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È 

lo stesso Paul Valery a specificare come ad ogni componimento poetico non possa
corrispondere un solo significato autentico, «vero, unico, conforme o identico a qualche
pensiero del poeta. In poesia non si tratta per nulla di trasmettere a qualcuno qualcosa di
intelligibile che passi nella mente d’un altro, ma di determinare nel primo uno stato di cui
l’espressione sia precisamente e particolarmente quella che glielo comunica. Qualunque
sia l’immagine o l’emozione che si forma nell’appassionato di poesia, essa vale e basta se
in lui genera questo reciproco rapporto tra la parola-causa e la parola-effetto».[1]
I seguenti versi di Valery sono irradianti di quel mondo simbolico e surreale che
caratterizza il suo animo poetico. Il quadro lirico è uno dei preferiti del poeta, quello
notturno: la luna illumina e segna l’ombra di qualcuno non ben definito, sui gradini, in
attesa. È proprio l’incertezza riguardo le possibili azioni umane a creare un’ aura surreale
alla traslatio poetica. L’Ombra attende qualcuno? È la descrizione lieve di un evento
probabile o imprevisto, o semplicemente il momento in cui qualcuno  contempla lo
scenario lunare? Attraverso un’aggettivazione curata (esile luna, sacro lume lieve argento,
iridata trina, setosi cigni, carene lucenti, sfoglia infinita) il poeta ci fa entrare nel proprio
immaginario paesaggistico lirico. Di notte si staglia la lucentezza dei cigni che vagano per
il canneto provocando, volontariamente, movimenti concentrici all’acqua. Ecco quindi il
poeta rivolgersi a qualcuno.
La doppia invocazione  tu, tu vivi?Deserto di gaudio estasiato ci rinvia al quesito su quale
possa essere il destinatario: il cigno di cui parla Valery? A chi appartiene il debole
palpito che muore della smaltata acqua… consumando l’erma soglia degli echi di
cristallo….? Forse una donna, un uomo in attesa del proprio o della propria amata. Gli
attimi, i fremiti, gli inizi, i turbamenti, le emozioni, le relazioni trovano uno spazio simbolico,
affascinante, profondamente vissuto o solo immaginato, nello spazio notturno, soprattutto
quando è la luna a testimoniare gli eventi, a illuminarli in parte, a nasconderli tra i canneti,
tra le paludi del cuore e gli echi di cristallo.
Come un diamante fatale, la luna attrae e allontana, avvicina o cela, testimonia o incrina.
Proprio come nelle favole.

Fantasia

L’esile luna versa un sacro lume


tutto un velo tessuto, lieve argento,
sui gradini di marmo, dove l’Ombra
viene a sognare, e l’iridata trina
d’una biga di perla l’accompagna.

Per i setosi cigni che il canneto


sfiorano con le penne di carene
quasi lucenti essa sfoglia infinita
una rosa, i cui petali di neve
fanno cerchi sull’acque. E tu, tu vivi?
O deserto di gaudio estasiato
dove il debole palpito muore
 della smaltata acqua, consumando
l’erma soglia degli echi di cristallo…

Di molle rose, la confusa carne


a fremere comincia, se d’un grido
il diamante fatale con un filo
di luce la sua immensa
favola incrina.

Qualche critico ha parlato di illegibilità delle poesie di Valery. Più che illegibilità parlerei di
difficoltà interpretative rispetto al nucleo centrale della poesia stessa. I versi aprono a
molteplici possibilità di analisi. Il percorso di formazione di Valery giunge a riflessioni e a
suggestioni filosofiche, estetiche, religiose, antropologiche e ad un ricercato simbolismo.
La dimensione del sogno, la visione interiore, l’immaginazione ambigua rappresentano
solo alcune delle modalità simboliche a cui approda il poeta.  
Nei versi seguenti l’autore mette al centro l’immagine del contrasto tra anima e corpo, tra
carne sovrana, profonda traditrice dell’animo e l’ essere indifeso. Nessuna costrizione e
nessun demone plagiano il comportamento del protagonista/o che si rende però colpevole
di offesa ad un  Dio. Si avverte un’inquietudine affettivo-spirituale che aspira da un lato ad
eliminare una parte soprannaturale divina per poi invece “recuperarla in maniera pura e
scevra da contaminazioni”.
Anche in questo quadro surreale tutto accade nell’ombra. Il protagonista/o convive con i
propri desideri, i sogni si mescolano a tratti reali, il candore ardente accarezza i pensieri,
l’immagine sensuale del desiderio fisico si amplia e poi si ferma a causa dei confini
prematuri e casti che contrastano con il periglio di braccia a un collo d’uomo.
Chi tra le braccia di costui/ei si dona? chi fugge e chi s’immelma?
Rimangono gli ampi sospiri che equivalgono ai desideri.
Su tutto domina l’immagine spirituale affettiva del Cigno-Dio

Ieri la carne, ieri la sovrana


e la profonda carne m’ha tradito;
ma senza una lusinga, senza sogno.
Nessun effluvio né demone m’offerse
il periglio di braccia a un collo d’uomo
morenti immaginarie; né dal Cigno-Dio
di piume offeso il suo candore ardente
mi sfiorava il pensiero.

