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Aspettando l’imperatore.

Principi italiani tra il papa e Carlo V

Introduzione

All’indomani dell’elezione di Carlo V nella basilica di San Petronio a Bologna nel 1530, molti principi e
cardinali italiani intravedevano nel nuovo imperatore la figura capace di riportare il papa al suo ruolo originale
di pastore delle anime. Per comprendere meglio gli avvenimenti del tempo, è molto utile la lettura del saggio
Aspettando l’imperatore. Principi italiani tra il papa e Carlo V, scritto da Elena Bonara, professoressa di storia
moderna presso l’università di Parma. L’opera ricostruisce il contesto storico della penisola, che inizia nel
1534, anno della nomina a papa di Paolo III Farnese, e termina nel 1549, anno della sua morte. Il periodo preso
in esame è particolarmente delicato, anche per lo sconvolgimento protestante, che aveva messo a nudo le
debolezze della Chiesa di Roma, che pretendeva di dominare lo scenario politico della penisola. Grazie al testo
della professoressa Elena Bonara, possiamo conoscere le personalità dei protagonisti del tempo, come il
cardinale Benedetto Accolti, figura su cui si incentra la rete filoimperiale di cardinali e di principi, come Ercole
Gonzaga, cardinale e reggente del ducato di Mantova, Cosimo I de’ Medici, ultimo duca della Repubblica di
Firenze e Diego Hurtado de Mendoza, consigliere dell’imperatore Carlo V.
Molto interessante il metodo utilizzato dall’autrice, che non si ferma alla documentazione ufficiale della Chiesa
di Roma, ma fa un largo uso della corrispondenza inedita, privata e criptata, tra il cardinale di Ravenna,
Benedetto Accolti, e i suoi più stretti amici, come il reggente di Mantova, il duca fiorentino e le diverse corti
di Ferrara e di Napoli. La particolarità delle lettere risiede nell’uso di pseudonimi e di riferimenti presi da
determinati libri, così da impedirne la comprensione se fossero state intercettate da spie del papa Farnese.
Grazie alla ricerca dell’autrice, presso l’Archivio di Stato di Firenze, la Biblioteca Apostolica italiana, la
Biblioteca Estense di Modena e l’Archivio di Stato di Mantova, si riesce a comprendere il progetto
filoasburgico dei protagonisti, attraverso una serie di alleanze dinastiche e matrimoniali, e l’appoggio
strategico di diplomatici e di consiglieri legati all’imperatore.
Il lettore, nello scorrere delle pagine, riuscirà a comprendere le vicende del tempo, che avrebbero potuto
sconvolgere la storia da noi conosciuta, come una possibile ricomposizione tra cattolici e protestanti, invece
che la radicalizzazione dello scontro voluta da papa Paolo III Farnese.
Quale sarebbe stato il quadro storico senza il Sant’Uffizio, i gesuiti e soprattutto senza il Concilio di Trento?
Attraverso una ricostruzione attenta il lettore percepirà gli intrecci, i conflitti e le personalità del tempo, così
da comprendere i momenti topici che segnarono la nostra storia. L’opera tratta le vicende in maniera esaustiva,
con uno stile molto scorrevole, che appassiona il lettore dalla prima all’ultima pagina.
Sin dalle pagine dell’introduzione, l’autrice fa trapelare le inquietudini dei protagonisti verso il nuovo papa
Paolo III Farnese, come un grave pericolo per Carlo V, tra questi il cardinale di Ravenna Benedetto Accolti,
in una delle sue tante lettere, mette in guardia l’imperatore. Stessa cosa per l’ambasciatore spagnolo presso la
Serenissima, Diego Hurtado de Mendoza, addirittura consiglia di conquistare Roma e i domini del papa, per
ripristinare i rapporti originali tra Impero e papato. All’origine di tali argomentazioni c’erano le tesi del Gran
cancelliere Mercurino di Gattinara scritte cinque lustri prima, quando annunciava l’importanza di restaurare
l’antica unità carolingia. L’imperatore doveva essere il garante della giustizia e rispettare le particolarità dei
suoi domini, ma nel contempo motivare la sua superiorità sui principi, città e stati della penisola.
Al tempo, era un pensiero comune che il potere del papa dovesse tornare nel suo alveo originale, alla sola
dimensione spirituale. Non a caso, il Mendoza faceva riferimento ai due soli del De Monarchia di dantesca
memoria, tanto che Murcurino di Gattinara propose a Erasmo da Rotterdam di curarne una nuova edizione, al
contempo il Marsilio sostenne la separazione della sfera religiosa da quella secolare. Il piano del 1543
prevedeva la mobilitazione dei diversi principi e signori per sostenere le iniziative militari dell’imperatore, una
sollevazione nei domini pontifici, e una strategia comune per rivendicare l’autorità di Carlo V sul potere
temporale di papa Farnese.
L’autrice del saggio ripercorre gli antefatti che determinarono tale strategia. Il noto sacco di Roma, operato da
Carlo V nel 1527, che vide la precipitosa fuga di Clemente VII in Castel Sant’Angelo, aveva dato luogo a una
serie di scorribande da parte dei lanzichenecchi, molti di loro erano luterani, che vedevano nel papa
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l’incarnazione dell’Anticristo. La propaganda della cancelleria imperiale aveva giustificato l’aggressione per
difendere i valori cristiani, e soffocare una volta per tutte le ambizioni temporali del papa Medici.
Gli avvenimenti del 1527, nonostante il terrore che serpeggiava nella curia di Roma fino al ’29, non si
trasformarono in una resa dei conti, ma determinarono la cerimonia in San Petronio quale gesto simbolico e
politico per porre fine alla guerra. Il cerimoniale bolognese aveva ristabilito gli antichi vincoli feudali dei
vassalli italiani con l’imperatore Carlo V. La legittimazione imperiale permise ai diversi signori di spartirsi i
territori in base a un preciso ordine gerarchico.
Dopo la morte nel 1534 del papa Clemente VII della famiglia Medici, saltarono completamente gli equilibri
per l’elezione al soglio papale di Paolo III Farnese, una figura che segnerà profondamente la storia italiana nel
XVI secolo, per le scelte politico-religiose dell’ambizioso papa. Con il suo arrivo la Chiesa di Roma decise di
avviare una serie di riforme, come la congregazione del Sant’Uffizio, l’ordine dei Gesuiti e il Concilio di
Trento, che subordinarono le scelte della Santa sede agli appetiti dinastici e familiari del papa, quando decise
di innalzare il proprio figlio naturale, Pier Luigi Farnese, a duca di Parma e Piacenza, territori posti fuori dello
Stato della Chiesa.
Con papa Farnese e l’elezione di numerosi cardinali a lui fedeli, si aprì uno scontro ideologico con l’imperatore,
accusato di perseguire un disegno egemonico nei territori della Santa sede, anziché preoccuparsi dei suoi
possedimenti nel resto d’Europa o nel Nuovo Mondo. Sullo sfondo di tali vicende l’autrice tenta di ricostruire
le aspettative dei maggiori protagonisti della storia italiana. Abbiamo un’Italia del papa contrapposta a un’Italia
dell’imperatore, dove i diversi attori sono costretti a una scelta di campo, attraverso alleanze matrimoniali e
incarichi diplomatici e curiali. Gli eventi costringeranno i filo imperiali a tenersi lontano da Roma, così come
mettere in allarme gli alleati del papa.
Nonostante la volontà degli alleati imperiali di fermare le ambizioni secolari di Paolo III Farnese, per
costringerlo dentro una sfera spirituale, il progetto non riuscì mai a trasformarsi in realtà. Tra gli oppositori del
papa merita un riconoscimento il cardinale Ercole Gonzaga e il cardinale Benedetto Accolti, che lottarono
strenuamente per ridimensionare il papa.
La ricostruzione storica dell’autrice ci mostra un quadro molto diverso da quello propagandato solitamente
dalla Chiesa, perché prende in considerazione la corrispondenza privata tra cardinali e principi, che per scopi
di segretezza veniva protetta da dialoghi metaforici e da pseudonimi tratti dai libri, il tutto in terza persona.
L’uso di codici cifrati e di messi fidati permetteva agli scriventi di comunicare missive politiche occulte sotto
forma di un linguaggio letterario, così da ingannare possibili spie, sul coinvolgimento di personaggi noti.
Anche dopo la morte di Paolo III Farnese il fronte filo imperiale non riuscì più a compattarsi, di conseguenza,
quella che doveva essere una vittoria finì per essere una sconfitta dei principi e cardinali della penisola. La
crescente pervasività giudiziaria degli inquisitori, a seguito dello scontro tra papa e imperatore, favorì la vittoria
del progetto politico-religioso conseguente alla Controriforma in Italia, contrapposto al sogno universale di
Carlo V, che da Filippo II vedrà l’istaurarsi di una nuova idea imperiale.
Capitolo uno
Dopo il colpo apoplettico a Benedetto Accolti, noto come il cardinale di Ravenna, il duca Cosimo de’ Medici
volle celebrare le esequie dell’amico a San Lorenzo, mentre i Farnese esultavano per la dipartita del porporato.
Tra le corti di Mantova, Ferrara e Firenze iniziarono a circolare dispacci recanti il timore che “quel matto”
avesse conservato lettere compromettenti scritte da Ercole Gonzaga, reggente di Mantova.
Il cardinale Salviati scrisse, sin dal primo giorno, al duca di Firenze, di evitare che le lettere custodite in cassette
di ferro finissero nelle mani sbagliate, per non generare scandali. Anche il cardinale Ercole Gonzaga ringraziò
l’amico fiorentino che avrebbe bruciato le missive, perché non intendeva più rivederle.
Grazie all’archiviazione di tali lettere, l’autrice è riuscita ad acquisire la principale fonte di informazioni per
la stesura del testo in esame. Le informazioni in possesso del principe, erano talmente importanti che pure
Paolo Manuzio, figlio del noto Aldo Manuzio, stampatore di Venezia, avrebbe avuto interesse a inserirle tra le

