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Elementi di Fisica Nucleare

Parte 2: Fisica subnucleare


Introduzione
Un po’ di storia
Lo sviluppo della fisica subnucleare e della fisica delle particelle elementari è stata resa possibile grazie ad
una serie di scoperte ed innovazioni tecnologiche, come gli acceleratori di particelle, cioè strumenti in grado
di accelerare le particelle affinché possano raggiungere un’energia sufficiente a superare l’energia di soglia
richiesta per una reazione. Qui di seguito riportiamo allora alcuni eventi importanti.

- L’acceleratore di Van de Graaf, 1929


Uno dei primi acceleratori della storia si basava sulla macchina di Van De Graaf, in grado di creare
una differenza di potenziale caricando un elettrodo per mezzo dell’induzione elettrostatica.
Una cinghia ruotante di materiale isolante acquista carica positiva passando in prossimità di una
punta ove esiste un intenso campo elettrico; la carica è quindi ceduta ad un elettrodo, e si
distribuisce lungo la sua superficie, creando una differenza di potenziale con la terra che viene
ripartita in diversi “traguardi” per mezzo di un partitore di tensione. In questo modo, attraverso un
tubo a vuoto posto tra elettrodo e terra, si crea un “canale” entro cui accelerare gli ioni, prodotti da
una sorgente all’interno dell’elettrodo stesso.

Un simile apparato sperimentale permette di produrre differenze di tensione di circa 5 MV ; oggi, i


moderni acceleratori Van de Graaf sfruttano strutture “a tandem”, cioè di acceleratori in serie in
modo da raddoppiare l’accelerazione: in genere, in un primo tratto vengono accelerati ioni negativi
che, passando in un tratto intermedio dove vengono spogliati dei loro elettroni (tramite uno
stripper), diventano ioni positivi, riaccelerti nel secondo tratto. In questo modo è possibile
raggiungere energie dell’ordine di 20 ÷ 30 MeV .
- L’acceleratore di Cockroft-Walton, 1930
Quasi parallelamente all’acceleratore di Van de Graaf, l’acceleratore di J. Cockroft ed E. Walton, nel
1930, permise di raggiungere energie dell’ordine di 400 keV (dunque ancora non relativistiche) in
grado di innescare la reazione di trasmutazione del litio in berillio:

p+ Li → Be

L’acceleratore Cockroft-Walton è costituito da una sorgente di ioni i quali vengono “iniettati” in una
camera dove sono posti, in serie, elettrodi a potenziale crescente, in grado di accelerare gli ioni
man mano che essi proseguono per tutta la lunghezza dell’acceleratore.
1
- L’acceleratore di Lawrence-Sloan, 1930
Quello di Lawrence e Sloan è stato un primo esempio di acceleratore lineare, cioè caratterizzato da
numerose strutture acceleranti che si susseguono linearmente generando un campo non
elettrostatico, come invece avveniva nei precedenti acceleratori. In particolar modo, l’acceleratore
Lawrence-Sloan è costituito da una successione rettilinea di elettrodi di forma cilindrica posti
all’interno di un tubo a vuoto, e collegati alternativamente ai capi di un generatore di tensione
alternata. All’interno di ciascun tubo il campo elettrico è nullo, mentre tra un tubo e il successivo è
applicata una differenza di potenziale V =V 0 cos ωt : mantenendo una giusta relazione di fase
rispetto al campo applicato, è possibile far guadagnare alle particelle, ad ogni intervallo successivo,
un’energia q V 0 . Ovviamente, affinché la relazione di fase si mantenga costante, occorre che i tubi
abbiano una lunghezza variabile in funzione della velocità della particella. Si ottiene in questo modo
quello che prende il nome di cavità a radiofrequenza.

I moderni acceleratori lineari riescono a raggiungere energie dell’ordine di 50 GeV , ma richiedono


numerosi traguardi di accelerazione, e per questo richiedono ampi spazi per poter essere realizzati
(taluni possono essere lunghi anche kilometri).
- L’acceleratore di Lawrence-Livingstone, 1932
Quello di Lawrence e Livingstone, a differenza degli altri acceleratori, sviluppati “per il lungo” e
caratterizzati da accelerazioni progressive tramite un campo elettrico, sfruttava la presenza di un
campo magnetico in modo da curvare la direzione della particella proiettile. Per questo il loro
acceleratore fu chiamato ciclotrone.
Un ciclotrone è costituito da due elettrodi cavi a forma di D, che si “rivolgono le spalle” l’un l’altro,
separati da una distanza molto più piccola del raggio medio delle D. L’intera struttura è posta tra
due espansioni polari di un magnete, in modo che si generi un campo magnetico costante
ortogonale al piano delle D.

Al centro del ciclotrone è posta una sorgente di ioni che, non appena prodotti, tendono ad essere
accelerati dal campo elettrico alternato prodotto dagli elettrodi, di frequenza angolare ω RF
costante: in questo modo gli ioni vengono accelerati ed incanalati in uno dei due elettrodi e
percorrono una traiettoria a forma semicircolare, di raggio r =mv/qB (nell’ipotesi non relativistica)
e con frequenza angolare ω. Se l’apparato è costruito in modo da far sì che ω=ω RF , gli ioni
arrivano al gap tra le due D in fase e vengono accelerati nuovamente nell’altra D. In questo modo le

2
particelle descrivono una sorta di traiettoria a spirale (in quanto, aumentando la velocità, aumenta
il raggio di curvatura) accelerando progressivamente in ogni semicerchio, fino a raggiungere
energie dell’ordine di 20 ÷ 25 MeV .
- Il sincrotrone, 1954
Acceleratori lineari e ciclotroni richiedono dimensioni gigantesche per poter accelerare particelle
ad altissima energia, in quanto, come abbiamo visto, tendono ad accelerare le particelle
spingendole linearmente o costringendole a muoversi in percorsi circolari via via di raggio
maggiore.
Il problema fu parzialmente risolto con l’introduzione, nel 1947, del primo sincrotrone, cioè una
struttura costituita da magneti disposti ad anello, che vincolano le particelle a possedere una
traiettoria circolare.

Le particelle vengono innanzitutto pre-accelerate da un iniettore, generalmente un piccolo


acceleratore lineare che fornisce una prima accelerazione immettendo le particelle nel circuito. Ad
ogni rivoluzione, le particelle da accelerare passano attraverso una cavità a radiofrequenza, e la
loro energia viene incrementata di una quantità Δ E ; al contempo, poiché il loro impulso cresce,
viene aumentato anche il campo magnetico dei magneti, in modo da mantenere le particelle su una
traiettoria circolare fissata. Inoltre, poiché il fascio va ben canalizzato, sono generalmente posti, tra
un magnete curvante ed un altro, dei quadrupoli magnetici che focalizzano la direzione delle
particelle.
E’ nei sincrotroni che sono stati effettuati, negli anni ’50 e ’60 con la nascita del CERN e dello SLAC e
degli acceleratori Ada ed Adone (in grado di raggiungere energie dell’ordine del GeV ), i primi urti
head on, cioè a bersagli non fissi, ma tra particelle in moto l’una contro l’altra: questi ultimi si
mostrano energeticamente più favorevoli. Per accorgercene, consideriamo un semplice urto tra un
elettrone ed un protone in moto l’uno contro l’altro, ad energia Ee =50 GeV ed E p =800 GeV .
Introduciamo allora la seguente quantità, detta massa invariante del sistema:

1 2 2
M 2=
c4 [ ( ∑ Ei ) −( ∑ pi ) c
i i
2
]
Si può dimostrare che la quantità di sopra è, appunto, invariante da un sistema di riferimento
all’altro. Immaginiamo allora di calcolare la massa invariante nel sistema di riferimento del centro
di massa, che, per definizione, è il sistema di riferimento per cui la somma di tutti gli impulsi è nulla:

1 1
M 2= E + Ee )2= 4 ( E2cm ) ⇒ Ecm =M c 2
4( p
c c

A questo punto calcoliamo la massa invariante nel sistema del laboratorio:


3
M 2 c 4=[ ( E e + E p )2−( p e− p p )2 c 2 ]

Si osservi che E p ≫ m p c , così come nel caso dell’elettrone, perciò possiamo supporre E p ∼ p p c
2

ed Ee ∼ p e c :

M 2 c 4 ∼ [ ( Ee + E p )2−( E e −E p )2 ] =4 E e E p

In questo modo otteniamo facilmente l’energia del centro di massa:

Ecm =√ M 2 c 4 =√ 4 E e E p ∼400 GeV

Se adesso volessimo ripetere l’esperimento con un bersaglio fisso, supponendo, ad esempio, gli
elettroni in moto contro un bersaglio di protoni fermo nel sistema di riferimento del laboratorio,
otterremmo invece:

2 4
√ 2 2 2 2 2 4 2 2 2 2 2 4
Ecm =√ M c = ( m p c + E e ) − pe c =√ mp c + E e + 2 E e m p c − p e c =√ m p c +me c + 2 E e m p c = mp c 1+
2 4 2

√ 2 4
( m

Poiché 2 Ee ≫ m p c2, ed m e ≪ m p, l’espressione di sopra si può riscrivere come:

m2e

Ecm = m c 1+
2
p
4
( m2
p
+
m pc
2 Ee
2
)√ ∼ mp c
2 4 2 Ee
mp c 2
2
=√ 2 E e m p c

Poiché √ 4 E e E p ≫ 2 Ee m p c 2, appare evidente il netto guadagno in energia di un urto head on.



- Anderson e la scoperta del positrone, 1932
Il positrone fu scoperto nel 1932 da Anderson ed altri scienziati, tra cui Neddermery, Blackett ed
Occhialini. La particella tuttavia non fu osservata tramite un acceleratore, ma attraverso l’analisi dei
raggi cosmici provenienti dallo spazio: essi costituiscono infatti un ampio spettro di radiazioni e
particelle di energie che arrivano fino all’ordine del TeV , energie che non potevano essere replicate
da nessun acceleratore del tempo.
Il gruppo di Anderson sfruttò una camera a nebbia di Wilson1 entro cui fosse fatto passare un
campo magnetico in grado di curvare particelle cariche. Misurando il raggio di curvatura, è possibile
risalire alla carica della particella ionizzante, seppur in valore assoluto. Gli scienziati, in particolar
modo, rivelarono una particella con la stessa massa dell’elettrone, ma con carica evidentemente
opposta (tramite una sottile lastra di piombo in grado di rallentare la particella fu possibile
analizzare la direzione di percorrenza e dunque risalire al segno della carica), mostrando dunque
l’esistenza del positrone.
Il team di scienziati, inoltre, con lo stesso apparato sperimentale, rivelò nel 1937 la presenza di una

