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Spagnoletti
Storia
Università degli Studi di Bergamo
47 pag.
A. Spagnoletti
Le età dei re
Filippo II nacque il 21 maggio 1527 a Valladolid e morì all’Escorial il 13 settembre 1598. Egli fu il
primo degli Asburgo sovrani dei regni spagnoli ad essere nato in una città iberica. Visse poco più di
71 anni, molto di più dei suoi parenti: Carlo V visse 58 anni, il nonno Filippo 28, e i suoi diretti
successori, Filippo III, Filippo IV e Carlo II 43, 60 e 39 fu quindi il più longevo sovrano della
dinastia degli Austrias. Che si avvicina alla sua età è la regina di Inghilterra Elisabetta, vissuta dal
1533 al 1603, che però regnò per 45 anni, mentre Filippo solo 42, dal 1556. Nessun paragone è
possibile con i re di Francia della seconda parte del XVI secolo, solo nel secondo 600, con Luigi
XIV si ebbe un re che superò abbondantemente i 70 anni. Coloro che ai avvicinarono all’età di
Filippo II o la superarono, erano i pontefici. Dei 9 papi che attraversarono il regno del re Cattolico
Diventare moglie
Abbiamo sottolineato che Filippo sposò donne che potevano essere sue figlie, in effetti sia
Elisabetta che Anna erano state destinate al principe Carlos che però morì. Solo il primo
matrimonio di Filippo fu equilibrato dal punto di vista dell’età (1527 entrambi), mentre il secondo
con Maria Tudor era fra una donna di 38 anni e un uomo di 27, ma la prospettiva che un figlio nato
da quel matrimonio potesse un giorno ascendere al trono inglese, valeva il sacrificio. Già abbiamo
detto che il compito delle regine era soprattutto quello di garantire la pace tra due sovrani. Per
esempio Elisabetta di Valois fu denominata “reina de la paz” perché avrebbe significato un
cambiamento nelle relazioni tra Spagna e Francia che si erano combattute per tutta la prima metà
del 500. Le spose erano spesso bambine o adolescenti, obbligate spesso a lasciare per sempre la
propria patria, usi e costumi. Solo quando avevano avuto dei figli maschi che raggiungevano l’età
che li poneva al riparo dalla morte postnatale, la regina consorte si nazionalizzava e seguiva il
destino dei figli che diventava il suo destino. Per la sposa il primo trauma si aveva quando veniva
consegnata, insieme a cardinali, vescovi, parenti, al marito, la cui presenza altro non serviva se non
a far meglio comprendere alla fanciulla straniera il mutamento della sua nazionalità e la potenza del
marito e dei suoi sudditi. Quando la sposa arriva nella patria di adozione non incontra subito lo
sposo, ma è in una località diversa da quella della consegna lo sposo lascia che siano altri, nobili,
ecclesiastici, ad accogliere la nuova regina con cortei, feste, fuochi d’artificio. La sposa può subito
far conoscenza delle più alte personalità del nuovo paese e ciò fa anche crescere il desiderio di
incontrare il marito. La consegna della sposa agli emissari del marito avviene sulla raya (confine)
dei due paesi. Questa diventa il luogo della pace ove si dispongono i due seguiti non per combattere
ma per celebrare l’unione foriera di pace. Vediamo ora l’ingresso delle mogli di Filippo nelle città.
La sedicenne Maria Manuela, accompagnata dall’arcivescovo di Lisbona e dal duca di Braganza,
entrò in Spagna dove fu accolta dall’arcivescovo di Toledo. Nelle terre del duca d’Alba si tenne una
partita di caccia, poi la Aviz si diresse a Salamanca, luogo per la celebrazione delle nozze.
L’ingresso della principessa in città il 12 novembre 1543 fu salutato dal corteo delle autorità civili
ed ecclesiastiche. Elisabetta fece la sua entrata a Toledo e poi andò a Guadalajara dove incontrò
Filippo e la principessa Giovanna. A Toledo, capitale della Spagna, la accolsero squadroni di
cavalleria e compagnie di fanteria, i cavalieri degli ordini militari. Fu eretto un arco trionfale con
scene storiche e mitologiche alla porta di Viasagrada e un altro all’ingresso della cattedrale. Un
numeroso popolo assisteva all’entrata e i balconi e le piazze erano state addobbate. La quarta
moglie fu Anna d’Austria, figlia di Massimiliano II e nipote del re, sposata nel 1570. Sbarcò a
Santander, partita dalle Fiandre. A Segovia ebbero luogo le nozze. Il 26 ottobre fece il suo ingresso
a Madrid.
