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Marco Brighenti 02-10-2019

Andreea Cornelia Mosulet Ortopedia, Lezioni 1 e 2


Prof. Angelini

ORTOPEDIA E TRAUMATOLOGIA

Il Prof si presenta ed introduce brevemente il corso, che si articola in una prima parte di ortopedia e
traumatologia ed in una seconda parte di fisiatira e riabilitazione, tenuta dal prof. Masiero e dal prof.
Frizziero.
Il Prof si occupa del campo oncologico dell'ortopedia e viene dall'Istituto Ordopedico Rizzoli.
Il corso si chiama "ortopedia e traumatologia": nella clinica questi due ambiti hanno peculiarità indipendenti.
Un traumatologo si occupa esclusivamente di fratture, mentre il chirurgo ortopedico tende a specializzarsi nei
vari distretti: anca, ginocchio etc.

L'80% delle problematiche della sanità pubblica sono di natura ortopedica o cardiaca, quindi è bene che
anche chi non è interessato all'ortopedia conosca i concetti di base di questa disciplina.

I testi consigliati sono:

Clinica ortopedica: Mario Campanacci, Ediz. Patron 2004.

Manuale di ortopedia e traumatologia, S.Giannini, C.Faldini, Ediz. Minerva Medica.

Entrambi questi testi sono ben strutturati ed offrono una buona panoramica su tutti gli argomenti. L'esame
verte quasi unicamente su ciò che affronteremo a lezione.
All'esame ci sarà una commissione unificata con tutti i professori di tutti i Med.

RIPASSO DI ANATOMIA: OSSA

Macroscopicamente si distinguono ossa brevi, lunghe e piatte.


 Ossa lunghe: la porzione centrale è chiamata diafisi, le estremità sono le epifisi, mentre la regione di
connessione è detta metafisi. Le epifisi sono rivestite da cartilagine articolare.
 Ossa brevi: non hanno una dimensione che predomina sulle altre. Esempi di ossa brevi: vertebre,
carpo, tarso. All'esame il prof Ruggeri mostra spesso una RX di una mano e chiede di riconoscere ossa
del carpo. Ricordatele. Perché di solito boccia su questa domanda.
 Ossa piatte: sono ossa in cui una delle due dimensione predomina su un'altra. Esempi di ossa piatte:
coste, sterno, scapola, ossa del bacino, cranio.ù

L'osso è formato da una parte corticale ed una spongiosa.


L' osso corticale è una struttura omogenea e compatta, ha una struttura molto precisa. L'osso corticale
costituisce periferia della diafisi delle ossa lunghe, mentre riveste solo in maniera limitata la periferia delle
epifisi, delle ossa brevi e piatte. Gli osteoni sono la struttura portante e ripetitiva del tessuto corticale: sono
composti da una serie di lamelle concentriche che definiscono i canali di Havers, nei quali passano i rami
vascolari e nervosi. I diversi canali di Havers sono collegati tra di loro dai canalicoli di Volkmann che
decorrono perpendicolarmente agli osteoni. Ogni osteone è limitato esternamente da una porzione
calcificata: la linea cementante.
Gli spazi non vascolari sono occupati da lamelle ossee, disposte a livello interstiziale. La lamelle sibi composte
prevalentemente da sostanza intercellulare, caratterizzata da matrice organica (collagene, glicoproteine,
proteoglicani) ed inorganica (prevalentemente fosfati e carbonato di calcio). La componente cellulare è
limitata: osteociti maturi e osteoblasti e osteoclasti.
Il tessuto corticale è strutturato in maniera molto ben definita dall'esterno all'interno. Esternamente
troviamo il periostio, mentre nella cavità midollare c’è l'osso spongioso. La vascolarizzazione fa breccia nel
periostio ed entra nella corticale attraverso i canali di Volkman e Havers: in questo modo è garantito il
nutrimento di tutte le cellule del tessuto osseo corticale.

Il tessuto osseo spongioso presenta una trabecolatura meno definita, con pattern irregolare. Il tessuto
spongioso costituisce la regione interna delle ossa brevi, piatte e delle metafisi e diafisi delle ossa lunghe .
L'aspetto macroscopico è quello di una spugna.
Dal punto di vista istologico le lamelle formano trabecole: non ci sono i canali di Havers, perchè il gli osteociti
e gli osteoblasti traggono nutrimento dalle cavità midollari tramite i loro prolungamenti.
La trabecolatura dell’osso spongioso e corticale non è casuale: segue le linee di forza del carico che viene
supportato.
Come si può osservare nell'immagine, la trabecolatura del collo del femore è disposta secondo

linee di forza che scaricano il peso dalla regione acetabolare a quella corticale.
Un tumore che andasse ad interessare la regione del collo del femore, andando a interrompere queste linee
di forza, potrebbe causare una frattura patologica.
Se le linee di carico vengono interrotte vi è un alto rischio di frattura: un altro paziente tipicamente a rischio è
l'anziano con osteoporosi.

PERIOSTIO ED ENDOSTIO

Il periostio una struttura fibrosa che costituisce la


superficie esterna delle ossea, ad eccezione
dell'articolazione vera e propria e di inserzioni dei tendini e
legamenti.
Lo spessore del periostio è variabile (1-3 mm): maggiore
nelle ossa brevi e nell’epifisi.
La funzione più importante del periostio è assicurare
nutrimento dell’osso, per questo motivo, quando le
fratture comportano un grave danno a livello periostale,
viene influenzata notevolmente la capacità di guarigione e
riparazione della frattura.
L'endostio ha una struttura simile a quella del periostio: riveste la superficie interna della cavità midollare,
compresa la superficie dei canali di Havers e Volkmann. Ha funzione nutritizia, ma meno rilevante di quella
del periostio.

EMBRIOLOGIA: OSSIFICAZIONE

Un ripasso dell'ossificazione è importante per due motivi:


 Pediatria: i bambini hanno un osso molto diverso da quello dell'adulto.
 Difetti di ossificazione possono determinare
patologie secondarie.

Il processo di ossificazione si divide in: ossificazione


encondrale ed intramembranosa.
Ossificazione encondrale: il feto ha struttura scheletrica
legata al tessuto cartilagineo ialino. All'interno della
cartilagine diafisaria penetrano delle strutture vascolari.
Dalla zona vascolarizzata le cellule condrogeniche si
differenziano in osteoprogenitrici e ulteriormente in
osteoblasti. Gli osteoblasti, successivamente, iniziano a
deporre matrice ossea. La zona diafisaria, per questo motivo,
già alla nascita è abbastanza mineralizzata, al contrario delle
epifisi. Durante accrescimento l'ossificazione encondrale
continua a livello delle cartilagini di accrescimento (metafisarie) che si chiuderanno solo alla maturità
scheletrica.

A causa della sua funzione, la cartilagine metafisaria è la zona più vascolarizzata dell'osso.
E' importante tenere a mente questa nozione, perchè un germe per via ematogena raggiunge facilmente
l'osso nel bambino a livello metafisario: l'osteomielite acuta nel bambino è molto più frequente che
nell'adulto.
La cartilagine di accrescimento ha una struttura molto ben definita le cellule tendono a maturare secondo la
lunghezza dell'osso, passando dalla parte cartilaginea alla parte di ossificazione vera e propria. Nei processi di
ossificazione sono molto importanti anche gli osteoclasti perchè qualunque processo di rimodellamento è
determinato da un'azione equilibrata di osteoblasti ed osteoclasti: non è mai un processo unidirezionale.
Ogni due anni si assiste ad un rinnovo di oltre il 90% della struttura ossea.

L'ossificazione intramembrsnosa è un'ossificazione


diretta. Le cellule mesenchimali si differenziano in
osteoblasti che iniziano a produrre la matrice.
Questo processo è tipico delle ossa piatte (cranio,
clavicola, scapola) ed è molto rapida, tanto che il bambino
appena nato ha una struttura delle ossa piatte già
sostanzialmente definita, senza grosse modificazioni nel
corso dell'accrescimento.
TESSUTO CARTILAGINEO

Il tessuto cartilagineo ha notevole elasticità rispetto all'osso. Come nell'osso, la matrice è composta da
collagene e proteoglicani, ma nella cartilagine c'è una ricca componente di fibre senza mineralizzazione. La
sostanza amorfa di origine proteica va a creare l'ambiente in cui si localizzano condrociti e condroblasti.
La cartilagine articolare sembra cocco come colore e consistenza.

Ci sono due tipi di cartilagine:

 Cartilagine ialina: più diffusa, ha matrice molto abbondante e costituisce superficie articolare,
rivestendo le epifisi delle ossa lunghe. È la stessa cartilagine che abbozza lo scheletro
nell'embriogenesi.

 Fibrocaetilagine: struttura più definita, più fibre, scarsa matrice amorfa, cellule isolate o in filiere. Si
trova in strutture particolari: costituisce anello fibroso dei dischi intervertebrali (nella zona che
riveste il nucleo polposo), menischi, sinfisi pubica, inserzione dei tendini, cercine glenoideo e
acetabolare, lobo orecchio. Sono tutte zone in cui è necessaria una struttura definita.

ARTICOLAZIONI

L'articolazione è un dispositivo giunzionale (struttura anatomica) per mezzo del quale due segmenti ossei
sono interconnessi. (La definizione di articolazione è spesso domanda dl'esame). All'interno dell'articolazioni
vi sono diverse trutture: le superfici articolari ossee, la cartilagine articolare, la capsula articolare, la
membrana sinoviale, legamenti, tendini: tutte strutture che determinano l'interconnessione tra capi ossei.
 Superfici articolari: possono essere più o meno concordanti. Il ginocchio ha delle strutture non
congruenti, convesse, che si articolano: per questo motivo nell'articolazione del ginocchio sono
presenti tutte le strutture di cui sopra. A seconda della forma delle epifisi, ci sono articolazioni
diverse e c'è necessità di avere altre strutture anatomiche che aumentino la concordanza (ad
esempio i menischi).
 Cavità articolare: è tutto cioè che è compreso all'interno della capsula articolare.
 Liquido sinoviale: riveste internamente tutta l'articolazione e ha funzioni diverse: nutrimento (la
cartilagine si nutre direttamente dal liquido sinoviale) e lubrificazione.
 Cartilagine articolare (ialina): di cui sopra.
 Capsula articolare: manicotto fibroso che definisce e limita esternamente l’articolazione.
 Legamenti: all’interno della capsula articolare, dal punto di vista anatomico, possiamo distinguere
delle strutture che hanno una conformazione a sé stante: i legamenti. Il legamento è una struttura
fibrosa, costituita da fibroblasti e collagene, strettamente orientata, che rinforza la capsula articolare
in alcune funzioni specifiche: nel ginocchio ci sono i legamenti collaterali (mediale e laterale) ed i
crociati (anteriore e posteriore) con la funzione precisa di rinforzare la capsula per darle stabilità.
Possono configurarsi come ispessimenti della capsula, come nel caso del legamento alare della
rotula, oppure essere assolutamente indipendenti, come i crociati.

TIPI DI ARTICOLAZIONI

Distinguiamo due tipi di articolazioni: sinartrosi e diartrosi.


Sinartrosi: articolazioni con ridotto grado di mobilità.
 Suture: articolazioni immobili i cui capi sono uniti da uno strato di tessuto connettivo.
 Sincondrosi: articolazioni tecnicamente immobili, ma dotate di una vera e propria struttura
articolare: una superficie cartilaginea che ricopre i capi ossei iuxta-articolari. Classico esempio è la
sacro-iliaca, è un’articolazione immobile che però nel caso del parto deve avere un minimo di
adattabilità.
 Sinfisi: articolazioni a mobilità limitata in cui, oltre alla cartilagine ialina, abbiamo anche un disco
fibrocartilagineo. Classico esempio è la sinfisi pubica, in cui la mobilità deve essere limitata sempre al
fine di permettere la dilatazione della pelvi durante il parto.
Diartrosi: sono le articolazioni mobili. L’ampiezza del movimento dipende dalla forma delle due epifisi.
 Enartrosi: articolazioni composte da una sfera che si muove in una coppa articolazione coxo-
femorale.
 Condiloartrosi: le superfici articolari hanno forma ellissoidale articolazione del ginocchio.
 Sella: costituita da una struttura concava e una convessa che si muovono l’una sull’altraarticolazione
metacarpofalangea
 Artrodie: i capi articolari sono pianeggianti articolazione acromion-claveare.
 Ginglimi: articolazioni particolari in cui il movimento è rotatorioarticolazioni radio-ulnare prossimale
e distale.

TESSUTO MUSCOLARE STRIATO

Il muscolo è costituito da un ventre muscolare e due estremità che si inseriscono all’osso.


(il prof. Raccomanda di non usare i termini “legamento” e “tendine” come sinonimi)
Dal punto di vista strutturale distinguiamo:
 Epimisio
 Perimisio
 Endomisio
La struttura del muscolo è ripetitiva: vi sono singole unità che costituiscono unità sempre maggiori fino a
definire il ventre muscolare. Dal punto di vista molecolare la struttura è garantita dalle miofibrille e quindi dai
filamenti di actina e miosina, che conferiscono la contrattilità.
Si chiama striato perché microscopicamente è visibile la striatura tipica, definita dall’allineamento specifico
dei lineamenti di actina e miosina l’uno sull’altro.
Tendini
Il muscolo ha una contrattilità del tipo “tutto o nulla”, ciò che va a modulare la contrazione del muscolo
sull’osso, e quindi il grado del movimento, è il tendine. Il tendine ha una componente di elasticità associata
ad una struttura che garantisce la tenuta meccanica, quindi protegge il muscolo da contratture anomale e
garantisce la fluidità del movimento.
Morfologicamente distinguiamo tendini di tipo:
 nastriforme, lungo (es. tendini dei muscoli flessori ed estensori a livello dell’avambraccio)
 cordoniforme, breve (es. capo lungo del bicipite)
 lamellare, largo (es. pettorale).
Anche il tendine ha una sua struttura, simile a quella del muscolo, costituita da:
 Ventre tendineo
 Giunzione muscolo-tendinea
 Giunzione osteo-tendinea
Dal punto di vista patologico e traumatologico questa suddivisione è importante, infatti quando si verifica il
distacco di un tendine, una rottura a livello della giunzione osteo-tendinea (che coinvolge le fibre di Sharpey)
è diversa da quella a livello del ventre o della giunzione muscolo-tendinea, in termini di risultati dei possibili
trattamenti e della funzionalità post-operatoria.
Ci sono alcuni tendini (avambraccio, mano, piede) che hanno una struttura accessoria: la guaina sinoviale,
all’interno del quale il tendine scorre.
Importante ricordare l’esistenza delle fibre di Sharpey, dal momento che ancora oggi non siamo in grado di
creare una struttura equivalente alla giunzione osteotendinea. Infatti, in caso di rottura, di solito il
trattamento prevede nello sperare che il tessuto cicatriziale riesca a mantenere salda la struttura del tendine
sull’osso, oppure talvolta si decide semplicemente di mettere dei punti (consapevoli del fatto che non
avranno assolutamente la stessa tenuta).
Borse
Sono strutture formate da una sottile membrana di connettivo, sono rivestite da sinoviociti (quindi sono
ricche di liquido sinoviale) e hanno la funzione di cuscinetto, infatti sono localizzate in zone specifiche in cui è
necessario ridurre gli attriti tra varie strutture anatomiche. Tipica patologia è la borsite olecranica: in seguito
al trauma la borsa si infiamma e si riempie di liquido sinoviale per ridurre al massimo l’attrito nella regione
lesionata.

TESSUTO NERVOSO

Parleremo solo del tessuto nervoso periferico. Il tessuto


nervoso periferico identifica tutto ciò che è distale a C1 fino a
L2. Abbiamo una radice anteriore motoria (che nasce dalle
cellule situate nel corno anteriore della sostanza grigia
midollare) ed una radice posteriore sensitiva (più voluminosa).
Le due radici si vanno a convogliare a livello del ganglio spinale
a livello dei fori intervertebrali e da qui partono i nervi
periferici.
Per la patologia ortopedica sono importanti i plessi.

Arto superiore
Il plesso brachiale origina dalle radici C5-T1. La suddivisione dei tre tronchi non è da sapere a memoria (viene
comunque riportata di seguito), ma sarà molto importante capire come un deficit del nervo radiale deve
essere ricercato in una patologia a livello del terzo distale dell’omero oppure a livello della parte posteriore
del tronco secondario del plesso oppure a livello cervicale. Ai fini del corso non è importante sapere a
memoria la suddivisione del plesso, ma
saper correlare il dato clinico a quello
anatomico. Se un pz si presenta da noi
con la mano cadente, dobbiamo
localizzare il deficit a livello del nervo
radiale (che innerva i muscoli estensori
dell’avambraccio).
 Nervo muscolo-cutaneo:
controlla la flessione
dell’avambraccio.
 Nervo mediano: raccoglie la
sensibilità della parte centrale
della mano e delle prime tre
dita, controlla i movimenti del
pollice. La patologia legata al
nervo mediano è il tunnel
carpale, in cui il pz ha
un’insensibilità delle prime tre
dita e non riesce a tenere una
bottiglia d’acqua.
 Nervo ulnare: permette la divaricazione/avvicinamento delle dita e la flessione della mano e delle
dita (innerva i mm lombricali).
Queste informazioni vanno memorizzate a ritroso: non ci verrà chiesto quali sono i territori di competenza di
ciascun nervo ma ci verrà presentata la sintomatologia del pz e dovremo identificare il nervo coinvolto.

Arto inferiore
Il plesso lombosacrale si estende da L1 ad
S1. La porzione sacrale non viene trattata
perché non è coinvolta in patologie
prettamente ortopediche (anche se un pz
con patologia tumorale con incontinenza
sfinteriale andrà indagato per un
coinvolgimento a livello sacrale).
La conoscenza del plesso lombo-sacrale è
fondamentale per saper distinguere il
dolore sciatico da quello femorale.
 Il nervo femorale provoca
l’estensione della gamba e
raccoglie la sensibilità della parte
anteriore della coscia, passa
all’interno del legamento
inguinale.
 Il nervo sciatico decorre invece
posteriormente e innerva la
regione posteriore della coscia e
si occupa della mobilità dell’arto inferiore dal ginocchio in giù. Importante ricordare i due rami che
hanno funzioni differenti:
 popliteo esterno – SPE (n. peroneo comune) dorsiflessione del piede e delle dita
 popliteo interno – SPI (n. tibiale posteriore) estensione del piede e flessione delle dita
Quindi un paziente che si presenta con piede cadente ha una lesione del nervo sciatico popliteo esterno.
Dermatomeri

I dermatomeri vanno memorizzati.


Se un pz ha un difetto di ritenzione urinaria e ha insensibilità alla pianta del piede avrà un problema di L5, S1,
S2.

Seconda parte della lezione


Carmelo Fogliano
Michela Brunetti
LE PATOLOGIE DELL’ANCA
Cenni di anatomia
Tutti gli argomenti saranno sempre preceduti da dei cenni di anatomia.
L’articolazione dell’anca è una diartrosi, più nello specifico un’enartrosi,
i cui capi articolari sono uno sferico e uno concavo. In immagine si
vedono molto bene il tessuto osseo spugnoso e corticale, si vedono le
linee di forza della trabecolatura. I capi sono rivestiti da superficie
cartilaginea.
Vi è una struttura di fibrocartilagine, il cercine (19), che racchiude
ulteriormente la superficie articolare.
La capsula articolare si inserisce a livello del collo chirurgico del femore
e riveste l’articolazione estendendosi fino alla regione laterale del
cotile.
Nell’immagine si vede anche la struttura muscolare, sul grande
trocantere si inseriscono infatti gli abduttori dell’anca e i glutei, che
permettono movimento di abduzione ed exrotazione.
A livello mediale l’ileopsoas si inserisce sul piccolo trocantere e gli
adduttori si inseriscono più distalmente sulla faccia mediale del femore.
Dal punto di vista clinico i reperi ossei palpabili sono il gran trocantere,
la spina iliaca antero-superiore, la sinfisi pubica e la cresta iliaca.
Il grande trocantere è rivestito dal tensore della fascia lata, dal tendine
del grande gluteo (che si inserisce su buona parte della faccia laterale e
posteriore) il sartorio è posto più interiormente e si inserisce sulla spina
iliaca anterosuperiore (insieme al tensore della fascia lata). Abbiamo
profondamente medio e piccolo gluteo. Quindi abbiamo delle grosse strutture muscolari che si inseriscono
tutte sulla parte posteriore-superiore del femore.
Negli strati profondi i muscoli che si inseriscono sul grande trocantere:
 Piriforme
 Otturatore interno
 Gemelli superiore e inferiore
 Otturatore esterno
 Quadrato
 Piccolo gluteo
Anteriormente abbiamo la capsula articolare che si inserisce sulla linea intertrocanterica.
Sul piccolo trocantere si inserisce il muscolo ileopsoas che passa nella regione anteriore del bacino, esce dal
legamento inguinale insieme al nervo femorale e all’arteria e alla vena (ricordate le due lacune del legamento
inguinale). Davanti abbiamo adduttore breve e adduttore lungo sul piccolo trocantere, muscoli responsabili
della adduzione dell’anca.
La fascia lata copre l’intera regione laterale dell’anca.
Le strutture neurovascolari sono:
 Anteriormente il nervo femorale,
che si dirama in corrispondenza
della testa del femore dando i nervi
per la porzione anteriore della
coscia.
 L’arteria femorale comune, che si
biforca direttamente dopo il
legamento inguinale ed è
importante ricordare che l’epifisi
del femore ha una
vascolarizzazione terminale: i rami
che nutrono la testa del femore
partono dall’arteria, arrivano a
livello distale in corrispondenza
dell’inizio della capsula e da qui
abbiamo i rami capsulari che
nutrono la testa, che ha quindi una
vascolarizzazione “retrograda”.
Esiste l’arteria del legamento
rotondo che nutre la fovea centrale dell’epifisi, ma -viste le sue piccole dimensioni- l’irrorazione è
insufficiente per la testa del femore.
 Posteriormente abbiamo, al di sotto del piriforme, il nervo sciatico, con i nervi glutei superiori e
inferiori che innervano le strutture muscolari profonde. È importante ricordarlo perché le patologie
dell’anca possono dare sintomatologia sciatica o femorale in base all’interessamento anteriore o
posteriore.
Quando parliamo di patologia dell’anca è bene ricordare che c’è un asse anatomico ben definito. C’è un
angolo di 125° tra l’orientamento del femore e quello del bacino, quindi le variazioni di questo angolo
determinano un’alterazione in senso valgo o varo. C’è inoltre un’antiversione di 20° del femore rispetto al
bacino.

Coxa valga: l’angolo cervico-diafisario è notevolmente aumenta,


toccando circa i 160°. In questo caso l’epifisi è rivolta esternamente
e questo comporta problematiche legate alla maggiore usura e alla
più facile dislocazione e lussazione dell’epifisi femorale.
Coxa vara: l’angolo è inferiore a 125° (siamo sui 90°) e anche in questo caso abbiamo notevoli problematiche
legate all’accorciamento delle strutture muscolari e alla riduzione della funzionalità dell’anca.
All’interno della cavità acetabolare abbiamo quindi:
 cartilagine semilunare
 pulvinar
 legamento rotondo
 legamento trasverso
 labrum
Tutta questa struttura ha elevata stabilità intrinseca, presenta infatti
notevoli rinforzi sia nella parte anteriore che posteriore,
anatomicamente identifichiamo infatti i legamenti ileo-femorale, ischio-
femorale e pubo-femorale, ma in realtà si tratta di un grande
manicotto fibroso che conferisce notevole stabilità all’anca (il manicotto ha uno spessore quasi superiore a
quello della corticale ossea).

DISPLASIA CONGENITA DELL’ANCA


È un difetto di sviluppo (=displasia) presente alla nascita (=congenita), che interessa l’articolazione
coxofemorale. È una patologia che di rado guarisce spontaneamente e in genere tende ad evolvere in
sublussazione/lussazione.
Il difetto di sviluppo è legato essenzialmente alla parte articolare, quindi possiamo avere una o più tra le
seguenti caratteristiche:
 cotile non abbastanza profondo
 femore troppo antiverso che favorisce la sublussazione/lussazione
 coxa valga
Si parla di sublussazione quando la testa non è centrata rispetto alla cavità acetabolare, mentre la lussazione
franca consiste in una perdita di contatto completa.
Epidemiologia
L’incidenza è di circa 2 casi su 1000 ed è più frequente nelle femmine (F:M=5:1). È più frequente nel Sud
Europa, nel Nord Africa e nel Nord America, presenta quindi caratteristiche territoriali legate a diversi fattori,
non è quindi solo un difetto di sviluppo ma è anche legata a fattori abitudinali.
Può essere sia monolaterale (più frequentemente a sx) che bilaterale e ha una caratteristica di familiarità
anche se non c’è gene o patologia specifica identificata.
È frequente associata a malformazioni congenite quali:
 torcicollo miogeno
 piede torto
 scoliosi idiopatica

Eziopatogenesi
Multifattoriale:
 Fattori genetici -> - maggiore incidenza nel sesso femminile
- maggiore incidenza in alcune famiglie
- maggiore predisposizione ad una lassità dell’articolazione coxofemorale ed alla
displasia acetabolare primitiva
 Fattori anatomici -> alterazioni specifiche a livello dell’articolazione dell’anca:
 Dismorfismo del cotile
 Dismorfismo del femore
 Dismorfismo di entrambi
 Fattori intrauterini -> patologie che diminuiscono la motilità del feto, forzando la posizione
dell’anca in flessione e adduzione.
 Una delle più frequenti è la gravidanza gemellare, in cui per motivi di spazio il
feto si viene a trovare in una posizione di tipo “A” o “B” che favoriscono
un’evoluzione di extrarotazione dell’anca o di coxa valga.
 Esistono anche altre alterazioni che possono essere legate o ad alterazioni della
pelvi oppure ad una presentazione podalica a livello del canale del parto, e
essendo l’utero nella parte inferiore più ristretto, la presentazione podalica può
obbligare l’anca a passare in una posizione non adeguata
 post-natali -> assunzione di posizioni forzate in anca estesa e addotta.
Nel rinascimento la displasia dell’anca era una patologia tipica delle persone ricche ed era
legata essenzialmente al fatto che i bambini appena nati, per essere identificati come
provenienti da una famiglia ricca, venivano fasciati e, il fasciare il bambino, lo obbligava al
mantenimento delle anche in posizione estesa ed addotta e questo favoriva il fatto che
l’anca tendesse a migrare verso l’esterno. Per esempio, nella popolazione africana è una
patologia che non si vedeva quasi mai, perché per abitudine il bambino veniva tenuto in
braccio dalla madre con le gambe completamente extraruotate e questa posizione centra
completamente la testa del femore all’interno della cavità acetabolare.

CLINICA
La displasia congenita dell’anca si manifesta con diverse fasi:
 dalla nascita alla deambulazione (fino ai primi 10-12 mesi) si parla di prelussazione o di
lussazione embrionaria;
 una fase che va dai 10 mesi fino ai 10 anni di età, in cui il bambino comincia a caricare, in quel
caso si può manifestare o slatentizzare una sublussazione o una lussazione vera e propria;
 oltre i 10 anni di età si è di fronte ad una lussazione inveterata.
Questa è una patologia che adesso ha uno screening neonatale, per cui è altamente sotto controllo
nei paesi occidentali e, banalmente, il bambino appena nato viene ispezionato e si valutano alcune
caratteristiche.

Prelussazione
All’esame obiettivo si valutano:
 eventuali asimmetrie delle pieghe della coscia
 la tendenza di un arto ad essere extraruotato o accorciato
 la salienza del profilo del trocantere
 l’appiattimento della natica.

Altra cosa da fare è mettere il bimbo sul lettino e provare a divaricare le anche:
normalmente l’anca si apre completamente e quindi le ginocchia si vanno ad
appoggiare entrambe sul lettino (il grado tipico di apertura dell’anca è di circa
70°). Quando c’è una displasia dell’anca, si riscontra una impossibilità a divaricare l’anca, quindi c’è una
limitazione all’extrarotazione.
Si effettua poi la manovra di Ortolani-Barlow: si mette il pollice nella parte anteriore dell’anca e l’indice sul
trocantere e in questa posizione si è in grado di lussare e di far rientrare la testa del femore; sotto le dita si
sente un click, che è un segno clinico di una probabile displasia congenita dell’anca.

Dopo l’esame obiettivo, è necessario verificare il sospetto clinico con gli esami strumentali
e viene quindi richiesta un’ecografia. Perché viene richiesta l’ecografia e non, ad esempio,
una radiografia? Perché l’epifisi nei primi mesi di vita è cartilaginea, quindi alla radiografia
non è visibile. Per questo motivo il primo esame da fare è un’ecografia, da effettuare nei
primi 3 mesi di vita. È un esame approfondito, in cui vengono misurati degli angoli che
permettono di definire se c’è o meno una caratteristica di displasia dell’articolazione.

Con i tempi di attesa odierni, capita di vedere delle mamme che si presentano con
un’ecografia fatta all’anno di età, che non serve assolutamente a nulla. Per cui, bisogna
spiegare bene il perché viene richiesto un esame e qual è la funzione, o la modifica del trattamento a seconda
del risultato di quell’esame.

Oltre i tre mesi si fa la radiografia.

Sulla radiografia a lato (bambino di 3 mesi, con anca di destra sana e anca sinistra patologica) si vedono
alcune caratteristiche cliniche:
 il femore che ha già una buona ossificazione;
 il nucleo di ossificazione epifisario;
 le tre ossa del bacino (ileo, ischio e pube) che sono aperte nella
regione della cartilagine a Y (è la zona di fusione delle tre ossa del
bacino, che identifica nello specifico il centro dell’acetabolo).
Nell’immagine il nucleo di accrescimento epifisario è centrato sulla
cartilagine ad Y.

Con la radiografia si può fare diagnosi precoce di displasia congenita dell’anca


se è presente la cosiddetta “Triade di Putti”:
 Tetto sfuggente - nell’immagine si vede come il femore sia ben coperto dall’acetabolo nel lato sano,
mentre dall’altro lato il tetto è sfuggente, non c’è una cavità vera e propria, ma c’è invece una tendenza
ad avere un angolo aumentato;
 Ritardata comparsa ed ipoplasia del nucleo di ossificazione
dell’epifisi femorale
 Spostamento in alto e in fuori del nucleo epifisario femorale -
dal lato sano il nucleo è normale, mentre dall’altra parte il
nucleo è molto più piccolo ed è spostato in alto e lateralmente;
ce ne si accorge anche guardando il piccolo trocantere, che a
sinistra è localizzato più in alto.

Nell’immagine a destra è presente un altro esempio: in questo caso


la displasia è bilaterale, si vede la sfuggenza del tetto, il nucleo non
è visibile, entrambi i femori sono lateralizzati e dislocati verso
l’alto.
È quindi da sottolineare come una radiografia fatta in età opportuna possa guidare sulla diagnosi.
Sublussazione - lussazione

Quando il bimbo comincia a camminare si va a determinare una sublussazione-lussazione: dal punto di vista
clinico il paziente cammina con un arto che è più corto e leggermente extraruotato; questo determina
un’andatura tipica a Trendelemburg (o andatura anserina). Il paziente con displasia dell’anca ha un muscolo
gluteo accorciato, ipofunzionante e, nel momento in cui appoggia il peso del corpo sull’arto malato, il bacino
“cade” e non riesce a mantenere la posizione orizzontale; quindi, quando cammina (come si vede
nell’immagine), finché il peso è caricato sull’arto sano la posizione è normale, quando appoggia sull’arto
malato cade determinando un’andatura cosiddetta anserina. Il segno di Trendelemburg non è un segno
clinico solo della displasia dell’anca, ma si riscontra in tutte quelle patologie dell’anca che comportano
un’extrarotazione ed un accorciamento dell’arto.

Nelle radiografie soprastanti, fatte dai 3 mesi in poi, si vede la sfuggenza del tetto: se si instaura questa
condizione in maniera progressiva, la testa del femore
tende a dislocarsi totalmente. In particolare, in questa
immagine, si è prossimalizzata e si è addirittura creato
un neocotile, cioè una sua superficie articolare (finta
articolazione); oppure si può deformare in maniera
completa e si intuisce come un quadro di questo tipo sia molto più difficile da trattare, rispetto al trattamento
di una sublussazione di un neonato.

Si parla di lussazione, ma non è la stessa cosa di una lussazione traumatica: se si va a sbattere con la
macchina e si prende un urto frontale con un trauma da cruscotto, si può avere una lussazione dell’anca
posteriore e la testa del femore esce dall’acetabolo lacerando completamente la capsula. Nel caso della
displasia dell’anca, invece, la lussazione avviene in maniera progressiva, non c’è nessuna rottura capsulare,
ma c’è una deformità che instaurandosi fa sì che la testa migri e, conseguentemente, che la capsula si dilati e
si allunghi; lo stesso succede al pulvinar e al legamento rotondo, andando a definirsi una nuova struttura.
Dove ci sono i numeri 3 e 4 [immagine] c’è una sorta di clessidra, che è uno dei motivi per cui l’anca non può
rientrare nella sua cavità normale; ciò è legato alla migrazione del tendine dell’ileopsoas che si va a
localizzare esattamente al davanti dell’anca, formando una specie di tenda che impedisce il rientro dell’anca
attraverso la manovra di Ortolani, rimanendo come unica opzione di trattamento quella chirurgica.

Trattamento
In generale è sempre più aggressivo a seconda della fase della displasia.
 La fase iniziale di prelussazione si tratta in maniera conservativa:
 all’inizio, banalmente, con un doppio pannolino, che obbliga le anche a
stare extraruotate;
 quando il bambino è un po’ più grande, ci sono dei tutori divaricatori che
permettono di tenere abdotte le anche; nell’immagine è presente anche un
gesso al piede, che riporta al discorso iniziale, per cui la displasia dell’anca si
associa ad altre patologie come ad esempio il piede torto congenito;
 se questi strumenti non sono sufficienti e non riescono a mantenere in
posizione corretta le anche, si ricorre a degli apparecchi gessati che
tengono le anche divaricate. Questi apparecchi sembrano molto aggressivi, ma in realtà sono
ben tollerati da un bambino di 3-4 mesi; le problematiche da gestire sono più legate ai genitori (a
volte vengono fatti proprio perché si nota nella famiglia una difficoltà a mantenere il tutore o
l’arto in abduzione).

 Sublussazione-lussazione:
 Se il bambino arriva in osservazione in questa fase, nell’ambito dei trattamenti
incruenti si fa una riduzione e poi una centratura dell’anca.
Al Rizzoli a Bologna era presente una stanza simile ad una “stanza delle torture”:
nei lettini c’erano delle catene legate alla spalliera del letto, a cui era collegato il
bambino; veniva preso un appoggio a livello dei
genitali, quindi il bambino era legato alla testiera
del letto e l’arto veniva trazionato con una sorta di
trazione a cerotto, mediante l’incerottamento
dell’arto, a cui veniva attaccata una carrucola, in
modo tale che nel giro di qualche settimana l’arto
venisse progressivamente trazionato. I bambini
restavano così per circa 10 giorni, poi quando
l’anca ritornava nella posizione corretta veniva abdotto e ricentrato l’arto.
 Se non si riesce ad attuare una riduzione incruenta, bisogna necessariamente intervenire
chirurgicamente, inizialmente intervenendo su ciò che ostacola la centratura dell’epifisi, ad esempio
a seconda dei casi, sezionando il tendine dell’ileopsoas oppure gli adduttori; in altri casi, se
necessario si effettua una fasciotomia a livello dei glutei. Sostanzialmente sono tutti interventi che
servono a riposizionare la testa del femore nella posizione corretta.

 Se anche questi interventi non sono sufficienti, si deve intervenire


sull’osso, o ricreando con un cuneo il tetto dell’acetabolo oppure, se ci
sono problematiche di rotazione dell’anca, si effettua una osteotomia
derotativa, tagliando il femore, ruotandolo e fissandolo nella posizione
corretta ottenendo il giusto orientamento. Oppure interventi ancora
più aggressivi, ad esempio una resezione di bacino intera in cui si medializza il fondo dell’acetabolo.

 Lussazione-inveterata: nell’adulto in cui non ci sono speranze di poter preservare


la testa del femore, bisogna fare un intervento di artroprotesi, sostituendo
chirurgicamente l’articolazione con un impianto metallico. Il problema di questa
protesi è che, rispetto a farla in età avanzata, il paziente è giovane e quindi
mediamente andrà incontro ad almeno 5 revisioni della protesi nell’arco della sua
vita (nella più rosea aspettativa che la protesi duri 15 anni), ed ogni volta che si
effettua una revisione bisogna aggrapparsi ulteriormente all’osso, il che rende gli
interventi sempre più invalidanti nel corso della vita; il tutto per non aver messo
un paio di pannolini in età neonatale. Questo è il motivo che ha portato il sistema
sanitario attuale a prevedere lo screening neonatale, anche se il problema
migratorio ha riportato alla luce la visione di pazienti con lussazioni inveterate con
la necessità di effettuare interventi più aggressivi.

Domanda: nel caso si debba ricostruire il tetto dell’acetabolo con un cuneo con un intervento, questo dà
qualche problema con l’accrescimento e/o bisogna rivederlo nel tempo?
Il cuneo compromette in parte l’accrescimento e quando si opera bisogna essere sicuri che la cartilagine sia
chiusa e bisogna valutare quanto il cuneo che si inserisce si integri con l’osso (sono quasi sempre innesti da
cadavere, che per loro natura sono quindi solo strutturali, senza attività cellulare); è l’organismo che deve
ricreare dell’osso nuovo e questo processo non è sempre così scontato, per cui questi pazienti vengono
valutati regolarmente ogni 3 mesi fino al raggiungimento dell’accrescimento definitivo, proprio per il rischio
che possa collassare.

Domanda su screening ecografia.


Lo screening parte dalla valutazione obiettiva dell’ostetrica: se c’è un bambino con sospetto di displasia,
allora è altamente consigliato, ma non obbligatorio per legge; è “obbligatorio” se c’è sospetto clinico.

EPIFISIOLISI DELL’ANCA
È una lisi (distacco patologico) dell’epifisi prossimale del femore, che
interessa la cartilagine di accrescimento. Questo distacco determina
successivamente lo scivolamento dell’epifisi, che in teoria può
avvenire in ogni direzione, ma in pratica scivola sempre
posteriormente e verso il basso. È uno scivolamento relativo perché
la metafisi rimane nella sua posizione corretta.
Nell’immagine si vede la cartilagine di accrescimento metafisaria, che si vede molto bene alla radiografia
perché quando un soggetto sta crescendo, c’è una regione cartilaginea nera (quindi all’esame non dire che è
una frattura, perché è la cartilagine di accrescimento). Si vede come l’epifisi si sia dissociata e tenda
progressivamente a scivolare in basso.
Il disegno a lato rappresenta uno dei primi criteri radiografici di
valutazione, ossia quando l’epifisi del femore scende al di sotto
della tangente al collo, allora bisogna sospettare di essere di fronte
ad un’epifisiolisi.

Questo a lato è un esempio preso da un libro di ortopedia francese, in cui l’epifisiolisi è associata alla caduta
del cappello della signora, in basso e posteriormente.

Nell’immagine è presente un preparato anatomico di un bambino


in cui si vede la metafisi con la cartilagine di accrescimento; la
patologia è mirata essenzialmente a quest’ultima, per cui in questa
fase avviene il distacco e la fisi tende a scendere in basso.

Epidemiologia
 3/100000, quindi non è altissima
 Interessa prevalentemente (60%) i maschi
 Età: 14-16 aa (maschi), 11-13 aa (femmine)
 Sede: inizialmente una sola anca, poi entrambe; 60% a sinistra
 L’aspetto del bimbo può già deporre per la patologia, perché è più frequente in caso
di un’obesità di tipo ginoide, legata a degli squilibri ormonali, oppure al contrario
nei bambini che hanno una rapidissima crescita, quindi molto esili e longilinei, che
nell’arco di pochi anni subiscono uno sviluppo molto rapido soprattutto in altezza;
questo perché quello che va ad alterarsi è proprio la cartilagine di accrescimento.

Eziopatogenesi
Ci sono dei fattori che possono scatenarla, ad esempio un trauma a livello del collo del
femore dovuto al peso, oppure un ragazzo che salta giù da uno scalino può subire un
trauma per compressione dell’anca e da quel momento in poi tende a sviluppare
l’epifisiolisi.
Ci sono poi dei fattori biochimici come alterazioni degli ormoni tiroidei, della crescita o
sessuali, che alterano la resistenza della cartilagine di accrescimento e questo, poi,
favorisce lo scivolamento.

Paradossalmente, quello che si vede all’anatomia patologica


è un’ipertrofia della cartilagine, che è molto più sviluppata
rispetto alla norma e ciò comporta che, in quella regione, ci
sia un’abbondante matrice extracellulare, con molti proteoglicani e glicoproteine che riducono l’ossificazione
definitiva della cartilagine, rimanendo perciò un tessuto più spesso ma meno resistente dell’osso normale,
che è quindi più facile che possa dissociarsi.

Tutti i fattori che influenzano il paziente, che siano ormonali o meccanici o genetici, agiscono riducendo la
resistenza meccanica in corrispondenza della metafisi.

Per quanto riguarda la presentazione del paziente con epifisiolisi dell’anca abbiamo 3 fasi:
 Pre-Epifisiolisi: il paziente (tipicamente un ragazzo in età adolescenziale) ha
 dolore cronico che tende a lenirsi con il riposo e aumentare con l’attività,
 andatura antalgica o ondeggiante (simile
al Trendelemburg), perché l’arto tende
progressivamente a extraruotarsi e
accorciarsi in seguito al crollo dell’epifisi
 Acuta: dolore vivo, es. dopo un salto, i sintomi
assomigliano molto più a quelli di una frattura,
non è avvenuto solo lo scivolamento ì, bensì un
trauma che porta a distacco dell’epifisi.
 Subacuta/Cronica: quando la pre-epifisiolisi non
va incontro a rottura ma evolve progressivamente,
non si ha la fase acuta ma il dolore tende a essere
sempre meno legato all’attività sportiva, “la
motilità tende a evolversi, nel senso che piano
piano si adatta il femore”
(a sx: foto di paziente tipico con epifisiolisi
con instabilità)

Tipicamente il ragazzo entra in ambulatorio e sta in piedi su un arto solo, quello sano, mentre
l’altro è più corto ed è tenuto leggermente piegato ed extraruotato. Il ragazzo ha poi tutte le
caratteristiche tipiche del soggetto predisposto all’epifisiolisi.
Il paziente con una forma cronica e stabile arriva camminando più o meno normalmente.

IMAGING
Alla radiografia vedo un allargamento e slaminamento della fisi.
Inoltre, l’epifisi sta sotto la tangente al collo del femore (linea di
Klein): segno di Trethowan. (bisogna conoscere le
caratteristiche, non gli eponimi).
In fase cronica si ha un progressivo rimodellamento: si forma
nuovo osso nella porzione inferiore mentre viene
riassorbita la porzione superiore che non ha più carico. Il collo
risulterà perciò sempre più deformato.
Es. di dissociazione epifisaria acuta completa.
Si può determinare l’angolo di scivolamento (tra asse del collo e asse basi-epifisario) che poi influenzerà
quello che è il trattamento. In base a tale angolo si distinguono 3 gradi:
 Grado 1 (LIEVE): da 0 a 30°
 Grado 2 (MODERATO): da 30 a 60°
 Grado 3 (SEVERO): oltre i 60°
Il trattamento è chirurgico e consta di 2 fasi: riduzione dell’anca e poi fissazione. La fissazione avviene con il
posizionamento di viti nel collo del femore per bloccare l’epifisi nella sua posizione; si crea quindi una fusione
meccanica della fisi e si evita che questa possa continuare a scivolare. Una vite non è ovviamente sufficiente,
perché sarebbe possibile la rotazione, e quindi se ne usano di norma 2 o 3.
Fino all’80% dei casi porta a una bilateralità metacrona, ovvero nel tempo anche l’anca inizialmente sana
tenderà a sviluppare lo stesso problema. Per questo, quando si interviene su un lato, si fa anche
stabilizzazione preventiva dall’altra articolazione, in questo caso con una sola vita.
Il problema di intervenire a questo livello è che si blocca la crescita. È pertanto fondamentale informare
correttamente i genitori. La letteratura giustifica abbondantemente questo intervento preventivo, però
capita che i genitori si oppongano, perché non vogliono che si intervenga su un arto sano, peraltro
provocando un arresto della crescita. Ciò non ha molto senso perché oltre al rischio di epifisiolisi, si hanno
altre problematiche: il bambino deve sottostare a delle limitazioni sportive per non aumentare il rischio; se si
blocca la crescita da un lato e dall’altro no, il bambino svilupperà una dismetria.
Complicazioni dell’epifisiolisi:
 Necrosi epifisaria: come già detto la vascolarizzazione della testa del femore è terminale e i vasi
passano a livello della fisi, quindi lo scivolamento potrebbe causare una necrosi della testa del
femore. L’osso non più vascolarizzato muore e il paziente dovrà essere protesizzato. Anche durante
la riduzione si può provocare un danno vascolare che ha lo stesso effetto necrotico.
 Coxite laminare: necrosi massiva della cartilagine articolare → la cartilagine non è più bianca e
soffice, ma diventa giallastra e assottigliata, l’osso subcondrale può essere completamente esposto.
 Artrosi: tutto ciò che danneggia un’articolazione aumenta il rischio di sviluppare artrosi, che non è
altro se non l’usura della cartilagine articolare. C’è sempre quando c’è una necrosi e nel 50% delle
coxiti laminari (parallelo tra usura della cartilagine e usura delle gomme di una macchina che poi
riprenderà più volte).
 Artrite Acuta
 Complicazioni iatrogene: vascolari, infezioni, differenze di lunghezza, fratture del collo del femore.

Evoluzione dell’epifisiolisi: se presa in tempo, si riesce a fare la fissazione in situ e non ci sono complicazioni
gravi, l’artrosi è ancora limitata e si ha solo un minimo difetto di rotazione. Eventuali necrosi e coxite sono
legati al danno iatrogeno.

COXARTROSI
La coxartrosi è semplicemente l’artrosi dell’articolazione coxo-femorale.
Per artrosi si intende un’alterazione degenerativa di un’articolazione caratterizzata da lesioni progressive di:
cartilagine articolare per prima, osso subcondrale poi e infine strutture capsulari, che si inspessiscono. Si
instaurerà quindi un quadro di flogosi cronica.
L’alterazione della cartilagine è un processo degenerativo, la prima cosa che succede è che si riducono i
proteoglicani, si riduce la resistenza meccanica ed è per questo che il giovane può saltare e correre senza
problemi, il sessantenne magari riesce a fare la maratona ma con limitazioni, per poi continuare a peggiorare
con l’età perché viene proprio a mancare la resistenza meccanica della cartilagine.
La frequenza aumenta con l’aumentare dell’età e, con l’età, aumenta anche il numero di articolazioni
interessate. Es. il quarantenne tennista ha magari artrosi importante di ginocchio e anca, ma è più probabile
che a 90 anni l’artrosi interessi quasi tutte le articolazioni.
Esistono due forme di artrosi secondo l’eziopatogenesi:
 Primaria: dovuta essenzialmente all’usura nel tempo, l’eziologia è multifattoriale.
 Secondaria: c’è una problematica specifica che ha determinato l’artrosi → alterazioni strutturali:
gotta, diabete, emocromatosi, acromegalia, ipotiroidismo, artrite reumatoide; alterazioni
meccaniche: stress articolare tipicamente da eccesso ponderale; malformazioni articolare, come
varismo e valgismo, perché alterano la distribuzione del carico, con sovraccarico di alcune regioni
specifiche; attività ripetitive, come uso del martello pneumatico o anche il calciatore; traumi che
causano danno specifico dell’articolazione, come frattura, necrosi parziale, distacco epifisario.

CLINICA

Dolore tipicamente all’inizio del movimento (quando si alza la mattina dal letto, quando si alza da tavola dopo
un lungo pasto). Questo perché il dolore è legato al vincere l’attrito iniziale tra i due capi, che sono
praticamente a contatto, in seguito alla perdita del cuscinetto ammortizzante. Poi la mobilità tende a
migliorare, non c’è più tanto dolore, tanto che i pazienti dicono usualmente “dopo un po’, quando si scalda
va”.
Rigidità articolare → infilarsi la scarpa diventa sempre più difficoltoso con l’età.
Mobilità ridotta per contrattura antalgica riflessa, deformità dei capi articolari, aderenze fibrose tra le
superfici e irrigidimento della capsula. Crepitii e scrosci, altri rumorini. Si possono avere zoppie con
andamento di Trendelemburg, perché l’arto con l’artrosi è un po’ più corto, perché la deformità può essere
tale da alterare il movimento oppure è una zoppia di fuga antalgica per evitare di caricare l’articolazione
dolorante.
Tendenza a piegarsi in avanti (deambulazione con saluto): l’anziano lavora su quadricipiti e muscolatura
lombare per mantenere la stazione eretta. Inoltre, l’anziano avrà altrettanta artrosi al rachide, per cui
mantenere la schiena dritta è doloroso perché richiede una lordosi compensatrice del rachide lombare e il
vecchietto preferirà stare piegato in avanti. Storiella: tipicamente a Natale la nuora dice alla suocera “stai
dritta, cammini sempre più gobba”, e lì bisogna dare ragione alla nonna, perché l’artrosi importante limite
notevolmente il movimento degli arti, quindi per mantenere la stazione eretta si lavora unicamente a livello
lombare e sul quadricipite. Quando la nonna prova a stare dritta, il quadricipite non regge, la nonna cade, si
rompe il femore e si passa il Natale al PS. Con la nuora che incolpa la suocera di aver rovinato il Natale a tutta
la famiglia.
Eterometria degli arti inferiori: l’eterometria può essere conseguenza dell’artrosi per usura dell’articolazione,
ma la dismetria può anche predisporre o peggiorare una forma di artrosi. Banalmente un paziente che ha
male all’anca per un carico disomogeneo sui due arti ha un miglioramento del 50% dei sintomi con un
plantare, che equipara la lunghezza dei 2 arti.

L’esame strumentale appropriato è la radiografia. Le caratteristiche radiografiche sono:


 ridotta o scomparsa rima articolare;
 sclerosi dell’osso subcondrale→ l’osso è addensato,
più bianco, subito sotto l’articolazione;
 geoidi → lacune ossee subcondrali, legate
all’erosione dell’osso subcondrale da parte del
liquido sinoviale
 osteofiti marginali, tipo dei corni che si formano ai
margini dell’articolazione. Finalisticamente
potremmo dire che servono a limitare la mobilità
dell’articolazione quando l’organismo rileva che è troppo usurata, fino al blocco completo negli stadi
avanzati. Per questo, il paziente con artrosi lieve a dolore, il paziente con artrosi moderata/severa ha
molto dolore, però nel paziente con anchilosi il dolore scompare;
 deformità dei capi articolari.
L’anca è la seconda sede più frequente di artrosi.
È primitiva nel 50% dei casi, secondaria negli altri. Se la cerco nello
specifico è quasi sempre secondaria, se vedo un paziente che ha fatto
il tennista è sicuro un’artrosi secondaria all’attività fisica. La vera
artrosi secondaria vera e propria sarebbe quella che segue un
trauma, una deformità o un’altra patologia specifica, come
un’epifisiolisi.

Esempio radiografico di artrosi secondaria a epifisiolisi, la rima acetabolare è scomparsa, c’è la sclerosi
subcondrale e una deformità completa dell’epifisi.
Segue immagine di coxartrosi su necrosi epifisaria, in
cui una porzione di osso è completamente crollata. Una
causa di necrosi completa di un’articolazione è una
terapia con altissime dosi di cortisonici, perché il
cortisone ad altissimi dosaggi tende a alterare la
vascolarizzazione dei piccoli vasi periferici e se vengono
interessati i vasi periferici della capsula articolare ci sarà
una necrosi della testa del femore, tipicamente
bilaterale. Es. in bambino che ha fatto alti dosi di
cortisone per una leucemia linfoblastica in età
pediatrica c’è alto rischio di sviluppare necrosi della
testa del femore. Lo stesso vale per pz con artrite
reumatoide che ha fatto metotrexate e cortisone per 20
anni.
Coxartrosi su displasia: si vede la deformazione della
testa del femore insieme a tutte le caratteristiche
radiografiche dell’artrosi.

Trattamento
È clinico, tramite cambiamento delle abitudini di vita, farmacologico (antidolorifici), trattamenti invasivi
articolari per aumentare lo spazio con iniezioni di acido ialuronico. Il trattamento chirurgico si fa solo quando
il trattamento conservativo non è più assolutamente sufficiente, il dolore è tale che il pz non riesce più a
camminare, prende antidolorifici tutti i giorni e non ne può più. La protesizzazione ha enormi vantaggi solo
quando l’articolazione è gravemente danneggiata. Bisogna poi sempre considerare che il risultato clinico
dell’intervento dipende molto dall’età e dalla funzionalità richiesta: il quarantenne che si deve mettere la
protesi sarà certamente scontento perché ha limitazioni di movimento, non può caricare più di tanto per
evitare l’usura precoce, deve prestare altre attenzioni particolari d’obbligo per i portatori di protesi. L’
ottantenne invece aveva dolori insopportabili, prendeva antidolorifici in continuazione, era costretto a letto o
sul divano… con la protesizzazione riacquisisce capacità di movimento, può fare una vita molto più attiva, ha
ancora qualche doloretto ma sicuramente più sopportabile e sarà molto più soddisfatto dell’intervento.
L’indicazione al trattamento chirurgico è perciò da considerare in base al paziente che si ha davanti e alle
aspettative che si possono offrire al pz. Più tardi si fa un intervento di protesi e meglio è. Quando si mette una
protesi a una persona di 50/55 anni bisogna mettere in conto che quella protesi si usurerà e si dovrà fare un
intervento di revisione. La revisione è un intervento molto più difficile e gravata da complicanze più frequenti.
Il problema delle protesi nei giovani non è solo legato alla maggiore aspettativa di vita, ma anche nella durata
della protesi stessa: la richiesta funzionale di un anziano è bassa e la protesi può durare anche 40 anni; nel
soggetto giovane la protesi dovrebbe durare 30 anni, ma alla fine ne dura sempre meno per via della più alta
richiesta funzionale. Ci sono dei trattamenti chirurgici che servono a limitare l’evolutività dell’artrosi, come
nella displasia dell’anca e nell’episifiolisi, ma sono interventi preventivi all’evoluzione artrosica. L’evoluzione
finale del trattamento chirurgico è comunque quello della protesi.

Forlani Laura 02.10.2019


Ortopedia, Lezione 2
Dalla Via Camilla Prof. Angelini Andrea
RACHIDE

La clinica delle patologie riguarda la parte scheletrica, la muscolatura ad esso correlato e la parte neurologica.

CENNI DI ANATOMIA

Nel rachide sono presenti tre curve sul piano sagittale:


 Una prima lordosi cervicale
 Una cifosi toracica
 Una seconda lordosi lombare

Mentre sul piano frontale il rachide non ha nessuna curva fisiologica, quindi nel caso di curve sul piano
frontale facciamo riferimento ad una problematica di tipo patologico.
La presenza delle curve è legata alla nostra postura:
Il feto all’interno dell’utero ha una curvatura unica, una sola cifosi che interessa tutto il rachide (come quella
dei pesci) legata alla permanenza dello stesso all’interno di un ambiente acquatico.
Quando il bambino nasce e non è in grado di assumere la postura eretta, si forma la lordosi cervicale (tipica di
tutti gli animali che camminano a quattro zampe) e si forma una cifosi che interessa tutta la parte distale del
rachide.
Nel momento in cui il bambino assume la posizione eretta dell’uomo adulto si formano le tre curve.

Da un punto di vista anatomico le vertebre hanno caratteristiche differenti, per il tipo di funzione che hanno e
le strutture ad esse correlate.
 A livello cervicale il canale midollare della vertebra è più ampio rispetto a quelle lombari, la struttura
del corpo vertebrale è più piccola e la conformazione dei processi spinosi ha un angolo di circa 25
gradi rispetto all’asse della vertebra.
 Per quanto riguarda la parte toracica, c’è una dimensione intermedia del corpo vertebrale, più grande
rispetto di quello cervicale; si riduce il canale vertebrale e i processi spinosi si articolano con le coste.
 A livello lombare cambia l’assetto. Molto più rappresentato il corpo vertebrale che assume una
struttura più portante; il canale midollare è molto ridotto in conservazione del fatto che dalla regione
lombare in poi il midollo spinale termina nella cauda.

Il disco del corpo vertebrale è costituito per l’70% da acqua e per il 30% da proteoglicani ed è formato da
nucleo polposo, un core di consistenza molle, e un anello fibroso, costituito da fibrocartilagine.

Nel bambino le cartilagini di accrescimento del rachide si localizzano negli spigoli del corpo vertebrale. Lo
spessore dei dischi e il canale midollare sono notevolmente rappresentati rispetto agli adulti, dove invece il
corpo vertebrale è più ampio, l’anello fibroso più definito e spariscono le cartilagini di accrescimento.

Come distinguere una TAC da una risonanza? Piccolo trucco: guardare la corticale dell’osso. La TAC è un
esame che si basa sulle radiazioni, come la radiografia. Si ha un’informazione legata alla densità della
struttura anatomica. Quindi la corticale dell’osso, che è una delle strutture più dense del corpo, è
completamente bianca. La risonanza invece da un’informazione legata allo spin degli elettroni dell’idrogeno e
alla concentrazione di acqua nei tessuti. La zona del nostro organismo con minore concentrazione di acqua è
la corticale dell’osso, che quindi in tutte le acquisizioni di risonanza risulterà nera.

Segue una veloce citazione delle strutture presenti in questa immagine.


È visibile il canale midollare, delimitato anteriormente dal corpo vertebrale, i peduncoli vertebrali e la parte
articolare delle due vertebre sopra e sottostanti.

Da come si posizionano le vertebre una sull’altra, si viene ad identificare uno spazio tra i corpi vertebrali, il
tripode vertebrale, un forame a livello del quale fuoriescono le strutture neurologiche. Esso correla con la
motilità del rachide.
Nel suo insieme il rachide ha un estremo grado di motilità, legato alla somma dei minimi gradi di mobilità tra i
vari corpi vertebrali; e le strutture legamentose del complesso tra la regione posteriore dei processi spinosi e
il disco determinano un equilibrio per cui bilanciano il peso dell’organismo.

Attraverso la faccetta articolare si è in grado di effettuare movimenti di flesso-estensione attraverso la


compressione o la dilatazione delle diverse porzioni del disco intervertebrale. Se si china il corpo verso la
parte anteriore, si determina una compressione della parte anteriore del disco ed una dilatazione delle
spinose posteriori. Viceversa, se si estende il rachide verso la parte posteriore si ottiene l’effetto opposto. Il
disco intervertebrale quindi permette questi movimenti, ed è finalizzato a questo il nucleo polposo al suo
interno.

Le parti cervicali e lombari sono quelle che determinano i maggiori gradi di movimento.
La cervicale per l’ampia motilità tra una vertebra e l’altra; in flesso estensione per le vertebre, mentre la
rotazione del capo è legata esclusivamente al rapporto atlante ed epistrofeo.
La motilità lombare invece correla al fatto che si passa da una parte toracica molto rigida alla regione più
mobile in assoluto che corrisponde al passaggio toracolombare T12-L1, L1-L2, L2-L3.
Da un punto di vista anteriore o posteriore invece non c’è nessuna curvatura fisiologica e dev’essere molto
preciso in gradi l’assetto tra C1 e L5-S1, le quali devono essere perfettamente perpendicolari.

SCOLIOSI

La scoliosi è una deviazione laterale e permanente della colonna vertebrale che riguarda esclusivamente il
piano frontale e che è associata a fenomeni di rotazione, inclinazione e deformità de corpi vertebrali. Il tutto
non correggibile volontariamente.

Il professore sottolinea quanto sia importante ricordare questa definizione, poiché completamente esaustiva
su tutto ciò che concerne la scoliosi.

Esistono diverse forme di scoliosi:


 Congenite, presenti dalla nascita
 Secondarie
 Idiopatiche

Scoliosi congenite

La scoliosi congenita è legata ad un’anomalia di sviluppo della colonna; esistono due forme di anomalie:
 Emispondilo: il corpo vertebrale non si è formato in maniera simmetrica, ma solo per metà; sul piano
frontale si forma un cuneo con conseguente deviazione in senso laterale dell’addome.
 Sinostosi: uno o più corpi vertebrali sono fusi insieme da un lato e questo determina la deviazione
della colonna. La notocorda dopo aver sviluppato i corpi vertebrali tende a segmentarsi; nel caso di
deficit a carico di questo processo di segmentazione, i corpi vertebrali non si separano completamente
l’uno dall’altro, rimangono uniti. La fusione può non essere di tutto il corpo vertebrale, ma solo di una
parte di esso.

Wikipedia dice che esiste anche una forma mista, di combinazione di emispondilo e sinostosi.

In questi casi non esiste fisioterapia né terapia conservativa che possa essere risolutiva e la diagnosi è legata
a legami secondari (es. TAC).

Scoliosi secondarie

Possono essere secondarie a:


 Patologie congenite:
 Neurofibromatosi, formazione di neurofibromi all’interno del midollo spinale che
determinano delle deviazioni di crescita a livello del rachide;
 Sindrome di Marfan;
 Miopatie, correlate ad una instabilità legamentosa a livello del rachide con conseguente
deviazione dell’asse.

 Patologie acquisite:
 Rachitismo
 Traumi vertebrali
 Lesioni di fratture
 Patologie di accrescimento

Scoliosi idiopatiche

L’80/85% delle scoliosi sono idiopatiche, per cui non si riconosce una causa specifica.

Età di insorgenza:
 1% bambini sotto i 3 anni
 10/15% tra i 6 e i 10 anni
 nella maggior parte dei casi riguardano adolescenti: sono le scoliosi tipiche dell’età evolutiva,
soprattutto adolescenziale.

Sono classificabili in base al grado di deviazione:


 <20 gradi: le deviazioni minori. Sono di lieve entità e sono le più frequenti;
 Tra i 20 e i 40 gradi: curvature di media entità;
 >40 gradi: curvature di grave entità.

Dal punto di vista anatomopatologico: c’è una deviazione della colonna che determina a livello della singola
vertebra un’asimmetria di tutte le componenti della stessa.
È molto facile da intuire se si fa riferimento ad una vertebra toracica con le coste ad essa associate. Il corpo
vertebrale tende a deformarsi a cuneo con l’apice rivolto sempre verso la concavità della curva; si ha una
deviazione della regione della lamina e dei peduncoli; l’apofisi spinosa rimane sempre rivolta verso la
concavità della curva. Queste alterazioni determinano una rotazione del corpo vertebrale e conseguente
rotazione della gabbia toracica.
Quindi la scoliosi a livello toracico, soprattutto se di grave entità, comporta una problematica di compenso
cardiocircolatorio e respiratorio perché va a deformare complessivamente tutta la gabbia toracica.

Esame obiettivo:

 Valutazione del balance sagittale: a partire da C1 verso il basso. In caso di scoliosi si evidenzia
deviazione sul piano frontale della colonna vertebrale.
 Creste iliache non allineate, asimmetriche; una più alta dell’altra;
 Scapole non allineate;
 Triangoli della taglia asimmetrici; il triangolo della taglia è il triangolo che si forma tra le braccia e i
fianchi mettendo il paziente di schiena. (da Wikipedia: spazi, individuati sul piano frontale del corpo
umano, le cui linee esterne delimitano torace e fianchi e quelle linee interne delimitano gli arti
superiori in posizione anatomica. In caso di scoliosi, uno è più corto dell'altro, formando il cosiddetto
"colpo d'ascia" nel lato della concavità della scoliosi. Indicate con la freccia nell’immagine al centro)
 Valutazione della lunghezza degli arti inferiori, misurandoli dalla spina iliaca antero superiore al
malleolo mediale.
 Gibbo costale, rilevabile posizionandosi dietro al paziente e facendolo piegare in avanti. Questo è
legato alla rotazione delle vertebre: nel momento in cui il paziente si flette, la rotazione della vertebra
fa si che le coste tendano ad innalzarsi formando questo assetto caratteristico.

Attraverso il gibbo possiamo differenziare la scoliosi vera e propria dall’atteggiamento scoliotico: mentre la
scoliosi è una curva permanente, l’atteggiamento scoliotico è una deviazione funzionale del rachide senza
deformità e senza rotazione dei corpi vertebrali. L’atteggiamento scoliotico è classico dell’adolescente che
mantiene una posizione storta, legata a fattori posturali (es. modalità di portare lo zaino solo su una spalla), a
contratture muscolari o a problematiche che non sono di pertinenza del rachide (displasia dell’anca,
dismetrie) ma facendo piegare il paziente si nota come la colonna si allinea completamente. Non c’è nessuna
deviazione permanente.

Nella scoliosi strutturale s’identificano sempre queste strutture. Se la scoliosi è toracica è sempre rilevabile il
gibbo costale; se è toracolombare ci sarà un disassamento della regione lombare; se è esclusivamente
lombare, è comunque visibile una protuberanza legata alla muscolatura paravertebrale; nelle doppie curve
(molto rare) non è visibile un disassamento ma nell’imaging sono chiaramente visibili due curvature di
compenso.

Il professore sottolinea che lo scoliosimetro mostrato nelle slides ad oggi non viene più utilizzato.

Diagnosi

Per la diagnosi, l’esame obiettivo della scoliosi dev’essere integrato da un’imaging specifica; la valutazione di
una curva scoliotica si fa effettuando una radiografia del rachide in toto in posizione eretta, che mi permette
di valutare:
 L’asse del bacino
 Angolo della curva principale (angolo di Cobb)
 Età scheletrica del paziente (Test di Riss)

Queste ultime sono caratteristiche molto importanti perché per decidere come trattare la scoliosi è
necessario capirne la tendenza all’evoluzione. Ad esempio, per decidere come trattare una scoliosi di lieve
entità (<20 gradi), bisogna essere certi che questa non sia una scoliosi ingravescente e quanto essa sia in
relazione all’età del paziente. Infatti, la scoliosi tende a peggiorare fino al raggiungimento della maturità
scheletrica, dopodiché solitamente la progressione è molto limitata e di natura degenerativa.
In casi particolari per la diagnosi possono essere richieste radiografie funzionali in cui vengono richieste nello
specifico delle curve per valutare il grado di motilità della colonna.
Normalmente TAC e risonanza servono raramente, nel caso in cui ci siano dubbi di sinostosi o emispondili
oppure nel sospetto di una patologia primaria che dev’essere identificata.

Metodo di Cobb: si prende una radiografia in toto della colonna. Si identificano la limitante superiore ed
inferiore della curva del rachide, si tracciano la tangente alla limitante superiore della curva e la tangente alla
limitante inferiore della curva le quali si incontrano in un punto che va a delineare l’angolo di Cobb.

Le curvature importanti sono identificabili direttamente nella radiografia, nelle curvature più lievi l’angolo di
Cobb è più significativo per la diagnostica. In ogni caso è importante per la determinazione dell’approccio
terapeutico.

