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Lucia Battaglia Ricci

Edizion i d’autore, copi e di lavoro,


i nterventi di autoe s eg e si:
te sti mon ian z e trec ente sc h e

Aperto dalle sperimentazioni letterario-librarie di Francesco


da Barberino e chiuso sul progetto sacchettiano di un’innovativa
mise en page di rime e testi prosastici rimasto interrotto proprio nel­
l’anno 1400 per la morte dello scrittore, il XIV secolo conosce, nei
decenni centrali, la prodigiosa e variegata produzione libraria di
Giovanni Boccaccio, copista-editore di opere proprie e di opere
altrui,1 oltre alla raffinata produzione del Petrarca copista-editore
delle proprie, per non dire, rimanendo nell’aureo circuito delle tre
corone, l’incredibile varietà di forme di libro sperimentate per la
Commedia. E se manca, purtroppo, l’autografo dantesco, restano
nelle nostre biblioteche sia copie autografe di lettori fattisi editori
(Boccaccio, con le sue tre Commedie,2 è uno di loro), sia copie che
– come il celebre Dante Chantilly, materialmente realizzato nel­
la cosiddetta « officina di Vat » e illustrato da Francesco Traini, ma
seguendo puntualmente e direi puntigliosamente il progetto edi-
toriale elaborato da quel Guido da Pisa che è l’autore del com-

1. Catalogo, documentazione fotografica e schede descrittive della Mostra di


manoscritti, documenti e edizioni, Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, 22 mag-
gio-31 agosto 1975, to. i. Manoscritti e documenti, a cura di E. Casamassima e F. Di
Benedetto, Certaldo, Comitato Promotore, 1975. Altre informazioni e integra-
zioni in: G. Auzzas, I codici autografi. Elenco e bibliografia, in « Studi sul Boccaccio »,
vii 1973, pp. 1-20; M. Pastore Stocchi, Su alcuni autografi del Boccaccio, ivi, x 1977-
1978, pp. 123-43; F. Malagnini, Il libro d’autore dal progetto alla realizzazione: il ‘Tesei-
da delle nozze di Emilia’, con un’appendice sugli autografi di Boccaccio, ivi, xxxix 2006, pp.
3-102, con ricco corredo fotografico; M. Petoletti, Il Marziale autografo di Giovan-
ni Boccaccio, in « Italia medioevale e umanistica », xlvi 2005, pp. 35-55.
2. Attestate dai celebri mss. Toledo, Archivio y Biblioteca Capitulares, 104 6
degli anni 1350-1355; Firenze, Biblioteca Riccardiana, 1035, degli anni ’60; Città del
Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Chig. L VI 213, del 1370 ca.

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mento in esso registrato –3 sono state progettate dagli intellettua-


li responsabili del corredo esegetico presente in quelle carte, tra­
ducendo in realtà grafico-visiva progetti editoriali tanto diversi
quanto, almeno nei casi piú felici, cosí coerentemente orientati e
orientanti nella costruzione del senso da far supporre l’esistenza
di piú o meno compiuti modelli autografi concepiti come “mena-
bò editoriali” e, ancor prima, una precisa responsabilità autoriale.
Non è certo un caso unico. Seppur solo in parte (o forse neppure
in parte) autografi, anche i testimoni dei Documenti d’Amore di Fran­
cesco da Barberino (ovvero i mss. Vaticani Barb. lat. 4076 e 4077,
che attestano, il primo, la redazione definitiva, e, il secondo, una
versione provvisoria e non completa dell’opera) sono nati da un
preciso progetto dell’autore, che ha certo previsto, ovvero provve-
duto a confezionare « di propria mano », menabò editoriali atten-
tamente costruiti per disporre correttamente nella superficie bian­
ca delle carte il complesso assieme dell’opera,4 composta, come è
noto, da versi, commento latino in prosa, immagini di corredo.5

3. Su cui vd. da ultimo L. Battaglia Ricci, Un sistema esegetico complesso: il Dan-
te Chantilly di Guido da Pisa, in « Rivista di studi danteschi », viii 2008, pp. 83-100,
con bibliografia pregressa.
4. Sul tema vd. da ultimo D. Goldin Folena, Il commento nella pagina autogra­
fa di Francesco da Barberino, in Intorno al testo. Tipologie del corredo esegetico e soluzioni
editoriali. Atti del Convegno di Urbino, 1-3 ottobre 2001, Roma, Salerno Editrice,
2003, pp. 263-82. Per l’autografia: A. Petrucci, Minima Barberina. i. Note sugli auto-
grafi dei ‘Documenti d’Amore’, in Miscellanea di studi in onore di A. Roncaglia a cinquan­
t’anni dalla sua laurea, Modena, Mucchi, 1989, vol. iii pp. 1005-109; M.C. Panzera,
Per l’edizione critica dei ‘Documenti d’Amore’ di Francesco da Barberino, in « Studi medio-
latini e volgari », xl 1994, pp. 91-118; P. Supino Martini, Per la tradizione ma­noscritta
dei ‘Documenti d’Amore’ di Francesco da Barberino, in « Studi medievali », xxxvii 1996,
pp. 945-54.
5. Esplicita l’assunzione di responsabilità da parte dello stesso autore per l’as-
sieme dei segni presenti nella redazione definitiva dell’opera. Basti, al proposito,
quanto si legge nel vol. I ‘Documenti d’Amore’ di Francesco da Barberino secondo i ma-
noscritti originali, a cura di F. Egidi, Roma, Società Filologica Romana, 1904-1927
(rist. an. Milano, Arché, 1982), vol. i p. 262, dove, a chi lo accusa del fatto che egli
si va gloriando di aver « figurato e proemiato e glossato il testo » l’autore si preoc-
cupa di rispondere: « bene possum de hiis aperta sic facie respondere cum non sit

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edizioni d’autore, copie di lavoro, autoesegesi

Se si tiene conto sia degli studi che, sulla scorta del celebre Soglie di
Gérard Genette, hanno gettato luce sulla rilevanza critico-estetica
della forma del libro, sia delle raffinate indagini codicologiche e
paleografiche che hanno consentito di ricostruire le procedure
messe in atto dagli autori per editare le loro opere nei secoli che
precedono la stampa, la felice formula di « libro d’autore » potrà,
credo, essere applicata anche a esperienze come queste: a libri,
cioè, nati da un progetto editoriale organico, riconducibile all’au-
tore dell’opera e dotato di una sua specifica identità, siano essi rea­
lizzati in toto, in parte, o per nulla dalla mano dell’autore stesso.
Sarà poi opportuno individuare delle sottocategorie, distinguen-
do i libri progettati e concretamente realizzati dall’autore che « di
propria mano » – come recita il titolo di questo nostro Convegno
– ha messo in codice il testo di una determinata opera, dai libri
progettati dall’autore, ma realizzati da professionisti del libro (do-
vendosi in questo caso sospettare piú o meno lecite intrusioni, per
cosí dire, dei collaboratori dell’autore).
Se oltre che sulla funzione testimoniale assolta dal libro (codi-
ce-archivio, brogliaccio, copia di lavoro, codice definitivo del­l’o­
pera) si punta l’attenzione sulla responsabilità dell’autore nell’or-
ganizzazione del paratesto editoriale di una sua opera, quell’eti-
chetta si potrebbe forse articolare distinguendo tra edizioni d’au-
tore autografe e non, ovvero tra i libri progettati dall’autore del­
l’opera o di parte dell’opera attestata nel ms., ma senza la parteci-
pazione autografa di lui, come capita per le Expositiones et glose di
Guido da Pisa nell’appena ricordato codice Chantilly (catalogabi-
li sotto il cartellino: “edizioni d’autore non autografe”) e la copia
autografa di un’opera in redazione (almeno provvisoriamente, o
idealmente) definitiva, come capita per buona parte del Canzonie-
re attestato dal Vat. lat. 3195 o il Decameron attestato dal Berlinese
Hamilton 90, ma anche, per rimanere nella produzione di Boc-
caccio, per il Teseida attestato dall’autografo Laurenziano Acq. e

lictera in hoc libro [idest: nel ms. Barb. lat. 4076] nec figura que, ante alicuius
transcriptum, per me ad minus non fuerit tracta quater ».

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doni 3256 o per la Genealogia deorum gentilium attestata dal­l’autogra­


fo Laurenziano Pluteo 52 9, accuratamente decorato da disegni a
penna stesi con ogni probabilità dallo stesso Boccaccio7 all’inizio
dei primi tredici libri, a raffigurare gli alberi genealogici delle divi-
nità di cui tratta ogni sezione dell’opera (catalogabili sotto il cartel-
lino: “edizioni d’autore autografe”). È sufficiente questa pur mini-
ma casistica per osservare come, seppure sia lecito distinguere tra
vere e proprie edizioni (forse, almeno idealmente, ultimative), ad
es. quel­le attestate dai manoscritti appena ricordati, e copie di la-
voro, come ad es. l’autografo di Franco Sacchetti conservato alla
Laurenziana (Ash. 574), che tramanda un assieme di opere ancora
in corso di elaborazione, sia talvolta difficile stabilire a quale cate-
goria la singola attestazione manoscritta vada registrata.
Se quell’autografo sacchettiano era infatti stato inizialmente
concepito come redazione in bella copia di un vero e proprio Libro
di rime, tanto che lo scrittore si era preoccupato di apporre segnali
grafici colorati di inizio testo per una cospicua quantità di carte, e
solo nel corso del tempo il manoscritto è scaduto a copia di lavoro,
l’intervento di decorazione grafica venendo meno improvvisa-
mente a tre quarti di una carta,8 il Decameron autografo è con buona

6. Su cui l’importante Malagnini, Il libro d’autore, cit., con estesa documenta-
zione fotografica.
7. L’attribuzione a Boccaccio dei disegni o almeno della loro precisa program-
mazione è imposta alla stretta relazione tra testo e immagine esplicitata, ad es.,
nel proemio al libro i, par. 3, che rende fedelmente conto della grafica adottata per
costruire l’albero genealogico disegnato nel margine superiore di c. 11v (ovvero
« sopra lo scritto », come recita il testo): « In arbore signata desuper ponitur in
culmine Demorgogon versa in celum radice, nec solum infra descripte progeniei
sed deorum omnium gentilium pater, et in ramis et frondibus ab eo descenden-
tibus describuntur eius filii et nepotes de quibus omnibus hoc in primo libro
prout signati sunt, distincte describitur ». La riproduzione di questa carta in Boc-
caccio visualizzato. Narrare per parole e immagini fra Medioevo e Rinascimento, a cura di
V. Branca, Torino, Einaudi, 1999, vol. ii p. 58. Qui, alle pagine immediatamente
seguenti, la documentazione completa.
8. Per l’autografo di Franco Sacchetti vd. L. Battaglia Ricci, Comporre il libro,
comporre il testo. Nota sull’autografo di Franco Sacchetti, in I moderni ausili all’ecdotica.
Atti del Convegno internazionale di Fisciano-Vietri sul Mare-Napoli, 27-31 otto-