Il matrimonio inglese
L’abdicazione di Carlo
Dal 1555 per un anno, Bruxelles fu la capitale d’Europa e costituì il fastoso scenario delle
abdicazioni di Carlo V. Già l’anno precedente l’imperatore aveva devoluto al figlio la titolarità del
La morte dell’imperatore
Il nuovo re dovette convivere circa due anni con il padre, anche se questi ormai viveva nel convento
a Yuste mentre il figlio continuava a risiedere nelle Fiandre. Influiva sulla situazione politica ma
non manifestava in pubblico la sua presenza, Filippo invece era attivo sugli scenari europei. Il 21
settembre 1558 comunque l’ex imperatore morì e la salma fu traslata anni dopo all’Escorial
dall’altare centrale della chiesa del convento. In tutta la monarchia si tennero grandi celebrazioni
funebri, soprattutto a Bruxelles dove si organizzò un corteo con un carro a forma di nave sulle cui
fiancate c’erano raffigurate tutte le vittorie riportate da Carlo in Africa e in Asia. Dal settembre del
1558 al settembre dell’anno seguente Filippo perse il padre, la moglie e due zie (Eleonora e Maria)e
dovette di continuo affrontare il paragone tra la sua personalità e quella del padre. Filippo per tutta
la sua vita mostrò grande inclinazione alla pace a differenza del padre che indirizzò ogni sua azione
all’accrescimento della gloria.
Un re per la Spagna
La Castiglia e l’Aragona
Per governare quell’immenso territorio serviva un centro che avesse la capacità di trasmettere gli
impulsi politici in periferia e di rendere quest’ultima partecipe delle decisioni del centro come se
fossero state da essa assunte. Qui si palesò la debolezza della monarchia, incapace con Filippo di
dare voce alle entità territoriali periferiche. Il problema di individuare il luogo centrale dell’intera
monarchia fu subito risolto: un principe il quale possieda più città, potendo risiedere in un solo
Stato deve stare dove ha più popoli fedeli e più ricco di tutte le cose necessarie, e questo non poteva
che essere la Spagna, o meglio la Castiglia. Infatti la Castiglia era abitata da gente leale su cui il re
sapeva di poter contare, al suo interno si trovavano le maggiori città della penisola ( Siviglia,
Granada, Toledo Madrid) e aveva una struttura economica e commerciale più dinamica di quella
aragonese. Infine, mentre la Castiglia era un regno unitario e il re esercitava un potere assoluto,
l’Aragona era divisa nell’Aragona propriamente detta, nel regno di Valencia, nella contea di
Barcellona e ciascuna realtà era dotata di proprie istituzioni. In Aragona il re non possedeva quella
suprema autorità che possedeva il Castiglia e gli aragonesi pretendevano di essere liberi e di
governarsi come una famiglia basata sul matrimonio. Filippo convocò e partecipò ad alcune Cortes
(nel 1563 e 1585 a Monzòn, 1592 a Tarragona) ma il modo di procedere dei delegati che lo
attaccavano continuamente gli fece perdere la pazienza. Inoltre la lentezza delle operazioni lo
spinse a portare la cama come protesta per l’inconcludenza dei lavori. Nel 1585 Filippo tornò in
Aragona per celebrare il matrimonio tra la figlia Catalina e Carlo Emanuele di Savoia e per
presiedere le Cortes in cui doveva essere giurata fedeltà al figlio omonimo come successore. Le
ultime cortes celebrate dal Cattolico in Aragona furono quelle di Tarragona del 1592 la cui
importanza era dovuta dal fatto che erano state convocate a ridosso della sollevazione della regione
avvenuta l’anno precedente che aveva portato alla morte del marchese di Almenara. Costui era stato
nominato viceré in Aragona ma il suo essere forestiero scatenò le Cortes, costringendo il re a
nominare un nuovo nella persona di Jaime Jimeno, ma Almenara non scappò alla folla e morì. Ma
torniamo indietro, le alteraciones de Aragon avevano diverse cause: quel regno era turbato dal
bandolerismo, dai conflitti tra i moriscos e le popolazioni cristiane montanare, inoltre Saragozza
aveva uno specifico ordinamento municipale con particolari privilegi, tra cui quello “de los veinte”
in base al quale i cittadini (i 20 del consiglio comunale) potevano castigare i malfattori che avessero
danneggiato le loro proprietà rurali ma si trasformò ben presto nel diritto di punire reati commessi
in altri campi. Il re aveva deciso, data la debolezza dei viceré di origine locale, di nominare stranieri
e questo, assieme all’arrivo di Perez in Aragona, infiammò gli animi e provocò la sollevazione di
Saragozza. Furono convocate dunque le Cortes a Terragona. Durante il viaggio verso quella città
Filippo si ammalò e si trattenne a Rioja in un monastero e inviò l’arcivescovo di Saragozza al suo
posto, causando però scompiglio perché credevano l’avesse fatto per non incontrarli. La morte
dell’arcivescovo portò altro scompiglio finché Filippo non nominò come successore nella funzione
di presidente il fratello del prelato, il conte di Chincon e assicurò che si sarebbe fatto vedere presto.