Test di Riss: rappresenta il grado di ossificazione della cartilagine di accrescimento a livello della cresta iliaca.
Suddivide la cartilagine in cinque porzioni e, a seconda di quanto essa sia ossificata, si va ad identificare se c’è
un residuo di crescita possibile nel paziente o se invece ha raggiunto la maturità scheletrica.
Nel test di Riss si vede a livello della cresta iliaca la linea nera che corrisponde alla cartilagine di
accrescimento della cresta e ne si valuta il grado di ossificazione progressiva.

Questa è l’immagine più simile a quella mostrata a lezione che siamo riuscite a trovare; è chiaramente visibile
la linea nera di cui parla.

Trattamento

È importantissimo valutare:
 Età del paziente
 L’evolutività della curva. Nel caso di un bambino di 10 anni con una curva scoliotica viene richiesto
un follow up, rivalutando a distanza di 4-6 mesi l’evoluzione della curva;
 Eziologia: se c’è una scoliosi secondaria chiaramente va prima identificata e trattata la patologia
primaria

Semplificando:
 Curva <20 gradi: richiedono controlli follow up abbastanza serrati, 6 mesi circa, soprattutto nella fase
più importante della crescita; il trattamento prevede fisioterapia o ginnastica correttiva posturale
specifica e particolare attenzione ad evitare attività che sbilancino ulteriormente l’equilibrio tra destra
e sinistra (evitare sport come il tennis e preferire invece il nuoto, che promuove uno sviluppo
muscolare ben bilanciato).
 Curve tra i 20 e i 40 gradi: soprattutto se c’è una lieve evoluzione in un paziente ancora in crescita,
necessitano di un trattamento con il busto; si realizza un busto personalizzato con dei punti di forza
esattamente in corrispondenza degli apici delle curve scoliotiche del paziente di modo da limitarne
l’evoluzione.
 Curve di entità severa (>40 gradi) o rapidamente evolutive necessitano di un trattamento chirurgico.

Il trattamento chirurgico prevede l’inserimento di viti peduncolari lungo i peduncoli vertebrali interessati e il
posizionamento di barre modellate appositamente in modo tale da rettificare la curva scoliotica e da
bloccarla nella posizione corretta mediante l’utilizzo di distanziatori.
È un intervento chirurgico abbastanza complesso, se possibile si tende ad effettuare una correzione solo
lombare perché la correzione toracica associata alla lombare comporta nel tempo maggiori rischi non
indifferenti di degenerazione e mal di schiena, soprattutto in età adulta. In alcuni casi questo tipo di
correzione è obbligata e il bambino viene monitorato in terapia intensiva per 3-4 giorni; nella la scoliosi
toracica infatti c’è una rotazione di tutta la gabbia toracica, e la correzione comporta derotazione per
correzione del rachide con alti rischi di scompenso cardiocircolatorio e di paralisi.

SPONDILOLISTESI

Spondilo sta per vertebra, listesi sta per scivolamento; per cui è lo scivolamento in avanti di una vertebra su
quella sottostante. Questo può essere causato dalla rottura o dalla deformazione delle componenti posteriori
della vertebra.

Esistono due grosse categorie di spondilolistesi:

1. Spondilolistesi congenite: ad esempio se io ho da un punto di vista strutturale la lisi di un peduncolo


vertebrale o un allungamento di questo peduncolo è più facile che una vertebra possa scivolare su
quella sottostante
2. Spondilolistesi acquisite: ad esempio dopo un trauma (cado dal motorino e mi fratturo l’arco posteriore
della vertebra, lì per lì non succede niente di particolare poi piano piano la vertebra inizia a scivolare
perché manca l’ancoraggio posteriore) o nelle patologie come il Paget e l’osteogenesi imperfetta dove
ho un’alterazione del metabolismo osseo per cui è più facile che si verifichi una frattura del peduncolo
vertebrale, questo fa sì che la vertebra possa scivolare su quella sottostante.

Immagine In questa immagine vedete come il peduncolo sia sezionato, di conseguenza questo corpo
vertebrale ha la possibilità di muoversi anteriormente e scivolare rispetto a quello sottostante, se seguite il
profilo anteriore della colonna vedete che una vertebra è più avanti rispetto a quella sottostante: questa è la
cosiddetta spondilolistesi. Anche sui libri di testo si associano sempre i termini spondilolisi e spondilolistesi
perché la prima è precursore della seconda.
[da Wikipedia: La spondilolisi è una malformazione vertebrale che consiste nell'interruzione dell'istmo (punto
di giunzione tra il peduncolo, le faccette articolari e la lamina)]

Immagine Questa è un’immagine tipica della proiezione laterale del rachide, quando vedete il cagnolino con il
collare questo indica una lisi del peduncolo (in realtà nel gergo tecnico noi diciamo quando il cagnolino è
decapitato) a quel punto è più facile che si verifichi una spondilolistesi, è una delle valutazioni radiografiche
più semplici.
La maggior parte delle spondilolistesi interessano le ultime due vertebre questo perché la struttura e l’entità
dello scivolamento è legato a quanto il carico interessa quelle porzioni laterali, è molto difficile vedere una
spondilolistesi in una vertebra cervicale mentre è molto più frequente vederla a livello di L5 S1 o L4 L5.

Immagine A volte è possibile vedere il segno della fossetta posteriore: la fossetta posteriore è legata al fatto
che nello scivolamento l’apofisi spinosa della vertebra tende ad avere un orientamento diverso rispetto a
quella sotto e sovrastante per cui si crea proprio una fossetta. da un punto di vista radiografico vedete di
nuovo il nostro cagnolino, vedete la lisi del peduncolo e la vertebra che è scivolata anteriormente rispetto a
quella sottostante

Manifestazione clinica della spondilolistesi: Il dolore lombare

La lombalgia non è una malattia, la lombalgia è un sintomo e significa dolore lombare. È il sintomo che
accomuna tutte le patologie del rachide perché è legato essenzialmente ad una irritazione delle strutture
neurologiche a livello lombare che si manifesta con produzione di dolore. Nel momento in cui ho una
spondilolistesi il midollo spinale viene progressivamente strozzato dallo scivolamento, oltre a questo
strozzamento del midollo vero e proprio c’è una riduzione dei forami intervertebrali per cui la mia prima
sintomatologia è legata alla degenerazione del disco che va a comprimere la parte midollare e a questa si
associa una radicolopatia legata al restringimento dei forami intervertebrali quindi il nervo bilateralmente
viene ad essere interessato: inizialmente viene irritato fino ad arrivare ad una claudicatio vera e propria con
associata diminuzione della forza degli arti inferiori. Quindi ho un quadro preparalitico dove è il midollo
stesso ad essere compresso.

Qui vedete i vari livelli dove si può verificare una spondilolistesi: nella stragrande maggioranza dei casi
parliamo di L4 L5.

Ci sono dei fattori scatenanti che possono accelerare questo scivolamento:

1. Immagine Qui vedete un esempio tornando all’immagine di prima di Asterix e Obelix. Capite bene come
se vado ad inarcare il rachide a livello posteriore tendo a spingere il corpo vertebrale verso la parte
anteriore quindi nella ginnastica una posizione di questo tipo determina in maniera importante una
spinta sul corpo vertebrale che può scatenare una spondilolistesi (mi ricordo una ragazza di una ventina
di anni che aveva dolore alla schiena quando faceva lo scorpione come posizione dello yoga; aveva una
spondilolistesi ormai stabilizzata e mi ha chiesto cosa poteva fare per risolvere la problematica. (lo
scorpione per chi non lo sa è una posizione come questa con tutte e due le gambe rivolte verso la stessa
posizione) tecnicamente gli ho detto che non avrebbe più dovuto fare la posizione dello scorpione. Non ci
sono tanti altri trattamenti che si possono fare soprattutto in una persona di età adulta; il rischio è che,
se la spondilolistesi è progressiva, lo scivolamento è tale da determinare una stenosi del canale
midollare).

Immagine queste sono immagini di una mielografia (che non si fa più), dove si iniettava del mezzo di
contrasto a livello del canale midollare (vedete quindi contrastato il midollo). L’immagine rende molto bene
l’idea dello strozzamento legato alla spondilolistesi.

Immagine In questa immagine vedete un altro esempio di come è dislocato il forame intervertebrale; posso
arrivare a quadri dove ho uno scivolamento superiore al 50% rispetto alla vertebra sottostante fino ad
arrivare alla ptosi vertebrale, quindi uno scivolamento completo, ad esempio della vertebra L5 su S1. Questa
è una problematica gravissima perché tutto il peso del rachide va ad irritare l’articolazione, di conseguenza
un paziente ha una sintomatologia neurologica importante che può arrivare ad una paresi del plesso sacrale e
quindi ad un’alterazione della mobilità dal ginocchio in giù.

Trattamento

La spondilolistesi nella maggior parte dei casi è solo un riscontro occasionale che richiede la limitazione di
alcune attività. Nel caso di lombalgie o sciatalgie importanti rinuncia alle attività sportive o moderazione;
vanno evitate in particolare alcune attività sportive; viene effettuato un trattamento sintomatologico
analgesico perché alcuni piccoli movimenti possono causare facilmente una flogosi e questa diventa
rapidamente sintomatica, dando dolore lombare. Capite bene che, se si infiamma una radice nervosa, lo
spazio è ridotto, quindi è la compressione stessa della patologia infiammatoria a scatenare il dolore e, una
volta risolta la patologia infiammatoria, il quadro tutto sommato regredisce.
Se invece vediamo che la spondilolistesi è evolutiva, è necessario andare a bloccare l’evoluzione e questo
vuol dire andare a fare un intervento chirurgico. Qui vedete un esempio in cui si esegue una fusione delle due
vertebre con diverse metodiche (non serve che le sappiate, ci sono metodiche protesiche, con innesti…);
sostanzialmente si vanno a bloccare le due vertebre.

LOMBALGIA, LOMBOSCIATALGIA E LOMBOCRURALGIA

La lombalgia è un dolore a livello lombare che può essere più o meno associato ad una irradiazione agli arti
inferiori.
Può essere acuta quindi ho una comparsa improvvisa legata a sforzi o movimenti oppure può essere cronica.
Si parla invece di lombocruralgia quando io ho un dolore lombare che si irradia nella regione anteriore della
coscia quindi ho un interessamento della regione lombare con irradiazione nel territorio del nervo femorale.
Si parla di lombosciatalgia quando ho un dolore lombare con irradiazione nel territorio del nervo sciatico.

Epidemiologia

 La prevalenza è 1/100 (abbastanza frequente) [Questo per rendervi l’idea dell’importanza a livello del
sistema sanitario nazionale della patologia]
 La lombalgia è la principale causa di assenza dal lavoro: l’85% della popolazione che lavora è stata in
malattia almeno una volta nella vita a causa di una lombalgia.
 Il 40% dei pazienti con lombalgia non ricorre a cure mediche.
 La maggior parte dei pazienti migliora entro un mese.
 È un problema importante perché da un punto di vista clinico è difficile non diagnosticare una
lombalgia perché è la parola del paziente contro quella del medico: il paziente dice che ha male al
rachide = diagnosi di lombalgia ma non è una patologia.
 Il 10% cronicizza

Cause di lombalgia

La parte ortopedica è quella meno importante questo lo dico perché tutti voi vi troverete a che fare con dei
pazienti che riferiscono una lombalgia e bisogna andare ad escludere tutte le cause (anche le non
ortopediche).
Da un punto di vista legale è una delle problematiche più importanti che portano a dei conflitti medico legali
perché faccio un esempio: io ero in pronto soccorso; viene inviato dal triage un paziente che aveva una
lombalgia importante, insorta la sera prima. (in pronto soccorso su 50 persone al giorno che possiamo vedere
trenta vengono per un problema di lombalgia quindi più della metà dei pazienti nel pronto soccorso ha mal di
schiena, sono tutti quelli inviati dal medico di base) Visto al triage, viene etichettato con la classica lombalgia
da sforzo ecc. Arriva alla mia attenzione quattro ore dopo, senza essere stato neanche visitato in triage, su
una barella (già una lombalgia molto particolare se il paziente non riesce a camminare). È sudato, bianco,
vado a spogliarlo e vedo l’addome che pulsa. Viene quindi chiamato d’urgenza il chirurgo vascolare ed il
paziente è andato in sala operatoria 15 minuti dopo, per una rottura di un aneurisma aorta addominale.
Paziente che era stato quattro ore in pronto soccorso con dei dolori allucinanti. Questo per rendere l’idea di
come la lombalgia a volte sottenda a delle problematiche molto più importanti.

1. Cause statiche:
Alterazioni extravertebrali:
-La dismetria degli arti inferiori (in un paziente subito valuto la differenza di lunghezza degli arti
inferiori, se un paziente ha una gamba più lunga dell’altra ha mal di schiena perché nel
disallineamento del bacino chi compensa è il rachide; non avete mai visto le persone con lunghezza
degli arti inferiori diversa camminare di lato, eventualmente è il rachide che rettifica la postura per
cui è una delle cause più banali statiche posturali di lombalgia)
-Anchilosi coxofemorale
-Aumento dell’angolo lombo sacrale
Alterazioni vertebrali:
-Congenite
-Acquisite (traumatiche o scoliosi)
2. Cause degenerative dismetaboliche
-Artrosi delle faccette articolari o coxartrosi
-Osteoporosi: una deformità da crollo vertebrale multiplo va a determinare una compressione delle
radici e questo mi determina una lombalgia.
3. Cause infettive
-Osteomielite
-Spondilodiscite
4. Cause neoplastiche: ne vediamo sempre di più per tanti motivi: perché sono migliorate le cure
mediche, perché il paziente oncologico ad oggi sopravvive più a lungo e ha tempo di sviluppare delle
metastasi scheletriche (una volta nel tumore del polmone allo stadio terminale che dava metastasi
ossee la prognosi era di tre mesi, non si faceva nulla; oggi abbiamo pazienti con metastasi ossee che
sopravvivono anche 10-12 mesi, sono migliorati i trattamenti per mielomi, linfomi e altre patologie
ematologiche che hanno un importante interessamento osseo, tanto che nella maggior parte dei casi
i pazienti con mielomi hanno localizzazione vertebrale e questi sono cause di lombalgia)
La settimana scorsa in pronto soccorso è arrivata una signora giovane di 45 anni trattata 10 anni
prima per un carcinoma mammario, ha fatto 5 anni di chemioterapia e ormonoterapia e stava bene
fino a due mesi fa; poi inizia un dolore a livello del bacino un po’ vago, ha fatto due mesi di massaggi,
fisioterapie, infiltrazione con cortisone ecc.; dopo due mesi viene in pronto soccorso, ha fatto una
radiografia e chiaramente ha delle lisi vertebrali multiple da metastasi. Per cui è una delle patologie
da considerare come prima ipotesi soprattutto ad oggi.
Immagine Qui vedete un esempio, questa è una vertebra completamente interessata da una lesione
metastatica, vedete il tumore come comprime notevolmente la zona midollare. A volte anche delle
localizzazioni di tumori ossei benigni possono essere causa di lombalgia
5. Cause reumatiche: spondilite anchilosante, artrite reumatoide ecc. sono delle patologie che possono
andare ad interessare il rachide.
Immagine Qui vedete che, nella spondilite anchilosante, quello che succede è una progressiva
fusione di tutti i corpi vertebrali; ovviamente la mobilizzazione di questo rachide determina un
dolore identificabile come lombalgia.
6. Cause traumatiche un tamponamento frattura vertebrale con un frammento che protrude nel
canale midollare causa dolore; frattura da osteoporosi; scoppio vertebrale tipico del turista in barca
seduto che, nel momento in cui si ha un’onda importante, si solleva e cade nella stessa posizione e
scoppia la vertebra, non è abbastanza frequente ma è uno dei motivi per cui ci chiamano in
emergenza il 15 di agosto.
7. Dolori riferiti dove il dolore si riferisce al dermatomero lombare ma non deriva dal rachide:
-Origine addominale: una pancreatite acuta che da un dolore tipico a barra posteriore localizzato nel
passaggio toracolombare; l’appendicite retrocecale; calcoli renali; colite; ulcere duodenali.
-Origine pelvica: patologie dell’apparato ginecologico (un’endometriosi, un tumore ovaie), un
tumore del retto.
-Origine vascolare: che possono essere fatali nell’arco di poche ore come aneurismi dell’aorta
addominale.
8. L’ernia del disco non è la causa più frequente di lombalgia né tantomeno la più pericolosa per cui
importantissimo quando parliamo di cause di lombalgia non mi dite che la causa della lombalgia è
l’ernia del disco. La causa della lombalgia può essere tutto quello che vi ho detto prima poi possiamo
parlare dell’ernia del disco.

ERNIA DEL DISCO

L’ernia del disco è la fuoriuscita del nucleo polposo che va a comprimere il canale vertebrale o le radici
spinali.
In questa immagine vedete un disco intervertebrale normale e uno dove il nucleo polposo trova strada
attraverso la porzione fibrosa e tende ad uscire dalla parte posteriore, vedete in questo disegno molto ben
rappresentata l’emergenza della radice nel forame intervertebrale e il suo rapporto con il disco
intervertebrale; quando il disco tende ad uscire a livello mediale o a livello posterolaterale può comprimere la
radice nervosa e questa compressione scatena un dolore lombare con irradiazione nel territorio di
pertinenza.
A volte non è neanche necessaria un’ernia del disco espulsa vera e propria, a volte banalmente il disco può
protrudere un po’ per degenerazione e se ho un’artrosi importante delle faccette dove queste sono allargate,
dilatate, deformate vedete come si riduce lo spazio all’interno; questo può scatenare un processo
infiammatorio che tra il disco e la faccetta può andare a comprimere la radice; questo è uno delle classiche
caratteristiche del dolore lombare in presenza di un’ernia neanche tanto importante che viene visto in pronto
soccorso, quindi la problematica è una problematica infiammatoria.
La mia modalità di trattamento è quella di sfiammare questa regione e andare a riportare il quadro nel
quadro anatomico normale; una volta 10-15 anni fa si operava ed era un intervento abbastanza regolare,
adesso non si fa più perché si sa che andare a fare un intervento di asportazione della porzione posteriore del
disco comporta il fatto che questa si possa ripresentare.
Il dolore di solito è dato dalla stimolazione meccanica lieve della radice che causa un dolore nel territorio di
distribuzione delle fibre sensitive; quando invece la pressione è più importante, incominciano a verificarsi dei
deficit motori. In un nervo periferico abbiamo le fibre dolorifiche alfa, le più sensibili e facilmente stimolabili
da una compressione di lieve entità, dopo che si instaura questa compressione se la compressione aumenta
incominciano a essere stimolate o interrompere la stimolazione, in questo caso, le fibre motorie.
Paradossalmente quando ho la paralisi mi passa il dolore ma ho una situazione molto più grave con perdita
totale di sensibilità e di mobilità.

Classificazione da un punto di vista anatomico dell’ernia del disco

A. Bulging discale: il nucleo polposo che fuoriesce e si fa strada in mezzo all’anulus ma non interrompe
la struttura periferica dell’anulus, sostanzialmente si va a deformare il disco in quella regione.
B. Ernia contenuta: il nucleo polposo raggiunge la periferia dell’anulus, lo supera, ma rimane contenuto
all’interno della struttura [da Wikipedia: quando il disco presenta una sporgenza circoscritta nel
canale vertebrale; l'anulus fibroso è rotto ma l'ernia è contenuta dal legamento longitudinale
posteriore]
C. Ernia protrusa: il nucleo polposo fuoriesce parzialmente dal disco intervertebrale [da Wikipedia: In
questo caso sia l'anulus che il legamento longitudinale posteriore sono lesionati ed il nucleo polposo
prende direttamente contatto con le strutture nervose]
D. Ernia espulsa: tutto il nucleo polposo è fuoriuscito dalla sua posizione originale [da Wikipedia: In
questo caso il contenuto dell'anulus si trova interamente all'interno del canale spinale.]

Immagine qui vedete un esempio di localizzazione dell’ernia; io posso avere un’ernia posterolaterale che
fuoriesce posteriormente e va a comprimere una radice.
Immagine qui vedete un’immagine di RM (vedete che la corticale dell’osso è nera) e qui vedete molto
chiaramente l’ernia; vedete la radice solo da una parte, non la vedete dall’altra.

Ernia centrale: ernia che va a comprimere direttamente il midollo spinale e questo può determinare una
sintomatologia lombare che si può irradiare a tutti e due gli arti.
Ernia extraforaminale: non gli interessa la regione del midollo spinale ma esce al di fuori del forame e va a
comprimere la radice ad estrinseco
Immagine qui vedete un esempio sempre una risonanza dove l’ernia che fuoriesce dal forame
Ernia massiva: ernia importante che interessa tutto lo spessore, viene espulsa quasi tutta la regione
midollare; sono le ernie che necessitano invece di un trattamento chirurgico.

Quindi, andando a riassumere rapidamente, la lombalgia è un dolore improvviso, ad alta intensità, di solito
dopo uno sforzo quasi sempre in flessione (ad esempio dopo che ho sollevato il divano) perché la flessione in
avanti spinge il disco intervertebrale verso il canale midollare; quindi paradossalmente questo è un paziente
che sta meglio in posizione sdraiata o addirittura con una flessione dorsale, la posizione seduta infatti spinge
il disco a comprimere maggiormente il midollo. A questi pazienti io consiglio sempre, quando stanno in
posizione seduta, di utilizzare un cuscinetto lombare per obbligare ad inarcare la schiena, non posso
consigliare di fare lo scorpione perché risulterebbe difficoltoso ma paradossalmente quello non gli creerebbe
ulteriori problemi.

Lombalgia cronica: se il dolore persiste per settimane o mesi, di intensità variabile. È abbastanza facile che si
instauri, in pazienti che hanno magari bulging discali multipli, un dolore cronico neuropatico che si
autoalimenta; questo è un dolore di più difficile gestione.

Come si presenta il paziente che ha il cosiddetto colpo della strega

1. Rigidità antalgica, muovere la schiena fa male (il paziente con un dolore lombare di questo tipo
muove il rachide cervicale e poco più).
2. Scoliosi antalgica perché il paziente mantiene una contrattura muscolare che blocca i movimenti.
3. Se vado a palpare le zone delle spinose non ho grossi dolori mentre il dolore si scatena se invece
vado a palpare la muscolatura paravertebrale che è notevolmente contratta ho dolori perché è
contratta
4. La sintomatologia periferica è legata al territorio del dermatomero di riferimento; quando vado a
valutare il territorio lo vado a valutare su tutte le sue componenti, vado a fare una valutazione della
sensibilità, motoria, dei riflessi; tutte queste informazioni sono importanti perché a seconda di quali
di queste componenti sono alterate devo andare a capire qual è l’entità della mia problematica.

Valutazione neurologica

Abbiamo dei muscoli che in maniera specifica fanno riferimento alle radici: il tibiale anteriore fa riferimento a
L4, L5; l’estensore alluce a L5, S1; la flessione plantare del piede a S1ed S2.
La valutazione neurologica è importantissima; per esempio se voglio valutare L3 valuto la sensibilità nella sua
regione cutanea, la motilità e me la aspetto ridotta del quadricipite o della porzione mediale del piede, vado a
valutare se c’è reflessia o iperreflessia del rotuleo.
Per L4 allo stesso modo vado a valutare se l’estensore comune delle dita funziona oppure no; l’estensore
proprio dell’alluce che è innervato in maniera esclusiva da L5, S1; vado a valutare i riflessi achillei.
Per cui è importantissimo l’esame neurologico fatto bene; poi ci sta che in pronto soccorso non ho a
disposizione dieci minuti per fare un esame obiettivo neurologico completo che includerebbe anche la
valutazione termica, la valutazione della sensibilità al freddo, ecc. però a volte serve ad orientarsi per evitare
di sottovalutare alcune patologie.
Immagine
Ci sono inoltre alcuni test molto banali come la manovra di Wasserman: valuta L3 ed L4; vado ad alzare la
gamba in questa posizione e questo può scatenare un dolore a livello del piede.
Segno di Laségue test di stiramento radicolare a livello di L5 che mi permette di valutare se il dolore lombare
è legato ad uno stiramento a livello della regione dello sciatico posteriore.

Imaging

1. Radiografia: sempre; un paziente che ha mal di schiena una radiografia se la merita, per escludere
che ci siano patologie ossee più rilevanti. Non è una cosa così banale; per esempio, la ragazza di
prima ha passato due mesi di fisioterapia, massaggi, laser, teca, magari è andata dall’osteopata
prima di fare la radiografia.
2. TAC e RM vanno fatte se ho dei dubbi diagnostici, oppure se nonostante la terapia antiinfiammatoria
di 10 giorni il dolore non passa e mi pongo il dubbio: perché non passa questo dolore? Nello specifico
se ho il sospetto che si tratti di qualcosa diverso rispetto al rachide chiedo una TAC o RM del bacino,
non vi dimenticate di chiedervi cosa c’è al di là.

Trattamento

Negli degli attacchi acuti di solito bastano un paio di settimane di riposo, anti infiammatori e busto (sul busto
poi ne potremo parlare perché ha un significato di riposo, per rilassare la muscolatura, che dura dieci giorni;
dopo 10 giorni obbligatoriamente va rimosso perché più si tiene il busto, più la muscolatura perde tono e più
faccio fatica a svezzare il paziente dal busto; tutte le volte che lo toglie non ha una muscolatura di supporto, il
peso del corpo incide giusto sul rachide, a quel punto ritorna il male e il paziente diventa dipendente dal
busto; lo vedete molto spesso in qualche anziano, che da quando ha avuto la frattura vertebrale, non riesce
più a stare senza busto; questo è sbagliato perché, nel mio concetto, il trattamento della lombalgia è legato
soprattutto alla prevenzione della recidiva, io devo andare a potenziare la muscolatura paravertebrale
addominale in modo da trattare e da dare regolare supporto al rachide da parte della muscolatura
addominale e paravertebrale)
Successivamente all’evento acuto si consigliano la ginnastica posturale e dimagrire.
Per quanto riguarda il trattamento chirurgico questo va fatto solo quando l’ernia del disco mi da dei deficit
motori. Non c’è nessun altro motivo per andare ad effettuare un intervento di asportazione dell’ernia.

Filippo Michele Fieramonte 09/10/2019


Chiara Zanchi Ortopedia (B)
Antonio Bonato Prof. Frizziero
Luca Salviato

INTRODUZIONE AL CORSO
La lezione odierna è altamente discorsiva e vuole essere in generale un’introduzione alla fisiatria. Le
diapositive verranno fornite dal professore alla fine dell’argomento.

Il professore si presenta:

Dr Antonio Frizziero, ricercatore all’università di Padova. Si occupa di riabilitazione, in particolare nell’ambito


ortopedico e dello sport.
Nato a Bologna, dove ha studiato medicina e si è specializzato al Rizzoli.
Per un periodo è stato medico della squadra corse Ferrari. Si è occupato della cura di clienti privati, agonisti,
soprattutto calciatori.
Infine, ha deciso di lavorare nell’ambito della ricerca nel campo della riabilitazione, occupandosi comunque
anche di clinica ambulatoriale.

Il professore chiede quale sia secondo noi la definizione di fisiatria e medicina clinica riabilitativa:
Studente 1: si occupa del recupero della mobilità dopo un’operazione ortopedica, nel senso che aiuta a
riacquisire la muscolatura necessaria.

Prof: che differenza c’è tra il fisioterapista e il fisiatra?


Studente 2: il fisiatra firma le ricette, e il fisioterapista fa fare le esercizi.
Prof: e il laureato in scienze motorie?
Studente 3: fa il personal trainer

Prof: il fisiatra quindi si occupa di nient’altro?


Studente 4: si occupa della postura
Prof: l’abbinamento fisiatra-postura è un’altra credenza diffusa, ed è corretta. Ci stiamo un po’ avvicinando.
Se pensiamo a quale altro specialista si occupa di postura, non ci viene in mente nessun altro se non qualche
ortopedico, in passato. Si tratta più che altro di postura intesa nel senso chirurgico.

IL LAVORO DEL MEDICO FISIATRA:

Definizione di fisiatra del professore:


 Medico della funzione dell’organismo nella sua pluralità, e non della funzione del singolo organo.
 Si occupa di come quell’organo influisce su quello che è lo stato generale del soggetto, anche in
relazione al suo mondo sociale, lavorativo, ecc.
 Deve provare a ridare alla persona che ha subito un infortunio e, dunque, una menomazione di
qualsiasi tipo, gli strumenti per tornare a una vita molto simile, e, se possibile, migliore di quella
che precedeva l’infortunio.

Esempio di un infarto:
Il pz va in PS, vede il cardiologo e viene sottoposto a procedure in acuto quali farmaci e intervento. Fino a
qualche anno fa, l’iter di supporto di questo paziente finiva così e veniva rispedito a casa dopo poco tempo.
Il paziente, tuttavia, ha subito uno shock e deve ritornare alla sua vita, senza direttive e con molti dubbi.
Comprensibilmente, questo iter non è corretto.

Al giorno d’oggi, tutti i pz mettono in atto dei programmi riabilitativi post-infarto per essere ricondotti alla
vita di tutti i giorni nel miglior modo (ed è l’ambito della riabilitazione cardiologica), sia fisico che psicologico.
È infatti normale per un pz mantenere memoria di quell’evento così pesante e chiedersi “posso avere un altro
infarto?”, ed aver paura che possa accadere di nuovo.
I fattori predisponenti permangono e anzi, sono aumentati dal fatto che, in periodo di convalescenza, i
pazienti tendono a maggiore sedentarietà.

I pazienti sono soliti avere dubbi come “quali tipi di attività posso fare? Una volta ero solito andare in
montagna col nipotino/andare a correre due volte a settimana/andare in bicicletta/ecc”.
È fondamentale accompagnare dal punto di vista funzionale queste persone per evitare che siano
abbandonate a loro stesse.
Esistono rari casi di persone che si sanno gestire e organizzare in maniera autonoma, ma sono la minima
parte.

Questo discorso si applica a qualsiasi infortunio: difficilmente si è visto uno sportivo rompersi il crociato e,
subito dopo l’intervento, tornare in campo come se nulla fosse. C’è un lungo periodo di riabilitazione in
mezzo.
Così anche per chi ha bisogno di protesi d’anca, di spalla, o un amputato.

Un amputato può diventarlo per vari motivi, ad es. il diabete.


Un paziente diabetico può essere amputato prima del piede, quindi della gamba, e in ultimo della coscia.
Dopo tutti questi interventi questa è una persona che si ritrova nel letto d’ospedale, senza una gamba, e deve
ricominciare una nuova vita.

Il professore chiede chi, secondo noi, deve prendersi cura di un paziente amputato.
Non è il chirurgo: il chirurgo vascolare ha finito il suo dovere. L’arto è stato amputato, i drenaggi sono stati
tolti, la sutura è perfetta, l’edema è stato riassorbito e non ci sono infezioni.
Il paziente, tuttavia, è pieno di dubbi: come fa a camminare? Come fa a raggiungere casa? (Rientra nel
discorso di: dove abita questo paziente? Primo piano? Piano terra? Ultimo piano? Ha l’ascensore oppure no?)
Ha le prescrizioni di carrozzina, ortesi, deambulatori? Come fare il percorso per impiantare un’eventuale
protesi di arto? Chi lo segue? Che protesi mettere? Quali sono i codici di prescrizione regionali?

Il fisiatra si occupa di prendersi carico di tutti quei pazienti che, una volta terminata la fase “acuta”
(d’organo o distrettuale), necessitano di un percorso di rieducazione funzionale.
Questi pazienti devono essere rimessi in pista con l’obiettivo di raggiungere ciò che il paziente era in grado di
fare prima di questo evento sfortunato.
Il professore racconta che, nell’ambito dello sport, ha fondato una società scientifica che oggi conta più di
1000 iscritti che si chiama Società Italiana di Patologia di Muscoli, Tendini e Legamenti, che si occupa del
trattamento delle lesioni muscolari, come il famoso “strappo muscolare”.

Chi cura lo strappo muscolare?


Se uno di voi, giocando a calcetto, si procura uno strappo al bicipite femorale lo specialista a cui si rivolge è il
fisiatra. Per legge (e funziona così per molti stati, ad eccezione di quelli anglosassoni), è il medico a fare
diagnosi.

Il progetto riabilitativo, ovvero tutti gli interventi da farsi necessari al recupero funzionale, dev’essere fatto
dal medico.

FISIATRA INTERVENTISTICA:

Branca della fisiatria piuttosto recente.


Si tratta di un ambito della riabilitazione in cui il fisiatra, con l’aiuto
dell’ecografo e mediante terapie infiltrative, colloca con precisione i
farmaci necessari nella sede specifica da trattare, evitando strutture
nobili come vasi e nervi.
I risultati, dal punto di vista della sintomatologia e della ripresa
funzionale, sono molto superiori a un’assunzione prolungata di
farmaci antinfiammatori come cortisonici.

La crescente efficacia della terapia conservativa delle affezioni


muscolo-scheletriche va ovviamente di pari passo con la maggior conoscenza delle strutture che possono
andare incontro a fenomeni patologici dell’apparato neuro-periferico e muscolo-scheletrico, ottenuta grazie a
tecniche di imaging migliori.
Fino a qualche anno fa non c’era la risonanza, e TAC ed ecografia avevano scarsa risoluzione.

Man mano che l’evoluzione è proseguita, non si è più parlato, per esempio, di periartrite scapolo-omerale,
patologia molto diffusa.

La periartrite di spalla, si è scoperto, è una patologia che non esiste, poiché è una descrizione vaga che indica
un’infiammazione delle strutture attorno alla spalla.
Quali sono esattamente le strutture che si infiammano?
Può essere la borsa sub-acromiale, una tenosinovite del capo lungo del bicipite, una forma di tendinopatia
articolare della cuffia dei rotatori, fatta a sua volta di numerose porzioni: sovraspinato? sottospinato? piccolo
rotondo, ecc.
Può essere quindi anche una retrazione capsulare o altro ancora. Sono tutte patologie che, fino a pochi anni
fa, venivano classificate tutte allo stesso modo, senza essere precisi.

Ora, visualizzando meglio i distretti grazie all’ausilio di ecografia ad alta risoluzione, possiamo visualizzare
meglio i dettagli delle borse di scorrimento.
La pratica si definisce fisiatria interventistica perché, oltre alla terapia del dolore, si associa un preciso e
dettagliato percorso riabilitativo che permette al paziente non solo di trattare l’evento acuto in quanto tale,
ma anche di mettersi nelle condizioni che quel problema non ricompaia perché c’è stata una rieducazione
funzionale.

RIGIDITÀ CAPSULARE E VARIABILITÀ INTERINDIVIDUALE

Il professore riferisce che sicuramente almeno un 40-50% dei ragazzi in questa classe avrà una rigidità
capsulare posteriore, soprattutto a livello dell’arto dominante. Questo è dovuto al fatto che la postura
assunta e i movimenti ripetitivi eseguiti con l’arto sono tali da richiedere uno sforzo eccessivo da parte della
muscolatura che governa questi distretti. Il muscolo si affatica e le strutture di stabilizzazione passiva come i
legamenti e le capsule, vanno incontro a fenomeni di accorciamento. Tale rigidità si osserva chiedendo al
paziente di alzare il braccio a 90° di abduzione con flessione del gomito di 90°, intraruotare il braccio ed
extraruotarlo da distesi, quindi con la scapola stabilizzata dal peso del corpo; si nota che l’intrarotazione,
l’extrarotazione o entrambe sono limitate. L’arto non dominante è invece più libero. Si tratta di un problema
funzionale, il quale non produce al momento dolore, ma predispone a produrlo. Questo è dovuto al fatto che,
quando la scapola non è adeguatamente governata dalla muscolatura, principalmente da romboidei e gran
dentato, non è adeguatamente stabilizzata; i movimenti pertanto si anteriorizzano e le strutture adiacenti
anteriori sono sottoposte ad una situazione biomeccanica sfavorevole con sovraccarico funzionale. Pertanto
l’esito di tale processo consiste in una rigidità capsulare, dove la capsula corta trascina la scapola e questo
determina una comparsa di possibili fenomeni infiammatori come una tenosinovite o di una borsite.

Si manifesta clinicamente con dolori irradiati alla mano, al collo e a strutture anteriori. Il paziente pertanto
giunge in Pronto Soccorso per un dolore acuto ad una spalla, dovuto generalmente ad una borsite o una
sinovite. Se questo paziente viene curato solamente spegnendo il processo infiammatorio, con antidolorifici,
ghiaccio e immobilizzazione, starà bene momentaneamente, ma nell’85% dei casi, dopo qualche mese, il
problema recidiverà, in quanto la terapia non ha modificato il fattore biomeccanico eziologico. Il percorso di
riabilitazione funzionale prevede pertanto la liberazione della capsula articolare e la stabilizzazione della
scapola. Questo percorso inizia con degli esercizi di stretching capsulare, seguiti sequenzialmente da attività
di potenziamento della muscolatura dei retroposizionatori scapolari e, una volta ottenuto questo, si passa
alla cuffia dei rotatori.
Per chiarificare questa situazione il professore chiede a sei studenti di aiutarlo svolgendo esercizi molto
semplici. Ognuno degli studenti si comporterà in maniera diversa dimostrando la variabilità inter-individuale.
 Primo esercizio: i ragazzi si mettono su un piede solo in equilibrio. Qualcuno ha appoggiato il piede
al suolo e qualcuno dopo. Questo esercizio serve per testare l’equilibrio. Se il professore spintona i
ragazzi vacillano ma rimangono tendenzialmente in piedi. Chiede successivamente di cambiare piede,
in quanto è necessario testarli anche sul piede non dominante, dove la performance mediamente risulta
peggiore.
 Secondo esercizio: chiede agli studenti di percorrere una distanza a “zoppo galletto” prima con il
piede dominante e poi con quello non dominante. Misurando la tempistica si denota che gli studenti
avranno sei tempi diversi e diversi da un arto all’altro. Non solo cambiano le tempistiche ma anche la
postura e i movimenti.
 Terzo esercizio: prendere un foglio di carta e scrivere il proprio nome prima con la mano dominante e
poi con l’altra. Cambiano la qualità e il tempo della scrittura.
Quello che cambia principalmente tra i due arti è l’allenamento, in quanto si è allenati a svolgere una
determinata azione con un arto in un tempo relativamente breve.
 .Quarto esercizio: ritorna sulla rigidità capsulare della spalla. Stendendo lo studente su un banco il
professore testa la rigidità; il braccio dovrebbe andare su un piano parallelo al corpo; si preme la testa
dell’omero per stabilizzare l’articolazione e mentre si spinge si arriva ad un blocco dovuto alla rigidità
della capsula articolare. Il professore testa questo esercizio sui sei studenti e solamente una di questi
non presenta questa rigidità, presentando, invece, iperlassità articolare. Per la cura di un dolore acuto
generato da tale rigidità il professore ribadisce la gestione del dolore acuto e rieducazione funzionale.
È importante nell’esercizio non mettere in tensione l’ileopsoas, che è il muscolo che collega il femore
alle prime vertebre lombari; l’ileopsoas, messo in tensione dall’estensione dell’arto, tira sulle vertebre
lombari dall’interno ed aumenta la lordosi lombare. Per fare stretching dell’ileopsoas bisogna flettere
l’arto e portarlo ad una condizione di mancata tensione, ossia di massimo accorciamento, spingendo
sull’arto determinando lo stiramento. Lo psoas è importante anche nelle protesi d’anca, in quanto la
camminata dei pazienti con protesi presenterà zoppia, interessamento del medio gluteo e un maggiore
utilizzo dell’ileopsoas, in quanto il paziente tende a stare in flessione. Tale muscolo va pertanto
incontro ad un fenomeno di contrattura. Spesso, pertanto, i pazienti operati da protesi presentano un
deficit di forza dell’arto interessato con difficoltà a sollevarlo. Massaggiando in profondità l’ileopsoas,
dopo la fase dolorosa, riescono a sollevare l’arto per la diminuzione della contrattura.

Il professore chiede come si fa a misurare la forza di un muscolo?


Risposta di uno studente: col dinamometro.
Professore: il dinamometro non ci permette di misurare la forza espressa da un singolo muscolo, misura
infatti quella di un gruppo muscolare.
Altra risposta: con l’elettromiografia.
Professore: No, l’elettromiografia misura un segnale elettrico. Ci sono dei picchi più importanti, ma non si
riesce a quantificare la forza.
Risposta: esiste un rapporto tra la sezione del muscolo e la forza.
Professore: È vero ma non del tutto, un anziano allenato ha una riduzione della massa muscolare, ma in
realtà può esprimere più forza di un giovane che ha maggiore massa (ma minore forza).
La realtà è che al giorno d’oggi non è ancora possibile misurare la forza di un singolo muscolo.
Questa è una delle grandi sfide della fisiatria, perché sapere qual è la reale forza che un muscolo esprime (e
quella che dovrebbe esprimere) è un obiettivo fondamentale nell’ottica di un percorso riabilitativo, oltre che
utile in termini di ricerca.
[Dopo questa che il professore definisce una “chiacchierata”, inizia quella che è una carrellata delle slide.]

STRUMENTAZIONE E TERAPIE RIABILITATIVE

Quando il prof è arrivato a Padova, 9 anni fa, il reparto ambulatoriale di fisioterapia era un po’ obsoleto.
Vengono mostrate alcune attrezzature che venivano utilizzate:
 una vasca dove i fisioterapisti facevano le mobilitazioni dei pazienti (l’azienda non voleva pagare una
piscina).
 l’attrezzatura per l’elettro-galvanoterapia, che sfrutta bacinelle d’acqua dove inserire mani o piedi e
attraverso la produzione di piccole correnti elettriche ha funzione antalgica.
Il principio sfruttato è quello del gate control, un sistema fisiologico per cui quando, ad esempio,
andiamo a sbattere e sentiamo dolore, massaggiando la zona interessata si riduce lo stimolo doloroso,
perché vengono stimolati recettori periferici che vanno a inibire le fibre che trasmettono la
sintomatologia dolorosa.
 la terapia a infrarossi, il calore infatti riduce le contratture, ad esempio del rachide cervicale o
lombare.

La situazione oggi è cambiata.


A Padova (e in soli altri tre ospedali in Italia) è possibile utilizzare le onde d’urto eco-guidate, si tratta di onde
meccaniche prodotte da un dispositivo piezoelettrico.
Il primo utilizzo di questa tecnologia si è avuto per la litotrissia dei calcoli renali, una pratica che permette di
non operare e quindi di evitare gli effetti collaterali di eventuali interventi chirurgici.
Quasi casualmente (il prof parla di sonde mal orientate) sono stati scoperti altri effetti benefici dati dalla
terapia e sono quindi nate una serie di ricerche a livello mondiale, in linea generale è stato visto che le onde
meccaniche producono una stimolazione biologica dei tessuti.
Questa stessa terapia infatti adesso viene utilizzata ad esempio:
 nelle tendinopatie;
 nella stimolazione del cuore in pazienti con importanti infarti, sembra avere un’azione stimolante sulle
cellule staminali che vanno a ripopolare l’area necrotica di infarto;
 nella stimolazione trans-cranica del paziente che ha subito lesioni cerebrali;
 nelle fratture, nei ritardi di consolidazione dell’osso o nella necrosi della testa del femore, vengono
utilizzate perché hanno un’azione trofica.

A questo proposito, ci sono tre modalità per stimolare un osso a consolidare in seguito a una frattura:
 il carico, si crea così un effetto pompa sul focolaio necrotico;
 le onde d’urto;
 i campi elettromagnetici pulsanti a bassa intensità (CEMP)
Sono tutti e tre trattamenti comprovati come efficaci, con evidenze scientifiche.

[A questo punto il professore vuole aprire una parentesi, che lui, in maniera non troppo chiara, collega allo
sviluppo di nuove tecnologie: che differenza c’è tra evidenze ed esperienze?
Risposta di uno studente: le evidenze scientifiche vengono formate da molte esperienze che sono state
valutate e i cui dati sono stati organizzati. Le esperienze invece derivano dal singolo esperimento volto a
determinare una determinata cosa su cui ci siamo posti una domanda.
Professore: come facciamo a sapere che la pratica medico-chirurgica che mettiamo in atto per trattare un
determinato paziente, sia quella giusta? Di fronte a una stessa situazione ci può essere un medico che agisce
in un modo, e un altro medico che agisce in un altro modo, ci possono essere approcci anche leggermente
diversi. Come sapere se uno specifico approccio è corretto?
I medici devono rifarsi alle linee guida che, secondo la legge Bianco-Gelli, sono depositate presso il ministero.
Le linee guida spesso si rifanno alle metanalisi, prevalentemente le Cochrane (all’interno delle Cochrane
Library). Le metanalisi vengono fatte sulle esperienze dei trial clinici, idealmente randomizzati, controllati e in
doppio cieco.
Queste sono tutte cose che un medico deve sapere, perché l’interpretazione di questi dati si trasformano in
quello che è il consiglio pratico da dare al paziente, quindi riguarda ogni tipo di medico.
Il professore continua dicendo che nella pratica del medico sono sempre presenti i fallimenti, ad esempio la
percentuale di insuccesso nella chirurgia ortopedica standard così come negli interventi conservativi che fa lui,
si aggira intorno al 20%.]

Il professore torna quindi al discorso precedente mostrando delle immagini di quello che fa lui nelle terapie
riabilitative, in particolare nelle infiltrazioni.
Le infiltrazioni vengono fatte in ambiente sterile (aghi, ecografo, guanti, ecc).
In un’immagine ad esempio sta venendo iniettato del PRP (plasma arricchito di piastrine). Per ottenere il PRP,
vengono fatti dei prelievi, il sangue viene centrifugato con produzione di una stratificazione nella provetta
(siero, e componente cellulari), attraverso un sistema a circuito chiuso viene aspirata la parte di plasma e
piastrine che viene mescolata a calcio gluconato (attivante le piastrine) e quindi iniettato all’interno
dell’articolazione artrosica o a livello di un tendine.
A questi trattamenti si associa poi un percorso di potenziamento eccentrico del distretto interessato, con
esercizi di mobilizzazione.

Tra le ultime novità stanno prendendo piede le cellule staminali mesenchimali ottenute dalla liposuzione
addominale (il grasso è ricco di cellule staminali). Con una siringa in via eco-guidata vengono iniettate le
cellule all’interno dell’articolazione o di strutture tendinee.
Bisogna essere il più sicuri possibile di iniettare la sostanza nel punto giusto, ecco perché è necessario avere
ecografi ad alta definizione (dal costo di 120 mila euro, contro i 30-40 di uno normale).

Infine, nella palestra di fisiatria ci sono i vari attrezzi: tapirulan, step, la kinesis, l’ellittica, ecc.
Le ultime acquisizioni scientifiche in termini riabilitativi ci dicono che in un paziente con un problema al
ginocchio per esempio, non è sufficiente un lavoro unicamente a quel livello, ma una volta eliminato il dolore,
bisogna lavorare su tutto il corpo del paziente.
Producendo un buon allenamento di tipo cardiovascolare, c’è un miglior apporto di ossigeno ai tessuti
periferici che quindi guariscono meglio e in tempi più brevi.
Questo è un principio molto seguito oggi in riabilitazione.
[Il professore nel corso parlerà anche delle lesioni muscolari, a questo proposito, ci informa che ha contribuito
a scrivere il libro del professor Mafulli, con cui il professore Frizziero ha anche fondato la società italiana di
muscoli legmenti e tendini che ha prodotto le prime linee guida italiane sulle lesioni muscolari, sia in termini
classificativi che di trattamento.

Inoltre, per chi fosse interessato all’ambito della fisiatria, ortopedia o medicina dello sport, il professore ci
offre di andare gratuitamente al congresso nazionale della sua società (che si terrà a Verona il 29-30
novembre) e dove si parlerà di tutto ciò che è innovativo per quello che riguarda le patologie di muscoli,
tendini e legamenti. Ci saranno il medico della nazionale di calcio e altre figure di spicco in questo ambito.
Il prof chiede di ricevere un elenco degli interessati, ai quali farà ottenere il pass e l’attestato.]

LA BUONA MEDICINA

La buona medicina non si basa soltanto su delle buone e doverose conoscenze, seppur, senza conoscere la
materia, saremmo medici poco bravi.
Secondo il professore il senso finale del fare il medico, è dover tutti i giorni curare la gente.
Curare la gente vuol dire cambiare la storia naturale della vita di una persona, dal punto di vista fisico e
psicologico. Quindi l’intervento del medico è a 360 gradi.
Il medico con la sua immagine, il suo comportamento, con la propria aura deve dare certezze, tranquillità e
competenze al paziente; bisogna dargli tutto il necessario non solo in termine di cura ma anche per metterlo
nelle migliori condizioni psicologiche affinché la cura vada a buon fine.

Il professore descrive l'atteggiamento sbagliato che un medico non dovrebbe avere quando visita un
paziente: un medico sciatto, che non guarda negli occhi il paziente, che non ha un atteggiamento
convincente, che prende solo in mano le carte delle visite e degli esami effettuati dal paziente senza lasciarlo
parlare e senza approfondire l'analisi ponendogli ulteriori domande per capire meglio la situazione. Ad
esempio, nel caso di un paziente con un problema a un ginocchio che arriva alla visita ambulatoriale con una
risonanza già fatta, il medico, per perdere meno tempo, potrebbe solo leggere il referto della risonanza,
senza visitarlo nemmeno, poi prescrivergli qualche farmaco e qualche trattamento senza approfondire
l'analisi sul paziente, senza chiedergli nulla; questo non vuol dire però essere un bravo medico. Poi magari
può capitare che anche il medico che si impegna molto ad analizzare il problema del paziente, visitandolo e
facendogli molte domande, non ottenga comunque il risultato sperato; in questo modo, pero', il medico ha
svolto bene il suo dovere.
Il medico deve cercare di ascoltare il paziente. E' importante, inoltre, dedicare un tempo appropriato per la
visita di ciascun paziente, senza avere la fretta di finire al piu' presto; se questo viene fatto, si potranno avere
grandi soddisfazioni professionali.

Quindi le componenti che entrano in gioco nel lavoro del medico sono:
 La conoscenza (40%), e' fondamentale per essere un bravo medico.
 La gestione dei rapporti umani (30%), ovvero capire psicologicamente il paziente che si ha davanti.
 Le capacità gestionali (30%), ovvero la capacita' di gestire il percorso di trattamento del paziente
attraverso l'organizzazione (sulla base dei dati di letteratura, delle conoscenze acquisite, delle linee
guida e dell'esperienza personale), di una serie di strumenti terapeutici (come dispositivi o farmaci)
che permettono la cura del paziente. Quindi i pazienti vengono in ambulatorio, fanno la visita e si
arriva alla terapia: a questo punto si deve organizzare il programma terapeutico al paziente (es. quante
compresse di farmaco prendere e con che frequenza o che esami effettuare); e' importante inoltre dare
indicazioni al paziente su quali attività può o non può svolgere durante questa terapia.
Poi bisogna controllare il percorso di cura ed eseguire il follow-up: è importante che un medico segua
il paziente dall'inizio alla fine della cura. Questo e' più semplice da realizzare se il paziente viene
ricoverato in ospedale, più difficile se invece è un paziente ambulatoriale che magari alla successiva
visita di controllo sarà visitato da un altro medico che non lo conosce clinicamente e che quindi deve
ricominciare da capo l'analisi del problema in quanto non conosce la storia del paziente (questo
secondo il professore è un impaccio organizzativo che avviene nelle visite ambulatoriali
convenzionate in ospedale). È importante dare continuità ai percorsi terapeutici.

Ora il professore ripete velocemente una serie di concetti discussi nel corso di questa lezione.
La fisiatria è una disciplina che considera l'organismo nella sua interezza , che rifiuta il paziente come un
qualcuno che ha solo un problema d'organo ma considera la complessità della persona soprattutto in una
condizione di fragilità (la quale è strettamente connessa al concetto di malattia).
Altro aspetto importante è quello di fragilità di una certa persona nella società: una persona può essere
considerata fragile in un contesto sociale che la fa sembrare tale. Tutti potremmo teoricamente apparire più
o meno fragili, dipende da come veniamo guardati. Che cosa è normale? Quando noi facciamo i medici, non
possiamo pensare alla normalità assoluta; puo' essere normale qualcosa per qualcuno, per altri no.
In generale, quando noi parliamo di disabilità ovvero dell'incapacità di svolgere una determinata funzione (si
ricorda che il fisiatra è il medico della funzione) sotto un certo punto di vista è facile iniziare a pensare che
esistano delle categorie di persone (handicappato e non handicappato). Filosoficamente la fisiatria fa
superare alla comunità scientifica questi aspetti, oltrepassando le barriere psicologiche che spesso si
pongono.
Lo scopo della riabilitazione è di operare sulla persona a 360 gradi.

Fino a molti anni fa, l'OMS classificava le cause di morte in modo epidemiologico (ad esempio, un certo
numero di persone in quella zona e in quel periodo sono molte di malaria, mentre in un'altra zona di TBC o
polmonite o lebbra o peste). Successivamente ha cominciato a classificare le cause di morte per patologie
d'organo. Poi le cause di morte sono state classificate in base alla disabilità del paziente.
Oggi esiste una classificazione dell'OMS secondo il criterio ICF (International Classification of Functioning),
cioè sulla base della funzione residua del paziente. Ad esempio, un paziente che ha subito un infarto e poi
attraverso il percorso di cura e riabilitazione torna a svolgere tutte le funzioni fisiche, pari a quelle che aveva
prima dell'evento, nell'ambito di questa classificazione il paziente non ha nessun deficit. In questa
classificazione gioca un ruolo fondamentale il momento del recupero funzionale.

In tutti gli ospedali ormai ci sono reparti di riabilitazione funzionale: questo perché ci si è resi conto che gli
obiettivi di cura che si raggiungono nel paziente sono molto superiori se al trattamento si associa anche una
riabilitazione funzionale del paziente. Ad esempio, in caso di trapianto di polmone o di cuore, si e' osservato
che i pazienti, se svolgono anche attività aerobica, possono assumere il 30% in meno del farmaco antirigetto,
rispetto a quelli che non la svolgono; analogamente, un diabetico se fa attività aerobica necessita di meno
insulina. Dunque l'attività funzionale di riabilitazione fisica di un paziente è fondamentale anche in relazione
all'assunzione farmacologica, quindi all'abbattimento dei costi di trattamento e dei costi medici di gestione
della terapia.
Quando alla terapia si associa anche un percorso di rieducazione fisica e funzionale del paziente, la
probabilita' di raggiungimento di un risultato favorevole di cura e la qualità di vita del paziente successiva
all'infortunio è molto maggiore rispetto a chi invece non viene riabilitato fisicamente e funzionalmente (ad
esempio, un paziente che sta a letto fermo e non si muove mai).

Sturdà Elisabetta 10-10-2019


Bresolin Nicola Ortopedia, lezione 04-05
De Rosa Ludovica Prof. Angelini
Bavaresco Alessandro

PATOLOGIE DEL GINOCCHIO

CENNI DI ANATOMIA

Il ginocchio è formato da tre strutture ossee: femore, tibia e rotula, e due strutture articolari: femoro-tibiale e
femoro-rotulea.

Quella presente non è un’articolazione congruente, infatti tibia e femore sono costituiti da due strutture
convesse tra di loro, pertanto è fondamentale la presenza dei menischi, i quali svolgono la funzione di
cuscinetto ammortizzatore tra le due strutture.

Sono presenti, inoltre, diverse strutture legamentose che permettono di completare la stabilità:
- Legamenti crociati, interni al ginocchio, stabilizzano l’articolazione in senso antero-posteriore
- Legamenti collaterali, mediale e laterale, che stabilizzano la porzione laterale e mediale del
ginocchio

L’orientamento dei due crociati è completamente indipendente uno dall’altro: quello anteriore si inserisce
nella parte antero-mediale della tibia e in postero-laterale sul condilo laterale del femore; questo consente la
stabilizzazione del ginocchio in flessione; quello posteriore permette lo stop del ginocchio in estensione.

La rotula è localizzata all’interno del contesto del tendine del muscolo quadricipite, si articola con la troclea
femorale ed è fissata lateralmente da due
legamenti: alare interno ed alare esterno, che
permettono di centrare la linea media sul piano
frontale; questo è importante perché esistono
alcune patologie legate all’articolazione femoro-
rotulea, in cui la rotula è disassata rispetto al
ginocchio e questo comporta una sintomatologia
specifica.
Da un punto di vista muscolare è presente il grosso gruppo degli estensori: il quadricipite, formato da retto
femorale, vasto laterale, vasto mediale e vasto intermedio, e il tensore della fascia lata; ed il gruppo degli
estensori: bicipite femorale, semimembranoso e semitendinoso (queste ultime due sono più profonde),
inferiormente poi il gastrocnemio che si inserisce sui condili femorali ed altre strutture minori, popliteo,
sartorio e gracile.

Semitendinoso, sartorio e gracile formano il


tendine della zampa d’oca (classica domanda
d’esame) e sono utili da conoscere poiché in alcune
metodiche chirurgiche vengono utilizzati come
tendini vicarianti al fossato anteriore ovvero si
mantengono fissati sulla tibia, si asporta la
porzione tendinea e vengono tunnelizzati
all’interno del ginocchio (parte poco chiara che
verrà ripresa più avanti)

Il ginocchio ha un asse, tra la diafisi femorale e la


diafisi tibiale, che varia durante l’accrescimento.
L’asse anatomico è di circa 7° e tutto ciò che
comporta un asse maggiore, ovvero un angolo che
si apre in maniera acuta a livello laterale, prende il nome di ginocchio VALGO (le cosiddette gambe a X). Il
fenomeno contrario prende il nome di ginocchio VARO.

Durante l’accrescimento ci sono delle fasi, del tutto fisiologiche, in cui il bambino passa da un atteggiamento
di valgismo del ginocchio, fino agli 8 anni d’età, per poi passare ad una fase di varismo fino all’allineamento
completo. Questo fa sì che il valgismo ed il varismo vadano analizzati bene e contestualizzati con l’età del
bambino.

Nell’adulto, invece, quest’atteggiamento sottende sempre una patologia.

MOVIMENTI DEL GINOCCHIO

Il ginocchio ha un’estensione di 0°, legata alle strutture di stabilizzazione del crociato posteriore che
impedisce, appunto, l’estensione.
Ci sono ragazze che hanno un’aumentata estensione, è il caso del ginocchio recurvato, legato ad una lassità
legamentosa che può esser presente anche, ad esempio, in un pz affetto da Marfan.

La flessione varia da 120° a 140°, a seconda che l’anca sia estesa o flessa.

Il ginocchio possiede anche una sua rotazione: 20-30° di rotazione interna e 40-50° di rotazione esterna.

OSTEOCONDRITE DEI CONDILI FEMORALI


È una patologia tipica dell’età evolutiva ed interessa sia una parte di porzione ossea sia una parte di porzione
cartilaginea, compare attorno agli 8-10 anni, ed ha un’eziologia
ischemica. È generalmente successiva ad un trauma. Sono
presenti 3 stadi.

 1 stadio: alterazione che compromette la


vascolarizzazione di una porzione del condilo
femorale: si ha necrosi ossea ma la cartilagine è
ancora integra. Questo si spiega perché la
vascolarizzazione costituisce il nutrimento delle
strutture mentre la cartilagine COSA DICI MINUTO
9:53, pertanto una patologia traumatica (come un
salto a ginocchio flesso) può determinare un arresto
della vascolarizzazione di una porzione dell’osso
subcondrale mentre la cartilagine al di sopra rimane integra.

 2 stadio: il frammento necrotico si separa dall’osso ma rimane in sede

 3 stadio: il frammento si stacca completamente dal


condilo e migra nell’articolazione.

Dalle immagini si osserva come nel condilo manchi una “mattonella”, costituita sia dalla parte cartilaginea sia
da quella ossea, e questo si associa sempre alla presenza di un corpo mobile intra- articolare: il frammento,
una volta distaccato, diventa come un sasso che gira all’interno dell’articolazione e viene levigato dal liquido
sinoviale.
LOCALIZZAZIONE

Questa patologia si localizza teoricamente in ogni sede del


condilo, nella pratica le zone 1, 2, 3 (in foto) sono quelle più
frequenti: ciò avviene perché durante l’appoggio, un salto o una
qualsiasi attività, il carico sul condilo femorale interno è maggiore
rispetto alle altre sedi.

SINTOMATOLOGIA

Il dolore è il primo sintomo: è di tipo ischemico ma molto spesso è misconosciuto. Associato, talvolta,
all’idrartro: presenza di versamento all’interno dell’articolazione; l’idrartro è molto spesso una conseguenza
di un processo infiammatorio che interessa il ginocchio, inteso come un meccanismo di difesa che si osserva
in diverse patologie in questa sede.
Può, inoltre, esser presente un’instabilità correlata alla mobilità del frammento o a un interessamento,
insieme al frammento, di parte delle strutture coinvolte nella stabilità.
Ci può essere, infine, un blocco articolare di tipo meccanico legato al fatto che, se ci si trova allo stadio 3, il
frammento ormai staccato e posizionato all’interno dell’articolazione del ginocchio, fa da “zeppa” al
movimento.

IMAGING

La radiografia è sempre la prima modalità di valutazione tuttavia è difficile, di solito, individuare questa
patologia all’rx se non in fase avanzata.
La risonanza costituisce il gold standard: permette di riconoscere molto bene tutte le strutture del ginocchio e
la presenza della lesione.

TRATTAMENTO

La suddivisione in stadi è fondamentale per il trattamento.


Nello stadio 1 e 2 è sufficiente limitare i movimenti ed evitare
il carico.
Nello stadio 3 il trattamento è specifico e correlato alla dimensione o alle caratteristiche del frammento:
- In presenza di un frammento non reinseribile (o perché troppo piccolo o perché non ha più una
forma idonea), si effettuano delle perforazioni: si buca in corrispondenza della lesione
osteocondrale, per far sì che il sangue giunga nella regione ischemica; la guarigione avviene per
seconda intenzione.
- Riposizionamento del frammento in artroscopia: è preceduto da perforazioni che permettono al
sangue di giungere in sede e poi si posiziona il frammento con delle viti riassorbibili.
In foto a destra si osserva un pz a 18 anni di distanza, trattato per osteocondrite: non si vede più
nulla del difetto originario questo perché i processi riparativi, in presenza di una struttura
cartilaginea intatta, permettono di preservare l’anatomia.
- Innesto osseo o osteocartilagineo autoplastico. Questo intervento prende il nome di
mosaicoplastica: si prelevano da una zona non di carico (di solito parte laterale della troclea)
una serie di cilindri osteocartilaginei che vengono posizionati in corrispondenza del difetto in
modo tale da colmarne la maggior parte. La guarigione avverrà tramite i normali processi
cicatriziali.

- Trapianto di cartilagine in sede del difetto: è una modalità moderna e prevede il prelievo di
cordoncini del pz che vengono espansi in laboratorio; una volta raggiunto un pool significativo
di cordoncini, vengono rimpiantati all’interno del difetto, si copre quest’ultimo con un lembo di
tessuto biologico, si sutura per mantenere i cordoncini in sede e si lascia guarire in assenza di
carichi. Il trapianto di cartilagine è un trattamento attuabile solo in caso di difetti specifici come
appunto il distacco di un frammento osteocondrale, non si effettua ad esempio in caso di
degenerazione cartilaginea diffusa del ginocchio.

MALATTIA DI OSGOOD-SCHLATTER

Patologia benigna, si tratta di un’osteocondrite del nucleo apofisario in corrispondenza della tuberosità
tibiale. Interessa soggetti in accrescimento, solitamente maschi atleti tra gli 8 e i 15 anni, che svolgono attività
sportiva caratterizzata da un grosso trofismo quadricipitale.

CLINICA E TRATTAMENTO

Da un punto di vista clinico si manifesta con un dolore


specifico in corrispondenza della tuberosità tibiale,
aumenta sotto sforzo, durante l’attività fisica, ed è
legato ad una trazione del quadricipite in
corrispondenza della tuberosità. Tale trazione può
essere talmente forte che il nucleo di accrescimento
apofisario può migrare verso la parte prossimale.
A volte si determinano delle vere e proprie fratture da
trazione; i muscoli ed i tendini sono talmente forti da
non subire danni dal punto di vista strutturale mentre
a subirlo è l’osso su cui sono inseriti.
Essendo una patologia che guarisce spontaneamente
occorre solo lasciare che sia raggiunta la maturità
scheletrica affinché il nucleo vada in fusione regolarmente; in fase acuta è indicata la sospensione o
limitazione dell’attività fisica. Nel caso di atleti agonisti, è facile vedere l’utilizzo di fasce in corrispondenza
della tuberosità tibiale, che altro non sono che tutori che rinforzano il nucleo apofisario, limitano la trazione
del quadricipite, non curano la patologia ma consentono lo svolgimento dell’attività.

SINDROME FEMORO-ROTULEA

EPIDEMIOLOGIA ED EZIOLOGIA

Patologia correlata ad un malallineamento della rotula


durante un movimento. La rotula tende a mantenersi in
una posizione più laterale rispetto alla troclea e come si
osserva dalla RMN in basso, è presente un’iperpressione
rotulea sul condilo femorale esterno. È molto frequente
nelle ragazze e può essere dovuta a diversi fattori:
- Malallineamenti anatomici, ad esempio nel
ginocchio valgo quando si flette o estende il
ginocchio, la rotula va in attrito sul condilo.
- Ipoplasia del vasto mediale che è meno trofico
rispetto al laterale e quest’ultimo tende a
trazionare la rotula sull’esterno; questa situazione può talvolta essere fisiologica: ad esempio un
ragazzo atleta di 15 anni, non seguito da un preparatore atletico può potenziare un muscolo
piuttosto che un altro e pertanto creare problematiche di iperpressione rotulea.
- Lateralizzazione tuberosità tibiale, può essere ad esempio un esito di Osgood-schlatter.
- Rotula fisiologicamente posizionata più in alto rispetto alla norma e quindi va in conflitto con il
condilo.
- Ipoplasia della rotula per cui tende ad uscire al di fuori della troclea.

SINTOMATOLOGIA

Tipicamente il pz avverte lo “scroscio”, quando si flette o estende il ginocchio si percepisce la rotula che
“gratta” sulla superficie del femore. Questo scroscio articolare, chiamato segno della raspa, è percepito
anche dal medico durante la visita quando pone la mano sul ginocchio. Il dolore, quando presente, è tipico
durante il carico ed in flesso-estensione, quindi banalmente salire o scendere le scale; si avverte sulla
porzione laterale della rotula e si può irradiare verso il quadricipite. Può esser presente l’idrartro, legato al
processo infiammatorio in acuto.

IMAGING

Con l’RX si valuta l’asse della rotula rispetto al ginocchio


tramite specifiche proiezioni che permettono di
visualizzare correttamente la lesione e si effettua a
diversi gradi di flessione;
la valutazione più accurata, però, si fa con una TC
specifica che correla tutti i vari aspetti che possono
definire una patologia di questo tipo: a diversi livelli si
valutano un’eventuale displasia della troclea, in foto a sx si osserva una troclea non rettilineizzata che
favorisce il conflitto, oppure un’alterazione del profilo della rotula che risulta fuori asse, in foto a dx è
addirittura lussata rispetto alla sua posizione naturale.

Questa patologia, in alcuni casi, si può manifestare dopo un trauma.