                                            E quale nido


            tenerissimo avrebbe conosciuto,
se tutta incline alle mie membra unite
un’offerta adorabile inviolata
io fui nell’ombra. Ma il sonno si prese
di sì grande dolcezza, che annodata
a me stessa nel vano dei capelli,
il mio nervoso impero mollemente
ho perduto. Frammezzo alle mie braccia
un’altra mi son fatta…Chi si dona?
Chi fugge? Chi s’immelma? A quale occulta
piega il mio cuore si fuse? Qual conca
ripete il nome che ho perduto? E so
qual perfido riflusso mi distolse
dai miei confini prematuri e casti
e mi riprese il senso del mio ampio
sospiro? Come posa
l’uccello, e m’assopii.[2]
In questi versi l’autore ricerca corrispondenze e analogie personificate tra gli stati
emozionali vissuti e i quadri paesaggistici, tra i fenomeni naturali e gli eventi che spesso
hanno a che fare con l’ambiguità delle relazioni. Costante rimane in Valery il tentativo di
discontinuità dei segni tipici del linguaggio poetico. I versi lirici sono intrisi di significati
allusivi,  che partono dall’anima del poeta: tra anima e danza l’autore delinea un
susseguirsi di immagini metaforiche  ed espressive, in cui è possibile anche
l’interpretazione figurale.  

Paul Valéry. Il mare, il mare sempre


rinascente!
Un verso

Antonio Prete

Quale verso delle ventiquattro sestine che compongono il Cimitero marino di Paul Valéry
può raccogliere nel suo specchio i riflessi che vengono dagli altri versi? La configurazione
formale, ritmica, immaginativa e teoretica del testo poetico ha tale rigorosa e necessaria e
impeccabile tessitura che separare un verso dagli altri versi può mandare in frantumi
l’intero mirabile edificio. E tuttavia questo verso della prima sestina – La mer, la mer
toujours recommencée – può fare se non altro da avvio ad una breve riflessione che
accompagni lo scorrere del poème:, il quale ha esattamente cento anni (uscì nella prima
versione sulla “Nouvelle Revue Française” nel giugno del 1920). Perché in questo verso il
mare mostra, nel suono della ripetizione, il movimento dell’onda, e allo stesso tempo il suo
doppio legame con un tempo fuori del tempo (toujours, sempre) e con un ritorno senza
fine (recommencée), un ritorno che è rinascita, partecipazione a una creazione che sempre
ricomincia.
Il mare, dunque, e lo sguardo sulla sua superficie, sul suo movimento, sulla sua bellezza,
che dischiude la meditazione su quel che più conta, come l’essere, l’apparenza, il divenire,
il già stato, la morte, la rinascita, e questo nella musica del verso. Contemplazione non da
una riva, ma dal piccolo promontorio su cui sorge un cimitero che un tempo ospitava le
tombe di marinai e di pellegrini. Contemplazione che, imitando l’onda marina, istituisce un
andirivieni tra il vedere e il pensare, tra lo stupore dinanzi alla bellezza luminosa
dell’apparire e l’interrogazione intorno al proprio stare – nella quiete e nell’ardimento, nel
dubbio e nell’attesa – dentro un tumulto che è vita: vita consumata, scintillio di vita, vita
dinanzi alla morte, morte nella vita. Ma ecco la prima sestina, dov’è incastonato il verso,
seguita da una mia traduzione: 
 
Ce toit tranquille, où marchent des colombes,
Entre le pins palpite, entre les tombes;
Midi le juste y compose de feux
La mer, la mer, toujours recommencée!
O récompense après une pensée
Qu’un long regard sur le calme des dieux!
 
Un tetto calmo corso da colombe
palpita in mezzo ai pini e tra le tombe.
Meriggio il giusto coi suoi fuochi acquieta
il mare, il mare sempre rinascente!
Dopo un pensiero, che dono lucente
guardare a lungo degli dei la quiete!
 
La seconda sestina inaugura un’alternanza – che rimbalza lungo tutto il testo – tra la
visione del mare, delle sue metamorfosi, della sua luce (“Un puro assiduo folgorio consuma
/diamanti di minutissima schiuma”) e le trasvalutazioni d’ordine concettuale (“scintilla il
Tempo, e il Sogno è sapere”). 
Un “monologo del mio io”, dirà Valéry del suo Cimitero marino. Un monologo nel quale
prendono suono e forma i temi della sua vita “affettiva e mentale” – questa l’espressione
che usa il poeta – così come sin dall’adolescenza si erano definiti, ovvero in una relazione
fortissima con il mare e con la luce mediterranea. 
 
Rievocando, molti anni dopo, la composizione, Valéry dirà che il primo movimento verso la
scrittura poetica era nato da una sensazione puramente ritmica, vuota di senso, riempita di
sillabe vane, che era diventata per un certo periodo un’ossessione: insomma, una frase
musicale che s’insedia nella mente, priva di parole, ma che cerca di fissarsi nella misura
metrica del decasillabo (il decasyllabe francese, un verso non consueto per la grande
tradizione lirica). Allo stesso tempo quella misura, mentre risuonava, mostrava su di sé
l’ombra del dodici, il numero sillabico dell’alessandrino, con la sua “potenza”, e a quella
soglia tendeva e da essa si ritraeva (per questo la metà del dodici, la sestina, diventa la
strofe della composizione, e il doppio del dodici, ventiquattro, diventa l’insieme delle
strofe). Per un poeta come Valéry sostare, metricamente, al di qua del dodici significa non
cadere nell’eloquenza teatrale dell’alessandrino (l’alessandrino, “il nostro esametro”,
diceva Mallarmé); per contro, attivare le sonorità del decasillabo con una mobilità di
cesure interne significa guardare all’endecasillabo dantesco, al suo grande esempio di
vitalità ritmico-sonora e di modulazione ragionativa e contemplativa insieme. È singolare
come questa sorta di ispirazione meramente sonora faccia germinare i movimenti del
pensiero, e offra ad essi una dimora musicale.
 
