.l(opinione prevalente). Nel caso di nomina con decisione dei soci, le modalità di elezione possono
essere le più varie, comprese quelle che prevedono voti di lista o voto determinante di gruppi di
minoranza per garantire loro la designazione di alcuni amministratori.
La normativa della s.r.l. non indica “cause di ineleggibilità”, che potranno essere dettate dall’atto
costitutivo. Tuttavia, molti autori ritengono che debbano trovare applicazione analogica le regole
dettate dall’art. 2382 per la S.p.A., secondo cui non può ricoprire la carica di amministratore (e se
nominato decade dall’ufficio):
• L’interdetto;
• L’inabilitato;
• Il fallito;
• Chi è stato condannato ad una pena che comporta l’interdizione, anche temporanea, dai
pubblici uffici o l’incapacità ad esercitare uffici direttivi (e l’incapace).
Parimenti, non è richiamato l’art. 2390, che nella S.p.A. introduce il divieto di concorrenza a carico
degli amministratori. Ancora una volta, nel silenzio dello statuto, molti considerano applicabile in via
analogica quel divieto.E’ inoltre possibile nominare come amministratore ua persona giuridica
piuttosto che una persona fisica..in quel caso occorre che ogni amministratore persona giuridica
nomini un rappresentante persona fisica che assume obblighi e responsabilità penali e
civili.eyuuixryyystuutynij
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La nomina dell’amministratore deve essere resa pubblica a cura degli stessi amministratori, poiché
essi, entro 30 giorni dalla notizia della nomina, devono chiederne l’iscrizione nel Registro delle
imprese, indicando per ciascuno nome, cognome, luogo e data di nascita, domicilio e cittadinanza,
nonché a quale tra essi è attribuita la rappresentanza della società, precisando se disgiuntamente o
congiuntamente.
Potere di amministrare e potere di rappresentare
Il potere di amministrazione è un potere diverso dal potere di rappresentanza, anche se spesso
possono coincidere nello stesso soggetto:
• Il potere di amministrare è un potere interno all’organizzazione corporativa della società e
mira alla formazione della volontà sociale;
• Il potere di rappresentare è un potere che si manifesta all’esterno della compagine sociale,
in quanto il soggetto che ne è investito è autorizzato a manifestare ai terzi la volontà sociale
formatasi all’interno della organizzazione corporativa, producendo effetti vincolanti a carico
della società medesima.
Amministrare è dunque decidere quanto necessario e opportuno all’attuazione dell’oggetto sociale,
rappresentare è agire in nome e per conto della società per attuare nei rapporti con i terzi la decisione
sociale già assunta dall’organo amministrativo o dall’organo decisionale dei soci, o comunque
contestualmente assunta laddove potere di amministrare e potere di rappresentare
coincidano(esempio:amministratore unico). È ben possibile che sussista dissociazione tra il potere di
amministrare e il potere di rappresentare: è ciò che accade normalmente quando il potere di
amministrazione si incardini in un organo collegiale, come il consiglio di amministrazione, con
conseguente necessità che la volontà gestoria formatasi con le regole di funzionamento proprie
dell’organo dovrà essere eseguita e manifestata all’esterno da un soggetto munito di potere di
rappresentanza, di agire con i terzi con effetti vincolanti nei confronti della società.
Nel caso di nomina di una pluralità di amministratori, il potere di rappresentanza può essere attribuito
non solo ad uno di essi, ma anche congiuntamente o disgiuntamente a ciascun amministratore, con
la conseguenza che:
• Nella prima ipotesi, tutti gli amministratori devono esprimere il consenso nei confronti dei
terzi per rendere vincolante l’atto nei confronti della società;
• Nella seconda ipotesi, ciascun amministratore è abilitato a manifestare da solo ai terzi con
effetti vincolanti la volontà della società.
Nel silenzio dell’atto costitutivo in merito a chi spetti il potere di rappresentanza sembra dover
prevalere la regola secondo cui “gli amministratori hanno la rappresentanza generale della società”.
Ne discendere che:
• Se è nominato un amministratore unico, questi sarà necessariamente investito del potere di
rappresentanza generale della società;
• Se sono nominati uno o più amministratori, questi formano un consiglio di amministrazione,
ma dovrebbero essere ciascuno munito del potere di rappresentanza generale della società.
L’atto costitutivo o l’atto di nomina, comunque, potrebbero precisare a chi competa tra più
amministratori la rappresentanza e se congiuntamente o disgiuntamente; comunque, nel pubblicare
nel registro delle imprese l’atto di nomina, si deve specificare a chi tra più amministratori è attribuita
la rappresentanza della società, precisando se congiuntamente o disgiuntamente.
Qual è il regime di opponibilità ai terzi di queste limitazioni statutarie e/o pubblicizzate nel Registro
delle imprese?
Le regole che si sono qui riassunte in merito alla attribuzione del potere di rappresentanza producono
certamente i propri effetti nei rapporti inerenti alla compagine sociale, nel senso che l’amministratore
che fosse munito del potere di rappresentanza ma agisse senza la previa decisione gestoria dell’organo
competente o difformemente dalla stessa o al di là dei limiti può essere chiamato a rispondere dei
danni provocati al patrimonio sociale o essere revocato per giusta causa.

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Ma tali limitazioni non è detto che siano opponibili dalla società ai terzi che hanno negoziato con
l’amministratore. Nelle società di capitali il legislatore tutela i terzi, onde favorire quanto più possibile
il compimento degli affari e la stabilità degli atti. Occorre distinguere almeno tre fattispecie:
1. L’art. 2475 sembra attribuire a tutti gli amministratori un potere di rappresentanza generale;
tuttavia, considera inopponibili le limitazioni pur dettate nell’atto costitutivo o comunque
nell’atto di nomina e pubblicate nel Registro delle imprese, salvo che la società fornisca la
prova che il terzo abbia intenzionalmente agito a danno della società (c.d. exceptio doli).
Per rendere inopponibile l’atto compiuto dall’amministratore, la società deve fornire una
duplice (e non sempre agevole prova): l’esistenza di un danno e il dolo del terzo.
Al medesimo regime di opponibilità soggiace anche il compimento di atti estranei all’oggetto
sociale (c.d. atti ultra-vires), che invece il previgente art. 2384-bis considerava alla stregua
dei limiti legali sempre opponibili ai terzi e che attualmente devono equipararsi ad atti
compiuti eccedendo dai limiti statutari;
2. Ad un regime in parte diverso devono ricondursi gli atti compiuti dall’amministratore munito
di rappresentanza, la cui nomina è eventualmente nulla o annullabile. Fino a quando non sia
stata compiuta la pubblicità nel Registro delle imprese dell’atto di nomina, la nullità o
annullabilità potrà essere eccepita dalla società al terzo; effettuata la pubblicità, l’atto
compiuto con il terzo sarà vincolante per la società salvo che si provi che il terzo fosse a
conoscenza del vizio di nomina. Non è dunque, in tal caso, necessaria la prova del duplice
danno e del dolo del terzo, ma solo la prova della conoscenza della causa di nullità e
annullabilità che investe l’atto di nomina.
3. Secondo molti autori, occorre distinguere le ipotesi di limitazioni convenzionali del potere di
rappresentanza dalle ipotesi di “carenza assoluta” del potere di rappresentanza, che sarebbe
comunque sempre opponibile dalla società al terzo. Ciò si verifica non solo nel caso di atto
compiuto da un soggetto estraneo all’organo amministrativo che non rivesta la qualifica di
amministratore, ma anche nel caso di amministratore cui l’atto costitutivo o l’atto di nomina
non attribuisca alcun potere di rappresentanza.
Da ultimo occorre precisare che il regime di opponibilità investe i soli limiti convenzionali al potere
di rappresentanza, non anche quelli che vengono definiti limiti legali (limiti cioè espressamente
disposti da singole norme che prevedono, per il compimento di determinati atti, la previa decisione
assunta dall’organo decisionale dei soci). Costituiscono limiti legali, in quanto tali sempre opponibili
al terzo anche di buona fede:
• La previa decisione dei soci per l’acquisto di partecipazioni in società di persone o comunque
imprese che comportino l’assunzione di responsabilità illimitata per le obbligazioni sociali;
• La decisione dei soci per i cd. “acquisti pericolosi”;
• La decisione dei soci per il compimento di operazioni che comportino una sostanziale
modificazione dell’oggetto sociale o una rilevante modifica dei diritti particolari dei soci. Si
tratta di limiti non solo e non tanto al potere di rappresentanza, ma al potere gestorio degli
stessi amministratori. Donde anche la carenza di potere rappresentativo,in mancanza della
decisione dei soci prevista per la legge.

I modelli di amministrazione
Anche in merito alla composizione dell’organo amministrativo, il legislatore lascia ampia libertà.
Dall’art. 2475 si desumono vari modelli:
• Innanzitutto, quello dell’amministratore unico, quando via sia la nomina all’incarico di un
solo socio o, consentendolo l’atto costitutivo, anche di un terzo;
• Vi è poi la possibilità che siano nominati più soci o, sempre secondo previsione statuaria, uno
o più terzi a fianco o meno dei soci.

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Se nulla di diverso è disposto nell’atto costitutivo,l’organo amministrativo pluripersonale costituisce
un consiglio di amministrazione, che opera nel rispetto del principio di collegialità e decide a
maggioranza;
• Ma l’atto costitutivo può introdurre forme di amministrazione pluripersonale del tutto
analoghe a quelle proprie delle società di persone, e cioè amministrazione disgiuntiva (art.
2257) o amministrazione congiuntiva (art. 2258), che potrebbero anche coesistere in
relazione a differenti categorie di atti gestori.
Quanto a queste due ultime forme di amministrazione, si deve precisare che l’amministrazione
congiuntiva ricorre sia nell’ipotesi in cui è richiesto il consenso unanime degli amministratori, sia
nell’ipotesi in cui si preveda il consenso della maggioranza. Nell’amministrazione congiuntiva a
maggioranza, e ove gli amministratori siano tutti soci ma non coincidano con l’intera compagine
sociale, la maggioranza sembra debba calcolarsi ma per teste.E ciò dovrà ritenersi anche laddove vi
siano amministratori non soci
L’applicazione del criterio capitalistico potrebbe ipotizzarsi solo nel caso in cui i soci siano tutti gli
amministratori. Tuttavia, ciascun amministratore ha il potere di compiere da solo un atto di
amministrazione nel caso “vi sia urgenza di evitare un danno grave alla società”.
L’amministrazione disgiuntiva consente a ciascun amministratore di compiere da solo atti di
amministrazione, ma anche qui è introdotto il correttivo del diritto di veto o di opposizione da parte
di ciascun altro amministratore, esercitabile sino a quando l’atto non sia stato compiuto. Per evitare
l’impasse sulla opposizione, è chiamata a pronunciarsi l’intera compagine sociale, che nella società
di persone decide a maggioranza calcolata secondo la partecipazione agli utili. Nella s.r.l. si deve
ritenere più congruo il criterio capitalistico connesso all’entità della partecipazione al capitale. Le
forme alternative di amministrazione rispetto all’amministratore unico e al consiglio di
amministrazione sollevano, comunque, la questione se, per quanto concerne le materie riservate
all’organo amministrativo, debba necessariamente applicarsi il metodo collegiale.
• A me pare che l’amministrazione disgiuntiva appaia del tutto incongrua rispetto al
compimento di atti che presuppongono una visione complessiva degli affari sociali, e che essa
debba necessariamente accompagnarsi ad una decisione collegiale degli amministratori.
• Analoga incompatibilità non sembra ravvisabile per l’amministrazione congiuntiva, che esige
l’unanimità o la maggioranza con decisione comunque ponderata e non individuale.
L’ulteriore quesito che ci si è posti è se nella s.r.l. si possa fare ricorso alle forme di amministrazione
più complesse ed articolate introdotte per l’amministrazione e controllo della S.p.A., cioè il modello
dualistico o il modello monistico di governance. Molti ritengono che si tratti di moduli troppo
complessi e, soprattutto, incompatibili con due principi delega della riforma societaria:
• Il principio della rilevanza organica del socio nella s.r.l., secondo cui non potrebbe soffrire
eccezione il potere di devolvere alla decisione dei soci materie gestorie anche su istanza dei
soci che detengano 1/3 del capitale sociale;
• Il principio di semplificazione delle forme organizzative.