TRATTAMENTO

È sostanzialmente fisioterapico; correlato al rinforzo delle strutture muscolari mediali ed al trazionare la


rotula medialmente; in caso di fallimento di questo trattamento, si può procedere con la chirurgia.
Il trattamento chirurgico varia a seconda di ciò che si deve correggere: in caso di ipertonicità della
componente laterale si effettua un lateral release ovvero un taglio parziale del legamento alare esterno e
pertanto in maniera indiretta si cede la rotula alla troclea; in caso di tuberosità tibiale che è lateralizzata, si
seziona la tuberosità e si sposta qualche mm più medialmente; in caso di displasia completa della troclea,
un’assenza quindi della concavità anatomica, la si crea chirurgicamente: è un intervento complesso che si
riserva solo ad atleti professionisti che hanno frequente lussazione o sub-lussazione della rotula.

TRAUMI DISTORSIVI

I traumi distorsivi sono le patologie più frequenti del ginocchio. La distorsione è la perdita temporanea dei
rapporti articolari, mentre una perdita completa di questi ultimi viene chiamata lussazione. La distorsione
inoltre si associa a una lesione dei legamenti, importanti per la stabilità dell’articolazione.
Nella distorsione del ginocchio si identificano due meccanismi traumatici:
- TRAUMA IN VALGO E ROTAZIONE ESTERNA è il caso più comune, nell’immagine a lato si vede un
piede atteggiato in extrarotazione e un trauma diretto sulla superficie laterale del ginocchio.
Vengono mostrati dei video esplicativi del meccanismo traumatico . Il prof fa notare il piede fisso a
terrra in extrarotazione e un trauma diretto sulla parte laterale del ginocchio, entrambi gli eventi
devono essere concomitanti. Dalla sbobina dell’anno scorso: “Il più frequente è il trauma che avviene
in valgorotazione esterna. Un impatto importante sulla faccia esterna del ginocchio con piede fisso al
suolo, causa una valgizzazione del ginocchio con rotazione della tibia in fuori”.
Questo tipo di trauma dà una rottura più o meno importante delle strutture intrarticolari: tanti più
legamenti vengono daneggiati tanto più grave è la distorsione. In ordine da una trauma meno
importante a uno più importante:
1. lesione del legamente collaterale mediale
2. lesione del legamento collaterale mediale + menisco mediale
3. legamento collaterale mediale + menisco mediale + legamento crociato anteriore
4. legamento collaterale mediale + menisco + legamento crociato anteriore + legamento
crociato posteriore.
Dalla sbobina dell’anno scorso: “Legamento collaterale mediale, menisco mediale e legamento
crociato anteriore venivano definiti come la “triade maledetta” in quanto rappresentano il
quadro più tipico di un trauma ad alta energia. Nel caso di rottura di tutti e quattro i legamenti
sopracitati l’instabilità del ginocchio è subtotale”

- IN VARO E ROTAZIONE INTERNA vengono mostrati altri video di questi tipi di lesione.
Si nota un’intrarotazione della gamba con un trauma diretto verso la superficie mediale
del ginocchio. Dalla sbobina dell’anno scorso: “Il trauma avviene in seguito ad un
impatto sulla faccia mediale del ginocchio con piede fisso al suolo e rotazione interna
della tibia”. Questo meccanismo di trauma comporta una rottura del compartimento
esterno, in ordine di gravità:
1. legamento collaterale esterno
2. legamento collaterale esterno + legamento crociato anteriore
3. legamento collaterale esterno + legamento crociato anteriore + legamento
crociato posteriore.
Il menisco laterale va incontro difficilmente a lesione perché ha anatomicamente una motilità
maggiore rispetto al menisco mediale.

Clinicamente il paziente con distorsione del ginocchio può manifestare:


- dolore
- emartro versamento ematico nell’articolazione, dovuto alla rottura legamentosa.
- limitazione funzionale
In un ginocchio molto gonfio e teso si può vedere il segno del ballottamento
rotuleo: appoggiando le dita sopra la rotula si percepisce che questa
galleggia. Questo sottolinea la presenza di un importante versamento liquido
sottostante, segno di una distorsione di notevole entità. Dalla sbobina
dell’anno scorso: “con una mano si spinge la base della rotula e con l’altra la
faccia della stessa per apprezzare un eventuale versamento ematico o di
liquido sinoviale (sensazione simile a quando si mette una tavoletta di legno in acqua e spingendola questa
torna su)”.

La prima cosa da fare nella valutazione in pronto soccorso di questo tipo di paziente è testare il grado di
instabilità del ginocchio, attraverso dei test specifici che vanno a mimare l’evento traumatico.
LESIONI LEGAMENTOSE

Il professore non spiega le lesioni dei legamenti collaterali,


riporto la slide a fianco e parte della sbobina dello scorso anno:
 Lesione del legamento collaterale mediale: si pone il palmo
della mano sulla faccia esterna del ginocchio e, afferrando la
caviglia, si valgizza il ginocchio. Nel caso di instabilità, la
tendenza alla valgizzazione è maggiore; è però importante
testare il controlaterale e fare il paragone perché potrebbe
esserci una lassità costituzionale
 Lesione del legamento collaterale laterale:“si mette la mano
sulla faccia mediale del ginocchio e si varizza”

 Lesione del legamento crociato anteriore : la lesione viene valutata con il test del cassetto: abbracciando
la tibia si va a vedere se c’è un movimento di traslazione di quest’ultima rispetto al femore. Un’altra
manovra è il segno di Lachman, è simile al test del cassetto soltanto che viene eseguito a 15° di flessione.
Questo perché un buon tono quadricipitale può sopperire alla funzione del crociato anteriore, mentre a
15 ° di flessione viene annullata la funzione del muscolo. Dalla sbobina dello scorso anno: “Segno del
cassetto anteriore per testare il crociato anteriore: con il paziente supino si flette di 90 gradi il ginocchio,
lo si afferra con due mani e si tira in avanti verso l’operatore. In caso di danno del crociato anteriore il
piatto tibiale scorre un po' in avanti (simile all’apertura di un cassetto).

Trattamento
In acuto viene eseguita un’artrocentesi (in caso di grande versamento articolare), viene immobilizzata
l’articolazione con un tutore o ginocchiera in estensione a scopo antalgico, viene prescritto l’utilizzo delle
stampelle per evitare il carico e si aspetta che la sintomatologia si concludi, di solito in 10-15 giorni.
Dopo questa fase, si va a rianalizzare la situazione clinica a “ginocchio spento”: vengono rifatti i test per
vedere cosa rimane della stabilità e viene eseguita una risonanza a 20-30 giorni dal trauma. In acuto si
avrebbero troppe immagini confondenti il quadro senza una chiara idea delle strutture anatomiche
lesionate. In cronico inoltre il ginocchio bloccato in estensione lascia il tempo ai legamenti collaterali di
guarire per cicatrizzazione diretta (non è mai quasi necessario intervenire chirurgicamente sui collaterali).
Tutto questo è importante per valutare se è necessario la ricostruzione chirurgica del crociato: non è
obbligatorio intervenire chirurgicamente, dipende dallo stile di vita richiesto dal paziente. Un paziente di
40 anni che si è rotto il crociato giocando a calcetto e non ha intenzione di fare attività sportiva regolare
(esempio tennis, sci o calcio) può vivere una vita normale senza la ricostruzione del legamento, purchè
mantenga un buon tono quadricipitale. Invece un secondo paziente della stessa età che sostiene di non
poter rinunciare a sciare tutti gli inverni, allora in questo caso va incontro a intervento.
La ricostruzione chirurgica prevede diverse modalità:
- Usufruire di parte del tendine rotuleo viene prelevato a metà della spicola del tendine e viene
tunnellizzato all’interno del ginocchio.
- Il gold standard è utilizzare due dei tre tendini della zampa d’oca: gracile o semitendinoso lasciati
inseriti sulla tibia, vengono tunnellizzati all’interno del ginocchio.
Essendo tendini però hanno delle caratteristiche di elasticità diverse rispetto al legamento crociato
anteriore.
- Legamenti da cadaveri
- Legamenti sintetici.
Questi ultime due opzioni vengono considerate in caso di una nuova rottura del legamento
ricostruito.

 Lesione del legamento crociato posteriore : la lesione


solitaria è molto rara, avviene in caso di distorsione di
grande entità. È un tipico danno da trauma diretto della
tibia. Oltre alla rottura del legamento crociato posteriore, si
può avere una lussazione posteriore del ginocchio verso il
cavo popliteo che può comportare a sua volta una lesione
delle strutture vascolari (arteria e vena poplitea) e nervose.
Anche in questa situazione si può avere fare il test del
cassetto posteriore e il segno di Lachmann: Dalla sbobina
dello scorso anno: “Segno del cassetto posteriore per il
crociato posteriore: nella stessa posizione si spinge
posteriormente e in caso di rottura del legamento il piatto
tibiale scorre un po' indietro”.
Trattamento
In acuto si eseguono le stesse prescrizioni viste per il crociato anteriore. A distanza di tempo si rivaluta il
ginocchio in risonanza. Nell’immagine sottostante si vede un crociato posteriore in RM completamente
deteso e disinserito. Nella maggior parte dei casi le lesioni del crociato posteriore necessitano di un
intervento ricostruttivo, soprattutto per i gravi danni
da instabilità. Si interviene con le stesse modalità
viste per il crociato anteriore. Dalla sbobina
dell’anno scorso “il legamento rotuleo però in questo
caso non può essere usato”.

Domanda: “nel caso la lesione del crociato anteriore


sia solo parziale e non completa si fa comunque
l’intervento chirurgico?”
Risposta: “Essendo suddiviso in due fasci, il crociato anteriore facilmente va incontro a lesione parziale. Anche
in questo caso dipende sempre dalla richiesta funzionale del paziente. Esempio un atleta professionista con
una lesione parziale, il rischio che la rottura diventi totale è molto alta. In questo caso è utile fare l’intervento
anche perché si va a creare un ulteriore rinforzo con il legamento residuo che mantiene dal punto di vista
funzionale una propriocezione. Se invece il paziente non ha determinati stili di vita, si fa un rinforzo
quadricipitale importante e se possibile evitare attività che comportino grossi stress o cambi di direzione sul
ginocchio.”

LESIONI MENISCALI

Le lesioni meniscali hanno una clinica particolarmente specifica, soprattutto il menisco mediale. La rottura di
quest’ultimo presenta un dolore identificabile dal paziente e anche facilmente individuabile. Palpando
l’emirima mediale del ginocchio, si determina un dolore puntorio/fitta esattamente in corrispondenza della
lesione.
Si possono avere dei versamenti recidivanti del ginocchio (idrartro recidivante) anche in assenza di un trauma
noto oppure si possono osservare degli episodi di blocco articolare. Quest’ultima situazione è legata a lesioni
che creano un flap di menisco libero di muoversi all’interno dell’articolazione, magari solo parzialmente
inserito; quando questo flap si localizza in corrispondenza del condilo femorale, si va a determinare un blocco
sia dell’estensione sia della flessione del ginocchio.
Esistono delle manovre specifiche:
- Test meniscale (visto sopra)
- Test di Apley a paziente prono, si va a provocare una pressione sul piede in modo tale da mettere in
compressione il ginocchio e si determina una intrarotazione e una extrarotazione. Dal punto di vista
funzionale questa manovra mima la situazione in cui il paziente in stazione eretta con piede fermo ruota
il ginocchio. Il test sarà positivo se causa un dolore in corrispondenza del menisco mediale (o del menisco
laterale). Questo perché le due strutture ossee incarcerano il menisco e nel movimento rotatorio si
produce un dolore legato al fatto che viene messo in compressione la lesione meniscale.
Eseguendo lo stesso test ma con ginocchio in distrazione di solito non si determina nessun dolore.
Dalla sbobina dell’anno scorso: “Test meniscali:
 Segno di Oudard: pigiando sull’emirima articolare anteriormente avverte dolore per la rottura del menisco
interno. Questo segno veniva anche chiamato il “grido del menisco”.
 Test di Apley: con il paziente prono si flette il ginocchio a 90 gradi e si gira il piede verso l’esterno andando
a comprimere il menisco interno; girandolo verso l’interno si comprime invece l’esterno. La rottura del
menisco mediale, che è la più frequente, evoca dolore girando il piede verso l’esterno.

Ancora una volta fondamentale per vedere la lesione è la risonanza


magnetica. Nella prima immagine a sx si nota il corno anteriore del menisco
che è completamente normale, c’è solo un leggero segnale grigio
all’interno che mostra un menisco un pò invecchiato, in questo caso si parla
di meniscosi. Nel corno posteriore invece ho una lesione completa che va
da parte a parte.
La seconda immagine in proiezione assiale si osserva che tra la capsula e il
menisco è presente una linea di demarcazione (freccia): sta a significare la
presenza di una lesione.

Trattamento:
Come si vede nell’immagine a lato, il menisco nella sua parte esterna è vascolarizzato. Una lesione che va ad
interessare la zona rossa (ndr parte completamente vascolarizzata del
menisco, indicata con la lettera “a” nelle immagini a lato) non va trattata
chirurgicamente perché ha capacità riparativa spontanea. Se invece la rottura
è nella zona bianca-rossa (b) o bianca (c), l’intervento riparativo è sempre
necessario.
L’unico rischio nel non intervenire è di passare da una lesione misconosciuta a
un danno che continua a propagarsi, diventando un menisco a manico di
secchia. Quest’ultimo è una situazione complicata sia da riparare sia perché
determina un flap importante che si ribalta in articolazione andando a
bloccare l’intera motilità.
Il trattamento è sempre artroscopico e consiste nell’andare a rifilare il bordo del menisco fino a ricostituirlo in
maniera integra.
In alcuni casi vengono fatte delle suture meniscali solo nelle lesioni grandi in corrispondenza della zona rossa
per consentire una cicatrizzazione funzionale.

LUSSAZIONE DEL GINOCCHIO

La lussazione del ginocchio è rara, ma molto grave. Si ha una rottura di buona parte dell’apparato capsulo-
legamentosa, possibili danni neurologici e una possibile urgenza vascolare.
Il trattamento in urgenza prevede la stabilizzazione dell’articolazione, se è particolarmente instabile si va ad
applicare un fissatore esterno a ponte. Vengono messe due viti sul femore e due sulla tibia collegate da un
costrutto esterno che mantiene allineato il ginocchio.

LUSSAZIONE TRAUMATICA DELLA ROTULA

La lussazione traumatica della rotula è rara, di solito laterale e più frequente nei giovani atleti dai 14-17 anni.
Le condizioni predisponenti sono ginocchio valgo, instabilità legamentosa, prevalenza rotulea esterna e un
trauma diretto sulla rotula in posizione laterale.
Clinicamente si ha dolore, deformità articolare e limitazione funzionale (legato al fatto che la rotula è fuori
asse). L’imaging viene fatta con un Rx standard. Il trattamento prevede la riduzione della rotula (Riduzione
spingendo la rotula dall’esterno verso l’interno visto che la maggioranza sono lussazioni esterne), per poi
immobilizzare l’articolazione in estensione per 3-4 settimane: questo permette la cicatrizzazione dei
legamenti alari. Successivamente si fa una riabilitazione fisioterapica, andando a potenziare il vasto mediale e
gli adduttori. La chirurgia viene utilizzata solo in caso di lussazione recidivante, eseguendo un riallineamento
rotuleo.
Le complicanze possibili sono lussazioni abituali oppure un’artrosi femoro-rotulea precoce postraumatica
Nella prima immagine a sx si nota la cartilagine
sfilacciata, dopo essere andata incontro al
danno.
Nella seconda immagine in RM si osserva il
trauma della cartilagine dopo aver impattato
contro il condilo laterale.

ROTTURA DEL TENDINE DEL QUADRICIPITE

La rottura traumatica del tendine quadricipitale è dovuta a una contrazione violenta del ginocchio flesso. Si
ha una tenuta del tendine rotuleo, ma si strappa quello quadricipitale. È tipico di sportivi che fanno
sollevamento pesi e che usano anabolizzanti (che comprometteno la qualità dei tendini). Si verifica anche nel
momento in cui vengono eseguiti l’affondo o lo squat, determinando una forte contrazione in flessione e
rottura.
Un altro fattore di rischio sono gli antibiotici, soprattutto la levofloxacina che è tendinotossico.
Clinicamente si manifesta con dolore, emartro e impotenza funzionale, il paziente non è in grado di
estendere il ginocchio, che rimane flesso. Al Rx si nota una rotula cadente, bassa, mancando l’apparato
estensore. Il trattamento è sempre chirurgico: bisogna suturare il tendine.

ROTTURA DEL LEGAMENTO ROTULEO

Per quanto riguarda le rotture al di sotto della rotula, si ha la rottura del legamento rotuleo.

Eziologia
Può essere legata a:
 Una contrazione violenta a ginocchio flesso
 Una caduta da un salto. Non è raro vedere la rottura, soprattutto negli anziani, in seguito ad una
caduta in cui urtano direttamente il tendine (ad esempio la caduta dalle scale).

Clinica
È sostanzialmente la stessa:
 Dolore acuto
 Impotenza funzionale
 Da un punto di vista radiografico e clinico la rotula è completamente risalita perché ha perso il
suo ponte di collegamento con la tibia.

Trattamento:
È sempre chirurgico. Anche in questo caso si va ad armare il tendine al di sopra, lo si reinserisce sulla
tuberosità tibiale, si immobilizza in estensione per circa 30-40 giorni, e poi in maniera progressiva si
incomincia con la fisioterapia.

GONARTROSI

Epidemiologia:
 Legata sostanzialmente all’età , in particolare nei >60 anni.
 Inoltre è un po’ più frequente nel sesso femminile, se di natura primaria.

Eziologia:
Sono note diverse patologie che predispongono ad un’artrosi accelerata:
 Ginocchio varo
 Ginocchio valgo
 Spesso post traumatica (frattura piatto tibiale)
 Esito di malattie reumatiche (artrite reumatoide)
Questi non sono fattori legati all’artrosi in maniera specifica ma accelerano il processo di usura
dell’articolazione. Se si è in presenza di un ginocchio varo o di un ginocchio valgo in età adulta è normale che
il ginocchio si consumi in maniera inadeguata. Inoltre questi pazienti riferiranno che consumano
completamente le suole delle scarpe da una parte, che è già un indice di disallineamento posturale.
Per quanto riguarda i traumi pregressi, in questo caso si verifica un danno che può accelerare l’artrosi del
ginocchio, specialmente nel caso di un evento traumatico importante, come ad esempio la frattura del piatto
tibiale o qualunque frattura articolare, che determinerà un’aumentata usura/artrosi del ginocchio.

In alcuni casi è possibile definire un’artrosi limitata


ad uno dei compartimenti del ginocchio.
Nel caso di un paziente con ginocchio varo, che
peggiora se ci si posiziona in postura solo sullo
stesso ginocchio, si avrà un’artrosi completa di un
compartimento.
Nell’immagine sono visibili le caratteristiche
dell’artrosi viste la volta scorsa, quindi:
 Scomparsa della rima articolare,
 Sclerosi dell’osso subcondrale,
 Presenza di osteofiti e deformità dei capi
ossei.

In questi casi, quando è presente un asse del ginocchio alterato, si ha anche


un’alterazione delle strutture legamentose. Da una parte avrò una lassità del legamento,
lassità da usura (a fianco della freccia il legamento non è teso, è inefficace tant’è
che molto spesso in questi pazienti è necessario andare a fare un bilancio legamentoso
importante in sede di intervento chirurgico).

Esempio di un paziente che ha un lieve varismo, ma che si


accentua in posizione monopodalica. Questo indica una
problematica notevole dal punto di vista di instabilità
legamentosa.

Lo stesso fenomeno si verifica in un ginocchio valgo. A lato si vede una


signora che ha un valgismo di circa 8/9° sul ginocchio e si può notare
come ha consumato in maniera importante e severa tutto il
compartimento laterale.
Il problema è che questo tipo di patologia tende ad essere un
circolo vizioso, poiché tanto più si consuma, tanto più accelera il
processo di usura.
Trattamento:
 Primariamente si può effettuare terapia medica, sintomatologica.
 Si utilizzano quindi farmaci antidolorifici, antinfiammatori, o condroprotettori.
 Se questo non è sufficiente si può effettuare, in un ginocchio con una rima articolare
molto ridotta, un trattamento infiltrativo che permette di aumentare lo spazio
articolare. Darà sostanzialmente un beneficio sintomatologico di qualche anno, tuttavia
con questi trattamenti non si cura nulla. L’artrosi, una volta che si è definita in questo
quadro, non è reversibile. Il paziente deve sapere che il trattamento infiltrativo non
serve per curare l’artrosi, ma a ridurre o posticipare il più possibile la necessità di
andare a fare una sostituzione protesica.
 Fisioterapia
 Riduzione del peso.
Tutti questi trattamenti quindi hanno una azione solo sintomatica
 Il trattamento definitivo è chirurgico, si vanno cioè a sostituire le componenti articolari.
Si possono eseguire pulizie articolari in artroscopia, che hanno significato sintomatico.
Sono presenti inoltre interventi chirurgici profilattici, ad esempio l’osteotomia. L’osteotomia,
nel caso di un valgismo importante in un ragazzo di 20-25 anni, permette di correggere l’asse, e
questo permette di evitare una futura evoluzione in artrosi.

Esistono diversi tipi di osteotomia, come


quella col cuneo a livello del piatto tibiale-
femorale. Il concetto è quello di andare a
togliere il cuneo di osso, cercando di
compattare le due regioni, e in questo modo
ristabilire l’asse meccanico di un ginocchio
normale.

Nel caso del quadro a lato, invece, l’unica soluzione chirurgica


è quella protesica. È presente un quadro intraarticolare di
erosione completa delle strutture cartilaginee, si può vedere la
rotula che è appiattita, molto molto più larga del normale e in
questo caso bisognerà andare a scegliere il corretto tipo di
protesi.
Ne esistono di tantissimi tipi diversi, e si può andare
anche a sostituire un solo compartimento, con una
protesi monocompartimentale.
Un esempio può essere una protesi a scivolamento, in
cui si va a rivestire il femore, la superficie tibiale, e si
inserisce un polietilene che fa da vincolo a
scivolamento. Questa è una protesi di rivestimento bi
o tricompartimentale (nel caso si vada a rivestire
anche la superficie della rotula).
Le prime sono invece protesi che hanno un vincolo
meccanico; ne esistono di diverso tipo, forme,
dimensioni. Si dividono in protesi vincolate o semivincolate e sono da utilizzare nel caso di un’assenza delle
strutture legamentose di stabilità del ginocchio.
Quindi nel caso della protesi a scivolamento convenzionale si fa affidamento sulle legamentose del ginocchio,
quando queste invece non sono valide bisogna vincolare l’impianto con delle protesi di questo tipo.

PATOLOGIE DELLA SPALLA

Rispetto alle altre articolazioni dell’organismo, la spalla è quella col più ampio range di movimento: ha un
movimento quasi di circonduzione, potendo effettuare movimenti
di abduzione, adduzione, intrarotazione, extrarotazione, flessione
ed estensione.

Quello che consente la grande motilità della spalla è la presenza di


3 articolazioni che lavorano in contemporanea:
1) Scapolo-omerale (la più importante)
2) Acromion-claveare
3) Sterno-clavicolare

In realtà esiste anche una quarta “articolazione”: quella tra spalla e


parete toracica.

ARTICOLAZIONE SCAPOLO-OMERALE

È costituita da due superfici ossee poco congruenti, ovvero la testa dell’omero e la superficie glenoidea. La
testa dell’omero è sferica e si articola con solo 1/3 della sua superficie con la glena, che è piccola e poco
profonda. Il resto dell’articolazione è costituito da tessuti molli: il cercine (anello fibrocartilagineo che
estende la superficie articolare) e una serie di tendini e muscoli, che vanno a costituire la cosiddetta cuffia
dei rotatori.
Questi provengono dalla faccia anteriore e posteriore della scapola, e vanno a formare un manicotto che
avvolge completamente la testa dell’omero, andando a centrarla sulla superficie glenoidea. Quindi una
lesione del complesso della cuffia dei rotatori fa sì che la testa dell’omero non sia più centrata sulla glena.
I tendini vanno conosciuti ai fini dell’esame e sono quelli dei muscoli:
- Sottoscapolare: è l’unico a determinare intrarotazione
- Infraspinoso: extrarotazione e abduzione
- Sovraspinoso: extrarotazione
- Piccolo rotondo: extrarotazione

Dal punto di vista della diagnostica strumentale, abbiamo a disposizione:


- Rx convenzionale: dà informazioni sulla componente ossea
- Ecografia: è importantissima, perché dà informazioni sui tessuti molli (che nella dinamica
dell’articolazione scapolo-omerale sono molto più importanti della componente ossea)
- RM: anch’essa permette di valutare i tessuti molli
- Esistono anche metodiche di imaging più specifiche, come l’artroRM: si inietta un mdc
nell’articolazione per evidenziare ad esempio un distacco del cercine; nell’immagine si vede
come il mdc si insinui tra la superficie glenoidea e il cercine che si è distaccato:

LUSSAZIONE SCAPOLO-OMERALE

La lussazione è una perdita completa dei rapporti articolari tra scapola e omero.
È abbastanza frequente: l’articolazione scapolo-omerale è una delle sedi che più spesso va incontro a
lussazione.

Eziologia:
Di solito è post-traumatica e avviene in seguito a trauma indiretto della spalla: tipicamente è causata da una
caduta con braccio extra-ruotato e abdotto, con fuoriuscita della testa dell’omero in sede anteriore.

Clinica:
- Dolore molto importante
- Impotenza funzionale completa
- Braccio bloccato in posizione addotta e intraruotata (posizione antalgica, cioè per ridurre il
dolore)
La complicazione più grave è la complessione del plesso brachiale da parte della testa dell’omero, con
comparsa di danni neurologici.

Esiste anche una forma inveterata di lussazione: il paziente ha una lussazione di spalla che resta
misconosciuta (soprattutto se posteriore), per cui nel tempo la cavità si riempie di tessuto cicatriziale
rendendo impossibile la riduzione dell’omero nella sua posizione originale.
Può sembrare strano che una lussazione della spalla resti non diagnosticata, ma in realtà non è così
infrequente, in quanto non necessariamente fa seguito a un trauma eclatante: ad esempio può capitare che
un paziente di 85 anni, magari con decadimento cognitivo senile e con lassità dei tessuti legata all’età
avanzata, si lussi la spalla mentre cerca di prendere un oggetto dal comodino; questo paziente chiaramente
non è in grado di comunicare che si è lussato la spalla, per cui è compito del medico accorgersene
tempestivamente, altrimenti si sviluppa una lussazione inveterata. In questi casi è difficile pensare di poter
fare una riduzione, per cui la lussazione diventa un’indicazione all’intervento protesico.

La lussazione abituale invece è quella che si ha quando il paziente è in grado di lussare e ridurre
volontariamente la spalla, perché ha una lassità legamentosa importante.
Diverso è il concetto di lussazione recidivante, in cui si ha un primo episodio di lussazione seguito da
successivi episodi per traumi di entità sempre minore.

Classificazione in base alla posizione dell’omero rispetto alla glena:


 Sottocoracoidea: omero in posizione anteriore e inferiore rispetto alla glena; è la più frequente
 Posteriore: omero in posizione posteriore rispetto alla glena
 Ascellare: omero in posizione inferiore rispetto alla glena
 Eretta: lussazione inversa, tipica del tuffatore che si tuffa dove l’acqua è bassa e va a sbattere contro
il fondo
Il professore mostra il video di un atleta olimpico che si lussa la spalla nel corso del sollevamento di pesi,
quindi nel corso di un movimento di extrarotazione e abduzione del braccio. Simile è ciò che accade nei
giocatori di rugby durante il placcaggio, ma anche nei pallavolisti quando fanno una schiacciata.

Lesioni associate:
 Lesione di Bankart: lesione della porzione antero-inferiore del cercine glenoideo legata al fatto che
l’omero, quando fuoriesce a livello anteriore, strappa o lacera il cercine
 Lesione di Hill-Sachs: lesione ossea legata al fatto che l’omero, quando fuoriesce, impatta con la
superficie posteriore contro la glena determinando una vera e propria ammaccatura (lesione da
impatto)
Queste due lesioni sono importanti perché si associano a recidiva di lussazione per traumi più lievi.

Esame obiettivo:
Ci sono dei test specifici che permettono di indagare la presenza di instabilità della spalla e quindi stimare il
rischio che si lussi in futuro.
- Apprehension test: si mette il pz in posizione supina, lasciando la spalla al di fuori del tavolino, e
pian piano si va ad extra-ruotare l’arto; normalmente si riesce ad arrivare quasi al livello del
tavolino o qualche grado al di sotto, invece il pz con instabilità di spalla, quando arriva quasi a 90°
gradi, avverte l’omero che tende a uscire e quindi tende a contrarre la muscolatura (risposta definita
di apprensione).
- Relocation test: la manovra è analoga a quella dell’apprehension test, ma si mantiene l’omero
centrato sulla glena; se in tale posizione diminuisce l’apprensione del pz e si ha la possibilità di una
maggiore extra-rotazione, il test è considerato positivo.
- Test del cassetto e test del solco: test molto semplici in cui si traziona l’omero verso il basso e si
vede la comparsa di un solco cutaneo.
Diagnosi strumentale:
 Rx: all’Rx la lussazione è molto ben evidente; l’esame radiologico serve essenzialmente a:
1) Verificare la posizione dell’omero rispetto alla glena
2) Escludere fratture
 RM: viene fatta dopo l’Rx e serve ad identificare eventuali lesioni di Hill-Sachs o di Bankart

Trattamento:
1) Il primo obiettivo è ricostituire i normali rapporti articolari, quindi eseguire una riduzione.
Esistono tantissime metodiche, ma concettualmente tutte fanno riferimento a una trazione dell’arto,
con un fulcro per mantenere ferma la scapola, e un movimento di intrarotazione per riportare
l’omero in posizione corretta.
Ad esempio sui campi di rugby in urgenza di fa la manovra di Ippocrate.
In PS invece si fa una manovra un po’ meno aggressiva, ovvero la tecnica di Kocher: trazione,
extrarotazione e adduzione dell’arto. Di solito c’è un infermiere che tiene la scapola ferma mentre si
fa la manovra.
La difficoltà della riduzione è legata al tempo che trascorre tra il trauma e la manovra: sul campo da
rugby è molto facile ridurre una spalla lussata, perché il paziente non ha ancora messo in atto
meccanismi per ridurre il dolore (cioè tenere l’arto addotto e intra-ruotato). Invece quando il
paziente arriva in PS, 2-3 ore dopo il trauma, la muscolatura è ormai contratta per tenere bloccata la
situazione (soprattutto la muscolatura del grande pettorale): quindi in PS il problema maggiore è far
rilassare la muscolatura articolare, cosa che in alcuni casi richiede la sedazione del paziente e
l’esecuzione di una riduzione in anestesia.
2) Dopo aver ridotto la spalla, si procede alla sua immobilizzazione per 30 giorni; in particolare, la
spalla viene immobilizzata in posizione leggermente abdotta e intraruotata, e viene confezionato un
desault oppure si usano dei tutori. Questo serve a far cicatrizzare la capsula articolare che si è
lesionata e l’eventuale via di fuga che si è creata.
3) Successivamente si fa la riabilitazione.

Si ricorre alla chirurgia in caso di lussazione recidivante: quindi quasi mai al primo episodio, raramente al
secondo, ma di solito dopo 2-3 episodi, perché la qualità di vita del paziente è fortemente compromessa.
Esistono due interventi principali:
 Un intervento in cui si vanno a trattare le parti molli, in modo da rinforzare la capsula in
corrispondenza della regione a rischio di lussazione
 Intervento di Latarjet-Bristow: la coracoide, una piccola prominenza ossea della scapola in cui si
inserisce il tendine del bicipite (tendine congiunto) viene staccata e fissata davanti alla glena,
insieme al tendine stesso; la coracoide trasferita aumenta il diametro della glenoide e il tendine ad
essa adeso ha una funzione di “amaca” che impedisce alla testa dell’omero di uscire dalla posizione
naturale è un intervento cosiddetto one-shot, nel senso che c’è una sola possibilità che funzioni;
viene preferito quando c’è una lesione ossea.

LUSSAZIONE ACROMION-CLAVEARE

Consiste nella dissociazione della clavicola dall’acromion. Non si tratta.


Eziologia:
 Trauma diretto: caduta sulla spalla con braccio addotto
 Trauma indiretto: caduta appoggiando il polso a terra

Clinica:
 Dolore alla spalla al movimento attivo e passivo
 Dolore alla spalla alla digitopressione
 “Segno del tasto del pianoforte”: se si preme in
corrispondenza della clavicola, si sente che questa è libera,
non collegata alla regione acromiale

Normalmente la clavicola è collegata alla scapola da due legamenti


importanti, il coroide e il trapezoide; il grado di lussazione è
quantificato proprio in base al numero di legamenti che vengono
interessati. Si distinguono 6 gradi:
 Gradi I e II: corrispondono sostanzialmente a una
sublussazione, per cui è sufficiente l’immobilizzazione
 Gradi III, IV, V e VI: si tratta di una lussazione vera e
propria, che può richiedere un intervento chirurgico per il
semplice fatto che la clavicola determina una ulcerazione a
livello della cute
Nella gran parte dei casi si usa un tutore che mantiene la clavicola
in posizione corretta intanto che cicatrizza.
SINDROME DA CONFLITTO SOTTOACROMIALE

È una patologia a carico della cuffia dei rotatori, che interessa quasi esclusivamente il sovra-spinoso.
Dal punto di vista anatomico, l’acromion si trova sopra l’omero, quindi nel momento in cui si eleva l’arto, a un
certo punto l’omero entra in conflitto con l’acromion e il tendine del sovraspinoso viene compresso fra la
testa dell’omero e l’acromion: difatti per poter elevare ulteriormente l’arto, bisogna portare il pollice in su.
Negli anni questo conflitto porta alla tendinosi del sovraspinoso, fino a una vera e propria lacerazione.
Questo tipo di patologia è tipica del meccanico che lavora sotto l’auto con le braccia elevate per diverse ore
al giorno; altre categorie di lavoratori interessate sono gli imbianchini, gli elettricisti, etc.

Clinica:
 Dolore, anche notturno e a riposo, ma che di solito è correlato con quel tipo di movimento
 Rigidità
 Test specifici positivi (indagano la presenza di un vero e proprio conflitto)

È soprattutto l’imaging a dare informazioni:


 Rx: mostra un segno indiretto, ovvero la risalita dell’omero.
 Ecografia
 RM/artroRM: permette di vedere in maniera specifica il tendine del sovraspinoso; la struttura
tendinea appare molto assottigliata fino ad essere completamente disinserita; si può vedere anche il
liquido che dalla cavità intra-articolare fuoriesce nella borsa subacromiale.

Trattamento:
In passato andava di gran moda l’acromionplastica artroscopica, che consiste nel ridurre lo spessore
dell’acromion in modo da dare più gioco all’omero nei movimenti. Attualmente è un intervento che si fa in
associazione al trattamento della patologia della cuffia dei rotatori.

PATOLOGIE DELLA CUFFIA DEI ROTATORI

Nella cuffia dei rotatori si possono avere patologie che interessano ciascuno dei quattro tendini presenti,
cioè:
 Sottoscapolare: ha funzione di intrarotazione, depressore della testa, coaptatore della testa nella
cavità glenoidea.
 Sovraspinoso: ha funzione di abduzione ed extrarotazione
 Sottospinoso: ha funzione di extrarotazione
 Piccolo rotondo: ha funzione di extrarotazione.

Eziologia:
 le lesioni della cuffia dei rotatori sottendono quasi
sempre a dei microtraumi ripetuti in seguito a
sollecitazioni reiterative.
 Solo raramente si verificano a causa di alterazioni anatomiche pure del tendine (come nel caso
della sindrome di Marfan),
 Oppure in persone che abitualmente si lussano/sublussano volontariamente la spalla. In questi
soggetti è normale che si possano determinare delle lesioni croniche a livello della cuffia.

Si possono riconoscere tre stadi:

1. Edema della cuffia con borsite subacromiale: si tratta di uno stadio essenzialmente
infiammatorio. Se una paziente inizia dal nulla a fare giardinaggio per quattro giorni
consecutivi) è normale che al termine abbia un’infiammazione importante della spalla. Questo
perché ha compiuto dei movimenti che abitualmente non svolge e si crea una situazione di
infiammazione della cuffia dei rotatori.
2. Fibrosi e tendinosi della cuffia (calcificazioni intratendinee): L’organismo reagisce
all’infiammazione limitando i movimenti. A volte si vanno a determinare delle vere e proprie
calcificazioni all’interno del tendine. Questa condizione prende il nome di periartrite calcifica,
ossia nel momento in cui il tendine è lesionato/infiammato, l’organismo incomincia un processo
riparativo che dura circa 3-4 mesi. Durante questo periodo l’infiammazione si accende si va a
determinare una metaplasia calcifica. All’apice del processo riparativo, quindi verso i due mesi,
la calcificazione tende a maturare per poi piano piano disgregarsi fino a dare una restitutio ad
integrum. Questo processo è dolente per almeno 3 dei 4 mesi.
3. Rottura parziale o completa della cuffia: Da un punto di vista
clinico si avrà la perdita della funzione specifica legata al tendine
che è stato lesionato, ed infatti esistono test clinici specifici per
ogni tendine. Quindi ci sono dei test che mi servono per valutare
la funzionalità complessiva della spalla, ed altri come questi
indicati per indagare in maniera chiara un singolo gruppo
muscolare.
(il prof afferma che non gli interessa che ce li ricordiamo e non li
nomina. Riporto la slide per completezza).

Clinica: si avrà dolore e limitazione funzionale.

Trattamento:

 FKT: Nella maggior parte dei casi bisogna limitare alcune attività o, se non è possibile, effettuare
delle fisioterapie specifiche che permettano di compensare il movimento mancante.
Es: un paziente, solito settantenne che fa giardinaggio, si rompe il tendine del sovraspinoso, e il
giorno dopo non riesce ad abdurre la spalla. Nel caso in cui non abbia intenzione di farsi
operare, si opta per un trattamento fisioterapico che permetta di compensare quella funzione
mancante. Il paziente alla fine riuscirà a compiere il movimento semplicemente non utilizzando
il muscolo del tendine che si è lesionato.
 Terapie fisiche: sono una serie di terapie che servono ad alleviare la sintomatologia, ad
esempio:
 Trattamenti antinfiammatori
 Onde d’urto, che possono essere utilizzate per sciogliere le calcificazioni.
 Infiltrazioni: a volte si possono fare anche con delle infiltrazioni, dei lavaggi all’interno
delle calcificazioni.
 Intervento chirurgico di riparazione della cuffia (in artroscopia a cielo aperto): è possibile
ripararla nel caso di una lesione completa, netta, di un tendine che tutto sommato è valido. (Se si
prende un tappeto nuovo, con un taglio netto, è possibile andare a suturare quella lesione andando
a dare dei punti per riallinearlo in maniera corretta.
Nel caso invece di un tappeto vecchio, che magari si è strappato, slaminato, non sarà possibile
compiere una sutura completa e precisa, perché saturando da una parte rischio che si laceri
dall’altra.)
Quindi nell’eventualità si tratti del tendine di un anziano non è quasi mai indicato fare una
sutura completa; in questo caso o si disinserisce il tendine per poi inserirlo in una posizione più
prossimale con dei punti transossei, oppure si va a fare un cappotto per limitare la
degenerazione e l’estensione di questa lesione.

TENDINITE DEL CAPO LUNGO DEL BICIPITE

All’interno della spalla passa anche il tendine del capo lungo del
bicipite.
È importante da ricordare perché molto spesso l’infiammazione
della spalla si irradia lungo il capo lungo del bicipite. Il paziente
riferisce difficoltà a flettere il gomito o a sollevare dei pesi, però
sostanzialmente la problematica è legata alla spalla o alla cuffia
dei rotatori. Anche in questo caso ci sono test specifici per
andarlo a valutare.

Trattamento:
Varia a seconda dell’entità del danno, dell’infiammazione o della qualità generale della spalla:
1. Si può sezionare il tendine, per evitare che quest’infiammazione della spalla si possa diffondere
lungo il tendine stesso
2. Altrimenti sezionare il tendine e reinserirlo al di fuori dell’articolazione
3. Oppure effettuare un trattamento conservativo con infiltrazioni a livello della spalla.

ARTROSI SCAPOLO OMERALE

Non è altro che l’usura, la degenerazione, della porzione articolare.

Questa è un’immagine radiografica, molto dirimente. Si vede una riduzione della rima
articolare, sclerosi dell’osso subcondrale, la deformità della testa che è molto risalita;
quando si vede un omero che non è allineato alla glena ma è molto risalito mi aspetto
di trovare, in corrispondenza della cuffia dei rotatori, un tendine che è
sostanzialmente inefficace, assottigliato o addirittura rotto.

Eziologia
Diverse patologie favoriscono l’evoluzione artrosica:
 L’artrite reumatoide,
 Può essere post-traumatica in seguito a una frattura della testa omerale, che può degenerare
facilmente in un’artrosi
 Lussazioni inveterate,
 La “testa calva” che è dovuta ad una inefficace copertura da parte della cuffia per cui si crea una
sorta di nuova articolazione, dove l’acromion fa da tetto alla mobilizzazione della spalla.

Clinica
I sintomi classici sono dolore, rigidità e impotenza. La radiografia è dirimente per la diagnosi.

Trattamento
È il trattamento classico dell’artrosi:
 Terapie fisiche o fisioterapiche specifiche, limitazione dei movimenti
 Terapia medica
 Infiltrazioni di cortisonici nella spalla per ridurre la sintomatologia. È importante ricordare che
il cortisone è tendinotossico, per cui è vero che si possono fare le infiltrazioni per sfiammare
una spalla tenendo presente però che non se ne può abusare. Questo perché si può andare a
danneggiare ulteriormente dei tendini già danneggiati.
 Artroprotesi; la funzionalità delle protesi di spalla è migliorata enormemente negli anni, infatti
ad oggi se ne utilizzano molte più di una volta.
Nell’immagine si può osservare una protesi inversa,
chiamata così perché la geometria della protesi è
esattamente l’opposto dell’anatomia normale, dove si ha
convessità sulla glena e concavità sull’omero.
È stata una importante evoluzione nel design delle
protesi, perché in questo modo la protesi ha un vincolo
proprio, che rende possibile utilizzarla anche nei
pazienti che non hanno una cuffia dei rotatori valida,
cioè che non hanno un fulcro valido. Altrimenti, se si
optasse per una sostituzione anatomica, sarebbe
necessaria la presenza di una cuffia dei rotatori integra, motivo per cui ad oggi non se ne fanno
quasi più .
Bisogna sempre tenere a mente che la sostituzione protesica è riservata principalmente
all’anziano, nel quale la qualità della cuffia dei rotatori quasi sempre non è adeguata.

Zanella Luca 16-04-2019


Pasin Cristiano Fisiatria - lezione 2
Tuppo Vittorio Prof. A. Frizziero
Balconetti Erika

TENDINE E TENDINOPATIA
Il prof. Frizziero dichiara che presenzierà alla lezione ed integrerà la spiegazione del dott. Gamberini,
specializzando del primo anno in fisiatria, che si attiene molto al contenuto delle slide (le legge!).
Gli interventi del professore sono riportati in corsivo.

Breve introduzione del prof. Frizziero che annuncia che nel pomeriggio terrà una lezione con focus
sull'ecografia. Ricorda che nel momento in cui viene richiesta un'immagine radiologica come una risonanza
bisogna sempre specificare il sospetto diagnostico da dirimere.
Oggi verranno trattate le patologie tendinee. Sono patologie molto frequenti e molto difficili da trattare perché
riguardano un tessuto che a fatica risponde alla terapia. Padova è un centro di elezione per le tendinopatie.

Anatomia e Fisiologia del Tendine


I tendini e i legamenti possono essere considerati come macchine con più elementi in movimento organizzati
in modo tale da trasferire la forza allo scheletro e dallo scheletro. Sono organizzati in fibrille, fibre e fasci,
unità sempre più grosse. I fascicoli primari sono rivestiti da una fascia detta endotenonio; i fasci primari si
organizzano in fasci secondari e in fasci terziari. I fasci terziari vanno a costituire il tendine che ha un
rivestimento esterno detto epitenonio.

Quindi il tendine è una struttura multifibrillare con organizzazione a fasci avvoltolati, attraverso una
disposizione a vite tra loro (come la cima di una nave). Questa configurazione dona una maggiore capacità
tensionale ai tendini che sopportano meglio i carichi ed inoltre è sfruttata meglio anche la componente
elastica.

Connettono i muscoli all’osso e formano l’unità muscolo-tendinea la cui funzione principale è quella di
trasmettere carichi di tensione generati dai muscoli al fine di muovere e stabilizzare le articolazioni. Questa
unità è sede frequente di patologie legate al sovraccarico ed al movimento.
Caratteristiche dei tendini:
• colore bianco lucente;
• struttura fibroelastica;
• variabilità della forma in base alla zona in cui sono collocati.

Da un punto di vista istologico la componente cellulare è composta per il 90-95% da tenociti e tenoblasti e per
il rimanete 5% da altre cellule, quali condrociti in prossimità delle entesi, cellule sinoviali in prossimità delle
guaine e cellule endoteliali e muscolari che compongono le arteriole.
I tenociti e i tenoblasti sono immersi nel tessuto connettivo, composto per il 65-80% da fibre collagene di tipo I
e per il 2-3% da fibre di elastina.

Ricapitolando, le fibre del tendine si raggruppano in fasci primari, secondari e terziari, avvolti ciascuno da
tessuto connettivo reticolare chiamato endotenonio. Un gruppo di fasci terziari forma il tendine che è
circondato dall’epitenonio. La maggioranza dei tendini è avvolta da tessuto connettivo lasso chiamata
peritenonio. Alcuni tendini di mani e piedi sono avvolti dalla guaina sinoviale formata da due foglietti, uno
viscerale e uno parietale, all’interno dei quali è presente liquido sinoviale.
L'endotenonio è il rivestimento dei fascicoli presenti nel tendine e funziona come l'omento dell'intestino.
All'esterno dei fascicoli c'è l'epitenonio, rivestito esternamente dal peritenonio. Epitenonio e peritenonio
svolgono la stessa funzione dei foglietti pleurici parietale e viscerale nel polmone, che scorrono tra di loro. Il
peritenonio è un foglietto che si trova nei grandi tendini centrali, mentre nei tendini periferici, più piccoli, di
mani e piedi, non è presente il peritenonio, ma una guaina sinoviale. Questo accade perché anche se il
peritenonio non produce molto liquido sinoviale, un grosso tendine centrale scorre bene ed ha bisogno solo di
protezione, mentre nei tendini periferici c'è necessità di una maggior scorrevolezza. Infatti, si può flettere le
dita in massima estensione del polso, compiendo movimenti complessi sotto il retinacolo. Le guaine perciò
producono del liquido viscoso che permette lo scorrimento dei tendini senza frizioni ed il movimento risulta
fluido.

Esistono 3 diverse strutture di rivestimento:


1. epitenonio: rivestimento di 10 nm costituito da tessuto connettivo con fibre collagene orientate
obliquamente, longitudinalmente e trasversalmente. Sono anche presenti strutture vascolari, linfatiche
e nervose;
2. peritenonio: riveste i tendini sprovvisti di guaina sinoviale ed è costituito da collagene tipo I e III. È
una membrana elastica che permette lo scorrimento del tendine;
3. guaina sinoviale: presente nelle piccole articolazioni. È un manicotto costituito da 2 foglietti uno
parietale e uno viscerale. All’interno c’è liquido sinoviale, le cui funzioni sono favorire lo
scorrimento e nutrire il tendine.

I tendini si ancorano saldamente all’osso attraverso la giunzione osteo-tendinea, rinforzata da grossi fasci di
fibre collagene dette anche fibre di Sharpey che si approfondano nell’osso. Nella giunzione osteo-tendinea si
distinguono 4 zone:
1. tendine;
2. fibrocartilagine;
3. fibrocartilagine calcificata;
4. osso.
A seconda della zona coinvolta la prognosi cambia.

I tendini hanno un apporto vascolare ridotto rispetto ai muscoli (metabolicamente più attivi). I tendini ricevono
sangue attraverso tre sistemi principali: due sistemi intrinseci, localizzati alla giunzione osteotendinea e
miotendinea, e un sistema estrinseco, attraverso il peritenonio o la guaina sinoviale, i rivestimenti esterni che
vengono a contatto e portano nutrimento al tendine.
I vasi che originano dal muscolo si estendono generalmente dalla giunzione miotendinea fino al terzo
prossimale del tendine, mentre quelli provenienti dalla giunzione osteotendinea sono limitati alla zona di
inserzione del tendine e comunicano con i vasi periostei. La vascolarizzazione dei tendini è compromessa nelle
zone giunzionali e nei siti di torsione, frizione o compressione e tende a ridursi con l’avanzare dell’età. Le aree
con ridotto o assente apporto ematico rappresentano le più comuni sedi di degenerazione e/o rottura tendinea.
Studi in cui è stata utilizzata l’ultrasonografia Doppler suggeriscono che la vascolarizzazione dei tendini in
alcuni individui può variare di giorno in giorno, in rapporto all’entità dell’esercizio effettuato e all'attività
metabolica del soggetto (a riposo oppure sotto sforzo). Il flusso sanguigno nei tessuti peritendinei aumenta in
risposta all’attività fisica intensa.

Caratteristiche biomeccaniche del tendine:


• forza tensile: organizzazione delle fibre collagene;
• adeguata flessibilità: proprietà delle fibre di elastina;
• inestensibilità: necessaria per trasmettere le forze sia all'osso che al muscolo;
• ridotta resistenza alle forze di taglio e compressione;
• assorbimento di shocks: limita lesioni muscolari.

La maggior parte dei movimenti dell’uomo sono caratterizzati da una fase di contrazione muscolare di tipo
eccentrico, immediatamente seguita da una fase concentrica. L’unità muscolo-tendinea accumula energia
elastica durante la fase eccentrica ed energia meccanica durante la fase concentrica. Questi due tipi di energie
accumulate nel tendine sono in grado di portare a patologie da sovraccarico e sono da dosare nel programma
terapeutico.
Nell'accorciamento e stiramento del muscolo le fibre di actina e miosina scorrono una sull'altra. In una
flessione del gomito il bicipite si accorcia, l'actina e la miosina si avvicinano ed il sarcomero si accorcia; in
questo modo è accumulata energia meccanica. A seguito dell'allungamento del bicipite l'energia meccanica è
rilasciata in fase eccentrica nella quale il sarcomero si allunga. In fase eccentrica si allunga il tendine e si
accumula energia elastica. È stato dimostrato come nell'esercizio eccentrico, quindi di allungamento del
muscolo sotto stress, questo allungamento è trasmesso al tendine che accumula energia elastica. Questa energia
permette di dare uno stimolo sia meccanico che biologico al tendine stesso, con maggior attivazione della
componente cellulare e deposizione di fibre elastiche, perciò il tendine tende a rimanere più elastico.
L'esercizio eccentrico può dimostrarsi terapeutico se somministrato nelle giuste quantità.
Il tendine è molto robusto poiché possiede una elevata forza tensile di 50-100 N/mm 2, è in grado di allungarsi
fino a circa il 4% della sua lunghezza a riposo ed accumula da solo il 70% dell’energia elastica totale.

Patologie del Tendine


Terminologia:
• Tendinopatia: condizione clinica caratterizzata da dolore, gonfiore, limitazione funzionale nel tendine
ed attorno ad esso, derivanti da sovraccarico funzionale
• Tendinosi: condizione patologica degenerativa con assenza di modificazioni di origine infiammatoria
con disorientamento del collagene, disorganizzazione e separazione delle fibre a causa di una sostanza
mucoide
• Peritenonite: condizione infiammatoria che coinvolge il peritenonio associata a neoangiogenesi

In ambulatorio di solito le patologie tendinee sono legate a situazioni di sovraccarico.


Circa il 50% di tutti gli infortuni da attività sportiva sono secondari a sovraccarico. La maggior parte degli
infortuni riscontrati in soggetti che praticano corsa sono legati a sovraccarico e circa la metà di questi
coinvolge gamba (20%), caviglia (15%), piede (15%).
Più del 30% degli infortuni sportivi sono correlati a tendinopatia, con una prevalenza di tendinopatia rotulea
nel 45% dei pallavolisti e nel 32% dei cestisti, tendinopatia achillea nel 29% dei corridori, epicondilite laterale
nel 40% dei tennisti. Il gomito del tennista è legato sia a situazioni di sovraccarico sia a materiali che non
ammortizzano bene le forze.
Le tendinopatie sono comunque frequenti anche nella popolazione generale che non pratica sport, in persone
sedentarie, che rappresenta un fattore di rischio per le tendinopatie.
Le tendinopatie sono più frequenti nel sesso maschile: la prevalenza di patologia tendinea nel sesso maschile
sarebbe riferibile ad una azione protettiva degli estrogeni sulle strutture tendinee nella donna.
La riduzione dei livelli circolanti di estrogeni (come in menopausa) comporta una riduzione dell'azione
protettiva di questi ormoni. Nel tendine c'è una ridotta forza tensile, un ridotto turnover del collagene e una
ridotta espressione di aggrecani e altri proteoglicani (biglicani, decotina, versicani), importanti per mantenere
l'elasticità del tendine.

I fattori di rischio possono essere:


• Intrinseci
 sistemici: età (riduce l'apporto ematico), obesità, diabete, ipertensione, dislipidemia
(accumulo lipidico nel tendine) e fattori genetici;
 non sistemici: anormalità biomeccaniche (alterazioni scheletriche come ginocchio
varo/valgo), ridotta elasticità muscolare (contratture), ridotta forza muscolare, lassità
articolare;
• Estrinseci: sovraccarico, training errato, equipaggiamento non corretto (se si corre con le Converse il
tallone non è ammortizzato adeguatamente dalla suola) e farmaci quali fluorochinolonici, steroidi,
terapie ormonali, contraccettivi orali, FANS, retinoidi.
È prevedibile e ben documentato in letteratura che le tendinopatie compaiono più spesso in atleti che
cambiano frequentemente la tipologia, l’intensità e la durata dell’allenamento.

In passato venivano utilizzate metodologie di allenamento


parecchio datate. Per esempio, il preparatore atletico dell’Inter
di Cúper faceva fare ai giocatori degli scatti di corsa sulla
sabbia con compagni di squadra sulle spalle, mantenendo lo
stesso carico e la stessa intensità di allenamento per due atleti
con masse molto diverse. È evidente che il sovraccarico era
diverso.

Uno squilibrio tra carichi di allenamento e periodi di riposo


può determinare fissurazioni e lesioni nel tessuto.
Ex in foto: lesione del tendine rotuleo
L’intensità e la frequenza dell’allungamento del tessuto tendineo influenzano le risposte biochimiche dei
tenociti e le proprietà meccaniche delle fibre collagene.

Gli effetti, invece, di una stimolazione controllata e ripetuta in termini di intensità e frequenza applicate alla
plasticità del tendine non sono ancora ben conosciuti. In letteratura si sta studiando moltissimo questo
aspetto, soprattutto per quanto riguarda i protocolli riabilitativi e terapeutici, di dosaggio dell’intensità dello
stimolo da dare al tendine.
L’esercizio stimola un aumento della sintesi e della degradazione del collagene, ma la sintesi prevale e
persiste più a lungo della degradazione, con un effetto complessivo che induce un ingrossamento e un
rafforzamento delle fibre. Pertanto, l’esercizio fisico migliora le proprietà tenso-elastiche e rende il tendine
più resistente alle sollecitazioni meccaniche. Questo in condizioni fisiologiche, normali, in cui è presente un
equilibrio tra forza concentrica ed eccentrica.
Le capacità meccaniche del tendine dipendono dal preciso allineamento delle fibre collagene e
dall’espressione dei proteoglicani. Questi conferiscono le tipiche proprietà viscoelastiche al tendine,
proteggendolo durante l’esecuzione di sforzi moderati-intensi.

Sovraccarico
Quando il tendine è sottoposto a sovraccarico e a uno sforzo ripetuto, le fibre collagene iniziano a scivolare
l’una sull’altra, rompendo i legami crociati e determinando una denaturazione del tessuto tendineo. Si
vengono a creare alterazioni della matrice extracellulare e degli elementi vascolari del tendine.
Le fibre collagene sono molto importanti, in quanto strutturali; alterazioni di queste portano nel tempo
all’insorgenza di tendinopatie.

Modificazioni delle fibre collagene:


• degenerazione delle fibre collagene con disorientamento e assottigliamento
• aumento della degradazione del collagene rispetto alla sintesi
• aumento dei glicosaminoglicani interfibrillari
• riduzione del contenuto di collagene di tipo I (più elastico)
• aumento del contenuto di collagene di tipo III (meno elastico)

Modificazioni delle cellule e della matrice extracellulare:


• aumento della cellularità (con cellule però non funzionali)
• aumento della produzione di citochine (es. IL-1β)
• aumento della produzione di agenti pro-infiammatori (Cox-2, metalloproteasi, ADAMTS), con
distruzione e rimaneggiamento della matrice extracellulare
• neovascolarizzazione, prerogativa all’infiammazione

Il sovraccarico porta inoltre a ipossia e ischemia del tessuto con produzione di radicali liberi, eccessiva
produzione di calore che non fa bene al tendine, apoptosi e carenza di NO, la cui funzione comporta
normalmente vasodilatazione e conseguente aumento del flusso ematico, inibizione dell’aggregazione
piastrinica, inibizione (a elevate concentrazioni) dell’angiogenesi, inibizione dell’adesione leucocitaria
all’endotelio, inibizione della proliferazione delle cellule muscolari lisce della parete vascolare, attività
antibatterica e immunomodulante.

I nitrossidi sono altamente deleteri nell’ambito dell’articolazione, soprattutto se danneggiata e artrosica. Nei
tendini invece i nitrossidi possono svolgere un ruolo terapeutico, tant’è vero che spesso si usano cerotti a base
di nitroglicerina applicati in corrispondenza nel tendine.

D: qual è invece il ruolo delle infiltrazioni di ozono?


R: non c’è nessuna evidenza scientifica di efficacia al di fuori del contesto della muscolatura paravertebrale
del rachide. Il principio è quello di un’ossigenazione in profondità dei tessuti, con effetti anche sclerosanti e
sulla neoangiogenesi, ma è tutto ancora da studiare.

Tendinopatia
La tendinopatia è quindi una condizione clinica caratterizzata a livello tendineo e peritendineo da dolore,
gonfiore e limitazione funzionale. È una condizione patologica caratterizzata dalla presenza di lesioni
degenerative e non da infiammazione.

Per molti anni si è parlato di tendinite, ma questa di per sé non esiste; il processo infiammatorio a carico del
tendine in sé e per sé non è evidenziabile e neanche in prelievi bioptici effettuati in tendini ampiamente
degenerati è possibile rilevare un aumento delle citochine infiammatorie. Invece il processo infiammatorio va
a colpire in buona parte dei casi le membrane che rivestono il tendine, con fenomeni di neoangiogenesih e di
formazione di nuove terminazioni nervose periferiche, responsabili poi della sintomatologia dolorosa.
Il termine tendinite quindi dovrebbe essere riservato a diagnosi istopatologiche
Questa definizione di tendinopatia è stata formulata nel 1998 da tre mostri sacri della tendinopatia della
degenerazione: prof. Maffulli (direttore della patologia dello sport di Londra, responsabile medico delle
olimpiadi di Londra, ordinario di ortopedia di Salerno), Khan KM (editor in chief del British Journal of Sports
Medicine) e Puddu G. (ordinario di ortopedia a Roma “La Sapienza”).
Anche Arnoczky, uno dei più importanti autori e ricercatori dei fenomeni meccanobiologici dei tessuti
periferici, ha visto che per tanto tempo è possibile avere lesioni degenerative senza accorgersene e sviluppare
una tendinopatia dolorosa solo tardivamente.
Il danno subclinico può verificarsi molto tempo prima della comparsa della sintomatologia dolorosa e questo
è tipico di tutta la patologia degenerativa dell’apparato muscoloscheletrico.

La diagnosi è clinica, supportata e confermata da esami di laboratorio e indagini di imaging (Ecografia, RMN).

In questa RMN della caviglia di nota bene la fascite plantare, tendinopatia


inserzionale con ispessimento della fascia plantare a livello del calcagno e
deposizione di sali di calcio da parte di condrociti sotto stimoli di stress e
trazioni eccessive (entesopatia calcifica).

Questa è un’ecografia con PowerDoppler acceso in cui


si vede l’inserzione calcaneare del tendine d’Achille,
con superficie ossea irregolare e processo
infiammatorio che ingloba il tendine e coinvolge non
tanto i fasci ma il peritenonio. In questa zona sono
presenti cuscinetti adiposi ricchi di terminazioni
nervose e vasi.

Questa è una RMN dell’ultima falange di un dito in cui si vede una zona di edema
osseo abbastanza importante.
Sedi più comuni di tendinopatia

Queste sono le forme più comuni, ma ce ne sono ovviamente molto di più. Un centro di alto livello deve
essere in grado di riconoscerle correttamente tutte, per poi inviare il paziente ad un trattamento adeguato in
relazione alla patologia e allo stadio, per evitare quindi la cronicizzazione del
problema.

Terapia infiltrativa - Corticosteroidi


Sono utili nel trattamento a breve termine delle tendinopatie, in particolare:
• Epicondilite laterale (<8 sett.) [strong evidence]
• Tendinopatie degli arti inferiori [moderate evidence]
• Tendinopatie della cuffia dei rotatori [inconsistent effects]
Le iniezioni con corticosteroidi pongono un serio dilemma clinico poiché, pur essendo stata scientificamente
provata la loro efficacia nel breve periodo, le tendinopatie non hanno una vera e propria patogenesi
infiammatoria; sono efficaci solo nel breve termine, riducono la sintomatologia dolorosa nella fase acuta.
Per minimizzare gli effetti collaterali è importante che l’infiltrazione venga eseguita in regione peritendinea
sotto guida ecografica. Se l’infiltrazione viene fatta all’interno del tendine c’è il rischio di rottura tendinea.

Se proprio dev’essere fatta quindi un’infiltrazione con corticosteroidi va fatta intorno al tendine, con basse
quantità di farmaco, senza ripetere più volte la manovra. È stato ampiamente dimostrato che infiltrare con
corticosteroidi intorno o peggio ancora all’interno del tendine porta le cellule ad un fenomeno di apoptosi
con conseguente lesione del tendine.

Importante inoltre indagare sempre in anamnesi farmacologica l’assunzione da parte del paziente di farmaci
che possono causare tendinopatie: per esempio, i fluorochinolonici determinano in circa il 30-35% della
popolazione un problema tendineo, con vari gradi di gravità (sintomatologia sfumata o talmente importante
che il paziente non riesce più a camminare). Se il trattamento con l’antibiotico è associato ad un
corticosteroide sistemico il rischio aumenta ulteriormente.
E il problema può insorgere anche solo per pochi giorni di terapia, anche solo per una o due assunzioni.

Il prof racconta il caso di una signora che ha assunto ciprofloxacina la sera con comparsa di impossibilità a
camminare già la mattina seguente. Dopo aver contattato il MMG, la signora ha assunto una seconda dose,
con comparsa di sintomatologia dolorosa importante anche da ferma verso l’ora di pranzo. Il MMG le ha
consigliato quindi di passare alla levofloxacina, con conseguente rottura tendinea la sera. Nel giro di 24-30
ore la signora ha rotto il tendine di destra e fortemente compromesso quello di sinistra, dopo solamente 3
assunzioni.
È sempre fondamentale stare attenti e ai primi segnali monitorare i pazienti con un’ecografia e sospendere il
trattamento.

La terapia infiltrativa con corticosteroidi è gravata da molteplici effetti collaterali:


• Rottura tendinea
• Alterazioni della pigmentazione cutanea
• Atrofia dei tessuti molli peritendinei
• Atrofia del triangolo di Kager, cuscinetto adiposo visto nella precedente ecografia

A causa degli effetti collaterali e la breve durata d’azione l’utilizzo dei cortisonici deve essere limitato.

Terapia infiltrativa - Acido Ialuronico


In studi condotti su pazienti con tendinopatia del sovraspinato, epicondilite e
tendinopatia inserzionale si è dimostrato:
• Buon recupero funzionale
• Riduzione della sintomatologia dolorosa
• Riduzione della disabilità

La terapia infiltrativa con acido ialuronico oggi rappresenta l’innovazione terapeutica per le patologie
tendinee. Se la tecnica è ben condotta, quindi se è eseguita sotto guida ecografica, se non avviene una
lesione meccanica del tendine da parte dell’ago, se la tipologia di acido ialuronico è la più adatta (per i tendini
si sceglie una molecola di peso molecolare basso, compreso tra 530-1800kDa), l’effetto è a carico
prevalentemente della componente collagenica e delle membrane endotenonio e peritenonio. L’acido
ialuronico, che produciamo fisiologicamente, contribuisce alla lubrificazione e al trofismo dei tessuti molli e
svolge un ruolo fondamentale nel mediare i rapporti tra cellula e acqua negli interstizi. L’acqua permette
anche di abbassare la temperatura tendinea.
L’acido ialuronico è una molecola quindi in grado di trattenere acqua e di farla dialogare con la cellula
(tramite recettori specifici CD44, ICAM7 e ICAM6) e questo meccanismo biologico fa sì che anche un tendine
che viene sovraccaricato durante attività fisica riesca a mantenere delle temperature mediamente
compatibili con la vitalità cellulare.

Durante una maratona, per esempio, dopo circa 7-8km di corsa il tendine d’Achille ha una temperatura
interna di circa 40-41°C; dopo 10km raggiunge i 47°C e a questa temperatura tutte le cellule muoiono,
ovviamente in relazione anche al tempo di esposizione.
Eventuali terapie che vanno a fornire al tendine uno strumento di abbassamento della temperatura (come
acqua legata all’acido ialuronico), favoriscono lo svolgimento di attività sportive che altrimenti porterebbero
inevitabilmente a compromissione e danno tendineo.
Nel prossimo futuro molte aziende cominceranno a promuovere le terapie infiltrative con acido ialuronico
proprio in quella sede. Noi siamo stati i primi al mondo a fare studi su questi distretti e abbiamo dimostrato
tutti questi aspetti.

In questa metanalisi sono stati confrontati 17 studi, per un totale di 1381 pazienti affetti da epicondilite
laterale, trattati con 8 differenti terapie infiltrative:
• Steroidi (10 studi)
• Tossina botulinica (4 studi)
• PRP (2 studi)
• Acido ialuronico (1 studio)
• Proloterapia, polidocanolo, glicosamminoglicani (1 studio)
Il PRP, la proloterapia e l’acido ialuronico sono stati gli unici farmaci a rivelarsi superiori al placebo. Ci sono
ancora evidenze scarse su quale sia l’approccio infiltrativo da raccomandare per questi pazienti.
I corticosteroidi hanno un’efficacia, ma è talmente breve che basta spostare la valutazione ad un follow-up
più lungo per perdere l’evidenza.

Terapia infiltrativa - PRP


Il PRP [Plasma Ricco di Piastrine] si fa in ambulatorio tramite un prelievo dal paziente stesso. Questo viene
centrigufato, si preleva a ciclo chiuso plasma e piastrine, si mette in una provetta contenente calcio per
attivare le piastrine e infine si inietta in tendini o articolazioni.
Nella riparazione delle lesioni delle mucose ha dato dei risultati straordinari, soprattutto in odontoiatria, così
come nella rigenerazione dell’osso in sedi particolarmente delicate (tendinopatie inserzionali, avulsioni con
danno osseo). Ha dato risultati piuttosto buoni se iniettato in articolazioni o tessuti peritendinei, soprattutto
per quanto riguarda la sintomatologia dolorosa.

