2. La transizione portoghese
Il Portogallo nella guerra fredda
All’indomani della IIWW, vari fattori osteggiavano l’inclusione del Portogallo nel blocco
occidentale e nella rete di interdipendenze atlantiche. Il primo tra questi era il nazionalismo,
ostentatamente autarchico e antimoderno del regime di Antonio de Oliveira Salazar. Egli guardava
con diffidenza, se non aperta ostilità, al modello di produttività, alti salari e consumi di massa, che
gli USA sognavano di proiettare anche in Europa; faceva propri stereotipi antiamericani cari a una
certa destra conservatrice europea; temeva, infine, un’integrazione economica e commerciale del
Portogallo che ne avrebbe trasfigurato la cultura ed eroso la sovranità. Il colonialismo portoghese
rappresentava il secondo fattore che rendeva più difficile la sua inclusione nella costituenda
comunità atlantica. La rigidità di Salazar che considerava i territori africani (Guinea-Bissau,
Angola, Mozambico) come parte integrante e inseparabile del paese, rendeva più difficile
immaginare soluzioni parziali e forme limitate di autogoverno, quali quelle sponsorizzate da alcuni
settori del Dipartimento di Stato. Infine pesava molto la natura politica, autoritaria e, secondo alcuni
quasi fascista, del regime salazarista. L’assenza di libertà politiche e religiose in Portogallo fu
denunciata duramente da importanti politici e commentatori statunitensi. Diversi media liberal e di
sinistra si schierarono apertamente contro l’inclusione del Portogallo nel Patto Atlantico,
presentandola come antitetica ai valori democratici e liberali che avrebbero dovuto informare
l’occidente che andava istituzionalizzandosi in qui patti. Alla fine il Portogallo vi entrò a far parte in
virtù della sua debolezza e del timore americano che una sua esclusione avrebbe isolato e reso ancor
più vulnerabile il regime. In più lo scoppio della Guerra fredda aveva indotto una parte del governo,
del mondo politico e anche dell’opinione pubblica USA ad abbandonare le remore esistenti rispetto
ad una possibile alleanza con regimi autoritari (e cattolici) come quelli portoghese, e
successivamente spagnolo. A maggior ragione dove l’interlocutore in questione poteva disporre di
una risorsa non da poco come una base nelle Azzorre. L’intensificarsi della Guerra Fredda negli
anni 50 e il conservatorismo culturale e politico del nuovo presidente Eisenhower rese ancor più
solido il legame con il Portogallo.
Un rilevante cambiamento si ebbe solo a cavallo degli anni 50 e 60, con l’elezione di Kennedy e
l’avvio di una nuova fase del processo di decolonizzazione. L’avversione di Kennedy nei confronti
del Portogallo di Salazar si manifestò in due modi: con l’appoggio a forze indipendentiste, in
particolare in Angola, e attraverso un diverso atteggiamento alle Nazioni Unite, dove il
rappresentante statunitense Adlai Stevenson assunse spesso posizioni critiche nei confronti del
Portogallo. Nel corso del 61 fu anche deciso di adottare una politica molto più restrittiva nel
trasferimento al Portogallo di armi che sarebbero state utilizzate nei conflitti coloniali. Si trattava di
una sorta di embargo nei confronti di un paese rimaneva pur sempre un alleato nella NATO.
L’occupazione indiana di Goa fu un altro evento che acuì le tensioni tra USA e salazar, che li
accusò di un trattamento troppo morbido verso l’India in sede ONU.
Questa linea non fu però mantenuta. Il segretario alla difesa McNamara, come altri all’interno
dell’amministrazione erano contrari a politiche che mettevano a rischio la relazione con Lisbona e
la fondamentale base nelle Azzorre. Nel frattempo l’apertura di nuove tensioni in Vietnam e a Cuba
distolsero l’attenzione americana dal contesto africano. Il cambiamento apportato da Kennedy non
ebbe perciò i risultati da lui sperati.