Accade insomma che la forma metrica, una volta visitata dall’idea, incontra la singolarità
vivente e rammemorante e meditante del poeta, la sua storia personale: di ricerca
interiore, di formazione dello sguardo, di interrogazione sul nesso vita e morte. Un
esercizio metrico si svolge come pensiero poetico. Per questo Oreste Macrì, che nel 1947
diede una traduzione italiana del famoso testo poetico di Valéry, accompagnata da un fitto
e coltissimo corredo esegetico, intitolò il suo saggio introduttivo Metrica e metafisica nel
“Cimetière marin”. 
 

Opera di Andrew Wyeth.

Quanto alla mia esperienza, ho tradotto Le Cimetière marin dopo che avevo a lungo
indugiato nella poesia di Valéry – dai Frammenti di Narciso alla Giovane Parca – e nelle
prose, nei dialoghi, nei trattati, e soprattutto in quel meraviglioso Zibaldone novecentesco
che sono i Cahiers, un quotidiano corpo a corpo con il sapere di tutte le arti, del linguaggio,
delle scienze umane, fisiche e naturali. Avevo a lungo rinviato la traduzione di un testo la
cui perfezione formale non poteva che disperdersi e spegnersi, o almeno attenuarsi, una
volta traslata in un’altra lingua (anche se molti, e talvolta riusciti, erano gli esempi di poeti
italiani che si erano applicati all’impresa). Ma quando mi accadde, sulla metà degli anni
Novanta, di sostare per la prima volta a Sète, e salire tra le pietre del Cimétiere marin, in
una luce mattutina abbagliante, i versi del poeta mi apparvero con una loro prossimità,
come se da quel luogo le immagini abbandonassero la severa dimora del decasillabo
francese e si distendessero, con semplicità, diventati parola della luce, pensiero del visibile,
intimamente legati alle linee del paesaggio in cui erano nati, da cui erano nati (sarei
tornato diverse altre volte sul bel porto di Sète, nei vari soggiorni d’insegnamento a
Montpellier e di seminari tenuti in quella Università, appunto detta la Paul Valéry). Fu
allora che decisi di avventurarmi nella traduzione. Le pagine di Ispirazioni mediterranee,
in cui il poeta, rievocando la sua infanzia marina e portuale, riflette sulle figure di un
pensiero meridiano, mi sembrava potessero accompagnare l’atto del tradurre. E tuttavia,
come qualche volta accade, sulla prima traduzione sono tornato, dopo alcuni anni, con
l’assillo del repentir, della revisione e riscrittura, giungendo infine a una nuova versione.
Ogni traduzione poetica è solo una sosta lungo il cammino verso un’impossibile traduzione
compiuta.
 
Torniamo ai versi di Valéry. Per il quale la poesia è suono del pensiero, musica del
pensiero: questa è l’eredità mediterranea che il poeta sentiva di dover consegnare alla
scrittura. Quanto al verso, esso nasceva nel corso di un raro, preziosissimo stato di grazia,
una sorta di inatteso dono che insieme interrompeva e raccoglieva il tempo continuo,
quotidiano, del ricercar meditando. 
I versi del Cimitero marino, di sestina in sestina, rimodulano, nella tensione del
suonosenso, e con la matericità di immagini corporee, le grandi domande sul tempo,
anzitutto, ma anche sull’apparenza, sull’assoluto, sulla caducità, sulla mortalità, sul nulla, e
questo attraverso la costruzione di figure corporee, attraverso il trionfo del visibile. E tra il
bianco marmoreo delle tombe e lo scintillio della distesa marina trascorrono pensieri
d’amore e di consunzione, il desiderio e il dolore mostrandosi come lingua propria
dell’umano, come l’attesa e il sogno. Sullo sfondo, Lucrezio, Agostino, Pascal. Ma la
curvatura del pensare che tra l’addensarsi di immagini rivela il suo nitido profilo è
la necessità dell’ombra, l’accettazione della condizione umana, della distanza dall’assoluto,
dal principio, l’invito a “rentrer dans le jeu”, rientrare nel giuoco, che è giuoco di vita e
morte insieme, rimettersi in giuoco, e intanto opporre al fascino dell’astrazione la
vibrazione dei corpi, al richiamo dell’oltre il qui tumultuante dell’esistenza, al gelo della
cancellazione l’onda – appunto l’onda – del desiderio. A un certo punto appare, nella XXI
sestina, il greco Zenone, col suo paradosso: “Zenone, crudo Zenone Eleata, / m’hai trafitto
con questa freccia alata / che vibra e vola ed è priva di moto”. Dirà poi Valéry che
introdusse l’argomento di Zenone per indicare, nel discorso sul tempo, la ribellione contro
la durata, ma anche per una ragione compositiva, cioè per compensare con una tonalità
filosofica il sensuale e “troppo umano” delle strofe precedenti. Ma ecco, in versione italiana
le ultime due sestine, in cui si rompe definitivamente la “forma astratta”, la rinuncia
all’assoluto è dichiarata, il corpo e la vita gridano il loro essere nel movimento del
desiderio, all’unisono con l’energia metamorfica e scintillante del mare:
 
XXIII
Sì, mare immenso di folli scintille,
pelle di pardo, mantello che mille
e mille idoli del sole scompigliano,
sciolta idra che del tuo azzurro corpo ardi,
e la coda splendente ti rimordi
nel tumulto che al silenzio somiglia, 
 
XXIV
si leva il vento! S’affronti la vita!
Squaderna il libro quest’aria infinita,
franta esce l’onda da rupestri stele!
Volate via, mie pagine abbagliate!
Rompete, onde, con acque rallietate,
quel tetto quieto morso dalle vele.
 
