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LUNEDÌ 08-03

LEZIONE 1

LE RIME di Giovanni Boccaccio è un testo molto interessante in quanto, nell’ambito delle sue diverse opere, è forse quello meno
studiato e che necessiterebbe quindi una messa a fuoco. Questo è ancora più vero se pensiamo al testo con cui ci viene presentata
persino l’ultima edizione critica: esso, così come altri, è stato infatti più volte rimaneggiato e sempre stato considerato come opera
secondaria e di poco rilievo nella carriera artistica di questo prosatore. Le Rime del Boccaccio coprono un arco temporale che va dai
primi anni Trenta, e cioè dall’inizio della sua attività letteraria, fino alla vecchiaia e riflettono le incoerenze e i diversi travagli del suo
percorso ideologico e spirituale: dalla fase vitalistica e pagana degli anni napoletani all’allineamento più su posizioni conformistiche
del periodo post-decamerone.

Partendo dall’ultima edizione del 2013, la cosiddetta EDIZIONE LEPORATTI, questa si compone di un corpus di testi, numerati
con numeri romani (da I a CII) indicata come RIME DI BOCCACCIO A TRADIZIONE BARTOLINIANA ; ossia tutte
quelle rime dell’autore che discendono direttamente da un unico codice manoscritto ubicato all’Accademia della Crusca di Firenze,
noto come Codice 53 o Codice Bartoliniano. Esso è in realtà una piccola parte di una più grande raccolta relativa ai grandi artisti del
tempo, realizzato dal grande umanista Bartolini. I testi, cui fonte è Ludovico Beccadelli (altro umanista cinquecentesco), vengono
proposti come una specie di canzoniere del poeta fiorentino; Beccadelli stesso sembra in realtà aver riunito diversi scritti precedenti
provenienti da fonti eterogenee, è però colui che ci testimonia il numero maggiore di liriche nella storia di questa disciplina. Segue
poi una seconda numerazione, questa volta araba: le cosiddette RIME A TRADIZIONE EXTRA-BARTOLINIANA, tutte le
rime riconosciute come autentiche (da 103 a 129). A ciò seguono le RIME DUBBIE.

Molto importante è come Leporatti ci proponga un testo lirico, filologicamente ricostruito, confrontato con diversi codici presenti
anche al di fuori della raccolta di Bartolini.

EDIZIONE LANZA
Uscita nel 2010 per Aracne, anche quest’ultima è completamente diversa rispetto alla tradizione della VULGATA, ampiamente
commentata da tutti gli studiosi. Il Lanza sconvolge l’ordinamento dell’edizione Massera, poi mutato dal Branca nelle sue tre
edizioni de Le Rime (1939, 1958 e 1992), convinto che la condizione necessaria per ogni valutazione critica di esse sia una
sistemazione in base a diversi registri stilistici che corrispondono anche a diverse fasi cronologiche. L’ordine è infatti stilistico-
tematico, ossia l’autore (Lanza) non segue più una ideale biografia di Boccaccio nella riproposizione delle liriche, ma ne inventa uno
completamente personale. Dalla Rima I alla Rima CXXVII abbiamo le RIME DI SICURA PATERNITÀ BOCCACCIANA ,
a cui seguono le RIME DUBBIE, in numero arabo da 1 a 19. Lanza include addirittura un’appendice di RIME SPURIE, ossia
rime storicamente attribuite al poeta fiorentino che lo studioso in realtà non considera come tali; queste rime sono elencate in sezione
con le lettere dell’alfabeto, due delle quali sono in realtà appartenenti a quello greco.

A pag. 63, in fondo al testo, troviamo la dichiarazione di una partizione tematica (condivisibile o meno) che ci fornisce una piccola
sfumatura di quelli che possono essere gli argomenti trattati:

o Da I a XX: poesie stilnovistiche


o Da XXI a XXVII: poesie comico-realistiche di ispirazione fondamentalmente angiolieresca (che si richiamano quindi a
CECCO ANGIOLIERI)
o Da XXVIII a LXXVII: liriche tardo-gotiche
o Da LXXVIII a LXXIX: rime di stile gnomico-realistico, dove gnomico è qui sinonimo di sentenzioso
o Da LXXX a LXXXII rime di corrispondenza con altri rimatori (la rima LXXXIII è di corrispondenza fittizia)
o Da LXXXIV a CVI: rime petrarchiste
o Da CVII a CXXIV: rime morali e religiose

EDIZIONE BRANCA
Vittore Branca, grande conoscitore di Boccaccio, realizza nella sua vita ben tre edizioni critiche del più importante scritto dell’autore,
il DECAMERON; l’ultima di queste, del 1992, è ancora utilizzata come commento critico. L’edizione Branca a sua volta si rifà
all’edizione Massera (1914), da questa discende quell’ordine biografico con cui vengono disposte le liriche boccaccesche. Branca
nonostante la sua ripresa, critica però l’ordinamento pseudo-biografico, così come anche il credito che l’edizione dà al CODICE
BARTOLINIANO. Tuttavia, egli sposerà in tutte le sue personali edizioni questa struttura delle rime, cioè tale che ricalca una specie
di biografia del poeta. Questo viene fatto in quanto la tradizione non ci regala molte certezze, e lo studioso preferisce quindi
mantenere quanto già presente e più volte studiato.

L’ordinamento di Branca è il seguente:

o Rime parte I (componimenti da lui giudicati sicuri di attribuzione): da I a CXXVI


o Rime parte II (sostanzialmente le rime dubbie): da 1 a 49 compresa, in numeri arabi

Le ultime in particolare presentano a lato degli asterischi: la presenza di un asterisco sottolinea una più probabile attribuzione al
Boccaccio, la presenza di due di essi la meno probabile attribuzione.

MARTEDÌ 09-03
LEZIONE 2

Prendiamo ora come punto di riferimento per un’analisi più approfondita delle diverse versioni, l’articolo di TODD BOLI presente
sul volume n. 90 de li “Speculum”. Esso è in grado di impostarci un quadro più o meno generale sulle differenze e sulla diversa
impostazione concernente lo studio intrapreso dalle diverse personalità in seguito citate.

L’edizione critica di Leporatti delle liriche boccaccesche arriva a conclusioni mai trovate in nessuno dei suoi predecessori e diventa
quindi punto culminante di quasi un intero secolo di lavoro filologico dedicato a questo grande NON-MONUMENTO della poesia
trecentesca. Non-monumento, in quanto Boccaccio non aveva mai collezionato i suoi poemi in una qualsiasi raccolta, mostrando anzi
poca considerazione per essi sia singolarmente che come complesso. Allo stesso tempo LE RIME possono, quasi per
contraddizione, essere considerate al tempo stesso un monumento; questo perché la lirica del poeta fiorentino evince grande varietà,
sofisticatezza, originalità e candore emozionale, permettendoci di classificarle tra le migliori del tempo (qualità tutte singolarmente
palpabili grazie al lavoro di questa magistrale edizione).

Dopo una dedica alla memoria di Domenico De Robertis, insegnante nonché mentore per Leporatti, il tutto inizia con una piccola
nota di fondo, una specie di censimento dei 128 manoscritti noti e delle prime dieci stampe delle poesie di Boccaccio. La lista, lunga
155 pagine, dà per ognuno di essi una descrizione essenziale quanto generale con l’aggiunta di un’esaustiva motivazione circa la
particolare sezione in cui i poemi di Boccaccio (o quelli a lui attribuiti) appaiono. Questa generosa divisione ci mostra quante poche
attestazione delle liriche datate prima del sedicesimo secolo effettivamente esistano e, soprattutto, quanto dissenso ci sia sulla loro
attribuzione. Il censo dei manoscritti e delle diverse edizioni rivela inoltre le diverse sfide che, in un modo o nell’altro, hanno
sicuramente intimidito i predecessori dello studioso.

Le successive 110 pagine del libro costituiscono la cosiddetta NOTA AL TESTO, in cui sono identificate ed esaminate le varie
problematiche che si trovano al di là del divario fra tradizione e edizione critica. La NOTA comincia con quella che è
essenzialmente una lunga citazione dall’articolo “A norma di stemma (per il testo delle rime del Boccaccio)” di De Robertis datato
1984, che ne stabilisce il quadro metodologico (la FILOSOFIA); quest’ultima, da qui in avanti, sembra essere la linea guida
dell’edizione di Leporatti. L’obiettivo dell’editore, come spiega la citazione da De Robertis, deve essere un nuovo tipo di
intendimento nei riguardi della relazione instauratasi tra il manoscritto designato Bart di De Robertis (la celebre Raccolta
bartoliniana) e il resto della tradizione. Bartolini ascrive a Boccaccio un totale di 102 poemi, ogni altro tipo di manoscritto non più di
22. Solamente per la presenza di un così alto numero di liriche, con le varie poesie presentate in una sequenza continua ed
esplicitamente attribuita al poeta fiorentino, Bart ha conosciuto quella che potremmo definire una preminenza testuale che ha
oscurato il resto della tradizione.

De Robertis, come detto nella citazione sopra riportata, pensa di scostare Bartolini dal suo piedistallo e di vederlo semplicemente,
senza alcun tipo di preconcetto, un manoscritto come tanti altri. Proprio questo, secondo Leporatti, è il motivo per cui De Robertis si
impegna per proporre l’istituzione di un nuovo testo, che meglio rielegga la sua natura policentrica. Leporatti chiarisce da subito
come la sua edizione non voglia togliere nulla al lavoro del suo maestro e, anzi, adottando il suo approccio alquanto critico, questa
nuova versione sembra promettere (in parte riuscendoci) un vero e proprio ripensamento del “problema editoriale” concernente le
rime di Boccaccio.

L’analisi piuttosto esaustiva operata da Leporatti sui manoscritti identifica sia la relazione esiste tra ciascuno di essi sia quella tra il
singolo poema e la tradizione. La complessità di questa pratica non va sicuramente sottovalutata visto che come la frammentaria e
“policentrica” distribuzione delle liriche è sinonimo dell’origine eterogenea delle loro fonti. E’ però chiaro come lo studio di
Leporatti si contraddistingua sulla genesi delle varie incertezze testuali, così come anche sull’analisi delle microsequenze delle liriche
(quelle che lui chiama MICROSERIE) che sembrano apparire in più di un manoscritto. Ci viene quindi spiegato, in conformità col
pensiero di De Robertis, come lo studio della vulgata, da parte di Leporatti, sia incentrato sull’ignorare le varie questioni di
attribuzione per meglio focalizzarsi su un’analisi condotta “senza alcun tipo di pregiudizio”, fondata totalmente sul criterio filologico.

Quando Leporatti arriva in fine a parlare del problema dell’attribuzione dei testi, egli si muove innanzitutto da quelle che lui stesso ha
chiamato microserie, forse in parte risalenti a collezioni assemblate da membri della cerchia del poeta, se non addirittura da
Boccaccio stesso, per arrivare poi ai vari poemi attestati o meno all’autore nei vari manoscritti, concludendo con le liriche che
appaiono solo una volta nella tradizione. Una conseguenza sorprendente dell’approccio critico di Leporatti è l’esclusione di una
lunga lista di poesie da sempre attribuite a Boccaccio (o a suoi discepoli). Spicca tra essi Iscinta e scalza, con le trezze avvolte,
generalmente ritenuto dei sonetti BAIA boccacciani, che solevano celebrare gli amorosi dintorni della costa napoletana. Nonostante
la tradizione non attribuisca in modo esplicito il poema a Boccaccio, Massera, nella sua edizione critica alle rime del 1914, lo
aggiunge al corpus per la somiglianza ad ulteriori liriche di ovvia matrice boccaccesca.

Antonio Lanza, nella sua edizione del 2010, descrive il sonetto come “la migliore poesia in senso assoluto da lui composta,
sicuramente una delle massime espressioni della lirica italiana, antica e moderna”. Quando Vittore Branca preparò la sua versione de
Le Rime, nonostante lo spiccato dissenso con le attribuzioni di Massera, optò per mantenere quanto già presente in quella versione,
indicandone semplicemente le poesie che lui riteneva “questionabili”. All’edizione del Massera, Branca aggiunse anche ulteriori
venti poemi, di cui otto riteneva forse impossibili da attribuire allo scrittore fiorentino. Egli scelse di includere anche questi ultimi,
seppur incerti, perché ad un certo punto della storia erano stati attribuiti al grande poeta ed era quindi solito ritenere che, anche solo
la presenza di un dubbio sulla loro natura, bastasse per non eliminarlo dalla memoria.

Leporatti osserva come l’appendice nella quale Branca inserisce i cosiddetti “poemi improbabili” attribuibili a Boccaccio “diventa
complemento documentario in cui raccogliere rime di più vario interesse boccaccesco, se non addirittura un contenitore in cui
parcheggiare test la cui contesa attribuzione andrebbe sottoposta a verifica”. Leporatti usa un linguaggio simile per difendere la
rimozione da lui attuata di alcune liriche, ammettendo: “Se ho rinunciato a creare una sezione di rime attribuibili a Boccaccio, non è
perché escludo a priori che ve ne possano essere…Un’edizione non dovrebbe essere un contenitore in cui raccogliere tutti i testi e
documenti avvicinabili all’autore, e d’altra parte escludere tali rime non vuol dire eliminarle dall’orizzonte d’interesse del
Boccaccio.”

Leporatti porge anche uno sguardo al problema di come le poesie di Boccaccio debbano effettivamente essere ordinate. Egli crede
che la disposizione secondo una possibile, quanto inventata, cronologia biografica del poeta da parte di Massera sia assurda e
piuttosto antiquata; rifiuta persino il metodo di Lanza, di una classificazione secondo categorie tematiche e stilistiche puramente
soggettive ed arbitrarie. Leporatti sceglie invece una soluzione strettamente filologica: la sequenza dei 102 sonetti di Bartolini seguita
dalle restanti liriche attributabili. Questa sistemazione sembra essere per lo studio merito di una migliore riflessione su “come si sono
formati nella tradizione certi nuclei di testi, confluiti interamente o in parte nella prima silloge, Bart.”

Il traguardo raggiunto dall’edizione leporattiana sembra essere quello che per decenni Branca e De Robertis avevano tentato di fare
senza però vederne mai la luce, una sistemazione del corpus dei poemi di Boccaccio il cui compimento richiede l’identificazione
dello stemma (secondo le parole di Branca) “nei piani alti delle testimonianze per ogni singolo componimento”, o ancora (secondo
De Robertis) “una soluzione dei problemi della futura…edizione critica delle rime”.

GIOVEDÌ 11-03
LEZIONE 3

Il lavoro di Leporatti, come già accennato, si rifà a quello di De Robertis, in particolar modo ad un articolo specialistico del 1984
contenuto in Studi di filologia italiana, 42. Questo articolo, che possiamo chiamare a tutti gli effetti uno studio, propone sessanta
emendamenti su LE RIME di Boccaccio e afferma, in modo molto chiaro, come l’approfondimento tragga a sua volta origine dalla
tesi di una sua allieva che, su suo suggerimento, aveva studiato la tradizione alquanto complessa dello scritto. All’inizio dell’articolo,
il cui titolo è “A norma di stemma”, viene ricordata la massima dispersione delle testimoniane; siamo infatti davanti la presenza di
diversi manoscritti, di cui almeno quattro cinquecenteschi. Tutte queste testimonianze, per sottolinearne la dispersione, sono definite
come AVARI, in quanto hanno pochissimi componimenti e, salvo un numero minore di casi, i testi variano parecchio tra le fonti. Ad
essi si contrappone la presenza di una silloge molto compatta, le carte 60 RECTO della Raccolta Bartoliniana.

Bartolini era un patrizio e letterato fiorentino facente parte della corte di papa Leone X. Amico di Bembo e di altri letterati, il suo
progetto di raccolta delle liriche viene portato avanti sulla linea della GIUNTINA DI RIME ANTICHE. Questa sua raccolta
include quindi diversi poeti, tutti trattati con minuziosa cura. Attualmente questo codice, conosciuto gergalmente come Bart, è
conosciuto come Codice 53 e le sue carte sono un totale di 261 (moltiplicate per due in quanto ogni carta ha un recto ed un verso).
Per la sezione di Boccaccio la fonte deriverebbe da un testo trascritto da LODOVICO BECCADELLI, altro filologo
cinquecentesco, il cui codice a sua volta trascriveva da fonti eterogenee (oggi andato perso). La raccolta di Bartolini presenta quattro
quinti delle rime, essendo anche testimone unico di ben 55 di esse; stando a questo dato, la pratica editoriale ne risulta molto
condizionata e, finché la testimonianza Bart è disponibile, quest’ultima risulta essere il testo privilegiato per un primo approccio nei
confronti delle poesie.

L’incipit dell’articolo di De Robertis presenta una lista molto sintetica dei manoscritti, da cui possiamo ricavare come molti codici
siano del Cinquecento, altri del Quattrocento ritenuti ugualmente autorevoli (vicini, tra l’altro, agli anni di vita dell’autore). Di fonte
Trecentesca ce ne sono rimasti solamente quattro, una mole nettamente inferiore; un caso va citato per importanza, il cosiddetto
MANOSCRITTO OXFORD 65.

De Robertis ripercorre il dato dell’ottimalità della fede data dagli editori al codice Bart. La prima edizione è di Baldelli, del 1802, che
prese a fondamento un derivato indiretto di Bart, il MANOSCRITTO RICCARDIANO 2846. Sarà Massera successivamente a
soffermarsi sulle problematiche relative alle fonti, innalzando comunque la figura del Bartolini per il lavoro svolto. Lo studio di
Bartolini può essere visto come UN CANZONIERE, una Vulgata delle rime del Boccaccio lirico; per questa ragione esso diventerà
l’exemplum primo per tutti i successivi studiosi e letterati.

Sempre nell’articolo ci viene ricordata la consistenza di alcuni determinati codici per autorità e rilevanza di testi; tra quelli importanti
cita:

o il RICCARDIANO 1100, importante silloge di poesia Due-Trecentesca nonché uno dei rappresentanti della FORMA
CHIGI del canzoniere di Petrarca. E’ tra l’altro piuttosto autorevole per gli studi boccacciani in quanto presenta un
esperimento dai risvolti comici ed icastici dell’epistola napoletana. Abbiamo qui anche una piccola sezione, le carte 50 e
51, con i sonetti di un tal Messer Boccacci (17 tra questi presenti anche in Bart).
o il RICCARDIANO 1103, che raccoglie 22 sonetti in forma non compatta sotto l’intestazione però di Petrarca.
o il MARCIANO 1207, rime di un poeta che auto-compone il testo in questione, tale Felice Feliciano da Verona che, tra le
carte, interpone 15 sonetti di Boccaccio.
o il BOLOGNESE UNIVERSITARIO 177 di Giovanni Maria Barbieri comprendente 7 sonetti e una ballata in una sola
serie, con aggiunta un’altra sezione con una ballata boccacciana.
o il CODICE REGINENSE DELLA VATICANA con serie di 3 sonetti attribuiti a Boccaccio, distaccata un’altra serie
adespota con altri 4 poemi.
o il CODICE PARMENSE 1081, testimone molto importante per alcuni sonetti (di stampa quattrocentesca).
o il CODICE DI OXFORD N. 65 con una piccola serie anonima di componimenti boccacciani, nel numero di 5,
inframezzata tra due sonetti danteschi. L’importanza di quest’ultimo dato solleva la consistenza di questi poemi, il modo in
cui noi arriviamo a fruirne.

La mancanza di ulteriori serie considerevoli pone l’accento sul problema della tradizione su Boccaccio, facendola apparire fin
dall’origine alquanto frammentata, se non addirittura dispersa.

A studio concluso, il quadro dei rapporti ricavato è chiarificatore di molte questioni attributive in cui, naturalmente, conta la
testimonianza del Bartolini tanto quanto quella di ulteriori codici. Ci viene inoltre detto come da queste osservazioni si possano
ricavare almeno una sessantina di restauri testuali di importante rilievo. L’idea di De Robertis è quella di tornare ad una ricostruzione
denominata emendatio ope codicum, cioè una disamina molto attenta delle testimonianze della tradizione. Nelle ultime parti di
commento, con parole a finalità correttiva de LE RIME, viene chiarito come l’ordine di esposizione di una futura edizione debba
essere senza alcun dubbio quello di Bart.

PRODUZIONE IN VERSI
Di Giovanni Boccaccio in quella che è la storia della letteratura prevale sicuramente l’immagine
del poeta come autore del DECAMERONE; egli compose però numerose altre liriche e scritti
di carattere innovativo e fortemente godibile. Abbiamo quindi una prevalente attenzione per la
prosa, in grado di mettere in ombra la sua produzione più lirica, in realtà ugualmente
considerabile come rappresentativa. Per quanto riguarda la produzione poetica in volgare,
ritenuta “minore” e non altrettanto importante o gravida, essa è l’aspetto che maggiormente darà
luogo ad un grande sperimentalismo volto come APRIPISTA su future forme letterarie italiane
e di linguaggio.

Boccaccio nasce nel 1313 probabilmente a Certaldo, secondo altre fonti a Firenze. Così
chiamato per via del nome del padre, Boccaccino di Chelino (quello che noi conosciamo altri
non è che un patronimico) e, proprio per questo, in molta documentazione d’archivio, troviamo la sua famiglia indicata come quella
dei Chelini. La famiglia, legata al contado di Certaldo, gode di diversi possedimenti che rendono l’infanzia del poeta sicuramente
definibile come benestante. Nel 1327, lasciata la casa fiorentina in San Pier Maggiore e la dimora di Certaldo, si trasferì a NAPOLI
con il padre, il quale l’anno seguente fu nominato ciambellano del re Roberto d’Angiò. Giovanni comincia subito l’apprendistato
mercantile e bancario nella sede napoletana della Compagnia dei Bardi, presso Castel Nuovo, e prese a frequentare l’alta società
cittadine e la corte del re, che conobbe di persona.

In quel periodo a Napoli si raccolsero artisti francesi ed italiani, che dettero un impulso decisivo alla penetrazione della maniera
gotica in città. Tra gli altri, poté osservare l’operato di Tino di Camaino e Giotto, che sarà a Napoli dal 1328 al 1332. Con scarso
interesse seguì i corsi di diritto canonico nello Studio, dove ebbe modo di conoscere CINO DA PISTOIA, che gli fu maestro di
poesia negli anni tra il 1330 e il 1331. Frequentò in maniera molto attiva la biblioteca reale, stringendo amicizia con diversi
intellettuali. Proprio in questa città comporrà le sue prime opere, alcune secondo le fonti ispirate dall’amore per Fiammetta: le rime
stilnovistiche (a partire dal 1332-33), la Caccia di Diana (1335), il Filostrato (1335), il Filocolo (1336), quest’ultimo romanzo già
integralmente tardo-gotico, ed il Teseida (1340-41). Queste prime opere mostrano l’ecletticismo boccacciano nei confronti degli
stimoli culturali provenienti dall’ambiente partenopeo.

Fortissimo da subito è il debito nei confronti della tradizione toscana, dagli stilnovisti a Dante, il cui incontro con Cino da Pistoia non
fa che sugellare: sembra proprio infatti Cino ad avviare il poeta al culto dantesco. Lo stesso Petrarca, in una sua epistola in latino La
Familiale 21, 25, indica l’Alighieri come prima guida di studi di Boccaccio nonché sua PRIMA LUCE.

Sotto la dicitura di produzione lirica di Boccaccio, corpus prontamente disperso, possiamo collocare:

o le UNDICI BALLATE DEL DECAMERON (10+1 in seguito alla novella de Lisa innamorata comprendente una
ballata sicilianeggiante ed arcaizzante trascritta nel testo), poco studiate ed analizzate, comprendenti schemi assolutamente
originali rispetto al tempo di stesura. Le poche ballate presenti ne Le Rime sono infatti ballate molto brevi e monostrofiche,
tutte quelle decameroniane sono invece polistrofiche.
o sporadicamente abbiamo altri componimenti lirici presenti in altre sue opere come la BALLATA MONOSTROFICA
DI TIPO STILNOVISTICO DEL IV LIBRO DEL FILOCOLO o l’esperimento molto particolare compiuto
all’INIZIO DEL TESEIDA (terminato dal poeta dopo il suo ritorno a Firenze) con i tre sonetti esplicativi dello scritto.
Si tratta di un esempio di acrostico, i sonetti sono infatti formati dalle lettere iniziali di ogni terzina.

LUNEDÌ 15-03
LEZIONE 4

Per un migliore inquadramento de Le Rime di Boccaccio e, più in generale, di tutta la sua produzione considerata “minore”,
utilizziamo lo studio di PAOLA MANNI pubblicato nel 1916. Si tratta di un volume dedicato interamente alla lingua di Boccaccio,
dove troviamo indicazioni circa tutta l’ampiezza dell’operato del poeta (dal punto di vista lessicale nonché sintattico) ripercorrendo
tutto il patrimonio letterario con cui egli ha a che fare: gli influssi latineggianti, la cultura oitanica ed occitana che lo scrittore ben
aveva imparato a conoscere dalla sua formazione napoletana così come anche dalla lirica antica italiana. Il volume percorre un po’
tutte le opere in volgare boccaccesche e, per quanto riguarda le questioni fonetiche o di carattere morfologico, usi abbastanza minuti,
l’autrice si affida ai cosiddetti manoscritti autografi. Tra essi ricordiamo quello del TESEIDA, in cui troviamo un appunto diretto
dell’autore.

Le Rime furono probabilmente composte lungo tutto l’arco della biografia di Boccaccio ma, tuttavia, questi componimenti non
ricevettero mai un vero e proprio ordinamento. Si riconferma quindi la dispersività della tradizione, la cui maggior parte dei
manoscritti ci dà un numero molto basso di composizioni. Nonostante ciò, come sottolineato da Paola Manni, questa natura
“provvisoria” del corpus di rime ci permette di ripercorrere interamente la summa di elementi in cui possiamo notare le varie
esperienze letterarie che alimentano il linguaggio poetico di Boccaccio. Questo fattore è molto interessante perché ben visibile
all’interno delle sue liriche, esso ci permette infatti di notare la vastissima gamma di temi, registri, toni, linguaggi ed atteggiamenti
utilizzati dal poeta.

Da Le Rime emerge ancora una volta la CENTRALITÀ DELLA LEZIONE DANTESCA, già sottolineata dalla lettera Familiare
21 inviata da Petrarca al certaldese. Il Dante (1265 – 1321) a cui però Boccaccio fa riferimento non si esaurisce al poeta stilnovistico
della Vita nuova e della Commedia; l’imitazione di Boccaccio, avviata più volte in diversi zibaldoni, è anche nei confronti del Dante
delle canzoni del Convivio (canzoni morali ed allegoriche), nonché il Dante delle rime petrose dai toni più aggressivi, tono che non
verrà abbandonato neanche nella sua vecchiaia. Sembra infatti che, in contemporanea alla prima stesura de la Commedia, Dante
riprende quelle caratteristiche dell’eros così realisticamente descritto in alcuni canzoni.
Sempre la Manni rileva l’influsso di altri due grandi poeti stilnovisti: GUIDO CAVALCANTI (1258 – 1300) e CINO DA
PISTOIA (1270 – 1336). Proprio quest’ultimo, incontrato a Napoli, lo spingerà ad un avvicinamento con la poesia toscana e
fiorentina, avviandolo ad uno studio più approfondito della poesia dantesca. Uscendo invece dal canone dello stilnovo, va considerato
un generico influsso sulle opere di Boccaccio datogli dalla lezione dei poeti comico-realistici, tra cui ricordiamo RUSTICO
FILIPPI (1230- 1291) e CECCO ANGIOLIERI (1260 – 1311). Questa impronta comico-realistica riaffiora nel Decamerone
(nella cornice e nelle diverse novelle) così come in un’altra opera boccaccesca composta in ottava rima, il Ninfale Fiesolano.

LE OPERE DEL PERIODO NAPOLETANO (1327-1340)

Sono i testi prodotti dall'autore negli anni giovanili, quando aveva seguito il padre a Napoli e si divideva tra il lavoro al banco dei
Bardi e la frequentazione della corte angioina, e da un lato risentono molto del fascino che l'ambiente aristocratico esercitava su
Boccaccio, dall'altro mostrano ancora elementi di immaturità che verranno via via smussati nelle opere del periodo successivo. Si
tratta per lo più di opere volgari in versi e l'unico testo in prosa è il Filocolo, che rappresenta anche la meglio riuscita e più
interessante di queste prime prove letterarie dello scrittore.

LA CACCIA DI DIANA
È un poemetto in TERZA RIMA (terzine dantesche) in diciotto canti, scritto forse intorno al 1335 e incentrato su una battuta di
caccia svolta dalla dea DIANA e dalle più belle donne della corte napoletana, che si ribellano alla legge della castità imposta dalla
divinità e invocano l'aiuto di VENERE: questa interviene e trasforma gli animali uccisi negli uomini amati dalle donne, tra i quali vi
è anche Boccaccio che da cervo ritorna uomo.

L'operetta è interessante proprio per l'ispirazione dantesca dataci in doppia forma: sia per quanto riguarda la metrica, sia per quanto
riguarda le fonti. Boccaccio riprende infatti una perduta epistola in forma di sirventese di cui Dante parla in Vita nuova 6, 2 che
conteneva l'elenco delle sessanta donne più belle di Firenze. Molto importante è anche la celebrazione dell'ambiente di corte e il
trionfo dell'eros sull'ideale di castità, attraverso la trasformazione delle bestie in uomini; il testo anticipa in parte l'atmosfera delle
opere del maturo Umanesimo, in cui vi sarà l'esaltazione dell'amore fisico privo ormai di dubbi e remore morali.

Come sottolineato da Paola Manni, esistono diverse corrispondenze tra il locus amenus (le erbette, il venticello dolce e il fiume) di
questo poemetto e alcuni degli ambienti descritti da Dante in alcuni canti rappresentanti l’Eden nella sua Commedia. Non mancano
però in Boccaccio anche rimandi al linguaggio dell’Inferno, di cui sono esempio “ le bestie snelle” del capitolo 16 de LA CACCIA
DI DIANA come rimando alle “bestie isnelle” di INFERNO XII. Il riutilizzo di Dante è sempre contestualizzato nella produzione
del poeta fiorentino, arrivando a trasmetterci con le sue parole messaggi anche molto diversi da quelli intesi dal poeta della Vita
nuova; Boccaccio sembra infatti tradurre il tono mistico e soprannaturale della Commedia in una tonalità definibile come idilliaca ed
elegiaca e, molto spesso, le descrizioni per le quali vengono utilizzati temi o lessico danteschi rimandano più spesso ad una vittoria
dell’amore terreno.

Un grande esempio ne è l’utilizzo della figura della donna angelo, immagine di luce nella poesia stilnovista, che in Boccaccio si
trasforma in una specie di elogio alla figura della donna amata. Questo mette in evidenza diversi processi di ricontestualizzazione che
il letterato mette in opera nelle sue diverse liriche, dando vita a momenti di straniamento formale e ideologico. Ricordiamo il proemio
del Filostrato, in cui troviamo diverse citazioni tratte dalla Vita nuova: Boccaccio traduce un passo originariamente in latino di una
citazione biblica, le lamentationes di Geremias, operata da Dante nel descrivere la solitudine caratterizzante la città di Firenze (in
origine Gerusalemme) in concomitanza con la morte della donna amata, facendolo diventare allusione ad un’altra città, in questo caso
Napoli, che si ritrova deserta e perduta a causa dell’allontanamento di Filomena per andare in villeggiatura.

FILOSTRATO
È un poemetto in OTTAVE diviso in nove libri, di argomento epico e ispirato alla tradizione due-trecentesca dei "cantari", ovvero i
poemi recitati dai giullari a un pubblico popolare da cui riprende appunto il metro: racconta una vicenda ispirata al ciclo troiano, che
ha come protagonista il giovane TROIOLO (Troilo), figlio del re Priamo, che si innamora della bella CRISEIDA ed è riamato da
lei, ma poi ne è tradito e cerca la morte gettandosi in uno scontro con Achille (la trama è tratta dal Roman de Troie di Bénoît de
Sainte-Maure). Scritto forse intorno al 1335 (sebbene la datazione sia controversa ed alcuni studiosi siano propensi a dire il 1339), il
Filostrato, il cui titolo secondo una pseudo-etimologia greca significa vinto da amore, è interessante in quanto è il primo esempio
colto di poema epico in volgare della nostra letteratura, poi ampiamente sviluppato nel periodo umanistico-rinascimentale e che
riprenderà da Boccaccio il metro, quell'ottava di endecasillabi che sarà proprio detta OTTAVA EPICA.
Boccaccio inoltre mostra qui una morale nuova e più moderna rispetto ai modelli cui si ispira, infatti non condanna Criseida per il
suo comportamento e descrive la ragazza come un personaggio astuto e calcolatore, tipo femminile di cui vi saranno molti altri
esempi nelle novelle del Decameron (nell'Introduzione alla 6ª Giornata del libro, tra l'altro, Dioneo e Lauretta cantano proprio della
materia del poemetto, mentre uno dei novellatori dell'opera matura avrà nome di Filostrato e rappresenterà l'amante infelice).

TESEIDA
È anch'esso un poemetto di argomento epico come il Filostrato, diviso in dodici libri in OTTAVE e dedicato a FIAMMETTA, la
donna amata da Boccaccio che in base alla leggenda da lui alimentata sarebbe stata la figlia naturale di re Roberto d'Angiò: scritto
intorno al 1339-40, tratta la materia del Roman de Thèbe (anche se è forte l'influenza della Tebaide del poeta latino Stazio) e i
protagonisti sono due giovani tebani, ARCITA e PALEMONE, prigionieri ad Atene e innamorati entrambi di EMILIA, sorella
della regina delle Amazzoni, Ippolita, a sua volta moglie di Teseo, duca della città. È proprio Teseo a proporre come soluzione per
stabilire chi sarà lo sposo di Emilia un torneo, cui parteciperanno i due contendenti (spalleggiati dai migliori guerrieri provenienti da
ogni luogo della Grecia); il vincitore è Arcita, che celebra le nozze anche se per le ferite ricevute è in fin di vita, così il giovane
morente, con un gesto di straordinaria generosità, lascia la sposa all'amico rivale. Il poema si conclude con le esequie di Arcita e le
nozze di Emilia e Palemone.

L'opera è interessante come precedente dei poemi epico-cavallereschi dei secc. XV-XVI, e anche per la curiosa mescolanza di
elementi del mito classico e temi moderni (i personaggi, pur vivendo nella Grecia antica, si comportano come uomini del Trecento e
lo stesso torneo al centro della vicenda sembra una giostra medievale).

LE OPERE DEL PERIODO FIORENTINO (1341-1349)

Risalgono agli anni in cui l'autore torna a Firenze al termine della sua esperienza napoletana e si trova in un ambiente mercantile
dominato da un pubblico molto diverso da quello raffinato della corte angioina, che in parte influenza la nuova fase letteraria: sono
testi per lo più in versi, tra cui spicca l'Elegia di Madonna Fiammetta che è l'unico testo interamente in prosa, oltre ad essere l'opera
più interessante e moderna prima del Decameron.

COMEDIA DE LE NINFE FIORENTINE (NINFALE D’AMETO)


Composto probabilmente subito dopo il ritorno a Firenze (1341-1342), il testo si presenta come un PROSIMETRO che alterna
passi in prosa a brani in terzine dantesche, riprendendo in minima parte il modello dantesco della Vita nuova: la vicenda narrata si
svolge in un ambiente idillico-pastorale tra Arno e Mugnone, dove il pastore AMETO (un ragazzo ancora rozzo e incivile) incontra
sette bellissime ninfe e si innamora di una di loro, LIA. Nel giorno in cui si celebra la festa di Venere le ninfe si radunano intorno ad
Ameto e ad altri pastori per raccontare a turno le loro storie amorose, in una situazione che si riallaccia al gioco delle questioni
amorose del Filocolo e anticipa ovviamente la cornice del Decameron; all'elemento erotico-amoroso si aggiunge anche quello
celebrativo, poiché una delle ninfe, Fiammetta, parla delle origini di Napoli, mentre Lia descrive quelle di Firenze. Alla fine delle
narrazioni Ameto è immerso in un bagno purificatore e diventa così un individuo nobile e ingentilito, in grado di comprendere
l'allegoria che si cela dietro i racconti: le sette ninfe sono in realtà le virtù cardinali e teologali e attraverso il loro insegnamento
l'uomo può raggiungere Dio, mentre i pastori innamorati di loro sono l'immagine dei vizi che alle virtù si oppongono. L'intento
allegorico è un involucro puramente esteriore, poiché il vero interesse dell'opera è nel gusto della narrazione (dunque nell'elemento
novellistico-romanzesco) e nella descrizione sensuale della bellezza delle ninfe, che traspare dalle loro vesti discinte permettendo ad
Ameto di ammirarle durante il racconto delle novelle.

L’AMOROSA VISIONE
È un poemetto allegorico diviso in cinquanta canti di TERZINE DANTESCHE, composto probabilmente dopo l'Ameto e prima
dell'Elegia tra il 1342-43: descrive un sogno in cui l'autore si ritrova in un luogo deserto e incontra una giovane donna bellissima, che
lo conduce alle soglie di un castello dotato di due porte, una stretta che immette alla virtù e l'altra più ampia che porta alla gloria
mondana. Lo scrittore entra da quest'ultima e viene introdotto in una magnifica sala, dove ci sono affreschi che celebrano i trionfi
della scienza, della gloria, della ricchezza e dell'amore, mentre in un'altra stanza contempla l'immagine della Fortuna tra le sue
vittime. In un meraviglioso giardino incontra poi la sua amata Fiammetta e sta per unirsi a lei, ma si sveglia ed è ricondotto dalla sua
guida al cammino che conduce alla virtù.
L'opera è piuttosto arida ed è la meno riuscita di Boccaccio, che si ispira all'allegorismo dantesco senza molta convinzione e si
dilunga in elenchi di personaggi e situazioni tipici dell'enciclopedismo medievale, in forme però stanche e puramente esteriori. Tutto
il poemetto inoltre è costruito come un enorme acrostico, poiché le lettere iniziali di ciascuna terzina formano tre sonetti di dedica, i
primi due indirizzati a "madama Maria" (cioè a Fiammetta) e il terzo ai lettori.

Secondo la più parte degli studiosi avremmo l’attestazione di una riscrittura più tarda del poema arrivataci all’interno della prima
edizione a stampa (editio princeps) dell’opera. Fatto indubbio sul modus operandi di Boccaccio sarebbe il suo continuo ritornare sui
suoi scritti con sempre nuove riprese e modifiche.

IL NINFALE FIESOLANO
È probabilmente l'ultima delle opere che precedono il Decameron e si presenta come un poemetto costituito da 473 OTTAVE, lo
stesso metro usato nel Teseida e nel Filostrato: il tema è eziologico e narra le mitiche origini dei torrenti AFRICO e MENSOLA,
nonché della città di Fiesole la cui fondazione era attribuita tradizionalmente ad Atlante, dunque l'opera risente del clima culturale
fiorentino e si imporrà in seguito come modello di testi simili della letteratura volgare, sino alla Nencia di Lorenzo de' Medici e alle
Stanze di Poliziano.

La vicenda narra del giovane pastore Africo che scopre di nascosto tra le ninfe la quindicenne Mensola, innamorandosi di lei: invano
il padre cerca di distoglierlo da questa passione, ricordandogli che la dea Diana è vendicativa nei confronti delle ninfe che infrangono
la promessa di castità, perciò Africo continua a inseguire Mensola nei boschi e nelle foreste senza riuscire mai a raggiungerla. Su
consiglio di Venere, il pastore si traveste da donna e si mescola alle ninfe che fanno il bagno, riuscendo a sedurre Mensola con
l'inganno: la ragazza, che resterà incinta, è disperata per aver disobbedito a Diana e decide di non vedere più il pastore che, per la
disperazione, si uccide, mentre il suo corpo cade nel fiume che prenderà il suo nome. Intanto Mensola vede crescere il proprio ventre
e si confida con la ninfa Sinidecchia, che le consiglia di nascondere il proprio stato: subito dopo il parto, tuttavia, la cosa viene
scoperta da Diana che per punizione trasforma Mensola nel fiume che lei tenta di attraversare per fuggire e che si chiamerà come la
ninfa (è evidente l'influsso delle Metamorfosi di Ovidio e in particolare dell'episodio di Apollo e Dafne). Il bambino, Pruneo, sarà
allevato dai vecchi genitori di Africo e, diventato adulto, si metterà al servizio di Attalante (Atlante) che sarà il mitico fondatore di
Fiesole e libererà le ninfe dalle leggi di Diana, ponendole sotto la signoria di Venere.

Il testo mostra una raggiunta maturazione dello scrittore e l'opera, benché in versi, mostra un ritmo narrativo che anticipa il
Decameron e non è appesantito dall'apparato allegorico tipico dell'Amorosa visione o dell'Ameto, mentre l'opposizione Diana-Venere
che si risolve a vantaggio della seconda vuole essere una celebrazione dell'eros e la sua vittoria sulla castità, idea già espressa
nell'operetta giovanile Caccia di Diana.

L’opera viene considerata da alcuni studiosi come estremamente innovativa per via del suo linguaggio prevalentemente basso, tanto
da mettere in dubbio la sua attribuzione all’autore fiorentino, con addirittura delle possibili aggiunte da parte di copisti trecenteschi
(ricordiamo infatti che l’opera non ci è arrivata in originale). Secondo altri, il citato LINGUAGGIO BASSO, inedito per Boccaccio,
caratterizzato da un modo di parlare umile, tipico del contado fiorentino, sarebbe un ulteriore segno di realismo adottato dal poeta
nella stesura della storia.

RAPPORTI CON PETRARCA


Difficile secondo gli studiosi è individuare l’itinerario caratterizzante i rapporti tra i due poeti, proprio a causa dei problemi di
datazione nei riguardi degli scritti di Boccaccio. L'incontro con Petrarca sarebbe avvenuto forse nel 1350 in occasione del passaggio
di quest’ultimo da Firenze in direzione di Roma per il Giubileo e l'amicizia nata col grande poeta lirico influenzerà profondamente il
pensiero di Boccaccio, che da un lato è colto da ansie e dubbi di natura religiosa, dall'altra inizia a comporre opere di tipo erudito
sull'esempio del maestro, a rivelazione del nuovo e moderno rapporto dello scrittore con il patrimonio della letteratura classica
(soprattutto latina, poiché Boccaccio aveva una conoscenza imprecisa del greco). Frutto di questo periodo sono alcune operette
didascaliche in latino di scarso peso, tuttavia interessanti in quanto mostrano l'inclinazione già pre-umanistica dello scrittore che
anticipa molti temi poi affrontati dalla letteratura del XV sec., tra cui si possono citare il De claris mulieribus (biografie di donne
famose dell'antichità e del mondo moderno), il De casibus virorum illustrium (che narra vicende di personaggi passati dalla felicità
all'infelicità), il Buccolicum carmen (raccolta di sedici egloghe pastorali di ispirazione virgiliana e dantesca).

Tra i testi di questa fase spicca soprattutto la Genealogia deorum gentilium, sorta di trattato mitografico in 15 libri che descrive e
spiega le origini degli dei pagani proponendo talvolta un'interpretazione allegorica, anche se l'ispirazione è decisamente pre-
umanistica (Boccaccio lo terminò negli ultimi anni della vita); da ricordare inoltre la composizione di 26 Epistole quasi tutte in
latino, molte delle quali indirizzate all'amico Petrarca e tutte interessanti per l'amore verso la cultura classica, intesa appunto in senso
moderno.

Il pre-umanesimo di Boccaccio è comunque diverso da quello petrarchesco, in quanto per Petrarca il culto dei classici aveva spesso
un risvolto religioso al fine di migliorare moralmente l'animo umano (come nel caso famoso del Secretum), mentre in Boccaccio
l'erudizione ha soprattutto un ASPETTO LAICO, con l'ammirazione della virtù degli antichi e la ricerca di modelli di
comportamento non sempre in accordo con le norme della morale, in ciò davvero segnando un distacco profondo rispetto al
Medioevo e all'atteggiamento di Dante.

La prassi lirica di Boccaccio è una prassi poetica molto ricettiva e, anzi, possiamo ancora sottolineare come essa sia destinata ad un
genere lirico preminente, IL SONETTO, assolutamente preponderante. Già Branca, nella sua introduzione a Le Rime, indica dei
tratti molto peculiari del sonetto boccacciano:

o la tendenza preponderante di fondere le due quartine tra loro in unico giro logico e melodico, avvicinandole quasi ad una
ottava.
o il procedere ritmico dell’espressione boccacciana caratterizzato dal non rispettare l’istituto metrico. A differenza di altri
poeti, il procedere di Boccaccio è infatti molto sinuoso (comunemente definito prosaico), fitto di enjambements. La sintassi
boccaccesca è quindi libera, muovendosi lungo tutto il percorso testuale del componimento con al primo posto le diverse
esigenze espressive dell’autore, come l’argomentazione.
o

MARTEDÌ 16-03
LEZIONE 5

Un’altra studiosa, ILARIA TUFANO, sulla scorta degli studi di Michelangelo Picone (suo maestro), in uno studio del 2009 sul
registro comico ne Le Rime di Boccaccio ci rivela delle informazioni fondamentali per l’inquadramento dello stile, della tonalità e
dello sfondo culturale dello scritto boccacciano. La Tufano dedica questo breve intervento ribadendo quanto già in realtà ricavato
dall’ordinamento dell’edizione Lanza, ovvero il fatto che di testi specificatamente di tipo comico, che Lanza indica come di
ispirazione angiolieresca, ve ne sono pochi; noi possiamo però vedere come l’autore rinnovi spesso un patrimonio culturale alto
(post-stilnovistico) introducendo un PUNTO DI VISTA ALTERNATIVO che, più propriamente, ha a che fare con il ribaltamento
della letteratura di ascendenza blasonata della nostra lirica. Abbiamo quindi un’introduzione di dialoghi, alcuni effetti di
drammatizzazione e diverse messe in scena (effetti quasi teatrali), nonché un ABBASSAMENTO DEL REGISTRO utilizzato con
un uso di un linguaggio prevalentemente basso, più vicino al quotidiano.

