La situazione internazionale
Fra le nazioni europee, la Gran Bretagna trae dalla prima guerra mondiale i massimi
vantaggi. Abbattuta e umiliata la pericolosa rivalità germanica, essa ottiene in Africa,
grazie all'annessione di buona parte delle colonie ex tedesche, il controllo della via che
attraversa il continente nero dal Capo al Cairo; domina il Medio Oriente grazie ai mandati
sull'Irak, sulla Transgiordania e sulla Palestina; detiene in Estremo Oriente le posizioni
strategiche di Singapore e di Hong Kong; amplia complessivamente il suo impero di circa
2 milioni di chilometri quadrati e di circa 8 milioni di abitanti.
I problemi che l'Inghilterra deve affrontare sono peraltro proporzionati alla stessa vastità
dei suoi domini.
L'Egitto freme sotto il protettorato di fatto inglese, che sopravvive alla formale
concessione di indipendenza del 1922. Si hanno momenti di vera e propria insurrezione
(1924) che inducono l'Inghilterra a rendere meno rigida la propria egemonia e a sostituirla
con un'alleanza (1936), nella quale però l'Egitto rimane nettamente subalterno.
L'India, che ha dovuto costatare come le promesse di autonomia fatte dall'Inghilterra nei
momenti più critici del conflitto non siano state mantenute, trova in Gandhi una guida di
altissima statura morale e politica. Questi predica la non violenza e la resistenza passiva, e
riesce a impegnare le masse popolari in vastissime azioni dimostrative - come la campagna
per la tessitura a mano, al fine di boicottare i prodotti tessili inglesi (1924-1928) - nelle
quali esse prendono coscienza dei propri diritti e maturano le premesse della futura libertà.
Nel 1935 gli Inglesi concedono all'India una nuova costituzione, nella speranza di frenare
con concessioni parziali il nazionalismo indiano; ma in effetti questa non sarà che una
tappa verso la ormai inevitabile indipendenza totale.
Il processo verso una sempre più ampia autonomia, già in atto sullo scorcio del sec. XIX, è
vivacissimo presso le popolazioni dei dominion1. La classe dirigente britannica ne
1
Le colonie inglesi popolate da bianchi o dominate da forti minoranze bianche ottennero progressivamente
la condizione di dominion, cioè di Stati autonomi, con governi propri, uniti fra di loro solo in quanto tutti
soggetti alla Corona inglese. Periodiche riunioni cui partecipavano il primo ministro inglese e i primi
riconosce la necessità e la irreversibilità e, con successive concessioni, arriva a
sottoscrivere un vero e proprio statuto del Commonwealth (dicembre 1931), nel quale si
dichiara che «la Gran Bretagna e i dominion sono, in seno all'impero, delle collettività
autonome, con eguale statuto; esse non sono in nessun modo subordinate le une alle altre...
ma sono unite da un comune legame alla medesima corona, ed associate liberamente come
membri della Comunità delle Nazioni Britanniche».
Se la moderazione e la mediazione politica permettevano di conservare, profondamente
modificandolo, l'immenso edificio dell'impero, nulla poteva invece evitare che
l'importanza del Commonwealth diminuisse nei confronti della nuova realtà mondiale,
nella quale l'Inghilterra cedeva il primato alla potenza statunitense per ragioni oggettive.
Ciò fu evidente sin dalla conferenza di Washington, riunitasi dal novembre 1921 al
febbraio 1922 per trattare della limitazione degli armamenti e di altre questioni «sorte
nell'area del Pacifico». Vi parteciparono gli Stati Uniti, l'Inghilterra, la Francia, l'Italia e il
Giappone (oltre alla Cina, al Belgio, all'Olanda e al Portogallo, che vi ebbero una parte se-
condaria), e vi si stabilì l'obbligo di rispettare l'indipendenza della Cina, che a sua volta si
impegnava alla cosiddetta politica della «porta aperta», ossia a permettere agli stranieri la
più ampia libertà di commercio entro i suoi confini; USA, Gran Bretagna, Francia e
Giappone si impegnarono al mutuo rispetto dei loro possedimenti nel Pacifico (clausola
con la quale glì Americani intendevano garantirsi il dominio sulle Filippine e infrenare
l'imperialismo giapponese); infine si convenne che il tonnellaggio delle flotte militari dei
contraenti avrebbe dovuto conformarsi alle proporzioni espresse dai coefficienti di 5 (USA
e Inghilterra), 3 (Giappone), 1,67 (Italia e Francia).