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edizioni d’autore, copie di lavoro, autoesegesi

probabilità copia concepita come edizione definitiva, seppur non


propriamente copia di dedica, e tuttavia, rimasta aperta a registra-
re sia pur minime varianti lessicali, è scaduta a copia privata, di la-
voro. Per non dire dell’autografo della Genealogia, su cui Boccac-
cio, integrando correzioni e giunte già apposte da uno dei lettori,
registrò in margine altre notizie, aggiunte e correzioni, dopo che
da esso erano state tratte, seppur contro la sua volontà, copie da
parte dei primi fruitori dell’opera, da lui peraltro consegnata a un
destinatario privilegiato, Ugo da Sanseverino;9 copia, come si è
detto, tanto accuratamente provvista di un preciso e funzionale
corredo figurativo in funzione demarcativo-memoriale da legitti-
mare l’idea che di edizione definitiva si trattasse. Il che funge da
ennesima prova dell’aleatorietà di confini rigidi in un’epoca in cui,
in assenza di quel marcatore perentorio che è la consegna del testo
alla stampa, l’opera (e il libro) rimanevano sempre aperti agli in-
terventi creativi dell’autore, oltre che in dialogo costante con i let­
tori. La storia delle plurime forme attestate del Canzoniere e del­
le pur minime varianti ancora presenti nel Vat. lat. 3195 a segnare

bre 1990, a cura di V. Placella e S. Martelli, Napoli, Esi, 1994, pp. 287-311; Ead.,
Autografi “antichi” e edizioni moderne. Il caso Sacchetti, in « Filologia e critica », xx 1995,
pp. 386-457; Ead. Exemplum e novella, in Letteratura in forma di sermone. I rapporti tra
predicazione e letteratura nei secoli XIII-XVI, a cura di G. Auzzas, G. Baffetti, C.
Delcorno, Firenze, Olschki, 2003, pp. 281-99, specie pp. 288-95.
9. Per il cosiddetto “declassamento” dell’attestazione autografa del Decame­
ron vd. da ultimo M. Cursi, Il ‘Decameron’: scritture, scriventi, lettori. Storia di un testo,
Roma, Viella, 2007, specie pp. 39-42, con una recapitolazione della bibliografia
pregressa. Per la presenza di un sia pur ristretto manipolo di varianti lessicali re-
gistrate nei margini di quel medesimo codice un quadro esaustivo e informazio-
ne sulla bibliografia pregressa in M. Vitale-V. Branca, Il capolavoro del Boccaccio e
due diverse redazioni, 2 voll., Padova, Ist. Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, 2002, in
partic. nel vol. ii. Variazioni stilistiche e narrative, alle pp. 210-13. V. Zaccaria, Nota
al testo, in G. Boccaccio, Genealogie deorum gentilium, a cura dello stesso, Milano,
Mondadori, 1998, to. ii pp. 1592-609, ricapitola i risultati acquisiti sulla storia del
testo della Genealogia deorum gentilium, titolo che mi pare preferibile al pur corren-
te Genealogie dato che, come osserva L. Petrucci, Lasciti della prima circolazione
della ‘Genealogia deorum gentilium’ in un manoscritto campano del Quattrocento, in « Stu-
di mediolatini e volgari », xxvii 1980, pp. 163-82, nel titolo Genealogie non può che
essere un genitivo singolare.

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un’ipotesi di ordine differente per i testi che chiudono la silloge


offre l’esempio piú noto, ma tutt’altro che isolato, di un “originale
conservato” che è sostanzialmente una copia d’autore program-
mata come redazione ultimativa, verisimilmente in funzione edi-
toriale, fungendo al tempo stesso da preziosa attestazione di un
infinito work in progress.
Restano poi i libri scritti «  di propria mano » da un autore perfet-
tamente riconoscibile, che ha copiato per sé o per altri l’opera di un
altro scrittore, anche intervenendo in modo personale sul testo: le
Commedie vergate da quel fecondo copista di opere proprie e altrui
che fu Boccaccio, ma anche la “sua” Tebaide, o la “sua” Vi­ta nova,
per esempio. Proprio il caso, celeberrimo, del prosimetro dantesco
da lui trascritto nel ms. Chig. L V 173 operando interventi signifi-
cativi sul testo, per una – a suo avviso – piú corretta distribuzione
sulla carta di parti del testo,10 la dice lunga sulla consapevolezza
con cui, da editore, un autore come lui si misura con le con­venzioni
della mise en page dei testi. Anche queste sono dunque, a loro modo,
edizioni d’autore. Per distinguerle dalla categoria precedente si
potrebbe catalogarle sotto il cartellino: “autografi editoriali”.

1. Se l’incremento quantitativo di copie autografe, parzialmente


autografe o redatte sotto il controllo diretto dell’autore, è un effet-
to della rivolta degli autori contro i copisti infedeli, gestita in pri-
ma persona, giustappunto nel XIV secolo, da Francesco da Barbe-
rino e da Francesco Petrarca per difendere il testo d’autore, l’origi-
nale, e garantirne l’autenticità,11 la varietà stessa delle forme-libro

10. Come informa la nota apposta dal medesimo Boccaccio nel margine infe-
riore della c. 13r dove inizia la sua copia del libretto dantesco (« Meraviglieranno-
si molti », ecc.), egli è intervenuto sul testo estraendone le dichiarazioni che Dante
aveva concepito come parte integrante del prosimetro, per registrarle nel margi-
ne, dato che, come il prestigioso copista si preoccupa di precisare, esse « piuttosto
chiosa appaiono dover esser che testo ».
11. Come ricorda Armando Petrucci nei suoi fondanti saggi Minuta, autografo,
libro d’autore, in Il libro e il testo. Atti del Convegno internazionale di Urbino, 20-23
settembre 1982, a cura di C. Questa e R. Raffaelli, Urbino, QuattroVenti, 1985,
pp. 397-414, e Scrivere il testo, in La critica del testo. Problemi di metodo ed esperienze di

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edizioni d’autore, copie di lavoro, autoesegesi

e delle forme di mise en page realizzate dagli autori per le loro ope-
re, insieme con la funzionalità delle costruzioni grafico-visive da
loro realizzate, dimostra presente negli autori fattisi editori anche
una precisa volontà di creare (o forse meglio costruire, mimando
o meno modelli librari già esistenti) una determinata forma di li-
bro, “inscatolando” in modo personale e pieno di senso il testo da
loro composto in una struttura paratestuale che orienti nella frui-
zione dell’opera, ovvero a suo modo espliciti il senso che l’autore
ad essa ha attribuito, lasciando intravedere l’intentio auctoris.12 Per il
Decameron continuo a credere, come mi è capitato di scrivere altro-
ve, che la forma-libro sia « sentita » dal suo autore « come tratto si-
gnificante del sistema-testo »,13 e che quindi abbia assoluta rilevan-
za per l’interpretazione e la valutazione dell’opera. Appunto al fi­
ne di riflettere sulla pertinenza in prospettiva critico-valutativa,
oltre che ecdotica e di storia della tradizione del testo, della forma
della mise en page (architettura spaziale dei testi, alternanza di scrit-
to e spazi bianchi, segni di paragrafazione e sistema di maiuscole,

lavoro. Atti del Convegno di Lecce, 22-26 ottobre 1984, Roma, Salerno Editrice,
1985, pp. 209-27.
12. Come è ampiamente presente alla tradizione critica piú recente: una mi-
nima informazione bibliografica e uno sguardo d’assieme in Intorno al testo, cit. Da
quest’acquisita consapevolezza discende, mi pare, un corollario pratico, ovvero
che qualsiasi riflessione critica sulle opere composte prima della stampa andreb-
be, anche per questo, condotta sui testimoni manoscritti, in particolare sugli au-
tografi, se conservati. La precisazione è imposta dalla stupefacente valutazione
espressa proprio a proposito del Decameron dal raffinato studioso dei paratesti Ge­
nette che, dobbiamo supporre, per il capolavoro di Boccaccio deve aver utilizza-
to un’edizione corrente, forse priva di una pur minima nota al testo e certamente
fortemente manipolata, senza peraltro preoccuparsi di controllare quanto è da
tempo ben presente agli studi circa la responsabilità autoriale di titoli, rubriche,
ecc. Cito dall’ed. it.: « Il Decameron è, come viene indicato dal titolo, diviso in
dieci giornate di cui ciascuna porta il nome del suo narratore [sic!]; le dieci novel-
le che costituiscono ciascuna giornata hanno, nelle edizioni moderne, dei titoli la
cui autenticità sembrerebbe dubbia, accompagnati da riassunti di qualche riga
forse anch’essi tardivi, e che, se rientrano nel paratesto attuale, non hanno piú,
evidentemente, lo statuto di intertitoli » (G. Genette, Soglie. I dintorni del testo,
trad. it. Torino, Einaudi, 1989, p. 95).
13. L. Battaglia Ricci, Boccaccio, Roma, Salerno Editrice, 2000, p. 126.

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lucia battaglia ricci

apparato figurativo, ecc.) adottata dall’autore stesso dell’opera (mi-


se en page d’autore), propongo qui minime osservazioni su alcuni
manoscritti che tramandano testi letterari complessi (ovvero siste-
mi costruiti assemblando entità testuali non necessariamente omo­
genee dal punto di vista statutario: macrotesti verbali ma anche
sistemi testuali plurisemiotici) composti nel xiv secolo, che mi
consentono di ripensare alla luce della bibliografia piú recente al-
cune mie vecchie ricerche su temi analoghi, e di sviluppare una
qualche riflessione anche sul problema dell’autore che si fa illustra­
tore della propria opera.
Privilegio cosí, secondo le indicazioni degli organizzatori del
Convegno, la tradizione manoscritta del Decameron, e in particola-
re due peraltro celebri manoscritti, ovvero: 1) l’autografo berlinese
del Decameron, assunto come esempio illustre, e già ampiamente
illustrato, di un’edizione d’autore (che le vicende biografiche del­
l’autore hanno reso “ultimativa”) anche se, come rileva Marco Cur­
si nella sua importante ricostruzione della storia della tradizione
manoscritta conservata, le caratteristiche materiali del libro con-
fermano l’idea – già di Armando Petrucci – che in corso d’opera
esso sia diventato esemplare privato, copia per sé;14 2) il codice
Parigino It. 482 che, secondo gli studi pluridecennali condotti da
Vittore Branca, Maria Grazia Dupré e altri, e poi riassunti nel mo­
numentale Boccaccio visualizzato, tramanderebbe un sistematico in­
tervento di esegesi visuale steso da Boccaccio stesso,15 e che per-
tanto assumo qui come esempio per riflettere sui problemi anche
di metodo connessi con l’individuazione di procedure di autoese-
gesi figurativa. Premetterei comunque una minima riflessione sto­
rico-metodologica, per la quale sarà inevitabile evocare altre, non
meno celebri, esperienze editoriali “d’autore”.

14. Cursi, Il ‘Decameron’: scritture, scriventi, lettori, cit., pp. 40-42.


15. Su questo vd. V. Branca, Introduzione. Il narrar boccacciano per immagini dal
tardo gotico al primo Rinascimento, in Boccaccio visualizzato, cit., vol. i pp. 3-37, in partic.
pp. 5-20, con documentazione fotografica; e M.G. Ciardi Dupré Dal Pogget-
to, L’iconografia nei codici miniati boccacciani dell’Italia centrale e meridionale, ivi, vol. ii
pp. 3-52, in partic. pp. 8-16.