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Lettere volgari di diversi nobilissimi huomini, che presto sarebbe diventato un best seller manuziano. Tali
lettere avrebbero mostrato la raffinatezza di un cultore dei classici greci e latini, grazie agli studi filosofici e
giuridici in gioventù presso l’università di Pisa.
L’Accolti e il Gonzaga erano stati insigniti cardinali da Clemente VII, il papa Medici, poco prima del sacco di
Roma del 1527. Non a caso, la famiglia patrizia Accolti proveniva da Arezzo, si era stabilita a Firenze per i
suoi legami con la famiglia dei Medici, ben prima della sua nascita nel 1497. Anche lo zio di Benedetto era
stato nominato cardinale per la sede di Ravenna. Pietro Accolti era un noto giurista al servizio di Giulio II
Della Rovere, di Leone X e di Clemente VII, che aveva affrontato il problema del concordato con la Francia e
la condanna a Martin Lutero, così come l’incoronazione di Carlo V a Bologna e l’annullamento del matrimonio
tra Caterina di Aragona e Enrico VIII di Inghilterra. Grazie ai diversi benefici economici ricevuti dai sovrani
europei, Pietro Accolti aveva accumulato un numero considerevole di titoli e di benefici economici, che ben
presto si riversarono sul nipote Benedetto.
In seguito alla nomina di Benedetto Accolti nella Marca di Ancona, i suoi interessi entrarono in contrasto con
la politica del nuovo papa Farnese, che voleva assicurarsi la fedeltà e l’obbedienza dei sudditi anconetani, tanto
da riuscire a incarcerarlo e processarlo per malversazione, costringendolo all’esilio nella corte di Ferrara,
Venezia e infine dall’amico Cosimo de’ Medici a Firenze, fino alla sua morte.
La narrazione ufficiale filopapale dipingeva il Cardinale di Ravenna come una persona collerica, dal linguaggio
colorito e irriverente contro la chiesa, risulta pure dalle deposizioni a suo danno, avesse fritto un’ostia
consacrata, era anche solito indossare abiti secolari, come sottovesti (giupponi) di velluto e damasco, spesso
armato di archibugio e di spada. Ci sono lettere che affermano avesse richiesto animali rari e qualche grosso
felino (gattico), così come cani grandi quanto un piccolo cavallo.
Il cardinale era talmente ricco che spesso il duca di Firenze si rivolgeva a lui se aveva bisogno di contanti o
per le necessità dello stato. Anche la repubblica di Lucca aveva chiesto a Benedetto Accolti due prestiti da
10.000 mila scudi d’oro. La politica italiana filo imperiale vedeva nel cardinale di Ravenna il suo primo
finanziatore, come fornire le risorse per pagare il reclutamento di soldati sul fronte piemontese contro la
Francia, o per la difesa di Siena. Dopo la sua morte vennero rinvenuti migliaia di scudi d’oro, argenti un elenco
di crediti nei confronti dei Carlo V, dei duchi di Firenze, Lucca, del governatore di Milano e dell’ambasciatore
Diego Hurtado de Mendoza.
Se la storiografia ufficiale aveva dipinto Benedetto Accolti come un uomo di Chiesa corrotto e stravagante,
per una biografia del cardinale preparata dallo storico anconetano Enea Costantini, che aveva potuto attingere
delle informazioni dall’Archivio Segreto Vaticano. Ultimamente, grazie al recupero di lettere riservate,
conservate nell’Archivio di Firenze, è stato possibile scoprire fatti che avrebbero messo sotto una luce diversa
il cardinale e gli altri protagonisti del tempo. Di fatto, conoscere le circostanze e gli eventi che potevano
sconvolgere gli equilibri italiani e cambiare il corso della storia.
Capitolo due
Il cardinale di Ravenna era una presenza abituale alla corte del duca di Firenze, ne condivideva l’amicizia e la
residenza, presso il palazzo Medici in via Larga, lasciato da Cosimo in luogo di Palazzo Vecchio. Nella dimora
di Benedetto Accolti era possibile ammirare oggetti preziosi di Lorenzo il Magnifico, un ritratto del cardinale
di Tiziano e una serie di manufatti artistici che influenzarono anche i gusti del giovane duca.
Arazzi, dipinti e opere di Benvenuto Cellini arredavano la dimora cardinalizia, il grande orafo conosciuto
durante il sacco di Roma. Poco prima di morire Benedetto Accolti aveva versato un anticipo al Cellini per una
sontuosa saliera d’argento, simile a quella di Enrico II di Francia in oro ed ebano. L’insieme delle opere d’arte,
raccolte dal cardinale, avevano lo scopo di ricordare la grandezza passata, quando batteva moneta come legato
di Ancona e governatore di Fano, al tempo di papa Clemente VII, che lo avevano reso ancora più ricco e
potente dello zio. Il cardine di Ravenna era solito rapportarsi con le figure più autorevoli del tempo, come
Alfonso de Valdès, segretario dell’imperatore e amico di Erasmo da Rotterdam, in contatto con Melantone
cercherà di ricucire i rapporti con i protestanti, per un loro ritorno nel grembo della Chiesa. Purtroppo, dopo la
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morte di Mercurino di Gattinara e dello stesso Alfonso de Valdès terminò il sogno di una ricomposizione
cristiana. Un altro de Valdès (Juan) in fuga dall’inquisizione spagnola nel 1531, trovò riparo nella corte di
Clemente VII, che lo nominò cameriere segreto, poi presso la corte del viceré di Napoli Pedro de Toledo, dopo
l’elezione di Paolo III Farnese, riuscì a ritagliarsi un ruolo come informatore imperiale.
Nel 1535 Carlo V conquistò Tunisi. In Italia c’era grande fermento, molti erano convinti che i principi si
sarebbero sollevati contro il papa, specie dopo il ritorno a Napoli dell’imperatore. Il cardinale Gonzaga,
attraverso una fitta corrispondenza con il fratello Ferrante, nominato comandante di Carlo V e in seguito viceré
in Sicilia, tentò di influenzare le scelte politiche di principi e cardinali. In un momento tanto importante il
cardinale Benedetto Accolti veniva imprigionato a Castel Sant’Angelo, con l’accusa di aver giustiziato un
legato pontificio nella Marca di Ancona e di aver fritto un’ostia per dimostrare di non credere in Cristo. Il duca
di Milano venne a sapere delle condizioni del cardinale di Ravenna da un suo agente a Roma, così come lo
stesso Carlo V si preoccupò di perorare la causa di uno dei suoi migliori alleati.
Il 1535 fu un anno che sconvolgerà gli equilibri italiani, specie dopo la morte del duca di Milano, Francesco II
Sforza, che non lasciò eredi. La notizia di una lettera di cambio, del valore di 200.000 ducati del re di Francia
a favore di Paolo III Farnese, mise in agitazione i diversi principi e cardinali della penisola, che richiesero
l’intervento dell’imperatore per evitare che Milano possa cadere in mano del papa.
Nel frattempo a difesa dell’Accolti era stato chiamato il noto avvocato Aldobrandini, che preparò una difesa
del suo assistito avvicinando la figura del papa a quella dei dispotici sovrani orientali, nel contempo fece delle
allusioni incestuose sul papa Farnese e il tentativo dello stesso pontefice di attentare il Sacro collegio dei
cardinali. Tempo dopo lo stesso papa deciderà di promuovere la congregazione del Sant’Uffizio, con la quale
potrà colpire i suoi avversari e i dissidenti. Alla fine di ottobre del 1535 il cardinale di Ravenna venne
scarcerato, dopo essere riuscito a raccogliere 3.000 ducati d’oro chiesti in prestito dallo spagnolo Juan de
Valdes per il suo rilascio. I timori di un possibile mancato rimborso convinsero il cardinale di Mantova a