Terapia infiltrativa - Proloterapia


La proloterapia, scarsamente utilizzata in Italia, ma di più comune pratica in America, consiste in infiltrazioni a
base di zuccheri come il destrosio. Questa iniezione produce un’infiammazione la quale da una parte provoca
intenso dolore al paziente, dall’altra segue un processo riparativo. Tale pratica trova il suo razionale
nell’osservazione in buona parte dei casi di processi infiammatori subacuti, protratti nel tempo, i quali
stimolati e portati ad una condizione più vitale, seppur più dolorosa, conducono ad una maggiore efficienza
del processo riparativo con cronica risoluzione della sintomatologia. Tale pratica non è condivisa
univocamente da tutti gli specialisti, anche in virtù del fatto che il paziente non potrà beneficiare durante
questo processo di antinfiammatori per ridurre il dolore perché in evidente contrasto con il razionale sopra
esposto.

Il professore afferma la propria personale contrarietà a questa pratica, sottolineando come il suo più ampio
utilizzo in un sistema sanitario come quello americano trova la sua ragione nel basso costo di questa terapia a
confronto di altre opzioni che definisce dal suo punto di vista estremamente più valide. Per dare un’idea,
riferisce come il costo minimo di una fiala di acido ialuronico sia intorno ai 40€ e fino a un massimo indicativo
di 200€ a ciclo. Considerando poi che una terapia del genere viene protratta cronicamente nel tempo, almeno
fin quando non si renda necessaria una protesi che sia dell’anca o del ginocchio, risultano chiari i costi elevati
del trattamento a cui si aggiungono i costi della prestazione medica. In America, a fronte di quanto detto
un’iniezione di destrosio aggira il suo costo intorno ai 5$.

Risposta del docente a una domanda (incomprensibile):


Per quanto ancora riguarda la terapia con acido ialuronico generalmente vengono effettuati due cicli all’anno
da tre infiltrazioni l’uno: un’infiltrazione a settimana per tre settimane è pari a un ciclo cui segue un periodo di
follow-up. Chiaramente il tutto poi viene anche calibrato in rapporto al beneficio clinico che il paziente
riferisce. Ovviamente a questi cicli bisogna sottolineare l’aggiunta della terapia di fondo a base di condroitin
solfato ed esercizi fisici con una buona probabilità di non aver bisogno poi nel tempo di alcun tipo di protesi.

Risulta poi interessante sottolineare come le infiltrazioni di PRP non si siano mai dimostrate superiori all’acido
ialuronico a livello delle articolazioni. Quindi dati i costi e i problemi di manipolazione del sangue si è sempre
ripiegato sull’acido ialuronico.

Uno studio riportava come il trattamento con acido ialuronico in pazienti con artropatia della spalla, quindi
della cuffia dei ruotatori, risultasse il più sicuro ed efficace rispetto al gruppo di controllo fino a un periodo di
12 settimane; questo a fronte del fatto che l’esercizio fisico utilizzato in monoterapia non fosse risultato
altrettanto efficace nel lungo periodo se non associato sempre a terapia infiltrativa.

Si è visto, infatti, che se si associa la terapia riabilitativa, cioè esercizi specifici compresi nel concetto più
generale di terapia funzionale, come ad esempio un’attivazione eccentrica del sovraspinato a determinati
gradi di abduzione perché quelli efficaci in quel paziente in quanto rappresentanti quella quota motoria
necessaria a stimolare biomeccanicamente quel tessuto, a una terapia farmacologica in loco, si producono
degli effetti biologici a più lungo termine che riducono la sintomatologia dolorosa. Ritornando all’esempio
precedente: effettuando un ciclo di infiltrazioni ad un paziente senza associarlo ad alcuna terapia riabilitativa
è diverso dal fornire anche gli esercizi specifici per il ginocchio (che mirini ad obiettivi terapeutici come il
rinforzo del quadricipite, l’allungamento degli strutturali ecc) che in mezz’ora tutti i giorni il paziente dovrà
fare per il primo mese, poi a giorni alterni per il secondo mese e che si definiranno poi in una terapia di
mantenimento che preveda degli esercizi bisettimanali. In questo modo il beneficio della terapia infiltrativa
ha una durata maggiore piuttosto dei 3-4 mesi senza esercizi, cui segue un periodo finestra di circa due mesi
fino al prossimo ciclo in cui il paziente accusa nuovamente dolori: la terapia combinata sopra descritta invece,
riesce a coprire anche questi due mesi. Questo ovviamente ha un impatto non irrilevante nella percezione
della qualità della vita del paziente. Questo chiaramente risulta importante per permettere al paziente il
proseguo normale delle sue abituali attività quotidiane, che chiaramente ha un’influenza dell’ambito
motivazionale del soggetto, soprattutto se anziano.

Il tutto è chiaramente collocato in un quadro in cui l’approccio della medicina moderna e in particolare della
chirurgia non è più quello demolitivo, bensì restaurativo e mininvasivo. Basti pensare a come si sia
notevolmente ridotta la frequenza con cui ad oggi vengono tolti i menischi, questo anche perché si è visto
come poi ad un intervento di questo tipo seguisse un processo di artrosi precoce. In questo quadro si spiega
meglio come un approccio precoce, come quello di cui si parla, può preservare la qualità di vita del paziente
evitando in molti casi l’esigenza di ricorrere alla protesi, con una semplificazione del trattamento per il
medico e del post-operatorio per il paziente che in questo modo ha potuto giovare al massimo di un
intervento mininvasivo.

Terapia infiltrativa ad Alto Volume


La terapia infiltrativa ad alto volume agisce sostanzialmente sul dolore. Questo studio, denominato FULLY,
prende ad esame una terapia nella tendinopatia cronica dell’Achilleo adottando infiltrazioni con soluzioni
saline, anestetico locale e inibitori delle serin-proteasi, con conseguente azione antiproteolitica e riduzione
dell’effetto vasoattivo. Questo tipo di miscele in tendinopatie croniche innervative porta a una riduzione del
dolore e migliora la funzione nel breve e lungo periodo, ma aumentando il rischio di reazioni avverse se il
ciclo viene ripetuto.

Trattamento Meccanico-Funzionale
In questo tipo di trattamento si devono tenere in considerazione sia fattori intrinseci, sia estrinseci. Nelle
tendinopatie in termini di razionali della terapia bisogna cercare di correggere il mal allineamento per quanto
riguarda la componente osteo-muscolo-scheletrica, compensare l’instabilità articolare, correggere gli squilibri
muscolari che ci possono essere fra agonisti e antagonisti, potenziando la muscolatura.

Per quanto concerne il trattamento conservativo, la riabilitazione si avvale come strumento terapeutico di
esercizi in cui risulta particolarmente
importante la componente
dell’esercizio eccentrico. L’esercizio
eccentrico prevede un allungamento
attivo dell’unità muscolo tendinea e in
particolare si tratta di seguito quello
coinvolto nel trattamento delle
tendinopatie achillee. L’esercizio
eccentrico, se protratto nel tempo e dosato opportunamente porta a una normalizzazione della struttura
tendinea con riduzione della neovascolarizzazione e a una riduzione dello spessore del tendine con
correlazioni positive anche dal punto di vista ecografico: diminuzione delle aree ipoecogene e della
degenerazione fibrillare.

In queste immagini si può notare un atleta che effettua un esercizio in parte eccentrico e in parte
concentrico, ma focalizzato
sulla discesa (parte
eccentrica). Nella salita del
gradino il polpaccio, quindi il
tricipite della sura e il tendine
d’Achille, si sta accorciando,
mentre nella fase di discesa
lenta vi è un allungamento di
tutta l’unità muscolo tendinea.
Questo accumulo di energia elastica è la base per un processo riparativo.

Generalmente l’esercizio viene effettuato anche nella fase concentrica, quindi di salita, con tutti e due gli arti
per ridurre ulteriormente il carico concentrico sul tendine: quindi la fase discesa viene effettuata con il solo
tendine malato. Sono stati studiati dei dosaggi, in quanto questi esercizi se non protratti nel tempo e mirati
specificamente alla struttura interessata possono essere deleteri. Questo a fronte di una forte evidenza di
modifica del tessuto prima e dopo il trattamento corretto confermata non solo clinicamente ma anche allo
studio ecografico. Si osserva infatti una riduzione del diametro antero-posteriore del tendine, una riduzione
della positività al doppler, un miglioramento della struttura fibrillare che risulta più omogenea con
diminuzione delle aree di ipoecogenicità.
Tutto questo porta ad affermare come il condizionamento meccanico possa essere utilizzato al fine della
guarigione del tendine. I tendini infatti si adattano alle trazioni e quindi in conseguenza del carico esercitato
modificando la propria struttura e la propria composizione.

In uno studio del 2007 si è visto che l’esercizio eccentrico migliora sensibilmente l’outcome, quindi la
funzionalità, e la dolorabilità del paziente affetto da tendinopatia achillea rispetto a un esercizio da protocollo
generico. In particolare, considerando anche l’aspetto istologico, si è visto un incremento della sintesi di
collagene, soprattutto di tipo 1, con una riduzione della degradazione di esso che comporta nel tempo una
progressiva guarigione. Quindi l’esercizio eccentrico ha un impatto sulla lunghezza del tendine: se il tendine è
stirato la sua lunghezza a riposo è aumentata, aumentando progressivamente il carico sul tendine si ottiene
un aumento della forza intrinseca del tendine e inoltre si ha un aumento della velocità di contrazione che
correla con la maggior forza sviluppata già menzionata. Quindi le prerogative e gli obiettivi dell’esercizio
eccentrico sono quelli di migliorare l’elasticità e quindi la lunghezza del tendine, migliorare il carico e quindi
le forze intrinseche del tendine e nel complesso di tutta l’unità muscolo tendinea.

Per quanto riguarda il dosaggio di questo tipo di esercizio bisogna considerare la velocità con cui deve essere
effettuato, il carico ideale, il numero di ripetizioni, la frequenza e la durata di tutto il trattamento. Questo
anche in virtù di una necessaria personalizzazione del protocollo in virtù del fatto, ad esempio, che il paziente
sia un atleta dilettante, amatoriale o professionista, oppure in base all’età, al sesso o anche in base alla
qualità stessa del tendine.

Provando a pensare ad un farmaco il carico lo si potrebbe intendere come la quantità, il numero di ripetizioni
come il numero di assunzioni ecc. Il prof ci tiene a sottolineare l’essenzialità di intendere e operare questo tipo
di trattamento alla stregua di una terapia farmacologica. Per quest’ultima sarà l’azienda farmaceutica a
fornire tali informazioni, pur restando imprescindibile quel ragionamento critico che porta a comprendere
come la stessa compressa di aspirina possa avere diversa efficacia in soggetti diversi. Questo per sottolineare
come anche per questi trattamenti valgano ragionamenti similari mirati a individualizzare le metodologie più
efficaci per il singolo paziente piuttosto che per un altro, valendo anche in questo ambito il concetto di
variabilità interindividuale. Quindi sono le modalità con cui viene somministrato lo stesso input che cambiano
drasticamente l’esito. Senza contare i tanti fenomeni che bisogna tenere in considerazione per una buona
vitalità dei tessuti biologici: ad esempio, non si può non tenere conto dell’atrofia cui vanno incontro i muscoli
nella sindrome da allettamento, senza contare l’aumento del riassorbimento della massa ossea e la riduzione
della qualità e della capacità di coordinazione della deambulazione. Da qui si capisce come sebbene a questi
pazienti si stiano somministrando le migliori terapie disponibili, sufficienti nel caso alla risoluzione o al
controllo del processo patologico precipuo, questo non è il modo per fornire a questi pazienti un ritorno
qualitativamente soddisfacente alla loro vita quotidiana. In sintesi, la qualità dell’operato medico
assistenziale non passa solo, dalla comprensione dei meccanismi che legano la vita della cellula alle terapie
farmacologiche, chirurgiche o meccaniche (come quelle di cui si sta trattando), ma anche dalla comprensione
del contesto in cui il paziente vive in base al quale stabilire il miglior percorso terapeutico che tenga conto di
tutto questo.

Protocollo di Alfredson
Prevede una serie di esercizi così dosati: 15 ripetizioni x 3
serie, eseguite 2 volte al giorno tutti i giorni, per 12
settimane. È stato dimostrato il conseguimento di
migliori risultati eseguendo gli esercizi su una pedana
inclinata a 25°. Questo protocollo ha riportato un
risultato intorno all’88% nella popolazione scandinava (in
cui è stato testato per la prima volta, essendo Alfredson
di origini svedesi); tuttavia ripetuto in altre popolazioni
(es. popolazione mediterranea) il risultato si abbassa al
65%: l’orientamento della popolazione influenza il
risultato. Ad ogni modo non esiste una terapia per la
tendinopatia achillea che funzioni meglio della terapia
eccentrica, neanche di natura farmacologica.

N.B. È interessante notare come un bianco con un piede piatto sia lento, mentre un nero con un piede piatto
abbia un piede piatto che funzioni come un piede cavo, perché la qualità del tessuto connettivo permette al
suo piede di avere un’esplosività del gesto nella fase propulsiva della corsa completamente diversa rispetto al
bianco.
Esercizio eccentrico
La parte concentrica dell’esercizio va eseguita passivamente o con
l’assistenza dell’arto controlaterale (salire con un arto e scendere con due),
durante l’esercizio in catena cinetica chiusa (da definizione, un esercizio
durante il quale i piedi sono vincolati al suolo, con una forza muscolare
esercitata dai piedi appoggiati al suolo; nell’esercizio in catena cinetica aperta
il piede non è vincolato al suolo) riservando la fase eccentrica all’arto affetto.
La fase eccentrica consiste in uno squat monopodalico in discesa su pedana inclinata. Va eseguita
inizialmente molto lentamente, per poi aumentare la velocità progredendo nel trattamento, rispettando
sempre il dolore (l’esercizio eccentrico è terapeutico se dosato a questi livelli, ma se abusato o maldosato può
essere deleterio sull’unità muscolotendinea, causando patologie o fratture tendinee).
Tipicamente usato per la patologia del tendine rotuleo, in fase di estensione si attivano i muscoli estensori del
ginocchio e la porzione tendinea del tendine rotuleo si accorcia, in fase di discesa si allunga la componente
muscolotendinea, con accumulo di energia elastica nella porzione intratendinea e miotendinea; il risultato è
un effetto meccanico e biologico terapeutico all’interno della struttura tendinea.

Questo studio mostra l’efficacia dell’esercizio


eccentrico nelle tendinopatie dell’’arto
inferiore negli atleti.

Rispetto agli altri modelli di esercizio terapeutico, l’esercizio eccentrico nella tendinopatia achillea risulta più
efficace, determinando riduzione del dolore e del gonfiore, soddisfazione del paziente, miglioramento
dell’equilibrio e della propriocezione (la qualità del tendine è prerogativa dell’elasticità, della forza e della
propriocezione), miglioramento dell’agilità, velocità di ritorno alla propria attività e resistenza nel movimento
di dorsiflessione.

Studio basato sul confronto di pazienti che


hanno svolto esercizi eccentrici e pazienti che
hanno svolto esercizi concentrici; ancora una
volta la terapia eccentrica mostra superiorità.
Epicondilite, patologia del muscolo estensore del polso. Generalmente la terapia infiltrativa con acido
ialuronico a basso peso molecolare peritendineo, se associata ad esercizio eccentrico e stretching con
rinforzo del distretto muscolare del polso e dell’avambraccio, porta a un migliore risultato.

Tendinopatia della cuffia dei


rotatori
Patologia che colpisce
principalmente gli atleti che usano
la spalla per eseguire gesti sport
specifici (es. pallavolista, cestista,
pallanuotista); frequentemente
insorge con l’età (donne in
menopausa). Terapia eccentrica.

Nel trattamento della tendinopatia del tendine rotuleo, il protocollo concentrico e il protocollo eccentrico
mostrano eguale efficacia.

N.B. spesso il tendine rotuleo sviluppa una tendinopatia che mostra fissurazioni, lesioni o calcificazioni
all’interno del tendine, per cui il paziente non riuscendo ad eseguire l’attività sportiva viene sottoposto a
trattamento chirurgico. Tuttavia, l’intervento di pulizia del tendine rotuleo in termini di efficacia e di recupero
non è superiore al protocollo di esercizi, che viene sempre tentato come primo approccio.

Vantaggi del protocollo eccentrico nella tendinopatia achillea e nella tendinopatia rotulea.
Schema di esercizio eccentrico tipicamente proposto: stretching statico pre e post esercizio, 5 ripetizioni x 3
serie di mezzo squat monopodalico aumentando la velocità nell’arco della settimana e associando al termine
di ogni seduta di allenamento crioterapia; progressione fino alla 5-6° settimana, ripetendo i cicli e
aumentando peso e ripetizioni, fino all’utilizzo della macchina isocinetica eccentrica.

Le macchine usate in riabilitazione vengono tipicamente suddivise in macchine isotoniche e macchine


isocinetiche. Le prime sono normalmente usate in palestra, provviste di cavi e implicate sia nella fase
concentrica sia nella fase eccentrica. Le seconde sono collegate a un computer permettendo di conoscere una
costante (resistenza accomodante) e sono particolarmente utili nei protocolli abilitativi di rinforzo muscolare,
dove viene chiesto al paziente di sviluppare una forza a partenza da un muscolo già allungato; in altre parole
consentono al paziente di esprimere la massima forza muscolare, perché non si comportano come una leg
extension (macchina isotonica) in quanto tanto più il paziente tende ad estendere il ginocchio tanto più la
macchina resiste, tanto più il paziente tende a flettere il ginocchio tanto più la macchina resiste.

Viene mostrato il video di un centro bolognese che dopo il percorso di rinforzo utilizza un programma
riabilitativo neuromotorio di analisi del movimento. È presente uno schermo dove l’atleta può guardarsi
mentre svolge movimenti sport specifici con una pedana di forza, che è un vettore che misura la forza di
reazione del suolo; l’inclinazione dell’angolo tra femore e tibia che si viene a formare durante l’appoggio del
piede sul suolo dopo un salto è indice del rischio di sviluppare una lesione del crociato. Nell’analisi del
movimento viene assegnato un punteggio alla qualità del movimento, in base al quale viene impostato un
programma di training motorio.

https://www.youtube.com/watch?v=CLp0eogoDNw

Terapie Fisiche
La crioterapia non è una vera e
propria terapia fisica, tuttavia è
sempre utile prescriverla nei
pazienti affetti da tendinopatia
e da lesioni muscolari perché ha
effetti metabolici e fisici positivi
(es. riduzione dell’afflusso di
sangue e del gonfiore).

Laser HILT: laser ad alta potenza, che


utilizza nd: YAG e che penetra più in
profondità rispetto al laser CO2
scanner. La terapia con laser HILT
risulta efficacie nel miglioramento
della funzionalità, del dolore e della
qualità di vita nel breve e nel lungo
periodo nei pazienti affetti da
epicondilite laterale. Generalmente si
associa a terapia infiltrativa o
protocollo di esercizi.

Secondo alcuni studi sembra che i campi elettromagnetici abbiano effetto di riallineamento dal punto di vista
istologico delle fibre collagene, mentre le correnti galvaniche a bassa intensità non abbiano alcun tipo di
evidenza.
Le onde d’urto sono un tipo di energia
fisica che sfrutta mezzi di rigenerazione
idroelettrici, elettroidraulici o
piezoelettrici. Sono onde meccaniche
che interagiscono con il tessuto
sottostante (in foto viene mostrata
l’azione sul tendine di Achille) con
effetto meccanotrasduttore: l’onda
meccanica acustica va ad impattare sul
tessuto patologico inducendo
modificazioni sul tessuto stesso e
attivando citochine, determinando
quindi l’aumento della vascolarizzazione, della permeabilità dell’endotelio e la neoangiogenesi. Sono
significativamente efficaci.

N.B. la regione veneta passa un regime di convenzione nel trattamento con onde d’urto di fascite plantare e
tendinopatia calcifica della spalla; nel caso di tendinopatia achillea e tendinopatia rotulea il paziente deve
pagare la prestazione ospedaliera.

Dalle radiografie mostrate è possibile


osservare l’effettiva scomparsa delle
calcificazioni, tuttavia sarebbe improprio
definire le onde d’urto come mezzo fisico
in grado di consentire la dissoluzione dei
Sali di calcio; piuttosto inducono
modificazioni che aiutano il metabolismo
dell’organismo a riassorbire le
calcificazioni e l’effetto di guarigione è
quindi evidente.

Le onde d’urto hanno un’energia di intensità di 0,08-0,44 mJ/mm 2. Vengono eseguite 3-5 sedute ad intervalli
regolari di una settimana. In base alla macchina usata vengono eseguiti 1500-2500 colpi per sessione visibili
sul display.
Le onde d’urto vengono usate da tempo nel trattamento delle tendinopatie degli arti inferiori, dimostrandosi
particolarmente efficaci nel trattamento a breve termine della tendinopatia non inserzionale. In questo caso
possono essere usate come alternativa al laser trattamento conservativo. Vengono paragonate ad una
chirurgia a cielo chiuso, perché il loro effetto meccano-biologico (es. riassorbimento delle calcificazioni)
stimola numerosi processi riparativi, risultando efficaci soprattutto se associati a terapia riabilitativa con
protocollo eccentrico nelle tendinopatie.

N.B. le onde d’urto hanno un’efficacia straordinaria, distinguendosi da molte altre terapie fisiche (es. laser,
ultrasuoni, elettroterapie, termoterapie) che non hanno grande efficacia; naturalmente l’efficacia è
amplificata in associazione all’esercizio terapeutico.

PROTOCOLLO USATO GENERALMENTE


Es. paziente con tendinopatia achillea non inserzionale (quindi nel corpo del tendine): EO, ecografia e
trattamento con onde d’urto associato ad esercizio eccentrico; nel caso in cui le onde d’urto non siano efficaci
si passa alla terapia infiltrativa con acido ialuronico. Se c’è un quadro importante di infiammazione viene
somministrata una volta in sede peritendinea una piccola quantità di steroidi, prima di iniziare il trattamento
con onde d’urto o il trattamento infiltrativo.

Uno studio padovano guidato dal prof. Frizziero e uno studio belga confrontano l’efficacia della terapia
infiltrativa rispetto al trattamento con onde d’urto, randomizzando pazienti sottoposti a questi trattamenti
una volta la settimana per 3-4 settimane. Risulta che i due trattamenti portino agli stessi risultati, sebbene la
terapia infiltrativa abbia maggiore rapidità nell’efficacia: i risultati sono apprezzabili dopo circa 10 giorni nella
terapia infiltrativa, dopo circa 30 giorni nella terapia con onde d’urto; tuttavia passati questi 30 giorni le curve
di efficacia si sovrappongono.

N.B. le tendinopatie dei grossi tendini (tendinopatie achillea, rotulea e della cuffia dei rotatori) vengono
sempre trattate con esercizio eccentrico, associato a terapia infiltrativa o con onde d’urto.

Il medico sulla base di studi biomeccanici approfonditi fornisce istruzioni ben precise su come costruire il
plantare, indicando dove devono essere collocate le aree di scarico, dove deve essere utilizzato un certo tipo
di materiale, in quale zona deve essere sostenuto il piede, il tipo di ammortizzare sul calcagno, il modo in cui
deve essere appoggiato il calcagno e le dimensioni della volta plantare. Non esistono plantari efficaci
prefabbricati validi per tutti: è necessario costruire un plantare specifico. Il plantare non corregge in maniera
definitiva il piede piatto, ma solamente quando lo si porta.
In età pediatrica, i bambini con i piedi piatti inizialmente non vengono trattati in alcun modo; solo all’età di 6-
7 anni si valuta la possibilità del trattamento chirurgico o del plantare.

Segue una carrellata di slides riguardo al trattamento farmacologico su cui il prof. non si sofferma,
sottolineando solamente il ruolo dei FANS nelle tendinopatie, che vengono implicati unicamente nelle forme
sinovitiche.
Alessandro Carli 16-10-2019
Giacomo Ferraris Specializzando e Prof. Frizziero
Antonio Perfetto
Luca toscano

FISIATRIA

Per la prima parte della lezione non è stato possibile reperire le immagini ecografiche, ci scusiamo per il
disagio, se il Prof. ce le concederà verranno integrate in seguito.

PARTE 1: ECOGRAFIE MUSCOLOSCHELETRICHE - Specializzando


L’idea che comunemente si ha del fisiatra è più vicina alla geriatra che a quella reale, non ci si occupa infatti
solo di anziani ma anche di sportivi e persone giovani che hanno problemi di natura muscoloscheletrica,
tramite l’utilizzo di infiltrazioni o metodiche ecografiche che consentono di studiare a fondo le strutture. Qui
ha Padova la fisiatria dispone di 2 ecografi, uno portatile ed un altro fisso molto potente. È presente anche un
ecografo, utilizzato dalla Prof.ssa Del Felice in ambito neurologico per fare infiltrazioni di tossina botulinica
ecoguidate, per trattare la spasticità. Lo specializzando dice inoltre che, eccezion fatta per le nozioni
principali, non ci verrà chiesto in dettaglio l’aspetto ecografico di ogni singola lesione che ci descriverà.

In fisiatria si utilizza moltissimo l’ecografo: è utile in medicina fisica e riabilitativa, integra l’esame obiettivo e
quindi contribuisce in maniera significativa alla diagnosi e al trattamento di diversi disturbi muscoloscheletrici
(tendinopatie, problemi muscolari, ecc), stati infiammatori e patologie reumatiche. L’aspetto che differenzia
l’indagine ecografica del medico fisiatra dal medico radiologo ecografista è che il fisiatra utilizza, assieme
all’imaging, una semeiologia muscoloscheletrica con tutta una serie di segni e test clinici propri della
patologia muscoloscheletrica: quindi un vero e proprio EO ortopedico. Questi test mostrano determinate
patologie che poi vengono avvalorate dalla ecografia. Dal punto di vista del referto clinico: il fisiatra utilizza
l’ecografo come uno strumento per avvalorare ciò che l’EO ha rivelato, spesso invece il referto vero e proprio
è appannaggio del radiologo (che può essere interpellato anche qualora vi sia una eco particolarmente
complicata in cui vi sono da valutare con precisione alcune caratteristiche).
Come metodica presenta alcuni aspetti positivi ed altri negativi:
 VANTAGGI:
o Non invasiva
o Ripetibile
o Poco costosa, portatile e facilmente eseguibile
o Non espone a radiazioni
o Diagnostica molto buona in mani esperte. Sono stati fatti molti studi di confronto tra Eco
muscoloscheletrica e RMN in patologie come tendinopatia di cuffia dei rotatori e lesioni
muscolari: chiaramente il confronto è a vantaggio dell’ecografia che nel complesso è più
utile, la risonanza viene eventualmente utilizzata in seconda linea.
o Si può utilizzare facilmente in laboratorio e in maniera ravvicinata per fare confronti, per
valutare gli esiti del trattamento
o Si possono eseguire studi dinamici per tendini e muscoli, in cui si chiede al paziente di
contrarre il muscolo per valutare la situazione ecograficamente
oSi può valutare la vascolarizzazione dei tessuti in situazioni infiammatorie e neoplastiche. Vi
sono situazioni in cui il quadro non è chiaro: si vedono componenti corpuscolate all’interno
dell’ eco e il fisiatra a questo punto richiede esami di secondo livello (RMN, biopsia, ecc)
o Valutazione della biomeccanica e della elasticità dei tessuti tramite elastosonografia.
 SVANTAGGI:
o È operatore dipendente

NB: importante è la pratica di fare confronti ‘in diretta’ bilaterali, cioè tra la zona lesionata e quella
controlaterale sana, per consentire di valutare al meglio la situazione patologica anche in rapporto a quella
che è la costituzione dell’individuo.

Durante le fasi di valutazione della eco quindi:


1. Si possono utilizzare sia scansioni longitudinali che trasversali
2. Si va a confrontare il lato sano con il lato patologico
3. La valutazione consta di:
a. Studio della struttura
b. Forma e dimensioni
c. Ecogenicità (ogni tessuto ha un suo specifico grado di ecogenicità)
d. Valutazione con il Doppler per valutare la vascolarizzazzione

In ambito riabilitativo il fisiatra si occupa soprattutto di tessuti molli: tendini (tendinopatie), entesi (ovvero la
giunzione tra tendini e osso nei siti di inserzione, in questa sede si sviluppano le entesopatie), borse (borsiti),
lesioni muscolari (quasi sempre il trattamento è conservativo, quindi per definizione competenza del fisiatra),
patologie articolari, neuropatie da compressione o lesioni legamentose superficiali.

LESIONI TENDINEE A TUTTO SPESSORE


 Segni diretti:
o Tendine non visualizzabile in corrispondenza della lesione, appare discontinuo con una area
ipoecogena che si estende su tutto lo spessore del tendine
o Perdita di sostanza del tendine
o Margini della lesione visibili

 Segni indiretti:
o Segno dell’interfaccia cartilaginea (normalmente è una striscia anecogena, in questo caso vi è
una sottile linea iperecogena in corrispondenza della superficie della cartilagine articolare
dovuta a sostituzione fluida del tendine)
o Atrofia muscolare: spesso viene comparata l’area lesionata con quella sana in contiguità alla
lesione
o Irregolarità della corticale ossea nelle tendinopatie/entesopatie croniche, per uno stato
infiammatorio protratto nel tempo
o Distensione fluida anecogena delle borse e delle guaine: queste spesso e volentieri non sono
visibili all’ecografia, ma lo sono se infiammate e piene di liquido, in quanto si distendono e
diventano ripiene di questo materiale anecogeno.

[Img]: tendine del sovraspinato: questo è il tendine più utilizzato negli sportivi che compiono movimenti over-
head, ovvero sopra la testa (sport di lancio in cui il braccio è alto, ruotato ed abdotto). In questo caso il
tendine va a confliggere con lo spazio sub-acromiale biomeccanicamente. In questa eco possiamo vedere una
lesione parziale in prossimità della inserzione (pre-inserzionale): è questa sottile linea nera ipoecogena al
centro dell’immagine. Si valuta dimensione anteroposteriore e laterolaterale della lesione tendinea e si può
effettuare una diagnosi più precisa avvalorando i test clinici che si sono fatti in ambulatorio. La eco è utile
quindi per impostare una terapia e per valutare la prognosi. Spesso le lesioni del sovraspinato, se
traumatiche, si associano a distensione della borsa e quindi non sono quasi mai isolate.

[Img]: lesione completa inserzionale del sovraspinoso: l’area anecogena in questo caso è una vera e propria
degenerazione del tendine. È importante utilizzare la sonda ecografica in diverse proiezioni, per studiare
tutto lo spessore ed evitare artefatti da angiotropia (in questo caso gli ultrasuoni generati dal trasduttore
vanno a interfacciarsi con il tendine non perpendicolarmente ma in maniera obliqua, questo genera dei
segnali ecografici artefattuali che potrebbero far descrivere delle aree come lesioni che non esistono). Ecco
perché la clinica rimane così importante: bisogna sempre associare il dato ecografico (che comunque è una
ricostruzione computerizzata che può avere degli errori) a quella che è la sintomatologia del paziente.

TENOSINOVITI
Infiammazioni dei tendini delle piccole articolazioni.
Principali aspetti ecografici:
- Abnorme quantità di versamento liquido nella guaina tendinea in fase acuta
- Alterazione del normale pattern fibrillare del tendine in fase cronica
- Il Powerdoppler (che è una funzione che mette in luce le caratteristiche vascolari del distretto e
consente di vedere eventuali alterazioni infiammatorie) risulta patologico

[Img]: tenosinovite in tibiale anteriore: la struttura muscolare è la striscia longitudinale che si vede
superiormente, si vede sotto l’osso corticale della tibia. Il power doppler mostra delle alterazioni
infiammatore vascolari con persistenza. In questo caso si parla di tenosinovite perché il fascio muscolare e
tendineo è conservato, ma all’interno della guaina che lo riveste si vede infiammazione ed in alcuni punti
anche in sede più profonda.
NB: l’ecografia è una indagine dinamica, vista in una immagine singola non ci dà la completezza di
informazione che ci dà muovendo la sonda e valutando le alterazioni al momento dell’esame. Ecco perché si
tratta di una metodica operatore dipendente.

TENDINOSI
È un processo cronico degenerativo, si può vedere:
- Inspessimento del tendine
- Perdita della normale composizione fibrillare
- Aree ipoecogene intertendinee di lesione
- Deposito di sostanza mucoide fibrillare degenerata
- Aree ipoecogene extratendinee per accumulo di edema
- Calcificazioni focali per cambio di metabolismo o tensione
- Iperemia da neovascolarizzazione dimostrabile al power doppler

[Img]: tendinosi achillea in longitudinale, il tendine è quella stria ipoecogena in alto con una struttura
fibrillare abbastanza disorganizzata ed inspessita (si va a valutare lo spessore del tendine, si può apprezzare
gonfiore, una tumefazione, un dolore anche solo appoggiando la sonda). Vi è anche una modesta
peritenonite in sede centrale, si può vedere un ispessimento e degenerazione delle fibre che non sono troppo
orientate. Sono presenti degli spot ipoecogeni nel centro del tendine (come se ci fossero die buchetti di
degenerazione all’interno del tendine).

[Img]: tendine sottoscapolare tendinosico: altra sede importante di spot calcifici, soprattutto nelle donne di
mezza età. Questa eco mostra in sede pre-inserzionale degli spot calcifici ben visibili, generalmente le
calcificazioni hanno un cono d’ombra, tuttavia non si vede sempre ma dipende da come è orientata la sonda.
È un processo che avviene lentamente all’interno dei tendini per un cambio del metabolismo tissutale, a volte
con meccanismi patogenetici non del tutto chiariti (non vi è dubbio che gli squilibri metabolici od ormonali
abbiano un peso su questi processi). Oltre alla calcificazione si apprezza un aspetto un po’ tendinosico, spesso
questo dato va correlato con il controlaterale per fare un confronto. Le calcificazioni hanno un processo di
nascita, crescita e risoluzione. Nella fase colliquativa, che sarebbe la fase di riassorbimento della
calcificazione all’interno del tendine, si può apprezzare un’area ipoecogena (si possono notare all’interno
delle piccole aree iperecogene ancora cristallizzate) che poi lascia spazio a un vero e proprio buco nel
tendine.

TENDINOPATIE
Caratteristiche ecografiche:
- Aumento della ecogenicità
- Aumento dei cuscinetti adiposi limitrofi (corpo adiposo di Hoffa nel ginocchio o corpo adiposo nel
tendine achilleo di Kager, entrambe zone tendinee sottoposte ad importanti forze di carico): questi
cuscinetti se sottoposti ad importanti stress meccanici aumentano la loro attività metabolica 
aumento della ecogenicità
- Processi infiammatori a carico di questi cuscinetti adiposi
- Inspessimento ed ipoecogenicità del paratenonio (rivestimento esterno del tendine)
- Presenza di fluido nel paratenonio (paratenoinite)
- Aumento del fluido nelle borse limitrofe
- Inspessimento isoecogeno dei tessuti molli e fluido ipoecogeno che circonda il tendine

Se noi pensiamo al processo, la tendinopatia è un processo progressivo da sovraccarico, sono tendini che non
lavorano bene e sono sottoposti a stress e force eccessive rispetto a quelle usuali. Tutti gli aspetti
degenerativi che vediamo li potremmo vedere quindi non solo nel tendine ma anche nei tessuti limitrofi.
Quindi i tessuti molli e guaine sono sofferenti ed ipoecogeni, possiamo osservare borsite e tutta una serie di
processi e caratteristiche ecografiche che indicano sofferenza muscolare.

[Img]: peritenonite al tendine di Achille: vediamo che non c’è infiammazione interna al tendine (altrimenti
sarebbe una tendinite), non c’è inspessimento e degenerazione intratendinea ma il danno si concentra sulla
fascia che avvolge al tendine. Si utilizza il power doppler per vedere l’infiammazione, che in questo caso è
presente anche all’interno del triangolo di Kager.

Lo specializzando ricorda che tali descrizioni così dettagliate non saranno argomento di esame: l’importante è
avere ben chiara la distinzione tra i vari quadri ma non verranno richiesti approfonditamente gli aspetti
ecografici di ogni singola variante patologica.
ENTESOPATIE
Sono delle infiammazioni a carico delle entesi (della inserzione tra tendine ed osso) e sono caratterizzate da:
- Inspessimento fusiforme ed irregolare
- Perdita della normale conformazione fibrillare
- Lesioni parziali
- Calcificazioni (entesofiti)
- Edema peritendineo
- Erosioni ossee subentesiche: correlate al grado di cronicità
- Inspessimento della sinovia e della borsa
- Endovascolarizzazione del tendine al power doppler: si possono trovare dei quadri simil-reumatologici
(in cui spesso è presente coinvolgimento delle entesi)  importante indagare bene con la anamnesi la
familiarità e i sintomi che potrebbero essere spia di una affezione reumatologica sottostante. Si devono
andare a valutare questi pazienti quindi sia dal punto di vista clinico sia da quello ecografico.

[Img]: si vede positività al power doppler in regione inserzionale dei tendini della zampa d’oca, che vanno ad
inserirsi sulla tuberosità tibiale mediale. In questo caso si possono notare delle irregolarità fibrillari della
struttura tendinea (il tendine microscopicamente è costituito da delle fibrille orientate organizzate in
fascicoli, quando questi sono disorganizzati ed ondulati danno questo aspetto ecografico leggermente diverso
dal normale). Questo tipo di entesopatia è spesso correlata a turbe dell’assetto meccanico degli arti inferiori:
ad esempio chi ha un ginocchio valgo ha uno stress tensivo maggiore nel comparto mediale e uno stress da
sovraccarico nel comparto laterale. I tendini della zampa d’oca sono dei flessori ischiocrurali del ginocchio, se
c’è una conformazione anatomica errata come nel ginocchio valgo possono andare incontro a stress tensivo
eccessivo.

BORSITI
Sono stati infiammatori delle borse sierose, che normalmente non sono visibili all’esame ecografico, in
quanto non sono ripiene di liquido che fa da contrasto con il tessuto limitrofo.
Le borse sono posizionate tra i tendini le ossa, al fine di promuovere lo scorrimento tra queste strutture.
Generalmente non sono ripiene di liquido, se c’è una anomalia di scorrimento dei tendini o di sovraccarico
tendineo, alterazioni posturali o biomeccaniche queste possono andare incontro a fenomeni infiammatori.
Possono essere colpite anche da episodi infettivi e risultare distese.
All’ecografia quindi vedremo:
- Una struttura anecogena piena di fluido con una parete iperecogena

NB: Normalmente per diagnosticare una borsite è comunque sempre sufficiente anche il solo esame obiettivo
clinico.

[Img]: borsite olecranica: può essere post-raumatica, reumatica o post-infettiva. L’aspetto ecografico mostra
una borsa un po’ lobulata e multisettata (si vedono dei setti fibroblastici che separano la borsa in zone)
perché vi è organizzazione dell’essudato infiammatorio all’interno della borsa. Al power doppler si vede
questo aspetto ‘acceso e colorato’, molto tipico, che indica neovascolarizzazione.

[Img]: borsite infettiva prerotulea: si vede questa borsa (la forma è triangolare perché l’immagine è stata
presa di lato e non si vede la borsa nella sua interezza) ripiena di liquido anecogeno con frustoli iperecogeni
con associato stato flogistico di cellule infiammatorie e necrotizzate. La eziologia infettiva in questo caso si
ricava dalla coesione del dato clinico e dalla storia con l’immagine ecografica: se avessi solo la immagine
difficilmente potrei risalire con certezza alla eziologia.
[Img]: borsite sub-acromiale (la regione sub-acromiale si trova sotto il deltoide) con inspessimento delle
pareti. Questa patologia è la più frequente riscontrabile nella regione della spalla. Si può vedere
nell’immagine il profilo omerale, il tendine sovraspinoso con una sottile striscia ipoecogena che rappresenta
la borsa subacromiale, sopra si nota il muscolo deltoide. Vediamo un inspessimento delle pareti, che sono
quelle strisce iperecogene che delimitano una striscia nera all’interno dove è presente liquido infiammatorio.

LESIONI MUSCOLARI
Lo specializzando ci informa che sono spesso argomento di esame e ci raccomanda di prestare particolare
attenzione alla classificazione ed al trattamento in quanto il Prof. Frizziero ha contribuito alla stesura delle
lineee guida.
In ambito ospedaliero non sono così tanto frequenti e se vengono diagnosticate clinicamente ed individuate
dal punto di vista ecografico in un timing abbastanza specifico si curano bene. Spesso purtroppo le lesioni
muscolari diventano misconosciute, ad esempio molti atleti dopo aver sentito una fitta a livello muscolare
facendo attività fisica continuano anche nei giorni successivi fino ad arrivare dal fisiatra con plurime lesioni.
Le lesioni muscolari possono essere distinte in:

 Dirette
Sono le contusioni e le lacerazioni. L’ecografia permette di rivelare la sede, l’estensione della lesione, il
tempo intercorso e la possibile evoluzione emorragica. Spesso nelle lesioni dirette da contusione vi è uno
stravaso emorragico visibile con edema e/o ecchimosi a livello cutaneo. Le contusioni lievi dal punto di
vista ecografico danno un riferimento focale con un’area circoscritta isoecogena la quale è circondata da
muscolo non danneggiato con un aspetto normale. Invece nelle contusioni più gravi si vedono ematomi
ipoecogeni o iperecogeni nelle prime 24h che diventano sempre più ipoecogeni e disomogenei e si
risolvono con un esito cicatriziale. Se le lesioni rimangono misconosciute si ha un’evoluzione verso un
tessuto fibrotico il quale non è un tessuto elastico ed espandibile, per cui i fasci muscolari scorreranno in
maniera diversa comportando in caso di continua attività sportiva una nuova lesione muscolare sopra o
sotto lesionale.

 Indirette
Nelle lesioni di tipo 1 e 2 il muscolo ha un aspetto normale e può anche non essere vista la lesione dal
punto di vista ecografico, ci possono essere aree ipoecogene o iperecogene e presenza di fluido
perifasciale. Bisogna essere dei bravi ecografisti per distinguere il tipo 1 e il tipo 2 perché sono lesioni non
strutturali e sono molto variabili a livello ecografico. Le lesioni di tipo 3 e 4 invece sono lesioni strutturali.
Le lesioni di tipo 3 mostrano un’area iperecogena che diventa poi disomogenea ed un’area anecogena
all’interno. Le lesioni di tipo 4 sono lesioni subtotali con completa distruzione del muscolo, con un
importante stravaso ematico, possibile rottura osteotendinea ed in certi casi hanno bisogno di un
intervento chirurgico.

Immagine 1: in questo caso si vede una lesione muscolare che è stata trattata male perché in profondità
vedete una fascia che fino alla stria iperecogena è un muscolo normale ma poi vedete questa stria
ipoecogena circondata da due striscie iperecogene che sono un agglomerato di fibrina. L’area ipoecogena è
una raccolta saccata molto probabilmente ematica. Il muscolo non riesce più ad avere la stessa funzionalità di
prima ed il trattamento sarà si sulla lesione muscolare ma in particolare sulla complicanza della lesione
muscolare per cui il trattamento sarà più difficile e più lungo.
Immagine 2: in questo caso viene utilizzata una sonda Convex la quale è un tipo di sonda usata molto nei
reparti di medicina interna e si usa in generale per vedere tessuti in profondità. Si vede la gamba destra con
un versamento ematico, il paziente è emofilico, sono presenti sedimenti all’interno dovuti alla coagulazione
ed alla riorganizzazione del versamento.

Immagine 3: qui si vedono i tralci fibrosi ed un versamento ematico con le stesse caratteristiche del
versamento visto precedentemente.

Immagine 4: qui si nota una raccolta saccata dal contenuto verosimilmente sieroematico in quanto con
l’ecografia è difficile dare valutazioni certe sul contenuto di queste raccolte.

Immagine 5: si vede in questo caso dopo un timing non ben definito una massiva cicatrice fibrosa a livello dei
muscoli gemelli in sede perifasciale.

PATOLOGIA ARTICOLARE

1. Artrosi
Per l’artrosi l’ecografia non è l’esame di prima scelta ma riveste un ruolo importante perché si può
studiare:
 il restringimento dello spazio articolare,
 perdita dei contorni netti,
 lo stato infiammatorio,
 il versamento
 lo stato in generale dell’articolazione e dei tessuti attorno ad essa
 la perdita di cartilagine la quale si nota come una sottile struttura ipoecogena.
 aspetti degenerativi articolari come gli osteofiti
 le formazioni cistiche subcondrali le quali sono una raccolta fluida che causa inoltre l’aumento del
segnale doppler.
Spesso nell’osteoartrite caratteristica dell’artrosi vi è uno stato infiammatorio non solo a livello
dell’articolazione ma anche nella componente connettivale attorno all’articolazione.

Immagine 1: una delle più frequenti sedi di artrosi che insorge nei pazienti anziani è a livello dell’articolazione
trapezio-metacarpale ed in questo caso si vede uno spazio articolare con le due corticali dell’osso
rappresentate da queste due strisce iperecogene, lo spazio anecogeno nel mezzo è l’articolazione. La capsula
è distesa e fra le due articolazioni è visibile un legamento teso ma la capsula è formata da tessuto
membranoso per cui non dovrebbe essere così distesa con questa presenza di liquido quindi questo stato è
indice di un’artrosi in uno stato attivo.

2. Traumatismi
Nelle articolazioni che vengono valutate a seguito di traumatismi ci possono essere sublussazioni, lussazioni
o dislocazioni. Aspetti tipici di queste lesioni sono l’edema dei tessuti molli e l’aumento della distanza fra i
capi articolari.
Immagine 2: le sublussazioni si possono vedere spesso a livello dell’articolazione acromion-claveare: essa è
frequentemente interessata da traumatismi da caduta perché viene messo il braccio in protezione del
corpo/volto e l’energia del colpo va a livello dell’articolazione che si smussa. Ci sono sei gradi di sublussazione
ed in particolare qua è presente una sublussazione di grado minore con visibili alterazioni dei profili della
componente acromion-claveare, la capsula è distesa e rigonfia di liquido e presenza di uno stato infiltrativo
intraarticolare.

Immagine 3: la cisti di Baker è un’estroflessione della membrana sinoviale del ginocchio in sede posteriore
(poplitea) spesso dovuta a fenomeni artrogeni e frequentemente si associa ad una discopatia del menisco
mediale. Quest’ultimo causa un alterato assetto meccanico a livello del ginocchio con un conseguente
sovraccarico muscolare in particolare della componente mediale. A livello articolare vi è un versamento di
liquido sinoviale nello spazio di minore resistenza che è proprio il cavo popliteo. Si vede questa cisti che è
circoscritta e ripiena di liquido. Il trattamento della cisti di Baker non ha linee guida vere e proprie, spesso si
punge, si aspira, si fa un bendaggio allo scopo di tamponare, si può in casi gravi infiltrare con del cortisone,
spesso se non si risolve la causa primaria che è uno stato degenerativo dell’articolazione si ha una recidiva e
si riforma.

NEUROPATIE DA COMPRESSIONE
La sintomatologia e la clinica guidano la diagnosi; i segni ecografici che indicano una neuropatia da
compressione sono:
 incurvamento del retinacolo
 appiattimento del nervo distalmente al retinacolo
 allargamento della parte del nervo prossimale al retinacolo
 deformazione del nervo
 appiattimento o ipertrofia delle fibre
Immagine 1: questa è una sindrome del tunnel carpale dove è visibile il nervo mediano sotto al legamento
trasverso del carpo con una falda liquida infiammatoria. Nel mezzo è presente il nervo mediano tondeggiante
con un aspetto “stellato” ipo ed iperecogeno circolare preso in posizione trasversale. Sopra di esso c’è il
legamento trasverso del carpo e sotto invece un’area anecogena nera che è la falda liquida.

Immagine 2: qua è rappresentata la sezione longitudinale dello stesso nervo dove si vede il nervo in tutta la
sua lunghezza ed è utile per escludere problematiche di tipo lesivo. Si può notare il nervo nella sua interezza,
è continuo e si notano molto bene le fibre ipo-iperecogene continue del nervo ma sopra e sotto ci sono
queste zone ipoecogene dove il liquido infiammatorio appare un po’organizzato.

LESIONI LEGAMENTOSE
In queste lesioni la clinica è molto evidente ma l’ecografia ci può aiutare in particolare a livello della caviglia
dove è fondamentale l’ecografia per l’iter diagnostico. Il reperto ecografico comprende perdita di parte della
componente fibrillare con formazioni di aree ipoecogene ma ci possono anche essere lesioni a tutto spessore
in prossimità dell’inserzione dei legamenti. A livello caviglia possono essere coinvolti tre particolari legamenti
che conferiscono stabilità nella componente laterale dell’articolazione e sono: il legamento peroneo-
astragale anteriore, il legamento peroneo-calcaneale ed il legamento peroneo-astragale posteriore. Vi è una
classificazione nella quale si possono dividere le distorsioni della caviglia in tre gradi:
 primo grado: lesione del peroneo-astragale anteriore
 secondo grado: lesione del peroneo-astragale anteriore e del peroneo-calcaneale
 terzo grado: lesione del peroneo-astragale anteriore, del peroneo-calcaneale e del peroneo-astragale
posteriore.
Immagine 1: il legamento maggiormente coinvolto nella distorsione alla caviglia è il peroneo-astragale
anteriore. Si nota l’articolazione fra la tibia e la componente astragalica con le due componenti corticali ossee
che si interfacciano con uno spazio anecogeno al suo interno. Dovrebbe vedersi un fascio teso all’ecografia
che sarebbe il legamento peroneo-astragale anteriore ma a causa della lesione non è più visibile e
l’articolazione non dovrebbe essere così distesa con questo aspetto anecogeno che si espande
eccessivamente. Si possono inoltre vedere i due monconi e forse accenni delle fibre del legamento
danneggiato.

CONCLUSIONI
L’ecografia è utile per avvalorare o confutare un sospetto clinico, è un efficace strumento clinico di imaging
soprattutto per particolari lesioni, ha un rapporto costo-beneficio ottimale, ci si può confrontare fra colleghi
ed è fondamentale per le manovre infiltrative ecoguidate. Nelle infiltrazioni al ginocchio si cercano degli
accessi anatomici o soft point come lateralmente al tendine rotuleo, inferiormente alla rotula o
superiormente all’accesso quadribicipitale. Il ginocchio è un’articolazione tutto sommato facile da infiltrare
anche senza guida ecografica ma diversi studi confermano che è più sicura un’infiltrazione sotto guida
ecografica che solamente per guida anatomica ed inoltre vi è un miglioramento dei sintomi e dell’outcome di
ripresa funzionale. Hanno fatto anche studi sulla spalla che affermano che effettuando infiltrazioni a livello
della spalla senza ecoguida, l’infiltrazione va a buon fine solo nel 60% dei casi. Quindi l’utilizzo dell’ecoguida è
indicato specialmente alla spalla perché ogni conformazione anatomica è diversa.

PARTE 2: LESIONI MUSCOLARI – Prof. Frizziero

Si tratta di lesioni a carico del muscolo, molto frequenti nell’attività sportiva (circa il 55% degli infortuni).
Interessano particolarmente alcuni gruppi muscolari dell’arto inferiore, tra cui muscoli ischio-crurali,
adduttori, tricipite della sura e quadricipite femorale. Nonostante siano lesioni frequenti, le pratiche di
trattamento e classificazione non erano codificate in maniera chiara.
Quando si pratica attività sportiva di qualsiasi genere a livello agonistico è molto difficile venire a contatto con
medici: è già tanto la presenza di un fisioterapista. Tutto ciò è concettualmente sbagliato, dal momento che la
diagnosi è una competenza medica, mentre il fisioterapista può essere solo il “braccio operativo” del fisiatra
o del medico dello sport.
Tutti i trattamenti che venivano eseguiti erano fondati sull’assenza di evidenze scientifiche: questi
comprendevano il riposo, massaggi, il calore, il freddo, gli ultrasuoni, laser, ecc. Si tratta comunque di una
metodologia incongrua.
Solo nel 2012 è stata ideata una classificazione su criteri esclusivamente radiologici, grazie al professor
Maffulli che si basò su risonanza ed ecografia. Nel 2013 un gruppo tedesco ha proposto un consensus
internazionale: arrivarono ad una classificazione che era molto laboriosa e difficile da ricordare, specie
quando la lesione avviene sul campo e bisogna decidere rapidamente. Nel 2014 la società italiana di fisiatria
ha pubblicato una nuova classificazione che comprendeva i pregi delle due precedenti, rendendo però il tutto
facile e comprensibile.

CLASSIFICAZIONE DELLE LESIONI MUSCOLARI


Il trauma determina il tipo di lesione, ovvero come la lesione viene distinta. I traumi si suddividono in diretti e
indiretti.

- Il diretto è quando ad esempio il calciatore prende una ginocchiata al centro del quadricipite.
In particolare, si parla di contusione quando il trauma è diretto ma non c’è lesione della cute .
Se invece il trauma diretto comporta lesione della cute si parla di lacerazione.

- Un trauma è indiretto quando ad esempio si fa uno scatto e ci si strappa: non c’è stato alcun tipo di
contatto ma si va comunque incontro ad una lesione.

TRAUMI DIRETTI

1) CONTUSIONE: trauma diretto che provoca ematoma circoscritto o diffuso e causa dolore e
riduzione del ROM (range of motion) dell’articolazione corrispondente al movimento di quel
muscolo. Se la contusione riguarda il quadricipite l’articolazione coinvolta sarà il ginocchio oppure
l’anca nel caso di coinvolgimento del retto anteriore. Il retto femorale differisce dai vasti in quanto è
un muscolo biarticolare: da un lato è estensore del ginocchio, ma dall’altro è un flessore dell’anca e ha
anche un ruolo da antagonista.
Si distinguono:
- Contusione lieve, quando il range di movimento dell’articolazione corrispondente è superiore alla
metà. Se ad esempio il ginocchio ha un ROM normale da 0 a 150°, la contusione lieve consentirà
un ROM superiore ai 75°.
- Contusione moderata, quando il ROM è compreso ½ e 1/3 di quello fisiologico.
- Contusione severa, se il ROM risulta inferiore ad 1/3 del normale.

L’articolarità si può valutare solo dopo 24 ore per via del condizionamento della sintomatologia dolorosa.

Si esegue anche un esame ecografico con le stesse tempistiche per individuare un sanguinamento
intrafasciale, con rischio di sindrome compartimentale: l’accumulo di sangue nei compartimenti
interstiziali può dare compressione di vasi e nervi, fino alla necrosi periferica nel giro di 36/48 ore.

2) LACERAZIONE: trauma diretto che provoca lesione da taglio a diversi gradi di profondità e non
prevede una classificazione in sottogruppi. Si possono riscontrare lesioni poco estese che però ledono
strutture vitali come l’arteria femorale, andando quindi a scaturire situazioni gravi con emergenza di
trattamento. Oppure lesioni di grandi dimensioni che non colpiscono strutture sensibili.

TRAUMI INDIRETTI

I traumi indiretti si suddividono in strutturali e non strutturali.


- Infortuni non strutturali: sono quelli che non prevedono una rottura del tessuto, ma solamente la sua
sofferenza.
- Infortuni strutturali: sono invece caratterizzati dal danno della struttura in questione.

Infortuni non strutturali


Gli infortuni non strutturali sono quelli più frequenti, non presentano lesioni evidenti e causano la maggior
parte (70%) degli infortuni sportivi. Se non vengono riconosciuti per tempo e trattati a riposo possono
facilmente esitare in danno strutturale. Si ha un tessuto che è sofferente e può dare degli esiti. Nello specifico
si suddividono in due gruppi:
1) Disordine muscolare correlato al sovraffaticamento.
A) Indotti da fatica: dovuti cioè a fatica generica, ad esempio per modificazione nei programmi di
allenamento e del terreno di gioco.
B) DOMS (delayed onset muscle soreness): un indolenzimento ad insorgenza ritardata da
prolungata attività eccentrica. Quindi se si effettua un’attività di questo tipo, dopo 24/36 ore si
svilupperanno delle microlacerazioni dovute appunto all’allungamento del tessuto, ad esempio
eseguendo degli squat o con una camminata in montagna in discesa. (NB: Non è l’acido lattico
che causa i dolori il giorno dopo il movimento!!)

2) Disordini neuro-muscolari.
A) Da disordini a carico della colonna vertebrale (DIM): Per comprendere questo tipo il prof.
suggerisce di pensare all’albero di una nave. Questo viene tenuto stabile tramite dei tiranti che
sono simmetrici a destra e sinistra e lo mantengono fisso. Allentando uno dei cavi l’albero in
caso di perturbazione vacilla e potrebbe rompersi. Si può fare un discorso analogo per la colonna
vertebrale, solo che è formata da metameri mantenuti in una stabilità strutturale, in cui se questa
manca per vari motivi (come contrattura muscolare o affaticamento) si può avere irritazione della
radice nervosa che fuoriesce dal forame. Quando però la richiesta funzionale del distretto
innervato è elevata, la radice non trasmette con la stessa velocità con cui trasmetterebbe se non ci
fosse il problema e il movimento non riesce ad essere eseguito con perfetta corrispondenza con
quella che è l’immaginazione del movimento e la forza che il soggetto vorrebbe, dato che il
segnale arriva con tempistica che non è corretta. Lo sportivo si accorge infatti che gli stessi
muscoli tra i due lati del corpo sono diversi tra loro. Il tipo 2A è quindi una sofferenza estrinseca
al muscolo stesso.
B) Sbilanciamento del controllo neuromuscolare: Invece il tipo 2B viene definito come uno
sbilanciamento dei sistemi di controllo neuro-motori a livello periferico: c’è un ritardo della
contrazione del muscolo per una causa periferica. Basta anche una condizione di affaticamento
per determinare un 2B, oppure una riduzione degli elettroliti e altre situazioni.

Infortuni strutturali
Gli infortuni strutturali sono invece infortuni indiretti in cui c’è danno alla struttura (da slide: lesione parziale
o totale di un muscolo con dolore localizzato alla sede precisa o ad un’area corrispondente alla sede di
infortunio). Si dividono in:
3) Lesioni parziali.
A) Lesione muscolare parziale minore: uno o più fasci primari nel contesto di un unico fascio
secondario (quindi se la lesione interessa più di un fascio secondario NON è una 3A);
B) Lesione muscolare parziale moderata: almeno un fascio secondario e < del 50% del ventre
muscolare (importante per distinguerla dalle tipo 4).

4) Lesioni muscolari subtotali o totali: vanno a coinvolgere più del 50% del muscolo: in questo caso si
definiscono lesioni sub-totali a meno che non coinvolgano tutto il muscolo ( lesioni totali).
Includiamo in questo gruppo anche le avulsioni, che sono il distacco della sede ossea dove si va ad
inserire il tendine. È una lesione molto grave con prognosi molto lunga.

Le lesioni muscolari si possono inoltre classificare in base alla loro localizzazione in:
- Prossimale
- Mediale
- Distale.
Ad esempio, una lesione 3BP indica una lesione da trauma indiretto di tipo strutturale che interessa
almeno un fascio secondario ma meno del 50% del ventre muscolare, a livello prossimale del muscolo.
In base alla sede c’è anche una incidenza differente a carattere epidemiologico: le prossimali sono molto
frequenti nel retto femorale mentre le distali sono più frequenti nel bicipite femorale.
Queste differenze si riscontrano per via di questioni biomeccaniche. Nel caso del bicipite femorale i due
ventri muscolari hanno innervazioni diverse: il capo lungo è innervato dal n. tibiale, mentre il capo breve
dal n. peroniero comune. Nel caso in cui si dovesse verificare un DIM (disturbo intervertebrale minore) a
carico di L4, si può avere una rallentata informazione per attivare il capo breve mentre il capo lungo è più
veloce ad attivarsi. Una diversa attivazione di contrazione del muscolo fa in modo che ci sia uno
sbilanciamento, in quanto il muscolo che si attiva per primo per un breve lasso di tempo deve prendere il
carico di quello che si attiva in ritardo.
Inoltre, sempre in base alla sede, negli ischio-crurali e nel retto femorale la prognosi è peggiore per le
lesioni prossimali, invece nel tricipite surale la prognosi è peggiore per le lesioni distali in quanto queste
sono a carico della sede di congiunzione tra tendine e muscolo. Si è infatti osservato che dal punto di
vista biomeccanico esistono cordoni tendinei che si sviluppano all’interno del muscolo e che anche se
sono intramurali possono avere prognosi analoga a quella delle lesioni miotendinee anche se di fatto non
rappresentano una lesione della giunzione miotendinea.

MECCANISMO DI LESIONE
Come si vengono a creare queste lesioni di tipo 3? La lesione muscolare avviene quando le miofibrille
sono esposte a eccessive forze di stiramento intrinseco, cioè durante una concentrazione eccentrica: non
si avrà mai una lesione muscolare durante una contrazione concentrica, cioè in accorciamento, ma solo
durante una contrazione eccentrica, cioè con il muscolo in allungamento. A determinare la lesione potrà
essere o una singola contrazione muscolare importante, oppure l’effetto cumulativo di più contrazioni, in
una situazione di affaticamento. Sebbene questo avvenga prevalentemente durante contrazioni di tipo
eccentrico, può accadere anche che il muscolo sia già sofferente per diverse contrazioni concentriche, a
questo punto arriva un’improvvisa contrazione eccentrica che causa la lesione.
Questo importantissimo grafico (a sinistra)
mostra come avviene la riparazione della
lesione muscolare. Da questo grafico si evince
che se si immobilizza una lesione muscolare
per due o tre settimane si condiziona in
maniera irreversibile la riparazione di quel
muscolo, che avverrà non con tessuto
muscolare ma con tessuto fibroso, cioè il
buco lasciato dalla lesione verrà riempito da
tessuto fibroso.
Questo succede per vari motivi, ma il più
importante è che il muscolo per riparare una sua lesione in senso muscolare deve fornire alle cellule
mesenchimali staminali provenienti dal sangue e che vanno a depositarsi sui margini della lesione degli
stimoli elettrici di contrazione delle fibre per riconoscere la strada riparativa che queste cellule devono
intraprendere, come una guida. Se le cellule capiscono che sono in un determinato ambiente allora si
differenziano nell’istotipo muscolare, se non sentono niente o si trovano in un tessuto che non dà stimoli,
allora daranno tessuto cicatriziale per riempire il vuoto lasciato dalla lesione, diventando fibroblasti.
Queste cellule mesenchimali infatti possono dare tutti i tipi cellulari dell’apparato muscoloscheletrico, tra
cui sia fibre muscolari sia fibroblasti, il loro differenziamento dipende dagli stimoli che ricevono nella
sede della lesione. Questo stimolo deve avvenire entro le prime 2 settimane, altrimenti si forma fibrosi.
Ovviamente più grande è la lesione e più grande sarà la cicatrice, cioè tessuto inerte che non si contrae e
non genera movimento.
Quindi in riabilitazione il muscolo leso va stimolato il prima possibile, non appena passa il dolore causato
dalla lesione (in genere dopo 2-3 giorni) deve iniziare la stimolazione! Il programma terapeutico deve
rispettare questi tempi biologici, generando adeguati stimoli meccanici utili al corretto riadattamento e al
rimodellamento del tessuto di riparazione. Per questo motivo il paziente con una lesione muscolare in PS
non va immobilizzato, perché si causa un grande danno, perseguibile anche da un punto di vista medico-
legale. Questa viene considerata un’urgenza riabilitativa perché gli stimoli necessari al recupero si
possono fornire solo entro un certo limite di tempo.

TIMING DI RECUPERO
1) Traumi diretti
- Contusione lieve: 0-2 giorni
- Contusione moderata: 7-15giorni
- Contusione severa: 15-25giorni

2) Traumi indiretti
- Non strutturali
a) Tipo 1A e 1B: 5-15 giorni
b) Tipo 2A e 2B: 5-15 giorni
- Strutturali
a) Tipo 3A: 15-18 giorni
b) Tipo 3B: 25-35 giorni
c) Tipo 4: oltre 60 giorni (fino a 4-5 mesi!)
TIMING DI VALUTAZIONE ECOGRAFICA
Quando fare l’ecografia? Subito, per accertare la lesione muscolare; dopo 36-48h, perché la lesione si
sarà stabilizzata e si potrà classificare in 3a, 3b, 4 ecc. Questo non è possibile farlo all’inizio perché si è in
fase di stravaso emorragico e non si può capire bene lo stadio. Successivamente si eseguono delle
ecografie durante le varie fasi della riabilitazione (vedi sotto).
NB: L’esame da fare sul paziente deve essere scelto subito: o si fa un percorso di ecografia o uno di
risonanza magnetica o entrambi. Questo perché se si è deciso di fare ecografie, e dopo un paio di mesi si
rivaluta la lesione in RMN, si tenderà a sovrastimare la lesione, soprattutto usando le sequenze STIR,
perché si vede una imbibizione maggiore dei tessuti periferici intorno alla lesione rispetto a quella che si
vede in ecografia.

FASI DELLA RIABILITAZIONE

Fase 1: riduzione del dolore, gonfiore, flogosi. È la fase che dura meno, da 24-48h fino a 3-5 giorni al
massimo.
Fase 2: Recupero dell’articolarità e dell’estensibilità (nelle lesioni 3 o 4 c’è una riduzione dell’articolarità
molto marcata, con ROM anche di soli 10-15 gradi, tanto che alcuni pazienti con lesioni di questo tipo del
quadricipite femorale sono costretti a stare in sedia a rotelle). È la fase più lunga insieme alla fase 3.
Fase 3: recupero della forza e della resistenza. Fase fondamentale insieme alla fase 2.
Fase 4: recupero di coordinazione e propriocettività (ovvero la percezione del proprio corpo nei vari piani
dello spazio).
Fase 5: recupero del gesto tecnico specifico e parametri atletici sport specifici.