Lo sguardo torna sul mare, sul suo azzurro corpo vivente. Il tono è in levare, la severità
della dizione poetica si apre al canto, il poemetto accoglie i timbri dell’ode, la solennità
dell’alessandrino tenuta a distanza con il decasillabo riprende ora il suo campo, la “forme
pensive”, l’astrazione, si lascia scuotere dal vento della vita. Il pensiero è invaso dalla luce,
dall’aria, dall’infinito dell’aria. E il tetto d’acqua, l’azzurra superficie su cui il primo
sguardo scorgeva colombe-onde, riappare con il suo movimento, percorso ora da vele,
mordicchiato dal loro beccheggiare. La prima e l’ultima immagine si ricongiungono: il
mare sempre ricomincia, nella luce del rinascere che dialoga con l’altra luce, quella che, in
alto, tra le tombe del “cimetière marin” fruga interrogativa nelle pieghe del tempo, tra le
ceneri di quel che è stato.
 

Gelido vertice della poesia


 –di Alfonso Berardinelli 
 

 26 giugno 2016
Monsieur Valéry. Paul Valéry

Nella vicenda quasi bisecolare della poesia moderna, il caso di Paul Valéry (1871-
1945) occupa un posto privilegiato per il suo ascetico estremismo speculativo. In
nessuno come in lui la riflessione sulla forma poetica e sulle sue condizioni di
esistenza ha raggiunto una tale rarefatta intensità. Questo maestro della “poesia
pura” era un nemico della poesia. Ne mise in discussione le ragioni intellettuali
con un tale nichilistico rigore da voler sperimentare di persona la sua sparizione.

Ho detto che la vicenda storica della poesia moderna ha avuto una durata quasi
bisecolare. Nata tra fine del Settecento e primo Ottocento con Novalis e
Coleridge; affermatasi con la teorizzazione della forma breve e concentrata di
Leopardi e di Edgar Poe; culminata a metà Ottocento nei due modelli
antagonistici di Baudelaire e Whitman; spinta ai limiti estremi delle sue
possibilità già con Emily Dickinson e con gli esperimenti divergenti e
concomitanti di Mallarmé e Rimbaud, oltre i quali sembrò che fosse impossibile
andare – la poesia moderna trionfa e si esaurisce nei primi due, tre decenni del
Novecento con Yeats e Eliot, Rilke e Benn, Valéry e i surrealisti, Blok,
Mandel’stam e Cvetaeva, Jiménez e Lorca, Ungaretti e Montale… Questi gli
autori più tipici e più criticamente esibiti, i maestri indiscussi e più studiati. Tutti
esempi di quella fisiologica coincidenza di poesia e teoria della poesia che ha
fatto dei poeti moderni non solo gli inventori di un genere letterario nuovo e a sé
stante, ma i protagonisti più consapevoli, accanto a scienziati e filosofi, della più
recente storia intellettuale europea. Senza la riflessione di questi poeti, l’estetica,
la teoria letteraria, la filosofia del linguaggio, l’analisi dei processi mentali della
creazione e la stessa critica sociale sarebbero state più povere e meno suggestive.

Quasi sempre, inoltre, il poeta moderno è stato un anarchico antisociale, un


critico della razionalizzazione organizzativa delle società moderne. Anche in
autori che sfuggono alla tipologia della “lirica moderna” come Antonio Machado
e Umberto Saba, formalmente conservatori e tradizionalisti, la vocazione
riflessiva ha generato opere saggistiche e aforistiche come Juan de
Mairena e Scorciatoie e raccontini.

Già con gli anni trenta e quaranta del secolo scorso si annuncia una svolta: una
postmodernità che implica un ritorno manieristico o neoclassico a forme
premoderne. Poeti “filosofi”, intellettualmente e politicamente impegnati, sono
ancora Brecht, Auden e Octavio Paz, Enzensberger e Pasolini. Ma il baricentro
dei loro interessi ormai non è più la costruzione del linguaggio poetico e la
filosofia di una forma così programmaticamente innovativa da evitare, fino al
limite della provocazione e del silenzio, ogni compromesso con la lingua d’uso. Il
loro è uno sperimentalismo diverso che fa esperimenti con forme
prevalentemente tradizionali e comunicative. In questo senso la postmodernità e
quasi sempre antimoderna.

Allievo diretto di Mallarmé, che in un sonetto in memoria di Edgar Poe aveva


espresso la volontà di «dare un senso più puro alle parole della tribù», Valéry è
stato all’inizio del Novecento il più autorevole portavoce del simbolismo come
lirica assoluta. I suoi scritti saggistici e teorici, accanto a quelli tanto diversi di
Breton, Artaud e Bataille, hanno esteso la loro influenza fino alla
neoavanguardia francese degli anni sessanta, a critici come Barthes, a riviste
come «Tel Quel», a filosofi come Derrida. Ma già Benjamin, in un breve testo per
i sessant’anni di Valéry scritto nel 1931, lo considerava il culmine, il gelido
vertice dell’intellettualismo poetico europeo. Dopo di lui, un umanista
misticheggiante americano come T.S. Eliot, più che porsi in continuità con lui, si
mostra in disaccordo proprio sul rapporto fra poesia e filosofia. Eliot riformula
l’intera questione e vicenda: connette Baudelaire a Dante e a John Donne invece
che a Mallarmé e Descartes. Non poteva fare altro per riprendere in altra
direzione il cammino della poesia intellettuale: evitare la purezza e teorizzare la
mescolanza, la fusione di emozioni e idee, lingua poetica e lingua parlata, miti
classici e satira sociale.

