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Filippo II, Angelatonio

Spagnoletti
Storia
Università degli Studi di Bergamo
47 pag.

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FILIPPO II

A. Spagnoletti

Capitolo 1: Le fasi della vita

Dalla notte dei tempi


Faramondo, re dei Franchi, muore nel 427. Con lui inizia la più antica, continua e nobile
successione di re: quella appartenenti alla casa d’Asburgo. Dal tale date inizia la genealogia di
Carlo V, figlio di Filippo I, nipote di Massimiliano I, fratello di Ferdinando, discendente dai duchi
austriaci e dai re di Spagna, primo dei quali fu Pelayo. Da Pelayo si dispanò per oltre 900 anni,
attraverso uomini e donne in maniera continuativa la linea dei re di Spagna. La successione
ininterrotta assicurava il formarsi, l’esibizione di una continuità dinastica che appariva benedetta
dal cielo. È questo il caso della casa d’Austria, famosa non solo per la sua durata ma soprattutto per
aver allineato nei suoi alberi genealogici uomini e donne di valore e di bontà. Gregorio Leti
racconta che Carlo si accontentò di discendere da Rodolfo, conte di Habsburg. Un giorno, Rodolfo,
che per riprendersi dalle fatiche delle guerre, si dedicava alla caccia, incontrò lungo la strada un
uomo che portava il viatico da somministrare a un agonizzante. Il conte scese da cavallo e lo
accompagnò alla capanna dell’uomo da questo episodio sarebbero stati stimolati tutti i suoi
successori a riempire la propria vita con atti di pietà e di zelo, onde guadagnarsi quel favore divino
che avrebbe assicurato nei secoli la fortuna di casa d‘Austria. La vittoriosa lotta contro i regni
moreschi della penisola iberica, culminata nella conquista di Granada nel 1492, aveva convinto i re
castigliani e aragonesi di essere i favoriti del Signore, sul che conveniva anche papa Alessandro VI
che conferì nel 1496 a Ferdinando di Aragona e a Isabella di Castiglia il titolo di re cattolici che
ancora oggi portano i sovrani di Spagna. Quel titolo era superiore a quello di Cristianissimo
attribuito ai re di Francia da una Chiesa che si definiva cattolica e non cristiana, e che premiava, in
questo modo, le qualità di sovrani, come quelli spagnoli, che al momento di salire sul trono
giuravano di essere cattolici e di non tollerare l’esercizio di altre fedi nei propri regni. Per tornare al
tema del favore divino concretizzato con la continuità dinastica, bisogna dire che essa fu messa in
pericolo al tempo di Filippo II il quale solo dal suo quarto matrimonio ottenne il figlio maschio
destinato a succedergli. Inoltre i fratelli e i successivi imperatori Rodolfo (1576-1612) e Mattia
(1612-1619) non ebbero figli. In questo caso venne in aiuto la linea cadetta originata da Carlo,
figlio di Ferdinando I, che fornì al Sacro Romano Impero Ferdinando II (1619-1637).

Le età dei re
Filippo II nacque il 21 maggio 1527 a Valladolid e morì all’Escorial il 13 settembre 1598. Egli fu il
primo degli Asburgo sovrani dei regni spagnoli ad essere nato in una città iberica. Visse poco più di
71 anni, molto di più dei suoi parenti: Carlo V visse 58 anni, il nonno Filippo 28, e i suoi diretti
successori, Filippo III, Filippo IV e Carlo II 43, 60 e 39 fu quindi il più longevo sovrano della
dinastia degli Austrias. Che si avvicina alla sua età è la regina di Inghilterra Elisabetta, vissuta dal
1533 al 1603, che però regnò per 45 anni, mentre Filippo solo 42, dal 1556. Nessun paragone è
possibile con i re di Francia della seconda parte del XVI secolo, solo nel secondo 600, con Luigi
XIV si ebbe un re che superò abbondantemente i 70 anni. Coloro che ai avvicinarono all’età di
Filippo II o la superarono, erano i pontefici. Dei 9 papi che attraversarono il regno del re Cattolico

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due morirono a 83 anni (Paolo IV e Gregorio XIII). Ma, la lunga durata della loro vita non coincise
con una altrettanto lunga durata del loro pontificato. Se rivolgiamo il nostro sguardo ai principi
d’Italia, i più longevi sono i Savoia con Emanuele Filiberto (52 anni di vita) e con il figlio Carlo
Emanuele I vissuto 68 anni e duca per 50 anni. Per quanto riguarda i Medici, fu Cosimo III il più
longevo (1639-1723). La lunga durata della vita dei papi sovente non si accompagnava alla lunga
durata del loro regno. Coloro che regnarono per più tempo furono Gregorio XIII (1572-1585) e
Clemente VIII (1592-1605), gli altri regnarono 5-6 anni. La longevità biologica sembra in
contrapposizione con la durata dell’esercizio, ma questo non deve stupire in quanto la volontà dei
cardinali era eleggere pontefici che non fossero destinati a esercitare per lungo tempo l’immenso
potere di cui disponevano. Per quel che concerne Filippo II, la sua permanenza sui troni della
monarchia ispanica fu ancora più lunga se si considera che prima dell’abdicazione del padre, egli fu
insignito del titolo di Duca di Milano nel 1554 e poi re di Napoli.

Natalità e mortalità degli infanti


Mentre i re di Francia toccavano la maggiore età a 14 anni in quanto si ritenevano accompagnati da
un certo favore divino, i sovrani spagnoli diventavano adulti più tardi. Filippo II divenne sovrano
effettivo in età adulta, egli, come tutti i suoi successori (tranne Carlo II), non ebbe bisogno di
reggenti o tutori, a differenza dei re di Francia della dinastia di Valois, Francesco II e Carlo IX, e di
quella dei Borbone, Luigi XIII e Luigi XIV, sottoposti alla reggenza delle loro madri. L’ascesa al
trono in età adulta non significa che gli avvii del regno del nuovo sovrano fossero tranquilli, ma
certamente evitava lo scontro tra gruppi legati al re defunto e quelli che si raccoglievano intorno
alla regina madre, donna di origini straniere e che quindi influenzava altri soggetti politici. La
mortalità infantile falcidiava abbondantemente la figliolanza dei sovrani, come quella dei comuni
mortali, e si accompagnava spesso alla morte per parto delle madri. Carlo rimase vedovo nel 1539
della moglie Isabella che morì 4 giorni dopo aver partorito un bambino nato morto e Filippo nel
1545 della prima moglie Maria Manuela. Dei 5 figli che Carlo V ebbe dalla prima moglie, 3
sopravvissero alla nascita e raggiunsero l’età adulta, tra questi solo uno era maschio, Filippo.
Filippo ebbe un figlio da Maria Manuela d’Aviz (don Carlos) nessuno da Maria Tudor, cinque da
Elisabetta di Valois, ma tre nacquero morti, e l’aborto di uno dei 3 provocò la morte della
ventitreenne regina, cinque da Anna d’Austria, 4 dei quali morirono entro il settimo anno di età.
Alla morte del principe Carlos, Filippo non aveva un erede. Esso sembrò arrivare con Ferdinando,
poi con Carlos Lorenzo e infine con Diego, tutti scomparsi in tenera età. La morte di quest’ultimo
nel 1582 portò il quartogenito Filippo nato nel 1578 a diventare il successore del padre. La
mancanza di un erede maschio tra il 1568 e il 1575 provocò il sorgere di aspettative nell’altro ramo
della famiglia d’Asburgo, in particolare nell’imperatore Massimiliano II che pensò di poter far
salire un suo figlio. Nel 1578 morì, a meno di 7 anni il principe Ferdinando, allora erede della
monarchia. Questo evento rappresentò un duro colpo per Filippo che vedeva in lui un degno
successore. Nel 1582 morì l’altro maschio, Diego, anche lui a 7 anni. Il decesso di Ferdinando era
stato preceduto dalla nascita di Filippo, unico maschio che sarebbe sopravvissuto al padre. Il re
aveva investito molto emotivamente sul figlio Ferdinando anche perché era nato due mesi dopo la
battaglia di Lepanto (7 ottobre), per cui sembrava un dono divino al monarca che aveva sconfitto i
turchi. Più fortunati per quel che riguarda il destino dei loro figli, furono Ferdinando, fratello
dell’imperatore Carlo e zio di Flippo, che da un’unica moglie, Anna Jagellona ebbe 15 figli, uno
solo dei quali non toccò l’adolescenza, e il figlio Massimiliano che da Maria, sorella di Filippo II
sposata nel 1548, ebbe 16 figli di cui la metà raggiunse l’età adulta.

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Le regine
Sposate spesso in tenera età, in modo tale che potessero condurre numerose gravidanze, il potere
che le consorti avevano in primo luogo era quello che le derivava dall’essere madri, specie
dell’erede al trono, e di assicurare in questo modo la continuità dinastica dando soddisfazioni al
marito e ai cortigiani. Ma la loro funzione non si limitava a questo: le regine straniere (raramente un
sovrano sposava una sua suddita) costituiva un collegamento tra le due dinastie, fungendo da
mediatrici. Sovente esse assumevano la carica di governatrici e reggenti in assenza del marito che
delegava loro temporaneamente il governo dello stato o di un regno. È quanto avvenne nel regno di
Carlo V che si servì ripetutamente della moglie Isabella come reggente dei reami iberici durante le
sue assenze e della figlia terzogenita Giovanna, che si ritrovò a supplire anche alle assenze di
Filippo, sia quando egli era il reggente, sia quando era re effettivo. Vedova del principe portoghese
Giovanni, abbandonata Lisbona e il figlio Sebastiano nato postumo, Giovanna tornò in Spagna per
fungere da reggente in Castiglia e in Aragona in assenza del re Carlo e del suo sostituto Filippo che
la istruì negli affari della monarchia, della politica della giustizia e sulla presenza delle cerimonie
religiose insomma doveva comportarsi coma una sovrana effettiva, cosa che lei fece governando la
Spagna dal 1554 al 1559 in assenza del fratello. Aveva deciso di servire gli interessi della sua casa
e per questo rifiutò moltissime proposte di matrimonio. Carlo V utilizzò pure la sorella Maria e la
figlia naturale Margherita nel governo dei Paesi Bassi, seguendo una tradizione iniziata con l’altra
Margherita, figlia di Massimiliano I, che tra il 1480 e il 1530 era stata governatrice di quel paese.
Insomma quello di Carlo e poi del figlio fu un governo caratterizzato da una forte cooperazione
femminile. Per quel che riguarda il potere informale di cui erano titolari: davano consigli al marito,
educavano i figli, partecipavano ai riti della regalità accreditando la visione di un potere sovrano
che poteva esprimersi attraverso i due corpi del re, quello maschile e quello femminile.

Le quattro mogli di Filippo II


Filippo II perse il padre in età adulta, quando aveva 31 anni, ma nel 1539 a 12 anni perse la madre,
Isabella d’Aviz, figlia di Manuele I, re di Portogallo, e di Maria, a sua volta figlia dei re Cattolici
Ferdinando di Aragona e Isabella di Castiglia, e cugina di Carlo che aveva sposato nel 1526. Dal
matrimonio erano nati 5 figli, due morti appena nati e 3 (Filippo, Maria, Giovanna) che avrebbero
raggiunto l’età adulta. Giovanna nel 1552 sposa Giovanni Manuele di Aviz. Isabella e Giovanna con
il loro matrimonio avrebbero rafforzato la connessione ispano-portoghese. Questi matrimoni
incrociati avrebbero consentito a Filippo di accampare i propri diritti di successione al trono
portoghese quando la dinastia regnante degli Aviz si estinse. La quarta moglie di Filippo II fu Anna,
figlia di Massimiliano II che, a sua volta aveva sposato Maria, figlia del re. L’estinzione della
dinastia degli Austias pose fine ai matrimoni endogamici tra uomini e donne della stessa casata, ma
probabilmente essi sarebbero lo stesso terminati a causa dell’allentamento dei rapporti tra Spagna e
Austria dovuti al ridimensionamento della prima sugli scenari europei con le paci di Westfalia e dei
Pirenei e dalla sempre più accentuata germanizzazione dell’impero che apriva prospettive
matrimoniali più proficue nei principali territoriali tedeschi. Ma, per il momento la connessione
ispano-imperiale funzionava ed era la Spagna a dirigere le danze. Filippo non sposò donne la cui
condizione avrebbe avvilito il suo illustre lignaggio: si sposò a 16 anni con Maria Manuela che
aveva la sua stessa età ed era di rango appropriato. Dopo la morte di questa passò 9 anni da vedovo
e nel 1554 sposò di mala voglia Maria Tudor. Nel 1559 sposò la figlia di Enrico II di Francia,
Elisabetta, che aveva meno di 14 anni, alla quale aspirava Emanuele Filiberto, che però dovette
accontentarsi della 36enne sorella del Valois, Margherita. Al suo quarto matrimonio nel 1570 il re

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aveva 43 anni e Anna d’Austria 21. Costei, nata in Spagna, fu la prima arciduchessa ad occupare il
trono spagnolo.

Diventare moglie
Abbiamo sottolineato che Filippo sposò donne che potevano essere sue figlie, in effetti sia
Elisabetta che Anna erano state destinate al principe Carlos che però morì. Solo il primo
matrimonio di Filippo fu equilibrato dal punto di vista dell’età (1527 entrambi), mentre il secondo
con Maria Tudor era fra una donna di 38 anni e un uomo di 27, ma la prospettiva che un figlio nato
da quel matrimonio potesse un giorno ascendere al trono inglese, valeva il sacrificio. Già abbiamo
detto che il compito delle regine era soprattutto quello di garantire la pace tra due sovrani. Per
esempio Elisabetta di Valois fu denominata “reina de la paz” perché avrebbe significato un
cambiamento nelle relazioni tra Spagna e Francia che si erano combattute per tutta la prima metà
del 500. Le spose erano spesso bambine o adolescenti, obbligate spesso a lasciare per sempre la
propria patria, usi e costumi. Solo quando avevano avuto dei figli maschi che raggiungevano l’età
che li poneva al riparo dalla morte postnatale, la regina consorte si nazionalizzava e seguiva il
destino dei figli che diventava il suo destino. Per la sposa il primo trauma si aveva quando veniva
consegnata, insieme a cardinali, vescovi, parenti, al marito, la cui presenza altro non serviva se non
a far meglio comprendere alla fanciulla straniera il mutamento della sua nazionalità e la potenza del
marito e dei suoi sudditi. Quando la sposa arriva nella patria di adozione non incontra subito lo
sposo, ma è in una località diversa da quella della consegna lo sposo lascia che siano altri, nobili,
ecclesiastici, ad accogliere la nuova regina con cortei, feste, fuochi d’artificio. La sposa può subito
far conoscenza delle più alte personalità del nuovo paese e ciò fa anche crescere il desiderio di
incontrare il marito. La consegna della sposa agli emissari del marito avviene sulla raya (confine)
dei due paesi. Questa diventa il luogo della pace ove si dispongono i due seguiti non per combattere
ma per celebrare l’unione foriera di pace. Vediamo ora l’ingresso delle mogli di Filippo nelle città.
La sedicenne Maria Manuela, accompagnata dall’arcivescovo di Lisbona e dal duca di Braganza,
entrò in Spagna dove fu accolta dall’arcivescovo di Toledo. Nelle terre del duca d’Alba si tenne una
partita di caccia, poi la Aviz si diresse a Salamanca, luogo per la celebrazione delle nozze.
L’ingresso della principessa in città il 12 novembre 1543 fu salutato dal corteo delle autorità civili
ed ecclesiastiche. Elisabetta fece la sua entrata a Toledo e poi andò a Guadalajara dove incontrò
Filippo e la principessa Giovanna. A Toledo, capitale della Spagna, la accolsero squadroni di
cavalleria e compagnie di fanteria, i cavalieri degli ordini militari. Fu eretto un arco trionfale con
scene storiche e mitologiche alla porta di Viasagrada e un altro all’ingresso della cattedrale. Un
numeroso popolo assisteva all’entrata e i balconi e le piazze erano state addobbate. La quarta
moglie fu Anna d’Austria, figlia di Massimiliano II e nipote del re, sposata nel 1570. Sbarcò a
Santander, partita dalle Fiandre. A Segovia ebbero luogo le nozze. Il 26 ottobre fece il suo ingresso
a Madrid.

La morte della regina


Se la regina sopravviveva al marito tornava nella sua patria e diventava una risorsa per i parenti.
Questo avvenne con le sorelle e le zie vedove di Carlo V che furono utilizzate dall’imperatore in
affari politici, e con la sorella di Filippo, Giovanna. L’altra sorella di Filippo, Maria vedova di
Massimiliano II, tornò invece in Spagna nel 1582 ma non ricoprì incarichi ufficiali di governo,
rinchiudendosi invece in un monastero. A coloro che morivano prima del marito erano dedicate
solenni esequie che seguivano precisi rituali che tendevano a rimarcare la loro religiosità e la loro

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fedeltà coniugale. Al decesso di Isabella avvenuto nel 1539 seguì un funerale di grande portata
simbolica. L’imperatore decise di trasportare la salma a Granada con un corteo che raccoglieva via
via gli abitanti, ma una volta giunti alla cappella il corpo fu trovato molto decomposto. Nella
cattedrale di Granada fu traslato pure il corpo di Maria Manuela. Sul letto di morte di Elisabetta,
Filippo la ascoltò molto attentamente: le sue parole erano piene di rammarico per non aver dato al
marito un figlio maschio, e gli ultimi suoi pensieri erano rivolti anche a coloro che l’avevano
seguita dalla Francia e voleva impegno per difendere nella sua patria la fede cattolica. La sua
condotta davanti alla morte rispondeva ad un modello che esaltava il completo abbandono nelle
mani di Dio e la futilità delle gioie mondane e presentava l’immagine di una regina santa in vita e
ancora più santa in punto di morte. Anna, l’ultima moglie morì di peste ma superò le altre 3 in
fecondità. Filippo fu quindi poco fortunato nei suoi matrimoni, ebbe 4 mogli ma le perse tutte in
giovane età. All’età di 57 anni tentò di intraprendere un altro matrimonio, con Elisabetta d’Austria,
sorella di Anna e regina vedova del re di Francia Carlo IX, ma nessuna regina di Francia si era mai
risposata e poi questa aveva fatto voto di castità, come gli fece notare Caterina de’ Medici.

Riti e cerimoniali di ingresso: i battesimi


Il parto della madre di Filippo, Isabella, fu molto difficoltoso, durò 6 ore e Isabella si astenne dal
gridare perché stava mettendo al mondo un figlio che sarebbe stato causa di gioie. Fatale fu per lei
il parto di un bambino nato morto 12 anni dopo. Maria Manuela di Portogallo, appena dato alla luce
a Valladolid il principe Carlos, fu abbandonata dalle donne che l’avevano assistita per andare al
rogo di alcuni eretici. Rimasta sola, si alzò dal letto e mangiò un melone, 4 giorni dopo morì. Le
cose non erano andate bene pure per Filippo, il quale nacque 15 giorni prima del saccheggio di
Roma. Carlo V ordinò di sospendere tutti i festeggiamenti per la nascita dell’infante e di
festeggiarlo con una cerimonia in tono minore. Dato quel che era accaduto a Roma, si pronosticava
che Filippo sarebbe stato la rovina della Chiesa, invece il re si segnalò per la venerazione e
l’obbedienza a essa, lo scudo della religione cattolica, anche se la sua prima guerra fu contro un
pontefice romano. Il battesimo dei principi era un vero e proprio rito di inclusione. Era uno
spettacolo in onore del sovrano e della sua casata, in cui si teatralizzavano le virtù famigliari e
quelle personali dei genitori che si auspicava potessero ricadere sul battezzando. Per far questo nei
momenti più solenni del rito dovevano esserci le massime autorità civili e religiose. I rituali
dinastici erano sempre rituali politici. Pur non essendo un rito che coinvolgeva le masse della
popolazione, il battesimo di un infante di sangue reale era pur sempre un evento che produceva la
felicità dei sudditi in quanto li rafforzava nella speranza di avere signori della stessa casa del
sovrano regnante. Il 5 giugno, 15 giorni dopo la nascita, Filippo fu battezzato a Valladolid nel
convento di San Pablo. Tra i padrini vi furono la sorella di Carlo V, Eleonora, regina di Francia e
moglie di Francesco I. Nel 1566 il battesimo della figlia di Filippo e di Elisabetta, Isabella Clara
Eugenia, vide un conflitto di competenza tra il vescovo di Segovia, nella cui diocesi era avvenuta la
nascita, e l’arcivescovo di Santiago. La controversia terminò quando il re chiamò ad officiare il
sacramento il nunzio apostolico Giovanni Battista Castagna. Padrini furono il principe don Carlos e
la zia principessa Giovanna. Nel 1573 il battesimo di Carlos Lorenzo seguì lo stesso schema, ma il
suo battesimo fu frettoloso, essendo morta la madre nel darlo alla luce. Ben più solenne fu quello di
Ferdinando, nato con felicissimo parto della regina Anna nel 1571. Ferdinando era l’unico figlio
maschio vivente del re e pertanto era l’erede della monarchia per questo gli fu riservata una
cerimonia degna del suo rango, padrino fu ancora la principessa Giovanna. Infatti quando essa morì
nel 1573 fu pianta dal re e dalla regina che la considerava coma una madre.

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La paideia, il viaggio per conoscere e per governare
Già il battesimo mostrava il prevalere della dimensione politico-dinastica del rito su quella
religiosa. Affidato il bambino alla cura delle balie, si trattava ora di costruire un percorso educativo
che avrebbe dovuto farne un buon principe ponendo in secondo piano gli aspetti sentimentali o
affettivi che avrebbero potuto ostacolare la crescita del sovrano. Non che questi aspetti non ci
fossero, ma spesso l’assenza dei padri e delle madri o la corte che si affiancava al bambino, tendeva
a isolarlo ancora di più dai genitori. Di Filippo era stata salutata la venuta al mondo senza
particolari manifestazioni, che si ebbero invece il 10 aprile 1528 quando nel monastero di San
Geronimo di Madrid si tenne la cerimonia ufficiale di presentazione dell’infante alla nazione.
Seguirono feste pubbliche, tornei, corride. L’imperatore affidò l’infante alle cure di Isabella e subito
dopo ripartì e non lo vide per sei mesi. Fino a 7 anni Filippo stette a Toledo vegliato dal cardinale
de Tavera al quale il principe rimase legato fino alla morte. Poi la gestione dell’educazione tornò
nelle mani dell’imperatore. Silìceo, professore di filosofia morale e di teologia nel collegio di San
Bartolomeo a Salamanca, fu la persona deputata a dirigere in primo tempo la formazione del
giovane principe, in seguito fi sostituito da Juan de Zuniga, membro del consiglio di Stato, ma non
mancarono a rendere più completa la sua formazione, teologi dottissimi tra i quali Juan Luis Vives.
Gli insegnarono a leggere e a scrivere, la matematica, la lingua latina, italiana e francese e
l’architettura. Particolare rilievo avevano la storia e la geografia. Cabrera de Cordoba sottolinea che
il principe deve ascoltare i ragionamenti di uomini saggi, guardare quadri che sollevino il suo
animo, si deve accontentare di poco a tavola, non deva mai essere lasciato solo, deve essere
esercitato nella caccia e nell’equitazione, saper maneggiare le armi e giocare a palla. L’educazione
del principe che comprendeva discipline letterarie e tecniche e pratiche di irrobustimento fisico,
aveva lo scopo di prepararlo alla vita di corte. Il percorso educativo assomigliava in parte a quello
riservato agli altri nobili, ma se ne distanziava sia perché l’istruzione si svolgeva nell’ambito della
corte e non negli spazi privati del palazzo sia perché aveva il fine di formare un uomo che fosse in
grado di formare utilmente la sovranità e di mostrare che le sue capacità non erano solo il frutto
della successione dinastica ma anche di una dura preparazione al mestiere di un re saggio. Questa
preparazione comportava anche la conoscenza pratica dei paesi e dei sudditi sui quali il principe
avrebbe un giorno regnato. Questi viaggi erano allo stesso tempo un rito di iniziazione, un mezzo
per consolidare il senso di fedeltà degli abitanti dei luoghi visitati, e assumevano spesso l’aspetto di
un trionfo, come fu quello di Carlo V in Italia al ritorno dell’impresa di Tunisi. Il momento più alto
di questi viaggi era rappresentato dalle entrare, regolate da un minuzioso cerimoniale. Non furono
molti i viaggi che Filippo compì fuori dalla Spagna a differenza del padre. Prima di succedere al
padre ne compì uno in Italia, in Germania, nelle Fiandre e uno in Inghilterra, poi fu nuovamente
nelle Fiandre, in Inghilterra, ormai re di Spagna, nelle Fiandre in occasione dell’ultima campagna
militare contro la Francia e nel 1580 in Portogallo. I viaggi che egli effettuò furono altamente
simbolici, il primo nelle Fiandre per farsi conoscere come futuro sovrano, quello in Inghilterra per
sposarsi, il secondo nelle Fiandre per assistere all’abdicazione del padre e il terzo per seguire da
vicino la campagna militare contro la Francia di Enrico II, culminata nella pace di Cateau-
Cambresis, quello in Portogallo per simboleggiare l’ascesa al trono del regno lusitano. Vero viaggio
di istruzione e di presa di possesso fu quello che fece tra il 1548 e il 1551 per raggiungere i Paesi
Bassi attraverso l’Italia settentrionale e la Germania. Il viaggio fu voluto da Carlo, perché
riconoscendo nel figlio numerose virtù, volle che si facesse conoscere da quelle popolazioni come
suo erede in modo da troncare le ambizioni della governatrice Maria che voleva trasferirli a un suo
eventuale marito. Filippo non accolse di buon grado l’invito del padre, sia perché avrebbe dovuto

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attraversare l’Italia che versava in una situazione politica non buona, sia perché aveva problemi a
esprimersi in una lingua che non fosse il castigliano sia perché aveva una tresca. Ad Alcalà attese
l’arrivo del duca d’Alba che lo avrebbe scortato in questo viaggio. Da Alcalà si recò a Valladolid
dove ci furono le nozze del cugino Massimiliano da Barcellona. Poi Filippo partì in direzione di
Rosas, qui si imbarcò sulla flotta comandata da Andrea Doria che lo condusse a Genova. Qui fu
alloggiato nel palazzo del Doria e si trattenne per alcuni giorni ricevendo le visite dei notabili della
Repubblica e delle loro dame. Ma in quei giorni avvennero disturbi nella città perché i genovesi
pensavano che i soldati al seguito del principe fossero li per costruire una fortezza e si sollevarono,
ma Doria riuscì a calmare le acque. Filippo poté cosi entrare tranquillamente in città per poi passare
dopo pochi giorni a Milano. Qui fece una sontuosa entrata sotto lo sguardo vigile di Ferrante
Gonzaga, che già lo aveva omaggiato a Genova. In suo onore furono rappresentate commedie, feste,
balli, banchetti. Da Milano, nel gennaio 1549 si diresse verso Trento e poi verso Bruxelles dove
c’era anche il padre. Da qui si mosse per visitare quasi tutte le altre località dei paesi bassi nelle
quali farsi riconoscere. Nel 1551 intraprese la strada del ritorno. Il viaggio era stato un grandissimo
successo per Filippo e per la sua dinastia. Ogni tappa era contrassegnata da festose entrate. Il prezzo
però che le popolazioni dovevano pagare per essere state gratificate dalla visita del loro futuro re
era pesante: oltre alle spese dovevano dare al principe numerosi regali che certamente superavano il
valore dei regali che lui faceva a loro. Filippo II fu l’ultimo re di casa Asburgo a venire in Italia,
bisognerà attendere Filippo V di Borbone che visitò la penisola nel 1707. Tuttavia la penisola fu
attraversata da principesse asburgiche che compivano il tragitto dalla Spagna all’Italia o viceversa:
per esempio l’imperatrice vedova Maria nel 1582, a sei anni dalla morte del marito Massimiliano II
da Praga intraprese la via verso la Spagna passando per l’Italia. Entrò in Italia dal Friuli e scese su
Genova dove si imbarcò per la Spagna. Il convoglio era preceduto da squadre di soldati e seguito
da 100 carri di robe, donne di servizio. C’era anche Massimiliano, figlio dell’imperatrice, che
precedeva la lettiga dove c’erano Maria e la figlia Margherita. La comitiva non fu minimamente
toccata dalla peste che vigeva nei luoghi attraversati. Il viaggio andò a buon fine nonostante il
clima freddo e l’alta neve i rischi e le condizioni dei viaggi toccavano anche persone di sangue
reale.

