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LA Crisi Della Fisica Classica

Fisica (StuDocu University)

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LA CRISI DELLA FISICA CLASSICA


IL CORPO NERO E L’IPOTESI DI PLANCK

Il corpo nero è un oggetto capace di assorbire completamente onde elettromagnetiche di qualunque


lunghezza d’onda, esso in laboratorio è costituito da un oggetto cavo provvisto di un piccolo foro e
mantenuto a una temperatura uniforme e costante.

- le pareti emettono e assorbono radiazioni elettromagnetiche


- alcune di esse fuoriescono dal foro

Lo spettro o distribuzione spettrale cambia a seconda della temperatura e non dipende dalla composizione
chimica delle pareti o dalle dimensioni del foro.

Il grafico è dato dalla lunghezza d’onda e dalla potenza irradiata.


�㕃 �㕊
Il valore della distribuzione spettrale è dato dalla �㔴∆�㔆, l’unità di misura è il þ3.

Al crescere della temperatura T, la lunghezza d’onda »max a cui corrisponde il massimo della funzione
R(»,T) si sposta verso valori più piccoli, seguendo la legge di spostamento di Wien: »max= 2,90 10^-3 ÿþ/ÿ

A temperature superiori ai 1000 K un corpo nero emette onde elettromagnetiche nella banda del visibile (»
≤ 0,75 ¼m).

Il disaccordo tra gli spettri sperimentali e la teoria

I tentativi di trovare una spiegazione teorica alle curve della radiazione di un corpo nero utilizzando la fisica
classica fallivano miseramente.

Dalla termodinamica si sapeva che, per la legge di Stefan-Boltzmann, la potenza termica è proporzionale
alla temperatura elevata la quarta. Wien, applicando al corpo nero le leggi della termodinamica, propose
una teoria che si accordava con la curva sperimentale ad alte frequenze; Rayleigh e Jeans elaborarono
invece una teoria che si accordava con la curva a basse frequenze, per studiare l’emissione e l’assorbimento
delle radiazioni da parte delle pareti del corpo nero si erano utilizzate le equazioni di Maxwell: come
risultato si erano ottenuti degli spettri che, invece di scendere a zero a piccole lunghezze d’onda,
crescevano indefinitamente.

L’area della superficie compresa tra l’asse delle ascisse e la distribuzione spettrale dell’irradiamento R(», T)
fornisce l’irradiamento totale (su tutte le lunghezze d’onda emesse) del corpo nero.

- La curva sperimentale non pone alcun problema, perché racchiude una superficie finita e quindi
prevede un irradiamento totale finito.
- la curva teorica non delimita una parte finita del piano cartesiano: in base a questa curva,
l’irradiamento totale del corpo nero avrebbe un valore infinito.

Questa evidente violazione del principio di conservazione dell’energia viene chiamata catastrofe
ultravioletta.

Quindi, l’espressione <catastrofe ultravioletta= si riferisce alla previsione classica secondo la quale
l'intensità della luce messa da un corpo nero deve crescere indefinitamente con la frequenza. Se l'energia è
quantizzata, un solo fotone di alta frequenza può avere un'energia elevatissima. L'energia finita contenuta
in un corpo nero non può produrre fotoni di energia arbitrariamente elevata, e quindi l'energia infinita
associata alla catastrofe ultravioletta non è ammissibile. Per la fisica classica la luce ad altra frequenza può
trasportare una quantità di energia qualsiasi; l'energia, infatti, non deve essere messa per forza in pacchetti

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discreti di grandi dimensioni, come capita invece nella teoria di Planck. La fisica classica, quindi, implica che
tutte le frequenze luminose trasportino la stessa quantità di energia, indipendentemente dalla frequenza.

I quanti di Planck

Planck formulò un modello che forniva risultati in perfetto accordo con le curve sperimentali.

Precedentemente si era assunto che gli atomi delle pareti interne della cavità scambiassero energia con le
radiazioni in modo continuo.

Planck disse che:

- gli scambi energetici tra gli atomi della cavità e le radiazioni elettromagnetiche avvengono
attraverso il passaggio di «pacchetti di energia», quanti del campo elettromagnetico, quanti
- l’energia scambiata con gli atomi delle pareti è uguale a n*h*f dove
- n è un numero finito
- h è la costante di Planck = 6,626x10^-34 J s
- f è la frequenza dell’onda elettromagnetica
- l’energia E è quantizzata, cioè può assumere soltanto un insieme discreto di valori

Nonostante il successo del suo procedimento, in un primo tempo Planck considerò l’ipotesi dei quanti come
un artificio matematico, non corrispondente a un reale fenomeno fisico.