In quell’incarnazione paradossalmente disincarnata dell’intelligenza che


è Monsieur Teste (ora riproposto dalla Elliot, pagg. 88, € 9,50), individuo che di
null’altro si occupa che di essere testimone delle proprie operazioni mentali,
Valéry aveva portato il razionalismo francese oltre il limite estremo, lì dove
pensare vuol dire separare e negare: presupposto di una poesia intesa come
musica e architettura di rapporti e di stati mentali astratti. Poesia che può
nascere solo dall’eliminazione metodica del caos emotivo e di ogni mimetismo
realistico.

Nella prefazione a un’edizione inglese della Serata con il signor Teste, Valéry


sentì il bisogno di giustificarsi dicendo che il suo personaggio era stato
un’invenzione giovanile: «Ero affetto dal male acuto della precisione (…) cercavo
in me stesso il punto critico della mia facoltà di attenzione (…) le opere mi
interessavano molto meno dell’energia che le realizzava. Sospettavo della
letteratura».

Culmina in Valéry quella forma di intellettualismo senza contenuto empirico che


è stato la forza e la tentazione più insidiosa della moderna lirica europea. Ne è
stato affascinato un marxista teologico come Benjamin, un poeta come Benn con
la sua idea della lirica come «arte anacoreta», in Italia Ungaretti e gli ermetici, in
Spagna Jiménez, Guillén, Salinas.

È stata invece soprattutto la cultura letteraria anglosassone a contrastare e


confutare il purismo di Valéry. I due maggiori critici di quell’area, Eliot e
Edmund Wilson, benché opposti, trovarono che Valéry era un teorico della
letteratura difettoso e troppo limitato. Partendo dalle sue idee non si riuscivano
più a capire né i rapporti fra i moderni e i classici (è questo il problema di Eliot)
né quelli fra poesia e prosa, fra la lirica e gli altri generi (cosa che interessava a
Wilson).

Fu quest’ultimo che nel 1931, nel suo bilancio del Simbolismo, sottolineò «il lato
presuntuoso e snobistico della personalità di Valéry». Il culto dell’eleganza, la
fobia di ciò che è comune, avevano provocato tra l’altro nel poeta francese una
sintomatica caduta di gusto proprio nella prima frase del suo Monsieur Teste:
«La stupidità non è il mio forte». Osservò Wilson che «con tutto il rispetto per il
talento di Valéry, avremmo preferito che a dire questo non fosse lui».

Dal signor Teste di Valéry al cervello delle neuroscienze. Intervista a


Gabriele Fedrigo
Ripescaggi #37

Gabriele Fedrigo

Faccio anch'io come la televisione che in estate ci propina cose di trent'anni fa. E così ripesco cose
vecchie. Lo faccio sempre dalla rivista "daemon". Si tratta di una vecchia intervista e ricordo che
uscì nel numero legato al rapporto tra scienza e arti. 
Che cosa può un uomo? Attorno a questa domanda, appartenente ad un curiosissimo personaggio
di un’opera giovanile di Paul Valéry, Gabriele Fedrigo ha costruito uno studio originale che
intreccia la figura dello scrittore francese con l’avanzare delle conoscenze neuroscientifiche (G. M.
Edelman, J.P. Changeux e A.R. Damasio su tutti) e il pensiero paleontologico di S. J. Gould. Valéry
è, assieme ad altri, una figura chiave per chi si interessa della speculare illuminazione tra
letteratura e scienza. Abbiamo chiesto all’autore di parlarci del suo interesse per Valéry e del suo
ultimo libro Che cosa può un uomo? Potenzialità biologica, selezione naturale e cervello da Paul
Valéry a Gerald M. Edelman (L’Harmattan Italia, Torino, 2005).

Incominciamo dalla letteratura. Il suo libro Che cosa può un uomo? prende avvio da un
personaggio di un’opera giovanile di Paul Valéry. Ci racconta chi è il signor Teste?
“Monsieur Teste è una delle figure più brillanti e nello stesso tempo più inquietanti della
produzione letteraria di Valéry”. Partire con questa affermazione, vuol dire già offrire un primo
inquadramento ad un personaggio che tende a sfuggire, proprio per come Valéry l’ha concepito nel
suo laboratorio mentale, ad ogni classificazione, anche a quella molto generica di prodotto
letterario… Mi scuso con Monsieur Teste se l’ho dovuto trascinare, mio malgrado, in qualche
categoria culturale bell’e pronta, proprio lui che confinava le Lettere e la Filosofia tra “le Cose
Vaghe e le Cose Impure”. Quando scrive Teste, Valéry ha bene in mente un’idea a lui molto cara che
svilupperà a fondo negli scritti dedicati a Leonardo da Vinci, a Gladiator e lungo i Cahiers. Si tratta
del concetto di combinazione. La nostra mente, a cui non fa eccezione né quella del poeta, né del
pittore o di qualsiasi uomo della strada, è una fucina di combinazioni. Si combina tutto ciò che noi
designiamo come immagine, parole, suoni, ricordi, aspettative, ecc. Fra queste combinazioni solo
poche entrano nel campo della coscienza, altre ne rimangono escluse totalmente, anche se questo
non significa stato di quiescenza. La produzione combinatoria non è guidata da un centro direttivo
e molte volte, non sempre per fortuna, quello che designiamo con la parola “io”(je) si trova in balia
di tempeste e di assalti di combinazioni di immagini o di ricordi con carichi emotivi più o meno
intensi tali da paralizzare o compromettere l’andamento generale della vita psichica, soprattutto le
nostre capacità d’azione. In Teste, l’idea di combinazione opera soprattutto come strumento di
smontaggio della propria personalità. Teste è infatti colui che si de-costruisce psichicamente per
poter esperire la pluralità di combinazioni possibili della sua macchina combinatoria (Valéry parla
di Teste come del “più completo dei trasformatori psichici che sia mai esistito”). Lo smontaggio si
configura al contempo come esercizio dello sguardo; l’effetto di questo esercizio è l’alienazione dal
sé di tutte le abitudini che lo costituiscono. Un vero e proprio ‘fare vuoto’ per molti aspetti vicino
alla meditazione buddista (Valéry parla di Teste come di “un mistico senza Dio”). Come suggerisce
l’etimo, Teste è il testimone…del proprio sé e della propria storia. Supponga di andare al cinema e
che la storia del film sia la sua vita, la domanda è: chi è (o cos’è) colui che guarda il film rispetto a
ciò che si sta proiettando? La coscienza prende le distanze dal sé di cui è coscienza senza
identificarsi in alcun oggetto; Teste narra questo progressivo prendere le distanze dal sé per tuffarsi
nella sperimentazione del possibile, di cui il sé è uno dei tanti prodotti… Ogni volta che mi accingo
a studiare Teste non posso fare a meno di pensare ad un suo cugino austriaco, intendo Ulrich de
L’uomo senza qualità. Ha presente?
Paul Valéry