1
La camera a nebbia di Wilson (1912) è un recipiente contente un gas (per esempio aria) e un vapore (per esempio
acqua) adibito alla rivelazione di particelle. Il vapore tende a condensare in prossimità degli atomi ionizzati in seguito
al passaggio di una particella ionizzante, in modo da lasciare una traccia di goccioline che permettono di ricostruire la
traiettoria della particella in questione.
4
particella la cui massa fosse circa pari a 200 volte la massa dell’elettrone e che avesse un tempo di
decadimento di circa 2 μs : inizialmente si ipotizzò la particella potesse essere attribuita al pione
ipotizzato da Yukawa, ma quest’ultima non interagiva con la materia nucleare.
Nel 1947 Conversi, Pancini e Piccioni identificarono poi la particella di Anderson come una nuova
particella elementare: il muone, la cui massa si rivelò pari a circa m μ ∼105 MeV /c 2.
- Occhialini-Powell, 1947
Nello stesso anno della scoperta del mone, Occhialini e Powell scoprirono il pione teorizzato da
Yukawa. La scoperta avvenne attraverso l’analisi di tracce di emulsioni nucleari a forma di L, che fu
interpretata, inizialmente, come il risultato di un decadimento di una particella in un'altra. I
numerosi esperimenti rivelavano tuttavia non vi fosse conservazione del momento angolare, segno
che il decadimento investiva in realtà tre corpi, di cui uno non veniva rivelato. Soltanto in seguito il
decadimento sarebbe stato ricostruito come segue:

−¿+ ν́μ ¿

π−¿→ μ ¿
+ ¿+ν μ ¿

π +¿→ μ ¿

La particella in decadimento era dunque un pione, che si trasforma in un muone e un neutrino, che
difficilmente poteva essere rivelato dalla strumentazione del tempo. I neutrini in questione erano in
particolare neutrini muonici, ma al tempo non era ancora nota la differenziazione dei neutrini.
Dall’analisi dell’interazione dei muoni con la materia, si arrivo a determinarne la massa, pari a
m π ∼ 139 MeV /c2 .
- LePrince-Ringuet-Heritier, 1943
Sempre attraverso l’utilizzo di una camera a nebbia, Leprince, Ringuet e Heritier, nell’analisi di raggi
cosmici sulle alpi francesi, osservarono diverse particelle la cui massa doveva aggirarsi sui
500 MeV /c 2. Queste, in seguito ad ulteriori analisi in laboratorio, mostravano tre diverse nature:
1) Il primo tipo di particelle, seppur non osservata direttamente, tendeva a decadere in due
particelle di carica opposta, dunque, per conservazione della carica, doveva essere neutra.
Poiché la traccia che si formava era a forma di V, visto che la particella in questione non lasciava
emulsioni nella camera a nebbia, fu chiamata particella V , cioè, quello in seguito, sarebbe stato
identificato come kaone neutro K 0.
2) Il secondo tipo di particella mostrava una natura carica, e tendeva a decadere in una particella
carica e una neutra, che in seguito si rivelarono essere un pione π ±e un pione neutro π 0. La
particella in questione fu indicata con θ .
3) Il terzo tipo di particella mostrava anch’essa una natura carica, e tendeva a decadere in tre
particelle cariche (pioni π ±); fu indicata con il termine di particella τ .

Certamente le particelle V si dovevano distinguere dalle particelle θ e τ in quanto non cariche, ma


ci si chiedeva se le particelle θ e τ fossero effettivamente la stessa, in quello che prese il nome di “
5
θ−τ puzzle”.
Per comprenderne la gravità, analizziamo le due reazioni prendendo in considerazione, ad esempio,
particelle cariche positivamente:

0
+¿+ π ¿

θ+¿ → π ¿
−¿ ¿
+¿ +π ¿
+ ¿+ π

τ +¿ → π
¿
¿

e π 0 sarà:
+¿ ¿ +¿¿
Partiamo dal decadimento di θ : la parità dello stato finale, costituito dalla coppia π

P¿

…dove si è indicato con l il numero quantico associato al momento angolare relativo tra i due pioni.
Poiché dai dati sperimentali era noto il pione fosse caratterizzato da uno stato del tipo I P =0−¿ ¿, e
dunque con parità negativa, si ottiene:

P¿

Lo stato finale presenta dunque parità positiva per l pari, e negativa per l dispari.
+¿ ¿ +¿¿
Nel caso di τ , possiamo trattare la coppia di pioni π come un unico sistema, la cui parità è
certamente positiva, in quanto, essendo particelle identiche, una trasformazione da r⃗ in −⃗r non
trasforma il sistema fisico. Abbiamo dunque:

P¿

…dove, analogamente, con l abbiamo indicato il numero quantico del momento angolare relativo
+¿¿
tra i due π ; inserendo l’espressione di sopra nella parità complessiva, si ottiene:

P¿

Sperimentalmente si osservava come valore più probabile di l ' fosse 0, perciò:

P¿

Contrariamente al caso di θ , dunque, lo stato finale di τ presenta parità positiva per l dispari e
+¿ ¿ +¿ ¿

parità negativa per l pari. I possibili scenari erano dunque due: o le particelle erano diverse, oppure
erano la stessa particella ma la parità, in seguito al decadimento, non si conserva.
- Lee-Yang e Wu, 1956
Nel 1956, gli scienziati Lee e Yang ipotizzarono la non conservazione della parità nei processi di
interazione debole per giustificare i risultati del θ−τ puzzle: particelle τ e θ sono dunque la stessa
particella, battezzata in seguito kaone K . Il fenomeno fu dimostrato lo stesso anno dal fisico cinese
−¿¿
Chienshiung Wu, che evidenziò la non conservazione della parità nel decadimento β del cobalto:

60
Co → 60 Ne+ e−¿+ν́ ¿ e

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Nel processo, infatti, gli elettroni venivano emessi secondo una direzione privilegiata, in modo da
avere direzioni opposte alla direzione del momento angolare totale ⃗I . La parità non è dunque una
costante del moto, in quanto, applicando l’operatore parità al sistema, esso cambia del tutto e non
rimane inalterto. Essendo il decadimento β frutto dell’interazione debole, evidentemente essa è un
processo che non conserva la parità, come ipotizzato da Lee e Yang.

L’equazione di Dirac e la nascita del concetto di antiparticella


Più volte, nella nostra trattazione, ci siamo avvalsi dell’equazione di Schrodinger, cioè nient’altro che un
problema agli autovalori le cui autofunzioni ψ e i cui autovalori E sono in grado di fornirci informazioni
sullo stato di una particella e sulla sua energia. Tutta la teoria perturbativa, spesso utilizzata attraverso la
regola aurea di Fermi, si fonda infatti sulla semplice applicazione dell’operatore ^ H sullo stato ψ che sia
soluzione dell’equazione ^ H ψ=−iℏ ∂ψ /∂ t .
L’equazione di Schrodinger, tuttavia, non è valida in regime relativistico. Spesso la qual cosa non ha
costituito un problema, in quanto abbiamo analizzato situazioni di particelle relativamente lente rispetto
alla luce; la fisica subnucleare, cioè la fisica delle particelle elementari, tuttavia, vive in un regime
puramente relativistico. Affinché si possa analizzare infatti delle particelle le cui dimensioni sono più piccole
di un nucleo atomico è necessario sfruttare particelle proiettile le cui dimensioni siano tali da “vedere” il
nucleo come grande. La lunghezza d’onda associata alle particelle proiettile dev’essere perciò molto piccola
2
: in base alla relazione di De Broglie λ=h/ p, la qual cosa implica impulsi p, e dunque velocità, molto
elevate, che ci proietta in un dominio relativistico.
Il problema della non relativisticità dell’equazione di Schrodinger se lo pose lo stesso Schrodinger negli anni
’20, che effettuò una serie di correzioni in modo da ottenere l’equazione di Schrodinger relativistica, o
equazione di Klein-Gordon. Essa si basa su una semplice correzione del principio di corrispondenza.

Come sappiamo, l’equazione di Schrodinger per una particella libera può essere ottenuta immaginando la
particella come un pacchetto d’onda, che per semplicità tratteremo come un’onda piana, nella forma…
i
p ⋅ ⃗x −Et )
(⃗
ψ ( ⃗x , t ) =N e ℏ

Se alla classica relazione di dispersione E=p 2 /2m (dove l’energia totale E , essendo la particella libera,
corrisponde all’energia cinetica della particella) si applica il principio di corrispondenza, cioè la sostituzione
operatoriale…


E →iℏ ⃗p →−iℏ ∇
∂t

…si giunge, appunto, all’equazione di Schrodinger che ben conosciamo:

∂ ψ ( ⃗x ,t ) −ℏ2 2
iℏ = ∇ ψ ( r⃗ , t )
∂t 2m

Necessariamente, affinché possa valere il regime relativistico, dobbiamo cambiare punto di partenza: la
relazione di dispersione, infatti, com’è noto dalla relatività ristretta, assume la forma…

E2= p 2 c 2 +m2 c 4

2
Le dimensioni delle particelle subnucleari raggiungo anche le dimensioni di 10−18 m.
7
Applicando il principio di corrispondenza alla relazione di sopra si giunge allora ad un’altra equazione, detta
appunto equazione di Klein-Gordon:

2 ∂2 ( 2 2 2 2 4
−ℏ 2
ψ ⃗x , t )=−ℏ c ∇ ψ ( ⃗x ,t ) +m c ψ ( ⃗x , t )
∂t

…spesso riscritta nel seguente modo, sfruttando la notazione covariante…

∂μ≡ ( 1c ∂∂t ,− ∂∂x ,− ∂∂y ,− ∂∂z )


∂μ≡ ( 1c ∂∂t , ∂∂x , ∂∂y , ∂∂z )
…e il sistema delle unità naturali, ove c=ℏ=1:

∂2 ∂2
−ℏ2 2
∂t
ψ ( x
⃗ , t ) =−ℏ 2 2 2
c ∇ ψ ( x
⃗ ,t ) +m 2 4
c ψ ( x
⃗ , t ) ⇒( 2
∂t )
−∇ 2 ψ ( ⃗x , t ) +m2 ψ ( ⃗x ,t )=0 ⇒ ( ∂ μ ∂μ +m2 ) ψ ( ⃗x ,t )=0

L’equazione di Klein-Gordon, oltre per la presenza del termine m 2 c 4, si distingue dall’equazione di


Schrodinger per un termine in derivata seconda nella variabile temporale, anziché di derivata prima. La qual
cosa crea due importanti problemi concettuali:

1) Energia di particella libera negativa – L’onda piana, nella forma...


i
p ⋅ ⃗x −Et )
(⃗

ψ ( ⃗x , t ) =N e

…continua ad essere soluzione dell’equazione di Klein-Gordon così come lo è per l’equazione di


Schrodinger; osserviamo che, tuttavia, sostituendola nell’equazione, si ottiene:

E2 ψ=( p2 c 2+ m2 c 4 ) ψ

…che è soddisfatta sia per E positivi che per E negativi. Ad una particella libera possiamo perciò
associare un’energia negativa, cosa che non ha alcun senso da un punto di vista classico.

2) Densità di probabilità negativa – In meccanica relativistica, la densità di corrente e il vettore


densità di carica sono sostituiti da un unico quadrivettore J μ, nella forma…

J μ=( ρc , J x , J y , J z )

Lo stesso avviene per il vettore densità di probabilità, dove ρ diventa una densità di probabilità, e
⃗J = ( J x , J y , J z ) un flusso di probabilità. Si può dimostrare ancora valida la relazione di continuità,
secondo cui:

∂ μ J μ=0

In particolare, la prima componente di J μ è definita nel seguente modo:


8
∂ψ ∂ ψ¿
(
ρ=i ψ ¿
∂t
−ψ
∂t )
…ma, sostituendo ψ nell’espressione di sopra, si ottiene:

2
ρ=2|N| E

E poiché E può essere sia positiva che negativa, avremmo la possibilità di osservare una densità di
probabilità negativa, che non ha senso fisico.