Durata e revoca dell’incarico


Quanto durano in carica gli amministratori?
Gli amministratori di S.p.A. vengono nominati a tempo determinato per un termine che non può
comunque superare i 3 esercizi, con scadenza coincidente alla data dell’assemblea convocata per
l’approvazione del bilancio relativo all’ultimo esercizio della loro carica.
• Sono rieleggibili ma anche revocabili in qualunque tempo ad nutum, cioè prima della
scadenza indicata nell’atto di nomina e senza particolare motivazione;

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• La revoca anticipata non sorretta da giusta causa dà all’amministratore revocato il diritto al
risarcimento dei danni, ma non all’annullamento della revoca;
• Trattandosi di nomina a termine, essa è a titolo oneroso, per cui all’amministratore spetta un
compenso che viene determinato in via di principio dall’assemblea;
• L’onerosità della carica discende dalle regole sul mandato, per cui anche se l’assemblea dei
soci non avesse definito il compenso, l’amministratore ha diritto a vederselo stabilire
direttamente dal giudice.
Il sistema di nomina, revoca e compenso degli amministratori di s.r.l. è profondamente diverso.
Essi possono essere nominati:
• A tempo determinato, senza che la legge imponga un termine massimo;
• A tempo indeterminato.
Nel silenzio dell’atto costitutivo, gli amministratori ivi nominati, o anche quelli successivi per i quali
non sia fissato un termine di durata nell’atto di nomina, si intendono a tempo indeterminato.
Quanto al compenso, si tratta di carica a titolo oneroso, ove nulla di diverso sia previsto nell’atto
costitutivo o nell’atto di nomina, ma molti autori ritengono che ciò sia derogabile da una diversa
previsione statutaria che sancisca la gratuità della carica.
Quanto alla revoca:
• Se l’amministratore è nominato a tempo indeterminato, è sempre revocabile ad nutum, purché
la revoca sia comunicata con un congruo preavviso, salvo che non ricorra una giusta causa.
• Ove l’amministratore sia nominato a tempo determinato, la revoca non può essere effettuata
se non per giusta causa, a meno che l’atto costitutivo non consenta anche in tal caso
espressamente una revoca anticipata ad nutum.
• Una particolare problematica si pone nel caso di amministratore nominato: o Per effetto di un
diritto particolare attribuito al socio; o In atto costitutivo o con una sua successiva
modificazione.
Le due ipotesi vanno differenziate. In entrambi i casi è possibile procedere alla revoca per
giusta causa con decisione dei soci, e dunque secondo il principio maggioritario, non essendo
ammissibile che il rapporto di amministrazione permanga nonostante colposi comportamenti
dell’amministratore.
Ove il rapporto sia a tempo indeterminato e non ricorra giusta causa, nel caso di
amministratore nominato per attribuzione di diritto particolare al socio, la revoca
equivarrebbe ad una modifica/estinzione del diritto particolare che ai sensi dell’art. 2468 esige
l’unanimità dei consensi di tutti i soci, salvo che l’atto costitutivo disponga diversamente e
fermo restando il diritto di recesso ex art. 2473.
Nel caso di amministratore nominato in atto costitutivo ci si è chiesto se il relativo rapporto debba
ritenersi sempre assistito da particolare stabilità, in applicazione analogica di quanto dispone nelle
società di persone l’art. 2259, secondo cui “l’amministratore nominato con il contratto sociale è
revocabile solo per giusta causa”. Questo modello legale non è automaticamente integrabile con la
disposizione dettata per le società di persone; anche l’amministratore nominato a tempo indeterminato
in atto costitutivo può essere revocato ad nutum con congruo preavviso.
L’eventuale applicazione dell’art. 2259 potrebbe discendere da una interpretazione complessiva dello
statuto della s.r.l. ove abbia optato per un modulo di amministrazione congiuntiva o disgiuntiva
proprio delle società personali.
Ad ogni socio è consentito provocare la revoca giudiziaria dell’amministratore in caso di gravi
irregolarità nella gestione della società. L’art. 2476 prevede che tale facoltà sia esercitabile con
istanza del socio per conseguire un provvedimento cautelare del Tribunale a danno
dell’amministratore. Secondo buona parte della dottrina, l’azione cautelare per la revoca giudiziaria
dell’amministratore è necessariamente connessa all’esercizio dell’azione di responsabilità contro la
stessa. È mia convinzione che si tratti di azioni distinte, che possono autonomamente esercitarsi.
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Causa petendi e petitum dell’azione di responsabilità possono non coincidere, poiché le gravi
irregolarità potrebbero giustificare la revoca ma non sempre il risarcimento dei danni, e non si vede
per quale ragione il socio dovrebbe restare senza tutela ove possa conseguire perlomeno la revoca
giudiziale dell’amministratore.La revoca giudiziaria è ora possible in applicazione dell’art 2409
cc,ove ricorra il fondato sospetto di gravi irregolarità.
Diversa dall’istituto della revoca è la decadenza negoziale ed automatica che si determina in
applicazione della clausola statutaria c.d. “simil stabunt, simil cadent”. Per effetto di tale clausola,
ove in un c.d.a. un amministratore cessi dalla carica, tutti gli altri amministratori decadono
automaticamente dalla carica.
La legittimità della clausola è stata apprezzata in relazione alle esigenze organizzative della società
tese a mantenere un dato equilibrio nell’organo amministrativo come raggiunto dai soci in fase
costitutiva. Gli amministratori nominati in pendenza della clausola si ritengono averne implicitamente
accettate le conseguenze con l’accettazione della nomina.
Diversa soluzione potrebbe valere per amministratori nominati quando la clausola non era ancora
presente in statuto. Sta di fatto che la clausola si può prestare ad abusi, ove la maggioranza intenda
provocare la “revoca anticipata” di amministratori non graditi attraverso le dimissioni del “proprio”
amministratore.
Salva l’ipotesi di revoca, l’amministratore scaduto resta in carica in regime di prorogatio fino alla
sua sostituzione.

Le decisioni degli amministratori e in particolare del c.d.a.


Le decisioni degli amministratori nella s.r.l. trovano una disciplina essenziale soprattutto con
riferimento alla forma consiliare di amministrazione e, quanto alla invalidità, con riguardo al solo
vizio del conflitto di interessi.
• In presenza di amministratore unico, la decisione gestoria coincide con l‘atto negoziale
concluso con il terzo, e troveranno applicazione le regole sul conflitto di interesse delineate
dall’art. 2475-ter, comma 1;
• Nel caso di amministrazione disgiuntiva, si ripropone quanto osservato in precedenza per
l’amministratore unico, avendo ciascun amministratore il potere di decidere e compiere con
il terzo l’atto gestorio. L’eventuale decisione dei soci sulla opposizione o veto di altro
amministratore dovrà sottostare alla disciplina propria delle decisioni dei soci;
• Nel caso di amministrazione congiuntiva all’unanimità non si pongono problemi nel
procedimento di formazione della decisione, considerato il principio della unanimità e salvo
che questo venga meno per vizio del consenso anche di un solo amministratore;
• Nel caso di amministrazione congiuntiva a maggioranza sorge invece la questione se la
maggioranza possa formarsi a prescindere dalla conoscenza del deliberato da parte degli
amministratori. Sul punto si tornerà.
In presenza di amministrazione plurispersonale, la regola di default prevede che la pluralità di
amministratori formino un consiglio ed operino pertanto nel rispetto del principio di collegialità.
Sul funzionamento del c.d.a., la disciplina legale della s.r.l. nulla dispone, ma è opinione diffusa che
in mancanza di apposite regole dettate nell’atto costitutivo trovino applicazione per analogia quelle
dettate per l’organo consiliare nella S.p.A. nei limiti di compatibilità.
Il numero dei componenti del c.d.a. è fissato dall’atto costitutivo anche fra un minimo e un massimo
e, in mancanza della decisione dei soci, alla quale compete anche di individuare il Presidente del
c.d.a. che altrimenti verrà scelto dagli stessi componenti del c.d.a. al proprio interno.
È al Presidente che compete:
• Convocare il consiglio di amministrazione;
• Fissare l’ordine del giorno;
• Coordinare i lavori dello stesso;

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• Provvedere affinché adeguate informazioni sulle materie iscritte all’ordine del giorno
vengano fornite a tutti i consiglieri.
Per la validità delle deliberazioni del consiglio di amministrazione sono necessari:
• Quorum costitutivo, che esige la presenza della maggioranza degli amministratori in carica;
• Quorum deliberativo, che esige la maggioranza assoluta dei presenti.
Se lo statuto lo prevede, sono ammissibili anche riunioni con mezzi di telecomunicazione; mentre
non è consentito il voto per rappresentanza. Deliberazioni e decisioni dell’organo amministrativo
devono essere verbalizzate e trascritte nel libro delle decisioni degli amministratori a cura degli stessi.

Si discute se nella s.r.l. il c.d.a. possa strutturarsi mediante organi gestori delegati (comitato
esecutivo, amministratori delegati), ma non sembra che ci sia ragione di contrastare tale possibilità di
esercizio dell’autonomia statutaria, né che essa non possa essere autorizzata dalla decisione dei soci,
ove non prevista per statuto. L’applicazione analogica dell’art. 2381 mi sembra invocabile per intero.
Sarà allora il c.d.a. a determinare contenuto, limiti ed eventuali modalità di esercizio della delega,
potendo impartire direttive agli organi delegati e avocare a sé operazioni rientranti nella delega.
Parimenti dovranno essere garantiti i flussi informativi tra organi delegati e c.d.a. ed eventuali organi
di controllo, poiché, se è vero che gli organi delegati curano che l’assetto organizzativo,
amministrativo e contabile della società sia adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa, essi
devono riferire periodicamente e comunque almeno ogni 6 mesi sul generale andamento della
gestione e sulla sua prevedibile evoluzione, nonché sulle operazioni di maggior rilievo effettuate dalla
società e dalle sue controllate. Inoltre, ogni amministratore ha l’obbligo di “agire informato”, e a tal
fine può chiedere agli organi delegati che in consiglio siano fornite informazioni relative alla gestione
della società.
Comunque, non tutte le materie sono delegabili: in particolare, sono riservate sempre alla competenza
collegiale dell’intero c.d.a.:
• La redazione del progetto di bilancio e dei progetti di fusione e di scissione;
• L’aumento del capitale delegato come le riduzioni obbligatorie per perdite; • Le decisioni
sulla proposta di concordato preventivo e fallimentare.
Il principio di collegialità delle decisioni del c.d.a. è derogabile solo con previsione espressa
nell’atto costitutivo. Anche per il c.d.a. l’art. 2475, comma 3, dispone che “l’atto costitutivo può
prevedere che le decisioni siano adottate mediante consultazione scritta o sulla base del consenso
espresso per iscritto. In tal caso, dai documenti sottoscritti dagli amministratori devono risultare con
chiarezza l’argomento oggetto della decisione ed il consenso alla stessa”.
Si tratta di un metodo referendiario di adozione delle decisioni, che esclude apposita convocazione
e riunione secondo un principio di unità temporale e geografica della stessa. Tale meccanismo
dovrebbe semplificare il processo decisionale, ma ciò vale nel caso di accordo unanime dei
componenti dell’organo. In caso di disaccordo anche di uno solo, la questione si complica.
Anche per le decisioni extracollegiali del c.d.a. si pongono problemi analoghi a quelli già esaminati
per le decisioni scritte extra-assembleari dei soci. Innanzitutto, sorge il problema della necessaria
informazione pre e post decisione sulla iniziativa e sul contenuto della decisione gestoria da adottare.
È da ritenere che, nonostante l’assenza di ogni regola, anche per le decisioni consiliari è necessario
che ogni amministratore sia posto in grado di partecipare al processo decisionale e conseguentemente
di esserne informato,anche per le decisioni consigliari è necessario che ogni amministratore sia posto
in grado di partecipare al processo decisionale,considerate l’obbligo dello stesso di agire informato e
le responsabilità che comunque potrebbero conseguire da quella decisione
Di qui, del resto, l’essenzialità della “documentazione” della decisione scritta, per cui i documenti
devono essere sottoscritti dagli amministratori e da essi deve risultare con “chiarezza” sia l’argomento
deciso, sia il consenso espresso.

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Secondo alcuni autori, ogni tipo di decisione di competenza del c.d.a., ove consentito dallo statuto,
potrà essere adottata con il metodo referendario, a differenza delle decisioni dei soci. L’unico dubbio
che potrebbe porsi è per le competenze inderogabili dell’organo amministrativo, per le cui decisioni
potrebbe considerarsi necessaria l’adozione a maggioranza.
Altra differenza rispetto alle decisioni scritte dei soci è che nelle decisioni scritte degli amministratori,
in mancanza di diversa previsione statutaria, non scatta alcun meccanismo di devoluzione all’organo
in forma collegiale su iniziativa di un amministratore o di altri soggetti.
Nel silenzio dello statuto deve ritenersi che l’iniziativa per l’adozione di decisioni scritte del c.d.a.
competa al Presidente del c.d.a., che ha il potere di convocazione, e comunque agli altri
amministratori cui per statuto fosse attribuito analogo potere di convocazione.
Il consenso da manifestare per iscritto contribuirà al medesimo quorum costitutivo e al medesimo
quorum deliberativo che rendono valida una decisione consiliare di tipo collegiale. Infatti, qui non
sono previste maggioranze diverse rispetto alle deliberazioni assembleari.
Le comunicazioni dovranno essere convogliate presso colui che ha assunto l’iniziativa, e al Presidente
del c.d.a., cui spetta constatare la regolarità del procedimento e procedere alla proclamazione del
risultato, con conseguente trascrizione nel libro delle decisioni degli amministratori.
Va infine ricordato che l’art. 37, d.lgs. n. 5/2003, legittima gli statuti di s.r.l. ad introdurre clausole di
c.d. “arbitrato economico”, e cioè “clausole con le quali si deferiscono ad uno o più terzi i contrasti
tra coloro che hanno il potere di amministrazione in ordine alle decisioni da adottare nella gestione
della società”. Tali clausole possono anche prevedere che la decisione del o dei terzi sia “reclamabile
davanti a un collegio”, che il soggetto o il collegio “può dare indicazioni vincolanti anche sulle
questioni collegate con quelle espressamente deferitegli” e che la decisione resa sia impugnabile. La
disposizione è stata ampiamente criticata dalla dottrina per le incertezze sulla qualificazione stessa
dell’istituto, sui limiti di vincolatività della decisione del terzo/collegio nei confronti degli
amministratori e sul regime di responsabilità che ne dovrebbe conseguire.