L’EFFETTO FOTOELETTRICO

Nel 1902 il fisico tedesco Philipp Lenard (1862-1947) scoprì le leggi sperimentali dell’effetto fotoelettrico,
secondo cui una superficie metallica colpita da radiazione elettromagnetica libera una parte dei suoi
elettroni. Grazie all’analisi dell’effetto fotoelettrico si poté dare un’interpretazione fisica ai quanti di Planck.

Lenard utilizzò un tubo a vuoto, nel quale una radiazione ultravioletta monocromatica, di lunghezza d’onda
», colpisce una lastra metallica e da essa estrae elettroni.

- La lastra metallica è il catodo ÿ del tubo. L’altro elettrodo Ā, l’anodo, è connesso a un resistore
variabile, in modo che la differenza di potenziale ∆ā = āĀ – āÿ tra Ā e ÿ possa variare tra valori
negativi e positivi.
- Se ∆ā è positiva e sufficientemente grande, tutti gli elettroni emessi da ÿ sono raccolti da Ā e la
corrente limite, misurata da un amperometro, è tanto maggiore quanto più grande è l’irradiamento
del metallo.
- L’intensità della corrente limite è proporzionale all’irradiamento della lastra metallica, cioè
all’energia trasportata dalla radiazione ultravioletta sulla lastra, perpendicolarmente, per unità di
superficie e unità di tempo.

Il potenziale di arresto

Gli elettroni che la radiazione ultravioletta estrae dal catodo ÿ sono attratti dall’anodo Ā se la differenza di
potenziale ∆ā tra Ā e ÿ è positiva, ma sono respinti se ∆ā è negativa.

Anche in questo secondo caso, tuttavia, gli elettroni possono raggiungere Ā, se l’energia cinetica con cui
abbandonano ÿ è sufficientemente elevata.

Se la differenza di potenziale ∆ā, divenuta negativa, continua a diminuire, anche il numero degli elettroni
che arrivano a Ā diminuisce, per azzerarsi quando ∆ā assume un certo valore assoluto ∆ā�㕎 , chiamato
potenziale di arresto. Per ∆ā =– ∆ā�㕎 , nel circuito di cui fa parte il tubo a vuoto la corrente non scorre più.

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Gli elettroni sono emessi dal catodo ÿ con un’energia cinetica che può avere qualunque valore tra zero e un
massimo þþ�㕎�㕥 . La differenza di potenziale ∆ā =– ∆ā�㕎 è quella che riesce ad arrestare anche gli elettroni
che possiedono l’energia cinetica iniziale massima, prima che raggiungano Ā.

Assegniamo al catodo ÿ il potenziale di riferimento di 0 ā e all’anodo Ā il potenziale negativo – ∆ā�㕎 e così


analizziamo il comportamento di un elettrone emesso da ÿ con energia cinetica þþ�㕎�㕥 e con velocità rivolta
direttamente verso Ā.

- All’inizio l’elettrone si trova in prossimità di ÿ con energia totale


þÿ + Āÿ = þþ�㕎�㕥 + (2ÿ)(0ā) = þþ�㕎�㕥
- Alla fine, quando l’elettrone si arresta appena davanti a Ā, la sua energia totale è
þĀ + ĀĀ = 0ý + (2ÿ)(Δā�㕎 ) = eΔā�㕎

Per la conservazione dell’energia, si ha þÿ + Āÿ = þĀ + ĀĀ , cioè

þþ�㕎�㕥 = eΔā�㕎 cioè l’energia cinetica massima þþ�㕎�㕥 con cui sono emessi gli elettroni a partire dalla misura
del potenziale di arresto Δā�㕎 .

Notiamo che il potenziale di arresto Δā�㕎 non dipende dall’irradiamento della lastra metallica che funge da
catodo e, di conseguenza, non dipende dall’irradiamento neanche l’energia cinetica massima þþ�㕎�㕥 con cui
vengono emessi gli elettroni.

Secondo la teoria di Maxwell, infatti, quando un’onda elettromagnetica colpisce la superficie di un metallo,
gli elettroni acquistano l’energia necessaria per abbandonare la superficie grazie al lavoro prodotto dal
campo elettrico oscillante dell’onda. Aumentare l’irradiamento significa aumentare l’ampiezza di
oscillazione del campo elettrico e, in base alla logica classica, significa anche aumentare il lavoro fatto su
ciascun elettrone.