3. La transizione spagnola
1975-1982: la monarchia
Il Re aveva ereditato tutto il potere detenuto da Franco, e ciò lo avrebbe trasformato nella figura
chiave per decidere quale cammino intraprendere. Oggi è innegabile che Juan Carlos scelse il
percorso evolutivo, con tutta probabilità l’unico possibile se si desiderava che i molti elementi
franchisti che ancora popolavano la vita politica e sociale spagnola non utilizzassero tutti i mezzi a
loro disposizione, compresa la violenza, per cercare di fermare qualunque iniziativa che non
rispettasse la continuità istituzionale.
Sul piano interno egli decise infatti di mantenere Arias come primo ministro, un uomo che non
possedeva nessun requisito di quelli necessari al momento, se non la capacità di placare i sostenitori
di Franco nei primi momenti del postfranchismo. Questo però lo obbligava sul piano esterno a
spiegare a molti dei propri interlocutori il motivo di questa continuità, viste le promesse di
democratizzazione fatte in precedenza. Carlos aveva però suscitato simpatie in modo generalizzato
e buona parte dei governi occidentali era disposta a concedergli un periodo di grazia. La
Commissione, da parte sua certificò di fronte al PE come l’evoluzione democratica in Spagna fosse
buon punto e che convenisse riprendere i negoziati commerciali. La situazione in Spagna era però
lontana da una vera evoluzione democratica: rispetto ai diritti civili e politici nulla era cambiato con
l’arrivo della democrazia. Le principali forze spagnole favorevoli alla democrazia, la maggioranza
delle quali ancora illegale, avevano chiesto alla Comunità, precisamente, che non venissero ripresi i
colloqui con i rappresentanti ufficiali del governo della Monarchia.
L’atteggiamento occidentale in generale, però, sarebbe stato quello di aspettare e vedere, invece che
intervenire direttamente negli affari spagnoli. Non sembrava esserci alcuna necessità di farlo visto
che i temi chiave della politica USA e occidentale rispetto alla Spagna dalla morte di Franco erano
patrimonio anche del re e delle principali forze politiche del momento. È certo però, che mano a
mano che le aspettative che molti governi europei avevano riposto nella monarchia, le differenze fra
le posizioni degli USA rispetto a quelle degli stati dell’Europa occidentale cominciarono a farsi più
evidenti. L’atteggiamento più comprensivo di Washington rispondeva meglio ai desideri e ai
programmi del primo governo del re, ossia che le riforme interne in Spagna e la sua
normalizzazione internazionale dovessero avere un’evoluzione parallela e non, come desideravano
gli europei, che la seconda fosse condizionata dal successo delle prime. In ballo rimaneva infatti la
firma del compromesso raggiunto nel 75 in merito alle basi USA in suolo spagnolo. Il Re premeva
per un ritiro dei sottomarini Polaris e per un aumento della quantità dei finanziamenti e materiali per
un ammontare di un miliardo di dollari. Ma nel corso dei negoziati queste posizioni vennero
ridimensionate; il trattato fu siglato nel gennaio 76 e venne poi ratificato dal senato americano: il
risultato finale fu che il governo USA mantenne lo status quo senza alcuna difficoltà e che i rapporti
bilaterali continuarono a essere sbilanciati come durante il periodo franchista.