Capitolo 2: Di padre in figlio

Principi delle Asturie e re delle Spagne


Il 25 luglio 1554, prima che iniziasse la cerimonia tra Filippo e la regina Maria I Tudor, il principe
ricevette un comunicato con il quale diventava re di Napoli e duca di Milano, in questo modo la
regina avrebbe sposato un re. Fino ad allora, Filippo era principe delle Asturie. Tutti gli infanti
primogeniti di Spagna ebbero il titolo di principe delle Asturie che sarebbe dovuto ricadere su un
solo individuo. Filippo II invece, nel corso della sua vita, fece giurare in successione come principe
delle Asturie quattro suoi figli, uno solo dei quali (l’omonimo Filippo) gli sarebbe sopravvissuto.

Come si diventa re in Spagna


Nei reami spagnoli non avveniva l’incoronazione, come in Inghilterra, in Francia, e neanche
l’unzione, al loro posto, aveva luogo una solenne cerimonia in cui il corpo politico della nazione
giurava fedeltà al nuovo re o riconosceva l’infante primogenito come futuro successore. Al
riconoscimento seguiva il giuramento del re di rispettare i diritti e i privilegi dei propri sudditi.
Quando la regina Maria I Tudor morì nel novembre 1558, Filippo aveva già assommato su di sé la

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maggior parte dell’eredità paterna. Anche se bisognerà attendere il 1555-1556 perché egli divenisse
signore a pieno titolo dei Paesi Bassi e della Franca Contea, della Castiglia, dell’Aragona e della
Sicilia, già negli anni precedenti era stato giurato come erede di Carlo dalle istituzioni
rappresentative di quei paesi. Nel regno di Navarra Filippo era stato giurato signore naturale del
paese sin dal 1551, in quello di Napoli, in cui era divenuto sovrano nel 1554 il giuramento dei
sudditi avvenne nella capitale, infine nel 1581 avvenne il reciproco giuramento del re e dei
rappresentanti della nazione portoghese. Filippo giurò di rispettare l’autonomia del paese e le
cortes, a loro volta, gli giurarono fedeltà. Il figlio del re, Filippo III nato nel 1578, sarebbe stato
giurato in Portogallo nel 1583, in Castiglia e Leon nel 1584, nei regni della corona d’Aragona nel
1585 e in Navarra nel 1586. Egli fu il primo principe che fosse giurato in tutta la spagna.

Apprendere l’arte di governare


Il compito del re è quello di produrre nuove leggi e far applicare la giustizia, ma questo non basta,
servono anche istruzione ed esperienza. Se la prima può essere impartita servendosi di buoni
maestri, la seconda Carlo V la trasmesse al figlio con una serie di istruzioni nelle quali compartiva
l’esperienza di tutta una vita di governo e delineava i principi morali ai quali il principe si doveva
attenere e i modelli di comportamento che doveva seguire nello sbrigare gli affari interni ed esterni
del regno. Nel maggio 1543, mentre attendeva di imbarcarsi per l’Italia, dopo aver proclamato
Filippo reggente nei regni ispanici e avergli dato in sposa Maria Manuela di Portogallo, Carlo gli
indirizzò una serie di istruzioni che si configuravano quasi come un testamento politico.
L’imperatore riconosceva al figlio l’età immatura per assumere il pesante incarico di reggente. Su di
lui invocava l’assistenza divina e gli consigliava di circondarsi di uomini saggi ed esperti, di essere
attento all’onore e alla reputazione, amico della giustizia e misericordioso. Gli consigliava di
impratichirsi nell’uso delle lingue e di non lasciarsi andare a eccessi di natura sessuale. All’inizio
del 1548 Carlo, stanco e ammalato, stilò nuove istruzioni per il figlio. In 62 punti Carlo spaziò dai
soliti precetti di natura morale ad un’attenta disanima della situazione internazionale: esortava il
figlio ad essere fedele alla Chiesa, lottare contro le eresie, assegnare i benefici alle persone degne,
ad agire avendo sempre in mente la pace, a rimanere legato allo zio Ferdinando favorendo la sua
stabilità in Germania, proteggere l’eredità borgognona dalle mire della Francia, promuovere la
giustizia nelle Indie e proteggere i nativi. Doveva risposarsi con la figlia del re di Francia, Maria
con Massimiliano e Giovanna con il principe del Portogallo, il che avvenne regolarmente. Se poco
c’erano in questo testamento indicazioni sul governo interno della Spagna e dei territori dipendenti,
in quelle del 1555 si torna a dar posto ai precetti di carattere generale che devono illuminare il
percorso di un principe che si accinge a salire al trono. Carlo convocò a Bruxelles Filippo che era in
Inghilterra in veste di marito di Maria Tudor. Sono istruzioni che si dilungano sui soliti precetti
validi per qualsiasi principe (si faccia amare dai suoi popoli, persegua la giustizia, si circondi di
uomini abili ecc.) ma l’elemento di novità era l’indicazione a Filippo di tenere a freno la tendenza
degli spagnoli a comandare tutto con troppa arroganza e ciò poteva essere la rovina dei Paesi Bassi.
Filippo fu un attento esecutore delle istruzioni del padre. Egli si dimostrò un buon alunno per le sue
capacità ma anche perché si servì di uomini provenienti dalla Castiglia, Italia e Fiandre che avevano
acquisito una mentalità imperiale e che seppero giocare un ruolo decisivo in una politica che aveva
come obiettivo l’affermazione dell’egemonia ispanica in Europa.

Il matrimonio inglese

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Filippo, vedova di Maria Manuela dal 1545 avrebbe dovuto sposare la cugina Maria, principessa
portoghese, ma le trattative matrimoniali fallirono perché dovette obbedire al padre e sposare Maria
Tudor. Ella era quintogenita di Enrico VIII Tudor e di Caterina d’Aragona. Il padre aveva fatto si
che essa e la sorellastra Elisabetta fossero dichiarate illegittime e poi fossero reintegrate nei loro
diritti al secondo e terzo posto nella linea di successione alle spalle di Edoardo, figlio del re e di
Jane Seymour, e dei suoi eventuali figli. Edoardo non ebbe discendenza e alla fine del suo regno
manipolò la successione designando come erede Jane Grey, nipote della sorella minore di Enrico
VIII Maria. Jane si ritenne regina d’Inghilterra per pochi giorni ma Maria, sostenuta dal parlamento
e dall’esercito divenne regina a sua volta. Jane, il marito e il padre furono giustiziati. Carlo V
riteneva che il matrimonio del figlio con la regina avrebbe cementato la tradizionale alleanza
dell’Inghilterra con la Castiglia. La regina ambiva la matrimonio con Filippo e cosi respinse la
proposta di Ferdinando che avanzava la candidatura del figlio Massimiliano. Filippo invece non
voleva sposarla, sia per ragioni anagrafiche, sia perché sapeva dell’ostilità degli inglesi nei
confronti di uno straniero. Per buona sorte degli inglesi, il matrimonio tra i due non produsse figli e
quindi eredi, questo ancora però non si sapeva, cosi laboriosi furono gli accordi matrimoniali, che
limitarono di molto ogni possibile influenza di Filippo sulle cose inglesi. Maria avrebbe concesso in
dote al suo sposo il titolo di re di Inghilterra, e se dal matrimonio fossero nati dei figli, l’erede
primogenito sarebbe salito al trono e avrebbe regnato sull’Inghilterra e sui Paesi Bassi che
l’imperatore avrebbe ceduto alla coppia, mentre a Don Carlos sarebbe stato mantenuto il patrimonio
del padre che sarebbe andato invece agli eventuali figli di Maria e Filippo in caso egli morisse
senza eredi diretti. Dopo aver dato le ultime istruzioni alla principessa reggente Giovanna, si
imbarco su una nave nel luglio 1554 zeppa di soldati e di uomini appartenenti alla più alta
aristocrazia. Sbarcò a Southampton e incontrò a Winchester la regina e il 25 luglio avvennero le
nozze, ma le differenze si videro subito: la regina era Maria e Filippo non era che il re consorte. Lo
stretto margine di azione di Filippo non gli impedì di cercare di temperare in ogni modo la
sanguinaria politica della moglie tendente al ripristino del cattolicesimo nel regno. Il parlamento
approvò e questa fu la più grande vittoria della Chiesa di Roma anche se era alta la minoranza
cattolica sul suolo inglese. Nei brevi anni della sua permanenza in Inghilterra Filippo diede prova di
prudenza e tolleranza. Da Londra governava i territori italiani di cui era sovrano. La chiamata di
Carlo arrivò ben presto e Filippo nel 1555 partì per le Fiandre dove seguì tutte le fasi
dell’abdicazione del padre. Egli ripartito dall’Inghilterra nel 1557 dove averci fatto ritorno per
pochi mesi, non l’avrebbe più rivista in quanto morì nel 1558 amareggiata per non essere riuscita a
dare un figlio al marito, per la consapevolezza che le sarebbe succeduta Elisabetta, per la perdita di
Calais e per il matrimonio della regina di Scozia Maria Stuart con il delfino di Francia Francesco,
che avrebbe attanagliato l’Inghilterra in una morsa. Influì certamente sulla salute della regina il
sospetto che il marito stesse tramando perché alla sua morte Elisabetta sposasse Emanuele Filiberto
di Savoia. Con Maria morì anche il cardinale Pole e persero i cattolici in un colpo le tre colonne
sulle quali si sosteneva la loro fede, Maria, Pole e Filippo. Nessuna preoccupazione Filippo
manifestava al pensiero che sul trono inglese sarebbe salita l’anglicana Elisabetta: con lei si poteva
ragionare e imbrigliarla in un matrimonio dinastico, fosse con Emanuele Filiberto o con l’arciduca
Carlo, suo cugino e figlio di Ferdinando. Maria fu una regina clemente, umana, facile nel perdonare
e costante per preservare la fede cattolica.

L’abdicazione di Carlo
Dal 1555 per un anno, Bruxelles fu la capitale d’Europa e costituì il fastoso scenario delle
abdicazioni di Carlo V. Già l’anno precedente l’imperatore aveva devoluto al figlio la titolarità del

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regno di Napoli e del ducato di Milano. Nel 1555 invece gli cedette il magistrato dell’ordine del
Toson d’Oro di pertinenza del ducato di Borgogna, i Paesi Bassi, i regni iberici, la Franca Contea e
la corona imperiale. Commovente fu la cerimonia di abdicazione al governo dei Paesi Bassi: con gli
abiti a lutto per la morte della madre Giovanna, stese il bilancio della propria vita, spiegò le ragioni
della sua abdicazione dovuta a stanchezze e malattie e assicurò tutti che Filippo sarebbe stato degno
dei nuovi incarichi. Filippo si dichiarava grato nei confronti del padre e manifestava la propria
volontà di quei paesi che avrebbe retto con giustizia e ai quali avrebbe mantenuto i privilegi di cui
godevano. Fu poi il momento della governatrice reggente del paese Maria, la quale ricordò di aver
retto le Fiandre per 25 anni e di essersi sforzata di farlo nel miglior modo possibile a beneficio del
fratello Carlo e dei sudditi di quel territorio. Dopo aver formalmente abdicato al governo dei Paesi
Bassi, l’imperatore fece sedere il figlio sul trono, infine prima di imbarcarsi alla volta della Spagna,
Carlo si privò della corona imperiale che fu portata al fratello Ferdinando. Questa decisione rese
furioso il papa Paolo IV che riteneva che l’abdicazione dovesse essere fatta nelle sue mani e che
Carlo non poteva proporre il suo successore ad una corona che si trasmetteva per elezione e non
per successione. Dopo di che l’ex imperatore e le due regine vedove Maria ed Eleonora
abbandonarono i Paesi Bassi, al governo dei quali fin da subito Filippo aveva posto Emanuele
Filiberto duca di Savoia. A meno di 30 anni di età Filippo era re di Aragona, Castiglia, Leon,
Granada, Maiorca, Cordoba, Galizia, Andalusia, Navarra, Valencia, Murcia, Sicilia, Napoli, signore
dei Paesi Bassi, e della Francia Contea e signore degli immensi territori d’oltremare. Ma tanti erano
i pericoli che minacciavano queste terre: alcune parti erano di recente acquisto e non ben disposte
verso il nuovo governo. Senza contare che i territori della monarchia erano eterogenei e non
compatti anche se essi erano collegati dal mare.

I primi anni del regno


Tra i suoi consiglieri nominò Emanuele Filiberto di Savoia, il duce d’Alba, Ferrante Gonzaga e
molti altri. Come si ricorderà Carlo aveva deposto la carica di Maestro dell’Ordine del Toson d’oro
nel 1555. Quello era il più prestigioso ordine dinastico asburgico, era stato fondato da Filippo III di
Borgogna il Buono nel 1429 per celebrare le sue nozze con Isabella d’Aviz ed era originariamente
composto da 31 cavalieri sotto un Maestro che era il duca di Borgogna. Nella prima fase della sua
esistenza fu un ordine prettamente fiammingo che accoglieva anche i sovrani dell’Europa del
tempo; con Carlo V divenne un ordine imperiale nel quale trovarono posto gli uomini che nelle
armi e nel governo lo servivano, per poi accogliere, da Filippo in poi, oltre ai sovrani dell’Europa
cattolica, principi italiani o tedeschi. Era segno di riconoscimento di una relazione privilegiata con
il re incontreremo molti uomini, spagnoli o delle più disparate parti della monarchia che spesero la
propria vita al suo servizio nella consapevolezza che il tosone che li decorava era un grande
riconoscimento della loro posizione nella società e della loro capacità in campo amministrativo e
militare. Periodicamente si tenevano riunioni dei cavalieri (chiamate “capitoli”) in cui si trattavano
questioni relative alla vita dell’ordine e al comportamento dei suoi cavalieri. Neanche il Maestro era
immune da critiche, come avvenne in quella del 1545-1546 tenuta a Utrecht dove fu criticato il
comportamento di Carlo che sorvolava spesso sui privilegi dei cavalieri, si esponeva troppo in
guerra, si era indebitato e pensava di cedere la Borgogna alla Francia, il che non gli avrebbe più
consentito di essere il sovrano dell’ordine. I cavalieri venivano rimproverati di bere troppo, di
parlare con poco rispetto della religione, di essere crudeli verso i propri soldati e di sottrargli le
paghe. Anche Filippo venne criticato: troppo lento nelle sue decisioni e troppo amante della
solitudine. Dopo la riunione di Gand del 1559 l’ormai re decise che era passato il tempo delle

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riunioni plenarie dei cavalieri e dalla Spagna iniziò a procedere a nomine a sua discrezione che
ricaddero su titolati spagnoli, principi italiani, baroni napoletani e romani.

La morte dell’imperatore
Il nuovo re dovette convivere circa due anni con il padre, anche se questi ormai viveva nel convento
a Yuste mentre il figlio continuava a risiedere nelle Fiandre. Influiva sulla situazione politica ma
non manifestava in pubblico la sua presenza, Filippo invece era attivo sugli scenari europei. Il 21
settembre 1558 comunque l’ex imperatore morì e la salma fu traslata anni dopo all’Escorial
dall’altare centrale della chiesa del convento. In tutta la monarchia si tennero grandi celebrazioni
funebri, soprattutto a Bruxelles dove si organizzò un corteo con un carro a forma di nave sulle cui
fiancate c’erano raffigurate tutte le vittorie riportate da Carlo in Africa e in Asia. Dal settembre del
1558 al settembre dell’anno seguente Filippo perse il padre, la moglie e due zie (Eleonora e Maria)e
dovette di continuo affrontare il paragone tra la sua personalità e quella del padre. Filippo per tutta
la sua vita mostrò grande inclinazione alla pace a differenza del padre che indirizzò ogni sua azione
all’accrescimento della gloria.

Condurre due guerre da Bruxelles


Il regno di Filippo iniziò però nel segno della guerra contro i francesi nelle Fiandre e in Italia e
contro il papa nella Campagna romana. È forse perché ricordava l’inizio dei suo regno segnato dalle
guerre che Filippo alla fine della sua vita volle lasciare al suo successore una monarchia che aveva
posto fine ai conflitti. La guerra contro il papa Paolo IV fu paradossale perché a combattersi furono
il Re Cattolico e il Papa. Nella guerra che nel 1556-1557 il papa scatenò contro Filippo II, il re si
ritenne il dovere di continuarla fino alla conclusione, pur se c’era il rischio che perdesse la propria
reputazione. Il papa incarnava due funzioni: una di vicario di Cristo e l’altra di principe temporale
e quindi quando non procedeva come vicario ma come principe utilizzando armi ed eserciti, il re
poteva muovergli guerra, giusta perché si intraprendeva per difesa della religione, per
mantenimento dello stato e per amor suo. Il clan dei Carafa non era però composto da eretici, quindi
il motivo di quella guerra stava nel fatto che Filippo intendeva recuperare la sua reputazione,
sostenere i propri aderenti romani perseguitati dal papa e dimostrare una capacità decisionale tale
da bloccare sul nascere ogni azione di tutti i nemici della Chiesa. Ma cosa era la reputazione ? Essa
è una qualità, un riconoscimento che si acquista e si conserva col mostrare senno e valore, col
difendere la patria da rovine, col mostrarsi nemico degli uomini malvagi, col coprire le proprie
debolezze. Per mantenere la reputazione è necessario che il principe rispetti la parola data. La colpa
di aver creato le condizioni per questa guerra si poteva però attribuire al Duca d’Alba. Uomo di
fiducia di Carlo V che aveva seguito l’imperatore in tante sue imprese e in tante circostanze della
sua vita, mantenne la confidenza del nuovo sovrano, che aveva accompagnato nel viaggio del
1548-1551 e per il quale aveva svolto una funzione in primo piano nei due matrimoni che aveva
contratto fino al 1556. Da Filippo era stato nominato governatore di Milano tra il 1555 e 1556 e poi
viceré di Napoli tra il 1556 e il 1558. Egli fu colui che, di fronte alle provocazioni di papa Paolo IV
ne attaccò lo Stato con una guerra preventiva. La guerra terminò, a differenza degli altri conflitti,
con la gloria di entrambi i contendenti. L’antico odio che papa Paolo IV portava alla Spagna era
causato dalle esemplari punizioni che essa aveva inflitto ai suoi parenti che avevano aderito al
partito francese in occasione della fase italiana della guerra della lega di Cognac e dal veto che
Carlo V aveva posto a che gli occupasse la cattedra arcivescovile di Napoli. Il pontefice,
sospettando che Marco Antonio Colonna tramasse con la Spagna contro di lui, lo privò dei suoi stati

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feudali e li assegnò ai nipoti Giovanni e Antonio. Inoltre rafforzò le fortificazioni di Roma e arrestò
alcuni ministri spagnoli a Roma. Il duca d’Alba, di fronte alla minaccia che si addensava ai confini
del regno di Napoli e ai continui attacchi alla reputazione del suo re, scatenò la guerra, occupò
diverse località della campagna laziale e giunse fin quasi sotto le mura di Roma. Con l’aiuto di un
corpo di spedizione francese e del duca Ercole II d’Este, il papa tentò un contrattacco sul confine
tra l’Abruzzo e lo Stato Pontificio ma fallì per la resistenza dei feudatari abruzzesi. A Venezia,
mediatrice tra le due parti, Filippo ribadì le sue buone intenzioni e il papa volle che gli spagnoli si
ritirassero dai confini napoletani. Ma il duca d’Alba, dopo aver arruolato un più numeroso esercito
a Napoli, rafforzò il confine abruzzese e penetrò nuovamente nel Lazio occupando Ostia e
Fiumicino e minacciando Roma. A Venezia il re comunicò l’esito della battaglia di San Quintino e
nel 1557 impose al suo condottiero di soddisfare il pontefice in tutto quello che voleva. Il viceré si
presentò a Roma non come conquistatore ma come penitente e il papa lo perdonò e lo assolse da
ogni censura. Filippo premiò in denaro i baroni napoletani e romani che si erano distinti a fianco
del viceré il quale poi fu richiamato in Spagna. Il papa quindi, vinto, ottenne delle condizioni
favorevoli e il re non perse la propria reputazione per aver lasciato il duca d’Alba libero di agire
perché vinse la battaglia. Mentre si svolgeva la guerra nell’Italia centro-meridionale era in corso un
latro conflitto ai confini tra le Fiandre spagnole e la Francia. Questa, era scoppiata dopo che la
Francia aveva rotto la tregua quinquennale di Vaucelles stipulata nel febbraio 1556. Grande abilità
di Filippo fu quella di non affrontare i nemici in Italia ma di attaccarli a partire dalle Fiandre.
L’invasione della Francia avvenne da nord-ovest e portò all’assedio della piazzaforte di San
Quintino in soccorso della quale si mosse un poderoso esercito francese al comando di Anne de
Montmorency. Lo scontro avvenne il 10 agosto 1557 e l’esercito spagnolo, comandato da Emanuele
Filiberto di Savoia conseguì una strepitosa vittoria. Dopo questa vittoria la reputazione di Filippo
crebbe a dismisura, anche se egli personalmente non aveva fatto niente, e il merito era soprattutto
del duca di Savoia, il comandante, dei consigli di Ferrante Gonzaga e dei soldati che si batterono
gloriosamente. Le difficoltà finanziarie però obbligarono sia francesi che spagnoli a porre fine al
conflitto: il trattato di Cateau Cambrésis del 1559 fu salutato con grandi feste dalle popolazioni di
mezza Europa, ristabiliva praticamente la tregua di Vaucelles e risolveva alcune questioni di
confine tra Francia e Paesi Bassi, mettendo in sicurezza quella frontiera e lasciando alla prima
Calais; i francesi restituirono al re tutti i territori occupati in Italia (Monferrato, Corsica, Po, Siena,
Valenza). Insomma con questa pace si stabilì un modello geopolitico che rimase in piedi fino alla
pace dei Pirenei del 1659. Il vero vincitore fu il duca di Savoia Emanuele Filiberto che ritenne il
suo stato, occupato dai francesi, tranne 8 piazzeforti che gli sarebbero state restituite dopo 3 anni.
Filippo nell’agosto 1559 si imbarcò per la Spagna dalle Fiandre e sbarcò nel porto di Laredo da
dove si incamminò verso Valladolid dove fu ricevuto dalla sorella Giovanna e dal figlio Carlos.
Quei territori erano affidati alla sorellastra Margherita che subentrò a Emanuele Filiberto, tornato
in Piemonte. Margherita era nata nelle Fiandre e li era stata allevata, suo marito, Ottavio Farnese,
duca di Parma e di Piacenza, ero sotto il controllo dei governatori di Milano e l’unico figlio,
Alessandro, era paggio alla corte di Bruxelles. Margherita quindi per la situazione famigliare e per
la coatta sudditanza del marito, non avrebbe dato fastidio a Filippo e per questo divenne
governatrice dei Paesi Bassi. Al momento della partenza il re esortò quelle popolazioni a
mantenersi fedeli alla religione cattolica e promise che in caso di bisogno sarebbe tornato da loro
per visitarle e per assisterle.

