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IL SALVALINGUA
IL SALVATEMA
IL SALVASTILE
IL SALVAITALIANO
LE PAROLE GIUSTE
L’ITALIANO
IL NUOVO SALVALINGUA
VIVA
IL CONGIUNTIVO!
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A Licia Guarini
Indice
Tolleranza zero
L’eco della stampa
Avviso ai naviganti
Elogi (e necrologi)
Ma allora...?
Un po’ di storia
Ritorno al latino
Un nome che è tutto un programma
Il congiuntivo e le regole
Viaggio in cinque tappe
al centro del congiuntivo
Giochi di verifica
Test
Risposte
Ringraziamenti
Riferimenti bibliografici
Introduzione
Sulla bocca di tutti
Il titolo di questo libro può essere interpretato in due modi: come un congiuntivo esortativo, per
esprimere l’augurio che questo modo verbale continui a vivere e a godere di buona salute, e come
esclamazione di plauso alle infinite possibilità e sfumature espressive che il congiuntivo aggiunge ai
nostri discorsi e ai nostri scritti. Con questo spirito abbiamo voluto mettere a disposizione dei lettori
molto di quello che può essere raccontato sul congiuntivo, sfatando pregiudizi duri a morire e
spiegando i motivi che hanno reso il congiuntivo un modo talvolta impopolare e difficile da usare.
Può sembrare strano, ma il congiuntivo continua a essere argomento di grande attualità. Se ne
parla nei giornali, nelle trasmissioni radiofoniche e televisive, in treno, sulla spiaggia, mentre si
fanno le file, nei salotti, ovunque la conversazione tocchi l’argomento della lingua italiana. Da anni
amici, familiari, studenti, colleghi di altre facoltà ci chiedono con aria preoccupata se davvero il
congiuntivo stia per scomparire o sia già scomparso, e che cosa si possa fare per salvarlo. Un
linguista che se ne intende, Edoardo Lombardi Vallauri, dieci anni fa descrisse spiritosamente la
situazione in questo modo: «In Italia la popolazione si divide in due grandi categorie: la prima è
costituita dalle persone che, a proposito delle frasi introdotte da verbi come credere che, sembrare
che, volere che, si domandano: ‘È giusto l’indicativo o il congiuntivo?’ La seconda è costituita da
coloro a cui di continuo qualche membro della prima categoria pone la medesima domanda».
Siccome rientriamo nella seconda categoria, abbiamo pensato di mettere insieme tutto quello che
sappiamo sul congiuntivo e di raccontarlo, in maniera semplice e affabile, ma documentata, per
rispondere, una volta per tutte, alle domande e alle curiosità su questo modo verbale tanto
discusso. Il congiuntivo, come vedrete, vive, e continuerà a vivere, purché, naturalmente, venga
trattato con le attenzioni che merita. Nelle pagine che seguono troverete non solo storia,
vicissitudini, regole, ma anche consigli pratici, test, indicazioni per approfondire l’argomento in altri
libri, e tutto quello che avreste voluto sapere, ma forse non avete mai avuto il coraggio di chiedere,
sul modo verbale più amato (e talvolta maltrattato) dagli italiani.
GLI AUTORI
Il congiuntivo è morto...
viva il congiuntivo
Una tassa da pagare
Il 2 e il 3 marzo 2000, presso la Scuola Superiore per Interpreti e Traduttori di Forlì, si tenne un
convegno interamente dedicato al congiuntivo, al quale parteciparono studiosi italiani e stranieri
che di questo modo verbale svelarono vita, morte (presunta) e miracoli, indagandone le origini
indoeuropee, gli sviluppi latini, gli usi che se ne fanno o se ne sono fatti in lingue neolatine
(italiano, francese e spagnolo) e non (inglese, tedesco e russo).
Il caso volle che, nello stesso giorno d’apertura di questo convegno, una commissione di linguisti
incaricata dal ministero delle Finanze suggerisse di ridurre il numero dei congiuntivi presenti nel
Modello Unico per la dichiarazione dei redditi «allo scopo di migliorarne la leggibilità e la
comprensibilità». In un giorno solo, il congiuntivo si rivelò un oggetto difficile da maneggiare per
linguisti, grammatici e contribuenti.
Che a rendere complicata la lingua del Modello Unico 2000 (e di tutti i Modelli Unici che lo
hanno seguito) fosse la presenza eccessiva di congiuntivi e non, piuttosto, il continuo ricorso alle
parole tipiche del linguaggio burocratico era, ed è, cosa tutta da dimostrare. «Se io leggevo i vecchi
modelli della dichiarazione dei redditi senza capire nulla, non era certo colpa delle frasi troppo
lunghe o dei congiuntivi, ma di un apparato lessicale che rimandava a un labirinto di leggi più
inestricabile della selva amazzonica», scrisse sul «Corriere della Sera» Giovanni Mariotti a
commento della semplificazione linguistica del Modello Unico. Con tutto ciò, il curioso affastellarsi
di fatti che risalgono al marzo del 2000 – ma che potrebbero riproporsi oggi tali e quali – dimostra
che nell’italiano (o, meglio, negli italiani) una «questione del congiuntivo» esiste. Precisiamone,
dunque, termini e contenuti.
Il comune senso dell’errore
L’attenzione che l’italiano mediamente colto riserva agli errori, reali o presunti, rispetto alle
norme che regolano l’uso del congiuntivo è fortissima. In generale, nel recinto di quello che
potremmo definire il «comune senso dell’errore» (cioè la censura che la comunità dei parlanti
esercita sull’errore di lingua), molti italiani sono meno tolleranti che nel corrispettivo sociale
rappresentato dal comune senso del pudore.
In particolare, un congiuntivo ritenuto sbagliato o mancato viene percepito come il più grave
degli errori, quello che più degli altri dimostra scarsa confidenza con le regole della lingua, tale da
suscitare nei censori reazioni che vanno, a seconda di chi si è macchiato della colpa, dal disprezzo
indignato all’elogio di un passato in cui i congiuntivi non si sbagliavano (e invece si sbagliavano,
eccome), dalla compassione divertita all’ilarità compiaciuta.
L’ilarità: prendiamo per esempio il cinema. Da che cinema è cinema, il congiuntivo, le sue forme,
i suoi usi (corretti o, più spesso, scorretti) sono ghiotte occasioni di comicità. Indimenticabile, in
Amarcord di Federico Fellini (1973), il congiuntivo esortativo che è al tempo stesso il nome con cui
la bellissima riminese Gradisca Morri si presenta al principe reale nella suite del Grand Hotel:
«Eccellenza, gradisca...» Altrettanto divertente la battuta di Piero, protagonista di Ovosodo (Paolo
Virzì, 1997), cresciuto in un quartiere popolare di Livorno, dove basta «un congiuntivo di più e sei
bollato come finocchio».
In principio furono i congiuntivi maccheronici di Totò, la cui lista completa si può leggere in un
libro di Fabio Rossi specificamente dedicato alla lingua del grande attore napoletano: «ma mi
faccino il piacere» (Totò cerca casa, 1949; Totò e le donne, 1952); «possino» (Totò a colori, 1952);
«digli che ti dasse» (Totò cerca moglie, 1950); «se ne vadino» (Totò e le donne, 1952); «mi
permettino» (I tartassati, 1959); «mi facci scendere» (Signori si nasce, 1960); «venghino» (Totò,
Peppino e... la dolce vita, 1961); «se ne vadi» (Il monaco di Monza, 1963).
Come è ben noto, e come ha notato lo stesso Rossi, il più grande erede di Totò nell’uso del
congiuntivo popolare è Paolo Villaggio nei panni di Fantozzi. Tutti i verbi di seconda e terza
coniugazione (battere, concedere, partire, finire, ecc.), che nell’italiano hanno le prime tre persone
del congiuntivo presente in -a, nel mondo del ragionier Ugo Fantozzi hanno la desinenza in -i, a
sottolineare comicamente la profonda ignoranza di tutti i personaggi che compongono
quell’universo microborghese.
«Allora, ragioniere, che fa? Batti!» dice l’occhialuto Filini durante una surreale partita di tennis
che si svolge in un campo coperto di nebbia. «Ma mi dà del tu?» ribatte Fantozzi. «No, no, dicevo:
‘Batti lei!’» chiarisce il collega. «Ah, congiuntivo...» conclude il ragioniere.
La scarsa dimestichezza con questo modo verbale, documentata fin dal 1975 nel primo film di
Fantozzi, è destinata a perpetuarsi nei Fantozzi del futuro, come dimostrano le battute di un
bambino-comparsa che in Fantozzi 2000 - La clonazione (1999) imita il ragioniere in persona con
una salva di congiuntivi sgangherati: «Mi scusi, venerabile maestà. Disponghi di me come meglio
vuole! Mi concedi l’onore di essere il suo umilissimo servo! Com’è umano lei!»
Quelli di Totò, di Fantozzi e dei loro sodali sono gli errori dei poveri: riguardano la morfologia
del congiuntivo, cioè le forme e le desinenze sbagliate. In altri film inadeguatezze più raffinate,
relative alla sintassi del congiuntivo, denunciano con un sorriso amaro l’ignoranza pacchiana dei
(nuovi) ricchi. In Tutta la vita davanti di Paolo Virzì (2008), Daniela (una magnifica, perfetta
Sabrina Ferilli) è una «burina» quarantenne in carriera che dirige il settore contatti di un call-center
un po’ come negriera e un po’ come animatrice di un villaggio vacanze. Dalla sua lingua, leopardata
quanto gli abiti e gli arredi della sua casa, emergono in controluce la filigrana del romanesco e
quella dell’italiano popolare, attraverso le interrogative veraci del primo («Perché nun te fai un
ritocchino qui, leggero leggero?») e i congiuntivi mancati del secondo («Sabato inauguro la mia
nuova casa... Vorrei che ci sei anche tu»).
Esprimere un desiderio aperto dalla formula vorrei che si è rivelato rischioso per personaggi più
importanti di Daniela. Il 23 settembre 1994 resterà impresso nella memoria di molti dei funzionari
e degli impiegati che lavorano nell’austero edificio romano di viale Trastevere 76, sede del
ministero dell’Istruzione, come un doloroso venerdì di passione. Quel giorno il ministro Francesco
D’Onofrio, intervistato dal Tg2 sulla possibile soppressione dei licei nell’ordinamento scolastico
italiano, auspicò (perché i ministri, lungi dall’augurarsi qualcosa, sistematicamente la auspicano):
«Vorrei che ne parliamo».
La folla delle reazioni che seguì quel ne parliamo adoperato al posto di un più adeguato ne
parlassimo spinse D’Onofrio a una replica che trasformò la scivolata in una caduta rovinosa. «Non
ho sbagliato nessun congiuntivo», puntualizzò il ministro. «Non è colpa mia se la prima persona
plurale tanto dell’indicativo che del congiuntivo presente sono uguali: parliamo.» In realtà la critica
generale riguardava l’uso del tempo, non del modo, e obbligò un’ispettrice del ministero a tentare
di riparare con una bugia pietosa, non sappiamo se consapevole o inconsapevole: «L’uso del
presente contiene un’idea di immediatezza e di realizzabilità, mentre l’imperfetto conferisce una
connotazione di eventualità e irrealizzabilità». Come dimostreranno le prossime pagine di questo
libro, queste argomentazioni sono prive di validità sia dal punto di vista della sintassi sia dal punto
di vista del significato. Ma il punto, come direbbe D’Alema, è un altro. Ciò che importa sottolineare
è che l’improprietà del ministro nell’uso del congiuntivo sollevò un polverone, lo obbligò a una
replica pasticciata e impose a un’ispettrice del ministero una discutibile difesa d’ufficio. L’episodio
descritto risale a quindici anni fa, e in molti ancora lo ricordano.
Chi si ricorderà, quando ne saranno passati altrettanti, del fatto che il 23 ottobre 2008
Mariastella Gelmini, omologa di D’Onofrio nel quarto governo Berlusconi, rimproverò in
Parlamento ai colleghi dell’opposizione di «aver dimenticato i contenuti del Libro bianco scritto
sotto l’egìda [anziché ègida] del governo Prodi»? Nessuno, probabilmente. Due pesi e due misure,
dunque; determinate non dal diverso grado di compassione (sia detto in senso etimologico: è
l’equivalente latino del greco «simpatia») suscitato dai due ministri, ma dal diverso grado di censura
suscitato dai due errori. Lungo i muri del ministero dell’Istruzione l’eco dell’egìda di Mariastella
Gelmini si perderà presto; difficilmente si perderà, invece, il vorrei che ne parliamo di D’Onofrio
che, lecito o illecito che sia stato, avrebbe scosso almeno quattro predecessori dell’uno e dell’altra,
quattro ministri dell’Istruzione d’altri tempi come Francesco De Sanctis, Benedetto Croce, Giovanni
Gentile e Giovanni Spadolini.