Il re si trovo costretto a sostituire Arias nel momento in cui apparve chiaro che la fiducia degli
“amici” della Spagna stava per esaurirsi. Il nuovo governo, guidato da Suarez, che assunse
l’incarico nel luglio 76, annunciò immediatamente il proprio deciso impegno per portare a termine
le misure necessarie per la nascita di un sistema politico democratico: la convocazione di un
referendum di riforma costituzionale e in seguito di libere elezioni, entro un anno. Durante i primi
mesi del governo Suarez la priorità in politica estera si orientò in maniera decisa sul fronte europeo,
dato che il governo Arias aveva appena concluso il trattato di amicizia con gli USA. Ma per gli
organi europei il nuovo governo meritava un trattamento migliore rispetto a quelli precedenti. Il
sostegno europeo, quindi, non era la causa del cambiamento, ma la scusa per venderlo meglio alla
cittadinanza. Le condizioni offerte dal mandato negoziale comunitario erano inammissibili da tutti i
punti di vista: le esigenze di liberalizzazione commerciale venivano accompagnate da concessioni
di valore inferiore a quelle dell’accordo del 70, ivi compresa la mancanza di qualsivoglia
prospettiva di adesione futura. L’unica alternativa possibile che il governo Suarez riuscì ad
immaginare fu quella di posporre i negoziati bilaterali fino all’inizio dell’estate del 77, quando era
previsto il culmine della prima tranche di riforme politiche. Pertanto il governo di Suarez si vide
forzato a seguire le tattiche dilatorie delle precedenti amministrazioni. Ciò venne interpretato, a
Bruxelles e a Bonn come un raffreddamneto dell’europeismo dei nuovi governanti spagnoli, pur
capendo che questa posizione nasceva dalla consapevolezza dell’amministrazione, riguarda alla
completa mancanza di preparazione della Spagna alle sfide che l’adesione avrebbe comportato. Nel
frattempo Suarez, conscio dell’importanza di un cambiamento interno in senso democratico ai fini
dell’adesione, si dava da fare sul piano interno con una nuova riforma politica. Approvata dal
governo il 10 settembre 76 essa costituì il punto cruciale nel passaggio da un regime non
rappresentativo a uno democratico. Questa legge affermava il concetto di sovranità popolare e delle
elezioni a suffragio universale e creava un sistema parlamentare bicamerale. Il cuore del processo
consisteva nel fatto che in nessun momento si abrogavano le leggi fondamentali del periodo
franchista, ma che queste venivano modificate per dar vita ad una nuova realtà. Le Cortes
Generales franchiste approvarono la riforma a larga maggioranza. Questa riforma, che può essere
considerata un vero e proprio suicidio politico del franchismo, fu possibile perché la maggioranza
dei deputati era persuasa che il franchismo senza Franco non avesse alcun futuro; solo una piccola
minoranza recalcitrante si oppose. L’ampiezza della vittoria della riforma, tanto nelle Cortes come
fra i cittadini, chiamati ad esprimersi su di essa, costituisce il miglior riflesso del fatto che la
stragrande maggioranza degli spagnoli accettava la necessità di un’evoluzione democratica.
Ma nonostante le molte prove significative che il governo Suarez seppe dare, per ciò che concerne
la democratizzazione del paese, esso non ricevette il sostegno sperato ne dall’Europa, ne dagli USA.
I Nove si dimostrarono incapaci di adottare una posizione comune di fronte alle prospettive
democratiche che parevano aprirsi in Spagna. Il fatto certo era che l’inizio dei negoziati di adesione
con la Grecia, alla fine di luglio 76, aveva mobilitato tutti quei settori che si opponevano a un nuovo
ampliamento della Comunità ai paesi del fianco sud e povero dell’Europa.
Il governo Suarez attribuì la mancanza di una disposizione favorevole da parte della CE ai vizi e
alle inerzie acquisiti dai principali protagonisti dei rapporti ispano-comunitari durante quasi
vent’anni. Il cambio dell’ambasciatore spagnolo alla Comunità, e l’inizio dell’incarico di una nuova
Commissione contribuirono a rompere i ponti col passato. Così ai primi di gennaio 77 il governo
prese la cruciale decisione di dare il via ai preparativi per l’adesione. Si contava sul fatto che, dopo
le elezioni dell’estate 77, il governo avrebbe potuto obbligare la Comunità a disegnare una politica
nei confronti della Spagna più rispondente alle condizioni politiche del paese.