trovare una mediazione tra i due prima di Natale.
Capitolo terzo
Il cardinale Benedetto Accolti, oltre a pagare una somma astronomica per la sua liberazione, fu costretto a
dichiararsi colpevole e a rinunciare alla legazione di Ancona. Invece di ritirarsi dalla scena politica come
pronosticato dai suoi avversari, il cardinale di Ravenna venne accolto nella corte ferrarese, dal reggente del
ducato di Mantova, il suo amico e cardinale Ercole Gonzaga, che doveva assistere il giovane nipote omonimo
Ercole II d’Este, figlio di Lucrezia Borgia. Il clima di scontro tra papa Farnese e i diversi principi del centro
nord della penisola era dovuto agli appetiti del figlio naturale del papa, Pier Luigi Farnese, che non si
accontenterà del marchesato di Novara, aveva mire sul Monferrato, che il duca di Mantova aveva ricevuto
dall’imperatore. Il viaggio di Carlo V di ritorno da Tunisi iniziò da Trapani, la prima tappa di un viaggio che
durerà più di un anno, mentre risaliva i suoi domini sulla penisola, dove incontrerà nobili e principi, che
caratterizzò gli anni tra il 1535 e il 1536, accompagnati da un numero impressionante di immagini diventate
famose e scritti venuti alla luce grazie all’autrice del libro. I festeggiamenti per il ritorno dell’imperatore non
fermarono la determinazione di Paolo III Farnese, che usò tutti i mezzi possibili per frenare Carlo V. A Ferrara
il cardinale Benedetto Accolti aveva preso alloggio presso l’amico cardinale Salviati, che in precedenza gli
aveva prestato garanzie per essere liberato dal papa. Nel frattempo il papa Farnese infangava l’immagine del
cardinale di Ravenna, dipingendolo come uno sperimentatore di veleni e antidoti nelle corti dove si recava.
Nella corte estense erano note le tensioni tra il duca Ercole e sua moglie, Renata di Francia, figlia del re Luigi
XII, e legata a molti calvinisti in Italia. Nonostante i suoi favori per il calvinismo Renata di Francia divenne
una valida alleata per Paolo III Farnese, per una politica filofrancese contro le tendenze filoasburgiche del duca
di Mantova.
Si sa poco della breve apparizione di Calvino in Italia nel 1536, mentre si conoscono bene gli spostamenti
della marchesa di Pescara, Vittoria Colonna, sorella di Ascanio Colonna, leader della potente famiglia romana
legata all’imperatore, con cui il cardinale di Ravenna era solito intrattenere rapporti. A ogni buon modo, il
cardinale Benedetto Accolti era molto impegnato nella sua permanenza a Ferrara, poteva avvalersi delle
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competenze filologiche del frate Ottavio Pantagato, lavorava su testi greci e latini e sulle lettere di san Paolo.
Il periodo trascorso in città aveva convinto il cardinale di poter trasferire la bottega di Paolo Manuzio a Ferrara,
diventato un centro di scambio di libri rari e manoscritti, nonostante fosse il padrino del primogenito dello
stampatore veneziano. Solo nel 1561 Manuzio decise di trasferirsi a Roma in luogo di Venezia per dirigere la
Stamperia Vaticana.
Capitolo quarto
Venezia non era solo una capitale tipografica, disponeva di numerose librerie, era diventata un centro di
raccolta di molti fuoriusciti fiorentini, a seguito del trattato tra la Serenissima e il sultano di Istambul. Dopo
un attentato a Diego Hurtado de Mendoza, ambasciatore imperiale a Venezia, la sua abitazione sul Canal
Grande veniva presidiata giorno e notte. Il padre dell’ambasciatore era stato il primo governatore del regno di
Granada appena riconquistato. De Mendoza conosceva bene il greco, il latino e l’arabo, si era stabilito a
Venezia in quanto unica città europea dove era possibile avere relazioni diplomatiche con la Sublime Porta.
Durante i primi anni quaranta del XVI secolo il cardinale di Ravenna era stato invitato per un paio di eventi
nel palazzo della famiglia del cardinale Contarini. Aveva così potuto visitare la dimora dell’ambasciatore
imperiale, che gli aveva mostrato idoli messicani in oro e malachite spediti dal fratello Antonio de Mendoza,
viceré del Perù e del Messico. La biblioteca dell’ambasciatore spagnolo era diventata una fonte per studiosi di
tutta Europa, molti testi vennero copiati nei codici del cardinale Bessarione nella biblioteca veneziana, alla
morte di Diego Hurtado de Mendoza i testi arricchirono la biblioteca dell’Escorial di Filippo II.
Alcuni testi contrassegnarono il periodo, come le Storie della guerra del Peloponneso di Tucidide, le versioni
in latino di Lorenzo Valla e in italiano di Francesco Strozzi. Lo stesso Carlo V era solito avere con sé una
copia di Tucidide, un testo che ben rappresentava la contrapposizione ideologica nell’Italia dell’imperatore.
Un fatto di sangue provocò molto sdegno nelle fila papali, l’assassinio di Pier Luigi Farnese, autorizzato
dall’imperatore Carlo V. L’analisi del testo di Tucidide mostrava analogie tra la politica di Carlo V e
l’espansionismo ateniese, tanto che l’orazione funebre del nunzio apostolico Della Casa pareva una requisitoria
contro l’imperatore. Lo stesso ambasciatore inglese Herry Wotton nel 1606 stigmatizzerà gli spagnoli
richiamando i fatti raccontati da Tucidide, per l’esigenza di una guerra preventiva contro Filippo III.
Sulla stessa linea un testo pubblicato dal Giolito del 1549, in cui si raccontano i fatti che spinsero Urbano II
ad appellarsi ai principi francesi nel 1095, per una crociata in Terra Santa. Nel Quattrocento Benedetto Accolti
il Vecchio aveva ricordato la Prima spedizione a Gerusalemme per spingere il papa Piccolomini a muoversi
contro il sultano ottomano. Nello scontro ideologico in atto, la guerra santa veniva promossa tra i sostenitori
di Carlo V, mentre ragioni estranee alla religione erano evocate tra le fila dei sostenitori del papa.
L’intensa attività culturale a Venezia aveva visto la pubblicazione di testo del padovano Sperone Speroni e del
senese Alessandro Piccolomini, sugli svantaggi dei moderni rispetto agli antichi, costretti a conoscere il latino
o il greco per avere accesso alle conoscenze dei classici.
Gli intrecci tra i protagonisti politici con gli artisti del tempo sono noti, come lo scrittore Aretino, lo scultore
Sansovino e il pittore Tiziano, che lavorarono su opere a loro commissionate, come il ritratto di Diego de
Mendoza eseguito dal pittore veneziano.
Durante il suo soggiorno veneziano il cardinale di Ravenna sollecitava al segretario di stato dell’imperatore la
sua pensione, in un momento delicato, dopo i falliti accordi tra protestanti e cattolici. Nel frattempo erano
andati perduti i feudi di Ascanio Colonna dopo la guerra con Paolo III Farnese, mentre lo stesso papa invitava
il cardinale Accolti a recarsi a Roma. Non era facile evitare la chiamata pontificia, perché era possibile perdere
la carica e i benefici conseguenti, ma il cardinale Benedetto Accolti, come altri porporati, riuscì a procurarsi
giustificazioni per cure mediche del caso. Così, una volta il cardinale chiese una licenza per dei bagni della
Caldera, un’altra volta per Lucca, oppure per gravi problemi ai reni. Durante un passaggio di Carlo V a Genova
il cardinale tentò di recarsi a visitarlo segretamente, ma venne dissuaso da amici di evitare una così aperta
insubordinazione. Come braccato, il cardinale Accolti seguiva percorsi diversi da quelli di Paolo Farnese, fino