La corte, le corti
Fulcro del potere del re era la corte. La corte era il luogo ove risiedeva il re, ove erano gli uomini
che servivano lui e lo stato e necessitava di una sua particolare organizzazione. Il modello adottato
fu quello borgognone che Carlo V aveva introdotto nella penisola nel 1548, la sostituzione del
cerimoniale borgognone a quello castigliano suscitò malumori. La corte alla borgognona si basava
su una netta separazione della vita privata da quella pubblica del sovrano e dei suoi famigliari. Tutta
la vita quotidiana era strutturata intorno a una serie di uffici al cui vertice erano personalità di
rilievo che non dovevano tanto soddisfare le esigenze provate del sovrano, ma avvolgere il tutto in
un’aura di perfezione che doveva trasmettere agli osservatori la maestà del re. A capo della casa era
il mayordomo mayor da cui dipendevano altri maggiordomi, portieri controllori. Il simbolo del suo
potere era dato dalla chiave d’oro che portava alla cintura e poteva aprire tutte le stanze del palazzo.
Vi era poi il camarero mayor da cui dipendevano i medici di corte, che aveva il compito di vestire
o spogliare il re, il cavallerizo mayor godeva della maggiore autorità quando il sovrano era fuori, il
montero mayor aveva competenza sui boschi reali e sulle partite di caccia. L’aposentador mayor
ripartiva le stanze per coloro che vivevano a corte. Era nella corte che si assegnavano le cariche, si
costituivano le carriere. Solo vivendo a corte si aveva la possibilità di ricevere incarichi per sé o
per i propri famigliari. Il cortigiano doveva essere pronto a tutto: aggressioni fisiche come i duelli
o violenze morali fatte di memoriali (papeles) o ordini di abbandonare la corte (destierro) con il
Il duca d’Alba
Fernando Alvarez de Toledo, terzo duca d’Alba, aveva iniziato la sua carriera militare sotto Carlo V,
partecipando a svariati fatti militari, a partire dalla battaglia di Pavia del 1525. Con Filippo aveva
mantenuto le proprie posizioni aggiungendo alle cariche militari anche cariche di governo in Italia
ove fu governatore di Milano e viceré di Napoli. Spesso a fianco del re a partire dal matrimonio
inglese, l’Alba avrebbe costruito gran parte della propria reputazione sul suo operato nei Paesi
Bassi nei primi anni della rivolta. Nonostante fosse il tipico uomo di cui il re aveva bisogno, non si
fidava a pieno di lui e non gli affidava incarichi che avrebbero potuto innalzare troppo la sua
immagine. Alba rientrò in Spagna nel marzo 1574 senza ricevere particolari attestati di
benemerenza da parte del re, anzi dovendo contrastare i sospetti che su di lui spargeva Ruy Gomez.
Ma la morte di quest’ultimo sembrò lasciare ampio spazio al condottiero, anche se non tornò più a
esercitare l’influenza di cui aveva goduto prima della partenza per le Fiandre. Ciò che contribuì ad
affossarlo per un certo periodo furono le modalità del matrimonio del figlio: era agli arresti nel
castello di Ucesa perché aveva aiutato il figlio Fadrique a fuggire da una prigione ove era rinchiuso
I grandi di Spagna e il re
Nella penisola iberica la struttura nobiliare era più o meno simile a quella di altri paesi dell’Europa
occidentale, con la sua gerarchia di duchi, marchesi, conti, cavalieri e, al livello più basso, di
hidalgos, non vi erano principi, essendo quel titolo riservato all’erede al trono. Al vertice della
piramide erano i Grandi di Spagna, che godevano di una certa famigliarità con il re. Grandi erano
tutti i duchi ma anche principi stranieri come i duchi di Savoia e di Guastalla. Il fatto però di godere
di ricchezze e privilegi oltre che di enorme influenza sociale non faceva però di quei nobili un
gruppo al quale fosse automaticamente affidata la gestione delle alte cariche della monarchia. Per
impedire scontri tra nobili che pretendevano e si arrogavano trattamenti ad essi non consentiti, nel
1586 Filippo emanò la cosiddetta pragmatica de las cortesias con la quale cercò di disciplinare lo
smodato uso degli appellativi che si attribuivano i nobili e con i quali volevano essere indicati. Il
titolo di Eccellenza era solo per i viceré, quello di Signoria reverendissima era riservata ai cardinali
e all’arcivescovo di Toledo, tutti gli altri dovevano essere appellati con il titolo di Signoria. Sisto V
però non era d’accordo, doveva essere lui a conferire i titoli ai suoi cardinali, cosi, in quanto non fu
molto seguito come documento, venne ritirato nel 1611.
I viceré
Visto che la fedeltà dei sudditi si rafforzava alla vista del sovrano, non potendosi egli trovare
ovunque per molto tempo, questo incarico spettava ai viceré. Tutti i regni della corona erano senza
re tranne la Castiglia dove risiedeva, dovunque quindi egli era rappresentato da un viceré. Lo Stato
di Milano e i Paesi Bassi però erano retti da un governatore, mentre alcuni territori delle indie
orientali (Cile, Portorico) e le Filippine erano governati da un capitano generale. I viceré, che
generalmente duravano in carica tre anni, godevano di numerosi poteri, a volte anche militari ed
erano l’alter ego del sovrano assente: avevano anch’essi una loro corte ma, il loro potere trovava
limiti nel fatto che essi dovevano rispettare le costituzioni politiche del paese che andavano a
governare e nel fatto che quel potere era conferito loro per delega. Dovevano dar conto al re del
proprio operato, per sorvegliare il quale erano spesso inviati dei visitatori. Se il loro lavoro risultava
soddisfacente agli occhi del sovrano e delle popolazioni provinciali, ai viceré si apriva la strada per
conseguire importanti cariche negli organi centrali della monarchia. Le corti vicereali diventarono il
primo strumento di integrazione delle élites nazionali nella monarchia: qui si celebravano
matrimoni tra uomini e donne spagnole al seguito del viceré e rampolli delle più influenti famiglie
provinciali. L’assenza del re era particolarmente sentita in Aragona, specie in Catalogna, ove si
concretizzava nella malgradita presenza di viceré di origine straniera e dava luogo ad atteggiamenti
di ostilità nei confronti del potere monarchico.