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edizioni d’autore, copie di lavoro, autoesegesi

2. Giustappunto nell’attenzione prestata, in questi ultimi de-


cenni, dagli studiosi della tradizione delle testimonianze scritte
« alle strategie messe in atto dagli scriventi nella costruzione delle
pagine », ovvero « al ruolo di una programmazione “culta” e fun-
zionale nell’ordinamento fisico e visuale » dei testi, in un suo sag-
gio uscito in margine alle celebrazioni per il vii centenario della
nascita di Petrarca16 Armando Petrucci ha riconosciuto un « cam-
po nuovo e animoso di ricerca » che « finisce per riavvicinare quei
settori di studio » – codicologia, paleografia, storia della tradizione
manoscritta, critica del testo (si potrebbe forse aggiungere anche
critica letteraria, se per le opere di epoca medievale la ricognizio-
ne sui manoscritti è imprescindibile per una corretta valutazione
delle opere stesse e la filologia d’autore implica anche filologia del­
le strutture e filologia delle architetture paratestuali) – « che lo spe­
cialismo imperversante ha diviso e sta dividendo ».
In un’ideale ricostruzione storiografica di siffatte pratiche auto-
riali (su cui lo stesso Petrucci ha scritto pagine auree, precisamente
distinguendo minuta, autografo, libro d’autore17 e fissando, come
si è già ricordato, giustappunto nella produzione di Francesco da
Barberino e Francesco Petrarca i due cardini della vera e propria
rivoluzione grafico-culturale che caratterizza il nostro Trecento)
Petrarca, appunto, il quale « conobbe, adoperò e, quando gli sem-
brò opportuno, modificò i vari modelli di libro esistenti »,18 offre
l’e­sempio luminoso di un autore fattosi « scrittore-compilatore at-
tentissimo alla trasformazione anche materiale dei generi e della
propria produzione ».19 Sintetizzando i risultati di una ricca, sep-

16. A. Petrucci, Spazi dei testi e strategie petrarchesche, in La parola scritta e le sue
grazie. A proposito della mostra « Petrarca nel tempo », con discorsi di A. Asor Rosa,
R. Bettarini, M. Feo, A. Petrucci, C. Villa, Pontedera, Bandecchi e Vivaldi,
2006, pp. 45-55; la cit. che segue da p. 47.
17. Petrucci, Minuta, autografo, libro d’autore, cit.
18. Petrucci, Spazi dei testi, cit., pp. 50-51.
19. Il brano (ivi, p. 51) è tratto da H.W. Storey, Il ‘liber’ nella formazione delle
‘Familiari’, in Motivi e forme delle ‘Familiari’ di Francesco Petrarca, a cura di C. Berra,
Milano, Cisalpino, 2003, pp. 495-505.

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lucia battaglia ricci

pure abbastanza recente tradizione critica, Petrucci viene di fatto,


anche se implicitamente, a individuare i dati utili per storicizzare
quelle che io chiamerei le procedure editoriali del Petrarca, utiliz-
zando in modo estensivo questo attributo20 per qualificare l’attivi-

20. Ma forse non indebitamente, se alla cultura medievale non dovette essere
estranea la consapevolezza della precisa distinzione tra lo scrivere un’opera e il
“pubblicarla”. Una suggestiva spia, in tal senso, mi pare, emerge dalle Cronache
note. Cosí, ad es., Riccobaldo da Ferrara (operoso tra il XIII e il XIV sec.) in Hi-
storia Imperatorum per l’anno mcxc precisa: « Ugutio Episcopus Ferrarensis [idest
Uguccione da Pisa] per haec tempora librum derivationum edidit » (cosí in Rerum
Italicarum Scriptores, to. ix, Milano, Stamperia della Società Palatina, 1726, col. 125),
mentre in Historia Pontificum Romanorum (ivi, col. 178), egli ha potuto scrivere che
il medesimo « Hugo […] natione pisanus, Episcopus Ferrariensi, […] ex libro
Papiae […] librum Derivationum composuit ». Cosí, ad es., la registrazione sinte-
tica delle opere prodotte dagli scrittori religiosi fatta dal monaco benedettino
Sigeberto di Gembloux nell’anno 1112 prova, mi pare, che tra composuit ed edidit è
attiva nella coscienza di chi guarda alla produzione di opere letterarie a quest’al-
tezza cronologica una differenza semantica di qualche rilievo, seppur essa non
implichi, ovviamente, una qualche attestazione di autografia. Quel suo Liber de
scriptoribus ecclesiasticis offre, in effetti, un utile regesto della terminologia in uso a
quest’altezza cronologica, da parte di uno scrittore esperto di cronache letterarie
e prolifico produttore in proprio di testi letterari, per indicare le varie operazioni
dello scrivere creativo. Utile, nella nostra prospettiva, il ricorrere, tra tanti ge­
nerici scripsit, dei nostri composuit ed edidit: è infatti possibile verificare che Sige-
berto privilegia composuit laddove la sua attenzione è puntata su fatti formali (co-
sí: « Adelmus […] scripsit librum De Virginitate, quem exempli Sedulii, gemina-
to opere, id est prosa et metro, composuit », « Walafridus […] Vitam et miracula
sancti Galli abbatis primo prosaice, deinde metrice composuit », « Hucbaldus […]
cantus multorum sanctorum dulci et regulari melodia composuit », « Stephanus
[…] cantum de inventione Stephani protomartyris auctentico et dulci modula-
mine composuit »), confermando che componere è verbo adibito a indicare l’atto da
cui nasce l’opera letteraria (e Guido da Pisa, nel prologo delle sue Expositiones al­
l’Inferno dantesco potrà da parte sua precisare che « Ista manus est noster novus
poeta Dantes, qui scripsit, idest composuit, istam altissimam et subtilissimam
Comediam »). Il medesimo Sigeberto ricorre invece a edidit laddove la sua atten-
zione è rivolta al numero o all’estensione del libro prodotto, che magari è solo
una compilazione di testi altri; cosí, se « Paterius tres libros edidit, duos de testi-
moniis Veteris Instrumentis, et unum de testimoniis Novi Testamenti », preoccu-
pandosi anche (e la cosa è rilevante nella direzione della costruzione di un para-
testo editoriale) di imporre un titolo al ms. che tramanda l’opera cosí composta
(« ipsumque codicem appellavit Librum testimoniorum »): è infatti per risponde-

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edizioni d’autore, copie di lavoro, autoesegesi

tà che dà vita all’allestimento di una precisa “forma di libro” ovve-


ro, oltre alla scelta di materiale scrittorio, formato e tipo di scrittu-
ra, la formalizzazione di un determinato assetto grafico-visivo del­
le pagine che, nella programmata alternanza di spazi bianchi e
spazi coperti di scrittura, gerarchie grafiche suggerite da segni pa-
ragrafali, maiuscole e colori, nonché, eventualmente, immagini,
non può che essere interpretato in funzione paratestuale e dunque
programmato per un occhio esterno: per un lettore, reale o ideale
che sia. E dunque destinato, almeno nel progetto dell’autore, a co­
stituire il termine di riferimento obbligato, il prototipo, per la di-
vulgazione, la “pubblicazione”, dell’opera.
Il profilo del Petrarca editore stilato da Armando Petrucci offre
utili pezze d’appoggio per fissare una sorta di schema ideale (qua-
si un protocollo di analisi) su cui misurare esperienze simili (per
me, qui, quella di Giovanni Boccaccio). In questa prospettiva, non
disutile neppure in direzione metodologica, ricordo qui i dati es-
senziali:

re alla richiesta di un re, Atalarico, che « Anianus volumen unum de legibus The-
odosii imperatoris edidit », ed è in margine al suo lavoro di espositore delle epi-
stole di Paolo che « Florus […] adnotans singulos Augustini libro sin quibus ea
capitula exposita erant, […] novo e mirabili studio de alieno labore magnum sui
operis volumen edidit ». Cogente, in particolare, la formula scripta edidit che ricor-
re sia nel cap. 74 per papa Gregorio ii, che « interpellatus […] super quibusdam
capitulis […], optima responsione unamquamque quaestionerm absolvit, et
scripta edidit », sia nel cap. 76, per papa Gregorio iii, il quale « quia […] imperato-
res nolebant suscipere commonitoria apostolicae auctoritate scripta, […] contra
eos multa ad multos scripta edidit ». Composuit et edidit è formula che ricorre anche
nel titolo di un sermone di Albertano da Brescia datato 1243, come si legge nel
ms. Lewis E 1 della Free Library di Philadelphia: « hic sermo quem Albertanus
causidicus Brixiensis composuit et edidit inter causidicos januenses et quos­dam
notarios […] » (sia il sermone di Albertano che la cronaca di Sigeberto sono con-
sultabili in rete, agli indirizzi: http://www.hs-augsburg.de/~harsch/Chronolo-
gia/Lspost13/Albertanus/alb_serj.html; e http://www.thelatinlibrary.com /si­
gebert.script.html). La coscienza del lessicografo conferma: se per edere i sinonimi
registrati sono manifestare, emittere, exponere, proferre, producere, dare, per componere si
sottolinea, anche con un esempio di vita quotidiana, la prossimità con ornare (co-
sí in Uguccione, Derivationes, edizione critica princeps, a cura di E. Cecchini, G.
Arbizzoni et alii, Firenze, Sismel, 2004, alle voci pono ed edo).

133
lucia battaglia ricci

– Petrarca possiede un’estesa, se non totale, competenza dei mo­


delli librari, tanto antichi che moderni, presenti “sul mer­cato”;
– sceglie consapevolmente tra i modelli noti una precisa forma
per mettere in codice – editare (?)– una sua determinata opera;
– eventualmente intervenendo, in prima persona o tramite la
mano che per lui scrive, sulla struttura grafica delle pagine, ovve-
ro: controllando l’« architettura spaziale dei testi »;21
– dando cosí vita a un “libro d’autore” (noi possiamo dire a:
un’edizione d’autore), ovvero a quel particolare « libro “letterario”,
latino e volgare, che l’autore stesso modella (in una forma da non
mutare, da mantenere nel tempo) secondo la sua volontà, la sua cul­
tura grafica, il suo gusto, la sua visione degli equilibri te­stuali »;22
– preoccupandosi anche di « distribuire i prototipi di sua mano
agli amici sodali, inducendoli in tal modo a riprodurli in tutte le
loro fattezze e particolarità, sicuro che lo avrebbero fatto »: fissan-
do, cioè, un modello di architettura spaziale dei testi che « finisce
per creare tradizione di per sé », e che è dato rilevante per la storia
della tradizione del testo. Se si presta attenzione, oltre che alla le-
zione, all’architettura delle pagine si potrebbero, infatti, scoprire
le “teste di serie” della tradizione conservata. Per Petrarca l’esem-
pio è offerto da un ms., il Laurenziano XLI 40 eseguito per Coluc-
cio Salutati, che ripete fedelmente la tipica e significativa impagi-
nazione d’autore attestata dall’autografo vaticano e che Petrucci
propone appunto di assumere come “testa di serie” di una tradi-
zione testuale e visuale.
I prodotti dello scrittoio di Petrarca confermano dunque quan-
to è acquisito dalla tradizione critica tardo-novecentesca, che cioè

21. Cosí Petrucci, Spazi dei testi, cit., p. 51, ma al proposito si dovranno ricor-
dare anche le raffinate analisi condotte sui manoscritti della lirica piú antica e su
quelli di Petrarca già nei primi anni Novanta da H.W. Storey nel suo Transcription
and Visual Poetics in the Early Italian Lyric, New York-London, Garland, 1993, o da
F. Brugnolo, Libro d’autore e forma-canzoniere. Implicazioni petrarchesche, in « Atti e
Memorie dell’Accademia Patavina di Scienze, Lettere ed Arti », ciii 1990-1991,
p.te iii, Classe di Scienze Morali, Lettere e Arti, pp. 259-90.
22. Petrucci, Spazi dei testi, cit., p. 53. Da qui anche la citazione che segue.