Sintetizzando alcune caratteristiche principali de Le Rime, Ilaria Tufano ci spiega come il corpus di liriche mostri una KOINÈ
(lingua comune) genericamente denominabile come post-stilnovistica. Questo linguaggio e queste tematiche adottano stilemi definiti
chiaramente danteschi, Boccaccio pratica infatti lungo tutta la sua carriera un vero e proprio culto del poeta fiorentino. Spesso i
sonetti boccacciani mettono inoltre in azione alcuni topoi comuni allo stilnovo, tra cui il mostrarsi della donna e gli effetti benefici
della sua apparizione sull’io lirico/poeta con un’esplicita volontà di ricongiungersi alla tradizione duecentesca. Questo dato può farci
riflettere su una particolare caratteristica, a tratti psicologica, del Boccaccio autore: egli si mostra, nei confronti dei suoi predecessori,
in un ATTEGGIAMENTO DI PIENA CONTINUITÀ nei riguardi suoi “padri”. Atteggiamento completamento diverso rispetto a
quello adottato da Dante che, come ci viene mostrato nel purgatorio, cerca di liquidare personaggi di spicco della letteratura come
GUITTONE D’AREZZO a favore più di sé stesso e della sua generazione.

Allo stesso modo, come dichiarato nel CODICE CHIGI L V 176, emergono le grandi differenze che Petrarca sente di avere
rispetto a Dante nella concezione della vita, degli studi e nella scelta del pubblico a cui la propria opera è destinata. Petrarca, infatti,
non ha studiato gli scritti di Dante perché suo desiderio era quello di crearsi uno stile proprio, senza subire l’influenza di alcun grande
maestro; inoltre, la poesia dantesca, scritta in volgare, secondo il preumanista viene recitata soprattutto da persone ignoranti che la
imbrattano e la deturpano, rischio che Petrarca non vuol correre per i suoi versi.

Boccaccio, benché sia un intellettuale fortemente innovatore (ricordiamo l’ottava rima), sembra profondamente rivolto ad una
conciliazione tra la vecchia generazione dei suoi predecessori e quella nuova, promuovendo il culto dantesco ma, allo stesso modo,
portando in auge novità dirompenti.

Anche un’opera così innovativa come il Decameron, prima messa in scena della classe mercantile a cui il poeta effettivamente
apparteneva, nella famosa INTRODUZIONE ALLA IV GIORNATA dichiara alcune auctoritates come DANTE o CINO DA
PISTOIA. In particolare, nell’introduzione a questa giornata, Boccaccio si ritrova a difendersi da alcuni detrattori che lo accusavano
di aver forzatamente trattato il tema delle donne e del favore nei loro confronti; il certaldese non rinnega questa tematica filogina,
così come quelle cortesi, difendendo l’altezza letteraria e culturale delle sue novelle, per quanto rivolte ad un pubblico femminile. A
Boccaccio sta a cuore, come si evince anche da alcune pagine del Trattatello in Laude di Dante, la sua produzione in volgare; non va
dimenticato poi che nella Vita nuova anche Dante aveva giustificato la scelta della lingua vernacolare nei confronti del latino per una
migliore comprensione delle sue poesie al genere femminile che, purtroppo, non aveva accesso ad una formazione alta.

Da questo atteggiamento adottato da Boccaccio, la studiosa sottolinea una sua possibile PECULIARITÀ PSICOLOGICA e come
questa sua grande gratitudine nei confronti dei suoi maestri sia presente anche ne le Genealogia deorum gentilium, opera di
erudizione mitologica in 15 libri, scritta in latino: i primi 13 sono organizzati in base alla struttura delle famiglie degli dèi pagani, gli
ultimi due contengono un’esaltazione della poesia come fonte di verità e di salvezza. Boccaccio, che lavorò a lungo alla Genealogia
senza mai giungere alla stesura definitiva, si sofferma soprattutto sul significato allegorico dei miti, cioè sui concetti morali e sui i
preziosi insegnamenti nascosti dentro queste antiche e affascinanti storie. I suoi riferimenti sono soprattutto Tusculanae e De natura
deorum di Cicerone. Nella trattazione, che procede minuziosamente e con dovizia di particolari, è fatto sfoggio delle fonti consultate,
citate puntigliosamente. La biblioteca che Boccaccio mette a frutto per questa enciclopedia mitologica è amplissima: da un lato ci
sono gli autori della classicità, greca e latina (Aristotele, Platone, Omero, Plinio, Marziale, Tacito), ma non mancano riferimenti a
scrittori più tardi, come Isidoro e Rabano Mauro, e neppure ai contemporanei, tra i quali figurano Petrarca e Leonzio Pilato. Grazie al
magistero del frate calabrese, che Boccaccio ospita a Firenze dalla fine del 1359, operandosi perché possa insegnare per due anni
presso lo studio fiorentino, la cultura greca fa il suo ingresso ufficiale nella nascente comunità degli umanisti toscani, come ricorda
con vanto un famoso passo delle Genealogie: XV, VII, 5-6.

Nella sua lirica, così come in molte delle sue opere in versi, notiamo questa volontà di adattamento ai canoni della letteratura più alta.
Quei tratti di carattere maggiormente comico-realistico sembrano però riservati alla sola produzione in prosa, trattando la lirica più
come una sorta di diario sentimentale. Non abbiamo nemmeno molti studi nei riguardi della tradizione a cui Boccaccio si riaggancia
per la stesura de Le Rime; la critica, infatti, si è concentrata sicuramente più sugli aspetti tecnici dello scritto, senza una vera e
propria volontà di indagine a fondo su modalità ed intenzioni. Sono state notate in particolare:

o una grande TENDENZA DEL POETA ALLA PROSAICITÀ, non rispettando i confini della fine del verso e della
terzina; abbiamo così una forte tendenza alla prosa che non alla creazione di versi veri e propri.
o uno STILE PROSAICO de Le Rime ha anche a che fare con un’adozione, accanto al linguaggio più alto e selezionato
della lirica precedente, di avverbi e locuzioni verbali provenienti dalla quotidianità.
o una GRANDE TENDENZA ALLA MINUTA ANALISI, Boccaccio sembra infatti assumere un atteggiamento
molto analitico anche in uno spazio così conciso come quello del sonetto, donandoci particolari e gesti molto realistici
perché approfonditamente descritti.
o un’ENFASI SULLA DIEGESI, sia a livello macrotestuale (del componimento nel suo genere) che microtestuale (nei
vari segmenti).
o il RICORSO A TOPOI, come quello noto di Baia. Essa era una località marina sul golfo di Pozzuoli, celebrata dai poeti
latini e meta prediletta anche al tempo di Boccaccio dei nobili napoletani e della stessa Fiammetta; nei confronti della vita
di Baia Boccaccio, in altre opere, esprime un sentimento a volte di condanna morale, altre volte di ammirazione.
o una DRAMMATIZZAZIONE DI ALCUNI EPISODI all’interno persino della cornice minuscola di un singolo
sonetto.
o nell’incontro con la donna amata emergerebbe poi un TONO DAL CARATTERE PARTICOLARMENTE
EROTICO, un sincretismo che mette insieme il linguaggio stilnovistico con un compiacimento/una fruizione del piacere
sensuale nel momento della manifestazione del personaggio femminile. In alcune rime abbiamo addirittura dei riferimenti
alla sensualità del rapporto amoroso, con vere e proprie allusioni allo stato d’animo del poeta nella visione di un possibile
“qualcosa in più” nella donna rispetto a quanto l’occhio già non possa osservare.

Se possiamo quindi accettare che il versante prettamente comico sarebbe poco rappresentato ne Le Rime, siamo costantemente
esposti ad un ABBASSAMENTO DEL REGISTRO ALTO (tragico) verso uno più mediocre, mezzano. In questo dobbiamo
anche contestualizzare la produzione boccacciana in quello che è il secolo di vita dell’autore, intendendo le sue scelte come
caratteristica generica di una lirica trecentesca dove la differenza tra linguaggio alto e basso fosse meno rigido sulla scia della
contaminazione della Commedia dantesca.

TOCAMI IL VISO ZEPHIRO TALVOLTA


Sonetto XLIII nell’edizione Lanzi che appartiene al cosiddetto “ciclo di Baia”, serie di componimenti in cui Boccaccio parla di questo
sfondo di villeggiatura sul litorale napoletano dove la donna amata, Fiammetta, si sarebbe recata, lontano da lui, in vacanza. Queste
liriche mettono quindi in scena episodi di una VICENDA PSEUDO-BIOGRAFICA tra il poeta e la donna amata, Fiammetta
(senhal, che si rifà alla fiamma); il sonetto qui preso in considerazione è incentrato sul tradizionale tema del risveglio primaverile
della natura e della presenza della donna. Protagonista del sonetto è il vento Zefiro, che in primavera ridesta l’amore, il quale dialoga
direttamente con il poeta; questo soffiando, sotto forma di una piccola nuvola, sfiora il viso di Boccaccio, portando all’apparizione
della donna (che si rivelerà essere un semplice sogno). Il motivo, presente anche nel Canzoniere di Petrarca, compare frequentemente
in diverse altre opere boccacciane come il “Filostrato” o il “Teseida”.

Il motivo invece dell’amata che appare in una nuvola è di origine dantesca, secondo Branca esso deriverebbe dall’incipit molto
famoso nei manoscritti antichi del poeta nonché, possibilmente, dalla ballata 58.

LIVELLO METRICO: Sonetto con rime incrociate nelle quartine e due rime rinterzate nelle terzine, secondo lo schema ABBA,
ABBA; CDD, DCC.

PARAFRASI: Zefiro tal volta mi tocca il viso, in modo un po’ più impetuoso del solito, come se fosse stato liberato da
poco dall’oltre di Ulisse, e ne avesse sciolto la cinghia. [Nell’Odissea di Omero si racconta che Eolo aveva regalato ad Ulisse una
bisaccia di cuoio in cui erano rinchiusi tutti i venti, per facilitargli il ritorno a casa]

E dopo che ha attratto verso di sé tutta l’anima, sembra che mi voglia dire: «Solleva il volto; osserva la donna che io, uscito da
Baia, ti porto avvolta in questa nuvola». [Nei confronti della vita di Baia Boccaccio, in altre opere, esprime un sentimento a volte di
condanna morale, altre volte di ammirazione]

Io alzo gli occhi, e mi sembra di vedere che ci sia dentro quell’aria la mia donna, tanto bella che il cuore viene meno per la
meraviglia. [La descrizione dell’innamoramento del poeta sembra seguire i canoni dello Stilnovo]

E, non appena la vedo avvicinarsi, mi sollevo per prenderla e trattenerla: ma il vento cessa, ed ella scompare in quell’istante.

DIFFERENZA TRA LE VERSIONI


(Vedi file inviato dalla prof. a lezione) Come si evince da un confronto tra le due edizioni, quella di Leporatti del 2013 e quella di
Lanzi del 2010, emergono tra le due presentazioni del sonetto delle differenze sostanziali:

o differenze a livello di fonetica, a volte come sostituzione di problemi, altre frutto di diverse scelte (es. nell’ultimo verso
dell’ed. Leporatti non abbiamo una rima identica).
o in Lanzi la prima terzina, con schema CDD, in realtà non rima portando ad un risvolto dal punto di vista metrico.
o al verso 5, Lanzi sembrerebbe evincere che l’alma attratta sia quella del poeta, mentre la scelta sintattica attuata da
Leporatti parrebbe legare questo raccoglimento al personaggio di Zefiro, il vento.

GIOVEDÌ 18-03
LEZIONE 6

Il sonetto è articolato sul tradizionale tema del risveglio primaverile della natura e della presenza della donna, qui identificabile con
Fiammetta. Protagonista del sonetto è il vento Zefiro che in primavera ridesta l’amore (e che è sempre associato, secondo il canone
classico, all’idea della vegetazione che rifiorisce e germoglia dopo il gelo invernale). Boccaccio arricchisce la trama dei richiami
mitologici mediante un riferimento diretto all’epica («dal cuoi’ d’Ulisse», v. 4). Successivamente il poeta definisce con precisione il
luogo in cui si trova la figura femminile protagonista dell’apparizione: essa viene da Baia, luogo di villeggiatura e di divertimento
frequentato dall’autore durante il periodo napoletano. Da qui esce una nuvola sospinta dal vento Zefiro, il quale dialoga direttamente
con il poeta. La donna («gioia», v. 7) appare avvolta in una nuvola, così come Beatrice appariva circondata da una «nebula di colore
di fuoco»; l’apparizione desta stupore («maravigliarse», v. 11), ma la situazione, in questo caso, non presenta i risvolti drammatici
del modello dantesco. Nell’ultima terzina si narra la fine del sogno: il poeta tenta di trattenere a sé la donna, ma il vento fugge
portandola con sé. Nulla a che vedere, ancora una volta, con i modelli che Boccaccio consapevolmente tiene presenti ed evoca: non
c’è qui né la drammaticità del sogno dantesco né la tristezza che colma il cuore di Petrarca al sopraggiungere Zefiro. Il poeta è ben
cosciente che l’apparizione è stata solo un sogno e che il sogno è per definizione caduco. Ma la sua è la concreta disillusione di un
amante completamente radicato nel mondo terreno, e comprensibilmente dispiaciuto di non aver potuto “pigliare” e “tenere” la sua
donna.
Toccami ’l viso svolge quindi il motivo dell’AURA-SITUATION, frequente nell’opera del Boccaccio giovane, motivo su cui si è
molto discusso. Va qui sottolineato come nel giro dei quattordici versi del sonetto sia raccontata una microvicenda, e come l’intento
diegetico sia realizzato attraverso una breve e vivace drammatizzazione. Il nucleo centrale è costituito da un’allocuzione dello stesso
Zefiro mitologicamente personificato, che richiama l’io assorto e lo induce alla vista dell’EIDOLON dell’amata. Il motivo dell’aura
all’interno di un sonetto di carattere tanto narrativo sembra quasi acquisire una sfumatura antilirica che conferisce spessore al
tentativo di rinnovare e contaminare i modelli occitanici. Potrebbe anche essere significativo il fatto che il paese in cui risiede la
donna lontana sia proprio Baia che la spinge al tradimento. Ma, in verità, questo singolo testo non fa accenno all’abbandono da parte
dell’amata, di cui invece ci informano altri sonetti del ciclo baiano.

Il sonetto è più da leggersi attraverso le sue connessioni di “trasformazione” con i sonetti baiani dell’abbandono, alla luce dei quali
l’eidolon della donna portata dal vento spirante da Baia acquisisce una luce ironica e compiutamente parodica rispetto al modello
canonico. Ma, poiché nel microtesto è assente ogni riferimento alla condotta infedele della donna si può solo sottolineare, se non
l’intento parodico, almeno la VOLONTÀ DI EMULAZIONE e di rinnovamento esibita dal Boccaccio rispetto ai modelli lirici
provenzali e stilnovisti. Novità tematica è anche la straordinaria impetuosità di Zefiro, con uno scarto significativo rispetto alla
douss’aria proveniente dal paese dell’amata, e con una forte variazione nei confronti della tradizione latina e volgare in cui Zefiro
sempre «bel tempo rimena» (Petrarca), configurandosi come brezza fresca e leggera della bella stagione.

Al consueto e topicissimo incipit primaverile, il Boccaccio oppone uno scarto che introduce una tensione narrativa ottenuta tramite la
rilevanza accordata al vento, che sbalza come figura autonoma svincolata dalla cornice incipitaria. Zefiro si pone quale
DEUTERAGONISTA e assume l’insolito ruolo di un personaggio in movimento che contrasta la passività sognante di un agens
immobile. L’allocuzione del vento contiene un elemento deittico poi ripreso dall’io, teso a enfatizzare l’opposizione spaziale dei due
diversi piani: «Leva il volto suso; [… ] Io lievo gli occhi […] lievomi». Il vento e l’effigie femminile sono in alto, l’io rimane
relegato nello spazio basso. Il ribaltamento era in realtà già stato percorso da ARNAUT DANIEL nella lirica dei trovatori, va citata
in particolar modo l’inizio di una delle più belle canzoni trobadoriche con la cosiddetta descrizione di una «l’aura amara»: un vento
in grado di far zittire gli uccelli, seccare i rami e non fiorire i prati. Sebbene però la natura risulti contaminata da uno stato di
freddezza, l’io poetico riesce a mantenere dentro di sé il mettere fiori e frutti grazie alla sua volontà di amare (la canzone verrà scelta
da Dante nel De vulgari eloquentia come esempio della tematica amorosa).

Sempre ad Arnaut Daniel rimanda il tentativo, riscontrabile nei versi 13 e 14, dell’io lirico di afferrare, cercando di trattenere a sé,
l’immagine dell’amata. Il vento però fugge e l’immagine sparisce in questa nuvola da lui trasportata; il rimando è evidente nella fine
di alcune liriche del trovatore, in cui egli si presenta in modo AUTO-PROVOCATORIO (rimando alla propria maestria poetica e
all’orizzonte della poesia goliardica) come uomo che «ammassa l’aria / e va a caccia della lepre col bue / e nuota contro corrente»,
iperboli di congedo.

Un’ultima indicazione scenica visualizza la risposta muta dell’io e stigmatizza il suo tentativo, di alzarsi ad abbracciare l’aria per
impossessarsi dell’effigie, e la gestualità è resa ancora più maldestra dall’allontanamento fuggitivo di Zefiro.

Sicuramente il tema della lirica boccacciana, la già citata aura-situation, parrebbe essere tematica di provenienza araba: è stato notato
come fosse infatti presente nella letteratura del deserto dell’VIII secolo, poi penetrata nell’occidente europeo in seguito alla conquista
araba del territorio spagnolo. Gli arabi, attraverso lo stretto di Gibilterra, nel 711 d.C., arrivano in Spagna al seguito del condottiero
Tariq Ibn Ziyad, trattenendosi lì fino al 1492 (storica fine del Medioevo) a seguito della RECONQUISTA sotto l’egida dei sovrani
di Castiglia.

Ancora importante è la presenza, sempre associata all’immagine della donna racchiusa nella nuvoletta (v. 8), del motivo della gioia
donata all’autore da questa visione; essa va in parte riportata ed associata alle apparizioni in sogno di Beatrice a Dante in diversi
sonetti della Vita nuova. Ritorniamo quindi al ri-uso di Boccaccio del patrimonio a lui precedente in veste completamente nuova e
abbassata (si tratta infatti di una nuvoletta), passando dai moduli lirici dal peso quasi sacrale ad una messa in scena vivace, a tratti
disinvolta, utilizzante sintagmi tratti dal linguaggio parlato.

Le terzine del sonetto hanno una schema del tutto non comune per Boccaccio: CDD DCC. Gli schemi comunemente usati
dall’autore, nei riguardi delle terzine nel suo Canzoniere sono 3: un primo CDE CDE, un secondo che procede per rime alternate
CDC DCD e, infine, lo schema CDE DCE. Altri invece non ritornano quasi mai, tra essi annoveriamo quello presente in questo
sonetto (CDD DCC), il minoritario CDE EDC e ancora poco comune CDE DEC.

Perché tutte queste differenze tra la Vulgata e la nuova edizione? Bisogna partire innanzitutto dalle testimonianze relative alla lirica
qui presentata, tra cui ricordiamo:

o la Bartoliniana
o il codice Parmense 1081
o una terza testimonianza limitatamente all’ultima terzina che viene citata nelle Prose della volgar lingua di PIETRO
BEMBO, testimonianza tarda contemporanea di Bart, ma molto interessante. Proprio grazie a questa terza testimonianza
noi abbiamo due testimoni su tre che ritengono il testo di appartenenza boccacciana.

La testimonianza del Parmense 1081 lo dà invece come adespoto, non dotandoci del nome dell’autore. Sempre grazie alla
testimonianza bembiana, per quanto riguarda la forma adottata, lo scrittore concorda col codice di Parma, avvalorando la
testimonianza testuale del codice Quattrocentesco.

Alcune scelte e differenze dal punto di vista testuale:

o abbiamo una spiccata adesione ad un VOLGARE FIORENTINO TRECENTESCO, fatto sottolineatoci già da Todd
Boli nel suo saggio.
o Lanza nell’edizione del 2010 scrive «toccami» con DUE C, forse proprio sulla scorta del Codice Parmense.
o Lanza sceglie inoltre forme più ARCAIZZANTI, ne è esempio il «tal volta» contro il «talvolta» attaccato di Leporatti;
quest’ultimo restaura invece la forma adottata dal Parmense.
o al v. 5 abbiamo una dimostrazione di come questi minuti ritocchi tra le versioni non siano semplicemente dettagli eruditi,
riguardanti quindi semplicemente particolari usi grafici o fonetici. L’adozione infatti di una lezione o di un’altra può
portare a VARIAZIONI DI INTERPRETAZIONE anche importanti dal punto di vista testuale: l’edizione Branca
coglieva la scelta di Bart «poiché l’alma tutta in sé raccolta», verso che va ad alludere nell’intenzione dei critici come se il
raccoglimento interiore fosse di attribuzione del poeta; Leporatti adotta invece la lezione del Parmense con «poi c’ha
l’alma tutta in sé raccolta» con un raccoglimento che già De Robertis aveva sottolineato come appartenente a Zefiro, il
vento, dandogli connotazione vera e propria di personaggio.
o al v. 8 «ti porto in questa nuvola ravolta» vede L’INTERVENTO DI UN EMENDAMENTO da parte dell’editore
poiché i due testimoni, il Parmense e la Bartoliniana, presentavano rispettivamente «rivolta» e «rinvolto», di senso inutile
se non addirittura erroneo.
o troviamo poi dei MUTAMENTI NEL VERBO «levarsi», Leporatti ai versi 9 e 13 elimina la possibilità del dittongo
optando per un monottongo testimoniato dal Parmense.
o sempre tra i particolari minuti abbiamo la SOSTITUZIONE nel verso 14 di «ed» col più medievale «et», così come la
scelta del pronome personale «ella» al posto che «essa» scelto invece da Bart.
o grazie alla testimonianza ed alla concordanza delle testimonianze di Bembo col Parmense, al verso 13 abbiamo una
RESTAURAZIONE DELLA FORMA NON ASSIMILATA «tenerla» con quella assimilata presente in Bart di
«tenella».
o Leporatti cambia la forma delle vocali finali in «arsi».
o Leporatti, nella sua introduzione alla lirica, sottolinea come la rima «quella-bella» non trovi alcun esempio precedente in
Boccaccio bensì in Petrarca.
o abbiamo poi l’uso di una particolare RIMA SICILIANA, tecnicamente non perfetta, «impetuoso-schiuso».

Secondo Lanza questo di Zefiro è il più felice dei componimenti baiani, recuperante un topos di ascendenza provenzale; per Branca
invece questa situazione ha dei riscontri nella messa in scena del proemio del Filostrato in cui l’amato, ormai lontano dalla donna
Filomena, afferma come unico sollievo dal dolore il riguardare i luoghi della sua innamorata, con conseguente subentro dell’aura-
situation. Anche il Filocolo cita, ribaltandone questa volta i punti di vista (uomo-donna), un personaggio nell’atto di porgere il viso a
questa brezza primaverile come se avvenisse nei confronti del luogo di localizzazione dell’amato: è il personaggio femminile
Biancifiore che viene descritto in questo particolare atto.

Il motivo del venticello appare poi anche nell’Amorosa visione al canto XXII e, soprattutto, viene reso illustre dalla tradizione lirica
provenzale (nonostante possiamo trovarlo anche in Ovidio), celebrato da BERNARDO DI VENTADOUR e il suo trobar leu col
componimento Can la dolz’aura venta. Altro celeberrimo incipit lo troviamo in PEIRE VIDAL nonché negli scritti dello stesso
Petrarca, di cui possiamo citare il componimento 15 del Canzoniere, in cui il medium del vento è presente come portatore di conforto
della presenza della donna amata.

Come Branca ben ricorda, l’immagine della nuvoletta presentata al verso 8, potrebbe rimandare anche alla ballata 58 dantesca De
Violetta che inombra d’amore dove, molti manoscritti medievali, riportano una versione difforme, probabilmente arrivata fino a
Boccaccio. Secondo queste versioni, il nome Violetta sparisce per essere sostituito con «de nuvolette». Sempre Branca ricorda come
in Vita nuova 23 la nuvoletta riporti l’immagine dell’amata Beatrice a Dante, così come anche la TRADIZIONE DELLE VITE
DEI SANTI (ricordiamo l’iconografia di ascendenza francescana) nel momento di rappresentazione dell’anima nell’atto di lasciare
il corpo dopo la morte, descrive quest’ultima sotto forma di nuvola.
LUNEDÌ 22-03
LEZIONE 7

Come abbiamo visto in precedenza, Boccaccio è solito mescolare linguaggio aulico ad un registro più considerevolmente basso.
Alcune esempi tratti da questo linguaggio più quotidiano sono:

o al v. 2 Boccaccio afferma «più che lusato alquanto impetuoso», tratto originale del vento con connotazione impetuosa,
violenta, nonché chiaro rimando alla stagione invernale con un soffiare più rapinoso. Questo sintagma linguistico ricorre
spessissimo in Boccaccio, tanto nella sua produzione in versi quanto nelle opere in prosa; esso rimanda quindi anche
all’esperienza narrativa dell’autore, parte della sua articolazione del discorso. Lo ritroviamo nell’esperienza di narratore nel
libro III del Filostrato (ottava 90), così anche nel libro VII (ottava 66) e nel libro quarto dell’Elegia di Madonna Fiammetta
utilizzato nei riguardi del sole. Ancora, in un’altra delle Rime, nella numero XX dell’edizione Leporatti, ritroviamo il
sintagma associato all’elemento del sole.
o al v. 6 «leva il volto suso», si presenta essere un’ulteriore stilema utilizzato dal poeta all’interno del discorso diretto. Alcuni
esempi ne sono l’ottava 28 del libro IV del Filostrato, così come nel libro II o nel libro V (ottava 35). Persino il poema del
Teseida presenta il sintagma nel libro V.

Un interessante studio di Giulia Natali dal titolo Progetti narrativi e tradizione lirica del Boccaccio inserito ne La rassegna della
letteratura italiana, Ser. 8, vol. 90 (1986), ci mostra come dal mondo lirico più alto, tradizionale e aulico frequentato dall’autore, ci sia
uno scambio nella direzione opposta: dal Boccaccio della tradizione lirica al Boccaccio narratore. Del resto, anche solo col sonetto
Tocami ‘l viso, l’autore nel fare poesia tende in modo notevole verso il mondo narrativo, inserendo alcuni stilemi o espressioni più
colloquiali, così come descrizioni analitiche dei personaggi rappresentati. Questa sua tendenza, insieme ad una pulsione
autobiografica, costituisce secondo la critica una connotazione tra le più originali de Le Rime: il poeta sembra così mettere in scena
la sua vicenda pseudo-autobiografica.

Ciò che nota Giulia Natali è come all’interno delle opere narrative del certaldese non venga perso il riferimento del genere lirico,
dando alla tradizione la connotazione di punto di riferimento per la sua prassi narrativa. I suoi vari esperimenti letterari, le sue opere
minori antecedenti al Decameron, sono tutte legittimate dal genere lirico; il poeta stesso facendo riferimento a questa tradizione nei
suoi diversi scritti, sembra voler sottrarre le sue opere ad un sospetto di divinità culturale. Nel Medioevo il genere della novella non
era infatti mai stato istituzionalizzato prima del Boccaccio, avente un istituto meno blasonato della lirica alta. Lo scambio tra la
vocazione del poeta narratore che entra ne Le Rime, così come tutti gli stilemi che ne entrano a far parte sono ben esemplificati nel
poema Filostrato: in esso, abbiamo un massimo influsso del modello poetico; l’opera nasce infatti come SFOGO DEL CUORE,
oppresso, che porta quasi il poeta alla morte a cui solo la narrativa può portare sollievo.

Sempre nel proemio del Filostrato, Boccaccio ci ripropone un topos della narrazione lirica sfogando il suo dolore tramite la
composizione della suddetta opera. Vediamo quindi una PREDISPOSIZIONE NEI CONFRONTI DEL CANTO
ELEGIACO, l’autore stesso ci spiega quale sia la sua finalità: dare sfogo al suo dolore. Nel proemio sono poi innervate diverse
tematiche liriche, ci troviamo infatti di fronte alla lontananza di Fiammetta e tutti i contraccolpi che da essa ne derivano, con tutti i
conseguenti effetti tristi del distacco.

POSCIA CHE GLI OCCHI MIEI LA VAGA VISTA


Sonetto XVII secondo l’edizione Lanza del 2010. Anche qui ci troviamo di fronte al motivo della partenza, tanto caro al poeta:
tuttavia questo, oltre che essere di chiara ispirazione cavalcantiana, appare colmo di stilemi derivati da Cino da Pistoia.

PARAFRASI: Dopo che gli occhi miei la dolce vista della donna hanno perduto, il cui allegro splendore faceva contento ogni mio
desiderio caldo d’amore in questo mondo triste, dove dolore chi vive più a lungo ottiene io non curo ormai, o anima, se dal cuore
addolorato te ne vai poiché il mio dolore non potrà mai cantare in modo regolato nessun artista per quanto notevole.

Anzi, vattene, che io, solito a comporre versi, non voglio alimentare l’invidia di coloro ai quali soleva procurare dolore la mia
felicità.
LIVELLO METRICO: Sonetto con rime incrociate nelle quartine e due rime ripetute nelle terzine, secondo lo schema ABBA,
ABBA; CDE, CDE.

Il sonetto si trova all’interno di una delle cosiddette microsequenze (così come denominata da Leporatti), da 59 a 68, che la
Bartoliniana ha in comune con il Riccardiano 1100. Possiamo notare la particolare impronta stilnovistica nella sua accezione
dolorosa, in particolar modo cavalcantiana; va poi sottolineato come si tratti di un testo relativo al tema della lontananza, forse qui
resa ancora più cupa da una possibile aura di perdita.

Alcune differenze tra l’edizione Lanza e Leporatti:

o in Leporatti troviamo il sostantivo «Alma» con la maiuscola, quasi fosse soggetto, a differenza di Lanza in cui appare
scritto in minuscolo.
o Leporatti prende come esempio il Riccardiano 1100.
o abbiamo un RADDOPPIAMENTO FONOSINTATTICO «che ssolea» con due s presente nello studioso Leporatti.
o «Gli occhi miei» presenti nell’ed. Leporatti, si trasformano in «Gli occhi mia» (v. 1) nella versione di Lanza.
o al v. 5, sempre in Leporatti, abbiamo la ripresa della particella «ci acquista» associato al particolare della valle delle
lacrime, che però nel Lanza non appare. Questa scelta si rifà a Bart: Lanza elimina la particella per ottenere la forma di
endecasillabo, mentre Leporatti la giustifica come una scelta presa nei riguardi della tradizione. Inoltre, il sostantivo noia
può essere letto come bisillabo o monosillabo, perciò anche aggiungendogli il pronome, esso non acquista un’ulteriore
sillaba.

L’attribuzione qui è unanime, esplicita da parte sia da Bart che dal Riccardiano 1100. Leporatti ci ricorda poi come il Riccardiano,
sebbene sia manoscritto molto utile, in questo caso spesso erri in alcune scelte e nella lirica.

Lo studioso Branca sottolinea come il binomio iniziale «la vaga vista» sia un esplicito rimando all’incipit della famosa canzone
ciniana La dolce vista e ‘l bel sguardo soave con un cambio del sostantivo «dolce» in «vaga» per motivi di allitterazione (vaga sta
qui a significare propriamente bello, grazioso e, appunto, dolce). Il cosiddetto «caldo d’amore» è invece stilema dantesco, possiamo
infatti ritrovarlo in Paradiso V, v. 19, anche qui il rimando al maestro è grande, così come in molti altri suoi testi.

Il rimando alla «valle trista» è invece di matrice boccacciana, ricorda infatti quel Boccaccio esperto di testi liturgici (non dobbiamo
dimenticarci che il poeta fu probabilmente prete) vicino ad una particolare letteratura religiosa. La valle trista sembra rimandare alla
preghiera del Salve regina in cui compaiono degli uomini piangenti in questa valle rappresentante l’aspetto mortale del mondo.

L’anima che esce dal cuore del poeta è poi di chiaro ASPETTO CAVALCANTIANO: la concezione di Cavalcanti dell’Amore è
strettamente correlata ai suoi interessi filosofici; il poeta è infatti un esponente dell’averroismo, ovvero una forma radicale di
aristotelismo all’interno della Scolastica medievale che si rifà alle opere del filosofo arabo Averroè (1126-1198). Il conflitto che
Amore genera nel corpo e nella mente dell’uomo e che alla fine lascia il poeta privo delle proprie funzioni vitali è ricollegata alla
teoria degli spiriti o spiritelli, alla base della fisiologia medievale. Su questa base scientifica, Cavalcanti elabora la propria metafora
poetica, animando e mettendo in scena le azioni e le reazioni degli spiritelli, e descrivendone la drammatica sconfitta di fronte
all’incedere della forza inarrestabile di Amore.

Sempre Branca ci spiega come, secondo l’edizione Massera, il testo sembra essere cronologicamente collocato dopo il ritorno a
Firenze del poeta. Purtroppo però noi non disponiamo di alcun tipo di fonte a suo supporto.

BENCHÉ SI FOSSE, PER LA TUO PARTITA


Sonetto XVI secondo l’edizione Lanza (2010), collocato invece da Leporatti nelle cosiddette Rime extra-Bartoliniana.

LIVELLO METRICO: Sonetto con rime incrociate nelle quartine e due rime ripetute nelle terzine, secondo lo schema ABBA,
ABBA; CDE, CDE.

PARAFRASI: A causa della tua partenza, l’alta speranza, che io prendevo dai tuoi bei occhi, quando li vedevo, ormai fuggita,
tuttavia la vita debole, fragile, sostenne un dolce pensiero che mi diceva, quando si addolorava con me: “Il suo ritorno avverrà
presto!”.

Ma ciò non si realizza mai, e, a me conviene benché contro voglia che io parti, né mi rimane ormai speranza di vederti più: per cui
io morirò, o caro mio desiderio, oppure piangerò il tempo che mi avanza, lontano da te, per il mio fato crudele.
Questo sonetto svolge il motivo della partenza, un tema classico alla lirica aulica. Il componimento è attraversato da stilemi
stilnovistici, a dimostrazione del carattere prevalentemente libresco, che non consente di dare molto credito al tentativo del Massera
di collocarlo dopo il ritorno di Boccaccio a Firenze.

Notiamo qui una piccola difficoltà iniziale, che si rivela in realtà essere tratto caratteristico del poeta: una vera e propria lontananza
tra «benché si fosse» e «quasi che fuggita», presente nel secondo emistichio.

Dal punto di vista della forma, Boccaccio usa degli aggettivi possessivi indeclinabili («tuo», v. 1; «mie», v. 14).

Differenze tra le due edizioni:

o al v. 7, Lanza preferisce «con meco mi dolea», segnalandoci con il puntino la presenza di una n assimilata ad una
consonante che subito segue.
o sempre al v. 7 abbiamo una differenza tra «mi dolea» (Lanza) e «si dolea» (Leporatti), con un cambio di ricaduta
nell’interpretazione: l’edizione Lanza non compie una sottolineatura, dove agens del doler è il verbo e non il pensiero, in
Leporatti invece abbiamo una rappresentazione del pensiero che partecipa al dolore dell’io lirico.

Solo il manoscritto Riccardiano 1100 sembra esplicitamente ricollegare la lirica a Boccaccio, nonostante siano presenti sintagmi più
volte utilizzati dal poeta. Un esempio ne è «giovine bella» al verso 4 che ritroviamo anche nel Filocolo. La costruzione alla latina del
verso finale è anch’essa presente in altre opere giovanili del Boccaccio come il libro IV del Teseida o nello stesso Filostrato in cui
viene ripercorsa la tematica della fortuna.

Altro tratto abbastanza caratteristico sono le INVERSIONI abbastanza forti tra il verso 9 e 10 ed il 10 e l’11, poste tra
enjambements, quindi dissociate in due versi successivi.

MARTEDÌ 23-03
LEZIONE 8

Ricollegandoci all’ultimo sonetto analizzato, una particolarità è presente al v. 2 «l’alta speranza», sintagma presente in una delle rime
di Cino da Pistoia, ulteriore simbolo di continuità instaurata con i suoi precedenti padri. La struttura del sonetto è già più articolata, in
esso si rivolge alla donna con un intarsio del pensiero che, a sua volta, si rivolge all’io lirico, confortandolo del repentino ritorno
dell’amata. Secondo Branca, l’occasione della stesura del componimento sarebbe un allontanamento di Boccaccio che, al v. 10, dice
«e me convien partir contragrado», quindi controvoglia; questa sembrerebbe essere un’allusione ad una vera partenza del poeta, come
difatti poi avviene nel 1340 col suo ritorno nella capitale toscana.

La lettura di questa lirica può essere situata in un contorno più ampio di un Boccaccio con vocazione di stampo lirico, dettata
dall’inserimento di piccole storie, piccole diegesi, che mutano il tradizionale patrimonio della lirica. La stessa tradizione poetica in
generale, con i suoi diversi topoi percorsi anche da precedenti scrittori, è un punto di vista molto importante per quelli che saranno i
suoi scritti. Si crede addirittura che questo uso di schemi narrativi abbia come fine quello di innalzare, dare importanza, alla sua lirica
attraverso un percorso che lo porterà poi al suo capolavoro più grande: il Decamerone.

Punto di maggior contatto con la tradizione lirica in Boccaccio possiamo vederlo nel Filostrato: l’opera nasce infatti come una vera e
propria FRUSTRAZIONE DEL DOLORE dato dalla dipartita della donna. La situazione qui contemplata, esplicitata dal
proemio, che mette il via a tutta la conseguente narrazione, viene amplificata a costituire la materia di tutta l’opera. La vicenda viene
incapsulata all’interno di una cornice auto-biografica, l’amore tra i due giovani Troilo e Criseida sembra infatti rispecchiare quello tra
lui e l’amata Filomena. E’ chiaro quindi come l’autore metta a frutto tutto il suo sapere di poeta e, con esso, gli stilemi della
tradizione lirica precedente.

Tranne qualche eccezione, abbiamo un’incertezza quasi assoluta nei confronti de Le Rime, nonostante sia possibile notare alcuni
apparentamenti tra queste liriche ed altre opere di Boccaccio. Il Filostrato figura come una delle primissime opere della giovinezza di
Boccaccio, da collocarsi verso il 1335; secondo altri studiosi, l’anno di stesura va spostato di almeno un quinquennio, agli anni 1339-
40, avvicinando così la stesura dei due componimenti.

Nel congedo del Filostrato, il IX libro, l’autore si rivolge alla propria opera, tramite un vero e proprio invio poetico, suggerendole di
recarsi presso l’amata e di invocarne l’amore. Nella prima e seconda ottava troviamo quindi una richiesta, in termini di canzone, di
raggiungere Filomena per invocare la ricompensa di quest’ultima. All’inizio del poema invece, libro I ottava 3, troviamo
un’allusione «alla tua partita», la partenza della donna. Ricorda poi la fedeltà e la perfezione dell’amante, così come il legame
canonico dell’amore con gli occhi (tema ripreso dalla tradizione, basti ricordare il trattato del De Amore di Andrea Cappellano).
All’ottava 5 del libro I troviamo un altro luogo tipico della tradizione illustre: l’immagine del ritratto della donna come racchiuso nel
cuore/petto dell’amante, immagine ripresa dalla tradizione trobadorica successivamente ripresa da Jacopo da Lentini e dai rimatori
siciliani.

Anche il motivo dello splendore, della luminosità della donna sembra riallacciarsi alla tradizione tanto da legarsi poi in Boccaccio al
senhal dietro cui si cela la sua donna, tale Fiammetta. Quest’ultima viene addirittura riferita come «tramontana stella che illumina
l’amante», sempre con evidente richiamo alla luce sprigionata dalla sua imponente aura. Ad essa viene affidato anche un potere
salvifico, rimando al topos stilnovistico più volte visibile nella Vita nuova dantesca.

L’opera deve quindi in generale mostrare il dolore dell’amante che, in seguito alla partenza, si ritrova davanti ai travagli del suo
animo.

Rispetto alla narrativa a lui contemporanea, possiamo notare una MAGGIORE SOTTOLINEATURA DI NARRATIVA
LIRICA, quasi il poeta senta la necessità di avvicinarsi alla tradizione per innalzare lo status letterario dei suoi componimenti.
Rispetto alla tradizione narrativa, spesso confinata nel settore del diletto o dell’intrattenimento, la tradizione lirica sembra avere un
posto di maggiore importanza. Questo collegamento non lo notiamo solamente nel Filostrato, ma anche in altri due poemi
boccacciani: il Filocolo ed il Teseida, abbinando la tradizione del narrare (abbiamo delle epistole iniziali dedicate a Fiammetta, donna
amata) alla richiesta amorosa come conseguenza per il lavoro da lui svolto.

Anche nel Teseida quanto narrato da Boccaccio sembra avere dunque come obiettivo quello di muovere compassione nella donna,
allontanatasi, nella speranza di ottenere un segno del suo amore. Fiammetta dovrebbe infatti riconoscere nelle vicende narrate quanto
di detto e fatto tra lei stessa e l’autore. L’epistola introduttiva del poema ha come fine ultimo quello di spiegarle i dolori a cui
quest’ultimo è stato sottoposto in seguito al suo allontanamento.

Queste narrazioni, nel riferirsi con i diversi incipit a Fiammetta, presentano il topos dell’innamoramento e del VASSALLAGGIO
EROTICO; elementi che ritornano costantemente anche nei sonetti presenti nella raccolta de Le Rime. Il servitium amoris, la
sottomissione alla donna amata, è di origine occitanica: la tematica del vassallaggio feudale era infatti tematica cardine delle poesie
dell’epoca, dettata dalla società di appartenenza basata sul rapporto tra il signore ed il suo vassallo. Essa subisce poi una traslazione
metaforica nell’ambito del rapporto uomo-donna, con conseguente sottomissione del poeta al volere del genere femminile nella
speranza dell’ottenimento di una ricompensa.

Giulia Natali sottolinea quindi un utilizzo di meccanismi di giustificazioni nei confronti della sua opera in chiave narrativa. Questa
speranza di conquista, in seguito alla lontananza dell’amata, viene messa particolarmente in opera nel romanzo in prosa denominato
Elegia d Madonna Fiammetta, il cui prologo è un ottimo esempio della prevalenza della tematica amorosa e della capacità di
penetrazione psicologica che caratterizza tutta l’opera di Boccaccio. L'Elegia si presenta infatti come un lungo monologo, che vede al
centro la narrazione in prima persona di Fiammetta, immagine femminile ricorrente nella penna di Boccaccio. La donna rivolge qui
un appello esplicito alle donne innamorate sue lettrici, appello dal quale traspaiono bene le sue finalità.

Fiammetta non incarna più la donna oggetto d’amore spirituale ereditata dalla cultura stilnovista, ma è figura attiva e dotata di una
forte sensibilità, che condivide del resto con coloro che l'ascoltano, e che sono le uniche in grado di capire il suo stato d’animo e la
sua triste vicenda. Qui Boccaccio non indorerà la pillola delle sofferenze d’amore adornandola e confondendola con ambientazioni
epiche o favole greche; anzi, l’elegia di Fiammetta è un’opera fortemente introspettiva, che mette in primo piano l’animo ferito della
donna e l’isteria suicida che deriva dal tradimento dell'amato: un vero romanzo psicologico, composto da lunghi monologhi della
‘malata d’amore’, e dalle risposte della paziente e saggia balia.

Tuttavia, se anche la vicenda di Fiammetta ha una forte componente patetica, non viene mai meno l'elaborazione letteraria; la vicenda
è sempre filtrata dallo stile letterario di Boccaccio, attento a conservare una forma raffinatamente elevata, costruita a partire dal
modello delle Heroides dello scrittore latino Ovidio in cui a parlare sono le diverse eroine del mito.

Questo paradigma della narrazione e della diegesi boccacciana, improntata sugli schemi della lirica, viene usufruito più e più volte,
fino ad essere via via ridimensionato (e addirittura via via abbandonato nel Ninfale Fiesolano) in seguito ad un suo abbondante uso.

IL CANCRO ARDEA, PASSATA LA SEST’ORA


Sonetto LIII dell’edizione Lanza, ci troviamo qui di fronte ad una tipica marina tardogotica di fattura superiore. Siamo poco dopo
mezzogiorno, d’estate (perché il sole si trova nel segno del Cancro); il mare è, ovviamente, una tavola e la calura viene mitigata da un
piacevole vento di ponente. Al centro del quadro si staglia la figura della donna-luce dagli aurei e ben composti crini, circondata dalle
amiche. Gli dèi marini la contemplano beati, mentre, seminascosto da uno scoglio, il poeta la rimira trasognato. Tutto è immobile,
estatico, fuori dal tempo nella lirica, grazie anche ad un uso sapiente dell’imperfetto, che contemporaneamente anche Petrarca stava
sperimentando con risultati eccelsi.

LIVELLO METRICO: Sonetto con rime incrociate nelle quartine e due rime ripetute nelle terzine, secondo lo schema ABBA,
ABBA; CDE, CDE.

PARAFRASI: Eravamo nel tempo della costellazione del Cancro, intorno a mezzogiorno, soffiava un vento lieve ed il tempo era
bello, il mare calmo, e sul lido del mare, in una parte del litorale dove il sole non era ancora giunto io vidi colei che possiede una
bellezza in grado di far innamorare il cielo. La vidi festosa circondata da più donne: e l’aureo velo/i capelli d’oro le raccoglieva il
capo in modo da racchiuderle il capo senza farle fuoriuscire alcun capello. Nettuno, Glauco, Forco e la dea Teti la osservavano dal
mare, così contenti che sembravano dire «Giove, non voglio altro!». Io, da un sasso, osservavo con occhi fissi, tanto che i miei
sentimenti sembravano trasformare me e lo scoglio in sasso.

Branca sottolinea il rimando ancora una volta all’immagine del vento Zefiro, da attribuire a Boccaccio così come a Petrarca, ma
soprattutto la presenza originale di questo sfondo marino, che è possibile riallacciare alla giovinezza del poeta vissuta sul litorale
napoletano.

Il sonetto è presente nella sola Raccolta Bartoliniana, è quindi di attribuzione unica. Effettivamente, nella Vulgata esistono però
diverse varianti di tipo grafico (come quella in Leporatti) derivate probabilmente dalla scelta dell’editore di una grafia più antica
rispetto agli usi più attuali. Egli, infatti, utilizza alcuni rispecchiamenti delle abitudini dell’autore:

o Boccaccio era solito utilizzare alcuni INFLUSSI LATINEGGIANTI nel riportare i nomi, riscontrabili nel modo di
scrittura del nome del vento Zephiro al posto di Zefiro.
o al v. 1 Leporatti preferisce «sext’ora» al posto che la variante «sest’ora» leggibile nell’edizione Lanza. Ad esso
accompagna la scelta del sostantivo latineggiante «hora» con la presenza della consonante h.
o al v. 3 la congiunzione viene riportata con la t.
o al v. 4 abbiamo invece la scelta di una grafia conservativa col ch, nei manoscritti medievali le velari sorde venivano infatti
indicate in questa maniera.
o Leporatti, in modo molto conservativo, non sceglierà la trascrizione Nettuno, ma l’opzione Neptuno; allo stesso modo
manterrà la h dopo la t nel nome di Teti e il ph nello scrivere il nome di Forco.
o all’ultimo verso, Leporatti sposerà la scelta di «saxo» e, per la congiunzione, troviamo nuovamente la scelta latineggiante
di «et».