Una parte fissa di questo lavoro è spesa per vincere le forze elettriche che trattengono l’elettrone sulla
superficie del metallo, ma la parte restante si ritrova come energia cinetica dell’elettrone liberato. Ci si
attende, quindi, che l’energia cinetica massima þþ�㕎�㕥 aumenti con l’irradiamento e non si riesce a
giustificare perché, invece, ne sia indipendente.

I dati sperimentali mostrano anche che þþ�㕎�㕥 dipende dalla frequenza della radiazione elettromagnetica
che colpisce la lastra. In particolare, si osserva che l’emissione di elettroni per effetto fotoelettrico avviene
soltanto se la frequenza Ā della radiazione incidente è maggiore di un valore minimo Āþÿÿ chiamato soglia
fotoelettrica, diverso a seconda del metallo.

Grafico sperimentale dell’energia cinetica massima degli elettroni emessi per effetto fotoelettrico, in
funzione della frequenza della radiazione incidente.

Se Ā è maggiore di Āþÿÿ , þþ�㕎�㕥 aumenta linearmente con Ā, in proporzione diretta a Ā – Āþÿÿ .

Questo grafico è stato ottenuto sulla base dei dati pubblicati nel 1916 dal fisico statunitense Robert
Millikan, per gli elettroni emessi dal sodio. Lo stesso andamento vale per tutti i metalli, ma i valori di Āþÿÿ
cambiano da un metallo all’altro.

Anche questi risultati sono in contraddizione con la teoria di Maxwell, secondo la quale ogni onda
elettromagnetica dovrebbe poter cedere a un elettrone un’energia maggiore del lavoro di estrazione Ăÿ ,
indipendentemente dalla propria frequenza.

Se la descrizione classica fosse corretta, un’onda elettromagnetica potrebbe fornire agli elettroni della
superficie di un metallo una quantità di energia qualsiasi: a questo scopo basterebbe che l’irradiamento
(che è per definizione l’energia trasportata sulla superficie, in direzione perpendicolare, per unità di area e
per unità di tempo) fosse abbastanza grande e durasse abbastanza a lungo.

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Invece þþ�㕎�㕥 , oltre a essere indipendente dall’irradiamento, non dipende neanche dal tempo di interazione
tra l’onda elettromagnetica e la superficie, ma dipende solo dalla frequenza.

La quantizzazione della luce secondo Einstein

Il 1905 fu per la fisica un Annus mirabilis: in quell’anno Albert Einstein pubblicò la sua interpretazione del
moto browniano, la sua prima memoria sulla relatività ristretta e anche la spiegazione delle leggi
sperimentali dell’effetto fotoelettrico.

Per descrivere in modo coerente l’effetto fotoelettrico, egli accolse l’ipotesi di Planck sulla quantizzazione
dell’energia scambiata tra gli atomi del corpo nero e la radiazione elettromagnetica, e diede a questa
ipotesi un preciso significato fisico: la radiazione elettromagnetica è composta da singoli pacchetti di
energia, i quanti del campo elettromagnetico.

I quanti, più tardi, furono chiamati fotoni.

Secondo Einstein ogni fotone della radiazione elettromagnetica di una data frequenza f trasporta alla
velocità della luce un’energia E, uguale al prodotto della costante di Planck ℎ per Ā:

�㔸 = ℎ ∙ Ā
Planck e Einstein ricevettero entrambi il premio Nobel, il primo nel 1918 per aver introdotto il concetto di
quanto, il secondo nel 1921 per la sua spiegazione quantistica dell’effetto fotoelettrico.

La quantità di moto del fotone

Tra le grandezze che caratterizzano la radiazione elettromagnetica, l’energia non è l’unica a essere
quantizzata.

Secondo la teoria della relatività, nessuna particella con massa a riposo ÿ0 diversa da zero può raggiungere
la velocità della luce nel vuoto �㕐; inoltre, il modulo �㕝 della quantità di moto della particella è legato alla sua
�㔸 2
energia totale �㔸 tramite la relazione: �㕝 = √( �㕐 ) 2 ÿ02 �㕐 2.

Perciò i fotoni, che viaggiano a velocità �㕐, sono necessariamente privi di massa (ÿ0 = 0 �㕘ā) e hanno
�㔸 /Ā
quantità di moto tale che:�㕝 = �㕐
= �㕐
, questa formula dice che, oltre all’energia, anche la quantità di moto
trasportata dalla radiazione è fatta di pacchetti discreti e ha modulo proporzionale a Ā.

La spiegazione dell’effetto fotoelettrico

Il modello dei fotoni di Einstein non è in contraddizione con la teoria elettromagnetica di Maxwell: l’enorme
numero di fotoni che costituisce un fascio di luce ordinario si comporta da onda, esattamente come le
molecole di un corpo, pur avendo proprietà «granulari.

