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Leonardo Polato (l_polato@virgilio.

it)

L’OCCHIO DELL’ASCOLTATORE

Credo che il modo migliore per iniziare questo breve saggio sia spiegare come e perché ho
scelto questo titolo ed argomento.
Lo stimolo viene da una circostanza occasionale: il Conservatorio dove insegno mi chiese di
partecipare ad una tavola rotonda dal titolo: “la musica elettronica: e il pubblico?”
Naturalmente, questo titolo si riferiva alle difficoltà che il pubblico dei “normali” concerti di
musica classica incontra quando assiste ad un concerto di sola musica elettronica.
La normale e un po’ banale risposta può essere “la musica elettronica è difficile da seguire
perché non c’è nulla da vedere”. Ma, mi chiesi: perché è così importante vedere qualcosa, in
un concerto? Dopotutto, noi normalmente ascoltiamo musica sui nostri impianti hi-fi dove
non c’è proprio nulla da vedere e non si può dire che sia sempre particolarmente spettacolare
vedere dei musicisti che suonano.
Un primo accenno al problema lo si può trovare in Stravinskij (1942 [1978 : 113-114]),
quando sostiene che la musica si dovrebbe pure vedere: ma in realtà, qui egli sembra riferirsi
maggiormente al corretto comportamento che deve tenere l’esecutore durante la sua
performance; si tratta di un problema di contegno sociale del musicista più che di
comprensione del fatto sonoro.
In realtà, credo che vedere un’esecuzione musicale sia molto importante per la
comprensione della musica, anche solo in maniera subliminale e/o immaginaria. Vediamo
come.
Torniamo, per un momento, alle teorie espresse da Leonard Meyer nel suo libro “Emotions
and meaning in music” (1956 [1992]): partendo dalla teoria della Gestalt, afferma che le
nostre emozioni in musica nascono quando ci aspettiamo qualcosa e poi confrontiamo i suoni
reali che ascoltiamo con ciò che ci aspettavamo di ascoltare. In questo modo, reagisco alla
musica con sorpresa o soddisfazione, nel caso le mie previsioni siano confermate.
Egli parla di “significato ipotetico” e di “significato immediato”. Il piacere e le emozioni in
musica nascono proprio dalla relazione tra i due.
Naturalmente Meyer presuppone un ascoltatore competente, cioè un ascoltatore che sa cosa
potrebbe succedere o meno all’interno di quel dato stile musicale, un ascoltatore che possiede,
nel suo orecchio interno, un repertorio di possibilità stilistiche.
Credo che la stessa cosa succeda quando vediamo un esecutore: se vedo un violoncellista
fare un determinato gesto posso aspettarmi un certo tipo di suono, ed escluderne altri, prima
ancora che questo venga emesso. Va’ considerata, poi, la peculiarità del gesto: anche un
bambino capisce a quale strumento un mimo si riferisce e immaginarne il suono, pure in
assenza dello strumento reale. Quindi, vedere lo strumento e i gesti che su di essi si fanno
contribuiscono alla formazione dei significati della musica di cui parlava Meyer.
Ora, supponiamo, per un momento, di incontrare per la prima volta un oggetto che riteniamo
essere uno strumento musicale: in quale modo creiamo questa ipotesi?
Come sosteneva Peirce (1931-1958 [2003]: 5.262, 5.181,5.182), ogni valutazione percettiva
è un’ipotesi basata su esperienze e cognizioni precedenti. Così, di fronte a questo nuovo
strumento e vedendolo, ci riferiamo alla sua forma, materiale, dimensione, ecc. per
immaginare che tipo di gesti un esecutore può fare con esso e faremo necessariamente
riferimento a gesti che già abbiamo visto fare su strumenti musicali. E dalla gestualità
supposta, produrremo alcune inferenze sul tipo di suono che ne uscirà.
La stessa cosa, in modo virtuale, può succedere quando ascoltiamo un suono provenire da
uno strumento sconosciuto che non possiamo vedere: siamo costretti a riferirci alle nostre
categorie consuete (strumento a fiato, a corda, ecc.) sapendo, però, che queste categorie si
riferiscono non solo ad uno specifico materiale ma a specifici gesti.
A tale scopo, è sintomatico ciò che si può leggere a proposito di alcuni particolari studi
condotti da Stephen McAdams presso l’IRCAM di Parigi (1994): egli ha condotto alcuni test
acustici con nastri registrati, nei quali l’attacco del suono di un particolare strumento è
tagliato o è coperto da altri strumenti:ebbene, McAdams dimostra che, in tal modo, diventa
molto più difficile capire quale strumento stia suonando.
Dal mio punto di vista, tagliare l’attacco del suono corrisponde a togliere la peculiarità del
gesto che l’esecutore compie con lo strumento o,se vogliamo, eliminare il punto d’incontro
tra corpo e oggetto. Va’ detto che tale scoperta era stata effettuata, naturalmente a scopo
espressivo, dai compositori impressionisti: nella loro musica può accadere che l’attacco di
uno strumento sia coperto da altri e nasca, così, un melange che renda difficoltoso il
riconoscimento di un timbro (pensiamo, ad esempio, all’inizio di Jeux di Debussy).