Il segretario
Antonio Pérez non apparteneva alla famiglia reale ma il fatto che le sue vicende furono legate alla
fase finale della vita di Don Juan ci induce a dedicargli un paragrafo. Egli, persona gentile, seguiva
con abilità gli affari d’Italia e quelli delle Fiandre da quando don Juan ne era il governatore. Perez
aveva favorito la nomina di Juan de Escobedo a segretario personale di Juan con lo scopo di
controllarne l’operato quando il principe aveva assunto il governo dei Paesi Bassi. Ma l’Escobedo
divenne l’uomo di fiducia di Juan ed effettuò diversi viaggi in Spagna per ottenere fondi e
l’autorizzazione regia alle decisioni che il suo signore intendeva prendere per porre fine alla rivolta.
In queste occasioni si scontrò con Perez che rese edotto Filippo dei presunti piani di Juan e della sua
intenzione di sposare Maria Stuart, di invadere l’Inghilterra e di insignorirsi delle Fiandre.
Escobedo da parte sua minacciava di divulgare gli illeciti del segretario di Stato e il suo
comportamento non consono a un uomo di fiducia del monarca, il che determinò la decisione di
Perez di assassinarlo il 31 marzo 1578. A questo punto il segretario divenne una persona
ingombrante anche per lo stesso Filippo. Perez fu accusato di aver ricevuto denari dal granduca di
Toscana, di aver avuto rapporti con la principessa di Eboli e di aver divulgato segreti di Stato.
Chiuso in un carcere il 28 luglio 1579 fu condannato a 2 anni di prigione e 8 di esilio. Sottoposto a
tortura per confessare di aver organizzato l’omicidio di Escobedo, ammise che il re ne era il
mandante. Nel 1590 la moglie riuscì a farlo evadere durante una visita e si rifugiò ad Aragona,
chiedendo di essere giudicato secondo i fueros locali. Filippo lo sottopose al giudizio
dell’Inquisizione che era l’unico valevole su tutta la Spagna. Fuggì mentre veniva condotto nelle
carceri inquisitoriali di Saragozza, aiutato dalla rivolta popolare. Grazie a quella riuscì a fuggire in
Francia dove divulgò molte informazioni relative al regno di Filippo II (compreso il presunto
avvelenamento di Carlos) che contribuirono a diffondere un giudizio molto negativo sul sovrano.
Morì in miseria a Parigi nel 1611.
L’ultimo erede
L’ultimo figlio del re, Filippo III ascese al trono nel 1598 alla morte del padre e vi sedette fino al
1621, in parte seguì le linee di politica interna ed esterna paterna (esempio l’espulsione dei
moriscos) in parte le mutò (la pace con l’Inghilterra, la tregua con le province Unite). Era figlio di
Filippo e Anna e nacque nel 1578e aveva dunque 20 anni quando fu chiamato a subentrare al padre.
Era un giovane dal corpo esile e gracile, non assuefatto dalle armi. L’istruzione del principe era
stata quella solita impartirsi ai membri di una casa reale e, in particolare a un erede al trono. Tre
secondo il padre erano i precetti che doveva seguire: conservare in sé e nei sudditi la religione
cattolica, governare bene i suoi stati soprattutto in guerra, amministrare rettamente la giustizia.
Secondo i consiglieri del re ciò che gli mancava era trattare casi di guerra con i capitani, concedere
più udienze, prendere parte attiva nei Consigli, concedere elemosine ai poveri e sposarsi.
La fede del re
Filippo impiegava 4 ore della sua giornata nelle orazioni e soprattutto aveva impiegato il suo
patrimonio e i suoi sudditi nella lotta contro le eresie, per il ripristino del Cattolicesimo dove era
stato soppiantato dal Protestantesimo e per l’evangelizzazione dei popoli delle Indie occidentali e
orientali rispondendo al comando divino che aveva imposto alla Spagna, dopo essersi purificata
dalla presenza di mori e ebrei, di convertire gli indios. Fu suo titolo di merito l’aver edificato templi
di rara grandezza laddove ugonotti e calvinisti li radevano al suolo e bruciavano le sante reliquie in
essi custodite. Nel 1559 vietò agli spagnoli di insegnare o studiare all’estero per evitare una
possibile infezione eretica. Concesse ai condannati a morte la facoltà di comunicarsi e che in ogni
carcere si erigesse una cappella. A tener legate insieme fede, pratica religiosa e politica
confessionale contribuivano i confessori del re che lo consigliavano anche su importanti questioni
concernenti il governo religioso. Sincera era la sua fede ma anche crudele e intransigente. Della
religiosità di Filippo faceva parte il culto dei Santi, soprattutto di quelli nuovi che potevano essere
adoperati attribuendo loro una valenza politica che serviva a dimostrare al mondo che la monarchia
ispanica era la prediletta del Signore e che proteggeva corpi minacciati dagli eretici. In questo modo
vanno intese le traslazioni a Toledo del corpo di Sant’Eugenio, primo vescovo della città e di quello
di Santa Leocadia.