Capitolo 3: Filippo II e la rappresentazione della monarchia ispanica

Un re per la Spagna

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Filippo II avrebbe potuto usare quell’ordinale solo in Castiglia, mentre in Aragona, a Napoli, in
Sicilia, in Sardegna e in Portogallo (dal 1581) avrebbe dovuto farsi chiamare Filippo I perché in
quei regni egli era il primo sovrano con quel nome. Spieghiamoci meglio: Isabella di Castiglia
aveva sposato nel 1469 Ferdinando II d’Aragona. La morte della regina nel 1504 sciolse per il
momento l’unione personale del regno di Castiglia con quello di Aragona ove, fino alla sua
scomparsa, rimase Ferdinando II, dal 1505, marito di Germana di Foix. A Isabella successe in
Castiglia la figlia Giovanna, moglie di Filippo di Borgogna (Filippo il Bello); costui per l’instabilità
mentale della moglie, oltre che re consorte in Castiglia, fu anche re titolare con il nome di Filippo I
fino al 1506, data della sua morte. Morto il marito, la regina rimase unica regnante in Castiglia ma,
per la sua pazzia, fu posta sotto la tutela del cardinale de Cisneros. Nel 1516 divenne re di Castiglia
Carlo I che nello stesso anno cinse anche la corona di Aragona, dato che il matrimonio di
Ferdinando II con Germana non aveva dato eredi. In Aragona non ci fu quindi nessun Filippo I
essendo re fino al 1516 Ferdinando II. In quel regno, dopo Carlo V, si passò direttamente a Filippo
II. Ma Filippo di che cosa era re ? era re di Castiglia, di Aragona, di Napoli, di Sicilia, del
Portogallo, dell’Algarve, duca delle Fiandre, di Milano, di Borgogna, arciduca d’Austria, marchese
del Sacro Romano Impero, re di Ungheria, re di Dalmazia, re di Croazia, re di Corsica, duca di
Atene, signore di Transilvania, ma per tutti egli era re di Spagna. Il suo governo era monarchico
avvenendo la successione al trono per linea diretta di padre in figlio o traversale di fratello in
fratello. La successione ereditaria era ritenuta la più perfetta e tale da rendere durevole il regno ed
eliminare i dissensi che solevano sorgere quando la monarchia era elettiva. Il fatto che egli fosse
definito come re di Spagna testimonia della centralità di questa penisola nella monarchia e,
all’interno di essa, della Castiglia. Risulta difficile definire una tale mostruosa monarchia,
agglomerato di popoli e territori che mantengono i propri profili istituzionali, sotto la sovranità di
un solo re, e che, volta a volta è chiamata monarquìa hispanica, monarquìa catolica o monarquìa
espanola.

La questione della precedenza


Anche se l’imperatore Ferdinando stimava di essere superiore per la sua corona, per l’essere zio del
re e più anziano di età, Filippo sosteneva che la superiorità andasse a lui attribuita perché regnava
su tanti territori legittimamente acquisiti, che era più potente e che era figlio di Carlo V. Un suo
forte desiderio era quello di assumere il vicariato imperiale per l’Italia dove egli possedeva il ducato
di Milano, ma la sua aspirazione fu frustrata prima da Ferdinando I e poi da Massimiliano II e
Filippo si dovette accontentare di essere il sovrano che esercitava la più ampia autorità in Italia in
virtù della forza e del prestigio che godeva. Proprio perché era il più potente sovrano della
cristianità, il re riteneva che i suoi rappresentanti dovessero godere della precedenza nelle
cerimonie ufficiali alle quali erano chiamati a partecipare i rappresentanti delle altre monarchie. La
Francia invece reclamava che dovesse essere assegnato ai suoi ambasciatori il primo posto subito
dopo quello riservato ai legati dell’imperatore o del Re dei Romani. I giuristi spagnoli sostenevano
invece che la pretesa francese era infondata in quanto la posizione di preminenza assegnata a Carlo
Magno derivava dal suo essere imperatore romano e non re di Francia, pertanto una volta traslato
l’impero in Germania, questa preminenza aveva accompagnato l’imperatore tedesco e non il re di
Francia e di conseguenza di collocava alle spalle dei sovrani spagnoli che si erano convertiti al
cattolicesimo ben prima di quelli francesi. Sulla base di ciò gli ambasciatori spagnoli rifiutarono
sempre di occupare il secondo posto dopo i francesi giungendo spesso ad abbandonare le cerimonie.
I pontefici, tenendo in considerazione le ragioni di entrambi, diedero la preminenza alla Francia, il
che suscitò lo sconcerto degli spagnoli, che trovavano inspiegabile che il papa intendesse collocare

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in un posto subordinato la cattolica Spagna, dominatrice di mezzo mondo. Interessante è la contesa
che scoppiò in occasione della canonizzazione di San Diego, il primo santo della Controriforma del
2 luglio 1588. L’ambasciatore di Spagna a Roma Enrique de Guzman aveva preteso che nel corso
della cerimonia in San Petro, fosse assegnato il primo posto a lui che rappresentava il re.
L’ambasciatore francese Jean de Vivonne rifiutava questa motivazione. Di fronte allo sdegno del
pontefice Sisto V fu deciso che l’Olivares non si presentasse e che a rappresentare lui e il suo re
fosse il cardinale Pedro de Deza che, in quanto porporato, aveva la precedenza su tutti gli
ambasciatori.

La Castiglia e l’Aragona
Per governare quell’immenso territorio serviva un centro che avesse la capacità di trasmettere gli
impulsi politici in periferia e di rendere quest’ultima partecipe delle decisioni del centro come se
fossero state da essa assunte. Qui si palesò la debolezza della monarchia, incapace con Filippo di
dare voce alle entità territoriali periferiche. Il problema di individuare il luogo centrale dell’intera
monarchia fu subito risolto: un principe il quale possieda più città, potendo risiedere in un solo
Stato deve stare dove ha più popoli fedeli e più ricco di tutte le cose necessarie, e questo non poteva
che essere la Spagna, o meglio la Castiglia. Infatti la Castiglia era abitata da gente leale su cui il re
sapeva di poter contare, al suo interno si trovavano le maggiori città della penisola ( Siviglia,
Granada, Toledo Madrid) e aveva una struttura economica e commerciale più dinamica di quella
aragonese. Infine, mentre la Castiglia era un regno unitario e il re esercitava un potere assoluto,
l’Aragona era divisa nell’Aragona propriamente detta, nel regno di Valencia, nella contea di
Barcellona e ciascuna realtà era dotata di proprie istituzioni. In Aragona il re non possedeva quella
suprema autorità che possedeva il Castiglia e gli aragonesi pretendevano di essere liberi e di
governarsi come una famiglia basata sul matrimonio. Filippo convocò e partecipò ad alcune Cortes
(nel 1563 e 1585 a Monzòn, 1592 a Tarragona) ma il modo di procedere dei delegati che lo
attaccavano continuamente gli fece perdere la pazienza. Inoltre la lentezza delle operazioni lo
spinse a portare la cama come protesta per l’inconcludenza dei lavori. Nel 1585 Filippo tornò in
Aragona per celebrare il matrimonio tra la figlia Catalina e Carlo Emanuele di Savoia e per
presiedere le Cortes in cui doveva essere giurata fedeltà al figlio omonimo come successore. Le
ultime cortes celebrate dal Cattolico in Aragona furono quelle di Tarragona del 1592 la cui
importanza era dovuta dal fatto che erano state convocate a ridosso della sollevazione della regione
avvenuta l’anno precedente che aveva portato alla morte del marchese di Almenara. Costui era stato
nominato viceré in Aragona ma il suo essere forestiero scatenò le Cortes, costringendo il re a
nominare un nuovo nella persona di Jaime Jimeno, ma Almenara non scappò alla folla e morì. Ma
torniamo indietro, le alteraciones de Aragon avevano diverse cause: quel regno era turbato dal
bandolerismo, dai conflitti tra i moriscos e le popolazioni cristiane montanare, inoltre Saragozza
aveva uno specifico ordinamento municipale con particolari privilegi, tra cui quello “de los veinte”
in base al quale i cittadini (i 20 del consiglio comunale) potevano castigare i malfattori che avessero
danneggiato le loro proprietà rurali ma si trasformò ben presto nel diritto di punire reati commessi
in altri campi. Il re aveva deciso, data la debolezza dei viceré di origine locale, di nominare stranieri
e questo, assieme all’arrivo di Perez in Aragona, infiammò gli animi e provocò la sollevazione di
Saragozza. Furono convocate dunque le Cortes a Terragona. Durante il viaggio verso quella città
Filippo si ammalò e si trattenne a Rioja in un monastero e inviò l’arcivescovo di Saragozza al suo
posto, causando però scompiglio perché credevano l’avesse fatto per non incontrarli. La morte
dell’arcivescovo portò altro scompiglio finché Filippo non nominò come successore nella funzione
di presidente il fratello del prelato, il conte di Chincon e assicurò che si sarebbe fatto vedere presto.

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Il che avvenne ma solo come tappa secondaria di un viaggio che lo aveva portato a Pamplona,
capitale del regno di Navarra. Nel frattempo Chincon aveva ottenuto che le votazioni avvenissero a
maggioranza e non all’unanimità e che al re fosse concesso di inviare a quel regno viceré stranieri.
Intanto Castiglia agli inizi della seconda metà del secolo cominciò a dare segni di deterioramento
della sua situazione economica e demografica e, viceversa, di una crescita dell’economia catalana
trainata dalle funzioni molto importanti del porto di Barcellona.

Madrid e i siti reali


Fenomeno generale nell’Europa del secondo 500 fu lo sviluppo delle città capitali (Parigi, Londra,
Roma e Madrid). Madrid divenne capitale nel 1561, e ciò comportò lo spostamento verso di essa di
nobili ed ecclesiastici con uomini e donne provenienti dall’intera penisola alla ricerca di occasioni
di lavoro. La decisione di Filippo di fare della città la capitale fu dovuta al fatto che essa era al
centro della Castiglia e che era ben provvista dei mezzi atti a sostenere una numerosa popolazione.
Il re pose la sua residenza all’Alcazar, già interessato da importanti lavori di ristrutturazione sin dai
tempi di Carlo V, ma ben presto avrebbe alternato il soggiorno all’Alcazar con quello all’Escorial o
ad altri palazzi della capitale. Madrid da allora fu la capitale della Spagna con un breve intervallo
negli anni di Filippo III che tornò a Valladolid. Terminando la ristrutturazione dell’Escorial, rispose
alla volontà del padre di essere sepolto con la moglie in un luogo cosi insigne e poi li furono
sepolte anche le sue tre mogli, il figlio primogenito, le zie. L’edificazione dell’Escorial prosciugò
interi tesori. Il luogo inoltre era sovradimensionato rispetto alle esigenze di governo del re e vi
risiedeva solo alcuni mesi all’anno. L’Escorial era un monumento, un luogo sacro più che una corte.
Egli chiuso nella sua residenza, svolgeva tutte le sue azioni. Visto che era difficile governare tutta la
varietà dei popoli, volle essere aiutato da uomini saggi ed esperti. Diede però la sua forte impronta
usando la religione, la reputazione, la giustizia, usò i matrimoni per unire i ceti dirigenti delle
province e attirò a se i nobili attribuendo loro preminenze. Cosi facendo procurò la pace ai suoi
territori e eliminò le guerre civili.

La corte, le corti
Fulcro del potere del re era la corte. La corte era il luogo ove risiedeva il re, ove erano gli uomini
che servivano lui e lo stato e necessitava di una sua particolare organizzazione. Il modello adottato
fu quello borgognone che Carlo V aveva introdotto nella penisola nel 1548, la sostituzione del
cerimoniale borgognone a quello castigliano suscitò malumori. La corte alla borgognona si basava
su una netta separazione della vita privata da quella pubblica del sovrano e dei suoi famigliari. Tutta
la vita quotidiana era strutturata intorno a una serie di uffici al cui vertice erano personalità di
rilievo che non dovevano tanto soddisfare le esigenze provate del sovrano, ma avvolgere il tutto in
un’aura di perfezione che doveva trasmettere agli osservatori la maestà del re. A capo della casa era
il mayordomo mayor da cui dipendevano altri maggiordomi, portieri controllori. Il simbolo del suo
potere era dato dalla chiave d’oro che portava alla cintura e poteva aprire tutte le stanze del palazzo.
Vi era poi il camarero mayor da cui dipendevano i medici di corte, che aveva il compito di vestire
o spogliare il re, il cavallerizo mayor godeva della maggiore autorità quando il sovrano era fuori, il
montero mayor aveva competenza sui boschi reali e sulle partite di caccia. L’aposentador mayor
ripartiva le stanze per coloro che vivevano a corte. Era nella corte che si assegnavano le cariche, si
costituivano le carriere. Solo vivendo a corte si aveva la possibilità di ricevere incarichi per sé o
per i propri famigliari. Il cortigiano doveva essere pronto a tutto: aggressioni fisiche come i duelli
o violenze morali fatte di memoriali (papeles) o ordini di abbandonare la corte (destierro) con il

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ritorno nelle terre natali. Per resistere a un ambiente altamente competitivo, i cortigiani non solo si
dovevano conformare alla volontà del re, ma dovevano imparare a usare in ogni circostanza la
dissimulazione e quindi essere bugiardi e invidiosi. La maggior parte delle feste che si svolgevano
a corte erano originate da occasioni religiose o famigliari, per il resto vigeva un’austerità che solo in
alcuni momenti si interrompeva e che produceva noia nei cavalieri ai quali era impedito di
corteggiare le dame di travestirsi con abiti popolari. Ogni città sentava la necessità di inviare a
Madrid propri rappresentanti e in questo i principi italiani e tedeschi erano i maggiori frequentatori,
e i loro rampolli passavano gli anni della fanciullezza a corte sperando di ottenere incarichi, titoli o
donne da sposare. Fece cosi l’imperatore Massimiliano (o meglio, la moglie Maria) che nel 1563
inviò all’Alcazar i figli Rodolfo ed Ernesto su invito di Filippo il quale voleva che i giovani
arciduchi si educassero in Spagna e facessero compagnia al loro cugino, il principe Don Carlos.
Con la presenza a Corte di cosi tanti giovani, le contese erano all’ordine del giorno e il re non
ammetteva ai rituali cortigiani coloro che turbavano l’ordine cerimoniale. Nel 1570 erano attive,
oltre alla casa del re, quella della sorella Giovanna, della regina Anna, delle infanti Catalina e
Isabella e la più imponente era quella dell’imperatrice vedova Maria. Nel 1588 fu la volta del
principe ereditario Filippo ad avere una sua casa, ampiamente però controllato. Cosi come le corti
nascevano, erano anche disciolte (quella della regina Elisabetta, di Anna o Don Carlos) e il
problema era ricollocare il personale. Le corti delle regine contavano su un numero più stretto di
persone alla dipendenza, anche perché li non c’erano servizi di caccia o cappelle. Ma avevano una
struttura che per molti versi ricalcava quella principale. La camarera mayor (spesso donne di alto
rango) aveva accesso all’intimità della regina. Le dame erano spesso testimoni mute e solo il
passaggio da una corte all’altra o il matrimonio con un nobile le faceva uscire da un ambiente che
poteva essere paragonato a un monastero. Bisogna però dire che il servizio a corte offriva a queste
dame, spesso provenienti da paesi stranieri, la possibilità di intrecciare amicizie, e inoltre
partecipavano a feste, teatri ecc.

Gli uomini e le istituzioni di governo


Compito del re invece era quello di governare. Oltre a svolgere i soliti compiti di monarca, Filippo
era informato su tutto e voleva decidere di tutto. La sua volontà era legge, ma questo comportava
un’infinita lentezza nello svolgimento degli affari. Non si fidava di nessuno e interveniva
personalmente su tutto. Non era solito intervenire nei consigli, e quando voleva conoscere quello
che vi si discuteva collocava nel suo appartamento i segretari e i presidenti e con essi prendeva una
decisione. Spesso però si diceva che il suo occuparsi di molte minuzie, gli sottraeva tempo alle cose
importanti. Nei consigli si discutevano gli affari della monarchia e si preparavano le consulte da
sottoporre al re e quando vi era la sua approvazione si promulgavano le decisioni. Nel Consejo de
estado fino al 1567 un solo segretario maneggiava tutti gli affari poi furono due, uno di competenza
per il nord, e l’altro per l’Italia e per il Mediterraneo (Antonio Perez). Francisco de Eraso poi fu il
segretario del Consejo de las indias e di quello dell’Inquisizione. I segretari, onorati e stimati,
suscitavano l’invidia dei Grandi dei quali Filippo era sempre sospettoso. La stessa invidia ricadeva
sui segretari privati del re, il più importante dei quali era Mateo Vazquez il quale decideva queli
dovessero essere i papeles che egli doveva consultare per primo. Non si aveva la possibilità di
svolgere una funzione, di ambire a una scalata sociale se non si era inseriti in una fazione il che
ovviamente comportava forme di protezione per coloro che ne facevano parte, ma anche caduta in
disgrazia se accusati di corruzione e il destino poteva andare dalla carcerazione alla perdita di tutte
le cariche detenute. Ai tempi di Filippo c’erano due fazioni presenti a corte: Ruy Gomez de Silva,
principe di Eboli e duca di Pastrana, e Fernando Alvarez de Toledo, duca d’Alba. Questi due erano

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i capi di contrapposte fazioni: il primo al momento godeva di più autorità, il secondo disponeva di
una maggiore esperienza e riteneva che a lui fosse dovuto incondizionato ascolto nelle questioni
che si dibattevano a corte. Soffermiamoci sui due uomini che furono accanto al re come ascoltati
consiglieri nella prima metà del suo regno. Ruy Gomez da Silva, portoghese che giunse fanciullo in
Spagna come paggio dell’imperatrice Isabella e che quando morì passò alla corte di Filippo, fu
seguito nella crescita da quest’ultimo. Egli era stato perfetto esempio di fedele vassallo, aveva
assistito e riverito Filippo. Quando cessò di vivere, era divenuto duca di Pastrana e principe di Eboli
e marito di Anna de Mendoza de la Cerda. Questa donna avrebbe suscitato l’attenzione di Filippo
che iniziò a frequentarla segretamente. Il marito, vedendo nella relazione tra i due la possibilità di
incrementare la propria influenza su di lui non si oppose alla relazione. Ruy Gomez quindi si pensa
accettò la relazione di Filippo con la moglie per consolidare la propria posizione a corte di fronte
all’avanzata del duca d’Alba. Prima di parlare del duca d’Alba però ricordiamo due figure che
ebbero grande rilievo nel delineare le linee della politica estera della monarchia, i cardinali Diego
de Espinosa e Antoine Perrenot de Granvelle. Il primo, uomo di umile origine nato a Segovia nel
1512 e morto nel 1572, fu presidente del consiglio di Castiglia, del consiglio dell’Inquisizione e nel
1570 fu colui che accompagnò Anna d’Austria a Segovia dove officiò la messa nuziale. Egli formò
un corpo di burocrati ben preparati, promosse la castiglianizzazione della monarchia. Per molti anni
il suo potere fu immenso ma le sue pratiche nepotistiche e clientelari che si estendevano per tutta le
province della monarchia, lo portava spesso a non informare il re degli affari che trattava nei
consigli. De Granvelle fu uno dei più ascoltati e fedeli ministri di Filippo II. Nato nella Franca
Contea divenne vescovo di Arras nel 1540, pronunciò il discorso di risposta di Filippo al padre nella
cerimonia della sua abdicazione, partecipò alle trattative che portarono alla pace di Cateau-
Cambrésis e fu accanto alla reggente Margherita nel governo dei Paesi Bassi. Costretto ad
abbandonare le Fiandre, divenne viceré di Napoli dal 1571 al 1575 e poi Presidente del Consiglio
d’Italia. Prezioso fu il suo contributo alla politica estera del re, soprattutto nella fase del regno
segnata dalla svolta aggressiva verso Portogallo, Francia, Inghilterra e gli stessi Paesi Bassi. Il
Cattolico lo stimò grandemente onorandolo in pubblico perché sapeva che il cardinale anteponeva
ai suoi interessi quelli della monarchia. Oggi i papeles, i memoriali, gli atti della grande monarchia
sono conservati negli archivi di mezzo mondo e soprattutto in quello di Simancas, località nei pressi
di Valladolid. Il re ordinò a tutti i viceré, governatori, ufficiali, di inviare a Simancas copia
autentica degli atti da essi prodotti.

Il duca d’Alba
Fernando Alvarez de Toledo, terzo duca d’Alba, aveva iniziato la sua carriera militare sotto Carlo V,
partecipando a svariati fatti militari, a partire dalla battaglia di Pavia del 1525. Con Filippo aveva
mantenuto le proprie posizioni aggiungendo alle cariche militari anche cariche di governo in Italia
ove fu governatore di Milano e viceré di Napoli. Spesso a fianco del re a partire dal matrimonio
inglese, l’Alba avrebbe costruito gran parte della propria reputazione sul suo operato nei Paesi
Bassi nei primi anni della rivolta. Nonostante fosse il tipico uomo di cui il re aveva bisogno, non si
fidava a pieno di lui e non gli affidava incarichi che avrebbero potuto innalzare troppo la sua
immagine. Alba rientrò in Spagna nel marzo 1574 senza ricevere particolari attestati di
benemerenza da parte del re, anzi dovendo contrastare i sospetti che su di lui spargeva Ruy Gomez.
Ma la morte di quest’ultimo sembrò lasciare ampio spazio al condottiero, anche se non tornò più a
esercitare l’influenza di cui aveva goduto prima della partenza per le Fiandre. Ciò che contribuì ad
affossarlo per un certo periodo furono le modalità del matrimonio del figlio: era agli arresti nel
castello di Ucesa perché aveva aiutato il figlio Fadrique a fuggire da una prigione ove era rinchiuso

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per non aver voluto sposare una dama della corte della regina, come aveva promesso al re, per
congiungersi invece con sua cugina Maria de Toledo, figlia di Garcia de Toledo. Alba affermò che il
figlio poteva sposare chi voleva, ma questo atto di orgoglio gli procurò la prigionia. Tuttavia, sul
finire degli anni 70, il duca era il più esperto generale su cui Filippo potesse contare e pertanto lo
mise a capo dell’esercito inviato a conquistare il Portogallo. Alba obbedì al comando del re ma morì
a Lisbona, il che fece piangere Filippo.

I grandi di Spagna e il re
Nella penisola iberica la struttura nobiliare era più o meno simile a quella di altri paesi dell’Europa
occidentale, con la sua gerarchia di duchi, marchesi, conti, cavalieri e, al livello più basso, di
hidalgos, non vi erano principi, essendo quel titolo riservato all’erede al trono. Al vertice della
piramide erano i Grandi di Spagna, che godevano di una certa famigliarità con il re. Grandi erano
tutti i duchi ma anche principi stranieri come i duchi di Savoia e di Guastalla. Il fatto però di godere
di ricchezze e privilegi oltre che di enorme influenza sociale non faceva però di quei nobili un
gruppo al quale fosse automaticamente affidata la gestione delle alte cariche della monarchia. Per
impedire scontri tra nobili che pretendevano e si arrogavano trattamenti ad essi non consentiti, nel
1586 Filippo emanò la cosiddetta pragmatica de las cortesias con la quale cercò di disciplinare lo
smodato uso degli appellativi che si attribuivano i nobili e con i quali volevano essere indicati. Il
titolo di Eccellenza era solo per i viceré, quello di Signoria reverendissima era riservata ai cardinali
e all’arcivescovo di Toledo, tutti gli altri dovevano essere appellati con il titolo di Signoria. Sisto V
però non era d’accordo, doveva essere lui a conferire i titoli ai suoi cardinali, cosi, in quanto non fu
molto seguito come documento, venne ritirato nel 1611.