Con ciò l'Inghilterra abbandonava per sempre la 1 tradizionale politica del two powers
standard 2, mentre la stessa apparente parità navale con gli USA si traduceva in una reale
superiorità di questi, che mediante il Canale di Panama avrebbero potuto rapidamente
trasportare le loro flotte dall'Atlantico al Pacifico e viceversa. Pertanto l'amicizia con gli
Stati Uniti diventava una costante necessità per l'Inghìlterra, che senza il loro aiuto non
avrebbe più potuto difendere il proprio impero.
E poiché nel Pacifico gli Stati Uniti erano in concorrenza con l'espansionismo nipponico,
la Gran Bretagna dovette sacrificare ai nuovi vincoli l'alleanza contratta col Giappone nel
1902 , che scadeva nel 1922 e che effettivamente non fu rinnovata.
Già prima della guerra gli Stati Uniti per l'egemonia che esercitavano sull'intero
continente americano e per la loro progressiva penetrazione nel Pacifico, erano da annove-
rare fra le massime potenze economico-politiche mondiali, ma, ciò nondimeno, non si
erano mai intromessi nelle questioni europee e coloniali. La guerra peraltro mutò
radicalmente i rapporti di forza. Creditori dell'Inghìlterra per oltre 20 miliardi di franchi,
della Francia per 15 miliardi, dell'Italia per oltre 8 miliardi, gli Stati Uniti realizzarono
durante il conflitto un nuovo aumento della propria potenza produttiva e finanziaria.
L'aumento di ricchezza statunitense, per giunta, già cospicuo in senso assoluto, risultò
anche più rilevante in rapporto alle paurose perdite di beni e di capacità produttive che la
guerra aveva determinate in tutta Europa.
Né minore era il prestigio statunitense sotto il profilo morale e politico: contro le
rivendicazioni, spesso grette, dei nazionalismi europei, il presidente Wilson aveva propo-
sto i suoi 14 punti, che sonavano come un manifesto di libertà, di democrazia e di
ministri dei dominion dovevano elaborare una linea politica tendenzialmente unitaria. Nell'ordine,
conseguirono la condizione di dominion il Canada (1867), l'Unione australiana (1900), la Nuova Zelanda
(1907), l'Unione sudafricana (1910).
2
Alla lettera: «livello di due potenze». Con questa espressione gli Inglesi indícavano la loro volontà di man-
tenere una flotta da guerra superiore alle flotte delle due massime potenze navali straniere riunite.
autonomia per tutti i popoli, sicché al tavolo della pace egli era apparso l'unico uomo dai
vasti orizzonti fra i molti diplomatici che continuavano le loro anguste manovre.
Ben presto però il liberismo democratico del Wilson, che implicava l'egemonia mondiale
degli Stati Uniti, fu ripudiato dal senato e da gran parte dell'opinione pubblica americana
come troppo pericoloso: pericolosa fu considerata soprattutto l'adesione alla Società delle
Nazioni, che sembrava invischiare gli Stati Uniti in controversie europee del tutto estranee
ai loro interessi.
Così non solo Wilson fu sconfessato e prevalsero le correnti isolazionistiche, che volevano
una politica di disimpegno in Europa e di impegno esclusivo nell'area del Pacifico secondo
prospettive e valutazioni di corto respiro.
Si diffuse, in quegli anni, il pericoloso mito che contrapponeva la «virtuosa America» alla
«immorale Europa» e in esso fermentarono i sentimenti e i risentimenti più contraddittori.