La chiesa spagnola
I pontefici
La solidarietà totale tra la causa del Cattolicesimo romano e la politica interna ed esterna di Filippo
comportava uno stretto allineamento con il papato che non si risorse mai in mera subordinazione e
accondiscendenza. Egli rispettava il papa come colui che deteneva le chiavi del cielo, come
principe della chiesa, a loro volta i papi lo rispettavano come il principale sostegno della cristianità.
Ma ciononostante a differenza dei re franchi non lasciò alla chiesa nessun beneficio o territorio.
L’obiettivo costante di Filippo era di impedire l’elezione di un papa antispagnolo o che fosse
spagnolo o che appartenesse a famiglie di grande rilevanza politica o economica. In effetti durante
il suo regno non ci furono pontefici spagnoli ma sudditi si. Il primo fu Paolo IV napoletano, al quale
il re mosse guerra, il secondo Pio IV. In generale, Filippo sperava in pontefici suoi dipendenti e
confidenti, di bassa condizione e che riconoscessero in lui il sovrano che avrebbe potuto arricchire
di titolo i propri parenti. Egli cercava di fare in modo che i pontefici fossero costretti a rivolgersi a
lui per i rifornimenti di grano dal regno di Napoli e dalla Sicilia, per la protezione contro le
incursioni turchesche ecc. in ogni caso, sempre il re dichiarò di essere un fedele figlio del papa e
pretese di dimostrare questa fedeltà in ogni occasione, anche in quella che concerneva
l’introduzione del nuovo calendario, varato nel 1582 da Gregorio XIII. Egli, von il taglio di 10
giorni di ottobre (5-15) diede ordine che in tutti i suoi regni si osservasse il nuovo. Questo fu
accettato da tutti i principi cattolici, ma non da quelli protestanti perché proveniva da Roma. Uguale
fedeltà il re dimostrò nelle questioni che concernevano il concilio di Trento e nell’accettazione dei
suoi decreti. L’assise tridentina si articolò in tre fasi, quella del 1545-1547, quella del 1551-1552 e
del 1562-1563. Nelle istruzioni del 1548 Carlo V aveva sollecitato il figlio ad operarsi per la
conclusione del concilio, se questo non fosse avvenuto finché egli era ancora in vita. Il concilio si
era sciolto per la delicata situazione che si era determinata in Germania alla conclusione della dieta
Augusta (nel 1522 esso fu interrotto per l’avvicinarsi delle truppe di Maurizio di Sassonia che
L’inquisizione
Contro eretici veri o presunti il re aveva a disposizione uno strumento che aveva ereditato dai suoi
bisnonni, Isabella e Ferdinando, e che potenziò e sostenne al fine di fare della Spagna un paese che
aveva allontanato da sé ogni rischio di possibile contagio che potesse provenire non solo da
minoranze religiose che avevano abitato i regni peninsulari (mori o ebrei) ma anche da coloro che
avevano abbracciato l’eresia luterana o calvinista. Questo strumento era l’Inquisizione istituita dai
re Cattolici grazie a una bolla di Sisto IV del 1478 alla quale gli diede sempre un convinto sostegno.
Anzi il fatto che quell’Istituto fosse governato da un Inquisitore generale, proposto dal re e
nominato dal papa e da un Consiglio, dimostra il carattere misto, ecclesiastico e politico,
dell’Inquisizione spagnola. L’inflessibilità con la quale condusse la sua lotta contro l’eresia
divenne, fin da subito, uno dei tratti distintivi della sua personalità. Egli fece in modo che alla testa
dell’Inquisizione fossero uomini zelanti, ai quali prestava tutta la sua fiducia e che onorava
partecipando di persona agli autos de fe, che illuminavano, con i loro roghi le piazze spagnole. Il
regno di Filippo era iniziato con i roghi degli eretici sospetti di luteranesimo a Valladolid del 21
maggio 1559 ai quali presenziarono la principessa Giovanna, don Carlos e molti componenti dei
Consigli, in tale occasione fu giustiziato per sospetta adesione al luteranesimo insieme al fratello
Francisco Agustin Cazalla predicatore presso Carlo V e la famiglia imperiale. Il caso più clamoroso
che dovette affrontare l’Inquisizione spagnola e lo stesso Filippo fu quello che ebbe a protagonista
l’arcivescovo di Toledo e primate di Spagna Bartolomeo Carranza. Questi era un domenicano
I moriscos
L’eresia poteva essere rappresentata dall’ebreo che aveva finto di convertirsi al Cristianesimo, o nel
Morisco, il musulmano che viveva nell’antico regno di Granada, o in quello di Valencia o Aragona,
superficialmente convertitosi, ma praticante nell’intimità domestica i riti della sua vecchia
religione. A Granada erano quasi il 5% della popolazione ed erano tormentati in tutte le maniere
dalle autorità civili ed ecclesiastiche di quelle regioni (Granada, Valencia e Aragona), impegnate in
un processo di ispanizzazione forzata di quella minoranza etnica con la collaborazione
dell’Inquisizione, rappresentata al vertice in quel momento da Diego de Espinosa. Il re però,
prendendo atto del fallimento dell’opera di evangelizzazione, emanò il 17 novembre 1566 una
prammatica che proibiva ai moriscos una serie di comportamenti ritenuti tipici di coloro che
praticavano la religione islamica: era vietato l’uso della lingua araba, i libri in quella lingua
dovevano essere consegnati alle autorità, dovevano abbandonare gli abiti moreschi, le nozze
dovevano essere celebrate secondo il rito cattolico, le porte delle abitazioni dovevano restare aperte
il venerdì, erano vietati i bagni pubblici per evitare la promiscuità tra i sessi. I moriscos però
esposero al nuovo presidente della audiencia real di Granada, Pedro de Deza, appartenente
all’Inquisizione, le ragioni che non permettevano di considerare consurabili i loro stili di vita.