Per eliminare questi problemi Dirac sviluppò, nel 1927, una nuova equazione, che prende appunto il nome
di equazione di Dirac, che fosse relativisticamente invariante con le trasformazioni di Lorentz:

∂ ∂ ∂ ∂
i
∂t [ (
ψ ( ⃗x ,t )= −i α 1 +α +α
∂x 2 ∂ y 3 ∂ z ) ]
+ βm ψ ( ⃗x , t )

Dove le tre α i e β sono quattro matrici hermitiane non in commutazione, per le quali, imponendo la
relazione E2= p 2+ m2, si ottiene:

α i α j + α j α i=0

α i β + β α i=0

β 2=α 2i =I

Tr ( α i )=Tr ( β )=0

Dirac, in particolar modo, ottenne:

β= I 0 ( )
0 −I

0 σi
α i=
( σi 0 )
…dove σ i sono le matrici di Pauli. Analogamente all’equazione di Klein-Gordon, essa è frequentemente
riscritta in formalismo covariante: si pone, in particolar modo,

γ 0=β

γ i=β α i

…e si moltiplica ambo i membri per β , in modo che β 2=I ; in questo modo,

∂ ∂ ∂ ∂ ∂ ∂ ∂ ∂
[( i
∂t
+ α1
∂x
+ α2
∂y
+ α3
∂z ) ] [(
−βm ψ=0⇒ i β + β α 1
∂t ∂x
+β α2
∂y
+ β α3
∂z ) ]
−I m ψ =0 ⇒ [ i γ μ ∂μ −m ] ψ =0

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Dal prodotto di matrici, comprendiamo la funzione d’onda ψ debba assumere la forma di una quantità
vettoriale:

ψ1
ψ
ψ= 2
ψ3
ψ4
()
In particolare, a due componenti sono associate due soluzioni ad energia positiva, e alle altre due soluzioni
ad energia negativa (tra loro differenziate da spin 1/2 e −1/2): il problema dell’energia negativa
continuava dunque ad essere irrisolto; tuttavia tornava ad avere significato la funzione ρ , stavolta definita
come…
2 2 2 4
ρ=ψ † ψ =|ψ 1| +|ψ 2| +|ψ 3| +|ψ 4|

…e dunque sempre positiva.

L’interpretazione di Dirac
Per giustificare la presenza di soluzioni ad energia negativa, Dirac suppose dovessero esistere particolari
stati di particella non osservabili, che indicò con il termine di antiparticella. Secondo lo scienziato, una
particella libera possiede livelli energetici positivi (limitati inferiormente dall’energia a riposo m c 2) e
negativi (limitati superiormente dall’energia a riposo negativa −m c 2), questi ultimi ovviamente privi di
senso fisico, e dunque non osservabili fisicamente. La presenza di stati ad energia più bassa dell’energia di
vuoto m c 2 avrebbe tuttavia comportato il decadimento spontaneo verso gli stati ad energia negativa, che,
in linea teorica, sono infiniti, dunque non si sarebbe osservata alcuna particella ad energia positiva nel
nostro universo: Dirac fu allora costretto a postulare tutti gli stati ad energia negativa occupati, in modo che
le particelle non vi potessero decadere per non violare il principio di esclusione di Pauli. In questo modo,
allo stato di vuoto (osservabile) corrisponde un’infinità di particelle (non osservabili).
Il modello si mostra in buon accordo con il fenomeno della cosiddetta polarizzazione del vuoto, che vede
l’apparire di particelle create nel vuoto: se infatti viene fornito al “vuoto” un’energia sufficiente a
compensare il gap energetico tra uno stato negativo e uno positivo (almeno dell’ordine dunque di 2 mc 2) è
possibile promuovere una particella del mare ad energia negativa ad uno stato ad energia positiva: tutto ad
un tratto, dal vuoto, si osserva una particella, ma non è l’unica particella osservata. Si immagini, ad
esempio, di fare il caso di un elettrone: con un’energia sufficientemente alta ( ¿ 2 m e c 2, relativamente bassa,
considerando la piccola massa dell’elettrone) si può promuovere l’elettrone dallo stato −m c 2 allo stato
m c 2, in modo che possa essere osservato sperimentalmente. D’altra parte, la promozione dell’elettrone
crea una lacuna nel mare negativo, che ha perso (e dunque gli è stata sottratta), a conti fatti, un’energia
E=−m c2, che può essere interpretata come un acquisto di energia positiva E=mc 2: la lacuna possiede
perciò un’energia positiva ed è dunque osservabile. Essa tuttavia non può avere la stessa carica
dell’elettrone, poiché il mare negativo ha perso una carica −e , dunque ha acquisito, grazie alla lacuna, una
carica +e . In conclusione, comprendiamo quindi la promozione di una particella da uno stato ad energia
negativa ad uno ad energia positiva porti alla produzione di una particella osservabile e una relativa
particella, di ugual massa (come fu in seguito dimostrato da Oppenheimer) ma con carica opposta,
identificata come antiparticella.

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Questo modello di antiparticella riusciva a spiegare non solo la polarizzazione del vuoto, ma anche il
fenomeno dell’annichilazione: particelle ed antiparticelle, al loro urto, tendevano a produrre fotoni. In
questo senso, “l’urto” particella-antiparticella descrive il ricadere, da parte della particella, nella buca
lasciata nel mare elettronico, che ovviamente portava ad una differenzia di energia rilasciata sotto forma di
fotone.

L’interpretazione di Feynman-Stuckelberg
L’interpretazione di Dirac, seppur affascinante, necessita l’applicazione del principio di esclusione di Pauli
per poter giustificare il mare di infinite particelle ad energia negativa. Il principio, tuttavia, non si applica ai
bosoni (comunque descritti dall’equazione di Klein-Gordon), dunque l’interpretazione di Dirac avrebbe
senso solo se proiettata in ambito fermionico.
Esiste un’altra interpretazione dovuta a Feynman, che ha il pregio di poter essere usata sia per fermioni che
per bosoni e non richiede il concetto di mare di stati di vuoto. Si immagini ancora una volta di
schematizzare una particella come un’onda piana:
i
( ⃗p ⋅⃗r− Et )

ψ ( ⃗r )=N e
…che descrive un’onda che si propaga nello spazio della direzione di ⃗p e varia nel tempo secondo
−iEt
l’andamento e ℏ : l’energia E , se supponiamo ψ descriva una particella e non un’antiparticella, è definita
positiva. D’altra parte, potremmo immaginarla come un’energia definita positiva se introducessimo un
segno meno anche al tempo, nel seguente modo:
i i
( ⃗p ⋅⃗r− Et ) ( ⃗p ⋅⃗r− ( −E ) (−t ) )
ψ ( ⃗r )=N e ℏ =ψ ( r⃗ )=N e ℏ

In questo modo, la funzione d’onda descrive un’antiparticella, in quanto è associata ad un’energia negativa,
ma col vincolo di doversi propagare indietro nel tempo. Feynman e Stuckelberg ipotizzarono allora il
seguente fenomeno: una soluzione ad energia negativa descrive una particella che si propaga indietro nel
tempo o, equivalentemente, un’antiparticella ad energia positiva che si propaga avanti nel tempo.

I diagrammi di Feynman
Per poter schematizzare in maniera efficace e soddisfacente un processo di urto ed interazione tra
particelle viene utilizzata, nella fisica teorica e sperimentale, una particolare rappresentazione simbolica
che costituisce i cosiddetti diagrammi di Feynman.
In un diagramma di Feynman, le particelle in interazione sono rappresentate da delle linee, la cui forma

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varia a seconda della particella stessa. I punti di intersezione tra due o più linee è detto vertice
d’interazione. Le linee, a seconda di come si “immettono” nei vertici, sono divise in tre tipi:

- Linee entranti, che descrivono le particelle iniziali;


- Linee uscenti, che descrivono le particelle finali;
- Linee interne, che connettono due vertici, e vengono detti propagatori.

La direzione di propagazione delle particelle, nello spazio e nel tempo, è inoltre indicata da una freccia: una
freccia rivolta da sinistra verso destra descrive perciò una particella che si propaga avanti nel tempo,
mentre una freccia rivolta da destra verso sinistra descrive una particella che si propaga indietro nel tempo,
e dunque un’antiparticella, in linea con l’interpretazione Feynman-Stuckelberg.
Un semplice diagramma di Feynman può essere il seguente, che descrive la repulsione tra una particella
μ−¿ ¿ ed un elettrone e−¿¿ , che, essendo della stessa carica, tendono a respingersi (classicamente parlando):
quantisticamente, l’elettrone emette un fotone, cambia la propria direzione di propagazione a causa del
rinculo, e determina, in seguito all’urto del fotone con il muone, una variazione della direzione di
quest’ultimo:

Il processo può essere analizzato al contrario, immaginando il muone produrre il fotone, ottenendo un
risultato analogo.
Può risultare bizzarro che l’elettrone o il muone producano il fotone proprio al momento dell’interazione,
come se sapessero già a priori a chi inviare il proprio fotone. Ovviamente le due particelle non possono
comunicare prima di aver scambiato il fotone: come fanno dunque a sapere in quale direzione doversi
scambiare l’informazione?
Per comprenderlo, è necessario innanzitutto osservare che il fotone prodotto dall’interazione non è un
fotone osservabile: a quest’ultimo è infatti associata una palese violazione della conservazione dell’energia.
Se ci ponessimo nel sistema di riferimento dell’elettrone, ove esso è inizialmente fermo, avremmo
un’improvvisa emissione di energia e la produzione di una particella (il fotone) ad energia cinetica non
nulla: da un elettrone fermo abbiamo creato energia cinetica. La violazione è tuttavia tollerabile, in quanto
avviene in range temporali più piccoli di quelli imposti dall’indeterminazione energia-tempo: in altre parole,
la violazione avviene in un intervallo Δt tale che:


Δ E Δt ≤
2

Perciò, la violazione non è osservabile e non ha senso fisicamente. Il fotone viene perciò indicato con il
termine di fotone virtuale, e si distingue dai fotoni liberi in quanto mediatore dell’interazione.
Ora che abbiamo compreso che il fotone è virtuale, come si giustifica l’interazione tra particelle? In realtà,
12
ogni particella produce continuamente fotoni virtuali, rapidamente riassorbiti dalla particella stessa per non
violare la conservazione dell’energia. Ogni particella è dunque circondata da una “nuvola” di fotoni virtuali
che vengono continuamente prodotti ed assorbiti. All’avvicinarsi di due particelle, i fotoni virtuali di una
possono interagire con l’altra prima di essere riassorbiti dalla particella originale: in questo modo le
particelle non devono “conoscersi” prima dell’interazione.