Anche l’atteggiamento di Washington, con la nuova amministrazione Carter (‘77) non andava nella
direzione sperata da Suarez, si era per così dire europeizzato. Anche se Carter, a dispetto del suo
scarso interesse per la Spagna, avrebbe preferito consolidare l’opzione politica incarnata da Suarez,
specialmente di fronte al resto dell’opposizione di sinistra in vista delle future elezioni, essenziali
per superare le reticenze del resto dei membri dell’alleanza atlantica, egli non riuscì a realizzare in
pratica azioni e politiche in questo senso. Con le elezioni dell’estate 77, a Washington si credeva
terminato il periodo critico della transizione spagnola, contribuendo a diminuire ulteriormente
l’attenzione americana sulla Spagna. L’unico tema che riguardava ancora gli USA era l’ingresso
della Spagna all’interno della NATO, ma questo era osteggiato sia da un certo numero di alleati, sia
dall’antiamericanismo che caratterizzava buona parte del mondo politico e della popolazione
spagnola. L’unica differenza rilevante, fu la diminuzione delle pressioni americane in senso
anticomunista, soprattutto per l’uscita di scena di Kissinger, eterno e dogmatico anticomunista.
La legalizzazione del PCE avvenne non tanto per pressioni esterne, dato che la maggior parte dei
paesi europei occidentali non premeva in questo senso (tranne l’Italia, sotto pressione del PCI),
quanto invece per una forte pressione interna. Essa aveva un triplo carattere: in primis la situazione
socioeconomica del momento, caratterizzata dalla paralisi del paese per via degli scioperi operai,
sul cui movimento il PCE esercitava una forte influenza; c’erano poi le pressioni del PSOE che
vedevano in una forzata e isolata clandestinità dei comunisti un forte richiamo elettorale, e la
minaccia di essere accusati di collaborazionismo se avessero partecipato alle elezioni senza i
comunisti; da ultimo va aggiunta l’opinione della strada.
Come era normale per l’epoca, le relazioni esterne di un partito comunista, erano circoscritte a
quelle con altri partiti dello stesso segno ideologico. Tuttavia il PCE di Carrillo non esitò a
schierarsi con la scelta eurocomunista inaugurata da Berlinguer, il che a sua volta lo allontanava
dalla linea del PCUS, cose che invece non avveniva per il partito comunista portoghese. Ciò che
risultò determinante per la traiettoria politica del PCE non fu una relazione esterna, quanto una
strategia propria di generare una dinamica interna alle circostanze economiche e sociali del paese
che avrebbe reso inevitabile la sua legalizzazione in nome della stabilità della democrazia. I
comunisti spagnoli quindi rafforzano la propria visibilità per forzare la loro legalizzazione e
partecipazione alla riforme istituzionali della futura democrazia.
La massiccia reazione popolare di cordoglio per il Massacro di Atocha, in cui persero la vita molti
affiliati del PCE per mano di forze reazionarie, dimostrò il potere d’attrazione del partito e allo
stesso tempo il suo potere di canalizzazione pacifica dei sentimenti di frustrazione popolare. Il re e
Suarez compresero che non fosse possibile convocare le elezioni per la costituente senza i
comunisti. La decisone di legalizzare il PCE tardò a materializzarsi perché dovevano essere
soddisfatti dei requisiti. Il primo era che il PCE accettasse la monarchia parlamentare e rinunciasse
al proprio obiettivo repubblicano; requisito che fu raggiunto con colloqui privati tra Carrello e
Suarez. Il secondo requisito, molto più complicato e che di fatto non si raggiunse pienamente, era
quello di convincere i militari dell’inevitabilità del fatto che i comunisti arrivassero a svolgere
un’attività politica legale. Il terzo era ottenere se non l’appoggio, almeno la comprensione di tutti
quegli alleati che si erano schierati nettamente contro questa scelta. A questo proposito le potenze
dell’Europa occidentale non espressero posizioni precise. Iniziò però una campagna di sostegno e di
influenza sul PSOE, soprattutto da parte della SPD tedesca che già da tempo lavorava per creare
una forza di sinistra moderata che riuscisse a strappare voti ai comunisti, e per dotare di credibilità
politica il nuovo PSOE, nato dallo scontro con il vecchio PSOE in esilio, e che a sua volta,
competeva apertamente con una molteplicità di partiti che si autodefinivano socialisti. Il duro
confronto fra destra e sinistra che allora ci si augurava fra i vigorosi comunisti e le forze
conservatrici della riforma radunate intorno a Fraga, lasciava presagire un orizzonte di instabilità
maggiore della già instabile situazione dell’Europa meridionale. Per questo nel 76 grandi risorse di
denaro furono investite in primis per la costruzione e il mantenimento di numero minimo di basi
socialiste e in seguito per la maturazione ideologica dei socialisti spagnoli e la progettazione di
campagne elettorali.