L’invalidità delle decisioni del consiglio di amministrazione


L’unica disposizione che si occupa di invalidità delle decisioni del c.d.a. è l’art. 2475-ter, rubricato
“conflitto di interessi”.
Partiamo dall’esame dell’invalidità positivamente disciplinata per conflitto di interessi. L’art.
2475ter si occupa del tema sotto due profili:
• Per un verso regola nei confronti dei terzi l’eventuale invalidità del contratto o negozio
stipulato dall’amministratore munito di rappresentanza e portatore di un interesse, per conto
proprio o di altri, in conflitto con l’interesse sociale;
• Per altro verso disciplina, rispetto ai meccanismi corporativi interni, l’eventuale invalidità
della decisione adottata dal c.d.a. con il voto determinante di un amministratore in conflitto
di interessi con la società.
Nel primo caso di tratta di una disciplina di annullabilità del contratto o del negozio del tutto analoga
a quella dettata dall’art. 1394, ove sussista un conflitto di interessi tra rappresentante e
rappresentato:”il contratto concluso dal rappresentante in conflitto di interessi col rappresentato può
essere annullato su domanda del rappresentato,se il conflitto era conosciuto o conoscibile dal terzo”.
La legittimazione attiva all’impugnazione del negozio spetta alla sola società e sulla stessa incombe
l’onere della prova su:
• L’esistenza di un interesse di cui è portatore l’amministratore, in proprio o per conto di terzi,
che si pone in conflitto con l’interesse della società;
• La conoscenza o conoscibilità, con l’utilizzo dell’ordinaria diligenza del buon padre di
famiglia, di tale conflitto da parte del terzo contraente.
Al medesimo ordine di idee è riconducibile il contratto o negozio concluso dall’amministratore con
sé stesso, di per sé non vietato, e la cui disciplina si ricava dall’art. 1395 dettato in sede generale: “è
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annullabile il contratto che il rappresentante conclude con sé stesso, in proprio o come
rappresentante di un’altra parte, a meno che il rappresentato lo abbia autorizzato specificatamente
ovvero il contenuto del contratto sia determinato in modo da escludere la possibilità di un conflitto
di interessi”. Anche in questa ipotesi solo legittimato all’impugnativa è il rappresentato. La norma
prevede, dunque, due eccezioni di annullabilità:
• Il contratto è stato preventivamente autorizzato dal rappresentato;
• Il contenuto del contratto è stato predeterminato, in modo tale da escludere un possibile
conflitto di interessi.
La seconda fattispecie disciplinata dall’art. 2475-ter investe più direttamente il tema della invalidità
delle decisioni del c.d.a. Gli elementi necessari ad integrare l’annullabilità della deliberazione del
c.d.a. e il cui onere probatorio incombe sull’impugnante sono i seguenti:
• L’esistenza di un interesse di cui è portatore un amministratore per conto proprio o di terzi in
conflitto con quello della società;
• Il voto determinante, ai fini del raggiungimento della maggioranza necessaria
all’approvazione, della decisione consiliare (c.d. prova di resistenza);
• L’esistenza di un nesso di causalità fra decisione e danno a carico della società.
Legittimati all’impugnazione entro 90 giorni dall’adozione della decisione sono gli altri
amministratori e, ove esistenti, i soggetti che esercitano funzioni di controllo ex art. 2477, cioè il
sindaco unico o il collegio sindacale o il revisore legale dei conti, persona fisica o società di revision.
In ogni caso sono salvi i diritti acquistati in buona fede dai terzi in base ad atti compiuti in esecuzione
della decisione.
Tale forma di invalidità può colpire tanto le deliberazioni quanto le decisioni scritte del cda.
L’amministratore portatore dell’interesse conflittuale non ha, comunque, alcun obbligo di astensione,
né gli viene comminata la sospensione del voto. Egli può senz’altro votare, ma dovrebbe conformarsi
nell’espressione di voto all’interesse sociale, pena l’invalidità della decisione consiliare.
Nella disciplina della S.p.A., al tema del conflitto d’interessi sono dedicate due disposizioni:
• L’art. 2391, che dovrebbe essere il corrispondente dell’art. 2475-ter ma che contiene una
disciplina molto diversa e più articolata;
• L’art. 2373, che riguarda però il conflitto di interessi dell’amministratore in quanto socio.

L’amministratore nella S.p.A. è portatore di un interesse proprio o di terzi in una determinata


operazione societaria e, anche se tale interesse non è conflittuale con quello della società, ha
l’obbligo di informare gli altri amministratori e il collegio sindacale della natura, termini,
origine e portata di tale interesse. Inoltre:
• Se si tratta di amministratore delegato, deve astenersi dal compiere l’operazione;
• Se si tratta di amministratore univo, ha l’obbligo di darne notizia anche alla prima assemblea
utile. A sua volta, il c.d.a. che voglia comunque compiere l’operazione deve “adeguatamente
motivare le ragioni e la convenienza per la società” della stessa operazione.
Un tale obbligo di informazione preventiva e l’obbligo di motivazione per il c.d.a. sono del tutto
assenti dalla disciplina della s.r.l. La violazione di tali obblighi nella S.p.A. è causa autonoma di
invalidità della deliberazione consiliare, ove sia potenzialmente dannosa per la società.
A ciò si aggiunge la circostanza che, ove pure vengano assolti i predetti obblighi, la deliberazione
consiliare adottata con il voto determinante dall’amministratore interessato e potenzialmente dannosa
per la società è comunque annullabile.
Questa seconda parte della disciplina è prossima a quella che regola il conflitto di interessi
dell’amministratore nella s.r.l., con due differenze:
1) La legittimazione all’impugnativa compete pur sempre entro 90 giorni agli altri amministratori
e all’organo di controllo, ma non anche all’amministratore consenziente;

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2) L’annullabilità è consentita anche in presenza del solo danno potenziale per la società, e non
già di un danno effettivo e attuale.
Su quest’ultimo punto però esistono opinioni difformi:
• Secondo alcuni autori, una differenza di trattamento appare ingiustificata;
• Un’interpretazione diversa induce a ritenere che, nonostante la lettera dell’art. 2475-ter, anche
l’annullabilità della decisione consiliare per conflitto di interessi dell’amministratore di s.r.l.
presupponga la sola potenzialità di danno, e non già il danno attuale ed effettivo. Verrebbe
men oil carattere preventive della tutela invalidante,se si dovesse attendere il manifestarsi
effettivo del danno per potere agire
La disciplina della s.r.l. non contempla una norma analoga all’art. 2373 che impone al socio
amministratore di non votare nelle deliberazioni assembleari concernenti la sua responsabilità, il che
impedisce di computare nella maggioranza richiesta il voto espresso nonostante il divieto. Ma è
opinione diffusa che l’art. 2373 non sia applicabile analogicamente alla s.r.l., con la conseguenza che
troverebbe applicazione la disciplina propria della s.r.l. sulle decisioni dei soci in conflitto d’interessi.
Ai sensi dell’art. 2479-ter, la decisione sarebbe annullabile solo se il voto del socio amministratore
in merito alla sua responsabilità sia in conflitto con l’interesse sociale, determinante ai fini del
raggiungimento della maggioranza richiesta, e la decisione risulti potenzialmente dannosa per la
società. Sarei, tuttavia, propenso ad ammettere l’applicazione analogica della norma dettata per la
S.p.A., non sembrando sussistere ragioni sufficienti a differenziare il trattamento delle fattispecie. È
possibile rinvenire nel sistema altre regole che governino la validità delle decisioni consiliari e la cui
violazione possa determinare l’annullabilità?
Nella S.p.A., infatti, l’art. 2388 detta regole per la validità delle deliberazioni del c.d.a., ponendo
quorum costitutivi e quorum deliberativi e vietando il voto per rappresentanza. Prevede poi
espressamente che “le deliberazioni che non sono prese in conformità della legge o dello statuto
possano essere impugnate solo dal collegio sindacale e dagli amministratori dissenzienti o assenti
entro 90 gioni dalla data della deliberazione”, rendendo applicabile l’art. 2378. Rende, infine,
impugnabile da parte dei soci le deliberazioni lesive dei loro diritti ex artt. 2377-2378 nei limiti di
compatibilità.
Senonché, sulla possibilità di integrare la disciplina del c.d.a. della s.r.l. con il richiamo a quella
dettate per la S.p.A. risultano opinioni diverse:
• Da un canto vi è chi ritiene che l’omissione sia voluta dal legislatore, al fine di non appesantire
il modello s.r.l. e favorire la stabilità delle decisioni consiliari;
• Altri ritengono che si tratti di una banale dimenticanza in sede legislativa, che va colmata in
sede interpretativa. Fra coloro che optano per una interpretazione correttiva, v’è poi:
o Chi invoca l’analogia con le regole di funzionamento del c.d.a. nella S.p.A.; o Chi
invece si rivolge all’interno della stessa normativa della s.r.l. alle regole che governano
le decisioni dei soci;
o Chi distingue tra regole di funzionamento in senso stresso e regole di tutela dei diritti
dei soci.
A me pare che le regole di funzionamento del c.d.a. possano e debbano ricavarsi dall’analogo istituto
presente nella disciplina della S.p.A., con la conseguenza che i quorum costitutivi e deliberativi,
nonché il divieto di rappresentanza, debbano utilmente ricavarsi da quella disciplina.
• La legittimazione all’impugnativa spetterà agli amministratori assenti o dissenzienti o
all’eventuale organo di controllo interno entro 90 giorni;
• Quanto alle decisioni consiliari che siano lesive dei diritti dei soci, non pare corretto ricorrere
alla disciplina delle decisioni dei soci interna al modello s.r.l., poiché si è pur sempre di fronte
a vizi di decisioni adottate da altro organo. Mi pare che possa continuare a farsi riferimento
alla analoga disciplina della S.p.A.

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Le azioni di responsabilità
L’art. 2476 detta la disciplina della responsabilità e delle azioni di responsabilità a carico degli
amministratori. Ma si tratta di una disciplina incompleta, lacunosa ed eterogenea, in quanto contiene
anche disposizioni in materia di “controllo dei soci” sugli amministratori.
Sul piano dell’incompletezza si deve considerare che l’art 2476 si occupa:
1. Dei criteri di responsabilità degli amministratori verso la società, ma non dice nulla sulla
“diligenza” dovuta, pur enunciando il meccanismo di eventuale esonero;
2. Della legittimazione del singolo socio all’azione sociale, ma nulla precisa in merito all’azione
sociale eventualmente esperibile dalla società medesima;
3. Dell’azione individuale del socio o del terzo, analoga a quella prevista dall’art. 2395, ma nulla
prevede sull’azione esperibile dai creditori sociali né sull’azione di responsabilità esperibile
dai creditori sociali, né sull’azione da esercitarsi nel corso delle procedure concorsuali;
4. Di una nuova azione ai danni del socio che abbia intenzionalmente deciso o autorizzato il
compimento di atti dannosi per la società, soci o terzi;
5. Di una regola che appartiene ai principi propri della materia secondo cui: “l’approvazione del
bilancio da parte dei soci non implica liberazione degli amministratori e dei sindaci per le
responsabilità incorse nella gestione sociale”.
Sul piano della eterogeneità, si aggiungono le regole sui poteri di ispezione e controllo dei soci e
quelle sull’azione cautelare per la revoca giudiziale dell’amministratore in caso di gravi irregolarità
nella gestione della società.
Si vuole ora offrire un quadro della “responsabilità risarcitoria” degli amministratori.
• Elementi costitutivi della responsabilità risarcitoria: gli amministratori rispondono dei
loro comportamenti verso la società, i creditori sociali, i terzi e i soci in quanto terzi, ma ogni
fattispecie di responsabilità presuppone il concorso di cinque elementi:
a. Comportamento umano, azione od omissione del soggetto a cui imputare la
responsabilità;
b. Antigiuridicità, cioè contrarietà del comportamento ad una norma giuridica
vincolante di comportamento, fissata dalla legge o da una regola di autonomia privata
o dal generale principio del “neminem ledere”;
c. Evento lesivo, cioè il danno provocato dal comportamento umano antigiuridico
d. Tra il comportamento e l’evento dannoso deve intercorrere un nesso di casualità:
l’evento lesivo dev’essere conseguenza del comportamento attivo od omissivo;
e. È necessario che sussista l’elemento soggettivo o “nesso psicologico”, individuabile
nella colpa o dolo del soggetto imputabile, e quindi nel difetto della diligenza dovuta.
• Responsabilità sociale. In merito alla responsabilità verso la società, l’art 2476 dispone che
“gli amministratori rispondono solidalmente dei danni derivanti dall’inosservanza dei doveri
ad essi imposti dalla legge e dall’atto costitutivo per l’amministrazione della società”. Con
questa previsione si individuano i primi 4 elementi costitutivi, ma non si dettano delle
indicazioni sull’elemento soggettivo, a differenza della S.p.A., dove. l’art 2392 li specifica:
“gli amministratori devono adempiere i doveri ad essi imposti dalla legge e dallo statuto con
la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze”.
Alcuni elementi sul criterio di diligenza nella S.r.l si ricavano dal meccanismo di esonero
della responsabilità disciplinato dall’art. 2476: “non è responsabile l’amministratore che
dimostra di essere esente da colpa e, essendo a conoscenza dell’atto che si stava per
compiere, ha fatto constare il proprio dissenso”. Il riferimento alla “colpa” rinvia al grado di
diligenza dovuto dall’amministratore, cioè quello della diligenza ordinaria del buon padre
di famiglia. Ma il criterio risulterebbe insoddisfacente a fronte degli stessi criteri generali che
l’art. 1176 prevede per la diligenza nell’adempimento delle obbligazioni. Al comma 2, esso
dispone che “nell’adempimento delle obbligazioni inerenti all’esercizio di un’attività
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professionale, la diligenza deve essere valutata con riguardo alla natura dell’attività
esercitata”. Si suole infatti parlare di “diligenza professionale”, commisurata non ad un
modello di uomo medio, ma ad un buon professionista medio. Di qui l’interrogativo se,
quantomeno per le società di capitali, i criteri dettati dall’art. 2392 per la S.p.A. sono
applicabili anche alla s.r.l. per qualificare la diligenza dell’amministratore di s.r.l.
Le posizioni della dottrina non sono omogenee. In realtà, chi ritiene estensibili
all’amministratore di s.r.l. i due criteri indicati, li considera anche specificazione del principio
più generale fissato dall0art. 1176 a proposito della “diligenza professionale”. Il che a me pare
francamente sostenibile per quanto concerne il richiamo alla “natura dell’incarico”.
Quanto invece al richiamo della diligenza commisurata altresì alle “specifiche competenze”
dei singoli amministratori, credo che la fonte di tale criterio sia da ricercare in altro obbligo
che fa carico agli amministratori di società di capitali, e cioè nell’obbligo di agire informato.
Nel proprio comportamento gestorio, in altre parole, l’amministratore non solo deve porre
tutta l’attenzione necessaria che il compito richiede, ma deve far richiamo alle proprie
conoscenze maturate e acquisite nell’esercizio di un’altra sua attività professionale,di cui non
può automaticamente spogliarsi.
• Meccanismo di esonero e solidarietà passiva. Col “meccanismo di esonero da
responsabilità”, l’amministratore dimostra di essere esente da colpa e fa constatare il proprio
dissenso, essendo a conoscenza del fatto che l’atto si stava per compiere. La mancata prova
anche di un solo presupposto impedirebbe l’esclusione del “vincolo di solidarietà passiva”,
che lega tutti gli amministratori al risarcimento del danno.
Di nuovo, va indicata la differenziazione tra la disciplina di S.p.A e la disciplina di s.rl.
a. Nella S.p.A. è innanzitutto previsto che l’amministratore non risponde dei danni
derivanti da inosservanza di doveri che corrispondo ad “attribuzioni proprie del
comitato esecutivo o di funzioni in concreto attribuite ad uno o più amministratori”,
benché “in ogni caso” anche gli amministratori non esecutivi devono considerarsi
solidalmente responsabili se, essendo a conoscenza di fatti pregiudizievoli, non hanno
fatto quanto potevano per impedirne il compimento o eliminarne o attenuarne le
conseguenze dannose. Inoltre, l’esonero si applica all’amministratore che “essendo
immune da colpa abbia fatto annotare senza ritardo il suo dissenso nel libro delle
adunanze e delle deliberazioni del consiglio, dandone immediata notizia per iscritto
al presidente del collegio sindacale”.
Per esonerarsi da colpa, l’amministratore deve dunque rispettare:
i. Un criterio sostanziale, essere cioè immune da colpa, non aver contribuito con
il proprio comportamento anche omissivo al compimento dell’atto dannoso;
ii. Un criterio formale, far constatare cioè tempestivamente il proprio dissenso
nel libro delle adunanze e deliberazioni consiliari e darne immediata
comunicazione scritta al Presidente del collegio sindacale.
b. L’assenza di colpa (criterio sostanziale di esonero da responsabilità) è previsto anche
dall’art. 2476, ma non è dotato di particolari formalità. Ma è ovvio che esso, in
presenza della verbalizzazione della decisione degli amministratori, dovrà constare
per iscritto dal libro delle relative decisioni, ove l’amministratore fosse presente
all’adozione della decisione potenzialmente dannosa e potrà, a mio avviso, constare
in forma libera in caso di sua assenza(suscettibile di essere provato anche per testi).
Nell’ipotesi di decisione scritta, l’amministratore dissenziente non potrà evitare la
forma scritta. Ma non sembra applicabile l’ulteriore formalità della comunicazione
dell’eventuale organo interno di controllo esistente.
L’eventuale articolazione del c.d.a. in organi delegati ripropone nella s.r.l. la
possibilità che per le attribuzioni e funzioni assegnate a tali organi siano chiamati a