GIUDOMMI AMOR, ARDENDO ANCORA IL SOLE


Sonetto LII secondo l’edizione Lanza, altro affresco fiammeggiante: in primo piano abbiamo un mirteto sulle sponde del lago
Lucrino, che un sottile lembo di terra separa dal golfo di Pozzuoli, per cui le acque del mare e quelle del lago quasi si fondono nel
meriggio assolato. La solita brezza di ponente fa ondeggiare lievemente le cime degli alberi. Sensazioni visive, olfattive e uditive si
fondono in quella che sembra essere un’aurea fiabesca. Dal bosco sembra poi apparire la donna-luce col coro delle amiche, in una
stretta consonanza con il Ninfale fiesolano.

LIVELLO METRICO: Sonetto con rime incrociate nelle quartine e due rime nelle terzine con schema ABBA, ABBA; CDE,
DEC.

PARAFRASI: Amore mi guidò, mentre ancora il sole esercitava la sua forza, sopra le acque di Giulio, nei pressi di un mirteto e il
mare adiacente era tranquillo e il cielo era quieto, per quanto Zefiro, come solito fare, muovesse solamente le cime degli alberi:
quando mi parve di udire un canto così rasserenante che mai fu consuetudine di udirne uno simile in chi ascoltava nel mondo
mortale.

Per cui io: «Un angelo forse, o una ninfa, o una divinità canta tra sé e sé in questo luogo scelto – dicevo tra me – canta antiche
storie amorose».
Qui la mia donna in un luogo assai lieto del boschetto ombroso, sulle erbette e sui fiori, vidi che cantava, e con le sue compagne
sedeva.

Branca ci fa notare:

o il ritorno di una RIMA EQUIVOCA «ancora il sole» (v. 1) messo in rapporto con «le cime sole» del v. 5.
o lo schema delle terzine (CDE DEC) risulta essere POCO CONSUETO per il poeta.
o il «loco eletto» del v. 10 è un particolare desunto dal Purgatorio XXVIII, al cui v. 77 abbiamo la descrizione di Matelda
nell’atto di cantare in un ulteriore luogo eletto.

In questi due sonetti Boccaccio sembra quindi contaminare stilemi classici con altri stilnovistici, tra cui ricordiamo la capacità della
donna di indurre istantanea felicità in chi accorre presso di lei, filigrane che rimandano sicuramente ad un mondo classico
(rappresentato dalle divinità mitologiche, così come il rimando alle Georgiche virgiliane nelle «acque iulie»). Va in particolar modo
sottolineata l’adozione di uno sguardo sul patrimonio precedente che spinge sempre verso una VARIATIO, un possibile
rinnovamento tramite l’introduzione di una storia caratterizzata da elementi di trascrizione analitica. In entrambi i casi siamo però
davanti ad una brigata femminile, la donna amata è infatti sempre presentata insieme alle sue compagne.

GIOVEDÌ 25-03
LEZIONE 9

E’ stato evidenziato da alcuni studiosi un dato molto interessante nei riguardi di un’esercitazione epistolare della giovinezza
napoletana del poeta, un calco esercitativo che, a più riprese, riprende Dante (addirittura plagiando la sua epistola IV che
accompagnava la canzone Amor, da che convien a Moroello Malaspina del 1307). L’epistola boccacciana, ascrivibile al 1339, si
colloca in una delle diverse unità fascicolari dello Zibaldone Laurenziano XXIX 8. Nella suddetta MAVORTIS MILEX Boccaccio
si appella ad un letterato dottissimo e di puri costumi, residente in Avignone. Non è persona conosciuta personalmente, ma solo per
fama indiretta, tramite un comune amico; evidenti analogie con la biografia petrarchesca del De vita consentono di attribuire
l’identità del destinatario al poeta aretino, sebbene l’intestazione della lettera sia mancante, poiché abrasa. Abbandonato dalla donna
amata, Boccaccio chiede qui aiuto al Petrarca, poiché lo aiuti a recuperare la tranquillità negli studi. Notiamo quindi come, fin da
un’epoca contemporanea alla stesura di questi ultimi due sonetti analizzati, emergono alcuni dei principali topoi della lirica
boccacciana ritrovabili in suoi successivi componimenti.

Nella storia de Le Rime non abbiamo però in realtà un ripercorrimento in senso auto-biografico per quanto riguarda quella che, a tutti
gli effetti, è la vita del certaldese. Sempre la studiosa Giulia Natali ci viene qui in aiuto, riagganciandosi ad una serie di osservazioni:
è chiaro che se la tradizione riguardante i suddetti componimenti di Boccaccio presenta tanti problemi in quanto a ordinamento,
ricostruzione testuale e attribuzione, gli studiosi sono obbligati a confrontarsi con il problema riguardante i riferimenti intertestuali.
All’inizio del suo studio, la Natali, afferma come il Massera disponga le rime secondo una sequenza richiamante la vita biografica
dell’autore, ma una volta respinte tutte le evidenze sulla vera e propria esistenza di Fiammetta, ulteriori problematiche insorgono.
Può quindi essere utile cercare di comprendere se sia possibile o meno cogliere dei tratti di architettura, di coesione narrativa
all’interno delle composizioni boccacciane. Indagare quindi dei possibili legami di connessioni tematiche è un’operazione che si deve
e che si può tentare, risultando essere certamente utile.

Su molti componimenti amorosi del Canzoniere noi non abbiamo certezze, possiamo ipotizzare un loro collegamento con dei luoghi
noti a Boccaccio ed al suo periodo napoletano; allo stesso modo è possibile constatare come emerga il FILO NARRATIVO di una
storia che verrà rinarrato numerose altre volte. Non si tratta ovviamente di un filo pienamente biografico, ma piuttosto di
un’invenzione narrativa molto cara al poeta. La vicenda amorosa di Boccaccio sembra avere uno svolgimento riscontrabile ne Le
Rime così come in tutte le controfigure romanzate presenti nei suoi altri testi, sia di prosa che di narrativa, tra questi anche la già
citata epistola scritta in latino.

La Mavortis milex introduce, oltre a riprese continue dalla tradizione dantesca, diversi inserti ovidiani (tratti dalle Metamorfosi)
nonché alcuni tratti ricavati dal poeta Apuleio (la sua Apologia e Le Metamorfosi o Asino d’oro). L’apparizione improvvisa, che
desta stupore nell’amante, sembrerebbe poi richiamare il De Consolationae di Boezio in cui è presente anche la tematica della
fortuna; in esso all’autore viene incontro un topos della letteratura filosofica personificato nell’immagine di una donna molto bella
sebbene anziana: la Filosofia. Alla fortuna è dedicato tutto il secondo libro boeziano, con un rifacimento alla tematica degli eventuali
mutamenti di fortuna, ampiamente utilizzati anche dal Boccaccio nella stessa epistola; essi sono riscontrabili addirittura in
un’ulteriore opera, questa volta medievale, il Roman de la Rose.

Boccaccio ci appare come personaggio complesso, autore di un PASTICHE letterario in cui termini e tematiche rare, riprese dal
latino, si mischiano. Siamo davanti però al periodo giovanile dell’autore, da cui emerge un rifiuto, se non un ridimensionamento vero
e proprio della sua storia amorosa con Fiammetta, già evidenziata a partire da questa epistola (ci viene detto come lui prospetti una
via d’uscita dalla disperazione amorosa); l’autore è quindi alla ricerca di un qualcosa “di più grande”, di superiore, legato alla
conoscenza e alle verità più recondite della vita. Il sentimento che il certaldese prova verso la sua donna è qualcosa di violento,
sicuramente ereditato dal grande Dante della già citata lettera a Malaspina. Rispetto al modello datoci da Dante, abbiamo però un
cambiamento di paesaggio: non ci troviamo più davanti al fiume Sarno (come viene specificato al paragrafo 2 dell’epistola), ma
siamo a Napoli, alle pendici del Colle Falerno, nei pressi della Tomba di Virgilio. Con inserto apuleiano abbiamo poi la descrizione
della donna come serena («suda»), neutro latino che sembrerebbe essere tipico della descrizione del cielo nonché un inserto di
ispirazione stilnovistica. Sempre ad Apuleio (in particolare a Le Metamorfosi) rimanderebbe poi il dettaglio del tempo: ci troviamo
infatti nella prima parte della giornata.

Il contrasto ombra-luce, particolarmente presente nei due sonetti analizzati nella precedente lezione, rimanderebbe anch’esso a
Dante: si rifà alla canzone Amor, da che convien pur ch'io mi doglia, detta da Dante nel congedo "canzone montanina" che, come
spiega lui stesso nell'epistola IV, tratta la passione per una donna che lo rende di nuovo succube della signoria di Amore; in realtà
l'Amore è soltanto l'espediente di un discorso poetico attraverso il quale l'Alighieri durante l'esilio in Casentino ritorna ai temi e allo
stile del periodo stilnovistico nella corrispondenza con Moroello Malaspina, suo precedente ospite in Lunigiana, a cui la canzone è
inviata.

A rafforzare il legame tra le due epistole interverrebbe anche la prossimità dei due scritti.

Sembra essere l’ambientazione napoletana, grande novità rispetto al modello dantesco, il punto di comunione tra la Mavortis e le
liriche presenti nel Canzoniere boccacciano. Lo scenario partenopeo, a differenza delle altre opere in cui la visione dell’amata e
l’innamoramento avvengono in un luogo sacro (una chiesa), protende invece per un’immagine marina dal fascino completamente
nuovo. Questa scelta procede in altri componimenti, tra cui citiamo Su poppa sedea la barchetta, in cui l’amata viene descritta seduta
su questa piccola imbarcazione, attorniata dalle amiche; la visio presentata in questi sonetti permetterebbe di recuperare le già
conosciute tessere stilnovistiche “prese in prestito” dalla Vita nuova così come qualche spunto testuale ripreso dalla Mavortis stessa.
In quest’ultima troviamo un «fulgur descendens», una folgore che scende dal cielo, ugualmente citata nel sonetto Sulla poppa sedea
di una barchetta nella forma «era mirata qual discesa dal cielo una angioletta». L’assimilazione della donna amata a degli angioletti
ha uno sviluppo per Boccaccio in una chiave totalmente diversa da quella di carattere tipicamente spirituale, egli immagina questi
attributi come valore aggiunto a un amore concreto nei confronti della donna.

Altro tratto fortemente interessante che ritroviamo nell’epistola è la definizione che ci viene data rispetto ai suoi numerosi tentativi di
ottenere l’amore della donna: una lunga attesa da parte dell’amante a cui segue una breve felicità. Viene poi detto dal poeta stesso di
essere stato «alacris inargutulus tamen» che, secondo la Natali, potrebbe rimandare all’esercizio letterario e compositivo di poeta di
Boccaccio. ALACRIS, quindi produttivo, nel prestare servizio letterario (anche per quanto riguarda le lodi alla donna); tuttavia
INARGUTULUS, non abbastanza eloquente nel suo compito. Il suddetto topos è presente anche nel Filocolo e nel Teseida dove è
sottolineata l’attesa del recupero della grazia dell’innamorata; il servitium amoris boccaccio si configura quindi come un’offerta di un
possibile servizio letterario alla figura femminile.

Va poi citato l’invenzione del senhal di Fiammetta che, secondo lo studioso Rosario Ferreri, potrebbe essere tratto dalla letteratura
ovidiana a cui si accosta l’immagine dell’epistola di Dante in cui troviamo una «fiamma della sua bellezza» (riferita alla donna),
plagiata tale e quale come scritta nella Montanina.

FOCUS: MAVORTIS MILEX


Le più antiche epistole superstiti del Boccaccio sono, com’è noto, i QUATTRO DICTAMINA composti a Napoli nel 1339: Crepor
celsitudinis, a Carlo d’Angiò duca di Durazzo; Mavortis milex, a Petrarca; Nereus amphytritibus e Sacre famis, a destinatari ignoti. In
realtà nel solo testimone che le trasmette, l’autografo Laurenziano 29.8 (il cosiddetto Zibaldone laurenziano), esse si presentano
adespote per la rasura del nome dell’estensore: fu per questa ragione che solo nel 1830, quando l’erudito pistoiese Sebastiano Ciampi
decifrò le tracce delle lettere erase, la loro paternità fu assegnata al Certaldese. A restare irrisolto era – e sostanzialmente ancora è – il
problema interpretativo, specialmente per quanto riguarda il nodo testuale dell’Epistola II, Mavortix milex.
Essa è indirizzata a un innominato intellettuale – soldato di Marte perché in prima linea nella battaglia contro i vizi – di stanza ad
Avignone. Invocandone l’intervento, l’estensore della lettera raccontava i propri recenti casi: ancora rozzo e goffo, completamente
soggetto ai giochi della Fortuna, egli conduceva a Napoli una vita grama, tra contadini incivili e bestie fetide, quando una mattina, sul
far dell’alba, a lui che ancora assonnato si era incamminato verso il mare apparve d’improvviso, nei pressi della tomba di Virgilio,
una donna magnifica, in tutto conforme ai suoi desideri. Stordito, non fu in grado di opporre resistenza al sentimento montante.
Riuscendo dopo lungo travaglio a conquistare le grazie della donna, le poté però conservare solo per poco tempo: la ruota della
Fortuna, infatti, girò ed il giovane cadde in disgrazia agli occhi della sua signora. Piombato in uno sconforto disperato, il dolore si
impadronì per intero della sua mente, finché un giorno a lui ormai capace solo di sospiri, gemiti e pianti si fece vicino un amico che
gli suggerì un rimedio: scrivere al saggio di Avignone, perché solo lui con le sue parole avrebbe potuto porre fine a tanta infelicità.

Il consiglio, accolto con slancio, si traduce subito nell’elaborazione di questa lettera, che si chiude colma di speranza: essa deve
anche recare al sapiente di Avignone un caliopeus sermo, ossia un sonetto sul tema dell’amore imperioso (che di seguito all’epistola
non è però trascritto). Dei quattro personaggi in campo: il protagonista (coincidente con l’autore della lettera che parla in prima
persona), la donna amata, un amico che in un momento di forte crisi interviene con un consiglio risolutore e il destinatario che non
entra mai in scena ma da lontano la domina (il soldato di Marte) vari sono stati nella storia degli studi i tentativi di identificazione.

Un aspetto strutturale alla base del dictamen è il fatto che nella prima sezione, non solo ingenti porzioni di testo ma lo stesso sviluppo
narrativo dell’incontro d’amore, è ricalcato quasi pedissequamente sull’epistola di Dante a Moroello Malaspina, in cui il poeta,
recuperando una suggestione boeziana, aveva raccontato l’apparizione improvvisa di una donna sulle rive dell’Arno per la quale si
era istantaneamente acceso. Un punto di partenza, questo, che però risulta completamente risemantizzato nel nuovo contesto: nel
dictamen del Certaldese l’appariscente tramatura amorosa è infatti percorsa, sottotraccia, da una crescente tensione culturale, la cui
prima e più scoperta spia è il nome esplicito di Virgilio che dà la temperatura a tutta la vicenda narrata.

Nel complesso, dunque, la Mavortis milex si presenta a tutti gli effetti come una novella allegorica in forma epistolare, autobiografica
in riferimento al movente esistenziale-culturale che la anima e con Boccaccio e Petrarca unici personaggi reali trasfigurati.

LUNEDÌ 29-03
LEZIONE 10

Come nota all’edizione de Le Rime di Boccaccio a opera di Vittore Branca per Mondadori, ci viene detto dalla studiosa GINETTA
AUZZAS, sempre a proposito della Mavortis milex, che se quest’ultima fosse reale (cosa che non è), rappresenterebbe il profilo
della storia d’amore vissuta dal poeta; Boccaccio applica qui uno schema di biografia amorosa romanzata che, numerose altre volte,
verrà riutilizzata nelle sue opere narrative. Questo schema prevede diverse fasi:

1. In mulieris apparitioni stupor, il grande momento di stupore, una descrizione dei suoi sentimenti quasi oppiati
dall’apparizione meravigliosa della donna.
2. Amor terribilis et imperiosus, amore che, come un signore a lungo tempo esiliato, ritorna, sconfigge e si installa
nell’animo del poeta annientando ogni nemico.
3. Diutina lassitudo, la stancante attesa da parte dell’amante di un contraccambio dalla donna.
4. Tempusculum in auge rote volubilis, breve spazio di tempo sulla sommità della volubile ruota, un piccolo periodo
felice in cui l’amore viene ricambiato.
5. In malorum profunditate deiectio, l’essere gettato nella profondità delle sventure in modo del tutto improvviso, con
conseguente privazione dell’amore.
6. Amici solatio, la consolazione da parte di un amico.

L’itinerario contempla quindi un vero e proprio ciclo, il cui intero percorso è narrato nella famosa epistola all’amico Petrarca. Tra le
righe possiamo leggere anche il desiderio umanistico di accedere, proprio tramite il poeta aretino, ad una poesia associata alla
conoscenza, alla verità (intesa come verità più profonda). Oltre, quindi, al tema della consolazione da parte dell’amico, la lettera
sembra contenere la CHIAVE PER L’OTTENIMENTO di conoscenze e virtù tramite le forze della fortuna e della sapienza.

L’uomo dipinto da Boccaccio nell’epistola è una figura illustre, molto dotta, che si trova ad Avignone e che il poeta sembra non aver
mai incontrato – nonostante ciò, lui ne conosce le virtù tramite i racconti di un suo caro amico. Petrarca aveva effettivamente
trascorso la sua giovinezza nella cittadina francese, mantenendo stretti rapporti con la sua corte pontificia. Era anche in stretta
relazione con la corte di Napoli, grazie alla figura di Dionigi da Borgo S. Sepolcro, colui che ne aveva diffuso fama nell’ambiente
napoletano. Sarà proprio quest’ultimo a raccontare al Boccaccio di Petrarca, ed è lui la figura che si nasconde dietro al tale “amico”
della Mavortis.
La scelta della CORRISPONDENZA FITTIZIA non ci deve in realtà stupire siccome veniva spesso prescritto dalle artes dittandi,
tecniche di composizioni epistolari; lo schema potrebbe però anche derivare da un’ulteriore opera conosciuta dall’autore, più volte
riutilizzata nella sua carriera (quella che Branca definirà “livre de chevet”, libro da comodino): il De Amore di Andrea Cappellano,
importante trattato in tre libri, che è considerato il manuale e la summa dei precetti dell’amor cortese, composto in latino attorno al
1185.

Anche qui, nel libro II, vediamo introdotte delle epistole immaginarie, di tipo letterario, con adozione dell’abitudine di sottoporre a
personaggi famosi (es. Eleonora d’Aquitania) le varie questioni amorose.

SULLA POPPA SEDEA DI UNA BARCHETTA


Sonetto LI dell’edizione Lanza che, come descritto già dall’incipit, vede la descrizione della donna amata in una situazione narrativa
il cui sfondo è assolutamente noto all’autore.

L’ultimo verso, dove troviamo il sostantivo «sazio», non è presente nell’unico testimone della lirica (Bart), in cui prende posto la
lezione «sonzio». Con un confronto tra quest’edizione e quella del 2013 di Leporatti, troviamo nell’ultima, limitate da due piccole
croci, quanto riportato da Bart e tutti i suoi discendenti.

Come si sono comportati altri codici?

o il Baldelli aveva letto «vago», nonostante nel contesto questo aggettivo non risulti essere molto chiaro.
o il Massera nella sua edizione critica del 1914 adotta la congettura di «sazio», rendendo il testo sicuramente più
comprensibile dell’ipotesi baldelliana.

Leporatti risulta essere quindi molto prudente con l’aggiunta delle cosiddette croci della disperazione ad indicare un problema
testuale non ancora risolto, che l’editore critico preferisce non toccare in attesa di congetture più convincenti o di un’ulteriore
documentazione.

De Robertis, maestro di Leporatti, compie invece una scelta completamente diversa: egli propone la lettura di «sozio», da intendersi
nel significato di pari, termine che ritroveremo in una novella del Decamerone (novella 6, par 52 dell’ottava giornata) derivato dal
latino.

LIVELLO METRICO: Sonetto con rime incrociate nelle quartine e due rime ripetute nelle terzine, secondo lo schema ABBA,
ABBA; CDE, CDE.

PARAFRASI: Sulla poppa di una piccola barca, si trovava seduta la mia donna che veloce solcava il mare accompagnata da altre
compagne, nell’atto di cantare ora questa ora l’altra canzone.

Visitando ora questa spiaggia e ora questa piccola isola e ora questa ora quella brigata di donne, appariva allo stesso modo un
angelo appena disceso dal cielo.

Io, che, seguendola, vedevo affollarsi da ogni parte della gente per contemplarla, la guardavo come qualche cosa di straordinario.

Io sentivo dentro di me destarsi ogni spirito, e non vedevo mai sazio il bene che io provo nell’operazione di pronunciare con amore
le sue lodi.

o il sonetto presenta una situazione narrativa descritta tramite MINUTI PARTICOLARI, già notabile dall’anafore di
tempo «or…or…or»; Boccaccio è quindi molto preciso nel circoscrivere sia per quanto riguarda il luogo che il tempo in cui
la scena si svolge.
o come recupero di Cavalcanti troviamo invece un alto numero di DIMINUTIVI, con una grazia quasi da madrigale, tra cui
«barchetta», «canzonetta», «isoletta».
o la donna viene presentata nell’ATTO DI CANTARE, motivo che verrà poi successivamente presentato da un’altra
prospettiva con un passaggio dal canto della donna a quello del poeta – questo anche grazie al rifacimento di alcuni miti
(es. quello di Orfeo).
o il motivo narrativo presenta un USO MOLTO ESTENSIVO DEL TEMPO IMPERFETTO.
o nell’ultima terzina ritroviamo un elemento topico del lessico stilnovistico, lo spirto.
o la sintassi prevede UN’INVERSIONE DEL SOGGETTO con una prima presentazione del verbo «sedea», mentre il
soggetto dell’azione è posto al v. 3.
o Branca specifica come questa FANTASIA DELLA DONNA NELL’ATTO DI SOLCARE IL MARE su di una
barchetta, seguita da vicino dallo sguardo poetico, potrebbe essere avvicinato ad una fantasia presente nelle Rime di Dante
con riferimento al sonetto Guido, io vorrei che tu, Lapo ed io. In esso, Dante si rivolge idealmente agli amici Guido
Cavalcanti e Lapo Gianni e manifesta il desiderio di fare un viaggio con loro su un vascello favoloso, lasciandosi
trasportare dal vento e dai propri desideri, auspicando inoltre che ai tre si uniscano le rispettive donne (tra cui non è inclusa
curiosamente Beatrice) per trascorrere il tempo felicemente nella gioia di stare insieme. Il testo si può ricondurre alla lirica
amorosa del Dolce Stil Novo, anche se riprende in parte anche il "plazer" provenzale ed esprime, forse, un desiderio di
evasione e fuga dalla realtà mercantile della società comunale, per ricercare l'idealizzazione propria dei romanzi del ciclo
arturiano.
o rispetto all’atteggiamento della brigata di donne, in mezzo alla quale l’amata appare come un’angioletta discesa dal cielo,
Branca riporta un passo della Vita nova in cui troviamo una risonanza corale che amplifica la straordinarietà della donna:
«Questa non femmina, ma è uno dei bellissimi angeli del cielo», Vita nova 26.
o l’accorrere intorno alla donna per il suo mirabile fascino sarà un’esperienza molto diversa in Boccaccio rispetto a quella
mistica dantesca; nel certaldese la risonanza ha una CONNOTAZIONE ASSAI PIÙ TERRENA di rimando alla
società napoletana che costituiva l’esperienza di vita del poeta.
o «come miracol novo» al v.11 riprende, secondo Branca, altri due passi della Vita nova, il capitolo 21 ed il 26.

CHI NON CREDRÀ ASSAI AGEVOLMENTE


Sonetto L nell’edizione Lanza, anche qui riscontrabile solo in Bart.

Alcune divergenze tra questa edizione e quella del 2013 di Leporatti:

o al v. 1 al posto di «credrà» troviamo in Leporatti la forma piena «crederrà» con la doppia vibrante, a meglio
RISPECCHIARE LA GRAFIA DELLA BARTOLINIANA.
o al v. 2, seguendo le solite abitudini latineggianti, troviamo delfino scritto col ph.
o a «ed», Leporatti preferisce l’ascrizione latina «et».
o anche il nome del dio del mare viene trascritto con grafia latineggiante con il nesso consonantico non assimilato pt in
Neptuno.
o nell’ultimo verso Leporatti presenta la grafia del nesso consonantico non assimilata, da «fatti» passiamo quindi a «facti».

LIVELLO METRICO: Sonetto con rime incrociate nelle quartine e due rime ripetute nelle terzine, secondo lo schema ABBA,
ABBA; CDE, CDE.

PARAFRASI: Chi non crederà assai facilmente – se al canto di Arione aggiunse il delfino avvicinandosi alla sua nave veloce e
ubbidiente al suo comando – che, attraversando costei il mare spesso in una piccola imbarcazione, nel tempo primaverile, alla voce
del suo canto non ne vengano molti (delfini) pieni di desiderio?

E quasi inviati a fare questo dal dio del mare Nettuno, la circondano, annientando ogni manifestazione sfavorevole, e le onde
pericolose del mare e le tempeste.

O orecchi felici, o cuori beati, ai quali la fortuna è tanto favorevole che voi siate fatti degni di ascoltarla!

Ritorna qui il motivo del canto della donna, esattamente come al sonetto precedente, associata però alla figura mitica di ARIONE.
Originario di Metinna, sull'isola di Lesbo, Arione era un famoso cantore e poeta greco vissuto intorno al 600 a.C.. Secondo quanto
raccontato da Ovidio ne i “Fasti” (vv. 95-), nel periodo in cui Arione viveva a corte del tiranno di Corinto, Periandro, uno dei sette
sapienti, il cantore decise di effettuare un viaggio in direzione dell'Italia e della Sicilia in particolare. Si trattò di un viaggio molto
proficuo durante il quale Arione riuscì a guadagnare ricchezze considerevoli. Ma giunse il tempo di far ritorno a casa, alla corte di
Periandro, e il poeta greco, con al seguito quella immensa fortuna, si imbarcò su una nave di corinzi. Durante la navigazione però
questi derubarono Arione, spogliandolo di tutte le ricchezze guadagnate e prima di gettarlo in mare, gli offrirono la possibilità di
esaudire un desiderio. Arione scelse di potersi adornare da cantore ed esibirsi in un ultimo canto e gli fu concesso.
Quando l'uomo infine saltò giù dalla nave, egli stava ancora cantando ma quelle note non passarono inosservate. Un delfino, infatti,
ne rimase così attratto tanto da accorrere in aiuto di Arione e trasportarlo sul dorso fino alle coste di Tenaro. Il tiranno Periandro, alla
vista di Arione, stentò a credere al suo racconto ma all'arrivo dei corinzi egli decise di ascoltare anche la versione dell'equipaggio
che, ignaro del miracoloso salvataggio di cui era stato protagonista il cantore, praticamente non fece altro che svelare la propria
colpevolezza. Il brutto tiro giocato ad Arione così costò loro una pesante punizione. Con molta probabilità, Arione fu un maestro in
metrica nell'utilizzo del ditirambo dionisiaco che poi venne impiegato nelle tragedie ma, purtroppo, non ci è pervenuta alcuna sua
opera.

Il mito è molto caro al Boccaccio, che lo citerà sia nell’Amorosa Visione che nella Comedia delle Ninfe fiorentine.

o nella seconda quartina troviamo, in una innovativa ambientazione marina originale al Boccaccio, il TOPOS
DELL’ACCORRERE DELLE GENTI, sempre ripreso dalla Vita nova dantesca. Qui però siamo davanti ad una
trasposizione fantastica: ad accorrere non sono persone, ma i delfini. Anche questo elemento sembra essere individuabile in
Dante che, in Inferno XXII ai vv. 19-21, usa una similitudine che fa riferimento all’accorrere di questi mammiferi.
o al v. 13, la «Fortuna…destra» è una ripresa dal libro II v. 388 delle Georgiche virgiliane (che presenta però un’inversione
sintattica); sembra invece ritornare in Petrarca, questa volta non invertito, nei Rerum volgarium fragmenta al v. 3 del
componimento 231.
o sempre dal passo di Ovidio dei Fasti, Boccaccio sembra riprendere il sintagma «onde e tempestate» del v. 11.

MARTEDÌ 30-03
LEZIONE 11

QUEL DOLCE CANTO COL QUAL GIÀ ORFEO


Sonetto XXXVIII dell’edizione Lanza che, in questo caso, costituisce un vero e proprio esempio di POESIA
TRADIZIONALISTA ANTE LITTERAM. Nella tradizione de Le Rime il suddetto componimento è presente solo ed
esclusivamente in Bart; anche qui, come in altri casi, Leporatti introduce alcune novità:

o al v. 1 «Orfeo» viene trascritto con il ph, cosa che accade anche per il nome di Anfione, che perde la labio dentale f.
o al v. 4 Leporatti preferisce la rappresentazione di «saxxi», alla latina con doppia x, al posto della doppia s.
o lo studioso decide al v. 8 di non togliere la lettera h al sostantivo «uomo», proprio per riallacciarsi ad una grafia più
latineggiante.
o al v. 11 la congiunzione mantiene la costruzione latineggiante, «et», così come al v. 12.
o una minima variazione, che non tocca semplicemente la forma (ma è MORFOLOGICA), è riscontrabile al v. 14 in cui
«s’ e’», inteso da Lanza come PRONOME PROLETTICO PLEONASTICO, viene considerato come congiunzione
ipotetica se.

LIVELLO METRICO: Sonetto con rime incrociate nelle quartine e due rime nelle terzine, secondo lo schema ABBA, ABBA;
CDE, DEC.

PARAFRASI: Quel dolce canto con il quale già Orfeo riuscì a far addormentare sia il cane Cerbero che il traghettatore del fiume
Acheronte, oppure quel canto con il quale Anfione dal duro monte circostante trascinò le rocce al bel muro tebano; o qualsiasi
canto intonarono più bello intorno al fonte delle muse coloro che già si ornarono la fronte con l’alloro, con le Muse abili lodando
esseri umani, o forse qualche dio, sarebbe scarso per lodare la donna amata, le quali bellezze sono sovrannaturali così come i
costumi e le parole.

E io credo in versi poco adatti di rappresentarle nella mia poesia non accompagnata da musica!

Vedete se sono folli le mie intenzioni!


o Branca sottolinea come il mito del cantore Orfeo sia particolarmente caro al poeta, tanto da ritornare nella tradizione
narrativa boccacciana: esso è presente nell’Amorosa visione XXIII, così come al libro IV del Filocolo, al libro VIII del
Teseida e al libro II della Comedia ninfe fiorentine. Lo possiamo riscontrare anche nelle Genealogie IV e pure in uno dei
suoi commenti all’Inferno dantesco (canto IV).

INTORN’AD UNA FONTE, IN UN PRATELLO


Sonetto LVII dell’edizione Lanza, primo secondo invece l’ordinamento di Massera (e di conseguenza di Branca). Tale lirica è
documentata in diversi scritti, ne parla infatti Bart, il Riccardiano 1103, ed anche il manoscritto Oxford 65.

o al v. 2 Leporatti mantiene la h davanti ad «erbette», riallacciandosi alla grafia latina e propende per la scelta di «be»
anziché «bei».
o al v. 4 ritroviamo la congiunzione «et», così come all’inizio del v. 9.
o dal suo testimoniale manoscritto ricava la rinuncia dell’articolo determinativo il davanti ad «una» nel v. 9.
o preferisce invece la grafia antica di «adventura» che mantiene il nesso latino adv al v. 10.
o al v. 13 l’edizione Leporatti presenta «rispose» al posto di «risposer» (nonostante il verbo debba essere al plurale).
o invece di scrivere «co» associato ad un puntino al v. 14, Leporatti propone «cotal» tutto attaccato.

LIVELLO METRICO: Sonetto con rime incrociate nelle quartine ed alternate nelle terzine, secondo lo schema ABBA, ABBA;
CDC, DCD. L’enjambement ai vv. 4-5 rafforza il legame tra quartine e terzine, conferendo un carattere unitario al testo; un punto
fermo (alla fine della seconda quartina) divide il sonetto in due parti ben distinte.

PARAFRASI: Intorno ad una fonte, su un prato dall’erba fresca pieno di bei fiori, sedevano tre angiole, raccontandosi tra loro
storie amorose, e a ciascuna faceva ombra sopra il bel viso un verde ramicello, il quale abbracciava i capelli d’oro, al quale un
dolce venticello avvolgeva insieme i due bei colori.

E dopo un po’ di tempo una disse alle altre due (come io ascoltai): «Oh deh, se, per un caso fortuito, ora in questo luogo dove ci
troviamo venisse l’amante di ciascuna di noi, forse noi fuggiremmo per paura?».

Alla quale le altre due risposero: «Chi si allontanasse da qui sarebbe poco saggia, con una fortuna del genere! »

Il sonetto presenta una struttura narrativa, articolata in due blocchi: il primo, quello delle quartine, descrittivo; il secondo, quello delle
terzine, dialogico. Nel primo si rappresenta il locus amoenus, posto immerso tra piante ed alberi, spesso situato nelle vicinanze di una
fonte o di un ruscello, ricco di ombra ed in qualche modo simile al Paradiso terrestre; nel secondo è riferito il dialogo delle ragazze.
Da un punto di vista sintattico, le quartine sono occupate da un unico ampio periodo ipotattico. Nelle terzine la sintassi è più mossa:
una proposizione parentetica avverte il lettore della presenza del poeta-testimone; segue un dialogo di tono quotidiano, sia per i temi
trattati sia per la forma diretta in essi cui sono presentati (proposizione interrogativa diretta a cui si risponde con una esclamativa).

o il lessico evoca un paesaggio leggiadro, fatto di fonti, erbe, rami, fiori e delicati refoli di vento. Gli aggettivi che
qualificano le fanciulle obbediscono ai moduli tipici della poesia del Duecento e di quella petrarchesca: essi non designano
una realtà concreta, ma un’atmosfera astratta e quasi rarefatta («bello viso», vv. 4-5; «vaghi colori», v. 7; «suave
venticello», v. 8).
o qualche termine sembra rinviare ai canoni dello Stilnovo («angiolette», v. 3), ma l’uso del diminutivo gli conferisce una
sottile malizia sconosciuta agli stilnovisti. Proprio quest’uso dei diminutivi («pratello», v. 1; «erbette», v. 2; «ramicello», v.
5; «venticello», v. 8), assai frequente nelle quartine, avvicina il testo al genere della pastorella, deputato alla descrizione di
amori passionali e spensierati, di cui troviamo esempio in Cavalcanti.
o a prima vista i vv. 1-8 lascerebbero pensare a una ripresa tradizionale del topos letterario del locus amoenus, del giardino
fiorito in cui potevano comparire divinità come Venere, o figure di straordinaria bellezza come la Laura di Petrarca: in un
giardino verde, pieno di fiori ed erbe profumate, sedute intorno ad una fonte e ritemprate da un dolce venticello, stanno tre
donne, dall’apparenza angelica. Questa descrizione crea l’attesa per l’evento straordinario che, convenzionalmente,
dovrebbe essere rappresentato nelle terzine successive; il fatto che le donne siano designate come «angiolette» e siano in
numero di tre sembra inoltre richiamare in modo esplicito i temi ed i simboli dello Stilnovo. Il topos è riscontrabile in altre
opere boccacciane, quali: nel libro I della Caccia di Diana, nel libro IV del Filocolo, così come nella Comedia delle ninfe
fiorentine (libro IV) e nell’introduzione alla seconda giornata del Decameron.
o nella cornice idillica delle quartine, la donna-angelo stilnovistica si trasforma dunque in un essere meno etereo ma assai più
concreto: le «angiolette», in realtà, si rivelano simili a sensuali pastorelle pronte al malizioso dialogo con i loro seduttori.
Ma la seduzione degli ipotetici tre amanti è osservata questa volta dal punto di vista delle donne (il poeta ne rimane
estraneo e si limita a fare da testimone). E ciò consente alla sensualità delle pastorella di assumere significato diverso da
quello della tradizione: il sonetto non serba infatti traccia della disparità sociale tra l’amante di sesso maschile e l’umile
fanciulla codificata dal genere provenzale (Andrea Cappellano aveva teorizzato che quegli stessi cavalieri i quali,
all’interno della concezione dell’amor cortese, stavano al servizio delle dame senza speranze di successo amoroso,
potessero liberamente esercitare una modica coactio per costringere le contadine all’atto sessuale). Nelle Rime, dunque, ed
in particolare in questo sonetto introduttivo, affiora la nuova etica descritta dal Boccaccio, terrena e laica, che sarà
dominante nel Decameron; e affiora la nuova caratterizzazione della donna come soggetto dell’amore, e non come
semplice oggetto di una passione più o meno spiritualizzata.
o al v. 7, «dua vaghi colori», sembra essere una variante di due bei colori espresso in forma più popolareggiante.
o al v. 8, nell’edizione Lanza, troviamo il verbo «avolgeva» che in Branca viene sostituito da un «spirava», inteso come
nell’azione di soffiare.

ALL’OMBRA DI MILL’ARBORI FRONZUTI


Sonetto LVIII nell’edizione Lanza, numero II nell’ordinamento tradizionale Massera-Branca (presente solo nella testimonianza di
Bart).

Siamo sempre di fronte ad una VARIATIO, tanto cara al Boccaccio, del tema presentato nella lirica analizzata precedentemente: il
locus amoenus.

LIVELLO METRICO: Sonetto con rime incrociate nelle quartine e due rime ripetute nelle terzine, secondo lo schema ABBA,
ABBA; CDE, CDE.

PARAFRASI: All’ombra di una moltitudine di alberi ricolmi di fronde, in abito aggraziato e nobile, con gli occhi belli ed il
parlare signorile ed elegante la donna metteva delle trappole amorose, da lei prima intessute con i suoi biondi capelli crespi e sciolti
al vento dolce, in un prato verde e fresco; alle quali trappole Amore aggiungeva un’esca, e degli ami feroci e aguzzi.

Dai quali chi vi capitava, contemplando lei, invano tentava poi di liberarsi, tanta era la magia che li intrappolava.

E io lo so, che, fidandomi di me stesso più del dovuto, fui catturato tra le trappole sparse da una forza che io non vedevo.

o al v. 2 «abito» viene trascritto da Leporatti alla latina con l’h davanti, così come la congiunzione, allo stesso verso, diventa
«et».
o al v. 4 Bart presenta «dal lei» al posto che «da lei», con quindi la doppia consonante, ripreso poi da Leporatti.
o ai vv. 5-6 abbiamo la preferenza per la congiunzione «et».
o al v. 7 in Leporatti non troviamo «un’angiolella», ma «un angiolella».
o il v. 8 presenta invece nell’edizione 2013 «et hami», con la grafia latineggiante.

GIOVEDÌ 08-04
LEZIONE 12

Lo studioso ROSARIO FERRERI, in un volume del 1980 dal titolo Innovazione e tradizione del Boccaccio, dedica alcuni
capitoli all’argomento delle Rime boccacciane. Tra queste osservazioni possiamo trovare riscontro nel numero, seppur limitato, di
sonetti da noi analizzati, conferendo un forte legame all’insieme delle liriche (con grande riguardo al nucleo originale di innovazione
dell’autore). La trattazione nel primo saggio dello studioso parte da alcuni termini lessicali, da noi già riscontrati, legati a due
principali ambiti semantici: il primo da collegare alla donna amata, il secondo all’ambiente. Di questi termini innovativi ricordiamo
ad esempio «gentilesco», gli aggettivi «delicato» e «soluti», il termine «adoppiare», nonché i verbi «cianciare» (privo di
connotazione negativa in riferimento all’atto di parlare della donna) e «motteggiare».
Altro ambito di innovazione lessicale è quello relativo al paesaggio, spesso marino, sullo sfondo del quale l’amata si muove in modo
elegante; qui sono presenti termini come «fronzuti», «concas» (le conchiglie marine riprese da Ovidio) e ancora il verbo
«adombrare». Questo lessico più innovativo si presenta anche sottoforma di sintagmi («le calde fonti», «la marina arena», «il soave
venticello», ecc.) – lessemi che Boccaccio eredita dalla tradizione poetica il cui abbinamento però, verbo-aggettivo/verbo-avverbio,
appare completamente nuovo. Così come diverse si presentano alcune scelte lessicali riguardanti l’innovazione dei termini utilizzati:
il poeta sembra infatti amare disseminare tutta una serie di toponimi quasi fosse nell’atto di compiere una descrizione geografica.

Non mancano dei termini rinnovati dal punto di vista del significato: essi sono ovviamente tradizionali, ma la tonalità con cui ci
vengono presentati è nuova. Un esempio è il termine «diletto», che significa appunto gioia, da distaccare dalla sua natura stilnovistica
per avvicinarlo ad una più mondana, una sfumatura di fascino sensuale femminile. Allo stesso modo anche «gioco», accanto al suo
significato di divertimento, assume connotazione di svago delle brigate napoletane.

Un caso visto più volte è riferito ai termini tratti dallo Stilnovo («angela», «angiolella»), la donna amata da Boccaccio – Fiammetta –
e con lei il suo seguito, sono donne umane, vive, prive di funzione corale in grado di amplificare figure come quella dantesca di
Beatrice, ma un vero e proprio rimando realistico alla società di Baia che vogliono rappresentare. Tutta la tradizione aulica vira
quindi in un’altra dimensione, assumendo sfumature reali, sensuali e decisamente più familiari.

Boccaccio certamente poi ama gli schemi topici della tradizione ed ha una tendenza a collegare questi ultimi con un forte
rinnovamento, quasi di distacco letterario, in direzione di una nuova concretezza derivata dal suo tempo. Questi legami con la
restante opera del certaldese sono facilmente riscontrabili nei suoi ulteriori scritti: quando egli scrive di uno dei tanti festeggiamenti
baiani, con l’arrivo casto delle donne ed associandolo a quello della matrona Lucrezia, per poi trasformarsi in delle Cleopatre
lussuriose e piene d’amore, notiamo un collegamento con l’Elegia di Madonna Fiammetta. Lo stesso sonetto da noi analizzato, Sulla
poppa sedea di una barchetta, richiama allo stesso scritto nelle descrizioni della brigata di giovani donne. Ancora, il paesaggio di
Intorno ad una fonte di un pratello, in cui Boccaccio inscenava il dialogo di tre giovani in questo paesaggio fortemente descrittivo,
trova riscontro nel primissimo romanzo che è il Filocolo.

Secondo Ferreri il lessico visto ne Le Rime determina, nel suo legame col paesaggio, delle tematiche presenti in altre opere
boccacciane; proprio in questi temi noi dobbiamo vedere quello che è il nucleo più innovativo della lirica del poeta, nonostante la
presenza di alcune marche stilnovistiche petrarchesche. Soprattutto, è presente in questi scritti una sostanziale apertura verso la realtà
esterna che emerge maggiormente a livello sintattico.

Tipico dei sonetti boccacciani è il fondere le quartine in un unico verso melodico, quasi a formare una singola estensione di otto versi
(se non addirittura a tutta la lunghezza del brano). Le principali costruzioni sintattiche utilizzate per fare ciò sono:

o la COSTRUZIONE CONSECUTIVA (es. il sonetto Quella splendida fiamma), spesso interrotta da diverse
subordinate o incidentali ad aggiungere più informazioni.
o il PERIODO IPOTETICO con l’inserimento del se nella protasi e del condizionale nell’apodosi.
o una COSTRUZIONE DICHIARATIVA, già affermata da Branca in uno dei suoi studi sull’autore.
o altro modulo tipico è quello dell’inserimento di un PRONOME RELATIVO a inizio proposizione (utilizzato sia nella
prosa che nella poesia).

Tutte le forme sopra citate formano uno schema tipico della prosa boccacciana, di grande andamento analitico. Secondo Ferreri noi
cercheremmo quasi invano i tratti tipici della poesia di Petrarca e degli stilnovisti, caratterizzati da fine analisi psicologica o
atmosfera spirituale e trascendentale, negli scritti del certaldese. Il frasario, il lessico sicuramente ritornano, ma in forma nuova e
reinterpretata, dando un’originale necessità di concretezza espressa tramite acute descrizioni dei sintomi e della fisica amorosa
(nonostante siano presenti tutte le caratteristiche della lirica precedente); a cambiare è il fatto che queste immagini non presentino
un’analogia interna, non diventando quindi mai correlativi dei sentimenti provati dal poeta.

In questi sonetti capita spesso che il tono narrativo si estenda anche nelle successive due terzine, nella realizzazione di una piena
continuità testuale. Un esempio ci è dato dal sonetto Intorno ad una fonte in un pratello.

Alcune caratteristiche morfologiche importanti secondo lo studioso:

o L’USO DELL’IMPERFETTO, sicuramente non prevalente, che assume funzione importante proprio per il suo valore
descrittivo (spesso avvalorato dall’uso combinato col gerundio).
o L’USO MOLTO ATTENTO DELL’AVVERBIO, sia di luogo che di tempo, E DELLA PREPOSIZIONE. Ad
essi Boccaccio sembra affidare la funzione di fissaggio di una dimensione spaziale e temporale delle scene rappresentate;
cosa che non ci deve sorprendere, soprattutto se in relazione alla lirica precedente, in cui l’obiettivo era la creazione di una
vera e propria esperienza spirituale dell’anima.
Grazie a tutti questi usi, emerge la voglia di Boccaccio di mostrarci l’hic et nunc, l’esigenza di localizzare in modo analitico la scena
evocata dalle sue parole. Questa sua tendenza sembrerebbe mirare ad una rappresentazione di tipo oggettivo: la realtà mostrata non
sarebbe quindi un analogo di un paesaggio interiore, ma un quadro oggettivo e concreto, davanti al quale l’io lirico stesso si pone
come un vero spettatore (quasi a volerci incoraggiare nella contemplazione). I suddetti espedienti tecnici sono del tutto analoghi a
quelli utilizzati nelle sue altre opere e Ferreri, nel suo studio, ci conferisce ben tre esempi – tratti rispettivamente da La comedia delle
Ninfe fiorentine, l’Elegia di Madonna Fiammetta, per arrivare infine al Decamerone. L’esigenza di cogliere la realtà in modo
analitico è quindi identica nelle Rime così come nelle altre opere della tradizione boccacciana; l’originalità de Le Rime va quindi
letta nel contesto più ampio di tutta la restante bibliografia in modo da ottenere una visione quanto più chiara possibile.