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a che decise di prendere residenza a Firenze nel 1543, sotto la protezione del duca Cosimo de’ Medici. Oramai
era chiaro l’intento del papa di colpire tutti i cardinali ostili, e come fosse utilizzato il nome di Benedetto
Accolti per fomentare odio tra il cardinale e il papa.
Capitolo quinto
La storia di Cosimo de’ Medici iniziò subito dopo l’assassinio del duca Alessandro da parte di Lorenzino suo
cugino. Il titolo di duca non gli venne conferito subito ma solo mesi più tardi. Ci vollero molti anni affinché il
duca acquisisse il ruolo di capo e di guida tra i principi fedeli all’imperatore. Il profondo legame tra il cardinale
Accolti e il duca di Firenze derivava dalla lunga esperienza di governo ad Ancona e per i diversi incarchi
ricevuti dai papi medicei. Non sono da sottovalutare le ingenti risorse del porporato, che aveva più volte messo
a disposizione del duca di Firenze. Il legame tra Cosimo e Benedetto permise al primo di acquisire esperienza
all’ombra dell’imperatore asburgico.
Il palazzo Medici era molto affollato di servitori, segretari e familiari, per assistere, educare i bambini di corte,
compreso Benedetto, figlio illegittimo di suo zio, il cardinale di Ancona, e Virginia, figlia Bernardo Accolti,
detto l’Unico Aretino dall’Ariosto. In una lettera viene confermato quanto fosse colta Virginia, che durante
l’infanzia aveva vissuto a Roma, a Nepi e in seguito con i Malatesta in Romagna. Nonostante fosse sposata
con Giovan Battista Malatesta, divenne l’amante del suocero. Il marito geloso aveva assoldato un sicario per
avvelenarla, che invece rivelò il disegno criminale. Carlo Malatesta e Virginia vennero accusati di adulterio,
il processo che ne seguì li condannò in contumacia. La coppia adultera aveva avuto due figli, Carlo Malatesta
veniva descritto come severo e bizzarro, non nascondeva il suo rapporto con la nuora, fu pure accusato di aver
avvelenato la moglie Elisabetta Gritti, dopo averle tolto l’autorità poi concessa all’amante. Il legame degli
adulteri con il cardinale di Ravenna convinse Paolo III Farnese a cercare pretesti per colpirli. L’amate Virginia
considerava Benedetto Accolti la rovina della coppia, perché avevano intrattenuto una corrispondenza
pericolosa con il cardinale.
Per meglio imporre la propria sovranità, Paolo III Farnese intraprese un viaggio nelle città di Bologna, Modena,
Parma, Piacenza e Ferrara, infine a Busseto, dove incontrò l’imperatore Carlo V. Il cardinale si convinse che
l’accusa di adulterio a Giovanni Battista Malatesta avesse lo scopo di assegnarne i possedimenti al nipote
Orazio. Oltretutto, la scoperta che un cugino omonimo del cardinale fosse sfuggito all’arresto dell’Inquisizione
mise in allarme l’Accolti.
Tra la corrispondenza segreta del cardinale di Ravenna appare un tal Galeotto, che doveva tenere informato il
prelato degli intrighi del papa, ma nonostante gli fosse stata concessa una pensione faceva il doppio gioco. In
sua difesa il cardinale si rivolse a Marco Guidi, dottore in legge, che in presenza di illustri testimoni riuscì a
preparare una dichiarazione di come il Galeotto stesse cercando delle false accuse. Dopo l’arresto del Galeotto
Malatesta a Firenze si venne a sapere che dei sicari era pronti ad avvelenare i cardinali Accolti, Salviati e Cibo,
oltre al tentativo di assassinare l’imperatore per mano di Mattia Varano, a cui era stato promesso Camerino. I
diversi tentativi di Paolo III Farnese di prendere il cardinale si conclusero quando Benedetto Accolti venne
accolto nella corte di Cosimo de’ Medici, che riferì della cospirazione del papa a Carlo V in persona. La
tensione raggiunse il suo culmine nel 1546, che alla minaccia di scomunica al duca seguì l’arresto del suo
segretario Francesco Babbi in Castel Sant’Angelo. Galetto Malatesta restò in carcere a Firenze, ogni tanto
veniva sottoposto a interrogatori quando i rapporti con il papa peggioravano. Anche Virginia trovò rifugio a
Firenze, che accoglieva tutti gli amici del cardinale di Ravenna.
Capitolo sesto
Quando il re di Francia Francesco I strinse un accordo con gli ottomani, era chiaro l’intento di mettere in
discussione il potere dell’imperatore. Il papa si tenne fuori da questo scontro, perché temeva un attacco di
Carlo V allo stato della Chiesa. Il cardinale di Ravenna non credeva alla neutralità di Paolo III, e informò il
segretario Mendoza delle trattative con il re di Francia del papa. Lo stesso Cosimo de’ Medici si convinse della
malafede del papa, infatti scoprì che Pietro Strozzi era a capo di un esercito di diecimila fanti al soldo dei
francesi, sconfitti a Serravalle dalle truppe imperiali e cofinanziate dallo stesso cardinale Accolti.