134
edizioni d’autore, copie di lavoro, autoesegesi

l’assetto grafico-visuale del libro d’autore, in particolare in quella


specifica tipologia che ho chiamato “edizione d’autore autografa”,
può essere dato significativo oltre che per la storia della tradizione
del testo, per la valutazione storico-critica dell’opera cosí traman-
data, nonché – nel caso che sia possibile seguire le vicende dell’im-
paginazione d’autore nella tradizione dell’opera – per la ricostru-
zione della biografia intellettuale dell’autore stesso.
I prodotti dello scrittoio di Boccaccio confermano che quella di
Petrarca non è esperienza isolata. Esemplifico, seguendo lo sche-
ma appena tracciato e sfruttando a piene mani gli acquisti degli
studi piú recenti sulla tradizione manoscritta del Decameron, che
permettono di sviluppare ulteriormente quanto nell’ormai remo-
to 1988 mi è capitato di osservare a proposito della forma del libro
attestata dall’autografo berlinese del libro di novelle: ovvero a pro­
posito dell’innovativa (apparentemente incongrua) forma di li­
bro e di mise en page adottata da Boccaccio per editare il suo Cento-
novelle.23

3. I quasi trenta autografi (totali o parziali) conservati24 provano,


nel loro assieme, che Boccaccio ebbe piena competenza dei mo-
delli librari presenti “sul mercato”. Facile verificare pressoché a
colpo d’occhio che egli sperimentò forme grafiche e paratesti edi-
toriali diversificati a seconda dell’opera messa in codice, rivelan-
dosi, come è stato scritto, « padrone di forme diverse, […] speri-
mentatore instancabile […] non solo della scrittura ma anche del-
la sintassi costitutiva del libro e della presentazione della pagina ».25
Basta sfogliare quel libro-archivio di opere sue e altrui che era il
ms. oggi smembrato tra i due Chigiani (L V 176 e L VI 213) per aver­
ne assoluta certezza. Di Boccaccio non conosciamo, come ha rile-

23. L. Battaglia Ricci, Leggere e scrivere novelle tra ’200 e ’300, in La novella italia-
na. Atti del Convegno di Caprarola, 19-24 settembre 1988, Roma, Salerno Editri-
ce, 1989, vol. ii pp. 629-55.
24. Vd. n. 1.
25. A. Petrucci, Il libro manoscritto, in Letteratura italiana, dir. A. Asor Rosa, vol.
ii. Produzione e consumo, Torino, Einaudi, 1983, pp. 497-524, a p. 514.

135
lucia battaglia ricci

vato Manlio Pastore Stocchi, minute, scartafacci, attestazioni di


lavori in corso: 26 solo forse (se Cursi coglie nel segno nella sua
lettura del codice Vitali 26 conservato a Piacenza, che tramanda il
Decameron e su cui si tornerà piú avanti), una copia di servizio del
Decameron fatta allestire dall’autore per uso personale da un copista
di fiducia.27 In compenso è straordinariamente ricca, e pressoché
interamente documentata la vasta gamma delle pratiche scrittorie
correlate alla sua attività di lettore/autore. Nella trentina di at­te­
stazioni autografe, puntualmente schedate da Ginetta Auzzas e ar­
ricchite di recente dalla scoperta di un Marziale,28 si riconosco­
no sia interventi isolati in manoscritti scritti da altri che tramanda-
no opere altrui sia scritture estese, di opere proprie come di al-
trui.29
Gli interventi isolati (sia verbali sia figurati) su manoscritti ver-
gati da altri sono essenzialmente operazioni da lettore con la pen-
na in mano: piú o meno estese postille a testi altrui, minuti inter-
venti grafici su edizioni di opere di altri, interventi correttori su
testi propri trascritti da altri, anche se non mancano occasionali
interventi di autore – sia verbali sia figurati – su opere proprie. Per
limitarci all’autografo del Decameron: le varianti verbali registrate
nel margine studiate da Branca e Vitale, o le figurine nel bas de pa­
ge su cui Vittore Branca ha attirato l’attenzione degli studiosi fin dai
primi anni Ottanta.30
La tipologia delle scritture estese è estremamente varia e ri-
guarda sia i codici di studio del Boccaccio lettore che le edizioni

26. Pastore Stocchi, Su alcuni autografi, cit., pp. 125-26.


27. Cursi, Il ‘Decameron’: scritture, scriventi, lettori, cit., p. 38.
28. Auzzas, I codici autografi. Elenco e bibliografia, cit. La scoperta del Marziale
autografo di Boccaccio si deve a Marco Petoletti: vd., di lui, oltre a Il Marziale
autografo, cit., Le postille di Giovanni Boccaccio a Marziale, in « Studi sul Boccaccio »,
xxxiv 2006, pp. 103-84.
29. Una documentazione fotografica della varia tipologia in Mostra dei mano-
scritti, cit., esposizione tenuta in Laurenziana nel sesto centenario della morte di
Boc­caccio.
30. Vd. ad es. la notizia nel saggio V. Branca, Prime interpretazioni del ‘De­ca­
meron’, in Id., Boccaccio medievale, Firenze, Sansoni, 19866, pp. 394-432, a p. 394.

136
edizioni d’autore, copie di lavoro, autoesegesi

del Boccaccio autore. Ci sono casi di autografi editoriali parziali


(come nel caso nel caso del ms. Ambrosiano A 204, un testimone
dell’Etica Nicomachea nei cui margini Boccaccio ha trascritto il com­
mento di san Tommaso) e numerosi esempi di autografia totale:
libri-archivio, come lo Zibaldone e la Miscellanea conservati alla
Laurenziana, che in origine costituivano un corpo compatto,31 e il
libro ora smembrato tra due manoscritti conservati alla Vaticana:
Chig. L V 176 e L VI 213, che assemblano opere diverse, proprie ed
altrui; autografi editoriali, come, ad esempio, il Marziale conser-
vato dal ms. Ambrosiano C 67 sup., la Tebaide di Stazio col com-
mento di Lattanzio Placido, o la Consolatio Philosophiae di Boezio;
edizioni d’autore autografe per il Decameron, la Genealogia, il De
mulieribus, il Teseida, il Buccolicum carmen. Facile verificare che per
ogni opera Boccaccio sperimenta soluzioni di mise en page e di mise
en texte sempre diverse, assumendo magari come modelli archeti-
pi prestigiosi. Valga a titolo di esempio la forma editoriale prescel-
ta per impaginare il suo Teseida, che mima la forma della Tebaide,
prevedendo anche l’inserzione di un esteso e complesso sistema
illustrativo strettamente intrecciato col testo, su cui ha attirato di
recente l’attenzione Francesca Malagnini.32
È cosí possibile acclarare che – non meno di Petrarca – Boccac-
cio sceglie consapevolmente tra i modelli noti una precisa forma
per mettere in codice una determinata opera, controllando « l’ar-
chitettura spaziale dei testi » e dando cosí vita a un’edizione d’au-
tore. Che può anche essere fortemente innovativa rispetto alle
convenzioni in uso per il genere implicato e tanto personale (basti
il Decameron, che Boccaccio, come risulta dall’autografo, ha “mo-

31. Su cui importante S. Zamponi-M. Pantarotto-A. Tomiello, Stratificazio-


ne dello Zibaldone e della Miscellana Laurenziani, in Gli Zibaldoni di Boccaccio. Atti del
Seminario internazionale di Firenze, 26-28 aprile 1996, a cura di M. Picone e C.
Cazalé Berard, Firenze, Cesati, 1998, pp. 181-258.
32. Malagnini, Il libro d’autore, cit., passim. Interessante che anche per l’illu-
strazione incipitaria, che mette in scena l’atto di dedica del libro, si possa sospet-
tare la suggestione della tradizione illustrata della medesima Tebaide. Cosí Van-
delli, come ricorda l’autrice in questo medesimo saggio, pp. 24-25 n. 40.

137
lucia battaglia ricci

dellato” in forma di trattato) da risultare – per il riuso di model­


li propri di altri generi – incongrua, tanto che non è mancato chi
ha potuto parlare, proprio per l’autografo del Decameron, di « forse
inconscia permanenza nel Boccaccio maturo dei modelli » di libro
« assorbiti nel periodo napoletano: ovvero di quei libri in forma di
trattato su cui si fondava la didattica nell’università gotica » per
spiegare le ragioni per cui « la struttura del tractatus scientifico (che
sarà ovviamente d’obbligo […] per un repertorio scolastico, come
la Genealogia) viene con esattezza trascritta nell’opera narrativa ».
Cosí scriveva, nel 1994, Corrado Bologna:33 anche sulla scorta del
giudizio espresso nei pieni anni Ottanta da Armando Petrucci che,
misurando le scelte di Boccaccio sulle geniali innovazioni grafiche
di Petrarca, riconosceva nell’autografo berlinese un progetto « ri-
volto all’indietro », ovvero la mera intenzione di promuovere « la
letteratura volgare alla dignità del libro da banco scolastico-uni-
versitario ».34
La riflessione sviluppata negli ultimi decenni sul libro e sull’ope-
ra ha permesso di riconoscere una precisa strategia editoriale nel
libro di novelle confezionato come un trattato scientifico, rivelan-
do, da un lato, la precisa, coerente, funzione paratestuale della com­
plessa organizzazione del sistema di paragrafazione e delle maiu­
scole, e, dall’altro, la piena coerenza del modello di libro prescelto:
quella del trattato, appunto, per un’opera cui è imposto un “no-
me” non casualmente plasmato su quello proprio del trattato sul
Genesi presente nella biblioteca di Boccaccio, l’Exameron beati Am-
brogi, al num. 3 dell’inventario della « Parva libraria » di Santo Spiri-
to e come tale citato anche in Genealogia, xi 18. Il che conferma,
come mi è già capitato di osservare, che in qualche modo, per il
Boccaccio autore ed editore, l’adozione della forma di libro pro-
pria del trattato non è affatto operazione dettata da ragioni allo-
trie, o scelta inconsulta. Sí piuttosto da un progetto editoriale che

33. C. Bologna, Tradizione e fortuna dei classici italiani, Torino, Einaudi, 1994,
p. 344.
34. Petrucci, Il libro manoscritto, cit., p. 515.

138
edizioni d’autore, copie di lavoro, autoesegesi

la raffinata strategia messa in atto nel complesso sistema di maiu-


scole che scandiscono il testo conferma. Questo sistema fortemen­
te e attentamente gerarchizzato (ora illustrato pienamente dagli
studi di Patrizia Rafti, Teresa Nocita, Francesca Malagnini)35 è a
tutta evidenza programmato dall’autore anzitutto per attirare l’at-
tenzione di chi legge sulle premesse argomentanti (e sulle varie
voci dei narratori) piuttosto che sulle singole novelle e dunque per
suggerire, obbligando a una fruizione delle novelle stesse ben di-
versa da quella cui ci ha abituati una diffusa pratica scolastica ed
editoriale; una modalità di lettura – lenta, attenta alle scansioni del
testo e al dialogo istituito tra i vari livelli del testo e al senso com-
plessivo affidato a quella centuria di racconti cosí messi in ordine
– che implica fruitori esperti dei libri universitari, capaci di coglie-
re (anche grazie alla rete di raffinata intertestualità sottesa a quel­
le premesse) la funzione educativa del libro, al tempo stesso che
quella ludico-consolatoria viene affidata alla forza eversiva e gio-
cosa, paratattica, se si può dire, dei singoli racconti, da leggere a
voce alta, come se di recita si trattasse, per una fruizione “pubbli-
ca”, giocosamente condivisa, cui si direbbe corrisponda il sottoti-
tolo, o cognome, « prencipe Galeotto ». Eviterei di ripetere qui,
entrando in un’analisi piú ravvicinata dell’autografo, quanto al
proposito della mise en page ho già detto tanti anni fa in occasione

35. P. Rafti, « Lumina dictionum ». Interpunzione e prosa in Giovanni Boccaccio (i-iv),


in « Studi sul Boccaccio », risp. nei voll. xxiv 1996, pp. 59-121; xxv 1997, pp. 239-73;
xxvii 1999, pp. 82-106; xxix 2001, pp. 3-66; T. Nocita, Per una nuova paragrafatura
del testo del ‘Decameron’. Appunti sulle maiuscole del cod. Hamilton 90, in « La critica del
testo », ii 1999, pp. 925-34; Ead., La redazione hamiltoniana di ‘Decameron’ i 5. Sceneg-
giatura di una novella, in Il racconto nel Medioevo romanzo. Atti del Convegno di Bo-
logna, 23-24 ottobre 2000, Bologna, Pàtron, 2002, pp. 351-66; T. Crivelli-T. No-
cita, Teatralità del dettato, stratificazioni strutturali, plurivocità degli esiti. Il ‘Decameron’
fra testo, ipertesto e generi letterari, in Autori e lettori di Boccaccio. Atti del Convegno
internazionale di Certaldo, 20-22 settembre 2001, a cura di M. Picone, Firenze,
Cesati, 2002, pp. 209-33; F. Malagnini, Mondo commentato e mondo narrato nel ‘De-
cameron’, in « Studi sul Boccaccio », xxx 2002, pp. 3-124; Ead., Il sistema delle maiusco-
le nell’autografo berlinese del ‘Decameron’ e la scansione del mondo commentato, ivi, xxxi
2003, pp. 31-69, nonché Ead., Il libro d’autore, cit.