Altra caratteristica che emerge notevolmente ne Le Rime è l’ampliamento della gamma di esperienze sentimentali delle passioni
rappresentate: troviamo sicuramente la passione d’amore con le sue gioie e pene, ma, oltre all’inclusione di desiderio e sospiri,
troviamo tratti di istinto sessuale, gelosia, tradimento, ecc. Del resto, la motivazione è chiara – Boccaccio tende a descrivere la
propria personale familiarità di vita, giovanile e napoletana, ambientandola in paesaggi ben determinati che vanno a perdere la
rigidità delle schematizzazioni letterarie. D’altronde anche l’amore appare non più come ansia di spirito, ma viene inserito in un
contesto sociale dalle caratteristiche mondane ed eleganti.

Nei riguardi di Fiammetta, Ferreri nota poi L’ATTEGGIAMENTO AMBIGUO del poeta. Per molti versi ella viene
rappresentata tramite i modi ereditati dalla lirica precedente, allo stesso tempo ci appare come viva, concreta e, soprattutto, reale.
Molto spesso abbiamo rappresentata una parte più inerte e meno vivace della donna, inserita in una serie di novità: Fiammetta sembra
essere «vaga della sua bellezza», ha quindi l’atteggiamento di una Narcisa che, con gioia, contempla la sua immagine. Il tono
utilizzato nelle descrizioni risulta poi essere familiare, inimmaginabile in scritti come potrebbero invece essere la Vita nova dantesca.
Spesso anche la rappresentazione dell’amata in un paesaggio concreto concorre ad aggiungere tonalità nuova alla lirica boccacciana.

Va detto inoltre che l’autore è filogino, ama le donne e il loro aspetto, e questo lo si nota nell’importanza attribuita al sesso femminile
nelle sue diverse opere così come la funzione di mitigazione del dolore da esso provato che Boccaccio propone nei suoi testi. Ne Le
Rime, con particolare riguardo al sonetto A quella parte ov’io fui prima accesa, troviamo una Fiammetta narratrice nel bel mezzo
della chiesa di S. Lorenzo a Napoli nell’atto di cantare i sentimenti provati nei confronti dell’amato.

Anche il saluto della donna, noto topos stilnovistico, non crea affatto un clima drammatico, semmai risulta essere una consolazione
riguardante il quotidiano ed il terreno; con l’ingresso ed il conformarsi dei moduli narrativi de Le Rime non abbiamo più quindi la
gioia stupefatta dello Stilnovo, ma dei tratti pienamente familiari. Del resto, questa singolarità è presente in una dei temi più cari della
lirica romanza precedente, quella sorta di fantasticheria presente nel sonetto Tocami il viso Zefiro talvolta, tutta affidata ad
espressioni sensibili e a gesti fortemente concreti.

Boccaccio riprende poi diversi temi dal Petrarca, attraverso il cui confronto, possiamo comprendere meglio la nota personale da lui
aggiunta. Egli pone l’accento sul tono sicuramente più desolato della vita, con uso maggiore di densità lessicale. Allo stesso modo il
tema della morte viene, nei due scrittori, trattato in modo leggermente differente: per Boccaccio la morte risulta «paurosa»,
«infallibile», descritta con un tono di grande sofferenza e drammaticità che ci riporta ad un universo descrittivo prettamente fisico.
L’esercitazione nella sua esperienza lirica lungo le varie linee della tradizione precedente, di cui ripete gli schemi, mantiene sempre e
comunque una grande nota originale da ricollegare agli ideali della società da lui vissuta.

LUNEDÌ 12-04
LEZIONE 13

Andiamo ora ad analizzare alcuni sonetti boccacciani riferiti alla fiamma, senhal della donna da lui amata, Fiammetta.

SE QUELLA FIAMMA CHE NEL COR M’ACCESE


Sonetto XXIX dell’edizione Lanza del 2010, presente solamente nella tradizione Bartoliniana. La rima presenta uno di quei dispositivi
di costruzione e disposizione sintattica mostratoci da Rosario Ferreri nella precedente lezione – un COSTRUTTO IPOTETICO
– è infatti presente una protasi col congiuntivo e, al v. 5, troviamo ovviamente l’apodosi col condizionale «spererei». Abbiamo quindi
una legatura, quasi a costituire un’ottava, tra le due quartine.

LIVELLO METRICO: Sonetto con rime incrociate nelle quartine e due rime ripetute nelle terzine, secondo lo schema ABBA,
ABBA; CDE, CDE.
PARAFRASI: Se quella fiamma che mi accese dentro il cuore e ora mi distrugge in un pianto doloroso mostrasse almeno un po’
di pietà verso di me e se fosse almeno un po’ più cortese tanto da mostrarsi, ancora io spererei di trovare una difesa alla mia vita,
che mi è tanto in odio, e di mutare in canto felice i sospiri pesanti nonché di perdonare le offese inflittami.

Ma poiché, come Dafne fuggì Febo, così la donna da me fugge e nega il suo sguardo agli occhi miei, io so che la mia vita si strugge
troppo incastrata nei lacci amorosi e il mio cuore si trasforma in un fiume di lacrime.

Ritroviamo tutta una serie di topoi: la fiamma, il cuore che si accende, lo sfarsi del poeta in pianto. Leporatti, questa volta, mette in
atto pochissime varianti:

o modifica l’«ed» del v. 2 con la grafia latineggiante «et», evitando di modernizzare.


o al v. 4 l’ascrizione è anche qui non assimilata, «monstrarsi», con una nasale davanti al nesso str.
o al v. 5 presenta l’h dopo la velare sorda, grafia latineggiante.
o anche la congiunzione al v. 8 appare come «et», così come quella al v. 11.
o sempre al v. 8 troviamo «facte» e non «fatte».

Di grande importanza sono le due figure citate al v. 10, tratte direttamente dalla mitologia: Apollo e Dafne. Il mito è uno dei più
conosciuti, esso è stato tramandato prima oralmente, come è accaduto per tutti i miti greci, e poi in forma scritta da parte dei più
grandi autori dell’antichità. Una delle prime fonti autorevoli è rappresentata da Le metamorfosi di Publio OVIDIO Nasone, poeta
latino vissuto intorno al primo secolo d.C.. Qui il poeta, nel quinto libro, descrive le trasformazioni dei personaggi, tra cui quella dei
due in esame: la tormentata storia d’amore tra Apollo e Dafne, che per fuggire dal dio diventa una pianta di alloro.

Esistono diverse versioni del mito, con diverse conclusioni, ma gli elementi di base restano più o meno gli stessi. Dafne, parola greca
che significa lauro, è una bellissima Ninfa che fa parte del gruppo delle Naiadi, protettrici dei corsi d’acqua. Di lei si innamora il dio
Apollo, uno degli dèi più amati nonché temuti, secondo la mitologia greca. Mentre le origini di Dafne restano incerte, Apollo era
figlio di Zeus (il re degli dèi) e di Leto, che ebbe una relazione clandestina col dio dalla quale partorì due gemelli: Artemide, dea
della caccia, e Apollo, dio del sole e di tutte le arti.

La storia parte con una diatriba tra Apollo e Cupido, il dio dell’Amore. Apollo era riuscito ad uccidere un temibile serpente, Pitone, e
Cupido era invidioso di lui. Per vendicarsi, decise di pungere con la freccia dell’amore il dio Apollo e con la freccia dell’odio Dafne,
la bellissima ninfa. Ella, però, era contesa tra il dio e un uomo mortale di nome Leucippo, figlio del re dell’Elide. Leucippo allora,
per guardarla mentre faceva il bagno nel fiume con le altre ninfe, decise di travestirsi da donna. Quel giorno, però, le ninfe decisero
di fare il bagno nude e invitarono anche Leucippo a scoprirsi. Così facendo, smascherarono il suo travestimento e lo uccisero.

Apollo si liberò così definitivamente del rivale in amore e decise di dichiararsi a Dafne. Lei, essendo una ninfa amante della sua
libertà, non voleva sottostare al volere del dio. Così, dopo il momento della dichiarazione, iniziò a scappare velocemente per non
essere raggiunta. Durante la fuga, chiese aiuto alla madre terra Gea per non cadere nelle mani di Apollo. Gea accolse il suo appello e
la trasformò in un bellissimo albero di alloro, separando per sempre i due. Da quel giorno, l’alloro divenne la pianta sacra al dio
Apollo, che ne portò una corona sempre intorno al suo capo.

Va notato come Boccaccio, soprattutto per una questione rimica, utilizzi l’accezione di Febo e Dane, così come ad uno dei seguenti
versi, il 12, utilizzi il sostantivo «pane» al posto del suo plurale «panie», da intendersi col significato di trappole (riconducibile anche
ad Inferno XXI 124). Le forme del nome della ragazza in Boccaccio sono diverse, in alcune versioni troviamo anche «penea», figlia
ovvero del dio Peneo.

I termini «panie» e «invescata», presenti al v. 12, rimandano al concetto della caccia, e sono riscontrabili in altri scritti dell’autore: un
esempio è la novella VI della decima giornata del Decameron, dove il verbo invescare è proprio associato alle suddette panie, le
trappole amorose. Molto spesso, come altrove nel poeta, è poi presente il linguaggio dantesco: al v. 3 troviamo l’aggettivo «pietosa»
che è presente nella canzone dantesca 102 ai vv. 45-46; ancora più interessante è che nella canzone Così nel mio parlar voglio esser
aspro, numero 103 al v. 70, questa volta riferito nei confronti dello scrittore fiorentino e non della donna amata, ritornano del nostro
sonetto gli aggettivi «pietoso» e «cortese». Nella stessa canzone ricorre un’altra immagine cara alle Rime boccacciane – le faville che
escono dagli occhi dell’amata – probabilmente anche qui un’eredità dantesca presa in seguito alle numerose copie attuate dal
certaldese delle canzoni di Dante.

Anche l’immagine della fiamma ricorre in molte delle opere del Boccaccio, così come in numerosi componimenti delle Rime: Branca
ricorda i numeri XI, XIV, XXVII (secondo la sua numerazione) e nella ballata presente al centro della quinta giornata del Decameron
al v. 17.
L’immagine del fiume di lagrime (v. 14) è invece tratta dall’Eneide virgiliana, libro I verso 65; queste però possono anche essere
rimandante all’immagine del lago del cuore dantesca del primo canto dove l’autore parla della paura insinuatasi in esso. Sempre
dantesco è il sintagma «doloroso pianto», tratto dalla Vita nova XXV (presente anche nel capitolo XXXVI con accezione plurale).

QUELLA SPLENDIDA FIAMMA IL CUI FULGORE


Sonetto XXXI della raccolta Lanza, anche qui riscontrabile solo in Bart, dove ritroviamo quello che Ferreri aveva definito come
dispositivo consecutivo che tiene insieme le due quartine iniziali. Appartiene alla serie di sonetti che svolgono il tema dell’origine
luminosa dell’innamoramento: motivo classico della lirica aulica, rilanciato, oltre che dal Boccaccio, anche dal Petrarca.

LIVELLO METRICO: Sonetto con rime incrociate nelle quartine e due rime ripetute nelle terzine, secondo lo schema ABBA,
ABBA; CDE, CDE.

PARAFRASI: Quella splendida fiamma il cui fulgore mi fece innamorare mi accende talmente, tutte quelle volte in cui la mia
anima vola in quelle regioni in cui amore la richiama, che il troppo splendore abbaglia così tanto il debole valore dei miei occhi,
che la si svia dalla sua giusta strada, e non sa dove si trovi né vede dove sta, fuori da ogni razionalità.

E mentre così vaga tremante, fa ridere di me chi mi vede in quel momento, e qualche volta qualcuno mostra verso di me pietà.

Ne consegue che il desiderio, eccessivo, mostra a tutti quello che l’anima fuori dalla sua libertà crede di nascondere.

Rispetto al testo dell’ed. Lanza, in Leporatti abbiamo le seguenti variazioni:

o al v. 9 Leporatti preferisce la congiunzione «et», scritta per lo più con la minuscola, in quanto ritiene che dopo «fuore» ci
vada la virgola e non il punto.
o «allor» al v. 10 viene modificato in «hallora», con la grafia latineggiante.
o anche al v. 11 ritroviamo «et».

Quest’immagine del poeta vinto, centrale nel sonetto, lo ritroviamo in Vita nova XXXIX; sempre da Dante, questa volta da Paradiso
vv. 1-3, dove Beatrice dialoga col poeta della forza dello sguardo, degli occhi. L’anima che si svia è invece riscontrabile in
Cavalcanti, nella specifica ballata La giovane donna di Tolosa, nei vv. 6-7. Anche l’aggettivo «tremebonda» del v. 9 è di origine
cavalcantiana, poi passata a Dante, nonostante il poeta che più fa uso del verbo tremare sia Dino Frescobaldi.

CANDIDE PERLE ORIENTALI E NUOVE


Sonetto XXXVII dell’edizione Lanza, contenuto solamente in Bart. Viene qui riportata un’immagine fiammeggiante, che assembla
pietre preziose e fiori, cui sono paragonate le bellezze della donna-luce, ritratte con colori scintillanti, impiegati con non comune
abilità: il bianco delle perle per i denti, il rosso brillante del rubino per le labbra, il nero intenso per le sopracciglia, il rosso purpureo
delle rose e il bianco niveo del giglio per l’incarnato, lo sfolgorante giallo oro per i capelli. Il motivo verrà ripreso dall’autore in altre
opere come il Filocolo (libro III), il Teseida (libro XII), la Comedia delle ninfe (libro XII) e l’Amorosa visione (libro XV).

LIVELLO METRICO: Sonetto con rime alternate nelle quartine e due rime ripetute nelle terzine, secondo lo schema ABAB,
ABAB; CDE, CDE.

PARAFRASI: I denti sono candide perle di origine orientale e perfettamente nuove che si trovano sotto delle vivaci pietre di
rubini chiari e vermigli, dalle quali labbra parte un sorriso angelico che sotto due nere sopracciglia fa sfavillare insieme gli occhi e
il suo colore mescola insieme i gigli e le rose senza che vi adoperi alcun artificio: i capelli d’oro e crespi creano un lume sopra la
fronte lieta, guardando la quale Amore resta abbagliato a causa di tanta meraviglia; e tutte le altre parti si adeguano a quelle già
menzionate, tutte secondo giusta proporzione, di costei che assomiglia ai veri angeli.

Le varianti grafiche utilizzate da Leporatti nella sua edizione del 2013 sono solamente le seguenti:

o ai versi 1, 2 e 6 abbiamo la scelta della congiunzione latineggiante «et».


Boccaccio utilizza qui l’immagine di Cupido stesso che, davanti al bagliore della donna, rimane completamente affascinato. Lo
stesso tema lo ritroviamo nel sonetto XXXI al v. 6, dove era però il poeta ad essere annientato dalla forza degli occhi dell’amata – qui
è proprio la divinità che nulla può nei confronti di tanta bellezza. La donna, inoltre, assomiglia proprio a degli angeli, come ci viene
detto nell’ultimo verso; si tratta di un topos stilnovista definitivamente DEIDEOLOGIZZATO dal turbinio coloristico del gotico-
fiorito, risultante in un complimento alla sola beltà fisica femminile.

o la prima frase della lirica, in particolare, è NOMINALE (senza quindi predicato), un vero e proprio elenco di attributi
della donna.
o al v. 5, i due termini menzionati «Venere e Giove» sono in realtà da associare alla lucentezza degli occhi. Secondo
Massera, uno dei maggiori studiosi di Boccaccio, invece, Venere sarebbe rappresentazione di bellezza, e Giove di maestà.
o tutti i topoi della bellezza femminile, come già detto inizialmente, sono riscontrabili in ulteriori opere boccacciane – canoni
facilmente individuabili anche nella tradizione lirica.

A QUELLA PARTE OV’IO FUI PRIMA ACCESA


Sonetto LXXXV dell’edizione 2010 di Lanza, molto interessante in quanto qui il poeta fa parlare l’amata attribuendole i suoi
sentimenti ed il suo linguaggio. La centralità femminile non è quindi solo oggetto, bensì svolge anche la funzione di soggetto:
Fiammetta narra il suo struggimento, collocandosi in una scena precisa e abbastanza chiaramente collocata (nonostante gli studiosi
non siano concordi tra loro sulla localizzazione). L’intento boccacciano di riallacciarsi ad una scena realistica è quindi palese, così
come quello di realizzare un collage di parole dantesche molto conosciute. Lo studioso SWITNER, supportato da Branca, sottolinea
come vengano riportate qui le parole della più celebre innamorata della nostra letteratura – Francesca – che in Inferno XV racconta il
suo innamoramento per Paolo.

Il suddetto sonetto è strettamente collegato al precedente, il numero LXXXIV, dove troviamo il poeta preso dalla visione del luogo
dove s’innamorò di Fiammetta (la chiesa di San Lorenzo a Napoli), riaccendendo nel suo animo la passione; spinto da ciò parte una
riflessione sulla sua condizione: dolorosa, certo, ma anche esaltante.

Il collegamento tra i due sonetti non è solo nel tema, ma anche in alcuni fattori formali, tra cui ricordiamo le rime in esa delle
quartine ed in oco delle terzine del sonetto con protagonista la donna che, nell’altro sonetto, si presentano invece in posizione
incrociata. L’idea inoltre di sentirsi preso/a, presente in entrambe le liriche, rimanda all’idea dell’innamoramento.

Ritroviamo anche delle parole che sono letteralmente ripresi nei due sonetti, es.: preso/a, acceso/a, sospeso/a, difeso/a. Ripresa è
anche la parola «poco».

La situazione presentata nel sonetto, della donna che ricorda il luogo dove per primo ha incontrato l’amato, è stata ricondotta
all’Elegia di Madonna Fiammetta, ulteriore opera boccacciana, dove l’analogia di amore sfortunato con conseguente abbandono
dell’innamorato è evidente, così come lo è la presentazione di autor della protagonista, che prende la parola in prima persona; una
scena addirittura ormeggia lo stesso sonetto.

Come già detto, è evidente anche la ripresa dantesca, in particolare quella di Inferno V con l’episodio famosissimo di Paolo e
Francesca – interessante non solo per il riuso del lessico tecnico, quanto più per l’immagine dell’impossibilità di separazione dei due
amanti, riproposta anche dal Boccaccio. Se osserviamo poi il canto, notiamo quanto l’autore li conoscesse quasi addirittura a
memoria, già infatti in essi sembrava trovare il rispecchiamento del duplice esser catturati da Amore. Nei versi, Francesca racconta di
come l’uomo si sia per primo innamorato di lei, aggiungendo poi nei vv. 103-105 un’allusione, con utilizzo dello stesso verbo,
all’amore che prende possesso poi del suo stesso corpo di donna.

Che Dante sia capitale per Boccaccio, ce lo dice anche il fatto che il certaldese trova il gancio del libro galeotto, il famoso Lancelot
ambrose, emblema della letteratura d’oil. La tradizione arturiana voleva che il bacio tra i due amanti avvenisse per mezzo di un
cavaliere galeotto, che riparasse i due nel momento di consumazione dell’atto, come sappiamo Dante però utilizza il libro, mettendo
questo sostantivo in bocca a Francesca al momento della descrizione, trasformandolo addirittura in un nome proprio – GALEOT.
Boccaccio addirittura denominerà il suo capolavoro, il Decamerone, PRINCIPE GALEOTTO (come secondo nome), facendo
quindi un omaggio all’Alighieri e alla sua commedia da lui definita come divina così come alla letteratura romanzesca e l’etica della
cortesia.

Francesca dice poi «questi mai da me non fia diviso», alludendo a come Paolo non sarà mai diviso da lei. Quest’ultimo concetto verrà
proprio ripreso nella lirica qui da noi analizzata.
LIVELLO METRICO: Sonetto con rime incrociate nelle quartine e due rime ripetute nelle terzine, secondo lo schema ABBA,
ABBA; CDE, CDE.

PARAFRASI: Spesso Amore mi trascina in quella parte dove io fui per la prima volta innamorata a causa della bellezza di colui
dal cuore mai si allontanerà, né vale la pena respingerlo.

Da questa parte contemplo, tutta sospesa, in giù e in su, pregandolo, voglia il cielo che il suo valore sempre cresca, che il grazioso
splendore mi mostri del mio amante, che mi ha così fatto innamorare.

Il quale amante se avviene che io lo possa vedere per grazia, contenta mi ritraggo un poco, lodando Dio, Amore e la Fortuna.

E mentre mi credo essere sazia dell’averlo visto, sento riaccendersi il fuoco nel rivederlo ancora, e torno in una.

o al v. 3 troviamo la locuzione «non mi si partirà», come già detto ripresa di Inferno V, esattamente come la descrizione al
verso precedente del «piacer di colui» è analoga a quanto detto da Francesca nello stesso canto.
o il se al v. 6 è ottativo.
o al v. 9 troviamo l’aggancio tipico del Boccaccio.

La scena in cui si svolge il sonetto, sembrerebbe per molti studiosi essere localizzata presso la chiesa di San Lorenzo a Napoli;
Massera, seguito da Vittore Branca, propone invece il posizionamento della donna davanti ad una finestra, riscontrabile anche nel
romanzo l’Elegia di Madonna Fiammetta (libro III, paragrafo 14) e testimoniato dall’atto di guardare in su ed in giù da parte di
costei al v. 6. Quest’ultimo gesto nascerebbe da un sentimento di auto-illusione nascente nella donna dall’impossibile ritorno
dell’amato.

A differenza dei precedenti testi visti, questo ha una tradizione testuale molto ampia, essendo tramandato non solo in Bart, ma anche
nel Riccardiano 1100, nel Riccardiano 1103 e nel Parmense 1081. Le varianti di Leporatti qui sono:

o al v. 5 l’edizione del 2010 presenta «quindi» come avverbio di luogo e non di tempo, da intendersi come «da qui». Questa
lettura, accolta da Lanza e dalla tradizione cinquecentesca, è presa da Bart; Leporatti respinge la lezione di Bartolini a
favore del Riccardiano 1100, dove si trova una forma del tutto diversa dell’aggettivo «tutta», ovvero «tututta», forma
espressamente popolareggiante e tipicamente boccacciana. Accade quindi che, in questo caso, ACQUISIAMO UNA
SILLABA all’interno del verso passando dalla prima forma alla seconda. Ciò che probabilmente è accaduto all’origine di
questa versione è che Bartolini non apprezzava «tututta» e quindi, eliminando la prima sillaba, la deve recuperare per
formare l’endecasillabo; decide di emendare in questo modo: cambia il testo inserendo un PRONOME OGGETTO
«lui» che, ragionando semanticamente, risulta anche ammissibile.
o al v. 8 Leporatti protende per un «mie ben» al posto dell’aggettivo «mio» in relazione all’amato di Fiammetta.
o al v. 9 troviamo l’ascrizione scempia «avien» con una sola v e non due come il Lanza.
o sempre allo stesso verso, Leporatti preferisce la grafia latineggiante per la parola grazia.

QUANTE FIATE PER VENTURA IL LOCO


Sonetto LXXXIV dell’edizione Lanza del 2010. Presente nella tradizione di Bart, così come nel Riccardiano 1100, nel Riccardiano
1103, nel Parmense 1081 e nel Palatino 181.

LIVELLO METRICO: Sonetto con rime incrociate nelle quartine e due rime incatenate nelle terzine, secondo lo schema ABBA,
ABBA; CDC, DCD.

PARAFRASI: Quante volte per caso il luogo io vedo dove fui catturato da Amore, altrettante mi pare di essere acceso da poco
nuovamente da un desiderio assai più caldo del fuoco.

E poi dopo che per un certo lasso di tempo ho riguardato quel luogo e sono stato preso tra me e me, comincio a dire: «Se tu ti fossi
qui difeso, ora non saresti, ormai stanco, a causa del chiedere pietà alla donna.

E’ giusto che tu piangi, dal momento che lasciasti andare quella libertà che tu avevi stretta nelle mani a causa di una donna
incostante e di poca pietà.»

Poi però cambio subito idea, e dico a me stesso che lo stare sottoposto a una beltà così eccezionale è in realtà usare una
grandissima e altissima libertà.
Modifiche presenti nell’edizione del 2013:

o al v. 2 Leporatti protende per la scelta di «dove» e non «dov’».


o abbiamo la VERSIONE TRONCA di «Amor» e non «Amore» sempre allo stesso verso.
o dalla testimonianza del codice Palatino 181 ricava l’uso di «tante» e non «tanti» riproponendo un giusto accordo
grammaticale.
o egli preferisce la forma «desio» al v. 4 al posto di «disio».
o al v. 5 utilizza la forma più antica «raguardato» al posto del «riguardato» di Lanza.
o al v. 6 sostituisce un «sopra» con la labiale sorda con «sovra», fricativa sonora.
o molto importante al verso 7, secondo la testimonianza del Riccardiano 1100 e del Palatino 181 la scelta di «comincio», a
cui però deve seguire qualcosa di diverso per la presenza di un’ulteriore sillaba, segue quindi «stu» con assimilazione della
congiunzione se e il raddoppiamento sintattico col puntino della doppia t.
o al v. 7 sostituisce «fosse» con la scelta di «fossi».
o al v. 8 troviamo «saresti» e non «sarest’», preferendo la forma piena.
o al v. 10 abbiamo l’introduzione della congiunzione «ch’avevi».
o anche «lasciat’hai andare», al v. 10 con «lasciasti andare».
o ancora al v. 11 viene corretta la proposizione di con la scelta di «con» davanti a «pietate».
o al verso successivo, il 12, abbiamo un RADDOPPIAMENTO FONOSINTATTICO dopo la congiunzione che.
o al v. 13 sulla scorta del manoscritto testimoniale abbiamo «suggetto» e non «subbietto».
o allo stesso verso, dopo la proposizione a abbiamo un altro raddoppiamento col puntino, così come al verso 14 con la doppia
l nel sostantivo «lieta».

MARTEDÌ 13-04
LEZIONE 14

Il filologo romanzo HANS ROBERT JAUSS, nel suo volume Alterità e modernità della letteratura medievale composto in
tedesco tra il 1977 e il 1983, avvia un discorso partendo dalla constatazione di un vuoto nella concreta pratica di ricerca e di
insegnamento. Si tratta di una serie di saggi pubblicati per noi in Italia da Bollati Boringhieri Editore nel 1989, frutto di un ventennio
di attività scientifica: da un lato troviamo i paradigmi classici dell'indagine positivistica sulla tradizione e dell'interpretazione
idealistica dell'opera d'arte e dello stile risultano oggi esauriti; dall'altro i moderni metodi della linguistica strutturale, della semiotica,
della teoria fenomenologica o sociologica della letteratura non sembrano ancora sufficientemente consolidati da offrire un'alternativa
fondata. Si registra insomma una sorta di vacanza di paradigmi, che rende impossibile, o quanto meno precario, un efficace rapporto
con le tradizioni letterarie del passato. Una vacanza che fa sentire i suoi effetti negativi soprattutto nel caso della produzione culturale
medievale che, per un paradosso forse solo apparente, non è entrata nel nostro canone artistico e costituisce una provincia separata
dell'universo letterario.

Come fondare, dunque, un possibile interesse, scientifico ed estetico, per le opere che gli uomini del Medioevo hanno consegnato
all'umanesimo occidentale? Come ristabilire un nesso produttivo fra quell'eredità dimenticata e l'esperienza del nostro presente? Per
rispondere a queste domande Jauss riannoda in una trama coerente le fila della propria estetica della ricezione (l'opera d'arte vive, e
può essere compresa, solo entro l'orizzonte d'attesa del pubblico), e organizza il proprio edificio teorico attorno a tre assi portanti:
l'alterità di una tradizione letteraria che, in virtù della sua peculiare forma linguistica, si offre alla nostra "diversa" coscienza
interpretante quale oggetto privilegiato di conoscenza; il carattere esemplare che il riconoscimento di questa alterità può avere per la
nostra "modernità", cioè per l'attuale costituzione di teorie e per la ricerca interdisciplinare delle scienze umane; il piacere estetico
che può venire al lettore d'oggi dall'assumere entro il proprio orizzonte dell'esperienza convenzioni letterarie e un modello del mondo
diversi, estranei. Si definiscono così le coordinate di un quadro storiografico inaspettato, che la mobile sonda di Jauss traccia con
cartografica precisione attraverso una rilettura originalissima di alcune fra le testimonianze più significative della produzione
culturale medievale: dall'epopea degli animali vista come soglia di individuazione, alla poesia allegorica intesa come modulo di
rappresentazione dell'invisibile, ai generi minori del discorso esemplare reinterpretati come forme letterarie di un sistema di
comunicazione sociale.

Se noi, infatti, ci avviciniamo a delle opere della tradizione letteraria medievale pensando di poterle interpretare con delle categorie
che applicheremmo a testi contemporanei, cadiamo nell’errore di una dimensione inautentica e falsa, nonché piuttosto ingenua.
Importante esempio da citare è il sonetto dantesco presente nella Vita nova, Tanto gentile e tanto onesta pare, dove praticamente
nessuno dei termini utilizzati dal poeta per designare la donna assume il valore da noi attribuitagli nel linguaggio contemporaneo.
Dobbiamo quindi capire a tutti i livelli quale sia il messaggio del testo, da quello più ovvio (letterale) a quelli più impliciti, per
ottenere un quadro quanto più completo possibile – il saggio di Jauss si cimenta proprio in questo.

GIOVEDÌ 15-04
LEZIONE 15

La parola FILOLOGIA, in latino filologhia, risale al greco filologhia, che significa “amore del discorso, dello studio, della
dottrina” (filein amare; logos discorso, parola). Filologo, originariamente, poteva infatti indicare l’amante della conversazione, come
Socrate definisce sé stesso nel Fedro di Platone, o addirittura chiacchierone: un passo del commediografo greco ALESSI, tra il IV e
il III secolo a.C., dice che il vino rende filologi tutti quelli che lo bevono abbondantemente. Nella storia la filologia ha assunto più
significati: nel senso tecnico è l’arte dell’edizione critica dei testi (la disciplina che analizza i testi e i materiali in cui un testo è
disponibile, per stabilire come esattamente l’autore ha voluto il testo, o per stabilire se l’anonimato dell’opera è voluto o meno); deve
quindi studiare le implicazioni storico-culturali di questa trasmissione. In un senso più vasto, come possiamo esprime con le parole di
ERIC AUERBACH, la filologia è l’insieme delle attività che si occupano, con metodo, del linguaggio dell’uomo e delle opere
d’arte composte con tale linguaggio.

Da qui l’importanza che assume la parola nel sistema universitario di vari paesi europei, dove filologia è sinonimo di studi letterari e
linguistici. Nell’accezione tecnica vediamo come il suo compito fondamentale è quello di mantenere l’integrità e la comprensibilità
dei libri di fronte al processo di deterioramento a cui vanno incontro e alle mutazioni della cultura nel corso del tempo. La filologia
romanza è la filologia delle lingue delle letterature romanze, ovvero quelle lingue che hanno tratto origine dal latino parlato
nell’Impero Romano – possiamo anche chiamarle LINGUE NEOLATINE. Queste lingue formano una famiglia linguistica,
poiché derivano tutte da una origine comune, che spiega l’origine delle loro somiglianze, mentre le vicende particolari di queste
lingue spiegano le loro differenze.

Lo studio dei testi non può inoltre far a meno di seguire delle competenze linguistiche: la linguistica comprende la teoria del
mutamento linguistico e lo studio della lingua, o di un sistema di lingue nel tempo. Così la grammatica storica, che ne è una parte, è
la descrizione di una lingua o di un sistema di lingue condotta mettendone in relazione gli elementi con una fase più antica, che nel
caso delle lingue romanze è il latino.

Nata all’inizio dell’Ottocento, la FILOLOGIA ROMANZA, come disciplina, integrava la linguistica con gli studi letterari e
culturali e con gli studi di critica del testo, quindi la storia della tradizione manoscritta e a stampa dei testi e le tecniche di edizione
critica, su tutto l’arco di vita delle filologie romanze, dalle origini al presente. Difficilmente uno studioso può padroneggiare tutto
l’insieme di queste conoscenze (che sono continuamente accresciute per tutte le lingue romanze), ad ogni modo, quello che è proprio
della filologia romanza è una visione sintetica del dominio romanzo, una visione sintetica entro la quale si inseriscono gli studi
riferiti a singoli temi, argomenti, problemi pertinenti ad una o più lingue insieme. Questa visione della lingua ha come campo
privilegiato il medioevo, dalla disgregazione del latino come lingua parlata e dalla formazione delle lingue romanze, fino alla
formazione dell’umanesimo.

È nel medioevo che la cultura espressa nelle lingue romanze costituisce una reale unità e rappresenta l’essenziale della cultura
dell’Occidente non espressa in latino, al centro di una civiltà formata dall’incontro di popolazioni, lingue, culture diverse a cui il
riconoscimento di una lingua comune e una cultura comune (quella classica cristiana antica) fornisce un elemento di coagulo e
reciproco riconoscimento. Nell’età moderna, la solidarietà fra le lingue romanze continua ad essere avvertita, ed è per certi aspetti
ancora importante, nonostante la cultura romanza non abbia più la centralità di una volta. Il punto di vista della filologia romanza è
rivolto alla comune eredità medievale e romanza della cultura europea.

LORENZO RENZI, nella sua Introduzione alla filologia romanza, osserva che lo studente che inizia gli studi universitari ha delle
attese precise per quanto riguarda materie come letteratura o storia, ma la dicitura filologia romanza appare una delle più
impenetrabili. Come FILOLOGIA SLAVA si riferisce alle lingue slave (russo, polacco, ceco, sloveno, serbocroato, bulgaro,
slovacco), per le quali si identifica un’origine comune nel protoslavo; così come la FILOLOGIA GERMANICA si riferisce alle
lingue germaniche (tedesco, inglese, svedese, danese, islandese, norvegese), che continuano il protogermanico; così la filologia
romanza abbraccia tutte le lingue derivate dal latino. Romanzo indica la continuazione medievale e moderna del latino, continuazione
che è divergente dalla lingua della Roma antica. Da questa derivano poi una miriade di diverse parlate, delle quali citiamo:
portoghese, spagnolo/castigliano, catalano, occitanico/provenzale, francese, retoromanzo/romanzo alpino (romancio, ladino,
friulano), sardo, italiano, dalmatico (unica lingua romanza estinta), rumeno. Molte lingue romanze si sono poi diffuse anche fuori dai
territori di formazione originaria, in diversi continenti, ma in particolare nell’America Latina o America romanza.
In greco antico, come afferma lo studioso TAGLIAVINI, il termine filologos ha voluto dire prima uomo chiacchierone, poi uomo
erudito e cultore dell’espressione letteraria. Questa è l’etimologia della parola, ma non è sempre decisivo sapere il significato di una
parola: il significato attuale di una parola è frutto di grandi cambiamenti storici, aggiustamenti che accettiamo. Oggi filologia viene
ad essere intesa come l’incrocio tra due discipline, la letteratura e la linguistica, oppure la loro zona di sovrapposizione, ovvero gli
aspetti di rilevanza linguistica di tutte le manifestazioni letterarie scritte, non solo quelle di rilevanza artistica. Fuori dall’Italia
filologia romanza vuole dire lo studio di tutte le lingue e le letterature romanze, in questo caso è inteso nella sua accezione più vasta,
come somma di letteratura e linguistica; nei paesi di lingua germanica, la filologia romanza è un settore di studi molto ampio, mentre
in Italia, dove la filologia romanza è una materia del curriculum di studi letterario, l’accezione è più limitata, riguarda da un lato la
genesi delle lingue romanze a partire dal loro distaccarsi dal latino, dall’altro riguarda lo studio delle letterature romanze medievali.

LE LINGUE ROMANZE
Il numero delle lingue romanze potrebbe corrispondere a quello di tutte le varietà neolatine parlate nel territorio un tempo occupato
dall’Impero Romano e che viene a costituire ciò che in dialettologia chiamiamo il continuum romanzo. In realtà per semplificazione,
e a scopo didattico, i romanisti usano distinguere nella linguistica un insieme di 10 o 12 lingue: il PORTOGHESE, il GALEGO,
il CASTIGLIANO o SPAGNOLO, il CATALANO, l'OCCITANO o PROVENZALE, il FRANCOPROVENZALE, il
FRANCESE, il RETOROMANZO o ROMANZO ALPINO (che include al suo interno LADINO, FRIULANO, e
ROMANCIO), il SARDO, l'ITALIANO, il DALMATICO, il RUMENO. Tra queste lingue una è ormai estinta, ovvero il
dalmatico, il cui ultimo parlante è morto nel 1898 nell'isola di Veglia. Le lingue romanze imitano il latino nel senso che ognuna di
esse è un risultato differente dell’evoluzione di quest’ultima, si potrebbe addirittura parlare di ogni lingua romanza come il latino
nella forma acquisita oggi – come dire che tutti noi parliamo in realtà latino senza saperlo. È tuttavia altrettanto vero che, considerate
nella sincronia, ogni lingua romanza rappresenta un sistema linguistico autonomo anche se ogni suo aspetto si può mettere relazione
con il latino e, attraverso il latino, con le altre lingue romanze.

La linguistica romanza, dunque, considera questo sistema costituito dal latino e dalle lingue che lo continuano nelle sue relazioni
interne, cioè relazioni verticali, dal latino alle lingue romanze, e orizzontali, comparazione tra le diverse lingue romanze. L'elenco
delle 12 varietà di lingue romanze che abbiamo ricordato include alcune varietà che sono diventate lingua nazionali e alcune varietà
linguistiche che non lo sono. Agli inizi della filologia romanza, il filologo e critico tedesco FRIEDRICH DIZ, uno dei fondatori
della filologia romanza, autore della Grammatica delle lingue romanze e anche di studi sulla poesia dei trovatori, isolava in realtà
solo sei varietà: il portoghese, lo spagnolo, il francese, il provenzale, l'italiano e il rumeno, da lui chiamato valacco. La
classificazione del Diz è stata recentemente rivalutata da alcuni linguisti e fa rientrare, in queste sei lingue, solo le lingue di cultura
elevata che sono diventate anche lingue nazionali, a eccezione dell'occitano o provinciale, che non è divenuto lingua nazionale ma è
stato veicolo di una letteratura importantissima in epoca medievale. La classificazione di Diz esclude il catalano, il sardo, e il ladino o
romanzo alpino, che non avevano, secondo lui, l'importanza politica e culturale delle altre lingue. Questo, tuttavia, non è oggi più
vero per il catalano, una lingua in netta ripresa da più di un secolo a differenza dell'ormai quasi morente occitanico o provenzale.

L'insieme delle aree geografiche e delle culture in cui si parlano lingue romanze si dice ROMÀNIA, da non confondere lo stato
omografo così denominato, o anche dominio romanzo. In Europa questo ambito della Romania corrisponde all'area in cui si è parlato
latino in età imperiale, con alcune perdite rispetto all'espansione massima dell'impero nel secondo secolo d.C. Il termine Romania in
latino si formò sul nome di popolo romani, così come Gallia su Galli, e Germania su Germani. Probabilmente il termine Romania
entrò nell'uso parlato al posto di espressioni come orbis romanus, mondo romano, prima che nello scritto, mentre in Romanìa era il
nome dell’Impero Romano in un primo momento e poi di quello d'oriente. In Italia Romania designò la parte sotto il dominio
bizantino, da cui resta oggi il nome della Romagna, nella regione della Romagna. Ad ogni modo, in linguistica l'uso del termine
Romania è moderno. Nella situazione attuale distinguiamo in Europa due aree geografiche separate: possiamo distinguere la prima
come ROMANIA CONTINUA e la seconda invece come una ROMANIA SEPARATA dal blocco principale. La Romania
cosiddetta continua sottolinea la continuità geografica di un insieme di lingue e va dall’Atlantico fino attualmente al Friuli e alla riva
italiana dell’Adriatico, mentre fino alla fine dell'Ottocento questo blocco continuo includeva anche la riva est dell'Adriatico, dove si
parlava il dalmatico. L'altra area della Romania in Europa è quella rappresentata dal romeno, che comprende la Romania e la
Moldova, con qualche isola esterna a questa zona principale.

Su base geografica, le lingue romanze si classificano in gruppi più ampi, ad esempio possiamo classificare il gruppo
IBEROROMANZO (cioè le lingue della penisola iberica in cui facciamo rientrare il portoghese, il castigliano, il catalano e anche
il galego); abbiamo poi il gruppo GALLOROMANZO (cioè le lingue dell'antica Gallia, corrispondente all'odierna Francia, in cui
rientrano il francese, l’occitanico e il francoprovenzale); nel gruppo ITALOROMANZO facciamo invece rientrare l'italiano, con
tutto il sistema dei dialetti italiani e il sardo, che ha caratteristiche sue proprie; nel gruppo RETOROMANZO, detto anche
romanzo alpino (dal nome degli antichi reti e della provincia romana della Rezia) si include le tre varietà del romancio, del ladino e
del friulano; nel gruppo BALCANOROMANZO rientrano invece il romeno e il dalmatico ormai estinto. Quest’utile
classificazione ci mostra come in realtà abbiamo alcune varietà quasi a cavallo di due famiglie, come ad esempio il dalmatico, che
aveva delle caratteristiche in comune con i dialetti italoromanzi settentrionali, e quindi si può considerare lingua ponte tra
italoromanzo e balcanoromanzo; così allo stesso modo il catalano, del gruppo iberoromanzo, ha diversi tratti in comuni con il
galloromanzo, in particolare con la varietà occitana ed è quindi considerabile una lingua ponte tra lingue iberoromanze e
galloromanze.

Allo stesso modo sono oggetto di discussione non pacifica da una parte i tratti comuni delle lingue denominate retoromanze o del
romanzo alpino: visti i loro caratteri comuni, identificati dal linguista GRAZIADIO ISAIA ASCOLI che ne sosteneva
l'unitarietà, queste vennero accomunate; dall'altro non sono pacifici anche i rapporti di alcune delle varietà retoromanze con i dialetti
italiani settentrionali e con l'italoromanzo (abbiamo ad esempio sostenitori secondo cui il friulano andrebbero assimilato a tre dialetti
veneti e, dunque, all’italoromanzo poiché ne risente l'influenza).

LUNEDÌ 19-04
LEZIONE 16

Riprendiamo il testo di JAUSS, analizzato nelle precedenti lezioni. Come già detto, la letteratura medievale è caratterizzata da
alcuni tratti diversi rispetto a quella contemporanea, così come diversi tratti effettivamente definibili come moderni. Il suo saggio,
alquanto complesso, pone l’attenzione su un possibile interesse di frequentazione dei testi medievali – l’interesse di studio didattico e
scientifico di questi scritti è esplicabile tramite tre motivazioni: l’alterità che essi presentano rispetto alla nostra visione del mondo, il
carattere esemplare che possiedono (vista come una vera e propria provocazione), l’interesse/l’attrazione da loro suscitato. Questi
tratti così lontani dal nostro modo di percepire la letteratura ed il mondo possono trasformarsi in dei veri caratteri di modernità,
avvicinandoci e allo stesso tempo allontanandoci dai tratti caratterizzanti l’uomo medievale.

L’esemplarità prima esplicata non va però confusa con quel carattere morale, didattico, didascalico tipico dei prodotti del Medioevo:
la provocazione di Jauss significa “esemplare per noi”, si rifà ad un tratto pervasivo presente in questi testi che diventa esemplare ai
nostri occhi. Persiste infatti ancora una visione molto negativa, vulgata di questo periodo, etichettato dai più come periodo buio,
quando in realtà esistono scritti alquanto scabrosi, carnevaleschi, o comunque molto originali rispetto al pensiero che siamo abituati
ad attribuirgli. Persino nei suoi testi più trasgressivi e carnevaleschi, in cui abbiamo un vero e proprio ribaltamento delle categorie
etiche (ricordiamo i fabliaux), la mentalità medievale ha ben chiare quelle che sono le regole sociali e formali dei vari generi che
impiegano queste tematiche; anche trasgredendo le regole, rimane quindi ben chiaro lo sfondo di un orizzonte formativo.

Lo studioso propone poi l’esempio di questo tratto di modernità della letteratura medievale, in grado di assorbire e conciliare le
contraddizioni: riprende l’Inferno XX in cui Dante mette in contrasto la metafisica della giustizia divina con la compassione umana
da lui provata e mostrata. Altro importante tratto di questa cultura sembra essere la non importanza data alla rappresentazione dei
contrasti, secondo quello spirito individualista tipico della nostra cultura, quanto più uno slancio verso una rappresentazione
armonica del mondo.

Il primo contatto con questi testi è proprio una lettura, in seguito alla quale si manifesterà un grado o meno di gradevolezza a seconda
del periodo storico in cui lo studio effettivamente avviene – nell’800, ad esempio, la lirica trobadorica veniva considerata come
eccessivamente complessa e formale, non apprezzata quindi pienamente e considerata in parte inconciliabile con la mentalità
dell’epoca. Oggi, non è detto che questi artifici formali non possano essere combinati con un’estrema ricchezza ed originalità di
contenuti; Jauss quindi ci invita ad una primissima lettura, come primo gradino interpretativo di avvicinamento, scatenante
gradimento o possibile insoddisfazione nei riguardi dei testi. Il secondo gradino ermeneutico è quello da lui etichettato
complessamente come ricostruzione dell’orizzonte d’attesa dei destinatari del testo, ovvero i destinatari originali per cui il testo era
stato creato. Dobbiamo quindi cercare di capire, a tutti i livelli testuali, quale sia il pensiero che connota lo scritto tramite una sua
precisa localizzazione temporale e spaziale.

Dato uno specifico autore, e prendiamo qui come ideale il Boccaccio, sappiamo come esso abbia a che fare con diversi pubblici di
riferimento; nell’approccio allo studio bisogna quindi avere ben presente quale sia il destinatario a cui lo scrittore vuole rivolgersi ed
il preciso momento temporale in cui ci si trova. Non va nemmeno trascurato l’ambiente socioculturale di provenienza: nonostante il
certaldese frequenti la corte angioina di Napoli, proviene dallo strato mercantile della società fiorentina e soprattutto a quest’ultima
classe lui si rivolge.