La proibizione delle bevande alcoliche, votata nel 1919, con l'inevitabile seguito delle
frodi e l'incremento della delinquenza, fu una delle manifestazioni del puritanesimo
americano che, mescolando spunti idealistici a motivi grettamente utilitari e peggio che
utilitari, lottava contro la corruzione pubblica e privata, ma anche contro la libertà degli
scambi e in favore del protezionismo, contro le minoranze cattoliche o ebree, contro i
negri, contro i comunisti, contro gli immigrati.
Ricomparve allora la trista setta del Ku Klux Klan, sinistramente famosa per le sue
violenze «puritane», spesso culminanti nell'atroce linciaggio di qualche sventurato negro.
L'intolleranza, la xenofobia, l'odio di classe si manifestarono in processi come quello che
nel 1927 si concluse con la condanna a morte degli italiani Sacco e Vanzetti, benché la
loro innocenza fosse chiaramente emersa, o come altri, dall'esito meno drammatico ma
ugualmente significativi, contro intellettuali colpevoli solo di professare idee non
conformistiche.
II «continente» Stati Uniti non si esauriva, ovviamente, nel razzismo e nel fanatismo:
continuava a sussistere una ben diversa America, legata alle ipotesi di sviluppo, ricerca e
partecipazione democratica.
Alcune caratteristiche dei metodi di produzione e di distribuzione apparvero negli Stati
Uniti con notevole anticipo rispetto al resto del mondo. Ci riferiamo, in primo luogo, alla
formazione di holding finanziarie, di trust, di corporation (come la U.S. Steel
Corporation, l'American Tobacco, la Standard Oil Company dei Rockefeller), sorte in
buon numero già intorno al 1900 allo scopo di regolare o eliminare la concorrenza e di
programmare investimenti e ritmi del progresso tecnico in vista della massimizzazione dei
profitti.
Negli anni Venti il processo di concentrazione capitalistica continuò e riguardò, in
particolare, le aziende locali dei trasporti urbani, di distribuzione del gas, dell'acqua e
dell'energia elettrica, che si riunirono in più ampi complessi regionali o nazionali.
Nacquero allora anche grandi catene di distribuzione di generi alimentari e vari (Grandi
Magazzini), nonché di teatri e di cinema.
Dagli Stati Uniti derivò anche il taylorismo, applicato per la prima volta da Henry Ford
all'industria automobilistica con risultati grandiosi e ideato appunto dall'ingegnere
Frederick Taylor (1859-1915), che studiò una suddivisione e organizzazione del lavoro
atta ad aumentarne la produttività.
Alla produzione industriale di massa, che per la sua economicità consentiva e richiedeva
la diffusione dei beni ad ampi strati della popolazione, corrispose l'uso massiccio della
pubblicità, rivolto a formare una sorta di «compratore di massa», dominato dagli slogan e
dalla "filosofia" dei consumi.
Il sistema era integrato dall'enorme espansione della vendita a rate, necessaria per venire
incontro sia alla volontà dei consumatori di godere di determinati beni economici prima
d'aver accumulato i risparmi che ne consentissero l'acquisto, sia al bisogno delle grandi
industrie di procurarsi sempre nuovi clienti, ossia di avere a disposizione una domanda di
beni commisurata all'enorme flusso della loro offerta.
Supporto ideologico di questa civiltà «produttivistico-consumistica» fu lo sfrenato
ottimismo individualistico dei «ruggenti anni Venti», poggiante sulla convinzione che si
fosse ormai entrati in un'età di costante e automatico aumento della prosperità generale,
determinato dai «miracoli» della libera impresa.