Fase 1 – fase acuta


Esempio: calciatore che si accascia perché durante uno scatto sente forte dolore alla gamba. Si sospetta
una lesione muscolare. Con il dito bisogna identificare il punto di maggior dolore nell’area dolorosa
indicata dal paziente, perché lì sotto c’è la lesione muscolare. All’inizio è difficile capire che tipo di lesione
è, soprattutto se manca l’imaging. Il dolore è puntorio e localizzato. Il calciatore viene portato fuori dal
campo. A questo punto va subito applicata una compressione, prima con il dito, poi si fa una
compressione con una garza o altro, fermandolo con del nastro adesivo a croce sopra la zona di lesione.
Successivamente si applica una fasciatura avvitata (a cavatappi o a vite, non orizzontale). Tutto questo al
fine di limitare lo stravaso emorragico. Si dà anche del ghiaccio per aumentare la vasocostrizione e
limitare lo stravaso. L’obiettivo è evitare che ci sia tanto stravaso di sangue, perché meno sarà e più
facilitata sarà la guarigione e questo si può evitare solo nelle prime ore dopo l’infortunio.
Il Protocollo illustrato si chiama POLICE, ovvero:
- Protection
- Optimal Loading
- Ice
- Compression
- Elevation
Inizialmente il protocollo si chiamava RICE (Rest, Ice, Compression, Elevation), poi PRICE (Protection,
Rest, Ice, Compression, Elevation) e infine è diventato POLICE perché il riposo (presente nei primi due
protocolli) è stato trasformato in optimal loading, sulla base del grafico visto precedentemente sulla
riparazione della lesione, ovvero l’obiettivo
è fornire da subito tutti gli stimoli necessari
per far maturare le cellule staminali in fibre
muscolari.
L’efficacia di questo approccio è
testimoniata da uno studio (mostrato nel
grafico a sinistra) in cui erano stati osservati numerosi atleti con una lesione muscolare, suddivisi in due
gruppi: un gruppo era stato immobilizzato dopo la lesione, l’altro invece era stato mobilizzato
precocemente. L’obiettivo era la valutazione della forza in questi due gruppi di pazienti dopo 42 giorni
dalla lesione. Si osservò che la forza era nettamente diversa tra i due gruppi, inoltre più recentemente si
è osservato che il gruppo degli atleti immobilizzati non ha mai raggiunto la forza che ha raggiunto il
gruppo mobilizzato precocemente.
Si possono somministrare i FANS? Sarebbe meglio di no perché aumentano lo stravaso emorragico. Se
però il paracetamolo non ha effetto e non si possono dare altri analgesici, si da un FANS ma sotto
controllo ecografico e soprattutto per un brevissimo periodo (massimo 2-3 giorni).
Per quanto riguarda l’uso delle terapie fisiche per contenere il dolore si utilizza prevalentemente la
laserterapia a bassa intensità, l’ultrasuonoterapia pulsata (perché favorisce il drenaggio dei liquidi in
eccesso) e la TENS (sfrutta il gate control, ha azione antidolorifica).

Fase 2 e 3
Obiettivi di queste fasi sono:
- La scomparsa del dolore nella vita quotidiana (Un paziente con lesione muscolare a destra ad esempio
non può guidare e non può andare a lavorare, quindi si tratta di una lesione importante, analoga a una
frattura).
- Il graduale recupero della forza mediante potenziamento muscolare sotto soglia di dolore.
- Recupero di oltre il 90% del deficit di estensibilità del muscolo infortunato e dell’articolarità.
Come si raggiungono questi obiettivi? Bisogna aggiungere alle terapie viste precedentemente:
- Un massaggio linfodrenante o di scarico, fatto in direzione disto-prossimale per drenare i liquidi in
eccesso, e si continua a usare la contenzione elastica fino alla scomparsa del versamento e alla
stabilizzazione del quadro clinico.
- Lo stretching sotto soglia di dolore, che va iniziato subito. Ovvero, bisogna fare un percorso di
allungamento passivo e anche attivo, con contrazioni eccentriche per fornire degli stimoli e far capire
alle cellule staminali che nel punto della lesione si deve formare muscolo. (la contrazione eccentrica è
vero che rompe il muscolo, ma serve anche per curarlo!). L’allungamento deve essere sotto soglia di
dolore perché se questa viene superata si causa di nuovo un danno. Se il paziente decidesse di
prendere un FANS autonomamente, per trattare i sintomi di un raffreddore o del ciclo mestruale, la
soglia del dolore si sposterebbe, e lo stretching verrebbe fatto eccessivamente perchè il paziente non
avverte il dolore, quindi si provocherebbe un danno. Per questo motivo è importante segnalare sempre
l’assunzione di FANS o paracetamolo, “o se uno si è fumato una canna!”.
Inoltre, ci sono anche terapie fisiche che in questa fase sono basate sulla produzione di calore profondo
(per favorire l’iperemia e la biostimolazione profonda):
- Diatermia capacito-restrittiva
- Laserterapia ad alta intensità
- Ultrasuonoterapia continua (gli ultrasuoni continui favoriscono lo stretching, a differenza di quelli
pulsati della fase 1 che hanno scopo unicamente drenante).
Fase 3 e 4
Molte lesioni muscolari avvengono quando la muscolatura della cintura lombare è insufficiente. Questa
condizione provoca un’instabilità del tronco e del bacino, con possibili lesioni dei muscoli strutturali. Per
questo motivo, nelle fasi 3 e 4 si continua con lo stretching ma si mira soprattutto a stabilizzare la
muscolatura della cintura lombare e a ristabilire il training propriocettivo.

Fase 4 e 5
Lo scopo è di far lavorare l’atleta in condizioni anaerobiche alattacide. Infatti, per favorire con
l’allenamento la riparazione del danno bisogna lavorare in condizioni alattacide. In queste fasi finali si
cerca di eseguire molte volte gli stessi gesti sport-specifici che hanno causato la lesione. Questo si fa
finchè l’atleta non è pronto a tornare in campo.

Ritorno con la squadra


La ripresa dell’agonismo dovrebbe avvenire dopo aver valutato la completa guarigione ecografica, dopo
aver eseguito test isocinetici normalizzati per valutare il recupero, e infine dopo aver accertato il
recupero completo delle abilità sport-specifiche.
NB: Per passare da una fase a un’altra ci sono degli obiettivi funzionali da superare. Campanelli di allarme
sono:
1) Dolore avvertito dal
paziente mentre
svolge un esercizio
di forza o mentre
corre a bassa
velocità sul tapis
roulant. (tra fase 2-3
e fase 3-4).

2) Test di estendibilità
ancora positivo (tra
fase 3-4 e fase 4-5).

3) Sensazione di
muscolo diverso
rispetto al controlaterale durante l’esecuzione dell’esercizio.

RISCHIO DI RECIDIVA
Il muscolo che ha subito la lesione non è detto che rimanga indenne da altre lesioni; può avere un
ampliamento della lesione, soprattutto se c’è tessuto cicatriziale. Il rischio di recidiva nel muscolo che ha
subito la lesione aumenta da 2 a 6 volte, e spesso avviene entro 2 mesi dal ritorno in campo. Quindi è
necessario eseguire un controllo stretto, soprattutto nei primi due mesi.

CONCLUSIONI
 La diagnosi delle lesioni muscolari è principalmente basata su anamnesi, obiettività clinica e
tecniche di imaging come l’ecografia e la risonanza magnetica.
 La maggior parte delle lesioni può essere trattata conservativamente, con un programma
riabilitativo PRECOCE, già dopo 2-3 giorni dall’infortunio con eccellenti risultati e ricostituzione
del tessuto leso.
 Il protocollo di trattamento è progressivo e personalizzato, procede per fasi specifiche, sempre
sotto soglia di dolore. Esso è fondamentale per raggiungere buoni risultati e ridurre il rischio di
reinfortunio, di sviluppare fibrosi e ossificazioni.
 Il trattamento chirurgico è riservato solo a lesioni molto importanti di tipo 4. (da slide: il
trattamento chirurgico è riservato alle lesioni del ventre muscolare o della giunzione miotendinea
e alle lesioni subtotali non responsive al trattamento conservativo cui si associano dolore
persistente e perdita di forza).
Piergiorgio Alberico Laserra Lez. 4 - Fisiatria,
23/10/2019 Giuseppe Licci
Prof. A. Frizziero Carmelo Fogliano
Specializzando Michela Brunetti
ACIDO IALURONICO E RIABILITAZIONE NEUROLOGICA
(La prima parte della lezione sarà gestita dal professore, mentre la seconda parte vi sarà uno specializzando a
spiegare.)
Acido ialuronico
Il professore si rivolge ad uno studente:
Prof.: “Cos’è l’acido ialuronico e a cosa serve?”
Studente: “È un polimero saccaridico che ha la funzione di trattenere l’acqua”
L’acido ialuronico1 è una molecola la cui funzione è quella di trattenere l’acqua e permettere il “dialogo” di
questa con le cellule a contatto con la matrice extracellulare. Si tratta di una molecola ubiquitaria presente in
forme dal diverso peso molecolare nei differenti distretti corporei.
A seconda del P.M. dell’acido ialuronico questo ha differenti funzioni; in generale è possibile utilizzare a
scopo terapeutico molecole dal P.M. compreso fra 500 kDa e 5000 kDa. Al di sotto dei 500 kDa si è visto come
l’HA abbia un effetto proflogistico mentre sopra i 5000 kDa questo non riesce ad interagire in maniera
adeguata con le cellule.
Storia
La molecola dell’acido ialuronico fu scoperta nel 1934 da Karl Meyer alla Columbia University. Durante gli
anni ’70 del secolo scorso è stata utilizzata, con grandissimo successo, per effettuare delle infiltrazioni
articolari nei cavalli e solo nel 1987 è stato infiltrato per la prima volta in un’articolazione umana.
Patologia artrosica e membrana sinoviale
In seguito al 1987 si è visto come l’HA abbia effetto perlopiù nella patologia articolare cronica, l’artrosi.
Vecchia definizione, formalmente e concettualmente sbagliata: “Patologia degenerativa della cartilagine
articolare”.
Nuova definizione: “Patologia meccanicamente indotta e biochimicamente mediata in cui sono coinvolte tutte
le componenti dell’articolazione”.
Sono coinvolti nel processo patologico:
 Cartilagine articolare
 Membrana sinoviale
 Capsula articolare
 Osso (con generazione di osteofiti e avvento della sclerosi subcondrale)
 Muscoli
 Corpo di Hoffa (pannicolo adiposo in sede anteriore al ginocchio, posteriore al tendine rotuleo, ricco
di meccanocettori – corpuscoli di Pacini e di Ruffini – in grado di fornire senso di posizione del
ginocchio)
1
Chimicamente è definibile come un glicosamminoglicano non solforato e privo di core proteico, dalla catena
polisaccaridica non ramificata prodotta dalla condensazione di migliaia di unità disaccaridiche formate a loro
volta da residui di acido glucuronico e N-acetilglucosammina, legati tra di loro, alternativamente, da legami
glicosidici β1→4 e β1→3, nonché da legami a idrogeno intramolecolari, che ne stabilizzano le conformazioni.
[Fonte: Wikipedia]
Quando dobbiamo trattare pz con patologia non francamente infiammatoria è necessario utilizzare sostanze che
agiscano sia a livello della cartilagine che a livello della membrana sinoviale.
Il dialogo fra la cartilagine articolare e la membrana sinoviale avviene attraverso il liquido sinoviale, prodotto
dai sinoviociti B2. Il liquido sinoviale ha la funzione di permettere lo scorrimento delle superfici.
Ciò succede nelle condizioni di normalità; nel caso in cui si avesse l’articolazione erosa e compromessa di un
anziano si udirebbero gli “scrosci” articolari causati da:
 Irregolarità delle superfici articolari
 Peggiore qualità del liquido sinoviale
 Peggiore qualità dell’HA
 Riduzione della quantità di HA
La cartilagine articolare è una struttura povera di vasi e nervi ma molto ricca in componente cellulare
(condrociti). La fase anabolica dei condrociti porta alla formazione della matrice extracellulare mentre i
prodotti del catabolismo non sono altro che componenti della matrice che vanno incontro ad un processo di
ricambio. È da ricordare però come la cartilagine in sé abbia una velocità di ricambio molto lenta rispetto a
quella degli altri tessuti corporei (escludendo il tessuto nervoso).
Le cellule deputate alla distruzione dei cataboliti all’interno dell’articolazione sono i sinoviociti A3.
Durante la deambulazione la cartilagine funziona come una “spugna”. Nella fase di appoggio dell’arto
inferiore si ha una compressione della cartilagine mentre durante la fase di volo vi è una distensione della
stessa. La continua alternanza fra compressione e distensione comporta la vitalità dell’articolazione stessa. In
caso di disuso così come di uso eccessivo ed improprio la cartilagine va incontro ad un processo
degenerativo.
Durante la fase di volo la cartilagine accoglie il liquido sinoviale e durante la fase di compressione il liquido
torna nella cavità dove i sinoviociti A possono eliminare i detriti ed i cataboliti prodotti all’interno
dell’articolazione.
In caso di trauma distorsivo con stiramento capsulare e della membrana sinoviale (adesa internamente alla
capsula) vi può essere un’infiammazione che attiva le cellule B che producono liquido sinoviale in eccesso.
Tale liquido è molto povero di HA e quindi l’acqua è più libera; pertanto si avverte gonfiore articolare con
dolore.
Infiltrazioni
Le domande che bisogna porsi al momento dell’infiltrazione articolare sono:
 Dove infiltrare?
 Cosa infiltrare? Si possono utilizzare diverse sostanze (oltra all’HA) come i corticosteroidi
 Quando infiltrare?
 Come infiltrare? Questa domanda ci permette di decidere quantità e posologia dell’infiltrazione
 Perché infiltrare? Questa domanda ci fa ragionare su quale sia l’approccio migliore: infiltrazione,
terapia riabilitativa o chirurgica?

2
I sinoviociti di tipo B, anche chiamati sinovioblasti,  cellule F,  cellule S  (secernenti),  cellule ER  (reticolo
endoplasmatico), sono caratterizzati dall'abbandonza del reticolo endoplasmatico rugoso  e dalla presenza di
processi dendritici. I sinoviociti di tipo B producono la matrice specifica del liquido sinoviale, in
particolare ialuronano,  collagene e fibronectina. In alcuni mammiferi è stato ipotizzato un ruolo endocrino e
neurosensitivo di questo tipo di cellule. [Fonte: Wikipedia]
3
I sinoviociti di tipo A, anche chiamati  macrofagi sinoviali,  cellule M,  cellule A  (assorbenti),  cellule
V  (vacuoli), sono cellule che si muovono nel liquido sinoviale per fagocitare i detriti e le impurità. I
sinoviociti di tipo A hanno mostrato immunoreattività  per diversi anticorpi monoclonali  specifici per
i  macrofagi  o per epitopi derivati dai macrofagi[2], infatti sono considerati macrofagi residenti alla stregua
delle  cellule di Kupffer del fegato. I sinoviociti di tipo A inoltre esprimono il  complesso maggiore di
istocompatibilità di classe II (MHC-II) e l'antigene Ia, i quali svolgono un ruolo importante
nella  presentazione dell'antigene  nelle prime fasi della  risposta infiammatoria. [Fonte Wikipedia]
Il processo diagnostico si basa erroneamente perlopiù sui reperti radiografici di un’articolazione. Questo tipo
di reperto non può essere da solo completamente diagnostico in quanto:
 Non permette di distinguere chiaramente una patologia artrosica da una qualsiasi patologia
infiammatoria (artrite reumatoide, artrite psoriasica, artropatia cristallina, lupus, pregressa
monoartrite giovanile ecc.)
 Viene effettuata con l’arto a diposo con pz supino e quindi non dà informazioni sulla meccanica
dell’articolazione
Immagini
[NdA: di seguito la descrizione delle immagini che il professore ha inserito nelle sue slides (che non
possediamo). Una volta ottenute le slides provvederemo all’inserimento delle immagini.]
Queste sono immagini scattate dall’unico reumatologo in Italia che effettua artroscopie di ginocchio in
assenza di laccio.
Il laccio ha la funzione di ridurre il più possibile l’irrorazione dell’articolazione durante l’artroscopia. Pertanto,
in queste immagini avremo una visione migliore della vascolarizzazione dell’articolazione.
I immagine: si nota la presenza di una membrana sinoviale esuberante con escrescenze. L’articolazione è
piena di soluzione fisiologica. È possibile notare lo sfondato sottoquadricipitale ovvero lo spazio virtuale
dell’articolazione che si riempie quando il ginocchio si gonfia in seguito a processi distorsivo-infiammatori.
Difatti, il gonfiore in seguito ad un trauma è perlopiù riferito circa 10 cm superiormente rispetto alla rotula.
Questo sfondato è utilizzato altresì come punto di ingresso durante l’artrocentesi.
Oltre alla membrana sinoviale, anche la cartilagine articolare (sia nel suo versante rotuleo che in quello
femorale) si mostra erosa.
Questo tipo di situazione si può ritrovare in pz con articolazione già deteriorata che passano dalla posizione
accovacciata all’ortostatismo: la rotula (perno dell’azione del quadricipite) schiaccia la zona di cartilagine già
erosa e pinza un pezzo di membrana sinoviale. In seguito al trauma sinoviale vi è un aumento di produzione
di liquido e pertanto si ha il rigonfiamento dell’articolazione.
Per trattare questa condizione è consigliata la crioterapia (applicazione di ghiaccio di 20 minuti ciascuna 3-4
volte/die) e antinfiammatori (eterocoxib 120mg 1/die per 5 gg e a dosi minori nei successivi 5-7 giorni)
II immagine: si nota come la membrana sinoviale abbia delle escrescenze filiformi che vengono chiamate “villi
sinoviali”.
III immagine: trama vascolare sinoviale normale
IV immagine: trama vascolare accentuata.
L’aumento dell’irrorazione è in generale dovuto ad un processo infiammatorio (da cui la definizione
anglosassone di osteoarthritis). Anche se questa non è una condizione che si possa indicare come
francamente infiammatoria dal punto di vista patogenetico, si può dire che lo sia sotto l’aspetto
anatomopatologico. Non sono presenti, in questa condizione, aumenti della VES o della PCR.
La patologia artrosica (o osteoartite come la chiamano gli anglosassoni) è cronica e evolutiva e deve essere
trattata cronicamente, esattamente come il diabete o l’ipertensione.
La differenza intrartricolare con l’artrite reumatoide è che in quest’ultima i villi non sono di tipo arborescente,
ma sono mammelloni, cipollotti ipercellularizzati: la membrana sinoviale è floridissima ed è addirittura
definita simil-tumorale.
PATOLOGIE CON QUADRO DI IMAGING SIMILE:
1. Vengono poi presentati due quadri da artropatia da cristalli. Ci può essere deposizione articolare di
pirofosfato di calcio all’interno dell’articolazione e questi depositi cristallini vanno sia sulla
membrana sinoviale, sia sulla cartilagine articolare. Sulla membrana sinoviale determinano un
processo irritativo, sulla cartilagine articolare vanno a determinare l’usura delle superfici sotto carico.
È come mettere sabbia nell’articolazione: la cartilagine che è un tessuto bianco, lucente e a bassa
frizione, viene erosa giorno dopo giorno dalla sabbia.
Da qua capiamo come il quadro evolutivo può benissimo manifestarsi come una radiografia simile
all’artrosi, ma le cause sono diverse.
2. Tra le cause di degenerazione articolare abbiamo anche artrite psoriasica. Ci possono essere
manifestazioni cutanee eclatanti facili da riconoscere, ma si può presentare anche con alterazioni
minime dal punto di vista cutaneo: bisogna visitare bene il paziente, spogliarlo, guardare bene la
piega interglutea, la limitante tra cuoio capelluto e fronte, la sede retroauricolare.
Qui le manifestazioni di villosità sono completamente diverse. Nella prima parte il villo è simile
all’artrosi, ma alla fine presenta il mammellone sclerotico molto simile all’artrite reumatoide. Se si va
a vedere la trama vascolare in vivo vedo i vasi a gomitolo, analoghi a quello che è visibile alla
capillaroscopia del letto ungueale delle dita delle mani di questi pazienti.
L’ambiente articolare è un mondo affascinante che nasconde molte volte insidie, quindi prima di andarlo a
trattare bisogna conoscerlo, bisogna fare una serie di indagini. Purtroppo non sono molte le persone che
fanno quest’analisi raffinata dell’articolazione, perché richiede molto tempo e attenzione. Si tende quindi a
trattare in maniera grossolana i pazienti
Acido ialuronico, composizioni e indicazioni
Di fronte a casi come questi appena visti, come possiamo fare?
Chiaramente alcune di queste patologie richiedono un trattamento farmacologico sistemico. Conosciamo ad
esempio i farmaci biologici, ma molte volte non sono del tutto risolutivi e servono dei trattamenti locali
cosiddetti adiuvanti per limitare anche le manifestazioni periferiche, in particolare il dolore articolare.
Tra questi sicuramente negli ultimi 30 anni ha avuto un ruolo molto importante l’acido ialuronico. Questo è
costituito da diverse subunità disaccaridiche (prevalentemente N-acetilglucosammina e acido diglucuronico),
è il costituente principale del liquido sinoviale, mantiene l’omeostasi tissutale ed è sintetizzato dalla
membrana plasmatica dei sinoviociti B.
Questa sostanza stabilizza la matrice extracellulare, lega i proteoglicani e determina le proprietà osmotiche e
di idratazione tissutale associate a proprietà di tipo lubrificante.
Si può trovare in commercio in diversi pesi molecolari:
• Basso (500-730 kDa), proposto in differenti formulazioni
• Medio (800-2000 kDa)
• Alto (in genere al di sopra dei 6000 kDa)
L’affinità dell’acido ialuronico per le cellule sinoviali è maggiore in uno specifico intervallo compreso tra i 500
e i 4-5000 kDa.
Può essere utilizzato sicuramente nell’artrosi, per questa malattia abbiamo i dati maggiori. Quello del
professore è stato il gruppo più importante di un lavoro multicentrico nazionale per lo studio di una nuova
molecola ancora non in commercio che vedrà i banchi delle farmacie da gennaio. Questa è un particolare
acido ialuronico da inoculare con una tecnica specifica per le tendinopatie, sotto guida ecografica.
Quali sono le proprietà principali oltre a quelle già descritte di rapporto con l’acqua e gestione della vitalità
cellulare?
L’acido ialuronico a basso e medio peso molecolare:
• attraversa la matrice cellulare e attiva i recettori sinoviali
• ha azione antinfiammatoria con una depressione di quelli che sono gli elementi pro-apoptotici
• attività analgesica, sia di tipo funzionale-meccanico (per azione lubrificante) che per effetto
antiflogistico.
Se ben iniettato, se le indicazioni sono corrette e siamo di fronte a una pura patologia artrosica, gli effetti
sono variabili tra i 56 giorni e i 6 mesi.
Dal punto di vista della sicurezza?
Vediamo in uno studio che su 1266 pazienti arruolati, la percentuale degli eventi avversi dell’inoculazione con
acido ialuronico è dello 0,8%, percentuale che comprende anche quei casi con problematica di tipo
traumatico da ago. Quindi il trattamento è assolutamente sicuro e ben tollerato.

E allora quante infiltrazioni devo fare?


La letteratura dice che in genere un singolo ciclo può variare tra 1-3-5 infiltrazioni a settimana per 5
settimane, l’intervallo tra le infiltrazioni si stabilisce in base alla sede. Normalmente questo intervallo è di una
settimana, ma se si usano pesi molecolari alti, allora si deve aspettare molto più tempo e l’intervallo tra le
infiltrazioni può arrivare anche a 4 settimane.
Sono presentate foto per mostrare diverse sedi di iniezione: spalla, ginocchio, anca, polso. In una foto
dimostrativa l’operatore non usa i guanti, assolutamente sbagliato: le iniezioni non vanno mai fatte a mano
libera, bisogna sempre usare i guanti e ricreare un ambiente sterile.

Serie di studi sull’efficacia del trattamento


 Questo lavoro del 2015 presenta i dati e le indicazioni posologiche in base alla sede. Nel ginocchio
l’approccio migliore è quello laterale o latero- patellare. Può anche non essere usata la guida
ecografica e la quantità di farmaco varia da 2-6 mL, con un’iniezione a settimana per 3 settimane.
Senza leggere tutti i risultati da sapere è che c’è sicuramente una variabilità di posologia in base a
sede anatomica e per il ginocchio ci sono più studi alle spalle rispetto ad altre sedi.
 Un altro studio ha valutato l’associazione tra trattamento riabilitativo e terapia infiltrativa e ha
dimostrato la maggiore efficacia della combinazione dei due trattamenti rispetto ai singoli. Quindi
pazienti che hanno fatto terapia infiltrativa e che poi hanno seguito un percorso riabilitativo con
esercizi anche domicilari molto semplici, hanno risultati molto più consistenti piuttosto che quelli che
danno i singoli trattamenti.
 L’acido ialuronico non è iniettato solo in sede articolare. Ad esempio abbiamo studi sull’iniezione
peritendinea. In questa sede la molecola riduce le aderenze, migliora la funzione del tendine,
aumenta il numero tenoblasti, aumenta il diametro, la qualità e la densità delle fibre di collagene e
riduce risposta infiammatoria.
Sulla rivista internazionale MLTJ (di cui il Prof. è fondatore), uno lavoro di un fisiatra belga ha
dimostrato che gli studi preclinici hanno risultati incoraggianti (e ormai consolidati) riguardo
all’iniezione peritendinea di acido ialuronico.
Anche lavori successivi (come ad esempio uno dell’università di Ferrara) hanno dimostrato i
fenomeni positivi di riduzione dei fenomeni di adesione cellulare, di favorimento della funzione dei
tenoblasti e miglioramento della qualità delle fibre: nel complesso si nota un miglioramento
complessivo dei processi riparativi con riduzione delle cellule infiammatorie.

È presentato un lavoro del gruppo del Professore con un modello di tendinopatia funzionale sui ratti.
Fino a pochi anni fa era necessaria l’iniezione di sostanze sclerosanti nel tendine se volevo simulare
tendinopatia nell’organismo modello, ma la situazione ottenuta non era sovrapponibile alla patologia
dell’uomo. Bisognava ottenere qualcosa di simile a ciò che accade nell’uomo in corso di sovraccarico
funzionale. Poi si è scoperto che allenando i ratti (con un allenamento moderato, simile alla “buona
attività fisica che dovremmo fare”) e improvvisamente tenendoli fermi per 4 settimane dopo 9
settimane di allenamento, si genera un modello di tendinopatia.
Scorre una serie di immagini in microscopia di tendini dei ratti allenati e non allenati, dove è ben
visibile il modello di tendinopatia determinato nel detreined. Se il tendine è trattato con la
fisiologica non otteniamo nessun risultato, al contrario l’acido ialuronico produce un effetto positivo,
con fibre vicine e parallele che danno una straordinaria capacità tensile e di trasmissione di quelli che
sono i fenomeni di allungamento e accorciamento. Dal punto di vista clinico le infiltrazioni sull’uomo
in sede peritendinea (attenzione, non intratendinea) hanno stimolato la biosintesi di acido ialuronico
proprio con risultati tutto sommato buoni.

Risultati simili si possono vedere in un lavoro sull’efficacia dell’acido ialuronico nella tendinopatia
patellare, molto difficile da trattare.
Un altro lavoro, in sede subacromiale, nella cuffia dei rotatori, ha mostrato una buona efficacia a
medio-lungo termine nella tendinopatia in un trattamento di 3-4 iniezioni a settimana per 3
settimane.
 Altro dato interessante è nel paziente che ha subito uno stroke e che ha un arto plegico. Spesso a
carico dell’arto superiore si ha una risalita della testa omerale, un’insufficienza della cuffia dei
rotatori e quindi un fenomeno impingement, quindi di conflitto, tra la testa omerale e l’acromion.
Anche in questi pazienti, seppur neurologici, un’iniezione in sede subacromiale di acido ialuronico
riduce fortemente quella che comunque si manifesta come una sintomatologia dolorosa a carico
della spalla e che spesse volte non particolarmente non controllata dai neurologi.
 Anche nel caso di entesopatie, quindi di tendinopatie inserzionali, l’acido ialuronico si è dimostrato
utile, come ad esempio nell’epicondilite (il cosiddetto gomito del tennista o del golfista), o come
nella tendinopatia inserzionale achillea o nella fascite plantare.
 Un altro studio del professore ha confrontato l’efficacia delle infiltrazioni di acido ialuronico con le
onde d’urto nel trattamento della tendinopatia non calcifica della cuffia dei rotatori. Entrambi i
trattamenti danno buoni risultati ad un mese, ma le infiltrazioni hanno un effetto più rapido sul
dolore.
Stessi risultati sono stati ottenuti in uno studio simile, ma riferito al alle infiltrazioni peritendine del
tendine d’Achille invece che della spalla.
 Altra cosa interessante, oltre al fatto che è necessaria soprattutto in sedi molto piccole una
precisione assoluta, è l’associazione tra acido ialuronico e corticosteroidi. Esempio nel triggerfinger,
il cosiddetto dito a scatto. Questa è una condizione di ipertrofia al di sotto della puleggia per cui il
dito scatta, è molto fastidiosa ed è di origine lavorativa. Veniva trattata solo con il cortisonico, che
determinava un buon effetto antinfiammatorio che però non era molto durevole e il problema si
ripresentava dopo poche settimane. L’associazione con acido ialuronico ha prodotto invece risultati
a lungo temine e i pazienti non si sono più ripresentati perché adeguatamente trattati.
 Nuovi trattamenti per l’epicondilite mettono anche in associazione l’acido ialuronico con il
condroitin solfato.
Altra situazione che vede buoni risultati in associazione con il corticosteroide è la sindrome di De Quervain. È
una sindrome infiammatoria dell’abduttore lungo e l’estensore breve del pollice che è molto frequente nelle
donne in pre- post-menopausa o in situazione post-gravidica.
Scorrono ancora slide su studi: anche qui nella spalla (non solo nell’articolazione come visto prima, ma anche
nella tendinopatia), l’associazione con l’esercizio produce risultati migliori.

Altro studio sotto guida ecografica, si vede il tendine tendine d’Achille in trasversale, si esegue un approccio
con l’ago nella sede più interna del tendine andando ad iniettare il farmaco in maniera precisa. Il professore
non entra nel dettaglio sugli obiettivi dello studio e come questo è stato realizzato, ma è facile vedere come ci
fossero sì degli obiettivi funzionali primari, ma anche secondari come la riduzione dolore, la risoluzione dei
parametri clinici, di quelli ecografici, della valutazione globale, la necessità di antidolorifici e la qualità della
vita in generale.
Il professore ricorda il caso di un paziente che dopo solo una infiltrazione ha risolto il dolore che non passava
con niente e ha ringraziato tantissimo perché non sapeva più come fare.

Conclusioni
 Sia in sede articolare che peritendinea, con un alto profilo di sicurezza, l’acido ialuronico promuove
un’azione antinfiammatoria prolungata e se c’è una sinovite importante è necessario trattare la
sinovite prima con il cortisonico e poi passare all’acido ialuronico oppure usare la combinazione dei
due.
 Nelle tendinopatie vanno distinti i quadri tenosinovitici con quelli di tendinopatia pura (come nel
tendine patellare o nel tendine d’Achille): nei quadri tenosinovitici è preferibile l’associazione tra
corticosteroidi e acido ialuronico.
Una fiala di acido ialuronico che viene venduta per le iniezioni intrarticolari costa intorno ai 60 euro. Se la
stessa persona è una signora e vuole fare un ciclo di filler nel viso, la stessa molecola, un terzo della quantità,
se confezionata per la medicina estetica costa 150 euro. Questo per capire come sia un mercato molto
particolare. Poi ovviamente c’è da aggiungere la prestazione del medico.
Se uno ha un INR di 3-4 può essere fatta l’infiltrazione?
Fino a 3 si può fare, poi dipende dall’ago e dalla sede. Poi se la si fa in ecoguida si è più sicuri di non prendere
vasi.

Sappiamo che tutti i calciatori fanno queste iniezioni, si mantiene un benessere dell’articolazione, della
cartilagine e delle membrane sinoviali maggiore rispetto a chi non lo fa. Ma adesso un po’ si esagera, perché
ci sono anche potenziali problematiche di natura infettiva. Uno su milione si può infettare, ma se non c’è
bisogno di farla, perché farla?

Il prof. ricorda che se qualcuno avesse il piacere di partecipare al convegno nazionale “Open mind and new
technologies in muscles, ligaments and tendons” a Verona il 29-30 novembre, basta fargli avere una lista per
mail. Potremmo entrare e uscire come vogliamo. Se vogliamo partecipare ai coffee break e al pranzo c’è un
contributo minimo di 25 euro, che copre semplicemente le spese del mangiare per due giorni. Verranno anche
degli studenti di Verona.
RIABILITAZIONE POST-STROKE
La seconda parte della lezione è fatta da uno specializzando. In sostanza ha letto le slides, che ci saranno
fornite nell’ultima lezione e ha senso leggere direttamente quelle, anche perché la lezione non segue un filo
logico e i pochi commenti sono difficili da comprendere.
Prima di andarsene il Prof. Frizziero ha specificato che per l’esame fa fede il syllabus, anche se “tra le righe”
ha fatto intendere che lui chiederà solo quello che ha spiegato. Però non è detto che sarà lui a interrogarci,
soprattutto dal secondo appello in poi.

Il fisiatra non si occupa solo della riabilitazione muscolo-scheletrica, ma anche della riabilitazione in ambito
neurologico. Ci sono poi tantissimi campi della riabilitazione: pediatrica, pneumologica, cardiologica…
Esistono cliniche specializzate in alcune di queste riabilitazioni specifiche.
Nell’accezione comune il fisiologo è quello che si occupa della riabilitazione del paziente neurologico, anche
se sta aumentando l’attenzione dei fisiatri per l’ambito muscolo-scheletrico.
Nell’ambito neurologico, la patologia più frequente e su cui c’è più possibilità di agire è l’ictus.
Lo stroke è un evento di natura cerebro-vascolare improvviso e inaspettato, che determina la comparsa di un
deficit neurologico, con varie possibilità e combinazioni: alterazioni del controllo motorio, della sensibilità,
delle funzioni cognitive, del linguaggio. I deficit hanno causa non traumatica e sono legate a occlusione o
emorragia di un vaso.
[Accenno all’importanza dell’anatomia dei vasi cerebrali e al poligono di Willis. Accenno alle specifiche
funzioni delle aree cerebrali e alle aree di Brodmann.]
Dal punto di vista somato-sensoriale e motorio si caratterizzano i 2 Homunculi, che il medico riabilitatore
deve conoscere bene per risalire dalla clinica al danno e per stimare l’effettiva possibilità di riabilitazione (es.
la mano è molto più rappresentata dell’arto inferiore a livello corticale → i pazienti con ictus hanno più
difficoltà a recuperare le funzioni della mano e in particolare i movimenti fini, rispetto a quelli anti-gravitari
degli arti inferiori).
Le fibre nervose motorie della corticale decussano per il 90-95% verso l’emisoma controlaterale.
Dal punto di vista epidemiologico, le eziologie più frequenti sono:
 Ischemia (85%)
o Trombosi dei grandi vasi
o Trombosi dei piccoli vasi
o Embolia cerebrale
o Vasculiti
 Emorragia
o Malformazioni artero-venose
o Patologie del collagene
o Patologie dei vasi.

Classificazione temporale:
 TIA: episodi neurologici che compaiono, si sviluppano e scompaiono nell’arco delle 24 h
 TIA di durata superiore alle 24h, che rappresenta già uno stroke minor
 Stroke in evoluzione, è un ictus instabile in cui il deficit neurologico può ancora progredire (difficili
da seguire)
 Stroke stablizzato, si può già stabilire una prognosi.
Le terapie dello stroke sono: trombolisi sistemica entro le 3 h o trombectomia endoarteriosa fino alle 6 h.

Epidemiologia
Lo stroke è una patologia molto frequente, più negli uomini che nelle donne. Il tasso di sopravvivenza è
intorno all’80%, con un tasso di decesso tra 20 e 30 % nel primo mese. La prognosi dipende in gran parte
dall’intervento in acuto e dalle tempistiche dello stesso. Il medico fisiatra entra in gioco in un secondo
momento per aumentare la QoL (Quality of Life) di questi pazienti.

I fattori di rischio sono:


 IPA
 Fumo
 ipercolesterolemia e dislipidemie
 obesità
 cardiopatie
 diabete
 malformazioni delle arterie extracraniche (carotidi).

Lo stroke può essere legato a una trombosi, a un’embolia o ad un infarto lacunare. Lo stroke emorragico può
essere intracerebrale o legato ad un’emorragia subaracnoidea, soprattutto a causa di aneurismi sacciformi.

Dal punto di vista clinico si possono avere varie manifestazioni:


 Disturbi del controllo motorio e della forza
 Disturbi della coordinazione motoria e dell’equilibrio
 Disturbi del tono muscolare e della sensibilità
 Disturbi della comunicazione verbale → se ne occupa la logopedia
 Disturbi del gesto
 Neglect Syndrome
 Disturbi della deglutizione: importanti sono le consulenze del fisiatria nei casi di disfagia
 Incontinenza degli sfinteri → c’è un ambulatorio dedicato alla riabilitazione della continenza.
La visita fisiatrica deve innanzitutto valutare il paziente nel complesso, la sensibilità superficiale e profonda,
l’articolarità, la presenza di spasticità, il tonotrofismo muscolare, la presenza dei riflessi osteotendinei, la
forza, il residuo funzionale, l’autonomia del paziente e la capacità deambulatoria.
Il fisiatra poi collabora al reinserimento sociale del paziente dopo la dimissione, perché non tutti i pazienti si
possono dimettere a domicilio: può aver bisogno di una struttura riabilitativa intensiva o estensiva, può
essere indigente, non avere familiari che se ne occupino.
È importante valutare la sensibilità profonda o propriocettiva con dei test, confrontando la posizione nello
spazio di un arto rispetto al controlaterale.

Quando viene interessato il motoneurone primario si hanno deficit di forza, che possono esplicarsi in vari
quadri.
Emiparesi o emiplegia: la plegia è la scomparsa del movimento, mentre nella paresi si ha una perdita di forza,
associata a ridotto controllo del movimento volontario, che all’inizio si associa a ridotto tono muscolare a
riposo, che nel tempo evolverà verso una situazione di spasticità. La spasticità colpisce prevalentemente i
muscoli antigravitari → agli arti superiori di solito si ha un ipertono di tipo flessorio, mentre agli arti inferiori
si ha ipertono estensorio. Generalmente insorge entro il mese e in alcuni tipi di stroke può essere
particolarmente precoce.

Distinzione tra paralisi spastica e paralisi flaccida:


 Paralisi spastica: perdita della motilità volontaria che si accompagna ad un ipertono muscolare, con
aumento dei riflessi profondi e scomparsa di quelli superficiali. Ci può essere presenza del riflesso di
Babinski (segno piramidale) e di altri riflessi patologici. È legata a lesioni della corteccia motoria,
delle fibre che da essa partono e arrivano al corno anteriore.
 Paralisi flaccida: perdita della motilità volontaria, che si accompagna a diminuzione/perdita del tono
muscolare e del trofismo. I riflessi profondi scompaiono. Dovuta a lesioni del motoneurone tra il
corno anteriore del midollo spinale e la terminazione nei muscoli. Può interessare anche singoli
muscoli (a differenza della paralisi spastica), ma nell’ictus non si vede paralisi flaccida, se non forse
nel primo stadio.
I disturbi della coordinazione motoria e dell’equilibrio sono dovuti a danni al sistema extrapiramidale, cui fa
capo l’area premotoria della corteccia, con i fasci di fibre che scendono nella capsula interna fino ai gangli
della base e al cervelletto e le cui informazioni vengono integrate con i riflessi vestibolari e oculari. La perdita
dell’equilibrio può essere infatti un residuo dell’ictus, così come altri disturbi del movimento, quali: atassia,
corea, emiballismo.

Definizione di spasticità: aumento della resistenza allo stiramento muscolare velocità-dipendente, che si
apprezza alla mobilizzazione passiva di arti o di segmenti di arti. Se protratta nel tempo la spasticità può
portare a riduzione marcata dell’escursione e della mobilità articolare, ad alterazioni della postura, dolore,
difficoltà anche nella gestione igienica esterna del paziente. Il termine deriva dal termine greco per indicare il
“crampo”. Si instaura progressivamente. Provoca l’“effetto a serramanico”, in quanto c’è una contrazione
contemporanea dei muscoli agonisti e antagonisti, con interferenza coi movimenti sia estensori che flessori
→ es. se provo a estendere forzatamente l’arto superiore, si avrà un effetto a serramanico con risposta
flessoria dell’arto. La spasticità si manifesta con un’attivazione involontaria e persistente e un aumento del
riflesso da stiramento.
L’ictus può portare a monoparesi (solo un arto è interessato), paraparesi (paresi di entrambi gli arti inferiori),
emiparesi (interessamento di un solo emisoma), tetraparesi (tutti e 4 gli arti).

Per la spasticità si valuta la MAS (Modified Ashworth Scale), che va fatta prima della misurazione del ROM
(Range Of Motion), perché il ROM può falsare poi il test della MAS.
Classificazione MAS:
 0 → tono normale
 1 → lieve aumento del tono muscolare, rilevato con un “catch and release” (quindi c’è solo una breve
e transitoria contrazione in senso flessorio che si contrappone al movimento)
 1+ → lieve aumento del tono muscolare, con un catch and release seguito da una minima resistenza
lungo il resto del ROM (NdR)
 2 → aumento accentuato del tono muscolare lungo la maggior parte del ROM, non su tutto, e il
segmento viene mosso comunque abbastanza facilmente
 3 → notevole aumento del tono muscolare, il movimento passivo risulta difficile
 4 → rigidità e contrazione sia in flessione che in estensione, con alterazioni posturali che poi possono
determinare alterazioni scheletriche, le quali possono addirittura richiedere una chirurgia.

Per la forza si usa la scala MRC, che permette di misurare la forza dei gruppi muscolari del paziente contro la
resistenza dell’esaminatore. È una valutazione soggettiva, un po’ a discrezione dell’esaminatore, in una scala
da 0 a 5:
 0 → se c’è una plegia, quindi nessuna attivazione muscolare
Da 1 a 5 si parla di paresi
 1 → contrazione muscolare visibile che però non si espleta in un movimento
 2 → attivazione muscolare con movimento in condizione di assenza di gravità; per esempio, per
testare il quadricipite o l’ileopsoas sul paziente a letto, si extraruota l’anca in modo da permettere
movimenti della coscia in assenza dell’ostacolo della gravità; lo stesso vale per l’arto superiore
 3 → movimento contro la forza di gravità, in assenza di resistenza
 4 → il paziente riesce a muovere il segmento anche contro una blanda resistenza
 5 → movimento contro resistenza massima dell’operatore.

Ci sono diversi pattern di spasticità, nell’arto superiore c’è possibilità di avere il gomito flesso, il polso
anch’esso flesso e spesso con deviazione ulnare, il pollice flesso e spesso in-palm, le dita possono essere
chiuse o iperestese.
Questi pattern di spasticità, se protratti nel tempo, portano a una serie di complicanze, oltre alla perdità di
funzionalità. Per questo, dopo la stabilizzazione dell’ictus, vengono messe in atto una serie di terapie
riabilitive specifiche per recuperare la funzionalità come il rinforzo muscolare dei muscoli antagonisti alla
spasticità; nell’arto superiore sono di solito spastici i flessori, quindi si cerca di rinforzare gli estensori e
concretamente si eseguono massoterapia, mobilizzazioni passive prolungate, stretching, uso di appositi
tutori, in casi complicati si usa anche la tossina botulinica (prima si fa una elettromiografia, si vede la
spasticità dei muscoli e poi si inocula in sedi mirate). Alcuni casi sono anche elegibili per l’intervento
chirurgico: in Italia ci sono attualmente solo 2 ortopedici che si occupano di chirurgia funzionale
neuroortopedica, che consiste sostanzialmente in tenotomie dei muscoli spastici oppure tenodesi, tenopessi
e ancora trasposizioni tendinee, per recuperare alcuni riflessi.
La spasticità è molto studiata: dal punto di vista neuromotorio c’è un’iperattivazione, ma non è ancora chiaro
il meccanismo per cui le fibre muscolari vadano incontro a degenerazione e sostituzione fibro-adiposa. I
tendini di questi pazienti con spasticità, si presentato in sala operatoria molto sfibrati, non lucenti e resistenti
come quelli sani, il che rende complicato suturarli nell’ambito di questa chirurgia riabilitativa.
Per quanto riguarda l’arto inferiore, si hanno varie possibili disabilità nel paziente con
ictus, come per esempio il piede equino varo e supinato, che peggiora durante
l’appoggio plantare: ciò che viene effettuato dal punto di vista riabilitativo è la
valutazione della spasticità dei muscoli peronei (in questo caso) o dei gastrocnemi o del
tendine d’Achille. Bisogna determinare se la spasticità sia strutturata o se sia
modificabile: attraverso una mobilizzazione passiva si vede se l’articolazione tibiotarsica
ha un’escursione articolare ancora conservata, sia in flesso-estensione che in prono-supinazione, o se è una
spasticità irriducibile.
Nel caso in cui la spasticità fosse riducibile, si possono prescrivere delle ortesi che permettano il
miglioramento dell’assetto anatomico del piede nell’appoggio plantare, o si possono usare altre tecniche
terapeutiche come ad esempio la tossina botulinica, o interventi di chirurgia funzionale che sono spesso
associati a uno studio con Gait analysis; quest’ultimo è un’analisi del movimento dei pazienti, che spesso
hanno un ictus stabilizzato, il che comporta che la flessione dell’anca, dell’ileopsoas e anche del quadricipite
sia conservata, mentre la spasticità e la paralisi siano più distali: dal punto di vista funzionale l’appoggio del
piede è scarso, nonostante ci sia la possibilità di avanzare con l’arto.
Molti pazienti arrivano tardi agli interventi di chirurgia funzionale e agli studi di Gait analysis, presentando già
una spasticità irriducibile, con cadute e distorsioni dolorosissime: la qualità di vita potrebbe essere migliorata
se questi pazienti venissero instradati per tempo su scelte terapeutiche appropriate.

Alterazioni funzionali
Le alterazioni funzionali interessano soprattutto la comunicazione verbale, con disartria e afasia (di cui le più
note sono quelle di Broca e di Wernicke). La prima cosa che si valuta nel paziente è lo stato di orientamento,
di vigilanza e di collaborazione, ma anche l’interazione con l’operatore è molto importante e, nell’afasia di
Wernicke, è impossibile comunicare con i soggetti perché viene a mancare la capacità di comprensione;
nell’afasia di Broca, invece, i pazienti comprendono ma fanno fatica a produrre verbalmente le parole e ad
esprimersi, è quindi più facile rapportarcisi. Nella riabilitazione la capacità di comprensione e la complianza
sono fondamentali, anche in termini di costi dei trattamenti (che sono elevati): se il paziente viene obbligato
e/o non segue un percorso per il quale è conscio di ciò che fa, le risorse saranno sprecate.
Aprassia – Clinicamente si hanno disturbi della gestualità, della capacità di svolgere gesti intenzionali e
difficoltà ad eseguire semplici attività funzionali. È uno dei pattern sintomatologici più presente in questi
pazienti.
Neglect syndrome - Incapacità di riconoscere e rispondere a stimoli che vengono dall’emi-lato controlaterale
all’attività cerebrale. È una trascuratezza dello spazio, il paziente esclude dal suo campo visivo ciò che è
posizionato al lato controlaterale alla lesione. Ci sono tecniche riabilitative di vario tipo, in alcune si forza
anche con stimoli dolorosi o sonori il paziente a guardare dal lato del neglect, oppure viene bendato l’occhio
che vede normalmente.
Dal punto di vista della deglutizione, la disfagia è molto presente; in molti pazienti poi si riduce, ma nelle
prime fasi va sempre eseguito uno studio della deglutizione, ad esempio per il rischio di polmonite ab ingestis
dovuta al ritardato innesco del riflesso faringeo e di altri riflessi di protezione, con conseguente aumento
delle comorbidità e del tasso di mortalità se non viene trattata.
Disturbi della continenza sfinterica – Sono legati a lesioni del motoneurone superiore.

[N.d.S. Vengono mostrate delle tabelle con la distribuzione anatomica e l’irrorazione encefalica delle varie
arterie, da aggiungere quando disponibili le slides.]
L’arteria cerebrale media e i suoi rami sono i più colpiti e portano a sfaccettature cliniche molto diverse.

Recupero della funzionalità


1. Il recupero delle funzioni motorie può essere spontaneo e naturale, dipendendo da:
 entità dell’ictus
 capacità del soggetto
 stimoli che vengono dati non solo in ambito ospedaliero ma anche dai parenti e da tutto l’ambiente
circostante. Le situazioni di emiparesi e di emisindromi hanno un rilevante peso sociale: molti
pazienti, essendo un episodio acuto, non sono preparati ad affrontare questi eventi, il carico emotivo è
pesante e cadono in un loop depressivo
 adeguatezza degli ambienti domestici. Tutta la famiglia si muove ed impiega risorse sul paziente
malato, per cui il recupero delle funzioni motorie è un obiettivo molto importante.
2. Il recupero del linguaggio nei pazienti afasici avviene solitamente più lentamente e viene fatto dai
logopedisti. I pazienti che hanno un’afasia che non regredisce hanno prognosi peggiore rispetto agli altri.
3. I meccanismi di recupero delle funzioni neurologiche sono dovuti a:
 risoluzione di fattori di danno locali
- risoluzione dell’edema locale
- riassorbimento delle tossine
- miglioramento della circolazione locale
- recupero dei neuroni ischemici che possono essere danneggiati
 soprattutto alla capacità del SNC di riorganizzarsi attraverso lo sprouting collaterale e a fenomeni di
neuroplasticità, che permettono di ampliare le connessioni sinaptiche e di stabilire dei percorsi neurali
“vicarianti” per le funzioni che sono state perse.

Comorbidità dello stroke


 Sono perlopiù quelle internistiche, non ultima la sindrome depressiva;
 Dal punto di vista motorio può svilupparsi, ad esempio, la cosiddetta sindrome della spalla
dell’emiplegico, con lussazione della spalla, la quale normalmente è tenuta in sede dai muscoli della cuffia
dei rotatori. [N.d.S. Il dolore localizzato al cingolo scapoloomerale è una complicanza frequente dell’ictus
cerebrale. La spalla emiplegica dolorosa, può insorgere precocemente dopo lo stroke, anche se
tipicamente si manifesta entro 2-3 mesi dall’evento cerebrovascolare acuto. Spesso tale dolore si
manifesta nel corso di emiplegia, uno dei quadri clinici di esito più frequente dello stroke. Le fasi
caratteristiche dell’emiplegia sono tipicamente due: quella flaccida postictale, precoce, che comporta la
perdita del tono muscolare, del controllo motorio volontario, dei riflessi osteotendinei e un deficit
sensoriale variabile; quella spastica si evolve in tempi variabili e con gradualità differente. I pazienti
spastici mostrano un’incidenza maggiore di spalla dolorosa rispetto a quanto si osserva in caso di
emiplegia flaccida. Si ritiene che essa sia dovuta allo squilibrio del tono muscolare, al quale può
associarsi il consolidamento o, addirittura, l’aggravamento di una sublussazione glenoomerale
sviluppatasi e non adeguatamente trattata nella fase di flaccidità.]
 Dal punto di vista neurologico possono aversi episodi convulsivi, spasticità muscolari, rischio di cadute.

RIABILITAZIONE
Fondamentale nel trattamento riabilitativo è stabilire degli obiettivi pratici e realistici, che devono essere
concordati col paziente e con la famiglia, che collabora al progetto riabilitativo steso dal fisiatra. È importante
capire se ci siano gli amministratori di sostegno, quali sono le funzionalità residue e qual è l’inclinazione del
paziente stesso a voler recuperare.
Il processo riabilitativo può essere considerato come un processo di apprendimento e di adattamento con
graduali difficoltà nei compiti da eseguire. L’attivazione dei processi cognitivi durante il trattamento
riabilitativo è fondamentale; importante è poi l’approccio multidisciplinare con fisiatra, fisioterapista,
psicologo, famiglia, operatori sanitari, infermiere, neurologo (che fa sempre capo al processo con cui il fisiatra
deve interfacciarsi), ortopedico, ecc.
Per valutare la disabilità vengono utilizzate tre scale:
1. Barthel index;
2. FIM (Functional Independence Measure);
Barthel index e FIM sono le più note, sono scale di reparto che si possono fare durante una normale
seduta.
3. NFAC (New Functional Ambulation Classification) - è una scala valutativa americana che si basa
sull’analisi di parametri spazio-temporali, sullo studio elettromiografico, sullo studio cinetico del
passo ed è quella che si attua in ambienti dove si esegue la Gait analysis.

Le attività riabilitative in fase acuta post-ictus sono:


 valutazione e controllo dei problemi sanitari;
 monitoraggio e aggiustamento dei farmaci;
 mantenimento dell’idratazione e della nutrizione;
 facilitazione del riposo e del sonno, che spesso sono alterati;
 profilassi tromboembolica, perché sono pazienti allettati;
 intervento sulla postura del paziente e sul posizionamento del letto e della sedia;
 cambiamenti di posizione frequenti per evitare le piaghe da decubito;
 esercizi di mobilizzazione al letto;
 esercizi di riabilitazione respiratoria, es. si facilita il riflesso della tosse;
 riabilitazione per eventuale disfagia;
 messa in atto di procedure di sicurezza;
 programmazione del catetere cercando di raggiungere poi il controllo vescicale;
 controllo dell’evacuazione intestinale;
 progressivo controllo del tronco, passando dal paziente allettato al paziente via via più verticalizzato,
cercando di posizionarlo in sedia;
 esercizi per il recupero dell’indipendenza nelle ADL [N.d.S. Activities of Daily Living], anche tramite
ausili: spesso i pazienti utilizzano il deambulatore, più raramente le stampelle;
 valutazione integrata dell’ambiente domestico, per riadattare il bagno, i corridoi, i corrimano, la stanza
da letto dei pazienti;
 recupero della stazione eretta e dello schema del passo (per es. nel paziente con piede equino, recupero
dello schema del passo vuol dire quantomeno avere un appoggio che sia neutro per l’articolazione
tibiotarsica, non esageratamente supinato);
 programmi di educazione e recupero per la cura di sé, fondamentali per l’autostima e per prevenire la
depressione;
 educazione e trattamento per i disturbi della comunicazione, che sono frustranti;
 sostegno psicologico al paziente.

I metodi terapeutici messi in atto nello stroke sono:


- compensatori, in cui si cerca appunto di compensare la funzione lesa, come ad esempio rinforzare
i muscoli antagonisti o indebolire i muscoli spastici;
- correttivi, per ridurre il grado di lesione neurologica, che può ad esempio essere fatto con la
chirurgia funzionale.

Bisogna stabilire degli obiettivi a breve termine, anche perché si è sommersi dalle richieste e dalle domande
dei parenti e del paziente sui tempi e modi di guarigione.

Piano di trattamento
 Educazione del paziente e dei familiari;
 utilizzo di tecniche di rilassamento;
 stretching;
 utilizzo di ortesi;
 mobilizzazione passiva;
 approccio neuroriabilitativo;
 facilitazioni neuromuscolari propriocettive, anche da effettuare in palestra, con percorsi stabili che
diano stimolazioni varie, tattili, su superfici diverse;
 esercizi di biofeedback, che permettono al paziente di vedere come si muove nello spazio e di
riprendere memoria di alcuni movimenti, che vengono corretti in maniera istantanea dal terapista;
 trattamento farmacologico della spasticità;
 verifica dei risultati a breve e lungo termine;
 prevenzione delle complicanze;
 insegnamento di tecniche adattative, soprattutto nell’attuare il movimento all’interno dello spazio;
 fornitura di ausili, con addestramento all’utilizzo da parte del fisiatra;
 riaddestramento del sistema nervoso.

Si può capire, quindi, la grandezza dell’impatto sociale dell’ictus, che è un evento imprevedibile, il che
comporta che la famiglia spesso non abbia le risorse per affrontare il problema, con peggioramento generale
della qualità di vita del paziente e dei familiari.
Bisogna sempre informare il paziente sulle sue condizioni, senza creare troppe aspettative, e supportare lui e
i familiari mettendoli nell’ottica di una nuova vita.
È importante un reinserimento sociale, lavorando anche sull’autostima, incentivando tecniche per prendersi
cura di sé, soprattutto quando i pazienti colpiti hanno un’età inferiore ai 65 anni: questi sono ancora in età
lavorativa ed hanno un drastico cambio della vita e della sua qualità, con un alto tasso di istituzionalizzazione
e di disabilità permanente.
Qualsiasi tipo di ausilio, inizialmente, non viene passato dallo Stato, bisogna quindi creare un percorso per
effettuare le pratiche di invalidità.
Lo stroke è una condizione clinica frequente con significativo impatto sui pazienti colpiti e sulla società; il
compito dei fisiatri è di ridurre il grado di disabilità e migliorare la qualità di vita del paziente e dei familiari.
Negli ultimi anni si sono avuti in chirurgia funzionale dei risultati strabilianti per il miglioramento della qualità
di vita dei pazienti con riduzione della comorbidità; purtroppo, però, molti medici non conoscono ancora
quest’opzione terapeutica.

Il dottore riferisce che lascerà insieme alle slides degli argomenti trattati a lezione, altre slides da leggere
autonomamente. All’esame non verranno chiesti nomi specifici di tecniche riabilitative, perché si tratta di
argomenti specialistici.
Giulia Bassetto 23-10-2019
Erika Mafrici Ortopedia, Lezione 07
Miriam Pasinato Prof.Angelini
Matteo Zanovello

Alcuni aspetti erano stati spiegati in modo più chiaro e approfondito l’anno scorso. In questi casi abbiamo sostituto la
spiegazione con quella dell’anno precedente.

LESIONI TRAUMATICHE

Parliamo delle lesioni traumatiche, la parte più rilevante della patologia ortopedica.
Per lesione traumatica si intende qualunque patologia conseguente ad eventi violenti in cui forza lesiva
danneggia i tessuti perché ne supera il limite di resistenza. Ad esempio, di ciò basti pensare che esistono
lesioni, come le fratture patologiche, dove la qualità del tessuto è ridotto da un processo patologico ed è
sufficiente un trauma minimo per generare una frattura.
La forza lesiva può agire in maniera diretta o indiretta e può coinvolgere a seconda dell’entità la cute, il
sottocute, le fasce, le fibre muscolari, fino al tessuto scheletrico.
Categorie
1. Contusioni
2. Distorsioni
3. Lussazioni
4. Fratture
Contusione
Si definisce come lesione traumatica secondaria ad una forza lesiva che agisce direttamente su un organo con
rottura dei piccoli vasi sanguigni, portando alla formazione di un ematoma. Il cosiddetto “pestone”.
Clinicamente troverò la tumefazione, un’ecchimosi locale, il gonfiore, lo stravaso ematico, il dolore
localizzato in sede.
Trattamento
Sembra banale, ma, conoscendo la fisiopatologia, so di dover limitare l’afflusso di sangue, quindi il
trattamento è semplicemente l’applicazione di ghiaccio, che vasocostringendo, va a ridurre il flusso di sangue
e l’entità della contusione
Il professore racconta di un caso in PS: un ragazzo, subita una grossa contusione alla coscia durante una
partita di calcio, ha messo una borsa di acqua calda sulla lesione, portando al suo accesso in pronto soccorso
dopo alcune ore, poiché la coscia si era gonfiata fino ad arrivare al doppio del volume dell’altra con un
enorme ematoma.
Se abbiamo degli ematomi di notevoli dimensioni a volte è necessaria un’incisione o un drenaggio.

Distorsione
Si intende una sollecitazione brusca delle strutture legamentose, che presiedono alla stabilità
dell’articolazione, con conseguente perdita parziale e temporanea dei rapporti tra le superfici articolari. Ne
abbiamo visto qualche esempio la volta scorsa
Sono conseguenti a un trauma indiretto, responsabile di un’escursione anomala dell’articolazione.
Tipicamente nella storta alla caviglia, il trauma avviene sul piede, portando a una sollecitazione dei legamenti
della caviglia e dunque alla distorsione.
Dalle slides: le articolazioni più frequentemente interessate sono, in ordine decrescente: caviglia, polso,
ginocchio e gomito.

Classificazione in base all’entità del danno delle strutture legamentose


- Grado 1° dove le componenti legamentose stirate, ma entro i loro limiti di elasticità;
- Grado 2° se la resistenza intrinseca viene superata e con lesione parziale delle strutture;
- Grado 3° ho completa lacerazione delle strutture capsulo-legamentose con evidente lassità articolare.
Clinica
- Tipo 1Infiammazione modesta, ho dolore, ma, testando l’articolazione, questa rimane stabile;
- Tipo 2 Infiammazione moderata, idrartro o emartro, prove di stabilità articolare negative per lassità
legamentosa (avrò una caviglia molto gonfia, tesa e dolente con il paziente che fa difficoltà a caricare, ma
le strutture legamentose sono integre);
- Tipo 3 tumefazione impotente, ho lassità articolare alle prove di stabilità.
Diagnosi
- Tipo 1  è sufficiente l’esame clinico
- Tipo 2 Quasi sempre prudente aggiungere una radiografia per escludere un’eventuale frattura o una
lesione delle porzioni dell’osso su cui i legamenti sono inseriti.
- Tipo 3  Importante un’accurata valutazione delle strutture capsulo legamentose a distanza del trauma
(solitamente 30gg) con ecografia o RMN
Trattamento
Grado 1
- Ghiaccio per vasocostringere
- Sottrazione del carico
- Artrocentesi se versamento ematico
Nel grado 2 e 3 considero anche:
- Immobilizzazione con tutore
- Chirurgia
Lussazione
Perdita completa e permanente dei rapporti articolari
tra le superfici ossee (questo la differenzia dalla
sublussazione in cui la perdita dei rapporti tra le
superfici è incompleta).
Il prof descrive le immagini a lato: lussazione anteriore
di spalla, lussazione posteriore di ginocchio, lussazione
anteriore di gomito.
Diagnosi
Il paziente si presenterà con:
Dolore violento
 Deformità
 Incapacità funzionale
Importantissimo è l’esame clinico con valutazione
neurologica e vascolare
Effettuare una radiografia per valutare l’eventuale presenza di una combinazione frattura-lussazione.
Trattamento
L’obiettivo è il ripristino congruenza articolare, più efficace se precoce, in modo incruento o con la chirurgia.

Fratture
Una frattura è una Soluzione di continuità di un segmento osseo dovuto a un trauma.
Immagine Frattura complessa di femore distale, frattura semplice di una diafisi di osso lungo, alcune fratture
articolari.
Fisiopatologia
Il trauma che porta a una frattura deve essere di intensità superiore della resistenza meccanica del segmento
interessato.

Terminologia (il professore insiste sull’importanza di una corretta terminologia)


Sede di frattura: focolaio di frattura. Può essere singolo o, se ho due focolai all’interno dello stesso segmento
osseo, avrò una frattura bifocale
Rima di frattura: linea di demarcazione tra due o più segmenti ossei, esistono diverse classificazioni che
prendono in considerazione ciò.
Monconi di frattura: i segmenti principali dell’osso di frattura (prossimale, distale)

Epidemiologia
Ecco le curve dell’incidenza di fratture nei due
sessi.
Nel sesso femminile dai 50 anni in poi ho un
incremento esponenziale delle fratture dovuta
all’osteoporosi, più evolutiva nelle donne.
Anche negli uomini ho Questo incremento verso i
50-60 anni per lo stesso motivo, sebbene meno
rilevante, mentre il picco verso i 20-30 anni è
dovuto a traumi ad alta energia
Si stima che almeno 1 persona su 2 subirà una
frattura durante l’arco della vita.
Distribuzione delle fratture
Le più frequenti sono caviglia, polso, mani e dita.
Se considero le diverse fratture in relazione all’età,
avremo distribuzioni diverse, nell’anziano, dove le
fratture sono spesso conseguenti all’osteoporosi, il
femore raggiunge potenzialmente il 100% delle
fratture in questa fascia d’età. A queste seguono
le fratture dell’omero distale, caviglia,
avambraccio, polso, omero prossimale.

Classificazioni
Esistono in relazione a:
 Eziologia
 Tipo
 Sede
 Integrità della cute

A) Classificazione in base all’eziologia


Frattura da trauma diretto: quando la causa della frattura agisce direttamente nel punto in cui l’osso viene
interessato. Ad esempio, un trauma diretto sulla coscia con frattura del femore
Frattura da trauma indiretto quando la causa della frattura è a distanza dal punto in cui agisce la forza. Ad
esempio, se io cado e urto violentemente il polso, provocando una frattura del gomito o della spalla.
Agisce con meccanismi d’azione specifici:
 meccanismo in flessione. Ad esempio, una frattura di gamba bi-ossea in cui il trauma agisce a livello del
piede e in flessione si determina una frattura indiretta.
 movimento torsionale, si presenta con una rima di frattura con andamento spiroide.
Esempio tipico è un piede bloccato all’interno di un tombino accompagnato da un movimento rotatorio
che, superando la resistenza torsionale dell’osso, provoca la frattura dello stesso.
 compressione, come nel caso di fratture vertebrali per cadute in piedi dall’alto o dovute al sobbalzo da
onda in barca.
Si può presentare la compromissione del solo corpo vertebrale o l’avulsione di frammenti con conseguente
compressione della regione midollare
 da strappo, correlati all’inserzione di grossi gruppi muscolari.
o Avulsione della tuberosità tibiale, dove ha retto l’apparato estensore, mentre l’osso su cui i
inserisce il legamento rotuleo non ha resistito.
o Avulsione del tendine d’Achille

Immagini da sx a dx: frattura in flessione, frattura in


torsione, frattura in compressione, frattura da strappo.
Il professore mostra dei video: il primo mostra una frattura con meccanismo
indiretto di flessione di un giocatore di basket, il secondo una frattura secondo
movimento torsionale durante il “braccio di ferro”
Frattura da durata o da microtraumi ripetuti  correlata a microtraumi ripetuti,
anche di bassa intensità, che non permettono all’osso il normale processo di
guarigione. Alla radiografia quindi vedrò sia fratture che callo osseo riparativo che non
arriva mai a guarigione. È una frattura tipica dei maratoneti che sollecitano sempre le
stesse strutture ossee.
Questa è una radiografia di un giocatore di kickboxing: durante gli allenamenti si
prendono a calci delle barre di ferro, portando a rime di fratture nella corticale
ossea al fine di indurre una calcificazione importante della regione e sopportare
eventi traumatici durante gli incontri.
Fratture patologiche La loro prevalenza è in aumento. Abbiamo un osso,
indebolito da un processo patologico (come osteoporosi, neoplasie o patologie
metaboliche), a livello del quale un trauma di bassa entità, un banale movimento
torsionale o una contrazione muscolare bastano per ottenere una frattura.
Immagine: frattura di omero in presenza di osteolisi diafisaria e metafisaria.

B) Classificazione per tipo

Fratture complete
Sono le più frequenti. Ho una discontinuità completa dei monconi e del periostio con conseguente
sanguinamento nella regione del trauma ed ematoma. Questo ematoma porterà a lacerazione dei tessuti
molli circostanti.
Importante: i monconi d frattura tendono a scomporsi a causa delle inserzioni muscolari: infatti, persa
l’integrità della struttura ossea, il moncone si sposterà in relazione al muscolo che vi esercita la trazione).
Es. Nel femore il prossimale extraruoterà a causa dell’inserzione trocanterica dei muscoli glutei, mentre il
femore distale si allineerà in relazione alla trazione degli adduttori con scomposizione della frattura

Possiamo classificare quattro tipi di scomposizione :


-ad longitudinem nell’asse della lunghezza dell’osso i due monconi
vanno in sovrapposizione e in accorciamento,
-ad latus, ho scomposizione laterale in corrispondenza del focolaio,
-ad axim o angolare
-ad peripheriam con comportamento rotazionale del frammento distale

Identifico le fratture complete anche in base al numero di frammenti:


-Semplice, se ho una sola rima di frattura
-Pluriframmentaria quando ho più di una rima di frattura chiaramente
evidenziabile
-Comminuta se ho una frattura con multipli frammenti all’interno e
rime che non riesco a identificare, come un pacchetto di cracker
sbriciolati.

Fratture incomplete o composte


Ho un’interruzione della continuità ossea, senza dissociazione dei due monconi. La
lacerazione del periostio è assente o scarsa, con formazione di un minimo ematoma,
ma non ho mai uno spostamento dei monconi di frattura
A sinistra una frattura composta del capitello radiale, a destra una frattura del piatto tibiale con
affossamento dello stesso senza separazione dei due segmenti.