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rispondere esclusivamente i relativi componenti e agli altri amministratori trovi
applicazione l’obbligo di attivarsi, ove a conoscenza di fatti dannosi, per evitarne il
compimento e eliminarne o attenuarne gli effetti. Mi sembra che al quesito debba darsi
risposta positive(non sussistono motivi per escudere analogia).
Tornando alle forme di manifestazione del dissenso dell’amministratore non
colpevole, mi sembra che esse possano ricorrere anche in ipotesi di amministrazione
disgiuntiva e di amministrazione congiuntiva.
i. Nella prima tipologia, il dissenso presuppone che si sia a conoscenza dell’atto
dannoso che altro amministratore sta per compiere, e dovrà esprimersi con
l’opposizione o veto prima che esso venga in concreto compiuto;
ii. Nella seconda ipotesi, ove l’amministrazione congiuntiva presupponga
l’unanimità, il dissenso ha di per sé capacità di evitare il compimento dell’atto
dannoso; ove invece presupponga la sola maggioranza, il dissenso dovrà farsi
constatare con qualsiasi modalità.
• Legittimazione del singolo socio e della società.
a. Legittimazione del singolo socio. L’azione disciplinata dall’art. 2467 contro gli
amministratori è un’azione sociale di responsabilità, la cui legittimazione attiva è dalla
legge attribuita al singolo socio. Nella S.p.A., invece, la legittimazione all’esercizio di
tale azione è innanzitutto attribuita alla società medesima, previa deliberazione
dell’assemblea generale dei soci; l’azione può comunque essere esercitata da una
minoranza qualificata dei soci (almeno 1/5 del capitale sociale o la diversa misura
prevista nello statuto, comunque non superiore al terzo), ma mai dal singolo
socio,salvo che non detenga da solo l’entità richiesta di capitale sociale.
b. Legittimazione della società. La legittimazione del singolo socio in quanto tale
riprende il modello della società di persone; ma poiché titolare del diritto al
risarcimento danni resta la società, si è discusso se il socio fruisca di una
legittimazione autonoma ed esclusiva o di tipo surrogatorio o agisca come sostituto
processuale della società.
Nonostante il silenzio del legislatore, deve ritenersi che la società mantenga una
propria legittimazione all’esercizio dell’azione di responsabilità contro gli
amministratori. Gli indici da cui tale legittimazione è ricavabile sono i seguenti:
i. Il comma 1 dell’art. 2467 dichiara che gli amministratori rispondono verso la
società dei danni provocati; in questo modo viene attribuita ad essa la titolarità
del risarcimento;
ii. Il comma 4 onera la società, in caso di esito vittorioso, a rimborsare al socio
le spese sostenute, salvo il regresso degli amministratori inadempienti;
iii. Il comma 5 riconosce alla società il diritto di compiere rinuncia o transazione
sull’azione esperita dal socio;
iv. Ai sensi dell’art. 24 Cost. tutti, compresi i soggetti giuridici, hanno diritto di
agire in giudizio a difesa dei propri diritti.
Da ciò discende che la legittimazione del socio non è esclusiva, ma concorrente a quella della
società e che il socio deve qualificarsi come “sostituto processuale”, agendo a nome proprio
ma per conto della società, né può parlarsi di azione surrogatoria, in quanto il socio non ha la
qualità di creditore della società.
L’azione sociale eventualmente esperita dalla stessa società dovrà essere preceduta da una
decisione imputabile alla collettività organizzata.

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Nella S.p.A. essa compete all’assemblea ordinaria dei soci, mentre nella s.r.l. si discute
se la competenza rientra nei compiti gestori degli amministratori o fra le competenze
decisorie dei soci. la questione potrebbe essere risolta in sede di atto costitutivo, ma
in mancanza mi sembra che si debba propendere per la competenza dei soci.
• Revoca giudiziaria. Nella S.p.A. la deliberazione dell’azione sociale di responsabilità,
quando approvata con il voto favorevole di almeno 1/5 del capitale sociale, comporta la revoca
di diritto dalla carica di amministratore. Diversamente, se si vuole conseguire tale risultato,
occorre che l’argomento “revoca dell’amministratore” sia posto all’ordine del giorno. Nella
s.r.l. non vi è una norma analoga, per cui alla revoca si può pervenire solo secondo le regole
esposte prima. Tuttavia, al singolo socio della s.r.l. è consentito chiedere la revoca giudiziale
dell’amminsitratore che abbia compiuto gravi irregolarità gestorie. Il Tribunale concede, se
lo ritiene fondato, il provvedimento cautelare. Si discute se tale provvedimento sia
necessariamente collegato all’instaurazione di un giudizio di responsabilità a carico
dell’amministratore revocante: a mio parere l’azione di responsabilità e l’azione di revoca
sono differenti per petitum e causa petendi, e quindi sono autonomamente esercitabili.
• Coordinamento fra azione sociale del socio e della società. Occorre ricercare un
coordinamento tra l’azione sociale esperibile dalla società e l’azione esperibile dal socio, in
quanto l’amministratore non può subire una duplice condanna per gli stessi fatti.
o Se fosse la società ad agire per prima, l’eventuale autonoma azione esperita dal socio
dovrebbe dichiararsi litispendente, ferma la possibilità per il socio di intervenire ad
adiuvandum nel giudizio intentato dalla società;
o Se fosse il socio ad agire preventicvamente, nasce il problema se sussista
litisconsorzio necessario con la società, se cioè l’atto di citazione debba essere
necessariamente notificato alla società e al processo debba comunque partecipare, a
pena di nullità dell’eventuale sentenza, la società quale titolare sostanziale del diritto
al risarcimento danni. In giurisprudenza sono sostenute entrambe le tesi, mentre la
dottrina prevalente è orientata a richieder il litisconsorzio necessario,affinchè la
società titolare del diritto sostanziale sia posta in grado di interloquire sin
dall’inizio,anche assumendo posizioni contrarie ove ritenga l’azione infondata.
Qualora l’azione fosse proposta contro tutti gli amministratori in carica, la società starà in
giudizio nella persona di un curatore speciale nominato ex art. 78 c.p.c.
In caso di soccombenza, il socio mantiene a suo carico le spese sostenute, mentre in caso di
vittoria ha diritto ad ottenere dalla società il rimborso delle spese di giudizio e di quelle
anticipate per l’accertamento dei fatti. È fatto ovviamente salvo il diritto di regresso della
società verso gli amministratori soccombenti.
• Rinunce o transazioni. In corso di giudizio sono possibili anche rinunce o transazioni, che
l’art. 2467, comma 5, sembra regolare con riferimento solo al potere dispositivo della società,
nulla prevedendo per una eventuale rinuncia o transazione da parte del socio, che è invece
espressamente ammessa nella S.p.A. La rinuncia o transazione, in quanto atto di disposizione
del diritto sostanziale, deve spettare al titolare di tale diritto (e quindi alla società). Per questa
ragione, tali atti sono consentiti alla società purché sussistano:
o In positivo, una maggioranza qualificata dei soci che rappresentino almeno i 2/3 del
capitale sociale;
o In negativo, la mancata opposizione di tanti soci che rappresentino almeno 1/10 del
capitale sociale (c.d. minoranza di blocco).
Quanto alla possibile rinuncia o transazione del singolo socio, è certamente possibile una
rinuncia agli atti del giudizio. Diverso è il problema della rinuncia o transazione sull’azione,
e insomma sul diritto sostanziale che non è nella sua titolarità. Tuttavia, secondo alcuni
sarebbe possibile un atto di rinuncia dell’azione con effetti preclusivi esclusivamente

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individuali, cioè non estensibili alla società e ad altri soci o a terzi e che impedirebbe al socio
di esperire una nuova azione sociale di responsabilità.
La rinuncia è certamente inopponibile ai creditori sociali,salvo che a renderla inefficace
intervenga un’azione revocatoria nel concorso dei relativi presupposti
• Responsabilità contrattuale. L’azione sociale di responsabilità si fonda su una responsabilità
contrattuale degli amministratori, per cui il legittimato attivo ha l’onere di allegare
compiutamente i fatti fonte di responsabilità e di provare il nesso di casualità e l’entità dei
danni che ne sarebbero conseguiti. L’onere di allegazione e l’onere probatorio sono diversi:
o L’onere di allegazione si sostanzia nella compiuta enunciazione dei comportamenti
causativi del danno;
o L’onere probatorio si sostanzia nella prova documentale o testimoniale o presuntiva
degli elementi costitutivi della domanda risarcitoria.
In caso di responsabilità contrattuale, l’art. 1218 dispone che “il debitore che non esegue
esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che
l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante
da causa a lui non imputabile”. In altre parole, il creditore ha l’onere di allegazione della
fonte e dell’obbligo violato dal debitore, ma la proba per liberarsi da responsabilità incombe
sul debitore che deve dimostrare l’impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non
imputabile. Ovviamente, all’attore permane l’onere di provare l’entità del danno e il nesso di
causalità che lo lega ai comportamenti lesivi allegati.
Diversamente, nel caso di responsabilità extra-contrattuale, incombe all’autore provare tutti
gli elementi costitutivi della responsabilità del convenuto.
• Prescrizione. L’azione sociale di responsabilità, in quanto volta alla tutela di “diritti derivanti
dai rapporti sociali”, è soggetta alla “prescrizione quinquennale” ex art. 2949, che decorre
solo dalla cessazione della carica dell’amministratore per evidenti ragioni di opportunità.
Visto che ogni diritto si prescrive da quanto può essere fatto valere, allora la prescrizione al
risarcimento danno può decorrere dal momento in cui si sia manifestato l’evento dannoso e
non già dal compimento dell’azione od omissione lesiva.
• Azione dei creditori sociali. È opinione prevalente, nonostante il silenzio della legge, che
anche ai creditori sociali spetti un’azione di responsabilità contro gli amministratori ove
ricorrano le circostanze previste nell’art. 2394 dettato per le S.p.A.(DUBBI
INTERPRETATIVI SUPERATI DAL LEGISLATORE DEL CODICE DELLA CRISI):
o Gli amministratori abbiano violato regole poste a tutela della integrità del patrimonio
sociale, in ciò integrandosi il comportamento antigiuridico;
o Ne sia derivata l’insufficienza del patrimonio sociale soddisfare le ragioni di tutti i
creditori sociali, in ciò sostanziandosi l’evento dannoso per la massa dei creditori.
Il danno al patrimonio sociale deve essere tale da renderlo insufficiente alla soddisfazione di
tutti i creditori sociali, il che sembra richiamare la nozione di “insolvenza”.
Di fatto tale azione viene normalmente esperita nell’ambito di procedure concorsuali in
concorso con l’azione sociale di responsabilità ad opera del curatore fallimentare o del
commissario liquidatore o dell’amministratore straordinario.
Ad ogni modo, anche questa azione dei ceditori sociali non è diretta al risarcimento del danno
subito direttamente dal singolo creditore, ma è diretta a reintegrare il patrimonio della società.
Ne consegue che, a mio avviso, essa ha natura sostanzialmente surrogatoria, poiché coincide
con l’azione sociale di responsabilità, ed ha carattere contrattuale.
• Legittimazione in caso di procedure concorsuali. La legittimazione all’esercizio sia
dell’azione sociale sia dell’azione dei creditori sociali, in caso di apertura di una procedura
concorsuale a carico della società, si incardina in capo al curatore fallimentare o commissario
liquidatore o al commissario straordinario a seguito dello spossessamento che l’apertura del
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concorso comporta; e se le azioni sono state già promosse, diventano improcedibili, a meno
che non vengano proseguite dagli organi delle procedure. Tale legittimazione è disposta
dall’art. 2394-bis per la S.p.A, ma corrisponde a un principio di diritto concorsuale sancito
dall’art. 146 l. fall. per le società di capitali.
• Azione dei terzi e dei soci. Gli amministratori rispondono anche per i danni che essi
dovessero arrecare a terzi, compresi i soci, nell’esercizio delle loro funzioni gestorie. L’art.
2476, comma 6, ribadisce che le disposizioni precedenti “non pregiudicano il diritto al
risarcimento dei danni spettante al singolo socio o al terzo che sono stati direttamente
danneggiati da atti dolosi o colposi degli amministratori”. Si tratta di danni non provocati al
patrimonio sociale, ma di danni diretti al patrimonio individuale del singolo socio o terzo.
Essi traggono comunque origine dalla violazione di regole che investono le funzioni degli
amministratori.