L’opera giovanile avente il signor Teste come protagonista, dal punto di vista degli interessi
scientifici, non è certo una meteora nella produzione di Valéry. Ci parla dell’evoluzione del
pensiero (neuro)scientifico ante litteram dello scrittore francese, dalle opere giovanili ai Cahiers?
Quali sono i riferimenti e le coordinate  principali in possesso di Valéry?
L’interesse di Valéry per la scienza non è, come giustamente afferma, una semplice appendice.
Valéry si è accostato al sapere scientifico fin da giovane da vero autodidatta. Dia uno sguardo ai
primi Cahiers. Il riferimento alle scienze matematiche e alla fisica è un motivo ricorrente. L’idea di
determinare una fisica della mente espressa in funzioni matematiche è stato uno dei sogni più
accarezzati dal giovane Valéry. Le scienze biologiche trovano un inserimento più tardivo ma non
meno importante nella riflessione di Valéry, al punto da soppiantare quelle strettamente fisico-
matematiche. Certo, se lei mi chiede quale apporto scientifico abbia dato Valéry alla biologia, le
dovrei risponderei subito che il nome di Valéry non si lega né ad alcuna scoperta né ad articoli
scientifici in cui viene illustrato ad es., il funzionamento della cellula o per restare al cervello,
qualche area deputata a funzioni specifiche. Eppure il livello della riflessione di Valéry tocca alcuni
punti presenti in neuroscienziati della statura di Edelman e di Changeux, come ad es. il ruolo
dell’attività spontanea del funzionamento cerebrale come base della potenzialità combinatoria.
Oltre alla spontaneità, Valéry non si stanca di dirci una cosa che noi diamo per assodato ora (anche
se molti stentano ancora ad ammetterlo), e cioè che la mente è uno dei tanti prodotti del cervello, e
che il cervello è in un corpo che a sua volta si trova nell’ambiente. È il famoso C.E.M
(corps, esprit, monde). Ancora prima di interrogarsi su temi di carattere neurofisiologico, Valéry ha
scandagliato profondamente le questioni riguardanti la dinamica morfologica delle piante e degli
involucri calcarei dei molluschi marini: le conchiglie. Una delle opere più belle scritte è appunto
L’homme et la coquille. Le riflessioni riguardanti il corpo e la circolazione sanguigna hanno trovato
un posto di primo piano nei Cahiers. L’interesse per la scienza non è però solo frutto di studio a
tavolino. Valéry ha personalmente conosciuto scienziati di fama (le ricordo fra gli altri Einstein e
Mme Curie), visitando i laboratori di ricerca e discutendo proficuamente con gli addetti ai lavori le
loro premesse, i risultati e i punti di vista generali che strutturano un certa teoria (in ambito
neuroscientifico non posso non ricordare Thierry de Martel, Théophile Alajouanine, Ludo van
Bogaert). Se vuole avere un saggio di queste conoscenze, legga i lavori di Judith Robinson-Valéry.
G.M. Edelman

Il concetto di “potenzialità biologica” – mi corregga se sbaglio – è la chiave di lettura del suo