Fratture a legno verde


Tipica dell’età pediatrica, il professore fa un esempio per chiarire il meccanismo di frattura: se io prendo una
matita ed esercito una forza in flessione, questa si romperà a metà (frattura
completa dell’adulto), tuttavia se faccio la stessa cosa con un giunco questo non si
romperà (frattura a legno verde).
Avrò uno dunque uno slaminamento della corticale dell’osso, dovuta alla
maggiore capacità elastica dell’osso del bambino, la continuità è mantenuta,
l’ematoma sarà molto scarso e non avrò motilità preternaturale.
Questo tipo di frattura va riconosciuta e trattata come una frattura vera e propria.
Esempio radiografico: l’ulna e il radio sono deviati da condizione normale, vedo
una frattura dell’ulna, nel radio vedo un’angolazione del profilo corticale.

C) Classificazione in relazione alla sede (delle ossa lunghe)


- Fratture diafisarie:
- Fratture metafisiarie
- Fratture articolari
- Distacchi epifisari e apofisari
Mostra l’immagine a destra la classificazione serve a definire in modo
chiaro ed univoco le fratture, questa è una frattura bi-ossea di tibia e perone,
bifocale, scomposta con scomposizione ad longitudinem (in accorciamento) e
ad axis, pluriframmentaria.
.

Esempio di frattura pluriframmentaria con minima scomposizione dei frammenti


con il terzo frammento a farfalla

Fratture metafisiarie
Interessano la porzione metafisaria dell’osso. Spesso rischiano un coinvolgimento della superficie articolare.
Alcuni esempi [immagini non disponibili]: frattura tipica di polso dell’anziano in cui si vede chiaramente come
sia crollata la metafisi del radio, il polso è andato in accorciamento; frattura di piatto tibiale, in cui alla RMN è
ben visibile la rima di frattura, tutto ciò che c’è intorno è edema.
In queste fratture è molto importante escludere un interessamento articolare. Se ci sono dei dubbi è sempre
obbligatorio effettuare una TC. Questo perché il trattamento delle fratture articolari richiede assolutamente
la riduzione anatomica della superficie articolare, pena un’evoluzione artrosica dell’articolazione
notevolmente accelerata, oltre al fatto che durante la guarigione della frattura il liquido sinoviale va a
insinuarsi all’interno del focolaio di frattura e ciò non aiuta il processo di guarigione.
Distacchi epifisari e apofisari
Si tratta di fratture tipiche dell’età pediatrica. Interessano in maniera esclusiva la cartilagine di accrescimento.
Vedremo in seguito una classificazione specifica di questi distacchi, i quali possono avere un impatto rilevante
sull’accrescimento dell’osso interessato dalla frattura.

D) Classificazione per integrità della cute


- Fratture chiuse
- Fratture esposte: lacerazione di cute e parti molli da parte dell’osso, in cui c’è una soluzione di continuità
tra focolaio di frattura ed ambiente esterno. Esempio di una frattura abbastanza frequente a livello tibiale,
essendoci un piccolo strato di tessuto sottocutaneo. In questi casi ci può essere un’esposizione del
moncone osseo, che a volte correla con una contaminazione del focolaio, cosa che aumenta il rischio
infettivo e conseguentemente rende più complessa la guarigione rispetto alle fratture chiuse.
Classificazione delle fratture esposte secondo Gustalo Anderson (è una classificazione un po’ datata
ma assolutamente ancora attuale, infatti viene utilizzata in tutti i PS e i triage):
o TIPO I: ferita < 1cm, con minima o senza contaminazione degli strati profondi. Esempio: in
corrispondenza dell’articolazione tibiale prossimale c’è una lesione puntiforme della cute,
inferiore al cm che non determina una gran contaminazione dei tessuti profondi
o TIPO II: ferita > 1cm, in assenza di gravi danni ai tessuti molli [1^ immagine]
o TIPO IIIA: ferita ampia con esposizione importante del focolaio di frattura ma una buona
copertura dei tessuti molli [2^ immagine]
o TIPO IIIB: ferita ampia, dove manca materiale dei tessuti molli per coprire il focolaio di
frattura [3^immagine]
o TIPO IIIC: ferita ampia in cui, oltre all’importante distruzione dei tessuti molli, c’è anche un
coinvolgimento grave della componente vascolo-nervosa. In questo caso c’è un rischio
funzionale della parte periferica [4^immagine]
Quando parliamo col paziente è importantissimo ricostruire il meccanismo causale del trauma, perché a volte
la differenza tra un anziano che è caduto e si è rotto il femore e un anziano che ha sentito cedere il femore
mentre si stava lavando i denti, può essere sottile. Da un punto di vista anamnestico ci troviamo di fronte a
due situazioni molto diverse, la prima in cui sospettiamo una frattura da fragilità dovuta all’osteoporosi,
mentre nel secondo caso il sospetto è di una frattura patologica.
Ovviamente anche l’esame clinico è molto importante: è necessario esaminare l’arto, valutare le simmetrie,
la presenza di ecchimosi, tumefazioni etc. Meno banale ma fondamentale è la valutazione del tratto vascolo-
nervoso alla quale è sempre necessario associare un esame neurologico. Questo è importante
particolarmente in caso di traumi vertebrali. Come sappiamo, dal punto di vista anatomico ci sono diversi
dermatomeri che correlano con lesioni più o meno specifiche di alcune radici nervose.
Segni di probabilità di fratture: tumefazione, versamento, ematoma… esempio: bambino arriva in PS con un
atteggiamento cosiddetto ‘a collo di cigno’ dell’articolazione del polso. Questa condizione ha un’elevata
probabilità di correlare con una frattura di polso.
Segni di certezza: motilità preternaturale, crepitio o scroscio al movimento. Esempio: anziano che è caduto,
non è in grado di muovere l’anca, presenta un arto completamente extraruotato ed accorciato. Questo
atteggiamento è tipico di un paziente con rottura del collo del femore.
Rx: deve essere fatta bene. Esempio di una Rx fatta male: in PS al paziente, con una clinica abbastanza
evidente, è stato assegnato un codice di gravità da parte degli infermieri del triage, il medico del triage ha
richiesto però la radiografia del ginocchio, nella quale la frattura si vede ai limiti esterni del campo
radiografico, perciò chiaramente questa Rx non è l’esame corretto per la diagnosi di questa frattura, anche
perché in genere non si prende in considerazione ciò che è presente ai limiti del campo.
TC: deve seguire la Rx in caso di dubbi, in caso in cui sia necessaria una conferma diagnostica o in caso sia
necessaria una localizzazione più precisa dei frammenti di frattura.

Guarigione delle fratture


La guarigione delle fratture correla con la consolidazione ossea dei monconi di frattura, ed è potenzialmente
in grado di ripristinare completamente sia l’asse di carico, sia la superficie articolare. L’osso guarisce
formando osso. È una delle poche, visto che la maggior parte delle lesioni dei tessuti guarisce formando
tessuto cicatriziale fibroso (fa eccezione in qualche caso il fegato, ma bisogna tenere conto che il fegato
ripristinato non è comunque uguale all’organo originale). Per avere una corretta formazione di un callo osseo
sono necessari tre criteri essenziali:
a. Congruenza delle superfici di frattura
b. Stabilità dei frammenti ossei: è così importante che sono stati eseguiti studi preclinici e di
laboratorio, in cui si è visto che, tenendo due monconi di frattura allineati in compressione si va a
determinare deposizione di osso. Se gli stessi due segmenti venissero tenuti insieme con una forza di
dis-trazione, il tessuto che si formerà sarà tessuto fibroblastico, in quanto si va a determinare una
cicatrizzazione. Per questo, la stabilità dei due monconi riveste un ruolo fondamentale.
c. Adeguata vascolarizzazione
La loro presenza è essenziale per avere buone possibilità di una guarigione completa.
Ci sono 4 fasi di guarigione [già ampiamente trattate durante gli anni precedenti, vengono brevemente
accennate per completezza, non verranno chieste nello specifico]:
1) 1° stadio, dura circa 20 giorni: stadio dell’ematoma, che va ad avvolgere il focolaio di frattura.
Origina dai vasi periostali, in minima parte dai vasi midollari. Si ha un’organizzazione e si ha la
formazione di lacune ematiche anche all’interno della struttura ossea. L’ematoma del primo stadio
viene sostituito con tessuto fibroso vascolarizzato, la componente ossea, pluriframmentata, a livello
del focolaio, viene invece riassorbita.
2) 2° stadio, 20-30 giorni: la proliferazione osteoblastica porta alla formazione di un callo fibroso vero e
proprio, che prende il nome di callo osseo primario. In questo caso i due segmenti hanno una
stabilità propria.
3) 3° stadio: stadio di maturazione del callo osseo, in cui da una struttura cartilaginea si passa ad avere
una struttura ossea, con un processo di ossificazione che interessa tutta la struttura del callo, anche
la struttura midollare
4) 4° stadio, dal 60° giorno: rimodellamento osseo, l’attività osteoclastica diventa prevalente e
permette la riformazione del canale midollare e la riduzione della deformità presente in
corrispondenza del callo di frattura. Si ha quindi una restitutio ad integrum della struttura ossea
originale.

Esempio: frattura diafisaria neanche troppo ben ridotta, in cui si vede come si sia formato un
abbondante callo di frattura. Sono poi visibili la terza fase e il rimodellamento finale.

Sulla guarigione della fratture agiscono tutti i fattori che possono influenzare positivamente
o negativamente i tre criteri visti prima (congruenza delle superfici, stabilità dei frammenti
ossei, vascolarizzazione). Dunque, naturalmente, sono coinvolti tantissimi fattori, soprattutto
quelli endocrini. Ad esempio, in un diabetico con una angiopatia periferica importante, essa comporta una
riduzione della vascolarizzazione a livello del callo osseo e quindi ne riduce la capacità di guarigione. Altri
esempi possono essere una depauperazione di vitamina D, oppure un sindrome nefrosica, in cui ci sono pochi
elettroliti a livello del focolaio di frattura e anche questo rallenta la maturazione del callo osseo.
Fattori influenti sulla guarigione delle fratture:
a. che la accelerano
-riduzione immobilizzazione
-mobilizzazione e carico
b. che la ritardano
-età: ovviamente un bambino ha una capacità rigenerativa molto più elevata rispetto ad un anziano
-localizzazione diafisaria, perché qui la vascolarizzazione è molto minore rispetto alle metafisi o alle strutture
articolari
-esposizione cutanea
-evacuazione dell’ematoma: in un intervento chirurgico, per allineare anatomicamente i monconi di frattura,
si ha un vantaggio sull’allineamento, però viene perso l’ematoma che si era creato nel momento del trauma.
Ci sono indicazioni chirurgiche che tengono in considerazione l’evacuazione dell’ematoma, mentre altre,
come l’inchiodamento di midollare, non lo fanno, non vanno ad alterare il microambiente in corrispondenza
della frattura
-immobilizzazione insufficiente: ritarda o determina una non formazione del tessuto osseo in corrispondenza
del focolaio
-interposizione di strutture muscolari, tendinee etc in corrispondenza del focolaio

Trattamento
1. Riduzione + immobilizzazione
2. Sostituzione protesica (NB: in alcuni casi, alcune fratture articolari o fratture della regione metafisaria
dell’anziano, possono essere trattate direttamente con una sostituzione protesica)
In entrambi i casi, successivamente, è necessario procedere alla rieducazione funzionale.
Immobilizzazione
Esempio: arriva un paziente in PS con una frattura, che viene ridotta con una manovra correttiva, si
immobilizza con un gesso.
Un gesso viene mantenuto in genere per circa 30 giorni, tuttavia questo tempo può variare in dipendenza
dalle sedi ossee e da altri fattori. L’obiettivo è comunque arrivare allo stadio 3 della guarigione,
successivamente si libera il gesso e si inizia la riabilitazione.
Se ci sono lesioni cutanee e/o vascolari, esse vanno gestite nell’immediato. Se ci sono indicazioni chirurgiche,
bisogna adottare delle manovre che aiutino a mantenere più immobilizzati o più ridotti possibile i monconi di
frattura.
Esempio: per una frattura di caviglia complessa, non trattabile in
gesso, va fatta comunque un’immobilizzazione, il paziente va
ricoverato e va indirizzato alla chirurgia.
Esempio: la prima immagine è quella di un’immobilizzazione parziale
in gesso per una frattura composta. Può essere accettato l’utilizzo di
gessi parziali, ma nel momento in cui si vuole avere immobilità
completa di una regione fratturata, è necessario bloccare
un’articolazione a monte e una a valle. La seconda immagine
rappresenta un gesso più adeguato per questa situazione, in cui si è
andati a bloccare il gomito e la filiera del carpo. Lo stesso discorso
vale per l’arto inferiore (3^ e 4^ immagine).
La trazione transcheletrica è una modalità di riduzione che può essere usata ad esempio in una frattura in
accorciamento del femore: viene posto in trazione il segmento distale, cosa che serve per allineare i monconi
di frattura. Ha il grosso vantaggio di evitare al paziente un dolore legato all’instabilità e inoltre permette di
ridurre progressivamente la sovrapposizione dei monconi.
In questa immagine è mostrato come si effettua una
trazione transcheletrica: viene passato un filo d’acciaio
a livello calcaneare (esempio tipico), successivamente
viene posto in una staffa la quale viene collegata ad un
sistema di carrucole con un peso che permette una
progressiva trazione dell’arto. Bisogna usare cautela
nel posizionare il filo, per evitare di danneggiare le
strutture vascolari e nevose che possono essere
presenti.

Riduzione
Trattamento conservativo o incruento: si tratta di una riduzione manuale con manovre esterne e bloccare la
rima di frattura con un gesso o altri presidi ortopedici.
Le indicazioni per questo tipo di trattamento sono:
- fratture composte
- fratture scomposte che si è in grado di ridurre
- fratture scomposte più o meno gravi, per esigenze funzionali, come ad esempio una frattura scomposta
chirurgica, che comunque necessita di immobilizzazione
- fratture dei bambini, nella maggior parte dei casi
- fratture di ossa del polso, mani e piedi senza scomposizione
- fratture vertebrali senza danni neurologici
Alcune accortezze tecniche da considerare al momento del confezionamento di un apparecchio gessato:
 in genere sono necessarie almeno due persone per il mantenimento della riduzione, più una terza
persone che vada ad applicare l’imbottitura e il gesso
 a pelle viene passato del semplice cotone di Germania, che viene rinforzato in alcune sedi per evitare
lesioni cutanee da decubito. Questo perché il gesso, quando va in solidificazione, lo fa mediante un
processo termico, in cui la temperatura arriva fino ai 50-60°. La funzione del cotone è quella di
proteggere da eventuali ustioni cutanee, di cui ci si accorgerebbe 30 giorni dopo, al momento della
rimozione. Inoltre, la rimozione del gesso avviene tramite una sega che produce microvibrazioni e
che taglia sul duro, mentre si ferma quando arriva sul morbido, in questo caso sul cotone, che perciò
ha un ruolo protettivo.
Esempio della situazione cutanea di un paziente a cui non è stata fatta un’imbottitura al di sotto della parete
del gesso.
Complicanze:
- la più comune complicanza di un apparecchio gessato fatto male è la mancata riduzione. Ad esempio, in
un paziente con una frattura, che presenta una grossa tumefazione della regione della caviglia, fare un
apparecchio gessato al momento del trauma può richiedere, a distanza di qualche giorno, di rifare il
gesso. Questo perché nell’arco di 4-5 giorni dal trauma si va progressivamente a ridurre la tumefazione,
perciò si rischia che il gesso fatto su una gamba tumefatta diventi largo. Qualche volta, al professore si
sono presentate mamme con bambini a cui era stato messo un gesso, che si è però sfilato da solo a
distanza di pochi giorni per questo motivo. Questo ovviamente compromette la riduzione della frattura
- ulcere cutanee: sono assolutamente da evitare
- ipotrofia muscolare, legata all’inutilizzo. Deve essere tenuta in considerazione quando si fanno gessi che
vanno tenuti per 2-3 mesi. Ad esempio, una frattura di femore dell’anziano, che può essere mantenuta
anche per 3-4 mesi, per risparmiare un intervento chirurgico al paziente, potrebbe essere trattata con il
gesso, tuttavia questo vorrebbe dire allettare il paziente per tutto questo tempo, perciò questa è una
soluzione meno utilizzata.
- rigidità articolare: bisogna considerare che per esempio in una frattura di polso vengono bloccati gomito
e la regione del carpo. Nel gomito, se immobilizzato per oltre 25 giorni, si instaura un processo di rigidità
articolare per cui poi è più difficile rieducare l’articolazione di quanto non sia effettuare una riduzione
precoce con gesso a livello del gomito e cominciare prima la mobilizzazione dello stesso.
- sindrome compartimentale: rara ma estremamente importante da conoscere essendo una delle poche
emergenze ortopediche. Si tratta di una sindrome ischemica di un reparto osteo-fibroso, che è causata
dal fatto che c’è un edema dei tessuti, un ematoma che, se fosse libero, tenderebbe ad allargare le
strutture cutanee circostanti. Non potendolo fare per via dell’immobilizzazione data dal gesso, non trova
uno sfogo e quindi va progressivamente a comprimere ab-intrinseco le strutture vascolari e nervose
circostanti. Questo è il motivo per cui, SEMPRE, quando si mette un gesso, si richiede al paziente una
rivalutazione a 24h, perché nel momento in cui si instaura una sindrome di questo tipo, l’indicazione è la
rimozione dell’apparecchio gessato. Se questo non è sufficiente a risolvere il problema e a far ritornare il
polso periferico, è indicata una fasciotomia, che consiste nell’apertura completa di tutte le fasce
anatomiche del segmento interessato, nella speranza di recuperare la funzione vascolare. Questa
sindrome è tipica dell’avambraccio e della gamba, perché dal punto di vista anatomico sono
caratterizzate dalla presenza di numerosi compartimenti, ognuno circondato da una struttura fasciale
propria. Se non si risolve la sindrome compartimentale, il danno che rimane è permanente e comporta
l’impossibilità di utilizzo dell’arto coinvolto, una retrazione muscolare-fibrosa cicatriziale di tutte le
strutture interessate e la non-funzionalità periferica delle dita. L’esito di una sindrome compartimentale
è gravoso e importante anche dal punto di vista medico-legale.
Per questo motivo, devono essere osservate alcune accortezze, piuttosto banali, che hanno lo scopo di
evitare o quantomeno di ridurre al minimo il rischio di sindrome compartimentale: dopo aver fatto il gesso
bisogna controllare che l’arto sia in scarico, che abbia mobilità perfetta delle dita…
Oltre che con i gessi, il trattamento conservativo può anche essere effettuato per mezzo di tutori di vario
genere, che vengono utilizzati per ciò che non può essere ingessato, ad esempio per le fratture di clavicola,
oppure quelle a livello del rachide cervicale, per le quali viene utilizzato il collare cervicale. In aggiunta a ciò si
utilizzano anche ausili che aiutino la deambulazione.
Alcune immagini di ausili e tutori [dei quali si parla in maniera più approfondita nelle slides]:
Trattamento cruento: consiste nella riduzione chirurgica dei monconi di frattura.
Nelle immagini si vede una frattura diafisaria in cui è ben visibile la rima di
frattura. In sala operatoria viene ripristinata in maniera anatomica la continuità
dell’osso. A questo punto, una volta fatta la riduzione, si procede
all’immobilizzazione, che può essere effettuata con sistemi più o meno

aggressivi, che immobilizzano in maniera interna la frattura agendo secondo


una meccanica di tipo trazionale.

Indicazioni particolari:
- Fissazione esterna: non si posiziona nulla all’interno del focolaio di frattura, l’immobilizzazione viene
mantenuta con uno strumento esterno. Ciò ha due vantaggi: innanzitutto non viene alterato il naturale
processo di guarigione all’interno del focolaio di frattura, inoltre costituisce una delle indicazioni più
importanti quando c’è sospetto di infezione del focolaio di frattura, come nei casi di frattura esposta, in
cui potenzialmente ci sono batteri in corrispondenza del focolaio. In questo caso, l’inserimento di un
qualsiasi strumento nel focolaio comporta un elevato rischio di sovrainfezione, diventando una sorta di
incubatore di batteri. Lo svantaggio è la sua scomodità, in quanto si compone di un ‘esoscheletro’
esterno alla cute che necessita di medicazioni e attenzione. Le indicazioni ad un intervento di questo tipo
sono prevalentemente fratture esposte (che vengono trattate con un lembo di copertura e un fissatore
esterno che mantiene l’allineamento dei monconi) e grosse perdite di sostanza a livello tibiale. In
quest’ultimo caso, si nota come il fissatore esterno permetta sia di correggere in itinere alcune
deviazioni, sia di far guarire per seconda intenzione una regione con carenza di ossigeno
- Osteosintesi interna (fatta con viti, chiodi, placche)
La differenza tra una placca e un sistema di fissazione endomidollare è che per mettere una placca riduco i
frammenti in maniera perfetta, però riduce il microambiente che si è formato nella sede di frattura, con
conseguente devascolarizzazione dello stesso. Con il posizionamento di un chiodo endomidollare, invece, non
viene rimosso nulla dal focolaio di frattura, l’operazione prende infatti il nome di riduzione interna o a cielo
chiuso ed è tipicamente indicata nelle lesioni diafisarie.
Sostituzione protesica
Si effettua sostanzialmente nell’anziano in corrispondenza del collo del femore o del collo dell’omero. Nel
primo quando c’è alto rischio di devascolarizzazione della testa del femore, in casi di frattura sottocapitata,
che sicuramente interrompe buona parte della vascolarizzazione della testa del femore, non ha senso fare un
tentativo di riduzione e di osteosintesi di quel frammento perché molto probabilmente andrà in necrosi. Per
questo si opta direttamente per una sostituzione protesica. Lo stesso vale per l’omero, soprattutto quando ci
sono fratture con 3-4 frammenti, è molto più prudente e sensato, soprattutto nell’anziano, procedere alla
sostituzione.

Della riduzione funzionale parlerà in seguito il professor Frizziero.


COMPLICAZIONI DELLE LESIONI TRAUMATICHE
Le complicazioni delle fratture si suddividono in:
1. generali
2. locali
Per comodità, le lesioni di ciascuno dei due gruppi vengono suddivise in immediate, precoci e tardive rispetto
al momento in cui è avvenuto il trauma.
1. GENERALI
La complicazione più grave di un trauma è lo shock traumatico (di solito, in questo caso si tratta di un
politrauma). Per shock traumatico di intende uno shock legato ad importante perdita ematica e conseguente
anossia di tutti i tessuti con riflessi particolarmente gravi sulla funzione degli organi vitali. È correlato a:
• Perdite di sangue;
• Perdita di plasma;
• Riassorbimento di sostanze istamino-simili;
• Riflessi nocicettivi legati al dolore.
Lo shock traumatico ha diverse fasi. In una prima fase ci sono dei meccanismi di compenso, che contrastano
la perdita ematica. Tra questi:
• il principale richiamo di sangue da tutte le strutture splancniche;
• l’immissione in circolo dei liquidi extravasali;
• la vasocostrizione periferica;
• la tachicardia;
• l’ipercapnia;
• l’ipertono simpatico (midriasi, polso tachicardico, salivazione scarsa, assenza di peristalsi intestinale,
orripilazione).

Qualora questi meccanismi di difesa non riescano a sopperire allo shock, si passa allo shock traumatico
conclamato o scompensato. In questo caso si attivano tutti i sistemi fisiologici e patologici di metabolismo
che correlano poi con il rilascio di radicali liberi ecc. Vediamo una serie di caratteristiche, che vengono
repertate regolarmente (il prof le indica nella slide ma non le legge):
• Irrorazione inadeguata;
• Facies ansiosa, narici alitanti;
• Sensorio lievemente obnubilato;
• Cute pallida e cianotica;
• Respiro superficiale e frequente;
• Polso filiforme con pressione arteriosa diminuita;
• Pupille miotiche;
• Riflessi tendinei diminuiti;
• Oliguria;
• Aumento ematocrito;
• Diminuzione della riserva alcalina;
• Aumento glicemia, azotemia e kaliemia;
• Calo natremia e calcemia.
Lo shock traumatico conclamato richiede assolutamente un trattamento urgente perché si autoalimenta e si
può arrivare al collasso delle funzioni vitali dell’organismo. Occorre:
1. Prendere uno o più accessi venosi e trasfondere il paziente il prima possibile;
2. Correggere le alterazioni metaboliche per bloccare il circolo vizioso;
3. Ripristinare la diuresi;
4. Mantenere una buona ventilazione polmonare.

1.1. COMPLICAZIONI GENERALI PRECOCI


a. Embolia polmonare
L’embolia polmonare è abbastanza frequente nel caso di fratture multiple o di fratture di ossa lunghe, ricche di
midollo adiposo. È un’embolia cosiddetta “grassosa”, ovvero un’embolia correlata all’immissione in circolo di
materiale adiposo dalla diafisi midollare, il quale, non potendosi miscelare con la componente ematica, quando
raggiunge il circolo ematico dà un’embolizzazione diffusa a livello polmonare. Questo è un problema
abbastanza serio e precoce, perché, rispetto al tromboembolismo venoso, dove abbiamo dei meccanismi in
grado di sciogliere i trombi anche a livello polmonare, nell’embolia polmonare grassosa solo i meccanismi
fisiologici possono permettere lo scioglimento di eventuali trombi a livello polmonare, ovvero non c’è altro
meccanismo terapeutico che possa essere utilizzato.
Il prof sorvola su sintomi e terapia. Li riportiamo dalle slides.
Sintomi: tachipnea, dispnea, rantoli basali polmonari, tachicardia, ipotensione, segni ECG di insufficienza
miocardica, coma, lesioni cerebrali, ittero, petecchie cutanee (il segno più caratteristico di embolia grassosa).
La terapia (per il ripristino della funzione respiratoria): corticosteroidi, ossigenoterapia, respirazione assistita e
albumina.
b. Tromboembolia
Nell’arco dei primi giorni, se il paziente viene allettato, c’è il rischio che si formino dei trombi in
corrispondenza del segmento immobilizzato, dai quali possono partire eventuali emboli con conseguente
embolismo polmonare. Il rischio è ancora più alto nel paziente anziano.
In questo caso esistono dei sistemi di profilassi, come le eparine a basso peso molecolare, le quali vengono
somministrate a qualsiasi paziente che abbia un’immobilizzazione degli arti inferiori al fine di prevenire il
rischio di trombosi. Nulla vieta però che anche un paziente in terapia eparinica possa sviluppare una trombosi
venosa.

1.2. COMPLICAZIONI GENERALIZZATE TARDIVE


a. Sindrome da allettamento
Un paziente in età avanzata con frattura di femore ha il rischio di rimanere allettato per molte settimane o
addirittura mesi. In questo caso le problematiche generalizzate sono legate a:
• infezioni dell’apparato polmonare (es. broncopolmoniti ipostatiche) o dell’apparato urinario;
• possibili infezioni secondarie e talora stati settici generalizzati. La frattura va in guarigione ma si
rischia di perdere il paziente per complicazioni generalizzate;
• piaghe da decubito. Sono un’altra conseguenza dell’allettamento, ma non sono così pericolose come
la sindrome da allettamento. Esistono delle manovre infermieristiche che servono a minimizzarne la
formazione.

Per queste ragioni si cerca di limitare al minimo l’immobilizzazione al letto, soprattutto in persone anziane ed
in condizioni generali scadenti.

2. COMPLICAZIONI LOCALI
2.1. COMPLICAZIONI LOCALI IMMEDIATE
In questo caso si è in presenza di una frattura ossea, ma soprattutto delle lesioni di diverso tipo:
1. Lesioni nervose: contusione o lacerazione di un nervo. In alcune sedi le strutture nervose decorrono
in stretto contatto con la struttura ossea. Ad esempio, in corrispondenza della diafisi omerale passa il
nervo radiale, che da posteriore passa ad anteriore circondando la diafisi omerale. Una frattura a
questo livello può stirare o comprimere il nervo radiale. Compare di conseguenza il segno della mano
cadente, ovvero l’incapacità di estendere l’avambraccio, il polso e le dita. Questo è un sintomo clinico
che obbliga ad intervenire con urgenza;
2. Lesioni vascolari: contusione ed interruzione di un vaso, frequenti in caso di lesioni del bacino per il
passaggio dei vasi in vicinanza alla pelvi. Per esempio, in caso di trauma stradale, è possibile avere
una lesione dell’arteria otturatoria o delle arterie iliache con conseguenti sanguinamenti importanti;
3. Lesioni viscerali, soprattutto in caso di fratture del bacino (vedi lesioni vascolari);
4. Lesioni tendinee (sono meno importanti).
Posso avere anche delle lesioni misconosciute che non sono direttamente correlate al meccanismo della
frattura. Un esempio non infrequente è lo strappo dell’uretra, che causa un’emorragia massiva a livello della
piccola pelvi.

2.2. COMPLICAZIONI LOCALI PRECOCI


Le complicazioni locali precoci si verificano a qualche ora o qualche giorno dall’evento traumatico.
a. Sindrome di Volkmann
Tra le complicazioni locali precoci la sindrome di Volkmann è la più grave e la più pericolosa. È favorita da
apparecchi gessati e da fasciature strette. Questa sindrome è dovuta ad un conflitto tra contenuto e
contenente: l’ematoma e l’edema, conseguenti alla frattura, si raccolgono nelle logge aponeurotiche
contenenti i muscoli con la tendenza ad espandersi; ma, essendo sia le fasce delimitanti le logge che il gesso
inestensibili, l’aumento di tensione nel compartimento muscolare porta a compressione di vasi sanguigni e
nervi. Conseguentemente a ciò si avranno ischemia e necrosi muscolare e degenerazione dei tronchi nervosi.
Si manifesta con sintomi di ischemia periferica:
• Dolore acuto, pallore, subcianosi a livello di avambraccio e mano;
• Scomparsa o attenuazione dei polsi radiale o ulnare;
• Edema, ipo-anestesia e diminuzione dei movimenti.
Questi sintomi devono allarmare il clinico. Tipica manifestazione di questa sindrome a livello
dell’avambraccio o del gomito è la cosiddetta mano ad artiglio, per la retrazione dei muscoli estensori della
mano che vanno incontro a necrosi.
Se c’è il sospetto che si stia manifestando la sindrome di Volkmann bisogna fare un trattamento precoce.
Questo trattamento prevede:
1. nella rimozione immediata della causa di compressione (rimozione del gesso/fasciatura);
2. se ciò non basta, la fasciotomia (cioè un’incisione chirurgica lungo la fascia muscolare con lo scopo di
evacuare l’edema e l’ematoma, diminuendo così la pressione nel compartimento muscolare). Il
trattamento prevede di lasciare aperto per permettere ai tessuti di espandersi e per decomprimere le
strutture interne. Non si determinano quindi suture (se non alcune piuttosto particolari che devono
permettere ai tessuti di espandersi).
b. Infezioni
Sono più frequenti nelle fratture esposte, in cui si ha una soluzione di continuo tra l’esterno e l’osso/tessuti
molli, oppure come complicazione dell’intervento chirurgico, in quanto si vanno a posizionare dei mezzi di
sintesi che sono dei corpi estranei. L’area di frattura è di per sé un ambiente sterile, ma il contatto con la cute
e l’ambiente esterno acuisce il rischio infettivo.
Le fratture esposte hanno un grave rischio di complicazione infettiva, la cui frequenza gravità dipendono da:
• Grado di contaminazione: esempio del paziente che ha messo la mano in una mietitrebbia per cui
dentro alla ferita sono state trovate formiche, tessuto e grano;
• Gravità della lacerazione, per la devitalizzazione dei tessuti circostanti la ferita : per esempio, nel caso
di una subamputazione del braccio c’è un’area devascolarizzata o minimamente vascolarizzata, per cui
anche una grossa dose di antibiotici non riesce ad arrivare nel focolaio di possibile contaminazione. In
questi casi i trattamenti chirurgici servono a rimuovere il tessuto necrotico e il materiale estraneo;
• Precocità e accuratezza dell’intervento chirurgico.
Le infezioni ritardano o impediscono i processi di consolidazione della frattura. Possono interessare i tessuti
molli o anche dare origine ad osteomieliti, che sono molto difficili da trattare.

2.3. COMPLICAZIONI LOCALI TARDIVE


a. Ritardo di consolidazione
Per ritardo di consolidazione si intende un prolungamento dei tempi di guarigione di una frattura in relazione
al tipo di trattamento, alla localizzazione e alla sede ossea. Ciò significa che nel caso di una frattura diafisaria
di femore, che di solito guarisce in 40 giorni, a distanza di 60 giorni vedo ancora una frattura che ha dei
processi di guarigione in corso, per cui il callo di frattura non è maturato in maniera adeguata. Clinicamente:
• persiste un dolore da carico in corrispondenza del focolaio perché i due monconi ossei non sono
ancora solidali l’uno con l’altro;
• c’è un grado di motilità preternaturale, in quanto i due monconi d’osso mantengono un certo grado
di movimento reciproco essendoci un callo fibroso a tenerli uniti;
• soprattutto, il paziente comincia a soffrire di atrofia muscolare da immobilizzazione.

Se questo processo, seppur rallentato, tende a guarire, non entra nell’ambito della pseudoartrosi. Un
esempio è il paziente diabetico, nel cui caso è normale che il processo di guarigione sia più lungo. Se tuttavia
a 2 mesi di distanza ancora non è guarito, si passa alla diagnosi di pseudoartrosi.
b. Pseudoartrosi
È l’assenza della guarigione della frattura oltre i tempi stabiliti: non si osserva un miglioramento nella
consolidazione dopo circa 2-3 mesi, ovvero si ha un arresto dell’evoluzione del callo osseo da osteoide ad
osso compatto. Il ritardo di guarigione è quindi l’assenza di guarigione della frattura, in corrispondenza della
quale non vedo più né un callo osseo né, soprattutto, deposizione di osteoide, bensì tessuto fibroso. Quando
si ha un micromovimento in corrispondenza del focolaio di frattura e si va ad interporre del tessuto
cicatriziale, questo impedisce la guarigione.
La pseudoartrosi è una complicanza seria, perché il paziente continua ad avere sintomi (come il ritardo di
consolidazione, si manifesta clinicamente con dolore al carico, motilità preternaturale e atrofia muscolare
secondaria al disuso), ma soprattutto perché ho la necessità di fare un altro trattamento.
Ci sono dei fattori che possono influire sulla mancata consolidazione, che sono:
• Instabilità della frattura (immobilità tra i due monconi di frattura non garantita adeguatamente);
• Scarsa vascolarizzazione, per cui non arrivano i fattori necessari per la guarigione (es. paziente forte
fumatore, con conseguente microangiopatia periferica per cui la vascolarizzazione a livello del callo di
frattura non sarà adeguata i processi di formazione del callo iniziano ma non vengono portati a
termine);
• Infezioni;
• Eccessiva distanza fra i monconi di frattura (diastasi), per riduzione non correttamente eseguita o per
l’interposizione di tessuti molli. In questo caso il callo non riesce a compensare sufficientemente il
gap;
• Eccesso dei mezzi di sintesi (perché provoca un’alterazione della vascolarizzazione circostante);
• Condizioni proprie del paziente (ad es. carenze nutrizionali o disturbi ormonali).
Le pseudoartrosi si distinguono in:
 Ipertrofiche, in cui si ha un callo di frattura
molto esuberante, che non va incontro a
maturazione. In questo caso l’organismo sta
cercando di guarire, ma non riesce a
completare la guarigione. Può essere anche
legata all’interposizione di qualcosa che
impedisce la fusione;
 Atrofiche, frequentemente dovute a un
difetto di vascolarizzazione, in cui il callo di
frattura è praticamente assente. I monconi
terminano in vera e propria artrosi.
Il trattamento chirurgico è particolarmente
aggressivo. È necessario rimuovere il focolaio di pseudoartrosi ed eventuali detriti (es. tessuto muscolare
rimasto incastrato tra i due monconi ossei impedendo il consolidamento), e ricreare una sorta di nuova frattura
in quella regione, favorendo così la vascolarizzazione. Inoltre, molto spesso si va a determinare una forte
struttura salda e quasi sempre nella diafisi si effettua un innesto osseo contrapposto in modo da formare
un’impalcatura estremamente rigida, all’interno della quale si vanno ad inserire tutti i fattori di crescita per
garantire la presenza di materiale adeguato alla fusione.
(Dalle slide) Pseudoartrosi di diafisi femorale:
- Rimozione dei mezzi di sintesi;
- Pulizia del focolaio di frattura;
- Apertura del canale midollare;
- Nuova sintesi con stecca contrapposta di osso di banca.
c. Vizi di consolidazione
In questo caso la frattura guarisce ma con uno spostamento dei frammenti ossei in una posizione non
anatomica. Per esempio, il professore ha visitato un paziente africano che aveva avuto in passato una frattura
del femore non trattata adeguatamente (era stato semplicemente immobilizzato così com’era). Alla fine, il
callo si era formato ma è guarito con una grossa deformità del focolaio di frattura.
Qui sotto si vedono altri esempi, in questo caso post-chirurgici: il focolaio di frattura è guarito senza un
adeguato ripristino dell’asse e questo ha determinato un vizio di rotazione dell’asse anatomico rispetto
all’asse meccanico.
I vizi di consolidazione, dopo un certo
intervallo di tempo, possono andare a
determinare:
• Artrosi: più o meno gravi a seconda
del grado di deformità. Ad esempio, il
piatto tibiale può essere alterato
rispetto a quello controlaterale.
Questo può notevolmente influenzare
l’asse di carico (eventualmente una
spondilosi secondaria) in relazione all’accorciamento e alla deformità;
• Limitazione funzionale;
• Accorciamento: il vizio di consolidazione si può correlare anche con una
dismetria. Nell’esempio a lato, l’arto superiore sinistro è notevolmente
extraruotato e accorciato di almeno 5-6 cm;
• Deviazione degli arti
- Una fusione del perone con la tibia, che è guarito in notevole difetto
in una scomposizione ab latus;
- Altri esempi, un esempio di deformità correlato con un fattore di
grande ipossiemia.
Il trattamento è quasi sempre chirurgico: si va a predeterminare una nuova frattura (osteotomia) e in cui si
vanno a correggere i difetti di malallineamento. Un esempio è la frattura di osso di gamba guarita con un
difetto angolare di 20 gradi.

d. Necrosi ossea
A causa dell’interruzione dei vasi sanguigni, legata alla rima di frattura o talvolta conseguente all’intervento
dell’ortopedico, una porzione dell’osso non riceve sangue a sufficienza e va incontro a necrosi. È più frequente
in seguito a fratture dell’omero prossimale e del femore prossimale nei pazienti anziani, perché con esse si ha
un’interruzione della vascolarizzazione terminale.
Nell’immagine di vede un tentativo di fissazione con delle viti. La frattura è guarita
ma il moncone di testa prossimale è andato incontro a necrosi. Anche con una
corretta fissazione può accadere che la testa del femore non sia adeguatamente
vascolarizzata. Un quadro di questo tipo richiede un reintervento per resezione e
sostituzione della testa. Lo stesso può accadere a livello dell’omero.
La clinica è caratterizzata da (da slide, il prof sorvola):
• Dolore (sintomo di presentazione, anche in scarico);
• Zoppia di fuga (paziente appoggia meno e per meno tempo l’arto affetto);
• Riduzione dell’escursione articolare (ROM = range of motion) (flessione ed intra-rotazione)
perché viene meno la congruenza tra le superfici articolari;
• Blocchi o scrosci articolari;
• Rigidità articolare fino all’anchilosi (assenza completa del movimento articolare).

Nel trattamento della frattura di omero e femore prossimali in pazienti anziani si predilige una soluzione
chirurgica di sostituzione protesica per evitare l’insorgenza della necrosi.

e. Algodistrofia

L’algodistrofia è una sindrome che correla con un dolore continuo, regionale, di solito spontaneo (o con
iperalgesia al contatto) che è sproporzionato per tempistica ed intensità rispetto a qualsiasi causa
generatrice. A livello dell’arto interessato si manifestano i seguenti segni clinici:
• Edema;
• Discromia;
• Alterazioni della sudorazione;
• Iperalgesia diffusa importante;
• Atrofia muscolare da disuso.

A livello radiografico si vede un’osteoporosi generalizzata. Il tessuto è depauperato anche a distanza dalla
regione della frattura. Alla risonanza si vede come tutta la regione del piede, del calcagno e della parte
achillea sia completamente imbibita di tessuto infiammatorio.
Si instaura un circolo vizioso ingravescente. L’iperalgesia, legata ad una stimolazione continua dei nocicettori,
autoalimenta il processo infiammatorio, che determina un’osteoporosi generalizzata. Il trattamento prevede
di intervenire a tutti livelli di questo circolo vizioso, per andarne a bloccare l’evoluzione:
1. Riposo funzionale con assenza completa di carico (perché il carico determina dolore);
2. Alte dosi di analgesici contro il dolore;
3. Rivitalizzazione della componente minerale con bifosfonati (nello specifico, alcuni alendronati
che hanno anche una componete antiinfiammatoria);
4. Supplemento di vitamina D e calcio;
5. Magnetoterapia che favorisce la mineralizzazione;
6. a volte, soprattutto quando le opzioni precedenti non sono sufficienti, il paziente viene visitato in
una camera iperbarica per aumentare ulteriormente la vascolarizzazione della regione
Tutto questi trattamenti insieme vanno a ridurre o a migliorare la lesione. È una condizione abbastanza
complessa.

f. Artrosi secondaria
è la degenerazione accelerata dell’articolazione in seguito ad una frattura articolare. Si verifica quindi
un’artrosi precoce. Il trattamento è quasi sempre una sostituzione protesica.

DECALOGO DELLE FRATTURE DI PUTTI


Putti è un famoso chirurgo ortopedico del Rizzoli, pioniere in molti ambiti dell’ortopedia.
1. Una frattura è soluzione di continuità di un osso, prodotta da una forza che supera i limiti di resistenza
del tessuto.
2. Una frattura è una lesione locale che provoca una reazione generale, cioè una malattia. Con la frattura
curare quindi il fratturato. Si tratta il paziente fratturato, si cura in un regime di multidisciplinarietà.
3. La malattia è acuta. È necessario riconoscerla subito per curarla immediatamente. Per evitare le
complicazioni viste.
4. Non riconoscere la frattura è errore più dannoso che supporla quando non c’è. Il pz che arriva al PS con
un trauma deve fare una radiografia. Nella maggior parte dei casi le vertenze medico-legali sono legate alla
mancata diagnosi.
5. Obbedire all’imperativo assoluto del radiogramma che è signore della diagnosi e della cura. Se sulla
radiografia c’è una frattura, il pazienta va trattato per quella frattura. Non è una banalità.
6 Curare una frattura significa ridurla e immobilizzarla. Due dei tre principali fattori affinché una frattura
guarisca sono questi.
7. Ridurre la frattura immediatamente. Nessuna riduzione è difficile entro le prime 10 ore, tutte lo sono
dopo le 48 ore. Il callo iniziale e i processi di fibrosi riempiono lo spazio vuoto che si forma a livello della
frattura. Dopo 5 giorni, andare a ridurre una frattura diventa molto più complesso. Oltre una settimana devo
andare a ridisgregare il callo di frattura. Se ho un paziente che ha una frattura in corso, trattato in gesso e
dalla radiografia a 10 giorni di distanza vedo che la frattura è scomposta, il paziente torna in sala operatoria.
In questo caso rirompere il
callo di frattura ed andare
a ripristinare l’asse non è
semplice.
8. Immobilizzare l’arto rigorosamente. Il callo è una cicatrice che per formarsi ha bisogno di immobilità.
9. Mobilizzare il fratturato precocemente. Alla guarigione contribuisce tutto l’organismo. Il carico, ovvero lo
stimolo muscolare, favorisce il rimodellamento e l’ossificazione.
10. La frattura esposta è una ferita quasi sempre infetta in cui l’infezione ha buon gioco perché c’è la
frattura. Quindi prima di tutto va curata la frattura.
FRATTURE DELL’ARTO SUPERIORE

Fratture di clavicola
Le fratture di clavicola sono solitamente legate ad un trauma diretto, ovvero alla caduta sulla spalla ad arto
addotto. Frequentemente la clavicola si scompone e la parte prossimale (mediale) dell’osso tende a sollevarsi
in considerazione dell’inserzione dello sternocleidomastoideo e al fatto che è legata all’integrità dei
legamenti conoide e trapezoide (legamenti coraco-claveari).
La diagnosi è clinica e radiografica: clinicamente il paziente prova dolore, c’è ematoma a livello della frattura,
si può palpare il segmento di clavicola al di sotto della pelle.
Il trattamento è di solito incruento. Il bendaggio tipico obbliga il paziente alla “posizione sull’attenti”: in
questa posizione la clavicola tende a riallinearsi e successivamente si forma il callo osseo; quasi sempre
l’unica problematica reale di questa frattura è di tipo estetico, poiché il profilo della clavicola fratturala è
diverso dal controlaterale, mentre dal punto di vista funzionale non ci sono problemi. A volte si effettuano
delle sintesi della clavicola, per ri-frattura o dislocazione posteriore, soprattutto a livello dell’estremo
mediale, in considerazione del fatto che c’è il passaggio di un importante plesso vascolare (tronco
brachiocefalico, succlavia, carotide), per cui c’è il rischio di comprimere queste strutture, oppure per la
floating shoulder, ovvero la concomitante frattura di clavicola e di glena della scapola. In questa patologia
l’arto superiore non è connesso al corpo, e, mancando la connessione tra i due segmenti ossei, si procede con
una osteosintesi di clavicola.
Il tempo di consolidazione è di circa 35 giorni. Le complicazioni acute sono rare, ma è importante ricordare il
passaggio della succlavia sotto al margine clavicolare e le possibili conseguenze della frattura su questo vaso.
La complicazione tardiva più frequente è la pseudoartrosi.

Fratture di scapola
Le fratture di scapola si differenziano in relazione alla sede coinvolta: le più gravi interessano la regione della
glenoide. Il trattamento è incruento nella maggioranza dei casi, ad eccezione delle fratture del bordo
articolare anteroinferiore della glena, che necessitano di sintesi. Il tempo di consolidazione media è di 25
giorni.

Fratture di omero
Sede prossimale
La frattura prossimale dell’omero è molto frequente, in particolare nell’anziano, categoria in cui è la terza
frattura più comune dopo quella di femore e polso. La frattura può localizzarsi ad esempio a livello del collo
chirurgico dell’omero o del trochite.
Per quanto concerne le complicanze acute, è importante ricordare che a livello mediale, al di sotto della
glena, si trova il plesso brachiale; una lesione del nervo circonflesso, deputato all’innervazione del deltoide,
può determinare un’incapacità funzionale nell’abduzione dell’arto. Altre strutture che possono essere
lesionate sono i vasi ascellari. A livello di complicanze croniche, si possono verificare rigidità articolare e
necrosi della testa dell’omero.
Il trattamento si differenzia in base alla fascia d’età del paziente. Nel bambino è sufficiente una semplice
immobilizzazione. Se si presentano fratture molto scomposte, si riduce la frattura e si inserisce un filo a livello
percutaneo che va a stabilizzare i due monconi di frattura. Questo trattamento è possibile perché il bambino
ha un’ottima capacità di rimodellamento osseo. Nell’adulto, invece, le fratture composte richiedono il
bendaggio, quasi tutte le fratture scomposte necessitano di riduzione cruenta con osteosintesi, placca e viti o
chiodi, mentre le fratture comminute vanno trattate sempre con sostituzione protesica.
Classificazione di Neer (o del Lego®): suddivide le fratture dell’omero prossimale a seconda del numero di
frammenti ossei, ovvero qualsiasi struttura ossea che sia dislocata di più di un centimetro con un’angolazione
maggiore di 45 gradi.
1. Un frammento: nessun frammento rientra nei criteri di dislocazione;
2. Due frammenti: diafisi e testa. Il trattamento è di tipo endomidollare;
3. Tre frammenti: diafisi, testa e trochite;
4. Quattro frammenti: diafisi, testa, trochite e trochine. Il trattamento si effettua mediante sintesi con
placche e viti, in modo da portare in trazione tutti i frammenti ossei. Se è presente una buona
superficie articolare si avrà un ottimo recupero della funzionalità, se invece si è in presenza di
fratture in cui c’è un’interruzione della vascolarizzazione dell’omero prossimale, come spesso accade
nel paziente anziano, è preferibile l’utilizzo di protesi, che può essere anatomica o inversa.

Sede diafisaria
Le fratture della diafisi omerale sono frequenti in età adulta, specialmente nei maschi, e sono sempre fratture
scomposte. Tra le complicazioni acute è molto grave la lesione del nervo radiale a livello del terzo distale
dell’omero. La consolidazione dell’omero è molto lenta, fino ai 3-4 mesi. Di conseguenza la pseudoartrosi è
una delle complicazioni tardive locali più frequenti. Nel bambino fino agli 8 anni non si effettua alcun
trattamento, se non nei casi più gravi in cui si inserisce un filo endomidollare per indirizzare la guarigione. Il
trattamento con placche e viti, o con fissatori esterni in caso di fratture esposte, è indicato esclusivamente
nei pazienti più gravi.

Sede distale
Le fratture dell’omero distale, dette fratture sovracondiloidee, sono invece molto frequenti nel bambino, in
particolare in seguito ad attività ludiche. Sono fratture pericolose, per cui è preferibile trattarle in urgenza,
nonostante la letteratura dica che sia possibile trattarle entro 24 ore. Il rischio è che l’arteria brachiale o il
nervo mediano vengano interessati dalla frattura o angolati in modo tale da determinare una sindrome
periferica. Nel caso in cui il paziente presenti un deficit funzionale a livello del territorio innervato dal nervo
mediano, o presenti sintomi ischemici in acuto, è indicato il trattamento urgente. Sono ad elevato rischio
anche i casi in cui la sintomatologia si sviluppa dopo alcune ore, per cui è sempre indicato il trattamento
chirurgico, che prevede la riduzione e la fissazione con 2-3 fili incrociati per abboccare la parte distale
dell’omero con la diafisi omerale.
Le fratture dell’omero distale nell’adulto sono complesse, perché è spesso presente un interessamento
articolare. Le fratture comminute della sede articolare sono complesse da trattare mediante sintesi, poiché
questa richiede l’immobilizzazione, che deve durare meno di 20 giorni per evitare che il gomito si irrigidisca
irreversibilmente.
“Immaginate quindi la benedizione che diamo ai gonfiabili regolarmente”
Pronazione dolorosa
Si tratta di una sindrome tipica nei bambini di 3-4 anni, a seguito di brusca trazione dell’arto. Si verifica la
sublussazione del capitello radiale a livello del gomito, che determina il blocco in pronazione
dell’avambraccio. Come si manifesta? Il bambino piange e non usa più il braccio, che è dolente. È una delle
patologie che dà più soddisfazione all’ortopedico in pronto soccorso, poiché basta una semplice manovra di
supinazione dell’avambraccio in flessione. Il capitello radiale torna nella sua sede anatomica e il bambino si
sente bene.
Domanda: “Che tipo di analgesia si usa per effettuare questa manovra?”
Risposta: “Nessuna, si fanno uno o due tentativi, preferibilmente eseguiti da un medico esperto, poiché se si
fallisce più volte il bambino diventa intrattabile, il gomito si gonfia e la manovra diventa più difficile da
eseguire. Allo stesso modo non si effettua l’analgesia nelle fratture del polso, perché l’anestetico locale si
disperde a causa della ricca vascolarizzazione della regione, e in pochi secondi l’anestetico non è più presente
a concentrazioni adeguate in loco.”
Fratture di radio
Sede prossimale
Le fratture del capitello radiale (parte prossimale del radio) composte non necessitano di trattamento
cruento, mentre per quelle scomposte esistono delle piccole viti che aiutano a ripristinare la superficie
articolare. Le fratture comminute in questa sede richiedono un intervento di sostituzione con una piccola
protesi di capitello. L’unico rischio è legato alla facile rigidità articolare del gomito a seguito
dell’immobilizzazione.

Sede diafisaria
Il trattamento delle fratture della diafisi radiale è principalmente di tipo chirurgico, e richiede una sintesi
completa. I tempi di guarigione sono molto lunghi, con conseguente elevato rischio di pseudoartrosi.

Sede distale
Le fratture del radio distale (fratture di polso) si dividono in fratture di Colles e fratture di Goyrand,
entrambe a livello della metafisi distale del radio e quindi extraarticolari. Si distinguono per la dislocazione
del frammento, rispettivamente distale o volare. Il trattamento riduttivo è quindi opposto nei due casi. In
pronto soccorso si effettua la riduzione incruenta e l’arto viene immobilizzato con un gesso. Nei rari casi in cui
è presente un ampio gap osseo a livello metafisario, si può ricorrere all’utilizzo di un fissatore esterno per
riallineare la frattura.
In generale, nel momento in cui si presenta una frattura non articolare, utilizzando un fissatore esterno si va
ad usare la capsula articolare come struttura di riallineamento per trazionare l’estremo distale, permettendo
di ripristinare la lunghezza corretta dell’arto. Questo è vero in particolare nelle fratture comminute di polso,
in cui permette di avere un buon piazzamento definitivo dei frammenti.
NDS studierei anche le fratture di Monteggia e di Galeazzi

Fratture di ulna
Stesse indicazioni del radio (vedi slides).

Fratture di scafoide
Lo scafoide è il primo osso della filiera del carpo e possiede una vascolarizzazione terminale, come la testa del
femore. Una frattura che interessa a metà il corpo dello scafoide può facilmente determinare necrosi. Si
tratta di fratture molto complesse, in cui è fondamentale una diagnosi precisa perché una frattura
misconosciuta dello scafoide che viene scorrettamente immobilizzata rischia di dare pseudoartrosi o deficit
funzionali.

Fratture delle ossa piccole delle mani


Le fratture che coinvolgono le ossa piccole delle mani sono simili a quelle delle altre ossa lunghe.

FRATTURE DELL’ARTO INFERIORE E DELLA COLONNA


Fratture di femore
Sede prossimale
La frattura della parte prossimale del femore è frequentissima negli anziani, in particolare nelle donne sopra i
65-70 anni. I fattori che correlano di più con la frattura della testa del femore sono la menopausa e
l’osteoporosi. Tra i fattori di rischio è importante considerare anche la neve e il ghiaccio.
Le fratture della parte prossimale del femore
sono classificate come mediali nel caso in cui
interessino la regione tra epifisi e trocantere (a
loro volta suddivise in sottocapitata, medio
cervicale e basicervicale) e come laterali se
interessano la regione del trocantere (dette
anche pertrocanteriche). L’intervento è diverso a
seconda della sede coinvolta: una frattura
mediale del collo del femore richiede una
endoprotesi, in quanto a causa della
vascolarizzazione povera ho basse speranze di
mantenere la testa originale. Il trattamento
chirurgico con osteosintesi si effettua solo nei giovani, dove c’è possibilità di salvare l’epifisi. Una frattura
laterale viene trattata con osteosintesi, perché i vasi capsulari sono conservati.

Sede diafisaria
Le fratture della diafisi femorale sono fratture ad alta energia che necessitano quasi sempre di trattamento
chirurgico, tranne che nei bambini fino ai 4-5 anni di età.
“Quando un bambino giunge in ospedale con una frattura e soprattutto nel caso in cui i genitori diano
risposte poco plausibili all’anamnesi (“mio figlio è caduto dal divano”), va sempre tenuta in considerazione
l’ipotesi di maltrattamento. È altresì importante tenere considerare l’ipotesi di frattura patologica, ad
esempio in presenza di sarcoma di Ewing.”

Sede distale
Le fratture dell’estremo distale del femore sono fratture complesse e ad alta energia, dovute spesso a traumi
da cruscotto o da motorino. Il trattamento prevede l’osteosintesi, che può essere più o meno complessa. Le
complicazioni sono abbastanza frequenti: di particolare rilevanza la degenerazione artrosica.
Fratture di vertebra
Nelle fratture vertebrali l’unica nota di interesse è il coinvolgimento o meno delle strutture midollari, anche in
relazione al diverso trattamento. Si parla di frattura amielica se interessa solo il corpo vertebrale, mentre di
frattura mielica se vi è interessamento della regione midollare. La risonanza magnetica è fondamentale,
anche nelle fratture amieliche, perché si potrebbe rischiare di non diagnosticare una lesione delle strutture
legamentose posteriori (legamento interspinoso posteriore) anche nella frattura del solo corpo vertebrale,
con conseguente rischio di paralisi. Il trattamento dipende dalla stabilità, che a sua volta dipende dalle
fratture del corpo anteriore e dall’integrità dell’arco vertebrale posteriore, sia osseo che legamentoso. Tutte
le fratture instabili necessitano di trattamento chirurgico e, in condizioni di urgenza (ad esempio in caso di
incidente stradale), tutti i traumi vertebrali vengono considerati fratture instabili fino a prova contraria, con
immobilizzazione in sede.

FRATTURE DELL’ETÀ EVOLUTIVA


In questa fascia d’età sono frequenti le fratture a legno verde (greenstick), in quanto il bambino ha una
notevole capacità di rimodellamento osseo, che è tanto maggiore quanto minore è l’età.
Nell’immagine è evidente una frattura a legno verde, in cui si riconosce il profilo della corticale e in un certo
punto la presenza di uno “scalino”. In questo caso il paziente viene trattato come se avesse una frattura vera
e propria, viene immobilizzato per circa 20 giorni fino ad ottenere una completa restitutio ad integrum.
Accettabilità della riduzione: in un bambino è possibile mantenere un disallineamento dei monconi al
momento dell’immobilizzazione, che può estendersi fino a 15 o 20 gradi in bambini molto piccoli e per certi
segmenti ossei.
È chiaro come in alcuni tipi di frattura sia necessario il trattamento chirurgico, con l’inserimento di fili
all’interno della diafisi per riallineare i monconi. Questo è il caso ad esempio delle fratture sovracondiloidee
dell’omero, frequenti nel bambino e ad elevato rischio di complicanze, o nel caso di fratture esposte.

Distacco epifisario
Si tratta di fratture che interessano la cartilagine di accrescimento. Sono descritte attraverso la classificazione
di SALTER-Harris, a seconda del diverso grado di interessamento articolare:

 S (straight across) o tipo I: interessa in maniera completa la cartilagine di accrescimento. Nel


trattamento la frattura viene ridotta e fissata con fili passanti attraverso la cartilagine di
accrescimento;
 A (above) o tipo II: interessa la cartilagine di accrescimento e, prossimalmente, la regione
metafisaria. In questo caso si effettua una sintesi, possibilmente evitando di danneggiare la
cartilagine di accrescimento. Nei bambini più piccoli si tratta passando un filo attraverso la cartilagine
di accrescimento. Ciò è importante perché la cartilagine è già danneggiata e va quindi minimizzato il
danno chirurgico per evitare problemi nella crescita ossea;
 L (lower or below) o tipo III: interessa la cartilagine di accrescimento e una parte distale. Se il
frammento è grosso, si cerca a non danneggiare ulteriormente la cartilagine di accrescimento (come
nel tipo II);
 T (two or through) o tipo IV: interessa metafisi, cartilagine di accrescimento ed epifisi;
 ER (erasure of growth plate or crush ) o tipo V: frattura in compressione o contusione della cartilagine
di accrescimento, è molto difficile da riconoscere e presenta le maggiori complicazioni.
La risonanza è importante per valutare l’estensione del danno alla cartilagine di accrescimento. Le
complicazioni precoci sono principalmente la sindrome compartimentale e le lesioni vascolari e nervose,
mentre quelle tardive comprendono le lesioni degenerative, i ritardi di crescita e i difetti di allineamento. In
questi ultimi, se una regione continua a crescere mentre la crescita dell’altra è bloccata, ci sarà una crescita
disallineata del segmento coinvolto.

LESIONI NERVOSE PERIFERICHE


Terminologia
 Neuroaprassia: perdita temporanea delle capacità di conduzione, ad esempio quando il braccio si
“addormenta” sotto al cuscino o quando accavallando le gambe ne perdo la sensibilità;
 Assonotmesi: interruzione anatomica degli assoni senza alterazione della guaina nervosa. È ancora
possibile una rigenerazione del nervo;
 Neurotmesi: alterazione assonale e della guaina, in cui non è più possibile la rigenerazione nervosa.
Il trattamento nelle neuroaprassie e assonotmesi è incruento, con eventuale osservazione. Nel caso della
neurotmesi si effettua una sutura termino-terminale con strumenti microscopici, sia a livello di guaina
nervosa che di strutture assonali. Se il nervo è retratto si
fa un bypass replicando la struttura biologica per
ristabilire la continuità e favorire la rigenerazione.

Lesioni del plesso brachiale


Il prof. ricorda come la struttura anatomica del plesso
brachiale sia spesso domanda per la lode (vedi slides).

Le lesioni del plesso brachiale si verificano principalmente


nella fase espulsiva del parto, con lesione da strappo o da
stiramento. È importante il riconoscimento immediato
della lesione poiché più precoce è il trattamento, minori
saranno le conseguenze per il paziente.
1. Paralisi di Erb-Duchenne: lesione da strappo o da
stiramento delle prime radici (C5 e C6), che innervano i muscoli della parte anteriore di
spalla e braccio e la parte laterale dell’avambraccio. Il neonato tende ad assumere la
posizione del cameriere (a destra), una posizione obbligata dalla paralisi;
2. P a r a l i s i d i K l
, lesione che interessa la parte distale del plesso brachiale (radici C7, C8 e
T1), con paralisi dei muscoli intrinseci della mano, in particolare quelli
innervati dal nervo ulnare, per cui il bambino tende ad assumere una posizione della mano ad
artiglio (a sinistra). Una condizione associata è la manifestazione a livello palpebrale causata dalla
lesione dei gangli ortosimpatici cervicali, che va ad innervare il muscolo tarsale superiore;
3. Paralisi radicolare totale: lesione completa di tutto il plesso brachiale con paralisi che interessa tutte
le strutture dell’arto superiore.
La diagnosi è principalmente clinica, viene inoltre effettuata una elettromiografia per valutare il livello della
lesione (ad esempio nel punto dove emerge la radice o più periferica) e una radiografia. Il trattamento è
fondato sulla riabilitazione, che va iniziata precocemente, mentre se c’è una diastasi importante si ricorre alla
microchirurgia. Se il paziente si presenta con una deformità ormai instaurata, devo effettuarne una
correzione: ad esempio nella Erb-Duchenne si effettua una derotazione dell’omero per fare arrivare la mano
alla bocca e consentire l’alimentazione per os in autonomia. A livello prognostico la paralisi di Erb-Duchenne
guarisce precocemente se diagnosticata in tempo, mentre le altre due hanno gravi esiti
e prendono il nome di paralisi ostetriche.

Lesioni neurologiche periferiche


Nervo radiale
Si è precedentemente osservato che un punto in cui è probabile la lesione è il passaggio
del nervo radiale a livello del tratto distale della diafisi omerale.
Nervo mediano
Il nervo mediano è interessato nelle fratture sovracondiloidee dell’omero, mentre se compresso a livello del
polso dà la sindrome del tunnel carpale, che è la compressione del nervo mediano a livello del canale
osteofibroso nella regione palmare del polso. Il nervo decorre superficialmente rispetto ai flessori della mano
e subito al di sotto di un tetto fibroso a livello del canale. La compressione è dovuta a ipertrofia delle guaine
sinoviali dei flessori (ad esempio nei chitarristi) che comprime da sotto il nervo, mentre nell’anziano il tetto
fibroso tende ad ispessirsi e a comprimere il nervo, fino all’instaurarsi della sindrome. Le manifestazioni sono
legate ad un deficit di sensibilità delle tre
dita centrali della mano con formicolio,
mentre a livello motorio il paziente tende
a far cadere gli oggetti perché il nervo
mediano innerva l’abduttore del primo
dito.
La diagnosi è prettamente clinica,
mediante i test di Tanzer e di Phalen, che sono test di compressione del nervo che inducono la
sintomatologia, e il segno di Tinel, in cui percuotendo il nervo all’altezza del tunnel carpale il paziente prova
delle scosse elettriche sui territori periferici. In Italia viene inoltre richiesta l’elettromiografia perché se il
paziente necessita di effettuare un intervento chirurgico è necessario dal punto di vista medico-legale la
presenza di una prova attraverso un esame strumentale. Il trattamento consiste nell’aprire il tetto fibroso sia
a livello palmare che di avambraccio e nel decomprimere il nervo, con successiva risoluzione della
sintomatologia.

Nervo ulnare
Il nervo ulnare passa superficialmente a livello dell’epicondilo, infatti quando si batte il gomito contro il muro
si prova una scossa a livello delle ultime due dita della mano. A volte il nervo può dare inoltre una paralisi più
o meno importante. A livello clinico, alla massima compressione corrisponde il segno della mano
beneficente, con mancata estensione del 4 e 5 dito. Il segno di Tinel è positivo, sia che sia effettuato
mediante compressione a livello del gomito o a livello del canale ulnare (di Guyon) nel polso.

Nervo sciatico
Il nervo sciatico è un nervo misto sensitivo-motorio. La patologia
coinvolge più frequentemente il nervo sciatico popliteo esterno
(SPE), che passa in corrispondenza della testa del perone e si porta
anteriormente. Lo sciatico popliteo esterno dà innervazione
motoria alla loggia anteriore e laterale della gamba e permette la
dorsiflessione del piede. A livello sensitivo innerva la parte
anterolaterale della gamba e il dorso del piede, è infatti il nervo
responsabile del formicolio da compressione quando si è seduti a
gambe incrociate. È lo stesso nervo che in un paziente anziano con
frattura del collo del femore o politraumatizzato e allettato per
qualche giorno in modo scorretto può determinare un deficit di
sensibilità e motorio persistente, con incapacità di dorsiflettere il
piede. Il trattamento in questo caso consiste nel bloccare il piede a 90 gradi o di usare ortesi, come la molla di
Codivilla, per consentire di camminare con la caviglia immobilizzata a 90 gradi.

Nervo femorale
Il nervo femorale nasce dal plesso lombare a livello de radici L1-L4, passa al di sotto del legamento inguinale
nella lacuna muscolare e dà innervazione motoria al quadricipite e sensitiva alla parte anteromediale della
coscia e parte mediale della gamba e al piede.
Nervo femorocutaneo laterale
Decorre più lateralmente rispetto al legamento inguinale ed è principalmente un nervo sensitivo della
regione laterale della coscia. Dal punto di vista patologico si parla di meralgia parestesica, che è una
ipoestesia o anestesia con fastidio o dolore persistente.

Nervo tibiale posteriore


Il nervo tibiale posteriore ha un decorso superficiale a livello del tunnel tarsale. Dal punto di vista clinico la
compressione a questo livello è identica alla sindrome del tunnel carpale, con dolore diffuso a livello della
regione plantare del piede, che persiste soprattutto sotto carico o mobilizzazione e scompare completamente
a riposo. Il segno di Tinel è positivo alla percussione del tunnel tarsale. Il trattamento, come nel tunnel
carpale, consiste nell’aprire l’aponeurosi del tunnel tarsale, liberando il nervo dalla compressione.