L’aiuto esterno ai partiti non fu limitato solo al PSOE. Di fatto molte formazioni partitiche, in un
modo o nell’altro, ricevettero aiuto dall’esterno. Il fenomeno era generalizzato e il governo non lo
considerava come un’ingerenza dall’esterno. La chiave quindi non sta nell’aiuto esterno, ma nel
modo in cui di questo si approfittò e in quali fattori interni favorirono il consolidamento delle
diverse opzioni politiche.
Il 15 giugno 77 ebbero luogo le prime elezioni democratiche dal 1936. queste elezioni registrarono
il trionfo della UCD (lo schieramento democratico di centro guidato da Suarez), mentre a sinistra il
PSOE prevalse nettamente sul PCE. Questi risultati furono senza dubbio graditi alle cancellerie
occidentali: gli USA si felicitavano della sconfitta del PCE, mentre a Bonn ci si felicitava per
l’appoggio riuscito al PSOE. La cittadinanza spagnola rifiutava quindi il mantenimento del modello
franchista, ma anche rifiutava il modello proposto dai comunisti. A partire da questo momento la
Spagna si avvia inequivocabilmente sulla strada della democrazia, tanto nella dimensione interna
quanto in quella internazionale. Subito dopo le elezioni fu infatti formalizzata la richiesta di
adesione alla Comunità europea.
Non ci fu mai unanimità, né all’interno, né all’esterno del paese, riguardo al momento esatto in cui
la Spagna avrebbe potuto essere considerata una democrazia, né quindi sul momento più adatto per
richiedere l’adesione alla CE con una garanzia di piena accettazione. In molti, tra cui i rappresentati
del PSOE, erano convinti che per il raggiungimento di una piena democrazia fosse necessaria
l’adozione di una nuova Costituzione, e che solo allora sarebbe stato utile avanzare la richiesta di
adesione. Era infatti diffusa la percezione che Suarez volesse utilizzare la richiesta per guadagnare
per se stesso una quota di legittimità democratica che invece la Comunità avrebbe dovuto estendere
a tutto il sistema politico, e non ad un solo partito. Il governo spagnolo in generale, e il suo ministro
degli esteri in particolare, dovettero rispondere a numerose accuse in questo senso.
La fretta di Suarez però può essere valutata sulla base di tre motivi fondamentali. Il primo era che la
strategia di ottenere i benefici commerciali di uno status prossimo all’associazione, senza pagare,
per questo, alcun pedaggio non era più possibile dopo il 31 luglio 77: la liberalizzazione del settore
industriale spagnolo era ancora molto bassa e questo bloccava i negoziati ispano-comunitari; ciò
portava ad un’azione di rappresaglia da parte dei Nove contro la protezione statale spagnola
all’esportazioni in alcuni settori. La seconda urgenza derivava dall’imminente entrata in vigore
dell’allargamento delle acque territoriali di pesca esclusiva della CEE, che obbligava ad espellere
quasi completamente e immediatamente la grande flotta peschereccia spagnola, il che avrebbe avuto
un impatto rilevante sulle economie di vaste zone industriali. Il terzo motivo era la necessità, quasi
imperiosa di raggiungere il Portogallo e la Grecia per legare il destino dei tre paesi rispetto alla
Comunità, volendo sottolineare la dimensione politica di consolidamento democratico, che un
allargamento a sud avrebbe portato per i tre paesi appena usciti dall’autoritarismo.
Tutte queste difficoltà avevano una sola via d’uscita: riunire tutte le questioni aperte n una sola, che
avrebbe permesso che ogni concessione del governo spagnolo ottenesse in cambio il maggior
guadagno che si potesse allora immaginare, l’incorporazione della Spagna nella CE.