Alla fine di ottobre del 2008 una vicenda molto simile ha investito l’ambito più circoscritto del
Comune di Milano, dove Massimiliano Finazzer Flory ha concluso il primo discorso pubblico da
assessore alla Cultura (avete letto bene: cultura) con un catastrofico dasse: «Vorrei che la cultura
[...] si dasse questa dimensione anagrafica». A colpire non è stato tanto – o almeno non è stato solo
– il congiuntivo maccheronico che infiora la clausola, ma il fatto che a pronunciarlo sia stato un
assessore alla Cultura.
Come potrà occuparsi della cultura se non è capace di preoccuparsi della lingua che la veicola? si
sono chiesti molti milanesi. Noi, più terra terra, anzi più terùn terùn, pensiamo che non d’ignoranza
si sia trattato, ma di sfortuna: probabilmente – D’Onofrio docet – è stato il vorrei che con cui ha
aperto il periodo a portare male all’assessore.
La sensibilità condivisa per la correttezza linguistica della comunicazione istituzionale è molto
alta, a prescindere dall’importanza e dalla dimensione – locale o nazionale – dell’istituzione che
comunica. Nel gennaio del 2005, in occasione della Giornata della Memoria, la giunta di Rivarolo
Canavese (un delizioso comune di circa dodicimila abitanti in provincia di Torino) fece pubblicare
un manifesto che recitava: «Il sindaco auspica che le nuove generazioni serbano la memoria
storica». Il proclama non passò inosservato, la notizia finì sui giornali e il sindaco, il giorno dopo,
fece affiggere una ventina di manifesti linguisticamente a posto: «Il sindaco auspica che le nuove
generazioni serbino la memoria storica».
Nell’estate del 2007, invece, a fare arrabbiare gli ecologisti della lingua fu una pubblicità
radiofonica sul trattamento di fine rapporto commissionata dalla Presidenza del Consiglio dei
ministri e dal ministero del Lavoro del governo Prodi: «Il vostro futuro può essere così... o così…
oppure così… basta che vi decidete!» Massimo Gramellini sbatté quell’indicativo in prima pagina,
cogliendone e criticandone la natura intenzionale:
Capita a tutti di sbagliare una «consecutio» mentre si parla in diretta alla radio o si scrive di corsa su un giornale. Ma in
questo caso la frase sgrammaticata non è un incidente. C’è una persona che l’ha pensata e altre che l’hanno valutata, discussa e
approvata. C’è un attore che l’ha letta, un fonico che l’ha registrata, un tecnico che l’ha messa in onda. Possibile che nessun milite
ignoto di questo sterminato esercito abbia tossicchiato il proprio dissenso, per rispetto di sé o della maestra elementare? Si fa
strada un’ipotesi ancora più agghiacciante. Che gli inventori dello spot sapessero benissimo di commettere uno strafalcione. Ma
lo abbiano inanellato apposta, per avvicinare il messaggio al grande pubblico che ha ormai espulso il congiuntivo dai suoi
discorsi. Sventurato il popolo che ha bisogno di eroi, diceva Brecht. Chissà come ne avrebbe definito uno che, per rendersi
simpatico, ha bisogno di analfabeti.
«La Stampa», 13 giugno 2007
Tolleranza zero
Come dimostrano gli esempi precedenti, un congiuntivo sbagliato o mancato è percepito come
una mancanza sociale, perdonabile a chi è linguisticamente deprivato ma non a chi non lo è o non
dovrebbe esserlo, e tanto meno a chi rappresenta lo Stato e le istituzioni. Esprimono efficacemente
un tale modo di pensare (e di sentire) queste appassionate considerazioni di Alfio Caruso:
Il congiuntivo rappresenta un rispetto puntiglioso della sintassi mal digerito da generazioni di studenti attratti dalla
comodità dell’indicativo e convinti di non commettere una grave infrazione nell’usare il secondo al posto del primo. Lo stesso
sentimento coltivato dai ciclisti che scorrazzano con la bici sui marciapiedi, dagli automobilisti che parcheggiano la vettura
dinanzi agli scivoli per i disabili, dai passanti che con il semaforo sul giallo si lanciano nell’attraversamento di strisce pedonali
lunghe venti metri, si trovano con il rosso a metà dell’attraversamento e inveiscono contro le macchine che vorrebbero passare.
«La Stampa», 23 maggio 2007
Insomma, se sono una persona qualunque che, parlando in pubblico, sfracella un congiuntivo,
posso contare su una generale indulgenza. Una condizione modesta, un’estrazione sociale bassa
danno diritto a una serie di attenuanti.
Colpisce, invece, il congiuntivo sbagliato di chi rappresenta lo Stato, oppure quello dei ricchi e
potenti (o aspiranti tali), cioè coloro che, avendo avuto la possibilità di studiare, colpevolmente non
lo hanno fatto (e continuano a non farlo). Proprio come colpì, nell’aprile del 2008, l’ignoranza della
storia d’Europa esibita da un alto e remuneratissimo dirigente d’azienda, che in un discorso
involontariamente comico invitò i suoi collaboratori ad adottare la stessa strategia che aveva
condotto Napoleone alla grande vittoria di Waterloo. Varrà la pena segnalare, per inciso, che il
dirigente in questione (liceo classico e laurea in Economia e Commercio alla LUISS), in
quell’occasione non eccelse neppure in grammatica, come dimostra – fra incoerenze di significato,
turpiloquio e frasi lasciate a metà – quel «Questa è una delle aziende più belle che esiste al mondo»
che chiude il suo discorso, da noi in parte trascritto:
Oggi non parlo di Alessandro, parlo di Napoleone. Napoleone a Waterloo, una pianura in Belgio, fece il suo capolavoro. Tutti
lo davano per fatto, per cotto, per la supremazia degli avversari: c’aveva cinque grandissime nazioni contro delle forze in campo.
Però strategia, chiarezza delle idee, determinazione, forza. Napoleone fece il suo capolavoro a Waterloo. Allora le facce scettiche
le facce di… non servono a un cazzo. Questa è una delle aziende più belle che esiste al mondo.
(Trascrizione del testo dal filmato presente all’indirizzo:
http://www.youtube.com/watch?v=3T-z2V9xhgo)
In casi come questi un congiuntivo mancato fa, alle orecchie delle persone linguisticamente bene
educate, lo stesso effetto sguaiato di un rutto in pubblico: i medici possono tollerarlo, perché sanno
coglierne l’origine nelle oscurità capricciose dello stomaco, proprio come i linguisti sanno che non è
da oggi che l’indicativo occupa spazi che la norma ufficiale dichiara riservati al congiuntivo. I non
medici e i non linguisti, invece, se ne infischiano, e condannano sia chi rutta sia chi ritiene che è
lecito farlo.
L’uso corretto (o presunto tale) del congiuntivo è argomento che suscita un interesse inaspettato.
Interrogando gli archivi storici del «Corriere della Sera», della «Repubblica» e della «Stampa», che
raccolgono tutto ciò che in questi quotidiani si è pubblicato dal 1992 a oggi fra articoli, lettere di e
risposte a lettori, si registra che in diciassette anni e mezzo l’argomento «congiuntivo» è stato
toccato, in ciascuno di questi giornali, una media di 10 volte l’anno.
Il tema non è certo appetibile quanto quello delle veline, di cui nello stesso periodo e nelle stesse
testate si è discettato circa 65 volte l’anno, ma risulta più gettonato della teoria della relatività, di cui
il «Corriere», «la Repubblica» e «La Stampa» hanno parlato 7 volte l’anno.
Anche prima di conoscere i risultati di questa piccola indagine, potevano aversi pochi dubbi sul
fatto che il congiuntivo suscitasse meno interesse delle veline. Sorprende, invece, il fatto che esso
abbia trovato, nella nostra stampa quotidiana, più spazio della teoria della relatività. La sorpresa,
tuttavia, si attenua se pensiamo che la tradizione grammaticale suggerisce da sempre (come
vedremo, con qualche eccesso e con un’indubbia generalizzazione) che usare il congiuntivo è un
buon modo (è proprio il caso di dirlo!) di applicare il concetto di relatività non ai numeri, alle masse
e alle superfici, ma all’intera realtà comunicata attraverso la lingua.
Dunque, del congiuntivo si parla spesso. Ma che cosa se ne dice?
Ebbene, l’argomento è trattato raramente in modo originale. Quasi tutti gli interventi dei
commentatori, e anche dei lettori, nelle rubriche riservate alle loro lettere sono riconducibili a due
tipologie: la prima è il lamento per la (o la constatazione desolata della) scomparsa o irreversibile
decadenza del congiuntivo; la seconda è la segnalazione più o meno ironica di mancati usi del
congiuntivo da parte di personaggi pubblici.
I più bersagliati sono, nell’ordine: i calciatori e con loro gli allenatori, gli arbitri e qualche
conduttore di programmi sportivi, Aldo Biscardi sopra tutti (si salvano, curiosamente, i ciclisti, di
cui anzi si sottolinea una tal quale proprietà nell’uso del congiuntivo); gli uomini politici (il più
nominato è, naturalmente, Antonio Di Pietro) e i personaggi dello spettacolo, fra i quali i lettori e i
giornalisti distinguono, in modo tutto sommato equanime, quelli che lo adoperano bene e quelli
che non lo adoperano affatto.
Però, a parte qualche eccezione divertente («Avevamo chiesto alla barista se ci indicava qualche
locale, e lei ci aveva guardato come se fosse Flavia Vento di fronte a un congiuntivo», Pierangelo
Sapegno, «La Stampa», 7 luglio 2008), le battute si ripetono: Di Pietro non ne azzecca uno, il Trap
non sa neppure dove sia di casa, c’è chi pensa che il congiuntivo sia una malattia degli occhi, c’era
una volta un signore elegante che ormai non c’è più...
Avviso ai naviganti
E adesso passiamo al futuro del congiuntivo. Non al congiuntivo futuro, che in italiano non
esiste, ma a quello che del congiuntivo si dice nei cosiddetti nuovi media: dai siti web ai gruppi di
discussione, dai blog alle chatroom.
La rete offre un materiale sorprendentemente ampio e sorprendentemente vario dedicato al
congiuntivo. A parte le decine di pagine web in cui se ne illustrano forme e funzioni e le altre
decine che contengono esercizi per il suo corretto uso, l’internauta potrà scoprire, per esempio, che
in Facebook, dal novembre del 2007, c’è un gruppo che si chiama Lottiamo Contro la Scomparsa
del Congiuntivo (http://www.facebook.com/group.php? gid=6447658107), oppure che un anno
prima è ufficialmente venuto alla luce il SIC, acronimo di Salviamo Il Congiuntivo, un comitato che
si propone di restituire al congiuntivo lo spazio che l’uso sembrerebbe avergli tolto. Intendiamoci: si
tratta di iniziative e interventi molto eterogenei, anche dal punto di vista della qualità. Come nella
scuola, come nella vita, così anche nello spazio sconfinato della rete le persone dotate di intelligenza
divertente e divertita si alternano con i pedanti.
La pagina che stiamo per presentarvi, tratta da Il Blog del Salmo 69 (sic) è, per esempio, un
concentrato di tutti i possibili luoghi comuni sul congiuntivo:
Non si può negare che in Italia il congiuntivo stia lentamente morendo: non solo le persone di bassa cultura, ma anche coloro
che si spacciano per colti oramai hanno perso completamente l’uso di questa coniugazione verbale e gli esempi sono sulla bocca
di tutti: «Penso che è una brava persona», «Se l’avevo visto, te lo dicevo», «Se era più furbo, non ci cascava», «Credevo che
eravamo amici, ma se me lo dicevi prima mi comportavo diversamente» e la lista può continuare all’infinito.
Il problema ulteriore è che l’utilizzo errato del congiuntivo spesso porta alla perdita anche del condizionale (come nel secondo
esempio). Ma perché noi italiani, figli di Dante, siamo arrivati a questo scempio? Difficile dirlo... secondo me la colpa potrebbe
essere riconducibile a un uso sempre più diffuso del linguaggio «usa e getta», degli acronimi o degli sms, al voler comunicare
velocemente e a una certa ignoranza diffusa.