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Nonostante Paolo III Farnese godesse del mito storiografico della neutralità, il nepotismo fu una caratteristica
che contraddistinse tutto il suo pontificato, che non era volto a proteggere l’indipendenza dello stato della
Chiesa, ma la volontà di affermare la propria dinastia tra le famiglie più influenti d’Europa. In questo quadro
di interessi contrapposti i vari principi della penisola tentarono di ritagliarsi uno spazio, consapevoli che solo
l’intervento dell’imperatore avrebbe potuto cambiare gli assetti. Apparentemente il papa non era preoccupato,
perché era pronto a fare la guerra ai ribelli, come Ascanio Colonna e la città di Perugia. Quest’ultima si era
sollevata per le forti gabelle sul sale imposte da Chiesa.
Al contempo, il matrimonio tra Cosimo de’ Medici e la figlia del viceré di Napoli Pedro de Toledo poteva
garantire un rapporto privilegiato con Carlo V. Il papa irritato dall’atteggiamento del viceré, gli fece sapere
che non sarebbe intervenuto in sua difesa contro i possibili attacchi dei turchi. Il papa decise di punire Ascanio
Colonna, distruggendo tutte le sue fortificazioni e confiscando i suoi possedimenti, nonostante le pressioni di
Carlo V di trovare delle alternative. Il tentativo di mediazione influì anche sui colloqui di Ratisbona, che si
chiusero con una completa frattura con i protestanti.
Nel frattempo, il cardinale di Ravenna non aveva perso la speranza di promuovere una sollevazione generale
contro il papa, tra cui uno sbarco di Carlo V a Gaeta invece che a Genova, dopo essere riuscito a ottenere la
neutralità di Venezia, come già era successo durante il sacco di Roma del 1527.
Durante un incontro l’imperatore dovette confrontarsi con papa Farnese per discutere il destino di Milano,
dopo la morte dell’ultimo Sforza. Era chiaro che il papa venisse considerato molto più pericoloso del re di
Francia, anche perché non nascondeva al sua enorme ambizione. Se nello stemma dei Valois erano presenti tre
gigli, la casa dei Farnese ne aveva sei nelle sue insegne e seimila nella sua testa, tanto da spingerlo a dare un
futuro alla sua casata, facendo approvare dal collegio cardinalizio l’infeudazione di Piacenza e Parma a favore
di suo figlio Pier Luigi Farnese, nonostante la contrarietà del cardinale Carafa, capo dell’inquisizione.
Lo sdegno per il gesto del papa si alzò presso tutti i principi italiani, tra questi si levava la voce del Gonzaga,
che metteva in dubbio pure le donazioni di Costantino, oltre alle pretese di Paolo Farnese di disporre dei domini
della Chiesa come un qualsiasi principe. La politica nepotista del papa aveva risvegliato i suoi oppositori, come
le città di Perugia e Camerino, senza dimenticare gli Orsini, i Baglioni e i Malatesta, che erano pronti a
sollevarsi contro i Farnese.
Capitolo settimo
Gli eventi che segnarono il periodo, vennero descritti sotto forma di burla nella corrispondenza segreta tra le
corti di Ferrara, Mantova e Firenze, che vedevano il cardinale Accolti, denominato Rinchios, ed Ercole
Gonzaga sotto lo pseudonimo di Barbacane, che raccontavano i misfatti di Paolo III Farnese, soprannominato
Polifemo o Cacco, facendo riferimento a volte a Omero e altre a Erasmo da Rotterdam.
I dialoghi tra loro erano volti a influenzare la politica della penisola, cercando l’appoggio dell’imperatore,
chiamato spesso Sansone, che stava contribuendo a mettere in discussione l’operato del papa. I due amici
cardinali erano stati elevati alla porpora da Clemente VII poco prima del sacco di Roma, divennero con il
tempo dei fieri avversari di Paolo III Farnese, che aveva processato l’Accolti quando era legato di Ancona.
Quando Ferrante Gonzaga divenne comandante dell’esercito dell’imperatore, viceré di Sicilia e governatore
di Milano, il fratello cardinale assunse un atteggiamento ancora più ostile verso Paolo III. I diversi legami
familiari tra Ferrara, Urbino e i signori di Mantova, consentiva loro di pensare di poter allungare i loro
possedimenti lungo lo stato della Chiesa, fino al regno di Napoli. La rottura tra il papa e l’imperatore dipendeva
dal diverso sistema feudale presente in Italia. I fedeli di Carlo V, come Ascanio Colonna, vennero sconfitto
dal figlio di papa Farnese, che ambiva a rafforzare la sua casata.
Le opposte obbedienze travolsero i piccoli come i grandi signori, che aspiravano a essere protetti dal papa o
dall’imperatore, e non facevano nulla per nasconderlo. Tra i diversi signori prevalse la figura politica di
Cosimo de’Medici, che sotto la tutela di Carlo V poteva contrapporsi apertamente a Papa Farnese. Nelle lettere