Questo secondo gradino però, come ci dice Jauss stesso, non è l’operazione definitiva, non possiamo infatti fermarci ad un
riconoscimento dell’alterità del lontano mondo del testo così come nemmeno ad una sorta di sua oggettivazione storica; bisogna
invece (e questo è il terzo gradino), passando attraverso questa percezione, provare a comprendere che significato il testo letterario
possa oggi assumere, un significato che storicamente continua e va oltre l’originale utilizzo dello scritto. Es. Le novelle in versi di
MARIE DE FRANCE (seconda metà del XII secolo), brevi poemi narrativi in ottonari rimati che stanno al grande romanzo
cortese come la novella ai nostri romanzi moderni. Essi oggi assumono diversa connotazione agli occhi del lettore contemporaneo,
non particolarmente interessato a cogliere quello che potrebbe essere il giusto comportamento in una situazione amorosa; possono
invece interessarci le presenti rappresentazioni della psicologia umana, così come i simboli, tipici della letteratura d’oil, impiegati
dall’autrice nella sua opera. Si tratta qui di fondere l’esperienza astratta del testo, l’orizzonte estetico passato, con la nostra
contemporanea ed attuale; in questo modo la nostra comprensione non sarà più ingenua o naif, ma assumerà dei caratteri non falsati.

Per questo, Jauss ritiene possibile trasportare quei testi nella modernità e comprenderli di conseguenza a pieno. Abbiamo bisogno
però di mettere comunque a fuoco le caratteristiche proprie testuali, evitando tutte le possibili sviste filosofiche, lessicali, ricorrendo a
«un conoscere che procura piacere e ad un piacere che porta conoscenza». Ci sono dei tratti che possono però risultare ostici al nostro
gradimento:

o la CONVENZIONALITÀ, ovvero le rigide forme che noi vediamo utilizzate in pressoché tutti i generi medievali. Essi
possono avere tratti convenzionali a livello di formule oppure luoghi comuni a livello di genere letterario. Dal
Romanticismo in poi, si tende infatti a preferire tratti espressivi, questo rispetto all’adesione ad alcune regole prescritte che
ritroviamo più nel Medioevo (cosa a cui noi non siamo abituati).
o l’IMPERSONALITÀ DELLO STILE, legata anche al criterio precedente.
o per quanto riguarda l’ambito lirico, riguardiamo poi il FORMALISMO.
o nell’epica invece, un ostacolo può essere rappresentato dalla FORMULARITÀ e il tradizionalismo (es. gli epiteti,
formule canoniche che diventano a volte addirittura topoi).
o una MESCOLANZA COSTANTE del poetico, categoria più legata all’espressività, con ciò che invece assume
carattere didattico.
o il SIMBOLISMO, la presenza di simboli difficilmente decifrabili.

L’autore si chiede allora se sia giusto pensare che siano rimasti leggibili solamente alcuni testi, degli evergreen, della letteratura
medievale – i cosiddetti testi che hanno a che fare con il sogno, con quel meraviglioso bretone di origine celtica (tematiche di eredità
cristiana, di immediato appiglio per i lettori). Essi, infatti, fanno riferimento ad un’immaginazione molto viva, fervida ed hanno a che
fare con l’avventurosità tanto cara a chi li legge; questo tratto verrà poi ripreso in epoca romantica da grandi scrittori come Wagner.
Sono questi testi gli unici a mantenere il gradimento del pubblico?

Così potrebbe sembrare, almeno per quello che è il bisogno umano del sogno contornato da tratti di amore e mistero, che ne esplica il
grande successo tra i lettori. Questi tratti non spiegano però affatto il gradimento che può suscitare da una nostra lettura di un
qualsiasi testo di origine medievale – è tutta una questione di avere gli strumenti giusti per comprenderli. Ricorda poi il critico
letterario ROBERT GUILLETTE, che addita due elementi come caratterizzanti dei generi medievali: il formalismo come fascino
della variazione, dato dal nostro possibile apprezzamento anche nei confronti della loro complessità formale; il fascino dell’oscuro e
dell’irrisolto, un simbolismo senza significanza che, a suo parere, sarebbe la disposizione primaria individuabile nel romanzo
medievale. Naturalmente, per il lettore odierno, recuperare una sensibilità per il simbolo non è facile. Se per il lettore medievale essi
erano assolutamente facili e parlanti, in quanto l’uomo medievale era un lettore di simboli, a noi questa sensibilità per il simbolismo
può essere solamente in parte recuperabile, se cerchiamo umilmente di seguire le indicazioni dei testi.

Ulteriori caratteri di alterità espressi da Jauss nel suo saggio:

o l’allegoria o ALLEGORESI, il rappresentare una sorta di messa in scena, un’oggettivazione concreta di dinamiche
puramente soggettive, alquanto complessa da comprendere.
o IL NON RITORNO DI TRATTI DI ORIGINALITÀ rispetto alla narrativa vigente, l’atteggiamento del pubblico
medievale rispetto agli scritti era completamente diverso: essi sembravano gradire il riproporsi di alcune tematiche, di
diversi tratti già conosciuti – il Medioevo amava, ad esempio, le digressione dotte – in quanto permettevano una
riproposizione di un mondo già noto, caro al lettore dell’epoca. L’autore medievale spesso non aveva nemmeno problemi
nell’esplicitare come la storia da lui presentata fosse già nota.
o la VOCALITÀ DEI TESTI CONTEMPORANEI , un recupero dei testi attraverso l’ascolto, attuando un
avvicinamento verso una percezione della realtà molto diversa da quella a cui noi siamo abituati. Sappiamo che la maggior
parte dei testi medievali veniva recepito tramite ascolto: questi scritti avevano infatti una struttura metrica molto complessa
ed originale e, in più, erano dotati di melodia (appositamente creata) – aspetti che venivano fruiti dal pubblico tramite la
performance dei cantori.

MARTEDÌ 20-04
LEZIONE 17

Non va assolutamente confuso il piano di produzione degli autori dalla ricezione dei vari generi letterari al loro pubblico: si va dalla
lirica dei trovatori accompagnati dalla musica e dagli strumenti musicali, alla chanson de geste che viene letta con scansione
cantilenata ad un maggiore pubblico rispetto a quello della corte della Francia del sud (tipico dei trovatori). Questo vale anche per
generi narrativi minori: i lais o i fabliaux, scritti in lingua d’oil; così come anche per la narrativa lunga (ricordiamo i romanzi cortesi
in lingua d’oil). Tutti questi generi della narrativa francese antica, cui avremo il corrispondente della novella in Italia, vengono
recepiti dal loro pubblico attraverso una lettura a voce alta, solitamente in piccole cerchie di ascoltatori. E’ quindi chiaro che cambia
totalmente con queste performance in presentia il tipo di attenzione che l’uomo ha nei rispetti di queste opere, ne cambia l’aura, se
non addirittura la sua importanza – rispetto alla lettura solitaria, infatti, l’ascoltatore non può tornare indietro se gli sfugge qualcosa,
“riavvolgendo il nastro”. Aumenta quindi il fenomeno caratteristico della vocalità di questa lettura, studiato da PAUL
ZUMTHOR, studioso ginevrino, fortemente impegnato nell'analisi del rapporto tra poesia e oralità nella letteratura medievale, in
particolare alla composizione della chanson de geste come "epopea vivente". Egli sottolinea l’ascendente aggiunto da questo tipo di
ricezione ai vari testi: la parola in queste situazioni assume grande prestigio, essa è infatti insegnamento per il pubblico medievale, la
cui gran parte è analfabeta e non necessariamente litterato. Da questo ascolto della parola detta, pronunciata o cantata deriva il
piacere di chi ascolta e il suo apprezzamento estetico; nella poesia si annida allora la speranza che un giorno una parola dirà tutto. Il
canto esalta questa speranza, e emblematicamente la realizza. È perciò che la poesia orale conferisce alla voce la sua dimensione
assoluta, e al linguaggio umano la sua piena misura. Di qui le due funzioni che, simultaneamente o alternamente, la poesia orale
svolge tra noi: la prima, ricreativa, suscita la conoscenza o provoca il riso; la seconda, pratica, specifica o fa scattare l’azione. Il
contesto culturale le differenzia secondo modalità diverse. Almeno, la voce che canta si sottrae sempre alle perfette identità del
senso: la sua eco risuona nelle ombre inesplorate del suo spazio; essa le rivela, finge per un istante di svelarcele, poi tace, avendo
attraversato tutti i segni. Non più di chi racconta, chi canta non nomina ciò di cui parla, ma piuttosto lo chiama, con un discorso
preliminare e singolare, che fa riferimento all’incomunicabilità di un soggetto. Nel prendere un determinato avvenimento o un
determinato oggetto per dare ad essi un’ esistenza che è nello stesso tempo poetica e vocale, il cantore li rende probabili, atti a destare
desiderio o paura, a causare dolore o piacere: senza tuttavia esplicarli, ma, al contrario, implicandoli.

Questa oralità e vocalità è talmente importante per concepire alcuni tratti della suddetta letteratura che, addirittura, Zumthor pone il
termine di letteratura tra virgolette, dimostrando come la nostra concezione del letterario e della fruizione della letteratura si distacchi
dalla realtà vissuta dai medievali. Jauss ci dice come l’ideale filologico che si afferma in seguito alla stampa ci spinge a vedere le
opere letterarie come qualcosa di intangibile (come per i testi classici), qualcosa di in sé concluso – cosa che non appartiene
assolutamente agli autori del Medioevo.

Le concezioni poi secondo le quali, noi, in un’opera, possiamo distinguere ciò che è didattico da quello che è poetico, quello che è
tradizionale dall’individuale, quello che è imitativo dal creativo, quello che è finalizzato e ciò che non lo è, sono tratti prettamente
moderni. Se poi teniamo conto che la nostra letteratura è improntata sulla produzione scritta, ricostruire la fruizione originale di
questi testi può essere difficile, attuabile solo tramite un acuto lavoro basato sulle varie fonti. Sembra infatti che nessuno sforzo
ermeneutico, in seguito all’invenzione della stampa, possa permetterci una piena comprensione e ricezione di questi scritti passati; i
moderni mass media ci vengono qui però in aiuto, avvicinandoci ad una possibile esperienza medievale, molto più che non una
lettura attenta e diretta. Difficile sembrerebbe anche acquisire una mentalità ovvia, come soleva essere quella medievale, che non
presentava altra scelta se non l’assunzione di elementi tramite l’ascolto.

Altro grande elemento di alterità riguarda la DIMENSIONE INTERTESTUALE di questi testi, che sono in comunicazione gli
uni con gli altri, intrecciandosi con il carattere già precedentemente ricordato dalla tradizionalità: la letteratura medievale è infatti
puramente convenzionale. Il lettore deve allora, in un certo senso, attingere ad un gioco iniziato già prima, dettato da regole
conosciute e sorprese inedite, apportando il suo singolo contributo – il rapporto del pubblico con il singolo testo dell’opera
rappresenta più l’eccezione che la regola. Jauss riporta qui il pensiero dello studioso americano CLIVE S. LEWIS, romanziere de
Le Cronache di Narnia, il quale dichiara il nostro perpetuo stupore di fronte alla letteratura medievale e, come i letterati del passato
fossero talmente originali da non affrontare mai il passato senza versarvi nuova vita, allo stesso tempo tanto tipici da ricorrere ogni
qualvolta agli stessi topoi.

L’identificazione classica di opera e originale si afferma dunque dall’Umanesimo in poi, e noi qualche esempio lo abbiamo pur visto:
basti pensare a come Boccaccio non si faccia problemi nel plagiare le parole dantesche, o nel riutilizzare parole proprie anche in sue
altre opere.

Questo tratto dell’INTERTESTUALITÀ è molto importante per introdurci, nel suo complesso, alle varie letterature medievali: il
suddetto panorama ha dei tratti di organicità unitaria. I testi sono infatti in contatto tra loro, con temi e mode letterarie che viaggiano
da un angolo all’altro dell’Europa, tenendo conto anche di aree che vanno al di fuori di quelle più propriamente identificabili come
romanze. Una considerazione non unilaterale e non naif della letteratura medievale, nel suo complesso come nel singolo testo, deve
tener conto di un’intertestualità che collega i vari ambiti letterari e linguistici delle lingue europee. Noi sappiamo poi, che in questi
territori della Romania, continua anche una forte produzione latina.

L’unitarietà citata ha diverse motivazioni storiche, politiche, culturali e linguistiche, ed è tratto originato sicuramente dal sistema
scolastico, lo stesso in tutta Europa, impartito in lingua latina; altro importante contributo sembrano essere poi tutti i vari aspetti
ricordati da Jauss nel suo volume, così come l’adesione a tutta una serie di convenzioni e formalismi. I letterati, nel Medioevo,
tendono a privilegiare l’auctoritas di modelli che li hanno preceduti e, dal punto di vista dell’ars retorica e della locutio, tendono ad
utilizzare i topoi, motivi ricorrenti attraverso i diversi testi. L’uomo medievale privilegiava molto il ritorno del già noto, rispetto ad
una nostra predisposizione all’originalità: questo spinge i vari autori ad agganciarsi alla tradizione, dando vita, insieme a tutti gli altri
elementi, al già citato fenomeno di carattere intertestuale – sempre i testi medievali presuppongo un rapporto dialogico con altri testi,
che siano essi precedenti o contemporanei.

Dobbiamo tenere presente che solitamente le prove originali nella varie lingue romanze, a livello letterario, sono state precedute dalla
fase dei volgarizzamenti (rifacimenti, traduzioni, adattamenti), al che, la stessa traduzione è ovviamente un’operazione fortemente
intertestuale, perché riagganciata ad una dipendenza ad un testo precedente. Un esempio può essere tratto dal genere della letteratura
popolare dei cantari italiani, poemetti in stanze di ottava rima che si distinguevano per l’esecuzione di tipi orale, legata alla piazza.
Anche qui abbiamo palesi prove di intertestualità: la tematica di un cantare trecentesco può essere fornita da un poemetto in lingua
d’oil della tradizione cortese. E’ questo il caso del cantare de La dama del Vergiù, attribuito ad ANTONIO PUCCI, che riprende il
suo tema dal poemetto La castellana di Vergy (in antico francese: La chastelaine de Vergi), componimento del XIII secolo lungo 948
versi, di autore ignoto. Quest’ultimo è ambientato in Borgogna e narra una sfortunata e tragica vicenda di amor cortese tra un
cavaliere e una bella castellana. Altro cantare anonimo trecentesco, Il cantare di Piramo e Tisbe, ha invece una dipendenza da
OVIDIO, in particolare dalle sue Metamorfosi. Lo stesso Dante, come visto nella Commedia, allude espressamente alle tappe ed i
personaggi della sua formazione letteraria (es. ARNAUT DANIEL da cui trae la donna delle rime petrose in Paradiso XXVI,
FRANCESCA e la letteratura cortese in Inferno V, ecc.); egli non si limita però ad una pura e semplice allusione, riutilizzandone
immagini, parole ed espressioni.

La stessa intertestualità, così fitta, è visibile in alcune novelle decameroniane, dove Boccaccio attua una ripresa di testi e motivi della
tradizione letteraria romanza a lui precedente (nonché quella a lui contemporanea): all’inizio della quarta giornata, per esempio,
viene raccontata la macabra storia di TANCREDI, principe di Salerno, che, dopo aver ucciso l’amante della figlia
GHISMONDA, gli strappa il cuore e lo consegna alla donna in una coppa d’oro, spingendola così al suicidio. Nella novella
seguente, invece, Boccaccio racconta una terribile vicenda di cannibalismo “forzato”: una donna viene costretta dal marito a
mangiare il cuore dell’amante. Il tema del “cuore mangiato” era molto diffuso nel Medioevo europeo: lo si trova in forma
leggermente diversa all’inizio della Vita nova, quando Dante racconta di aver sognato Amore che dava il suo cuore in pasto a
Beatrice. Qui il tema è inserito in una cornice cortese: i protagonisti sono due cavalieri e al centro della trama c’è un adulterio (che
era la condizione ideale dell’amante cortese). La trama narrativa è qui però espressamente tratta da una delle più famose vidas in
lingua d’oc, brevi testi narrativi in provenzale che accompagnavano le liriche dei trovatori negli antichi canzonieri; la vidas in
questione è quella di GUILLELM DE CABESTANY (1162-1212), del quale esisteva una biografia in occitano, che il poeta
riscrive quasi alla lettera.

Nei testi delle letterature romanze medievali abbiamo quindi una dimensione dello scambio e del rapporto fra testi molto
ingombrante, questo fa sì che, a volte, questa ripresa di motivi letterari, tematiche ed altri testi, sia trasformata in senso polemico,
parodico o ironico, con un ribaltamento del tema, del messaggio o del modello elaborato (come già visto nel sonetto boccacciano
Tocami ‘l viso Zephiro talvolta). La ripresa di tipo parodico/ironico è molto importante per un autore come Boccaccio, specialmente
nella sua opera narrativa, ma anche nelle Rime da noi analizzate.

Richiamiamo ora alcuni elementi delle motivazioni storiche, culturali, politiche appartenenti a questa forte unitarietà del mondo
romanzo. Per quello che riguarda le letterature romanze medievali, dobbiamo considerare la lingua d’oc, la lingua d’oil, il castigliano
o spagnolo, il catalano e il portoghese; non presentano invece una fase di testi medievali né il romeno, né il romancio e il ladino, così
come il sardo. Va poi ricordato che l’area linguistica d’oil, che riguarda il francese medievale, non riguarda tutta la Francia, ma solo
la sua parte settentrionale (e l’Inghilterra in seguito alla conquista normanna del 1066). La zona della Francia meridionale appartiene
all’occitanico-provenzale, nonostante il termine più preciso sia l’occitanico, in quanto non riguarda solo la Provenza ma tutta la parte
meridionale dello Stato.

ALBERTO VARVARO, all’inizio del suo manuale, si chiede se in qualche modo l’autonomia delle singole tradizioni linguistiche
e letterature non sia tale da impedire un ritratto, un panorama collettivo della letteratura romanza medievale, tale da renderne
impossibile uno studio unitario – lui ritiene non sia così, e pensa questo tutto, differenziato al suo interno, possa effettivamente essere
indicato. Egli non aspira ad un panorama di letterature comparate, dal margine che non entra pienamente nel vivo delle vere
dinamiche chiaritive, ma vuole puntare ad una considerazione organica ed interdipendente. Per ciò, ci presenta tutta una serie di
motivazioni: all’inizio del Medioevo non si poteva ancora parlare di una diffusa coscienza nazionale, distinta nelle varie aree, che
andrà a formarsi a poco a poco con diverse motivazioni. In Francia, ad esempio, la DINASTIA CAPETINGIA ha un richiamo
molto modesto, che andrà ad affermarsi a poco a poco; il re di Parigi e la dinastia capetingia nell’area francese fungeranno pian piano
da catalizzatori per un sentimento nazionale che verrà poi lentamente alla luce. Questo ascendente però, non verrà subito da tutte le
aree della nazione, pensiamo ad esempio alla figura del duca di Normandia ENRICO II PLANTAGENETO, che diverrà dal
1152 duca di Aquitania, e dal 1154 re di Inghilterra, così come alle piccole corti della Francia meridionale, dove si formerà la
letteratura in lingua d’oc, e dove il sentimento verso il sovrano è veramente poco sentito.

Allo stesso modo, si può parlare del territorio iberico, suddiviso in diverse monarchie: i re di Aragona che regnano anche sul
territorio della Catalogna; i re di Navarra; i re della Castiglia; la monarchia leonese e, infine, quella portoghese. Per arrivare ad una
semplificazione politica nel quadro iberico, avremo nel Duecento la fusione delle due corone di Castiglia e Leon e, solo alla fine del
Quattrocento, l’unione delle corone di Castiglia ed Aragona. Altro momento molto importante, alla fine del XV secolo, il termine
della Reconquista con la fine di Granada, ultimo baluardo in mano ai musulmani.

Una frammentazione molto importante la abbiamo anche nella nostra penisola, dove si passa dai baroni, ai comuni, per giungere poi
all’affermarsi delle signorie. Dal punto di vista politico vediamo quindi nelle aree grande frammentazione per buona parte del
periodo medievale dove, solo in seguito, avremo l’affermarsi di una coscienza nazionale. Ricordiamo che il Medioevo non comporta
poi l’affermarsi di un’identificazione delle varee aree politiche nazionali con delle omogeneità linguistiche – si perde dunque anche il
legame tra lingua specifica e identità territoriale/politica. Questo perché, ad esempio, come ricorda Varvaro, il re di Francia non
regna solo su sudditi di lingua francese, legati in parte all’imperatore o al Regno d’Inghilterra; va poi detto come la dinastia francese
regni anche su parlanti fiamminghi o provenzali. I diversi sentimenti nazionali del periodo si vanno soltanto formando e diverranno
poi legati al rafforzamento delle istituzioni monarchiche; essi non sono neanche strettamente legati a delle unità linguistiche e
letterarie.

La frammentazione politica, per quanto più rilevante in questa epoca, non impedisce una certa unione della cristianità romanza
europea occidentale, realizzata tramite il fenomeno delle crociate. A livello linguistico la cesura è però evidente: considerando tutta
l’area linguistica romanza abbiamo un passaggio da una tipologia linguistica ad un’altra che si presenta in realtà continua e
progressiva, quasi impercettibile (una sorta di continuum romanzo).

Quando indichiamo le varie lingue che vanno considerate nella letteratura medievale, siamo soliti indicarle tramite una sorta di
semplificazione, se poi in realtà andiamo a prendere i testi originali, ci troveremmo di fronte ad una realtà completamente differente:
solo infatti alla fine del Medioevo, le lingue letterarie unitarie si imporranno su tradizioni affini, che esistettero per tutto il periodo
medievale, ma che furono a base più limitata e finirono per soccombere davanti ad ipotesi e funzioni di lingue che si affermano ed
hanno poi successo. Secondo Varvaro, nell’età buia, ci troviamo più concretamente, per quanto riguarda l’universo francese, davanti
a patine più o meno vistose normanne, anglo-normanne, piccarde, ecc. – tentativi di lingue comuni su base dialettale diversa. Le
suddette realizzazioni avevano convenzionalità volta ad eliminare i tratti più strettamente dialettali, per aderire ad una vera e propria
tradizione scrittoria.

Le tradizioni delle lingue letterarie unitarie si impongono solo progressivamente e, in realtà, per buona parte del periodo a noi
interessato, sono al di là da venire. Buona parte di queste tradizioni scrittorie aderisce poi ad esigenze di convenzionalità – a noi non
sembra essere sufficiente, nello stabilire la provenienza di un’opera, andare a vedere la lingua di composizione perché, spesso, le
lingue venivano adottate anche al di fuori della loro area di appartenenza.

GIOVEDÌ 22-04
LEZIONE 18

Questa unitarietà precedentemente citata, si spiega anche al di fuori dell’area strettamente romanza: se andiamo a vedere i testi di
medio-tedesco o di inglese (nonostante sappiamo l’Inghilterra venne conquistata dai normanni con una conseguente creazione di una
lingua d’élite francese) notiamo una sostanziale affinità e parentela perché, soprattutto, l’influsso della Francia è molto pervasivo. Se
poi nella prima fase del Medioevo abbiamo questa grande funzione di modello da parte della lingua francese, nell’umanesimo il
primato diventerà italiano grazie all’influsso dei poeti trecentisti.

Una delle motivazioni forti di questo legame unitario tra ambienti romanzi e letterature medievali risiede nell’eredità della tradizione
latina, legame molto forte, tramandato dalla struttura scolastica – l’organizzazione scolastica viene impartita in tutta Europa in latino
e, quasi tutte le persone colte, sono in grado di parlarlo. Ovviamente cambierà, in base al prestigio del centro, il modo in cui questa
eredità verrà impartita, nonostante i caratteri di fondo rimangano per tutto il periodo pressoché identici. Varvaro ricorda anche come
la tradizione scolastica favorisca la circolazione di idee, essendo il latino la lingua della cultura, e con essa la comprensione,
consentendo il viaggiare di testi ed individui (maestri, alunni, scrittori). Questa circolazione è molto più limitata rispetto a quella di
coloro che possono permettersi una formazione scolastica di livello, essendo un fattore caratterizzante soprattutto le élites; è infatti un
dato molto importante da ricordare quello relativo allo spostamento di genti, costituente un trait d’union tra i diversi autori.

Va sottolineato poi che le singole lingue e letterature romanze non si chiudono in realtà su sé stesse in uno sdegnoso insegnamento,
abbiamo citato infatti il termine di continuum romanzo, secondo cui le diverse varianti dialettali cambiano impercettibilmente
rimanendo aperte alla connessione con il pubblico. Per tutto il Medioevo è presente però una funzione di leadership svolta dalla
letteratura francese, fattore che va a creare un’impostazione in seguito fatta propria da tutti gli altri aspetti romanzi: il modello della
cortesia viene, ad esempio, adottato in numerosi altri volgari. Il focus va ovviamente posto anche sulle tematiche arturiane, così come
su quelle del meraviglioso, delle armi e degli amori. Oltre a questo influsso, ricordiamo anche il contributo apportato a questo
sostrato unitario dall’opera della giulleria internazionale – i giullari erano infatti in grado di superare ogni barriera geografica e
linguista, contribuendo all’unificazione di questi generi di fondo nei loro spettacoli in giro per il continente.

Quanto a filologia, possiamo ricordare che abbiamo l’uso di questo termine nell’opera Teeteto di PLATONE che, nel caso citato,
assume il significato di amore per l’interlocuzione. Il Teeteto altro non è che un dialogo di riconducibile alla fase della maturità
dell’autore, collocabile tra il 386-367 a.C. in cui il filosofo afferma che è impossibile considerare vera la scienza se non in
riferimento all'essere, cioè l'idea. Questo discorso è finalizzato a smentire la soggettività gnoseologica dei sofisti, i quali ritenevano
che fossero i sensi a determinare la conoscenza, cosa che invece Platone nega fermamente: per il filosofo si perviene alla conoscenza
tramite la dianoia, la ragione matematica e discorsiva. Dal punto di vista specialistico e moderno, come ricorda il filologo e linguista
italiano SALVATORE BATTAGLIA, la filologia si propone sia di ricostruire correttamente dei testi, sia di darne un altrettanto
corretta interpretazione. Dal punto di vista scientifico, per quanto riguarda l’edizione critica intesa in senso moderno, ci si avvicina
molto gradualmente a queste esigenze di riproduzione scientifica dei testi: alcune di queste, più vicine alle pratiche moderne di
ricostruzione testuale, le abbiamo nell’umanesimo e nel Settecento (età illuminista), citando i nomi di POLIZIANO e dello
SCALIGERO. In realtà, bisognava tentare di abbandonare, proprio per poter accedere ad un concetto di produzione scientifica, un
criterio già fortemente impiegato in precedenza – nelle edizioni a stampa dei classici veniva infatti preso un qualsiasi codice
umanistico e veniva poi mandato in tipografia per essere prodotto – facendo nascere l’esigenza di un ritorno all’ esame diretto dei
codici. La riproduzione scientifica della volontà originaria autoriale si sviluppa con la filologia dell’epoca romantica, di cui si tende a
citare la produzione di KARL LACHMANN (1793 – 1851), importante filologo classico e studioso della filologia
neotestamentaria che trasferì queste metodologie anche nella filologia germanica. Con lui si ritorna quindi ad un processo di esame
diretto e di classificazione tramite errori comuni, come simbolo di identità tra uno o più codici.

Prima di Lachmann abbiamo però dei tentativi di messa in uso dei diversi criteri guida per la messa in riproduzione dii documenti:
ricordiamo quello dell’usus scribendi; il filologo che voleva ricostruire una lezione quanto più vicina all’originale, doveva infatti
tener conto del modo di scrivere tipico di un determinato periodo o genere letterario. Altro criterio additato dagli studiosi pre-
Lachmann è quello della cosiddetta lezione difficile: quando siamo di fronte a diverse fonte discordanti, è probabile che il filologo
debba dare fiducia alla lezione più complessa (linguisticamente, in questo caso, parliamo di tecnicismi, verbi più particolari o
latinismi…). Data la natura dei copisti, è probabile che una lezione più complessa non venisse introdotta da questi ultimi, che
avevano invece la tendenza ad attuare semplificazioni, a volte senza veramente capirne il significato; le lezioni più complesse
sembrerebbero quindi appartenenti al volere dell’autore. Allo stesso modo, era stata introdotta l’esigenza, per valutare i vari codici, di
una ricostruzione genealogica dei rapporti tra i diversi codici.

La filologia romanza comprende l’interpretazione così come l’interpretazione dei testi, essa è anche però studio delle letterature e
delle lingue romanze: da questo punto di vista, sembrerebbe essere l’epoca romantica il punto di partenza per uno studio approfondito
di questi diversi caratteri. FRIEDRICH DIEZ e FRANCOIS RAYNOUARD sono due dei nomi più importanti da ricordare in
materia. La riscoperta dei testi letterari delle letterature medievali va di pari passo con uno studio linguistico, che permette un
maggiore apprezzamento di quanto riportato nei diversi scritti. Anche dal punto di vista della lingua, proprio l’Ottocento porta alla
creazione di primi inquadramenti dal punto di vista scientifico; ovviamente intuizioni e sollecitazioni esistevano in precedenza, ma si
allontanano molto dal quadro scientifico oggi possibile (già Dante, come visto nel De vulgari eloquentia, aveva notato una certa
vicinanza tra il latino e la lingua utilizzata nei romanzi in lingua d’oil).

In epoca romantica vengono quindi via via prodotte delle trattazioni scientifiche sulle lingue romanze: Raynouard è uno dei pionieri
della filologia occitanica. Egli ebbe il merito di riunire la prima grande raccolta di poesie trovadoriche, contribuendo a destare
l'interesse degli storici verso una produzione letteraria che sta a fondamento della lirica moderna: Choix de poésies originales des
troubadours, a cui premise una Grammaire de la langue romane, la cui tesi fondamentale, che pretendeva di riconoscere nel
provenzale una lingua comune a tutto il dominio romanzo e intermediaria tra la lingua latina e le nuove parlate, attestava, più
palesemente di altre manchevolezze, il carattere autodidattico della sua preparazione. Ha svolto anche una lunga funzione il suo
Lexique roman, ou dictionnaire de la langue des troubadours, a cui si ricorre tuttora. Allo stesso modo, Diez incoraggiato da
GOETHE allo studio del provenzale, si volse agli studi di filologia romanza, di cui, per la parte linguistica, egli è il vero fondatore.
Nel campo filologico sono notevoli i suoi studi: Altspanische Romanzen (1821); Die Poesie der Troubadours (1826); Leben und
Werke der Troubadours (1829); Altromanische Sprachdenkmale (1846). La sua grandezza si mostrò però appieno nel campo
glottologico: la Grammatik der romanischen Sprachen (1836-43) pose le basi della grammatica comparata e storica delle lingue
neolatine, e l'etimologia scientifica per le stesse ebbe il suo fondamento nel magistrale Etymologisches Wörterbuch der romanischen
Sprachen (1853).

Questo è il momento storico in cui avviene la riscoperta dei testi letterari medievali, che verranno pubblicati in tutti i diversi ambiti.
Per l’italiano però, dove è presente una sostanziale identità con la lirica delle origini, la situazione è un po’ diversa: pur con i debiti
sussidi, abbiamo infatti qualche difficoltà a livello semantico, sintattico, che rendono il nostro patrimonio leggermente inaccessibile.
Questo fece sì che la situazione si presentasse come sostanziale differente – per i principali testi in italiano abbiamo avuti infatti
numerosissime edizioni a stampa dopo la sua nascita nel 1450.

Nell’ambito dell’area umanistica, si fa riferimento all’adozione del metodo lachmanniano da parte di GASTON PARIS, con il
testo La vie de saint Alexis, pubblicato nel 1871. Paris, allievo di Diez, con l’adozione di metodi scientifici di edizione dei testi
medievali, porta ad una migliore conoscenza della lingua che, ove diffusa tramite fitti studi linguistici, può portare favorevoli apporti
nel progredire dello studio dei testi. Iniziano così ad apparire opere di monumentale importanza che richiedono non solo il lavoro di
una singola personalità, ma di un’intera equipe: un esempio ci viene dato dal Grundriss der romanischen Literaturen des Mittelalters,
un compendio prodotto da una squadra di studiosi tra il 1972, continuando per alcuni decenni. I due principali coordinatori del lavoro
furono Jauss e KÖHLER (famoso per alcune geniali intuizione di carattere sociologico che legavano le tematiche di questi testi
medievali con l’ambiente in cui si sono sviluppati). Altro imponente lavoro d’equipe è il FEW, Französisches Etymologisches
Wörterbuch, opera di "linguistica totale del lessico", vero e proprio dizionario redatto sotto la sovrintendenza di VON
WARTBURG.

Sempre da citare è il REW, acronimo di Romanisches Etymologisches Wörterbuch ovvero, il Dizionario Etimologico Romanzo di
Friedrich Christian Diez e rifatto da WILHELM MEYER-LÜBKE, molto importante per quella che può essere considerata una
base di partenza per i successivi sviluppi romanzi antichi nonché più recenti.

Sempre nell’Ottocento vengono prodotte poi delle teorie sulle origini dei vari modelli letterari medievali; modernamente, finito il
periodo positivistico, nell’ambito degli studi linguistici, si tende a reagire ad una sorta di meccanicismo presente in queste teorie. In
particolare, molto innovatori furono, dai primi decenni del Novecento, le figure del ginevrino FERDINAND DE SAUSSURE
(che andrà a distinguere concetti come quello di langue e di parole, tendendo a guardare alla lingua come ad una vera e propria
struttura), così come il CIRCOLO LINGUISTICO DI PRAGA. Dal punto di vista dell’edizione dei testi letterari, diversi passi
in avanti sono stati fatti, soprattutto in ambito in italiano troviamo importanti presentazioni di ricostruzione di stampo lachmanniana
citando CESARE SEGRE, AURELIO RONCAGLIA, ALBERTO VARVARO, ecc.

Altro grande studioso romanzo, ALBERTO LIMENTANI, ha pubblicato nel 1991 il volume Alle origini della filologia romanza,
testo che ripercorre quella che, come disciplina, è un po’ la storia da noi fissata a grande linee. A considerare le origini e lo sviluppo
di questa filologia, un tratto costante nei vari studi sembra essere la riflessione metodologica sul suo oggetto e il suo metodo. La
riflessione sui diversi metodi di studio testuale accompagna, fin dalle origini, i grandi filologici; l’interrogazione e, come da lui
definita, la feconda incertezza utilizzata nei diversi metodi è presente fin alla rigorosa rifondazione positivista. Nelle metodologie
confluiscono le diverse esperienze (da Lachmann in poi) fino allo strutturalismo, la segnologia e l’utilizzo di strumenti legati alla
psicanalisi.

Limentani cita Zumthor, già ricordato da Jauss, secondo cui, contrariamente a quella che viene considerata come una dimenticanza
dei testi medievali, molto spesso è visibile un continuo interesse nei confronti di questi scritti, soprattutto da parte dei giovani, dato
dalla sensazione di un possibile spazio ancora presente per potere fare, per poter dire. Occorre però, secondo lo studioso, utilizzare
tutto un discorso nuovo, qualcosa che rimanga aperto alla realtà, alla vita del linguaggio delle suddette opere, ricordandoci di non
essere semplicemente davanti a “tesori sotterrati”. Ulteriore elemento da citare per importanza è l’osservazione che, fin dalle origini
della disciplina filologia romanza, si inserisce nel fastoso scenario europeo, ponendosi sotto il segno della WELTLITERATUR
(letteratura mondiale) – di questo è simbolo il fatto che fu Goethe stesso, grandissimo scrittore e poeta, a suggerire a Diez un
indirizzamento verso la lirica dei trovatori.

LUNEDÌ 26-04
LEZIONE 19

Il termine filologia è utilizzato, in una delle sue accezioni vaste, anche per indicare la somma di due discipline: la letteratura e la
linguistica. La filologia romanza, così come disciplina nei corsi universitari, riguarda da un lato lo studio delle letterature romanze
medievali e dall'altro la genesi delle lingue romanze, a partire dal loro distaccarsi dal latino. Ci soffermiamo su questi due termini di
filologia e linguistica così come ce li illustra LORENZO RENZI: la linguistica ha come oggetto la lingua e cerca di coglierne le
peculiarità, isolando l'atto linguistico da tutto ciò che non è pertinente. Ad esempio, in un seguito di parole come “Amami Alfredo”,
il linguista vedrà un seguito di parole e di suoni e individuerà un imperativo, con un pronome oggetto atono, detto CLITICO,
posposto al verbo, e un nome proprio al vocativo (un caso che nell’italiano noi non distinguiamo dal nominativo, mentre si
distingueva in latino e ancora abbiamo questa distinzione in una lingua romanza come il rumeno). A rigore, non interessa dunque al
linguista che questo sia anche un verso di FRANCESCO MARIA PIAVE presente nel libretto della Traviata, musicato da
GIUSEPPE VERDI, né interessa che la voce che canta questo verso sia quella di un soprano.

Ma prendiamo un esempio tratto dalla testimonianza in volgare italiano presente nel più antico documento scritto interamente in
volgare: una frase contenuta nel cosiddetto Placito Capuano, del marzo del 960. Questo è l'atto di nascita ufficiale dell’italiano,
rappresentato da una formula di dichiarazione giurata in un atto notarile. Il documento è relativo a una controversia territoriale e
tratta dunque, in quanto atto notarile, di una dichiarazione presente in un reperto stilizzato, in cui la libertà di scelta sintattica e
lessicale da parte di chi pronuncia la formula è minima. Sono i primi passi di carattere documentario della lingua italiana. Il placito è
emesso da un giudice, mentre la sentenza è registrata da un notaio e la controversia riguarda un appezzamento di terra, che è appunto
di proprietà controversa: un privato tenta di far valere i suoi diritti contro il MONASTERO DI MONTECASSINO, ma sarà il
monastero a vincere la causa; infatti, l'abate del monastero presenta dei testimoni che si riveleranno decisivi. Facendo riferimento a
una mappa dove si identificano i terreni sulla base dei loro confini, e ripetendo i testimoni una formula volgare in cui essi dichiarano
di essere a conoscenza del possesso trentennale di questi appezzamenti di terra da parte dell’istituzione monastica, queste
testimonianze saranno fondamentali per la vincita da parte del monastero della controversia. Si tratta sostanzialmente di dichiarare
l'istituto dell’uso capione da parte del monastero.

Vi sono state alcune discussioni circa il carattere reale o fittizio di tali dispute, e alcuni hanno pensato che questi documenti non
rispecchiassero dei dati concreti, ma si trattasse di una sorta di rituale concordato, promosso dai monasteri per tutelare i loro
possedimenti da future rivendicazioni. Ad ogni modo, abbiamo diverse formule di giuramento di identico tenore rispetto al Placito
Capuano, ma registrate interamente in latino e non in latino con le formule di testimonianze in volgare, così come nel placito. Si è
notato, da parte di GIANFRANCO FOLENA, che quando anche la formula di testimonianza è riportata nei documenti in latino e
non in volgare, ciò significherebbe che non siamo in presenza del placito originale, ma di una copia trascritta probabilmente da un
monaco del monastero interessato, che era libero dagli scrupoli di fedeltà alla testimonianza che invece animavano i notai. In questo
Placito Capuano del 960, davanti al giudice ARECHISI DI CAPUA, il diacono TEODOMONDO e i chierici MARI e
GARIPERTO giurano dunque che il monastero di Montecassino, gestito dall’abate ALIGERNO, è il vero possessore delle terre,
nonostante il privato RODELGRIMO D’AQUINO le rivendichi. Ricordiamo che Capua, al tempo, faceva parte del Principato
longobardo di Capua. Si tratta effettivamente di formule, quelle volgari, che rispecchiano il dialetto Capuano, parlato nella regione.
Secondo BENVENUTO TERRACINI, in realtà, si tratta qui di una lingua comune, di una koinè linguistica, che si può definire a
dominante mediana e che quindi non è il rispecchiamento esatto della lingua parlata. Vediamo adesso ciò che in un documento come
il Placito Capuano può essere di interesse della linguistica e quello che invece può essere di interesse della filologia.

Il testo per placito Capuano così recita: “Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte Sancti
Benedicti”; ovvero: “So che quelle terre, per quei confini che qui contiene (con riferimento alla mappa impugnata dei testimoni, con i
veri confini dei terreni), trent'anni le possedette la parte di San Benedetto (cioè dal monastero di San Benedetto, l'abbazia di
Montecassino)”.

Davanti a un testo del genere si affollano molte questioni. In riguardo a quale lingua si tratti, si potrebbe rispondere con il dialetto
campano antico o meglio, secondo Benvenuto Terracini, di una koinè linguistica a dominante mediana, ossia di una lingua comune
per l'uso scritto. Un'altra questione potrebbe sorgere sul motivo per cui questa parte sia in volgare romanzo, mentre il resto del
documento in latino, o ancora, perché le ultime due parole della testimonianza del placito Capuano ( parte Sancti Benedicti) siano in
latino e non in volgare romanzo; oppure potremmo chiederci che valore abbiano due grafie diverse come q scritto in que e invece k di
ko/kelle/ki (il valore di queste due grafie è lo stesso, stanno entrambe per il suono velare /k/).

Tutte queste questioni, e altre ancora, sono di competenza del filologo e della filologia. La filologia ha quindi un campo molto vasto
da indagare, si suole dire infatti che il limite inferiore delle competenze del filologo risiede nella conoscenza di problemi specifici,
legati ai codici e alle grafie. Il filologo lavora sui codici e sa trascrivere da essi, anche se è il paleografo ad avere una conoscenza
specifica, cioè teorica, oltre che pratica, di questo ramo. Il limite superiore, invece, delle conoscenze del filologo e della filologia si
identifica con la storia della cultura, quando arriva ad affrontare per esempio un tema come quello della parte avuta dai notai nella
cultura volgare dell’Italia medievale. È infatti un notaio che ha avuto l'idea di verbalizzare questa deposizione, resa in volgare e non
il latino. E ancora il limite superiore delle conoscenze del filologo e della filologia, davanti a un testo come questo, sfuma nella storia
della cultura quando il filologo sottolinea il ruolo avuto dall’abbazia di Montecassino, da cui proviene questo testo, per le origini
della lingua italiana scritta.

Ma qual è allora la competenza della linguistica? Al linguista interessa la lingua di questo testo, così come gli è stato messo a
disposizione dal paleografo e dal filologo. Ad esempio, interessa alla linguistica la struttura fonologica, cioè dei suoni, che si può
dedurre, da questo breve spezzone di testo, una struttura molto simile a quella dell’italiano moderno: vediamo che nella dichiarazione
in volgare del Placito Capuano vi è la presenza delle consonanti lunghe (ad esempio in kelle, con la doppia l, in terre, con la doppia
r), lunghezza consonantica che è presente ancora oggi nell’italiano e anche nel dialetto campano moderno. Interessa la linguistica
anche quel che non è presente: non appare nel testo del Placito Capuano alcun segno della neutralizzazione delle vocali finali di
parola, neutralizzazione che troviamo ad esempio invece nel campano moderno (nel Placito Capuano le vocali finali sono tutte ben
distinte, presentano rispettivamente o/e/i/a, che oggi nel dialetto campano moderno si neutralizzano tutte in un suono indistinto).

Interessa ancora alla linguistica la presenza di una struttura sintattica particolare del testo: vediamo che kelle terre, complemento
oggetto, viene preposto rispetto al verbo o, come si dice, dislocato a sinistra, e quando appare il verbo possette vediamo che un
pronome le riprende questo complemento. Ancora interessa alla linguistica l'etimologia di questi termini (ad esempio sao deriva da
un latino volgare sao per sapio il verbo sapio, sapere con spostamento semantico, cioè con cambiamento di significato da “avere
sapore” in latino, a quello di “sapere/conoscere”; uno spostamento semantico che avvenne in tutta la Romania, cioè tutto l'area delle
lingue romanze derivate dal latino, tranne nel rumeno). Ancora interessa alla linguista l'etimologia di ko dal latino quod, e
corrispondente al nostro italiano “che”, ma anche la mancanza dell'articolo determinativo, che ci aspetteremmo davanti a parte.
Infatti, nel medioevo non sempre l'articolo determinativo è indispensabile.

Certo, nell’interpretare un testo come questo il linguista consulterà in ogni momento il filologo, e il filologo non potrà neanche
cominciare il suo lavoro senza delle sicure conoscenze di linguistica. Così linguistica e filologia si implicano a vicenda. In realtà i
linguisti, di solito, non si occupano di testi singoli, ma quando si vogliono occupare di lingue antiche si affidano alle raccolte
composte dai filologi e cercano di ritrovare nella varietà ordinata dal filologo delle regolarità di valore più generale, cercano di
fissare degli elementi teorici. I filologi lavorano invece nella varietà dei testi, cercando di fare ordine, ma non sacrificando nulla della
singolarità del testo. In una parola, la linguistica come disciplina è una SCIENZA NOMOTETICA, cioè volta a stabilire delle
regolarità, delle regole, delle leggi, mentre la filologia è invece una SCIENZA IDEOGRAFICA e il suo scopo è di indagare dei
fenomeni singoli in ogni loro aspetto. La prima è più vicina, nell'ambito delle scienze umane, alla sociologia e perfino, nell'ambito
delle scienze più in generale, ad una disciplina come la fisica. La seconda, nell'ambito delle scienze umane, la potremmo invece
avvicinare alla storia.

Non tutte le varietà linguistiche romanze rientrano nelle frontiere delle nazioni moderne normalmente ad esse associate: il portoghese
si estende, oltre che in Portogallo, anche nello stato spagnolo, fino alla Galizia; il francese, al di fuori della Francia, è parlato in
Belgio e in parte della Svizzera; il rumeno, oltre che in Romania, è parlato in alcune parti dell’Albania, dell'Ucraina, della
Macedonia, del nord della Grecia e in Moldova. All'interno di un unico stato possono essere parlate più lingue: in Italia, oltre
all'italiano e al sardo, è presente anche il catalano ad Alghero, in provincia di Sassari; in Spagna, oltre al castigliano, troviamo il
catalano e il portoghese, in Galizia; in Francia, oltre al francese, viene parlato l’occitano e il catalano, nella regione di Rossiglione, un
piccolo stato pirenaico di Andorra.

