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Je suis Fantozzi: perché

oggi siamo tutti Fantozzi


senza rendercene conto
minima&moralia

di pubblicato domenica, 11 Luglio 2021 · 2 Commenti

di Nicola Cucchi

Il 3 luglio scorso ricorrevano i quattro anni dalla morte di


Paolo Villaggio, inventore e interprete di una straordinaria
maschera ribelle: il ragionier Ugo Fantozzi.
Nellʼimmaginario collettivo italiano la maschera di
Fantozzi rappresenta alla perfezione il ruolo dello
sfruttato: ma fa riferimento a un passato lontano o a una
condizione che ci riguarda molto da vicino? Siamo sicuri
di avere capito il significato che quei film avevano per gli
spettatori di allora? E qual è lʼeredità di quelle storie per
gli spettatori millenials di oggi?

Una “distopia incendiaria”: istantanee di


sfruttamento e subalternità nella società italiana

Ugo Fantozzi è un personaggio drammatico, un simbolo


di umiliazione che si fa inconsapevolmente portavoce di
una critica sociale dura e radicale verso (i vertici di) una
società piramidale, e verso gli stessi colleghi di lavoro che
alimentano questo sistema, metafora grottesca di un
mondo che fa di tutto per tentare la scalata.

I primi due film sulla storia di Fantozzi escono nel 1975-


1976: “Fantozzi” e “Secondo tragico Fantozzi”. Il fatto
che tutti ricordino scene già da questi primi lavori
dimostra la capacità del regista di trovare espressioni
dello sfruttamento estreme e realistiche allo stesso
tempo, capaci di entrare profondamente nel senso
comune, e di scuoterlo alla radice.

Fantozzi innanzitutto, pur essendo vicino alla base della


piramide sociale, non è un operaio, è un impiegato e
come tale interpreta perfettamente il desiderio piccolo-
borghese del ceto medio impiegatizio di voler
assomigliare a chi occupava i gradini superiori nella scala
sociale. Questo desiderio nel suo caso viene
ripetutamente negato dai superiori e dai colleghi, che
dimostrano una capacità di adattamento molto migliore
della sua. Nonostante questa ripetuta mancanza di
soddisfazione, non è indotto quasi mai a ribellarsi a un
sistema che lo opprime, ma soffre in silenzio, tenta e
ritenta di uscire da una condizione di reietto in cui
fatalmente ricade.

I film sono dunque una serie quasi ripetitiva di umiliazioni


subite senza risposta, di un perenne senso
dʼinadeguatezza verso i modelli di riferimento a cui
comunque vuole soggiacere.
Un esempio perfetto è la sveglia: il tentativo di
riguadagnare tempo dal lavoro viene fatto a rischio della
vita

La subalternità viene imposta innanzitutto nei momenti di


festa: in questa scena i nobili proprietari dellʼazienda
invitano tutti gli impiegati a cena per imbonirli “in vista dei
prossimi accordi sindacali”. Tuttavia queste occasioni
restano comunque umilianti nella misura in cui
aumentano il senso dʼinadeguatezza verso la dirigenza
chiaramente aristocratica.

E chiudiamo con una scena madre. Non riuscendo ad


inserirsi nei canali di ascesa sociale non gli resta che
tornare al primordiale godimento generato dal tifo
calcistico. Purtroppo il suo formidabile programma di
evasione viene castrato da un direttore del personale,
che vuole imporre la sua cultura dʼautore alle masse
ignoranti. La scena in cui la moglie lo interrompe è
comicamente drammatica: “Ugo, credo che non potrai
vedere la tua partita. Ha chiamato il Dott. Riccardelli:
dobbiamo andare a vedere un film cecoslovacco!”

Nel primo film della saga fantozziana, viene anche messa


in scena lʼimprovvisa politicizzazione del personaggio,
che, messo a contatto con un altro reietto dellʼazienda di
idee comuniste, comprende la condizione di ingiustizia
strutturale in cui lui e gli altri colleghi versavano. Tuttavia
lʼincontro diretto con la figura mitica del “direttore
galattico” lo riconduce abilmente a miti consigli: “Caro
Fantozzi è solo questione di intendersi, di terminologia.
Lei dice ‘padroniʼ, e io ‘datori di lavoroʼ. Lei dice
‘sfruttatoriʼ e io dico ‘benestantiʼ. Lei dice ‘morti di fameʼ
e io ‘classe meno abbienteʼ. Ma per il resto io la penso
esattamente come lei…”

Fantozzi è da un lato una critica limpida allʼarroganza


della burocrazia fordista e dallʼaltro dimostra in modo
semplice e implacabile lʼevidenza della subalternità
culturale dello sfruttato, la sua partecipazione attiva alle
occasioni di umiliazione, vista lʼassenza di alternative. Lo
sfruttato non può reagire perché ha introiettato in pieno i
sogni e gli ideali che lo sfruttatore gli mette a
disposizione. Fantozzi è un desiderio eterodiretto e
masochista, non riesce a far altro che sognare esperienze
che lo faranno soffrire, vedendo riprodursi i suoi
fallimenti.