I diagrammi di Feynman, tuttavia, non hanno una funzione puramente grafica e concettuale, ma anche
matematica. Non entreremo troppo nel dettaglio in quanto certe questioni verranno analizzati in corsi
successivi: ci basti però sapere che un diagramma di Feynman descrive l’ampiezza di probabilità di
transizione del processo a cui si riferisce. Una reazione o una transizione, dunque, poiché è più in generale
caratterizzata da diverse possibili trasformazioni, ognuna associata ad un determinato ordine perturbativo,
è descritta dalla somma di più diagrammi di Feynman. Ad esempio, nella repulsione di due elettroni,
abbiamo un primo diagramma di Feynman nella seguente forma:

Il fotone virtuale dell’interazione potrebbe però creare, se sufficientemente energetico, una coppia
elettrone-positrone, perciò, seppure ad un ordine successivo, un altro processo è il seguente:

Ovviamente gli elettroni potrebbero a loro volta produrre fotoni virtuali in grado di portare alla produzione
di coppie, e così via. Il diagramma complessivo è somma di tutti questi diagrammi, ognuno associato a
probabilità sempre più piccole di avvenimento dell’interazione secondo la modalità descritta.

In questa schematizzazione, come si può mostrare, ad ogni vertice è associato un particolare coefficiente,
detto fattore di vertice, che descrive l’intensità dell’interazione, ed è proporzionale a √ α , un coefficiente
che varia a seconda del tipo di interazione; ad ogni linea è associata l’autofunzione della particella
corrispondente e, infine, ad ogni propagatore è associato un particolare fattore, la cui forma è:

13
−ℏ2
q2 +m2 c2

…dove q è l’impulso trasferito (la differenza tra l’impulso di una particella iniziale e l’impulso della stessa
particella nello stato finale) ed m è la massa della particella propagatrice (0, nel caso del fotone).
Combinando tutti questi fattori, otteniamo che l’ampiezza di probabilità associata ad ogni particella è
proporzionale a…

¿ ℏ2
M fi =ψ f √ α ψ i
q2 +m 2 c 2

In particolare, la quantità α coincide con la costante di struttura fine nel caso delle interazioni
elettromagnetiche (ed è dunque proporzionale ad e 2).

Le particelle subnucleari
Concetti generali
Fermioni e bosoni
Una prima classificazione delle particelle subnucleari va fatta in base al loro spin, strettamente legato, come
si osserva sperimentalmente e come può essere dimostrato in teoria quantistica dei campi, alla simmetria
di scambio del sistema, com’è già noto al lettore.
Si immagini infatti di avere un sistema di due particelle identiche, cioè con stessa massa, stesso spin e
stessa carica, e le si supponga, per praticità, in non interazione. Detto |ξ 1 ⟩ il vettore di stato associato alla
prima particella, e |η 2 ⟩ il vettore di stato associato alla seconda particella, avremo allora che lo stato
complessivo può essere determinato dal prodotto tensoriale dei due stati, e perciò:

|ψ ⟩ =|ξ 1 , η2 ⟩

Essendo le particelle del tutto identiche, tuttavia, lo stato del sistema è equivalentemente descritto dalla
situazione in cui è la particella 1a trovarsi nello stato |η ⟩, e la particella 2 a trovarsi nello stato |ξ ⟩ , perciò
potremmo descrivere il sistema attraverso:

|ψ ' ⟩ =|ξ 2 , η1 ⟩
I due stati sono evidentemente stati degeneri: entrambi sono soluzioni dell’hamiltoniana del sistema che,
essendo invariante rispetto ad uno scambio delle particelle, restituisce, applicata a |ξ 1 , η2 ⟩ e |ξ 2 , η1 ⟩, la
stessa energia. Questa degenerazione è detta degenerazione di scambio.
Introduciamo allora l’operatore P, cioè l’operatore tale che…

P|ξ 1 , η2 ⟩ =|ξ 2 , η1 ⟩

Si può dimostrare che l’operatore P ammette gli autovalori 1 e -1, e, in corrispondenza di essi, gli
autostati…

1
|ψ S ⟩ = (|ξ 1 , η2 ⟩ +|ξ 2 , η1 ⟩ )
√2

14
1
|ψ A ⟩ = (|ξ 1 , η2 ⟩ −|ξ2 , η1 ⟩ )
√2
H e P in evidente commutazione, in
…detti rispettivamente stato simmetrico e stato asimmetrico. Essendo ^
quanto P non trasforma lo stato fisico del nostro sistema, i ket |ψ S ⟩ |ψ A ⟩ costituiscono una base per
qualsiasi stato |Ψ ⟩ del sistema, e dunque:

|Ψ ⟩=α |ψ S ⟩ + β|ψ A ⟩
Il ragionamento può essere esteso per un qualsiasi numero di particelle, e si può dimostrare che:

- Lo stato |Ψ ⟩ di un sistema può essere soltanto o puramente simmetrico o puramente


antisimmetrico.
- Gli stati associati a funzioni puramente antisimmetriche presentano spin semintero, mentre gli stati
associati a funzioni puramente simmetriche presentano spin intero.

Le particelle a spin semintero, che sono dunque descritte, nei sistemi, da autofunzioni antisimmetriche,
sono dette fermioni, mentre le particelle a spin intero, descritte da autofunzioni simmettriche, sono dette
bosoni.

L’isospin
Nella parte 1 abbiamo evidenziato come non esistessero nuclei costituiti da soli due protoni o da soli due
neutroni, sebbene comunque tra essi si sviluppi un’interazione forte. Questo fenomeno, insieme
all’indipendenza dell’interazione forte dalla carica (in quanto l’interazione protone-protone è la stessa tra
neutrone-neutrone e protone-neutrone) e alla quasi uguaglianza della massa del neutrone e del protone,
suggerirono l’ipotesi che protone e neutrone costituiscano per le interazioni forti un doppietto di stati
degenere in energia, che abbiamo indicato più sommariamente con il termine di nucleone. In fondo, l’unico
modo per poter determinare se un nucleone è un protone o un neutrone è facendolo interagire con un
campo elettromagnetico: lo stesso procedimento, d’altra parte, si applica agli elettroni per osservare, in
base alla loro orientazione, se il loro numero quantico di spin m s è pari ad 1/2 o −1/2.
Si è allora portati a pensare come protone e neutrone siano due stati degeneri di uno stesso nucleone,
distinti da una proprietà che indichiamo con il termine di spin isotopico o isospin. Questa quantità è indicata
da un vettore ⃗I agente su uno spazio separato dallo spazio degli spin o dallo spazio dei momenti orbitali
delle particelle, e, come si verifica sperimentalmente, presenta l’algebra di un momento angolare. E’ allora
possibile creare una base, nello spazio dell’isospin, sfruttando il seguente ket:

|I , I 3 ⟩
…dove si è indicato con I il numero quantico associato all’autovalore dell’operatore I 2, cioè la quantità
ℏ2 I ( I + 1 ), e con I 3 il numero quantico associato all’autovalore dell’operatore I z (la componente z di ⃗I ),
cioè la quantità ℏ I 3.
In analogia con lo spin, lo stato di un nucleone è descritto da due diversi stati di isospin I 3 tra loro degeneri:
poiché lo spazio di degenerazione deve avere dimensione 2, e poiché deve valere −I ≤ I 3 ≤ I ,
comprendiamo debba valere:

1 1 1
I = , I 3 = ,−
2 2 2

15
Convenzionalmente, si attribuisce allo stato |12 12 ⟩ lo stato di degenerazione del protone, mentre allo stato

|12 − 12 ⟩ quello dei neutrone. In questo modo si può creare una diretta corrispondenza tra la carica della

particella (espressa in unità di e ) e l’isospin della particella, attraverso la relazione…

1
Q=I 3 +
2

…che è infatti uguale a 0 per il neutrone e 1 per il protone.

Il concetto di isospin può essere esteso a tutte le particelle che mostrino stessa massa ma differenziazione
0 −¿ ¿
di carica. Il pione, ad esempio, può essere trovato in tre stati π +¿, π ,π ¿: ad esso si attribuiscono allora gli
stati di isospin I 3=0,1 ,−1, e la carica è legata ad esso dalla relazione Q=I 3; imponendo un campo
elettrico esterno, si rimuove la degenerazione e i tre pioni possono essere distinti.

Adroni e leptoni
Gli adroni sono tutte quelle particelle capaci di subire l’interazione forte, oltre che l’interazione debole. Si
distinguono dai leptoni, che introdurremo in seguito, che invece sono soggetti alla sola interazione debole.
Mentre abbiamo già accennato alla natura dell’interazione forte nella parte 1, l’interazione debole è stata
vagamente introdotta nell’analisi dei decadimenti β : più avanti ci preoccuperemo di descriverne meglio le
peculiarità di entrambi.
In base ai dati sperimentali, sono adroni le seguenti particelle, insieme alle relative antiparticelle:

- I protoni p e i neutroni n , già noti al lettore.


- I pioni π , per la prima volta introdotti da Yukawa per giustificare la natura dell’interazione forte. I
pioni sono bosoni si spin 0. Essi posseggono una massa di 139 MeV /c 2, e possono avere carica
positiva, negativa e neutra.
- Le particelle η , ω , ρ , ϕ, che non tratteremo.
- Le particelle strane Λ , Σ , K , Ξ , Ω, che introdurremo nei prossimi paragrafi.

Sono invece leptoni le seguenti particelle con le rispettive antiparticelle:

- Gli elettroni e , già noti al lettore.


- I muoni μ, inizialmente confusi per pioni. I muoni sono fermioni di spin 1/2, di massa di
105 MeV /c 2 e carica positiva o negativa.
- I tauoni τ , anch’essi fermioni di spin 1/2, particolarmente massivi (1777 MeV /c 2) e di carica
positiva o negativa.
- I neutrini ν, che, come vedremo, si differenziano in neutrini elettronici, neutrini muonici e neutrini
tauonici a seconda del processo in cui sono coinvolti. Il neutrino è un fermione di spin 1/2, di massa
praticamente trascurabile e carica neutra.

A differenza dei leptoni, che sono tutti fermioni, gli adroni sono divisi tra fermioni e bosoni. Distinguiamo
allora barioni, cioè adroni di spin semintero (fermionici), e mesoni, cioè adroni di spin intero (bosonici).

I barioni
Per barione si intende un generico adrone che sia anche un fermione, di massa pari o superiore a quella del

16
protone. Sperimentalmente, si osserva che, qualsiasi sia il processo nucleare, la differenza tra il numero di
barioni e il numero di antibarioni (cioè il numero di relative antiparticelle) deve conservarsi. Si assegna
allora a barioni e antibarioni un particolare numero quantico, detto numero barionico B, che vale:

- B=+1 per i barioni;


- B=−1 per gli antibarioni;
- B=0 per tutte le altre particelle.

Avendo assunto un numero negativo per gli antibarioni, dovrà allora verificarsi la seguente proprietà:

Legge di conservazione del numero barionico – in ogni processo si conserva la somma algebrica dei numeri
barionici.

Ad esempio, la reazione…
−¿ ¿

p+ p → p+ p+ π +¿+π ¿

…è possibile, in quanto i pioni non sono barioni, dunque abbiamo a sinistra e destra numero barionico 2. Al
contrario, la reazione…
−¿ ¿

p+ p → p+ ṕ+ π +¿+π ¿

…non può verificarsi.