Tuttavia, in certe condizioni, i fotoni rivelano la loro individualità. È questo il caso dell’effetto fotoelettrico,
le cui proprietà si spiegano se si ammette che, nel metallo colpito da radiazione ultravioletta, ogni singolo
fotone interagisca sempre e soltanto con un singolo elettrone.

L’elettrone può uscire dal metallo solo se l’energia �㔸 del fotone è almeno uguale al lavoro di estrazione Ăÿ .
Dalla legge di quantizzazione �㔸 = ℎ Ā deriva allora la condizione:

ℎ Ā ≥ Ăÿ
da cui
�㕊�㕒
Ā≥ /
.

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Esiste quindi una frequenza minima (che dipende dal metallo in quanto Ăÿ è caratteristico del metallo) al di
�㕊�㕒
sotto della quale l’effetto fotoelettrico non può avvenire. Tale frequenza è Āþÿÿ = /
.

Una delle difficoltà nell’interpretazione dell’effetto fotoelettrico è così risolta.

Per studiare il secondo aspetto problematico, prendiamo in esame un elettrone che assorbe un fotone di
energia �㔸 = ℎ Ā e che non dissipa energia perché non compie alcun urto con gli ioni del metallo. Questo
elettrone esce dalla superficie del metallo con energia cinetica þþ�㕎�㕥 e, per la conservazione dell’energia, si
ha þþ�㕎�㕥 = ℎ Ā 2 Ăÿ , þþ�㕎�㕥 dipende solo da Ā e non dall’irradiamento della superficie prodotto dall’onda
elettromagnetica.

Combinando le due equazioni:

þþ�㕎�㕥 = ℎ Ā 2 Ăÿ e Ăÿ = ℎ Āþÿÿ

Otteniamo

þþ�㕎�㕥 = ℎ (Ā 2 Āþÿÿ ).

Ragionando in termini di fotoni, possiamo osservare che l’irradiamento è proporzionale al numero dei
fotoni che colpiscono la superficie del metallo per unità di tempo. Quanto maggiore è questo numero,
tanto maggiore è il numero degli elettroni liberati: per questo motivo l’intensità della corrente limite
aumenta con l’irradiamento.

L’EFFETTO COMPTON

Per diversi anni i fotoni di Einstein lasciarono nel dubbio il mondo scientifico.

Una decisiva conferma venne data da Compton quando pubblicò i risultati delle sue ricerche sperimentali
sulla diffusione di raggi X da parte degli elettroni.

L’esperimento consisteva nel dirigere un fascio monocromatico di raggi X contro un bersaglio di grafite e
nel misurare la lunghezza d’onda della radiazione diffusa a diversi angoli rispetto alla direzione di incidenza.
La lunghezza d’onda dei raggi X inviati sul bersaglio era �㔆 = 0,0709 Āÿ = 7,09 × 10−11 ÿ.

Nell’esperimento di Compton, il fascio monocromatico e parallelo di raggi X colpisce il bersaglio; il


rivelatore misura la lunghezza d’onda �㔆′ della radiazione diffusa a diversi angoli �㔑.

Si trova che, per �㔑 = 90°, una parte dei raggi X diffusi ha la stessa lunghezza d’onda �㔆 di quelli incidenti,
ma la parte restante ha una lunghezza d’onda media più grande: �㔆′ = 7,31 × 10–11 ÿ.

L’elettromagnetismo classico non spiega come possa prodursi, nella diffusione delle radiazioni
elettromagnetiche, una variazione della lunghezza d’onda.

Secondo la teoria di Maxwell, infatti, gli elettroni che sono investiti da radiazione elettromagnetica di
�㕐
frequenza Ā = �㔆 oscillano alla medesima frequenza Ā, per cui emettono una radiazione della stessa

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lunghezza d’onda �㔆 di quella incidente. Le leggi classiche giustificano così il picco ý della figura precedente,
ma non spiegano il picco þ.

L’interpretazione dell’effetto Compton

La presenza e le proprietà del picco þ furono spiegate da Compton stesso sulla base dell’ipotesi di Einstein:
la radiazione elettromagnetica è composta di fotoni che interagiscono con gli elettroni singolarmente.

L’interazione fotone-elettrone è un urto elastico tra particelle. Prima dell’urto, il fotone trasporta

un’energia ℎ Ā e una quantità di moto con modulo �㕐
; l’elettrone, nel bersaglio di grafite, può essere
considerato fermo e libero di muoversi.