Lettura di approfondimento
Secondo gli economisti classici, una crisi del sistema capitalistico determinata dall'eccedenza dell'offerta
sulla domanda (crisi di sovrapproduzione) doveva considerarsi semplicemente impossibile, perché - come
affermò il francese Jean-Baptiste Say in un'opera pubblicata nel 1803 - l'offerta crea una domanda
esattamente identica a se stessa. II ragionamento di Say era, nella sua essenza, lineare e convincente: si
produce per vendere, si vende per procurarsi danaro, ci si procura danaro per spenderlo in nuovi acquisti;
quindi, se per esempio i produttori mettono sul mercato merci per un valore di 1000 unità monetarie
qualsiasi (offerta), utilizzano poi le 1000 unità, ricavate dalla vendita delle loro merci, per acquistare altre
merci (domanda), e dunque un'eccedenza dell'offerta sulla domanda è impossibile (o tutt'al più si può
verificare su un mercato locale e per circostanze contingenti di breve durata).
Senonché, sul piano della realtà, le crisi di sovrapproduzione continuarono a manifestarsi ad intervalli
pressoché regolari, resistendo indisturbate agli esorcismi teorici degli economisti classici. Ciò nondimeno,
tale era il turbamento che le crisi proiettavano sulle concezioni ottimistiche dello sviluppo capitalistico che,
per quanto fossero state precocemente spiegate dal Marx, esse furono per la prima volta «legittimate» dalla
scienza economica borghese solo in tempi recenti, quando l'inglese John Maynard Keynes (1883-1946) - in
una serie di saggi pubblicati negli anni Venti e nella sua opera fondamentale, Teoria generale dell'impiego,
dell'interesse e della moneta (1936) - confutò la presunta legge di Say e riscoprì la genesi delle crisi di
sovrapproduzione.
I redditi (costituiti da salari, stipendi, profitti, rendite e interessi) vengono in parte consumati e in parte
risparmiati. Ora - osserva il Keynes - se i risparmi venissero completamente reinvestiti, ossia spesi
nell'acquisto di mezzi di produzione, allora la legge di Say sarebbe valida. Se invece una parte dei risparmi
viene «congelata», ossia non reinvestita, non spesa in alcun modo, allora la domanda risulta inferiore all'of-
ferta. Questo secondo caso è non solo possibile ma anzi probabile, soprattutto quando la distribuzione dei
redditi fra le varie classi sociali è fortemente squilibrata. Infatti, mentre i redditi più bassi (salari e stipendi)
vengono spesi necessariamente da coloro che li percepiscono perché sono per intero, o quasi per intero,
indispensabili alla loro sussistenza, le classi più elevate non sono affatto costrette a spendere per intero i loro
redditi e possono anzi realizzare notevoli risparmi. Tali risparmi, poi, verranno impiegati effettivamente in
investimenti, solo se le aspettative saranno favorevoli, ossia se i risparmiatori saranno animati dalla speranza
di ricavare dagli investimenti dei buoni profitti. In caso contrario gli investimenti verranno procrastinati, in
attesa di occasioni più propizie, e i risparmi rimarranno «congelati» e non alimenteranno la domanda. Da
questa flessione della domanda nasce la crisi di sovrapproduzione.
Pertanto, sempre secondo Keynes, l'illusione che il capitalismo possa salvarsi affidandosi ai puri e semplici
automatismi del libero mercato deve essere abbandonata, ed è anzi necessario che lo Stato, salvaguardando il
principio della proprietà e dell'iniziativa privata, intervenga energicamente nelle attività economiche e,
mediante un'organica strategia fiscale, prelevi una parte dei capitali dalle classi ricche, più inclini a
congelarli, e li distribuisca fra le classi meno abbienti, le quali li rimetteranno necessariamente in
circolazione. Questo drenaggio di capitali è da attuare tramite la promozione di grandi opere pubbliche (che
comportano ingaggio di mano d'opera, distribuzione di salari, acquisto di macchine, materiali, utensili),
tramite la concessione di sussidi ai disoccupati in modo che questi conservino almeno in parte le lo ro
capacità d'acquisto, tramite l'impiego di mano d'opera persino in lavori scarsamente produttivi a bassissima
intensità di capitale, o al limite in lavori assurdi (come sarebbe lo scavar buche e poi ricolmarle); purché,
insomma, i redditi vengano distribuiti quanto basta per evitare una flessione della domanda.