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Aspettando l’imperatore. Principi italiani tra il papa e Carlo V.

tra Barbacane e Rinchinos, il duca di Firenze veniva citato come Fabrizio, fabritiani i suoi alleati e
antifabritiani i protetti del papa.
Dopo la pace di Crépy con la Francia, e la vittoria di Muhlberg contro i principi protestanti, Carlo V faceva
supporre un suo intervento diretto in Italia nel 1547. In seguito, il provvedimento dell’imperatore, che dava
ampie concessioni ai principi luterani provocò una protesta di Paolo III Farnese indirizzata alle corti europee,
per le intromissioni dell’imperatore nelle questioni spettanti alla Chiesa.
Oramai libero di agire l’imperatore si stava preparando per ristabilire la sua autorità nella penisola. Il timore
che Carlo V volesse appropriarsi dei beni ecclesiastici e temporali della Chiesa di Roma era alto, confermato
dalla corrispondenza segreta tra i dei due amici cardinali.
Altri personaggi caratterizzavano i dispacci di Ercole e Benedetto, uno era noto con il nomignolo di Cyclope
marsicano, era il cardinale Cibo, che aveva aiutato Cosimo de’ Medici a diventare duca di Firenze, in seguito
pretenderà dall’imperatore la consegna del prigioniero Filippo Strozzi, banchiere di Firenze e oppositore dei
Medici, prima del suo suicidio in carcere. Poi c’era il Tritone ligure, il cardinale Doria che non si era mai
mosso da Genova, che insieme a Ercole Gonzaga, al cardinale Cibo e a Benedetto Accolti erano i servitori
scalzi di Sansone (l’imperatore) contro il nemico Cacco o Cerbero, come amavano definire Paolo III.
Il timore che il gruppo di cardinali potesse mettere in discussione il papa era tale che Pier Luigi Farnese mise
in giro la voce che stessero per recarsi a Trento, durante il Concilio, per arrivare a uno scisma.
Capitolo ottavo
L’autrice del libro si sofferma molto sulla figura di Ercole Gonzaga che poteva garantire un porto sicuro a
molti filo imperiali, tra cui Carlo Malatesta, noto per essere l’amante di sua nuora Virginia Accolti. Il Malatesta
aveva ricevuto il nomignolo di Innocenzo, che rappresenta bene il suo peregrinare per sfuggire alle grinfie del
papa. Sempre presso Mantova aveva trovato rifugio Pier Paolo Vergerio, vescovo di Capodistria, accusato di
eresia dal nunzio papale presso la Serenissima. Nella lista di proscrizione papale c’era finito pure il frate
superiore dei cappuccini Bernardino Ochino, per aver predicato eresie lungo la penisola, fu costretto a
nascondersi sotto vesti di un soldato per sfuggire ai suoi inseguitori, trovò rifugio presso Ercole Gonzaga,
prima trasferirsi in Svizzera e in seguito in Germania.
Oramai era chiaro, il Sant’Uffizio era stato creato da Paolo III Farnese per colpire tutti i suoi nemici, che
potevano essere accusati e perseguiti per eresia. Nessuno poteva predicare un verbo che potesse mettere in
dubbio il potere temporale dell’ambizioso papa Farnese.
Mantova era diventata lo snodo tra il nord e il sud della penisola, la strada diretta tra Venezia e Milano, che
grazie alle sue fortificazioni e uomini armati poteva garantire la sicurezza dei suoi abitanti. Il reggente di
Mantova era la figura di spicco su cui potevano contare tutti gli alleati di Carlo V e nemici del papa. Quando
era necessario, il cardinale Ercole Gonzaga chiedeva consigli al fratello Ferrante, figura chiave vicinissima a
Carlo V, che gli aveva garantito un numero incredibile di incarichi, tra cui viceré di Sicilia. Nella fitta
corrispondenza tra fratelli traspare un forte legame e la consapevolezza di ricoprire un ruolo politico nelle
vicende politiche nella penisola, confidate solo a Diego Hurtado de Mendoza, consigliere di Carlo V.
I tanti dispacci tra i Gonzaga permettono di comprendere le alleanze matrimoniali per controllare le “mandrie”
gonzaghesche legate all’imperatore. Come in una grande scacchiera il Gonzaga piazza e muove i suoi pezzi.
Sin da quando venne eletto papa Paolo III Farnese, il cardinale Accolti ed Ercole Gonzaga consideravano le
nuove nomine dei cardinali Contarini e Bembo come un’operazione di facciata del papa, per dissimulare la sua
reale volontà di riformare la chiesa. Il cardinale Gonzaga, insieme ad altri prelati, segue i lavori delle
commissioni conciliari, cercando di riportare le diatribe su valori importanti anziché perdersi in dispute
dogmatiche, preferendo una linea che doveva chiarire il vero significato di Tradizione apostolica.
Ercole Gonzaga è stata una figura che aveva caratterizzato il suo tempo, che come un ragno, senza muoversi
da Mantova, tesseva la sua tela. Si considerava una componente fondamentale dell’autorità imperiale,
conservava un dipinto del Parmigianino, in cui veniva ritratto Carlo V con l’armatura mentre pranzava, con
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Aspettando l’imperatore. Principi italiani tra il papa e Carlo V.

dietro una serie di allegorie simboliche, tra cui il globo terracqueo, dove si vedevano i possedimenti
dell’imperatore, in cui era presente Mantova e intorno l’Italia.
La corrispondenza tra cardinali evidenzia documenti volti a screditare la figura della famiglia Farnese, che non
era giunta al potere per il valore militare, ma attraverso delle carriere nella curia. Il cardinale di Mantova è uno
strenuo oppositore di papa Farnese, e aveva in mente un progetto molto diverso della penisola italiana.
Quando nel 1546 il fratello minore Ferrante Gonzaga venne eletto governatore di Milano, il cardinale di
Mantova gli indirizzò una missiva in cui Francesco Burlamacchi stava cercando di liberare la Toscana,
considerandolo un pazzo, chiese di inviare un commissario a Lucca per indagare. Una serie di consigli di
Ercole Gonzaga verso il giovane fratello su come evitare l’annientamento della piccola repubblica. L’epilogo
della vicenda arrivò con la decapitazione del Burlamacchi a Milano nel 1548.
Capitolo nono
A seguito della vittoria sui principi protestanti a Muhlberg, Carlo V volse il suo sguardo verso la penisola
italiana, Visti i contrasti tra l’imperatore e Paolo III Franese, da Roma Diego de Mendoza fece menzione in un
dispaccio dell’imperatore Ottone I, quando processò e depose un papa nominandone un altro. Non erano delle
semplici minacce, ma una seria possibilità di risolvere i problemi nella penisola. Il ruolo di Carlo V sarebbe
stato quello di capo della cristianità, visto le tante inadempienze di Paolo III Farnese. Gli screzi con
l’imperatore erano diversi, tra questi il ritiro delle truppe del papa durante la guerra contro i principi protestanti,
poi lo spostamento del Concilio dalla città imperiale di Trento a Bologna, che poteva rendere vana la vittoria
dell’imperatore. L’ipotesi di un’alleanza tra Francesco I e Paolo III Farnese, convinsero ogni giorno di più
l’imperatore di supplire al ruolo del papa. Il una lettera trasmessa al concistoro dall’ambasciatore Mendoza,
Carlo V chiedeva al papa di riprendere i vecchi canoni e spostare il Concilio a Trento come stabilito. Il rischio
di uno scisma era alto, perché una quindicina di vescovi fedeli a Carlo V erano rimasti a Trento.
Una serie di sommosse disturbava il fragile equilibrio nella penisola, per lo più imputabile agli intrighi del suo
massimo esponente nella chiesa di Roma, il cardinale Pietro Carafa, recentemente nominato capo del
Sant’Uffizio, e intransigente sostenitore di una politica volta a colpire la diffusione delle eresie. Il suo astio nei
confronti degli Asburgo era nato dopo la perdita di parte del patrimonio di famiglia nel Regno di Napoli.
La capacità del cardinale Carafa di influenzare il papa Paolo III Farnese era tale che lo convinse a creare dei
pretesti per entrare in guerra contro gli Asburgo. La sollevazione popolare a Napoli, dopo l’introduzione
dell’Inquisizione spagnola nel regno, era stata ispirata dal cardinale e dal papa. Due anni dopo la rivolta
napoletana, lo stesso Carafa venne nominato arcivescovo dal papa, il fatto provocò la collera dell’imperatore
che vedeva nel gesto una sfida al desiderio di Carlo V di far eleggere il cardinale di Ravenna.
Lo strumento del Sant’Uffizio rafforzò enormemente il potere del Carafa, che poteva colpire chiunque si
opponesse alla linea intransigente della chiesa, un’istituzione che avrebbe avuto gravi conseguenze sociali e
culturali negli ultimi decenni del secolo. Non c’era giorno in cui il Carafa non trovava il modo per irritare
l’imperatore, come la condanna per le decisioni prese durante la dieta di Spira. La sua intransigenza era tale
da voler portare papa Farnese in guerra subito dopo il brutale assassinio di Pier Luigi Farnese, figlio naturale
del papa, a cui erano state assegnate le città di Parma e Piacenza.
Iniziarono a circolare voci di un possibile invio di truppe asburgiche comandante da Ferrante Gonzaga verso
Castel Sant’Angelo e l’arrivo di fanti e archibugieri al soldo dei nobili romani filoimperiali. Pare che lo stesso
Ascanio Colonna avesse finanziato i suoi uomini contro il “perro” rabbioso (il papa), con la dote della figlia
del comandante di Carlo V, Ferrante Gonzaga.
A seguito dell’omicidio di Pier Luigi Farnese, i filo papali reagirono dicendo che il duca si trovasse già in
Paradiso, come il cardinale francese Bellay, ospite poco giorni prima nella rocca di Piacenza; altri invece che
lo stesso Plutone era preoccupato per l’arrivo del dissoluto Farnese negli Inferi. Anche in questo caso il
cardinale Carafa fece di tutto per infiammare il papa e intervenire per liberare la città di Piacenza, appena
occupata dalle truppe del governatore di Milano. Il clima era rovente anche nel fronte opposto, Ferrante

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Aspettando l’imperatore. Principi italiani tra il papa e Carlo V.