Nelle pagine che seguono dimostreremo, numeri e libri alla mano, che il congiuntivo non è
affatto morto, che una frase come «Se era più furbo non ci cascava» avrebbe potuto pronunciarla
Dante in persona, che la moderata espansione dell’indicativo ai danni del congiuntivo è il frutto
della pressione esercitata dall’italiano parlato, e che dunque la diffusione degli sms non c’entra
niente, e non nuoce in alcun modo al povero congiuntivo. E tuttavia dite la verità: di primo acchito,
non sareste portati a sottoscrivere le considerazioni di Salmo 69 e a pensare che ormai anche due
linguisti perbene come Della Valle e Patota hanno (proprio così: hanno, non abbiano, perché in
questo caso, anche se usate il verbo pensare, non state esprimendo un’opinione, ma una
convinzione) completamente perduto la bussola?
Elogi (e necrologi)
Non sono un linguista, ma una recente conversazione con uno studente di Lettere mi ha indotto a riflettere sull’uso del
congiuntivo. Che non ha, ai nostri tempi, grande fortuna. Ricevo lettere in cui lo si rimpiange, perché lo si usa sempre meno; e in
cui si esorta a salvarlo, prima che sparisca del tutto. Ma perché è in crisi? Abbiamo riflettuto, lo studente e io, sull’evoluzione
della lingua, che tende a semplificarsi [...]. L’agonia del congiuntivo è dovuta [...] alla semplificazione della lingua, e questa
semplificazione è dovuta a sua volta all’attenuazione, presto alla scomparsa, delle classi sociali.
Piero Ottone, in «Il Venerdì di Repubblica»,
17 ottobre 2008
Senza entrare nel merito di queste considerazioni, una domanda sorge spontanea: ma se il
congiuntivo era già morto nel 1984, come può essere in agonia nel 2008?
Conforterà tutti sapere che anche altrove (per esempio in Francia) si ripete spesso che il
congiuntivo è morto o prossimo alla morte, e molti studiosi e scrittori hanno scritto saggi e articoli
sulla sua fine annunciata. In realtà, a considerare più attentamente la situazione, solo un tempo del
congiuntivo francese (l’imperfetto) ha subìto un vero declino.
Nessuna crisi del congiuntivo nello spagnolo, che lo adopera in un altissimo numero di contesti.
Quanto alle altre grandi lingue di cultura europee di cui siamo in grado di dire qualcosa, in
tedesco il congiuntivo è vivissimo nel discorso indiretto (più quando si scrive o si parla in situazioni
formali, meno quando si scrive o si parla in situazioni che non richiedono un controllo). Nel
periodo ipotetico, il congiuntivo imperfetto è quasi automatizzato con alcuni verbi mentre è segno
di un linguaggio colto o di un tono alto con altri. In inglese, la difficile distinzione tra forme
dell’indicativo e forme del congiuntivo ha ridotto l’uso di questo modo, che oggi tende a essere
sostituito, soprattutto nel parlato, da perifrasi ed espressioni che possano equivalergli.
Tornando alle faccende di casa nostra, da noi le geremiadi sulla morte del congiuntivo hanno
una storia antica. Più di cinquant’anni fa Franco Fochi imputava il rovinoso declino di questo modo
un po’ a Roma ladrona (di congiuntivi), un po’ ai meridionali, un po’ alla radio nazionale e un po’
anche a Indro Montanelli (toscano sì, ma traviato dalla residenza romana):
A Roma [...] si va sempre più diffondendo il mal uso di sostituire al congiuntivo l’indicativo nelle oggettive e soggettive
dipendenti da verbi o locuzioni di dubbio, incertezza, probabilità, ecc. (come pensare, credere, sembrare, essere opportuno, esser
facile), snaturando tali verbi e locuzioni e privando il modo congiuntivo di una delle sue principali funzioni: quella, appunto, di
esprimere il dubbio, l’incertezza, ecc. Ma ciò è più grave, se si considera che l’errore di cui stiamo parlando è diventato una vera e
propria regola, non solo tra «funzionari» (poco sottili in fatto di lingua e in gran parte meridionali), ma anche fra letterati di
professione, fra uomini il cui nome potrebbe domani far testo [...]. Veramente, la spinta a usare l’indicativo invece del
congiuntivo in dipendenza da verbi indicanti «credere» e concetti affini potrebbe provenire da vari dialetti centro-meridionali:
ma sta di fatto che è soprattutto Roma che contribuisce a divulgare oggi questo costrutto. E Roma difficilmente perdona.
Cominciamo con gli esempi orali, tutti dal Giornale Radio: ore 20,30 (Progr. Naz.) del 16 novembre 1956: «... ritiene che l’Unione
Sovietica non ha intenzione...» [...]. Strano che questo costrutto appaia anche sotto la penna di Indro Montanelli (nato a
Fucecchio, abitante a Roma). Leggiamo infatti nell’articolo d’apertura intitolato «Fabbri» («Corriere della Sera», 15 marzo): «Mi
pare – dissi – che il qualcosa, a furia di cercarlo, l’hai trovato».
Che, alla fine degli anni Ottanta del Novecento, non ci fosse ancora motivo di suonare le
campane a morto per la forma verbale di cui ci stiamo occupando lo dimostrò Luca Serianni,
accademico della Crusca e dei Lincei, in una ricerca dedicata al problema della norma linguistica
dell’italiano di quel periodo.
Testi alla mano, lo studioso dimostrò che il congiuntivo era normalmente e correttamente
adoperato non solo nell’alta letteratura, ma anche laddove meno ce lo saremmo aspettato, per
esempio nei romanzi rosa, nei fotoromanzi e nei fumetti, che a metà degli anni Ottanta risultavano
elegantemente punteggiati da frasi come «Non giustificava il fatto che Piera fosse in possesso di
quella lettera» («Intimità»); «Credo sia meglio non rivederci» («Grand Hotel»); «Non è un mistero
che poco tempo fa Hogart si sia battuto» («Tex»); «Mi fa piacere che non siate scettico»
(«Diabolik»).
Lungi dall’agonizzare e ancor più lungi dal defungere, il congiuntivo ha continuato a godere di
discreta salute anche in seguito. Nel 1999 Stephan Schneider, un brillante ricercatore dell’università
di Klagenfurt, pubblicò uno studio che aveva, tra i suoi obiettivi, anche quello di misurare la reale
presenza di questo modo verbale nella nostra lingua, in particolare nelle frasi in cui esso era (ed è)
tradizionalmente considerato a rischio, e cioè le frasi subordinate introdotte dalla congiunzione che
rette da verbi come credere, pensare, immaginare, presumere, augurarsi, sperare, temere, sembrare e
così via. Osando più di quel che aveva osato Serianni, Schneider andò a cercare il tartufo del
congiuntivo non nei giardini ordinati della lingua scritta, ma nella boscaglia intricata di quella
parlata, in cui ancor meno ci si poteva aspettare di trovarlo. La sua ricerca si basava sul LIP, il
Lessico di frequenza dell’italiano parlato, una ricchissima raccolta di testi parlati diversi per genere,
stile e contenuto: dalle conversazioni casalinghe alle lezioni scolastiche, dalle chiacchierate in
metropolitana alle trasmissioni radiofoniche, dalle telefonate fra amici alle arringhe giudiziarie:
500.000 parole parlate, raccolte e registrate nelle città di Milano, Firenze, Roma e Napoli fra il 1990
e il 1992 da un agguerrito gruppo di studiosi guidati da Tullio De Mauro.
I numeri che si ricavano dalla ricerca di Schneider faranno saltare sulla sedia tutte le prefiche del
congiuntivo. In tutto il LIP si contano 642 frasi subordinate aperte da che e precedute da verbi del
tipo di quelli citati poco fa. Di queste 642 frasi, 355 hanno il congiuntivo («Penso che sia lui»), 41
hanno il condizionale («Credo che sarebbe giusto») e 246 hanno l’indicativo («Pensavo che ti
piaceva», «Credo che avete fatto bene»).
L’omissione peccaminosa del congiuntivo è dunque meno frequente della sua conservazione
virtuosa, e il peccato di omissione di cui qui si tratta si riduce ulteriormente se teniamo conto del
fatto che dei 246 indicativi registrati 30 sono dei futuri, cioè delle forme del tutto ammissibili dopo
un penso che anche per il più intransigente dei puristi («Penso che Marcella verrà»: chi avrebbe da
ridire sulla correttezza di questo enunciato?). Come ha scritto Edoardo Lombardi Vallauri in uno
studio del 2000 anch’esso dedicato alla vitalità del congiuntivo nell’italiano parlato, «che il
congiuntivo venga sempre più frequentemente sostituito dall’indicativo appare abbastanza fuori
discussione»; tuttavia, proprio la sua ricerca dimostra che questa sostituzione è più lenta e meno
generalizzata di quanto si sia portati a pensare. Qualcuno dirà: dal 2000 a oggi sono passati quasi
dieci anni. Allora il congiuntivo era ancora vivo, oggi no: oggi è definitivamente morto.
Raccogliendo questa possibile obiezione (e sollecitati dalle intelligenti considerazioni che sulla
morte apparente del congiuntivo ha fatto in tempi molto recenti Andrea De Benedetti in un bel
libro programmaticamente intitolato Val più la pratica), il 17 maggio 2009 abbiamo digitato nella
casella di Google queste due serie di sequenze: da una parte penso che sia e penso che siano (cioè la
prima, seconda e terza persona singolare – e la terza plurale – del congiuntivo presente di essere),
dall’altra penso che sono, penso che sei, penso che è (cioè le stesse persone all’indicativo presente).
Ebbene, mentre il tipo penso che sia è risultato presente in rete più di un milione e mezzo di volte
(per essere esatti, 1.634.500), il tipo penso che sono è risultato ricorrere molto meno, e precisamente
567.400 volte.
Con tutto ciò, per molti ci sarà sempre un oggi in cui il congiuntivo non si usa più, a differenza di
quello che accadeva nel loro ieri. La verità è che oggi il congiuntivo si adopera molto più di ieri in
termini assoluti (perché il numero delle persone che parlano e scrivono in italiano è cresciuto
enormemente), mentre si adopera soltanto un po’ meno di ieri in termini relativi: chi, come Maria
Silvia Rati, è andato a spulciare nell’oro delle lettere italiane del Duecento e del Trecento ne ha
trovato la prova provata (vedi p. 53).
Nel 2005 Anna Rosa Cagnazzi ha analizzato l’italiano dei temi (e di altri tipi di elaborati scritti)
realizzati dagli studenti di quattro scuole medie superiori di Sondrio e provincia: un liceo classico,
un liceo scientifico, un istituto tecnico commerciale e un istituto tecnico per geometri.
L’analisi di questi compiti scritti ha mostrato che, almeno negli studenti di queste scuole (ma
perché dovremmo considerare la provincia di Sondrio un’isola felice?), la capacità di adoperare con
disinvoltura il congiuntivo è molto alta. La percentuale di frasi espresse al congiuntivo secondo
grammatica è del 95% nel liceo classico, del 94% nel liceo scientifico e dell’85% negli istituti tecnici.
Come non congratularsi con la studentessa di prima liceo classico che scrive: «Se dovessi guardarmi
allo specchio in questo momento, scoprirei una diciassettenne un po’ confusa, ma innamorata della
vita», o con il suo (o la sua) collega di quarta istituto tecnico per geometri che argomenta: «Se
questa proposta di riforma dovesse entrare in vigore, gli esami cambierebbero?» Intendiamoci, con
questo non vogliamo affatto dire che gli studenti che frequentano le nostre scuole (e le nostre
università) abbiano acquisito un’uniforme e soddisfacente capacità di ascoltare, parlare, leggere e
soprattutto scrivere in lingua italiana. Come ha ben sintetizzato Giuseppe Antonelli in un bel libro
del 2007, che fa il punto sull’italiano nella società della comunicazione,
i rilievi fatti negli ultimi quindici anni sulla lingua degli studenti universitari costringono a prendere atto di un quadro poco
incoraggiante. Mancanza di capoversi, punteggiatura assente o errata (un centro urbano, gode di maggiore prestigio), usi impropri
dell’apostrofo (un’altro), dell’accento (si, nò) e delle maiuscole (alcuni Tratti), fraintendimenti lessicali (le mie speranze si sono
assolte in una specie d’indignazione) si accompagnano a una generale incapacità di gestire il testo secondo gli essenziali criteri di
coerenza e di coesione.
Si noti, però, che nel suo cahier de doléances Antonelli non inserisce il mancato uso del
congiuntivo, perché lo scarso dominio dell’italiano scritto che caratterizza una parte consistente
della nostra popolazione studentesca non dipende da una scarsa familiarità con questo modo, come
dimostrano tutte le indagini (dai risultati, purtroppo, non confortanti) che, a partire dalla più
importante, condotta nel 1991 da Cristina Lavinio e Alberto Sobrero, hanno avuto per oggetto la
lingua degli studenti universitari. I risultati di queste ricerche non lasciano intravedere un
abbandono del congiuntivo da parte delle nuove generazioni.