139
lucia battaglia ricci

del Convegno su La novella italiana,36 e poi sviluppato in studi suc-


cessivi.
Mi parrebbe piuttosto opportuno, sfruttando documentazione
e risultati delle piú recenti ricerche sulla tradizione manoscritta
del Decameron, soffermarmi a verificare se anche per Boccaccio co­
me per Petrarca il modello di « architettura spaziale dei testi » fissa-
to dall’autore viene fedelmente ripetuto, « creando tradizione di
per sé »: dato interessante anche per verificare la reazione dei pri-
mi lettori alla forma di libro da lui adottata. Vediamo dunque.

4. Le ricerche condotte da Marco Cursi sul corpus dei 49 mano-


scritti tre-quattrocenteschi che conservano l’opera nella sua in­
terezza – per verificare se e quanto i copisti avessero rispettato il
complesso e personale tipo di paragrafatura affidato alla « studiata
alternanza di iniziali di tipologia e altezza diverse » attestata dall’au-
tografo (B) e interpretabile come « un sistema segnaletico che per­
mette di cogliere il progetto critico dell’autore » – hanno prodot­
to risultati « sorprendenti », dice il medesimo Cursi e, io aggiungo,
utilissimi. Li ricordo qui, sintetizzando l’analisi esposta nel volu-
me Il Decameron: scritture, scriventi, lettori.37 Solo 5 di quei 49 riprodu-
cono fedelmente la singolare e significativa scelta di scandire il
passaggio dalla premessa argomentante alla novella vera e propria
con maiuscole colorate che marcano i livelli e le funzioni comuni-
cative affidate a questa zona del testo in B, databile, come è noto,
su base paleografica, all’inizio dell’ottavo decennio del ’300. Sono
tre mss. del terzo quarto del ’300 (Firenze, Biblioteca Nazionale,
II II 8; Parigi, Bibliothèque Nationale, It. 482; Piacenza, Biblioteca
Passerini Landi, Vitali 26) e due del secolo successivo (Firenze, Bi­
blioteca Medicea Laurenziana, Pluteo 90 sup. 106 I, e Oxford, Bo-
dleian Library, Holkham misc. 49). Il dato dimostra anzitutto che

36. In Battaglia Ricci, Leggere e scrivere, cit., e Ead., Per una storia della fondazio-
ne del genere novella tra ’200 e ’30, in « Medioevo e Rinascimento », xii, n.s. ix 1998,
pp. 307-20.
37. Cursi, Il ‘Decameron’: scritture, scriventi, lettori, cit., pp. 155-59. Da qui, alla p.
156, le due citazioni che precedono.

140
edizioni d’autore, copie di lavoro, autoesegesi

le scelte grafico-strutturali messe in atto da Boccaccio dovettero


risultare poco perspicue ai suoi copisti, ma consente anche qual-
che minima osservazione non irrilevante per la storia della tradi-
zione dell’opera. E forse anche una riflessione sulle pratiche dello
scrittore-editore Boccaccio negli anni che vanno dalla ultimazio-
ne del Decameron alla stesura ultima attestata da B.38
Lasciando qui da parte i due codici piú tardi, per i quali solo
l’analisi filologica può definire la posizione stemmatica, e dunque
chiarire se dipendano o no da B, possiamo guardare con piú atten-
zione i tre trecenteschi. I due cartacei (Firenze, Biblioteca Nazio-
nale, II II 8, e il frammento Vitali 26 conservato a Piacenza: V) si
possono datare con sicurezza, grazie alle filigrane, al settimo de-
cennio del ’300: il primo, con piú precisione, addirittura « all’inizio
del settimo decennio ».39 Il Parigino, ovvero il celeberrimo codice
Capponi (P) fatto oggetto negli ultimi decenni di studi ravvici­nati,
è membranaceo. La datazione in questo caso è fissata dallo studio-
so al « settimo decennio del secolo xiv » sulla base di dati di vario
tipo (e vario peso), largamente discussi da studiosi di Boccaccio e
da quelli dell’illustrazione libraria: e che sono, essenzialmente, i da­
ti biografici del fiorentino Giovanni d’Agnolo Capponi, proprie-
tario del codice e responsabile della trascrizione dell’opera, al­cuni
particolari iconografici presenti nei disegni a penna che corredano
il testo,40 e considerazioni di ordine linguistico, filologico e paleo-
grafico. Ricordo in estrema sintesi i dati noti:
– biografia del copista: si presume che Giovanni d’Agnolo Cap-

38. Piú che di vere e proprie redazioni – come recita il titolo del fondante
Branca-Vitale, Il capolavoro di Boccaccio e due diverse redazioni, cit. – mi parrebbe
opportuno parlare di diverse stesure, le quali attestano un infinito work in progress,
che ora innova, ora torna a recuperare, ma come ipotesi aperta, soluzioni già
sperimentate (come prova la registrazione nei margini di B di varianti verbali
attestate da testimoni che pare lecito credere siano stati confezionati prima di B:
quale, ad es., il celeberrimo codice Parigino It. 482).
39. Cursi, Il ‘Decameron’: scritture, scriventi, lettori, cit., p. 196. La successiva citaz.
da p. 217.
40. In Boccaccio visualizzato, cit., vol. i pp. 9-13; vol. ii pp. 67-72, con una precisa
documentazione fotografica cui si rimanda.

141
lucia battaglia ricci

poni, nato probabilmente tra il 1343 e il 1346, e morto forse poco


prima del 1389, si sia dedicato all’impresa in età giovanile. Verisi-
milmente, ma si tratta – a tutta evidenza – di dato fluido, prima del
suo forte impegno politico-amministrativo. Nel 1364 egli è tra gli
immatricolati all’Arte della Lana e nel 1373 è console di quell’Arte,
per poi assumere un ruolo di primo piano e diventare priore nel
1378. Da questi dati discende solo che un’eventuale collocazione
del lavoro di copia tra il 1360 e il 1373 non è improbabile, ma nien-
te di piú;
– considerazioni di ordine linguistico, filologico e paleografico:
la ricostruzione dei rapporti testuali tra P e B, che ha portato Bran-
ca a riconoscere in P il testimone di una redazione del Decameron
anteriore a quella tràdita da B – ipotesi suffragata dallo studio dia-
cronico della lingua d’autore nelle due stesure condotto da Mau-
rizio Vitale – di per sé, a rigore, prova solo che l’antigrafo di P si
situa negli anni che vanno dall’ultimazione dell’opera a un anno
imprecisato, anteriore a quel 1370 ca. in cui si colloca la scrittura di
B. Si aggiunga che in P, secondo l’expertise paleografica di Cursi, si
deve riconoscere l’intervento correttorio del medesimo Boccac-
cio: se il dato fosse confermato, potremmo fissare al 1375 il termine
ante quem per la copia di P;
– datazione delle illustrazioni che decorano le pagine del codi-
ce: si tratta di dato sottoposto a oscillazioni. Mi limito qui a ricor-
dare che nella scheda da lei stilata per Boccaccio visualizzato Ma­ria
Cristina Castelli scrive « settimo-nono decennio del xiv secolo »;41
Maria Grazia Ciardi Dupré, nello stesso volume, propone date
oscillanti tra il decennio 1360-1370 e un ante quem al 1365, salvo pre-
cisare che « la situazione stilistica nella quale si inserisce l’illustra-
zione del Decameron It. 482, si conclude entro il 1380 »,42 mentre in
un saggio del 199443 la studiosa optava piuttosto per gli anni 1365-

41. Ivi, vol. ii pp. 66 e 72.


42. Ivi, in partic. vol. i pp. 13 e 14.
43. M.G. Ciardi Dupré Dal Poggetto, Corpus dei disegni e cod. Parigino It. 482,
in « Studi sul Boccaccio », xxii 1994, pp. 197-225.

142
edizioni d’autore, copie di lavoro, autoesegesi

1370: datazione riproposta da Victoria Kirkham, nella scheda com-


posta per il primo volume del medesimo Boccaccio visualizzato.44
Uscendo dal circuito di quest’opera monumentale, si può ancora
osservare che per Degenhart e Schmitt l’operazione si colloca al­
la fine degli anni Sessanta (1370 ca.),45 mentre la data avanzata da
Millard Meiss, come ricorda Cristina Castelli,46 è il 1400 ca. Aggiun-
go, estrapolando dalle datazioni proposte per le illustrazioni – su
cui torno tra poco – che un unico dato assolutamente certo è ri­
cavabile da esse, ovvero che il codice è stato certamente illustra­
to dopo il 1359 visto che tra i monumenti fiorentini raffigurati a c.
79v (tav. 4) svetta il campanile di Giotto, terminato appunto in quel­
l’anno.
Prescindendo dunque da P – per la fragilità dei dati relativi alla
sua collocazione nel tempo – è comunque possibile, sulla scorta
degli altri due testimoni certamente redatti prima di B che conser-
vano la paragrafatura d’autore, immaginare che già nell’originale
che tramandava la prima stesura l’opera fosse scandita esattamente
come è scandita in B. Relativamente utile il fiorentino, che ripete
il sistema di paragrafatura, ma non la mise en page su due colonne.
Piú utile il frammento Vitali (PC), fatto oggetto di recente di studi
molto ravvicinati. I dati offerti dall’expertise paleografica intrecciati
con l’analisi filologica provano sia che il copista di questo codice
– databile, come si è ricordato, al settimo decennio del Trecento e
giunto a noi in condizioni estremamente precarie – ha utilizza­
to un manoscritto che attestava una stesura prossima a quella tra-
mandata da P, ma con lezioni concordanti con B e altre autonome,
« registrando », come scrive Annalisa Grippa cui si deve la collazio-
ne tra il B, P e PC, « il movimento che dal Parigino conduce verso

44. Boccaccio visualizzato, cit., vol. i p. 128, scheda n. 50.


45. B. Degenhart-A. Schmitt, Corpus der italienschen Zeichnungen (1300-1450),
i. Süd-und Mittelitalien, Berlin, Mann, 1968-1982, vol. i pp. 134-36.
46. Boccaccio visualizzato, cit., vol. i p. 72. Qui la studiosa ricorda altresí che i di-
segni « sono collocati nell’ultimo decennio del Trecento anche nel catalogo della
Mostra del 1975 » (ivi, p. 53).