I viceré
Visto che la fedeltà dei sudditi si rafforzava alla vista del sovrano, non potendosi egli trovare
ovunque per molto tempo, questo incarico spettava ai viceré. Tutti i regni della corona erano senza
re tranne la Castiglia dove risiedeva, dovunque quindi egli era rappresentato da un viceré. Lo Stato
di Milano e i Paesi Bassi però erano retti da un governatore, mentre alcuni territori delle indie
orientali (Cile, Portorico) e le Filippine erano governati da un capitano generale. I viceré, che
generalmente duravano in carica tre anni, godevano di numerosi poteri, a volte anche militari ed
erano l’alter ego del sovrano assente: avevano anch’essi una loro corte ma, il loro potere trovava
limiti nel fatto che essi dovevano rispettare le costituzioni politiche del paese che andavano a
governare e nel fatto che quel potere era conferito loro per delega. Dovevano dar conto al re del
proprio operato, per sorvegliare il quale erano spesso inviati dei visitatori. Se il loro lavoro risultava
soddisfacente agli occhi del sovrano e delle popolazioni provinciali, ai viceré si apriva la strada per
conseguire importanti cariche negli organi centrali della monarchia. Le corti vicereali diventarono il
primo strumento di integrazione delle élites nazionali nella monarchia: qui si celebravano
matrimoni tra uomini e donne spagnole al seguito del viceré e rampolli delle più influenti famiglie
provinciali. L’assenza del re era particolarmente sentita in Aragona, specie in Catalogna, ove si
concretizzava nella malgradita presenza di viceré di origine straniera e dava luogo ad atteggiamenti
di ostilità nei confronti del potere monarchico.

Le giunte: uni strumento di governo degli ultimi anni


L’avanzata età di Filippo II che gli rendeva faticoso seguire tutte le pratiche che gli venivano
sottoposte dai consigli, lo portò negli ultimi 15 anni di regno alla creazione di alcune juntas (giunte)

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composte di poche persone, all’interno delle quali si dibattevano i problemi più importanti della
monarchia e si prendevano decisioni che divenivano immediatamente operative. Le più importanti
furono la junta grande (istituita nel 1585), la junta de noche (1588), la junta de gobierno (del
1593). Queste giunte però piano piano costituirono una sorta di consiglio privato del re e aprirono la
transizione al valimiento (“il preferito”) che tanto avrebbe connotato la storia delle monarchie
europee.

Capitolo 4: I figli, il fratello e la sorella, i nipoti e un segretario

Il primogenito del re e il figlio naturale dell’imperatore


Il 1545 è l’anno in cui videro la luce Carlos, il figlio primogenito di Flippo, Juan, figlio naturale di
Carlo Ve Alessandro Farnese, figlio di Margherita, l’altra figlia naturale di Carlo, e di Ottavio
Farnese, poi duca di Parma e Piacenza. Il primo nacque quando il padre era ancora principe delle
Asturie, legittimamente sposato con Maria Manuela di Portogallo, il secondo invece fu il frutto
dell’amore dell’ultraquarantenne imperatore per una dama tedesca. Juan non fu l’unico figlio che
ebbe da incontri fugaci, ma l’unico che riconobbe insieme a Margherita nata nel 1522 e sua
primogenita. Entrambi morirono giovani: Carlos a 23 e Juan a 33 anni. Carlos era difettoso di
fisico, avendo una spalla e una gamba più lunga dell’altra, ma era l’unico erede maschio di Filippo,
padre, in quegli anni, solo di Isabella e Catalina. Sul punto di morte l’imperatore disse a Filippo di
avere un fratello e che era stato allevato fino a quel momento da Luis Méndez de Quijada. Filippo
un giorno del 1559 lo invitò con lui a caccia e rese noto al ragazzino di essere figlio
dell’imperatore, anche Giovanna, sorella del Re, lo chiamò fratello. Da tutti, anche se Filippo gli
conferì il titolo di Eccellenza, fu chiamato Altezza o don. Il re gli formò una corte, fuori da palazzo
reale e fu costretto a coltivare le sue attitudini militari perché non aveva intenzione di intraprendere
una carriera ecclesiastica. I rapporti tra i due fratelli non furono idilliaci, nel 1565 Juan partì per
difendere Malta dall’assedio dei Turchi ma Filippo non tollerò questa iniziativa che metteva in
discussione la sua autorità e gli ordinò di tornare indietro. Nel 1568 iniziò la guerra di Granada con
il sollevamento dei Mori, morì il figlio Carlos e sua moglie Elisabetta, la madre di Isabella e
Catalina. La vita di Carlos era stata segnata fin dall’inizio dalla tragedia: la sua nascita aveva
provocato la morte della madre Maria Manuela, la sua adolescenza era stata segnata da squilibri
mentali, di aspetto brutto, non parlò prima dei 5 anni, odiava tutti coloro che lo circondavano, e fu
inviato dal padre all’università di Alcalà speranzo migliorasse al contatto con lo zio Juan e il
cugino Alessandro Farnese. Nel 1562 però la situazione si fece tragica: si dice che mentre
rincorreva una bambina Carlos cadde e batté forte la testa, l’intervento dei medici non servì a
molto, ma quando per magia si riprese il re decise di farlo rinchiudere. Molti pensieri lo portarono
a prendere questa decisione: l’odio nei confronti del padre che gli impedì di sposare Elisabetta e
Anna, le sue scarse preoccupazioni in materia di religione ecc. il re rimise la sua decisione al
Consiglio dell’Inquisizione che, per la paura di averlo come sovrano, decretò la sua
consapevolezza. Il 24 luglio del 1568 Carlos morì, non si sa bene come e dappertutto si celebrarono
solenni funerali. La decisione di rinchiuderlo comunque doveva essere stata difficile, in quanto era
l’unico erede maschio e Filippo III non sarebbe nato che nel 1578. Bisogna dire che nel 1570 le
chances di Juan di diventare re erano elevate dato che la conduzione della guerra di Granada aveva
mostrato le sue capacità militari e magari la strada alla successione sarebbe stata meglio spianata se
Juan avesse sposato una delle figlie del re. Nel 1578 però morì: tutti ciò che aveva fatto nella sua
vita e che gli era stato affidato dal re era avvenuto con scetticismo da parte di Filippo. Il
conferimento nel 1568 del comando delle milizie che dovevano reprimere la rivolta dei moriscos

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suscitò un grande stupore in tutti dato che il principe non aveva alcuna esperienza militare.
Probabilmente ciò era avvenuto per gelosia di Filippo che voleva allontanare da sé il fratellastro e
per la speranza che egli nutriva che in quella difficile impresa egli si bruciasse e si decidesse
finalmente ad abbracciare lo stato clericale. L’ultimo impegno di Juan fu nelle Fiandre come
governatore. Date le condizioni del paese, in gran parte nelle mani dei rivoltosi, egli fu costretto a
peregrinare da una città all’altra ma il suo comportamento nel governo di quei territori suscitò
sospetti a corte. Si mormorava che volesse farsi signore di quelle province e sposare la regina
Elisabetta o Maria Stuart diventando re d’Inghilterra. Fatto sta che filippo inviò Alessandro Farnese
nelle Fiandre per controllarlo e imbrigliarlo. Il Farnese, essendo già stato li con la madre, conosceva
bene il territorio e gli abitanti. Juan cercò di porre fine alla rivolta e di proteggere le province
rimaste fedeli e la religione cattolica, ma in Spagna le sue decisioni venivano discusse. La sua
maggiore capacità era nel sapere tenere insieme forze armate composte da soldati delle più varie
nazionalità. Il 1 ottobre don Juan periva dopo una breve malattia e chiese a Filippo di non
abbandonare i propri servitori. I funerali furono degni di un personaggio cosi illustre e quando
terminarono il corpo fu sezionato e messo in bisacce che a cavallo furono portate in Spagna ove
avvenne la ricomposizione all’Escorial.

Il segretario
Antonio Pérez non apparteneva alla famiglia reale ma il fatto che le sue vicende furono legate alla
fase finale della vita di Don Juan ci induce a dedicargli un paragrafo. Egli, persona gentile, seguiva
con abilità gli affari d’Italia e quelli delle Fiandre da quando don Juan ne era il governatore. Perez
aveva favorito la nomina di Juan de Escobedo a segretario personale di Juan con lo scopo di
controllarne l’operato quando il principe aveva assunto il governo dei Paesi Bassi. Ma l’Escobedo
divenne l’uomo di fiducia di Juan ed effettuò diversi viaggi in Spagna per ottenere fondi e
l’autorizzazione regia alle decisioni che il suo signore intendeva prendere per porre fine alla rivolta.
In queste occasioni si scontrò con Perez che rese edotto Filippo dei presunti piani di Juan e della sua
intenzione di sposare Maria Stuart, di invadere l’Inghilterra e di insignorirsi delle Fiandre.
Escobedo da parte sua minacciava di divulgare gli illeciti del segretario di Stato e il suo
comportamento non consono a un uomo di fiducia del monarca, il che determinò la decisione di
Perez di assassinarlo il 31 marzo 1578. A questo punto il segretario divenne una persona
ingombrante anche per lo stesso Filippo. Perez fu accusato di aver ricevuto denari dal granduca di
Toscana, di aver avuto rapporti con la principessa di Eboli e di aver divulgato segreti di Stato.
Chiuso in un carcere il 28 luglio 1579 fu condannato a 2 anni di prigione e 8 di esilio. Sottoposto a
tortura per confessare di aver organizzato l’omicidio di Escobedo, ammise che il re ne era il
mandante. Nel 1590 la moglie riuscì a farlo evadere durante una visita e si rifugiò ad Aragona,
chiedendo di essere giudicato secondo i fueros locali. Filippo lo sottopose al giudizio
dell’Inquisizione che era l’unico valevole su tutta la Spagna. Fuggì mentre veniva condotto nelle
carceri inquisitoriali di Saragozza, aiutato dalla rivolta popolare. Grazie a quella riuscì a fuggire in
Francia dove divulgò molte informazioni relative al regno di Filippo II (compreso il presunto
avvelenamento di Carlos) che contribuirono a diffondere un giudizio molto negativo sul sovrano.
Morì in miseria a Parigi nel 1611.

Il nipote italiano e la madre


Parliamo ora di Alessandro Farnese, figlio di Ottavio, duca di Parma e Piacenza e nipote di papa
Paolo III, e di Margherita d’Austria, figlia naturale di Carlo V e sorellastra di Filippo. Egli trascorse

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la sua infanzia nelle Fiandre insieme alla madre, ma fin da subito mostrò la preferenza nelle armi
più che nello studio. Alla morte di Juan, 1578, divenne il governatore dei Paesi Bassi segnalandosi
in numerosi fatti d’arme. Nel 1585 gli fu conferito il collare del Toson d’oro e il pontefice Sisto V
gli fece pervenire lo stocco e il berretto con ricamata una colomba (simbolo dello Spirito Santo) che
si è solito conferire a coloro che si erano segnalati nella difesa della fede. Duca di Parma e di
Piacenza alla morte del padre Ottavio, morì nel 1592. Egli aveva sposato a Bruxelles Maria d’Aviz,
nipote di Manuele I di Portogallo ma, considerati gli stretti rapporti del principe con la corte
ispanica la sposa doveva appartenere a una dinastia vicina a quella del re per cui, prima di arrivare
agli Aviz, Filippo tentò di legare il nipote ad una donna appartenente al ramo imperiale della
famiglia, in particolare a una figlia dell’imperatore Ferdinando. Ma questi si oppose in quanto il
Farnese era nipote di un bastardo. La madre di Alessandro, Margherita, era già stata governatrice
dei Paesi Bassi, sostituendo nel 1559 Emanuele Filiberto di Savoia che tornava in patria. Essa, fu la
terza donna a reggere le Fiandre dopo l’omonima Margherita, figlia di Massimiliano I e Maria,
figlia di Carlo V. Margherita, nata nelle Fiandre, amava la sua patria e conosceva i costumi degli
abitanti, la scelta a governatrice pertanto era quasi obbligata nel momento in cui Filippo, da poco
sovrano dei Paesi Bassi, doveva sostituire il duca di Savoia. Ricevette dal re indicazioni che le
conferirono assoluto potere, ma in realtà il suo governo conobbe molte limitazioni che le
impedirono di intervenire efficacemente per sanare il malcontento che covava in quelle province
contro il governo centralizzatore di un sovrano che aveva scarsa simpatia per i loro popoli. I
disordini scoppiati nei Paesi Bassi indussero Filippo a inviarvi un esercito al comando del duca
d’Alba che, giunto a Bruxelles il 22 agosto 1567, con i suoi modi terroristici attizzò la fiamma della
rivolta piuttosto che spegnerla. Invano Margerita aveva scritto al fratello di non ricorrere alla
soluzione militare, ma lo fece ugualmente, provocando blocchi ai traffici e ai commerci. Alla fine
del 1567 Margerita abbandonò il paese lasciando un buon ricordo del suo governo e Filippo era
soddisfatto di come aveva gestito i Paesi Bassi tra il 1559 e il 1567. Nel 1580 Margherita vi ritornò
e la situazione nelle Fiandre era molto cambiata: i neerlandesi avevano consolidato il controllo sulle
loro province e gli spagnoli si erano ridotti a difendere un piccolo territorio. Qui Alessandro
fungeva da governatore in attesa della nomina ufficiale da parte del re dopo la morte di Juan.
Questa arrivò ma a giugno 1580 giunse li anche Margherita che voleva governare con lui ma il
figlio si mostrò contrario. Cosi chiese al re il permesso di tornare il Italia e lasciò ad Alessandro
l’intero esercizio della sua carica. A partire dal settembre essa intraprese il viaggio di ritorno che si
concluse in Abruzzo dove morì nel 1586.

Il cugino e i nipoti arciduchi


Soffermiamoci ora su numerosi rampolli austriaci, figli di Ferdinando I e Massimiliano II, che
furono impegnati in funzioni di governo nelle Fiandre. L’imperatore Ferdinando aveva 3 figli
maschi che raggiunsero l’età adulta: Massimiliano diventò re di Boemia, re di Ungheria e re dei
Romani mentre a qualche difficoltà andarono incontro gli altri due figli, Ferdinando, arciduca
d’Austria-Tirolo, e Carlo, arciduca d’Austria-Stiria. Il primo, padre di una numerosa prole, ebbe un
figlio, Andrea, vescovo e poi cardinale, che avrebbe avuto una piccola parte nel governo dei Paesi
Bassi, il secondo invece, su disposizione del fratello Massimiliano, sarebbe stato un autorevole
interlocutore di Filippo. I principi dell’impero inviarono una ambasceria e Massimiliano
protestando contro la sua inettitudine nei confronti di Filippo e della sua politica nelle Fiandre e
chiedendogli di intercedere presso l’illustre cugino perché perdonasse i ribelli, ritirasse il duca
d’Alba con le su truppe e inviasse come governatore un arciduca austriaco che si sarebbe
dimostrato misericordioso verso quel popolo. Se l’imperatore avesse proseguito nella sua inerzia, i

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principi avrebbero nominato un altro re dei Romani che, fecero capire, non sarebbe appartenuto alla
dinastia asburgica. Questo indusse Massimiliano a inviare il fratello Carlo a Madrid e arrivato nel
1568 espose a Filippo il pensiero del fratello: era stato un errore inviare nei Paesi Bassi un esercito
straniero al comando del duca d’Alba. Massimiliano, continuava Carlo, aveva degli obblighi nei
confronti dei Paesi Bassi e avrebbe fatto di tutto per difenderli, cosi propose di sostituire l’Alba con
una persona di maggiore autorità a credito. Filippo sospettò che l’imperatore e l’arciduca
pensassero a qualche loro parente come governatore dei Paesi Bassi e rispose ribadendo tutte le sue
posizioni, giustificando il suo generale, ricordando che non era proponibile alcuna forma di accordo
tra un legittimo sovrano e sudditi sediziosi. Filippo, morto Carlos, si doveva sentire assediato dai
parenti austriaci che avrebbero potuto ereditare il trono e per questo motivo aprì subito le trattative
per il matrimonio con la tedesca Anna, nelle quali giocò un ruolo di grande rilievo l’arciduca Carlo.
Il timore di Filippo di essere costretto ad affidare il governo dei Paesi Bassi a un arciduca austriaco
non era infondato, tuttavia quel timore trovava sollievo nel fatto che, anche se si fosse addivenuto a
un governo austriaco nelle Fiandre, esso sarebbe caduto nelle mani di persone dalle smisurate
ambizioni ma dalle scarse risorse e quindi dipendenti da lui. Quello che Filippo non poteva
prevedere e accettare era il fatto che un arciduca, di propria iniziativa si proponesse come
governatore scavalcando tutti. Questo fu Mattia, terzogenito di Massimiliano, nato nel 1557. Nel
1577 ambasciatori degli Stati generali olandesi si recarono a Vienna per persuadere Mattia ad
assumere la carica di governatore-protettore dei Paesi Bassi (sottolineiamo che un governatore c’era
già ed era Juan). Nello stesso tempo fecero presente all’arciduca che il re non sarebbe rimasto
dispiaciuto dall’iniziativa, dato che egli era pur sempre un Asburgo di sangue. Mattia si lasciò
convincere e si recò a Bruxelles ove giunse a fine gennaio 1578, senza che l’imperatore Rodolfo,
suo fratello fosse stato a conoscenza dei suoi progetti. Don Juan lo definì un ribelle e Filippo lo
bollò come un uomo vinto dall’ambizione di governare un territorio appartenente alla sua corona.
Mattia rimase nelle Fiandre fino al 1581 sperimentando l’ostilità del re e dei governatori (Juan e
Alessandro) tornando in patria quando le Province Unite deposero Filippo e proclamarono la loro
indipendenza. Il lungo governatorato di Alessandro Farnese (1578-1592) seguito da quello breve
del 72 enne Pietro Ernesto di Mansfeld, pose in secondo piano le aspirazione degli arciduchi nipoti
del re. Tuttavia negli ultimi anni di vita di Filippo si tornò a parlare di loro in relazione al destino
dei Paesi Bassi. Scartato Rodolfo che dal 1576 era imperatore e scartato Mattia il cui
comportamento leggero gli aveva alienato per sempre la grazia del re, rimanevano, tra i figli di
Massimiliano, l’omonimo Massimiliano che non era mai stato in Spagna, Ernesto, che aveva
ambizioni di non poco conto e Alberto, amato e rispettato ma che era cardinale. Il re pensava di
legare l’arciduca austriaco che avrebbe potuto governare quelle province con un matrimonio con la
figlia maggiore Isabella Clara Eugenia. Il prescelto per mettere in atto tale strategia fu Ernesto,
secondogenito di Massimiliano II, già educato alla corte spagnola. Filippo convinse Ernesto
prospettandogli un glorioso destino: sarebbe stato governatore dei Paesi Bassi, avrebbe sposato
Isabella, candidata al trono francese, e se le cose fossero andate bene, sarebbe stato re consorte in
Francia. L’arciduca giunse a Bruxelles il 28 gennaio 1594 ma si scontrò subito coni consiglieri
spagnoli e con la lentezza con la quale il re gli faceva pervenire fondi per il governo di quelle
province. Privo di mezzi e autorità non riusciva a pacificare il paese e a combattere l’eresia. Ciò gli
provocò febbri acute che lo condussero alla morte nel 1595. Quartogenito maschio di Massimiliano
II, Alberto, era stato educato in Spagna e qui ricevette nel 1577 la nomina a cardinale e nel 1595 a
arcivescovo di Toledo, dal 1585 al 1595 fu governatore in Portogallo e infine lo fu nelle Fiandre.
Ciò che lo spingeva ad accettare di buon grado una carica delicata come quella di governatore delle
Fiandre era il fatto che ormai ad essa era legato il matrimonio della figlia maggiore del re che

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portava in dote i Paesi Bassi. I fiamminghi si rallegrarono per la nomina di Alberto, tedesco e non
spagnolo, e lo accolsero trionfalmente al suo arrivo a Bruxelles. Diversa la reazione degli Olandesi
all’arrivo di Alberto e alla notizia che avrebbe sposato l’infanta Isabella: consideravano la donna
avanti con gli anni e che il matrimonio sarebbe stato infecondo. Con la cessione della sovranità
nelle mani di Isabella e di Alberto i fiamminghi avrebbero avuto un principe, tedesco di sovranità,
che avrebbe rinsaldato i vincoli tra i due reami della casata e indotto i principi dell’impero ad
aiutare di più i Paesi Bassi. Alla devoluzione si dimostrò favorevole l’erede principe Filippo,
soddisfatto della clausola della reversibilità del paese alla corona in assenza di figli della coppia e
di quella che imponeva ai coniugi, in caso avessero avuto femmine, di sposare la maggiore al re di
Spagna e di quella che lasciava il magistrato dell’Ordine del Toson ai re di Spagna. Ma i rivoltosi
capirono subito che dietro le Fiandre indipendenti c’era sempre la Spagna.

Le reali e serenissime infanti


Isabella divenne, assieme al marito, la sovrana delle Fiandre, ma alcuni anni prima il padre aveva
pensato per lei al ben più importante trono francese. Nel 1589 l’assassinio di Enrico III aveva fatto
della Francia un regno acefalo. Il re non aveva figli, tutti i fratelli erano morti e la dinastia era
estinta. In virtù del matrimonio con Elisabetta di Valois Filippo riteneva che sul trono francese
dovesse essere collocata la figlia maggiore Isabella Clara Eugenia e di conseguenza fece iniziare ai
suoi uomini a Parigi una campagna tesa ad accreditare l’idea che Isabella dovesse essere la regina e
che una volta tale avrebbe sposato Carlo di Guisa, duca di Mayenne, o Carlo III di Lorena o
l’arciduca Ernesto. Ma questo era impossibile perché in Francia vigeva la legge salica che
precludeva alla donne di salire al trono. Gli Stati generali convocati a Parigi nella primavera del
1593 avrebbero dovuto sciogliere la questione relativa ai diritti dell’Infanta, anche perché la legge
salica non avrebbe dovuto valere in quella particolare circostanza perché il candidato al posto di
Isabella era l’eretico Enrico di Navarra e l’Infanta non solo era cattolica ma avrebbe anche
preservato il cattolicesimo in Francia. L’abiura (rinunciare a una fede) di Enrico di Navarra nel
1593 troncò il dibattito e ad Isabella non restò altro che diventare la candidata moglie di uno dei
due arciduchi, Ernesto o Alberto. Si unì nel 1598 con Alberto a Ferrara. Nel frattempo Filippo era
morto e Alberto temeva che il nuovo sovrano non rispettasse le decisioni del padre ma ciò non
avvenne e l’arciduca poté sposare Isabella. I due avrebbero voluto il titolo di re dei Paesi Bassi, ma
il papa e l’imperatore frapposero difficoltà e proposero loro quello di duchi di Borgogna. Essi
rifiutarono perché dal titolo sarebbero rimasti fuori i Paesi Bassi e rimasero quindi per tutti l’infanta
e l’arciduca. Alberto sarebbe morto nel 1621 e Isabella nel 1633 senza lasciare figli. Alla morte del
marito scattò la clausola della reversibilità e il paese tornò sotto la diretta dipendenza della corona.
Isabella indossò l’abito delle clarisse e fino alla morte governò i Paesi Bassi in nome del re di
Spagna. Diverso fu il destino della figlia secondogenita di Filippo, Catalina Micaela, nacque un
anno dopo la primogenita (1567) ma morì 36 anni prima (1597), si sposò nel 1585 con Carlo
Emanuele I di Savoia, un piccolo duca italiano, e ebbe 10 figli. I territori sui quali governarono in
qualità di principesse consorti erano entrambi importanti per la monarchia ispanica: uno erano i
Paesi Bassi, e l’altro forte per la posizione geografica. Dopo aver deciso a chi dare in sposa delle
due figlie a Carlo Emanuele I di Savoia, il matrimonio dei due avvenne in Spagna a Saragozza.
Carlo Emanuele fu insignito del Toson d’oro, dopo di che gli ospiti ripartirono per Barcellona e si
imbarcarono con destinazione Genova. Passarono per Nizza e giunsero a Torino accompagnati
dall’esultanza degli abitanti delle città. Catalina governò spesso lo stato durante le ripetute assenze
del marito e grazie a lei fu introdotto a Torino il rigido testimoniale spagnolo. Ella non sarebbe più
tornata in Spagna e avrebbe dato al padre il primo nipote di nome Filippo. Quando essa morì nel

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1597 lasciava al marito 9 figli e al padre 9 nipoti. Filippo II però non dimostrò mai nei loro
confronti particolare affetto, cosa che invece fece Filippo III.

L’ultimo erede
L’ultimo figlio del re, Filippo III ascese al trono nel 1598 alla morte del padre e vi sedette fino al
1621, in parte seguì le linee di politica interna ed esterna paterna (esempio l’espulsione dei
moriscos) in parte le mutò (la pace con l’Inghilterra, la tregua con le province Unite). Era figlio di
Filippo e Anna e nacque nel 1578e aveva dunque 20 anni quando fu chiamato a subentrare al padre.
Era un giovane dal corpo esile e gracile, non assuefatto dalle armi. L’istruzione del principe era
stata quella solita impartirsi ai membri di una casa reale e, in particolare a un erede al trono. Tre
secondo il padre erano i precetti che doveva seguire: conservare in sé e nei sudditi la religione
cattolica, governare bene i suoi stati soprattutto in guerra, amministrare rettamente la giustizia.
Secondo i consiglieri del re ciò che gli mancava era trattare casi di guerra con i capitani, concedere
più udienze, prendere parte attiva nei Consigli, concedere elemosine ai poveri e sposarsi.