Note di merito
Anche altri fatti dimostrano che le fortune di questo modo stanno a cuore non solo ai vecchi ma
anche ai giovani, non solo ai puristi dai capelli bianchi ma anche ai rapper dai capelli colorati. Nel
1996 gli Articolo 31 hanno portato al successo Domani, una canzone che racconta la storia d’amore
ormai finita fra J-Ax, il cantante del gruppo, e la musa ispiratrice che ne condivideva la vita
spericolata, gli perdonava fumo, alcol e tutto il resto ma non le scivolate sul congiuntivo:
Nel mondo delle canzonette, il congiuntivo combatte con l’indicativo da decenni. Agli eleganti
congiuntivi imperfetti di E se domani con cui Mina, nel 1964, evocava la possibilità di perdere
l’amore:
rispondeva, nel 1968, Adriano Celentano, con la sintassi ruspante di una canzone rimasta famosa
negli anni anche per un clamoroso errore relativo all’uso del congiuntivo. Non sapremo mai se
quello strafalcione sia stato il frutto di un’improvvisa perdita di controllo (nelle canzonette può
accadere di tutto) o il sintomo della contestazione incipiente. Non aspettiamoci troppi congiuntivi
nei testi delle canzoni dei nostri profeti del rock, da Vasco Rossi a Luciano Ligabue: «Dimenticavo
che voglio che sei tranquilla», canta il primo in Domenica lunatica, del 1989; «Per me la canzone
non può non essere popolare, e questo mi ha portato [...] al rifiuto del congiuntivo», ha dichiarato il
secondo in un’intervista a Gino Castaldo pubblicata sulla «Repubblica» il 24 marzo 2006.
Il Liga, però, predica male ma razzola bene, perché, a dispetto delle dichiarazioni ufficiali, le sue
canzoni sono piene di congiuntivi.
La verità è che l’alternanza fra indicativo e congiuntivo che si registra nei testi di molte canzoni di
successo dimostra quanto la lingua delle canzonette sia vicina all’italiano della comunicazione
corrente.
All’ex Lùnapop Cesare Cremonini, che nella stessa canzone (Un giorno migliore, 1999) una volta
gorgheggia ordinatamente «credo che sia giusto dirti che non voglio niente senza te» e un’altra
canta scapestratamente «devo trovare un appiglio prima che tu te ne vai da me», si potrà sempre
opporre un’Irene Grandi che in Bruci la città (2007) fa salire le quotazioni del congiuntivo
letteralmente alle stelle:
Secondo Giuseppe Antonelli (lo studioso che abbiamo già citato a proposito del congiuntivo a
scuola), anzi, negli ultimi tempi il congiuntivo è in forte risalita nelle canzonette: se vent’anni fa lo si
evitava per ottenere un effetto più grezzo e immediato, e magari anche per creare qualche rima,
oggi abbondano casi in cui tutti i modi verbali vengono usati correttamente, tanto al presente: «E
fossi meno intelligente, sarei più quieto nei nervi e nella mente», quanto al passato: «Giuravo che
avrei fatto il portiere, era l’unico a differenziarsi, pensavo che non fosse nella squadra» (Bluvertigo,
rispettivamente: LSD - La Sua Dimensione, 1994, e Sono = Sono, 1999).
Passiamo ora dalle canzonette ai media che le veicolano, e cioè la radio e la televisione. Nella
prima, ha scritto Gian Luigi Beccaria,
si ascolta di tutto: dal passante che usa la lingua in modo elementare, a chi telefona col suo accento regionale, al funzionario
grondante burocratese, al romanziere, al tecnico: tutti portano alla radio il loro linguaggio informale o la loro lingua speciale o
un loro ricco e raffinato eloquio.
Ebbene, in questo magma composito, che non si fonda più, come un tempo, sulla recitazione di
testi redazionali scritti ma sul flusso continuo di frammenti parlati e sonori, il congiuntivo conserva
saldamente il suo spazio.
Nel 2003 Enrica Atzori, una specialista in materia, ha analizzato accuratamente la lingua di oltre
dieci ore di trasmissioni radiofoniche diverse per genere, contenuto e destinazione andate in onda
su tre emittenti, una pubblica e due private: nella fattispecie, tre notiziari trasmessi in
contemporanea da Radio Uno, Radio 24 e RTL 102.5 e tre programmi di intrattenimento andati in
onda su Radio Dimensione Suono e RTL. Dall’analisi della lingua di questi programmi è emerso
che «il congiuntivo si mantiene stabile e non si sono rilevati casi in cui, nella possibilità di scegliere
fra indicativo e congiuntivo, si sia optato per il primo».
L’orizzonte d’attesa dei necrofori del congiuntivo si restringe ulteriormente qualora si tenga conto
dei dati (sorprendenti) ricavabili da un’indagine sulla lingua della televisione che porta la data,
recentissima, del 2008. Un gruppo di ricerca diretto dalle linguiste Gabriella Alfieri e Ilaria Bonomi
ha analizzato la lingua di decine e decine di ore di trasmissioni televisive, distinguendo fra
programmi d’informazione, divulgazione scientifico-culturale, intrattenimento, fiction, sport, tv per
bambini e per ragazzi. Ne è nato un volume di quasi 500 pagine che descrive fin nei minimi
particolari, come dice il titolo, Gli italiani del piccolo schermo: grammatica, sintassi, lessico e
organizzazione generale del discorso di tutti i possibili programmi televisivi, tutti distinti e
scientificamente esaminati, descritti e valutati. Con quali risultati, in merito alla questione del
congiuntivo?
Enrica Atzori, Ilaria Bonomi e Francesca Travisi, che hanno analizzato la lingua dei programmi
d’informazione, sono arrivate alla conclusione che in essi l’uso di questo modo s’inscrive
perfettamente nel rispetto della norma.
Paola Guidotti ed Elisabetta Mauroni, che hanno analizzato la lingua dei programmi di
divulgazione scientificoculturale (da Appuntamento con la storia ad Atlantide, da Passepartout a La
Storia siamo noi, passando per Ulisse e Superquark), hanno registrato anche in quest’ambito
un’eccellente tenuta del congiuntivo.
Gabriella Alfieri, Daria Motta e Maria Rapisarda documentano che il ricorso al congiuntivo
secondo grammatica è totale in fiction come Orgoglio ed Elisa di Rivombrosa e un po’ meno
generalizzato in Incantesimo, Un medico in famiglia e La squadra, in cui abbiamo il congiuntivo
nelle situazioni formali e l’indicativo in quelle informali.
Perfino nelle trasmissioni sportive, indagate da Mario Piotti, c’è una «buona tenuta del
congiuntivo», anche se i miracoli, nel Processo di Biscardi, nella Domenica Sportiva e in
Controcampo, non li può fare nessuno: com’era da aspettarsi, gli esempi quantitativamente e
qualitativamente più significativi di caduta del congiuntivo si registrano nei campi di calcio, nei
controcampi e negli spogliatoi. Spiccano, per marcatezza, gli indicativi di Aldo Biscardi («Voglio
provare a sentire Variale. Se lo chiamo io può darsi che viene») e di alcuni intervistati della
Domenica Sportiva («Però oggi credo che l’Udinese ha fatto una bella partita»), ai quali il
conduttore Marco Mazzocchi consapevolmente o inconsapevolmente si adegua («Ma credo che non
ce la fa»).
I tifosi del congiuntivo si consolino perché, per un Biscardi che non ne azzecca uno, c’è un
Homer Simpson che li centra tutti, come ha dimostrato Patrizia Ferro analizzando la lingua dei
cartoni animati «per grandi» (I Simpson e I Griffin).
Evidentemente, non tutti gli italiani televisivi sono uguali: c’è lingua e lingua, esattamente come
c’è televisione e televisione. Come ha scritto Gian Luigi Beccaria,
dallo schermo parla (o meglio, emette suoni) tanto il giovane ebete formato Grande Fratello [...] tanto chi rifrigge tutti i luoghi
comuni moltiplicatori della stupidità, quanto persone sensibili e colte, capaci di esprimere contenuti in un italiano appropriato,
ricco, vivace.
La differenza di stile fra Elisir e L’Isola dei famosi salta agli occhi di chiunque, e alle orecchie di
chiunque salta anche la distanza che passa fra l’italiano garbatamente e ironicamente formale di
Michele Mirabella e l’italiano molto meno curato di vari personaggi pubblici promossi a opinionisti
televisivi. Sembra inverosimile, per esempio, che il congiuntivo regga bene perfino nel parlato della
Casa e dell’Isola, e siamo irrimediabilmente portati a pensare che nell’italiano frammentato e
primitivo dei grandi fratelli e dei famosi di tutte le isole il congiuntivo si sbagli poco perché
mancano le occasioni di usarlo.
A ogni modo, la sciatteria linguistica che connota la tv spazzatura non dipende dal cattivo uso del
congiuntivo, ma dall’abuso di un italiano fatto di stereotipi, turpiloquio e parole di plastica.
Del rapporto tra gli scrittori del passato e il congiuntivo abbiamo già detto. Quanto agli scrittori
contemporanei, essi vengono spesso rimproverati di non usare una lingua italiana corretta. Su di
loro pesano molti pregiudizi, dovuti in parte al fatto che, come ha scritto Luca Serianni, essi
tendono a «mantenersi nel registro medio-basso», e la loro scrittura rappresenta una tappa «del più
che secolare moto di avvicinamento tra scritto e parlato e del più recente processo di riduzione dello
specifico letterario per la lingua della prosa».
Nel 1989 Luciano Satta, definito da Indro Montanelli «censore severo ma sorridente», sottopose
le opere di centodieci tra i più noti scrittori e giornalisti italiani (da Alberto Moravia ad Aldo Busi,
da Italo Calvino ad Andrea De Carlo, da Eugenio Scalfari a Lina Sotis) a un attento esame
linguistico, dal quale risultò, per quanto riguarda l’uso del congiuntivo, che esso era in piena salute.
Satta raccolse nel suo Matita rossa e blu quasi cinque pagine non di congiuntivi sbagliati, ma di
congiuntivi superflui. Eravamo nel 1989. E oggi? Nonostante siano passati, da allora, vent’anni, la
situazione è pressoché immutata.
Gli scrittori, anche quelli più giovani, tendono a rimanere all’interno dei confini della norma.
Quella tra indicativo e congiuntivo resta una scelta di stile, e l’assenza del congiuntivo, quando c’è,
è motivata dalla volontà di riprodurre la spontaneità della lingua parlata. Così, per esempio, in
Antonio Tabucchi (Piccoli equivoci senza importanza, 1985) possiamo imbatterci in una frase come
questa: «entrambi facendo finta che non erano affatto rivali»; in Sandro Veronesi (Per dove parte
questo treno allegro, 1988) leggiamo: «Io dovrei credere che l’unica persona importante nella vita di
mio figlio è l’intercettatore delle sue telefonate»; in Alessandro Baricco (Castelli di rabbia, 1991)
incontriamo: «tutto è relativo, questo già lo si sapeva, meglio che guardo per terra, meglio che
guardo il tubo, e le scarpe e il tubo».
Andrea De Carlo, attento ai congiuntivi nelle parti raccontate, li elimina, qualche volta, dai
dialoghi, per renderli più verosimili (Arcodamore, 1993): «Non ti sembra che io e te ci conoscevamo
già da prima di incontrarci?»
Si tratta, comunque, di macchie mimetiche inserite dagli autori qua e là per riprodurre un
italiano medio e colloquiale. Solo alcuni esponenti della narrativa più recente sono andati oltre, e
insistono ormai da anni sull’imitazione della lingua parlata, fino all’esasperazione parodistica e
caricaturale, ma le loro trasgressioni rispetto alla grammatica sono diventate virtuosismi che non
scandalizzano più nessuno, a cominciare proprio dalla mancanza di congiuntivi, esibita talvolta
come una bandiera.
Contemporaneamente, nei romanzi che circolano davvero tra i lettori, come il fortunato La
solitudine dei numeri primi, 2008, del giovanissimo Paolo Giordano, congiuntivo e indicativo
convivono come una coppia ben collaudata, e a una frase come «sbatteva le braccia talmente veloce
che lui aveva paura le si staccassero» se ne affianca, a breve distanza, una come «pensò che era
meglio se Michela se ne stava a casa».