Se l'area in cui vengono parlate le lingue romanze la denominiamo Romania, si possono fissare anche concetti come quello di
ROMANIA ANTIQUA e anche di ROMAGNA PERDUTA o SUBMERSA e di ROMANIA NOVA. Se noi infatti
confrontiamo la Romania attuale con la zona latinofona dell’Impero Romano, corrispondente appunto alla Romania Antiqua,
identifichiamo delle zone in cui il latino non è continuato, ad esempio nell'Africa Settentrionale, barbarizzata e poi arabizzata.
Ancora con Romagna Perduta o Submersa designiamo un insieme di aree in cui il latino parlato in epoca imperiale è stato
soppiantato da altre lingue: oltre alla fascia del Mediterraneo occidentale e dell'Africa, dove si è insediato l'arabo, sono state perdute
alcune lingue romanze dell'Inghilterra, a sud del Vallo di Adriano (approssimativamente al confine tra Inghilterra e Scozia, e
corrispondente all'antica provincia romana della Britannia), e una fascia territoriale a est del Reno, parte dell'odierna Germania (in
epoca romana le province antiche della Germania Superior e Germania Inferior); ancora a nord delle Alpi è stata perduta un’area che
corrisponde approssimativamente a parte della Svizzera e dell'Austria (le province romane della Rezia e del Norecum); l'area delle
antiche provincie della Pannonia e della Dalmazia e parte della Mesia Superior, corrispondente alle odierne Slovenia, Croazia,
Bosnia Erzegovina e Serbia, cui lingue sono slave; il nord est dell’Ungheria, cui lingua, l'ungherese, non appartiene al ceppo
indoeuropeo. La Romagna Nova comprende invece i territori oggi di lingua romanza, che non hanno conosciuto la romanizzazione,
ma dove una lingua romanza è stata importata più tardi: si tratta soprattutto delle colonizzazioni, che hanno portato, ad esempio, lo
spagnolo nell’America centrale e meridionale; in seguito alle colonizzazioni del XV secolo troviamo anche il portoghese in Brasile,
così come il francese nelle Antille e in parte del Canada (nella zona del Québec); ma il portoghese è anche diffuso in Africa, ad
esempio in Angola e in Mozambico, a Sao Tome e a Capo Verde, mentre in Asia il portoghese è diffuso a Goa, in India, e a Macao
in Cina. Ci sono anche fenomeni di altro genere, che fanno sempre parte della cosiddetta Romania Nova, come gli stanziamenti di
comunità ebraiche di lingua spagnola nei Balcani e in altre zone europee e nordafricane, dopo l'espulsione in massa degli ebrei, così
come avvenne per gli arabi, dalla penisola iberica nel XV secolo, nel 1492, in seguito alla Reconquista, guidata dai sovrani di
Castiglia.

Oggi i parlanti lingue romanze del mondo sono destinati, con lo sviluppo demografico in atto in America Latina, a crescere ancora.
Rientrano infine nel fenomeno denominato della Romagna Nova anche le LINGUE CREOLE e PIDGIN, a base soprattutto
portoghese o francese. Si tratta di lingue formatesi in Africa, dal contatto di lingue europee con lingue indigene, e importate poi con
gli schiavi dall’Africa in America. Alcune popolazioni, ad esempio in empori commerciali, erano costrette a convivere e comunicare
con i colonizzatori, che parlavano lingue diverse, questa evenienza portò allo sviluppo di lingue pidgin: una lingua particolare, che
non ha parlanti nativi, impiegata in alcune situazioni, come il commercio, e con una gamma di possibilità stilistiche espressive
ridotte. Quando un pidgin viene ad essere usata dalla comunità dei parlanti in tutte le situazioni in cui si usa una lingua normale,
diviene dunque lingua madre della comunità: si parla di formazione di una lingua creola. Il portoghese, lo spagnolo e il francese sono
lingue romanze che hanno avuto funzione di LESSIFICATORI per diverse lingue creole. Queste varietà non sono corrispondenti a
lingue romanze standard, ma sono lingue che, pur avendo un lessico a base romanza, hanno una struttura morfologica e grammaticale
completamente diversa da quella delle varietà romanze europee.

La Romania Nova comprende quindi i territori di lingua romanza che non sono stati conquistati da Roma e conseguentemente
latinizzati, ma in cui le lingue romanze sono state importate più tardi. In Europa questo fatto si limita alla diffusione dello spagnolo
portato dagli ebrei sefarditi, cacciati dai regni di Spagna e Portogallo nel XV secolo, che si stanziarono ad esempio in Grecia nei
Balcani e fuori d’Europa, in Marocco e in Turchia. Il panorama extraeuropeo della Romania Nova è invece grandioso: la più
imponente espansione delle lingue romanze è quella conseguente alla colonizzazione che, a partire dalla fine del quindicesimo
secolo, portò lo spagnolo in gran parte dell'America centromeridionale, il portoghese in Brasile, il francese in Canada (nel Québec) e
nelle Antille. Per questo fenomeno le lingue romanze, e tra queste soprattutto lo spagnolo, conobbero un enorme espansione
mondiale, che può paragonarsi solo a quella del latino nell'antichità e dell’inglese in età moderna. Si aggiunga poi che molti paesi
dell'Africa, in cui si parlano spesso molti idiomi differenti, usano come lingua ufficiale le lingue degli antichi colonizzatori: il
francese ad esempio in Niger, in Ciad, in Camerun, nella Repubblica Centrafricana, in Senegal, nei due Congo e Madagascar; il
portoghese in Angola e in Mozambico; lo spagnolo in Guinea equatoriale. Il francese, inoltre, continua ad essere ampiamente diffuso,
pur non essendo lingua ufficiale nelle ex colonie del Marocco, dell'Algeria e della Tunisia.

A questa espansione delle lingue romanze si aggiunge il fenomeno molto particolare di lingue creole e pidgin a base soprattutto
portoghese o francese, ma anche spagnola. I pidgin sono lingue che si sono formate in Africa e in Asia dal contatto di lingue europee
con lingue indigene, e sono caratterizzate da un lessico ridotto e limitato quasi esclusivamente alla sfera commerciale, oltre che da
una grammatica molto semplificata. Come detto, alcuni pidgin sono diventate le sole lingue madri delle popolazioni locali, e così
prendono il nome di lingue creole: si parlano ad esempio lingue creole a base portoghese a Silon o Siri Lanka in Asia, a Malacca e a
Goa in India, a Macao in Cina, a Capoverde, a Sao Tome e Guinea Bissau in Africa; a base francese troviamo il creolo di Haiti, nelle
piccole Antille, in Guiana, nelle Isole Macarene; un creolo di base spagnola nelle Filippine, nell'isola di Curazo nell’America
centrale. Queste lingue ormai hanno in comune con le lingue madri romanze praticamente solo la base lessicale mentre la struttura
grammaticale è completamente diversa. Dunque, con il nome di Romagna Nova o nuova si designano le nuove aree fuori dall'Europa,
in cui si insediarono alcune lingue romanze a partire dall' espansione e dalle colonizzazioni, iniziate i viaggi del 1492 di Cristoforo
Colombo. Nell’America oggi detta Latina, è di lingua portoghese il Brasile, mentre sono di lingua spagnola gli altri paesi come
Messico, Cile, Argentina. Il francese è oggi lingua ufficiale dello Stato canadese del Québec.

Nel resto del mondo hanno come prima o seconda lingua una lingua romanza i paesi della cosiddetta francofonia, territori francesi
d'oltremare delle ex colonie francesi, ma anche i paesi africani di lingua portoghese come Guinea e Mozambico, e spagnola come la
Guinea equatoriale e alcune ex colonie portoghesi in Asia. Nel mondo, per numero di parlanti nativi, le lingue romanze più parlate
sono lo spagnolo e il portoghese e quanto all'uso internazionale, sono romanze due delle sei lingue ufficiali dell'ONU: lo spagnolo e il
francese (le altre quattro sono l'inglese, il russo, l'arabo e il cinese).

MARTEDÌ 27-04
LEZIONE 20

Come osserva LORENZO RENZI, quel che ci interessa è il latino che guarda in avanti, verso le lingue romanze o neolatine; ci
interessa la morte del latino e la sua trasfigurazione nelle lingue romanze che lo continuano. Ma prima di metterci in questa
prospettiva, possiamo chiederci da dove venga il latino, come si definisca geneticamente. Nell'Ottocento la linguistica storico-
comparativa permise di rispondere con precisione a questa domanda: il dominio scientifico in cui si pone il problema è quello
dell'INDOEUROPEISTICA; sono stati infatti ottenuti dei raggruppamenti di lingue attraverso le leggi fonetiche, applicate in
modo ricostruttivo per stabilire in via ipotetica lo stato precedente a quello delle lingue osservate.

Dunque, il latino appartiene alla famiglia indoeuropea. Questa famiglia è la meglio conosciuta tra quelle che è stato possibile
ricostruire. Altre grandi famiglie linguistiche, abbastanza conosciute, sono ad esempio la SEMITICA, che comprende l'ebraico
moderno e l'arabo, oppure la FAMIGLIA UGROFINNICA, che comprende l'ungherese e il finnico, o ancora la FAMIGLIA
ALTAICA, forse connessa con la ugrofinnica, che comprende il turco e i suoi molti dialetti, ancora abbiamo la FAMIGLIA
BANTU, che comprende un gran numero di lingue dell'Africa meridionale, e infine la FAMIGLIA TAI CINESE. Il nome
indoeuropeo deriva dalla localizzazione geografica prevalente delle lingue che compongono la famiglia indoeuropea, anche se in età
moderna alcune di queste si sono diffuse largamente in altri continenti. La grande famiglia indoeuropea si divide in delle
sottofamiglie, a loro volta composte di raggruppamenti più o meno numerosi: fanno parte della famiglia indoeuropea il GRUPPO
GERMANICO, che comprende al suo interno il tedesco, l'inglese, lo svedese, l'olandese, il danese e l'islandese; il GRUPPO
SLAVO, che comprende al suo interno il russo, il polacco, il bulgaro e il croato; il GRUPPO BALTICO, che comprende il
lituano e il lettone; il GRUPPO CELTICO, che comprende il gallico antico (ormai estinto), il gaelico scozzese, il britannico
insulare o gallese, il bretone e il gaelico irlandese; il GRUPPO ELLENICO, che comprende il greco; il GRUPPO
ALBANESE; il GRUPPO ARMENO; il GRUPPO IRANICO; il GRUPPO INDIANO; il GRUPPO ITALICO, che
comprende l'umbro, il sannitico e l’osco, che sono tutte lingue estinte, ma anche il latino che proseguì poi nelle lingue romanze.

Vediamo dunque come le lingue romanze derivano dal latino: nel caso delle lingue indoeuropee, la lingua madre sembrerebbe essere
stata una lingua di un popolo originario dell’Asia centrale, nel 3000 a.C., che dal suo luogo d'origine è poi migrato attraverso gran
parte dell’Asia e dell’Europa. In Europa sono indoeuropee, dunque, le lingue germaniche, le slave, le celtiche, il greco e l'albanese,
mentre non appartengono alla famiglia indoeuropea ad esempio l'ungherese, il finlandese, l'estone e la lingua basca. Tra le lingue
indoeuropee vi era anche il gruppo italico, parlato su parte della penisola italiana prima dell'espansione di Roma, e il latino appartiene
a questa famiglia. Le lingue italiche sembrano essere arrivate nella penisola italiana intorno al II millennio a.C. Altre lingue del
gruppo erano l’osco-umbro, di cui sopravvive qualche testimonianza scritta (l’osco in graffiti scoperti a Pompei, l’umbro nelle tavole
Iguvine che furono scoperte a Gubbio). Altre varietà linguistiche confinavano con le lingue italiche, come ad esempio nella Magna
Grecia il greco, nella Pianura padana il celtico, e lungo il Tirreno l'etrusco, una lingua di origine sconosciuta. Il latino, dunque, fu
all'origine solo la varietà italica parlata nel Lazio che, per motivi legati all'espansione politica e militare di Roma, si diffuse
gradualmente su un'area molto più vasta.

Il periodo dell'espansione di Roma copre un arco di quasi quattro secoli: dal 272 a.C., con l'espansione nell'Italia meridionale,
nell’Iberia, nell’Illiria (attuale ex Jugoslavia-Albania), nell'Africa settentrionale e poi nella Gallia meridionale e settentrionale, nella
Rezia (tra la Svizzera e l'Austria) per finire con la Dacia (attuale Romania) nel 107 d.C. La data invece accettata per la caduta
dell’Impero Romano d'occidente è il 476 d.C., quando ROMOLO AUGUSTOLO venne deposto dagli unni, nonostante le legioni
romane si erano dovute già ritirare da tempo da alcune aree, come la Dacia, che fu abbandonata già nel 271 d.C. In questo lungo arco
di tempo, che va dall’espansione del latino nel 272 a.C. fino alla caduta dell’Impero Romano d'occidente nel 476 d.C., il latino è stato
lingua ufficiale di un area geografica molto vasta e varia dal punto di vista etnico-linguistico, e ciò ha comportato delle conseguenze
inevitabili dal punto di vista linguistico. Il latino parlato all'epoca delle prime conquiste non era certamente lo stesso del latino parlato
alla caduta dell'impero; col tempo, infatti, tutte le lingue si evolvono, anche se vi è una tendenza dei parlanti a mantenere stabile la
lingua per facilitare la comunicazione. Abbiamo dunque una variazione che influì sul latino dal punto di vista storico, ma anche di
tipo geografico, legata all'apprendimento dalla lingua. Quando infatti si impara una lingua straniera, si tende a introdurvi tratti della
propria lingua, cambiando suoni, lessico, in qualche caso tratti della grammatica: questo accadde al latino parlato nelle diverse
colonie presenti nelle aree dell'impero. Inoltre, il latino, come tutte le lingue è stato anche soggetto ad una variazione non solo di tipo
storico e geografico, ma anche di tipo stilistico: la lingua, infatti, è sempre diversa nello scritto e nel parlato, in situazioni formali o
meno formali, e cambia anche rispetto al grado di cultura, all'età, al sesso dei parlanti. Dunque, dobbiamo considerare variazioni di
questo tipo quando cerchiamo di capire da quale latino siano effettivamente nate le lingue romanze.

Il LATINO è la lingua dell'antica Roma, cui origini sono riconducibili all’VIII secolo a.C. (data della fondazione di Roma è infatti
il 753 a.C.). Il latino era parlato, oltre che a Roma, solo in una parte del Lazio, a sud del basso corso del Tevere. Con l'espansione del
dominio romano è poi divenuta la lingua dei territori conquistati, sottomessi e aggregati nella parte occidentale del vasto sistema
dell’Impero Romano, giunto alla massima espansione sotto l'imperatore Traiano, con l'acquisizione della Dacia nel 107 d.C. Nella
parte orientale dell'impero, invece, il latino non ha mai prevalso sul GRECO, che era più forte come lingua di cultura. È però stato
ugualmente lingua dell’amministrazione fino all'epoca di Giustiniano, imperatore d'oriente dal 527 al 565 d.C. (è in latino la
grandiosa opera legislativa di Giustiniano, il corpus iuris civilis).

Il latino di cui possediamo documentazione diretta è esclusivamente quello SCRITTO, in prevalenza letterario. Il latino di cui le
lingue romanze sono continuazione è invece quello PARLATO, di cui esiste solo documentazione indiretta (le affermazioni degli
autori sulla lingua parlata da loro o da altri, le osservazioni dei grammatici, i testi che si discostano più o meno dall’uso letterario e si
avvicinano al parlato per ragioni di genere, ad esempio i trattati di materie pratiche, o per ragioni espressive, cioè l'intenzione da parte
degli autori di documentare in modo mimetico l'uso parlato). In via diversa, le forme del latino parlato si possono ricostruire
mediante la comparazione tra forme correlate nelle lingue romanze. Unendo queste due vie, cioè la documentazione indiretta delle
fonti letterarie, o di altri documenti archeologici, e la ricostruzione attraverso il confronto tra le forme delle varie lingue romanze, si
possono descrivere, classificare e datare molti fenomeni fonetici, grammaticali e sintattici e un gran numero di parole. La lingua
scritta si differenzia da quella parlata poiché è formalizzata e risponde a un insieme di regole speciali, in particolare, nella storia del
latino, la formalizzazione fu molto rigida e resistente, tanto che dal II-I secolo a.C. il latino letterario è rimasto in sostanza stabile.
Tuttavia, l'ampia documentazione scritta del latino è una fonte di conoscenza per noi indispensabile, per lo studio anche dei tratti di
quello che dovette essere il latino parlato. Infatti, questa ampia disponibilità di documentazione scritta del latino è quel che
caratterizza le possibilità sfruttate dai linguisti romanzi rispetto ad altri rami della linguistica.
Le lingue romanze, che continuano il latino, sono evidentemente diverse tra di loro, nonostante tutto ciò che chiaramente hanno in
comune, e questo dipende certo dal collasso delle strutture politiche-amministrative e anche del sistema scolastico, con la crisi e il
disfacimento dell'impero d'occidente. Fino a quando durò la coesione dell’Impero Romano, la norma linguistica colta di Roma
esercitò un potere unificante molto forte e di modello di riferimento posto al di sopra delle varietà parlate, che ci sfuggono nella loro
pienezza. Il latino dell’uso colto, letterario e pubblico era modello per tutti quelli di Roma e contribuiva a questa modellizzazione la
centralizzazione del potere, così come la concentrazione a Roma di chi produceva la cultura. Ma portò il suo contributo anche il
sistema di comunicazioni, eccellente per i tempi, che sorreggeva un’economia che aveva il suo centro in Roma e poteva consentire
una forte circolazione dei commerci. Ad esso dobbiamo aggiungere un sistema scolastico efficiente, che era diffuso in tutti i centri
dell’Impero Romano. Tutto ciò pose un freno alla naturale tendenza di ogni luogo a innovare la lingua in un modo proprio, come
avviene per ogni lingua. Ciò venne meno con la crisi dell’impero.

La caduta dell’Impero Romano d'occidente, nel 476 d.C., rappresenta il momento culminante di un processo lungo di involuzione
dell'impero, dovuto a un intrinseco indebolimento delle istituzioni e anche alla corruzione e all'inettitudine delle classi dirigenti,
prima ancora che all’urto delle invasioni barbariche. Ma anche la diffusione del cristianesimo contribuì, in un certo modo, alla caduta
dell’Impero Romano, in quanto agì con il suo nuovo messaggio rivolto soprattutto ai diseredati, ai plebei e agli schiavi, e contribuì
come forza disgregatrice nella compagine ideologica che sorreggeva l’Impero Romano. Ad ogni modo, finché Roma fu la capitale
effettiva dell'impero, riuscì con il suo prestigio ad arginare le forze centrifughe, non solo dal punto di vista politico, ma anche
culturale e anche linguistico. Con l’acuirsi della crisi interna, invece, le forze centrifughe presero a poco a poco il sopravvento, e
iniziò quella disgregazione dell'unità latina, che diversi fattori favorirono e accentuarono col tempo, come ad esempio l'attrazione
periferica esercitata dalle capitali dei regni barbarici, dalle diocesi e dai feudi, con il crollo definitivo dell'impero, segnato dalla
caduta di Roma in mano ai germani. Quindi, dal V-VI secolo d.C. la lingua latina andò incontro a un processo di progressiva
frantumazione, che si protrasse fino al XII secolo e il cui risultato fu la formazione dei vari dialetti romanzi. Dal XIII secolo
generalmente, per il prevalere di uno di essi, si costituirono le singole lingue romanze, prima il francese e lo spagnolo dal XIII al XV
secolo, e quindi dal secolo XIV tutte le altre.

GIOVEDÌ 29-04
LEZIONE 21

Il cosiddetto LATINO CLASSICO è la fase rappresentata dagli autori della seconda metà del secolo I a.C. e poco oltre. È
principalmente sul modello di questi autori, per esempio Cicerone tra i prosatori e Virgilio tra i poeti, che si insegna il latino
dall'umanesimo in poi. Si dà comunemente il nome di LATINO VOLGARE al latino diverso dalla norma colta, in cui si ritrovano
attestate, o al quale si attribuiscono, le innovazioni testimoniate nelle lingue romanze. Il termine è stato reso corrente da HUGO
SCHUCHARDT: latino volgare significa latino popolare, dal latino vulgus, che significa “popolo”, “moltitudine”, ”massa”. Come
avviene in ogni lingua, il latino parlato non è la lingua propria degli strati sociali bassi e privi di istruzione, ma una lingua continua e
graduata, che attraversa tutti gli strati sociali. Anche nelle scritture colte si può vedere una varietà di stili, dal più formale ed elevato a
quello più colloquiale e familiare. Espressioni come sermo familiaris (linguaggio familiare), sermo plebeius (linguaggio plebeo),
sermo vulgaris (linguaggio popolare) sono state usate da Cicerone nelle lettere personali, poi riviste per la pubblicazione a proposito
dello stile che egli sta usando con il destinatario. Anche le persone colte usano in situazioni informali espressioni, costrutti, parole,
pronunce che censurano in situazioni formali.

Quindi, quando parliamo di latino volgare non ci si riferisce a un solo strato sociale. Latino volgare viene usato come etichetta
convenzionale e designa un livello di lingua che esiste in tutta la storia del latino, anche se quello che ci interessa maggiormente dal
punto di vista della linguistica romanza è il latino volgare dei secoli più vicini alle origini delle lingue romanze. In molti contesti si
ricorre anche all' espressione LATINO PARLATO o TARDO o PREROMANZO o PROTOROMANZO. Fin dalle origini
della filologia romanza, con il lavoro dei linguisti che praticavano il metodo comparativo, un confronto tra le varie lingue romanze
rivelò agli studiosi che molte delle forme delle lingue romanze derivavano sì dal latino, ma questo latino non coincideva esattamente
con la lingua latina classica, che era familiare a chi aveva studiato Virgilio o Cicerone sui banchi di scuola.

Per fare qualche esempio di lessico, possiamo vedere come molte parole comuni ai testi letterari, e persino parole riferite a oggetti
quotidiani, sono del tutto scomparse poi nelle lingue romanze. Ad esempio, il verbo latino loqui, che indica “parlare”, non ha lasciato
tracce se non in termini colti dei latinismi, come “colloquio” o “interlocutore”. Sono quindi termini propri di un linguaggio più
formale. Con lo stesso significato troviamo invece termini come il francese parler, l'italiano parlare, il catalano e occitano parlar, il
portoghese falar, lo spagnolo hablar, termini per indicare l'azione di parlare, che derivano certo da parole latine, ma non dalla parola
normalmente usata dagli autori classici, ovvero loqui. Per spiegare queste forme delle lingue romanze dobbiamo ricorrere ai termini
del latino volgare parabolare e fabulare, che si riferivano a un modo particolare di parlare, cioè all'azione di raccontare per mezzo di
parabole o attraverso la fabula, cioè il racconto. Vediamo dunque che dei termini con un significato più ristretto, cioè un significato
marcato, hanno esteso le loro funzioni fino a ricoprire il significato più generico e non marcato del verbo scomparso loqui.
Dunque, il francese e l’italiano parler e parlare deriveranno da parabolare, il portoghese e il castigliano falar e hablar da fabulare
del latino volgare. Potremmo fare esempi per vedere come le lingue romanze in alcuni casi derivino da termini diversi da quelli
utilizzati: nel latino classico il latino pulcher, “bello”, è stato sostituito ad esempio da bellum derivato da bonellum, “piccolo buono”,
da cui derivano gli aggettivi italiani bello, il francese belle e beau, il catalano begl, l’occitanico bell. L'aggettivo pulcher, del latino
classico, è stato in qualche caso sostituito dal termine del latino tardo formosum, dando così origine al catalano formos, al portoghese
formoso, allo spagnolo hermoso, al rumeno frumos. Ancora, il latino l'azione di cibarsi si denominava con termine colto edere, o con
il verbo di tipo mediano comedere, “mangiare per intero”, o con termine più basso plebeo manducare, che significava in origine
“masticare”, “rosicchiare”. Il verbo edere del latino classico è scomparso, comedere è continuato nello spagnolo e nel portoghese
comer, da manducare deriva il francese manger, l'italiano antico manicare, che troviamo anche oggi continuato nel sostantivo
“manicaretto”, mentre la forma mangiare dell’italiano si può considerare un francesismo, in quanto derivato dal francese e non
direttamente attraverso la forma Latina. Ancora nel rumeno viene continuato manducare, cioè il termine più basso, con minca. Il
termine del latino classico ignis significava fuoco ed è stato sostituito dal termine latino focus, focolare da cui il portoghese fogo, lo
spagnolo fuego, l’occitanico fuoc, il catalano e il romeno foc, l’italiano fuoco.

Sul piano dei suoni, vediamo che due vocali toniche, che erano distinte nel latino classico come ē (e lunga) e ĭ (i breve), hanno un
evoluzione simile nelle lingue romanze. Questo indica che questi due suoni distinti nel latino classico erano invece venuti a
coincidere in latino, già prima della disgregazione dell'impero, nel latino volgare, e avranno un esito uguale nelle lingue romanze. Ad
esempio, dal sostantivo tela, con ē, dal verbo credere, con la prima ē, dal verbo videt, “egli vide”, con ĭ, o dal sostantivo fidem,
ancora con ĭ, vediamo che le vocali distinte ĭ o ē hanno esito identico nell’italiano tela, credere, vede, fede. Così avviene anche nello
spagnolo tela, creher, ve e fe, e così anche nel francese dove, tuttavia, questa vocale tonica sviluppa in tutti e quattro i casi ricordati
un dittongo oi: toil, croire, voir, foi.

Dunque, l'intuizione della linguistica comparata, ovvero che vi doveva essere una differenza tra il latino tramandato dalla letteratura e
dagli autori classici e quello alla base delle lingue romanze, è confermata anche non solo dagli esiti delle forme nelle lingue romanze,
ma a volte anche da ricerche sul latino. Già alla fine del XVII secolo, si avviò lo studio dei testi latini del periodo tardoantico e
medievale, che presentavano una lingua ben diversa da quella classica. Il risultato di questi studi fu la pubblicazione, nel 1678, di un
importante dizionario del latino classico e tardomedievale, prodotto dal francese CHARLS DUFRESNE DUCANGE, guidato da
interessi più giuridici che linguistici, anche se questo strumento è ancora di uso indispensabile per chi si occupi della lingua. Qui, nel
glossarium medie et infime latinitaris, troviamo molti termini ignoti al latino classico. Un paio di secoli più tardi, la conoscenza del
latino non classico fu ancora accresciuta e approfondita grazie a una raccolta di iscrizioni provenienti da tutte le aree dell’Impero
Romano e non sempre di alto livello. Questa raccolta forma la base del CIL il CORPUS INSCRIPTIONUM LATINARUM,
“corpo delle iscrizioni latine”, che venne pubblicato a Berlino in 16 volumi dal 1863 al 1943. Questo materiale, analizzato dai
linguisti, rivela una serie di tratti che non rientrano nella norma grammaticale del latino classico. Naturalmente non si tratta di errori,
ma della presenza di cambiamenti e divergenze rispetto alla lingua letteraria, che coincidono in grande parte con le conclusioni a cui
giunse il metodo comparativo ricostruendo attraverso il confronto delle varie lingue romanze quale forma latina doveva essere
all’origine degli sviluppi romanzi. Dagli studi che i linguisti possono raggiungere attraverso il materiale raccolto nel CIL viene
confermata la confusione tra le VOCALI TONICHE Ĭ E Ē, che è ipotizzabile in base alle forme romanze.

In queste iscrizioni, ad esempio, mensis (“mese”) con ē, viene talora reso dalla forma minsis, così come minus (“meno”) con ĭ, viene
talora reso con menus. Questo ci dice appunto della avvenuta confusione e convergenza di queste due vocali distinte nel latino
classico. Noi chiamiamo per comodità, in linguistica romanza, questo latino come latino volgare. L'etichetta la dobbiamo al linguista
tedesco HUGO SCHUCHARDT, che nel 1866 1868 coniò il termine vulgher lataine, un termine usato anche nella linguistica,
alternativo a quello di latino volgare, latino tardo, latino parlato, protoromanzo. Il termine latino volgare ha comunque il beneficio di
essere un termine antico, poiché ricalcava l'espressione sermo vulgaris, linguaggio popolare, impiegata da Cicerone e da altri per
distinguere uno stile colloquiale, o familiare, da quello più aulico, detto anche sermo urbanus. Cicerone, infatti, nelle sue Epistole ad
Atticum, oppone sermo urbanus, cioè cittadino, o erudititus, erudito, o perpolitus, raffinato, o conditus, a un sermo vulgaris o
plebeius, cioè oppone una lingua più elaborata e raffinata a una lingua più colloquiale e semplice. SCHUCHARDT era cosciente
che sotto l'etichetta vulgher latain dovevano essere compresi diversi livelli stilistici e così diverse varietà regionali, tuttavia
considerava il latino volgare come un latino in qualche modo scorretto rispetto al latino classico, della letteratura. Questo pregiudizio
è spesso rimasto collegato all'espressione “latino volgare”, come si può vedere negli studi del linguista romanzo ungherese JOSEPH
HERMANN, che definisce di recente il latino volgare come una varietà di latino meno curata, parlata dagli strati sociali poco
influenzati dalla scuola e dalla lingua letteraria. Ma in realtà il latino volgare non è la lingua degli incolti, poiché se torniamo agli usi
antichi del termine, come ha fatto anche di recente il linguista romanzo ROGER WRIGHT, troviamo che sermo vulgaris, il
linguaggio popolare, si riferiva in realtà alla varietà di lingua parlata da tutti e non solo dai meno colti. È del tutto normale che nel
parlare si impieghi uno stile meno formale che nello scrivere, e i testi latini, del resto sono invece quasi sempre esempi di linguaggio
formale, testi letterari o discorsi che seguono le regole della retorica classica. In realtà non esistono due varietà parallele di latino,
latino classico e latino volgare, ma un'unica varietà, con livelli diversi, dati da quelle differenze cronologiche, geografiche o
stilistiche che hanno riguardato il latino nel corso della sua evoluzione.
Il latino volgare non è altro che la lingua dell’uso comune a tutte le classi sociali, parlata da quanti, nel momento in cui si esprimono,
non risentono dell'influsso culturale. Rappresenta, rispetto al latino classico, il CODICE FAMILIARE, comune anche alle
persone colte che, quando se ne servivano per la comunicazione, attuavano quella conversione di codice riscontrabile in tutte le
lingue. Quindi il latino volgare e il latino classico sono due aspetti di una stessa lingua e non due lingue diverse, le cui relazioni sono
quelle che consuetamente intercorrono tra lingua letteraria e lingua parlata. Infatti, il latino scritto, statico e cristallizzato, agiva da
freno sulla lingua parlata, la quale con il suo dinamismo rompeva la fissità del sistema linguistico e portava nuovo vigore alla lingua
letteraria. Testi in latino parlato in senso proprio, ovviamente, non esistono, e non sono esempi di latino parlato in senso proprio
nemmeno le scritture dei meno colti, perché anche ai più bassi livelli di istruzione la scrittura presuppone comunque almeno un
livello minimo di scuola, e la scrittura modella in qualche misura sempre la lingua rispetto al parlato spontaneo. Nessuno ha mai
volutamente desiderato scrivere in latino parlato, parleremo dunque piuttosto di testi che documentano forme e stili del latino che
differiscono in vario modo dalla lingua letteraria classica.

Le lettere di CICERONE rivolte agli amici, ad esempio, in parte fanno un uso colloquiale della lingua, che tuttavia è pur sempre
una lingua colta. Esempi di lingua pratica e non letteraria ci derivano dai PAPIRI e dalle scritture su coccio, gli OSTRACA, poco
più di 300, che provengono in gran parte dall’Egitto e che conservano molte lettere di soldati, tra queste 14 lettere che provengono
dalla famiglia del legionario Claudio Tiberiano e del figlio Claudio Terenziano. Queste lettere, come scrisse il linguista VENENEN,
sono un documento unico del latino non letterario, del primo quarto del II secolo d.C. Troviamo quindi dei tratti del latino volgare
negli scrittori latini. Come fonti di lingua parlata o non corrispondente alla norma letteraria possiamo quindi, talvolta, usare gli autori
della letteratura, a volte casi molto diversi tra loro. Questi tratti del latino volgare nelle opere degli autori latini possono essere assunti
per fini espressivi ed artistici o anche, e questo è il caso degli autori più tardi e meno colti, essere inseriti per semplice ignoranza. Le
commedie di PLAUTO, morto nel 185 circa a.C., sono innanzitutto un documento della lingua arcaica e al tempo stesso, per stile e
contenuti, si avvicinano alla lingua parlata, anche se in modo stilizzato. Sottolineiamo che le commedie sono in versi. Ad ogni modo,
per contenuto e stile, le commedie di Plauto ci possono documentare delle forme antiche che non si trovano nella lingua letteraria
classica, ma devono essere sopravvissute nella lingua popolare e da questa sono passate alle varie lingue romanze. Un uso moderato
di tali espressioni fa TERENZIO nelle sue commedie. Cicerone nelle Epistulae ad familiares, originariamente non destinate alla
pubblicazione, fa spesso ricorso a un linguaggio colloquiale. Ma troviamo espressioni familiari, colloquiali, pure nelle satire e nelle
epistole di ORAZIO, mentre invece adotta una lingua più elevata nelle odi e negli epodi.

L'uso delle espressioni più colloquiali si accentua col tempo e i volgarismi si infoltiscono nelle satire di PERSIO e di
GIOVENALE, negli epigrammi di MARZIALE, nell’Asino d'oro di APULEIO e nel Satyricon di PETRONIO, in particolare
la Cena trimalchionis del I secolo d.C., cioè il frammento più ampio sopravvissuto del Satyricon, dove vediamo che la lingua parlata
viene imitata espressivamente per caratterizzare i vari personaggi: dei plebei arricchiti si esprimono nel loro dialetto, cioè in una
lingua che vuole essere colta, ma che risulta al contrario comicamente infarcita di errori o ipercorrettismi. È chiaro che si tratta di
un'operazione letteraria e dunque stilizzata, ma questa rappresentazione letteraria ci dà, ad ogni modo, delle informazioni sullo stile
parlato meno formale. Tra i testi pratici, troviamo poi degli esempi preziosi di tratti del latino volgare. Sono per noi preziose le
OPERE TECNICHE, poiché il loro contenuto utilizza parole ed espressioni assenti nella lingua letteraria: gli scrittori di materie
tecniche ed i testi pratici, ad esempio scientifici e manualistici, sono privi di velleità letterarie ed usano uno stile gergale, meno
formale. Possiamo citare ad esempio il De agricoltura di CATONE IL VECCHIO (234 149 a.C.), il De re rustica di
COLUMELLA (I secolo d.C.), il De re rustica di PALLADIO (IV secolo d.C.), il trattato anonimo di veterinaria detto Mulo
medicina chironis (IV secolo d.C.). Il fine di questa letteratura era soprattutto pratico, didattico e non estetico. Oltre a vari trattati
sull’agricoltura degli scriptores rei rusticae, troviamo diverse opere di medicina, come il De medicamentis di MARCELLO
EMPIRICO DI BORDEAUX, opere di dietetica come il De observatione ciborum di ANTIMO, di gastronomia come il De re
coquinaria (IV-V secolo d.C.).

Di grandissimo interesse sono le ISCRIZIONI e le EPIGRAFI che coprono tutto il territorio dell'impero, e sono raccolte ad
esempio nel CIL: sono delle testimonianze ripartite per area geografica, le più numerose e più durature sono quelle scolpite perlopiù
in formule, più o meno stereotipate, ad esempio testi onorifici, dediche alle divinità, epitaffi (iscrizioni funebri), atti pubblici o
privati. Sono più rare e, rispetto alle incisioni, le iscrizioni dipinte sono conservate soprattutto a Pompei. Altre iscrizioni, ancora i
cosiddetti graffiti, sono tracciate col punteruolo, col carbone e anche questi graffiti si sono conservati soprattutto a Pompei. Le
iscrizioni hanno il vantaggio di essere quasi sempre localizzabili, poiché normalmente restano sul posto, e spesso databili, poiché
portano una data, o si riferiscono ad eventi o persone per noi identificabili e databili. Ci interessano soprattutto quelle iscrizioni che
furono prodotte da persone meno colte, che con i loro errori rispetto alla norma lasciano trasparire tratti della lingua parlata. Ad
esempio, chi scrive hoctober con l'h, rispetto alla forma corretta per il mese del latino classico, senza l'h, ci fa capire che non
pronunciava più la h e, dunque, la scrive anche dove non ci doveva essere: questo tipo di errore si dice appunto ipercorrettismo, ed è
un tentativo fallito di produrre una forma corretta. I graffiti di Pompei hanno un interesse alto, sono raccolti nel volume quarto del
CIL. L'ERUZIONE DEL VESUVIO, del 79 d.C., seppellendo la città di Pompei sotto uno strato di cenere e lapilli, ha
conservato una grande varietà di scritte murali, riferite a tutti gli aspetti della vita quotidiana, e databili a un periodo ristretto
precedenti il disastro. Queste iscrizioni, di cui si è occupato in modo particolare il filologo finlandese Venen, ottenute col carbone o
con l'uso di punteruoli, sono straordinariamente eterogenee; troviamo, ad esempio, dei manifesti elettorali o degli avvisi di locazione,
di affitto, annunci di spettacoli, delle scritte comiche o ingiuriose, o dei conti. Si tratta di una vera e propria grafomania, presa in giro
proprio da una frase murale: “mi meraviglio, oh parete, che non cada in frantumi, che supporti tanti scherzi di così tanti scrittori”.

Ancora, nel gruppo delle epigrafi rientrano le iscrizioni cristiane catacombali dei primi tempi e le cosiddette tavolette di esecrazione,
le DEFICTIONUM TABELLE o DEFICTIONUM TABULE, delle pietre metalliche, spesso su piombo, che recavano
formule magiche di scongiuro, destinate a portare fortuna a un amico o sfortuna un rivale. Prevalentemente di carattere erotico, cioè
legate al tema amoroso, e destinate ad essere sepolte e provenienti soprattutto dall'Africa. Ancora, tra le fonti non letterarie di tratti
del latino volgare, oltre che i graffiti e le iscrizioni, possiamo vedere anche il caso delle MONETE: vediamo che anche le iscrizioni
ufficiali non sono prive di sviste grammaticali. Persino le scritte su monete, dove ci si aspetterebbe una tendenza alla lingua standard,
possono presentare talvolta tracce della lingua parlata: un denaro dedicato alla fedeltà dei soldati riporta la scritta “ Fedes militum”,
invece del corretto per il latino “Fides militum”, documentando dunque la confusione ormai avvenuta tra i due fonemi distinti ĭ e ē;
l'esempio di un sesterzio che elogia la concordia dell’esercito mostra la caduta delle classi declinazionali meno diffuse, si parla infatti
in questo sesterzio di “Concordia exerciti”, al posto del corretto “Concordia exercitus”, dove exercitus, con la desinenza in -us, della
quarta declinazione per il genitivo singolare, è stato sostituito dal più consueto genitivo singolare in -i, caratteristico della seconda
declinazione.

LUNEDÌ 03-05
LEZIONE 22

Che cosa intende Jauss quando parla di ESEMPLARITÀ all’interno del suo saggio? Cosa comporta questo concetto per il nostro
sapere, la nostra conoscenza? Riprendendo alcuni esempi fatti in classe, va detto come la PROVOCAZIONE attuata dall’autore
non parte, come si potrebbe pensare, da un fondo di insegnamento intrinseco nei testi medievali, ma protende per la spinta ad una
comprensione più profonda di questi scritti e dei pensieri da cui scaturiscono. Il pensiero medievale tende, infatti, a mettere in
evidenza l’armonia nascosta nel mondo, in un tentativo di conciliazione degli opposti – atteggiamento completamente antitetico al
nostro. Il discorso attuato da Jauss riguarda in realtà qualcosa di molto più ampio, espandendosi a tutto il raggio di caratteristiche
appartenenti ai testi presi in questione (i cosiddetti elementi di alterità): l’originalità, la vocalità, il simbolo, ecc.

In questo senso, possono quindi diventare esemplari per noi alcuni elementi dei testi medievali, permettendoci di percepire a fondo
cosa fosse, di fatto, questo tipo di letteratura.

L’articolo del 1977 di GIANFRANCO CONTINI tratto dall’Enciclopedia del Novecento, ideato per la voce filologia, ristampato
in un piccolo volume a sé dalla casa editrice Mulino, ci fornisce alcune osservazioni interessanti per l’approfondimento della materia.
Per spiegare cosa sia la filologia e quale sia la missione di quest’ultima e del filologo, esplica come essa sia una disciplina storica,
strettamente immersa non tanto in una vera e propria impossibilità (aporia), ma in una contraddizione costitutiva che, in realtà,
abbiamo in qualsiasi disciplina a carattere storico. L’osservazione, piuttosto profonda, ricalca quanto già visto in Jauss: entrambi
presentano la filologia, da un lato, come ricostruzione/costruzione di un “passato”, introducendo così una distanza tra l’osservatore e
quanto osservato (i testi letterari scritti), da un altro, indicano la materia come mezzo di riproposizione di un oggetto, rendendolo
quindi godibile.

Molto saggiamente, Contini si rifà ad una sentenza di BENEDETTO CROCE, pensatore e critico italiano, circa un suo pensiero
sulla storia – per Croce ogni storia era anche storia contemporanea. Nel momento in cui andiamo ad indagare alcuni fatti storici noi,
uomini del nostro secolo, siamo dotati di un determinato bagaglio culturale formato da pregiudizi e pre-concetti; anche contro volere
quindi, non solo il filologo costituisce e pone l’opera nel passato, storicizzandola, ponendola nel suo alveo d’origine, ma
contemporaneamente la ripropone nella sua contemporaneità. Ad esempio, il filologo interessato a testi maggiormente espressivi o
trasgressivi finirà infatti per mettere in luce quest’ultimi aspetti rispetto ad altri. E’ quindi chiaro l’amore che concerne l’aura
dantesca, le cui caratteristiche di complessità sintattica e grammaticale, provengono forse da bisogni costitutivi della nostra epoca.

La filologia, in quanto disciplina storica, riproduce allora il passato dell’opera, essendo allo stesso tempo in grado di fornirci le
diverse fruizioni dei testi. La disciplina, in senso moderno, vive questo problema esistenziale e culmina nella critica testuale,
l’operazione di ricostruzione del testo. Quest’ultima, nasce negli anni della filologia neo-testamentaria, come già citato, con
LACHMANN; verrà poi applicata alla filologia germanica, per essere in seguito riproposta da PARIS alla Vie de saint Alexis.

Oggi, come citato da Contini, più propriamente, parliamo di FILOLOGIA TESTUALE POST-LACHMANNIANA.

La filologia non dev’essere naturalmente una caricatura, l’edizione critica deve infatti mantenere una sua fondamentale leggibilità,
pur se magari indirizzata a degli studiosi. Quando la disciplina possiede i giusti mezzi, permette una fruizione profonda dei diversi
testi, e con essa la RIAPERTURA DINAMICA di ciò che poteva un tempo sembrare statico. Questa riapertura avviene in due
direzioni: prima e dopo del testo. Noi siamo infatti in grado di vedere i riferimenti concettuali che rendono possibile una determinata
opera, ma anche l’influsso operante su di essa. Va detto poi, che anche in presenza di manoscritti autografi, o comunque di testi
autorizzati dall’autore stesso, la riproduzione si fa sempre critica – non esiste copia che sia esente dagli errori, i quali vanno
ulteriormente indagati per comprenderne l’origine. A ciò bisogna aggiungere il fatto che i metodi di scrittura dei documenti
medievali non presentano le stesse caratteristiche tipiche della nostra epoca; Contini ci mette allora in guardia sul possibile metodo di
approccio da noi adottato.

Un’altra osservazione molto utile tratta dal saggio è che non esista nemmeno un’edizione tipo, fatto derivante da diversi fattori: la
derivazione dei vari testi, il fatto che ogni caso sia storicamente a sé, ecc. Così come infatti, il testo si situa nel tempo storico, anche
quello dell’edizione storica fa lo stesso: un’edizione critica si situa nella PRAGMATICITÀ, nella situazione concreta degli scopi
dell’edizione del singolo testo. Un’edizione che uscirà in una determinata sede editoriale presenterà pubblico diverso rispetto ad
un’altra, appartenente a differente collana, diverso genere, diverso autore. E’ chiaro come la situazione in cui si colloca ogni edizione
sia CONCRETA, in grado di rispondere a finalità variabili, adattandosi alle diverse situazioni che vengono proposte. All’ambizione
di un testo nel tempo corrisponde poi l’ELASTICITÀ di un’edizione nel tempo, escludendo dunque la possibilità di un’edizione
classificabile come ideale.

Un filologo contemporaneo sardo, dal nome PAOLO MANINCHEDDA, ha pubblicato nel 2004 un volumetto dal titolo Testi e
tradizioni: le prospettive delle filologie, il quale ci esplica come l’atteggiamento costitutivo dell’interprete possa essere una buona
educazione verso un’adeguata architettura della mente ed il conformismo. Se la filologia rimane ancorata solidamente alla sua
problematicità, potrebbe essa essere a fondamento all’educazione alla libertà ed alla democrazia; l’abitudine a leggere in profondità,
a non accogliere la vulgata dei fatti (impostaci per auctoritas) è costitutiva del lavoro scientifico. I testi si situano, tra l’altro, nella
nostra tradizione occidentale, in un luogo molto importante: al centro di quell’apertura in cui si gioca parte del nostro destino, quella
tra uomo e mondo – posizione di privilegio derivante dal linguaggio, strumento che si pone sempre oltre chi lo usa. Maninchedda
ricorda infatti come quest’ultimo serva come medium tra Dio e il mondo, e tra l’io e il suo profondo; possiamo quindi guardare a
questi testi come RETAGGIO SECOLARE dell’esperienza e del sapere, articolata nel tempo in un discorso.

Nel suo lavoro testuale, il filologo si ritrova a datare, localizzare un testo, attribuirlo ad un determinato autore, e così
contestualizzarlo. Egli cerca in seguito di esplicitare, al massimo grado, il senso letterario di quanto scritto, e cogliere il mutare delle
lingue nel tempo e nella società (coté linguistico), rimuovendo quegli ostacoli che il tempo ha accumulato impedendone la
comprensione (coté spaziale). E’ necessario quindi RIMUOVERE GLI OSTACOLI, sia che si tratti della
corruzione/peggioramenti dei testi, sia che si tratti semplicemente della complessa accessibilità, che non ci permettono una totale
comprensione delle opere. In particolar modo, secondo lo studioso, occorre e si può valorizzare in questo tipo di valore
l’EDUCAZIONE A PROBLEMATIZZARE ed affrontare in modo umile il lavoro di ricerca che si accosta ai testi.

MARTEDÌ 04-05
LEZIONE 23

Abbiamo visto che la filologia romanza si occupa delle lingue, delle letterature neolatine o romanze, con un approccio che potremmo
definire MULTIMETODICO. Per quanto concerne l’ambito cronologico in cui essa opera, possiamo dire che, istituzionalmente,
non esistono delle vere e proprie restrizioni temporali riguardo quest’ambito di studio (sicuramente vanno tenute presente le
conoscenze che attendono il periodo medievale che prendiamo in questione), anche se in Italia, l’attività didattica di questa disciplina
è distinta rispetto all’estero, di norma circoscritta al solo periodo del Medioevo. Possiamo ricordare, ad esempio, come in ambito
anglosassone o germanico parliamo di ROMANISTIC, allargando dal punto di vista letterario e trattatistico l’ambito delle varie
letterature sin dalla loro prima esistenza. Uno dei punti di interesse della disciplina nel nostro paese sembra infatti essere l’ambizione
a tenere unita questa visione dell’universo medievale.