DUPLICE ESEMPIO:
1)l’amministratore redige un falso bilancio che rappresenta una situazione patrimoniale
florida della società e per effetto di tale non veritiera rappresentazione il socio decide di
mantenere la propria quota in società e non venderla a terzi;oppure un terzo decide di entrare
in società acquistando la quota da altro socio o sottoscrivendo un aumento di capitale;
2) l’amministratore redige un falso bilancio che rappresenta una situazione patrimoniale
volutamente depressa e il socio si determina ad alienare la propria quota a un Prezzo che non
riflette gli effettivi valori del patrimonio sociale
In queste ipotesi,gli amministratori,con il loro comportamento,producono un danno diretto
nell’economia personale del singolo socio o del terzo.
Analoga azione è disciplinata dall’art. 2395 per la S.p.A. Tale azione ha natura
extracontrattuale, perché viola il generale precetto del “neminem ledere”. Tutti gli elementi
costitutivi dell’illecito dovranno solo essere allegati, ma provati dal socio o dal terzo attore.
• Responsabilità del socio. Il penultimo comma dell’art. 2476 prevede che “sono altresì
solidalmente responsabili con gli amministratori, i soci che hanno intenzionalmente deciso o
autorizzato il compimento di atti dannosi per la società, i soci o i terzi”.
L’azione di responsabilità a carico del singolo socio, o per i soci e i terzi nella propria
economia individuale, sembra infrangere il principio di “irresponsabilità” dei soci per le
decisioni assunte in sede assembleare o comunque in quanto soci di una s.r.l. Considerato il
rilievo che il socio assume sul piano gestorio nel nuovo modello della s.r.l., l’art. 2476, comma
7, è valutato come il necessario bilanciamento all’accresciuto potere decisionale del socio.
Non è necessario che il socio abbia contribuito materialmente al compimento dell’atto
dannoso, ma è sufficiente che abbia contribuito alla decisione o all’autorizzazione che ha
portato al compimento dell’atto dannoso. Si è aggiunta, inoltre, una particolare qualificazione
dell’elemento soggettivo, perché si esige la “intenzionalità”, cioè il dolo del suo
comportamento, dolo che deve avere ad oggetto la decisione o autorizzazione del compimento
dell’atto. La responsabilità del socio ha natura contrattuale verso la società ed
extracontrattuale nei confronti degli altri soci e dei terzi.
Va precisato la figura del socio solidalmente responsabile con gli amministratori tenuta distinta
dall’eventuale “amministratore di fatto”, il quale ricorre laddove, pur non investito da una nomina
alla carica, si ingerisca continuamente nell’attività gestoria. Il socio corresponsabile risponde invece
per il contributo causale e intenzionale al compimento di singoli atti dannosi.

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Capitolo XI I controlli

I controlli nella s.r.l.


Nella struttura organizzativa delle società di capitali, la funzione di controllo sull’amministrazione e
sulla legalità degli atti della società è perlopiù affidata ad un apposito organo interno e ai soci sono
attribuiti residuali poteri di informazione e di controllo.
La presenza di un apposito organo di controllo o anche solo di un revisore esterno, peraltro non
sostitutivi dei poteri riconosciuti al singolo socio, è obbligatoria solo a determinate condizioni
dimensionali e/o qualitative della società ed è semplificata, in quanto normalmente può optarsi per
un organo monocratico (sindaco unico). In mancanza di tali condizioni, è lasciato all’autonomia
statuaria decidere se dar vita o meno ad un controllo organico o istituzionale.
Il codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza ha rafforzato I meccanismi di controllo,abbandonando
la privatizzazione.E’ stato ripristinato il controllo giudiziario del Tribunale pur in presenza di un
organo di controllo.

Il potere di controllo del singolo socio


Nella S.p.A. le funzioni di controllo sono attribuite ad organi che esercitano una sorta di attività di
mediazione tra la struttura societaria e la posizione individuale dei singoli soci.
I poteri di controllo attribuiti ai singoli soci si riducono all’esercizio di un diritto di informazione
delimitato e ad una informazione oggettivata in documenti più o meno tipizzati. In altre occasioni,
aliquote di minoranza del capitale sociale possono denunciare sospetti di gravi irregolarità a carico di
organi amministrativi o sindaci all’autorità giudiziaria o agli stessi sindaci.
• L’azionista non ha la possibilità di consultare i libri contabili, ma ha diritto di consultare solo
alcuni libri sociali, in particolare il libro dei soci e il libro delle adunanze delle assemblee e
delle deliberazioni assembleari dei soci;non vi sono altri libri che può consultaree non ha
accesso diretto alle delibere del c.d.a
• Ha il diritto di porre domande e chiedere informazioni agli amministratori durante lo
svolgimento delle assemblee; nelle società quotate è possibile esercitare tale diritto anche in
fase pre-assembleare; ma, in entrambi i casi, le richieste devono essere collegate agli
argomenti posti all’ordine del giorno, per cui si tratta di un “diritto di informazione
strumentale alla partecipazione del socio all’assemblea e alla sua espressione di voto”.
Quanto alla “informazione oggettivizzata”, si pensi al bilancio annuale d’esercizio o alle relazioni che
devono accompagnare le operazioni straordinarie; nelle società quotate si aggiunge anche un obbligo
di “informazione continua” diretta al mercato di borsa,in particolare quell ache ha incidenza sulla
formazione dei prezzi dei titoli emesis dalla società(informazione price sensitive).
La ragione di questa limitazione e predefinizione dell’ambito di esercizio del diritto di informazione
dell’azionista è data dal principio di riservatezza, che caratterizza gli affari sociali e la struttura
aperta della compagine sociale della S.p.A. Si diventa azionisti, spesso, con un investimento poco
significativo. Un concorrente della società potrebbe agevolmente diventare azionista e, se avesse
accesso ad informazioni riservate, ciò costituirebbe un potenziale danno per la società.
La s.r.l. è sì una società di capitali, ma ha una struttura chiusa, la cui compagine sociale è legata da
rapporti di reciproca conoscenza. Il singolo socio è direttamente interessato agli affari sociali e al loro
andamento. Di qui si giustificano gli estesi poteri di controllo riconosciuti ai soci dall’art. 2476
comma 2, secondo cui i soci che non partecipano all’amministrazione hanno un duplice potere:

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1. Potere di interpello: consiste nel diritto di avere dagli amministratori notizie sullo
svolgimento degli affari sociali, esercitabile a forma libera e cui corrisponde evidentemente
un obbligo degli amministratori di adempiervi;
2. Potere di ispezione: consiste nel diritto di consultare tutti i libri sociali, comprese le scritture
contabili e tutti i documenti relativi all’amministrazione e, secondo l’opinione prevalente, di
estrarne copia (sia pure a proprie spese).
Questi poteri sono esercitabili in qualsiasi momento e senza limitazione alcuna, salvo che non si
traducano in “atti emulativi”, atti diretti esclusivamente a creare ostacoli ingiustificati. Essi vanno
comunque esercitati nei confronti degli amministratori. Il socio può esercitare il potere di
consultazione anche tramite un professionista di fiducia, considerato che l’esame soprattutto dei
libri e delle registrazioni contabili può non essere agevole a chi non ha una base di conoscenza tecnica.
Nella prassi si è solito comunicare anticipatamente le generalità del professionista, che potrebbe
trovarsi in conflitto d’interessi con la società e dare adito ad un rifiuto motivato dell’amministrazione.
La norma prevede che tali poteri competano al “socio non amministratore”. Ciò sembra escludere il
socio amministratore. Talvolta, però, i diritti particolari del socio gli attribuiscono solo poteri limitati
per specifici atti di amministratori. Mi sembra che in questo caso il socio possa esercitare comunque
gli indicati poteri informativi e ispettivi.
È possibile sottoporre a regolamentazione l’esercizio del potere di interpello e ispettivo del singolo
socio? O addirittura escluderlo con previsione statuaria?
L’opinione prevalente in dottrina è che tali poteri siano caratterizzanti il tipo s.r.l., e non siano
derogabili da una diversa previsione dell’atto costitutivo. Si tende però ad ammettere una
regolamentazione, attribuita alla competenza dei soci, che non può comunque rendere l’esercizio di
tali diritti eccessivamente gravoso. Nella prassi accade spesso che, a fronte degli atteggiamenti
dilatori degli amministratori, il socio sia costretto a chiedere tutela in sede giudiziaria, anche
invocando provvedimenti cautelari d’urgenza. E comunque l’art. 2625 sanziona in via amministrativa
o penale i comportamenti degli amministratori che ostacolino le attività di controllo legalmente
attribuite “ai soci o ad altri organi sociali”.
Entrambi i poteri del socio non amministratore possono essere esplicati in funzione del successivo
esercizio dell’azione di responsabilità e di un eventuale revoca giudiziaria dell’amministratore. Ma
non vi è, a mio avviso, necessaria e stretta strumentalità tra questi poteri e le azioni citate.
L’esercizio dei poteri di controllo da parte dei soci non amministratori è a finalità libera, non
sindacabile dagli amministratori, fatto salvo il rispetto del principio di correttezza e buona fede.

I controlli organici e/o “istituzionali”


Il controllo affidato ad un organo interno o ad un revisore esterno può essere facoltativo o
obbligatorio a seconda della situazione in cui versa la s.r.l.
L’art. 2477, rubricato “Sindacato e revisione legale dei conti”, è stato modificato dalla riforma del
2003 e da ultimo col d.l. n. 5/2012 e con il d.l. n. 91/2014, che hanno ridisegnato il sistema dei
controlli come segue:
1. Il comma 1 disciplina l’ipotesi del controllo facoltativo, assegnando all’atto costitutivo la
possibilità di prevedere “la nomina di un organo di controllo o di un revisore”,
determinandone “le competenze e poteri, ivi compresa la revisione legale dei conti” e
legittimando anche l’organo di controllo monocratico composto da un solo membro effettivo
(c.d. “sindaco unico”), che si intende tale in mancanza di una diversa previsione statutaria.
Tali s.r.l. hanno carattere residuale: si identificano per sottrazione di quelle per le quali in
positivo, e in via tassativa, è sancito il controllo obbligatorio;
2. Il comma 2 disciplina i casi di controllo obbligatorio, fra i quali non ricorre più quello in cui
il capitale sociale non fosse inferiore a quello minimo stabilito per le S.p.A. Attualmente “la
nomina dell’organo di controllo o del revisore” è obbligatoria nei casi in cui la società:

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a. È tenuta alla redazione del bilancio consolidato;
b. Controlla una società obbligata alla revisione legale dei conti;
c. Per due esercizi consecutivi ha superato due dei limiti indicati dal primo comma
dell’art. 2435-bis.
Per quanto concerne il controllo facoltativo, le società possono prevedere espressamente, con
apposita clausola statuaria, la presenza di un organo di controllo o di un revisore esterno. Se la
clausola prevede la presenza di un collegio sindacale, per introdurre il sindaco unico è necessario
provvedere alla modifica statuaria:
• O abrogando semplicemente la clausola già presente;
• O prevedendo entrambe le possibilità e demandando l’opzione alla decisione dei soci. La
clausola deve determinare anche “competenze e poteri”,compresa la revision legali dei conti.
Quanto alle competenze dell’eventuale organo di controllo, sindaco unico o collegio sindacale, il
riferimento non può non essere alle funzioni che normalmente sono assolte dall’analogo organo della
S.p.A. e precisate dall’art. 2403:
1. Vigilanza sull’osservanza della legge e statuto;
2. Vigilanza sul rispetto dei principi di corretta amministrazione;
3. Vigilanza sull’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile adottato
dalla società e sul suo concreto funzionamento.
L’art. 2403 richiama anche il compito della revisione legale dei conti.
Il comma 3 dell’art. 2477 precisa che “nel caso di nomina di un organo di controllo, anche
monocratico, si applicano le disposizioni sul collegio sindacale previste per le società per azioni”.
Ciò significa che al sindaco unico o al collegio sindacale si applicheranno, sul piano della
composizione dell’organo, dei requisiti, del funzionamento, della cessazione e dei compiti e poteri e
della responsabilità le regole dettate nella S.p.A.
Lo statuto potrebbe inoltre affiancare all’organo di controllo interno un revisore contabile esterno,
persona fisica o società di revisione, con il compito specifico della revisione legale dei conti, che
allora sarebbe sottratta al sindaco o al collegio sindacale. O il revisore contabile esterno potrebbe
essere l’unico controllore, ma allora lee funzioni dallo stesso esercitabili non potrebbero che essere
limate alla revisione legale dei conti.
Quanto ai poteri, è difficile pensare che essi possano essere definiti in difformità di quelli classici
previsti per gli istituti sindacali e del revisore, perché dovranno essere commisurati alle funzioni
attribuite.
È comunque essenziale la lettura in concreto dei singoli atti costitutivi per verificare la presenza e
l’estensione dei compiti e poteri dei controlli facoltativi. Per quanto concerne il controllo
obbligatorio:
1. La s.r.l. è tenuta alla redazione del bilancio consolidato: ciò significa che la s.r.l. è
controllante a monte di un gruppo societario, che sarebbe invece sottratto all’obbligo di
redazione del consolidato;
2. La s.r.l. controlla una società obbligata alla revisione legale dei conti, come nell’ipotesi in
cui la s.r.l. sia controllante, direttamente o indirettamente, di una S.p.A. con azioni quotate in
un mercato regolamentato o di altra società obbligata alla revisione legale dei conti;
3. La s.r.l. per due esercizi consecutivi ha superato due dei limiti indicati nel comma 1
dell’art. 2435-bis e al di sotto dei quali è legittimata la redazione di un bilancio in forma
abbreviata. Deve trattarsi di società che non ha emesso titoli negoziati in mercati
regolamentati (ma questo non dovrebbe accadere per le s.r.l. in quanto per esse in via di
principio è vietato il ricorso a forme di offerta al pubblico dei propri titoli) e che non abbia
superato due dei seguenti limiti:
• Totale dell’attivo dello stato patrimoniale 4.400.000 euro;
• Ricavi delle vendite e delle prestazioni: 8.800.000 euro;
80
• Dipendenti occupati in media durante l’esercizio: 50 unità.
Tali limiti sono destinati ad essere fissati autonomamente, e sganciati dai criteri propri che
fondano l’obbligo di redazione del bilancio in forma abbreviata, sì da ampliare notevolmente
l’abito di soggezione delle s.r.l. all’obbligo di istituire un controllo obbligatorio. L’art. 14,
comma 1, lett. g della legge delega sulla riforma organica delle procedure concorsuali prevede
che i limiti siano fissati come segue:
• Totale dell’attivo dello stato patrimoniale: 2.000.000 euro;
• Ricavi delle vendite e delle prestazioni: 2.000.000 euro;
• Dipendenti occupati in media durante l’esercizio: 10 unità.
Il vincolo del controllo obbligatorio cessa se per due esercizi consecutivi i predetti limiti non
vengono superati (ma con la citata riforma il periodo è allungato a tre esercizi consecutivi).
Il venir meno dell’obbligo di controllo costituisce giusta causa di revoca del sindaco o
revisore.Il penultimo comma dell’art. 2477 prevede che “l’assemblea che approva il bilancio
in cui vengono superati i limiti indicati al comma 2 deve provvedere, entro 30 giorni, alla
nomina dell’organo di controllo o del revisore. Se l’assemblea non provvede, allora provvede
il Tribunale su richiesta di un qualsiasi soggetto interessato o su segnalazione d’ufficio del
Conservatore del registro delle imprese”.
Si tratta di una norma un po’ strana, per cui si impone che si completi la struttura organizzativa
della s.r.l. da parte del Tribunale, adito su iniziativa di “qualsiasi interessato”, amministratore,
singolo socio e, secondo alcuni, anche creditore sociale che ha interesse all’attivazione di una
vigilanza della società da parte di un organo di controllo. L’aspetto più curioso della
disposizione è che la nomina dell’organo di controllo o del revisore è qui attribuita alla
competenza dell’assemblea dei soci. La disposizione può trovare applicazione, a mio avviso,
in via analogica anche alle ipotesi di mancata deliberazione ove la s.r.l. sia tenuta nel corso
della sua vita al controllo obbligatorio.
4. Al di là dei casi previsti dal codice, alcune leggi speciali prevedono altre ipotesi di controllo
obbligatorio per le s.r.l. In particolare:
• Le società (comprese s.r.l.) qualificabili come EIP (enti di interesse pubblico) o
controllanti EIP o controllate da EIP o sottoposte con quest’ultimi a comune controllo
non possono affidare la revisione legale dei conti al collegio sindacale, ma sono
obbligate ad affidarlo ad un revisore esterno, persona fisica o società. A tale obbligo
fanno eccezione le controllate o sottoposte a comune controllo che nel gruppo non
rivestono significativa rilevanza, secondo i criteri definiti con regolamento Consob,
d’intesa con Banca d’Italia e Ivass, nelle quali la revisione legale die conti può essere
svolta dall’organo di controllo interno.
• Nelle s.r.l. controllate da pubbliche amministrazioni (società a controllo pubblico)
deve sempre essere previsto dallo statuto un organo di controllo o un revisore.
• Nelle società sportive professionistiche in forma di s.r.l. è sempre obbligatoria la
nomina di un collegio sindacale ed è espressamene previsto anche il controllo
giudiziario ex art. 2409 su denuncia delle federazioni sportive nazionali.

Il controverso tema del controllo giudiziario


Prima della riforma del 2003, l’art. 2488 espressamente rinviava all’art. 2409, che nella S.p.A.
disciplina il controllo esterno del Tribunale attivabile su denuncia di aliquote qualificate dei soci o
del pubblico ministero (e ora dal collegio sindacale, consiglio di sorveglianza o comitato per il
controllo sulla gestione) quando sussista fondato sospetto di gravi irregolarità commesse dagli
amministratori in violazione dei loro doveri. Tale rinvio non è più presente nel vigente art. 2477 per
il modello legale della srl.

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Dottrina e giurisprudenza inizialmente si sono divise con riferimento alla legittimazione dell’organo
sindacale, laddove obbligatorio o comunque statutariamente previsto. E ciò sulla base del rinvio che
l’art. 2477, comma 4, opera alle “disposizioni sul collegio sindacale previste per le S.p.A.”.
Sulla questione si è pronunciata la Corte costituzionale nel 2005 con la sentenza interpretativa di
rigetto n. 481, valorizzando il profilo tipologico della s.r.l. distinto da quello della S.p.A. e la centralità
dei poteri individuali attribuiti al singolo socio.
Ha fatto seguito la Cassazione con la sentenza n. 403/2010, che ha espressamente escluso la
legittimazione dei sindaci ad attivare la procedura ex art. 2409, perché incompatibile con il nuovo
assetto dei controlli nella s.r.l.
Peraltro alcuni giudici di merito, di recente, continuano a pronunciarsi per l’ammissibilità del
controllo giudiziario nella s.r.l. laddove il controllo sindacale sia obbligatorio.
Il controllo giudiziario ex art. 2409 è destinato ad essere a breve ripristinato espressamente dal
legislatore per tutte le s.r.l., anche prive dell’organo di controllo, per effetto della legge delega sulla
riforma organica delle procedure concorsuali (art. 14, comma 1, lett. f).
L’iniziativa del P.M è consentita solo per le società con azioni quotate in mercati
regolamentati(società con azioni diffuse fra il pubblico in maniera rilevante e società con azioni
quotate in mercati regolamentati).
La legittimazione alla iniziativa per attivare il controllo giudixairio nella srl è da limitare al socio e ai
soci che detengano almeno un decimo del capitale sociale o la minora aliquota fissata nello
statuto,nonchè all’organo sindacale ove presente.

Capitolo XII Libri sociali e bilancio

Libri sociali, scritture contabili e documentazione


L’art. 2478 ribadisce gli obblighi di tenuta della documentazione relativa all’attività sociale e
d’impresa svolta dalla s.r.l., precisando che:
1. Devono essere redatti i libri e le scritture contabili disciplinati dall’art. 2214 per tutti gli
imprenditori commerciali non piccoli, e dunque i libri generalmente e nominativamente
obbligatori, quali il libro giornale e il libro degli inventari, nonché i libri “relativamente”
obbligatori richiesti dalla dimensione e dalla natura dell’attività d’impresa. Il rinvio all’art.
2411 non deve intendersi limitato ai soli libri e scritture contabili, ma anche all’obbligo di
conservazione di tutta la documentazione inerente all’attività. Parimenti si applicheranno tutte
le disposizioni concernenti il contenuto e le formalità di tenuta e conservazione di tali libri e
scritture e documentazione di cui ai successivi artt. 2215 – 2220.
2. Devono altresì essere compilati 3 libri sociali, con esclusione dell’abrogato libro dei soci, e
in particolare:
• Il libro delle decisioni dei soci, nel quale sono trascritti senza indugio sia i verbali
delle assemblee, anche se redatti per atto pubblico, sia le decisioni scritte;
• Il libro delle decisioni degli amministratori, anch’esse consiliari o meno;
• Il libro delle decisioni del collegio sindacale.
La tenuta dei libri delle decisioni dei soci e delle decisioni degli amministratori fa carico agli
amministratori; quella del libro dell’organo interno di controllo ai sindaci medesimi.
3. Nel caso di società unipersonale si impone un particolare obbligo di documentazione dei
“contratti della società con l’unico socio o delle operazioni a favore dell’unico socio”, ai fini
della loro opponibilità ai creditori sociali. Essi, infatti, devono risultare o dal libro delle
decisioni degli amministratori o da atto scritto avente data certa anteriore all’eventuale
pignoramento del terzo creditore.

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La legge Mancino, per ragioni collegate alla lotta al riciclaggio del denaro proveniente dalla
commissione di reati, ha abrogato il libro dei soci nella disciplina delle s.r.l. Ciononostante, molte
s.r.l. conservano nell’atto costitutivo la previsione di tenuta del libro dei soci.
• Parte della dottrina e dei consigli notarili considerano legittima espressione dell’autonomia
corporativa le clausole previste nell’atto costitutivo che impongono l’annotazione del
trasferimento della quota nel libro soci;
• La giurisprudenza di merito è spesso di contrario avviso, sul presupposto che l’abrogazione
del libro soci è dettata da norma imperativa e che l’atto costitutivo non potrebbe introdurre
ulteriori limitazioni alla efficacia del trasferimento della quota, una volta adempiute le
formalità di deposito presso il Registro delle imprese. Peraltro, la conoscenza della società
sulla composizione della compagine sociale non ne sarebbe agevolata, non potendo gli
amministratori limitarsi alla verifica dell’iscrizione nel libro dei soci, ma dovendo in ogni
caso consultare il Registro delle imprese, cui si collega l’opponibilità alla società del
trasferimento di quota.
Si è comunque dell’opinione che nulla impedisce all’autonomia corporativa di subordinare l’esercizio
dei diritti sociali anche alla iscrizione nel libro soci che l’atto costitutivo abbia al riguardo
disciplinato. Ovviamente la formalità non deve essere tale da rendere particolarmente gravoso
l’esercizio di quei diritti.

Il bilancio d’esercizio. Contenuto


Fra i più importanti documenti contabili che la s.r.l. deve redigere vi è il bilancio d’esercizio, il cui
contenuto e i cui principi generali e di redazione sono disciplinati dalle stesse disposizioni che si
applicano nella S.p.A.
La legge di stabilità del 2012 aveva previsto che “a partire dal 1° gennaio 2012, le società a
responsabilità limitata che non abbiano nominato il collegio sindacale possono redigere il bilancio
secondo uno schema semplificato”. Senonché il decreto del Ministro dell’Economia che avrebbe
dovuto definire le voci e la struttura che compongono lo schema di bilancio semplificato non è mai
stato emanato.
Ne consegue che gli obblighi di redazione del bilancio d’esercizio per le s.r.l. seguono le norme legali
dettate dal codice civile nonché i principi contabili dell’Organismo italiano di Contabilità (OIC) (c.d.
local group) e non i principi contabili internazionali. In relazione al profilo dimensionale, la redazione
del bilancio è differenziata a seconda che si tratti di micro-impresa (art. 2435-ter), piccola-media
impresa (art. 2435-bis) o impresa ordinaria (art. 2423 ss.).
1. Le imprese ordinarie sono tali se non ricadono in alcuna delle altre due categorie e redigono
un bilancio composto da 4 documenti essenziali: stato patrimoniale, conto economico, nota
integrativa e rendiconto finanziario; e corredano il bilancio di una “relazione sulla gestione”.
2. Le piccole-medie imprese sono quelle che, nel primo esercizio o successivamente per due
esercizi consecutivi, non abbiano superato due dei seguenti limiti:
Totale dell’attivo dello stato patrimoniale: 4.400.000 euro; Ricavi
delle vendite e delle prestazioni 8.800.000 euro;
Dipendenti occupati in media durante l’esercizio: 50 unità.
Esse possono redigere un “bilancio in forma abbreviata”, che si caratterizza per uno stato
patrimoniale, un conto economico e una nota integrativa più semplificati e per l’assenza del
rendiconto finanziario. Ove poi forniscano in nota integrativa le informazioni richieste
(relative a quote e azioni di società controllanti possedute o acquistate o alienate nel corso
dell’esercizio) esse sono esonerate dalla redazione della relazione sulla gestione.
Le società che redigono il bilancio in forma abbreviata hanno la facoltà di iscrivere i titoli al
costo di acquisto, i crediti al valore di presumibile realizzo e i debiti al valore nominale. Le

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società che redigono il bilancio in forma abbreviata devono redigerlo in forma ordinaria
quando per il secondo esercizio consecutivo abbiano superato due dei limiti sopra indicati.
3. Le micro-imprese si identificano nella società di cui all’art. 2435-bis che però nel primo
esercizio o successivamente per due esercizi consecutivi non abbiano superato due dei
seguenti limiti:
Totale dell’attivo dello stato patrimoniale: 175.000 euro; Ricavi
delle vendite e delle prestazioni: 350.000 euro;
Dipendenti occupati in media durante l’esercizio: 5 unità.
Esse fruiscono delle medesime semplificazioni previste per il “bilancio in forma abbreviata”
e inoltre, oltre a non redigere il rendiconto finanziario, non redigono anche la nota integrativa
né la relazione sulla gestione, ove in calce allo stato patrimoniale vengono riportate le
informazioni su impegni, garanzie e passività potenziali nonché su compensi, anticipazioni,
crediti e impegni concessi ad amministratori e sindaci e sulle quote o azioni di società
controllanti. Né trova applicazione l’obbligo di deroga alle disposizioni legali, quando
incompatibili con la rappresentazione veritiera e corretta, né l’obbligo di valutare a fair value
gli strumenti finanziari derivati.
Le società che si avvalgono delle esenzioni come micro-imprese devono redigere il bilancio,
a seconda dei casi, in forma abbreviata o in forma ordinaria quando per il secondo esercizio
consecutivo abbiano superato due dei limiti propri alle stesse micro-imprese.
E’ da ritenere che tutte le srl possano acquisire la qualifica di società benefit” ai sensi della
legge di stabilità 2016.
Cosa è la società benefit? È un qualsiasi tipo di società che nell’esercizio di una attività
economica,oltre allo scopo di dividerne gli utili,perseguono una o più finalità di beneficio
commune e operano in modo responsabile,sostenibile e trasparente nei confronti di
persone,comunità,territori e ambiente,enti e associazioni,ecc.Il beneficio commune consiste
nel perseguimento di uno o più effetti positive, o la riduzione degli effetti negative,su una o
più categorie dei beneficiari.
Tali finalità devono essere indicate specificatamente nell’oggetto sociale e sono perseguite
mediante una gestione volta al bilanciamento con l’interesse dei soci e con l’interesse dei soci
e con l’interesse di coloro sui quali l’attività sociale possa avere un impatto.La società può
introdurre,accanto alla denominazione sociale,la parola società benefit o SB.
La SB redige annualmente una relazione concernente il perseguimento del beneficio
comune,da allegare al bilancio societario.