Intendiamoci, questa costruzione sorvegliata è pur sempre quella che vi suggeriamo di scegliere
quando scrivete o quando parlate in situazioni formali. Ma non sono scorrette nemmeno le
soluzioni che sostituiscono il congiuntivo e/o il condizionale con l’imperfetto indicativo:
Non ci credete? Allora andate a leggere l’articolo che Carmelo Scavuzzo ha dedicato all’uso
dell’indicativo irreale nella poesia italiana negli austeri «Studi di Grammatica Italiana». Scoprirete
che nell’Orlando furioso i casi di periodo ipotetico dell’irrealtà nel passato con l’imperfetto indicativo
sono più numerosi dei casi con congiuntivo e condizionale: 32 contro 29. Eccone un paio di esempi:
«forse nol facea, se più tardava» (= forse non lo avrebbe fatto, se avesse tardato di più; canto XVI,
ottava 83, verso 2); «e se non era doppio e fin l’arnese, / ferìa la coscia ove cadendo scese» (= e se lo
scudo non fosse stato spesso e ben temprato, [la spada] avrebbe ferito la coscia su cui si abbatté;
canto XVII, ottava 101, versi 7-8).
Licenze poetiche, dirà qualcuno. Niente affatto. Nella sua tesi di dottorato, poi trasformatasi in
un volume di circa 400 pagine (Sintassi del parlato e tradizione scritta della lingua italiana, 1990),
Paolo D’Achille dimostra che gli esempi di periodo ipotetico del tipo «Se me lo dicevi, venivo prima»
sono documentati nella prosa letteraria italiana dalle origini ai giorni nostri.
Nel 2004 Maria Silvia Rati ha pubblicato su una delle riviste ufficiali dell’Accademia della Crusca
uno studio dedicato, per l’appunto, all’oscillazione fra indicativo e congiuntivo nell’italiano antico.
Dopo aver passato al setaccio della grammatica e ai raggi X della sintassi opere che portano firme
antiche e illustri (da Brunetto Latini a Dante, da Marco Polo a Giovanni Boccaccio), la studiosa è
arrivata a concludere che nell’italiano scritto, nobile e polveroso del Duecento e del Trecento
«l’alternanza tra indicativo e congiuntivo non sembra essere regolata da meccanismi molto diversi
rispetto a quelli che si osservano in italiano moderno».
Da qualche decennio a questa parte, il tipo «credo che può bastare» è diventato una specie di
mantra esemplificativo della presunta, disdicevole tendenza dell’italiano contemporaneo a sostituire
il congiuntivo con l’indicativo; invece, dallo studio di Rati emerge che questo peccato ha origini ben
più antiche. Nelle venti opere in prosa del Duecento e del Trecento da lei analizzate, dei 181
esempi di frasi dipendenti dal verbo credere, 159 si presentano al congiuntivo e 22 all’indicativo.
Di più: dopo un verbo come pensare, i casi di congiuntivo sono 30 e quelli di indicativo sono 16.
Incredibilmente, i congiuntivi mancati dai pozzi di scienza antichi sono in percentuale più numerosi
di quelli dimenticati dai presunti somari moderni.
Ma allora…?
A questo punto, però, è d’obbligo chiedersi: se il congiuntivo non è morto, se gli errori relativi al
suo uso non sono tutto sommato così frequenti e qualche volta, come abbiamo appena visto, non
sono neppure errori, perché da ogni parte d’Italia si levano lamenti per la sua fine imminente o
immanente?
Il motivo è semplice: perché alle decine, centinaia di congiuntivi che molti, chi più chi meno,
adoperano normalmente e adeguatamente nessuno fa caso; invece, anche un solo congiuntivo
sbagliato o mancato fa rumore; come si dice, «suona male»; produce, nelle orecchie delle persone
attente alla lingua, lo stesso effetto sgradevole del gesso che scricchiola sulla lavagna.
Ma come, per fortuna, il gesso non scricchiola spesso, così il congiuntivo non scricchiola sotto il
peso dell’indicativo, che per molti ne minaccerebbe la sopravvivenza.
Un modo non facile
Un po’ di storia
A questo punto dovremmo essere riusciti (o almeno lo speriamo) a sfatare il mito che il
congiuntivo non si usi più. Ora ci piacerebbe ridimensionare una seconda persuasione: che il
congiuntivo sia difficile da imparare e ancora più difficile da usare.
In verità, questa seconda impresa è molto più complicata dell’altra, perché il congiuntivo forse
non è difficile da imparare, ma certamente è difficile da adoperare. La sua storia, infatti, è
complessa, di una complessità che affonda le radici nella lingua da cui l’italiano deriva: il latino. La
ricostruzione che ne daremo nelle prossime righe (e che, per la sua essenzialità, farà storcere il naso
a molti glottologi) schematizza un processo molto lungo e poco lineare.
Ritorno al latino
Nel latino arcaico il congiuntivo (che raccoglieva l’eredità di due modi verbali della famiglia
linguistica indoeuropea alla quale il latino stesso apparteneva, ovvero il congiuntivo e l’ottativo) si
adoperava soltanto nelle frasi semplici: cioè quelle autonome, che non dipendevano da altre frasi e
poteva esprimere diverse funzioni e diversi significati, tutti lontani dalla descrizione oggettiva della
realtà, affidata al modo indicativo.
Un congiuntivo poteva esprimere, di volta in volta, manifestazioni della volontà come esortazioni
(Amemus patriam = Amiamo la patria!), divieti (Ne falsum dixeris = Non dire il falso!) e desideri
(Utinam verum dicas = Speriamo che tu dica la verità); espressioni di dubbi (Quid dicam? = Che
dovrei dire?) e di fatti valutati come impossibili (Ego me Phidiam esse mallem = «Preferirei essere
Fidia», dice Cicerone in un suo scritto, ben sapendo di non essere Fidia, il grande scultore greco).
Nel sistema latino, però, questo congiuntivo si confondeva, in particolare nella prima persona,
con il futuro, anch’esso derivato dal congiuntivo indoeuropeo. Una forma come dicam poteva
significare, contemporaneamente, io dirò (futuro) e io dica (congiuntivo, nel senso di «possa dire»,
«speriamo che io dica», «potrei, dovrei dire»: nessuna delle possibili traduzioni italiane si
sovrappone perfettamente alla forma latina). Poiché le due forme, congiuntivo e futuro, si
confondevano, i parlanti, per segnalare che il congiuntivo era altra cosa dal futuro e che, lungi dal
collocare un fatto o una situazione nel futuro, di volta in volta esprimeva volontà, dubbi e fatti
valutati come possibili o impossibili, presero l’abitudine di farlo seguire da un secondo verbo
all’indicativo: un verbo-bandiera che, a seconda di quel che si voleva comunicare o fare con le
parole, esprimesse ordine, desiderio, valutazione di possibilità o impossibilità e così via.
Facciamo un esempio legato all’espressione del comando. In un primo tempo, per dare un ordine
a una persona diversa da quella alla quale ci si rivolgeva, si adoperò il congiuntivo da solo (fase 1);
in un secondo tempo, a quel congiuntivo si accompagnò un verbo che esprimeva ordine o richiesta,
e lo si pospose al congiuntivo (fase 2); in seguito, il verbo che esprimeva ordine o richiesta fu
anteposto al congiuntivo (fase 3); infine, fra quel verbo e il congiuntivo venne inserita una parola
che assunse il valore di un elemento subordinante (ut = ‘che’, fase 4), e così l’indicativo del verbo-
bandiera divenne il verbo di una frase reggente e il congiuntivo, che originariamente esprimeva
semplicemente l’ordine, divenne il verbo di una frase subordinata.
FASE 1
Eat! (=Vada!)
FASE 2
Eat! Postulo! (=Vada! [Lo] chiedo!)
FASE 3
Postulo! Eat! (=[Lo] chiedo! Vada!)
FASE 4
Postulo ut eat (=Chiedo che vada)
Il risultato fu che in latino il congiuntivo entrò in un ambito che originariamente non gli era
proprio: quello della frase subordinata, cioè non autonoma, ma dipendente da un’altra frase.
Soprattutto nel latino tardo il congiuntivo si diffuse talmente tanto nelle subordinate che i
grammatici finirono col considerarlo il modo verbale caratteristico di questo tipo di frasi,
chiamandolo modus subiunctivus o coniunctivus. In latino subiungere voleva dire «far dipendere
da», «assoggettare», mentre coniungere significava «collegare»: entrambi i termini rendevano bene
la condizione di non autonomia della forma verbale che volevano indicare.
Il primo ad adoperare la parola subiunctivus fu Diomede, un grammatico della seconda metà del
IV secolo d.C.; una cinquantina di anni dopo il suo collega Servio adoperò la parola coniunctivus in
un commento filologico alle opere di Virgilio. Chi più di mille anni dopo descrisse le lingue nate
dalla dissoluzione del latino raccolse questa eredità terminologica. Leon Battista Alberti, il geniale
architetto autore della facciata di Santa Maria Novella, nella Grammatichetta con cui in una data
successiva al 1437 descrisse la lingua italiana (la prima in assoluto dedicata a una lingua neolatina)
chiamò questo modo subienctivo; circa sessant’anni dopo il grande filologo Elio Antonio de Nebrija,
in una Gramática de la lengua castellana data alle stampe nel fatidico 1492, l’anno della scoperta
dell’America, adoperò, per lo spagnolo, la parola subjuntivo; Louis Meigret, autore del Traité de la
grammaire française (1550), per il francese parlò di subjonctif.
Mentre nella grammatica dello spagnolo e del francese d’oggi questo modo ha lo stesso nome che
aveva nel Rinascimento, in Italia le acque in cui esso navigava si confusero presto. Nel 1549
l’erudito Rinaldo Corso, in un manuale di grammatica intitolato Fondamenti del parlar toscano e
pubblicato a Venezia nel 1549, cambiò il nome che stava a indicarlo e, primo fra i grammatici di
casa nostra, accogliendo la tradizione terminologica che faceva capo a Servio, parlò di congiuntivo. I
due termini (e alcune varianti del primo: soggiontivo, subiunctivo, subiuntivo, suggiontivo)
convissero nella tradizione grammaticale italiana dei secoli successivi, e solo nel Novecento la parola
soggiuntivo scomparve del tutto. Morale: se la forma verbale di cui ci stiamo occupando ha una
storia intricata perfino nel nome che la indica, come potrebbe risultare semplice il suo uso?
Dei grammatici latini, quelli italiani accolsero non solo la terminologia, ma anche l’ideologia del
congiuntivo, presentandolo come il modo tipico della subordinazione.
Sono esemplari, in proposito, le considerazioni di Raffaello Fornaciari, autore di una fortunata
Sintassi italiana dell’uso moderno, pubblicata nel 1881 e ristampata fino al 1974: «Il congiuntivo è
di sua natura un tempo dipendente e complementare, e perciò il suo vero luogo è nelle proposizioni
subordinate».
Al congiuntivo che si trovava in frasi autonome i grammatici del passato riservarono un altro
nome e uno spazio a parte, chiamandolo, di volta in volta, ottativo quando serviva a esprimere un
desiderio e potenziale quando serviva a esprimere una possibilità.
Congiuntivi difficili,
congiuntivi sbagliati
Una classifica dei congiuntivi più sbagliati d’Italia vedrebbe certamente, in testa e a pari merito,
queste quattro forme: vadi, facci, dassi, stassi e le voci a queste collegate: vadino e faccino, dasse e
dassero, stasse e stassero e così via. Perché questi verbi si sbagliano più spesso degli altri al punto di
rappresentare, da soli, l’intera categoria dei congiuntivi sbagliati?
Le cose, nella lingua, non avvengono mai per caso. In realtà, questi errori vanno interpretati
come dei tentativi di riparazione ad anomalie insite nel sistema dell’italiano.
Vediamo perché, cominciando da vadi e facci, presenti congiuntivi sbagliati di andare e di fare.
Chi parla inserisce andare e fare nel «magazzino» della prima coniugazione, che comprende i verbi
che all’infinito finiscono in -are, come parlare o cantare, lottare o puntare. Ebbene, i verbi regolari
di prima coniugazione al congiuntivo presente terminano in -i: che io parli, che io canti, che io lotti,
che io punti. Il ragionamento (giusto) che c’è dietro un vadi (sbagliato) è: se tutti i verbi in -are al
congiuntivo presente finiscono in -i, deve finire in -i anche il congiuntivo di andare: vadi! In realtà,
le ragioni per le quali il congiuntivo presente di andare è vada e non vadi affondano le loro radici
nella storia di questo verbo, che raccoglie in sé l’eredità di due verbi latini: ambulare (da cui sono
derivate le forme inizianti per and-) e vàdere, da cui sono nate le forme inizianti per va-. Notiamo
che vadere non finisce in -are, come i verbi di prima coniugazione, ma in -ere, come i verbi di
seconda coniugazione (tipo leggere o scrivere), e al congiuntivo presente si comporta come questi:
Qualcosa di simile è accaduto anche con le forme del congiuntivo di fare. Insomma, in qualche
modo è la lingua a essere irregolare per la sua storia complessa e stratificata, non il cervello di chi
tenta di eliminare le irregolarità usando forme che, solo da un certo momento in poi, la tradizione
grammaticale ha preso a considerare sbagliate!