Quindi, se la visione di uno strumento ci rende consapevoli del repertorio di gesti che con
esso si possono fare per produrre dei suoni, possiamo dire che lo strumento è un testo, una
rete di abiti interpretativi fisici; lo strumento porta con sé le istruzioni per adoperarlo e,
quindi, pure la storia dei gesti che su di esso si sono fatti. Il riferimento d’obbligo è Luciano
Berio, il quale diceva, fra l’altro, di non amare il pianoforte preparato perché riteneva fosse un
modo di adoperare lo strumento “contro” la storia dei gesti che su di esso si facevano. E
ugualmente possiamo sostenere che il suono stesso, anche se isolato dalla visione dello
strumento, è un testo gestuale, è ricco di indizi e traccie (Eco: 1984: 45 - 47) che ci
permettono di produrre ipotesi su come l’esecutore ha agito fisicamente per produrre il suono.
Naturalmente, per immaginare tali gesti non possiamo che farlo visivamente, anche se con
l’occhio dell’immaginazione. Tutto ciò contribuisce a creare ipotesi (o “significati ipotetici”
nella dicitura di Meyer) perlomeno sul tipo di timbro che ci prepariamo ad ascoltare.
Torniamo ora indietro alla musica elettronica, dalle cui problematiche siamo partiti.
Pensiamo ai gesti che si compiono durante una performance di tale musica, prendendo come
esempio la musica elettronica “pura”, senza interventi di strumenti acustici; sono tutti gesti
piccoli, molto piccoli: accendere, spegnere, alzare o abbassare un volume tramite mixer, ecc.
Non abbiamo peculiarità: se un film muto ci mostrasse solo i gesti, sarebbe pressoché
impossibile produrre ipotesi sul tipo di suono che dovrebbe uscirne, a differenza di ciò che
potremmo fare se lo stesso film ci mostrasse un’arpa o dei timpani. Sono tutti movimenti,
quelli “elettronici”, che normalmente facciamo nelle nostre vite quando accendiamo una
lampada, o alziamo il volume di uno stereo, ecc. Sono gesti che agiscono su oggetti che a loro
volta sono intermediari tra il nostro corpo e il risultato finale, l’”oggetto reale” (la luce, il
suono). Ma qual è l’oggetto reale prodotto da un mixer, se non un suono pre-registrato? Come
posso produrre supposizioni sul suono che verrà, durante un concerto di musica elettronica,
solo vedendo un movimento della mano su un banco mixer? Quando ogni suono è possibile
(ed è il miracolo dell’elettronica) e vedo solo gesti di intermediazione (non direttamente
producenti il suono) posso avere il massimo della sorpresa, certo, ma corro pure il rischio
della noia. Il piacere delle arti temporali è dato dall’equilibrio tra ciò che è probabile e
prevedibile e la novità, la sorpresa.
Consideriamo quanto sostiene Barthes (1982 [2001: 252-253]) a proposito della “musica
practica”: ascoltare un “dilettante” (nel senso alto del termine) può spingere l’ascoltatore a
produrre da sé la musica; nasce il desiderio di fare musica. Penso che questo desiderio nasca
non solo ascoltando musica, ma anche vedendola fare: considerare un brano musicale come
una sequenza di movimenti può causare, in chi guarda, il desiderio di imparare questi
movimenti, anche perché è visibile una stretta connessione tra il gesto ed il suono.
La presenza di una tecnica elevata ci rimanda, secondo Barthes, ad una abilità esoterica: ci
diventa difficile individuare la relazione tra un sapere gestuale possibile anche per noi e il
risultato sonoro. Per me, questa assenza si accentua nella musica elettronica, dove, come
detto, il gesto è totalmente slegato dall’effetto. L’abilità diventa ancor più esoterica perché
tale è pure la produzione del suono, che resta nascosta.
Da ascoltatore in un concerto di musica acusmatica, è stato per me divertente vedere come
un tecnico al mixer accentuasse i gesti che faceva sui vari potenziometri in modo da restituire
un minimo di teatralità concertistica ad una pratica tanto prosaica e fredda: sembrava volesse
ridare, a sé stesso, una capacità creatrice di suono in realtà del tutto assente, visto che la
musica era preregistrata. Assistevo ad una sovrapposizione di due linguaggi corporei non
esattamente compatibili, uno proveniente dalla musica strumentale (la teatralità), e l’altro dato
dall’anonimato del mezzo reale, il mixer (lo spostare dei semplici cursori). Questa
mescolanza mi appariva patetica, perché l’intenzione manifesta del gesto non aveva
corrispondenza alcuna con quanto ascoltavamo, se non in modo indiretto.
Andiamo oltre in questa indagine: pensiamo a quanto succede quando, a casa nostra,
ascoltiamo musica registrata, magari con le cuffie: ognuno di noi è consapevole che quella
musica è stata realmente eseguita in qualche posto, magari certo con operazioni di montaggio
ma che, comunque, dei suoni sono stati prodotti da qualcuno in qualche posto. C’è la presenza
di una cosa reale che qualcuno ha prodotto da qualche parte e c’è, quindi, la consapevolezza