Se il fotone è diffuso ad angolo �㔑 = 90°, dopo l’urto esso ha energia ℎĀ’ e quantità di moto �㕐
. L’elettrone
acquista una quantità di moto �㕝 con componente nella direzione di incidenza �㕝ý e in direzione trasversale
�㕝�㕡 .

Per la conservazione della quantità di moto, le componenti �㕝ý e �㕝�㕡 della quantità di moto dell’elettrone
hanno, rispettivamente, lo stesso valore della quantità di moto del fotone incidente e della quantità di
moto del fotone che emerge dall’urto:
/Ā /Ā′
�㕝ý = �㕐
e �㕝�㕡 = �㕐

Il risultato sperimentale di Compton mostra che �㔆′ differisce di poco da �㔆 e quindi Ā′ differisce di poco da Ā.
Di conseguenza �㕝ý e �㕝�㕡 sono quasi uguali tra loro.

Quindi la variazione di lunghezza d’onda nell’effetto Compton è data dalla formula:


/
∆�㔆 = þ �㕐 (1 2 cos �㔑) ,
�㕒

dove ÿÿ è la massa dell’elettrone e �㔑 è l’angolo di diffusione del fotone.

Le scoperte in materia di atomi e particelle subatomiche richiedevano uno schema interpretativo comune,
che fu costruito soltanto alla fine degli anni Venti del Novecento. Un importante passo in avanti in questo
cammino fu compiuto riflettendo sulla dualità onda-particella della luce e delle radiazioni
elettromagnetiche in generale.

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Un fascio di radiazione ultravioletta, per esempio, si comporta come un’onda nei fenomeni di interferenza;
si comporta invece come un flusso di fotoni, cioè di particelle che interagiscono con la materia
singolarmente, negli effetti fotoelettrico e Compton.

La luce si presenta come onda o come flusso di particelle a seconda delle condizioni sperimentali.

Questa dualità è una proprietà intrinseca della luce e di tutte le radiazioni elettromagnetiche, e non una
limitazione delle nostre conoscenze; le descrizioni ondulatoria e corpuscolare della luce sono
complementari.

LO SPETTRO DELL’ATOMO DI IDROGENO

Se si scompone con un prisma e si invia su uno schermo la luce emessa da un gas monoatomico, portato ad
alta temperatura o attraversato da corrente elettrica, si vede un insieme di righe brillanti, ciascuna di colore
ben definito (cioè di una precisa frequenza). Si tratta di uno spettro di righe.

Nello spettro di emissione dell’idrogeno atomico notiamo che le righe si addensano verso le lunghezze
d’onda più piccole, cioè verso le frequenze più alte.

Balmer (1825-1898) scoprì per via empirica che le frequenze corrispondenti alle righe visibili dello spettro
dell’idrogeno monoatomico sono date dalla formula

- c = velocità della luce nel vuoto


- Rh = costante di Rydberg, 1,097x10^7 m^-1
- n = numero intero maggiore di 2
- f = serie spettrale di Balmer

La serie spettrale di Balmer individua le righe di emissione dell’idrogeno che si trovano nella porzione
visibile dello spettro elettromagnetico. con nuove tecniche sperimentali, fu scoperta l’esistenza di altre
serie, nell’ultravioletto e nella zona infrarossa.

In tutti i casi le frequenze delle onde elettromagnetiche emesse dall’idrogeno sono calcolabili mediante la
formula, stessa di prima con m^2 al posto di 4, n>m>0.

- M=2 serie di balmer


- M=1 frequenze ultraviolette, serie di lyman
- M=3 infrarosso, paschen
- M=4 infrarosso, brackett

Il modello atomico di Thompson

Alla fine dell’Ottocento molti fisici ritenevano fondata l’ipotesi che la materia fosse formata da corpuscoli
elementari molto piccoli, gli «atomi».

Le ricerche sull’elettricità mostravano che la materia contiene cariche elettriche di due tipi. Per di più la
scoperta dei raggi catodici e, a questo riguardo, gli studi di Thomson dimostrato l’esistenza di particelle
molto leggere, praticamente puntiformi e dotate di carica negativa, poi chiamate «elettroni».

Era ragionevole, quindi, pensare che gli atomi contenessero elettroni. e, visto che la materia è nel
complesso neutra, in ogni atomo dovevano esserci anche cariche positive, per compensare quelle negative
degli elettroni. Inoltre, poiché gli elettroni sono molto leggeri, la carica positiva doveva portare con sé
praticamente tutta la massa dell’atomo.