Procedimento di formazione del bilancio e di distribuzione degli utili


Il procedimento di formazione del bilancio d’esercizio deve fare i conti con le specifiche
disposizioni dettate dall’art. 2478-bis e con la compatibilità con le regole proprie della s.r.l.
Agli amministratori spetta il compito di redigere un progetto di bilancio d’esercizio che dovrà essere
“presentato ai soci ai fini della loro approvazione in sede assembleare o per la decisione dei soci
mediante consultazione scritta o consenso espresso per iscritto, entro il termine previsto dall’atto
costitutivo, comunque non superiore a 120 giorni dalla chiusura dell’esercizio sociale e salva la
possibilità di un maggiore termine entro i limiti e alle condizioni previste dall’art. 2364”.
E cioè, sempre che lo statuto lo consenta, entro il termine non superiore a 180 giorni nel caso di
società tenuta alla redazione del bilancio consolidato ovvero quando lo richiedono particolari
esigenze relative alla struttura e all’oggetto della società; in questi casi gli amministratori segnalano
nella relazione sulla gestione le ragioni della dilazione.
I termini, nel caso di approvazione assembleare, dovrebbero far riferimento alla data di convocazione
e, nel caso di decisione scritta extraassembleare, alla data entro cui i soci possono esprimere il proprio
consenso scritto. Il deposito presso la sede sociale nel termine di 15 giorni che precedono l’assemblea,

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a tutela del diritto di informazione dei soci, deve essere rispettato a prescindere dalla convocazione,
potendosi peraltro concordare sulla possibilità di una diversa regolamentazione statuaria.
Entro 30 giorni dalla decisione dei soci di approvazione del bilancio, copia del bilancio approvato
dev’essere depositata presso l’Ufficio del Registro delle imprese. Non è più previsto che venga
allegato al bilancio depositato l’elenco dei soci e degli altri titolari di diritti sulle partecipazioni sociali
in quanto i dati risultano già dal Registro delle imprese a seguito dell’abrogazione del libro dei soci.
L’invalidità della decisione di approvazione del bilancio deve ritenersi soggetta alla speciale
disciplina dettata dall’art. 2434-bis, secondo cui le azioni di annullabilità e nullità “non possono
essere proposte nei confronti delle deliberazioni di approvazione del bilancio dopo che è avvenuta
l’approvazione del bilancio dell’esercizio successivo”.
La legittimazione ad impugnare le decisioni di approvazione del bilancio su cui il soggetto incaricato
di effettuare la revisione legale dei conti ha emesso un giudizio privo di rilievi spetta a tanti soci che
rappresentino almeno il 5% del capitale sociale.
La decisione dei soci che approva il bilancio decide altresì sulla distribuzione degli utili ai soci. La
contestualità delle due decisioni (approvazione del bilancio e distribuzione degli utili) è vicenda
normale ma non necessaria ai fini della validità delle stesse. Si può discutere, peraltro, se la seconda
decisione deve considerarsi implicitamente contenuta nell’ordine del giorno che prevede
l’approvazione del bilancio, come sarei propenso a ritenere.
Come nelle S.p.A., sussistono limiti legali alla distribuzione, in quanto:
• Possono essere distribuiti esclusivamente gli utili realmente conseguiti e risultanti da bilancio
regolarmente approvato;
• Non può procedersi a ripartizione di utili in presenza di perdita del capitale sociale, che dovrà
essere previamente reintegrato o ridotto in misura corrispondente alla perdita;
• Possono introdursi anche limiti statutari, con la previsione di riserve statutarie o, all’opposto,
di obblighi/vincoli alla distribuzione.
La riserva legale nelle s.r.l. in cui il capitale sociale è determinato in misura inferiore ai 10.000 euro
segue un processo di accumulazione più accelerato rispetto a quanto prevede in generale l’art. 2430.
La somma da dedurre dagli utili netti risultanti dal bilancio regolarmente approvato dev’essere
almeno pari a 1/5 degli stessi, fino a che la riserva non abbia raggiunto, unitamente al capitale,
l’ammontare di 10.000 euro. La riserva così formata può essere utilizzata solo per imputazione a
capitale e per copertura di eventuali perdite, e deve essere reintegrata se viene diminuita per qualsiasi
ragione.
Gli utili erogati in violazione delle disposizioni che precedono non sono ripetibili se i soci li hanno
riscossi in buona fede in base a bilancio regolarmente approvato, da cui risultino utili netti
corrispondenti, ferma restando una possibile responsabilità degli amministratori ed eventualmente
dei soci che abbiano intenzionalmente deciso la distribuzione, essendo a conoscenza dei vizi del
bilancio.

Capitolo XIII Modificazioni dell’atto costitutivo e operazioni sul capitale

Le modificazioni statutarie
Le modificazioni dell’atto costituivo (o statuto) sono di competenza inderogabile dell’assemblea dei
soci, che delibera con il quorum al contempo costitutivo e deliberativo pari alla maggioranza del
capitale sociale. Il verbale dovrà essere redatto dal notaio, con conseguente controllo sostitutivo di
quello omologatorio affidato allo stesso notaio.
Questi è tenuto a verbalizzare l’andamento dell’assemblea così come gli viene rappresentato dal
Presidente della stessa, ma al suo esito non può esimersi dal verificare l’adempimento delle condizioni
stabilite dalla legge e, in caso positivo, entro 30 giorni dall’assemblea deve chiedere l’iscrizione della
deliberazione modificativa nel Registro delle imprese, provvedendo contestualmente al deposito della
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stessa con allegate le eventuali autorizzazioni richieste. A sua volta, l’Ufficio del Registro delle
imprese verifica la regolarità formale della documentazione e procede all’iscrizione.
In caso di esito negativo del controllo notarile, il notaio deve darne tempestiva comunicazione agli
amministratori della società, comunque non oltre i 30 giorni. Gli amministratori, nei 30 giorni
successivi, possono convocare l’assemblea per gli opportuni provvedimenti correttivi oppure possono
ricorrere al Tribunale affinché svolga esso il controllo omologatorio di legalità, ordinando – se del
caso – l’iscrizione della deliberazione modificativa con decreto.
Le modificazioni statutarie sono efficaci solo a partire dalla iscrizione nel Registro delle imprese; in
caso di controllo negativo, la deliberazione diventa definitivamente inefficace.

L’aumento del capitale sociale


Particolari modifiche statutarie sono quelle che incidono sulla entità del capitale nominale, indicato
nell’atto costitutivo come “cifra fissa”. L’aumento del capitale sociale può essere:
• Reale, quando si attua a pagamento con effettuazione di nuovi conferimenti;
• Nominale, quando si attua a titolo gratuito con passaggio di riserve a capitale. In particolare:
• L’aumento reale è normalmente deliberato dall’assemblea dei soci, ma può essere delegato
agli amministratori. La delega può essere già contenuta nell’atto costitutivo o introdotta
successivamente con modifica dello stesso.
Limiti e modalità d’esercizio devono essere definiti nella clausola statutaria. A sua volta la
decisone dell’aumento delegato deve risultare da una decisione degli amministratori
verbalizzata dal notaio, da iscrivere nel Registro delle imprese previo controllo ex art. 2436.
La decisione di aumento non può essere eseguita, benché possa essere adottata, se non dopo
che i conferimenti precedentemente dovuti siano interamente effettuati, al fine di evitare che
la società faccia ricorso a nuove risorse laddove può agevolmente recuperarle dai soci. La
decisione di aumento a pagamento fa sorgere in capo a ciascun socio il diritto di opzione,
definito nella s.r.l. “diritto di sottoscrizione” delle nuove quote ad emettersi in proporzione
delle partecipazioni già possedute. Ma l’atto costitutivo potrebbe anche escludere il diritto di
opzione, prevedendo che le nuove quote siano offerte a terzi, nel qual caso ciascun socio non
consenziente alla decisione di aumento ha diritto di esercitare il recesso. L’esclusione del
diritto di opzione non può mai essere prevista nel caso di aumento del capitale ridottosi per
perdite al di sotto del minimo legale.
I termini e le modalità per l’esercizio dell’opzione sono fissati nella decisione di aumento, che
può altresì prevedere il pagamento di un sovraprezzo. Esclusione e decisione sul sovraprezzo
potrebbero essere legittimamente immotivati. La decisione può anche consentire che la parte
dell’aumento di capitale non sottoscritta da uno o più soci sia sottoscritta da altri soci o da
terzi; stabilire altresì se l’aumento eseguito parzialmente debba considerarsi efficace poiché,
in mancanza di previsione, l’aumento deve considerarsi inscindibile, con conseguente
inefficacia dell’aumento parziale e restituzione ai sottoscrittori di quanto già versato. Se è
previsto il sovrapprezzo, questo deve essere integralmente versato al momento della
sottoscrizione. Nei 30 giorni dall’avvenuta sottoscrizione gli amministratori devono
depositare, per l’iscrizione nel Registro delle imprese, un’attestazione che l’aumento di
capitale è stato eseguito.
• L’aumento nominale si traduce in una diversa qualificazione di aliquote ideali del patrimonio
sociale, ovvero nel passaggio di riserve di utili o di patrimonio o di altri fondi “disponibili” a
capitale sociale, così assoggettando in via di principio le corrispondenti aliquote patrimoniali
al vincolo di indistribuibilità del capitale sociale nominale. Si parla di aumento gratuito, in
quanto esso non comporta un incremento percentuale della quota di ciascun socio, il cui valore
già riflette l’intero patrimonio netto che resta complessivamente invariato, anche se
modificato nella composizione delle relative voci.

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Si sostiene da alcuni autori che anche l’aumento gratuito potrebbe essere delegato agli
amministratori. Mi pare tuttavia che la tesi non si concili con la necessità che i conferimenti
ancora dovuti siano previamente eseguiti, disposizione dettata proprio nella sede
dell’aumento delegato e che non avrebbe alcuna ragion d’essere per l’aumento gratuito.

La riduzione del capitale sociale


Anche la riduzione del capitale sociale può essere reale o nominale:
• La riduzione reale ricorre quando, sempre con deliberazione assembleare di modifica
statutaria, si proceda a ridurre l’entità del capitale, non però al di sotto del minimo legale,
mediante rimborso ai soci delle quote pagate (cioè di parte dei versamenti effettuati), ovvero
mediante liberazione dei soci dall’obbligo di effettuare versamenti ancora dovuti.
La riduzione, che può essere immotivata non dovendosi più dimostrare l’esuberanza rispetto
all’oggetto sociale, è soggetta all’opposizione dei creditori sociali anteriori alla iscrizione
della deliberazione, da esercitarsi entro 90 giorni dalla detta iscrizione. La riduzione sarà
efficace e potrà eseguirsi se entro i 90 giorni non vi siano opposizioni o se il Tribunale rigetti
l’opposizione per difetto di pregiudizio o per avere la società prestato idonea garanzia. Altre
ipotesi di riduzione reale possono verificarsi in caso di esclusione per morosità del socio o in
caso di esercizio del diritto di recesso.
• La riduzione nominale si determina quando sussistono perdite che intaccano l’entità del
capitale nominale, sì che il patrimonio netto complessivo è inferiore alla cifra fissa del capitale
sociale: con la riduzione si adegua il capitale nominale alla sua effettiva copertura.
La perdita, peraltro, può superare il terzo del capitale sociale e addirittura portare lo stesso al
di sotto del minimo legale, oppure può restare entro limiti inferiori al terzo.
o Ove la perdita superi il terzo del capitale, scattano obblighi che conducono alla
riduzione obbligatoria;
o Se la perdita non supera il terzo del capitale, vi è la riduzione facoltativa, che può
essere effettuata o meno.
I soci però possono avere interesse a tale riduzione perché fino a quando non è effettuata gli
utili successivamente conseguiti non sono distribuibili.
La riduzione obbligatoria può essere differita se la perdita di oltre 1/3 non fa scendere il
capitale sociale al di sotto del minimo legale. Comunque, quando gli amministratori
verificano tale tipo di perdita, devono senza indugio convocare l’assemblea dei soci perché
essa adotti gli opportuni provvedimenti. All’assemblea va sottoposta una “relazione degli
amministratori sulla situazione patrimoniale della società”, corredata da osservazioni
dell’organo di controllo interno o del revisore. Copia della relazione e copia delle osservazioni
devono restare depositate presso la sede sociale almeno 8 giorni prima della riunione
assembleare, affinché i soci ne possano prendere visione ed essere in grado di decidere sugli
opportuni provvedimenti. Quanto al contenuto della relazione sulla situazione patrimoniale,
si tratta in sostanza di un bilancio straordinario redatto con i criteri del bilancio d’esercizio.
All’uopo potrebbe utilizzarsi il bilancio annuale, se recente, o un apposito bilancio
infrannuale.
Nel corso dell’assemblea gli amministratori devono dar conto anche dei fatti di rilievo
avvenuti dopo il deposito della relazione. L’assemblea potrà deliberare l’immediata riduzione
del capitale sociale oppure adottare opportuni provvedimenti, quali direttive agli
amministratori di contrazione dei costi e sul futuro andamento degli affari sociali, o rinviare
ogni decisione all’esercizio successivo. Se nel corso di tale esercizio la perdita non si riduce
a meno di 1/3, gli amministratori devono convocare l’assemblea sia per l’approvazione del
bilancio sia per la riduzione del capitale sociale “in proporzione delle perdite accertate”. In
mancanza di convocazione o se l’assemblea riunita non provvede, il Tribunale, su istanza