La legge di conservazione del numero barionico è un fenomeno che non è riconducibile ad alcuna
simmetria del sistema fisico, ed è per questo una legge di conservazione piuttosto debole, tanto che si cerca
ancora, seppur senza successo, un processo di decadimento in grado di invalidarla. Ad esempio, si cerca il
possibile decadimento del protone, nella forma:
0

p →e +¿+π ¿

Il protone è tuttavia una particella incredibilmente stabile, e finora non è stato osservato alcun
decadimento protonico. Si osservi che la qual cosa non è valida invece per il neutrone, che tende, quando
libero, a decadere secondo lo stesso processo del decadimento β e con un tempo di dimezzamento di 16
minuti:

n → p+ e−¿+ ν́ ¿ e

Particelle strane
Nel 1947 Rochester e Butler scoprirono, in una camera a nebbia esposta ai raggi cosmici, due eventi le cui
tracce avevano una configurazione a V; un’accurata analisi indicò che le tracce erano state originate dal
decadimento di due particelle ancora sconosciute, oggi chiamate particelle K e Λ . A queste, in seguito a
nuovi studi e allo sviluppo degli acceleratori di particelle si aggiunsero nuove particelle, e avevano tutte in
comune un comportamento bizzarro, tanto che furono chiamate particelle strane.
Le particelle strane presentano sezioni d’urto relativamente elevate, tipiche dei processi nucleari associati
all’interazione forte, ma non ne presentano i tipici tempi di decadimento ( τ ∼10−23 ÷10−24 s ): al contrario,
sono con un tempo caratteristico dell’ordine del ps, tipico dell’interazione debole.
Oggi le particelle strane, di massa più bassa si dividono in due gruppi:

17
- Le particelle Λ , Σ ed Ξ, che sono fermioni di spin 1/2, e la particella Ω , che ha spin 3/2; essendo
adroni di spin semintero sono classificati come barioni, e vengono indicate con il termine di iperoni.
- Le particelle K , che sono invece bosoni, di spin 0; essendo adroni, le particelle K sono classificate
come mesoni.

Ciò che si accorsero gli scienziati Gell-Mann e Nishijima nel 1954, è che la produzione di particelle strane
avveniva sempre in coppia: i prodotti di una reazione nucleare non presentava mai un numero dispari di
particelle strane. Ad esempio, la reazione tra muone e protone può portare ai seguenti risultati:
0 0

π−¿+ p → Λ + K ¿
+¿ ¿
−¿+ K ¿

π−¿+ p → Σ ¿

La qual cosa, tuttavia, non si verifica nei processi di decadimento delle particelle strane, che è invece
dettato da fenomeni di natura debole: ad esempio, Λ0 decade in π−¿+ p ¿, che sono particelle non strane.
Per spiegare il fenomeno, i due scienziati introdussero un nuovo numero quantico analogo al numero
quantico barionico, che prese il nome di stranezza, aggiungendo il seguente postulato:

Legge di conservazione della stranezza – nei processi di interazioni forti ed elettromagnetiche, ma non nei
processi di interazione debole, si conserva la stranezza.

Per quantificare la conservazione della stranezza, Gell-Mann e Nishijima, in base ai dati sperimentali,
svilupparono la seguente relazione:

B S
Q=I 3 + +
2 2

…dove Q è la carica elettrica della particella in unità di e , I 3 il numero quantico associato alla componente
z dell’isospin ⃗I , B è il numero barionico ed S è la stranezza. Spesso i termini B ed S vengono raccolti in una
quantità indicata con Y =B+ S , detta ipercarica.

- Esempio: il protone, in base a quanto imparato, ha isospin 1/2, carica 1 ed è un barione, perciò:

1 1 S
1= + + ⇒ S=0
2 2 2

…dunque la stranezza associata al protone è zero. Analogo discorso per il neutrone e per i pioni.

Il calcolo della stranezza per le particelle strane può avvenire solo attraverso i dati sperimentali e non può
essere dedotto a priori. Come abbiamo detto, tutte le particelle strane sono barioni, ad eccezione della
particella K , che è un mesone. Vi è ancora però una forte incognita associata al problema: come
conoscerne l’isospin per determinarne la stranezza? O viceversa, come conoscere la stranezza per
identificare l’isospin?
Per conoscere l’isospin di una particella bisogna conoscere la dimensione del sottospazio di degenerazione
di isospin entro cui vive la particella. Ad esempio, il sottospazio di degenerazione associato alla coppia

neutrone-protone ha dimensione due, e abbiamo due possibili stati di isospin |12 12 ⟩ |12 − 12 ⟩
ed , in analogia

con lo spin di un elettrone. L’isospin è inoltre strettamente legato alla carica, quindi comprendiamo che le

18
particelle spaziano, nel loro sottospazio di degenerazione, al variano della carica, ma la presenza di
antiparticelle, come vedremo, complica la situazione.
Prendiamo ad esempio in considerazione la particella Λ : dai dati sperimentali si osserva che esso non ha
corrispettive particelle cariche ed è presente solo nella forma Λ0 , perciò gli viene attribuito un unico stato
di isospin I =0 , detto di singoletto. Poiché una reazione tipica che lo riguarda è…

Λ0 → p+ π −¿¿

…per la conservazione del numero barionico, dev’essere anch’esso un barione, ed in base alla formula di
Gell-Mann e Nishijima assume stranezza pari ad S ( Λ )=−1.
Più particolare è invece il caso della particella K , che può avere diversi stati di carica. La sua configurazione
neutra K 0 si osserva prodotta nella reazione…
0 0

π−¿+ p → Λ + K ¿

…che è dettata da un’interazione forte. Poiché in queste condizioni la stranezza deve conservarsi, abbiamo:

S¿

Da cui S ( K 0 ) =+ 1. Analogamente, dalla legge di conservazione del numero barionico si ottiene B ( K 0 )=0 ,
come avevamo già introdotto. In questo modo, dalla formula di Gell-Mann e Nishijima si ottiene l’isospin di
K 0:

B S −1
I 3 ( K 0) =Q− − =
2 2 2

L’espressione di sopra evidenzia un importante risultato: K 0, poiché presenta isospin −1/2, presenta una
degenerazione di isospin analoga a quella della coppia neutrone-protone, sebbene, a differenza di questi,
−¿ ¿ −¿ ¿
presenti anche lo stato K : evidentemente K assume allora una forma analoga a quella del positrone,
cioè l’antiparticella del protone.
Per accorgercene, analizziamo il seguente processo:
+¿ ¿
−¿+ K ¿

π−¿+ p → Σ ¿

0
−¿, Σ ¿
Come si osserva dai dati sperimentali, il gruppo Σ +¿, Σ ¿
costituisce un tripletto di isospin, cioè presentano
un sottospazio di degenerazione di isospin spaziato dai ket |11 ⟩, |10 ⟩, |1−1 ⟩, e dunque I 3 ( Σ ± ,0 )=±1,0.
Imposta allora la conservazione del numero barionico, si ottiene B ¿, e, sfruttando Gell-Mann/Nishijima,

S¿
+¿ ¿
−¿+ K ¿
In questo modo, dalla conservazione della stranezza della reazione π−¿+ p → Σ ¿
, otteniamo:

S¿

…e, da Gell-Mann/Nishijima,

I 3¿

19
Come avevamo intuito, dunque, K e K 0 costituiscono un doppietto di isospin analogo al doppietto
+¿¿

protone-neutrone. Ciò che è dunque è interessante osservare è che, come possiamo notare dal doppietto ¿
, gli stati di un multipletto di isospin presentano la stessa stranezza.
Si può inoltre dimostrare che K forma un doppietto di isospin con l’antiparticella di K 0, cioè Ḱ 0: infatti
−¿ ¿

entrambi presentano stranezza −1 ed isospin pari rispettivamente a 1/2e −1/2. Questi principi non sono
ancora stati confutati, in quanto ancora non si sono osservate reazioni del tipo…
−¿ ¿
+ ¿+K ¿

π−¿+ p → Σ ¿

…che determinerebbero S ¿.
Infine, diamo un breve sguardo alle particelle Ξ e Ω . Le particelle Ω esistono in unico stato carico, quello
negativo Ω , perciò è evidente ad esse sia associato un unico stato di isospin I 3=I =0; dalla reazione…
−¿¿

−¿ ¿

Ω −¿→ Λ+ K ¿

…si può dedurre B ¿, e dunque S ¿. Le particelle Ξ possono invece trovarsi nello stato Ξ 0 e Ξ , ma
−¿¿

mancano dello stato positivo, pertanto costituiscono un doppietto di isospin I 3=± 1/2 . Dalle reazioni…
−¿¿

Ξ−¿→ Λ+ π ¿

Ξ 0 → Λ+ π 0

…osserviamo B ( Ξ ± )=1 e dunque S ( Ξ ± )=−2 .

Qui di seguito riassumiamo, in tabella, le nostre analisi effettuate sulle particelle strane:

20
I leptoni
Per leptone si intende un fermione che, a differenza del barione (che è un adrone), non risente
dell’interazione forte. Come si osserva sperimentalmente, sono leptoni il muone μ, il neutrino ν , il tauone τ
e l’elettrone e e le relative antiparticelle. Come per i barioni, sperimentalmente si osserva che la differenza
tra il numero di leptoni e il numeri di antileptoni è conservata in ogni processo nucleare. Si introduce allora
il numero leptonico L che vale:

- L=+1 per i leptoni;


- L=−1 per gli antileptoni;
- L=0 per tutte le altre particelle.

…da cui discente immediatamente la…

Legge di conservazione del numero leptonico – in ogni processo si conserva la somma algebrica dei numeri
leptonici.

