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Nel corso degli ultimi quattro anni della sua vita, tra il 1925 e il 1928, Arturo Onofri si
dedica al ciclo lirico della Terrestrità del sole, che rappresenta il canto del cigno
dell’Autore (pubblicato perlopiù postumo). Esso è composto da cinque vaste sillogi
(Terrestrità del sole, Vincere il drago!, Zolla ritorna cosmo, Suoni del gral, Aprirsi fiore),
nate con l’intento di realizzare quanto egli aveva espresso, da un punto di vista teorico,
nel Nuovo Rinascimento come arte dell’Io, un saggio poetico pubblicato nel 1925 in cui
si afferma che «L’arte è uno strumento di auto-rivelazione spirituale»; la poesia, in
particolare, è «un arrivare a toccare con la magia delle parole l’essenza dell’universo
invisibile, un comunicarsi col mistero divino, un partecipare, per amore parlante, all’atto
originario del Verbo creatore». Ci si ricollega in tal modo a quelle antichissime intuizioni
che vedono nella Parola il principio creatore originario, come nel concetto greco del
Logos, nella Qabalah ebraica e, prima ancora, nella mistica vedica e vedantica (e, in
seguito, in quella tantrica).
E, proprio come nelle antiche concezioni, l’atteggiamento che ne deriva è marcatamente
spirituale. Il percorso iniziatico che il ciclo poetico onofriano illustra si snoda attraverso
la consapevolezza della volontaria autolimitazione dell’essere e nella presa di coscienza
del nostro vero essere — perciò, anzitutto, la cosiddetta ‘caduta’ dell’anima non è un
errore, ma una conseguenza necessaria in vista di una rinascita e di una nuova e più ampia
integrazione.
In vista di tale meta, occorre anzitutto liberarsi dall’illusione di credersi separati dal tutto,
dimentichi della propria vera origine. Ed è proprio su queste premesse che si fonda la
silloge Terrestrità del sole (pubblicata nel 1927 e composta tra il 26 gennaio 1925 e il 4
gennaio 1926), la quale segna la prima tappa di questo cammino iniziatico. Riportiamo, a
titolo di esempio, il sonetto CXXVI.
È a questo punto che si perviene, per Onofri, alla mutazione alchemica in cui,
evidentemente, il ciclo graaliano rappresenta un simbolico percorso di iniziazione. Suoni
del gral (pubblicata nel 1932 e scritto tra il 1° ottobre e l’8 aprile 1928) rappresenta in
modo del tutto consequenziale la quarta tappa del processo poetico e interiore dell’Autore,
di cui riportiamo il sonetto XII.
Il dolcissimo viso della Grazia,
che si promise in sillabe di canto
al mio cercarla in tenebre soltanto,
apre al mio sonno i cieli ov’ella spazia.
La lirica appena riportata, è tratta dalla raccolta Simili a melodie rapprese in mondo, che
Arturo Onofri considerava un tutt’uno con Aprirsi fiore.
La poesia italiana del futuro ha probabilmente parecchio da imparare dalla lezione
onofriana — dai compimenti raggiunti, come pure dai suoi fallimenti. Ciò che
maggiormente sorprende, in lui, è l’incapacità di applicare le proprie indubbie doti di
critico nei confronti della sua stessa produzione poetica. Nel suo già citato Nuovo
rinascimento come arte dell’Io, leggiamo ad esempio: «Risultato tipico è il sovrabbondare
della materia verbale in rapporto all’essenza, allo spirito dell’espressione, e in cento
pagine si trova diluito ciò che avrebbe avuto la sua giusta manifestazione forse in dieci o
in cinque potenti tratti verbali. […] Il grosso corpo verbale schiaccia e soffoca il tenue
spirito espressivo che avrebbe voluto manifestarsi». Onofri si riferisce qui alla poesia priva
di vera ispirazione spirituale, ma le sue parole si attagliano con estrema efficacia alla sua
pur interessantissima opera poetica.
Non si avverte, inoltre, un vero crescendo di esperienze spirituali, percorrendo per intero
il tragitto delle cinque raccolte (d’altronde, realizzare nel breve spazio di tre anni una tale
opera alchemica, sarebbe difficilmente possibile perfino ai più grandi personaggi spirituali
che l’umanità ha conosciuto!). Le stesse premesse, condensate in modo efficace dal titolo
del ciclo — terrestrità del sole —, a rappresentare una avvenuta integrazione tra cielo e
terra, viene tradito in nome di una trascendenza, seppure mai esclusivamente
extracosmica, e in una fede troppo vaga in un possibile riscatto terrestre.
Infine, Arturo Onofri sembra non essere mai riuscito a superare, nella propria ispirazione,
quella ‘mente illuminata’ che Sri Aurobindo indicava come il secondo (partendo dal
basso) dei quattro gradi di ispirazione giungente dall’alto (mente superiore, mente
illuminata, intuizione, surmentale), da quella vetta mantrica dalla quale proviene il sommo
Logos. Il dominio più consueto, nella poesia onofriana, è la mente superiore, con qualche
splendida incursione nella mente illuminata. Nelle sue poesie ci si imbatte talvolta in versi
di grande forza ed efficacia, subito soffocate da un ammasso verbale di fattura mentale e
vitale. Particolarmente riusciti gli attacchi onofriani, il cui prosieguo, purtroppo, non
sempre riesce a mantenere l’altezza. Qualche esempio (noi diamo l’incipit, lasciando al
lettore il compito di andarsi a leggere come il prosieguo si sviluppa o, meglio, si stempera)
—
L’impressione globale che ne risulta, pare essere quella di un artista che non inizia mai a
poetare senza sentire in sé la presenza delle Muse, ma subito dopo le abbandona per
avviticchiarsi attorno al chiacchiericcio metafisico della sua mente pensante. E tuttavia ci
sono liriche, come il sonetto XLIX di Aprirsi fiore, che si snoda in modo non del tutto
convincente, per poi concludersi con una splendida terzina:
Aprile 2004