In pratica, la filologia romanza, si occupa del periodo di formazione delle diverse lingue e letterature romanze; importante citare
come autori e testi di queste letterature continuino a mantenere dei tratti della comune origine latina e romanza anche ben dopo il
periodo di cui ci stiamo occupando – per comprendere ed interpretare al meglio qualsiasi autore europeo dal Rinascimento in poi,
non bisogna quindi perdere d’occhio i tratti distintivi di unità e interconnessione costante presente tra le diverse forme di letterature
romanze.

L’ambito geografico comprende invece la cosiddetta Romania, quel complesso di territori in cui si parlano le diverse lingue romanze;
il termine è stato, tra l’altro, reintrodotto recentemente dai linguisti, utilizzato però sin dal IV-V secolo. A distinguere la disciplina
sembra anche essere l’APPROCCIO COMPARATO: la letteratura latina e medievale hanno un’evidenza fortemente unitaria,
nonostante al loro interno sia presente, a livello linguistico, una forte varietà dialettale. In questa situazione è chiaro come l’unico
approccio serio ai problemi storico-letterari non possa che essere portato avanti dal METODO COMPARATO (come sottolinea
Jauss nel suo saggio).

Va poi citato lo STUDIO LINGUISTICO-TESTUALE – la filologia romanza è infatti uno studio di testi scritti – da condurre
con la maggior precisione e accortezza possibile. Da ciò, discendono alcune linee guida: il conoscere a pieno la linguistica dei testi, le
grammatiche storiche, per evitare dei possibili errori interpretativi; l’importanza del testo dal punto di vista didattico, in senso
pedagogico, la sua centralità sugli altri elementi culturali; la centralità dell’edizione critica del testo, cercare quindi di risalire
all’originale dell’autore attraverso le testimonianze in nostro possesso (nel caso del Medioevo, esse sono principalmente scritte). La
filologia romanza può anche essere intesa come una sorta di accordo tra gli studi classici e moderni, così come un apporto
fondamentale nei differenti settori delle discipline medievistiche, diventando allora supporto letterario per lo studio delle lingue e
delle letterature romanze anche in fase post-medievale – ad esempio, la prima raccolta di PIER PAOLO PASOLINI è fortemente
influenzata dall’eredità della poesia trobadorica.

E’ infine importante sottolineare la VALENZA METODOLOGICA offertaci da questa materia: nell’avvicinarci alla profondità
storica, linguistica, interpretativa dei testi, la filologia romanza può comportare valenza metodologica essendo una disciplina aperta
alle più aperte ed aggiornate tipologie di indagine sulle opere.

Il termine romanzo deriva da un avverbio, romanice, “al modo dei romani”. Con il passare del tempo ed uno slittamento di
significato, esso andrà a identificare le persone che parlano volgare/vernacolo, creando un’opposizione tra chi parla propriamente
latino e chi, invece, attua il cosiddetto parabolare romanice. Proprio da questo termine, deriverà l’italiano romanzo, nonostante la
nostra lingua passi in prima linea dall’antico francese (romanz) per poi approdare al termine che conosciamo, nonostante lo sviluppo
normale della fonetica italiana dell’aggettivo implicherebbe l’utilizzo della parola romanico.

Come perveniamo a romanice? Partiamo innanzitutto dall’aggettivo romanus, a sua volta derivante dal toponimo Roma; esso in
origine presentava diverse accezioni: indicava coloro che erano nati a Roma (accezione etnica), così come coloro che erano detentori
della CIVITAS, che facevano parte del populus romanus (accezione giuridico-politica). I primi detentori della cittadinanza romana
sono i GENTILES, a cui poi si aggiungeranno gli schiavi liberati e i plebei; il diritto di cittadinanza si estenderà allora oltre il
territorio laziale, dal 49 a.C. raggiungendo addirittura le città trans-padane e, dalla CONSTITUTIO ANTONINIANA in poi, a
tutti i cittadini liberi dell’impero. A questo punto, il termine romanus, perde però la sua accezione etnica, rimanendo un semplice
termine politico: romanus è colui che è cittadino dell’impero, quindi non barbarus. Quest’ultimo termine, con l’avvento del
cristianesimo, diventerà sinonimo di PAGANI e, successivamente, di INVASORI. Dalla fine del V sec. d.C., con il crollo
dell’Impero Romano d’occidente, il termine romanus manterrà solo ed esclusivamente accezione linguistica, indicando COLUI
CHE PARLA LATINO.

Come romanus veniva opposto a barbarus, Romania veniva opposto a Barbaria/Barbes, tutti quei paesi in cui non si continuava il
latino (es. tutta la zona dell’Africa del nord, caduta in mano ai Vandali). Da Romania venne poi tratto l’aggettivo romanicus, il cui
attributo in -anicus voleva probabilmente dire “al modo di…”. Romanz invece, nel Medioevo, viene impiegato col significato di
“opera composta in lingua romanza”, ancor prima del significato di genere letterario che andrà ad imporsi nel tempo – non va quindi
confusa la differenza tra le due accezioni, come nel caso del ROMAN DE RENART, traducibile in opera in lingua d’oil scritta su
Renart la volpe, e non come romanzo su Renart la volpe.

Dal XII sec. in poi, in realtà, notiamo come le due accezioni possano coesistere, come nel caso dello scrittore CHRÉTIEN DE
TROYES. Secondo ALBERTO DEL MONTE, importante filologo, addirittura in Dante troveremmo l’accezione di romanzo
come opera in lingua volgare, che sembrerebbe chiarire un passo equivoco tratto da Purgatorio XXVI v. 118, dove GUINIZZELLI
introduce ad Alighieri il grande trovatore ARNAUT DANIEL tramite la frase “versi d’amore e prose di romanzi soverchiò tutti”. I
seguenti versi, interpretati nel senso che Arnaut avrebbe scritto egli stesso prose di romanzi, non hanno in realtà conferme dirette; si
pensa dunque che Dante intenda dire che il trovatore primeggiò nella letteratura in lingua d'oc e d'oïl, quest'ultima indicata attraverso
le opere narrative come i romanzi cortesi, che in realtà erano scritti in versi (Dante li conosceva attraverso tardi volgarizzamenti in
prosa).

Anche un ulteriore autore italiano, DOMENICO DA PRATO, si riferisce ai suoi stessi versi, a quelli di Dante e di Petrarca,
definendoli come “romanzi”, quindi versi in lingua volgare.
L'alfabeto fonetico internazionale è un sistema di scrittura alfabetico utilizzato per rappresentare i suoni delle lingue nelle trascrizioni
fonetiche. L'AFI nasce a partire dal 1886 per iniziativa dell'Associazione fonetica internazionale al fine di creare uno standard con
cui trascrivere in maniera univoca i suoni linguistici (foni) di tutte le lingue; ad ogni simbolo dell'AFI corrisponde uno e un solo
suono, senza possibilità di confusione.

L’italiano, così come le altre lingue, utilizza per produrre i suoni l’aria che
sale nei polmoni durante la fase dell’ESPIRAZIONE; dai polmoni, essa
sale poi su per la trachea, passando attraverso la laringe. A livello della
cosiddetta cartilagine tiroidea (molto evidente negli uomini grazie al pomo
d’Adamo), l’aria incontra le CORDE VOCALI, in grado di vibrare o
rimanere inerti, nello spazio che noi chiamiamo GLOTTIDE. Questa
vibrazione comporta una seguente distinzione tra i diversi fonemi: avremo i
fonemi sonori, prodotti tramite vibrazione delle corde vocali, e quelli sordi,
prodotti senza vibrazione. Il fonema è la più piccola unità di suono che
forma, in successione, le diverse parole – cambiando anche solo uno di questi
fonemi, all’interno della parola, formiamo delle opposizioni, cambiandogli
completamente significato.

Nell’italiano e nella più parte delle lingue del mondo, sono sonore tutte le
vocali. Va aggiunto, che possono essere sonore anche tutta una serie di
consonanti: la labiale sonora -b, la velare -g, la dentale -d, le nasali -m/-n e la
nasale palatale -gn. E’ sonora anche la fricativa labiodentale -v, la laterale -l,
la vibrante -r e la laterale palatale -gl. Abbiamo poi delle sibilanti sonore,
come la -s. Tutti questi suoni possono essere emessi all’esterno solo tramite
la bocca, vengono quindi definiti orali, o, in caso, tramite il naso, definiti
quindi come nasali (in francese, tra l’altro, questi ultimi sono in numero
maggiore).

Le consonanti e le vocali vengono prodotte in modo diverso: noi utilizziamo la lingua, e proprio rispetto alla posizione che essa
assume, possiamo creare la distinzione tra vocali centrali, anteriori o posteriori. Tra le centrali annoveriamo la -a; tra quelle anteriori
la -e aperta, la -e chiusa e la -i; le vocali posteriori sono invece -o aperta, -o chiusa, -u.

Queste convenzioni traggono origine dal modo in cui i suddetti suoni vengono pronunciati e dal luogo in cui vengono emessi; una
maggiore complessità va sottolineata nel caso delle consonanti, originate tramite labbra, naso, palato duro, palato molle, ecc. –
parliamo quindi di consonanti velari, labiali, bilabiali, palatali, dentali…Non va sicuramente tralasciato il modo in cui esse vengono
pronunciate, come l’aria passa tramite gli organi fonatori, cercando di vedere cosa avviene alla colonna d’aria che sale attraverso i
polmoni. Se per la pronuncia di queste articolazioni abbiamo una chiusura del canale d’aria, parleremo di consonanti
occlusive/esplosive/momentanee; nel momento in cui viene invece attuato un restringimento progressivo del passaggio dell’aria nel
canale, parleremo di consonanti fricative; una combinazione delle due modalità porterà a quelle che noi chiamiamo vocali affricate.

GIOVEDÌ 06-05
LEZIONE 24

Per quanto riguarda il VOCALISMO LATINO, le vocali si presentavano contrapposte sulla base della loro composizione,
potevano quindi essere lunghe o brevi.

o lunghe: ī, ē, ā, ō, ū (avevano un maggiore tempo di pronuncia).


o brevi: ĭ, ĕ, ă, ŏ, ŭ (minore tempo di pronuncia).
o 3 dittonghi: ae, oe, au.
Tutto questo comportava una netta DIFFERENZA tra vocaboli a
seconda del fonema utilizzato, il cui esempio è riscontrabile nella
differenza tra la scrittura della parola mălum (“il male”) che, con a
lunga, con grafia mālum va a significare tutt’altro (“mela”). La
caduta di distinzione fonologica aveva anche una particolare
FUNZIONE GRAMMATICALE, come nel caso di rosă
(soggetto grammaticale) rispetto a rosā (complemento di mezzo,
origine, luogo, ecc.). Nell’evoluzione del sistema vocalico la
distinzione basata poi sulla lunghezza delle vocali, detta anche DI
QUANTITÀ, fece posto a una distinzione basata sul grado di
apertura delle vocali, DISTINZIONE DI QUALITÀ O
TIMBRO; tale evoluzione implica un cambio nel sistema
fonologico.

Nel sistema fonologico del latino era anche importante la


STRUTTURA DELLA SINGOLA SILLABA , determinante
per la posizione dell’accento nella parola. Per capire la struttura della
sillaba, bisogna ovviamente far riferimento a quel ramo della fonetica
detto fonetica acustica e al concetto di volume acustico. Il volume
acustico di un suono dipende dalla pressione espiratoria impiegata
quando lo si articola, sebbene per natura alcuni suoni abbiamo
volume acustico maggiore. Così, una ă lunga avrà nella parola un
peso superiore a quello di una ă breve.

Sulla base di queste considerazioni possiamo rappresentare l'idea che


possa esistere una corrispondenza tra i suoni vocalici presenti in
italiano e i suoni vocalici presenti in latino. In latino tali suoni erano dieci, con valore fonologicamente distintivo; in italiano la base
storica è costituita da sette suoni: tre vocali anteriori, tre posteriori e una centrale. La a presenta un rapporto meno chiaro con le
altre vocali latine.

Il latino tardo tende a perdere il senso della quantità sillabica – storicamente esso è andato perdendosi a partire dall'epoca tardo
imperiale – inizialmente a questa differenza lunga/breve non si era sostituito nulla, iniziando solo in seguito col prevalere di un
sistema che non distingueva più tra lunga/breve ma che distingueva tra chiusura/apertura e semichiusura/semiapertura. Studiando tale
passaggio con il metodo storico-comparativo e studiando l'etimologia delle parole latine, possiamo renderci conto che la perdita della
lunghezza come valore distintivo si è accompagnato ad una redistribuzione di questi suoni vocalici latini secondo un criterio di
accorpamento:

o le vocali lunghe i e u hanno dato origine alle vocali romanze “i” e “u”.
o non è stato lo stesso per i corrispondenti suoni brevi i e u che si sono distaccati poiché presentavano un'articolazione
leggermente più aperta, quindi il suono della u breve si è quasi fuso con il suono della o lunga. Tale suono della o lunga ha
teso quindi ad innalzarsi. O lunga ed U breve si sono trovate quindi ad assumere una medesima articolazione che coincide
con il suono della o semichiusa [o].
o nella serie anteriore assistiamo allo stesso fenomeno: la i breve si è separata dalla i lunga e la e breve dalla e lunga. I breve
ed e lunga hanno assunto la medesima articolazione che coincide con il suono della e semichiusa [e], fenomeno radicale e
irreversibile che porta ad una diversa strutturazione del vocalismo delle lingue romanze che non prevede più una
contrapposizione lunga/breve ma semichiuse/semiaperte.

VOCALISMO TONICO OCCIDENTALE


Focalizziamoci ora sulla corrispondenza esatta dei suoni che si possono stabilire tra quelli dell'alfabeto latino e i fonemi delle lingue
romanze: alla perdita della quantità latina come valore foneticamente distintivo, si associa la tendenza di contrapporre le vocali
semichiuse alle vocali semiaperte, tale modello di corrispondenza è il più diffuso. Il vocalismo tonico occidentale è legato
sostanzialmente alla parte occidentale della Romània, non quella del confine, che riguarda solo la lenizione e non il vocalismo.
VOCALISMO TONICO SARDO
Tale modello, riguardante la zona montuosa situata tra la Lucania e la Calabria (cosiddetta ZONA LAUSBERG) e la Sardegna,
presenta un ANNULLAMENTO DELLA DIFFERENZA TRA VOCALI IDENTICHE . All'epoca della conquista della
Sardegna era già in atto il tentativo di soppiantare il sistema originario con qualcos'altro, quindi la Sardegna ha tramandato una fase,
un momento, un'innovazione della storia del latino che poi è stata soppiantata da altri modelli nell'area da cui tale innovazione è
partita. Il vocalismo tonico sardo, quindi, è uno dei più antichi e uno dei primi tentativi di redistribuire i suoni delle vocali lunghe e
brevi, non più ritenuti fonologicamente distintivi, su quelli delle cinque vocali secondo altri criteri; nel caso del sardo è presente il
criterio dell'annullamento totale della differenza lunga/breve.

Il SISTEMA VOCALICO SARDO, come tale, non sopravviverà in nessuna lingua romanza, ma è sicuramente tramite
necessario per lo sviluppo di altri sistemi vocalici romanzi. Per la serie delle vocali posteriori mediane troviamo una situazione di
coincidenza tra gli esiti di o e u, come possiamo vedere negli esempi di flōrem, con o lunga, che in italiano diventerà fiore e gŭla, con
u corta, che si evolverà in gola.

Non vi è invece un criterio di accorpamento in base alla chiusura/apertura che si trova invece nel modello panromanzo o occidentale.

VOCALISMO TONICO BALCANOROMANZO


A questi due sistemi di vocalismo tonico, segue il sistema del VOCALISMO BALCANICO o romeno. Esso rappresenta sei
vocali toniche, riscontrabile non solo nella zona balcanica, ma anche in Italia (nella piccola area situata tra Potenza e Matera). Si
tratta di un misto tra il modello panromanzo (serie delle anteriori) e quello sardo (serie delle posteriori), a dimostrazione che il
modello panromanzo stava assorbendo quello più antico sardo. Rappresenta quindi la FASE DI TRANSIZIONE verso un nuovo
modello partendo proprio dalle serie delle vocali anteriori, che sono infatti le prime a presentarsi con una nuova fisionomia rispetto a
quella del sardo. Va ricordato però come non avvenga una trasmissione immediata, ma tante piccole situazioni di compromesso.

La distinzione rispetto ai due precedenti sistemi consiste in un conguaglio di ă/ā in a, per ogni coppia di vocali posteriori ŏ/ō/ŭ/ū
avremo un conguaglio in o e u. Nell’ambito delle vocali anteriori invece, esso segue esattamente il sistema romanzo occidentale
prima ricordato: la ĭ passa a i, la ī e la ē a e (timbro chiuso), la ĕ passa a e (timbro aperto); da qui ne deriva un esito di conguaglio per
le vocali posteriori con l’uso del sardo e quelle anteriori con l’uso del romanzo occidentale.

VOCALISMO TONICO SICILIANO


Segue poi un quarto sistema, quello del VOCALISMO TONICO SICILIANO, presente anche nei dialetti di Reggio Calabria e
del Salento. Questo non è tanto uno sviluppo preso dal latino, quanto in realtà un ulteriore sviluppo partito dal sistema delle lingue
romanze occidentali – tendono infatti a CONVERGERE LE VOCALI TONICHE PIÙ ALTE IN UN UNICO ESITO . Il
sistema qui è infatti a cinque vocali toniche: ă/ā convergono in a, le vocali anteriori mantengono una e (timbro aperto) derivante
dalla vocale latina ĕ, così come il mantenimento della vocale mediana di timbro aperto derivante dalla ŏ latina.

Ricorda un po' il modello panromanzo, in quanto, fonologicamente parlando, non troviamo opposizione tra semichiuso e semiaperto.
Caratteristico è un APPIATTIMENTO TOTALE delle estremità in senso centrifugo: è un sistema simmetrico, come
l'occidentale e il sardo (il balcanoromanzo invece è asimmetrico). Presente quindi una potente spinta centrifuga che porta
all'accoppiamento dei suoni esterni verso l'alto del trapezio vocalico.

ESITO DI A TONICA IN ANTICO FRANCESE


Come si è visto tutti i sistemi vocalici romanzi conservano a tonica ( < Ā, Ă latina), è una “legge” fonetica generale. Nell’antico
francese invece, agiscono QUATTRO LEGGI FONETICHE SPECIALI (qui ordinate in senso crescente, dalla meno diffusa
alla più diffusa):

o se A latina è in SILLABA CHIUSA, rimane a, es.: PAR-TEM > part.


o se A latina è in SILLABA LIBERA seguita da suono nasale > dittonga in ai, es.: FA-ME(M) > faim.
o se A latina è in SILLABA LIBERA PRECEDUTA DA C PALATALE (derivante da [k] latina) > dittonga in ie,
es.:. CA-PRA(M) > chievre.
o in ASSENZA DI CONDIZIONAMENTI, A latina in sillaba libera > e, es.: MAR > mer.

DITTONGAZIONE
Quindi le vocali latine si convertono, perdendo la loro lunghezza/brevità, in vocali semichiuse/semiaperte con ampi margini di
variazione nelle lingue romanze in cui perdono brevità/lunghezza come tratto distintivo. Ci sono anche alcuni dittonghi latini che
scompaiono completamente e che vanno ad incrementare il numero dei suoni semichiusi o semiaperti provenienti da parole latine.
Altro fenomeno importante riguarda le vocali toniche che, in quanto sottoposte a questo accento di forte intensità, subiscono, nella
maggior parte delle lingue romanze, un processo che prende il nome di DITTONGAZIONE (da un suono singolo vengono fuori
due suoni che fanno parte della stessa sillaba e che vengono pronunciati con la stessa emissione di voce, ma che rappresentano in
qualche modo una scissione).

I risultati della dittongazione nelle lingue romanze sono diversi:

o la FORMAZIONE DI UN DITTONGO ASCENDENTE (accentato sul secondo elemento) da [ ε ] e [ ɔ ] (lat. e ed o


brevi).
o in un'area più ristretta, in francese e in alcuni casi di retoromanzo, la FORMAZIONE DI UN DITTONGO
DISCENDENTE (accentato sul primo elemento) da [ e ] e [ o ] (lat. i/e brevi e u breve ed o lunga).

Nelle lingue romanze esistono sostanzialmente due tipi di dittongazione:

o quella SPONTANEA, che obbedisce a precise leggi fonetiche, diverse da lingua a lingua: si verifica sempre (le eccezioni
sono motivabili) quando sono presenti le situazioni descritte dalla legge fonetica.
o quella CONDIZIONATA, che avviene solo quando si verificano determinate condizioni (in presenza di determinati
suoni che seguono la vocale tonica o per effetto della metafonesi). Si parla di dittongazione condizionata quando non esiste
una regola valida sempre per spiegare il dittongamento e nel momento in cui la vocale che dittonga non dittonga sempre
(es.: a ed e che in alcune lingue dittongano solo in determinate condizioni, dettate dal contesto fonetico).

Il francese antico, come l'italiano e lo spagnolo, segue leggi fonetiche precise che rientrano nella fascia del dittongamento spontaneo,
mentre il provenzale ha un dittongamento di tipo condizionato solo in presenza di suoni adiacenti che favoriscono questo processo,
come per esempio quando segue un suono di tipo palatale (cosa che accade anche in lingue come l'italiano).

Sappiamo poi che i dittonghi del latino si monottongano, essi erano tre: OE, AE, AU. Il monottongo altro non è che
UN’ARTICOLAZIONE VOCALICA STABILE caratterizzata da un unico timbro, in opposizione alle articolazioni vocaliche
che mostrano un cambiamento qualitativo nel corso della loro produzione. In diacronia, un monottongo è spesso l’esito finale di un
processo di semplificazione dei dittonghi. Il primo, già in fase di assorbimento nel latino classico, dittonga in ē che, nel sistema delle
principali lingue romanze a sua volta passava ad una e chiusa (a distinguersi rimane il francese, che mantiene invece il dittongo
discendente EI). Il dittongo AE passa ad essere prima monottongato in ĕ, per arrivare ad una e aperta a cui seguirà la trafila che
riguarda la e tonica aperta. Più complessa è l’evoluzione di au, che già in latino popolare presentava riduzione a ō, riflessa in diverse
parole romanze che presentano una o. Questa evoluzione si esaurisce tuttavia per far spazio, in seguito, a un successivo sviluppo in o
chiusa, che, però, non ha raggiunto tutte le aree di interesse romanzo.

Alcuni dittonghi sono realizzati come monottonghi già nel latino volgare: ad es., ae e oe sono prodotti, rispettivamente, mediante una
vocale breve (e aperta) e una vocale lunga (e chiusa) fin dal I secolo d.C. Gli esiti [ɛ] e [e] hanno poi subito i processi attivi per quelle
vocali nelle singole lingue romanze: in italiano si è avuto dunque regolare dittongamento in sillaba aperta per i continuatori di ae
(l[jɛ]to < laetu), ma non per i continuatori di oe (p[e]na < poena).

Nella Romània, appaiono più diversificati gli esiti del dittongo au: esso è mantenuto nei dialetti dell’Italia meridionale, in alcuni
dialetti friulani e trentini, nel romeno, nell’antico provenzale e nella maggior parte delle parlate occitane moderne; viene
monottongato in [o] nel portoghese; viene monottongato, in fase antica, in [ɔ] nella Gallia settentrionale, nella Spagna e nell’Italia
settentrionale e centrale; viene infine monottongato in [a] in sardo. L’assenza di dittongamento degli esiti monottongati di au in
fiorentino e in italiano dimostra che il monottongamento di esso è posteriore al dittongamento di ŏ in [wɔ] in sillaba aperta (c[ɔ]sa <
causa, ma b[wɔ]no < bŏnu). Le forme italiane che mantengono [au] (come, ad es., causa, tesauro, lauro) sono cultismi.

LUNEDÌ 10-05
LEZIONE 25

Abbiamo qualche indicazione sull’EVOLUZIONE DELL’ACCENTO LATINO, nel passaggio da esso, a quello volgare, alle
poi lingue romanze. Gli spostamenti, rispetto alla sillaba, dove si trovava l’accento nel latino, sono in realtà minoritari nelle lingue
romanze – in esse cade infatti nella stessa identica posizione. Noi, per esempio, troviamo in provenzale la parola canzo o canzos,
senza alcun accento diacritico, non presente nella lingua scritta; solo pensando all’etimo originario latino, da cui trae origine, ne
capiamo la corretta pronuncia. Partendo, in realtà, dall’etimo latino genericamente inteso, i dubbi di pronuncia possono sussistere, ma
i termini romanzi tendono tutti a partire dal caso più utilizzato in latino: l’accusativo (con le debite eccezioni); per arrivare a canzo,
partiamo infatti dal sostantivo latino cantio. Altro esempio, può essere un termine come amore, scritto come amors in provenzale (di
genere femminile), letto nelle diverse liriche senza alcun tipo di accento. Essendo le lingue neolatine tutte sorelle, aventi comune
base nel latino parlato, nelle volte in cui la pronuncia appare come dubbia/ambigua, basta basarsi su ulteriori esempi a noi conosciuti
per risalire al modo più corretto.

Come visto precedentemente, cambiava la natura dell’accento lungo o corto nei fonemi vocalici latine, con un annullamento della
distinzione tra quelli lunghi e quelli corti. Tanta più importanza assume quindi la DISTINZIONE DELL’ACCENTO, che da
accessorio passa ad essere un tratto distintivo. Ancora, la parola venit, con e breve, stava ad indicare la terza persona del presente
indicativo; cambiandone la scrittura, utilizzando una e lunga, essa passava al tempo imperfetto. E poi, nella composizione con il
suffisso -per (pervenit), data la perdita di distinzione tra lunghezze vocaliche nel passaggio tra latino classico e volgare, la
differenziazione avviene tramite accento: se accentato sulla prima sillaba, il termine si rifà al tempo presente; se la parola si presenta
come piana indica invece il tempo perfetto.

Nel latino, l’accento era più propriamente tonico o melodico, con un vero e proprio innalzamento della voce; nelle lingue romanze,
l’accento si modifica, diventando accento di intensità. Questa pronuncia intensa della sillaba tonica avrà tutta un’altra serie di
ripercussioni, ben visibili nel vocalismo atono. Il latino prevedeva poi delle sue regole, per prevedere la caduta dell’accento:

o nei monosillabi, l’accento tonico cade sull’UNICA SILLABA PRESENTE (es. mĕle > it. miele, fr. sp. miel; ma port.
cat. occ. mel). Si può vedere come dall’esempio, siano esclusi il portoghese, l’occitano e, a prima vista, il catalano. Si
ipotizza una dittongazione in ie in una fase preletteraria, che ha permesso l’evoluzione di ĭ, ē > Ɛ, con successiva
monottongazione ie > e. E’ osservabile anche, come in francese e in italiano, siano coinvolte solo le sillabe aperte, mentre
in spagnolo lo sono anche quelle chiuse; ciò si incrocia col problema di come e quando sia avvenuta la dittongazione.
o nel caso dei bisillabi, l’accento cadeva sulla PENULTIMA.
o nei sostantivi o, più in generale, nei termini costituiti da più sillabe, la posizione dell’accento veniva stabilita IN BASE
ALLA LUNGHEZZA DELL’ACCENTO DELLA PENULTIMA SILLABA : se questa era lunga, l’accento
cadeva sulla penultima; se invece presentava lunghezza breve, l’accento cadeva sulla terzultima, originando parole
proparossitone/sdrucciole.

Anche se si ristruttura la parola, l’accento tende a rimane nella stessa posizione di dov’era presente in latino (es. chilitàtem, dove
l’accento cade sulla penultima sillaba, spostato poi sull’ultima nella variante italiana di città). Quest’osservazione vale anche per
lingua come il francese, lo spagnolo e, più in generale, per le diverse varietà romanze. Va detto però come il francese, lingua forse
più evoluta tra quelle romanze, abbia una TENDENZA DI TIPO OSSITONO (spingendo sull’ultima vocale), anche quando la
grafia presenti ancora l’esito di una vocale nonostante la finale sia una consonante. Ancora più spinto è l’etimo sviluppato dal
francese nel caso di âne, apparentemente bisillabo: si tratta di un FATTO GRAFICO, il termine è infatti monosillabo, in quanto la
-e finale è muta, non viene pronunciata.

Esistono però le dovute eccezioni:

o IL CASO “INTEGRUM”, la cui base latina può dar esito a parole che si sviluppano normalmente nella diacronia; si
tratta di una forma che, col tempo, tende a NON EVOLVERSI. Questo tipo rispecchia i diversi polisillabi o parole
sdrucciole la cui penultima sillaba di quantità breve seguita da una consonante + r, che spostano l’accento in avanti; da
sdrucciole diventano quindi PIANE (es. integrum che, di trafila normale, ha come passaggio integrum con accento piano).
o IL CASO “FILIOLUM”, in cui una parola polisillaba di accentazione sdrucciola con presenza aggiunta di uno iato,
presenta come sviluppo normale del parlato una tendenza all’ELIMINAZIONE DELLO IATO FINALE. Le parole
sdrucciole in cui la terzultima sillaba è costituita da vocali in iato, hanno anch’esse uno SPOSTAMENTO DI
ACCENTO, risultando in parole con accento sulla penultima, diventando quindi piane.
o il caso di parole in cui, in latino, l’accento cadeva sul prefisso, dove più tardi viene a trovarsi SULLA FORMA
SEMPLICE o base (es. implicat lat. > implicat lat. volg. > implica it.).

All’interno del vocalismo tonico, un fenomeno molto importante, che riguarda un gran numero di lingue romanze, è lo sviluppo della
DITTONGAZIONE – un certo numero di queste lingue, in particolare, dittonga le cosiddette VOCALI MEDIANE (e, o di
timbro aperto e chiuso). Questo fenomeno, si pensa sia originario del latino; i dittonghi presenti nelle lingue romanze sono
essenzialmente due: quelli ascendenti e quelli discendenti.

o tra i dittonghi ascendenti annoveriamo quello che da e di timbro aperto genera ie, così come quello che da o aperta porta ai
due dittonghi uo, ue.
o tra i dittonghi discendenti abbiamo invece un passaggio da e chiusa tonica a ei, oi (es. pĭlum lat. > peil fr. antico +
retoromanzo > poil fr. moderno); da o chiusa tonica in sillaba libera si forma invece la coppia ou, eu.
MARTEDÌ 11-05
LEZIONE 26

Restano immuni alla dittongazione romanza le lingue del portoghese e dell’occitano e, per quanto riguarda i dittonghi discendenti
(nella vocale posteriore o) anche il romeno, così come il caso più complesso del catalano. Gli studiosi hanno avanzato diverse ipotesi
sulla possibile origine di questo fenomeno, i cui esiti sono a dir poco discordi, soprattutto nei riguardi del più diffuso ed antico
dittongo ascendente. A favore dell’antichità di questo fenomeno, sembra essere il fattore che il dittongo sia avvenuto nel caso di
parole proparossitone che, ad un certo punto, hanno perso una vocale atona (quindi particolarmente debole), trasformando la sillaba
tonica da aperta a chiusa – è questo il caso di un aggettivo che parte dalla base etimologica tepidum in latino, in cui la i venne a
cadere già abbastanza anticamente, trasformando la sillaba tonica in implicata o chiusa, impedendo in lingue come il francese la
dittongazione. Nonostante ciò, l’esito in francese moderno, tièd, ci informa dell’avvenuto fenomeno; è probabile che il dittongamento
fosse ancora anteriore alla caduta delle atone postoniche, abbastanza antiche di per sé.

Del dittongamento più antico e diffuso nelle lingue romanze, gli studiosi hanno dato due spiegazioni: secondo la maggior parte di
essi, sarebbe avvenuto per METAFONESI, cioè per un influsso sulla vocale tonica di un fonema vocalico posizionato a fine della
parola (solitamente nei casi con i lunga/u breve). Questo tipo di dittongazione interessa ed è comune nei dialetti italiani meridionali,
tra l’altro esclusi dalla dittongazione romanza più generalizzata (es. vĕntŭm lat. > vientu it. meridionale). L’altra ipotesi vede la sua
causa nell’ALLUNGAMENTO DELLA VOCALE TONICA IN SILLABA APERTA o in sillaba libera, quest’ultima era
infatti sentita più leggera rispetto a quella chiusa, dando così origine ad un allungamento delle vocali brevi per una sorta di
conguaglio delle diverse sillabe. Rimane però il problema di tutti quei casi che dittongano anche in sillaba chiusa, strutturalmente
percepita come più pesante, con spinta per l’allungamento della vocale tonica come inspiegabile; gli studiosi hanno quindi proposto,
rispetto tutti questi casi, la TEORIA DI UNA DIVERSA DIVISIONE DELLA SILLABA (spesso anche molto inusuale).
Per quanto riguarda la dittongazione discendente, riguardante un numero ristretto di lingue, limitato alle sillabe aperte, la spiegazione
tradizionale prevede l’allungamento in vista di quello in sillaba aperta.

VOCALISMO ATONO
Il caso più semplice è quello sardo, fotocopia del vocalismo tonico: a partire dalle cinque coppie delle vocali latine, noi avremo
cinque vocali per ogni coppia senza alcuna distinzione di apertura. Nelle principali lingue romanze occidentali, invece, il vocalismo
atono passa ad uno schema a cinque vocali, perdendo qui la distinzione nelle vocali mediane dell’apertura. Quello del
balcanoromanzo ha tutte le vocali posteriori che, indistintamente, passano ad u, mantenendo distinta, nel caso delle vocali anteriori,
la e breve latina che si mantiene come e, mentre tutte le altre passano ad i – sviluppando quindi un sistema a quattro vocali. Il
siciliano non presenta più, in questo caso, un sistema a cinque vocali toniche, ma a tre vocali atone: contiamo la a, vocale centrale, un
conguaglio di tutte le vocali anteriori ad i e tutte quelle posteriori ad u.

Le vocali atone sono comunque soggette ad una grande influenza di quelle toniche. All’interno della parola, i fonemi vocalici sono
infatti un pochino più resistenti, mantenendosi meglio dal latino alle lingue romanze quelle vocali poste ad inizio parola.
L’evoluzione delle suddette vocali è molto importante in quanto la sincope è in grado di ristrutturare la parola, facendo cadere delle
sillabe, favorendo incontri tra diversi elementi consonantici o semiconsonantici che svilupperanno, a livello fonetico, ulteriori
cambiamenti. Tra i fenomeni di questo vocalismo abbiamo:

o LA SINCOPE, ovvero la caduta di una vocale interna. E’ un cambio che modifica la struttura delle parole, facendole
perdere una sillaba: si tratta solitamente della vocale immediatamente pre o post tonica, che cade a causa dell’aumentata
intensità dell’accento tonico. Da notare come la sincope sia più frequente a ovest che non a est – l’italiano e il rumeno
tendono a conservare molte più parole parossitone che non lo spagnolo e ovviamente il francese, lingua prettamente
ossitona.
o LA RIDUZIONE DELLE VOCALI IN IATO , che implica anch’essa la perdita di una sillaba nella parola. Per
vocali in iato si intendono gli incontri di vocali, all’interno della parola, che costituiscano due sillabe successive senza
essere separate da una consonante. Quando le vocali sono di timbro simile, vengono ridotte per lo più ad un solo elemento
(es. dùodecim lat. > duòdecim > dodici it., donze fr., doce sp.); quando invece esse sono troppo diverse, il primo elemento
diventa una semivocale.
o le vocali atone sono poi oggetto dell’influenza di quelle toniche, si possono avvicinare o allontanare da esse per quanto
riguarda il punto di articolazione; in questo caso si parla di ASSIMILAZIONE o di DISSIMILAZIONE (es.
bilanciam lat. > bilancia it. ma bilanciam lat. > balanciam > balance fr., balanza sp.).
o in seguito alla caduta dell’atona finale è possibile poi un inserimento di una VOCALE D’APPOGGIO e/i (prostesi) per
facilitare la pronuncia del nesso consonantico (es. duplum lat. > doble sp., double fr.)

Tra le atone finali, la più resistente sicuramente è la a; vi sono poi FENOMENI DI CAMBIAMENTO O DILEGUO (caduta),
come per esempio la mancata distinzione u/o già nel latino tardo (es. filium lat. > figlio it.). La a in francese si indebolisce in [e],
evolvendo poi in schwa (es. schola(m) lat. > école fr.).

GIOVEDÌ 14-05
LEZIONE 27

L’articolazione delle consonanti coinvolge maggiormente gli organi fonatori: si devono infatti considerare il punto di articolazione
del suono, per cui si avranno suoni bilabiali, labiodentali, dentali, palatali, velari ecc.; così il modo in cui passa l’aria per gli organi
fonatori: con ostruzione si avrà un suono occlusivo (/p/, /b/, /g/), con un passaggio costante si avrà un suono fricativo (/f/, /v/, /s/), la
combinazione di queste due modalità produrrà invece un suono affricato (/ts/, /dz/). Il passaggio poi dell’aria ai lati della lingua
produrrà un suono laterale (/l/), la vibrazione della lingua durante il passaggio dell’aria invece una vibrante (/r/) e le consonanti
possono essere quindi nasali (/m/, /n/). La vibrazione delle corde vocali durante l’articolazione della consonante darà vita ad una
consonante sonora (/g/, /b/, /z/), la mancanza di vibrazione a una consonante sorda (/k/, /p/, /s/).

Va ricordato come le consonanti siano più forti in posizione iniziale, più deboli in posizione finale, soggette quindi a cambiamenti
per influenza dei suoni circostanti all’interno della parola o a causa della caduta di vocali, che dà luogo a nuovi nessi consonantici.
Rispetto alle vocali, vi sono meno cambiamenti delle consonanti che investono l’intera area romanza. L’inventario dei fonemi
consonantici latini è infatti più ridotto rispetto a quello romanzo: mentre il latino ha coppie di fonemi sordi/sonori per le consonanti
occlusive, esso NON CONOSCE le fricative sonore /v/ e /z/, corrispondenti alle sorde /f/ e /s/. ASSENTI SONO ANCHE le
affricate dentali /ts/, /dz/, palatali /t/. Il latino presentava inoltre alcune consonanti che sono completamente scomparse dai sistemi
consonantici romanzi. Tra le consonanti scomparse si notano le labiovelari kw e gw (scritte qu e gu) che vanno considerate come un
fonema unico e non un nesso consonantico. Queste consonanti sono state ridotte al solo elemento velare oppure a velare più
semivocale:

o quomodo > [k] come


o quindicem > [kw] quindici
o quattor > [k] quattro

Scomparsa è anche la fricativa laringale sorda /h/, dileguata già in epoca antica, come è testimoniato da forme come ic per hic, abere
per habere. La perdita della fricativa laringale si estende anche a parole greche con consonanti aspirate, dove scompare l’elemento
aspirato:

o thius > tius > zio


o schola > scola > scuola

Il latino non aveva anche la fricativa sonora labiodentale /v/: i grafemi u e v rappresentano la vocale /u/, quando costituisce il nucleo
della sillaba, o la sua variante semivocalica /w/ a inizio o fine sillaba. In età imperiale questa /w/ si evolve in una bilabiale fricativa
/ß/ per arrivare poi alla fricativa labiodentale /v/. Solo lo spagnolo e alcune varietà di catalano mantengono la fricativa bilabiale /ß/
come variante dell’occlusiva bilabiale /b/, rappresentate graficamente sia da b, in posizione iniziale, che da v, all’interno di parola o
di frase.

Tipica è poi la riduzione del nesso consonantico ns > s come illustrato già nel II secolo a.C. :

o mensem > mese


o mensam > sp./port. mesa
o sponsum > sposo
Questi cambiamenti non dipendono dalla posizione del suono nella parola.

CONSONANTI INIZIALI
Le consonanti iniziali resistono per lo più dal latino alle lingue romanza e rimangono invariate in questa posizione p, b, t, s, m, n, l, r
e molti nessi consonantici quali quelli costituiti da consonante + r, mentre s + consonante in molte lingue è preceduto da una e
prostetica. I principali cambiamenti riguardano tutti le consonanti velari, resistenti quando sono seguite da vocale posteriore (es.
corpus > corpo), mentre vengono palatalizzate quando sono seguite da vocale anteriore e da /a/.

Hanno anche esiti palatali uno iod iniziale e la sequenza d + iod:

o iam > già


o iocum > gioco
o diurnum > giorno
o ianuarium > sp. enero, ma it. gennaio

Una tendenza alla palatalizzazione si verifica anche per i nessi consonantici iniziali costituiti da consonante + l che però non investe
tutte le lingue romanze:

o plenum > pieno (/pj/), fr. plein (/pl/), sp. lleno (/gl/)

CONSONANTI FINALI
Le consonanti in posizione finale sono le più deboli e dunque le più propense a cadere. Già il latino classico non contemplava un gran
numero di consonanti in posizione finale. Pochissime parole finivano in /b/, /d/, /k/, che sono infatti scomparse: ab, sub, ad, apud,
illud, quid, fac, lac, hoc.

Tra le consonanti finali più diffuse in latino è scomparsa la m finale, essa non veniva pronunciata quando la parola seguente iniziava
con una vocale, permettendo così la sinalefe, come quando si incontravano due vocali. La m finale è presente come generico suono
nasale solo in alcuni monosillabi, come rem o quem.

T in posizione finale è dileguata, anche se era rimasta come marchio della terza persona singolare del verbo francese arcaico (es. amat
> aimet).

/n/, /l/, /r/ cessano invece di trovarsi in posizione finale a causa della riorganizzazione dei casi grammaticali, per cui scompaiono i
casi nominativi a favore delle forme accusative in cui la consonante era seguita da e(m):

o cor > core > cuore


o mel > mele > miele
o sal > sale > sale

Un’ultima consonate finale la cui perdita incide anche sulla morfologia della lingua è s che ha la funzione di marcare il plurale nel
sistema nominale. Tale funzione caratterizza ormai solo le lingue romanze occidentali che conservano la s finale. Il dileguo di questo
suono avveniva già in latino arcaico e sembra collegato a un problema di fonosintassi. All’interno della parola in latino erano
accettabili solo alcuni nessi costituiti da s + consonante: sc, sp, st, ss. Era accettabile così solo l’incontro di parole nella frase che
terminavano in s e che erano seguite da una parole con iniziale c, p, t, s. La lettera s sarebbe stata ristabilita in latino classico a causa
della sua funzione grammaticale, che viene riempita nel romanzo orientale da una vocale, e oppure i, risultato dell’evoluzione di s >
/j/. La sua perdita è anche presente nelle lingue occidentali. In francese, essa è solo grafica a partire dal XIII secolo, mentre lo
spagnolo moderno tende all’aspirata /h/ o al dileguo, mentre il portoghese ha un’articolazione palatale.

ALTRI CAMBIAMENTI CONSONANTICI


Tra i cambiamenti molto importanti a livello delle consonanti che toccano abbastanza ampiamente le lingue romanze, ne registriamo
soprattutto due:

o la LENIZIONE, che riguarda perlopiù le consonanti in posizione intervocalica. Consiste in UN INDEBOLIMENTO


di queste ultime, principalmente delle occlusive, che si assimilano al contesto vocalico. Così le occlusive sorde diventano
sonore ed eventualmente fricative, fino al dileguo totale. La stessa evoluzione tocca a una consonante seguita da r, nonché
s intervocalica che passa a /z/, che in spagnolo moderno è stata nuovamente desonorizzata. Non riguarda lingue come il
romeno e l’italiano centro-meridionale, ma lo fa con i dialetti gallo-italici e, fino ad un certo punto, il toscano, lo spagnolo,
l’occitano e il francese in diversi gradi. Questo fenomeno riguarda anche la riduzione delle consonanti doppie presenti in
latino, ma assenti in molte lingue romanze. E’ infatti la lingua italiana quella che meglio mantiene le consonanti doppie,
estendendole a contesti dove il latino non le contemplava.
o la PALATALIZZAZIONE, che introduce tutta una serie di suoni palatali, affricati e fricativi sconosciuti al sistema
fonetico del latino, costituendo una tendenza generale all’assibilazione (quindi la produzione di suoni sibilanti) nelle varie
lingue romanze. Si tratta di un fenomeno panromanzo già iniziato in latino, originatosi forse dalla tendenza a cambiare il
punto di articolazione davanti a iod o a vocale anteriore, spostandolo verso il palato.

Abbiamo poi alcuni nessi consonantici latini che si sono ridotti dando esiti palatali:

o ct > /jt/
o cr > /jr/

Ad essi aggiungiamo i cosiddetti NESSI CONSONANTICI PRIMARI E SECONDARI : parliamo di primari perché già
presenti in latino, mentre quelli formatisi nel corso dell’evoluzione dei suoni vengono definiti appunto secondari. Questi vengono
tollerati oppure ridotti, ma non sempre in modo uguale. In francese, ad esempio, il nesso primario cr > /jr/ e così anche quello
secondario, mentre in spagnolo il nesso primario mn > /ɲ/ e quello secondario > /mbr/, con EPENTESI, quindi con aggiunta di una
consonante non etimologica per facilitare la pronuncia. Ciò testimonia come la lingua non cambi sempre allo stesso modo nelle
diverse fasi della storia: non solo i suoni possono cambiare in diverso modo da lingua a lingua o da un’epoca ad un’altra, ma un
determinato cambio può non avvenire anche in tutti i contesti fonetici.

LUNEDÌ 17-05
LEZIONE 28

Una fonte per il latino volgare di tratti linguistici non letterari sono anche le traduzioni latine della Bibbia, precedenti ad esempio
quella di SAN GIROLAMO (347-419 d.C.), compiute fuori dell'ambito della scuola tradizionale e che vanno sotto il nome di
vetus latina (II secolo d.C.), antica traduzione in latino dal testo greco. Ma anche la traduzione di San Girolamo, la vulgata (IV secolo
d.C.), che parte dal testo ebraico tenendo presente la vetus, contiene molti tratti di latino non classico, sebbene l'autore avesse
un'eccellente preparazione letteraria. Vi si trovano questi tratti sia perché riprende in parte la vetus latina, sia per
L'ATTEGGIAMENTO IDEOLOGICO degli autori cristiani, per i quali conta prima di tutto il rendersi comprensibili ai lettori
meno colti. Le prime comunità cristiane erano infatti composte dagli strati più umili della popolazione e spesso non erano neanche di
origine romana, allora i testi a loro rivolti dovevano impiegare uno stile poco formale, per veicolare con immediatezza il messaggio
religioso.