143
lucia battaglia ricci

il Berlinese »,47 sia che l’ha riprodotto con tale fedeltà, anche a li-
vello grafico-visivo, che Aldo Rossi ha potuto ventilare il sospetto
che il frammento fosse autografo di Boccaccio.48 L’ipotesi è stata
sottoposta a puntuale discussione da parte di Marco Cursi, che da
parte sua ha avanzato l’ipotesi che si tratti di una copia di servizio,
condotta da persona vicina a Boccaccio, nello studio di lui, su sua
diretta sorveglianza.49 Per quanto qui interessa vale la pena ricor-
dare che nel frammento Vitali, che si deve credere preceda l’auto-
grafo berlinese di vari anni se non di un decennio, compaiono sia
gli usi interpuntivi e l’uso funzionale delle lettere incipitarie che
noi vediamo attestati in B, sia la forma-libro di B: la mise en page su
due colonne, il grande formato delle carte (371 � 266: B; 362 � 246:
V) e perfino una consistenza complessiva probabilmente simile,
secondo la ricostruzione virtuale fatta dal medesimo Cursi sulla
base della numerazione antica di quelle carte.50
Il dato è di grande interesse, anche in prospettiva critico-lette-
raria. Come il testimone del Canzoniere petrarchesco confeziona-
to per Coluccio, anche il frammento Vitali ripete fedelmente la
tipica e significativa impaginazione per noi attestata dall’autografo
berlinese. A differenza però di quel Laurenziano, non si tratta di
una “testa di serie” – per usare la terminologia di Armando Pe-
trucci – della redazione definitiva dell’opera, ma sí invece del te-
stimone di una copia di lavoro, se non propriamente dell’origina-
le, di una stesura in movimento tra P e B. Si ha cosí conferma in-
diretta che l’adozione della forma di un libro universitario per il
Centonovelle e di quella precisa strategia paratestuale nella gestione
del passaggio dalla cornice alle novelle che è per noi attestata dal
tardo B (che a sua volta è una copia d’autore) è scelta editoriale che
caratterizza fin dalla prima stesura, per il suo autore, il libro nomi-

47. A. Grippa, Le carte piacentine del ‘Decameron’, in « Annali della Facoltà di Let-
tere e Filosofia di Siena », xx 1999, pp. 77-120, a p. 78.
48. A. Rossi, Da Dante a Leonardo. Un percorso di originali, Firenze, Sismel-Edi-
zioni del Galluzzo, 1999, p. 422.
49. Cursi, Il ‘Decameron’: scritture, scriventi, lettori, cit., p. 38.
50. Ivi, p. 39.

144
edizioni d’autore, copie di lavoro, autoesegesi

nato Decameron, cognominato Prencipe Galeotto. Con tutte le implica-


zioni che ne discendono sul piano della valutazione critica e stori-
ca di siffatta operazione editoriale, spesso mal compresa tanto nel­
la tradizione manoscritta e a stampa del libro quanto nella tradi-
zione degli studi sul Decameron.

5. Come il frammento Vitali – con il quale peraltro, come prova


la collazione fatta dalla Grippa, non stringe nessun rapporto di pa-
rentela – anche il ms. Parigino (P) è caratterizzato da una mise en
page e un sistema di paragrafatura del tutto analoghi a quelli attesta-
ti da B, pur tramandando una stesura anteriore a quella lí registrata.
Derivato, come già sospettava Michele Barbi51 e la perizia paleo­
grafica conferma,52 da un esemplare autografo di Boccaccio diverso
sia da B che da quello utilizzato dal copista del frammento Vitali,
anche P contribuisce a comprovare la permanenza nel tempo di
questa precisa forma editoriale “d’autore”. Unica, rilevan­te novità,
nella costruzione della pagina e del sistema-libro, la presenza, in P,
di un abbastanza esteso corredo illustrativo, di forte valenza esege-
tico-interpretativa, che viene oggi pressoché compattamente attri-
buito allo stesso Boccaccio, dalle cui mani il codice potrebbe peral-
tro essere effettivamente passato, se – escluso ora­mai che esso possa
essere considerato testimone autografo – a lui si possono attribuire
(come propone con molta cautela il medesimo Cursi)53 due inter-
venti interlineari a integrazione di un nome (Açço: c. 25v), in un caso,
e di una preposizione (ad: c. 69r) nell’altro. A questa illustrazione mi
pare opportuno dedicare un supplemento di attenzione.
Due sono i problemi, tra loro strettamente connessi: la datazio-
ne di tale apparato figurativo, e la sua attribuzione a Boccaccio. La
prima, per dirla con Giancarlo Breschi, « è sollecitata come un ela-

51. Come ricorda G. Breschi, Il ms. Parigino It. 482 e le vicissitudini editoriali del ‘De­
cameron’, in « Medioevo e Rinascimento », xviii, n.s. xv 2004, pp. 77-119, a p. 106.
52. Cursi, Il ‘Decameron’: scritture, scriventi, lettori, cit., p. 33, addebita l’assetto di
scrittura e impaginato di P alla fedeltà assoluta del Capponi a un antigrafo verga-
to di propria mano dall’autore.
53. Ivi, pp. 35-36.

145
lucia battaglia ricci

stico » da storici dell’arte e studiosi di Boccaccio, ancora, come si è


sopra ricordato, nel monumentale, prezioso, Boccaccio visualizzato
diretto da Vittore Branca; la seconda non è stata di fatto mai revo-
cata in dubbio, dopo che storici dell’arte figurativa – esperti di di-
segno e miniatura tardo medievale come Ciardi Dupré e Degen-
hart e Schmitt – hanno espresso il loro parere al proposito, anche
se a suo tempo Millard Meiss non aveva esitato a datare questi di­
segni attorno al 1400, escludendo di fatto la possibilità che la ma­
no potesse essere dell’autore del Decameron e, soprattutto, se Maria
Cristina Castelli, nel corpo stesso del Boccaccio visualizzato, nono-
stante ben conoscesse quegli acquisti e dovesse essere ben consa-
pevole di introdurre un’evidente nota critica nel compatto assie-
me dei saggi presenti in quel medesimo libro, continua a registra-
re, per P, una datazione aperta – tra settimo e nono decennio del
Trecento – che, se non esclude, mette quanto meno in dubbio la
possibilità di un’attribuzione a Boccaccio. E dunque ripercorro i
dati a nostra disposizione per offrire alla discussione non tanto,
come vedremo, “la” soluzione definitiva, quanto spunti per una a
mio avviso indilazionabile riflessione di metodo.
Un primo sguardo d’assieme alle carte illustrate che tenga con-
to del rapporto che le immagini stringono con il testo scritto di-
mostra senz’ombra di dubbio che quei disegni a penna sono stati
fatti quando il testo era già stato steso per intero, numeri di gior-
nata compresi, in spazi accuratamente programmati (tav. 1). Chi
ha illustrato queste carte non si è uniformato a un progetto pre-
confezionato, tipo una vignetta per ogni novella o per ogni inizio
di giornata, sí da scandire in modo rigoroso e coerente l’assieme
delle carte, né ha utilizzato un criterio univoco di illustrazione,
decidendo, ad esempio, di porre tutte le figure nella stessa sede, o
di utilizzare schemi compositivi identici, prevedendo, ad esem-
pio, o vignette singole o vignette doppie, oppure di visualizzare
determinati luoghi del testo. La serie delle vignette presenti in P
pare piuttosto nascere da scelte personalissime che liberamente
privilegiano determinati passaggi del testo, alternando scene in
sequenza dedicate a un’unica novella – peraltro non necessaria-

146
edizioni d’autore, copie di lavoro, autoesegesi

mente la prima di ogni giornata –54 e, magari in unione con una


novella, a un passaggio della storia portante (tav. 2),55 senza però
escludere vignette monosceniche dedicate a illustrare sia singole
novelle (tav. 3)56 sia l’invenzione fantastica che costituisce la strut-
tura portante del testo (tav. 5).57 Al tempo stesso non è costante
neppure la dislocazione spaziale delle vignette: se per lo piú (ben
13) si trovano in testa allo specchio di scrittura e occupano tutto il
margine superiore della carta, non mancano casi di vignette collo-
cate in testa a una sola colonna,58 come anche nel margine inferio-
re della carta59 o dentro la lettera incipitaria del proemio.

54. È questa la tipologia piú diffusa: cosí, ad es., si verifica a c. 11r per la novella
di Ciappelletto, a c. 23v per quella di Martellino, a c. 82r per quella Ghismonda,
ecc., ma a c. 122v ad essere illustrata, in anticipo rispetto alla sua effettiva presenza
nel libro, è la novella di Cisti (la seconda della vi giornata) e a c. 187r la vignet­
ta illustra la nona della ix giornata, in una carta in cui è copiata la novella: anzi,
grosso modo a metà del testo novellistico in questione.
55. Cosí a c. 4v e a c. 6r si mettono in scena immagini di morte per illustrare il
racconto degli effetti della peste a Firenze, e a c. 122v in una vignetta pluriscenica
(tav. 2) si rappresenta il contrasto tra Tindaro e Licisca raccontato nell’intr. alla vi
giornata e, subito accanto, due episodi della novella di Cisti: una soluzione inso-
lita. tanto che una mano anonima si è sentita in dovere di glossare le due sezioni:
questo è il prologo della vi giornata per l’immagine a sinistra, e la novella di Cisti è questa
per le due a destra.
56. Cosí a c. 187r la vignetta utilizzata per illustrare la novella di Salomone e il
Ponte all’Oca (Dec., ix 9) compare in testa alla colonna di destra. Interessante che
la doppia immagine dell’asino bastonato e della donna bastonata dal marito, in-
terrompendo il flusso narrativo, si collochi ben avanti nel corpo del racconto (nel
corpo del par. 23 dell’ed. moderna), chiosando esattamente quanto si legge nel
testo che segue (tav. 3).
57. Sono, in concreto, l’immagine della brigata nel giardino a c. 4v e quella
della brigata che rientra a Firenze a c. 214r.
58. Cosí a c. 5r, a inizio d’opera, in testa alla colonna di sinistra, due coppie di
giovani innamorati a cavallo a visualizzare, come suggerisce D. Delcorno Bran­
ca, « Cognominato prencipe Galeotto ». Il sottotitolo illustrato del Parigino it. 482, in « Stu-
di sul Boccaccio », xxiii 1995, pp. 79-88, il sottotitolo prencipe Galeotto e, a c. 187r,
sulla colonna di destra, come si è detto (n. 56), l’asinaio al Ponte dell’Oca intento
a battere il suo asino e, accanto, Gioseffo intento a battere la moglie.
59. Cosí a c. 4v, dove, alla fine dell’elenco delle rubriche, sono raffigurati i gio­
vani seduti nel giardino, nei pressi di una fontana.