La legge di conservazione del numero leptonico ha però un’importante precisazione che non possiamo
trascurare. Fino ad ora abbiamo sempre trattato i neutrini come particelle elementari tutte uguali: eppure,
ciò che si osserva sperimentalmente, è che alcuni neutrini tendono ad interagire solo con determinati di tipi
di particelle.
Il fenomeno fu osservato nel 1962 da scienziati come G. Danby, che analizzarono i muoni prodotti dal
decadimento di alcuni neutrini in mezzi materiali:

ν+ n→ μ−¿+ p ¿

ν́+ p → μ +¿+n ¿

Questi neutrini, tuttavia, non interagivano mai con gli elettroni, dunque doveva trattarsi di neutrini ben
diversi da quelli prodotti nel decadimento β . Si volle allora dividere i neutrini in due tipi: i neutrini
elettronici ν e e i neutrini muonici ν μ. Si osservi che, come si verifica sperimentalmente, a muoni ed elettroni
e relativi neutrini sono associati diversi numeri leptonici, che tendono a conservarsi in maniera separata.
Sarà perciò necessario differenziare il numero quantico leptonico elettronico Le e il numero quantico
leptonico muonico Lμ . Ad esempio, il processo…
−¿+ ν μ ¿

μ−¿ →e ¿

…è proibito, in quanto, sebbene si conservi il numero leptonico muonico, abbiamo a sinistra Le =0 e a


destra Le =1. Può invece avvenire, ad esempio, la seguente reazione:

ν μ +n → μ−¿+ p ¿

Nel 1975 si aggiunse, alla “famiglia” dei neutrini e dei leptoni, una nuova coppia di particelle. Attraverso
l’acceleratore SPEAR del laboratorio SLAC si riuscì ad osservare, al di sopra della soglia di 3.65 GeV di
energia del centro di massa, una particella particolarmente pesante, tendente a decadere in adroni come il
protone, cioè il tauone, la cui vita media è molto breve, pari a circa 2.9 ⋅10−13 s . Anche in questo caso, si
osservava che i neutrini associati a decadimenti tauonici non interagivano con altre particelle: fu perciò
necessario aggiungere un nuovo neutrino, il neutrino ν τ , e introdurre un numero quantico leptonico
tauonico Lτ .
21
In base alle loro affinità, i leptoni vengono divisi dunque in tre “famiglie”, indicate con la seguente
simbologia:

Il modello a Quark
Introduzione
Nel 1964, per giustificare e schematizzare le numerose caratteristiche degli adroni, Gell-Mann ideò un
modello che prese il nome di modello a quark, in seguito rivelatosi corretto.
Secondo il modello, gli adroni sono costituiti da particelle più piccole dette quark, che, insieme ai leptoni,
possono essere considerati puntiformi e fermioni di spin 1/2. Ogni quark presenta poi un antiquark, che
possegga la stessa massa ma tutti i numeri quantici opposti: in particolare, ogni quark è descritto da una
carica, un numero barionico, una stranezza e un isospin caratteristico.
Nella prima formulazione del modello a quark, si osservò fossero necessari almeno tre tipi di quark per
poter “costruire” i possibili adroni osservati: a questi fu dato il nome di quark up u, quark down d , e quark
strange s, i cui numeri quantici sono riassunti dalla seguente tabella:

Quark Q B S I3 s
u 2/3 1/3 0 1/2 1/2
d −1/ 3 1/3 0 −1/2 1/2
s −1/ 3 1/3 −1 0 1/2
Come si può osservare, necessariamente, affinché le particelle potessero detenere carica intera (in unità di
e ) pur venendo costituiti da gruppi di particelle più piccoli, i quark dovevano possedere una carica
frazionaria.
Attraverso il modello a quark si poteva giustificare la differenziazione degli adroni in diversi aggregati di
quark, la cui somma dei numeri quantici associati restituiva il numero quantico complessivo associato alla
particella. Ad esempio, il protone e il neutrone, che presentano carica pari ad 1 e 0 rispettivamente,
numero barionico pari ad 1, stranezza nulla e isospin pari ad 1/2 e −1/2, possono essere immaginati
come:

p=uud

n=udd

Analogamente, i pioni, che sono più leggeri di neutroni e protoni, possono essere costruiti nel seguente
modo:

π +¿=u d́ ¿

π−¿= ú d ¿

π 0=u ú , d d́

Si osservi come il pione π 0 possa essere generato sia da una coppia u ú che da una coppia d d́ , che in natura
sono distribuiti equamente: in linea di principio sarebbe possibile anche una configurazione s ś , ma è più
logico pensare che particelle dello stesso multipletto di isospin siano generate dagli stessi tipi di quark.
Oggi i quark scoperti sono ben più dei tre u , s , d ideati nella teoria di Gell-Mann (oggi detti quark leggeri):
oltre ai quark up, down e strange, sono infatti stati osservati i quark charm c , botton (o beauty) b e top (o
truth) t , detti quark pesanti. Questi ultimi tre hanno, come i primi, spin 1/2, numero barionico 1/3, carica
22
2/3 (nel caso dei charm e top) o −1/ 3 (nel caso bottom), ma non presentano il numero quantico di
stranezza: il quark c è descritto da un numero quantico detto di charm, il quark b da un numero quantico
detto di beauty e il quark t da un numero quantico detto di truth, da cui prendono il nome. I numeri
quantici distintivi di ogni quark vengono detti sapore (flavour).

Nella teoria dei quark la formula di Gell-Mann e Nishijima continua a valere, assumendo la forma…

Y
Q=I 3 +
2

…dove in Y , detta ipercarica, sono riassunti tutti i numeri quantici descritti fino ad ora:

Y =B+ S+ c+ b+t

In particolare, B ed S sono i classici numeri barionici e di stranezza, mentre c , b e t sono i numeri di


charme, beauty e truth. Per ora, tuttavia, ci limiteremo all’analisi solo dei quark leggeri, restringendo il
nostro raggio d’azione ai soli numeri quantici B ed S.

Supermultipletti
Analizziamo la differenziazione dei mesoni e dei barioni leggeri (cioè costituiti solo da quark leggeri) al
variare dei quark che li costituiscono, ordinandoli in un grafico che descrivi l’andamento dell’ipercarica
Y =B+ S , ottenendo i cosiddetti supermultipletti.
Nei seguenti grafici, abbiamo posto a sinistra i supermultipletti mesonici (per i quali B=0 ed Y =S ),
costituenti il cosidetto nonetto, e a destra i supermultipletti barionici, costituenti un ottetto: come si può
osservare, tutte le rette parallele all’asse delle ascisse descrivono multipletti di isospin.

Ciò che è interessante è che tutti questi multipletti sono costituiti, nel caso dei mesoni, da una coppia
quark-antiquark nella forma q q́, mentre, nel caso dei barioni, da una terzina nella forma qqq . Non si sono
mai osservate strutture adroniche con più di tre quark o con quark del tipo qq , segno che vi è un evidente
mancanza di stabilità in queste configurazioni. Si osservi inoltre che, poiché un antiadrone è lo stesso
adrone ma costituito da relativi antiquark, si ha che un barione ha una struttura del tipo q́ q́ q́,
necessariamente barioni e antibarioni sono particelle diverse; al contrario, un antimesone, costituito da una
struttura del tipo q́ q, può coincidere con il relativo mesone.
I due ottetti di sopra sono giustificati dalla teoria dei gruppi, che richiede una trattazione che esula dagli
scopi di questo corso. Basti sapere che, nella moderna teoria delle particelle, mesoni e barioni sono in

23
corrispondenza con gli elementi del gruppo SU (3 ) (il gruppo delle matrici 3 ×3 con determinante unitario),
le cui particolari combinazioni matriciali generano i multipletti analizzati. In particolare, per i mesoni,

3 ⊗ 3́=8⊕ 1

…dunque otteniamo dalla combinazione di un quark e un antiquark un ottetto e un singoletto, che


costituiscono il nonetto di sopra. Riguardo invece i barioni,

3 ⊗ 3 ⊗3=10 ⊕8 ⊕ 8 ⊕ 1

Abbiamo dunque un singoletto, due ottetti e un decupletto, quest’ultimo descritto dalla seguente struttura:

…dove con l’asterisco ¿ abbiamo indicato particolari stati eccitati. In particolare, la particella Ω , proprio
dall’analisi della simmetria decupletto prevista dalla teoria dei gruppi fu teorizzata diversi anni prima la sua
scoperta.

Mesoni e barioni nel modello a quark


Grazie al modello a quark, è possibile classificare in maniera semplice i diversi stati associati a mesoni e
barioni:

- Come abbiamo evidenziato nel paragrafo precedente, i mesoni sono costituiti da strutture del tipo
q q́. Poiché tutti i quark hanno spin s=1/2 , lo spin totale del mesone potrà essere 0 o 1/2, il che
spiega la loro natura bosonica. La parità associata al mesone sarà pari al prodotto delle parità dei
due quark a cui va moltiplicato il termine (−1 )l, dove l indica il momento angolare relativo tra i due
quark:

P ( q q́ )=P ( q ) P ( q́ ) (−1 )l=(−1 )l+1

± ±
,2 ¿
Dunque gli stati dei mesoni saranno del tipo 0−¿,1 ,…
E’ interessante notare che, a parità di sapore, sperimentalmente si osserva come mesoni di maggior
momento angolare totale hanno massa maggiore.

- I baarioni sono invece costituiti da strutture del tipo qqq . Lo spin totale potrà allora assumere i
valori 1/2 e 3/2. Anche in questo caso, a parità di altre condizioni, gli stati barionici a massa più
bassa corrispondono a quelli ai quali corrispondono momenti angolari orbitali bassi. La parità,
ottenuta moltiplicando le parità intrinseche dei tre quark, è sempre positiva.

24
La verifica sperimentale dell’esistenza dei quark attraverso il deep inelastic scattering
Il modello a quark proposto da Gell-Mann permetteva di descrivere in maniera semplice le proprietà degli
adroni, ma ovviamente una simile teorica richiedeva una conferma sperimentale; gli esperimenti di
Hofstader avevano già evidenziato come la sezione d’urto associata ai processi di scattering con adroni
mostrassero fattori di forma diversi da 1, segno che il protone non poteva essere considerato puntiforme,
ma ancora non vi era prova della presenza dei quark. Quest’ultima arrivò nel 1965 in seguito ad una serie di
esperimenti di scattering tra elettroni e neutroni.
Ciò che si poteva osservare era la frammentazione, in seguito all’urto con elettroni di alte energie ( 10 GeV
), dei neutroni e dei protoni in una moltitudine di particelle, che furono indicate da Feynman con il termine
di partoni. Dall’analisi della sezione d’urto, i partoni dovevano presentare uno spin pari ad 1/2 e,
incredibilmente, una carica frazionaria.
Fu Bjorken ad identificare i partoni con i quark previsti da Gell-Man. E’ importante sottolineare che i quark
non sono mai osservati liberi singolarmente: quello dei partoni era una sorta di “mare” di quark in
interazione. Proprio per questo diventa impossibile riuscire ad identificare con quale quark fosse avvenuta
l’interazione nello scattering con l’elettrone e quale fosse l’impulso del quark rispetto a quello del protone o
del neutrone urtato.
Introduciamo allora la seguente quantità, detta variabile di Bjorken, definita come il rapporto tra l’impulso
del quark interagente e del protone:

p quark
x=
p protone

Indichiamo inoltre con u ( x ) e d ( x ) la distribuzione di impulsi osservata sperimentalmente dei partoni che in
seguito sarebbero stati identificati con il quark up e il quark down (nei neutroni e nei protoni il quark
strange non è presente), dette parton distribution function (pdf); ciò che si osserva sperimentalmente (non
sarebbe stato potuto determinarlo teoricamente in alcun modo), è che esse variano con il seguente
andamento grafico:

Le due curve sono definite tra 0 ed 1, come ovviamente ci si aspetta, in quanto il quark può al più assumere
tutto l’impulso del protone. Ci si aspetterebbe che, sommando (o meglio, integrando, nell’ipotesi di avere
abbastanza punti per una curva continua) su tutti i punti della somma delle due curve si otterrebbe…

25
1

∫ dx [ u ( x )+ p ( x ) ]= p protone
0

Invece, ciò che si osserva sperimentalmente è che…


1

∫ dx [ u ( x )+ p ( x ) ]=50 % p protone
0

La qual cosa deriva dal fatto che i singoli quark analizzati non sono mai liberi, ma sempre in interazione con
gli altri quark del “mare” di partoni che si viene a sviluppare in seguito all’urto. E’ proprio attraverso l’analisi
delle interazioni tra quark che si è arrivati alla comprensione del funzionamento dell’interazione forte,
attraverso delle nuove particelle mediatrici, i gluoni, che introdurremo nei prossimi paragrafi.