Capitolo 5: Il re, dio, il papa

Il mestiere del re cattolico


I diversi piani della politica e della pratica religiosa di Filippo non sono nettamente scindibili l’uno
dall’altro in quanto la dimensione spirituale entro cui egli agiva conviveva con una dimensione
temporale fortemente accentuata che faceva di lui allo stesso tempo un austero fedele. Egli era
consapevole che uno dei più gravosi impegni di un re era quello di favorire l’aumento e la
conservazione della fede cristiana e pertanto fu l’integerrimo difensore dell’omogeneità religiosa
dei suoi regni. Il suo era un Cattolicesimo profondo che era appannaggio di tutta la famiglia reale.

La fede del re
Filippo impiegava 4 ore della sua giornata nelle orazioni e soprattutto aveva impiegato il suo
patrimonio e i suoi sudditi nella lotta contro le eresie, per il ripristino del Cattolicesimo dove era
stato soppiantato dal Protestantesimo e per l’evangelizzazione dei popoli delle Indie occidentali e
orientali rispondendo al comando divino che aveva imposto alla Spagna, dopo essersi purificata
dalla presenza di mori e ebrei, di convertire gli indios. Fu suo titolo di merito l’aver edificato templi
di rara grandezza laddove ugonotti e calvinisti li radevano al suolo e bruciavano le sante reliquie in
essi custodite. Nel 1559 vietò agli spagnoli di insegnare o studiare all’estero per evitare una
possibile infezione eretica. Concesse ai condannati a morte la facoltà di comunicarsi e che in ogni
carcere si erigesse una cappella. A tener legate insieme fede, pratica religiosa e politica
confessionale contribuivano i confessori del re che lo consigliavano anche su importanti questioni
concernenti il governo religioso. Sincera era la sua fede ma anche crudele e intransigente. Della
religiosità di Filippo faceva parte il culto dei Santi, soprattutto di quelli nuovi che potevano essere
adoperati attribuendo loro una valenza politica che serviva a dimostrare al mondo che la monarchia
ispanica era la prediletta del Signore e che proteggeva corpi minacciati dagli eretici. In questo modo
vanno intese le traslazioni a Toledo del corpo di Sant’Eugenio, primo vescovo della città e di quello
di Santa Leocadia.

La chiesa spagnola

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Gli spagnoli davano molto nell’arricchimento delle Chiese. Il clero possedeva poco meno delle
entrate dei rami iberici, tra i vescovi e gli arcivescovi ve ne erano alcuni più ricchi ogni altra
misura, e tra questi c’era l’arcivescovo di Toledo. La ricchezza dell’arcidiocesi di Toledo ed il suo
elevato rango facevano si che ad essa fossero destinati i personaggi più influenti della monarchia
spagnola. Alla morte dell’arcivescovo Carranza, Filippo pensò di assegnare Toledo al nipote
Alberto, figlio di Massimiliano II e della sorella Maria, fresco cardinale, ma la sua giovane età lo
indussero a nominare un uomo di transizione e che potesse tenere il posto in caldo per il cardinale-
arciduca: Gaspar de Quiroga y Vela, che però rimase in vita fino al 1594 costringendo Alberto a un
breve episcopato durato fino al 1598. Nel 1482 Sisto IV aveva dichiarato che apparteneva ai re
cattolici e ai loro eredi il diritto di presentazione e la nomina dei vescovi in tutte le cattedrali
vacanti nei regni ispanici e nel 1565 Filippo ribadì le disposizioni del 1482 e con una prammatica
sanzione dichiarò il proprio diritto-dovere di presentare gli arcivescovi, vescovi, abati nelle chiese
cattedrali dei suoi regni, che dovevano essere tutti spagnoli o naturalizzati. Quando una chiesa era
vacante i consigli della monarchia proponevano i nomi di alcune persone e il re sceglieva spesso il
primo della lista e lo presentava al papa. Fatte le doverose indagini da parte del cardinale protettore
di Spagna a Roma, il candidato era consacrato entro 3 mesi. Alla vigilia della morte del sovrano la
situazione non era cambiata, o tale appariva a Clemente VIII che dichiarava che i vescovi spagnoli,
per il loro tenore di vita, sembravano più principe secolari che pastori di anime. Diverse erano le
affermazioni di coloro che vivevano a ridosso della corte: Filippo aveva favorito con tutte le sue
forze il clero e aveva avuto cura che fosse molto stimato, tutto il clero era molto esemplare nella sua
condotta di vita e attivo nel promuovere la riforma introdotta dal concilio di Trento. Naturalmente
a nessuno sfuggiva che il patronato era un potente strumento di controllo delle istituzioni
ecclesiastiche ispaniche e delle loro immense ricchezze. Quanto detto a proposito del patronato
regio vale per le diocesi iberiche e dell’oltremare, ma non per il ducato di Milano ove era soggetta
al patronato una sola diocesi su 9 o per il regno di Napoli. Viceversa, il patronato era totale nei
confronti delle diocesi sarde e in quelle siciliane. Al patronato sulle istituzioni ecclesiastiche si
aggiungeva quello sui tre ordini militari-cavallereschi di Santiago, Calatrava e Alcantara, istituiti
nel XII secolo per combattere gli infedeli, ma nel 500 erano ridotti a istituzioni che accoglievano
uomini che in essi vedevano una certificazione della propria nobiltà. Non si può non menzionare
l’Ordine dei Cavalieri di San Giovanni di Gerusalemme, detto di Malta, che aveva una sua
ramificazione organizzata all’interno della penisola Iberica. Anche se la provvista delle cariche
gerosolimitane in teoria sfuggiva al re, in realtà le cose andavano diversamente e a quelle erano
destinati clienti di Filippo o dei suoi ministri. Tornando ai cardinali, il re riteneva suo diritto
presentare al pontefice gli uomini da insignire del cappello cardinalizio ma la sua particolarità era
che lo faceva non solo per i sudditi dei regni peninsulari ma anche per quelli delle province esterne.
Si dice che Filippo non volesse che degli spagnoli fossero elevati al cardinalato e quando ciò
avveniva mostrava tutti i segni della sua contrarietà come avvenne con il cardinal Francisco
Pacheco de Villena. Inoltre la presenza di cardinali spagnoli in conclave, secondo il re, avrebbe
potuto portare all’elezione di un papa spagnolo che avrebbe bloccato la sua politica di
accaparramento dei beni ecclesiastici. Nel concistoro del 12 dicembre 1583 Gregorio XIV elevò 19
nuovi cardinali fra i quali si annoveravano 9 sudditi del re. Egli non amava inoltre i nuovi ordini,
non accettò in Castiglia i cappuccini, tuttavia si preoccupò che quelli regolari fossero ben formati e
capaci di esplicare al meglio i propri compiti. Si comportava come se fosse il generale di ciascun
ordine; impose visite a conventi e monasteri, rafforzò la clausura delle monache, rimediò a molti
abusi, chiese a tutti di dedicare molto più tempo alla preghiera. Tra gli ordini che crescevano nella
fede e che contribuivano a far crescere la fede vi era quello nuovo dei gesuiti ma che non sempre

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riscosse il favore di Filippo II. I gesuiti erano consapevoli dei pericoli ai quali andavano incontro
ma forse non avevano messo in conto che numerosi ostacoli ai propri intendimenti potessero
provenire dal governo del paese che aveva dato alla luce il fondatore. Ma quello che impediva a
Filippo di accogliere un ordine che stava acquisendo grande prestigio, era il fatto che ai tre
tradizionali voti tipici dei regolari, i gesuiti ne aggiungevano un quarto, quello della completa
obbedienza al pontefice. Il generale e la sua curia risiedevano a Roma e nessuna autonomia era
lasciata ai rettori delle diverse province in cui si divideva l’Ordine. Il predominio a corte della
fazione ebolista assicurò ai gesuiti un tranquillo esercizio delle proprie funzioni in Spagna, però
quando tra 1572 e 1573 quella fazione declinò i gesuiti spagnoli non solo persero l’appoggio degli
ambienti di corte più vicini al sovrano, ma dovettero assistere anche ad un loro complessivo
ridimensionamento testimoniato dall’elevazione al generalato del fiammingo Mercuriano, primo di
una lunga serie di generali non spagnoli, al quale successe l’italiano Claudio Acquaviva. Molti
gesuiti spagnoli pensarono allora ad una Compagnia che mantenesse marcati tratti nazionali e che
fosse sottoposta a un superiore eletto da loro stessi con la facoltà per il re di nominare dei visitatori.
Quando però nel 1580 prevalse il partito castellanista si scatenò un duro attacco contro l’ordine
accusato di essere in Spagna la mano del papato. Conseguenze negative sulle struttura
dell’organizzazione furono però evitate con la Congregazione Generale del 1593 a seguito della
quale si ispanizzò accettando la giurisdizione dell’Inquisizione e l’ammissione dei conversos tra le
sue fila. Cessarono allora le tensioni con la monarchia e la Compagnia poté vivere il suo periodo
d’oro in Spagna sotto Filippo III. Ma a prescindere dai non facili rapporti con il re, la compagnia di
Gesù stava dando il meglio di sé nell’opera di evangelizzazione dei popoli extraeuropei.

I pontefici
La solidarietà totale tra la causa del Cattolicesimo romano e la politica interna ed esterna di Filippo
comportava uno stretto allineamento con il papato che non si risorse mai in mera subordinazione e
accondiscendenza. Egli rispettava il papa come colui che deteneva le chiavi del cielo, come
principe della chiesa, a loro volta i papi lo rispettavano come il principale sostegno della cristianità.
Ma ciononostante a differenza dei re franchi non lasciò alla chiesa nessun beneficio o territorio.
L’obiettivo costante di Filippo era di impedire l’elezione di un papa antispagnolo o che fosse
spagnolo o che appartenesse a famiglie di grande rilevanza politica o economica. In effetti durante
il suo regno non ci furono pontefici spagnoli ma sudditi si. Il primo fu Paolo IV napoletano, al quale
il re mosse guerra, il secondo Pio IV. In generale, Filippo sperava in pontefici suoi dipendenti e
confidenti, di bassa condizione e che riconoscessero in lui il sovrano che avrebbe potuto arricchire
di titolo i propri parenti. Egli cercava di fare in modo che i pontefici fossero costretti a rivolgersi a
lui per i rifornimenti di grano dal regno di Napoli e dalla Sicilia, per la protezione contro le
incursioni turchesche ecc. in ogni caso, sempre il re dichiarò di essere un fedele figlio del papa e
pretese di dimostrare questa fedeltà in ogni occasione, anche in quella che concerneva
l’introduzione del nuovo calendario, varato nel 1582 da Gregorio XIII. Egli, von il taglio di 10
giorni di ottobre (5-15) diede ordine che in tutti i suoi regni si osservasse il nuovo. Questo fu
accettato da tutti i principi cattolici, ma non da quelli protestanti perché proveniva da Roma. Uguale
fedeltà il re dimostrò nelle questioni che concernevano il concilio di Trento e nell’accettazione dei
suoi decreti. L’assise tridentina si articolò in tre fasi, quella del 1545-1547, quella del 1551-1552 e
del 1562-1563. Nelle istruzioni del 1548 Carlo V aveva sollecitato il figlio ad operarsi per la
conclusione del concilio, se questo non fosse avvenuto finché egli era ancora in vita. Il concilio si
era sciolto per la delicata situazione che si era determinata in Germania alla conclusione della dieta
Augusta (nel 1522 esso fu interrotto per l’avvicinarsi delle truppe di Maurizio di Sassonia che

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aveva posto in fuga l’imperatore da Innsbruck). Giunto in Spagna Filippo si spostò con la corte a
Toledo da dove chiese al papa la ripresa del concilio. Il re ne riteneva necessaria la riapertura
perché per lui le cose della cristianità richiedevano pronti rimedi per contrastare la diffusione
dell’eresia in Francia, nella Savoia, nella stessa Spagna. Il concilio si riaprì nel 1562, Pio IV
sospettava che gli stranieri, spagnoli o francesi, avrebbero influenzato lo svolgimento e la
conclusione dei lavori, e pertanto fece in modo che a Trento giungessero numerosi prelati italiani
che avrebbero costituito un argine alle pretese degli ultramontani. Il pontefice però non aveva
nessuna intenzione di entrare in contrasto con Filippo, dal quale, aveva ricevuto solide
remunerazioni per i suoi nipoti, a cominciare da Carlo Borromeo. Quando nel 1563 il concilio si
chiuse ufficialmente cominciò per il papa e la Chiesa il delicato compito di far accettare ai sovrani
cattolici i decreti emanati e di farli inserire nella legislazione statale.

Le ricchezze della Chiesa al servizio del re


Il ruolo che Filippo si era attribuito di difensore della fede e di pugnace combattente contro eretici
ed infedeli era giustificato alla luce di motivazioni esclusivamente religiose e, per assolvere al
compito che riteneva essere suo, il re utilizzava ampiamente risorse di pertinenza della chiesa, a lui
concesse per la difesa della vera religione e del papato, ma che spesso usava per altri scopi. La
Chiesa universale e quella spagnola contribuivano al raggiungimento degli obiettivi che il re si era
prefisso e pertanto quella spagnola, con l’autorizzazione di Roma, aveva assegnato al re somme non
indifferenti sotto la voce di cruzada, indulgenze e sussidi vari. Filippo, che nel 1569 aveva ordinato
che si censissero tutti i beni della Chiesa nei suoi regni, riusciva spesso ad accaparrarsi la metà delle
decime che fluivano verso le istituzioni ecclesiastiche spagnole. Somme considerevoli provenivano
anche dal cosiddetto excusado, grazia papale concessa al re, in virtù della quale il sovrano poteva
incamerare le decime corrisposte da tutti i più ricchi contribuenti delle parrocchie spagnole che,
pertanto, erano excusados per non destinare alla loro chiesa la decima dovuta.

L’inquisizione
Contro eretici veri o presunti il re aveva a disposizione uno strumento che aveva ereditato dai suoi
bisnonni, Isabella e Ferdinando, e che potenziò e sostenne al fine di fare della Spagna un paese che
aveva allontanato da sé ogni rischio di possibile contagio che potesse provenire non solo da
minoranze religiose che avevano abitato i regni peninsulari (mori o ebrei) ma anche da coloro che
avevano abbracciato l’eresia luterana o calvinista. Questo strumento era l’Inquisizione istituita dai
re Cattolici grazie a una bolla di Sisto IV del 1478 alla quale gli diede sempre un convinto sostegno.
Anzi il fatto che quell’Istituto fosse governato da un Inquisitore generale, proposto dal re e
nominato dal papa e da un Consiglio, dimostra il carattere misto, ecclesiastico e politico,
dell’Inquisizione spagnola. L’inflessibilità con la quale condusse la sua lotta contro l’eresia
divenne, fin da subito, uno dei tratti distintivi della sua personalità. Egli fece in modo che alla testa
dell’Inquisizione fossero uomini zelanti, ai quali prestava tutta la sua fiducia e che onorava
partecipando di persona agli autos de fe, che illuminavano, con i loro roghi le piazze spagnole. Il
regno di Filippo era iniziato con i roghi degli eretici sospetti di luteranesimo a Valladolid del 21
maggio 1559 ai quali presenziarono la principessa Giovanna, don Carlos e molti componenti dei
Consigli, in tale occasione fu giustiziato per sospetta adesione al luteranesimo insieme al fratello
Francisco Agustin Cazalla predicatore presso Carlo V e la famiglia imperiale. Il caso più clamoroso
che dovette affrontare l’Inquisizione spagnola e lo stesso Filippo fu quello che ebbe a protagonista
l’arcivescovo di Toledo e primate di Spagna Bartolomeo Carranza. Questi era un domenicano

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nominato arcivescovo di Toledo nel 1557, fu arrestato dall’Inquisizione per affermazioni non
ortodosse che sarebbero state contenute nel suo libro pubblicato nel 1558 e che sarebbero state il
frutto delle sue frequentazioni inglese e fiamminghe. Il suo arresto innescò un duro scontro tra
Roma e Madrid su chi dovesse processarlo. Vinse Roma anche se il processo si svolse con una
lentezza esasperante tanto che si temeva di una perdita di reputazione di un re che faceva tanto per
mantenere la Spagna nella fede cattolica. Gregorio XIII successore di Pio V fece condannare
l’arcivescovo ma con una condanna cosi lieve che in sostanza si configurava come un’assoluzione.
Il sostanza il processo fu la conseguenza di un duro conflitto tra il re e la sua chiesa e Roma che
intendeva affermare la propria supremazia anche sull’Inquisizione spagnola. Il sovrano voleva
estendere l’Inquisizione anche nei territori dipendenti, specie in Italia e nelle Fiandre. Ma la prima
era una terra ove il Sant’Uffizio romano esercitava la propria giurisdizione e non vi era nessuno
spazio in Italia per quel tribunale spagnolo che, Carlo V aveva tentato di introdurre nel regno di
Napoli provocando una sollevazione generale. Riportiamo i fatti di Milano. Nella curia romana, agli
inizi degli anni 60, si era fatta strada la percezione che l’eresia si stesse diffondendo per tutta l’Italia
del nord, specie nel ducato di Milano, confinante con terre dove si praticavano il luteranesimo e il
calvinismo. Sarebbe stato il re stesso a domandare nel 1563 al papa Pio IV di introdurre nel
milanese l’Inquisizione a modo di Spagna, mentre secondo altri sarebbe stato il pontefice a
chiedere questo a Filippo. Seguendo la prima versione, il governatore di Milano, il duca di Sessa,
comunicò agli organi di governo della città l’introduzione dell’Inquisizione suscitando le protesto di
clero (preoccupati per la diminuzione della loro giurisdizione) nobili e popolo. Il governatore fece
presente al re dei pericoli a cui sarebbe andato incontro introducendola e lo consigliò, nel caso in
cui avesse voluto riprovarci, di inviare prima un esercito in Lombardia e poi di comunicare ai
lombardi la propria volontà.

I moriscos
L’eresia poteva essere rappresentata dall’ebreo che aveva finto di convertirsi al Cristianesimo, o nel
Morisco, il musulmano che viveva nell’antico regno di Granada, o in quello di Valencia o Aragona,
superficialmente convertitosi, ma praticante nell’intimità domestica i riti della sua vecchia
religione. A Granada erano quasi il 5% della popolazione ed erano tormentati in tutte le maniere
dalle autorità civili ed ecclesiastiche di quelle regioni (Granada, Valencia e Aragona), impegnate in
un processo di ispanizzazione forzata di quella minoranza etnica con la collaborazione
dell’Inquisizione, rappresentata al vertice in quel momento da Diego de Espinosa. Il re però,
prendendo atto del fallimento dell’opera di evangelizzazione, emanò il 17 novembre 1566 una
prammatica che proibiva ai moriscos una serie di comportamenti ritenuti tipici di coloro che
praticavano la religione islamica: era vietato l’uso della lingua araba, i libri in quella lingua
dovevano essere consegnati alle autorità, dovevano abbandonare gli abiti moreschi, le nozze
dovevano essere celebrate secondo il rito cattolico, le porte delle abitazioni dovevano restare aperte
il venerdì, erano vietati i bagni pubblici per evitare la promiscuità tra i sessi. I moriscos però
esposero al nuovo presidente della audiencia real di Granada, Pedro de Deza, appartenente
all’Inquisizione, le ragioni che non permettevano di considerare consurabili i loro stili di vita.
L’abito che indossavano era un abito tradizionale, i nomi che possedevano servivano a conservare la
memoria dei loro antichi lignaggi, i libri non contenevano niente che potesse contraddire la fedeltà
verso il re ecc. il presidente non accettò le loro motivazioni ma li invitò a comunicargli i casi di
violenza che subivano. La situazione divenne ben presto tesa in tutto il regno di Granada e alla fine
del 1568 esplose una sollevazione generale che si trasformò in un atroce conflitto provocando
enormi perdite tra uomini, donne e bambini. La rivolta avvenne perché alcuni moriscos provenienti

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da paesi vicino a Granada penetrarono nel quartiere arabo della città invitando la popolazione alla
rivolta. In Spagna non c’erano al momento forze armate in grado di soffocare la rivolta e di
conseguenza gli insorti ebbero numerosi successi, finché Filippo non inviò il fratellastro Juan che
riuscì a sopprimere la rivolta. Il provvedimento più drastico fu lo spopolamento del regno andaluso
e l’annientamento della sua agricoltura al cui progresso tanto avevano contribuito i mori. Gli
inquisitori ora avrebbero dovuto cercare le tracce di comportamenti islamici non solo in Andalusia
ma in tutta Castiglia.

Capitolo 6: La politica estera

Un re pacifico?
Gli obiettivi della politica estera del re erano quelli di reprimere la minaccia che i turchi e i loro
alleati facevano gravare sui quadranti centrali e occidentali dei Mediterraneo, di assicurare
l’egemonia spagnola in Italia attraverso l’imposizione di una situazione di quiete che necessitava
della collaborazione dei principi e delle élites locali, la difesa a oltranza della propria sovranità
laddove essa era messa in discussione (Paesi Bassi), la lotta per il ripristino in Inghilterra del
Cattolicesimo da attuare tramite l’insediamento sul trono di San Giorgio di un sovrano non
protestante. Infine è da rimarcare l’attenzione che egli prestò all’organizzazione dei territori del
Nuovo Mondo e alla scoperta e al controllo di altri collocati nel Pacifico (per esempio le Filippine)
dovuta a motivazioni religiose e commerciali e mirante all’affermazione della propria potenza e del
proprio prestigio anche su quei mari lontani. L’immagine che gli storiografi spagnoli tramandano di
lui è quella di un re pacifico costretto a scatenare guerre che in ogni caso erano giuste ossia
intraprese per la difesa della religione. Filippo nei primissimi anni di governo intraprese una guerra
contro il papa e concluse quella ormai annosa con la Francia. Possiamo dire però che prima dello
scoppio della rivolta dei Paesi Bassi, egli perseguì una politica estera all’insegna di un conclamato
ed esibito pacifismo. Con la pace aveva ottenuto dalla Francia la restituzione della Savoia al duca
Emanuele Filiberto e della Corsica a Genova e aveva concesso quasi tutto il territorio della
repubblica di Siena all’allora duca di Firenze Cosimo I. la politica pacifista gli consentiva di
accrescere le proprie entrate e ridurre gli ingenti debiti contratti dal padre. Nei primi anni del suo
regno si può dire che Filippo vivesse all’ombra del padre e gli osservatori analizzavano i suoi
comportamenti paragonandoli a quelli dell’imperatore. Del presunto pacifismo del re, che in ogni
caso era sempre un pacifismo armato e non rinunciatario, facevano parte le guerre contro gli
infedeli e quelle di religione alle quali Filippo non volle sottrarsi.

Tercios, armadas y naciones


Per difendere la reputazione del re e della Cattolicità dai suoi avversari eretici c’era bisogno di un
esercito e di una flotta che fossero in grado di sconfiggere i nemici ogni qualvolta avessero cercato
di acquisire posizioni in quello che era l’ambito di esercizio della sovranità del re. Nella prima parte
del regno, quella che va fino al 1575-80, il baricentro del confronto del re con i suoi nemici furono
il Mediterraneo e le Fiandre e fu qui che si dispiegò il massimo sforzo militare della monarchia e il
massimo impegno delle sue forze armate. L’esercito era costituito da soldati provenienti in gran
parte dalla Penisola Iberica, dall’Italia, dalla Fiandre, dalla Germania. Per alcuni un esercito
composto da militari di più nazioni era un esercito debole e facile a disgregarsi, per altri
l’eterogeneità della sua composizione poteva rilevarsi un vantaggio dato che ogni componente
aveva caratteristiche tali nella conduzione delle guerre che non erano presenti in una sola nazione.