libro. Che cos’è la “potenzialità biologica” e come si intreccia con le tematiche della selezione
naturale e del cervello, così come ce le raccontano neuroscienziati della statura di Damasio,
Edelman o Changeux?
Il paleontologo Stephen Jay Gould è stato l’autore che forse più di altri ha promosso il concetto di
“potenzialità biologica”. Questo non vuol dire in alcun modo che altri prima di lui, come ad es.
Spinoza, Hobbes o lo stesso Darwin e Valéry non avessero già presente i termini del problema. La
categoria della “potenzialità” ha sicuramente una storia molto fortunata nel pensiero occidentale.
Tant’è che essa fa discutere ancora oggi. Lo zigote è potenzialmente un uomo? L’idea di effettuare
un’azione è potenzialmente un’azione? Se da un lato non è possibile sfuggire alle considerazioni
aristoteliche sulla potenzialità, dall’altro non si è in alcun modo obbligati ad abbracciare il punto di
vista aristotelico. Il punto chiave di tutta la costruzione aristotelica è la preminenza ontologica
dell’Atto sulla potenza. Si ricorda il famoso Motore Immobile? Ebbene tolto il Motore Immobile,
tutto svanisce, il movimento delle sfere celesti si blocca e addio mondo animale e vegetale. Si tratta
allora di lasciarsi alle spalle una metafisica della potenzialità e percorrere una ricerca
sulla fisiologia della potenzialità. Come ci ha insegnato Deleuze, nell’ambito dello studio dei
fenomeni biologici, Aristotele è suo malgrado ancora legato all’impostazione platonica che punta a
reperire la verità dell’ente determinandone la vicinanza o la lontananza rispetto ad un’essenza. In
ambito biologico, è Darwin colui che spazzerà via qualsiasi possibilità di fondare un
approccio tipologico allo studio dei viventi presenti, passati o futuri. Pur se rimane aperto
ne L’origine delle specie, il problema di definire cosa sia o meno una “specie”, con Darwin ci
troviamo di fronte ad un paesaggio dove ciò che conta non è tanto l’Idea di fringuello, ma proprio
quel singolo fringuello o quella singola orchidea. Meglio, ciò che possono quel singolo fringuello,
quella orchidea… Gran parte del pensiero contemporaneo può essere visto come un assalto
reiterato alla supremazia dell’essenza e a tutto ciò che pretende di essere stabile, duraturo, ecc.
Capire che cosa sia la “potenzialità biologica” significa allora rispondere alla domanda: che cosa
può un certo organismo? Quel “può” va considerato tanto come gamma di funzioni di un
organismo, in tutta la varietà delle sue manifestazioni (dal livello microcellulare a quello
comportamentale), quanto come il possibile-funzionale insito nella strutture biologiche e che gli
eventi contingenti della storia della vita potranno o meno portare alla nascita. Così, per restare
vicino a Gould e al suo amore per l’architettura (si leggano fra l’altro le belle pagine dedicate al
Duomo di Milano in La struttura della teoria dell’evoluzione), chi avrebbe mai detto che le
“lunette” della Basilica di San Marco a Venezia, nate come sottoprodotto architettonico, sarebbero
servite per illustrare verità di fede? Il cuore della potenzialità umana risiede nel nostro voluminoso
cervello, meglio nella particolare organizzazione neuronale specie-specifica e nello stile di sviluppo
ontogenetico di questo organo. Il cervello forgiato dalla selezione naturale può compiere uno
straordinario numero di attività. La sua potenzialità è inscritta nei suoi neuroni e nella sua
organizzazione. Ma questo non significa che tutto ciò che può un cervello sia schiavo dei geni che lo
hanno costruito e dotato di certe capacità rispetto ad altre. Perché non mettere in soffitta l’idea che
tutto ciò che un uomo può compiere sia in funzione della fitness del suo pool di geni? Accanto alla
plasticità, il fattore della potenzialità cerebrale su cui ho cercato di fare un po’ di chiarezza,
riguarda il sorgere della coscienza. In anni molto recenti si è scritto una quantità immensa di libri,
saggi ed articoli sulla coscienza. Che cosa vuol dire indagare la coscienza nell’ottica della
potenzialità? Non significa forse cercare di capire la nostra capacità di questionare la realtà in cui
viviamo e di autoquestionarci? E con quali esiti? Fin dove spingere la nostra potenzialità d’azione
che attraverso la coscienza ha uno dei suoi elementi organizzativi più sofisticati? Ancora, chi
stabilisce i limiti? I neuroscienziati presi in esame (Edelman, Damasio, Changeux) non hanno
risposte pronte a queste domande e sembrano lontani dall’offrire soluzioni immediate. Il livello su
cui attualmente lavora l’ambito neuroscientifico è ancora quello di determinare le basi neuronali
della coscienza. Proprio a partire dalle indagini neuroscientifiche e biologiche, filosofi e scrittori
possono attivamente intervenire su temi così centrali…non che in passato ciò non sia avvenuto,
come non poter ricordare Dostoevskij o più vicino a noi la testimonianza di Primo Levi?