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Thomson propose un modello secondo cui la carica positiva era distribuita in modo uniforme per tutto il
volume dell’atomo e quella negativa era concentrata in corpuscoli, modello a panettone e per avere
stabilità gli elettroni dovevano muoversi in modo circolare all’interno della distribuzione di carica positiva.

Descrizione dell’esperimento di Rutherford

Rutherford sottopose a controllo il modello atomico di Thomson. Per interpretare i risultati Rutherford fece
l’ipotesi che la legge di Coulomb, allora verificata quando le cariche elettriche erano a qualche centimetro
l’una dall’altra, fosse valida anche a distanze atomiche e subatomiche.

L’esperimento consisteva nel lanciare contro una lamina d’oro molto sottile un fascio di particelle alfa.

Le particelle alfa (che oggi sappiamo essere fatte di due protoni e due neutroni) hanno una massa circa 10
000 volte maggiore di quella dell’elettrone e viaggiano a una velocità dell’ordine di un decimo della velocità
della luce.

Nell’esperimento di Rutherford quasi tutte le particelle alfa attraversavano indisturbate la lamina d’oro e, al
di là della lamina, lasciavano traccia del loro passaggio su uno schermo fluorescente. Alcune, tuttavia,
venivano deviate.

Gli angoli di diffusione delle particelle alfa, cioè gli angoli di deviazione dalla direzione iniziale, forniscono
informazioni sulla struttura dei bersagli contro cui hanno urtato.

Gli elettroni sono leggeri e distribuiti a una certa distanza tra loro. Perciò, attraversando una lamina d’oro,
queste particelle risentono soltanto della repulsione esercitata dalle cariche positive presenti negli atomi.

Se il modello atomico di Thomson fosse corretto, con la carica positiva dispersa in un volume relativamente
grande, questa repulsione non potrebbe essere molto intensa, cioè le particelle alfa devono avere angoli di
diffusione piccoli.

Il risultato dell’esperimento

Rutherford scoprì che alcune particelle alfa (circa una su 8000) tornavano indietro, riflesse dalla lamina.

Per spiegare questo risultato Rutherford propose un nuovo modello atomico: l’atomo è costituito da un
nucleo estremamente piccolo con carica elettrica positiva, posto al centro di una sfera molto più grande
nella quale si trovano gli elettroni.

Rutherford non attribuì una struttura precisa alla distribuzione degli elettroni. Successivamente, però,
sembrò naturale supporre che gli elettroni ruotassero attorno al nucleo, modello planetario. L’atomo di
Rutherford è tenuto assieme dalle forze di Coulomb attrattive tra il nucleo, elettricamente positivo, e gli
elettroni, negativi. Il nucleo ha un raggio dell’ordine di 10^–14 m e gli elettroni che lo circondano si
muovono entro un raggio di 10^–10m.

Questo modello, che descrive l’atomo come una struttura prevalentemente vuota, spiega come mai
l’angolo di diffusione delle particelle alfa inviate contro la lamina d’oro fosse, il più delle volte, quasi nullo,
ma ogni tanto fosse grande.

Il nucleo occupa una frazione molto piccola del volume atomico, per cui la maggior parte delle particelle
attraversa la lamina passando relativamente lontano da tutti i nuclei. Le poche particelle che si avvicinano a
sufficienza a uno di essi subiscono una repulsione molto intensa e deviano nettamente dal loro cammino.

L’ESPERIMENTO DI MILLIKAN

Millikan scoprì il valore della carica dell’elettrone -1,6022x10^-19 C.

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Usò un nebulizzatore spruzza goccioline d’olio che cadono in un contenitore A pieno d’aria. Per strofinio
contro il cannello del nebulizzatore, alcune goccioline si elettrizzano con cariche di entrambi i segni.

Alcune delle goccioline si infilano nel foro F ed entrano nella zona C del contenitore, compresa tra le
armature di un condensatore a cui viene applicata una differenza di potenziale ∆V. Detta s la distanza tra le
armature, all’interno del condensatore si stabilisce un campo elettrico uniforme di intensità

E = V/s

Se l’armatura a potenziale maggiore è quella posta in basso, il campo elettrico, verticale, è orientato verso
l’alto.

nella zona C è posto un microscopio dal quale è possibile osservare il moto della gocciolina.

Fintanto che il condensatore è scarico, attraverso il microscopio si vede che la goccia, sotto l’effetto della
forza-peso e della forza di attrito viscoso esercitata dall’aria, si muove a velocità costante.