della distanza tra me che ascolto tale registrazione e l’esecuzione fattuale. Ma quando mi
trovo in un auditorio durante un concerto di pura musica elettronica, dove si trova il suono
che ascolto? Potrei dire “qui, in sala”: ma tutto ciò che vedo è solo l’opera di un
intermediario, gesti molto simili a quelli che io potrei fare a casa su uno stereo, come già
detto.
Ho già adoperato l’aggettivo “acusmatica”, che accompagna a volte tale genere di
performance: se non vado errato, la parola “acusmatico”, nella sua etimologia, si riferisce a
suoni prodotti da qualcuno che non possiamo vedere, ad esempio a teatro, fuori scena. Ma il
senso di questa assenza, di questa distanza viene dalla coscienza che realmente c’è qualcuno
in un altro luogo che emette dei suoni, tali da poterne riconoscere la voce, il timbro, ecc.
Questo non può accadere con la musica elettronica, soprattutto con i suoni di sintesi: non ho
distanza perché non c’è distanza alcuna tra il suono registrato e quello “reale”, mi è
impossibile dire con esattezza dove si trova questo suono e, nello stesso tempo, non c’è
possibilità di riconoscere un timbro. E di conseguenza, un gesto.
E’ sintomatica, in proposito, un’opinione espressa da Adorno (1984:525-529) in breve
saggio del 1928 a proposito del grammofono: sostiene che quando una registrazione è
imperfetta essa è più naturale; l’ascoltatore è maggiormente consapevole della realtà di un
cantante, per esempio, perché i fruscii, gli schiocchi del disco rendono evidente la presenza
dell’intermediario (cioè, del mezzo di registrazione e riproduzione). Più l’incisione si
avvicina alla perfezione e più l’umanità del cantante è annullata, maggiore è l’impressione di
avere a che fare con qualcosa di “irreale”.
Ma, in un concerto di musica acusmatica, anche avendo una voluta imperfezione del mezzo
elettronico, in modo da restituirci una pretesa naturalità del suono, la domanda resta: dov’è il
suono reale, naturale?
Nuovamente utile ci torna una considerazione di Berio: secondo lui, la voce non è uno
strumento reale paragonabile agli strumenti musicali tout-court perché sempre essa esprime
una intenzione, una emozione, qualcosa che può essere detto. In realtà, io credo che qualcosa
di simile si possa dire pure degli strumenti musicali:sempre immaginiamo un suono come
proveniente da qualcuno, sia esso attraverso la sua voce che tramite gesti su uno strumento;
gesti che possiamo (o immaginiamo di) vedere.
Secondo le teorie psicanalitiche di Jacques Lacan, lo sguardo e la voce sono due oggetti
parziali, cioè non appartengono al soggetto che guarda o parla ma appartengono a qualcosa
che ci guarda e ci parla. Per il filosofo lacaniano Slavoij Zizek, la nostra voce è sempre la
risposta al discorso di qualcun altro (1999: 44-47). La musica è il modo che noi umani
abbiamo per esorcizzare l’orrore di incontrare la voce come puro oggetto; ma, ritengo, ciò è
possibile proprio perché noi sempre immaginiamo un soggetto, altro da noi, al di là dei suoni.
Forse, possiamo provare questo disagio quando parliamo al telefono: non vedere il nostro
interlocutore ci mette di fronte alla voce come puro oggetto; e, forse, è l’imperfezione
dell’audio telefonico che ci rende possibile sopportare questo.
Ma potrebbe darsi che il problema rimanga con i suoni “sintetici”: è difficile, per noi,
immaginare un soggetto al di là di questi suoni e ciò ci costringe ad uno spaventoso incontro
ravvicinato del terzo tipo. Un contatto con il perfetto Altro, il completamente Altro, la pura
voce senza soggetto, una presenza fisica non supportata da nessun fantasma. Un’occasione
per avere panico di fronte a puri suoni di cui non possiamo vedere l’autore, né immaginarne i
gesti, il corpo, nemmeno con l’occhio dell’immaginazione. Un terrore già provato da chi, al
contrario, ha visto per la prima volta un soggetto fantasmatico senza alcun supporto del reale:
gli spettatori del primo film della storia del cinema, “L’arrivo del treno alla stazione di La
Ciotat”.
Bibliografia:

ADORNO, THEODOR W.

1984 Nadelkurven. In: Gesammelte Werke, Bd. 19, Musik. Schriften IV, Frankfurt am
Main: Suhrkamp.

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ECO, UMBERTO

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Mc ADAMS, STEPHEN – BIGAND, EMMANUEL

1994. Penser les sons. Psychologie cognitive de l’audition. Paris: Presses Universitaires de
France

MEYER, LEONARD

1956. Emotions and Meaning in Music. Chicago and London: The University of Chicago
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1958. Collected Papers. Cambridge (Mass.): Harvard University Press (Tr. it.
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STRAVINSKIJ, IGOR

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ŽIŽEK, SLAVOJ

1999. Il Grande Altro. Nazionalismo, godimento, cultura di massa. Milano: Feltrinelli

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