Il colore
Dall’analisi del decupletto di pagina 21 si evidenziano particelle nello stato uuu, ddd e sss, che potrebbe
sembrare in contraddizione con il principio di esclusione di Pauli: i quark sono fermioni, dunque non
possono occupare uno stesso stato mantenendo tutti i numeri quantici. Il problema fu risolto nel 1964 da
Greenberg, che introdusse un nuovo grado di libertà, che prese il nome di colore. Nella teoria di Greenberg,
ogni quark di un certo sapore può esistere in tre diversi stati di colore, indicati con rosso R , verde G e blu B
; analogamente, ciascun antiquarak esiste nei tre stati coniugati di colore, cioè l’antirosso Ŕ , l’antiverde Ǵ e
l’antiblu B́ . La comprensione del funzionamento del colore, analizzata nella cromodinamica quantistica o
QCD, esula dagli scopi di questo corso, ma ci basta sapere che il colore gioca, per le interazioni forti, un
ruolo equivalente a quello della carica elettrica per le interazioni elettromagnetiche.
Si osservi che il colore non può essere rivelato dall’analisi del semplice adrone, che risultano
complessivamente neutri (o “bianchi”): mesoni e barioni vengono perciò detti singoletti di colore.

Il gluone
Secondo la cromodinamica quantistica, le interazioni tra quark, che permettono di formare i gruppi da due
e da tre in grado di generare mesoni e barioni, sono rese possibili attraverso delle particelle mediatrici,
dette gluoni. I gluoni non hanno carica elettrica, ma presentano colore. Quando due quark colorati
interagiscono tra loro scambiandosi un gluone c’è, dunque, un flusso di colore tra loro.

Analogamente alla carica elettrica, in cromodinamica quantistica la carica di colore dev’essere conservata. I
gluoni sono perciò bicolorati, nella forma q q́, in quanto devono portare il colore di entrambi i quark che
risentono dell’interazione. Dalla teoria dei gruppi,

3 ⊗ 3́=8⊕ 1
26
…lo stato di singoletto è però da scartare, in quanto, come i quark, non si osservano gluoni liberi. Esistono
perciò otto diversi gluoni.

Getti di adroni
Come abbiamo più volte sottolineato, non è possibile osservare sperimentalmente quark e gluoni liberi.
Sperimentalmente, per rivelarne la presenta, si analizzano allora i cosiddetti getti di adroni (jets).
I getti di adroni sono particolari flussi di particelle adroniche prodotte in seguito a reazioni come
l’annichilazione di un elettrone e un positrone, ad energie dell’ordine del GeV : i quark prodotti in seguito
alla collisione tendono a riorganizzarsi formando numerosi adroni che “hanno memoria” dell’impulso del
quark originale.

Il processo complessivo è dunque nella forma…


−¿→adroni ¿

e +¿+e ¿

−¿¿

In esperimenti di urto e +¿e ¿


in acceleratori come l’ADA e l’ADONE, si poteva osservare come la sezione
−¿→ adroni ¿
+¿e ¿
d’urto del processo e mantenesse un rapporto costante con la sezione d’urto associata ad un
−¿ ¿
+¿ μ ¿
−¿→ μ ¿
processo più semplice e noto, cioè la reazione e +¿e ¿
. In particolar modo, si osservava la seguente
relazione:

R=σ ¿ ¿

…dove Q i indica la carica dei quark coinvolti. Poiché l’esperimento raggiungeva energie necessarie alla
“produzione” di soli quark leggeri, ci si aspettava di osservare un R pari a...

1 1 4 2
R=∑ Q 2i =Q2s +Q2d +Q2u = + + =
i 9 9 9 3

Invece, il valore sperimentale osservato era di R=2. Il risultato consisteva in una prova sperimentale
dell’esistenza del colore: ogni quark poteva trovarsi in tre diversi stati R , G , B, dunque il termine R andava
moltiplicato per la relativa degenerazione, pari a 3.
L’esperimento dei jets fu ripetuto alla fine degli anni ’70 con l’acceleratore HERA, ad energie maggiori (
30 GeV ), e si osservavano stavolta tre getti di adroni.

27
Il fenomeno può essere spiegato se si immagina l’irraggiamento, da parte di un quark prodotto in seguito
+ ¿¿

all’annichilazione e−¿ e ¿, di un gluone, in grado a sua volta di portare a nuove frammentazioni di adroni.
Ovviamente nulla esclude la possibilità di trovare quattro, cinque o più jets, ma sono fenomeni descritti da
probabilità sempre più piccole e di ordine maggiore.

L’interazione debole di leptoni e quark


Storicamente, l’interazione debole tra leptoni fu introdotta per giustificare una serie di fenomeni di non
conservazione dei numeri quantici. In particolare, non si poteva giustificare in alcun modo, rigorosamente
attraverso l’interazione forte, i processi di cambiamento di stranezza nelle particelle strane, le variazioni di
sapore dei quark, o i processi coinvolti nella “produzione” di neutrini, che non posseggono né carica né
colore e non sono dunque soggetti né alla radiazione elettromagnetica, né all’interazione forte.
−¿¿
Ad esempio, il decadimento β , che, come abbiamo più volte introdotto nella parte 1, porta alla
trasformazione di un neutrone in un protone,

n → p+ e−¿+ ν́ ¿
e

…cambia il sapore di un quark d del neutrone che si trasforma in un quark up rendendo il neutrone un
protone. Dalla presenza dell’antineutrino elettronico, si comprende come il processo possa essere
giustificato da un’interazione tra neutrino e i quark del neutrone, che sono entrambi leptoni.
Non tutti i processi deboli ovviamente coinvolgono neutrini: il decadimento dell’iperone Λ infatti produce:

Λ → p+ π −¿¿

…portando ad una variazione della stranezza da −1 a 0; avviene infatti la trasformazione di un quark s in


un quark u.

Si suole dividere le interazioni deboli in tre tipi:

- Leptoniche, quando sono coinvolti soltanto leptoni, come…

−¿+ ν́ e + νμ ¿

μ−¿ →e ¿

- Semileptoniche, quando sono coinvolti leptoni ed adroni, come…

n → p+ e−¿+ ν́ ¿ e

- Non leptoniche, quando sono coinvolti soltanto adroni, come…


28
0 + ¿¿

K +¿→ π + π ¿

Come l’interazione forte, che è mediata dai gluoni, anche l’interazione debole è attuata attraverso
particelle mediatrici: gli esperimenti del CERN del 1983 con urti protone-antiprotone (ad energie del centro
di massa dell’ordine del centinaio di 540 GeV ) rivelarono la presenza di tre particelle incredibilmente
massive, che presero il nome di particella W (in due possibili stati carichi W ± ) e particella Z (neutra), le cui
masse sono:

m ( W ± ) =80.41 GeV /c 2

m ( Z 0 ) =91.19 Gev/c 2

In questo modo si può comprendere come le interazioni deboli siano a cortissimo range: immaginando la
distanza d’interazione dell’ordine della lunghezza d’onda Compton,


R= ∼2⋅ 10−3 fm
mc

Inoltre, come evidenziavano i dati sperimentali, le particelle dovevano essere bosoni di spin pari ad 1.
A seconda del tipo di particella mediatrice, le interazioni vengono dette di corrente carica (se mediate da W
−¿+ ν́ e + νμ ¿
) o di corrente neutra (se mediate da Z ). La reazione μ−¿ →e ¿
è un esempio di reazione a corrente
carica, in quanto mediata da una particella W −¿: ¿

Si osservi come per le particelle leptoniche i vertici dell’interazione siano uguali.


Un altro esempio di reazione a corrente carica riguarda il cambio dei sapori dei quark, come ad esempio nel
−¿¿
seguente decadimento β :

29
Si osservi come il decadimento β sia stato già analizzato nella parte 1 e supposto come un’interazione di
contatto: il modello di interazione debole ovviamente invalida questa teoria, eppure il modello di forza di
contatto è particolarmente buono dal punto di vista sperimentale.
La ragione sta nella natura dell’interazione debole e del quanto dell’interazione debole, che è
particolarmente massivo. Come ricordiamo dalla nostra trattazione dei diagrammi di Feynman, il termine di
propagatore è nella forma…

1
F∝
q + M2 c 2
2

…dove M è la massa del mediatore e q è l’impulso trasferito. Nell’ipotesi in cui M è molto grande, q può
essere praticamente trascurato, e il fattore del propagatore diventa una costante: in questo senso, le
particelle sembrano non mostrare una particella mediatrice, come se l’interazione avvenisse, appunto, al
contatto.

Come ricordiamo, la forza di un’interazione presenta il fattore α associato al tipo di processo in gioco, a sua
volta dipendente da g2; negli anni ’60 ci si chiese se la costante di accoppiamento fosse la stessa per leptoni
e quark, e i dati sperimentali rivelarono risultati sorprendenti.
Ciò che si osservava inizialmente, quando i quark pesanti non erano ancora conosciuti, era una tendenza
all’avvenire di processi che portassero alle trasformazioni di quark (o antiquark) u in quark (o antiquark) d ,
ma non si manifestavano processi del tipo u → s o d → s. Il fenomeno prese il nome di simmetria leptoni-
quark, e portò gli scienziati a supporre, come i leptoni, anche i quark si organizzassero in famiglie, del tipo:

( ud)(?s )
Il modello rivelò, all’aggiungersi di nuovi dati sperimentali, tuttavia alcune incongruenza. Ad esempio,
iniziarono ad osservarsi processi del tipo s →u , come…
−¿+ ν́ e ¿

Σ−¿→ n+ e ¿

…e che avessero inoltre diverse costanti di accoppiamento rispetto ai processi leptonici e tra quark. In
particolar modo, le costanti associate ai seguenti vertici,
−¿ ¿

μ−¿+ ν →ν + e
μ e ¿

d +u → ν e + e−¿¿

s+u → ν e + e−¿¿

…sono tutte differenti.


Per giustificare l’evidenza sperimentale senza tuttavia perdere l’idea di una costante di accoppiamento
uguale per tutte le interazioni tra quark e tra leptoni, nel 1963, Nicola Cabibbo suppose le famiglie di quark
in interazione debole non fossero costituite da singoli quark, ma particolari combinazioni di questi ultimi
(quark mixing). In particolar modo, poiché al tempo non erano ancora conosciuti i quark pesanti, suppose le
famiglie andassero organizzate nel seguente modo:

( du )(?s )
' '

30
Dove:

d ' =d cos θ c + s sin θc

s' =−d sin θc + s cos θc

L’angolo θc è detto angolo di Cabibbo, e, in base ai dati sperimentali, mostrò essere circa pari a θc ∼ 13.1° :
in questo modo diventavano osservabili anche le transizioni u → s, in quanto i termini d ' avevano una
2
probabilità (seppur piccola, poiché sin θc =0.05 ) di rivelarsi dei quark s. Inoltre si riusciva ad unificare la
costante accoppiamento: semplicemente, nei processi leptonici il fenomeno era dominato da un
coefficiente gw , mentre nei processi a quark da un coefficiente gw cos θc o gw sin θc .
Per completare il doppietto del quark s, nel 1970 gli scienziati Glashow, Iliopoulos e Maiani introdussero il
quark charm c , che furono poi scoperti nel 1974 in due esperimenti paralleli allo SLAC e a Brookhaven in
seguito alla reazione…
−¿+ X¿

p+ Be →e +¿+e ¿

…dove X è una particella costituita da un quark e un antiquark charm, anche detta particella J /ψ , il cui
comportamento era analogo a quello di un mesone. Si osservi che Glashow-Iliopoulos-Maiani teorizzarono
il quark charm per giustificare l’assenza di correnti neutre in grado di cambiare il sapore di un quark.