Alla chiusura dell’interruttore I, possono succedere tre cose:

1. se la goccia è scarica, il suo moto non varia;

2. se la goccia è carica negativamente, essa accelera verso il basso, perché la forza elettrica che si genera ha
lo stesso verso della forza-peso;

3. se la goccia è carica positivamente, essa rallenta o addirittura inverte il proprio moto, poiché la forza
elettrica è rivolta verso l’alto e si oppone alla forza-peso.

Analisi dell’esperimento di Millikan

Millikan determinò i raggi delle singole goccioline e da essi ricavò le rispettive masse.

Su una microsfera con carica positiva, che risale verso l’alto, agiscono tre forze:

- la forza elettrica verso l’alto


- forza peso, basso
- forza di attrito viscoso, basso

Si osserva sperimentalmente che la microsfera si muove verso l’alto di moto rettilineo uniforme. Per il
primo principio della dinamica, ciò significa che la somma vettoriale delle forze è nulla.

Da qui si ricava q, il modulo v si ricava misurando il tempo che la gocciolina impiega a percorrere la distanza
nota tra due divisioni del reticolo.

Il risultato dell’esperimento

Millikan osservò che i valori della carica q (positivi o negativi) erano sempre multipli di un valore
fondamentale che poteva essere solo la carica dell’elettrone.

Infatti, gli elettroni sono le uniche particelle dell’atomo che possono spostarsi da un corpo a un altro e che,
a seconda che siano in eccesso o in difetto, fanno sì che un corpo sia elettricamente negativo o positivo.

L’esperimento di Millikan dimostrò per la prima volta che in natura la carica elettrica è quantizzata, cioè
assume valori che appartengono a un insieme discreto.

IL MODELLO DI BOHR

Il modello planetario descrive l’atomo come un sistema formato da un nucleo positivo e da Z elettroni, che
descrivono orbite chiuse attorno a esso. Gli elettroni hanno tutti la stessa carica elettrica –e. Dato che

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l’atomo è neutro, il nucleo deve avere una carica positiva +Z e, uguale e opposta alla carica negativa totale
degli elettroni.

L’energia totale dell’atomo di idrogeno

Nell’atomo planetario di idrogeno l’elettrone compie un moto circolare uniforme; quindi su di esso deve
agire una forza centripeta.

Dato che la massa del nucleo è molto maggiore di quella dell’elettrone, possiamo assumere che il nucleo sia
costantemente in quiete al centro della traiettoria dell’elettrone.

Identifichiamo la forza centripeta che agisce sull’elettrone con la forza di Coulomb tra la sua carica -e e la
carica +e del nucleo, ponendo Fc=F abbiamo:

L’energia totale Etot dell’atomo di idrogeno è la somma dell’energia potenziale elettrica U del sistema
elettrone-nucleo e dell’energia cinetica K dell’elettrone.

Così facendo (sostituendo v di prima a v dell’energia cinetica) otteniamo l’energia cinetica K dell’elettrone
che orbita attorno al nucleo dell’atomo di idrogeno è uguale alla metà dell’energia potenziale U dell’atomo,
cambiata di segno.

L’energia totale Etot è negativa e uguale all’opposto dell’energia cinetica dell’elettrone.

L’atomo planetario di Bohr

Bohr capì che il modello atomico planetario non poteva essere corretto. Infatti, un elettrone descrive
un’orbita chiusa perché è soggetto a un’accelerazione centripeta, ma una carica accelerata emette sempre
energia sotto forma di onde elettromagnetiche.

Per questa perdita di energia, l’orbita dell’elettrone deve restringersi continuamente. L’elettrone, dunque,
non può percorrere una circonferenza, ma solo muoversi lungo una spirale e avvicinarsi al nucleo sempre
più: dalle equazioni di Newton e di Maxwell si calcola che dovrebbe cadervi sopra in un intervallo di tempo
dell’ordine di 10^–7 s.

Invece, gli atomi sono stabili e non si distruggono in un decimo di milionesimo di secondo. Perciò Bohr
suppose che, a livello atomico, le leggi classiche della meccanica e dell’elettromagnetismo non fossero
valide.

Per spiegare la stabilità degli atomi Bohr introdusse alcune ipotesi:

- il raggio dell’orbita di un elettrone attorno al nucleo ha soltanto un insieme discreto di valori


permessi;
- percorrendo un’orbita di dato raggio, a cui è associata una determinata energia totale, l’elettrone
non irradia.

nell’atomo di Bohr, il raggio r dell’orbita, la velocità v dell’elettrone e la sua energia totale non possono
assumere valori qualunque, ma solo valori ben definiti che appartengono a insiemi discreti.