147
lucia battaglia ricci

La varietà formale delle singole vignette e la loro irregolare di-


stribuzione nel corpo del codice realizzata senza turbare l’equili-
brata organizzazione delle pagine stesse provano che l’illustrazio-
ne non è stata introdotta nel manoscritto in modo estemporaneo,
a posteriori, da una mano che interviene localmente, come si ve-
rifica, ad esempio, nel Riccardiano 1035 o anche in tanti disegni
lasciati dalla penna del Boccaccio lettore nei margini dei suoi libri,
con immagini che tutto lascia credere occasionalmente suggerite
dal testo registrato su quella determinata carta. In P la scrittura,
che precede senz’ombra di dubbio il disegno, è stata stesa lascian-
do spazi bianchi in cui è stato poi composto il disegno: il copista
dunque ha proceduto nella sua operazione prevedendo esatta-
mente quella serie di immagini, se non – difficile a dirsi – esatta-
mente quelle immagini. Due sono pertanto le ipotesi che si pos-
sono fare: o il copista aveva davanti un antigrafo già illustrato, e si
è limitato a ripetere la struttura delle pagine di quello, o ha steso il
testo tenendo conto di un programma iconografico, che è stato
composto ad hoc da lui o da altri non prevedendo, come per lo piú
capita, una sistematica distribuzione di miniature in luoghi fissi
del testo (tipo: all’inizio di ogni microsezione, nel margine supe-
riore, o in quello inferiore, o nella lettera incipitaria, ecc.), bensí
una precisa dislocazione nelle carte di determinati, precisi sogget-
ti e con una precisa, seppur – come si è detto – non sempre uguale,
estensione grafica.
Su questo particolare si dovrà tornare piú avanti. Per ora vale la
pena osservare che, se nella messa in codice di questo sistema ab-
bastanza complesso la scrittura precede il disegno, non è metodo-
logicamente corretto estendere alla scrittura la datazione dei dise-
gni, soprattutto se i disegni qui presenti non fossero che mera ri-
produzione di disegni presenti nell’antigrafo di P. E non è corretto
neppure estenderla alla composizione del codice in generale, dato
che i disegni potrebbero essere stati preventivati in occasione del-
la confezione del libro, ma concretamente realizzati in altro tem-
po, con anche minime variazioni (come si verifica puntualmente
se si confrontano le miniature presenti nei due testimoni a noi giun­

148
edizioni d’autore, copie di lavoro, autoesegesi

ti dei Documenti d’Amore di Francesco da Barberino), magari pro-


prio nei particolari architettonici di sfondo che di solito si utilizza-
no per fissare termini di riferimento cronologico. Il celebre Dante
Urbinate, iniziato negli anni Settanta del xv secolo, è stato termi-
nato di illustrare oltre un secolo dopo, utilizzando esattamente gli
spazi dedicati rimasti bianchi.
Pare dunque corretto trattare separatamente datazione della
scrittura e datazione dell’illustrazione, ma anche indispensabile, al­
meno sul piano del metodo, non presupporre che l’anteriorità del
testo tràdito da P rispetto a quello tràdito da B, implichi, di neces-
sità, un analogo rapporto tra la confezione di P e di B, seppur que­
sto possa essere, per il caso specifico, abbastanza probabile.

6. I dati anagrafici del copista, come si è detto, non sono diri-


menti. Ci dicono solo che non è improbabile che egli trascrivesse
il “suo” Decameron negli anni che vanno, grosso modo, dal 1358-
1360 al 1370. Piú prezioso sarebbe, se confermato, quanto risulta dal­
la perizia paleografica, ovvero che potrebbe essere stata la mano di
Boccaccio a integrare il testo di P. Questo ci permetterebbe di in-
dividuare nella data di morte di lui, il 1375, un termine ante quem
abbastanza avanzato, ma certo. Che questo sia comunque un ter-
mine di riferimento obbligato mi pare si evinca da tutta la rico-
struzione delle vicende di copia del Decameron fatta da Marco Cur-
si: quanto risulta dal quadro complessivo della diffusione del De-
cameron “vivente Boccaccio” ci permette, mi pare, di individuare,
tra quel 1358-1360 che vede il Capponi raggiungere un’età consona
al lavoro di copia e il 1375, un periodo piú circoscritto. È il partico-
lare rapporto che il frammento Vitali e P stringono con lo scrit­toio
di Boccaccio e Boccaccio stesso, quella loro assoluta fedeltà agli
autografi da cui discendono e l’intervento di Boccaccio su quelle
carte, a lasciare credere che, se lo scrittore si fa trarre dal copista del
frammento Vitali una copia di servizio da un autografo che tra-
manda una stesura piú avanzata di quella di P, in anni collocabili
al settimo decennio del Trecento, è difficile credere che al Cappo-
ni abbia offerto l’autografo di una stesura piú arretrata alla fine di

149
lucia battaglia ricci

quel decennio, quando lui stesso, probabilmente, si accingeva a


stendere quella copia – di fatto, se non per sua volontà, ultimativa
– che è il manoscritto berlinese. Immaginare che P sia stato verga-
to da Giovanni Capponi nel settimo decennio del xiv secolo,
prima che un anonimo copista traesse da un autografo di Boccac-
cio la copia di servizio rappresentata dal frammento Vitali, e prima
che Boccaccio stendesse la copia di lavoro attestata dall’Hamilton
90, pare abbastanza sensato, se non probabile.
Cosí i tempi della scrittura sembrano, tutto sommato, a suffi-
cienza sovrapponibili a quelli che una abbastanza lunga tradizione
di studi ha ricavato dalle illustrazioni, utilizzando in particolare gli
sfondi architettonici dei disegni e gli abiti dei personaggi. Le fogge
di questi abiti, infatti, ricordano da vicino quelle che si vedono a
Firenze, negli affreschi del Cappellone degli Spagnoli, realizzati
da Andrea di Bonaiuto negli anni 1363-1366. E l’assieme dei mo­
numenti che affollano lo sfondo del disegno che, a c. 79v, illustra la
no­vella delle donne papere (Dec., iv Intr.) permette di individuare
alcuni termini di riferimento cronologico, seppur anche in questo
caso, un minimo di cautela sia doveroso (tav. 4). Immediatamente
riconoscibili, sullo sfondo di questa vignetta, che visualizza la di-
scesa a Firenze di Filippo Balducci e il figlio, i monumenti piú tipi-
ci del paesaggio urbano: Duomo, Battistero e Campanile di Giot­
to. Piú problematica l’identificazione del campanile che emerge
tra le due figurine maschili: Santa Reparata secondo Degenhart e
Schmitt, San Michele in Visdomini per Burger.60 Importante la
presenza del campanile di Giotto, che, come ho ricordato, offre un
termine post quem certo, essendo stato terminato nel 1359. Piú pro-
blematiche, a mio avviso, anche le date che si possono trarre dall’al-
tro campanile, a qualsiasi chiesa appartenesse. Entrambe le chie­se,
infatti, come è ben presente agli studi, furono abbattute in anni
che potrebbero essere interessanti: nel 1357 quella di Santa Repa­

60. Degenhart-Schmitt, Corpus der italienschen Zeichnungen (1300-1450), cit.,


vol. i pp. 134-36. L’informazione su F. Burger, in Castelli, scheda Decameron, in
Boccaccio visualizzato, cit., vol. i p. 71.

150
edizioni d’autore, copie di lavoro, autoesegesi

rata; tra il 1359 e il 1368 quella di San Michele in Visdomini. È infat-


ti lecito credere – come è stato osservato per il disegno delle due
coppie a cavallo di c. 5r,61 ma come si può rilevare anche per talu­
ni particolari delle vignette dedicate a illustrare la novelletta delle
donne papere dove si riconoscono schemi compositivi desunti da-
gli affreschi del ciclo del Trionfo della Morte – che questi disegni
siano stati fatti utilizzando dei modelli, e quindi si limitino a ripe-
tere, magari adattandoli al contesto narrativo, moduli iconografici
piú o meno rispondenti alla realtà urbana coeva. Per questa stessa
ragione mi pare problematico utilizzare la presenza della Venere
pudica sulla fontana del disegno di apertura (ritenuta da Degenhart
e Schmitt allusiva alla Venere presente sulla Fonte Gaia di Siena,
distrutta nel 1357). Resta la solidarietà con tipologie grafiche atte-
state negli affreschi fiorentini dei pieni anni Sessanta e il termine di
riferimento post quem al 1359. Cosí anche per l’illustrazione il setti-
mo decennio del XIV secolo, piú o meno spostato verso la fine,
pare arco cronologico congruo con l’assieme dei dati inventariati.
Resta il problema dell’attribuzione. A una generica mano fio-
rentina, come ritenevano nel 1968 Degenhart e Schmitt? alla ma-
no di un professionista come ipotizzava Vittore Branca nel 1985? o
a Giovanni Boccaccio, come ha proposto per prima nel 1994 Maria
Grazia Ciardi Dupré, poi seguita dallo stesso Branca e da altri, pur
se, ancora nel 1997, Branca poteva non escludere la possibilità che
Boccaccio, piuttosto che esecutore materiale dei disegni, potesse
esserne stato l’auctor intellectualis? 62 Non ho competenze per entra-
re nel merito dell’analisi stilistica che ha condotto la storica dell’ar-
te figurativa ad attribuire a Boccaccio questi disegni, insieme con
molti altri che si osservano nei margini di manoscritti passati per
le mani o scritti dal Certaldese. Ma sí dubbi di metodo, che mi
pare opportuno ripetere qui, dopo averli espressi in varie occasio-
ni, in seminari e presentazioni di libri.

61. Boccaccio visualizzato, cit., vol. i p. 71, con referenze bibliografiche.


62. V. Branca, Su una redazione del ‘Decameron’ anteriore a quella conservata nell’au-
tografo hamiltoniano, in « Studi sul Boccaccio », xxv 1997, pp. 3-131, a p. 49.

151
lucia battaglia ricci

7. Torniamo a riflettere sulle modalità seguite dal Capponi per


mettere in codice il testo. Ho già osservato che l’equilibrata com-
posizione grafico-visuale di queste carte, in cui i disegni entrano in
spazi evidentemente programmati all’uopo, obbliga a credere pre-
esistente alla scrittura un preciso progetto iconografico, fosse esso
già compiutamente realizzato nel suo antigrafo, o solo generica-
mente preventivato in una sorta di “bozza editoriale”. In questa
direzione colpisce la presenza, nei margini superiori di alcune del-
le carte in cui compaiono le vignette, di alcuni “segni” di cui ha
dato notizia Cursi.63 Sono otto segni, per lo piú lettere dell’alfabeto,
o parti inferiori di lettere dell’alfabeto, dimidiate, evidentemente
perché vergate in zona sottoposta a refilatura. Poiché queste “lette-
re” compaiono solo nelle carte illustrate, mi pare sarebbe da sonda-
re se non si tratti di letterine-guida, funzionalmente simili a quelle
che, come ha visto Chiara Balbarini, nel Dante Cha e come si veri-
fica anche per Convenevole da Prato, dovevano aiutare l’illustrato-
re a distribuire negli spazi dedicati le immagini previste in una sor-
ta di menabò, stilato da chi ha programmato il libro e la sua illu­
strazione.64 Il paleografo potrebbe aiutarci a capire, dicendoci, per
esempio, se quelle lettere sono state tracciate dalla stessa mano e
quanto è forte il sospetto di una datazione piú bassa avanzato nella
sua descrizione del codice. Se l’ipotesi non fosse troppo avventuro-
sa, si dovrebbe immaginare del tutto improbabile che Boccaccio
avesse bisogno di una guida per collocare al “posto giusto” queste
illustrazioni, mentre rimarrebbe aperta l’ipotesi che possa essere
stato lui progettare il menabò da cui un’altra mano ha derivato i
disegni di P, e la prima stesura di quei disegni. Come a suo modo
aveva fatto Francesco da Barberino per la redazione definitiva dei
Documenti d’Amore, le cui miniature sono eseguite da un professio-
nista, riproducendo le immagini disegnate dall’autore stesso.

63. Cursi, Il ‘Decameron’: scritture, scriventi, lettori, cit., p. 218.


64. C. Balbarini, Progetto d’autore e committenza illustre nel codice di dedica delle
‘Expositiones’ di Guido da Pisa all’ ‘Inferno’, in « Rivista di studi danteschi », iv 2004, pp.
374-84.