La risposta della Comunità non fu immediata, né giunse redatta in termini che potessero essere di
molto aiuto per il consolidamento democratico spagnolo. Già da tempo Francia e Italia avevano
dato inizio a manovre dilatorie per stabilire un prezzo da pagare per poter dichiarare la Spagna,
paese candidato all’adesione.
L’ingresso della Spagna nel Consiglio d’Europa (novembre 77) generò l’illusione della relatività
facilità con cui la Spagna avrebbe ottenuto la normalizzazione internazionale ma anche l’illusione
che le principali forze politiche spagnole avrebbero mantenuto un accordo base in materia di
politica estera e sicurezza. Entrambe le illusioni non avrebbero tardato a essere demolite nel
momento in cui la questione dell’adesione alla NATO e alla Comunità, fossero poste al centro
dell’agenda politica.
La transizione spagnola conobbe un punto di svolta determinante con l’approvazione di una nuova
costituzione nel 1978, che portò nel marzo 1979 alle prime elezioni generali in un quadro
pienamente costituzionale. Ciò permise di dare il via ufficiale ai negoziati per l’Adesione alla CE.
Il programma con cui Suarez si era presentato alle elezioni (e le aveva vinte) comprendeva anche
una posizione favorevole all’adesione della Spagna all’Alleanza atlantica. Questa opzione acquistò
rilevanza quando nell’80 il presidente francese d’Estaing, per ragioni strettamente elettorali, decise
di imporre il blocco ai negoziati per l’adesione della Spagna alla CE, e rimandando sine die i
vantaggi elettorali che questa avrebbe procurato al terzo governo Suarez, assediato dalla crisi
economica e sociale, e dai partiti d’opposizione che riuscirono a sfiduciarlo. Il suo successore,
Calvo-Sotelo, continuò però sulla linea di Suarez, scatenando la reazione di Gonzàlez e del PSOE.
Di fronte a questo atteggiamento cercò l’appoggio esterno che, rispetto all’intransigenza socialista,
sembrava poter giungere soltanto dalla Germania federale, da sempre favorevole all’ingresso della
Spagna nella NATO. Contribuì ad accelerare la vicenda della veloce incorporazione all’Alleanza
atlantica l’insoddisfazione dell’atteggiamento degli USA rispetto alle necessità strategiche del paese
e del suo governo. In primo luogo l’atteggiamento degli USA era quanto meno ambiguo e la
sicurezza del paese non poteva essere riposta in un piano bilaterale con Washington. In secondo
luogo, la stabilità ad ampio raggio della democrazia richiedeva di modernizzare e occidentalizzare
le forze armate per poter così porre fine alla catena di cospirazioni da parte degli elementi più
recalcitranti dell’esercito, tese ad identificare un’evoluzione politica con la quale non si erano mai
identificati. L’incorporazione della Spagna nella NATO si era trasformata in una questione di
sicurezza nazionale: questo fu il messaggio con cui Calvo-Sotelo difese la sua richiesta di
autorizzazione parlamentare per procedere all’Adesione della Spagna alla NATO. La resistenza di
alcuni settori delle forze armate divenne palese quando un gruppo di ufficiali e di militari tentò il
colpo di stato, assaltando il parlamento nell’81. La risoluzione passò con una discreta maggioranza
ma il PSOE diede vita ad una forte campagna contro l’ingresso nella NATO. Il 28 ottobre 82 il
partito di Gonzàlez vinceva le elezioni generali, e poco tempo dopo annunciò la paralisi del
processo di incorporazione della Spagna nelle strutture dell’Alleanza fino a che il governo non
avesse potuto valutare la situazione. Il governo di Gonzàlez non avrebbe però tardato a
comprendere come l’adesione alla NATO e quella alla CEE, fossero due questioni interconnesse.
La transizione esterna della Spagna si completò solo nel 1986, quando con il suo ingresso nella
Comunità vennero anche ridefiniti i rapporti tra la Spagna e l’Alleanza (forze militari inquadrate
nella NATO ma sotto il controllo diretto del governo spagnolo).