Un discorso molto simile può farsi per i famigerati dassi e stassi, congiuntivi imperfetti sbagliati di
dare e stare. In tutti i verbi di prima coniugazione il congiuntivo imperfetto esce in -assi: parlassi,
cantassi, lottassi, puntassi. In tutti, meno che in dare e stare, che al congiuntivo imperfetto escono
in -essi: dessi, stessi. Tutto sommato, sono loro a essere «sbagliati» in quanto irregolari, non quei
parlanti che applicano all’imperfetto congiuntivo di dare e stare la stessa uscita di tutti gli altri verbi
in -are.
Naturalmente, il nostro è un paradosso, perché le forme di una lingua non sono, in sé, né giuste
né sbagliate: sono e basta.
«Errori» celebri
E adesso, per dare consistenza storica a quello che abbiamo appena scritto, vi presentiamo una
piccola antologia di vadi, facci, dasse e stasse adoperati da prosatori e poeti che hanno fatto la storia
dell’italiano:
Caro amico, ove che tu vadi, le tue lagrime mi bagneranno sempre il cuore.
Giovanni Boccaccio, Filocolo
…commandò più volte a Moisè di scrivere li precetti in libro, e che un essemplare stasse appresso
lo scrigno.
Paolo Sarpi, Historia del Concilio Tridentino
Achille portava i suoi fati sotto il tallone, perché ivi stasse il suo fato.
Giovan Battista Vico, Principi di Scienza Nuova
…sebbene per più giorni di seguito stasse a questo effetto nel suo osservatorio, egli non vide
nulla.
Giacomo Leopardi, Storia dell’astronomia
…quando anche ci si dassero in mano le facoltà e la scienza di un Dio, per comporre un uomo
perfetto secondo le nostre idee, non lo sapremmo fare.
Giacomo Leopardi, Zibaldone
Adesso che avete letto le firme illustri che accompagnano questi vadi, facci, dassi e stassi, siate un
po’ più comprensivi con chi se li lascia scappare oggi (beninteso, se non ha avuto la possibilità di
studiare)... Certo, è una persona incolta, ma al tempo stesso è una persona intelligente: percepisce
un errore di sistema e cerca di mettere le cose a posto.
Il congiuntivo e le regole
Sui meccanismi che determinano l’uso del congiuntivo in una frase e dell’indicativo in un’altra
(ecco la «questione del congiuntivo»!) sono stati versati fiumi d’inchiostro. Molti studiosi hanno
tentato di spiegare perché questo modo camaleontico si annidi in alcuni tipi di frase e rifugga da
altri; la caccia alla Regola che dia conto della composita geografia sintattica del congiuntivo e del
suo distribuirsi a macchia di leopardo nell’universo della lingua è ancora in atto.
A tutt’oggi, i linguisti non sono arrivati a un’opinione condivisa. Quella più diffusa (e, a nostro
avviso, più corretta) è che il congiuntivo, nel suo vario distribuirsi, non obbedisca a una sola legge,
ma si adatti a un ventaglio di possibilità. La vulgata grammaticale dice che il congiuntivo esprime
l’universo del dubbio, il magma della soggettività, i movimenti dell’anima, la volontà di chi parla.
Questa indicazione vale per diversi casi, ma non per tutti. Non spiega, per esempio, l’uso del
congiuntivo in un enunciato del genere: «Che le cose stiano così, è assolutamente sicuro». Dov’è,
qui, la soggettività? Dove l’opinione personale di chi sta parlando? Specularmente: chi avrà il
coraggio di correggere con la matita blu Dante in persona, che in un verso della Divina Commedia
dopo il verbo credere adopera una volta l’indicativo e un’altra il congiuntivo: «Cred’io ch’ei credette
ch’i’ credesse» (Inferno, canto XIII, verso 25)? Evidentemente, in questo caso Dante afferma con
sicurezza che Virgilio (il soggetto di quel credette) gli attribuisce una persuasione («ch’i’ credesse»)
che invece non c’è. Insomma: chi pensa che, nella lingua, qualunque cosa abbia una spiegazione;
chi è persuaso che, nella lingua, tutto sia riconducibile a una regola, si rassegni. Il congiuntivo non
ha un valore univoco, ma molti valori, molte funzioni, molti usi e molti significati.
In conclusione, non solo è difficile usare il congiuntivo; è anche difficile stabilire con esattezza in
quali contesti comunicativi esso possa essere sostituito dall’indicativo senza sbagliare. In proposito, i
grammatici possono descrivere una tendenza, ma non prescrivere una regola.
Il congiuntivo ha due tempi semplici, formati da un unico elemento (il presente: ami, tema,
serva, e l’imperfetto: amassi, temessi, servissi) e due tempi composti, formati da due elementi: il
passato (formato dal congiuntivo presente dell’ausiliare – avere o essere – seguito dal participio
passato del verbo da formare: abbia amato, abbia temuto, abbia servito) e il trapassato (formato dal
congiuntivo imperfetto dell’ausiliare seguito dal participio passato del verbo da formare: avessi
amato, avessi temuto, avessi servito). Ecco una sintesi delle forme del congiuntivo dei verbi delle tre
coniugazioni regolari:
Seconda tappa
Il congiuntivo in frasi autonome
Il congiuntivo si può incontrare, prima di tutto, in alcuni tipi di frasi autonome, che non
dipendono da altre frasi. Queste forme di congiuntivo autonomo sono: il congiuntivo esortativo, il
congiuntivo dubitativo, il congiuntivo esclamativo e il congiuntivo desiderativo.
Congiuntivo esortativo
Il congiuntivo esortativo è la forma specifica del comando, dell’ordine o dell’esortazione nel caso
in cui ci si rivolga a qualcuno con il lei.
Congiuntivo esclamativo
In casi del genere è come se dicessimo: «È incredibile [è inaudito, è il colmo, ecc.] che un
appartamento costi (o sia costato) così caro!» «È incredibile [è inaudito, è il colmo, ecc.] che si siano
lasciati dopo tanti anni!»
Il congiuntivo desiderativo esprime un desiderio o un augurio senza che compaia un verbo che
significhi «desiderare».
Questo congiuntivo può essere accompagnato da parole o espressioni come magari, almeno, se,
volesse il cielo che, una buona volta.
I tempi usati sono l’imperfetto (per esprimere un desiderio relativo al presente o al futuro, che
può realizzarsi o non realizzarsi):
Con il verbo potere è usato anche il congiuntivo presente: «Possa tu vivere felice», «Possiate amarvi per tutta la vita!»
Terza tappa
Il congiuntivo in frasi
non autonome
Molto più frequente è il congiuntivo nelle frasi che non sono autonome, ma dipendono da
un’altra frase. In alcune di queste, il congiuntivo è obbligatorio; in altre, esso si alterna con
l’indicativo e, in misura minore, con il condizionale.
Il congiuntivo è obbligatorio nelle frasi introdotte dalle parole o dalle espressioni che seguono:
1. A condizione che, ammesso che, a patto che, casomai, laddove, nell’eventualità che, ove,
qualora, purché, sempreché (o sempre che). Introducono una frase che esprime una condizione,
un’eventualità.
2. Affinché (e l’ormai solo letterario o formale acciocché) introducono una frase che esprime uno
scopo; con lo stesso valore si può usare anche la congiunzione perché, sempre seguita dal
congiuntivo.
Da notare che la congiunzione perché ha significato finale se seguita dal congiuntivo, causale se seguita dall’indicativo, come nelle
due frasi che seguono:
3. Benché, malgrado, malgrado che, nonostante, nonostante che, per quanto, quantunque,
sebbene, seppure. Introducono una frase che esprime un contrasto rispetto a ciò che si dice in
un’altra frase.
Non mi sembra che si sia comportato correttamente, benché [oppure nonostante, nonostante
che, quantunque, sebbene] abbia delle scusanti.
Malgrado [per quanto] ci sia il sole, fa ancora molto freddo.
Nonostante [benché, per quanto, quantunque, sebbene] lo avessi messo in guardia, non mi ha
ascoltato.
Benché [malgrado, nonostante, per quanto, quantunque, sebbene] tu abbia ragione, non posso
condividere del tutto quello che dici.
4. Come se, quasi, quasi che (come). Introducono una frase che indica un modo.
Quando l’ha incontrata l’ha guardata come se [quasi che] non l’avesse mai vista prima.
Devi trattarla con rispetto, come [come se] fosse la tua mamma.
Era in preda all’ansia, quasi sapesse quello che stava per succedere.
5. A meno che (non), eccetto che, fuorché, salvo che, tranne che. Introducono una frase che
esprime un limite.
Ti aiuterò a finire il lavoro, a meno che [eccetto che, fuorché, salvo che, tranne che] tu non
voglia fare tutto da solo.
Potevo immaginare tutto, fuorché [eccetto che, salvo che, tranne che] si sposasse così giovane.
Non mi disturbate per nessun motivo, tranne che [a meno che, eccetto che, fuorché, salvo che]
arrivi il direttore in persona.
Fino a questo momento abbiamo passato in rassegna le frasi nelle quali l’uso del congiuntivo è
obbligatorio. Ci sono, però, anche frasi che richiedono il congiuntivo solo in alcuni casi e per alcuni
significati. Le elenchiamo qui di seguito, riportando per ciascuna un esempio in cui compare il
congiuntivo.
In particolare, il congiuntivo può essere usato per le seguenti funzioni:
Il tetto deve essere riparato in modo che l’acqua non entri nell’appartamento.
ESPRIMERE UN LIMITE
Uno scopo o un’intenzione: «Sto cercando un insegnante che mi dia lezioni di russo». (=
Perché mi dia lezioni di russo.)
Una conseguenza: «Questo non è un vestito che tu possa indossare». (= Fatto in modo tale
che tu lo possa indossare.)
Una condizione: «Aiuteresti a scappare un ladro che ti offrisse dei soldi?» (= Se ti offrisse dei
soldi.)
Quarta tappa
Congiuntivo e indicativo
nelle frasi aperte da «che»
E adesso veniamo a uno dei casi più complessi (e più discussi) di alternanza fra congiuntivo e
indicativo nell’italiano: perché si deve dire e scrivere «Dico che hai agito bene» e «Spero che tu
abbia agito bene» e non, poniamo, «Dico che tu abbia agito bene» e «Spero che tu hai agito bene»?
Per rispondere a questa domanda, dobbiamo farvi una lezione di grammatica: è sicuramente la
parte più intricata e meno divertente del nostro viaggio, ma rappresenta, sia per noi sia per voi, un
percorso obbligato. Prima di proseguire, dunque, armatevi di pazienza e di memoria.
In italiano esistono frasi aperte dalla parola che, dette frasi completive. Si chiamano così perché
hanno la funzione di completare, con il loro significato, la frase che generalmente le precede. Si
distinguono tre tipi di frasi completive:
Tutte le frasi completive sono aperte dalla congiunzione che, seguita dal verbo all’indicativo (che
è il modo più usato), al congiuntivo o al condizionale (che è il modo più raro).
La scelta tra indicativo e congiuntivo in queste frasi dipende dal tipo di verbo o di espressione
che precede la congiunzione che.
Arrivati di corsa alla stazione si accorsero [constatarono, notarono, scoprirono, videro] che il
treno era già partito.
Il professore sostiene [dichiara, dice, afferma] che Giovanni non studia abbastanza.
L’imputato conferma che è del tutto estraneo ai fatti.
Pur essendo questi aggettivi costruiti in genere con l’indicativo, è possibile trovarli anche seguiti dal congiuntivo, come nella
frase che segue, accettabile in tutt’e due le versioni.
Se questi stessi nomi e aggettivi si trovano in frasi negative (e quindi esprimono non certezza ma, al contrario, dubbio e
incertezza), allora richiedono che + il congiuntivo.
VERBI. Credere, dubitare, giudicare, immaginare (immaginarsi), mettere (nel senso di «supporre»,
«fare un’ipotesi»), negare, pensare, presumere, prevedere, ritenere, sospettare, supporre.
Credo [immagino, penso, presumo, ritengo] che a quest’ora Luca stia già dormendo.
Nego [non nego] che le cose siano andate come le racconti.