Gonzaga consigliava Carlo V di assegnare un ruolo importante a Cosimo de’ Medici, ad Ascanio Colonna e
alle aristocrazie, e di condurre l’esercito asburgico contro il papa.
Nel frattempo, Carlo V aveva convocato i migliori giuristi per la stesura di una protesta ufficiale contro il papa,
che aveva trasferito il Concilio a Bologna. Il fermento nella penisola era tale che molti si aspettavano da un
momento all’altro l’arrivo dell’imperatore alla testa di centomila fanti e ventimila cavalieri dopo la vittoria
contro i principi protestanti a Muhlberg.
Nelle settimane successive i rappresentanti di Carlo V, inviati a Bologna, dovettero leggere in ginocchio, di
fronte al papa, la lettera di protesta imperiale, che sul momento stette in silenzio e solo alcuni giorni dopo
rispose di accettare la traslazione del Concilio a Trento. Negli ultimi due anni di vita del papa, Paolo III si
impegnò oltremisura per far restituire Piacenza alla famiglia Farnese.
L’odio dei Farnese nei confronti degli Asburgo era manifesto ancora molti anni dopo, quando il cardinale
Alessandro Farnese si oppose alla decisione del papa milanese di concedere la comunione con il calice ai laici,
come aveva proposto Carlo V una decina di anni prima, in vista di un accordo con i protestanti. Lo stesso papa
Paolo IV fu costretto a zittire il cardinale Farnese, nipote di Paolo III, che pur di recuperare Piacenza preferiva
rovinare un accordo che avrebbe aiutato il dialogo con i popoli germanici.
Capitolo decimo
Nonostante la vittoria delle truppe imperiali in Germania, e la morte di Paolo III Farnese, la guerra con il papa
venne soltanto minacciata dagli uomini di Carlo V nella penisola. La corte di Mantova era sempre al centro
degli intrecci matrimoniali per creare o rafforzare le alleanze lungo la penisola, mentre dal punto di vista
militare il nuovo governatore di Milano poteva garantire un’adeguata protezione ai filo imperiali.
Altri personaggi apparirono sulla scena politica, affianco al reggente di Mantova, come il vescovo di Pavia de’
Rossi, privato della carica da papa Farnese, riuscì a convincere il governatore di Milano di prenderlo in grande
considerazione. Gli eventi che avevano segnato l’efferato omicidio di Pier Luigi Farnese furono alimentati
dallo spregiudicato duca di Piacenza e Parma, che aveva deciso di risiedere nella recalcitrante Piacenza per
costringere i nobili piacentini a restare in città per non perdere i possedimenti. Il rancore dei nobili e il sostegno
dell’imperatore favorirono l’esecuzione rituale del duca Farnese, sgozzato e appeso a testa in giù, con il cranio
fracassato, e poi ridotto a brandelli dai tacchini selvatici.
Alla luce dei fatti la nascita del ducato dei Farnese in Lombardia fu la principale causa dello scontro ideologico
tra principi e cardinali filo imperiali contro papa Paolo III. Comunque, dopo l’assassinio di Pier Luigi Farnese
alcune questioni vennero risolte, come la restituzione dell’abbazia di Chiaravalle al vescovo Rossi, grazie
all’intervento militare del governatore di Milano Ferrante Gonzaga.
Nel quadro geopolitico Toscano giocò un ruolo strategico il feudo imperiale di Piombino, in cui aveva investito
grandi somme Cosimo de’ Medici per fortificarlo. Elena, sorella del cardinale Salviati e zia di Cosimo, madre
del giovane Iacopo VI Appiani, erede della Signoria di Piombino, delle isole d’Elba, Pianosa e Montecristo,
non voleva staccarsi dal trono, fino a quando Iacopo decise di diventare ammiraglio mediceo, venne così
letteralmente portata via sulla sedia dal capitano della guarnigione spagnola, dopo la vendita della Signoria al
duca di Firenze, che la considerava fondamentale. In fondo, sia Ferrante Gonzaga che Diego Hurtado de
Mendoza risultarono essere l’anello di collegamento tra l’imperatore Carlo V e i principi italiani, oltre che
essere gli organizzatori dei due assassinii che segnarono il periodo: quello del duca Pier Luigi Farnese e di
Lorenzino de’ Medici, responsabile anni prima dell’omicidio del cugino Alessandro.
Ferrante Gonzaga divenne, suo malgrado, il carnefice di due nobili rampolli italiani, intenti a spodestare degli
alleati di Carlo V. Uno era Giulio Cibo, che aveva attentato alla vita di Andrea e Giannettino Doria con
l’appoggio dei francesi, venne decapitato a Milano, con sommo dispiacere di Cosimo de’ Medici e del
cardinale Innocenzo Cibo, zio e presunto padre di Giulio, che in passato aveva servito l’imperatore in guerra,
prima di avere pretese dinastiche su Massa e Carrara, e in seguito su Genova. Il fatto è riportato nella
corrispondenza tra il cardinale di Ravenna e di Mantova, richiamando la figura di Licaone, che aveva fatto

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Aspettando l’imperatore. Principi italiani tra il papa e Carlo V.