Con la scoperta dei quark pesanti 3 e l’aggiunta di un nuovo membro alla famiglia dei doppietti di quark
ovviamente la teoria del quark mixing andava riorganizzata. Sulla scia del lavoro di Cabibbo, Kobayashi e
Maskawa, teorizzarono le seguenti tre famiglie:

u c t
( )( )( )
d' s ' b'

Dove le combinazioni di quark d ' , s ' e b ' possono essere ottenuti dalla seguente matrice di trasformazione,
detta matrice Cabibbo-Kobayashi-Maswaka:

d' V ud V us V ub d

( )(s ' = V cd V cd V cb s
b' V td V ts V tb b )( )
Si osservi che la matrice (unitaria per questioni probabilistiche) è costituita dai seguenti coefficienti:

V ud V us V ub 0.97 0.23 0.004

( V cd V cd V cb
V td V ts V tb
=
)(
0.23 0.97 0.04
0.008 0.04 1 )
3
I quark t e b furono in realtà teorizzati a priori per “simmetria” con i tre doppietti leptonici da Kobayash e Maskawa.
La riprova sperimentale sarebbe arrivata nel 1977 con la scoperta del quark botton, nella reazione
−¿+ X ¿

p+ Be → μ+¿+ μ ¿ (dove X è una particella costituita da un quark e un antiquark b ) e nel 1994 con la scoperta del
quark top nella reazione p+ p →t t́ . Entrambe le scoperte avvennero nei Fermi lab, dove furono raggiunte le energie
di 9.4 GeV e (174 GeV ) rispettivamente.
31
…che mostra dunque come, a conti fatti, le reazioni del tipo u ↔ d , s ↔ c e t ↔ bsiano comunque le più
favorite, seppur non le uniche. Si osservi che V tb è pari ad 1 (nei limiti degli errori sperimentali), dunque la
quasi totalità dei quark top decade rapidamente nei quark botton, rendendo difficile la rivelazione di questi
primi.

Il teorema CPT e la violazione di CP


In passato abbiamo introdotto un’importante simmetria del sistema, cioè la parità, conservata in quasi tutti
i processi nucleari, ad eccezione, come abbiamo visto, delle interazioni deboli.
In realtà quella della parità costituisce solo una delle principali simmetrie di un sistema, spesso non
conservate singolarmente, ma nel complesso: parliamo delle simmetrie di carica e di inversione temporale.
Per comprenderle, introduciamo i seguenti operatori:

- L’operatore di coniugazione di carica, che, operando sullo stato della particella, restituisce lo stato
della sua antiparticella, cioè uno stato con tutti numeri quantici invertiti:

C|ψ ⟩=|ψ́ ⟩

- L’operatore di inversione temporale, che cambia il segno del tempo allo stato di una particella
senza modificarne la parte posizionale, nella forma:

T |ψ ( t ) ⟩ =|ψ (−t ) ⟩

Si può allora dimostrare il seguente teorema:

Teorema CPT – Qualunque operatore hamiltoniano che sia invariante per trasformazioni di Lorentz è
anche invariante sotto l’applicazione successiva, in qualunque ordine, degli operatori C , P e T , anche se
non lo fosse sotto C , P o T separatamente.

Il teorema inoltre implica come, se una o due di queste simmetrie fosse violata, lo sarebbero anche le altre,
complessivamente, non vi sia violazione di CPT . Inoltre, dal teorema si può dimostrare come particelle e
relative antiparticelle debbano detenere la stessa massa e gli stessi tempi di decadimento.
Come abbiamo già imparato, la parità non è conservata nelle interazioni deboli, ma questo non significa
non sia conservata la parità unita alla coniugazione di carica, cioè gli autovalori dell’operatore CP : come
mostreremo, la violazione c’è, ma è “piccola”.
Per mostrare la cosiddetta violazione CP , riprendiamo una reazione già analizzata in passato, cioè il
decadimento dei kaoni K 0, osservato per la prima volta nel θ−τ puzzle. I kaoni sono mesoni, dunque
possono avere parità positiva e negativa: dai dati sperimentali essi si rivelano tuttavia mesoni pseudoscalari,
−¿¿
cioè caratterizzati da uno stato 0 , perciò:

P|K 0 ⟩ =−|K 0 ⟩

Perciò, applicando l’operatore C , otteniamo:

CP| K 0 ⟩ =−|Ḱ 0 ⟩

Appare dunque evidente che |K 0 ⟩ non sia un autovettore dell’operatore CP , e con un analogo discorso si
può mostrare nemmeno |Ḱ 0 ⟩ lo sia. Sono però autovettori di CP , di autovalori rispettivamente 1 e −1, le
seguenti combinazioni lineari:

32
1
|K 1 ⟩ = (|K 0 ⟩ +|Ḱ 0 ⟩ )
√2
1
|K 2 ⟩ = (|K 0 ⟩ −|Ḱ 0 ⟩ )
√2
I due stati, simili alle combinazioni di quark viste nel paragrafo precedente, non sono da associare a due
particelle tale che una sia l’antiparticella dell’altra, in quanto C|K 1 ⟩ ≠| K 2 ⟩ : presentano dunque diverse
masse e diversi tempi di decadimento.
−¿¿

Come abbiamo imparato nell’analisi del θ−τ puzzle, i kaoni possono decadere o in una coppia π +¿ π ¿ o in
0

una terzina π +¿ π ¿, dunque gli stati entangled |K 1 ⟩ e |K 2 ⟩ potranno generare stati del tipo ¿ o ¿.
−¿π ¿

Analizziamone la CP rifacendoci a quanto imparato a pagina ???:

P¿
CP ¿
−¿¿

…dove, nell’ultimo passaggio, abbiamo sfruttato la relazione tra quark e antiquark π́ +¿= π ¿
e π́ 0=π 0 e
l’inversione spaziale ¿. Analogamente,

P¿
CP ¿

Dunque gli stati ¿ e ¿ presentano rispettivamente una CP positiva e negativa; se la CP si conservasse, ci


aspetteremmo che le transizioni consentite sono esclusivamente le seguenti:

|K 1 ⟩ →¿
|K 2 ⟩ →¿
Nel 1964, tuttavia, Fitch, Cronin e Turlay mostrarono la non validità della relazione di sopra. Sfruttarono, a
Brookhaven, fasci di K 0 prodotti dall’urto a 30 GeV di protoni con del berillio. In genere, il fascio
prevedeva una combinazione di |K 1 ⟩ e |K 2 ⟩ , ma il tempo di dimezzamento associato a |K 2 ⟩ è più grande,
dunque dopo un tempo sufficientemente lungo erano soltanto combinazioni a stato |K 2 ⟩ a sopravvivere.
Attraverso un opportuno apparato sperimentale, si osservava il decadimento delle particelle a stato |K 2 ⟩ in
pioni ma, sorprendentemente, si osservava una piccolissima percentuale di decadimenti |K 2 ⟩ →¿. In
particolare,
−¿
π
+¿ ∼ 10 −3 ¿
numero decadimenti totali
numero decadimenti π ¿

Vi è quindi una violazione, seppur non molto frequente, della conservazione della CP : conseguentemente,
nemmeno gli autovalori di T devono conservarsi affinché, complessivamente, TCP sia conservato.
Per giustificare la “piccola” violazione, si suppose come |K 1 ⟩ e |K 2 ⟩ fossero in realtà stati sovrapposti di
ulteriori stati, che presentassero piccole “contaminazioni” in grado di violare la CP , nella forma:

1 1
|K s ⟩ = 2 (|K 1 ⟩ + ε |K 2 ⟩ ) = 2
( ( 1+ ε )|K 0 ⟩ + ( 1−ε )|Ḱ 0 ⟩ )
√1+|ε| √ 2 √ 1+|ε|
1 1
|K L ⟩= 2 ( ε|K 1 ⟩ +|K 2 ⟩ ) = 2
( ( 1+ε )|K 0 ⟩−( 1−ε )|Ḱ 0 ⟩ )
√ 1+|ε| √ 2 √ 1+|ε|
La violazione della CP ha inoltre portato ad alcune variazioni nella matrice Cabibbo-Kobayashi-Maswaka,
portando all’introduzione di termini immaginari.
33
Teoria unificata elettrodebole e il bosone di Higgs
Negli anni ’60, gli scienziati Glashow-Weinberg-Salam mostrarono come conciliare le transizioni deboli a
correnti neutra e carica con le radiazioni elettromagnetiche. In particolar modo mostrarono come la
costante di accoppiamento e (la carica nell’interazione elettromagnetica) e le costanti di accoppiamento gW
e gZ (associate alle correnti cariche e neutre) fossero legate dalle seguenti relazioni:

e=gW sin θW =gZ cos θW

…dove θW era un particolare parametro detto angolo di Weinberg. Affinché la teoria funzionasse, tuttavia,
era previsto l’inserimento di una gauge appropriata (che non variasse la lagrangiana del sistema) valida solo
per mediatori privi di massa (come avviene nel caso del fotone), in contrasto con la presenza di una grande
massa associata alle particelle W e Z . Il problema sarebbe stato risolto nel 1964 con Higgs, Brout ed Englert
che svilupparono un modello teorico di “generazione” di massa, detto meccanismo di Higgs.
Secondo Higgs, le particelle sono immerse in un campo a centrale a simmetria cilindrica la cui forma è la
seguente:

A questo campo è inoltre associato uno stato di vuoto, dalla cui promozione si genera una particella, detta
bosone di Higgs H . Questa particella, in seguito all’interazione con dei mediatori fondamentali W 1 , W 2 ,W 3
e B porterebbe alla realizzazione dei bosoni W ± , Z e il fotone, donando loro massa.
Secondo lo stesso meccanismo, il bosone di Higgs sarebbe in grado di fornire massa a tutti gli altri fermioni.
Il bosone di Higgs sarebbe stato scoperto solo nel 2012 a LHC, in collisione protone-protone ad energia di
7 ÷ 8 TeV , attraverso le seguenti reazioni:

34
…e il bosone è stato rivelato dall’analisi dei suoi decadimenti, generalmente in coppie di fotoni o leptone-
antileptone.

Oltre il modello standard


Ancora oggi sono aperte numerose questioni associate alla non totale completezza del modello standard,
che qui riportiamo brevemente.
- Il modello standard riesce ad unificare l’interazione forte, debole e l’interazione elettromagnetica,
ma non tiene conto della quarta forza fondamentale da noi conosciuta, cioè la forza gravitazionale.
- Numerosi fenomeni di conservazione, come la conservazione del numero barionico, non sono
associati ad alcun principio fisico ma solo ad osservazioni sperimentali.
- Nel modello non è inclusa la cosiddetta materia oscura, cioè un apparente materia non osservabile
sperimentalmente responsabile della “stabilità” delle galassie.

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