Dubito [non dubito] che tu riesca ad avere indietro i tuoi soldi.
Il verbo «dire»
Il congiuntivo può essere usato anche con il verbo dire, se questo ha un soggetto generico e indeterminato (si dice, dicono, c’è chi
dice, si direbbe) oppure con espressioni negative del tipo non dico, non voglio dire, non intendo dire. Di solito, in questi ultimi
casi, la frase introdotta da che è seguita da una frase introdotta da ma, però, tuttavia.
Si dice [dicono, c’è chi dice] che il governo abbia i giorni contati.
Da come si esprime, si direbbe che non sia mai andato a scuola.
Non dico [non voglio dire, non intendo dire] che abbiate agito male, ma certo avreste potuto
fare meglio.
NOMI. Convinzione, credenza, dubbio, idea, impressione, ipotesi, opinione, sospetto, ecc.
Ho il sospetto [l’impressione, il dubbio] che Nicola si sia comportato in quel modo per invidia.
Abbiamo l’impressione che Laura si sia offesa.
L’ipotesi è che il furto sia avvenuto nella notte di domenica.
Apparenza
Con questi verbi, in un livello stilistico meno formale, sono del tutto normali anche frasi costruite con l’indicativo futuro.
2. Il congiuntivo si ha dopo verbi o nomi che esprimono un atto della volontà (che può essere un
ordine, una preghiera, una richiesta, l’accettazione di qualcosa, un permesso, una necessità).
VERBI. Accettare, acconsentire, chiedere, decidere, disporre, domandare, esigere, evitare, fare,
impedire, lasciare, opporsi, ordinare, ottenere, permettere, pregare, preoccuparsi, pretendere, proporre,
raccomandare (raccomandarsi), sopportare, suggerire.
Fare e decidere
Richiede il congiuntivo anche l’imperativo del verbo fare.
Attenzione
Se decidere non significa «prendere una decisione» ma «arrivare a una conclusione», ha l’indicativo dopo di sé. Si noti la
differenza:
NOMI. Bisogno, condizione, consiglio, desiderio, intenzione, norma, ordine, patto, regola, scopo,
voglia.
3. Il congiuntivo si ha dopo verbi, nomi o aggettivi che esprimono un sentimento personale (che
può essere un desiderio, un timore, un’illusione o una finzione, un piacere, un dispiacere, una
gioia).
Clara aspettava [attendeva, si augurava, desiderava, sperava, voleva] che Stefano le telefonasse:
amava [si illudeva, preferiva] che fosse lui a prendere l’iniziativa; al tempo stesso temeva che lui
la dimenticasse.
Rientrano in questo gruppo l’espressione non vedere l’ora e le forme impersonali è tempo, è ora, è
venuta l’ora.
Temere
Il verbo temere, quando esprime un significato affine a quello di credere, può essere costruito anche con l’indicativo futuro o con
il condizionale composto (nel caso di un futuro nel passato).
Il mio desiderio è che Mario sia promosso, ma ho paura che sia bocciato.
Avrei voglia che tu cenassi con me.
Resteremo in albergo in attesa che lo sciopero dei treni finisca, altrimenti c’è pericolo che il
servizio di collegamento si fermi lungo il percorso.
Farò finta che tu non ci sia.
Avere paura
Come il verbo temere, anche l’espressione avere paura, oltre che con il congiuntivo, può essere costruita con il futuro.
Il mio desiderio è che Mario sia promosso, ma ho paura che sarà bocciato.
4. Il congiuntivo si ha dopo alcuni verbi alla terza persona che esprimono necessità o
convenienza: bastare, bisognare, convenire, importare, occorrere, servire, valere la pena, ecc.
Basta [bisogna, conviene, occorre] che stasera non si faccia tardi, perché domani mi dovrò
alzare presto.
Bisogna che Michele prenda una decisione.
Vale la pena che tu visiti il museo.
5. Il congiuntivo si ha anche dopo alcune espressioni impersonali formate dalla terza persona del
verbo essere + un aggettivo: è normale, è logico, è desiderabile, è doveroso, è essenziale, è importante,
è indispensabile, è inutile, è meglio, è necessario, è ovvio, è preferibile, è indubbio, e infine
nell’espressione non è che (che significa «non sembra che», «non si può dire che»).
Che le opere di Verdi ti piacessero, lo sapevo già. (Se la frase introdotta da che seguisse la
reggente, avremmo l’indicativo: «Sapevo già che le opere di Verdi ti piacevano».)
Con o senza «che»
Nelle completive al congiuntivo la congiunzione che può anche non essere espressa.
In casi del genere, l’indicativo al posto del congiuntivo può essere accettato nell’italiano parlato, ma è preferibile evitarlo
nell’italiano scritto e anche nell’italiano parlato di tono formale.
L’esempio riportato costituisce un’ipotesi (i grammatici dicono un periodo ipotetico), che possiamo
definire come la somma di una condizione e di una conseguenza.
La frase-condizione, come si può vedere nella tabella alla pagina seguente, è introdotta dalla
congiunzione se, mentre la frase-conseguenza non ha parole che la introducono. In qualche caso
può essere aperta dalla parola allora: «Se dicessi così, [allora] sbaglieresti».
L’ordine più comune e diffuso è quello degli esempi che avete appena letto, ma si può avere
anche l’ordine inverso:
L’ipotesi può essere di tre tipi, a seconda che sia presentata come certa, come possibile o come
irreale.
Un’IPOTESI REALE può avere tutti i tempi dell’indicativo sia nella frase-condizione sia nella frase-
conseguenza (inoltre, nella frase-conseguenza possiamo trovare l’imperativo):
Le IPOTESI POSSIBILI e IRREALI hanno gli stessi tempi e gli stessi modi verbali, e precisamente:
Riassumendo:
Nell’italiano colloquiale
Spesso, per esprimere un’ipotesi irreale, nell’italiano parlato, al posto del congiuntivo e del
condizionale, si adopera l’indicativo imperfetto:
Se mi avvertivate prima, la pizza la portavo io. (Anziché «Se mi aveste avvertito prima, la pizza
l’avrei portata io».)
Se lo sapevo, non venivo. (Anziché «Se l’avessi saputo, non sarei venuto».)
Se ci telefonavate in tempo, vi invitavamo a cena. (Anziché «Se ci aveste telefonato in tempo, vi
avremmo invitato a cena».)
Bisogna sottolineare che l’uso dell’indicativo imperfetto nella frase condizione e/o nella frase-
conseguenza dell’ipotesi irreale è assolutamente normale nell’italiano parlato e, come abbiamo visto
alle pp. 51-54, non è sconosciuto alla tradizione dell’italiano letterario.
Il nostro consiglio è di evitarlo nell’italiano scritto e in quello parlato in situazioni formali: in
questi casi è sempre preferibile usare il congiuntivo nella frase-condizione e il condizionale nella
frase-conseguenza.
Un errore da evitare
Sia nella lingua parlata sia nella lingua scritta, infine, è indispensabile evitare il condizionale nella frase-condizione ed evitare il
congiuntivo nella fraseconseguenza.
L’italiano corretto non ammette frasi come:
Se lo saprei te lo direi.
Se potrei lo farei.
Se sarei ricco non lavorerei.
Se lo sapessi te lo dicessi.
Congiuntivi irregolari
o difficili
Congiuntivi irregolari (o difficili)
dei verbi di prima coniugazione
Avvertire
a) cong. presente, 3a pers. sing.
☐avverti ☐avverta ☐avvertisca
b) cong. imperfetto, 1a pers. sing.
☐avvertivo ☐avvertissi ☐avvertirei
Correggere
a) cong. presente, 3a pers. sing.
☐correggi ☐corregga ☐corregge
b) cong. imperfetto, 1a pers. sing
☐corregga ☐correggevo ☐correggessi
Fingere
a) cong. presente, 1a pers. plur.
☐fingevamo ☐fingiamo ☐fingessimo
b) cong. imperfetto, 2a pers. sing.
☐fingi ☐fingevi ☐fingessi
Finire
a) cong. presente, 1a pers. sing.
☐finisco ☐finisca ☐finivo
b) cong. imperfetto, 3a pers. plur.
☐finiscano ☐finissero ☐finivano
Lottare
a) cong. presente, 3a pers. sing
☐lotti ☐lotta ☐lottasse
b) cong. imperfetto, 1a pers. sing.
☐lottassi ☐lottavo ☐lotterei
Spingere
a) cong. presente,1a pers. sing.
☐spinga ☐spinghi ☐spingo
b) cong. imperfetto,1a pers. plur.
☐spingessimo ☐spingeressimo ☐spingevamo
Tendere
a) cong. presente, 3a pers. sing.
☐tenda ☐tendi ☐tende
b) cong. imperfetto, 1a pers. plur.
☐tendessimo ☐tendiamo ☐tendevamo
Test 2
CANCELLATE LE FORME VERBALI SBAGLIATE
Secondo un ingiusto quanto diffuso pregiudizio, i giornali italiani sarebbero scritti male, e i
giornalisti non conoscerebbero la lingua italiana. Niente di più falso. Proprio per questo, per giocare
sui e con i congiuntivi, ci siamo divertiti a manomettere frasi scritte da giornalisti famosi, che mai e
poi mai sono inciampati in simili tranelli. Abbiamo accostato alle loro forme corrette due alternative
sbagliate, tra le quali dovrete scegliere l’unica soluzione.
2. È dilettantesco non comprendere come l’illusione penalistica, gli spot televisivi, lo sfoggio di
soldati e di armi, il recinto dei nuovi campi di concentramento chiamati centri di identificazione
[oscurano]/[oscurassero]/[oscurino] un’Italia multiculturale che è già realtà concreta. (Giuseppe
D’Avanzo)
3. È probabile che l’elenco delle auto super-inquinanti [fa]/[faccia]/[facesse] la fine dello «shadow
toll», il pedaggio ombra sulle strade statali, o della lista dei cani pericolosi del ministro Sirchia.
(Edmondo Berselli)
4. È successo nel G8 di Genova, quando gli errori della polizia hanno finito per regalare ai
dimostranti una immeritata e disastrosa vittoria morale. Potrebbe accadere nuovamente se la crisi
del credito e la recessione [creassero]/[creano]/[creino] nuove fasce di povertà e precariato. (Sergio
Romano)
5. Il calcolo era semplice: più vittime civili ci sono (e non possono non esserci vittime civili data la
natura del conflitto), più i networks televisivi ne parlano, più è probabile che le opinioni pubbliche,
soprattutto europee, si [schierano]/[schierassero]/ [schierino] contro Israele e che, infine, la
«comunità internazionale» (leggi: le democrazie occidentali) [sia]/[fosse]/[è] costretta a tenerne
conto. (Angelo Panebianco)
6. Sarà un caso che in Cisgiordania non ci [sia stata]/[c’è stata]/[fosse stata] una mobilitazione vera
contro la guerra di Gaza? Che nei Paesi arabi le manifestazioni [sono state]/[fossero state]/[siano
state] poche e di maniera? Che l’Egitto, che avrebbe dopo tutto potuto fare il gesto salvifico di aprire
le frontiere e accogliere i civili, non lo [ha fatto]/[abbia fatto]/[avesse fatto]? (Lucia Annunziata)
7. Oggi invece trovi l’impegno politico nei cosiddetti femminili, e non c’è virile telegiornale o
quotidiano che non [sfarfalla]/[sfarfallasse]/[sfarfalli] nel privato, nel fru-fru, nel pettegolezzo, nella
gastronomia, nel patinato; che non [rincorra]/[rincorre]/[rincorresse] la leggerezza. (Giovanna
Zucconi)
8. È bastato infatti che Pdci, Verdi, occhettiani, mastelliani e dipietristi
[vedevano]/[vedono]/[vedessero] il bozzetto del logo perché la fibrillazione
[arrivava]/[arrivasse]/[arrivò] alla soglia di rottura. (Luca Telese)
9. «Io non sono trasgressiva in quanto trans. Lo sarei se, pur sentendo questo richiamo della foresta,
[volterei]/[voltassi]/ [volto] le spalle alla mia naturale interiorità femminile. Ma io mi sento una
persona assolutamente naturale.» (Vladimir Luxuria, intervistata da Claudio Sabelli Fioretti)
10.Obama ha messo fine a tali arbitrii, che aboliscono l’equilibrio tra i poteri voluto dal pensiero
liberale. Ed è importante che [è]/[fosse]/[sia] il suo primo gesto, perché qui è la vera urgenza dei
giorni nostri, non solo negli Stati Uniti. (Barbara Spinelli)
Test 3
CANCELLATE LE FORME VERBALI SBAGLIATE
Anche degli scrittori contemporanei si dice un gran male a proposito della lingua sciatta e povera
che usano (o userebbero) nei loro romanzi. In realtà, quando rinunciano ai congiuntivi, gli scrittori
delle nuove generazioni lo fanno volutamente, per imitare i modi disinvolti e poco grammaticali della
lingua parlata. Anche in questo test ci siamo permessi di accostare ai loro impeccabili congiuntivi
altre due proposte: solo una fra le tre è accettabile.