Eppure per comprendere il significato di un racconto del


genere dobbiamo tenere presente la fase storica in cui
veniva diffuso. Parliamo di unʼepoca – gli anni Settanta –
che viveva di una fortissima conflittualità sociale,
orientata secondo i protagonisti di questo processo a
costruire una realtà più giusta, più civile, più inclusiva.
Dunque i film di Fantozzi calati in quella realtà mettono a
disposizione una sorta di “enciclopedia dello
sfruttamento e della subalternità” portata allʼeccesso e
dunque entrata a pieno titolo nel senso comune anche
grazie alla fortissima cifra comica.
Tutti insomma consideravano lo sfruttamento verso
Fantozzi inaccettabile, nessuno si sarebbe mai
“identificato positivamente” con quellʼimmagine, ma
quella storia poteva fungere da strumento di
consapevolezza e da spinta verso la liberazione. Un
incentivo a prendere definitivamente le distanze da una
gerarchia opprimente, e soprattutto da una corsa alla
carriera che creava figure mostruose, vedi i colleghi. In
generale si denunciava la condizione disumanizzata in cui
lo sviluppo capitalistico stava lasciando una buona parte
della società[1].

“Fantozzi subisce ancora”? perché Fantozzi siamo noi


e non ce ne rendiamo più conto

Dunque Fantozzi, se calato in quegli anni di duro conflitto


sociale, rappresentava una miccia incendiaria in grado di
contribuire a spingere tanti (che non si erano organizzati
o che stavano per farlo) a lottare per ottenere condizioni
migliori di lavoro e di vita.

Ma tutto questo i millenials (nati dagli anni Ottanta in poi)


non lo possono sapere. Per gli “spettatori postumi”, a mio
avviso, la chiave comica perde molta della carica
distruttiva anti-sistema, per lasciarci ridere pacificamente
di fronte alla serie di sfighe (o alle “sfighe serie”) che
Fantozzi subisce. A un occhio disattento le sue
umiliazioni sembrano estreme e incomprensibili, ma
purtroppo, senza rendercene conto, stiamo
assomigliando sempre di più a quella figura estrema. E
questo colpisce se pensiamo al livello di consapevolezza
diffusa che solo pochi decenni fa la società aveva.

Vedere tanti amici/conoscenti che prima delle partite


rivendicavano il loro fantozziano “programma
formidabile” con “frittatone di cipolle, familiare di Peroni
gelata e rutto libero” mi porta a pensare che ciò che nel
1975 appariva come critica incendiaria, oggi, totalmente
decontestualizzato, diventa unʼoccasione per condividere
la “dipendenza dal pallone”. Mentre in quel caso la
comicità era lo strumento per scardinare dei meccanismi
storicamente sedimentati di obbedienza passiva allʼordine
costituito, oggi diventa solo unʼoccasione di distrazione,
un modo per rimuovere lʼesistenza delle realtà di
sfruttamento.

Il nostro senso comune postdemocratico, guidato dalla


paura di perdere i vantaggi ottenuti e dal perseguimento
di piccoli obiettivi individuali, ci porta a naturalizzare la
sproporzione nelle relazioni di potere per cui si fa fatica
ad ammettere una condizione di sfruttamento.

Lʼincapacità di “soffrire con Fantozzi”, di capire che è uno


di noi, non fa altro che rivelare la condizione diffusa di
una generazione che accetta (quasi) tutto pur di
sopravvivere in un universo che svaluta completamente la
sua dignità. Siamo arrivati infatti ad un livello di
subalternità e di partecipazione al nostro stesso
sfruttamento che non ci consente più nemmeno di
immaginare unʼalternativa, di sognare una vita migliore,
più giusta. Tutto quello che solo pochi decenni fa sarebbe
sembrato estremo e inaccettabile a molti, oggi è realtà
quotidiana indiscutibile, naturale.

[1] Qui una presa di posizione pubblica di Paolo Villaggio


candidandosi alle elezioni del 1987 con “Democrazia
Proletaria”. Sebbene in sé dica poco sul significato della
maschera di Fantozzi, è comunque unʼulteriore
dimostrazione della forte passione politica
dellʼautore/attore, che arriva ad esporsi pubblicamente.

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