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Ovviamente gli spagnoli godevano della preminenza anche perché tutti ritenevano che essi fossero
più forti, più pazienti e atti a soffrire i disagi della guerra che non i soldati non ispanici. Essi erano i
più cari e i più favoriti, gratificati più degli altri di premi e di onori, ma non erano abbastanza
numerosi per la scarsa fecondità delle donne spagnole. Nell’impossibilità di riempire i ranghi di uno
o più eserciti con soli spagnoli, si pensava che la soluzione ideale per non lasciar sguarniti i tercios
fosse quella di disporre di contingenti composti per la metà di italiani e di spagnoli e per l’altra
metà di tedeschi che, provenienti da terre fredde a differenza dei primi erano animosi di natura e
temevano meno la morte. D’altra parte nessuna nazione da sola sarebbe stata in grado di sostenere il
peso di guerre lunghe e contro nemici ben determinati come furono quelle condotte da Filippo:
l’importante era che il comandante fosse uno solo e spagnolo e godesse di autorità e stima presso i
soldati. Di fronte a lui le nazioni che componevano l’esercito avrebbero aspirato tutte a dar prova
del proprio valore. La fanteria surclassava ampiamente, nel suo ruolo e nel suo impiego, la
cavalleria: i fanti erano armati di picche, archibugi e moschetti e il loro valore e la capacità di
sostenere gli urti erano proverbiali. Alla battaglia non doveva partecipare il re perché in caso di
sconfitta la sua morte o cattura avrebbe provocato la fine del regno, era meglio inviare sul fronte di
guerra un buon comandante. Filippo si comportò in questo modo perché era nella sua indole
dirigere da lontano le campagne militari. Se l’esercito era uno, anche se composto da contingenti
delle più varie nazionalità, diverso è il discorso da fare per la flotta che, soprattutto nel
Mediterraneo, era composta da navi castigliano-aragonesi e da squadre navali dei regni di Napoli e
di Sicilia, dei signori genovesi, dello Stato della Chiesa, della Toscana e dell’Ordine di Malta. Le
flotte dei territori extraispanici della monarchia o dei paesi alleati mantenevano una propria
autonomia anche se alla testa dell’intero apparato era posto un capitano generale del mare spagnolo.
Compito delle marine ausiliarie nella guerra navale permanente che travagliò il Mediterraneo
centro-occidentale negli anni di Filippo era quello di difendere le coste del proprio territorio salvo
poi, in casi particolari, confluire in quella ispanica. L’altro compito loro assegnato era poi quello di
assicurare i collegamenti marittimi tra le varie parti della monarchia dislocate a ovest e a est del
mar Tirreno. Infine alle squadre spagnole era affidato il compito di proteggere i convogli navali che
dalle indie occidentali si recavano nei porti peninsulari, specie Siviglia e Cadice, mentre quelle
vicereali del Perù e del Messico dovevano difendere gli insediamenti coloniali dagli attacchi dei
corsari.

La diplomazia
La rete diplomatica spagnola contava su un limitato numero di ambasciate permanenti. La prima
per ordine di importanza era quella presso la Santa Sede, patria comune di tutti i cattolici,
generalmente retta da grandi personalità. Gli ambasciatori a Roma avevano il gravoso compito di
far si che il pontefice fosse amico o almeno non nemico del re, vigilavano sui conclavi e si
inserivano nel gioco delle fazioni collegandosi alle grande famiglie romane. Seguivano quella
presso l’imperatore (a partire dal 1558), la corte di Francia, quella inglese, quella portoghese;
presso i cantoni svizzeri vi era un ambasciatore, mentre in Italia c’erano a Roma, Venezia, Genova
e Torino. L’ambasciata a Vienna-Praga e quella a Lisbona, dati gli stretti vincoli parentali tra la casa
regnante spagnola e quella asburgico-imperiale e portoghese si configuravano quasi come
ambasciate di famiglia più che di stati. A loro volta, le quattro ambasciate italiane, testimoniano
della centralità della penisola nel contesto della monarchia ispanica. Quella spagnola era una
diplomazia bilaterale ordinaria, ossia che vedeva a Madrid le rappresentanze diplomatiche dei paesi
presso i quali la corte spagnola aveva proprie delegazioni. Alla diplomazia ordinaria corrispondeva
quella straordinaria che aveva i suoi protagonisti negli ambasciatori inviati per seguire questioni

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particolari (ad esempio i legati inviati a Trento in occasione dei lavori conciliari) nei viceré (quello
di Napoli in particolare) e nei governatori (in primis quelli di Milano e nelle Fiandre) che spesso
svolgevano una politica estera parallela a quella di Madrid. Ancora, vi erano ambasciatori che
seguivano la politica dinastica della famiglia e che si attivavano in occasione delle complesse
trattative matrimoniali che il re intrecciò con altri sovrani per sistemare se stesso, l’omonimo figlio
e le figlie. Vi erano poi i plenipotenziari che non avevano solo il compito di curare la politica statale
della monarchia, ma anche i rapporti con le grandi famiglie che rivestivano posizioni di rilievo
all’intorno dello stato presso il quale erano accreditati e verso stati che appartenevano all’ambito
politico di quello presso il quale espletavano il proprio incarico. Questo avveniva con il governatore
di Milano che ambasciatore non era, ma teneva rapporti diplomatici con i piccoli principi dell’area
padana, e con la ambasciatore presso la corte imperiale che doveva far sentire la voce del re alla
moltitudine dei principi germanici, non solo per assicurarsene la collaborazione, ma anche per
rafforzare le posizioni cattoliche in zone di frontiere ove si contrapponevano le diverse confessioni
religiose. Proverbiale era l’arroganza dei plenipotenziari spagnoli, spesso non in grado di
comprendere la lingua del paese in cui operavano, con a disposizione grandi quantitativi di denaro
per acquisire informazioni riservate o rafforzare le clientele del re. C’era anche la diplomazia
informale incarnata dai parenti e dai familiari del sovrano, in particolare la moglie straniera o le
figlie sposate a principi stranieri: si ricordino la volontà di Caterina de Medici, regina di Francia, di
influire su alcune decisioni di Filippo attraverso la figlia Elisabetta.

Contra moros e turcos


A. La guerra d’Africa
Fra i possedimenti che Filippo aveva ereditato dal padre erano i presidios africani. Essi erano
piccole enclave sulla costa magrebina che, in alcuni casi risalivano agli anni successivi alla
conquista di Granada (1492) e in altri al regno di Carlo V. Vera e propria frontiera militare della
Castiglia e dell’Aragona, la loro funzione era quella di proteggere le coste spagnole e quelle italiane
dai continui attacchi dei corsari barbareschi, di garantire il traffico navale tra Spagna e Italia, di
acquisire informazioni sui movimenti delle navi corsare e su ciò che si decideva a Instanbul e
impedire eventuali collegamenti tra le potenze di quella zona e la minoranza morisca
dell’Andalusia. Una politica africana in grande stile tentò Carlo con la conquista di Tunisi nel 1535
e con la fallita spedizione di Algeri del 1541, ma all’inizio del suo regno Filippo si mosse in
maniera più guardinga anche se la guerra praticata nel Mediterraneo si era trasformata in un
conflitto tra due imperi, quello ispanico e quello ottomano, che coinvolgeva le piazzeforti in terra
d’Africa. Verso la metà del secolo i presidios africani si erano ridotti a Melilla, Malzalquivir, Orano
e La Goletta e appariva sempre più difficili mantenerli di fronte alle continue scorrerie delle
popolazioni circostanti che potevano essere respinte solo con il continuo invio di navi e truppe di
soccorso. Molto dure erano le condizioni di vita per i soldati delle guarnigioni spagnole, sottoposti
alla fame, alla sete in località circondate dal deserto. La prudenza di Filippo nell’intraprendere
un’aggressiva politica sul suolo africano era anche dovuta al fatto che doveva mediare tra gli
interessi castigliani che premevano per una messa in sicurezza delle coste meridionali della Spagna
attraverso il controllo di Orano e Algeri e quelli siculo napoletani che spingevano per il
rafforzamento e la conquista dei territori di fronte alle coste meridionali italiane. Fu nel 1560 che si
ebbe una vera svolta quando Filippo fu costretto a cedere alle pressioni del viceré di Sicilia Juan del
la Cerda e del Gran Mastro dell’Ordine di Malta per la riconquista di Tunisi. Un’imponente flotta,
proveniente dai vicereami e dagli stati italiani alleati, si riunì a Messina nel novembre del 1559 per

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muovere verso Tripoli ma il freddo e le malattie ritardarono la partenza e quando avvenne l’effetto
sorpresa era ormai svanito. Dopo ulteriori soste e Siracusa e a Malta, che falcidiarono ancora di più
il numero dei soldati, la flotta fece vela verso Tripoli alla quale non sarebbe mai giunta perché dopo
accese discussioni i comandanti decisero di deviare verso Gerba dalla quale si sperava di attaccare
Tripoli in più favorevoli condizioni climatiche. Lo sbarco avvenne nel caos più completo e mentre
i fanti costruivano un forte giunse la flotta turca che distrusse e catturò le navi della coalizione. La
battaglia era avvenuta nel maggio del 1560e aveva portato come risultato a un enorme disastro che
aveva riempito Istanbul di prigionieri posti in schiavitù. Filippo ricevette la notizia della sconfitta e
altre catastrofi colpirono in quel quadrante il re: la distruzione della flotta siciliana, caduta in un
imboscata presso le Lipari nel luglio 1561 e l’affondamento presso Malaga di 25 navi dirette a
Orano nel 1562 tra il 1560 e il 1562 la marina spagnola aveva perso la metà dei suoi effettivi.
Orano, il presidio per eccellenza e il più munito, conquistata nel 1509 e a proprie spese dal
cardinale Cisneros, nell’aprile 1563 fu sottoposta ad assedio da parte del già noto Pascià. Il 9
giugno l’assedio fu rotto e la città rimase possedimento della Spagna fino al 1708. Dopo di che nel
1564 una flotta spagnola, comandata dall’allora viceré di Catalogna Garcia Alvarez de Toledo
conquistò il Penon de Velez de la Gomera, il cui possesso era ancora una volta fondamentale per la
sicurezza della navigazione nel mediterraneo occidentale. Filippo remunerò i soldati distintisi
nell’impresa e ovunque furono accesi fuochi e luminarie. Per il momento era terminata la guerra
d’Africa, ma non quella che vedeva opposti i due imperi del Mediterraneo e fu forse per rifarsi
dello smacco del Penon che Solimano decise di attaccare Malta. Torneremo sull’assedio di Malta
del 1565 e sulla battaglia di Lepanto del 1571. Per ora soffermiamoci sull’ultimo episodio della
guerra d’Africa, ossia sulla conquista e sulla quasi immediata perdita di Tunisi. Il vincitore di
Lepanto conquistò con una passeggiata militare Tunisi il 10 ottobre 1573 e poi Biserta e la affidò
a Mulay Hassan. Nell’agosto del 1574 La Goletta era riconquistata dai turchi e stessa sorte subiva
Tunisi, senza che questi eventi suscitassero particolari reazioni in Filippo. Grande errore era stata la
volontà di Filippo, roso dalla gelosia di non soddisfare le ambizioni di Don Juan che si diceva,
voleva farsi re di Tunisi. Con la perdita di Tunisi Juan perse gran parte della reputazione che aveva
conquistato a Lepanto non essendo riuscito a organizzare efficaci soccorsi che andassero in aiuto
della guarnigione della città.

B. Nel Mediterraneo centrale


Torniamo ora all’assedio di Malta. Sull’isola avevano sede dal 1530 i cavalieri di Malta, li
insediatisi dopo la loro espulsione da Rodi. Essi praticavano un’inesorabile guerra contro i turchi e
i barbareschi e per questo era divenuti i nemici più ostili della Mezzaluna. L’attacco turco non si
fece attendere e il 18 maggio 1565 una numerosa flotta si presentò davanti alle coste dell’isola. La
resistenza incontrata fu feroce, ma il destino dei cavalieri sembrava essere segnato quando il 7
settembre giunse il soccorso dalla Sicilia inviato dal viceré Garcìa Alvarez de Toledo, il
conquistatore del Penon, passato dal governo di Barcellona a quello di Palermo. Filippo. molto
titubante, autorizzò l’invio di navi e di soldati provenienti dalla Spagna e dall’Italia che furono
fondamentali. Dopo lo scacco maltese, lo sforzo turco si diresse verso il Levante. E venne Lepanto,
la grande battaglia navale, e l’unico che sembrava potesse fermare l’audacia dei Turchi, allora
impegnati nell’assedio di Cipro, era Filippo in quanto gli altri stati erano impegnati: la Francia nelle
guerre di religione, l’Inghilterra con Elisabetta che procedeva con il ripristino dell’anglicanesimo.
L’assedio di Famagosta durò dal 22 agosto 1570 al 4 agosto 1571 e nel frattempo papa Pio V si
prodigò per costituire una lega che aiutasse Venezia nella difesa dell’isola. Essa, dopo lunghi e
difficili negoziati fu sottoscritta nel maggio 1571 ma ormai era tardi per soccorrere Cipro la

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compattezza dell’Impero turco spiccava di fronte alla frantumazione dei suoi avversari e si
sottolinea che i principi cristiani, non confinando allo stesso modo con il turco, quanto più erano
lontani dal pericolo, tanto meno erano pronti a muoversi per la guerra e a contribuire allo sforzo
comune. Ma alla fine, la volontà del papa che ricordava che non c’era principe che non fosse in
pericolo di fronte all’avanzata turca e l’impegno di Filippo, nonostante la collera che nutriva ancora
nei confronti della Serenissima per essersi rifiutata di partecipare nel 1565 al soccorso di Malta,
portarono alla costituzione della lega alla quale il re impose che dovesse combattere mori e turchi e
che dovesse essere sottoposta ad un comandante supremo che fu individuato in Don Juan. Il papa
accettò anche se pretese che il comandante in seconda fosse Marco Antonio Colonna. Il 7 ottobre
1571 avvenne la memorabile battaglia di Lepanto dove don Juan vinse, ma anche questa volta fu
messo in secondo piano da Filippo. A don Juan furono riservati onori trionfali a Massina, Palermo
e Napoli. Il re però, con grande delusione del papa, nel 1573 fece pace con il Sultano, seguendo
l’esempio di Venezia che l’aveva fatto l’anno precedente.

La rivolta dei Paesi Bassi


Erano passati pochi mesi dalla vittoriosa conclusione dell’assedio di Malta quando nei Paesi Bassi
scoppiarono tumulti che presto si sarebbero trasformati in una guerra, conclusa solo nel 1648. Come
aveva fatto una cosi piccola realtà territoriale a combattere contro una monarchia di smisurata
grandezza ? nelle Fiandre si era prodotta l’unione di nobiltà e popolo nel perseguire i medesimi
obiettivi. Dopo il fallimento del tentativo del 1544 di assegnare i Paesi Bassi a Carlo di Valois-
Orleans, figlio di Francesco I di Francia, che avrebbe sposato Maria, figlia dell’imperatore, quelle
17 province erano state agglomerate da Carlo V che aveva posto alla sua testa un governatore
appartenente alla famiglia reale, assistito da una serie di consigli che deliberavano intorno a
questioni concernenti l’intero paese. Carlo aveva inoltre staccato nel 1548 quelle province dalla
giurisdizione imperiale a aveva cercato di trasformarle in un regno, come Napoli e la Sicilia, ma
non riuscì a realizzare il suo intento anche per l’opposizione degli stessi fiamminghi. Il trapasso dei
poteri dall’imperatore al figlio aveva portato a numerose innovazioni nella prassi di governo dovute
anche alle diversità caratteriali tra i due. Il primo era stato educato a Gand e si era circondato di
consiglieri fiamminghi, il secondo era spagnolo e si serviva di consiglieri spagnoli. Il primo si era
mostrato benigno, il secondo grave e tutto preso dalla lotta contro l’eresia che si stava diffondendo
anche nelle Fiandre. Ben presto era insorta una grave antipatia tra spagnoli e fiamminghi.
Impropriamente la guerra si poteva ridurre a un conflitto tra questi due, ma coinvolse quasi tutta
l’Europa, durò ottant’anni e interessò Filippo II, III e IV. Dopo la vittoriosa campagna contro la
Francia e la pace di Cateau- Cambrésis, Filippo nominò governatrice dei Paesi Bassi la sorellastra
Margherita che sostituiva Emanuele Filiberto. A Margherita, nata nelle Fiandre e buona conoscitrice
delle usanze del paese, duchessa di Parma e Piacenza in quanto moglie di Ottavio Farnese, si
affiancava il Consiglio di Stato e da tre membri permanenti il più importante dei quali era il
cardinal Granvelle. Filippo, al momento di ascendere ai troni paterni aveva conferito ai principali
signori delle Fiandre importanti cariche nel governo di quelle province ma questo evidentemente
non bastava. Essi, non erano soddisfatti di governi, anzi, davano prova di insolenza nei suoi
confronti ritenendosi compagni e uguali a lui e non vassalli e tenendo in poco conto la reggente
Margherita. Nel 1565 crescevano le inquietudini dei fiamminghi che chiedevano aiuti
all’Inghilterra, alla Francia, all’Inghilterra, ai principi tedeschi affinché li liberassero
dall’Inquisizione, garantissero la libertà di coscienza, la liberazione del proprio paese da un governo
di spagnoli e la sostituzione con una giunta degli Stati Generali diretta da Egmont, Hornes e Orange
che avrebbe dovuto sostituire Margherita. A questi motivi di malcontento si accompagnava il timore

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dell’introduzione dell’Inquisizione spagnola e un più ferreo controllo sulle strutture ecclesiastiche.
Una serie di incontri in Spagna di Egmont con Filippo aveva fatto sperare il primo che il re fosse
disposto ad ascoltare le richieste di quei suoi lontani sudditi, ma le cose non andarono come il conte
e la reggente avevano sperato. Il re riunì il Consiglio di Stato per vedere come risolvere la
situazione, e la proposta del duca d’Alba era quello che il re voleva sentirsi dire: era necessario
punire la superbia dei fiamminghi inviando contro di loro un forte esercito perché quei sudditi
avevano tradito il re e la vera religione e meritavano un severo castigo. Il re lo propose come
capitano generale dell’impresa che preparava contro i ribelli. Gomez Suarez de Figueroa mise in
guardia il re dai rischi che avrebbe provocato l’invio di un esercito ma lui non lo ascoltò. El camino
espanol, ossia il corridoio terrestre che portava gli spagnoli dalla Lombardia a Bruxelles fu percorso
molto rapidamente. 10.000 uomini al comando di Alba in poco più di 50 giorni giunsero nei Paesi
Bassi ove si unì a contingenti assoldati in Germania. La reggente ben presto si rese conto che il
duca aveva la piena autorità per reprimere la rivolta e di conseguenza chiese e ottenne da Filippo il
permesso di tornare in Italia lasciando dopo 8 anni le Fiandre. Alba diede subito inizio alla
repressione e fece della Grand Place di Bruxelles il teatro ove si rappresentava la tragedia della
nobiltà fiamminga e che vide sul palco dei giustiziati Egmont e Hornes e centinai di altri
aristocratici. Le condanne a morte, la confisca dei beni dei rivoltosi si accompagnarono a una
politica di larga concessione di mercedes per coloro che rimanevano fedeli al re. Il governatore
aveva vinto ma voleva ancora incrudelire, ulteriori condanne a morte prepararono il terreno alla
ripresa della rivolta. Fece costruire una statua che lo celebrava come colui che aveva riportato la
pace nei Paesi Bassi, ma quando nel 1573 abbandonò il governo dei Paesi Bassi lasciò dietro di sé
una scia di sangue e di rancori. Non riuscì a pacificare le Fiandre il suo successore Luis de Zuniga
y Requenses con alle spalle una brillante carriera svolta al servizio di Carlo V e del figlio. Egli
accolse di mala voglia l’incarico, fingendosi malato, ma il re non ne volle sapere e lo inviò nelle
Fiandre dove sarebbe stato seguito da lontano dal cardinal Granvelle. Pur sconfiggendo in battaglia
diverse volte i ribelli, avviò una politica di cauta riapertura ma morì improvvisamente nel marzo del
1576. Il governo fu assunto dal Consiglio di Stato ma da allora i Paesi Bassi sprofondarono nel caos
e nel novembre del 1576 sarebbe avvenuto il tremendo sacco di Anversa, opera di soldati ai quali da
mesi non era corrisposta la paga. Il re decise di inviare come governatore il fratellastro Juan, anche
se ritardò a partire in quanto aspettava una risposta dal pontefice circa il suo piano di soccorrere i
cattolici inglesi, sposare Maria Stuart, deporre Elisabetta e farsi signore delle Isole Britanniche.
Tuttavia Juan fu ricevuto come legittimo governatore dei Paesi Bassi il 12 maggio 1577 e accettò
quando a Gand nel 1576 avevano deciso gli Stati Generali (la pace tra le province, la sospensione
delle leggi contro l’eresia, la liberazione dei prigionieri, la partenza delle truppe spagnole dal paese
e l’affidamento del governo effettivo a una giunta degli Stati generali). L’articolato della pace non
si applicava all’Olanda e alla Zelanda, mentre Juan riteneva che essa ledesse la propria reputazione
in quanto stipulata senza e contro di lui ed era convinto che le armi avrebbero spuntato migliori
condizioni. La morte del principe nel 1578 avvenuta in circostanze poco chiare, aprì la strada al
governo di Alessandro Farnese che già si trovava nelle Fiandre per controllare il principe.
Spettacolare fu l’assedio e la presa di Anversa nel 1585, grazie alla diplomazia e a una politica di
selettiva pacificazione, il Farnese aveva recuperato il sud, grazie alle armi recuperò gran parte del
nord. Egli può essere considerato il fondatore del moderno Belgio. Nel 1581 con l’atto di
proscrizione le province settentrionali avevano dichiarato la propria indipendenza facendo un
regalo a Filippo e al Farnese in quanto cessava la finzione dei sudditi fedeli. Aveva facilitato questa
posizione l’Apologia di Guglielmo d’Orange dell’anno precedente nella quale il principe, rigettando
l’editto di prescrizione emesso contro di lui da Filippo, sosteneva che esso non era valido in quanto

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fulminato contro un principe imperiale, poi riversava sugli spagnoli e sul loro re le più infamanti
accuse e infine sottolineava la differenza nello stile di governo tra Carlo V e il figlio: aveva ucciso
don Carlos e fatto morire Elisabetta per sposare la nipote Anna, teneva tutti i suoi popoli in una
miseria tale che prima o poi si sarebbero ribellati, la naturale arroganza degli spagnoli aveva fatto il
resto, senso di superiorità, superbia ecc. l’Orange non sopravvisse molto tempo alla sua Apologia e
nel 1584 fu ucciso a Delft in un attentato mossogli da un borgognone desideroso di liberare il
mondo dal maggior nemico della chiesa e del re. Alessandro Farnese fu diverse volte in Francia,
vinse i suoi nemici, nel 1589 liberò Parigi dall’assedio di Enrico di Navarra, effettuò ritirate
memorabili ma nel 1592 a soli 48 anni di età morì a Arras. A lui furono riservati onori solenni. Alla
sua morte al governo del paese prima salì Pietro Ernesto di Mansfeld, poi l’arciduca Ernesto
d’Austria, seguito dal conte di Fuentes, e infine l’arciduca Alberto, governatore fino al 1598 e
successivamente sovrano con l’infanta Isabella dei Paesi Bassi.

L’impero, un affare di famiglia ?


Al lungo regno di Filippo corrispose quello di tre imperatori: Ferdinando I (1556-1564),
Massimiliano II (1564-1576) e Rodolfo II (1576-1612), del primo il re era nipote, del secondo
cugino cognato e genero e del terzo zio. I numerosi legami parentali non impedirono tuttavia il
sorgere di profondi dissapori tra le due linee di casa d’Austria, un poco temperati dall’azione
mediatrice dell’imperatrice Maria e dalla consapevolezza che la forza e la disponibilità di ingenti
risorse finanziarie risiedevano nel ramo spagnolo della famiglia. Il rapporto con i Paesi Bassi era
diventato una specie di cartina di tornasole delle relazioni tra l’impero e Filippo II, ma non fu solo
su tale questione che il re e l’imperatore entrarono in contrasto, vi erano molte situazioni italiane a
dividerli, oltre che problemi di natura religiosa che investivano le Germania e i Paesi limitrofi.
Mentre con Ferdinando I i rapporti erano stati improntati alla reciproca correttezza, non delle
migliori furono invece le relazioni tra il re e Massimiliano II. Massimiliano ribadiva sovente che in
Italia Filippo era suo vassallo per quanto riguardava il ducato di Milano e il Senese, riteneva anche
che l’intransigenza religiosa del re era fatta per scatenare guerre civili dappertutto. L’imperatore
aveva però bisogno del denaro spagnolo e delle opportunità di sistemazione che la monarchia
poteva offrire ai suoi numerosi figli. Casa d’Austria era quindi profondamente legata a Filippo e di
conseguenza i motivi di contrasto non raggiunsero mai un punto di non ritorno. Dava la forza alla
politica di Filippo nell’Impero il suo appartenere al ramo principale della casata, la sua politica
clientelare nei confronti di numerosi principi, per la possibilità di effettuare nei loro paesi
arruolamenti di soldati, per assicurare il transito delle truppe spagnole dall’Italia verso le Fiandre.
Quei principi divennero i destinatari di pensioni, doni, cariche militari, e contribuirono ad
assicurare il controllo spagnolo su ampie zone della Germania renana, che divenne una specie di
retrovia delle Fiandre. Rodolfo II era più acquiescente del padre verso Filippo II, lo rispettava ma
soffriva la sua influenza. Egli ricercava l’appoggio di Filippo per ricevere uomini e risorse
finanziarie che gli consentissero di combattere in Ungheria contro i turchi e per ottenere la mano
della figlia Isabella che come sappiamo avrebbe sposato invece suo fratello Alberto.
Concentriamoci ora su un grande personaggio, Carlo di Stiria, costui, vissuto tra il 1540 e 1590 era
il terzo figlio dell’imperatore Ferdinando I e ebbe dalla moglie Maria di Baviera una numerosa
prole che conobbe destini di non poco conto: Ferdinando, un figlio, cinse la corona imperiale alla
morte di Mattia, Margherita divenne la moglie di Filippo III e Maddalena del granduca di Toscana
Cosimo II. Il re mostrò un grande favore nei confronti del cugino alpino e anche se non diede corso
alle sue proposte di conciliazione verso i Paesi Bassi lo onorò in tutti i modi come principe molto
cattolico. Carlo inoltre avrebbe potuto anche svolgere una funzione di controllo militare sull’Italia

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nord-orientale e di pressione verso Venezia e per questi motivi Filippo ritenne che era buono legarlo
alla sua monarchia eleggendo tra le di lui figlie la sposa per il principe delle Asturie.