L’abito che indossavano era un abito tradizionale, i nomi che possedevano servivano a conservare la
memoria dei loro antichi lignaggi, i libri non contenevano niente che potesse contraddire la fedeltà
verso il re ecc. il presidente non accettò le loro motivazioni ma li invitò a comunicargli i casi di
violenza che subivano. La situazione divenne ben presto tesa in tutto il regno di Granada e alla fine
del 1568 esplose una sollevazione generale che si trasformò in un atroce conflitto provocando
enormi perdite tra uomini, donne e bambini. La rivolta avvenne perché alcuni moriscos provenienti
Un re pacifico?
Gli obiettivi della politica estera del re erano quelli di reprimere la minaccia che i turchi e i loro
alleati facevano gravare sui quadranti centrali e occidentali dei Mediterraneo, di assicurare
l’egemonia spagnola in Italia attraverso l’imposizione di una situazione di quiete che necessitava
della collaborazione dei principi e delle élites locali, la difesa a oltranza della propria sovranità
laddove essa era messa in discussione (Paesi Bassi), la lotta per il ripristino in Inghilterra del
Cattolicesimo da attuare tramite l’insediamento sul trono di San Giorgio di un sovrano non
protestante. Infine è da rimarcare l’attenzione che egli prestò all’organizzazione dei territori del
Nuovo Mondo e alla scoperta e al controllo di altri collocati nel Pacifico (per esempio le Filippine)
dovuta a motivazioni religiose e commerciali e mirante all’affermazione della propria potenza e del
proprio prestigio anche su quei mari lontani. L’immagine che gli storiografi spagnoli tramandano di
lui è quella di un re pacifico costretto a scatenare guerre che in ogni caso erano giuste ossia
intraprese per la difesa della religione. Filippo nei primissimi anni di governo intraprese una guerra
contro il papa e concluse quella ormai annosa con la Francia. Possiamo dire però che prima dello
scoppio della rivolta dei Paesi Bassi, egli perseguì una politica estera all’insegna di un conclamato
ed esibito pacifismo. Con la pace aveva ottenuto dalla Francia la restituzione della Savoia al duca
Emanuele Filiberto e della Corsica a Genova e aveva concesso quasi tutto il territorio della
repubblica di Siena all’allora duca di Firenze Cosimo I. la politica pacifista gli consentiva di
accrescere le proprie entrate e ridurre gli ingenti debiti contratti dal padre. Nei primi anni del suo
regno si può dire che Filippo vivesse all’ombra del padre e gli osservatori analizzavano i suoi
comportamenti paragonandoli a quelli dell’imperatore. Del presunto pacifismo del re, che in ogni
caso era sempre un pacifismo armato e non rinunciatario, facevano parte le guerre contro gli
infedeli e quelle di religione alle quali Filippo non volle sottrarsi.