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degli amministratori o dell’organo di controllo o del revisore o anche di “qualsiasi
interessato”, procede con decreto reclamabile alla riduzione e gli amministratori hanno
l’obbligo di curarne l’iscrizione nel Registro delle imprese.
È opinione di molti che la riduzione possa essere deliberata dall’assemblea con le
maggioranze previste per l’approvazione del bilancio. Ma la tesi mi lascia perplesso,
trattandosi pur sempre di una modifica statuaria.
La riduzione obbligatoria dev’essere immediata se la perdita di oltre 1/3 ha portato il capitale
sociale al di sotto del limite legale di 10.000 euro. Gli amministratori, assolte le incombenze
di redazione e deposito della relazione e delle osservazioni dell’organo di controllo o del
revisore, convocano senza indugio l’assemblea perché deliberi con le maggioranze richieste
per le modifiche statuarie:
o O la riduzione e il contestuale aumento del capitale sociale ad una cifra quantomeno
pari al minimo legale;
o O la trasformazione della società in un tipo che non richiede quel minimo di capitale
sociale;
o O lo scioglimento della società.
In tutte le ipotesi di riduzione del capitale per perdite, le quote di partecipazione e i diritti
spettanti ai soci non possono subire modificazioni.
Per le s.r.l. qualificabili come start-up o PMI innovative, la disciplina che precede subisce
adattamenti di favore:
o La riduzione obbligatoria per perdite di oltre 1/3, senza che venga intaccato il minino
legale, può essere rinviata al secondo esercizio successivo;
o La riduzione obbligatoria per perdite di oltre 1/3 che portano il capitale al di sotto del
minimo legale può essere rinviata alla chiusura dell’esercizio successivo senza che
nel frattempo si determini lo scioglimento della società.
L’art. 2463 e l’art. 2463-bis consentono la costituzione di s.r.l. a capitale ridotto addirittura
ad un euro. Ciononostante, è a questo minimo legale che dovranno riferirsi tutte le previsioni
in caso di perdita, per cui, se il patrimonio netto di tali società si è ridotto per perdite di oltre
1/3 al di sotto di un euro, si applicheranno le tre alternative sopra indicate (ricapitalizzazione,
trasformazione o scioglimento).
La disciplina sulla riduzione obbligatoria per le perdite è sospesa ove la società, versando in
stato di crisi, presenti domanda di ammissione al concordato preventivo o domanda di
omologazione di un accordo di ristrutturazione dei debiti o istanza per la protezione delle
azioni esecutive dei creditori sociali in attesa che si perfezioni l’accordo di ristrutturazione
dei debiti. La sospensione dura per tutta la procedura fino alla eventuale omologazione, né
opera in tale periodo la causa di scioglimento ex art. 2484, n. 4. Gli amministratori, comunque,
mantengono solo un potere di gestione conservativa ai sensi dell’art. 2486. E’ prevista analoga
misura cautelare nell’ambito del procedimento di composizione assistita della crisi e sino alla
sua conclusion,che però non pera di diritto ma sui stanza del debitore e concessione con
provvedimento del Giudice competente

Capitolo XIV Scioglimento e liquidazione

Scioglimento e liquidazione della s.r.l.: regole comuni


Lo scioglimento e la liquidazione della s.r.l. seguono le regole comuni a tutte le società di capitali che
la riforma del 2003 ha unificato negli artt. 2484 - 2496. Peraltro, nella prassi di molti Uffici camerali
del Registro delle imprese si è venuta consolidando una c.d. procedura semplificata di liquidazione
di s.r.l., limitata alle ipotesi di scioglimento per cause predefinite dalla legge o dallo statuto, e
consistente nella messa in liquidazione della società senza la formalità dell'atto pubblico notarile.

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Il procedimento comune a tutte le società di capitali attraversa tre fasi:
1. L’accertamento del verificarsi di una causa di scioglimento della società con la relativa
pubblicità;
2. La liquidazione del patrimonio sociale per la soddisfazione delle ragioni dei creditori sociali
e per l’attribuzione del residuo ai soci;
3. L’estinzione della società conseguente alla cancellazione dal Registro delle imprese. Le
cause di scioglimento della s.r.l. sono indicate dall’art. 2484:
• Il decorso del termine (scadenza di durata della società, quando contratta a tempo determinato,
posto che può essere contratta anche a tempo indeterminato);
• Il conseguimento dell’oggetto sociale o la sopravvenuta impossibilità di conseguirlo, a meno
che l’assemblea dei soci non deliberi le opportune modifiche statutarie prevedendo un oggetto
sociale perseguibile;
• L’impossibilità di funzionamento o continuata inattività dell’assemblea;
• Riduzione del capitale al di sotto del minimo legale, salvo che l’assemblea non deliberi la
riduzione e il contestuale aumento del capitale al di sopra del minimo legale o la
trasformazione della società;
• Il recesso dei soci, quando non risulta possibile il rimborso della partecipazione al socio
receduto anche mediante riduzione del capitale sociale;
• La deliberazione dei soci di sciogliere anticipatamente la società;
• Ogni altra causa prevista dallo statuto.
Gli amministratori devono senza indugio accertare il verificarsi di una delle cause di scioglimento
previste dalla legge o dallo statuto e procedere agli adempimenti pubblicitari, che impongono
l’iscrizione nel Registro delle imprese della loro dichiarazione di constatazione, anche perché gli
effetti dello scioglimento decorrono dalla data della detta iscrizione e, in caso di ritardo od omissione,
gli amministratori sono personalmente e solidalmente responsabili per i danni subiti dalla società, dai
soci, dai creditori sociali e dai terzi. Se lo scioglimento è determinato da causa non legale o statutaria
ma dalla deliberazione dei soci di scioglimento anticipato, gli effetti decorrono dalla data di iscrizione
della relativa deliberazione dei soci.
Ove gli amministratori dovessero omettere questi adempimenti, l’accertamento del verificarsi della
causa di scioglimento viene compiuto, su istanza dei singoli soci, dal Tribunale con decreto da
iscriversi nel Registro delle imprese.
Se la causa di scioglimento deriva da specifiche ipotesi statutarie, l’atto costitutivo dovrebbe indicare
anche di chi sia la competenza a deciderle o accertarle e ad effettuare gli adempimenti pubblicitari;
in mancanza, a mio avviso, queste incombenze ricadono sugli amministratori.
Contestualmente all’accertamento della causa di scioglimento, poiché incide sulla funzione del
contratto sociale in quanto essa da produttiva/lucrativa diventa liquidatoria, gli amministratori
devono convocare l’assemblea dei soci per deliberare, con le maggioranze previste per le
modificazioni dell’atto costitutivo o dello statuto, su:
1. Numero dei liquidatori e regole di funzionamento del relativo collegio, in caso di pluralità;
2. Nomina dei liquidatori e individuazione fra gli stessi di chi è munito della legale
rappresentanza della società;
3. Criteri in base ai quali deve svolgersi la liquidazione; i poteri dei liquidatori, con particolare
riguardo alla cessione dell’azienda sociale, di rami di essa, ovvero anche di singoli beni o
diritti, o blocchi di essi; atti necessari per la conservazione del valore dell’impresa, ivi
compreso il suo esercizio provvisorio, anche di singoli rami, in funzione del migliore realizzo.
Se gli amministratori omettono tale convocazione, ancora una volta è al Tribunale che
compete provvedere alla convocazione dell’assemblea, nonché, nel caso in cui l’assemblea
non si costituisca o non deliberi, adottare con decreto le decisioni sopra indicate. Comunque,
l’assemblea può sempre modificare, con le “maggioranze richieste per le modificazioni

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dell’atto costitutivo o dello statuto”, le deliberazioni citate e i liquidatori possono essere
revocati dall’assemblea o, quando sussiste giusta causa, dal Tribunale su istanza dei soci, dei
sindaci o del pubblico ministero.
La nomina dei liquidatori e la determinazione dei loro poteri, nonché le loro modificazioni, devono
essere iscritte, a cura degli stessi liquidatori, nel Registro delle imprese. Solo dopo l’iscrizione della
nomina dei liquidatori cessano dalla carica gli amministratori, che conservano il potere di gestire la
società, solo ai fini della conservazione dell’integrità e del valore del patrimonio sociale, dal
verificarsi della causa di scioglimento fino al momento della consegna ai liquidatori dei libri sociali:
• Di una situazione dei conti alla data di effetto dello scioglimento;
• Di un rendiconto sulla loro gestione del periodo successivo all’ultimo bilancio approvato.

Gli amministratori sono personalmente e solidalmente responsabili dei danni arrecati alla
società, ai soci, ai creditori sociali e ai terzi per atti o omissioni compiuti in violazione di tali
disposizioni. Durante la fase liquidatoria, le disposizioni sulle decisioni dei soci, sulle assemblee
e sugli organi amministrativi e di controllo continuano ad applicarsi, in quanto compatibili.
In questa fase i liquidatori possono procedere alla monetizzazione del patrimonio sociale e al
pagamento dei creditori. I liquidatori hanno il potere di compiere tutti gli atti utili per la liquidazione
della società e devono adempiere i loro doveri con la professionalità e diligenza richieste dalla natura
dell’incarico. La loro responsabilità per danni derivanti dall’inosservanza di tali doveri è disciplinata
secondo le norme in tema di responsabilità degli amministratori.
• I liquidatori redigono periodicamente il bilancio di liquidazione, alla fine di ogni esercizio,
nei limiti di compatibilità con lo stato di liquidazione;
• Compiuta la liquidazione, redigono il bilancio finale di liquidazione, indicando la parte
spettante a ciascun socio nella ripartizione del residuo attivo. Approvato, anche tacitamente,
il bilancio finale e depositate presso una banca eventuali somme non riscosse dai soci, i
liquidatori possono procedere all’ultima fase.
Durante la fase liquidatoria, la società è obbligata ad aggiungere alla propria denominazione sociale
e nei propri atti e corrispondenza di trovarsi in liquidazione, ma può in ogni momento revocare lo
stato di liquidazione, occorrendo previa eliminazione della causa di scioglimento, con deliberazione
dell’assemblea presa con le maggioranze richieste per le modificazioni dell’atto costitutivo o dello
statuto, da depositare e iscrivere nel Registro delle imprese e perciò da adottarsi con delibera
verbalizzata dal notaio. La revoca, però, non è immediatamente efficace, ma solo dopo 60 giorni
dall’iscrizione, salvo che consti il consenso dei creditori della società o il pagamento dei creditori che
non hanno dato il consenso.
Qualora nel termine suddetto i creditori anteriori all’iscrizione abbiano fatto opposizione, il Tribunale,
ove ritenga infondato il pericolo di pregiudizio per i creditori oppure la società abbia prestato idonea
garanzia, dispone che l’operazione abbia luogo nonostante l’opposizione.
Da sottolineare che prima della riforma era opinione dominante che, con il verificarsi della causa di
scioglimento, il singolo socio acquistasse un diritto indisponibile alla liquidazione della quota. Con
la riforma è consentita la revoca con le maggioranze ricordate, ma al socio non consenziente è
attribuito il diritto di recesso.
Approvato il bilancio finale di liquidazione, i liquidatori devono chiedere la cancellazione della
società dal Registro delle imprese, il che determina l’estinzione della società. Alla cancellazione deve
provvedere d’ufficio il Conservatore del Registro delle imprese, se per tre anni consecutivi i
liquidatori non depositano il bilancio annuale di liquidazione.
Dopo la cancellazione i creditori sociali non soddisfatti possono fai valere i loro crediti nei confronti
dei soci, fino alla concorrenza delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione,
e nei confronti dei liquidatori se il mancato pagamento è dipeso da loro colpa. La domanda, se
proposta entro un anno dalla cancellazione, può essere notificata presso l’ultima sede della società. I

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liquidatori, infine, devono depositare i libri sociali presso l’Ufficio del Registro delle imprese, ove
essi vengono conservati per 10 anni e ove chiunque può esaminarli, anticipando le spese.

La procedura semplificata di liquidazione


Gli Uffici del Registro delle imprese tendono ad accettare l’istanza di cancellazione della s.r.l. anche
quando la causa di scioglimento non sia constatata e/o i liquidatori non siano nominati con atto
pubblico verbalizzato dal notaio. Tuttavia, questa c.d. procedura semplificata trova applicazione
solo nelle ipotesi in cui si verifichino cause di scioglimento che operano per effetto di cause
predefinite dalla legge o dallo statuto e che non comportano modifiche dello statuto né, quindi, la
necessità di una verbalizzazione per atto notarile.
L’ipotesi in cui la procedura semplificata non potrebbe trovare applicazione è quella prevista dall’art.
2484, n. 6, che si sostanzia in una deliberazione assembleare dei soci di scioglimento anticipato e
conseguentemente in una necessaria modifica dello statuto, che dev’essere verbalizzata con atto
notarile soggetto alle verifiche di cui all’art. 2436.
La posizione degli Uffici del Registro delle imprese non sembra trovare ostacolo nell’art. 2478, che
obbliga gli amministratori a convocare l’assemblea dei soci per deliberare su nomina e poteri dei
liquidatori, nonché sulle relative modifiche con le maggioranze previste per le modificazioni dell’atto
costitutivo o dello statuto. Tale norma imporrebbe solo le maggioranze, ma non la modifica dell’atto
costitutivo, con la conseguenza che non è richiesta l’assistenza del notaio per la relativa
verbalizzazione, controllo e iscrizione nel Registro delle imprese. L’art. 2487, infatti, fa carico
direttamente ai liquidatori di chiedere l’iscrizione della loro nomina nel Registro delle imprese e non
fa alcun cenno ad una intermediazione del notaio né ad un controllo notarile ex art. 2436.
Va sottolineato però che nel giugno 2014 il Consiglio Nazionale del Notariato ha assunto una
posizione più restrittiva, ritenendo che, ove l’assemblea della s.r.l. non si limiti alla nomina del
liquidatore, ma disponga sulle regole organizzative e di funzionamento della società nella fase di
liquidazione, la deliberazione deve risultare da verbale redatto nella forma dell’atto pubblico,
configurandosi un’ipotesi di modifica statutaria, di per sé soggetta alla disciplina di cui agli artt. 2480
e 2436, che impone l’atto pubblico.

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