La fase aggressiva
A. L’incorporazione del Portogallo

Numerosi furono gli intrecci matrimoniali tra la casa regnante portoghese e quella castigliano-
aragonese a partire dalla fine del XV fino a tutta la metà del successivo. Il re Manuele I d’Aviz
aveva sposato Isabella, figlia dei Re Cattolici, Ferdinando e Isabella e vedova del principe
portoghese Alfonso, figlio di Giovanni II. La sorella di Isabella di Castiglia, Maria, sposò in
seconde nozze Manuele, dal quale ebbe, tra gli altri, Isabella, moglie di Carlo V, Beatrice, moglie di
Carlo III di Savoia, Giovanni che sposò Caterina sorella di Carlo V, Luigi, Alfonso ed Enrico che
furono cardinali, Edoardo marito di Isabella di Braganza dalla quale ebbe Maria, poi moglie di
Alessandro Farnese. Manuele in terze nozze sposò Eleonora, altra sorella di Carlo V. Dal re
Giovanni III nacque Maria Manuela, prima moglie di Filippo II la cui sorella Giovanna sposò il
principe Giovanni. Da questa unione nacque Sebastiano, sul trono dal 1557 al 1578. Il re era
dunque, il nipote di Filippo II che, da parte sua, era figlio di una portoghese e marito, in prime
nozze, di una portoghese. Sebastiano subì una rovinosa sconfitta nella battaglia di Alcazarquivir (4
agosto 1578) nel corso della quale trovò la morte. Sebastiano era celibe e pertanto salì al trono
l’unico parente diretto, il cardinale Enrico. Costui aveva 66 anni era cardinale ed era stato
arcivescovo, era quindi votato al celibato e per il Portogallo si prospettò subito l’eventualità che
avrebbe lasciato vacante il trono del paese. Inutilmente chiese a Gregorio XIII di essere dispensato
dai voti e di poter contrarre matrimonio e morì il 31 gennaio 1580. La sua più grande colpa era stata
quella di non aver scelto un successore che, a ben vedere esisteva nella persona di Antonio, figlio
naturale del fratello Luigi. Il candidato al trono a questo punto era Filippo II. Quest’ultimo iniziò
numerosi tentativi di convincimento nei portoghesi: egli non era da considerare un principe
straniero scorrendo in lui molto sangue portoghese, inoltre la lingua era simile e anche i costumi.
Riusciti vani i tentativi di ascendere pacificamente al trono portoghese, nonostante la disponibilità
del papa ad un’opera di mediazione, Filippo diede ad Alba l’ordine di invadere il Portogallo con
grande disappunto di Gregorio XIII che disapprovava una guerra tra cattolici. Il re seguì da vicino
le operazioni e fece base a Badajoz ove lui si ammalò e trovò la morte la regina Anna. Il Portogallo
venne preso e Antonio era scappato nelle Isole Azzorre. Filippo offrì mercedi ai portoghesi fedeli e
assicurò che avrebbe rispettato la legislazione del paese e che si sarebbe fatto rappresentare da un
governatore di nazionalità portoghese. Filippo fece una lunga dimora a Lisbona, tornò in Castiglia
nel 1583 non senza aver fatto giurare ai portoghesi l’omonimo figlio come successore e aver
affidato il governo del paese al nipote prediletto Alberto, nonostante i portoghesi avessero chiesto di
essere governati dall’imperatrice Maria. Filippo era diventato il più potente monarca al mondo.

B. Il re e la regina d’Inghilterra

Morta la sorella Maria nel 1558, Elisabetta era indubbiamente la sua legittima erede. Tutti
pensavano che avrebbe dato una forte sterzata alla politica seguita dalla sorellastra, cattolica e
moglie di Filippo II. Anglicana ma non fanatica in materia di religione, essa fu riconosciuta dal re
come regina e per qualche tempo le relazioni tra Spagna e Inghilterra furono improntate a reciproca
correttezza. Filippo nutrì sempre la speranza di riuscire a addomesticare Elisabetta attraverso un
matrimonio con un principe cattolico ma cozzò sempre contro la ferrea volontà della regina di non
cedere a nozze che avrebbero potuto riportare l’Inghilterra agli anni di Maria Tudor. Filippo

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ricordiamo che aveva già salvato da un triste destino Elisabetta, detenuta nella torre di Londra a
seguito del suo coinvolgimento nella congiura. Non era certo la pietà a muovere Filippo, sebbene la
consapevolezza che, una volta allontanata Elisabetta e rivelatosi infecondo il suo matrimonio con la
regina Maria I, si sarebbe aperta la strada alle pretese di Maria Stuart, regina di Scozia e promessa
sposa a Francesco II di Valois che sarebbe diventata la sovrana di uno stato che si estendeva dai
Pirenei all’Irlanda e che sarebbe entrato in competizione con la monarchia ispanica. Il primo
decennio di regno di Elisabetta fu segnato da una pace ruidosa con la Spagna e da relazioni
improntate a cortesie reciproche. La regina era convinta che finché la Francia fosse rimasta una
grande potenza in grado di opporsi alla Spagna il suo paese non avrebbe corso rischi. La situazione
cambiò quando la monarchia dei Valois sprofondò nel gorgo delle guerre civili e quando scoppiò la
rivolta dei Paesi Bassi con il conseguente invio dell’esercito del duca d’Alba. Fu la fine degli anni
60 a segnare un netto peggioramento nelle relazioni tra i due paesi. Il 1570 fu l’anno in cui papa Pio
V scomunicò Elisabetta e sciolse i suoi sudditi dal dovere dell’obbedienza. Nel frattempo era stata
repressa la cosiddetta “rivolta dei conti del nord” che aveva l’obiettivo di deporre Elisabetta,
sostituirla con Maria Stuart e ripristinare il cattolicesimo. La scoperta del complotto portò alla
morte dei congiurati. Se Maria, cugina di secondo grado della regina, era stata imprigionata dopo
aver abdicato al suo trono scozzese ed essersi rifugiata in Inghilterra, la delicata situazione in cui si
era trovata Elisabetta stava trasformando la paz ruidosa in guerra sorda. Per il momento la guerra
non dichiarata vide protagonisti i corsari alla caccia delle risorse umane e materiali delle città
spagnole del Nuovo Mondo. La regina, dal canto suo, sovvenzionava i ribelli olandesi,
successivamente avrebbe protetto il pretendente al trono portoghese Antonio. La Spagna intanto
organizzò un ulteriore complotto per deporre Elisabetta, ma fu scoperto e nel 1584 avvenne la
rottura delle relazioni diplomatiche tra Spagna e Inghilterra oltre che alla proibizione assoluta di
praticare il culto cattolico. La guerra stava diventando calda: si intensificarono gli attacchi alle navi
e alle coste spagnole e si faceva più diretto l’impegno inglese nei Paesi Bassi. Il pontefice premeva
tanto affinché Filippo invadesse l’Inghilterra e la facesse finita con la regina eretica e scomunicata
che fra l’altro nel 1587 aveva fatto giustiziare per reato di tradimento Maria. Perché l’impresa della
guerra in Inghilterra riuscisse erano necessarie due cose: che il regno di Scozia cooperasse nella
guerra contro gli inglesi e che Alessandro Farnese riuscisse a traghettare i suoi soldati dai Paesi
Bassi verso l’Inghilterra. Entrambe le previsioni si rivelarono fallaci, Elisabetta aveva convinto il
giovane Giacomo VI a conciliarsi con lei e non dare ascolto agli spagnoli, ricordandogli che egli era
al momento il suo prossimo erede e che se si fosse alleato con gli spagnoli avrebbe perso ogni
diritto al trono. Per quanto riguarda Farnese, egli aveva cercato di persuadere il re a temporeggiare
sull’avvio dell’impresa in quanto riteneva che gli inglesi in quegli anni erano disposti alla pace, non
sentendosi pronti ad affrontare Filippo. in più sapeva che non era possibile il congiungimento della
flotta di Fiandra con quella di Spagna, perché i galeoni della flotta avevano un pescaggio che
rendeva impossibile il loro avvicinarsi alle coste fiamminghe. In cui Farnese sottolineò l’urgenza di
disporre di un grande porto dove ripararsi in caso di burrasca e non essendovene disponibile in
quella parte delle Fiandre in suo potere, consigliava di conquistare porti olandesi. Ma il re non gli
diede ascolto e non rimandò l’impresa. Alvaro de Bazan fu nominato comandante dell’impresa ma
morì improvvisamente nel 1588, costringendo il re a dare l’incarico al meno esperto Alonso Perez
de Guzman il quale partì nel 1588 da Lisbona con una parte delle navi per congiungersi al largo de
La Coruna con le altre. L’ambizioso piano di Filippo fallì di fronte alle più agili e manovriere navi
inglesi e alla furia delle tempeste. Alessandro Farnese, dopo aver constatato l’impossibilità di
imbarcare il suo esercito, aveva consigliato che le navi non intraprendessero la rotta del Mare del
Nord ma si rifugiassero nei porti delle città anseatiche dove sarebbero state riparate. Ma il suo

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consiglio non fu accettato e l’Armada si avventurò disastrosamente nel mare scozzese e in quello
irlandese. Chi fu veramente danneggiato nei suoi progetti fu Farnese che divenne il capro espiatorio
sul quale si scaricava la responsabilità del fallimento. Lo si accusava di non aver motivato
sufficientemente i suoi uomini e addirittura di intendersela con la regina. Tra il 60 e il 70% delle
navi dell’armada tornò in patria e tutti pensarono fosse stato l’ira divina a fermare quell’imponente
macchina da guerra e che quindi era necessario che in tutta la monarchia si svolgessero riti di
penitenza. Dopodiché iniziarono i preparativi per una nuova spedizione navale. La flotta partita nel
1597 subì la stessa sorte di quella che l’aveva preceduta. Forse era giunto il momento di porre fine
alla guerra: fu questo il compito al quale si accinse il suo successore Filippo e quello di Elisabetta
(che sopravvisse quasi 5 anni al re).

C. Francia (1559-1598)

Il 2 maggio 1598 a Vervins, al confine tra il regno di Francia e le Fiandre spagnole, veniva stipulata
la pace che poneva fine alla guerra tra il re Enrico IV di Borbone e Filippo II. La guerra era iniziata
nel 1595, ufficialmente dichiarata dal Borbone. La pace si era rivelata molto vantaggiosa per Enrico
che aveva ottenuto da Filippo il riconoscimento dei suoi diritti e del suo titolo ed era giunta alla fine
di un periodo che aveva lasciato prostrati entrambi i contendenti, la Francia e la Spagna. Il re di
Francia era senza dubbio il vincitore della guerra, avendo costretto gli spagnoli che avevano invaso
il nord della Francia a ritirarsi nelle loro retrovie fiamminghe, ma che Filippo fosse addivenuto alla
pace senza che il suo esercito avesse subito sconfitte decisive, era una decisione che aveva diverse
motivazioni. Quelle ufficiali erano che egli avesse voluto dare pace alla Cristianità e che non
avesse voluto lasciare al figlio il peso di una guerra sempre più dispendiosa; altre decisioni
attribuiscono la decisione di Filippo alla stanchezza e all’età. La pace, che nei fatti ripristinava la
situazione territoriale del 1559, fu salutata con gioia in tutta l’Europa cattolica. Ma il 13 settembre
1598 il re Filippo II morì. Si è detto che la guerra durò tre anni o poco più e che iniziò per volontà
di Enrico, dopo che questi era stato incoronato re a Chartres nel febbraio 1594. Il Borbone,
convertitosi al cattolicesimo e posto fine alle guerre civili che avevano travagliato la Francia, in
precedenza aveva avuto diverse occasioni di scontro con Filippo. la guerra serviva ancora un volta
a compattare un paese, soprattutto se questo era la Francia, che contava una numerosa e potente
nobiltà guerriera. Filippo aveva avuto facile gioco ad incunearsi dopo che il regno francese, per le
repentine morti di Enrico II (1559) e nel 1560 di Francesco II, marito di Maria Stuart, sprofondò nel
gorgo delle guerre civili. Filippo, avendo sposato Elisabetta di Valois, era il fresco cognato del re
Francesco II e lo sarebbe stato del successivo Carlo IX e quindi fin dal 1560 inviò in Francia soldati
provenienti dall’Italia ai quali si sarebbero aggiunte truppe arruolate dal papa, ma non era la sola
solidarietà dinastica a muovere i suoi pensieri in Francia stava avvenendo quello che dopo sarebbe
avvenuto nei Paesi Bassi, l’eresia si mescolava alla ribellione provocando contrasti tra sudditi e
autorità. Questo avveniva certamente perché Dio aveva voluto punire la Francia, la quale, giunta
alla sua maggior potenza con la protezione della chiesa, aveva poi iniziato a considerare poco il
pontefice, ad allearsi con i turchi contro i cristiani ecc. Filippo, disgustato dai casi in cui l’eresia
faceva il paio con la ribellione, sentì come proprio dovere assicurare la stabilità del trono francese,
anche perché non poteva tollerare che Elisabetta si rafforzasse in quanto era già pronta a inviare
uomini e risorse agli ugonotti. Filippo voleva offrire a Carlo IX il duca d’Alba e il suo esercito ma
la proposta cadde nel vuoto, temendo il Valois la potenza di quell’esercito. La guerra civile francese
subito si internazionalizzò: i ribelli olandesi, l’Inghilterra e l’imperatore scesero in campo per
sostenere il movimento ugonotto. Dalla parte dei cattolici erano Filippo, il duca Carlo III di Lorena
e Carlo Emanuele I di Savoia e il papa. Carlo IX fu il re dei massacri, delle tregue, dell’oscillante

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influenza dei cattolici, degli ugonotti, ma fu anche il sovrano della strage di San Bartolomeo (23-24
agosto 1572). La strage era stata immensa ma Dio, vendicatore dei nemici della Chiesa, aveva
consentito quel castigo. Filippo lamentava il ritardo con il quale era avvenuta e si felicitava con il
Valois perché egli aveva ora 40.000 nemici in meno. La morte di Carlo IX nel 1574 aprì la strada al
trono al fratello Enrico III e provocò il collasso della Francia. Il nuovo re era giunto dalla Polonia
ove era stato eletto sovrano; egli era praticamente fuggito lasciando quel lontano paese senza guida
e frustrando in questo modo le ambizioni del fratello Francesco che già si vedeva re di Francia.
Questi, poi duca d’Angiò, inquieto, ambizioso e incompetente, fu un ulteriore scheggia impazzita
nel confuso panorama della Francia e subito suscitò contro di sé l’ostilità feroce di Filippo per le
sue mire sulle Fiandre. Eletto capo degli Ugonotti contro il fratello re e subito dopo imprigionato,
entrato gloriosamente in Inghilterra come pretendente alla mano della regina e poi rifiutato,
riconosciuto nelle Fiandre come principe, attirò su di sé l’odio dei fiamminghi e fuggì. Morì nel
1584. Fu nel corso del regno di Enrico III che la cattolica casa dei Guisa assunse una posizione in
primo piano nella lotta agli ugonotti. Potente per la capacità militare dei suoi membri, capace di
condurre una propria politica estera anche in virtù del matrimonio di Maria, sorella del duca
Francesco, con Giacomo V Stuart re di Scozia (da questo matrimonio nacque Maria, poi moglie di
Francesco II di Valois) la casata dei Guisa fu la destinataria di tutti i progetti di Filippo concernenti
la Francia. Enrico e il fratello Carlo, il duca di Mayenne, furono tra i promotori della Santa Lega
Cattolica, ufficialmente nata nel marzo del 1585 e furono sovvenzionati in uomini e in denari da
Filippo II. Quando morì Enrico III e da Filippo fu riconosciuto come re il cardinale Carlo di
Borbone che sarebbe morto nel 1590, si stabilì a Madrid e nell’ambasciata spagnola a Parigi che il
Mayenne in assenza del re, sarebbe stato il luogotenente del regno e avrebbe sposato l’infanta
Isabella che, come sappiamo era stata proposta dagli spagnoli al trono francese divenuto vacante
dopo la morte di Enrico III. Ma la decisa opposizione alla deroga alla legge salica maturata negli
Stati generali riuniti a Parigi nel 1593 portò al naufragio della proposta spagnola e al
riconoscimento da parte dei cattolici francesi di Enrico IV di Borbone come proprio re. Negli anni
che andarono dalla morte di Enrico III al 1593 l’impiego militare di Filippo era divenuto più
intenso. Egli si sentiva moralmente obbligato a sostenere i cattolici francesi ed era consapevole del
rischio che correvano le Fiandre a seguito di un trionfo politico di Enrico IV pertanto ordinò a
Alessandro Farnese nel 1590 di entrare in Francia e soccorrere Parigi, dalla quale era fuggito nel
1588 Enrico III lasciandola in mano alla Lega. Un secondo intervento lo effettuò nel 1592 nel corso
del quale si rese conto che i rimedi militari proposti dal suo re provocavano un ulteriore
incrudelimento della guerra e che i cattolici francesi collaboravano scarsamente con gli amici
spagnoli. La politica di Filippo di fare della Francia un protettorato spagnolo omogeneo dal punto
di vista religioso era fallita: il papa voleva un re cattolico (anche se questi era Enrico IV
convertitosi nel 1593) e non un uomo di paglia del re di Spagna, i principi italiani vedevano in
Enrico un contrappeso alla potenza spagnola nella penisola, i francesi non ne volevano sapere degli
spagnoli e dei principi stranieri da loro candidati al trono.

L’Italia: dinastie e stati nella pax hispanica


La seconda metà del secolo XVI fu una vera e propria età dell’oro per l’Italia che riposava
tranquilla all’ombra del potere e della potenza del re. Per molto tempo le corti dei principi italiani
sembrarono una succursale di quella di Madrid dalla quale giungevano modelli di comportamento,
osservazioni ecc. in Italia Filippo informò la propria azione politica secondo tre direttrici: 1) non
occupare altri territori rispetto a quelli che già possedeva a meno che le circostanze della causa non
lo richiedessero 2) precludere agli stranieri l’intervento negli affari della penisola, anzi sbarrare loro

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le porte dell’Italia 3) impedire anche che qualsiasi principe italiano acquisisse forze tali da ergersi
decisamente sopra gli altri. Rispetto a quanto avveniva nelle Fiandre e in Francia l’Italia appariva
un territorio pacificato, nonostante le continue minacce di turchi e barbareschi; le sue ricchezze e i
suoi uomini dovevano servire a sostenere lo sforzo bellico della monarchia, la sua collocazione al
centro del Mediterraneo e in stretto contatto con il mondo germanico doveva consentire lo
spostamento degli eserciti da un fronte di guerra all’altro. L’Italia era un luogo centrale nella
geopolitica del tempo. I territori italiani però, ricchi di risorse, erano sottoposti a un prelievo
costante delle proprie risorse in termini di tassazione e di invio all’estero del grano con il
conseguente incontrollabile aumento del prezzo del pane, come avvenne a Napoli nel 1585 ove le
autorità spagnole dovettero fronteggiare una dura rivolta popolare. In Italia l’oro c’era ma non
dappertutto. Una massima di governo degli spagnoli in Italia era quella di trattare bene Napoli e
Milano affinché le popolazioni circostanti ammirassero le capacità del governo ispanico e
desiderassero diventare suddite del re. L’Italia appariva a Filippo come un labirinto che aveva
bisogno della sua direzione. I suoi principi erano piccoli sovrani che, anche se consapevoli della
propria dipendenza da Filippo, si guardavano in cagnesco l’un l’altro. Essi pretendevano sempre più
elevati onori per precedere i loro pari e ciò piaceva a Filippo perché cosi si impedivano leghe
antispagnole. Ricordiamo il ruolo di Milano nel sistema politico italiano del secondo 500: il
Milanesado era considerato porta e bastione d’Italia, corazon de la monaquia. Non doveva essere
facile preservare l’equilibrio in Italia rispettando non solo le direttive e la priorità della corona
stessa, ma anche tenendo a bada la rissosità dei principi che spesso era virulenta non solo nei
confronti dei vicini ma anche di altri rami della propria casata. Il risultato di tale rissosità era la
marea di carte che erano inviate dai principi a Madrid, ma anche a Roma, a Vienna, e a Praga
perché fossero riconosciute le proprie ragioni. La vicenda più emblematica che dà conto di questa
situazione è quella che concerne la concessione del titolo granducale a Cosimo I de Medici, duca di
Firenze. Egli era stato abbondantemente gratificato da Carlo V e da Filippo, il quale gli aveva
concesso Siena, ritagliandosi però sulla costa tirrenica una serie di territori costieri che costituirono
lo Stato dei Presidi. Ebbene negli anni 60 Cosimo si segnalava per un’ambiguità nei propri
comportamenti verso la Spagna che infastidì molto il re: pretendeva la restituzione delle piazze
tenute dagli spagnoli e di conseguenza la preminenza sulle altre casate principesche italiane.
Cosimo, in effetti, nel 1569 divenne, grazie a un breve di papa Pio V, non re ma granduca di
Toscana. Però l’asimmetria che cosi si determinava nella graduazione dei ranghi dei principi italiani
divenne a questo punto incolmabile e aprì la strada ad analoghe pretese da parte dei Gonzaga e
soprattutto dei Savoia. Dopo accese rimostranze da parte di Massimiliano II che sosteneva di essere
egli colui che eventualmente concedere il nuovo titolo, nel 1576, essendo succeduto a Cosimo il
figlio Francesco, giunse il riconoscimento asburgico del titolo. A differenza di Cosimo, Francesco I
riuscì a mantenersi nella grazia del re e, nonostante fosse filofrancese, ostentava la propria
dipendenza dal re. L’avvento di Enrico IV in Francia aveva riaperto però i giochi politici in Italia e
aveva consentito ad alcuni principi, tra cui il granduca, di avanzare rivendicazioni territoriali sullo
stato dei Presidi e sul principato di Piombino. La questione dell’attribuzione del titolo granducale a
una dinastia meno antica dei Gonzaga e dei Savoia fu la più clamorosa nel mondo delle corti
italiane. Filippo cercò di impedire, per quanto gli fosse possibile, matrimoni tra rampolli di casate
italiane e si erse a mediatore nei matrimoni dei principi, i quali erano costretti a domandare il
permesso al re. Capitò ad Alfonso II duca di Ferrara di chiedere al Cattolico nel 1565 di favorire il
suo matrimonio con Barbara, sorella dell’imperatore Massimiliano; e capitò nello stesso anno anche
a Cosimo de Medici di chiedere l’autorizzazione a che il figlio Francesco sposasse un’altra figlia
dell’imperatore, Giovanna. Più tardi fu accolta da Filippo con grande dispiacere la notizia del