2. Quando si era svegliato, dalla finestra della stanza aveva visto, nella pallida luce dell’alba, una
distesa di morbide colline e valli bianche, come se [era stato]/[fosse stato]/[sarebbe stato] in una
baita in montagna. (Niccolò Ammaniti)
3. La leggenda voleva che Parri [fosse stato]/[era stato]/[sarebbe stato] informato dell’arresto dal
famigerato cardinale Schuster. E che immediatamente, piantando in asso la sua delicata opera di
mediazione, [si fosse precipitato]/[si era precipitato] in Moto Guzzi verso il presidio partigiano.
(Nicola Lagioia)
4. Avrebbe voluto dirle che era contento che [era]/[fosse]/[sarebbe] lì, che [avessero
parlato]/[avevano parlato], e che anche se la sua presenza risvegliava in lui ricordi dolorosi, chissà
mai perché, lo stesso era felice di averla incontrata. (Simona Vinci)
5. Qualche anno fa, a qualcuno è venuta l’idea di spruzzare della polvere di cacao nel cappuccino.
Come se il cappuccino così com’era non [bastava]/[bastasse]/[basterebbe] più. (Francesco Piccolo)
7. Restavo ferma ai passaggi a livello, assieme alle biciclette e agli operai, e mentre aspettavo che si
[alzerebbero]/[alzavano]/[alzassero] le sbarre io avrei voluto essere su ciascuno dei treni che ci
impediva il passo. (Valeria Parrella)
8. Era evidente, insomma, che non avevo voglia di parlare con nessuno. Ma soprattutto si leggeva
cubitale il mio avvertimento. La mia esortazione, il mio sovrano monito affinché a nessuno
[verrebbe]/[veniva]/[venisse] in mente di parlarmi. (Carlo D’Amicis)
9. Una cosa so per certo: che se quel giorno Nives non si [fosse portata]/[era portata]/[sarebbe
portata] dietro Alf allo stramaledetto convegno sulla devianza minorile; se lo [aveva
mandato]/[avesse mandato]/[avrebbe mandato] a giocare a pallone, o anche [l’avesse
lasciato]/[l’aveva lasciato] tutto il pomeriggio davanti alla sua stronzissima Playstation, a quest’ora
non [sarebbe]/[era]/[fosse] nella mia cucina a schiacciarsi una borsa di ghiaccio sulla faccia. (Diego
De Silva)
10. Non sa mai bene verso quale telecamera guardare, si muove legnosa e ha gli occhi di un topo;
non c’è da stupirsi che il suo calendario sexy [ha venduto]/[abbia venduto]/[vende] meno di quelli
delle sue colleghe. (Andrea De Carlo)
Test 4
INDICATIVO O CONGIUNTIVO?
1. Pretendo che
[ I ] mi chiedi scusa
[ C ] mi chieda scusa
2. Ti avverto che
[ I ] le cose non vanno bene
[ C ] le cose non vadano bene
4. Ordina che
[ I ] smettono
[ C ] smettano
5. Mi auguro che
[ I ] smettono
[ C ] smettano
7. Pregalo che
[ I ] torna
[ C ] torni
8. Penso che
[ I ] torna
[ C ] torni
9. Ti dico che
[ I ] torna
[ C ] torni
19. È normale
[ I ] che è stanco
[ C ] che sia stanco
Test 5
METTETE NELLA FORMA GIUSTA IL VERBO
CHE TROVATE FRA PARENTESI
10. Se non si [perdersi] ............... persi in chiacchiere, avrebbero già finito il lavoro.
Test 6
COMPLETATE LE FRASI SCEGLIENDO LA FORMA VERBALE
CORRETTA FRA QUELLE INDICATE TRA PARENTESI
3. Credevo che Luisa [stasse]/[stesse]/[stava] ............... studiando, per questo non l’ho disturbata.
5. Non credo che stasera Carlo e Daniela [venghino]/[vengano]/[vengono] ............... con noi a
teatro.
Test 7
SCEGLIETE IL TEMPO VERBALE ADATTO
1. Credo che [ci fosse]/[ci fosse stata] ............... dell’ironia nelle sue parole.
4. Benché [sia]/[fosse] ............... avanti con gli anni, è ancora pieno di energia.
5. Nonostante [lo avevo avvertito]/[lo avessi avvertito] ............... non mi ha dato ascolto.
Test 8
CONIUGATE NEL MODO OPPORTUNO
6. Alla fine, l’esame non è stato così difficile come [sembrare] ...............
7. Parla ancora un pessimo italiano, sebbene [vivere] ............... qui da molto tempo.
Test 9
INDICATE I CONGIUNTIVI O GLI INDICATIVI
CHE SAREBBERO CONSIGLIATI IN UN TESTO SCRITTO
Queste frasi sono state registrate durante delle trasmissioni televisive. Si tratta quindi di interviste e
conversazioni in forma orale e colloquiale.
1. Gli italiani potrebbero pensare che l’Italia ha altre esigenze. (Otto e Mezzo)
2. Mi sembra che negli ultimi anni hai tenuto la tua vita privata per te. (Verissimo)
6. A meno che non sospettava che la ragazza aveva qualcun altro. (Festa Italiana)
7. Ci mancherebbe pure che lo chiami. Non s’aspettava che io entravo. (Uomini e Donne)
8. Non pensare che non ci sto male per questa cosa. (Grande Fratello)
9. Nonostante non te lo dico mai, sei l’uomo della mia vita. (Dimmi la verità)
10. Credo che il direttore ha detto una cosa giusta. (Otto e Mezzo)
Test 10
COMPLETATE LE FRASI SCEGLIENDO TRA L’INDICATIVO
E IL CONGIUNTIVO
7. Supponiamo che stanotte [nevicare] ............... e che la strada non [essere] ............... più
percorribile.
8. Non si sarebbe offeso se tu non [essere] ............... così scortese con lui.
Test 11
TRASFORMATE LE FRASI METTENDO IL VERBO TRA PARENTESI
AL CONGIUNTIVO TRAPASSATO
Test 12
COMPLETATE LE FRASI METTENDO IL VERBO TRA PARENTESI
AL CONGIUNTIVO TRAPASSATO
(attenzione all’accordo del participio)
Test 13
COMPLETATE I DIALOGHI NEL MODO OPPORTUNO
1. «Ti piace il nuovo televisore? L’ho pagato 900 euro.» «Davvero? Non immaginavo che [costare]
............... così tanto!»
2. «Da tre giorni Claudia è costretta a letto dall’influenza.» «Veramente? Non sapevo che [essere]
............... malata.»
3. «Sai che il viaggio in Germania è costato solo 1000 euro?» «Ah sì? Non pensavo che [spendere]
............... così poco.»
4. «Il maglione che mi hai comprato mi sta grande.» «Mi dispiace, ma credevo che tu [portare]
............... la taglia 48!»
5. «Natalia cucina benissimo. Sai che le ha insegnato sua madre?» «Ah sì? Credevo che
[frequentare] ............... un corso di cucina.»
6. «Sai che Sergio non si è ancora iscritto all’università?» «Sei sicuro? Pensavo che ormai [scegliere]
............... la facoltà.»
7. «Ho comprato un biglietto per il concerto di Eugenio Finardi.» «Davvero? Non credevo che ti
[piacere] ............... le sue canzoni.»
8. «Se ti piace Sandro Veronesi, posso prestarti uno qualsiasi dei suoi libri.» «Sul serio? Non credevo
che tu [averli] ............... tutti.»
9. «Marco è stato in Sicilia e ha fatto un bel giro nelle città del Barocco.» «Davvero? Non sapevo che
[andare] ............... in vacanza!»
10. «Abbiamo appena finito di scrivere un nuovo libro.» «Veramente? Non immaginavo che ne
[avere] ............... ancora voglia, dopo tanti anni che lavorate insieme.»
Risposte
Test 1
avverta, avvertissi; corregga, correggessi; fingiamo, fingessi; finisca, finissero; lotti, lottassi; spinga,
spingessimo; tenda, tendessimo.
Test 2
1) serva; 2) oscurino; 3) faccia; 4) creassero; 5) schierino, sia; 6) sia stata, siano state, abbia fatto;
7) sfarfalli, rincorra; 8) vedessero, arrivasse; 9) voltassi; 10) sia.
Test 3
1) possano; 2) fosse stato; 3) fosse stato, si fosse precipitato; 4) fosse, avessero parlato; 5) bastasse;
6) fossero, provassero; 7) alzassero; 8) venisse; 9) fosse portata, avesse mandato, l’avesse lasciato,
sarebbe; 10) abbia venduto.
Test 4
2), 6) e 9) indicativo; in tutti gli altri casi congiuntivo.
Test 5
1) aveste avvertito; 2) avesse; 3) verrei; 4) avesse camminato; 5) poteste; 6) costasse; 7) avessi; 8)
avessimo previsto; 9) fosse stato; 10) fossero persi.
Test 6
1) facessi; 2) andasse; 3) stesse; 4) faccia; 5) vengano; 6) salga; 7) piaccia; 8) foste; 9) fossimo; 10)
arrivi.
Test 7
1) ci fosse; 2) avessi pensato; 3) fossi; 4) sia; 5) avessi avvertito; 6) sia; 7) ripetano; 8) avessi visto;
9) abbia fatto; 10) presentino.
Test 8
1) trovi; 2) voglia; 3) immaginassi; 4) vedesse; 5) arrivi; 6) sembrava; 7) viva; 8) sono; 9)
nasconda; 10) parla/parli.
Test 9
1) abbia; 2) abbia tenuto; 3) andasse; 4) andava; 5) si nasca; 6) sospettasse, avesse; 7) chiamassi;
entrassi; 8) stia; 9) dica; 10) ha detto/abbia detto.
Test 10
1) ha detto/dice; 2) abbiate; 3) è; 4) dovessi; 5) avessero promosso; 6) era/fosse; 7) nevichi, sia; 8)
fossi stato; 9) potessi; 10) prenda/abbia preso.
Test 11
1) avessi preso; 2) avesse fatto; 3) avesse detto; 4) aveste parlato; 5) avessero dormito; 6) avessero
viaggiato; 7) avessimo dimenticato; 8) avessi smesso; 9) fosse partito; 10) avesse creduto; 11) fossero
partiti; 12) fosse tornata; 13) si fosse alzato; 14) si fosse fermata; 15) fossero partiti; 16) fossero
andate; 17) fosse passato; 18) fosse rimasta; 19) avessero avvertito; 20) fossero rientrati.
Test 12
1) fossero nati; 2) avessero scoperto; 3) avessi cucinato; 4) fossero tornate; 5) si fossero aggravati;
6) si fosse sistemata; 7) avesse portato; 8) fosse finito; 9) avessi fatto; 10) avessimo parlato.
Test 13
1) costasse; 2) fosse; 3) aveste speso; 4) portassi; 5) avesse frequentato; 6) avesse scelto; 7)
piacessero; 8) li avessi; 9) fosse andato; 10) aveste.
Ringraziamenti
Grazie a Silvia Arrigucci, Roberta Ascarelli, Antonella Bonamici, Ilaria Bonomi, Oreste De
Fornari, Francisco Marcos Marín, Bianca Persiani, Elmar Schafroth, Luca Serianni, Elena Spandri.
Riferimenti bibliografici
Nei vari capitoli di questo libro abbiamo fatto riferimenti ai saggi, agli articoli e ai libri che
seguono:
E se domani
Per gentile concessione di C.A. Rossi Editore srl
Via A. Mario, 67 - 20149 Milano
www.esedomani.com
Domani
Parole di Vito Perrini, Fausto Cogliati
Musica di Alessandro Aleotti
Copyright © 1996 by Universal Music Publ. Ricordi/Best Sound
Per gentile concessione di:
Universal Music MGB Publications
via Liguria, 4 - Fraz. Sesto Ulteriano
20098 San Giuliano Milanese, Milano
Bruci la città
Musica e parole di Francesco Bianconi, Irene Grandi
Musica di Francesco Bianconi
Copyright © 2007 by Universal Music Publ. Ricordi Srl
Per gentile concessione di:
Universal Music MGB Publications
via Liguria, 4 - Fraz. Sesto Ulteriano
20098 San Giuliano Milanese, Milano