Che cosa può un uomo? è sicuramente uno studio originale per il panorama italiano. Qual è stata
la genesi dell’opera, quali le difficoltà? Quali altri studiosi hanno approfondito il contenuto
scientifico delle opere  di Valéry traendone nuove ipotesi di ricerca e nuove conclusioni?
In un primo momento l’idea d’impostare uno studio del rapporto mente/cervello/selezione
naturale in termini di potenzialità mi è venuto dalla lettura svolta sui testi del neurologo Oliver
Sacks e da quella bellissima raccolta di saggi di storia naturale di Stephen Jay Gould intitolata Otto
piccoli porcellini. In entrambi i casi, anche se da prospettive diverse, emerge un’idea a cui sono
legato, cioè che l’ordine mentale di una persona o quello dell’evoluzione delle specie, non è fissato
una volta per tutte. Anzi credo che sia già troppo azzardato parlare di “ordine”. Chi lo stabilisce? E
con quale autorità? C’è tutto un orizzonte di possibilità d’azione e d’espressione che, anche nel caso
delle malattie invalidanti del sistema nervoso, vanno tenute aperte. In noi si formano embrioni di
avvenire e di possibilità che molto spesso non trovano luce. Valéry si è confrontato direttamente
con il mare del possibile di cui siamo intessuti. Il mio lavoro preliminare è stato quello di
determinare nei Cahiers l’occorrenza del termine implexe (implesso): per implexe, Valéry intende
la capacità combinatoria di un sistema organico (sia esso un cervello o l’organismo tout court) di
generare configurazioni di risposta da dare alle sollecitazioni esterne o a quelle endogene non
necessariamente legate agli eventi ambientali (è qui che compare il “lusso” del pensiero). La genesi
dell’“implesso” era già tutta contenuta nella domanda di Monsieur Teste: “Che cosa può un
uomo?”. La potenzialità dell’uomo non è però un dono che “piove dal cielo”. Ecco allora la necessità
di legare la potenzialità umana al suo sostrato biologico, ciò è avvenuto interrogandosi
contemporaneamente sulle potenzialità della selezione naturale di forgiare strutture e funzioni
degli organismi e nel caso dell’uomo il suo formidabile cervello. Attorno ai concetti di utilità
biologica, adattamento, disadattamento e funzioni non-adattative ho istituito un proficuo
confronto fra autori apparentemente così lontani come Darwin (naturalista), Valéry (poeta) e
Gould (paleontologo).
L’attenzione posta ai Cahiers da scienziati di diverse discipline non è nuova nel panorama
internazionale. Ricordo ad esempio gli studi effettuati da René Thom nell’ambito della teoria delle
catastrofi o quelle di Prigogine sulle strutture dissipative. Più recentemente troviamo un recupero
di Valéry negli studi sulla complessità effettuati da E. Morin. Come non ricordare infine le
considerazioni sviluppate da Jean Bernard in campo medico-scientifico?
Alcuni suoi scritti sono usciti inizialmente in lingua francese. Qual è stata la reazione del pubblico
d’oltralpe? Ho come l’impressione che in Francia ci sia un contesto di ricezione molto più maturo
per quelle opere che intrecciano proficuamente letteratura e riflessione scientifica. È
un’impressione totalmente errata?
Il lavoro a cui fa riferimento (Valéry et le cerveau dans les Cahiers, Paris, 2000) è uscito in lingua
francese al fine di permettere ad un pubblico più vasto di studiosi di Valéry a livello internazionale
di avvicinarsi più facilmente alle mie ricerche sui Cahiers. L’accoglienza data a questo lavoro è stata
incoraggiante. Circa la “maturità” di ricezione in ambito francese di una scrittura che intreccia
letteratura e scienza, direi che una seria riflessione su questo problema dipenda dal contesto
storico a cui si fa riferimento. Pensi ad es., alla fortuna del De rerum natura di Lucrezio nella
cultura europea. In Francia l’esperienza dell’Encyclopédie, ha permesso senza dubbio un connubio
importante fra letteratura e scienza, ponendosi oltre quella divisione fra “scienze umane” e “scienze
naturali” che condiziona ancora molte menti e molte penne. Non credo ad una rigida separazione
delle sfere di competenza (da una parte lo scrittore, dall’altro lo scienziato, dall’altro ancora il
poeta, ecc.) come sinonimo di serietà da dover perseguire. Non ci credo semplicemente perché non
siamo monadi chiuse. Così non si riuscirebbe a capire nulla della Divina Commedia, senza le
conoscenze scientifiche (per quanto lontane da noi) di cui si è servito Dante. Prima ho fatto
riferimento a Robert Musil, ebbene come potremmo leggere la sua opera senza tener presente il
legame con E. Mach? Certo, Musil non si limita in alcun modo a riscrivere Mach! Prenda invece
scienziati che si sono nutriti di scrittura filosofica o letteraria. Che dire di Einstein lettore di
Spinoza? Gli stili divulgativi di scienziati delle generazioni scorse non avevano forse una veste
letteraria di prim’ordine, come ad es. quelli di H. von Helmoltz, C. Sherrington e K.Goldstein?

Si dice spesso che ognuno crea i propri precursori. Nel caso di uno studio come il suo, quali
reputa i precursori, i suggeritori di un approccio che lega indissolubilmente e mirabilmente la
letteratura e gli aggiornamenti della scienza? E inoltre, crede che l’attività di uno scrittore e
quella di uno scienziato possano (debbano) essere reciprocamente “illuminanti”?
In parte le ho già risposto prima. Non sto forse parlando di Valéry? Che dire dei tentativi di prosa
scientifica di Oliver Sacks? Le dicevo che non siamo monadi chiuse, e che volenti o nolenti
apparteniamo ad un certo periodo storico, ad una certa visione del mondo che tanto le generazioni
passate che quelle presenti contribuiscono a costruire, modificare o abbandonare. All’interno di
quest’orizzonte opera lo scrittore e lo scienziato, con mezzi propri indagano a loro modo una
“realtà” che in sé non esiste (quante realtà esistono? e quanto reale è il reale?, questioni che
facevano sorridere Valéry), anche se noi ne misuriamo gli “effetti” nella prassi quotidiana e
scientifica. Se dobbiamo porre il confronto sul piano della famosa “verità”, dica, avrebbe senso
chiedersi: quanta verità troviamo nella poesia di T.S. Eliot e quanta nella teoria della relatività
ristretta?

Concorda con l’affermazione che le neuroscienze sono responsabili di una grande sferzata nella
percezione “qualitativa” dell’impresa scientifica e dei suoi risultati quando in precedenza questa
era legata a una percezione “quantitativa”, sicuramente errata ma non per questo incapace di
causare solidi fraintendimenti a lungo termine?
Scusi l’affermazione è sua, di un neuroscienziato o di qualche filosofo della scienza? Se ho ben
capito la domanda, potrei dire che le neuroscienze come del resto la stessa biologia non sono mai
vissute in uno splendido isolamento rispetto ad altri settori scientifici, come la chimica, la fisica, la
matematica, ecc. Immagini una macchina per la Risonanza Magnetica costruita
indipendentemente dagli studi fisico-matematici! Più di sferzata, direi di grande opportunità data
alla conoscenza dei meccanismi intimi degli organi e dei tessuti dell’organismo. La questione del
“qualitativo” e “quantitativo” nell’impresa scientifica e tutti i tentativi di colmare o di allargare il
divario hanno accompagnato lo sviluppo della scienza fin dalle riflessioni di Galileo Galilei.

A che cosa sta lavorando adesso? Le tematiche di Che cosa può un uomo? stanno lasciando
spazio a nuovi interessi di ricerca?
In questo periodo sto studiando i recettori delle membrane batteriche, organismi che non hanno
cervello ma che esibiscono comportamenti molto interessanti. Chissà che non nasca un “Che cosa
può un batterio?” 

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