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matrimonio di Ferdinando di Toscana con Cristina di Lorena piuttosto che una figlia dell’arciduca
Carlo. Non erano solo i principati a suscitare le preoccupazioni di Filippo, più pericolose erano le
repubbliche che con le loro dinamiche politiche che le rendevano instabili potevano turbare la pace
d’Italia. Solo Venezia sfuggiva alla valutazione negativa del re, per l’ordine che regolava la sua
politica, la forza militare che la rendeva capace di opporsi ai turchi e quindi di collaborare con la
Spagna nella difesa del Mediterraneo. Altri erano i motivi che avrebbero incrinato i rapporti tra
Spagna e Venezia negli anni di Filippo II, a cominciare dal fatto che la Serenissima aveva fatto pace
separata con i turchi dopo la battaglia di Lepanto, che aveva per prima riconosciuto Enrico di
Borbone come legittimo re di Francia e che si riteneva il principale fondamento della libertà
d’Italia; ma nella seconda metà del secolo tra la corona e la Repubblica vi fu un’amicizia fredda e
guardinga che tutelò lo status quo nell’Italia del nord-est. Diversa era la situazione dell’altra
repubblica italiana con una nobiltà non compatta, divisa in fazioni: queste era potentissime, erano
state in grado di far decadere Roma dalla sua antica grandezza e avevano diviso un corpo politico
che era formato da tutti i cittadini che dovevano operare all’unisono per il benessere dello Stato. Le
discordie civili provocate dalle fazioni avevano favorito il sorgere di tirannidi da parte di uomini
che avevano acquisito una grande notorietà come era successo a Perugia con i Baglioni, a Bologna
con i Bentivoglio, a Siena con i Petrucci, a Firenze con i Medici e a Genova con i Doria. Quando a
partire dagli anni 70 insorse un conflitto politico tra i nobili vecchi e i nobili nuovi che si trasformò
ben presto in guerra civile, Filippo ritenne suo dovere intervenire a riappacificare le fazioni. Il re
aveva bisogno di Genova, del porto della città che gli assicurava le comunicazioni tra Spagna e
Italia. Filippo, dopo aver diffidato i principi italiani dall’intromettersi negli affari genovesi, affidò la
gestione della vicenda genovese al suo ambasciatore Juan de Idiaquez, sostituito nel 1576 da Pedro
de Mendoza. Tra i principi italiani diffidati vi era il papa con il quale Filippo dovette però
addivenire ad una non gradita collaborazione avendo Gregorio XIII inviato a Genova come suo
legato il cardinale Giovanni Morone per impedire azzardate mosse del re che avrebbero comportato
l’ulteriore espansione dei suoi domini in Italia. La pressione spagnola portò alla fine al cosiddetto
“accordo di Casale” al quale diedero il loro contributo anche il Morone e i rappresentanti
dell’imperatore. Le leges novae ridisegnarono i profili della repubblica, le assicurarono un periodo
di tranquillità e soprattutto fece in modo che non venisse intaccata la simbiosi tra Genova e la
Spagna. Cosi Genova era tenuta a freno da due ancore: il principe Giovanni Andrea Doria e
l’ambasciatore spagnolo che rappresentava il re, protettore della repubblica. Il porto e le casse di
Genova erano nelle mani di Filippo me era necessaria un’alternativa a Genova che consentisse,
anche in situazioni di turbolenza politica, l’invio di uomini e mezzi a Milano. Questa era
rappresentata da Finale, piccolo marchesato sulla costa occidentale della Liguria e governato dalla
famiglia del Carretto. Il malgoverno del marchese Alfonso II aveva provocato nel 1558 una rivolta
della popolazione che si era conclusa con la sua fuga e con la temporale occupazione del
marchesato da parte di Genova. Una nuova rivolta nel 1566 avevano costretto ancora alla fuga il
marchese e aperto la strada agli interventi spagnoli che si erano concretizzati nel 1571
nell’occupazione del luogo da parte di truppe provenienti da Milano. Le proteste dell’imperatore
non avevano avuto effetto e sia Massimiliano che Rodolfo II avevano dovuto accettare la presenza
spagnola. La morte di Rodolfo nel 1583 peggiorò la situazione perché la famiglia marchesale si
estinse e su quel lembo si appuntarono gli occhi della diplomazia spagnola, imperiale e genovese.
Il timore di Filippo era che i francesi si impadronissero di finale e disponessero in questo modo di
una porta di accesso marittima all’Italia. Giustificato dalla necessità di proteggere Milano e tutta
l’Italia dall’eresia però, Finale fu posta sotto il controllo spagnole e nel 1607 il marchesato fu
aggregato al milanese. Nel ducato di Savoia, Emanuele Filiberto, intraprese subito una politica di

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neutralità: era cugino in secondo del re e aveva come moglie Margherita, la sorella del re Enrico II
di Valois. Provvide al riordino dei suoi stati, riorganizzò l’esercito, si dotò di un secondo sbocco
marino dopo Nizza annettendosi Oneglia, e partecipò alla battaglia di Lepanto azioni queste che
suscitarono un certo sospetto da parte del re che temeva per le sorti del ducato di Milano confinante
con la Savoia e per un accrescimento della potenza del duca. Quando nel 1580 gli successe il figlio
Carlo Emanuele I i sospetti aumentarono per l’ambiguità dei comportamenti del nuovo duca. Il
duca aveva sposato nel 1585 l’infanta Catalina Micaela, avendo tentato Filippo, attraverso quel
matrimonio, di imbrigliare il turbolento genero che sperava nell’aiuto spagnolo per riconquistare
Ginevra e per conquistare il marchesato di Saluzzo, avamposto della monarchia dei Valois in Italia.
Quel marchesato fu occupato nel 1588, ma si aprì la strada ad una lunga guerra con la Francia che
sarebbe terminata solo nel 1601, con la pace di Lione, che assegnò Saluzzo e altre località
pimontesi al Savoia. Il duca di Savoia sostenne che l’occupazione di Saluzzo era dettata dal
desiderio di evitare il sorgere di un altro focolaio di eresie in Italia, ma i soccorsi inviati dal re
furono sempre scarsi e servivano a tenere le cose per le lunghe e ad assicurare la dipendenza di
Carlo Emanuele da Filippo alla cui corte il duca aveva inviato i figli. Carlo Emanuele con la sua
politica spregiudicata, appariva una scheggia impazzita nel sistema imperiale spagnolo in Italia e
morì nel 1630. Il re preferiva la pace, a meno che non fosse egli a fare la guerra. Un episodio
sembrò poter far deflagrare la guerra in Italia e fu la devoluzione di Ferrara alla Santa Sede. La
morte nel 1597 di Alfonso II d’Este senza figli nati da legittimo matrimonio portò al trono ducale
Cesare, figlio naturale anche se dal padre riconosciuto. Per Roma, la linea estense si era estinta e
quindi la città doveva tornare al suo originario signore. Alla morte di Alfonso Filippo era molto
malato ed era impegnato nel conflitto con Enrico IV per assicurare alla figlia Isabella e all’arciduca
Alberto la cessione di sovranità dei Paesi Bassi e quindi non poté intervenire nella vicenda. Di
fronte all’eventualità che il papa conquistasse anche oltre il Po, i principi italiani si intimorirono e
mobilitarono i soldati per respingere le pretese papali su Ferrara, ma quando Rodolfo II riconobbe
Cesare duca di Modena e di Reggio e non di Ferrara, tutti capirono che aveva vinto Clemente VIII
entrò a Ferrara nel maggio 1598 e Cesare abbandonò la sua amata città per traferirsi nel cuore
dell’Emilia.

Capitolo 7: Ultramar

Principi dal Sol Levante


Nel febbraio 1582 dal porto di Nagasaki partirono su una nave diretta a Lisbona i figli dei daimyo
di Bungo e di Arima y Osura (entrambi cristiani). I giovani dovevano fare atto di sottomissione al
papa in nome dei loro genitori e dei cattolici giapponesi, ma il vero scopo della missione era quello
di mostrare a Roma e a tutta l’Europa gli strepitosi successi delle missioni gesuite
nell’evangelizzazione delle Indie Orientali e dell’Estremo Oriente. La missione infine doveva
favorire l’apertura di relazioni di buon vicinato tra il Giappone e le Filippine e far si che il Sol
Levante tenesse a freno i corsari che minacciavano le coste dell’arcipelago. A Madrid, in festa per
la pubblicazione delle nozze di Catalina Micaela con Carlo Emanuele di Savoia e per il giuramento
del principe Filippo come prossimo sovrano di Castiglia, furono ricevuti da re Filippo che li accolse
in compagnia delle infanti e li gratificò con tutti gli onori possibili. Loro invece gli presentarono
lettere nelle quali i daimyo loro genitori chiedevano il suo aiuto perché la religione cattolica
trionfasse in Giappone. Varcarono poi il confine dello Stato della Chiesa nel 1585. Furono accolti
dal pontefice regnante Gregorio XIII e, successivamente, morto Gregorio, assistettero
all’incoronazione di papa Sisto V in San Pietro. Si fermarono poi a Mantova per rientrare nei

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domini del re Cattolico, Milano e Lombardia. Il tour italiano si concluse a Genova dalla quale i
principi fecero rotta per Barcellona. Attraversarono tutta la Spagna e da Lisbona fecero ritorno a
casa dopo 8 anni e 5 mesi. Tutte le spese del viaggio furono sostenute da Filippo e i principi
portarono con sé a casa lo splendore del Cristianesimo e la potenza del re spagnolo.

Le Filippine e il sogno cinese


Nonostante tutto questo però, il Pacifico e gli imperi che vi si affacciavano rimasero insensibili ad
un’evangelizzazione che era percepita come la prosecuzione della politica estera di Filippo II. Mq
questo non significa che non venissero effettuati tentativi per diffondere in quei paesi la fede
cristiana, a volte anche con l’uso delle armi. Ritenuto acquisito, benché erroneamente, il risultato
ottenuto dalle missioni gesuite in Giappone, il pensiero corse ben presto all’impero cinese. La base
dalla quale partirono erano le Filippine. Fu nel 1564 che Filippo ordinò al viceré della Nueva
Espana Luis Velasco di allestire una spedizione per la conquista di quelle isole che fu posta al
comando di Miguel Lopez, al quale fu attribuito il titolo di adelantado solito conferirsi a coloro che
dovevano amministrare il territorio che avevano conquistato. Essa ebbe successo, furono scoperte
altre isole dell’arcipelago e nel 1571 fu fondata la capitale Manila, località che ben presto si riempì
di cinesi. Le Filippine, sottoposta a un’intensa opera di evangelizzazione, divennero l’avamposto
verso la Cina. Nel 1575 un’ambasceria partì da Manila diretta alle coste cinesi del Fukien composta
da religiosi per discutere di forme di collaborazione per debellare il corsaro Li-ma-hongche
travagliava le coste dei due paesi e soprattutto per consentire a missionari di predicare in territorio
cinese. Accolti con grande cortesia dal governatore di quella provincia, i missionari furono invitati
a rientrare in patria e da li attendere le decisioni dell’imperatore. Quella e altre spedizioni però non
andarono a buon fine. Ma il sogno della Cina non svanì, molti ritenevano possibile conquistare
l’impero di mezzo con pochi uomini, e all’arrivo degli spagnoli le popolazioni si sarebbero
sollevate contro il governo e avrebbero accolto come liberatori gli invasori. Alonso Sanchez fu un
grande sostenitore di questa linea ma Filippo, che stava preparando l’impresa d’Inghilterra non gli
diede ascolto. Il possesso delle Filippine e degli avamposti portoghesi nelle Indie orientali faceva si
che i potentati locali temessero e rispettassero il re di Spagna. Le Filippine e l’Oceania iberica
rimasero sotto sovranità spagnola fino al 1898.

Le Indie occidentali viste da Madrid


Quelle terre, cosi lontane dalla penisola iberica, erano state scoperte dagli spagnoli e conquistate
con giusta ragione, anche se le giustificazioni appaiono ridicole ai nostri occhi: i loro sacerdoti
praticavano sacrifici umani, le popolazioni il cannibalismo, avevano impedito ai nuovi venuti
traffici e commerci ecc. mentre gli anni di Carlo V furono quelli della conquista, gli anni di Filippo
furono quelli dell’organizzazione degli immensi spazi del Nuovo Mondo e del Pacifico. Quelle
plaghe dovevano essere governate e lo furono non in quanto colonie ma come regni posseduti dalla
corona di Castiglia, abitati da sudditi come lo erano gli europei. Dai sudditi, dei quali in teoria
facevano parte gli indios, erano esclusi gli schiavi neri: essi appartenevano a popolazioni per loro
natura composte di servi ai quali conveniva essere dominati da altri uomini. (I possedimenti
americani erano divisi in due vicereami: Nueva Espana comprendente il Messico, l’America
Centrale, le Antille e il Venezuela, e il Perù, con giurisdizione su tutta l’America meridionale,
compreso Panama, ad eccezione del Brasile di pertinenza della corona portoghese). I due vicereami
erano sottoposti alla giurisdizione del Consiglio delle Indie, istituito nel 1524. Di esso facevano
parte un presidente, otto consiglieri, un segretario, un avvocato fiscale. Dal 1571 al 1575 alla testa

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del consiglio fu Diego de Ovando il quale preparò un codice che raccoglieva le leggi e le ordinanze
destinate alle Indie e progettò di inviare a tutti i funzionari dell’America un questionario contenente
richieste di informazioni sulla conformazione del territorio, sulla storia e sulle caratteristiche delle
persone che lo abitavano. Non si può non menzionare pure l’accoglimento delle lamentele dei
naturali nei confronti di coloro che emigravano dalla Spagna con l’unico obiettivo di arricchirsi e
l’udienza che Filippo diede a loro in più occasioni a corte.

I viceré novoispani
Sebbene fossero accompagnati da precise istruzioni che forniva loro il re e il Consiglio delle Indie,
i viceré spagnoli in America, a causa della distanza da Madrid e dell’estensione del territorio sul
quale dovevano regnare, esercitavano un potere quasi assoluto. Essi erano nello stesso tempo
governatori, capitani generali e a volte, presidenti dell’audiencia della capitale. Il primo vicereame
ad essere istituito fu quello della Nueva Espana e nel 1535 fu nominato il primo re nella persona di
Antonio di Mendoza. Il vicereame del Perù sorse nel 1543 e primo viceré fu Blasco Nunez Vela in
carica fino al 1546. Nonostante la provvisorietà della situazione in cui si trovava a operare,
l’insediamento di quel viceré a Lima si svolgeva secondo un cerimoniale festoso. Egli si circondava
di una corte che esplicava un’importante funzione sociale di integrazione, variegata nella sua
composizione e nella provenienza dei suoi uomini. Non diversamente avveniva per l’insediamento
dei viceré della Nueva Espana che giungevano a Città del Messico dopo essere sbarcati a Veracruz.
Il cerimoniale doveva esibire la regalità e portare le variegate popolazioni a concepirsi come parte
di un unico corpo politico. Funzione importante di integrazione assumevano pure le viceregine. Il
seguito della viceregina, costituito da dame provenienti dai territori peninsulari, contribuiva a
fornire l’immagine di un potere che, anche se limitato, appariva assoluto per la distanza dalla
madrepatria e diventava uno degli strumenti di integrazione, in quanto quelle donne
rappresentavano l’obiettivo matrimoniale di molti giovani e ricchi creoli.

Due grandi e controversi viceré del Perù


Nato nel 1555 e parente per via materna del duca d’Alba, Francisco de Toledo passò gli anni della
sua gioventù al servizio di Carlo V. Nel 1569 ottenne la prestigiosa carica di viceré del Perù ove
rimase fino al 1581. Del suo lungo vicereame si ricorda l’impegno nella lotta contro gli abusi, la
corruzione, il tentativo di porre freno alle brutalità dei coloni nei confronti degli indios e al loro
desiderio di arricchimento. Suo obiettivo era quello di plasmare una società gerarchicamente
organizzata che si riconoscesse nel re, anche nei rituali religiosi. Emanò pertanto le ordenanzas del
Perù para un buen gobierno (1573), riorganizzò il sistema fiscale e finanziario, favorì
l’insediamento del tribunale dell’Inquisizione. Nel 1570 intraprese una visita generale del Perù
onde acquisire informazioni di prima mano sui popoli che lo abitavano, sulle risorse economiche e
sui rapporti tra indios e colonizzatori. Ma l’episodio che segnò maggiormente il suo viceregno fu
l’esecuzione del giovane re inca Tupac Amaru, sovrano di uno stato neoinca che si era formato nella
remota regione di Vilcabamba (odierno Ecuador). L’inca fu condannato a morte per alto tradimento
e, nonostante si fosse convertito al cattolicesimo, nonostante avrebbe rivelato in cambio della vita i
tesori di oro e di argento dei suoi antenati, fu giustiziato a Cuzco, la vecchia capitale dell’impero,
nel settembre 1572. Ciò contribuì a creare una sorta di leyenda negra intorno alla figura del viceré,
accusato di eccessiva superbia, di aver condannato a morte un re. Nel 1581 chiese il permesso di
tornare in Spagna e lo ottenne e a Lisbona incontrò il re, deluso e arrabbiato per quello che aveva
fatto. Il de Toledo invece pensava di aver fatto un mandato corretto, anche perché aveva distrutto lo

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stato noinca e soppresso la sua stirpe reale. Gli fu sequestrato tutto quello che aveva portato dalle
Indie e si aprì un procedimento giudiziario nei suoi confronti che lo condusse in uno stato di
malinconia e alla morte del 1582. Abbiamo già visto che Filippo non era solito ricompensare
adeguatamente i grandi uomini che lo servivano, forse era geloso del loro prestigio, e cosi fece con
De Toledo la cui unica colpa era quella di aver posto brutalmente fine alla dinastia Inca. In verità
però egli aveva anche pacificato e organizzato una società ancora in preda dell’anarchia e della
conflittualità e aveva portato la gente a vivere osservando le leggi. Identica freddezza il re dimostrò
in un altro viceré del Perù, Garcia Hurtado de Mendoza, egli era figlio di un precedente viceré
peruviano che proveniva dalla Nueva Espana della quale era stato il primo viceré del 1535 al 1551.
Il padre aveva al suo attivo una serie di istituti dediti all’assistenza che qualificarono Lima dal
punto di vista urbanistico e fu colui che tentò di pacificare i bellicosi conquistadores e i loro
discendenti. Tornando a Garcia possiamo dire che la sua carriera sudamericana si divide in due
parti, nella prima svoltasi negli anni del viceregno del padre, fu governatore in un Cile tormentato
dalla resistenza degli Araucanie e dalla turbolenza dei comandanti spagnoli, fra cui de Aguirre, e de
Villagra. Egli riuscì a ridurre le loro autorità, iniziò i lavori per la costruzione della cattedrale e di
una serie di monasteri, combatté contro gli Araucani vincendoli in molte battaglie insomma nel suo
governo in Cile dimostrò grande autorevolezza, anche se i due comandanti furono assolti dalle
accuse che erano state mosse loro e lui fu accusato a sua volta dall’Audiencia di Lima di aver fatto
un uso improprio della sua autorità. Morto il padre nel 1561, ripartì per la Spagna, si sposò, fu
ambasciatore presso il duca di Savoia e nel 1588 fu nominato viceré del Perù. Arrivato a Lima trovò
la città semidistrutta per il terremoto del 1586, il paese in preda a carestie e pestilenze e a questo si
aggiungeva la corruzione, i frequenti litigi tra gli spagnoli. Nonostante la complessa situazione
riuscì a raccogliere oltre 550.000 ducati per sovvenzionare il re nell’impresa in Inghilterra, si
occupò del retto esercizio della giustizia, della guerra nel Cile meridionale. Ma stanco chiese il
permesso di ritirarsi in patria e lo attenne, suggerendo come suo sotituto Luis Velasco. Il nuovo
viceré però lo accusò di crudeltà e di corruzione ma non ne tenne conto e si recò a Madrid
abbandonando per sempre il Perù. A corte i memoriali di servizio da lui presentati non riscossero la
giusta attenzione, non fu nominato presidente del Consiglio delle Indie come da prassi Filippo era
un maestro nell’umiliare i suoi migliori servitori. Nel 1609 morì avendo praticamente attraversato
tutto il regno di Filippo II.

A sud: “un Flandes indiano”


Parliamo ora di quello che era definito Reino de Chile, e degli uomini che si scontrarono. Gli
Araucani abitavano la parte meridionale del Cile, al di là del fiume Maule che rappresentava il
confine meridionale dell’impero inca. Essi intrapresero un’ostinata guerra contro gli invasori
spagnoli che, iniziata nel 1558, sarebbe terminata nell’800 inoltrato e con la quale tutti i viceré
peruviani e i governi del Cile si sarebbero cimentati. Quella regione era abitata da tribù di
raccoglitori e cacciatori nomadi, gente feroce che gli spagnoli non riuscivano a sottomettere. Nella
guerra feroce, all’ordine del giorno erano le imboscate, gli assedi dei piccoli insediamenti spagnoli,
gli incendi e i furti. Gli sforzi dei governatori o dei capitani inviati da Lima o da Madrid per
governare quella turbolenta regione erano continuamente vanificati. Contro di loro si mosse perfino
Sant’Iago che liberò da un assedio l’odierna capitale del Cile che da lui prese il nome. Per necessità
di cose, i governatori del Cile dovevano essere uomini di qualità come lo fu Garcia Hurtado de
Mendoza che mostrò sempre amore per la giustizia. Pio, dava udienza a tutti ed era un
valorosissimo guerriero, fu però colui che impose ai nativi la cosiddetta tasa de santillàn, in base
alla quale ogni cacicco doveva fornire un uomo su sei per il lavoro nelle miniere e uno su cinque

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per i lavori agricoli. Altro governatore fu Alonso de Sotomayor che nel 1583 fu inviato a governare
il Cile. Mosse guerra agli Araucani elaborando una nuova strategia che consisteva nel tener lontano
i nemici dalle città costruendo una cintura di fortini che si sostenessero l’un l’altro e costringendoli
a venire in battaglia; non ebbe mai però risultati decisivi. Egli ripristinò poi il lavoro forzato degli
indios con la tasa de santillàn. Anche Martin Ruiz de Gamboa, il predecessore di Sotomayor, era
stato alle prese con la rivolta degli Indios : la guerra nel Cile meridionale proseguiva tra battaglie,
episodi di crudeltà e tregue che nessuno intendeva rispettare. Quel paese, i cui abitanti avevano
adottato le armi e le tecniche militari degli spagnoli, era divenuto un flandes Indiano, come lo
definiva de Rosales, ove il termine Flandes evocava una guerra senza fine che portava con sé
innumerevoli sofferenze e morti.

A nord: la Nueva Espana e il Nuovo Messico


Anche nel vicereame della Nueva Espana, comprendente anche le isole caraibiche e le Filippine,
festosi cerimoniali accompagnavano gli ingressi dei viceré giunti in quelle terre a rappresentare il re
lontano. Anche qui le frontiere erano in fiamme, bisognava reprimere insurrezioni, consolidare il
potere nei territori conquistati, frenare le scorrerie degli indios ecc. il vicereame, inferiore in ordine
di importanza a quello del Perù (l’assumere la carica di viceré del Perù era considerata una
promozione), ebbe come secondo titolare, dopo Antonio de Mendoza, Luis de Velasco. De Velasco
tentò di colonizzare la Florida, su impulso di Filippo che aveva incaricato l’ammiraglio Pedro
Menendez de Avilés di organizzare una spedizione navale per la conquista di quel territorio dove
già si erano insediati dei francesi ugonotti. Compito dell’ammiraglio era quello di espellere gli
eretici. Menendez de Aviles conseguì almeno momentaneamente il suo obiettivo: alla testa di una
flotta di 8 navi e di 1500 soldati provenienti dalla Spagna sconfisse i francesi, riaffermò i diritti
della Spagna su quella parte del mondo e rimise piede nella Florida che era stata abbandonata a
seguito di un’insurrezione popolare nel 1537 che aveva distrutto gli insediamenti creati nella zona.
Egli fondò la cittadina di San Agustìn e portò con sé diversi frati. Luis de Velasco fu il nome di due
viceré della Nueva Espana, padre e figlio. Con il secondo de Velasco si stabilizzarono i territori nel
Messico settentrionale e, su impulso del re, si procedette alla conquista della vasta ragione oltre il
20esimo parallelo e oltre il Rio Grande del nord alla quale si dava il generico appellativo di Nuevo
Mexico. L’avanzata in realtà era già iniziata nei decenni precedenti; essa riprese slancio con il
viceré Lorenzo Suarez de Mendoza che inviò il francescano Luiz a esplorare quelle zone e ad
evangelizzare le loro popolazioni. Ma la spedizione non conseguì gli effetti sperati e i soldati
ritornarono nel Messico. Successivamente il re, interessato alla conversione di quei popoli, inviò il
conte di Bailén Pedro Ponce de Leon che ottenne risultati milgiori. Nel 1595 una nuova spedizione
portò Juan de Onate al di là della frontiera con un esercito del quale facevano parte missionari,
soldati, le loro famiglie, e pecore e buoi. L’impresa quindi non voleva solo porre a freno gli indios
ma anche a colonizzare il territorio. Dal corpo principale si staccò una parte che attraverso la
California giunse in vista del Pacifico. Ma qui finirono le buone notizie: gli indios falcidiavano la
carovana, la fame costringeva a uccidere i cavalli, di oro non c’era traccia e Onate decise di non
procedere oltre e inviò in loco un governatore per conservare ciò che era già stato acquisito con il
rimpianto che non si potevano convertire alla vera fede gli Indios. Il territorio di Filippo si era
enormemente dilatato negli anni di Filippo, egli poteva definirsi Re delle indie, Terraferma e Mare
e Oceano. Ben presto tra la Nueva Espana e il Perù si accese una rivalità che portò per lungo tempo
il secondo ad essere una dipendenza economica del primo al quale forniva denaro e mercurio in
cambio di manufatti, beni di lusso e schiavi. Durante il XVI il Messico si comportò con il Perù
come una metropoli con le sue colonie.

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La chiesa del re nel Nuovo Mondo
La Chiesa cattolica americana era, dal punto di vista liturgico e istituzionale, identica a quella
europea modellata dal Concilio di Trento: gli stessi riti, gli stessi santi, le stesse festività erano
offerti al culto dei fedeli dall’una e dall’altra parte dell’Atlantico. La lingua latina era quella usata
nelle cerimonie sacre, i monasteri ospitavano un numeroso clero regolare, l’immenso territorio era
organizzato in diocesi, i tribunali dell’Inquisizione vegliavano sulle possibili infiltrazioni ereticali
ecc. quella americana però era sostanzialmente una Chiesa di importazione che si regolava secondo
le norme che erano stabilite a Madrid dal re e dal Consiglio delle Indie. In America i regolari
dipendevano dai superiori che erano in Spagna. Essa era però anche una Chiesa di missione e di
missionari, di fedeli antichi (spagnoli e creoli) e di fedeli nuovi (indios), una chiesa il cui compito
fondamentale era l’evangelizzazione e l’istruzione dei nativi alle verità della nuova fede. Chiesa di
missione significa anche che al suo interno era forte l’anelito all’affermazione di una fede che fosse
caratterizzata da semplicità e umiltà

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