La diplomazia
La rete diplomatica spagnola contava su un limitato numero di ambasciate permanenti. La prima
per ordine di importanza era quella presso la Santa Sede, patria comune di tutti i cattolici,
generalmente retta da grandi personalità. Gli ambasciatori a Roma avevano il gravoso compito di
far si che il pontefice fosse amico o almeno non nemico del re, vigilavano sui conclavi e si
inserivano nel gioco delle fazioni collegandosi alle grande famiglie romane. Seguivano quella
presso l’imperatore (a partire dal 1558), la corte di Francia, quella inglese, quella portoghese;
presso i cantoni svizzeri vi era un ambasciatore, mentre in Italia c’erano a Roma, Venezia, Genova
e Torino. L’ambasciata a Vienna-Praga e quella a Lisbona, dati gli stretti vincoli parentali tra la casa
regnante spagnola e quella asburgico-imperiale e portoghese si configuravano quasi come
ambasciate di famiglia più che di stati. A loro volta, le quattro ambasciate italiane, testimoniano
della centralità della penisola nel contesto della monarchia ispanica. Quella spagnola era una
diplomazia bilaterale ordinaria, ossia che vedeva a Madrid le rappresentanze diplomatiche dei paesi
presso i quali la corte spagnola aveva proprie delegazioni. Alla diplomazia ordinaria corrispondeva
quella straordinaria che aveva i suoi protagonisti negli ambasciatori inviati per seguire questioni
La fase aggressiva
A. L’incorporazione del Portogallo
Numerosi furono gli intrecci matrimoniali tra la casa regnante portoghese e quella castigliano-
aragonese a partire dalla fine del XV fino a tutta la metà del successivo. Il re Manuele I d’Aviz
aveva sposato Isabella, figlia dei Re Cattolici, Ferdinando e Isabella e vedova del principe
portoghese Alfonso, figlio di Giovanni II. La sorella di Isabella di Castiglia, Maria, sposò in
seconde nozze Manuele, dal quale ebbe, tra gli altri, Isabella, moglie di Carlo V, Beatrice, moglie di
Carlo III di Savoia, Giovanni che sposò Caterina sorella di Carlo V, Luigi, Alfonso ed Enrico che
furono cardinali, Edoardo marito di Isabella di Braganza dalla quale ebbe Maria, poi moglie di
Alessandro Farnese. Manuele in terze nozze sposò Eleonora, altra sorella di Carlo V. Dal re
Giovanni III nacque Maria Manuela, prima moglie di Filippo II la cui sorella Giovanna sposò il
principe Giovanni. Da questa unione nacque Sebastiano, sul trono dal 1557 al 1578. Il re era
dunque, il nipote di Filippo II che, da parte sua, era figlio di una portoghese e marito, in prime
nozze, di una portoghese. Sebastiano subì una rovinosa sconfitta nella battaglia di Alcazarquivir (4
agosto 1578) nel corso della quale trovò la morte. Sebastiano era celibe e pertanto salì al trono
l’unico parente diretto, il cardinale Enrico. Costui aveva 66 anni era cardinale ed era stato
arcivescovo, era quindi votato al celibato e per il Portogallo si prospettò subito l’eventualità che
avrebbe lasciato vacante il trono del paese. Inutilmente chiese a Gregorio XIII di essere dispensato
dai voti e di poter contrarre matrimonio e morì il 31 gennaio 1580. La sua più grande colpa era stata
quella di non aver scelto un successore che, a ben vedere esisteva nella persona di Antonio, figlio
naturale del fratello Luigi. Il candidato al trono a questo punto era Filippo II. Quest’ultimo iniziò
numerosi tentativi di convincimento nei portoghesi: egli non era da considerare un principe
straniero scorrendo in lui molto sangue portoghese, inoltre la lingua era simile e anche i costumi.
Riusciti vani i tentativi di ascendere pacificamente al trono portoghese, nonostante la disponibilità
del papa ad un’opera di mediazione, Filippo diede ad Alba l’ordine di invadere il Portogallo con
grande disappunto di Gregorio XIII che disapprovava una guerra tra cattolici. Il re seguì da vicino
le operazioni e fece base a Badajoz ove lui si ammalò e trovò la morte la regina Anna. Il Portogallo
venne preso e Antonio era scappato nelle Isole Azzorre. Filippo offrì mercedi ai portoghesi fedeli e
assicurò che avrebbe rispettato la legislazione del paese e che si sarebbe fatto rappresentare da un
governatore di nazionalità portoghese. Filippo fece una lunga dimora a Lisbona, tornò in Castiglia
nel 1583 non senza aver fatto giurare ai portoghesi l’omonimo figlio come successore e aver
affidato il governo del paese al nipote prediletto Alberto, nonostante i portoghesi avessero chiesto di
essere governati dall’imperatrice Maria. Filippo era diventato il più potente monarca al mondo.