Zanella Luca 30-10-2019


Pasin Cristiano Ortopedia, Lezione 10
Lo Scalzo Ruggero Prof. Angelini
Velotta Erika
INFEZIONI DELL'OSSO
Definizioni
• Osteomielite: infezione che interessa l'osso ed il midollo osseo
• Osteoartrite: quando l'infezione coinvolge l'osso e l'articolazione
• Artrite: se l'infezione coinvolge solo le articolazioni

Si usa il termine artrite anche per indicare le patologie infiammatorie, anche se non è una dicitura corretta. Per
cui l'artrite reumatoide è una patologia unicamente infiammatoria che pone dei problemi dal punto di vista
terminologico.
• Discite: patologia infettiva del disco intervertrebrale
• Spondilodiscite: infezione del disco e delle vertebre sovra- e sotto-stanti

Le osteomieliti sono generalmente causate da germi comuni


con meccanismo aspecifico.
Ci sono anche infezioni con coinvolgono l'osso con
meccanismo più specifico: luetiche, da treponema e tubercolari.

Nelle osteomieliti aspecifiche troviamo una serie di batteri


Gram+, tra cui oltre il 90% dovute a S. aureus ed altri
Gram+ come S, Epidermidis. Nella maggior parte di casi,
quindi, si trova sulla cute. Molto più rare le infezioni da
Gram- come E. coli ed H. Influentiae che sono di maggior
pertinenza di pazienti immunodepressi.

Le osteomieliti specifiche sono causate da M. tubercolosis, T.


pallidum e miceti. Sembravano scomparse (la tubercolosi
non si vede da 15 anni), ma attualmente sta tornando, a causa di problematiche legate all'immigrazione, ai
viaggi intercontinenateli e alla riaccensione dell'AIDS, soprattutto in paesi africani.

Il professore riporta il caso clinico di una paziente che nel 2004 era in Indoneisa dove è stata investita dallo
tsunami. La signora è tornata in Italia dopo un paio di mesi con dolore persistente al ginocchio e sono serviti
4 anni e mezzo per isolare un fungo che si trova nel terreno indonesiano che aveva infettato la tibia della
signora creando un'osteomielite cronica, latente e recidivante. È stato necessario coinvolgere 6 laboratori di
microbioligia e 2 di genetica in Italia per identificare il micete.

L'eziopatogenesi dell'osteomielite dipende dal disequilibrio tra 2 parametri: da


una parte c'è la virulenza del batterio e dall'altra la risposta immunitaria
dell'ospite.

Ci sono dei fattori di rischio che favoriscono l'insorgenza dell'osteomielite:


• malattie sistemiche, come il DM che causa una microangiopatia
periferica
• insufficienza renale cronica
• insufficienza vascolare periferica
• ipotiroidismo
• obesità: con coinvolgimento del circolo periferico e della componente ormonale
• terapia cortisonica
• chemioterapici: a causa dell’abbassamento della risposta immunitaria.

Esistono, inoltre, delle abitudini voluttuarie che si potrebbero controllare e che costituiscono dei fattori di
rischio quali l'alcolismo, il tabagismo e la tossicodipendenza.

Ci sono delle condizioni cliniche transitorie predispondenti all'osteomielite, soprattutto in pazienti allettati
anziani:
• infezioni genito urinarie
• infezioni gastroenteriche
• infezioni cutanee
• malnutrizione
• pregressa osteomielite o osteoartrite, difficile da debellare
• infezioni odontoiatriche: grande problema per paziente con protesi, perché le infezioni odontoiatriche
costituiscono una porta di ingresso per gli Staphilococchi.

La principale via di trasmissione è quella ematogena. I germi sono localizzati in distretti abbastanza consueti
come la cute (S. aureus ed epidermidis), tonsille, TGI, vie urinarie ed ascessi
dentali. Da tutti questi focolai può partire un germe che, attraverso il circolo
ematico raggiunge l'osso.
Altre modalità di trasmissione sono quelle per continuità o per
inoculazione diretta: le fratture esposte possono portare all’infezione
dell'osso per esposizione cutanea, i colpi d'arma da fuoco in cui c'è un foro
di accesso per i germi ed gli inteventi chirurgci.

Classificazione delle osteomieliti


1. In base al decorso
• acuta
• cronica
• cronica ab initio: ascesso di Brodie, sclerosante di Garrè

2. In base alla via di trasmissione


• ematogena
• inoculazione direttamente

Osteomielite Acuta Ematogena

Forma di osteomielite che si sviluppa in maniera acuta, dove i batteri raggiungono l'osso per via
ematogena.
È assolutamente tipica e peculiare dei soggetti in accrescimento, per l'alta vascolarizzazione della
regione metafisaria. In questa zona dell'osso, è presente una ricca rete di capillari che irrora la
cartilagine di accrescimento. Quindi in tale regione c'è una maggior probabilità che il germe possa
penetrare all'interno dell'osso.
Per questo, le sedi più frequenti di osteomielite nei bambini sono le grandi articolazioni: ginoscchio,
anca e spalla.

Completamente diversa da un punto di vista epidemiologico è l'osteomielite acuta nell'adulto dove


le sedi più frequenti sono la diafisi femorale, le ossa del rachide e del piede, che hanno una struttura
riccamente vascolarizzata.

Un altro motivo che giustifica la patogenesi è legata al rallentamento del circolo ematico. Nella
cartilagine di accrescimento, dai capillari partono dei sinusoidi molto sottili che si insinuano in
metafisi e questo determina un notevole rallentamento del
circolo ematico. Proprio per questo rallentamento è possibile,
per i germi, l'uscita dal circolo ematico e la colonizzazione
dell'ambiente extracircolatorio.

Un altro ruolo che è stato descritto è la correlazione con il


trauma. Un evento traumatico in metafisi determina la
formazione di coaguli che portano al rallentamento del
circolo. Una piccola trombosi del vaso terminale favorisce il
blocco del circolo e da lì i germi possono uscire nell'ambiente
extracircolatorio.

L'osteomielite si manifesta attraverso una serie di fattori a cascata. La prima parte è comune a tutti i processi
infiammatori, con richiamo dei fattori infiammatori, iperemia ed edema. Successivamente c'è un danno
endoteliale determinato sia dal batterio che dalla risposta immunitaria.
C'è un aumento della pressione intraossea per trombosi del microcircolo. In questo momento inizia un intenso
dolore locale per stiramento delle strutture neurologiche a livello del periostio. Si può arrivare ad uno stadio in
cui la regione metafisaria tende ad aumentare di volume. Successivamente si verifica il processo suppurativo
vero e proprio. Questo costituisce un circolo vizioso in cui si intensifica il dolore, fino al blocco del torrente
nutritizio all'osso e alla necrosi secondaria.

Nella prima immagine di anatomia patologica sono evidenziabili le lacune ossee ed un intenso infiltrato
infiammatorio nelle trabecole. Ci sono delle cellule omogenee a piccoli nuclei che sono i linfociti.
Successivamente c'è l'attivazione dei granulociti polimorfonucleati che degradano le trabecole ossee e
determinano una lisi del tessuto osseo. Dove non è presente cellularità il tessuto è già necrotico.
Negli stadi avanzati il midollo non è più cellulato, ma con strutture ossee acellulate immerse in uno stroma che
è tessuto purulento.

Le possibli evoluzioni dell'osteonecrosi: in metafisi l'ostemielite si può propagare o a livello sottoperiosteo e


dare l'ascesso subperiosteo, o infiltrare l'articolazione con conseguente piartro (pus in articolazione), o in
alcuni casi c'è una comunicazione con l'esterno determinando una
fistola cutanea.

La fase di ascesso subperiosteo si manifesta clinicamente con tutti i


sintomi della flogosi (tumor, rubor, dolor, calor), astenia e pallore,
associati a febbre ondulante: dipende da quanti batteri sono messi in
circolo.
In questa fase la possibilità diagnostica è legata all'ecografia, mentre la
radiologia è diagnostica solo in fase più avanzata.

L'ecografia ci permette di vedere:


• l'ascesso
• lo scollamento del periostio
• l'edema dei tessuti molli
Da un punto di vista diagnostico è quindi fondamentale nelle fasi
precoci.

La radiografia diventa evidente in fase più avanzate in


cui si identifica un aspetto molto disomogeneo di lisi a
livello diafisario, in alcuni casi si può vedere una
reazione periostale che pone nei pazienti giovani la
necessità di diagnosi differenziale con un tumore. Queste due entità hanno le stesse caratteristiche di lesione
osteolitica, disomogenea, dai margini sfumenti con reazione periostale.

Complicanze sistemiche

• batteriemie con picchi febbrili, brividi ed emocolture positive


• shock settico, legato alla gravità dell'osteomielite. Un bambino di un'anno di età ha una capacità di
vascolarizzazione della metafisi così importante che questo può disseminare in maniera importante il
germe
• diffusione a distanza: il germe immesso in circolo può organizzarsi in altre sedi
• artrite settica
• alterazioni anatomiche permanenti del segmento osteoarticolare

Possibili sedi di diffusione a distanza del germe:


• altre metafisi fertili
• vertebre
• cervello e polmone
• endocarditi

Complicanze locali
L'immagine mostra un omero con una alterazione importante di tutta la regione
periostale. L'osteomielite è nata in zona distale dell'omero e lentamente è andata
ad interessare tutta la regione diafisaria. Il problema è la difficoltà di trattamento.

Altro esempio in cui, dal coinvolgimento


pressochè completo dalla regione diafisaria, si ha avuto una diffusione
del processo infettivo a livello articolare. La metafisi è completamente
interrota e il processo ha determinato una distruzione notevole
dell'epifisi. Questi sono quadri gravi che determinano delle morbidità
importanti nei pazieti.

D: un quadro come quello che abbiamo appena visto è recuperabile o l’amputazione è l’unica possibilità
terapeutica?
R: l’amputazione può essere un trattamento definitivo, tuttavia da prendere in considerazione seriamente
assieme ad altre strategie. Possiamo effettuare delle resezioni nella regione colpita e sostituzioni protesiche
anche più o meno importanti (ad oggi, grazie alla modularità delle protesi, siamo in grado di sostituire l’intero
segmento scheletrico senza grossi problemi). Tuttavia, ogni volta in cui è presente un processo infettivo,
andare ad inserire un mezzo di sintesi esterno pone il paziente ad un elevato rischio di una reinfezione.
Perciò inizialmente si tenta una bonifica con sostituzione protesica, consapevoli che il rischio di
amputazioni secondarie è molto alto.
Il problema è che in questi casi abbiamo a che fare con bambini di 10-12 anni.
Altre complicazioni locali che possono insorgere sono un’epifisiodesi, una fusione in corrispondenza della
cartilagine di accrescimento, che può andare a determinare delle deviazioni e dei blocchi di crescita veri e
propri oppure delle deformità successive.

Qui vedete un processo osteomielitico che ha determinato un blocco della


cartilagine di accrescimento e la scomparsa completa
del condilo femorale esterno, con una deviazione del
ginocchio veramente importante ed una deformità tale
da determinare una sostituzione protesica a maturità
scheletrica.

Processi infettivi diafisari come questi, possono determinare un’aumentata fragilità


dell’osso, per cui poi si possono andare a verificare le cosiddette fratture da stress
(fratture dovute a microtraumi ripetuti). In questo caso i microtraumi sono correlati
all’incapacità dell’osso di rimodellarsi a causa del processo infettivo.

Un’altra complicazione locale è la fistolizzazione cutanea.


Come vedete da questo esempio, quando un paziente arriva in PS con un quadro di
questo tipo (edema, tumefazione importante, suppurazione dalla cute) si ha una
diagnosi di certezza di processo infettivo. Stessa cosa vale per un’articolazione
protesizzata con fistolizzazione cutanea in superficie.

Purtroppo, ancora oggi, in ambulatorio arrivano pazienti in queste condizioni, con


un quadro estremamente avanzato, la cui diagnosi non dovrebbe essere difficile;
spesso si tratta di pazienti in casa di riposo che vengono visti solo quando
sviluppano perdite settiche molto importanti oppure in alcuni casi, in un territorio
come questo, un carcinoma secondario. I carcinomi squamocellulari nell’anziano
possono essere secondari ad una fistola, perché il processo riparativo ripetuto e
cronico che l’organismo mette in atto per guarire la regione alla fine va a
determinare lo sviluppo di una lesione carcinomatosa.

Diagnosi

Per la diagnosi sono importantissimi:


 Anamnesi e Esame Obbiettivo
La clinica è ovviamente aspecifica, a meno che non siamo in presenza di quelle caratteristiche
eclatanti viste sopra. I sintomi generali sono quelli legati ad un processo infettivo (febbre, astenia,
malessere, brividi).
 Esami di Laboratorio
Molto importanti, soprattutto perché leucocitosi, neutrofilia, aumento di VES e PCR ci guidano
nell’efficacia del trattamento o nell’eventuale riacutizzazione del processo. Vengono utilizzati quindi
nel monitoraggio regolare ogni circa 10 giorni.
 Esami di Imaging
 L’ecografia è importante nelle fasi iniziali.

 La radiografia fornisce molte informazioni, ma sostanzialmente tardive; è assolutamente


negativa nelle prime due settimane e nel momento in cui abbiamo delle immagini
radiografiche di sospetto siamo di fronte ad un processo che ha già determinato erosioni
importanti a livello articolare.

In questo caso la positività scintigrafica non è correlata a


quella radiografica

La radiografia diventa positiva dopo 2-4 settimane, in


stadio avanzato, con aspetti a coccarda della metafisi,
oppure dopo le 4 settimane con quadri di lesione
osteolitica/osteoaddensante sfumata in
corrispondenza della regione metafisaria.

 La RMN è uno degli esami principali per la diagnosi di osteomielite


acuta, soprattutto in caso di quadri dubbi; permette di vedere tutto
(processo osteomielitico, ascesso sottoperiosteo, coinvolgimento delle
parti molli e presenza di pus).

 La scintigrafia è un esame che tecnicamente fornisce informazioni


funzionali, mostrando un segnale di rimodellamento osseo accelerato
Nell’immagine si nota iperattività a livello metafisario in quasi tutte le
sedi metafisarie del bambino ed un importante ed intenso uptake in
corrispondenza del femore, che è invece patologico.
È molto sensibile, ma poco specifica. Si è provato ad aumentare la
specificità utilizzando isotopi più specifici per l’infiammazione e uno di quelli che si utilizza
maggiormente è il Leukoscan: i leucociti del paziente vengono prelevati, marcati con un
radioisotopo e iniettati nuovamente nel soggetto, in modo tale da poter visualizzare la sede in
cui si concentrano maggiormente le cellule infiammatorie.
Rimane comunque un esame abbastanza invasivo: due prelievi nel giro di pochi giorni,
utilizzo di isotopi radioattivi in pazienti in accrescimento. Non è perciò un esame che si
utilizza in prima battuta.
 Isolamento del germe
È la cosa più importante ancora oggi e si effettua con artrocentesi se è presente versamento a livello
articolare o con multipli prelievi bioptici in corrispondenza della lesione sospetta. Si esegue poi esame
colturale, antibiogramma e valutazione istologica per eventuali diagnosi differenziali.

Qui vedete alcuni esempi di diagnosi differenziale:

sarcoma di Ewing osteosarcoma


Molto spesso la diagnosi differenziale dell’osteomielite comprende lesioni tumorali

Alert: ogni volta in cui un paziente pediatrico si presenta con febbre, tumefazione locale, difficoltà alla
mobilizzazione o al carico dobbiamo presumere che si tratti di un’infezione, fino a prova contraria.
Soprattutto se questi dolori tendono a persistere senza causa oltre i 10-15 giorni.

Trattamento

La terapia antibiotica sistemica è inefficace in fase suppurativa. Quando si instaura la necrosi ossea gli
antibiotici non arrivano nella regione del focolaio di osteomielite, per cui è importantissimo intraprendere un
approccio multidisciplinare che associ una terapia chirurgica (svuotamento dell’ascesso, asportazione del
materiale necrotico, lavaggi ripetuti in corrispondenza del focolaio) ad una terapia sistemica mirata, con
l’aiuto anche di infettivologi esperti nelle infezioni dell’osso. Il trattamento antibiotico in media va dalle 6
settimane ad 1 anno.
È necessario attuare una pulizia chirurgica accurata perché qualunque cosa si vada ad inserire di estraneo in
un focolaio infetto sarà tutto materiale che potrà essere colonizzato dai batteri. E una volta che il batterio
colonizza il mezzo di sintesi estraneo non c’è modalità di rimuoverlo se non rimuovendo il mezzo di sintesi.

Vedete qui il quadro disastroso in questa tibia


e questo frammento altro non è che un
sequestro osseo. Prende il nome di sequestro
il frammento osseo morto, necrotico,
avascolarizzato che si trova all’interno di un
focolaio di osteomielite.

Qui vedete altri casi


15gg 20gg 30gg 15gg post-op
Era già facilmente
diagnosticabile all’inizio
un’osteomielite, a distanza di 5
giorni vedete com’è
velocemente evolutivo il
processo; 10 giorni dopo, non
trattata, vedete come abbia
interessato in maniera
completa tutta la diafisi.
Dopo 45 giorni, il trattamento è
stato quello di aprire tutta la
cavità, rimuovere tutti i
sequestri, fare un abbondante
debridement con rimozione di
tutti i corpi necrotici, di tutto il
tessuto purulento fino a far
sanguinare l’osso; si tratta di un
intervento chirurgico molto
aggressivo che non ha nulla da
invidiare ai trattamenti che si
fanno per alcuni tipi di tumore.
In quindicesima giornata post-operatoria vedete come l’osso si sia riformato e sia tornato vitale.

Il paziente paradossalmente, nel momento in cui sviluppa una


fistolizzazione cutanea, ha una sintomatologia che recede; questo perché la parte in
tensione a livello periosteo che causa dolore si rilascia grazie alla fuoriuscita del pus
all’esterno. Tuttavia, ciò rimane correlato ad un importante processo infettivo.

Se la patologia continua a non essere trattata, può verificarsi quindi una diffusione
del processo infettivo anche negli strati adiacenti dei tessuti molli fino al tessuto
sottocutaneo e cutaneo.

Altri casi molto gravi, al limite per


l’amputazione, per far capire qual è la
gravità del processo infettivo all’interno
dell’osso
In questo caso una volta aperto, si è
rimosso tutto il tessuto necrotico inclusa
una buona parte dei tessuti molli, con la necessità di procedere con una guarigione per seconda intenzione. Si
tratta di un processo che dura moltissimi mesi (la cute cresce di circa 1mm ogni 10 giorni), per una lesione di
questo tipo necessita in media di 6-8 mesi.
Ciò è dovuto anche alla difficoltà di utilizzare degli innesti, in quanto con un processo infettivo in atto è molto
facile che un innesto cutaneo o un lembo possano non attecchire.

La cosa importante è non aspettare: nel momento in cui si ha un sospetto è necessaria una valutazione seria
e completa, senza aspettare che si formi un ascesso o che la malattia diffonda all’articolazione.

Osteomielite Diretta o Post-Traumatica

È molto più semplice da diagnosticare, in quanto a seguito di un evento traumatico (foro di proiettile, frattura
esposta) l’osso viene esposto ad una contaminazione.
Da ricordare che l’infezione risulta una naturale complicazione precoce locale delle fratture esposte.
In alcuni casi può avere un’insorgenza subdola o una tendenza alla cronicizzazione.
Rientrano in questa categoria anche le infezioni correlate ad interventi chirurgici: in corso di intervento
chirurgico l’infezione è più grave soprattutto per quanto riguarda gli interventi puliti (in cui rientrano la
maggior parte degli interventi ortopedici protesici o le fratture, in quanto la regione ossea è sostanzialmente
sterile). Gli interventi contaminati, invece, sono quelli in cui è presente un processo infettivo in atto, con la
presenza di batteri in fase replicativa all’interno del segmento. Gli interventi sporchi sono quelli di drenaggio
di ascessi, fistole e altri di questo genere.

Osteomielite Cronica

Sono forme di osteomielite che possono essere post-acute (osteomielite acuta che se maltrattata tende a
cronicizzare) oppure croniche ab initio.
L’osteomielite cronica nella maggior parte dei casi è conseguente ad un mancato o inadeguato trattamento
della forma acuta. Se un paziente viene trattato con un antibiotico per 10 giorni, poi viene sospeso,
successivamente viene cambiato antibiotico e sospeso nuovamente e così via, l’infezione tenderà a non
risolversi e a cronicizzare.
Regolarmente ci capita di vedere pazienti che arrivano con una fistola dopo aver fatto 4-5 cicli di terapia
antibiotica inadeguata.

L’osteomielite cronica post-acuta rappresenta il 15% delle osteomieliti ed è caratterizzata da delle fasi di
riaccensione, con la formazione di fistole cutanee a volte anche dopo numerosi anni dal processo iniziale; si
vanno a determinare quindi all’interno dell’osso dei focolai più o meno silenti, più o meno attivi, che si
riaccendono quando si abbassano le difese immunitarie dell’organismo.
Alcune di queste cronicizzazioni sono legate alla presenza di sequestri: frammenti di osso contaminato,
avascolare, all’interno della regione che diventano una sede dove i batteri possono replicare e rimanere vitali,
non in contatto col circolo sanguigno dell’organismo. In questo caso,
quindi, terapie antibiotiche endovena o orale non sono efficaci.

Clinicamente
In immagine. Ci sono pazienti che arrivano all’attenzione medica con fistolizzazioni cutanee: in un sequestro
come questo, è facile che rimangano annidati dei batteri.

Trattamento

L’osteomielite cronica richiede un trattamento chirurgico: è importante un’aggressione chirurgica massiva,


con rimozione di tutti i sequestri, di tutto l’osso necrotico; è importante il raschiamento dell’osso sclerotico
fino ad ottenere un sanguinamento attivo dall’osso rimanente ed una cicatrizzazione guidata (per seconda
intenzione): raramente si utilizzano dei lembi.

[Salta delle slide, su cui dice non essere necessario soffermarsi]:

 OSTEOMIELITE CRONICA POST-ACUTA

È correlata alla presenza di germi all’interno di un focolaio; questi tendono a


riaccendersi a distanza di tempo da un evento traumatico: nella foto accanto viene
mostrata una ferita chirurgica guarita, che a distanza di tempo ha determinato una
suppurazione: in questo caso bisogna agire con una nuova operazione
chirurgica, che consiste nella rimozione della porzione cutanea e sottocutanea
coinvolta nel processo infettivo e nella cicatrizzazione per seconda intenzione.

In immagine: il fissatore esterno è un mezzo che permette di controllare una frattura esposta senza
andare a inserire all’interno del focolaio di frattura dei mezzi di sintesi.

Lembi plastici di copertura: in caso di fratture esposte con minima contaminazione non è necessario
l’utilizzo di lembi (Gustilo tipo I), mentre nelle fratture Gustilo III A e B possono essere necessari dei lembi di
copertura. Si valuta tutto ciò con un chirurgo plastico. Bisogna, quindi, scegliere se usare l’opzione del lembo
di copertura dopo aver bonificato il focolaio, oppure utilizzare il lembo solo in seguito alla certezza che non vi
sia un processo infettivo in atto.

(Il prof mostra alcuni esempi di lembi di copertura presenti nelle slide, fra cui un caso
a livello della regione tibiale anteriore ed uno a livello inguinale, dove dice non ci
siano molte possibilità di guarigione per seconda intenzione).

 OSTEOMIELITE CRONICA AB INITIO

Queste osteomieliti sono correlate a una virulenza batterica di solito bassa con un sistema immunitario
deficitario. Il cosiddetto Ascesso freddo di Brodie è un ascesso che si diagnostica spesso nei
bambini/adolescenti, nella regione metafisaria. Nella metà dei casi è dovuta a S. aureus.

La clinica è più sfumata rispetto all’osteomielite acuta:


- dolore non continuo
- calore
- Tumefazione
Imaging

Bisogna fare obbligatoriamente diagnosi differenziale con alcuni tumori benigni. Nell’immagine si vede
una zona di osteolisi centrale, con una grossa sclerosi periferica, del tutto tipica dell’osteoma osteoide.

Questa seconda immagine, invece, mostra un’osteolisi molto ben demarcata con un orletto
sclerotico molto addensato in periferia; l’orletto sclerotico rappresenta il tentativo dell’organismo di
contenere il processo infettivo. Quando si ha un’infezione acuta molto grave e veloce o un tumore che
cresce in maniera molto aggressiva, l’organismo non è in grado di contenerlo, quindi si vedrà all’imaging
un’osteolisi penetrante; se invece si vedrà un tentativo dell’organismo di contenere la lesione, ciò
indicherà una minor aggressività o una lenta crescita del patogeno (quindi nei tumori benigni o nelle
infezioni croniche non si avrà un processo accelerato di osteolisi).

La RMN permette di verificare il contenuto liquido all’interno della lacuna ossea; ma assolutamente
importante per la diagnosi è la biopsia.

Trattamento

Eseguire il drenaggio dell’ascesso ed il curettage completo (cioè entrare all’interno


della cavità e pulire dall’interno tutta la regione). Successivamente, rimuovere tutto il
materiale, portare ad una cicatrizzazione guidata per seconda intenzione e instaurare
l’antibiotico-terapia prolungata.

Spondilodiscite
Infezione che riguarda il disco intervertebrale e la vertebra. Esistono spondilodisciti:

- Ematogene (tipiche dell’infanzia)


- Post-chirurgia (il 2% dei pz adulti sottoposti a chirurgia vertebrale)
- Tubercolari

Spondilodiscite ematogene
Immagine di una sezione di un tumore vertebrale di un bambino. L’ingresso
del patogeno dal circolo sanguineo avviene in corrispondenza della regione del
disco; il patogeno attraversa poi l’impianto cartilagineo completamente,
determinando
la distruzione progressiva di tutto il disco stesso.
La parte più importante del disco è rappresentata dal nucleo polposo (molto grande nel bambino), questo è
strettamente contiguo alle strutture vertebrali, quindi è facile che un germe possa diffondere da questa zona
alla vertebra soprastante e sottostante. Molto spesso, in questi casi, è anche il circolo venoso che ne
favorisce la diffusione: quindi non una diffusione ematogena arteriosa,
bensì è il plesso venoso che, interessando tutte le componenti della vertebra,
ne permette una facile diffusione lungo tutte le strutture.

Clinica

- Dolore toracico o addominale, in base alla regione interessata


- Irritazione delle meningi
- Quadri particolari a causa dell’interessamento di strutture muscolari paravertebrali (nelle slide; anca
flessa per contrattura dello psoas)

Il laboratorio mostra l’aumento di indici dell’infiammazione, di infezione (PCR, VES, leucocitosi).


Imaging

La radiografia a livello del rachide aiuta poco; la scintigrafia e la RMN sono gli esami più importanti.
Viene mostrata la radiografia, in immagine, di una donna di 54 anni.
Durante l’esordio clinico dei dolori, la RX non mostrava nessun segno
patologico, solo due mesi dopo, in fase avanzata del processo, è stato
possibile visualizzare il danno: lisi completa del disco intervertebrale e lisi
secondaria dei corpi vertebrali circostanti.

Trattamento

A livello sia toracico che lombare, si immobilizza il segmento scheletrico; si ricorre alla terapia sistemica, con
trattamento antibiotico mirato (sulla base di un antibiogramma). Spesso quello che si determina, una volta
distrutto il disco intervertebrale, è una fusione dei due corpi vertebrali: una volta guarita l’infezione, cioè, si
arriva ad un’artrodesi spontanea.

Spondilodiscite correlata a trattamento chirurgico


Esempio di una paziente trattata per ernia discale. In questo caso, la
terapia antibiotica deve essere iniziata quanto prima. Spesso si
vanno ad effettuare delle pulizie chirurgiche, successive
all’intervento, (dipendendo ciò dalle tempistiche correlate
all’intervento) e la terapia antibiotica è mantenuta per un minimo di
6 mesi, sotto controllo infettivologico.

Spondilodiscite tubercolare
Ci sarà positività per la tipica colorazione di Ziehl-Neelsen che permette di vedere i micobatteri (quando si ha
un sospetto bisogna fare una specifica richiesta al laboratorio per l’utilizzo di colorazioni particolari, che
permettano di fare diagnosi). È la più frequente fra le spondilodisciti specifiche (esiste anche quella data da
M. Bovis);
L’età di insorgenza è fra 10-40 anni. La tubercolosi è una patologia riemergente. La tubercolosi si può
localizzare, oltre alla regione vertebrale, anche a livello dell’anca o può dare delle infezioni che interessano la
regione sinoviale, e quindi determinare delle artriti vere e proprie; ma la localizzazione principale è a livello
della colonna, dando il cosiddetto quadro secondario del Morbo di Pott.

Da una tubercolosi a localizzazione vertebrale, si può osservare la formazione di un ascesso in corrispondenza


dei tessuti molli, che è tipica di una diffusione del processo in corrispondenza di alcuni grossi gruppi muscolari
che si inseriscono a livello vertebrale: l’ileo-psoas si inserisce
sui processi trasversi di tutte le vertebre lombari, ed è facile
che una infezione a livello lombare possa migrare lungo il
muscolo andando a determinare un ascesso che arriva fino alla
regione dell’anca. Stessa cosa può accadere a livello della fossa
sovraclaveare.

Mostrati alcuni quadri gravi di distruzione completa vertebrale:


cifosi con un gibbo.

Clinica

Esordio subdolo, patologia granulomatosa, cronica. Possono manifestarsi spasmi muscolari, febbre
tipicamente serale. Tuttavia, per la diagnosi è indispensabile la ricerca del micobatterio.

Complicazioni

- compromissioni midollari
- dislocazione della vertebra
- triade di Pott: gibbo, ascessi ossifluenti e tetraplegia/paraplegia.

Trattamento

Il trattamento chirurgico è difficile: si drena la parte infettiva, si effettua la stabilizzazione e si attua un


trattamento farmacologico con tubercolostatici.

[salta la coxite tubercolare]

Artrite Acuta

L’artrite consiste nell’interessamento articolare da parte di un processo


infettivo. Patologia molto grave: è un’emergenza ortopedica! [dal punto di
vista ortopedico, ci sono poche condizioni che richiedono un intervento immediato, correlato con i minuti/ore:
le paralisi neurologiche per compressione midollare e l’artrite acuta].

Interessa bambini sotto i 3 anni e le grosse articolazioni (ginocchio, anca o gomito). È possibile nei bambini
avere una diffusione di un’osteomielite da una regione metafisaria, attraverso i sinusoidi, a livello articolare.

Negli adulti, questa diffusione è più rara; più frequentemente avviene per via ematogena.

La gravità è correlata all’età ossea del pz: meno anni ha il pz, peggiore sarà la prognosi. Questo perché, la
gravità è legata al potenziale di accrescimento della metafisi ed alla necessità di mantenere una buona
vascolarizzazione della regione epifisaria. Si può arrivare ad avere un’erosione completa dell’epifisi a causa
del processo infettivo, per cui i germi e batteri possono degradare completamente la cartilagine articolare.

Importante è ricercare sempre la porta di ingresso del germe. Di solito, nei bambini, va ricercata nella
regione orale, chiedendo di eventuali diarree, o di patologie gastroenteriche importanti.

Clinica

Il paziente presenta sempre una tumefazione a livello articolare correlata con rigidità e dolore, con eventuale
zoppia se il bambino ha già cominciato a deambulare.

Imaging

L’ecografia è l’esame principale. In caso di sospetto di un’artrite settica, è giustificabile in questi pazienti
anche lo svolgimento di una scintigrafia dove potrebbe manifestarsi un intenso uptake di radiofarmaco in
corrispondenza della lesione. La radiografia, invece, darà informazioni solo tardivamente, come la presenza
di segni di erosione

In immagine si nota, a livello radiografico, la dislocazione della testa del femore


correlata alla presenza di pus che tende a determinare un aumento di pressione in
corrispondenza dell’articolazione. È indispensabile riconoscere un quadro di questo
tipo, perché l’aumento di pressione da parte del pus
all’interno dell’articolazione correla con la necrosi della
testa del femore.

In anatomia patologica, a livello cartilagineo, si evince la presenza di essudato


purulento, di granulociti che effettuano la condrolisi della struttura superficiale.

Trattamento

- Artrocentesi. La prima cosa da fare in acuto è l’artrocentesi, decomprimere cioè l’articolazione.


Eventualmente, questa può essere ripetuta; questa permette anche di prelevare del materiale da inviare
per una valutazione colturale con il fine di isolare il batterio. Una volta effettuata l’artrocentesi,
sapendo che gli agenti eziologici principali di tale tipo di artriti sono i Gram +, si inizia una terapia
antibiotica empirica, che successivamente si può rendere più mirata tramite antibiogramma.
- Antibiotici ev in emergenza
- Riposo completo dell’articolazione (di solito si mette un gesso in questi pazienti)

La guarigione è possibile solo se si è tempestivi nel trattamento.

Non si vorrebbe mai arrivare a vedere un quadro come quello in


immagine: un neonato, che arriva all’attenzione clinica con una coscia il
doppio dell’altra e con una fistola. Questo è un caso di artrite settica
altamente complicata. A livello radiografico la testa del
femore si vede decentrata perché il processo suppurativo si
è decompresso per la fuoriuscita del pus attraverso la cute.

Immagine dello stesso paziente a 5 anni: si nota la scomparsa completa della struttura
articolare e a 7 anni la presenta di un quadro di displasia con dislocazione del moncone
femorale. Il trattamento per un paziente del genere sarà: l’utilizzo di una protesi.

Domanda: in bambini così piccoli si mette immediatamente una protesi piccola per poi sostituirla
con una di dimensioni maggiori o si aspetta che i bimbi diventino più grandi?

Risposta: Di solito, si ha la tendenza ad aspettare. In questi casi il paziente riesce a camminare


sul moncone; mettendo una protesi troppo precocemente si potrebbero verificare due complicanze; una
correlata alla cartilagine di accrescimento per cui si preferisce che ci sia una fusione completa della regione
acetabolare. La seconda è legata al processo infettivo stesso: si tende ad aspettare diversi anni per verificare
che ci sia stata la completa negativizzazione del processo.
In base ai desideri/aspettative dei pazienti si potrà pensare di innestare una protesi verso i diciotto anni di
età.

Questi pazienti, comunque, possono convivere con un quadro di questo tipo, così come in caso di displasia
dell’anca, anche tutta la vita perché seppur permanendo zoppia, il dolore terminerà.

Basti pensare che nei pazienti anziani ciò viene fatto volutamente: quando ci sono pazienti con fratture di
collo di femore, che hanno troppi rischi anestesiologici, a volte, si va a rimuovere la testa femorale fratturata,
lasciando un quadro simile al precedente. (Intervento di Girdlestone)

Oppure in pazienti che hanno delle posture obbligate come in caso di Parkinson o anchilotici in cui è
impossibile andare a ricreare una nuova geometria mediante impianti protesici.

INFEZIONI PROTESICHE

Le infezioni protesiche sono delle infezioni complesse perché ne è difficile la diagnosi ed il trattamento. Da un
punto di vista sociale, inoltre, sono legate ad un costo eccessivo per il SSN: ad oggi, in Italia, si impiantano
500-600 protesi alla settimana; l’aumento dell’aspettativa di vita media rispetto al passato ha fatto sì che,
nonostante le infezioni protesiche siano una complicazione rara (meno del 1 % delle complicanze di protesi di
anca, meno del 2% di quella di ginocchio, poco più frequente di quella di protesi di gomito), queste
costituiscano un reale nuovo problema economico. Una protesi infetta, infatti, costa fra i 60’000 e i 75’000
dollari ciascuna al SSN.

La mortalità è dello 0.15%.

È la causa di circa il 10% dei fallimenti protesici.

Attualmente, stanno aumentando esponenzialmente il numero di casi. Questo è legato da una parte
all’aumento del numero di protesi impiantate; dall’altro al problema dell’antibiotico resistenza.

Le infezioni delle protesi si dividono in:

Infezioni precoci: quando la complicanza infettiva si verifica


entro 1-2 mesi dall’impianto. Sostanzialmente in questo
caso la protesi si è infettata durante l’atto chirurgico
stesso.
Infezioni intermedie dopo i 2 mesi ed entro i 24 mesi
dall’impianto, legate a riattivazioni di foci silenti oppure a
contaminazione ematogena. (Esempio: un paziente con un
ascesso dentale i cui agenti patogeni riescono ad infettare
la protesi).
Infezioni tardive o croniche: un’infezione dopo esser trascorsi 24 mesi dall’intervento, legate ad una
contaminazione della regione da germi a bassa virulenza.

Dalle percentuali si evince che sono pochi i pazienti che sviluppano un’infezione precoce, mentre nella
maggior parte dei casi, si tratta di infezioni intermedie o tardive.

Microbiologia

- Gram + 75%
- Gram – 10%
- Misti 15%
In uno studio relativo ai patogeni isolati in infezioni ortopediche nell’istituto Rizzoli, alla Mayo Clinic si evince
come la maggior parte siano ascrivibili a Staphilococcus sp, minori i casi causati da Enterobatteriacee (8 %),
Pseudomonas ed Enterococcus.

Il pericolo dell’antibiotico resistenza

Aumentano i casi di pazienti con infezioni da:


- Stafilococchi Vancomicina –resistenti
- Enterococchi Vancomicina-resistenti
- Stafilococchi coagulasi negativi
- Stafilococchi a piccole colonie
La causa principale dell’antibiotico resistenza è legato all’utilizzo disseminato degli antibiotici; mentre prima,
infatti, gli antibiotici erano esclusivamente utilizzati a livello ospedaliero, oggi ve ne è un utilizzo erroneo
(tanto che attualmente si cominciano a vedere anche batteri resistenti alla Vancomicina).

Importante, per cui, è la prevenzione.


Bisogna scegliere attentamente i pazienti candidabili a impianto di protesi, controllando che non ci siano dei
foci di possibile disseminazione. (Gli americani sono molto attenti a questo, tanto che richiedono al chirurgo
di fare una decontaminazione nasale per ogni procedura chirurgica). Effettuare una profilassi antibiotica
corretta, seguendo protocolli internazionali. Assicurare che la chirurgia rispetti tutti i criteri di sterilità
necessari.

I fattori di rischio legati all’intervento sono difficilmente modificabili:

- Durata dell’intervento chirurgico: più corto è l’intervento più diminuiscono le probabilità di infezione
delle strutture più profonde della cute.
- Evitare la formazione di Ematomi
- Evitare ospedalizzazioni protratte (In America vige il FAST-TRACK, la dimissione dei pazienti dopo
3 giorni dall’intervento di protesi di anca e ginocchio)
- Utilizzo di cateteri venosi
- Utilizzo di cateteri urinari
- Mantenimento di drenaggi per un tempo prolungato.
Importante è il concetto di BIOFILM. Quando un batterio va a colonizzare
una protesi, aderisce alla protesi stessa e crea un microambiente dove
potrà rimanere indisturbato producendo un glicocalice che rende
impossibile la penetrazione da parte delle difese dell’organismo di quella
zona.

Il glicocalice è:

- una barriera per gli antibiotici


- favorisce l’ingresso di nutrienti per i batteri
- inibisce il sistema immunitario.
Una volta che la protesi viene colonizzata dal batterio, cosa che avviene in circa 1 mese, non c’è possibilità di
distruggere il batterio se non rimuovendo l’impianto protesico stesso. È una condizione di irreversibilità.

Esami di Laboratorio

Il prof commenta la slide dicendo che ogni tot le aziende provano a mettere
sul mercato dei nuovi prodotti per poter diagnosticare un’infezione
protesica; tuttavia, non esiste un esame che permetta di avere la certezza di
questa diagnosi. Di solito si eseguono più esami, affinché più esami positivi
possano indicare un’infezione protesica con maggior sicurezza. Inoltre, la diagnosi deve essere sempre
multidisciplinare.

Quasi sempre la VES rimane elevata nei primi mesi del post-operatorio. A distanza di mesi, però, se si eleva la
VES o la PCR, può essere un sintomo iniziale di un’infezione protesica.

L’artrocentesi non è sempre facile da svolgere. Se si hanno dei sospetti importanti, bisogna fare dei prelievi
bioptici in corrispondenza dell’articolazione. Le colture devono essere seguite per oltre due settimane ( > 14
giorni) per andare a ricercare anche eventuali infezioni a bassa virulenza.

La coltura potrà essere positiva per un patogeno comune.


Questo permetterà di fare con certezza diagnosi di infezione
protesica, alla quale far seguire il trattamento.

Oppure la coltura potrà dare un risultato negativo, non


concordante questo dato con la clinica del paziente, oppure
essere positiva per un patogeno inusuale/sospetta contaminazione. In questi casi si ripeterà l’artrocentesi e
l’esame colturale.

Il prof salta molte slide e commenta solo qualche aspetto delle stesse

Imaging

Alla radiografia raramente si vedranno segni caratteristici. In immagine:


osteolisi della componente periprotesica, con forte sospetto di
mobilizzazione settica.
Alla TC si possono vedere le stesse caratteristiche.
La medicina nucleare ha provato in diversi modi a diagnosticare
infezioni protesiche, tuttavia quasi tutte le tecniche hanno un’alta
sensibilità, ma una specificità molto variabile. Oggi molto usate sono le
PET-TC con il Gallio, anche se i risultati rimangono dubbi.

Trattamento

In caso di infezione periprotesica entro il primo mese, quando ancora non è avvenuta la formazione di
biofilm, si può sperare di riaprire la ferita chirurgica, fare dei lavaggi abbondanti con 5-6 L di soluzione
fisiologica in corrispondenza della protesi e fare un tentativo di ONE stage: mantenendo la protesi in sede.
Procedimento, tuttavia, ad alto rischio.

Dopo un mese, il paziente non potrà più ricorrere ai lavaggi. Una volta instaurato il biofilm, l’unica possibilità
è quella di rimuovere l’impianto facendo una revisione in uno o due tempi.
Si può togliere l’impianto e inserirne immediatamente uno nuovo; procedura abbastanza rischiosa.
Il gold standard è una revisione in TWO stage: si togliere l’impianto, si mettere uno spaziatore in cemento
antibiotato, che permette cioè di rilasciare antibiotico in sede, si aspetta la bonifica della zona e solo in un
secondo tempo si andrà ad effettuare un nuovo impianto protesico. Questa tecnica è efficace nell’80% di casi.
Trattamento simile alla chirurgia oncologica in quanto ad aggressività.

Gli impianti che verranno inseriti per sostituire i precedenti infettati dovranno essere più aggressivi rispetto ai
primi utilizzati, ricercando una maggiore stabilità della struttura protesica.

Anche le artrodesi e le amputazioni sono delle possibilità terapeutiche da non escludere.

Giulio Sansone 6/11/2019


Nazzareno Italiano Fisiatria, lezione 6
Elena Farina Prof. Frizziero e specializzando
Paolo Calegari

INVECCHIAMETO, IPOTONOTROFIA E PAZIENTE ANZIANO

L’argomento odierno, oltre ad essere estremamente interessante, racchiude problematiche importanti, che ci
troveremo indubbiamente ad affrontare nella nostra vita e pratica medica: l’invecchiamento. Avremo infatti a
che fare con molte persone e pazienti anziani, che, nel corso dell’invecchiamento, saranno inevitabilmente
andati incontro a una condizione di ipotonotrofia generalizzata. Questa consiste nella perdita di massa
muscolare, che è una condizione assolutamente fisiologica della persona anziana, tipica dell’evoluzione
dell’uomo, prevalente nella donna rispetto all’uomo. In caso di eventi accidentali quali cadute, accompagnate
da allettamento prolungato, o semplicemente in caso di dolori agli arti inferiori o alla schiena, si verifica un
aggravamento a circolo vizioso della condizione di sedentarietà che a sua volta accentua l’ipotonotrofia.
Quindi, un anziano che svolge attività di vita quotidiano piuttosto semplice, dopo un ricovero o allettamento
di una settimana, può trovarsi improvvisamente nelle condizioni di non riuscire più a deambulare
correttamente o a mantenere una stazione eretta. Questo produce naturalmente una cascata di eventi di tipo
sociale importanti, perché, se l’anziano non è più autonomo, servono persone di sostegno: parenti (se ci
sono), altrimenti badanti, case di riposo o altro. In termini di spesa sociale e organizzazione territoriale tutto
questo è molto gravoso. Esempio classico in un reparto di medicina interna: un paziente di 80-85 anni
ricoverato, ma che ormai (fortunatamente) è guarito (no febbre, no PCR, ecc) e dunque viene dimesso. E’
stato allettato per 10-15 giorni, non può andare a casa direttamente con la lettera di dimissioni, come
farebbe un giovane. Si tratta di una persona, bisogna perciò organizzare il post-ricovero, preoccuparsi di chi si
prenderà cura di questa persona da lì in poi, in particolare dei suoi bisogni primari: lavarsi, mangiare, andare
a letto e così via. Questi aspetti vengono spesso dati per scontati ma sono problematiche concrete e attuali.
Oltre alla fragilità d’organo c’è quella ossea: l’osteoporosi, considerata da molti la malattia silente più grave
dell’anziano, perché i sintomi il dolore si manifestano solo dopo una frattura; altra condizione silente è la
fragilità muscolare, caratterizzata dalla perdita di massa muscolare, che prosegue fino ad un certo limite se il
muscolo è mantenuto in attività. L’anziano comunque perde la massa, ma può mantenere la forza se è un
soggetto allenato. Se oltre a perdere la massa (che succede indipendentemente nell’anziano), perde anche
l’allenamento (che possiamo considerare semplicemente come le mansioni quotidiane o degli esercizi di
rinforzo), ecco che la severità dell’ipotonotrofia comporta una serie di problematiche.
Concetto di postura flessa: Spesso gli anziani, cadendo, si rompono il femore, in particolare si verificano
fratture del collo, pertrocanteriche o diafisarie. Poi vengono allettati, vengono sottoposti ad intervento
chirurgico (sintesi o protesi) e poi si fa la rieducazione.
Perché cadono con maggior frequenza? Sono diverse le motivazioni, che possono agire in modo sinergico:
postura scorretta a causa dell’ipotonotrofia, alterazione della propriocezione e dell’equilibrio, presbiopia e
ametropie varie (non vedono uno scalino o il cambio di terreno), coxartrosi, neuropatie periferiche,
presbiacusia (percezione dell’ambiente circostante ovattata). Inoltre, con l’invecchiamento non vengono
persi i piani motori acquisiti in età precoce, il che è problematico, in quanto questi non combaciano più con
l’effettiva capacità prestazionale dell’individuo e quindi con la capacità di attuazione degli stessi.
Tutto questo rientra prevalentemente nella
condizione di postura flessa, spesso sottostimata. Questi
pazienti hanno un atteggiamento in flessione
anteriore del rachide. Infatti in caso di fratture
vertebrali, più frequenti a livello lombare e
toracico, si verifica una cuneizzazione dei corpi
vertebrali: assottigliamento anteriore del corpo
vertebrale, con conseguente ipercifosi dorsale. E’
questo che dà la postura “piegata in avanti”, tipica
dell’anziano e che determina non poche difficoltà alla
deambulazione.

Conseguenze della postura flessa:


- Per poter volgere lo sguardo di fronte è necessario estendere il capo.
- Considerata anche l’elevata prevalenza di artrosi cervicale in queste fasce d’età, non è sufficiente
l’estensione del capo, per cui c’è una flessione compensatoria degli arti inferiori (in particolare le
cosce sul bacino e le gambe sulle cosce), per mantenere lo sguardo all’orizzonte.
- Ciò determina un importante sovraccarico sul quadricipite e muscoli paravertebrali (che devono
compensare l’ipercifosi), poi quelli del rachide cervicale, con importanti contratture. Il punto di perno
del carico del quadricipite è l’articolazione femoro-rotulea, in cui la già scarsa cartilagine che rimane
si usura più rapidamente, con conseguente dolore nel salire le scale e deambulare.
- Un ulteriore problema è che questa posizione non consente una sufficiente dorsiflessione del piede
(dato che il ginocchio è già flesso e l’angolo tra gamba e piede è ridotto in partenza), quindi si
inciampa più facilmente sugli ostacoli (tappeti, scalini, marciapiede).
Per ricapitolare, nell’anziano c’è un baricentro instabile, muscolatura più affaticata/bile e ipotonotrofica,
artrosi avanzata, fratture vertebrali. E’ facilitata la caduta e, a causa della concomitante osteoporosi, anche le
fratture, che comportano un ricovero. Tuttavia, trattando o sostituendo il femore, non si è risolta la
situazione a monte. Le fratture vertebrali da cedimento dei corpi ci sono ancora, l’allettamento che
accompagna i ricoveri di certo non aiuta le problematiche muscolari, spesso durante i ricoveri si verificano
scompensi dal punto di vista internistico; inoltre gli anticoagulanti vengono sospesi prima degli interventi per
evitare sanguinamenti potenzialmente fatali. Possono anche insorgere aritmie, il cui rischio è amplificato dall’
ipovolemia e dalle disionie. Insomma, c’è una cascata di eventi su cui bisogna intervenire, nel momento in cui
il paziente passa dall’ortopedia alla fisiatria dopo l’impianto di protesi o impianti.
Questo schema iniziale è propedeutico alla trattazione successiva.

PERSONE ANZIANE
DEFINIZIONE

Gli anziani sono pazienti che richiedono un approccio multidisciplinare. A livello fisiatrico noi ci troviamo a
trattare la disabilità, in particolare quella legata al decadimento di ossa e muscoli.

Classicamente si definisce anziano una persona che ha superato i 65 anni di età. Tuttavia, grazie ad alcuni
fattori, tra cui i progressi della medicina, stili di vita migliori, il livello di istruzione più elevato, il contesto
lavorativo più salubre, oggi l’aspettativa di vita nei paesi occidentali è aumentata, e quindi questa soglia dei
65 anni sembra ormai superata.
Tutti questi fattori agiscono sulla qualità della vita migliorandola.

Inoltre, considerare solo l’età anagrafica risulta riduttivo, dal momento che esistono molteplici fattori
aggiuntivi (ad esempio fattori genetici, stile di vita, abitudini alimentari e voluttuarie) che influenzano in varia
misura le condizioni dell’individuo. Perciò sembra ormai più corretto fare riferimento all’età biologica.
Ultimamente si sente spesso parlare di età biologica, in particolare a livello sportivo: esistono infatti atleti che
a fine carriera hanno un rendimento fisico nettamente migliore rispetto a quello dei loro coetanei. Lo stesso
accade fra i pazienti anziani.

EPIDEMIOLOGIA

Secondo i dati dell’OMS del 2012:


 Il numero di persone di età ≥ 60 anni è raddoppiato rispetto al 1980.
 Entro il 2050 il numero di ottantenni sarà quasi triplicato, raggiungendo la cifra di 395 milioni di persone.
 Il numero degli adulti di età ≥ 65 anni supererà presto quello dei bambini di età < 5 anni ed entro il 2050
supererà quello di tutti i bambini di età < 14 anni.
Questo ovviamente porterà verso un numero sempre maggiore di pazienti che vanno incontro alle condizioni
patologiche tipiche dell’anzianità.

FRAGILITÀ ED INVECCHIAMENTO

La fragilità è uno stato di fisiologica vulnerabilità legato all’invecchiamento dovuto ad un’alterazione della
capacità di riserva omeostatica e a una ridotta capacità dell’organismo di far fronte a stress come le malattie
acute (come ad esempio le fratture).
La fragilità dell’anziano si configura come una sindrome e costituisce un fattore importante di disabilità ed
eventi avversi.

A questo si accompagna spesso una situazione sociale e familiare di abbandono, cosa che porta gli anziani a
non poter in nessun modo provvedere all’espletamento delle proprie esigenze di vita quotidiana.

L’invecchiamento rappresenta un processo biologico che varia nei diversi soggetti per tempi e modi. Nel
singolo individuo si accompagna a cambiamenti anatomo-strutturali a carico dei vari tessuti che modificano la
struttura, la morfologia e la funzionalità di organi, sistemi e apparati.
Le modificazioni fisiologiche che si verificano nell’età anziana sono le seguenti (possono essere più o meno
variamente presenti in ogni soggetto):
 Statura: tende a ridursi soprattutto dopo i 50 anni, a causa di modificazioni vertebrali, atteggiamenti
viziati, riduzione degli spazi articolari, cedimento della volta plantare del piede. È uno dei cambiamenti
che per primi balza all’occhio del medico che visita.
Queste modifiche scheletriche si portano poi dietro diverse alterazioni anatomiche a carico di tendini,
muscoli e legamenti, i quali tendono a cambiare per cercare di adattarsi alle ossa.
 Composizione corporea: il rapporto tra massa magra e grassa si modifica a
favore di quest’ultima, si riducono il volume di liquidi intracellulari e la
quota di K+ scambiabile.
 Tegumenti: ridotta sudorazione, minore capacità termoregolatoria (hanno
sempre freddo), ridotta sintesi di vit. D (peggiora lo stato delle ossa), ridotta
capacità di riparazione delle ferite, maggiore suscettibilità a infezioni.
 Postura: l’invecchiamento modifica il normale allineamento posturale e la
postura flessa (ipercifosi toracica, protrusione della testa e talvolta flessione
delle ginocchia) aumenta di incidenza con l’età. Un adeguato programma di
attività fisica si è dimostrato in grado di migliorare postura, equilibrio,
marcia e qualità di vita nell’anziano con postura flessa, riducendo il rischio
di lombalgia, cadute e fratture.
Perciò, ogni volta che visitiamo una persona anziana, dovremmo valutare lo stato delle ossa (magari con una
densitometria ossea) e la forza muscolare (esistono diverse scale e test da utilizzare). In presenza di fragilità
ossea e muscolare, è il fisiatra che deve prescrivere al paziente l’assunzione di integratori e stilare un
programma di attività fisica, la quale ha un’efficacia nettamente superiore a quella di qualunque farmaco o
integratore.
Questo ha lo scopo di prevenire i peggioramenti delle condizioni cliniche legati ad eventi accidentali.

Esistono tantissimi programmi di prevenzioni, più o meno sponsorizzati dalle varie regioni e dai diversi
specialisti (fisiatri, geriatri, altri), in cui i pazienti a gruppi vengono stimolati ad effettuare blande attività di
riscaldamento, stretching, potenziamento, aerobica.

Sistema Muscolare

L’invecchiamento del muscolo scheletrico è caratterizzato da una progressiva diminuzione della massa
muscolare, che prende il nome di sarcopenia o atrofia muscolare. Essa comporta diminuzione di forza
muscolare e capacità di mantenere l’equilibrio con aumento del rischio di cadute e fratture.
La riduzione della massa magra nell’anziano è principalmente da ricondurre al calo della muscolatura
scheletrica, che si accompagna ad un aumento di tessuto connettivo e adiposo nel muscolo.

La maggior parte della massa muscolare viene persa tra i 60 ed i 70 anni di età, e per questo sarebbe
importante che in anzianità i pazienti
iniziassero a modificare le loro abitudini
alimentari, aumentando la quota di
proteine ingerite giornalmente. Nella dieta
mediterranea classica, infatti, la quota di
proteine media è sufficiente per l’età
adulta, ma in età avanzata tale quota provoca un eccessivo catabolismo proteico, che può essere
parzialmente evitato aumentando il fabbisogno proteico.

Per quanto tutto ciò possa sembrare scontato e banale, è invece un argomento che ha un importante peso,
soprattutto dal punto di vista socio-economico. Sono infatti innumerevoli i progetti promossi da vari ospedali
(tra cui il “Progetto Femore” dell’Università di Padova), per la prevenzione secondaria di questi eventi. Sono
molti i fondi ed il personale investiti in questo ambito.

[Parte ora una elucubrazione/pippone del professore sulle ore investite da ogni medico nel rapporto col
paziente sul totale delle ore di lavoro. Il professore, riportando dati statistici, spiega come siano circa
massimo 2-3 su 10 le ore dedicate da ogni medico alla cura dei pazienti, mentre il resto viene dedicato a tutto
ciò che non è direttamente paziente, ma ad aspetti burocratici che fanno contorno al lavoro del medico e per
i quali noi studenti non siamo mai stati preparati. Noi studenti che iniziamo a lavorare in specialistica siamo
costretti ad imparare molto velocemente e quasi da autodidatti tutte queste attività collaterali.
Secondo il professore tutti questi aspetti burocratici rovinano il nostro lavoro, non tanto per ciò in cui
consistono, ma per come sono organizzati, e ci invita quando saremo grandi a provare a porre rimedio a tutto
ciò.
Si lancia poi in un’invettiva nei confronti della svalutazione della figura del medico, che egli descrive essere
una figura d’élite culturale e professionalmente di alto profilo. Sostiene che questa svalutazione sia ricaduta
soprattutto sulla retribuzione dei medici, che nel giro di venti anni si è ridotta mediamente della meta.
Per quanto, a mio avviso, il momento e l’orario non fossero particolarmente adatti a questo intervento, credo
che i concetti esposti dal prof siano validi e importantissimi per la nostra futura professione, nonostante al
momento facciamo fatica a immaginare noi stessi in un contesto lavorativo.
Fine del pippone]

Cause dell’atrofia muscolare

 Degenerazione dei motoneuroni spinali che diminuiscono della metà rispetto al paziente giovane. [La
forza muscolare è costituita per il 60% da fattori trofici, per il 40% da fattori nervosi].
 Declino (età dipendente) dei livelli di ormoni, protettivi del tono e della massa muscolare (androgeni,
estrogeni, GH, insulina).
 Maggiore produzione delle specie reattive dell’ossigeno con le difese antiossidanti meno efficienti
(sbilanciamento tra fattori lesivi e capacità riparative del muscolo)
 Malnutrizione e ridotto apporto proteico (spesso gli anziani non mangiano carne e pesce ma
prediligono una dieta di tipo glucidico quindi pane e pasta).
 Maggiore produzione di citochine infiammatorie che portano a uno stato di infiammazione cronica che
è dannoso per il muscolo.
 Nell’anziano si assiste a riduzione della sintesi proteica e aumento del catabolismo, soprattutto a causa
della mancanza di attività fisica. Scarsità di movimento e assenza di carichi di forza sul muscolo
causano, infatti, aumento del catabolismo proteico e dei fenomeni di denervazione e riduzione della
capacità di reclutamento muscolare.

Inattività fisica

Nell’anziano si assiste a una riduzione della sintesi proteica e a un aumento del catabolismo soprattutto a
causa dell’inattività fisica per cui è importante stimolare il paziente a cambiare il proprio stile di vita,
spiegandogli anche senza essere troppo tecnici a cosa va incontro a non fare attività fisica. Scarsità di
movimento e assenza di carichi di forza sul muscolo causano, infatti, aumento del catabolismo proteico,
fenomeni di denervazione e riduzione della capacità di reclutamento muscolare.
Il decadimento muscolare oltre che nell’anziano sedentario si osserva anche nei giovani nei periodi di
convalescenza (ad esempio durante un allettamento da frattura).
L’attività fisica è un fattore che influenza la massa muscolare e la massa ossea. In passato gli ortopedici in
caso di lombalgia acuta severa (classico colpo della strega) consigliavano di stare un mese a letto. Un mese a
letto in un paziente di trent’anni porta a una riduzione (non significativa) del muscolo (ma non dell’osso); in
un paziente di 70 o 80 anni un mese di riposo può portare a una situazione ben più grave. Un altro esempio
proviene dai reparti di medicina interna dove il clinico lavora per stabilizzare il quadro in acuto, spesso
tenendo il paziente per molto tempo a letto, nel momento in cui deve poi dimetterlo, chiama il fisiatra per
rimettere in piedi il paziente, però dopo così tanto tempo di inattività non è sempre facile riuscirci.

Dati epidemiologici

 La maggior parte degli studi fissa l’esordio dell’atrofia muscolare in corrispondenza della quinta decade
d’età.
 La forza muscolare si riduce gradualmente nel corso della vita adulta del 12-15% per decade fino ai 60
anni poi la diminuzione diventa ancora più consistente (fino al 60% a 80 anni).
 La diminuzione della forza muscolare interessa entrambi i sessi, anche se sembra realizzarsi in misura
inferiore nel sesso femminile.

Conseguenze dell’atrofia muscolare

La conseguenza principale dell’atrofia muscolare è la riduzione della forza muscolare, intesa come forza
massima, sviluppata dal muscolo. La potenza muscolare, intesa come il prodotto della forza per la velocità,
subisce un declino ancora maggiore della sola forza.
Di conseguenza si verifica un’importante riduzione della funzionalità muscolare con conseguente aumento
del rischio di disabilità.

Conseguenze extra muscolari dell’atrofia muscolare

 Metabolismo basale: diminuisce con l’età soprattutto a causa della modificazione della composizione
corporea e dell’atrofia muscolare. La riduzione della massa muscolare di tipo aerobico (fibre rosse) è
direttamente proporzionale all’inattività; le fibre rosse sono le prime ad andare incontro ad atrofia
muscolare e sono quelle che garantiscono un metabolismo maggiore.
 Termoregolazione: nell’anziano con la riduzione della massa muscolare c’è una riduzione della capacità
di adattarsi alle variazioni di temperatura (motivo per cui si vestono con vestiti pesanti di lana).
 Tessuto osseo: l’atrofia muscolare è una delle cause dell’osteopenia da invecchiamento in quanto il carico
meccanico esercitato dalla contrazione muscolare sull’osso ne condiziona l’attività metabolica. La massa
ossea è maggiore in soggetti fisicamente attivi rispetto ai coetanei non allenati.
In Italia siamo tra i paesi Europei con maggiore deficienza di vitamina D tra i giovani, anche rispetto ai paesi
nordici, infatti non basta esporsi al sole per produrre la vitamina D ma bisogna anche assumerla con la dieta.
La dieta mediterranea rispetto a quella scandinava è più povera di vitamina D e di calcio.

Prevenzione

La cattiva notizia è che l’atrofia muscolare e la fragilità sono inevitabili conseguenze dell’invecchiamento,
mentre la buona notizia è che anche se non può essere evitata completamente, la perdita di massa
muscolare può essere rallentata con adeguati programmi di prevenzione.

La prevenzione è fondamentale perché l’atrofia muscolare si associa a


 M a g g i o r i n c
:

con l’avanzare dell’età aumenta il rischio di cadute accidentali e di conseguenti fratture (soprattutto del
femore prossimale) che devono essere sottoposte ad intervento chirurgico.

Nell’immagine a sinistra si vede un errore che veniva commesso in ortopedia: se c’è una frattura
intertrocanterica si tende a mettere un chiodo lungo la diafisi dell’osso e uno cefalico che va verso la testa
del femore. In alcuni casi viene posizionata una placca DHS (immagine a destra), dotata di vari fori per
l’inserimento delle viti, e una vite cefalica; in questo caso il paziente non può caricare l’arto operato ma
può deambulare solo con un carico sfiorante, cosa difficile da imparare per un anziano, anche con
l’impiego di stampelle o di deambulatori. L’intervento con la placca DHS può essere fatto, quindi, solo a
un soggetto non anziano, che ha avuto un incidente in moto, per esempio, ma non a un anziano, per il
quale è meglio scegliere una protesi con la quale riuscirebbe a camminare fin dal giorno dopo, in modo da
tenerlo il minor tempo possibile a letto. Le scelte
ortopedico chirurgiche devono essere fatte tenendo conto
degli aspetti riabilitativi quindi funzionali del paziente.
 Maggiore disabilità
 Aumento del rischio sindrome metabolica e di patologie
associate
 Aumento del rischio di patologie autoimmuni
 Aumento del rischio di ospedalizzazione
 Aumento della mortalità
Il paziente è quindi costretto all’ospedalizzazione e al ricorso
alla chirurgia, con tutte le conseguenze negative associate,
soprattutto se si considera che il paziente anziano è
tipicamente fragile e affetto da diverse patologie.

A livello del collo del femore è presente una zona chiamata triangolo di Ward che possiede una trabecolatura
diversa (apprezzabile con la densitometria ossea ma anche con la radiografia). Il triangolo di Ward
rappresenta un’area di minore resistenza biomeccanica, che rischia maggiormente la frattura.

Gli anziani che vanno incontro a queste cadute accidentali presentano osteopenia/ osteoporosi e un ridotto
trofismo muscolare con conseguenti alterazioni del controllo dell’equilibrio, della postura e della
deambulazione e minor protezione muscolare delle strutture ossee.

Bisogna tenere presente che più un soggetto è inattivo, più lento e difficile sarà il recupero dopo un evento
acuto. Il recupero è in funzione anche dell’età del paziente e delle sue riserve funzionali.
Si evince che con un adeguato programma preventivo che riduca l’atrofia muscolare si può ridurre il rischio di
cadute, di fratture e di ospedalizzazione. Inoltre all’aumentare del trofismo muscolare le capacità di recupero
da una frattura sono più alte e il ritorno all’autonomia è più rapido. Entrambi questi aspetti enfatizzano
l’importanza della prevenzione.

Come prevenire

Le strategie preventive sono rivolte a due dei fattori maggiormente suscettibili ad interventi di natura
correttiva (tra quelli che concorrono a determinare la sarcopenia):
 Malnutrizione e ridotto apporto proteico
 Inattività o ridotta attività fisica
Di conseguenza i principali interventi sono di natura dietetica e riabilitativa. Applicare dei programmi di
attività fisica adattata anche in età senile e adottare un’alimentazione adeguata con un bilanciato apporto
proteico sono le basi per ridurre il progredire dell’atrofia muscolare.

Strategie dietetiche
In un soggetto adulto l’apporto proteico giornaliero è di 0,8-1,2 gr/Kg peso corporeo, dopo i 60 anni
raggiunge il grammo e mezzo, quindi un paziente di 70 Kg con più di 60 anni dovrebbe assumere più di 100 gr
di proteine al giorno. Il 90% dei pazienti di 70 anni non assumerà mai 100 gr di proteine al giorno.
Nell’anziano va enfatizzata anche l’introduzione di vitamina D, B12 e di calcio. Oltre alla quantità di proteine
da assumere al giorno va tenuta conto anche la qualità delle stesse: devono essere ricche di amminoacidi a
catena ramificata.

Mentre negli adulti è sufficiente assumere circa 15-20 gr di proteine al giorno per ottimizzare la sintesi di
nuove proteine nel muscolo, negli anziani la quota sale fino a 30 gr al die (studi recenti dicono anche di più),
perché nell’anziano si ha
 Un alterato processo digestivo,
 Un ridotto tasso di assorbimento intestinale degli amminoacidi,
 Un’alterata risposta ormonale al pasto,
 Un ridotto trasporto degli amminoacidi al muscolo.
Nel stabilire l’apporto proteico bisogna tener conto anche delle condizioni del paziente, perché un paziente
anziano può avere un’insufficienza renale o epatica.

La leucina svolge un ruolo critico nel mantenere in salute muscoli e fegato: è un amminoacido essenziale che
promuove la sintesi di nuove proteine nei muscoli.
I cibi che contengono quantità maggiori di leucina sono il pesce, il formaggio fresco, le lenticchie, il sesamo e
le arachidi.

L’uso di proteine a rapido assorbimento (come quelle presenti nel siero del latte) risulta più appropriato
nell’anziano rispetto a quelle a lento assorbimento (come la caseina o le proteine della soia).

Anche l’assunzione di omega 3 e vitamina D possono aiutare a contrastare la sarcopenia negli anziani.