Grazie a una politica d'intervento statale come quella sopra esemplificata, il capitalismo, secondo il Keynes,
potrà evitare d'essere travolto dal comunismo o di degenerare in fascismo, e riuscirà anzi a conciliare il
massimo grado di efficienza col massimo grado di libertà e di democrazia.
Gli anni Venti e il “boom” economico
La grande crisi del 1929 ebbe inizio negli Stati Uniti, si diffuse in tutti i paesi capitalisti e,
attraverso fasi di diversa intensità, si protrasse fino all'inizio della seconda guerra
mondiale, concorrendo a determinarla. Essa confermò sia le previsioni diMarx, sia le
ipotesi che, con tutt'altra intenzione, Keynes andava elaborando proprio in quegli anni.
Nell'immediato dopoguerra l'economia statunitense, stimolata dalla domanda che veniva
dall'Europa per le necessità della ricostruzione, ebbe un forte incremento, cui nel biennio
1920-21 seguì una fase di recessione, determinata soprattutto dal fatto che, colmati i più
gravi guasti della guerra, la domanda europea era bruscamente diminuita.
La ripresa fu però rapida e imponente: dal 1922 al 1929 la produzione industriale
statunitense, già assai elevata in linea di partenza, aumentò del 64%, la produttività del
lavoro del 43%, i profitti del 76%, i salari del 30%.
L'enorme differenza fra la crescita dei profitti e della produzione, da una parte, e quella dei
salari, dall’altra, accentua lo squilibrio nella distribuzione dei redditi: infatti, nel periodo
considerato, il 5% della popolazione statunitense percepiva un terzo dell'intero reddito
nazionale, e, in particolare, i 500 cittadini più ricchi si dividevano fra di loro una somma di
redditi equivalenti a ben 600 000 salari degli operai dell'industria automobilistica, che
erano fra i meglio retribuiti. Per converso, il 60% della popolazione aveva un reddito
annuo medio pro capite appena sufficiente per la sussistenza: per la "sussistenza",
ovviamente, quale era intesa in un paese ad alto sviluppo industriale.
L'insufficienza della domanda statunitense interna, dovuta alla squilibrata distribuzione dei
redditi, fu per qualche anno compensata dalla domanda dall'estero, ossia dalle
esportazioni. Senonché, per i forti crediti concessi dagli USA agli Alleati europei durante
la guerra, al termine delle ostilità l'Europa si trovò costretta a pagare contemporaneamente
sia l'eccedenza delle importazioni, sia i debiti contratti e i relativi interessi . Fino a un certo
punto il problema poteva essere rinviato grazie al drenaggio di riserve auree dall'Europa
agli Stati Uniti e grazie a nuovi prestiti, ad alto tasso di interesse, contratti dai paesi
europei nei confronti di banche private statunitensi. Ma il rimedio temporaneo era
destinato ad accrescere il disavanzo europeo. Né era possibile ristabilire realmente
l'equilibrio aumentando le esportazioni europee verso l'America, perché a ciò si
opponevano le dogane protettive votate dal Congresso statunitense. Era pertanto
inevitabile, alla distanza, che l'Europa non pagasse i debiti e riducesse le importa -
zioni dagli Stati Uniti, con conseguenze disastrose specie per l'agricoltura statunitense,
che si reggeva in larga misura sulle esportazioni di cotone, di tabacco e soprattutto di
grano.
A partire dal giugno del 1929, mancato ogni compenso all'insufficienza della domanda
interna americana, la crisi di sovrapproduzione comincia a colpire le industrie chiave,
specie siderurgiche, e anche più gravemente le attività agricole.
Durante la guerra la produzione europea di cereali si era molto ridotta, e l'Europa aveva
importato grandi quantità di grano americano. Negli anni successivi, però, l'agricoltura
europea aveva recuperato e superato i livelli produttivi prebellici, e le importazioni
dall'America erano quindi diminuite.