mangiare le carni del proprio nipote a Zeus. Un’altra vittima della mannaia mossa dal governatore di Milano
fu Francesco Burlamacchi, che aveva tentato di rompere l’egemonia dei Medici in Toscana in concomitanza
delle ribellioni antimedicee a Pisa e a Firenze, con le truppe della Repubblica di Lucca e la speranza di un
appoggio militare della Repubblica di Siena. Un traditore svelò il piano e ben presto il Burlamacchi fu
processato e decapitato a Milano per ordine di Ferrante Gonzaga. Il ruolo aveva un costo pesantissimo.
Capitolo undicesimo
In Italia lo scontro politico tra Paolo III e Carlo V non avvenne solo con eserciti e diplomatici, ma anche
attraverso una comunicazione di grandissimo rilievo, che segnò la reputazione dei personaggi coinvolti. Il
lavoro di comunicazione e di disinformazione aveva dei rischi, quello di finire nelle mani sbagliate.
Gli avvisi, i cartelli e gli opuscoli, venivano trascritti, copiati o imparati a memoria, a volte cantati, specie
nell’ultimo anno di pontificato di Paolo III, e avevano lo scopo di condizionare il futuro conclave.
La corrispondenza tra il cardinale Benedetto Accolti e il reggente di Mantova era caratterizzata da libelli molto
famosi negli anni trenta. Tra questi, molti sonetti erano rivolti contro Pier Luigi Farnese. La mole di documenti
spinse molti intellettuali a produrre opere che assimilavano le vicende di quegli anni con eventi del passato,
come L’Italia liberata dai Goti, del ghibellino Gian Giorgio Trissino, dove si ricordavano le imprese del
generale Belisario, inviato in Italia dall’imperatore Giustiniano per liberarla dai Goti.
Altri componimenti avevano lo scopo di infamare il papa, reo di incesti e atrocità. Un noto componimento,
pubblicato in volgare, come Lettera di fra Bernardino a Paolo III, dove venivano descritti degli eventi e i
retroscena all’interno della curia romana, a partire dal Clemente VII, resero tale documento di interesse storico
rilevante, in cui erano riportati nomi e ruoli dei protagonisti; il testo è conservato nella Biblioteca Medicea
Laurenziana di Firenze, di cui si conoscono solo quattro copie in circolazione. L’idea di sovranità di Paolo III
Farnese era più simile a quella di un faraone d’Egitto che di un papa, come risulta nella corrispondenza tra i
cardinali Accolti, Cibo e Gonzaga, dove veniva accusato d’incesto con la sorella Giulia, di matricidio, oltre a
una serie di crimini commessi dai suoi parenti e uomini della curia per suo conto. L’elenco delle sue vittime
avrebbe fatto impallidire chiunque, specie sapendo che il mandante fosse lo stesso papa, che pur di far
accrescere il casato dei Farnese era disposto a tutto, pure a far commettere un omicidio per garantire un ruolo
a qualche suo familiare.
Altri scritti polemici uscirono in quel periodo, come l’Epistola de morte Pauli tertij, in circolazione dopo la
morte di Paolo III Farnese, un testo in cui veniva riportata l’agonia del pontefice e il suo viaggio agli Inferi,
mentre si trasformava nella meretrice di Babilonia. Non è chiaro chi sia l’autore, dicono fosse stato scritto a
Basilea tra gli esuli italiani. Sta di fatto che esistevano progetti alternativi sul futuro papa, per evitare uno
scisma multiplo all’interno della chiesa cattolica, prospettato dalla volontà degli avversari sul campo.
Capitolo dodicesimo
Durante il conclave vennero alla luce le diverse sensibilità all’interno degli schieramenti per risolvere la
questione protestante, tra chi era apertamente ostile all’imperatore, come il radicale cardinale Carafa, che lo
definiva eretico e scismatico, oppure i cardinali “spirituali”, come Pole e Morone, che non consideravano
sbagliato un interim dell’imperatore per accordare delle concessioni ai protestanti. Altri “spirituali” avevano
diffuso degli scritti “valdesiani” per favorire gli obiettivi politici dei cardinali Accolti e Gonzaga.
Il conclave del ’49 venne ricordato come il più difficile del secolo, perché erano in gioco gli interessi di Carlo
V in Italia, che intendeva ritagliarsi un ampio spazio territoriale intorno a Milano, fino ai territori dello Stato
della Chiesa, contemporaneamente l’intento era di influenzare la scelta del nuovo papa, che avrebbe
condizionato il proseguo del Concilio di Trento. In un gioco di coperture e di incastri la scelta del nuovo papa
verteva sul tentativo di far prevalere una linea rispetto a un altro, anche se le linee erano tre: gli imperiali, i
sostenitori dei Farnese e la linea francese, che alla fine riuscì a non far eleggere una figura che poteva far
vincere gli altri schieramenti. Tra gli imperiali, il cardinale fiorentino Salviati avrebbe dovuto riportare il
Concilio nella città di Trento, con l’augurio di celebrare un accordo tra papa e imperatore. Altro punto in

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Aspettando l’imperatore. Principi italiani tra il papa e Carlo V.

questione era di impedire che truppe francesi potessero attraversare le Alpi. Il progetto avrebbe permesso alle
aristocrazie italiane fedeli all’imperatore di mantenere inalterato lo Stato della Chiesa, perché il papa aveva la
necessità di garantirsi la protezione di principi amici.
Molte delle lettere scritte da Ercole Gonzaga avevano lo scopo di saggiare, disinformare e manipolare le
informazioni, come la raccomandazione fatta al fratello Ferrante di indietreggiare dall’accordo con il Mendoza
e il cardinale Salviati, per non rischiare una possibile scomunica nel caso di una confessione.
I richiami di Ercole al fratello indicavano chiaramente la Bolla di Giulio II sulle pratiche simoniache, di non
parlarne con l’amico Mendoza, che non poteva capirne il significato; come recenti studi confermano, quanto
fosse importante la Bolla di Giulio II nella storia del Vaticano, la cui validità arrivò sino al 1904.
Ercole Gonzaga si era volutamente messo fuori nella corsa al papato, con la scusa di essere troppo giovane e
troppo interessato alle questioni imperiali, mentre avrebbe appoggiato il Salviati, in modo da allontanarsi dal
pontificato di Paolo III e dalla famiglia Farnese, anche se in seguito avrebbe visto incrinare i suoi rapporti
personali con il duca di Firenze.
La conclusione dell’opera scritta dalla professoressa Elena Bonara verte sulla ricostruzione dei lavori del
conclave sino all’elezione dell’elezione del cardinale Del Monte, papa di compromesso, che prese il nome di
Giulio III, che soffiò il posto al primo nominativo in lizza, quello del cardinale Pole, che aveva l’appoggio
tanto di Carlo V che del cardinale Alessandro Farnese. Escluso sin da subito da Paolo III era il cardinale
Gonzaga, che aveva vietato che in alcun modo fosse fatto il suo nome. Uno dei nemici del cardinale Pole fu il
Carafa, che lo aveva accusato di eresia durante il conclave, sostenendo di avere documenti compromettenti a
riguardo. Il cardinale Ercole Gonzaga era assente da Roma poco dopo l’elezione del Farnese, durante il
conclave fece di tutto per sostenere il Salviati, mentre in precedenza aveva ben dissimulato le sue reali
intenzioni, per depistare la sua alleanza con il Mendoza, gli Este i Gonzaga e Granvelle figlio. Il suo
depistaggio era tale da aver attirato i voti del cardinale Ranuccio Farnese e del camerlengo Guido Ascanio
Sforza di Santafiora. La convergenza sul nome del cardinale Salviati venne meno quando Carlo V pose il suo
irremovibile veto, quale risultato di una campagna denigratoria precedente, scatenata dal Cardinale Rodolfo
Pio di Carpi, da Benedetto Accolti, morto prematuramente, e dal duca di Firenze.
Alla morte di Paolo III non vennero meno solo le ambizioni dei Farnese, ma si infranse l’intero fronte
imperiale, che per anni aveva faticato per costruire un’alleanza solida, sgretolata dall’intervento del duca di
Firenze, che finì per sostenere un suo parente, il cardinale Juan Alvarez de Toledo, nonostante fosse un
dominicano, inquisitore e nemico del Concilio. Cosimo de’ Medici avrebbe avuto un ruolo cruciale
nell’influenzare le future nomine papali, tanto da ritagliarsi una parte nelle vicende toscane.
Alla fine il progetto dei principi italiani si dimostrò troppo grande per le loro forze e per il tramonto
dell’imperatore. Gli avvenimenti che seguirono il conclave furono il preludio dell’Inquisizione romana, che
poteva agire anche su fini politici, per indirizzare i valori ideologici e religiosi della Chiesa. Lo stesso Giulio
III non poté intervenire sul Sant’Uffizio, oramai organo autonomo all’interno della Chiesa. Il declino politico
si abbatté pure sul governatore di Milano e sul segretario di Carlo V, incapaci di reggere l’urto con la nuova
visione politico-religiosa di fine secolo.

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