B. Il re e la regina d’Inghilterra
Morta la sorella Maria nel 1558, Elisabetta era indubbiamente la sua legittima erede. Tutti
pensavano che avrebbe dato una forte sterzata alla politica seguita dalla sorellastra, cattolica e
moglie di Filippo II. Anglicana ma non fanatica in materia di religione, essa fu riconosciuta dal re
come regina e per qualche tempo le relazioni tra Spagna e Inghilterra furono improntate a reciproca
correttezza. Filippo nutrì sempre la speranza di riuscire a addomesticare Elisabetta attraverso un
matrimonio con un principe cattolico ma cozzò sempre contro la ferrea volontà della regina di non
cedere a nozze che avrebbero potuto riportare l’Inghilterra agli anni di Maria Tudor. Filippo
C. Francia (1559-1598)
Il 2 maggio 1598 a Vervins, al confine tra il regno di Francia e le Fiandre spagnole, veniva stipulata
la pace che poneva fine alla guerra tra il re Enrico IV di Borbone e Filippo II. La guerra era iniziata
nel 1595, ufficialmente dichiarata dal Borbone. La pace si era rivelata molto vantaggiosa per Enrico
che aveva ottenuto da Filippo il riconoscimento dei suoi diritti e del suo titolo ed era giunta alla fine
di un periodo che aveva lasciato prostrati entrambi i contendenti, la Francia e la Spagna. Il re di
Francia era senza dubbio il vincitore della guerra, avendo costretto gli spagnoli che avevano invaso
il nord della Francia a ritirarsi nelle loro retrovie fiamminghe, ma che Filippo fosse addivenuto alla
pace senza che il suo esercito avesse subito sconfitte decisive, era una decisione che aveva diverse
motivazioni. Quelle ufficiali erano che egli avesse voluto dare pace alla Cristianità e che non
avesse voluto lasciare al figlio il peso di una guerra sempre più dispendiosa; altre decisioni
attribuiscono la decisione di Filippo alla stanchezza e all’età. La pace, che nei fatti ripristinava la
situazione territoriale del 1559, fu salutata con gioia in tutta l’Europa cattolica. Ma il 13 settembre
1598 il re Filippo II morì. Si è detto che la guerra durò tre anni o poco più e che iniziò per volontà
di Enrico, dopo che questi era stato incoronato re a Chartres nel febbraio 1594. Il Borbone,
convertitosi al cattolicesimo e posto fine alle guerre civili che avevano travagliato la Francia, in
precedenza aveva avuto diverse occasioni di scontro con Filippo. la guerra serviva ancora un volta
a compattare un paese, soprattutto se questo era la Francia, che contava una numerosa e potente
nobiltà guerriera. Filippo aveva avuto facile gioco ad incunearsi dopo che il regno francese, per le
repentine morti di Enrico II (1559) e nel 1560 di Francesco II, marito di Maria Stuart, sprofondò nel
gorgo delle guerre civili. Filippo, avendo sposato Elisabetta di Valois, era il fresco cognato del re
Francesco II e lo sarebbe stato del successivo Carlo IX e quindi fin dal 1560 inviò in Francia soldati
provenienti dall’Italia ai quali si sarebbero aggiunte truppe arruolate dal papa, ma non era la sola
solidarietà dinastica a muovere i suoi pensieri in Francia stava avvenendo quello che dopo sarebbe
avvenuto nei Paesi Bassi, l’eresia si mescolava alla ribellione provocando contrasti tra sudditi e
autorità. Questo avveniva certamente perché Dio aveva voluto punire la Francia, la quale, giunta
alla sua maggior potenza con la protezione della chiesa, aveva poi iniziato a considerare poco il
pontefice, ad allearsi con i turchi contro i cristiani ecc. Filippo, disgustato dai casi in cui l’eresia
faceva il paio con la ribellione, sentì come proprio dovere assicurare la stabilità del trono francese,
anche perché non poteva tollerare che Elisabetta si rafforzasse in quanto era già pronta a inviare
uomini e risorse agli ugonotti. Filippo voleva offrire a Carlo IX il duca d’Alba e il suo esercito ma
la proposta cadde nel vuoto, temendo il Valois la potenza di quell’esercito. La guerra civile francese
subito si internazionalizzò: i ribelli olandesi, l’Inghilterra e l’imperatore scesero in campo per
sostenere il movimento ugonotto. Dalla parte dei cattolici erano Filippo, il duca Carlo III di Lorena
e Carlo Emanuele I di Savoia e il papa. Carlo IX fu il re dei massacri, delle tregue, dell’oscillante
Capitolo 7: Ultramar
I viceré novoispani
Sebbene fossero accompagnati da precise istruzioni che forniva loro il re e il Consiglio delle Indie,
i viceré spagnoli in America, a causa della distanza da Madrid e dell’estensione del territorio sul
quale dovevano regnare, esercitavano un potere quasi assoluto. Essi erano nello stesso tempo
governatori, capitani generali e a volte, presidenti dell’audiencia della capitale. Il primo vicereame
ad essere istituito fu quello della Nueva Espana e nel 1535 fu nominato il primo re nella persona di
Antonio di Mendoza. Il vicereame del Perù sorse nel 1543 e primo viceré fu Blasco Nunez Vela in
carica fino al 1546. Nonostante la provvisorietà della situazione in cui si trovava a operare,
l’insediamento di quel viceré a Lima si svolgeva secondo un cerimoniale festoso. Egli si circondava
di una corte che esplicava un’importante funzione sociale di integrazione, variegata nella sua
composizione e nella provenienza dei suoi uomini. Non diversamente avveniva per l’insediamento
dei viceré della Nueva Espana che giungevano a Città del Messico dopo essere sbarcati a Veracruz.
Il cerimoniale doveva esibire la regalità e portare le variegate popolazioni a concepirsi come parte
di un unico corpo politico. Funzione importante di integrazione assumevano pure le viceregine. Il
seguito della viceregina, costituito da dame provenienti dai territori peninsulari, contribuiva a
fornire l’immagine di un potere che, anche se limitato, appariva assoluto per la distanza dalla
madrepatria e diventava uno degli strumenti di integrazione, in quanto quelle donne
rappresentavano l’obiettivo matrimoniale di molti giovani e ricchi creoli.