Nel 1929 il raccolto fu particolarmente abbondante sia in America sia in Europa, e perciò i
prezzi dei cereali precipitarono, mettendo nelle più gravi difficoltà gli agricoltori
statunitensi.
La crisi dell'economia reale nel giro di pochi mesi si ripercuote sull'andamento della borsa.
Coll'inizio di settembre, infatti, la corsa al rialzo cessa, e inizia un periodo di fluttuazioni
prevalentemente orientate verso il ribasso.
La gente che ha investito in titoli comincia a sospettare che sia giunto il momento di
venderli «prima che sia troppo tardi». E anche la tendenza a vendere avvalora se stessa, in
quanto determina il decrescere delle quotazioni.
Infine, dopo alcune settimane di oscillazioni e di incertezze, si diffonde il panico che
scatena la corsa alle vendite: il 24 ottobre 1929 (giovedi nero) quasi tredici milioni di
azioni vengono contrattate a New York a prezzi che ovviamente precipitano. L'intervento
organizzato di alcuni finanzieri, che per dare prova concreta del loro professato ottimismo
e per sostenere la borsa acquistano titoli, consente temporanei recuperi o battute d'arresto,
ma non basta a rovesciare la corsa alle vendite. Il processo è ormai incontrollabile: salvo
brevi momenti di ripresa, il ribasso continua fino all'8 luglio del 1932, quando tocca il
fondo. In concreto ciò significa che chi avesse acquistato titoli il 3 settembre 1929 e li
avesse rivenduti l'8 luglio 1932, avrebbe perso mediamente più dell'87% del suo danaro: di
cento dollari gliene sarebbero rimasti meno di tredici.
Il crollo della borsa, se non fu la causa della crisi, concorse certamente a inasprirla, in
quanto portò alla rovina parecchie centinaia di migliaia di Americani e privò di capacità
d'acquisto e d'investimento anche una parte significativa delle classi abbienti. La fiducia
dell'opinione pubblica nella saggezza, nella previdenza e nell'onestà degli uomini d'affari e
dei finanzieri, funzionale al sistema, ne uscì distrutta.
Nell'economia reale, perciò, la situazione, già compromessa, divenne anche più disastrosa.
Fra il 1929 e il 1932-33 la produzione complessiva statunitense si ridusse di circa un terzo;
i disoccupati salirono progressivamente, sino a raggiungere nel 1933 la cifra massima di
oltre 13 milioni (corrispondente all'incirca a un lavoratore su quattro), e soltanto nel 1937,
grazie alla ripresa di cui parleremo più avanti, scesero al di sotto degli 8 milioni (saliti di
nuovo oltre i 10 milioni nel 1938).
Poiché gli Stati Uniti erano diventati il centro di gra vità del sistema economico mondiale
(fatta eccezione per la Russia Sovietica), la crisi si diffuse rapidamente in tutti i paesi
capitalisti.
Nel precedente periodo di espansione l'eccedenza di capitali statunitensi aveva trovato
sfogo in prestiti e in investimenti all'estero, sicché ora bastò il ritiro di questi capitali
per espandere la depressione su scala internazionale: particolarmente colpite furono la
Germania e l'Austria, dove i prestiti privati americani erano stati più ingenti.
La sovrapproduzione fece sentire i suoi peggiori effetti nel settore primario (agricoltura)
che produce generi esposti alle più brusche oscillazioni di prezzo.
Gli agricoltori americani furono infatti rovinati dal precipitare dei prezzi, e a uguale rovina
furono esposti quei paesi che fondavano la loro economia sull'esportazione di derrate
derivanti dall'agricoltura e dall'allevamento (come l'Argentina, l'Uruguay e l'Australia),
che non ebbero più alcuna possibilità di pareggiare la loro bilancia commerciale con
l'estero e videro le loro monete gravemente svalutate.
Ma anche l'Inghilterra, malgrado lo sviluppo delle sue industrie, non fu più in grado di
compensare le importazioni con le esportazioni e dovette intaccare le proprie riserve auree.