La condizione di quantizzazione di Bohr

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Secondo Bohr, la condizione di quantizzazione che in questo caso determina le orbite permesse, è data
dalla formula

I LIVELLI ENERGETICI DELL’ATOMO DI IDROGENO

L’equazione che fornisce i raggi delle orbite permesse nel modello di Bohr per l’atomo di idrogeno è

Il raggio di Bohr è il valore più piccolo.

Questi valori di energia, che di solito sono espressi in elettronvolt (1 eV = 1,60 × 10^–19 J), sono detti livelli
energetici dell’atomo; il valore più basso, E1= –13,6 eV, è il livello fondamentale, l’energia dell’atomo è
quantizzata e i suoi valori sono inversamente proporzionali al quadrato del numero quantico principale.

L’energia di legame di un elettrone

l’energia di legame WL di un elettrone è il minimo lavoro necessario per estrarre l’elettrone dall’atomo.

Per strappare un elettrone a un atomo di energia En con il minimo lavoro possibile, bisogna variare
l’energia da En a 0 J. Il teorema lavoro-energia dice che WL= 0J-En= -En, questo lavoro è uguale all’energia
di legame e, dato che il valore di En è negativo, l’energia di legame è positiva.

Per strappare un elettrone a un atomo dobbiamo esercitare sull’elettrone una forza rivolta verso l’esterno.
Ma anche lo spostamento che produciamo è verso l’esterno, per cui i vettori forza e spostamento sono
paralleli ed equiversi e il lavoro è positivo.

Il modello di Bohr giustifica lo spettro dell’atomo di idrogeno

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In base al modello di Bohr un elettrone che percorre un’orbita permessa non irradia energia. Tuttavia, i gas
attraversati da corrente elettrica generano luce. Come fanno, dunque, gli atomi a emettere fotoni?

Bohr postulò che: un atomo emette un fotone quando uno dei suoi elettroni passa da un’orbita permessa
di energia maggiore (più esterna) a un’altra di energia minore (più interna).

Disturbato in questo modo, l’atomo si trova in uno stato eccitato, che è instabile. Dopo un intervallo di
tempo che è di solito molto breve il suo elettrone «scende» su un’orbita di numero quantico m (con m < n),
la cui energia Em è minore di En.

Il modello di Bohr giustifica così la legge empirica che descrive lo spettro di righe dell’atomo di idrogeno.

- nel modello di Bohr le orbite dell’atomo di idrogeno hanno raggi proporzionali a n^2 ed energie
inversamente proporzionali a n^2
- se l’elettrone passa da un’orbita più esterna a una più interna, la frequenza del fotone emesso è
direttamente proporzionale al salto energetico.

Quindi soltanto fotoni di determinate energie (e frequenze) possono essere emessi da un atomo. Ciò spiega
perché l’idrogeno e gli altri gas monoatomici producano, in emissione, spettri di righe.

Il modello di Bohr spiega l’assorbimento in modo simmetrico rispetto all’emissione: un atomo assorbe un
fotone di frequenza f se la corrispondente energia E = h f è uguale al salto energetico En – Em che separa
l’orbita m-esima occupata da un suo elettrone e un’orbita più esterna, di numero quantico n maggiore di
m.

L’ESPERIMENTO DI FRANCK E HERTZ

Un atomo può accrescere la propria energia, sempre di quantità uguali alla differenza tra due suoi livelli,
non solo assorbendo fotoni, ma anche a causa di urti con altre particelle. Franck e Hertz dimostrarono in
maniera inequivocabile che l’energia degli atomi è quantizzata.

- Vi è un cannone che emette elettroni tutti della stessa energia


- dopo aver compiuto urti gli elettroni diffusi vengono raccolti da un analizzatore
- mediante un campo elettrico, li devia lungo traiettorie diverse a seconda della loro energia.
- Per ogni valore dell’energia, il rivelatore contenuto nel dispositivo conta quanti sono gli elettroni
con energia appartenente a quell’intervallo.
- L’analizzatore ricostruisce lo spettro energetico degli elettroni.
- Lo spettro mostra una serie di picchi a energie ben definite
- Il picco maggiore è quello prodotto dagli elettroni che sono stati diffusi, ma non hanno cambiato
energia: questi elettroni hanno compiuto un urto elastico
- I picchi minori urto anelastico

la presenza di picchi nello spettro energetico degli elettroni diffusi è una prova che non soltanto gli scambi
di energia tra radiazione e materia sono quantizzati, come aveva detto Planck, ma la quantizzazione
dell’energia è una proprietà intrinseca degli atomi, che si manifesta qualunque sia il tipo di scambio di
energia coinvolto.

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