152
edizioni d’autore, copie di lavoro, autoesegesi

Che a Boccaccio si debba il progetto, ma non le immagini – so-


spetto a mio avviso legittimo anche per l’autografo del Teseida, la
cui impaginazione rivela una puntualissima progettazione edito-
riale, ma gli spazi dedicati sono rimasti, tranne che per l’immagine
d’apertura, bianchi – è, a mio avviso, l’unica ipotesi di ricostruzio-
ne che lascia spazio alla possibilità (non certo alla necessità) di ri-
conoscere dietro a questi disegni l’autore del libro di novelle: per-
ché è l’unica ipotesi che potrebbe giustificare la presenza, nei dise-
gni, di particolari che mal si conciliano con alcune delle piú im-
portanti operazioni messe in atto da Boccaccio nell’invenzione
che dà vita al suo Decameron, lasciando aperta la possibilità che un
illustratore diverso da lui abbia introdotto particolari dissonanti. È
vero, infatti, come è stato osservato, che i disegni che visualizzano
le novelle dimostrano una considerevole capacità di rendere ica-
sticamente i punti focali del racconto. Ma non è vero che in questo
l’illustratore di P si opporrebbe a una tradizione di illustrazioni pe­
destri, le quali dimostrerebbero l’incapacità degli illustratori che
non si identifichino con l’autore stesso a rendere in modo adegua-
to il testo letterario. Basta decodificare i codici utilizzati, e si può
scoprire con quale perizia i miniatori possano in realtà visualizzare
(e interpretare) il testo.
Se la mano che ha tracciato i disegni di P fosse quella di un let-
tore appassionato come è stato il Capponi, non stupirebbe la com-
petenza nel rendere in modo essenziale le singole novelle o nel­
l’appuntare l’attenzione su particolari di grande interesse e rile-
vanza contestuale come il sottotitolo prencipe Galeotto, adeguata-
mente illustrato dall’immagine delle due coppie a cavallo che fun-
ge da soglia iconica al libro, recuperando una tradizione iconogra-
fica di grande suggestione e successo,65 forse non del tutto indi-
pendente da quei perduti affreschi di Giotto a Castelnuovo a Na-
poli, da cui probabilmente dipende anche la descrizione che della
coppia di Lancillotto e Ginevra dà Boccaccio nella sua Amorosa
Visione. Al contrario, resta da spiegare, se la mano è quella di Boc-

65. Su questo vd. Delcorno Branca, « Cognominato prencipe Galeotto », cit.

153
lucia battaglia ricci

caccio, perché il giardino che è raffigurato nel disegno a c. 4v (tav.


5) ignora, o nega, tratti importanti del giardino decameroniano:
tratti qualificanti per la densità simbolica dei singoli particolari e
per le implicazioni connesse alle scelte che sono state messe in ope­
ra dall’autore per fare di un topos tradizionalissimo il “suo” giardi-
no. Il disegnatore ha messo in scena un giardino molto generico,
recuperando, come si è visto, anche la sagoma di fontane celebri,
e abbondando nei particolari botanici.
Per il giardino della prima giornata Boccaccio non prevede altro
che un prato e fronde di alberi identificate con ulivi; per il giardino
della iii giornata egli invece recupera il complesso modello offerto
dal Roman de la Rose, ristrutturandolo in funzione di una valenza
simbolica non identica a quella del Roman. In quest’operazione
lascia al centro del giardino la fontana, coerente con la simbologia
che a lui qui piú interessa e che è profondamente radicata nella
cultura medievale, ma al posto dei pini – espressamente ricono-
sciuti in una glossa al Teseida come simbolo erotico, e del resto
consacrati da una lunga tradizione letteraria e iconografica pro-
prio agli incontri d’amore (quelli tra Tristano e Isotta, anzi tutto)
– preferisce porre, a circondare la brigata e idealmente protegger-
la dalla morte incombente, essenze vegetali che la cultura medie-
vale faceva strumenti, e simboli, di potenziale eternità (gli agrumi,
i profumi della vite in fiore).66 In questo suo giardino Boccaccio
ha rimodellato, molto consapevolmente, un giardino d’amore per
farne un eden salvifico, rielaborando testi cari al Medioevo e attin-
gendo a piene mani alla cultura classica e enciclopedica, per riflet-
tere nei modi propri dell’invenzione letteraria sulla funzione della
letteratura e sul vivere e morire. Inevitabile dunque chiedersi per-
ché, dimenticando tutto questo, Boccaccio avrebbe disegnato un
giardino in cui, non solo la fontana è fuori asse, ma soprattutto non

66. Su questo vd. in partic. L. Battaglia Ricci, Nel giardino di Boccaccio: tradizio-
ne e innovazione, in Giardini celesti, giardini terrestri. Atti del Convegno di Certaldo
Alto, 29 maggio 2004, a cura di P. Santagati, Firenze, Ente Nazionale Giovanni
Boccaccio, 2006, pp. 15-22.

154
edizioni d’autore, copie di lavoro, autoesegesi

viene prestata alcuna attenzione al tipo di alberi che spuntano un


po’ casualmente dal prato per mettere esattamente dietro la regina
(coronata d’alloro, ma anche canonicamente fornita di scettro!)
oltre che all’estrema sinistra, a chiudere idealmente la scena, pro-
prio un pino.
La solidarietà tra testo e immagine non impone di credere che
a creare quelle immagini sia l’autore stesso del testo, ma l’incoe-
renza tra testo e immagine, vieta, mi pare, di credere che l’imma-
gine sia dovuta all’autore. L’attenzione prestata da Francesco da
Barberino alle figure che corredano i suoi libri, che, come si è vi-
sto, lo scrittore si sente di dovere di precisare di avere disegnato
almeno quattro volte,67 la dice lunga sul rapporto che i letterati
fattisi illustratori intrecciano con i prodotti delle loro penne. Nel
caso che si tenda a credere che l’illustrazione di un’opera sia pro-
dotto dell’autore dell’opera stessa, dirimente risulterà, pleonastico
dir­lo, la coerenza di quell’illustrazione con tutti i livelli del testo,
non­ché con la cultura, anche grafica, dell’autore stesso. Per questo,
mentre va senz’altro accettata l’attribuzione alla mano di Boccac-
cio delle celeberrime figurine presenti nel Decameron berlinese,68
di buona parte di quelle sparse nei margini dei suoi libri69 oltre

67. Cfr. n. 5. Si aggiunga quanto osserva al proposito Goldin Folena, Il com-


mento nella pagina autografa, cit., p. 275: « egli è scrupoloso autore dei disegni che
sottostanno alle miniature del Vat. Barb. lat. 4076 » (ovvero la bella copia dei Do-
cumenti stessi). Sintomatico in tale direzione il passaggio in cui l’autore, fingendo
di rispondere a un ideale interlocutore che vuol sapere chi abbia dipinto le figure
che corredano il ms. « visto che è ben noto che l’autore non è un pittore », rispon-
de: « […] et si non pictorem, designatorem tamen figurarum ipsarum me fecit
necessitas […] cum nemo pictorum illarum partium ubi extitit liber fundatus me
intelligeret iusto modo. Poterunt hinc et alii, mei servatis principiis, reducere
meliora » (il passo, estratto da Documenti, cit., vol. iii pp. 350-51, è citato da Goldin
Folena, loc. cit.).
68. Riprodotte in Boccaccio visualizzato, cit., vol. ii pp. 63-64. Su tempi e finalità
di questo interventi d’autore vd. ora Cursi, Il ‘Decameron’: scritture, scriventi, lettori,
cit., pp. 41-42.
69. G. Morello, Disegni marginali nei manoscritti di Giovanni Boccaccio, in Gli
Zibaldoni di Boccaccio; memoria, scrittura, riscrittura, cit., pp. 141-60, e discussione di
alcune attribuzioni in M. Fiorilla-P. Rafti, Marginalia figurati e postille di incerta

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lucia battaglia ricci

che, come già si è detto, molto probabilmente dei grandi schemi


grafici dei libri della Genealogia deorum,70 andrà, io credo, rivista
anche l’attribuzione a Boccaccio dell’illustrazione del suo Dante
Riccardiano.71 Prescindo ovviamente dall’analisi stilistica, che non
mi compete, ma registro che resta da spiegare come la stessa serie
di disegni che a uno storico dell’arte pare impossibile possa essere
stata dipinta da qualcuno che non fosse veneziano e collocata nel
secondo quarto del ’400,72 per un altro debba essere stato stilato
dalla mano del fiorentino Boccaccio.73 Il dubbio, in questo caso, è
ancora di metodo.
E come tale lo passo al dibattito: può essere di mano del Boccac-
cio la scritta in capitali epigrafiche “all’antica”, che compare sulla
porta di Dite a c. 7r (tav. 6) se il raffinato cultore di modelli grafi­
ci antichi, Francesco Petrarca, « quando, nel 1368, dovette allestire
due iscrizioni marmoree in memoria del nipotino Francescuolo
da Bros­sano, precocemente defunto, ricorse alla tradizione grafica

attribuzione in due autografi di Boccaccio (Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Plut.


54.32; Toledo, Biblioteca Capitular, ms. 104.6), in « Studi sul Boccaccio », xxix 2001, pp.
199-213.
70. Cfr. n. 7.
71. Ho espresso questo dubbio in occasione di un seminario tenuto alla Scuo-
la Normale Superiore di Pisa per gentile invito di Armando Petrucci già nella
primavera del 1999. Registro qui anche, ringraziandolo per l’anticipazione, che
un’impressione negativa sull’attribuibilità dell’illustrazione del Dante Riccardia-
no a Boccaccio è stata espressa anche da Livio Petrucci, che agli autografi di Boc­
caccio ha dedicato il corso di Filologia Italiana (Univ. di Pisa) dell’a.a. 2007-2008.
72. Cosí Millard Meiss in P. Brieger-M. Meiss-Ch. Singleton, Illuminated
Manuscripts of the ‘Divine Comedy’, Princeton, Princeton Univ. Press, 1969, vol. i pp.
249-50.
73. Come, sintetizzando studi precedenti, ribadisce Ciardi Dupré in Boccaccio
visualizzato, cit., vol. ii p. 9. E si osservi che proprio il Dante Riccardiano è utiliz-
zato dalla studiosa come termine di riferimento privilegiato per stabilire l’auto-
grafia boccaccesca di P. Cosí infatti si legge ivi, p. 13: « Ma il confronto piú convin-
cente è offerto dalla copia autografa boccacciana della Commedia (Firenze, Bi-
blioteca Riccardiana, 1035), nelle cui illustrazioni abbiamo ammirato la sapienza
compositiva, la vivacità dei gesti, la caratterizzazione dei volti, il senso dello spa-
zio definito non tanto in profondità quanto nelle quinte laterali, cioè quelle qua-
lità che abbiamo trovato nel Decameron “Capponi” ».

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edizioni d’autore, copie di lavoro, autoesegesi

gotica e all’impaginazione “libraria” coeva », la restaurazione delle


lettere “antiche” in funzione epigrafica essendo ancora « di là da
venire »?74 E – soprattutto – se lo stesso Boccaccio utilizza la litte­
ra textualis per le capitali « di epigrafica solennità »75 con cui registra
nel suo Zibaldone laurenziano, c. 73r, la laureatio di Petrarca: una
« sorta di grande epigrafe di apertura » che è parsa, a Stefano Zam-
poni, un « probabile esperimento di recupero di modelli epigra­
fici »? 76

74. A. Petrucci, La scrittura. Ideologia e rappresentazione, Torino, Einaudi, 1986,


pp. 19-20.
75. Cosí si legge nella scheda di Filippo Di Benedetto in Mostra di manoscritti,
cit., p. 119.
76. In Zamponi-Pantarotto-Tomiello, Stratificazione dello Zibaldone e della
Miscellanea Laurenziani, cit., p. 203.

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