Fu pertanto costretta ad abbandonare la base aurea e a svalutare la sterlina (1931) per
rilanciare le esportazioni. Poiché però gli altri paesi (compresi gli Stati Uniti che pure
avevano le più abbondanti riserve auree del mondo) seguirono l'esempio inglese, si ritornò
pressappoco alle condizioni di partenza, e la semplice manovra monetaria risultò
sostanzialmente inefficace.
I governi ricorsero allora ampiamente a dogane protettive, o stabilirono semplicemente la
quota massima dei vari generi importabili, o ricorsero a scambi bilaterali di merci contro
merci, che evocavano il baratto altomedievale: cosi per esempio la Germania scambiò con
la Iugoslavia macchine fotografiche contro maiali.
In tal modo, sia per la crisi sia per le misure stesse adottate per contrastarla, l'unità
economica mondiale del primo Novecento fu completamente perduta, e venne sostituita da
un mosaico di singole economie nazionalistiche in dura lotta fra di loro, mentre gli scambi
internazionali cadevano a un terzo del loro volume precedente.
Per tutte queste ragioni la produzione industriale europea subì un calo non meno rilevante
di quella statunitense, e il numero di disoccupati sali a oltre 6 milioni in Germania, a 3
milioni in Inghilterra, a oltre 1 milione in Italia, a quasi mezzo milione nella stessa
Austria, che pure i trattati di pace avevano ridotta a una popolazione di soli 6 milioni di
abitanti.
Il nazionalismo economico e l'avvento del nazismo in Germania, grandemente facilitato
dalla crisi, concorreranno in misura determinante alla deflagrazione della seconda guerra
mondiale.
Il New Deal negli USA
Col 1938 la politica specificamente ispirata ai princi pi del New Deal poté considerarsi
conclusa: infatti le minacce che il nazismo addensava sull'Europa e che l'imperialismo
nipponico, concorrente pericoloso degli Stati Uniti, faceva gravare sull'Estremo Oriente,
indussero il governo a moltiplicare le spese per gli armamenti, e queste furono di tale
entità da bastare da sole a far superare la crisi: tant'è vero che la disoccupazione spari
rapidamente. Nella nuova situazione il Roosevelt fu rieletto alla presidenza una terza volta
nel 1940 e una quarta volta nel 1944, sia pure con margini di maggioranza decrescenti,
cosicché egli tenne la presidenza degli Stati Uniti sin quasi al termine della seconda guerra
mondiale: mori infatti il 12 aprile del 1945, alla vigilia della vittoria sul nazismo.
Il giudizio sul New Deal e sull'opera politica del Roosevelt è tuttora oggetto di vivace
discussione fra gli storici. Noi ci limiteremo a indicare le conclusioni che ci sembrano
meno controvertibili.
Il New Deal seppelli per sempre le tesi del liberismo puro e introdusse irreversibilmente la
pratica dello Stato assistenziale (Welfare State) non solo in America, ma anche, in misura
diversa, in tutti gli altri paesi capitalisti.
La ripresa economica, che era fra gli obiettivi fondamentali del Presidente, fu in buona
parte attuata.
Il pieno impiego della manodopera non fu però raggiunto se non col riarmo, che non
apparteneva alla logica propria del progetto rooseveltiano.
La ridistribuzione dei redditi, che era nei programmi di Roosevelt, fu effettivamente
conseguita in misura notevole.
Il New Deal, infine, allargò e tutelò le libertà sindacali e consolidò le libertà politiche,
tanto che gliStati Uniti divennero il rifugio di molti intellettuali scacciati dalle loro patrie
dalla persecuzione nazista e fascista: citeremo, fra i grandissimi, Albert Einstein, Thomas
Mann, Sigmund Freud, Enrico Fermi. Quest'ultimo diede contributi decisivi agli studi di
fisica atomica, nei quali gli Stati Uniti erano all'avanguardia.