Proprio per la provenienza orientale e per la nuova ideologia che portava nel mondo occidentale, il cristianesimo arricchì e alterò in
parte la lingua latina con una serie di ebraismi (es. amen, alleluia), spesso filtrati anche attraverso il greco (es. belzebub, cherubim,
seraphim, levita, messia, pasca, sabbatum, satanas). Entrano attraverso le traduzioni della Bibbia diversi grecismi (es. angelus,
apostolus, baptisma, battezzare, basilica, blasfemare, clerus, cemeterius, christus, diaconus, diavolus, ecclesia, episcopus,
evangelium, paradisus, parabola, monacus, presbiter, profeta, ecc.). Entrano anche delle neoformazioni, ad esempio un'abbondanza
di verbi con il suffisso in -ificare (es. vivificare, mortificare, glorificare, beatificare, clarificare, fortificare, fruttificare, ecc.).
Abbiamo poi diversi CALCHI, per lo più semantici, cioè si ricorre economicamente a un calco semantico piuttosto che ad un
neologismo, mutando il senso tradizionale di un vocabolo latino (es. il termine caro, carnis, carne del latino, assunse un significato
equivalente a “peccato”, contrapposto a spiritus; il termine confessio passò ad indicare il sacramento della confessione; fides non
significò più “fiducia”, ma “fede cristiana”; il verbo edificare perse un senso materiale e ne acquista uno morale; plebs passò ad
indicare l’insieme dei credenti).

Le finalità dei traduttori erano il PRAGMATISMO, cioè raggiungere degli intenti pratici, e il LETTERALISMO, riportare ad
litteram la parola divina, di cui gli evangelisti erano stati semplici trascrittori, evitando così di falsare il testo sacro e preparando un
testo che potesse diffondere la buona novella, senza preoccupazioni di ordine letterario e artistico. La nuova religione si rivolgeva a
tutte le classi sociali, ma in modo particolare a quelle meno privilegiate: plebei, schiavi, poveri. Gli autori cristiani, di conseguenza,
dovevano ricorrere a un linguaggio semplice, di tenore familiare e colloquiale, quindi ricco di fenomeni del latino volgare. Il
cristianesimo, rivolgendosi a un nuovo pubblico con un linguaggio vicino a quello parlato, operò in un primo momento una vera
INVERSIONE DI PRESTIGIO IN CAMPO LINGUISTICO , a cui si accompagnò un RIFIUTO CATEGORICO
DELLA TRADIZIONE LETTERARIA CLASSICA . Ad esempio, lo stesso SANT'AGOSTINO (354-430 d.C.) fu
ricettivo nei confronti del latino popolare, non subendo passivamente i modelli letterari classici, e affermò che era meglio essere
ripresi dai grammatici piuttosto che il popolo non comprendesse, questo benché nella sua giovinezza pagana avesse ricevuto una
raffinata educazione retorica.

Una situazione di compromesso si può identificare in San Girolamo e Sant’Ambrogio, che compresero come una nuova tradizione
culturale cristiana non potesse sorgere dal nulla, ma andasse innestata sulla tradizione precedente, e il cristianesimo si trasformò così
da diaframma a filtro tra cultura e popolo. Di particolare interesse è la relazione del viaggio in Terra Santa compiuto, negli anni 381-
384 d.C., da una nobildonna di nome EGERIA (forse una monaca spagnola): stiamo parlando dell'Itinerarium o Peregrinatio
Aetheriae, di cui si conserva una parte nel Manoscritto 405 della biblioteca della città di Arezzo e una copia eseguita a Montecassino,
nel periodo 1087-1105. Per la sua lingua bisognerà pensare che siano intervenuti dei possibili aggiustamenti da parte dei copisti che
ci tramandano l'opera, ma è probabile che questi aggiustamenti siano stati regolarizzati e che i tratti meno in regola con la lingua
letteraria latina siano originari. Nella descrizione di questo pellegrinaggio a Gerusalemme, l'autrice si mostra come dotata di un certo
livello di cultura, che trapela nello stile del suo racconto, ma la sua lingua rivela tutta una serie di tratti grammaticali, sintattici,
lessicali, che l'avvicinano alle lingue romanze più che al latino classico: ad esempio, ille e ipse sono utilizzati con delle funzioni che
corrispondono a quelle più elementari dell'articolo nelle lingue romanze.

I TESTI POSTIMPERIALI
Dopo la caduta dell'impero d'occidente cominciò a venir meno il modello linguistico incentrato su Roma, la lingua scritta cominciò a
divergere sempre di più da quella norma. Tra gli autori dell'età merovingica si possono ricordare gli Historia francorum del vescovo
GREGORIO DI TOUR (VI secolo d.C.) e i Cronicarum libri quattuor di FREDEGARIO (opera miscellanea in latino
merovingico del VII secolo d.C.). Abbiamo poi anche molti documenti cancellereschi. Gli autori di queste opere sono autori tardi,
che intendono scrivere in un latino corretto, ma in realtà finiscono per utilizzare una lingua ricca di parole, espressioni e tratti
morfologici e sintattici della lingua corrente. Non erano incolti, ma allo stesso tempo non erano più in grado di mantenere la norma
classica, poiché questa norma non veniva più insegnata o praticata. La loro lingua, dunque, fornisce diversi indizi su quello che
doveva essere il latino evoluto del periodo, o meglio sulle nascenti lingue romanze. Tra le fonti del latino volgare sono molto
interessanti le testimonianze dei grammatici, i quali sono naturalmente una fonte preziosa di informazione sulla lingua attraverso il
filtro della dottrina grammaticale. Le grammatiche sono infatti normative e prescrittive: dicono quali norme sono corrette in base
all'uso dei migliori autori, così capita che critichino certi usi come erronei e questi sono indizio di forme non classiche.

Tra i testi di questo tipo, forse il più noto in sede di linguistica romanza e l'Appendix probi. Con questo titolo tradizionale si intende
un elenco di 227 prescrizioni, tutte nella forma “x, non y”: per esempio, speculum non speclum, dove si mostra il fenomeno della
sincope, cioè della caduta all'interno della parola di una vocale postonica. Le forme romanze derivano in effetti da speclum
(“specchio” in italiano, “espejo” in spagnolo). L'Appendix probi e trascritta nel CODICE LATINO 1 DELLA BIBLIOTECA
NAZIONALE DI NAPOLI, compilato a Bobbio tra la fine VII secolo e l'inizio dell'VIII secolo d.C., e trova dopo una serie di
appendici a un trattato grammaticale, falsamente attribuito a VALERIO BRAVO. In questa forma estremamente sintetica viene
documentato come numerosi fenomeni di evoluzione del latino abbiano un riscontro nelle lingue romanze che continuano queste
forme. In auris non oricla, si può osservare che il latino auris è stato sostituito dal diminutivo auricula, con chiusura in o del dittongo
iniziale au, e con caduta della vocale atona postonica u. Nella notazione vinea non vinia, vediamo una chiusura della e atona del
latino in i e poi -jod, da cui la palatalizzazione di n, (vinea > vigna). Per la datazione dell’Appendix probi le opinioni degli studiosi
hanno oscillato fra il secolo III e VII d.C. e questo ci dimostra quanto questa semplice lista di termini sia in realtà problematica.
Secondo i più recenti editori (2014, Asperti-Passalacqua), è da collocare entro un contesto culturale e linguistico tardoantico da
circoscrivere approssimativamente intorno alla metà del V secolo d.C. Ma è anche con ogni probabilità il risultato di una
stratificazione di liste grammaticali di termini più antichi. Molte delle forme erronee ci confermano le conclusioni a cui è giunta la
linguistica comparata: articulus non articlus, con caduta della vocale postonica; vetulus non veclus, con caduta della vocale postonica
e il passaggio del nesso tl a quello cl; columna non colomna, con la confusione tra u breve ed o lunga; mensa non mesa, con la
riduzione del nesso ns a s; persica non pessica, con un’assimilazione del nesso rs a ss.

Vediamo, come ha ricordato LORENZO RENZI, che molte volte l'errore di oggi sarà poi la regola di domani e non solo nel latino
antico. I grammatici si sforzano di correggere, riportando le deviazioni alla norma tradizionale, così ad esempio negli Instituta
artium, nello stesso manoscritto della Appendix: pauper domus non paupera domus; fugere non fugire. Le forme riprese come
scorrette e divergenti dalla norma classica si diffondono sempre più e finiscono con l'imporsi alla generalità dei parlanti. Le lingue
romanze continueranno le fasi intermedie tra latino classico e volgare romanzo, documentate dall'attenzione dei grammatici, oppure
dall'ignoranza degli scalpellini di epigrafi, dagli autori di scritte murarie, o ancora dalle intenzioni parodistiche degli scrittori classici,
dalla sbrigatività pratica di testi tardivi. Sulla base della comparazione costruttiva si sogliono porre sotto il nome di latino volgare,
come osservato ad esempio AURELIO RONCAGLIA, una nozione discussa difficile da definire poiché non rappresenta un
preciso stato di lingua unitariamente descrivibile nella sincronia, ma ci documenta piuttosto un'evoluzione che si protrasse nel tempo,
con differenze e sfasature nel tempo e nello spazio e, tuttavia, il termine tradizionale “latino volgare” continuerà a tornare comodo,
purché si abbia l'avvertenza di comprendere che questa nozione è complessa e ha un carattere fondamentalmente operativo.

Diversi documenti ci testimoniano delle variazioni del latino dal punto di vista storico e stilistico. Sono le fonti del latino volgare e si
può anche riguardare, con Aurelio Roncaglia, come all'alterarsi del latino, nel senso del volgarismo, abbia contribuito in modo più
che rilevante anche la rivoluzione spirituale portata dal cristianesimo. Ma va ricordato che vi era anche una variazione di tipo
regionale che influì sul latino, ed è proprio per mettere in luce questa variazione geografica o regionale che occorre mettere a fuoco i
concetti di sostrato, adstrato e superstrato. Si dicono LINGUE DI SOSTRATO, o sostrati, le lingue alle quali il latino si è
sostituito in ogni area dove è arrivato il dominio romano, infatti, tra latino e la lingua del luogo vi fu dapprima un rapporto di
BILINGUISMO, poi di DIGLOSSIA, in quanto il latino divenne lingua ufficiale, infine la lingua del luogo fu abbandonata, con
qualche eccezione (es. nella penisola iberica il basco si parla ancora oggi). Bilinguismo è il possesso, da parte dei parlanti, di due o
più lingue (es. in Svizzera, dove le lingue nazionali sono quattro, e molti cittadini ne parlano più di una). Diglossia è il fatto che due
lingue parlate in una stessa comunità non sono sullo stesso piano, ma una rappresenta la varietà alta, usata in situazioni formali, e
l'altra la varietà bassa, usata nei rapporti privati (es. nella Svizzera tedesca il tedesco è la lingua dell'uso formale o scientifico, mentre
il dialetto svizzero-tedesco si usa oralmente a tutti i livelli). Questo processo non può essere stato immediato e può avere impiegato
più tempo a raggiungere le popolazioni delle campagne rispetto a quelle dei centri urbani. È probabile che nonostante il potente
fattore di diffusione del latino, che fu la creazione di un gran numero di colonie, il passaggio al latino delle popolazioni indigene
delle campagne sia stato lento e si compì definitivamente solo con la predicazione cristiana e in epoca tarda. A partire dall'opera del
linguista italiano GRAZIADIO ISAIA ASCOLI, è stata formulata e variamente accettata o respinta dai linguisti l'idea di
spiegare con l'influsso dei sostrati i vari mutamenti, soprattutto fonetici, propri delle lingue romanze rispetto al latino e questo in base
al fatto, modernamente confermato dalla sociolinguistica, che chi impara una lingua vi trasporta almeno una parte delle abitudini
della propria lingua materna.

Ogni caso ipotizzato di influsso dei sostrati in ambito linguistico ha suscitato obiezioni e discussioni. La prova di questi influssi, dalle
lingue di sostrato alle lingue romanze, è difficile per diverse ragioni, non ultima la ragione che la maggior parte delle lingue di
sostrato sono estinte o conosciute in modo molto scarso, in gran parte per via indiretta, cioè attraverso l'uso stesso e lo studio delle
lingue romanze su cui queste lingue dovrebbero avere influito. È invece sicuro l'influsso del sostrato nell'ambito lessicale.
L’espansionismo di Roma poté accelerare il cambio della lingua in due modi:

o in primo luogo, questo espansionismo ha comportato uno SCONVOLGIMENTO NELLE POPOLAZIONI , sia in
quelle conquistate, sia nelle masse di coloni inviati nelle diverse zone dell'impero. Studi sociolinguistici hanno mostrato
che, quando un gruppo sociale compatto viene disgregato, la lingua tende a cambiare più velocemente e possiamo
immaginare che questo cambiamento sia avvenuto tra i coloni e i legionari dislocati nei territori dell’impero, che tra l'altro
non provenivano sempre da Roma e portavano con sé le proprie abitudini linguistiche. Si gettarono così le basi per una
diversificazione linguistica nelle zone dell'impero.
o in secondo luogo, si aggiunge il CONTATTO CON LE LINGUE PREROMANE: da un lato possiamo immaginare
la necessità per i coloni di prendere in prestito i termini delle lingue locali per esprimere dei concetti sconosciuti alle loro
abitudini e al latino, dall'altro lato gli indigeni, cioè i parlanti le lingue che i romani trovarono nei vari territori,
nell'imparare latino vi avranno introdotto dei tratti delle proprie lingue, così come normale quando si apprende una lingua
straniera. In questo modo si saranno create delle varietà nelle diverse aree a seconda delle lingue del paese conquistato e
che saranno in parte alla base delle diverse lingue romanze. I latini incontravano, come lingue di sostrato, ad esempio
l’osco-umbro nell'Italia centromeridionale, nella penisola iberica incontravano l'iberico e il celtiberico, il celtico nella
Gallia e nella Pianura Padana. Queste lingue, nelle diverse zone citate, sono appunto le lingue di sostrato.

Il concetto risale all'Ascoli e spiegare le divergenze tra le diverse lingue romanze in base a un'influenza delle diverse lingue
preromane fu un metodo adoperato da molti romanisti nella fine dell’800 e l’inizio del ‘900. L'ipotesi formulata da lui formulata nel
1881, sull'influsso del sostrato attribuiva un peso decisivo nella formazione delle lingue romanze ai sostrati prelatini. Rispetto a ciò vi
rimangono comunque alcune perplessità.

ALBERTO VARVARO ricorda come l'ipotesi formulata con rigore scientifico nel 1881 dall’Ascoli attribuiva un peso decisivo
nella formazione delle diverse lingue romanze dei sostrati prelatini, per cui il latino parlato si sarebbe frammentato in varietà diverse
in rapporto ai diversi sostrati delle regioni dell'impero. In realtà egli dice anche che contro quest'ipotesi si può far valere l'estrema
difficoltà di dimostrare, di volta in volta, che i fenomeni delle lingue romanze trovano la loro causa in fenomeni di lingue poco
conosciute e di età remota. Inoltre, l'ipotesi dell'Ascoli imporrebbe di considerare già differenziato il latino di età tardo imperiale, su
cui i sostrati dovevano aver già operato. Dato che le lingue preromane si erano già estinte o si stavano estinguendo non è
improbabile, dice Varvaro, che alcuni mutamenti romanzi abbiano la loro remota origine in fenomeni di sostrato. Ma questi fenomeni
sono comunque una parte molto limitata di quelli che hanno trasformato il latino nelle lingue romanze. I grandiosi mutamenti dei
sistemi nominale e verbale, ad esempio, non sono mai stati attribuiti a nessun sostrato e non si potrebbe fare, dato che questi grandi
mutamenti investono aree in cui i sostrati sono del tutto differenti. Dunque, ci fu un tentativo da parte dei romanisti di fine ‘800 e
inizio ‘900 di interpretare come dovuti all’influsso delle lingue di sostrato diversi fenomeni fonetici (es. fu attribuito al sostrato basco
o iberico il DILEGUO di f iniziale in castigliano, per cui da fabulare si passa ad hablar nello spagnolo, da formoso a hermoso, da
facere ad haser; la SPIRANTIZZAZIONE o gorgia toscana, per la velare c intervocalica passa da dico a diho, attribuita a un
influsso del sostrato etrusco; il passaggio di u latina a u francese fu attribuito al sostrato celtico; al sostrato celtico fu inoltre attribuita
L'EVOLUZIONE DEL NESSO CONSONANTICO ct a it e nelle lingue del romanzo occidentale ec, per cui da factum del
latino si passa al francese fait, o allo spagnolo hecho).

Il problema nell’accettare questi influssi delle lingue di sostrato nell'ambito fonetico è che abbiamo una scarsa conoscenza di queste
lingue, per cui è molto difficile attribuire dei cambiamenti fonetici e soprattutto morfologici alla lingua di sostrato. Forse degli ultimi
esempi è da attribuire con sicurezza all'influenza del sostrato celtico il suggerimento dello sviluppo del nesso ct in it, poiché questo
cambiamento è documentato da antiche iscrizioni in diverse aree occupate dalle popolazioni celtiche, dove l'influenza delle lingue di
sostrato si sente di più nel lessico, proprio perché anche i parlanti latino avranno preso in prestito dei termini locali per designare
oggetti legati alle realtà locali. Ad esempio, entrarono a far parte del fondo romanzo comune diversi termini celtici (si parlava gallico
nell'Italia settentrionale, provincia della Gallia cisalpina tra III e II secolo a.C., ma anche nella Gallia transalpina, grosso modo
l'attuale Francia e parte del Belgio, conquistata dai romani tra la metà del II e la metà del I secolo a.C.). Il Gallico è una lingua
indoeuropea della famiglia del celtico insieme con la lingua dei celtiberi o celtiberi nella Spagna nordorientale. Entrarono nel fondo
romanzo comune diversi termini celtici, passati prima nel latino e poi nelle diverse lingue romanze: uno di questi è camisia, che
indica un capo d'abbigliamento tipicamente celtico, che troviamo nell’italiano camicia, nello spagnolo, portoghese, catalano e
occitano camisa, nel romeno camasa, o francese chemise. Un altro indumento tipicamente Gallico che venne adottato dai romani,
intorno alla fine del II secolo d.C., è indicato dal termine latino bracae, che dà origine all'italiano braghe e brache, così come al
rumeno brace, al provenzale, catalano o spagnolo bragas.

Il sostrato Gallico lasciò molte tracce soprattutto nella lingua francese, infatti, nel territorio galloromanzo i celtismi sono molto
numerosi. Si tratta perlopiù di voci rustiche, legate alla campagna, ad esempio legate ad aspetti del terreno o tipi di vegetazione, nomi
di piante (es. il francese balé che indica la Ginestra; bruière che troviamo nel nostro brughiera; land, il nostro landa; born, che indica
il confine fra i campi, ecc.). Questi termini, dal gallico in francese, sono TESTIMONIANZE DELLA CONTINUITÀ di vita e
di abitudini nell'ambiente rurale.

Sono poi di origine gallica molti toponimi, ad esempio tutti i composti di dunum, castello; durum, porta; lanum, pianura (come ad
esempio nel toponimo per indicare la città di Milano, da MEDIOLANUM, pianura di mezzo). O ancora il fenomeno dei nomi
etnici che vennero assunti come toponimi a causa dell'organizzazione gallica formata sulle tribù piuttosto che sulle città. Proprio dalla
tribù dei PARISI, a cui viene aggiunto la desinenza in -is dell'ablativo plurale dello Stato in luogo, prende il nome la città di Parigi.
Anche nella penisola iberica abbiamo diversi toponimi di origine celtiberica a testimonianza della presenza di queste popolazioni in
epoca preromana: da virodunum abbiamo nella penisola iberica il toponimo per la città di Verdun; da bisoldunum il nome della città
di Besalù; da briga, il composto che indica il “monte” per i galli, abbiamo la città di Segovia. In Spagna di origine iberica sono
alcune parole caratterizzate dal nesso rr e rt, come ad esempio i termini parro che indica il fango, l’aggettivo izquierda, sinistra.
Quelle rumene furono lingue di sostrato su cui abbiamo scarse conoscenze, che rendono assai difficile individuare le parole passate in
romeno. Secondo uno studio del 2009 di SALA, queste parole passate in rumeno da questi sostrati preromani dovrebbero essere
circa 80, soprattutto parole legate ai realia della vita locale, cioè alla vita concreta: nomi di piante, di animali, di conformazioni
geologiche, ecc.

MARTEDÌ 18-05
LEZIONE 29

All'interno della variazione regionale o geografica del latino, oltre al concetto di SOSTRATO (le lingue di sostrato per il latino
furono l’osco-umbro nell'Italia centromeridionale, il celtico nella Gallia e nella Pianura Padana, l'iberico e il celtiberico nella Penisola
Iberica), bisogna anche trattare il concetto di ADSTRATO, ad esempio il greco per il latino. Abbiamo infatti altri PRESTITI
LESSICALI, che possono arrivare a una lingua da altre lingue che vengono in contatto con essa in diversi momenti della sua storia.
Parliamo dunque di lingue in contatto o di adstrato. Il greco costituiva un modello culturale superiore per il latino, infatti non
possiamo parlare di sostrato o substrato per il greco, che non fu mai soppiantato dal latino, almeno nell'Impero d'oriente. I prestiti dal
greco al latino possono essere antichi (es. platea, piazza, petra, pietra /camera), mentre più recenti furono i prestiti che penetrarono
dal greco in latino dovuti all'avvento del cristianesimo e attraverso le traduzioni della Bibbia – la maggior parte di questi termini sono
entrati dal latino a far parte del patrimonio comune delle lingue romanze, infatti la loro sopravvivenza in italiano ne è la prova.

Parliamo ora del fenomeno del SUPERSTRATO. Il potere unificante del latino colto della classe dirigente romana era destinato a
venir meno con la perdita di coesione dell'impero e poi con la sua vera e propria disgregazione: dal III secolo l'Impero Romano fu
attraversato da crisi economiche e sociali sempre più gravi. Nel 326 COSTANTINO trasferì la capitale a Costantinopoli, attuale
Istambul, e alla morte dell'imperatore TEODOSIO, nel 395 d.C., l'impero è definitivamente diviso in due parti, ovvero Impero
d'occidente e Impero d'oriente. Dalla fine del IV e inizio del V secolo d.C. l'Impero d'occidente fu travolto dalle invasioni dei
germani e di altri popoli, come ad esempio gli unni. Ma i contatti tra romani e i numerosi popoli germanici erano stati precoci: dal I
secolo d.C. l'Impero Romano confinava con i germani lungo una linea che correva dall'alto Reno al Danubio; nei secoli III-IV d.C.
furono numerosi gli insediamenti pacifici di popolazioni germaniche all'interno dei confini dell'impero; dal III secolo in poi era
sempre più importante la massa di mercenari germanici arruolati nelle schiere dell'esercito romano. I movimenti di popoli che
avvennero dalla fine del IV e dall'inizio del V secolo d.C. portarono alla frammentazione dell'Impero in una serie di regni romano-
germanici, nei quali i germani erano numericamente una minoranza, tranne nel caso dei Franchi, nel nord della Gallia. Tuttavia,
queste popolazioni germaniche costituivano la classe militare e detenevano il potere. Nel 476 d.C. l'ultimo imperatore romano
d'occidente ROMOLO AUGUSTO fu deposto da Odoacre, re degli eruli, una popolazione germanica, e l'Impero d'occidente restò
privo di un'autorità centrale.

Tra il 488 e il 493 d.C. conquistarono l'Italia gli ostrogoti, guidati da Teodorico. Nel 486 d.C. i franchi conquistarono, con la
BATTAGLIA DI SOISSONS l'area tra la Somme e la Loira, e dai primi decenni del 500 dominavano quasi tutta l'antica Gallia. I
visigoti si erano spostati verso la Spagna e nel VI secolo si costituì il regno visigotico di Spagna, con centro a Toledo, che durerà sino
all'invasione degli arabi nel 711 d.C. In Italia, devastata dalla GUERRA GRECO-GOTICA del 568 d.C., i Longobardi
costituirono il loro regno nel nord con capitale a Pavia e a sud costituirono i Ducati di Spoleto e di Benevento. Le conquiste dei
germani portano a una fase di bilinguismo romano-germanico e, diversamente da quanto avvenuto nel rapporto tra il latino e le lingue
preromane, questa volta a prevalere non sono le lingue dei conquistatori, ma il latino. Le lingue germaniche si dicono dunque lingue
di superstrato, cioè lingue che si sono sovrapposte al latino, ma alla fine sono state anch’esse abbandonate a favore del latino. Il
latino dei romani sottomessi aveva un prestigio più antico e consolidato, che si appoggiava a una cultura scritta di lunga tradizione,
mentre la tradizionale cultura dei germani era fondata sull’oralità. Inoltre, il latino era la lingua della chiesa, l'unica struttura
internazionale che sopravvisse alla disgregazione dell'Impero e l'unica struttura tra che assicurò l'esistenza della scuola e, quindi,
poteva fornire personale per l'amministrazione politica. Dai rivolgimenti dovuti alle invasioni germaniche l'occidente emerse molto
mutato: non più un grande spazio aperto alla circolazione delle persone, delle merci, della cultura, ma un insieme frammentato in cui
l'orizzonte delle persone non era più l'area euromediterranea, nemmeno la grande diocesi civile del tardo Impero, ma veniva a
coincidere con la più ridotta regione o con il vescovato e, per i più potenti, con la dimensione del Regno barbarico. Un aspetto
importante indotto in parte dalle invasioni barbariche, ma anche dalle crisi interne, fu il declino dei centri urbani; infatti, la civiltà
dell'alto medioevo non era più una cittadina come nel mondo romano, ma una realtà rurale. Dalla grande crisi uscì in particolarmente
distrutto il sistema scolastico, che si ricostituì gradualmente nelle scuole ecclesiastiche. Venne meno la possibilità di un controllo
della lingua da parte di un singolo centro di prestigio e così la lingua di ogni area si evolse in modo indipendente.

Un'altra questione è se le lingue germaniche abbiano o meno contribuito alla diversificazione delle lingue romanze, non solo
favorendone la tendenza di ogni varietà romanza a svilupparsi in modo separato, ma anche influendo direttamente su questa
evoluzione. In questo non discutibile è l'influsso sul lessico di numerose parole germaniche, che passarono nel latino parlato nell'alto
medioevo e poi nelle lingue romanze. Il superstrato germanico incise profondamente sul lessico delle lingue romanze, con esclusione
del rumeno, su cui ha agito in misura più notevole il superstrato slavo. Le lingue germaniche più importanti per il lessico romanzo
furono: per la Francia settentrionale la lingua dei franchi, il francone; per l'Italia il gotico degli ostrogoti e successivamente il
longobardo; per la Francia meridionale, per la Spagna il gotico dei visigoti. È una questione complessa determinare se le parole
germaniche diffuse in molte lingue romanze siano entrate già nel latino-tardo parlato o se siano state diffuse da una lingua nelle altre,
o ancora se si tratti di prestiti paralleli. Il francone è la lingua germanica che ha avuto maggiore influenza sulle lingue romanze,
direttamente sul francese a partire dall'area anticamente occupata dai franchi (nordest della Francia e Belgio), e indirettamente sulle
altre lingue romanze, questo sia per la forza espansiva del Regno Franco, ma anche fino a tutto il XIII secolo per la centralità del
francese tra le lingue e le culture romanze.

Un effetto delle invasioni fu la caduta dell'Impero Romano d'occidente nel 476 d.C., che fece venire a mancare un centro linguistico
unitario come Roma e accelerò la frammentazione linguistica, gettando le basi per la nascita delle diverse lingue romanze moderne.
Ma le invasioni costituirono anche un momento di contatto tra popoli parlanti lingue diverse, originando così prestiti lessicali
provenienti da quella che tradizionalmente viene detta lingua di superstrato. Dunque, con superstrato, termine introdotto dal linguista
WALTER VON WARTBURG, si intendono i fenomeni di una lingua importata in un altro dominio linguistico, lingua che però
in seguito scompare o non costituisce l'idioma autoctono. L'Impero d'occidente fu interessato alle invasioni di popolazioni
germaniche a partire dal primo movimento dei vandali, degli svevi e degli alani nel 406 d.C., ma di fatto vi erano stati contatti tra
romani e popolazioni germaniche già in precedenza: diverse parole di origine germanica si trovano in tutte le lingue romanze e sono
entrate in latino prima della caduta dell'Impero, quando la Romania era ancora unita. Sono parole panromanze, cioè presenti in tutta
l'area romanza: saponem, un prodotto originariamente per sbiondire i capelli, da cui l'italiano sapone e il francese savon; di origine
germanica è anche blanc, da cui l'italiano bianco, il francese, l’occitano, il catalano blanc, lo spagnolo blanco, il portoghese branco,
mentre il rumeno conserva il latino albus; termini per indicare il colori, come brun, blund, gris; un calco come companio,
compagnionis, il “compagno”, che deriva dal latino cum + panis, ricalcato sul gotico ga + laiba, “colui con cui divido il pane”; tutte
le derivazioni da wuerra, termine per indicare la guerra, che ha sostituito il termine latino bellum, con l'eccezione della Romania,
dove il termine latino è stato invece sostituito dallo slavismo razboi.

La diffusione di molte voci germaniche in italiano e in altre lingue romanze può dipendere da un parallelismo di prestiti indipendenti,
ancora dei termini romanzi nelle varie lingue romanze possono essere frutto di una successiva radiazione ed estensione di un termine
derivante dal dominio Franco (es. il termine giardino). Ma se l'influenza di ostrogoti, visigoti, longobardi in Italia e visigoti nella
penisola iberica non fu importantissima, molto diverso è il caso dei franchi in Francia. Tra le lingue romanze è il francese che ha
risentito maggiormente della presenza dei germani. I prestiti lessicali dal franco sono molto numerosi e spesso si sono diffusi dal
francese alle altre lingue romanze, durante il periodo medievale o anche in seguito. Le adozioni francesi dal germanico non sono
limitate a voci militari (es. elmo, brando), ma comprendono termini relativi alla vita sociale, alla vita politica amministrativa e
giudiziaria. La amministrazione feudale contiene molti germanismi poiché furono i franchi a introdurre e consolidare questo sistema
politico del feudalesimo nell'Europa medievale (es. termini francesi come barone, maresciallo, siniscalco, feudo, ricompensa).
Abbiamo dei termini dell'agricoltura e dell'allevamento, del bestiame (es. giardino, bosco, mandria), termini legati alla vita
domestica e alle abitazioni (es. loggia, costruire, arrostire), o ancora germanismi legati a parti del corpo umano (es. fianco, anca,
schiena), ma anche termini legati alla vita morale e affettiva, il che ci dice della profondità dell' influsso germanico nella lingua
francese (es. ardito, baldo, ricco, laido, orgoglio, vergogna, scegliere, coraggioso).

Il prestito da questa lingua germanica, il francone, è stato capillare e molti di questi termini sono passati anche nelle altre lingue
romanze. L'italiano, l’occitanico e le lingue del gruppo iberoromanzo contengono anch’esse termini germanici passati direttamente
dalle lingue degli occupanti germanici di queste aree, oppure anche attraverso il francese, ma in numero molto minore rispetto
all'area della Francia. Si tratta il più delle volte di toponimi. Di provenienza longobarda, in italiano, vi sono termini come stinco,
schiena, guancia, zaino, federa, strofinare, scherzare, bussare. I lunghi contatti con le popolazioni slave hanno profondamente
influenzato il lessico rumeno, sia con termini colti dall'amministrazione, alla religione (la chiesa ortodossa deriva la sua terminologia
dall'antico slavo ecclesiastico), sia con molti termini popolari. Abbiamo infatti notato come la provincia rumena della Dacia fu
abbandonata dall'Imperatore Aureliano nel 271 d.C. poiché non era possibile difenderla contro i Goti e altri popoli germanici, ma
tuttavia il romeno non conserva parole sulla cui origine germanica ci sia un accordo tra gli studiosi a partire dal VI secolo d.C.,
quando comincia in quell'area l'insediamento dei popoli slavi. Come avvenne per le lingue germaniche in Italia e nella Romania
occidentale, così le lingue slave non hanno soppiantato il latino danubiano, che ha dato luogo nella sua evoluzione a una lingua
romanza, cioè il romeno. Però il superstrato slavo ha agito in condizioni molto diverse rispetto, per esempio, al superstato germanico
nell'area della Francia. Lo slavo divenne lingua della cultura scritta e della chiesa in quest'area dopo il greco, dunque, lo slavo
ecclesiastico ebbe una grande influenza. Nella sua formazione, nella sua evoluzione, per molti secoli il rumeno non si è appoggiato a
nessuna tradizione scritta latina ed è rimasto una lingua solamente parlata sino alle soglie del 500 (IL PRIMO DOCUMENTO
SCRITTO risale al 521). In conseguenza di questo il romeno è fortemente caratterizzato dal lessico di origine slava, sebbene il
latino prevalga nel lessico fondamentale, cioè nell'insieme delle parole che ricorrono con maggior frequenza negli enunciati, oltre che
nelle strutture grammaticali. Dunque, il rumeno è privo di germanismi di superstrato e abbiamo parole slave dove le altre lingue
romanze hanno parole germaniche. Queste parole di origine slava nel loro insieme sono in numero elevato e sono presenti nei più
diversi ambiti semantici, occupando un posto importante nel lessico romeno.

Un altro esempio di influsso di superstrato è rappresentato dell’arabo, soprattutto nella Penisola Iberica. Il lessico di origine araba è
infatti presente in maggior misura nelle lingue iberiche (circa 4000 parole). Dalle lingue iberiche questo influsso è passato poi, in
parte, alle altre lingue romanze, a cui è giunto però anche per altre vie, ad esempio dalla Sicilia e in genere dal Mediterraneo. Nei
prestiti iberici dall'arabo è perlopiù conservato l'articolo arabo a / al, per esempio possiamo vedere l'opposizione fra lo spagnolo
algodon e l'italiano cotone. Dunque, un'altra grande ondata di invasioni fu quella degli arabi nella Penisola Iberica, che sbarcarono
attraverso Gibilterra nel 711 e furono fermati nella loro avanzata verso occidente da CARLO MARTELLO, nel 732, nella
BATTAGLIA DI POITIERS, e tuttavia rimasero nella penisola iberica sino al 1492, quando cadde Granada, ultimo baluardo
degli arabi sul territorio dell'Europa occidentale. In questi quasi sette secoli di contatto e occupazione, è ovvio che le lingue
iberoromanze abbiano subito l'influenza dell'arabo, tanto più se consideriamo che all'epoca la cultura araba era una cultura nuova e
superiore rispetto a quella degli ispanogoti o ispanoromani. Questa cultura degli arabi ha esercitato una notevole attrazione attraverso
la cultura, l'arte, la religione e il modo di vivere islamici e in questo modo furono introdotte molte parole nel lessico, che designavano
cose o istituzioni nuove. I musulmani non imposero la loro lingua né la loro religione e la storia della Spagna musulmana, Andalus,
un concetto geografico elastico che si riduce con l'avanzata della reconquista cristiana. Dunque, gli arabismi nello spagnolo sono un
esempio di influsso di superstrato, si può dire che nonostante ogni possibile contrasto tra ispanoromani e arabi, in realtà la
compenetrazione culturale fu assai grande sin dal principio, e tuttavia l'eredità linguistica dell'arabo, proprio per l'enorme differenza
strutturale degli idiomi, si riduce praticamente a dei prestiti. Gli arabismi dello spagnolo sono per lo più dei termini che designano
degli oggetti concreti, dei realia, legati alla vita materiale, e manca quasi del tutto un lessico che si riferisca al mondo dei sentimenti o
a concetti astratti, con la notevole eccezione della ricca terminologia scientifica, che penetrò attraverso l'influsso arabo. Tra gli
esempi abbiamo: azafran, zafferano; algodon, cotone; azucal, zucchero; barrio, quartiere; aduana, dogana; almasen, magazzino;
darsena, darsena; tarifa, tariffa; quintal, quintale; azul, azzurro; alchimia, alchimia/chimica; zenit, zenit; nadir; algebra; algoritmo;
elisir; zero e cifra (questi ultimi due termini derivano dall’arabo zifr, che significava “vuoto”, usato dai matematico per indicare lo 0;
lo zero, inteso come cifra, è attestato per la prima volta in JACOPONE DA TODI, che usa l’espressione “stare per cifra” come
non contare nulla; LEONARDO FIBONACCI, nel Liber abaci, del 1202, traduce zifr arabo con zefirum, e quindi da zefirum
nasce in italiano il termine zero, che è passato poi nelle altre lingue romanze ed è attestato dal 1374); jazmin, gelsomino; limon,
limone; albaricoche, albicocca (in questo caso abbiamo un cosiddetto “cavallo di ritorno”, cioè un termine che penetra in una lingua
romanza, lo spagnolo, attraverso l'arabo, ma a partire da una parola latina, il punto di partenza è infatti precocus, che significa in
latino “primizia”; vediamo dunque che il termine passò all'arabo con l'aggiunta dell'articolo al, per giungere poi allo spagnolo
albaricoche e all'italiano albicocca).

È molto difficile stabilire gli effetti delle lingue di superstrato al di fuori del lessico, nella fonologia e nella morfologia o grammatica.
Per il francese è stato ad esempio ipotizzato che fosse dovuta a una massiccia presenza dei franchi la reintroduzione della iniziale
aspirata h, che appunto non si aveva più nell'evoluzione del latino. Oggi non è più aspirata, ma ne rimane il ricordo nella cosiddetta
mancanza, della liason, cioè dell'unione di alcuni termini con l'articolo al plurale (es. per homme derivato dal latino hominem,
abbiamo l'unione con l'articolo e il plurale si pronuncerà “gli uomini”, les hommes). Per un influsso nella fonetica del francone sul
francese si è pensato a un influsso dal forte accento d'intensità germanico nella dittongazione francese di e ed o chiuse, oltre che di e
e di o aperte, come avviene invece in italiano.

Dovuto ad un influsso del forte accento di intensità della lingua germanica è anche il passaggio in francese di a tonica ad e (es.
marem > mer fr.). È stato attribuito da alcuni al superstrato germanico un tratto della morfologia francese come l'introduzione
dell'espressione impersonale con on, derivante da homo, uomo, che sarebbe stato ricalcato sul modello del germanico. In spagnolo si
è attribuito all'influsso arabo l'aver reintrodotto nella lingua spagnola un certo numero di parole sdrucciole, proprio perché queste
parole erano presenti nella lingua araba quando la normale evoluzione fonetica delle parole latine-spagnolo tendeva solitamente verso
parole piane. All'influsso del superstrato slavo sul rumeno si deve il fatto che il sistema consonantico romeno è più ricco, delle altre
lingue romanze, di nessi consonantici. Un altro tratto fonetico che viene attribuito in rumeno al superstato slavo è la reintroduzione
del suono aspirato h, presente nelle lingue slave. Sul piano invece della grammatica, morfologico, è stato attribuito all'influsso slavo
sul romeno una buona tenuta dei casi grammaticali, infatti i casi grammaticali erano presenti nelle lingue slave. I casi vengono infatti
parzialmente mantenuti in romeno, che ha delle desinenze distinte per il caso del nominativo e per il genitivo-dativo (es. lupul, il
lupo e lupului, del/al lupo, così come anche al plurale lupii, i lupi e lupilor, dei lupi/ai lupi). Ancora attribuito al superstrato slavo nel
romeno è il fatto di avere L'ARTICOLO POSPOSTO, cioè posto dopo il sostantivo (es. lup corrisponde a “lupo”; lupul a “il
lupo”).

Possiamo considerare altri apporti di lingue al lessico delle lingue romanze, e questo naturalmente anche in età più recente: si va dal
medioevo in cui fu importante l'apporto del francese, per il suo prestigio culturale, quindi durante il Rinascimento abbiamo un forte
apporto alle altre lingue romanze dell'italiano, e in tempi a noi più vicini abbiamo diversi prestiti dall'angloamericano. Alcuni prestiti
sono a volte un fenomeno di moda linguistica e si assestano poi nella lingua in quantità minore rispetto all'ondata iniziale,
un'eccezione è costituita ancora dal romeno, che durante l’800 rilatinizzò il suo lessico attraverso massicci prestiti. Quindi abbiamo
visto come la base comune del lessico delle lingue romanze sia costituita dal lessico del latino parlato e scritto prima della
frammentazione dell'impero, ma di questo lessico solo una parte è sopravvissuta (es. verbo latino habere per “avere”). Diverse lingue
hanno un verbo ausiliare e la diversità delle lingue si vede nei modi diversi in cui ognuna lo usa. Un'altro caso di continuità lessicale
e innovazione nell'uso è ancora il verbo latino crescere, intransitivo, equivalente a “diventare più grande”; in spagnolo, catalano
antico, ocittanico, francese, sardo, italiano, romeno è invece transitivo: accrescere, con un uso che in latino è attestato solo a partire
dal IX secolo d.C.

Numerose parole latine sono cadute dall'uso parlato e non si sono continuate nelle lingue romanze (es. loqui o equs), ma in generale
tendono a cadere nel passaggio dal latino alle lingue romanze le forme deboli foneticamente o poco espressive o ancora forme con
problemi di sovrapposizione con altre forme, (es. il verbo edere, mangiare, di cui erano comuni forme contratte come est, egli
mangia, simile a est da esse, egli è). In numerosi verbi latini si è anche conservato il derivato frequentativo, che esprimeva l'azione
con maggior forza o con il senso della ripetizione (es. il latino canere per cantare è caduto in favore di cantare da cui il portoghese,
lo spagnolo, il catalano, il provenzale cantar, il francese chanter, il sardo cantare e l'italiano cantare; il termine latino iacere che
significava lanciare, è caduto a favore del frequentativo iactare da cui dalla variante iectare, lo spagnolo echar, il catalano gitar, il
provenzale gitar, il francese geter, l'italiano gettare). Ancora caratteristico è il RAFFORZAMENTO di avverbi, preposizioni,
pronomi e aggettivi dimostrativi, che crea delle forme nuove nelle lingue romanze, ad esempio ab, che significa in latino “da”, viene
rafforzato in de ab e continua nell’italiano da, così ante, che in latino significa “davanti” / “prima”, viene rafforzato in ab ante da cui
l'italiano avanti. Un'altra forma di rinnovamento del lessico è la SOSTITUZIONE DI PAROLE con derivati di tipo affettivo,
come i diminutivi (es. auris, “orecchio” in latino, è sostituito da auricola e oricola, genu, “ginocchio” e sostituito da genuculum).

Le vocali atone si riducono più che non le vocali toniche, sicché si passa dalle dieci vocali alle cinque o
anche meno.
- romanzo occidentale
- sardo
- balcanoromanzo
- siciliano
Vi è però una tendenza a ridurre tutte le atone posteriori a /u/, presente non solo nel romeno e nel
siciliano, ma anche in molti dialetti italiani ad eccezione del toscano, non che in portoghese,
catalano e in spagnolo. Al contrario il francese tende spesso a ridurre tutte le vocali atone posteriori
a /o/.
se le vocali in posizione iniziale si mantengono abbastanza bene, essendo sulla sillaba iniziale più
resistente nella parola, le atone nelle altre posizioni si indeboliscono e sono poi oggetto di tutta una
serie di riduzioni e assimilazioni
Tra questi cambiamenti i più importanti: la sincope e la riduzione delle vocali in iato.
la SINCOPE, ovvero la caduta di una vocale interna, è un cambio che modifica la struttura della
parole, facendole perdere una sillaba. Si tratta normalmente della vocale immediatamente pre o post
tonica, che cade a causa dell'aumentata intensità dell'accento tonico. Da notare che la sincope è più
frequente a ovest che a est; l'italiano e il rumeno tendono a conservare molte più parole parossitone
che non lo spagnolo e ovviamente il francese, lingua marcatamente ossitona.
la riduzione delle VOCALI IN IATO implica anch'essa la perdita di una sillaba nella parola. Per
vocali in iato si intendono gli incontri di vocali, all'interno di parola, che costituiscano due sillabe
successive senza essere separate da una consonante. Quando le vocali sono di timbro simile,
vengono ridotte per lo più a un solo elemento:
parìetem>pariètem>it parete, fr paroi, sp pared
dùodecim>duòdecim>it dodici, fr donze, sp doce
Quando le vocali sono troppo diverse, il primo elemento diventa una semivocale
le vocali atone sono anche oggetto dell'influenza di quelle toniche, si possono avvicinare o
allontanare da esse per quanto riguarda il punto di articolazione (in questo caso si parla di
assimilazione o di dissimilazione).
Le vocali atone si riducono più che non le vocali toniche, sicchè si passa dalle dieci vocali alle cinque o
anche meno.
- romanzo occidentale
- sardo
- balcanoromanzo
- siciliano
Vi è però una tendenza a ridurre tutte le atone posteriori a /u/, presente non solo nel romeno e nel
siciliano, ma anche in molti dialetti italiani ad eccezione del toscano, non che in portoghese,
catalano e in spagnolo. Al contrario il francese tende spesso a ridurre tutte le vocali atone posteriori
a /o/.
se le vocali in posizione iniziale si mantengono abbastanza bene, essendo sulla sillaba iniziale più
resistente nella parola, le atone nelle altre posizioni si indeboliscono e sono poi oggetto di tutta una
serie di riduzioni e assimilazioni
Tra questi cambiamenti i più importanti: la sincope e la riduzione delle vocali in iato.
la SINCOPE, ovvero la caduta di una vocale interna, è un cambio che modifica la struttura della
parole, facendole perdere una sillaba. Si tratta normalmente della vocale immediatamente pre o post
tonica, che cade a causa dell'aumentata intensità dell'accento tonico. Da notare che la sincope è più
frequente a ovest che a est; l'italiano e il rumeno tendono a conservare molte più parole parossitone
che non lo spagnolo e ovviamente il francese, lingua marcatamente ossitona.
la riduzione delle VOCALI IN IATO implica anch'essa la perdita di una sillaba nella parola. Per
vocali in iato si intendono gli incontri di vocali, all'interno di parola, che costituiscano due sillabe
successive senza essere separate da una consonante. Quando le vocali sono di timbro simile,
vengono ridotte per lo più a un solo elemento:
parìetem>pariètem>it parete, fr paroi, sp pared
dùodecim>duòdecim>it dodici, fr donze, sp doce
Quando le vocali sono troppo diverse, il primo elemento diventa una semivocale
le vocali atone sono anche oggetto dell'influenza di quelle toniche, si possono avvicinare o
allontanare da esse per quanto riguarda il punto di articolazione (in questo caso si parla di
assimilazione o di dissimilazione).

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