L’apporto dietetico in alcuni casi non è adeguato a soddisfare questi fabbisogni per cui può rendersi utile il
ricorso ad integratori e supplementi dietetici soprattutto in condizioni come
 Diabete tipo 2 caratterizzato da insulino resistenza associata a ridotta sintesi proteica,
 Patologie croniche reumatologiche o autoimmuni con aumento del catabolismo proteico o con
malassorbimento proteico (morbo di Basedow, morbo di Chron, ecc.),
 Allettamento e ipomobilità,
 Difficoltà masticatorie o edentulia,
 Malattie oncologiche.

Vantaggi dell’allenamento fisico nell’anziano

L’esercizio fisico è importantissimo per prevenire la progressione dell’atrofia nell’anziano. L’anziano è


comunque un soggetto allenabile in quanto può sviluppare una forza uguale o addirittura maggiore di
soggetti giovani ma sedentari.

L’attività fisica regolare ha svariati effetti positivi sulla salute. In particolare si ha:

 Minor rischio di morte prematura, patologie coronariche, infarto, ipertensione, ipercolesterolemia e


ipertrigliceridemia, diabete tipo II, sindrome metabolica, cancro al colon, cancro alla mammella.

 Prevenzione dell’aumento di peso corporeo e/o diminuzione di peso corporeo.


 Aumento della massa magra e diminuzione di quella grassa.

 Aumento dell’efficienza cardiorespiratoria e rafforzamento muscolare.

 Prevenzione delle cadute.

 Minor rischio di depressione.

Secondo le Linee Guida, una persona anziana dovrebbe praticare due tipi di attività fisica durante la
settimana per ottenere sostanziali vantaggi sulla propria salute: attività fisica per aumentare la capacità
aerobica (gli esercizi di resistenza aerobica sono i più indicati) e attività fisica per rafforzare la capacità
muscolare (l’esercizio con i pesi è il più efficace).

Test funzionali

L’allenamento regolare comporta nell’anziano un importante miglioramento del vigore muscolare, della
capacità di compiere attività semplici (alzarsi da una sedia, salire le scale) e della capacità di svolgere le
attività quotidiane più complesse. Ci sono sono test che si fanno soprattutto in geriatria e in neurologia: si
tratta di test funzionali come il sit to stand test (si chiede al paziente di alzarsi dalla sedia), il six minutes
walking test o lo step test (test delle scale) che permettono tutti di valutare la capacità di svolgere attività
quotidiane le quali in realtà sono attività complesse in quanto sono un misto tra coordinazione e forza
muscolare degli arti superiori ed inferiori. Rappresentano degli importanti indici indiretti della qualità della
vita del paziente.

Attività per l’equilibrio

Il rischio di caduta nell’anziano può essere anche associato a deficit di equilibrio dovuti a difetti propriocettivi,
perciò si utilizzano sempre di più percorsi riabilitativi mirati al recupero della propriocezione e
dell’equilibrio. Si utilizzano semplici pedane, percorsi riabilitativi con video-work e con schermi, pedane
instabili. Gli esercizi per l’equilibrio andrebbero praticati almeno 3 volte a settimana e sono semplici attività
da svolgere a casa una volta che sono state spiegate bene dal medico: camminare all’indietro, camminare di
lato, camminare sulle punte, camminare sui talloni, alzarsi in piedi da seduti. Comunque tutte le attività
preventive fisiche (aerobica, di forza muscolare, per l’equilibrio) potrebbero essere eseguite a domicilio, tutto
sta nella sensibilità da parte del medico a far capire al paziente e da parte del paziente a recepire il
messaggio.

Attività aerobica

L’attività aerobica è chiaramente essenziale per la salute del paziente. Per ottenere un vantaggio sostanziale
però è opportuno eseguire:

 2 ore e 30 minuti a settimana di attività aerobica di intensità moderata

Oppure
 1 ora e 15 minuti a settimana di attività aerobica intensa

Oppure

 Combinazione di attività aerobica intensa e moderata equivalente in termini di tempo

L’attività aerobica dovrebbe comunque essere praticata per almeno 10 minuti di seguito e distribuita
preferibilmente nell’arco della settimana.

L’attività aerobica negli anziani non è facile da far praticare: ci sono soggetti che per tutta la vita hanno
effettuato attività sportiva oppure sono attivi nel fare attività di casa (come il giardinaggio) e su questi
chiaramente è più facile lavorare e far capire loro l’importanza dell’esercizio fisico mentre per i soggetti
abitualmente sedentari e inattivi questo lavoro è molto più difficile. Alcuni esempi di attività aerobica per
anziani possono essere: camminare, ballare, nuotare, aerobica in acqua, jogging, aerobica,
bicicletta/cyclette, giardinaggio (rastrellare o passare il tagliaerba), tennis.

Bisogna cercare di far effettuare al paziente quindi un’attività che sia vantaggiosa e preventiva tenendo conto
delle condizioni generali dell’individuo: non si può di certo obbligare un paziente che è sempre stato
sedentario a fare un’ora e mezza di attività al giorno perché questo non la farà mai, deve sempre esserci un
avvicinamento, una progressione.

[Interviene il prof. Frizziero: è fondamentale quando arriva un pz in ambulatorio da noi che ci chiede come,
quanto e in che modo fare attività fisica NON fornire risposte poco esaustive come “Faccia un po’ di attività
fisica” in quanto non vuol dire assolutamente niente. Bisogna spiegare bene a quella persona come deve
organizzare il proprio percorso di attività fisica. Allo stesso modo è necessario pensare ad un programma
fattibile e aggiustato in base allo stato di fitness/salute della persona. È fondamentale almeno identificare
semplici esercizi, anche per gruppi o “pacchetti” (spalla, ginocchio, anca, tendini) e anche con l’ausilio di
video-guida. Oppure il pz può andare in palestra anche se bisogna prestare attenzione a quali esercizi fare in
quanto i personal trainer non essendo medici non hanno le conoscenze/competenze necessarie per allenare
determinate persone. Effetti benefici dell’esercizio fisico sulla salute nella vita quotidiana delle persone sono
dati pubblicati e discussi sulle riviste mediche più prestigiose quali The New England Journal of Medicine e
Lancet. Si parla di vantaggi dal punto di vista sia della QUANTITÁ che della QUALITÁ della vita. Perciò quello
che una volta era solo un consiglio interfamiliare è ora diventato oggetto di studi scientifici.

A proposito di questo discorso, il prof. ci invita ad “alzarci in piedi 2 minuti”.]

Attività di rinforzo muscolare

L’attività di rinforzo muscolare è quella che in maggior misura contrasta il processo di atrofia muscolare e
dovrebbe essere svolta due o più giorni a settimana. Si dovrebbe cercare di esercitare tutti i più importanti
gruppi muscolari (come ad esempio quadricipite, erettori della colonna, dorsali) con almeno 8-12 ripetizioni
per gruppo muscolare. Si possono poi via via svolgere esercizi di rinforzo selettivo per distretto in base alle
disabilità o necessità della singola persona per migliorarle (per esempio, nel caso di una casalinga sono
interessati spalla, collo e schiena e le si possono prescrivere protocolli specifici in base alle sue mansioni).

[Il prof. fa l’esempio di una sua paziente veneziana di 92 anni che va a vogare nel Canal Grande in quanto si è
mantenuta sempre facendo tanta attività fisica associando l’aerobica allo stretching e al potenziamento
muscolare. Questi sono i tre capisaldi: STRETCHING, POTENZIAMENTO e AEROBICA.]

Esempi di attività di rinforzo muscolare per anziani sono: esercizi con elastici o macchine o manubri, esercizi
a corpo libero, zappettare o strappare le erbacce e trasportare pesi durante il giardinaggio, alcuni esercizi
di yoga e di tai chi.

Recupero post-evento acuto

Mentre nelle condizioni di normalità la prevenzione e il trattamento dell’atrofia muscolare si basano


sull’esercizio fisico moderato regolare, in caso di recupero post-acuzie (come dopo eventi traumatici, eventi
acuti con allettamento prolungato) può essere necessario l’utilizzo di un programma di esercizio fisico
strenuo, cioè un programma riabilitativo intenso che porti almeno ad un recupero delle disabilità
intercorse. Poi verrà ripreso il programma di attività fisica preventivo. Infatti, l’allettamento produce una
rapida perdita di massa muscolare che nell’anziano purtroppo può essere difficile da recuperare e rende
necessario un percorso riabilitativo di tipo intensivo e spesso multidisciplinare. Il caso tipico è quello di un
paziente anziano che si frattura il femore e dopo l’intervento deve recuperare rapidamente la forza
muscolare persa per ritornare progressivamente all’autonomia nelle semplici attività quotidiane.

In queste situazioni per il recupero del tono e della forza muscolare si possono utilizzare programmi
riabilitativi che si basano sugli esercizi fisici ma si possono anche utilizzare in associazione, per aiutare e
accelerare il processo, anche alcune terapie fisiche come elettroterapia e vibroterapia che favoriscono il
potenziamento muscolare. Ci sono stati studi sulla vibroterapia per quanto riguarda l’osteopenia e
l’osteoporosi in alcuni astronauti russi che erano andati in spedizione e grazie all’apparecchio quando erano
tornati avevano una massa ossea mantenuta mentre normalmente l’assenza di gravità è un fattore
predisponente per l’osteoporosi.

Strategie combinate

L’esercizio fisico e l’alimentazione adeguata rappresentano le principali armi per combattere la sarcopenia
nell’anziano. Oltre ad agire positivamente in maniera autonoma, se usate in associazione gli effetti benefici
sul rinforzo muscolare si sommano. L’esercizio fisico e l’alimentazione vanno quindi sempre di pari passo.

Take Home messages

 La popolazione anziana è in continuo aumento e quindi anche le patologie associate


all’invecchiamento e sta a noi garantire una qualità di vita migliore.

 L’invecchiamento del muscolo scheletrico è caratterizzato da una progressiva diminuzione della


massa muscolare che determina un aumentato rischio di disabilità.
[I professori a questo punto si interrompono ma per completezza vengono riportate le ultime due slides.]

De Luca Fabio 13-11-2019


Sartori Alessandro Ortopedia, lezione 12
Bazzolo Giovanna Prof. Angelini Andrea
Cazzagon Vasco
Zenari Giovanni

TUMORI DELL’APPARATO MUSCOLO-SCHELETRICO

1. Classificazione e staging dei tumori dell’apparato muscolo-scheletrico

I tumori dell’apparato muscolo-scheletrico storicamente si suddividono in:


 Amartomi: non sono neoplasie vere e proprie, ma alterazioni parafisiologiche dello sviluppo legate
all’accrescimento. Comprendono la displasia fibrosa, il fibroma non ossificante, l’emangioma e le cisti
ossee.
 Lesioni pseudotumorali, come il granuloma eosinofilo.
 Tumori benigni.
 Tumori maligni.

Attualmente tuttavia gli amartomi e le lesioni pseudotumorali, in seguito ad approfondimenti istologici,


vengono classificati all’interno delle categorie dei tumori benigni e maligni.

La classificazione può essere effettuata sulla base di un criterio di aggressività biologica, con distinzione tra
tumori benigni e maligni di alto o basso grado, o può essere basata sull’istotipo del tessuto di origine. In base
alla diversa istogenesi si distinguono tumori di diversa natura, per ciascuno dei quali si riconoscono forme a
diverso grado di malignità.
 Tumori di natura ossea:
 Benigni: osteoma, osteoma osteoide, osteoblastoma;
 maligni di basso grado: osteosarcoma parostale, ecc.;
 maligni di alto grado: osteosarcoma classico centrale, ecc.
 Tumori di natura cartilaginea:
 benigni: esostosi e condromi;
 maligni ad alto e basso grado.
 Tumori di origine neuroectodermica (si ricordi il sarcoma di Ewing).
 Tumori di natura fibrosa.
 Tumori di natura vascolare.
 Tumori ad origine dalla notocorda.
 Ecc.

L’attuale sistema di stadiazione fu richiesto dall’OMS al professor Enneking, il quale pubblicò la prima
stadiazione dei tumori muscolo-scheletrici (anni’80).

Stadiazione di Enneking

G = grado di malignità (ricavato da valutazione istologica):


 0 = lesione benigna;
 1 = basso grado di malignità;
 2 = alto grado di malignità.

T = estensione anatomica del tumore:


 0 = è un tumore benigno, confinato entro una propria capsula;
 1 = il tumore è privo di una propria capsula, ma è contenuto entro il proprio compartimento
anatomico. Per compartimento si intende la stessa struttura anatomica, quindi un tumore che origina
all’interno del femore verrà definito T1 se il tumore è ancora confinato all’interno della corticale del
femore. Se un tumore delle parti molli nasce nel quadricipite sarà classificato come T1 fintanto che
rimarrà all’interno del quadricipite.
 2 = il tumore ha superato il suo compartimento di origine (extra-compartimentale). Si tratta, ad
esempio, di un tumore che nasce nel femore, rompe la corticale e si aggetta nelle parti molli. Altro
esempio è quello di un tumore dell’epifisi del femore che invade l’articolazione.

M = metastasi:
 0 = metastasi assenti alla diagnosi;
 1 = metastasi presenti alla diagnosi.

Dalla combinazione dei parametri G, T e M risulta la stadiazione MSTS.

Vengono presentati ora alcuni esempi.

“G0”: il tessuto è omogeneo, non ci sono atipie.

“G1” → si osservano cellule fusate con pochissime mitosi.

“G2” → il tumore è altamente indifferenziato: ci sono cellule multinucleate, “ammassi” di cellule, si osservano
numerosissime mitosi, i nuclei sono piccoli e ipercromici.
I tumori benigni, considerando la classificazione di Enneking, possono essere distinti in tre stadi:
stadio grado estensione
Stadio 1 Latente G0 T0
Stadio 2 Attivo G0 T1
Stadio 3 G0 T2
Aggressivo

Stadio 1 latente→ G0, capsula con orletto


sclerotico di separazione visibile anche
all’istologia, netta delimitazione tra parte sana e
malata: il tumore è contenuto all’interno della sua
capsula.

Stadio 2 attivo→ aspetto istologico benigno,


assenza di capsula limitante con tendenza
all’erosione del tessuto circostante (extra-
capsulare), ma ancora confinato all’interno
dell’osso (compartimento di origine). Il tumore
rigonfia la corticale, ma non la interrompe.

Stadio 3 aggressivo→ esempio di tumore a cellule


giganti: erode la corticale, esce all’esterno del suo
compartimento di origine (a volte può causare anche
fratture patologiche). Un tumore ad origine nel tessuto
osseo si definisce extra-compartimentale anche
quando supera la cartilagine di accrescimento o tende
ad invadere le strutture articolari, le inserzioni
legamentose, ecc.
I tumori maligni, sempre considerando i parametri di Enneking, vengono invece classificati in stadi denominati
con numeri romani: I, II, III.
stadi grado estensione metastasi
o
IA G1 T1 M0
IB G1 T2 M0
IIA G2 T1 M0
IIB G2 T2 M0
III Qualunque G Qualunque T M1

Stadio IA → basso grado di malignità, assenza di


capsula vera e propria, presenza di zona reattiva
contente spots di cellule tumorali (puntini neri
nell’immagine), ancora contenuto nel
compartimento di origine.

Stadio IB → basso grado, esce dal compartimento


di origine.
Stadio IIA → alto grado, tendenza all’infiltrazione, spots di cellule maligne esternamente alla zona reattiva,
confinato nel compartimento di origine. L’esempio appena citato è un osteosarcoma che è stato individuato
precocemente, quando non ancora uscito dal suo compartimento di origine, che è un’evenienza molto rara;
molto più frequente è individuare un tumore aggressivo maligno in stadio IIB.

Stadio IIB → il tumore è già uscito dal suo


compartimento di origine estendendosi nei tessuti
molli, in alcuni casi si osservano spot metastasi.
La spot metastasi è una localizzazione di cellule
tumorali a distanza dal tumore primitivo,
solitamente nel canale midollare o
nell’articolazione adiacente, che origina secondo
un meccanismo patogenetico di diffusione per via
venosa, nel piccolo circolo venoso, a livello
endocanalare o periarticolare. Alla scintigrafia si
osserva un piccolo nucleo captante distanziato dal
tumore di origine. Tra i tumori che più
frequentemente originano spot metastasi si ricorda
l’osteosarcoma.

Stadio III → è identificato dalla presenza di


metastasi a distanza, in altri organi. La prima sede
di metastatizzazione per tutti i tumori ossei è il
polmone.

Gli elementi necessari per una corretta stadiazione sono: la storia clinica, i segni clinici di malattia, alcuni
indici di laboratorio, l’imaging e necessariamente l’accertamento bioptico per valutare il quadro istologico. La
biopsia è quindi l’ultimo atto della stadiazione, ma è in assoluto il più importante.

Storia clinica
 Età: è importante perché l’incidenza di alcuni tumori varia a seconda l’età. Solitamente
l’osteosarcoma e il sarcoma di Ewing sono tipici delle prime due decadi, mentre il condrosarcoma
insorge generalmente al di sopra dei 60 anni.
 Localizzazione: esistono malattie a prevalente sede diafisaria, epifisaria o metafisaria.
 Caratteristiche cliniche patognomoniche: importante è il dolore, in alcuni casi con caratteristiche che
permettono di associarlo ad una specifica patologia. Si consideri ad esempio il dolore patognomonico
dell’osteoma osteoide: notturno, costante, recede con l’assunzione di aspirina o antiinfiammatori e
ricompare al termine dell’effetto dei farmaci, si accentua con l’assunzione di alcolici (caratteristica di
difficile osservazione perché frequente nei bambini). Un dolore che persista da più di due settimane,
senza una causa associata e che non recede con l’impiego di farmaci analgesici necessita sempre di un
approfondimento
Altri segni clinici importanti sono la tumefazione, segni correlati con l’estensione del tumore, come
segni da compressione vascolare o nervosa (importanti da valutare nel corso della stadiazione),
eventuali fratture patologiche (possibile manifestazione d’esordio della neoplasia) e la limitazione
funzionale.

Esempi di quadri radiologici:

1. Esostosi diafisaria (lesione tumorale benigna


molto ben delimitata, che protrude verso l’esterno)
in paziente giovane, che ha recentemente
completato l’accrescimento (si riconoscono le
cartilagini metafisarie), questo tumore può dar
segno di sé quando va a confliggere con altre
strutture muscolari o vascolari.

2. Esostosi con interessamento massivo del collo


femorale o un grosso condroma con impedimento
all’escursione articolare.
3. Esostosi della metafisi mediale del femore distale
(una delle sedi più tipiche), a livello dell’inserzione
dei tendini della zampa d’oca. In questo caso la
sintomatologia non è dovuta al tumore di per sé, ma
al suo rapporto con il tendine: durante la corsa, con la
contrazione muscolare, il paziente riferisce di sentire
il tendine “scavallare” l’esostosi da una parte all’altra.
Può insorgere eventualmente una sintomatologia da
attrito.

4. Lesione che crea sintomatologia da conflitto con il


tendine quadricipitale.

5. Esostosi posteriore del femore: causa una


clinica da compressione vascolare.
6. Esostosi uncinata del perone prossimale: causa sintomi radicolari da compressione del nervo sciatico
popliteo esterno, che abbraccia la testa del femore.

7. Tumore a cellule giganti che interessa tutta


l’epifisi del perone prossimale: può facilmente
causare sintomi da compressione nervosa.

8. Tumore del piccolo trocantere del femore, ad


origine nell’epifisi. La tumefazione osservabile
alla RM è causata dall’accrescimento abnorme
della neoplasia maligna che invade i tessuti molli
circostanti.

9. Condrosarcoma con aspetti radiologici


d’allarme: malattia a partenza dall’osso con
estensione in compartimento adiacente. Tale
reperto obbliga ad indirizzare il paziente ad uno
specialista.
10. Osteosarcoma con invasione tessuti molli
circostanti.

Frattura patologica
La frattura patologica è una frattura che avviene in assenza di un trauma che la giustifichi e consegue ad un
processo patologico dell’osso che lo indebolisce fino a determinarne la frattura. Sono quindi tipiche di quei
processi patologici che portano ad una lisi dell’osso.
La presenza di una frattura patologica non ci dà informazioni sulla tipologia della lesione ossea, perché può
presentarsi sia in un quadro di malattia benigna che maligna.

Esempi: frattura del femore su ampia lesione cistica (cisti aneurismatica)

1. Frattura patologica in cisti ossea (molto più


frequente nei bambini).

2. Frattura di condilo in presenza di ampia osteolisi di


epifisi distale del femore. Si osservano un’ampia
regione di osteolisi a margini irregolari, non definiti,
abrasione/interruzione della corticale e segno della
frattura. È l’esempio radiografico tipico di una
metastasi.
3. Metastasi multiple, diffuse, al bacino con frattura patologica.

4. Tumore a cellule giganti: il paziente in attesa del


risultato della biopsia ha avuto un cedimento a seguito
di una crescita importante nell’arco di 20 giorni della
massa tumorale.

Esami di laboratorio
Attualmente non esistono markers tumorali specifici, tuttavia si hanno a disposizione markers che possono
indirizzare verso la diagnosi differenziale. Gli indici da considerare sono di seguito elencati:
1. Aumento dei parametri flogistici VES e PCR: tipico delle infezioni (i processi infettivi rientrano nella
diagnosi differenziale di molti tumori ossei). L’aumento di tali indici è dirimente nel differenziare
processi infettivi da patologia oncologica.
2. Immunoelettroforesi proteine, valutazione idrossiprolin urea: specifiche per mieloma.
3. Aumento della fosfatasi alcalina (ALP): spesso riscontrato nell’ osteosarcoma.
4. Aumento dell’LDH: spesso nel sarcoma di Ewing.
5. Aumento del PTH: tipico dell’iperparatiroidismo (da adenoma o iperplasia delle 4 paratiroidi), che
può manifestarsi con una neoplasia dell’osso, il tumore bruno, che si presenta come un tumore a
cellule giganti. La diagnosi istologica in questi casi può risultare difficoltosa, quindi elemento
fondamentale di distinzione tra le due patologie è il PTH, tipicamente elevato nel tumore bruno in
corso di iperparatiroidismo e normale invece nel tumore a cellule giganti. Trattare un tumore bruno
come se fosse un tumore a cellule giganti è un grave errore, in quanto il trattamento di resezione ossea
non porterà a rimozione della causa.

Diagnostica per immagini: RX


Il professor Enneking stilò una lista di 5 domande per guidare la lettura sistematica di una radiografia in
sospetto di tumore osseo:
1. In che tipo di osso si trova la lesione? (osso lungo vs osso corto)
2. In quale parte dell’osso si trova la lesione? (nelle ossa lunghe: epifisi, diafisi o metafisi)
3. Cosa fa la lesione all’osso? (cosa determina il tumore all’interno dell’osso: erosione,
osteoaddensamento)
4. Cosa fa l’osso alla lesione? (l’osso è in grado di confinare la lesione con un orletto oppure la malattia
è troppo aggressiva e origina una lesione periostea)
5. Ci sono caratteristiche specifiche che possono indirizzare la diagnosi? (la presenza di calcificazioni,
ossificazioni)

Il professore mostra una tabella esemplificativa, che


illustra per sede anatomica gli istotipi tumorali più
frequenti, specificando che non gli interessa che ce la
ricordiamo (la tabella viene comunque riportata a
fianco per completezza).
Per ossa lunghe ci sono il sarcoma di Ewing che è
tipico della regione diafisaria, condroblastoma o TGC
che sono tipici dell’epifisi. Se invece guardiamo il
rachide, per quanto riguarda la parte posteriore della
vertebra, devo pensare ad un osteoblastoma o ad un
osteoma osteoide che sono più frequentemente localizzati in quella sede rispetto per esempio ad una
metastasi. In presenza di lesioni multiple, devo pensare invece a delle metastasi o ad un mieloma multiplo.
Il professore procede mostrandoci un RX (riportato a lato)
spiegando come potrebbe benissimo esserci chiesto in sede
d’esame di interpretarne uno di simile. Procede quindi con la
descrizione:
Si tratta (immagine di sinistra) di una proiezione AP del
ginocchio di un soggetto giovane, in quanto è ancora visibile
un minimo di cartilagine di accrescimento. Si nota una
lesione osteolitica abbastanza definita anche se in realtà non
troppo in quanto manca un orletto chiaro a delimitarla. Non
è osservabile la corticale ossea, fattore che ci può far
ipotizzare un’estensione della lesione alle parti molli. Si può
notare anche un sollevamento del periostio, altra
caratteristica tipica che ci deve far ipotizzare un tumore
maligno aggressivo. Qui (immagine di destra) si vede
l’estensione del tumore ai tessuti molli. Questo è un aspetto tipico a “raggi di sole” (infiltrazione a raggiera)
descritto per quanto riguarda l’osteosarcoma.
In questo RX invece (immagine a
lato di sinistra), si vedono delle
caratteristiche che ci fanno pensare
ad una lesione benigna. Si vede
infatti ben demarcato un orletto
sclerotico, non è presente reazione
periostale e la lesione riesce ad
essere contenuta dal tessuto osseo
con conseguente conservazione
della corticale. Altre caratteristiche
specifiche possono essere ad
esempio la calcificazione tipica di
una patologia cartilaginea, che alla radiografia assume un aspetto detto a “pop-corn” (immagine a lato di
destra). Ci possono poi essere ossificazioni, bianco uniforme, non si vedono più le trabecole; questo aspetto è
tipico delle lesioni a matrice ossea come osteoma osteoide o osteosarcoma (immagine a lato centrale).
In acuni casi non è così semplice distinguere una lesione benigna da una maligna. Il professore procede
illustrando una serie di immagini nelle quali fa notare come ci possano essere dei tumori maligni con aspetto
all’RX di lesioni benigne e viceversa tumori benigni che all’RX potrebbero far pensare ad una lesione maligna.
Per completezza riporto i segni principali (elencati nelle slide) che all’RX ci possono far propendere verso una
lesione benigna piuttosto che verso una lesione maligna.
Segni di benignità:
- Immagine ben delineata con bordi ben definiti
- Corticale conservata
- Assenza di reazione periostale
Segni di malignità:
- Osteolisi
- Assenza di contorni netti
- Rottura della corticale
- Reazione periostea lamellare
- Invasione delle parti molli

La TC permette di definire meglio:


- L’estensione locale del tumore
- Il coinvolgimento dell’osso e dei tessuti molli
- I rapporti con il fascio vascolare, nervi e articolazioni
- L’efficacia di radio e chemioterapia
- Metastasi polmonari

La risonanza ci fornisce informazioni riguardo:


- Migliore differenziazione tra i vari tessuti
- L’estensione locale nell’osso e nel canale midollare
- Rivela le skip metastasi
- L’efficacia di radio e chemioterapia
- Il coinvolgimento articolare

Non è corretto parlare di esame migliore; al fine di delineare correttamente un quadro clinico sono
necessarie tutte e tre le metodiche di imaging precedentemente esposte, in quanto forniscono informazioni
differenti. Una regola generale è che se devo andare ad indagare la natura di una neoformazione, gli esami
devono essere richiesti con mezzo di contrasto. Una patologia aggressiva tende ad essere avida di sangue, e
quindi di contrasto. Inoltre il mezzo di contrasto permette di studiare meglio il rapporto della lesione con le
strutture vascolari.

La scintigrafia ad oggi si usa poco; è un esame funzionale e non anatomico che ci fornisce una valutazione del
metabolismo a livello osseo. Da slide:
- Può esplorare l’intero scheletro
- Indica l’attività o la quiescenza della lesione
- Rivela piccole lesioni non visibili all’RX
- Mostra l’estensione del tumore
- Rileva le skip metastasi
- Rivela la reazione dell’osso adiacente a un tumore dei tessuti molli
Risulta più utile invece la PET, che rispetto la scintigrafia ossea mi permette di valutare anche l’attività
metabolica del tessuto viscerale. Da slide:
- Attività metabolica della lesione
- Dimostra eventuali localizzazioni
- Utile nel follow-up: recidive o metastasi
- Efficacia di radio e chemioterapia

Biopsia
L’ultimo atto della stadiazione è la biopsia. Questa rappresenta un
compromesso tra la necessità di avere materiale significativo da
mandare al patologo per poter avere una valutazione istologica
definitiva, e la necessità di non disseminare il tumore (localmente e
in circolo). In questo compromesso è fondamentale fornire al
patologo del materiale che sia valutabile. Nello schema (riportato a
fianco) la zona delimitata da un quadrato bianco rappresenta la zona
che ha più possibilità di fornirmi una diagnosi definitiva; ossia una
zona che comprenda tessuto sano, capsulare e tumorale. In presenza di estese zone necrotiche, calcifiche o
emorragiche il patologo non è in grado di fornirmi una diagnosi. Clinicamente, quando un paziente deve fare
una biopsia per un tumore osseo, si eseguono 7-8 prelievi utilizzando sempre lo stesso tramite.
Non disseminare il tumore significa non aprire la
capsula del tumore, non aprire barriere
compartimentali, non contaminare nuovi
compartimenti o aree extracompartimentali. Di
conseguenza questo tipo di approccio è
concettualmente completamente differente
rispetto ad uno chirurgico. Attraverso il tramite
della biopsia la contaminazione deve essere
limitata solamente ad un compartimento (come
illustrato nell’immagine a lato), in quanto qualora
dovessi sucessivamente andare a togliere il tumore dovrò asportare tutto il compartimento d’origine
compreso il tramite della biopsia. Se per esempio eseguissi una biopsia del ginocchio per via
extracompartimentale passando dal poplite, la mia successiva resezione chirurgica non potrà mai essere
sufficientemente ampia, condannando il paziente. Lo stesso discorso vale se io approcciassi il tumore per via
intraarticolare; contaminerei il liquido sinoviale obbligandomi poi ad eseguire un’amputazione o
un’asportazione in blocco di tutto il ginocchio.
Raramente la biopsia può non essere eseguita
perché dall’imaging è gia ben chiara la benignità
di una lesione, come ad esempio nel caso di un
fibroma istiocitico (immagine a lato di sinistra),
che si presenta con una lesione delimitata da un
orletto sclerotico, sottocorticale, eccentrica. In
casi di angioma vertebrale (immagine a lato di
destra), con tipico aspetto a palizzata, dato dalle
calcificazioni a spot, si può anche non fare la
biopsia, dipende dal singolo caso.
La biopsia va sempre eseguita se si sospetta la presenza di una patologia maligna. La biopsia deve essere
eseguita con ago grosso, in modo che sia possibile carotare una parte del tessuto tumorale e analizzarne la
struttura. Si tratta di una biopsia poco traumatica, che da rare complicanze, il tramite è quello di un ago (per
cui facilmente escindibile in caso di contaminazione) e la diagnosi è quasi sempre facile da ottenere, con una
accuratezza diagnostica superiore al 95%. Durante l’esecuzione di biopsie in tessuti profondi, per essere certi
di trovarsi all’interno della lesione, può essere utilizzata una guida radiografica. La biopsia può inoltre essere
Eco-guidata (utilizzata spesso per biopsie in tessuti molli), TC-guidata (usata per esempio per biopsiare il
corpo anteriore di una vertebra) oppure RMN-guidata. Per quanto riguarda le biopsie RMN-guidate, in Italia
sono pochi i centri in grado di effettuarle e in letteratura è dubbio se questa metodica sia costo-efficacie.
Oltre che attraverso ago, la biopsia può anche essere incisionale, ed essere quindi effettuata in seguito a
taglio chirurgico. Questa procedura, per l’alto rischio di contaminazione, deve essere riservata solo nei casi in
cui sono state effettuate più biopsie con ago non diagnostiche oppure in casi difficili.
La biopsia escissionale invece è poco utilizzata. Il professore parlando di questa biopsia ci consiglia di non
farla mai. Racconta di come capita regolarmente che arrivino sotto la sua osservazione dei pazienti che hanno
subito una così detta “oops surgery”. In questi pazienti sono state rimosse attraverso escissione delle lesioni
ritenute benigne che poi all’istologico non si sono rivelate essere tali. Questo rappresenta praticamente una
condanna per il paziente perché i successivi interventi, a questo primo errato atto chirurgico senza adeguati
margini di resezione, non potranno mai raggiungere la stessa efficacia di un adeguato intervento originario.
Nella maggior parte dei casi queste lesioni maligne dell’osso vengono dette lesioni a “one shot surgery”
perché la prima chirurgia ben eseguita ha una prognosi nettamente superiore rispetto ad un reintervento.
Quando vengono eseguite questo tipo di biopsie (ad esempio per lesioni piccoli sottocutanee o superficiali) la
lesione deve essere rimossa in maniera molto ampia.
Le biopsie possono essere analizzate in differita, con il patologo che dopo una decina di giorni ci fornisce la
diagnosi definitiva, oppure al congelatore in estemporanea. In questo caso ci si trova in sala operatoria,
anche nel mentre di un atto chirurgico normale, e in presenza di tessuto di natura sospetta si fa analizzare in
tempo reale. Tuttavia sarà una valutazione di massima sull’origine cellulare sel campione e il patologo ci
potrà dire solo se sono presenti delle cellule maligne o tessuto normale. La biopsia al congelatore si fa nella
maggior parte dei casi in pazienti con anamnesi positiva per malattia oncologica che si presentano con
frattura patologica da stabilizzare; per avere la conferma istologica si effettua un prelievo a livello della
lesione.
Nel 75-97% si ha una corrispondenza istologica tra biopsia ed intervento definitivo. Non si parla del 100% dei
casi perché a volte, soprattutto nella lesione sarcomatosa, la malattia è diversa nelle varie sedi del tumore.
Per esempio nel condrosarcoma saranno presenti delle sedi a limitata/bassa aggressività, a fronte di altre
zone che magari sono altamente dedifferenziate per cui è ovvio che in questo caso la biopsia non è uguale
alla valutazione istologica definitiva.
In alcuni casi una biopsia può essere devastante. Nella paziente dell’immagine a
lato è stata eseguita una biopsia incisionale sulla scapola la cui notevole cicatrice
trasversale obbliga ad eseguire un ampio intervento chirurgico per
l’asportazione della lesione maligna e un successivo intervento di chirurgia
plastica ricostruttiva che a sua volta mi obbliga a non poter eseguire una
radioterapia adiuvante finchè non guarisce il lembo. Di conseguenza
l’esecuzione di una biopsia errata in questo caso ha condannato una paziente in
quanto ha impedito l’esecuzione di una terapia adiuvante che avrebbe
permesso di migliorare la prognosi.
Gli errori che non devono essere compiuti durante la biopsia sono:
- Errata via di accesso (la biopsia incisionale a livello di arti e tronco va sempre fatta longitudinalmente
e mai trasversalmente)
- Errata sede di prelievo
- Errata qualità di prelievo
- Errata conservazione

Una biopsia errata può causare/richiedere:


- Contaminazione dei compartimenti adiacenti
- Incisione atipica, maggiore escissione di cute/tessuti molli e conseguentemente lembi di copertura
- Maggior difficoltà e minor adeguatezza oncologica
- Amputazioni altrimenti non necessarie
- Possibile peggioramento della prognosi

Il professore procede illustrando lo studio “The hazards of biopsy in patieta wirh malignantprimart bone and
soft tissue tumors” del professor Mankin HJ. Nel 1982 questo professore cercò di individuare attraverso
questo studio quali fossero le cause di biopsie errate, estendendo poi con l’appoggio del governo americano
delle linee guida a tutta la classe medica. A distanza di 14 anni lo studio venne ripetuto ma i risultati, suo
malgrado, rimasero invariati, con gli stessi errori che venivano ancora perpetuati. La biopsia deve quindi
essere eseguita in un centro di riferimento da un ortopedico oncologo che conosca la tecnica e la via
chirurgica che verrà utilizzata per rimuovere successivamente l’eventuale tumore, ipotizzandola in base alla
lesione tumorale sospettata.
Il professore legge poi una frase celebre del professor Campanacci: “ricordatevi che la biopsia è un atto
chirurgico importante nel trattamento dei tumori muscoloscheletrici; deve essere eseguita da un chirurgo
esperto nella cura dei sarcomi, mentre l’intervento definitivo può anche essere eseguito dal giovane
ortopedico”. Questa frase un po’ provocatoria vuole sottolineare come sia molto importante per la prognosi
del paziente una biopsia correttamente eseguita.
Margini chirurgici e principi di trattamento
Si parla di margine:
- Intralesionale: escissione intracapsulare o tumore asportato
con psueudocapsula interrotta (si può fare ad esempio con
tumori benigni o latenti).
- Marginale: tumore rimosso in blocco coperto solo dalla
capsula o pseudocapsula.
- Ampio: tumore rimosso in blocco interamente avvolto da
uno strato di tessuto sano
- Radicale: tumore rimosso in blocco con l’intero
compartimento anatomico raggiunto, circondato dalle sue
barriere naturali
- Contaminato: se durante la chirurgia si è esposto il tumore e poi il chirurgo ha ampliato i margini di
resezione, rimuovendo i tessuti potenzialmente contaminati, la procedura è definita ampia (o
marginale o radicale), ma contaminata

Per concludere l’argomento, il professore procede alla lettura delle linee guida del trattamento dei tumori
benigni e maligni:
LESIONI

PSEUDOTUMORALI OSSEE
Le lesioni pseudotumorali sono delle patologie al confine tra un tumore e qualcosa che non è un tumore.
Classicamente sono sempre state chiamate così,
anche se, con la nuova classificazione dell’OMS si
sta cercando di ricollocare tutte le lesioni che
appartengono a questa categoria nella classe dei
tumori benigni, maligni o di grado intermedio
dell’osso. Il motivo di tale revisione delle vecchie
classificazioni è da attribuire alle nuove scoperte
genetiche fatte sulle cellule di queste lesioni, che
permettono di capire se la patologia in questione
ha più le caratteristiche di un tumore benigno
oppure di un tumore maligno. A scopo didattico
viene mantenuta la classificazione dei tumori ossei
con all’interno la categoria delle lesioni
pseudotumorali
Sono più frequenti nei bambini e nei ragazzi, nel
complesso sono distribuite a tutte le ossa dello
scheletro e non c’è alcuna distinzione di sesso.
Le principali lesioni pseudotumorali sono:
• Cisti ossea semplice
• Cisti aneurismatica
• Istiocitosi X
• Malattia di Paget

CISTI OSSEA SEMPLICE


È una lesione molto frequente, maggiormente nei maschi.
È tipica dell’età di accrescimento, 3-19 anni.
Le sedi più frequenti di tali lesioni rappresentate dalle metafisi delle ossa lunghe (vicino alla cartilagine di
coniugazione), e sono:
• omero prossimale (50% dei casi)
• femore prossimale (30%)
• intorno al ginocchio
• raramente nell’osso iliaco (bacino)
la diafisi viene coinvolta raramente.
La localizzazione diafisaria in realtà è solo secondaria a quella metafisaria, perché
la lesione si forma sempre nella cartilagine di accrescimento ma con
l’accrescimento dell’osso questa poi si può stabilizzare nella diafisi. Il rischio di
questa migrazione verso la diafisi è dovuto al fatto che mentre una cisti di 2 cm a
livello metafisario non crea particolari problemi, la stessa cisti a livello della
diafisi può essere causa di fratture patologiche queste poi secondariamente
possono causare dismetria degli arti che negli arti inferiori possono dare zoppia.
La patogenesi è sconosciuta, in alcuni casi si ipotizza che alla base di questa
lesione ci sia stato un trauma o un meccanismo enzimatico.

Diagnosi: la diagnosi è spesso occasionale, e viene fatta alla comparsa di una


secondaria frattura patologica solitamente leggermente scomposta che è alla base
della clinica (dolore e impotenza funzionale). Visti i sintomi il medico richiede
una Rx alla quale poi la cisti risulterà evidente.

Imaging: la cisti semplice si vede sotto forma di lacuna unica, centrale all’osso,
ovalare, con contorni ben definiti e delimitati (a causa della reazione dell’osso sano circostante che tende a
circoscrivere la lesione e la sua crescita, comunque lenta). Le corticali ossee appaiono assottigliate rispetto al
normale spessore (vengono comunque sempre rispettate). Non sono presenti reazioni del periostio.

Trattamento:
- Le cisti ossee semplici tendono normalmente a guarire spontaneamente con il raggiungimento della
maturità scheletrica (16-18 anni), andando quindi a scomparire.

Il trattamento si rende necessario in caso di:


 cisti attive (quelle cisti ossee che nel follow-up tendono ad aumentare di dimensioni; quando un
bambino di 6 anni già presenta una cisti molto grande normalmente si procede al trattamento
perché questa cisti crescerebbe ancora molto con la crescita del paziente);
• nel caso di fratture;
• per prevenire fratture patologiche.

- Le cisti ossee in zone a basso carico, come una cisti dell’omero, sono trattate per infiltrazione. Con un
ago grosso da biopsia si penetra la cisti in due punti diversi, si fanno dei lavaggi aspirando il liquido e
pulendo la cavità, poi si iniettano delle sostanze (solitamente cortisone) in tre iniezioni a distanza
ravvicinata per far riossificare la cisti. Attualmente si usano anche altre sostanze, tra cui la matrice
ossea demineralizzata (DBM) o il concentrato midollare estratto dalla cresta iliaca del paziente stesso.
Così facendo si ha una guarigione tra il 75 e il 95% dei casi (tenendo comunque conto che le cisti
tendono guarire spontaneamente).
- Nel caso invece di una cisti ossea che coinvolge una zona a alto carico, come di una cisti del femore
prossimale (testa e collo), si possono fare interventi più grossi, aprendo e facendo un curettage: si
gratta via la parete e il contenuto della cisti e si sostituisce la cavità cistica con degli innesti ossei
(concentrato midollare, matrice ossea demineralizzata, dopo prelievo dalla cresta iliaca) o con delle
stecche di osso in modo da rinforzare di più la lesione.

CISTI OSSEA ANEURISMATICA


È una cisti ossea che si presenta piena di sangue, è più aggressiva della cisti
ossea ed è rigonfiante l’osso.
È più rara rispetto alla cisti ossea semplice (meno del 4% dei tumori benigni), si
presenta in adolescenti tra 10 e 20 anni, ha circa la stessa frequenza tra femmine
e maschi.
Localizzazione: come le cisti ossee semplici sono nella maggior parte dei casi localizzate a livello delle ossa
lunghe, omero prossimale e femore prossimale, il loro sviluppo inizia solitamente a livello della metafisi e si
estende verso la diafisi; la localizzazione epifisaria è estremamente rara. Oltre che nelle ossa lunghe si possono
avere in alcuni casi, molto meno frequenti, a livello delle ossa corte come a livello delle vertebre (soprattutto
lombari, partendo dall’arco posteriore e estendendosi poi al corpo vertebrale se non trattate) o delle ossa del
piede (più o meno in tutte), e a livello delle ossa piatte, nella maggior parte dei casi nell’ala iliaca.
È una lesione tumorale. In passato veniva classificata come pseudotumorale ma si è scoperta una correlazione
tra la patologia e la mutazione di un particolare gene.
Non è in grado di trasformarsi in patologie maligne e in genere è solitarie (in un solo osso).

Le cisti ossee aneurismatiche possono essere primitive o secondarie:


• primitiva: una lesione nasce direttamente come cisti ossea aneurismatica (2/3 dei casi)
• secondaria: che si sviluppa su una lesione preesistente, di cui le più rappresentate sono displasia
fibrosa, il fibroma condormixoide, il condroblastoma, il tumore a cellule giganti e l’osteoblastoma, a
volte anche una semplice frattura.

Imaging: Radiograficamente le cisti appaiono abbastanza simili alle cisti ossee semplici con la differenza che
queste sono multiloculate (nell’Rx si intravedono dei setti che separano cavità diverse) e, mentre la cisti ossea
semplice è ripiena di materiale sieroso queste sono piene di sangue. Quindi all’RX anche qui vediamo delle
lacune ovalaripiù o meno reticolate che assottigliano lacorticale e deviano le parti molli perché la cistidilata
l’osso e crea una tumefazione che sposta leparti molli adiacenti. Possiamo usare anche laTAC e la RMN,
preferendo la seconda che cipermette di vedere i livelli fluido-fluido(zone bianche e nere che si intercorrono,
legate al fatto che il sangue all’interno delle varie lacune sedimenta con una con una componente corpuscolata
basale e una componente sierosa superficiale). Lascintigrafia è sempre positiva. Ha un ruolo molto importante
l’arteriografia perché permettedi vedere i vasi che vanno a riempire la cisti efornisce la base per
l’embolizzazione dove si va conun catetere a occludere i vasi che fornisconosangue alla cisti e venendo meno
il nutrimentoquesta tende ad ossificare.

Trattamento: l’embolizzazione è il trattamento cardine della cisti aneurismatica, ma spesso sihanno recidive
perché si formano circolicollaterali che tornano a portare sangue alla cisti.In caso di recidiva (accade
frequentemente) si possono fare altri tipi di intervento più invasivi quali ad esempio il curettage (e
riempimento con osso) o nel caso di cisti molto importanti, la resezione e ricostruzione con protesi (da evitare
nei bambini piccoli) o innesti da cadavere (più indicati). Gli innesti da cadavere però presentano la
problematica di essere osso morto che quindi in caso di frattura non è in grado di rigenerarsi.
L’embolizzazione permette anche la riduzione della dimensione della lezione aiutando un successivo
intervento chirurgico, questa si esegue 2 o 3 giorni prima dell’intervento e diminuisce il rischio di grandi
emorragie intraoperatorie tipiche di questa lesione soprattutto nei bambini piccoli.

TUMORI OSSEI BENIGNI


I tumori considerati francamente benigni sono
complessivamente molto più frequenti rispetto alle
lesioni pseudotumorali.Per quanto riguarda l’età si
ha una distribuzione simile a quella vista prima,
quindi il bambino-adolescente, ma anche il giovane
adulto ed in qualche caso si possono ritrovare in età
più avanzate.
Tra i vari tumori benigni il più frequente è
l’osteocondroma, detto anche esostosi, seguito
dall’osteoma osteoide, dal tumore a cellule giganti,
dal condroma, dalla displasia fibrosa e via dicendo fino ai meno frequenti come il neurofibroma e il tumore
fibroso istiocitico.

ESOSTOSI
45% dei tumori benigni.
Età di prevalenza: giovani adulti, durante l’età di accrescimento.
Incidenza sovrapponibile nei 2 sessi.
Sedi più frequenti: grosse metafisi, femore, tibia, omero.
Le esostosi possono essere solitarie o multiple (in ossa diverse).
L’esostosi solitaria riguarda le sedi già menzionate e soprattutto la seconda decade di vita, mentre le esostosi
multiple sono rappresentate anche nelle altre fasce d’età perché sono una patologia genetica trasmessa per via
autosomica dominante; sono presenti fin dalla nascita e nuove esostosi si possono sviluppare anche in età
adulta.

ESOSTOSI SOLITARIA
Le esostosi sono delle escrescenze cartilaginee e ossee che si hanno solitamente a livello della superficie delle
metafisi, tendono ad aumentare di dimensioni durante l’accrescimento del paziente e non crescono più una
volta raggiunta la maturità ossea. Questo è importante perché le esostosi possono degenerare in un tumore
maligno, il condrosarcoma periferico (rarissimo nel caso di esostosi solitaria e più frequente con esostosi
multiple), il cui primo segno è proprio la ripresa della crescita di un’esostosi dopo il raggiungimento della
maturità scheletrica.
La scoperta è casuale: l’esostosi dà una tumefazione palpabile nella maggior parte dei casi (se origina dalle
ossa degli arti dove è superficiale e quindi facile da palpare) ma non procura dolore, la sintomatologia quindi è
dovuta al volume che può dare compressione nervosa e/o vascolare o limitazione articolare.

Imaging: alla radiografia si presenta una sporgenza ossea simile a un fungo che
ha le caratteristiche di un osso normale, ben delimitato, al suo apice è presente
una cuffia di tessuto cartilagineo analogo a quello della metafisi che quindi
permette all’osso di crescere. Questo cappello cartilagineo risulta
radiotrasparente e questo porta spesso a sottostimare le effettive dimensioni della
lesione.

L’evoluzione è benigna nella maggior parte dei casi, il rischio di degenerazione è


meno dell’1%. I casi in cui c’è maggiormente il rischio di malignità sono:
 quelli in cui la comparsa dell’esostosi avvenga nell’adulto,
 esostosi rapidamente evolutive,
 esostosi del tronco e della radice degli arti, in quanto spesso vengono
diagnosticate quando hanno già raggiunto una notevole dimensione e
quindi il rischio di degenerazione è più alto,
 quando lo spessore della cuffia cartilaginea è maggiore di 1 cm,
osservabile alla RMN,
 quando sono presenti delle modificazioni radiologiche: lacune alla base e calcificazioni a distanza.

ESOSTOSI MULTIPLE
È malattia ereditaria a trasmissione autosomica dominante a penetranza variabile.
Il paziente arriva a mostrare moltissime esostosi (da 20 fino anche a 200) in tutto lo scheletro.
Le esostosi multiple colpiscono spalle, ginocchia, caviglie, mani, gomiti, vertebre, bacino.
Queste possono portare a insufficienza staturale, eterometria (diversa lunghezza degli arti) e deformità con per
esempio:
 incurvamento dell’avambraccio per un accorciamento dell’ulna (uno dei test che vengono fatti è
quello di piegare il polso sul piano del palmo nella direzione del mignolo, normalmente non si arriva a
90 gradi, nel caso di esostosi con accorciamento dell’ulna si superano addirittura i 90 gradi),
 coxa valga con rigidità data dalla limitazione articolare,
 sinostosi tra tibia e perone o tra radio e ulna. Colpiscono il 1° decennio.
Il rischio di degenerazione maligna di una di queste esostosi è tra il 10 e il 20%.

Trattamento:
L’asportazione è rara, si effettua solo quando è in un distretto in cui crea compressione di muscoli, vasi o nervi
(tipicamente nella tibia prossimale, esostosi che interferiscono con i tendini della zampa d’oca con quindi
infiammazione e dolore), per motivi estetici, o nel caso di trasformazione maligna.
Il trattamento è la resezione tangenziale: si fa un’osteotomia tangente alla corticale dell’osso a livello della
base d’impianto, portando via per intero il peduncolo e il cappuccio cartilagineo.

OSTEOMA OSTEOIDE
Tumore benigno che può insorgere in qualunque tipo di osso dell’organismo, principalmente le diafisi delle
ossa lunghe e nello specifico di femore e tibia prossimale (qualche volta il rachide, le articolazioni o il
periostio).
Rappresenta il 10% dei tumori benigni ossei.
Tipico dell’adolescenza/giovinezza (tra i 10 e i 30 anni).
Predominanza maschile.

Al contrario dei tumori visti finora, la clinica è rappresentata soprattutto dal dolore:
persistente, lancinante, continuo anche notturno (sveglia il paziente), che scompare con
l’uso di FANS (aspirina in particolare) e si accentua con il consumo di alcolici. Questo
dolore è legato a un iperattivazione delle prostaglandine, questo provoca una
iperalgesia che è continua.
Raramente dà tumefazione.

Imaging: molto caratteristico. Alla radiografia difficilmente visibile.


Alla TAC, vediamo una lesione molto piccola, sotto i 2 cm, caratterizzata da
un’area in cui si ha un aumento della densità della corticale e al suo interno
il cosiddetto nidus centrale che rappresenta la parte tumorale vera e propria,
quindi l’aspetto è quello di una piccola lacuna ossea circondata da
addensamento più bianco.
La diagnosi di certezza è rappresentata dalla scintigrafia, in cui si osserva
una fissazione netta “a faro nella notte” o “double density sign” con una
iperfissazione centrale intensa e un alone più sfumato attorno. Se abbiamo
questi segni non c’è bisogno di procedere alla biopsia.

Trattamento: una volta era rappresentato dalla resezione completa della lesione; adesso si fa solo la
termoablazione. Sotto guida TAC si posiziona in maniera corretta l’ago cannulato all’interno dell’osteoma
osteoide, si fa un prelievo per avere la conferma istologica, viene inserito poi un elettrodo a radiofrequenza,
connesso ad un generatore a radiofrequenza (si raggiungono i 90-95°C per 10-15 minuti) e così si brucia tutto
ciò che è presente nel raggio di un centimetro. Già la notte successiva all’intervento il paziente presenterà un
sollievo dal dolore che quindi gli permetterà di dormire.
L’intervento chirurgico è riservato ai casi di recidiva dopo la termoablazione o per i tumori più grandi di 1 cm
di diametro (chiamati osteoblastomi, cioè osteomi osteoidi più grandi del centimetro).

TUMORE A CELLULE GIGANTI


Il tumore a cellule giganti è un tumore benigno che fa da intermediario tra i tumori benigni veri e i tumori
maligni a basso grado. È più raro di quelli già visti (4-10% dei tumori benigni primitivi dell’osso), con età di
insorgenza media attorno ai 30 anni (tra i 20 e i 40 anni) e localizzazione a livello delle epifisi e molto
frequentemente attorno al ginocchio (femore distale e tibia prossimale). Per quanti riguarda la clinica, questa è
molto variabile, il tumore può essere trovato in tutti e tre gli stadi (latente, attivo o aggressivo): può rimanere
latente per molto tempo oppure può essere attivo associato a dolore, tumefazione (per rigonfiamento dell’osso)
e a fratture, compromettendo gravemente la stabilità dell’osso.
Una delle sedi più frequenti è il radio distale ed è pressoché l’unica lesione che si presenta in questa sede.

Imaging:
 immagine chiara osteolitica pura tumore
latente
 trabecolazione incostante (nido d’api)
 contorni irregolari tumore attivo
 distruzione della corticale tumore
aggressivo (meglio visibile con TAC e
RMN)
 scintigrafia +++

Trattamento:
Per la sua localizzazione a livello meta-epifisario e per la sua aggressività porta ad avere un approccio nel
trattamento più simile a quello adottato nel caso di lesioni maligne.
Il trattamento è sempre chirurgico epuò essere di curettage (nel quale si crea una finestra nell’osso, si va poi a
togliere il tumore e riempire poi la cavità rimasta con dell’osso): l’incidenza di recidiva dopo questo intervento
è del circa 15-20%. Nei casi in cuil’osso sia particolarmentecompromesso o di recidiva, si procede alla
resezione ericostruzione con protesi o innesti.Negli ultimi anni si è iniziato a usare ildenosumab, che è un
anticorpomonoclonale diretto contro il RANKL al quale si lega con elevata affinità e specificità, prevenendo
l'attivazione del suo recettore, RANK, presente sulla superficie degli osteoclasti e dei loro precursori. Il blocco
della interazione tra RANKL e RANK inibisce la formazione, la funzionalità e la sopravvivenza degli
osteoclasti, riducendo in tal modo il riassorbimento osseo sia a livello corticale che trabecolare.
Questo farmaco permette la riossificazione completa delle lesioni, l’unicoproblema è che il denosumab è un
citostatico, quindi, alla sospensione della terapia, la malattia torna a progredire e viene di conseguenza usato
solo in attesa dell’intervento chirurgico perché permette la riduzione della lesione e un minore sanguinamento
durante l’intervento. In caso di pazienti particolarmente anziani si può proseguire il trattamento a vita, mentre
in particolare nelle ragazze questo viene evitato perché porterebbe sicuramente a malformazioni fetali in caso
di gravidanza.

CONDROMA
Come l’esostosi è una malattia cartilaginea benigna ma mentre l’esostosi cresce
al di fuori dell’osso, il condroma si localizza all’interno della diafisi dell’osso.
Si sviluppa a partire dalla metafisi, metafiso-diafisi delle ossa lunghe, è
solitamente solitario (multipli nella malattia di Ollier) e benigno, solo raramente
evolve in tumori maligni (condrosarcomi centrali, diversi da quelli che
insorgono sull’esostasi).
Prevalenza tipicamente dopo i 20 anni. Rappresenta il 10% dei tumori benigni
dell’sso.
Si localizza a livello delle ossa lunghe: 50% femore, omero, perone, radio e
tibia; 50% ossa delle dita di mani e piedi; raramente a livello della pelvi (oggi si
dice non esistere condromi ma solo condrosarcomi nella pelvi). Talvolta
possono essere periostali. Quando si presenta in prossimità delle articolazioni
può andare a limitarne la funzionalità. Negli altri casi raramente è sintomatico.

Imaging:
Spesso di riscontro occasionale.
Si osservano come aree litiche all’interno dell’osso, geodi chiari, omogenei, arrotondati e con margini
abbastanza netti, un po’ trabecolate con piccole opacità. La corticale si presenta assottigliata, sono presenti le
tipiche calcificazioni con aspetto a “a pop corn” delle lesioni carilaginee.

MALATTIA DI OLLIER
Per quanto riguarda la malattia di Ollier, questa è caratterizzata da
molteplici condromi (decine) a livello delle metafisi di quasi tutte le
ossa del corpo con asimmetria di presentazione delle lezioni. Queste
danno spesso deformità, eterometrie, zoppia con incurvamento
(ginocchio, caviglia) e tumefazioni multiple (dita, coste).
Il rischio di degenerazione in condrosarcoma è del 20% (raro invece
nel condroma solitario).
Se il trattamento chirurgico è corretto, raramente i condromi
recidivano.
La differenza tra malattia da esostosi multiple e malattia di Ollier è
che solo la prima è ereditaria.

Trattamento: intralesionale. Vengono trattate le lesioni dubbie che possono avere l’aspetto di tumori
cartilaginei maligni a basso grado. Il trattamento può essere di curettage e riempimento con cemento, o la
resezione e ricostruzione con protesi, in base alle dimensioni e alla localizzazione.
Spesso un paziente con condroma semplice, come nel caso delle esostosi, decide di farsi trattare nonostante il
rischio di degenerazione sia bassissimo. L’obbiettivo però sarebbe quello di non andare a trattare questi
pazienti perché non hanno una vera necessità a sottoporsi a un trattamento comunque abbastanza aggressivo.

DISPLASIA FIBROSA
La displasia fibrosa è una lesione che inizia a livello delle metafisi e può estendersi verso
la diafisi, mentre è molto più raro l’interessamento dell’epifisi. In passato era anche
chiamata “malattia fibroso-cistica” perché associa lesioni fibrose ad altre di tipo cistico
nelle ossa lunghe.

Imaging è caratterizzato da lesioni con aspetto a vetro smerigliato: il tessuto fibroso si


sostituisce all’osso erodendo la corticale, spesso deformandola.

Trattamento:
La struttura ossea è indebolita e va incontro a microfratture che guarendo vanno a
determinare progressivamente delle deformità tipicamente ritrovabili nel femore
prossimale. In alcuni casi è necessario andare a fare un intervento di stabilizzazione per
rinforzare queste strutture ossee e andare a bloccare la progressione della malattia. Quindi
non è di solito necessario alcun trattamento salvo in caso di rischio elevato di frattura o in
seguito a frattura già avvenuta (curettage o resezione).

Anche queste lesioni tendono a stabilizzarsi nell’età adulta. La degenerazione sarcomatosa è abbastanza rara
(5%).

La displasia fibrosa può essere associata ad altre patologie quali:


 Sindrome di McCune-Albright:
o macchie cutanee color caffelatte a margini irregolari, che correlano
quasi sempre con la sede ossea sottostante;
o pubertà precoce nelle femmine
o poliendocrinopatie,
 Sindrome di Mazabraud:
o Mixomi intramuscolari
A volte non è necessaria biopsia come nel caso di un paziente che presenta una lesione ossea litica metafisaria
associata a una macchia color caffè-latte soprastante. In questo caso la diagnosi è evidente.

FIBROMA ISTIOCITICO
Il fibroma istiocitico è una distrofia ossea di natura fibrosa benigna definita come difetto
di formazione della corticale ossea con sviluppo di tessuto connettivo a livello della
metafisi delle ossa lunghe nella corticale o sotto di essa.
Colpisce soprattutto e adolescenti da 9 a 15 anni bambini (si trova nel 20-40% dei
bambini normali, questa è una stima perché essendo la lesione asintomatica i riscontri
sono casuali solo in bambini che fanno radiografie per altri motivi). È normalmente
asintomatico; solo raramente dà dolore per la presenza di fratture patologiche più o
meno importanti.
Si trova tipicamente agli arti inferiori, in femore o tibia distali con localizzazione
tipicamente unica.

Imaging: all’RX appaiono come lacune eccentriche (spostate verso la corticale),


plurilobulate, delimitate dall’orletto sclerotico molto ben definito, senza reazione
periostea (tipico aspetto delle lesioni inattive, latenti).

Non è necessaria biopsia.

Trattamento: Tende a guarire spontaneamente e a ossificare al raggiungimento della maturità scheletrica.


L’intervento chirurgico è molto raro, riservato a casi di fratture importanti.

CONDROBLASTOMA
Il condroblastoma è un tumore benigno di origine cartilaginea, abbastanza raro (2,5% dei tumori ossei
benigni), più frequente nei maschi (2/3). È localizzato alle epifisi delle ossa lunghe (come solo il tumore a
cellule giganti). Ha le caratteristiche di malattia attiva; raramente può dare
delle fratture patologiche.

Imaging: Ha le caratteristiche di malattia attiva. Appare come una lesione


litica, rotondeggiante, di 2-4 cm, a contenuto omogeneo, cerchiato da una linea
di condensazione, in cui possono insorgere fratture patologiche per la riduzione
della densità ossea.

Il trattamento chirurgico prevede curettage e innesto, ed è sempre indicato perché si tratta di un tumore molto
aggressivo.

Riassunto dei trattamenti


Come si trattano le lesioni benigne? A seconda della lesione benigna possiamo fare:
o follow-up, come nel caso delle lesioni pseudotumorali/amartomi dove le lesioni sono inattive, non
danno dolore e tendono a guarire spontaneamente
o trattamento mini-invasivo:
o come infiltrazione (cisti ossea)
o termoablazione (osteoma osteoide e condroblastoma)
o embolizzazione per le lesioni molto vascolarizzate (cisti ossee aneurismatiche e nelle sedi
difficili da aggradire come il bacino)
o chirurgia: curettage/resezione associata o meno all’osteosintesi. Indicata per lesioni attive, di stadio 3,
sintomatiche, che diano deformità e in caso di fratture patologiche.
Domanda studente: qual è la differenza tra displasia fibrosa e fibroma istiocitico?
La displasia fibrosa è un’alterazione displasica in cui la maggior parte del tessuto osseo è sostituito da tessuto
fibroso, è diffusa all’interno del midollo. Il fibroma istiocitico invece si chiama anche difetto fibroso della
corticale perché tipicamente la sostituzione del tessuto fibroso avviene in corrispondenza del tessuto corticale.

NEOPLASIE OSSEE MALIGNE


Si tratta di tumori rari, a differenza delle metastasi ossee da carcinomi, che in assoluto sono assai più frequenti.
Inoltre sono meno frequenti, seppur di poco, rispetto ai tumori benigni, con un picco di incidenza nel giovane
adulto (pazienti a fine accrescimento fino ai 30 anni), anche se possono presentarsi anche nell’età adulta, in
particolare per alcuni istotipi.
Secondo una statistica dell'istituto Rizzoli (che è una delle maggiori, se non la maggiore, al mondo) operata su
una casistica di oltre 20.000 casi di tumori dell'apparato scheletrico, le neoplasie maligne erano circa 7.000. I
tumori maligni, globalmente considerati, possono colpire qualunque osso, in entrambi i sessi.

Se consideriamo la suddivisione per istotipo dei tumori primitivi, il più frequente in assoluto è l'osteosarcoma,
seguito dal condrosarcoma e dal sarcoma di Ewing. Tutti gli altri (fibrosarcomi, cordomi, angiosarcomi, ecc.)
sono assolutamente delle rarità in termini di incidenza.
In realtà in questa statistica non viene considerato che c'è un tumore ancora più frequente e che si osserva nelle
ossa come il mieloma, il quale, però, non è classicamente un tumore che ha origine dall'osso bensì dal midollo
osseo.

OSTEOSARCOMA

Esiste infatti una famiglia di osteosarcomi, con all’interno numerosi istotipi differenti. L'osteosarcoma classico
rappresenta oltre i 2/3 di tutti gli osteosarcomi. Seguono in ordine, in termini di incidenza, l’osteosarcoma
teleangiectasico (che ha la caratteristica di essere più litico rispetto a quello classico, é simile alla cisti
aneurismatica), l’osteosarcoma parostale e l’osteosarcoma secondario. Tutti gli altri sottoistotipi sono molto
più rari.
L’incidenza in Italia è 3-5 casi/1 milione abitanti per anno, si tratta di un tumore raro.

Eziopatogenesi
L'eziopatogenesi dell'osteosarcoma è sconosciuta, sicuramente si tratta di una patologia multifattoriale.
Quello che sappiamo è che è più frequentemente osservato nelle ossa in accrescimento, quindi nel segmento
metafisario delle ossa lunghe di soggetti giovani (quindi lo stimolo di crescita dell’osso è uno dei fattori
concorrenti); si sa che in una minoranza dei casi possono giocare un ruolo fattori ambientali, come
l'esposizione a radiazioni, ritenute causa di circa il 2% degli osteosarcomi (e questo specialmente nel caso
degli osteosarcomi secondari, che insorgono nel soggetto anziano con una storia di radioterapie ad esempio,
oppure nel soggetto giovane che ha fatto una radioterapia per una leucemia o un linfoma), oppure, molto più
raramente, osteosarcomi indotti da agenti chimici, come l'ossido di berillio, l'asbesto, i sali di cromo.
Sappiamo che un ruolo preponderante é ricoperto dalla genetica; sempre più frequente é il riscontro di lesioni
genetiche più o meno frequenti, sebbene non vi sia mai il singolo gene alterato causale (ciò che compromette
di fatto la possibilità di studiare terapie mirate per l’osteosarcoma con target molecolari specifici):
· Anomalie cromosomiche (estremamente
complesse, non specifiche)
· Disfunzione di geni
· Alterazione dei meccanismi di
soppressione tumorale
· Attivazione di fattori di trascrizione
· Produzione di fattori di crescita
· Inibizione dell'apoptosi
· Mutazioni o delezioni dei geni
oncosoppressori p53 e rb1 sono stati considerati responsabili dello sviluppo dell'osteosarcoma.
L'osteosarcoma, in realtà, ha altre alterazioni cromosomiche molto più complesse e non specifiche.

Classificazione
La classificazione dell'osteosarcoma secondo l'OMS comprende quindi (in ordine di frequenza):
• Osteosarcoma classico che ha tre
varianti:
o Osteosarcoma condroblastico;
o Osteosarcoma fibroblastico;
o Osteosarcoma osteoblastico;
• Osteosarcoma teleangectasico o
emorragico;
• Osteosarcoma parostale;
• Osteosarcoma secondario
• Osteosarcoma centrale a basso grado;
• Osteosarcoma periosteo;
Altre forme molto più rare:
· Osteosarcoma superficiale ad alto
grado;
· Osteosarcoma parostale
dedifferenziato;
· Osteosarcoma mandibolare;
· Osteosarcoma a piccole cellule;
· Osteosarcoma multifocale.

Più interessante è che dal punto di vista anatomopatologico gli osteosarcomi si dividono in:
· Osteosarcomi ad alto grado di
aggressività
· Osteosarcomi a basso grado di
aggressività
Mentre dal punto di vista eziopatogenetico possiamo distinguere gli osteosarcomi in:
· Osteosarcomi primitivi
· Osteosarcomi secondari

Osteosarcoma classico

Epidemiologia
L’incidenza é 2,5 casi/1 milione per anno.
È un sarcoma che produce osso neoformato, è intraosseo, centrale ed è ad alto grado.
È l'osteosarcoma più frequente nella seconda e terza decade di età, lievemente più frequente nel sesso
maschile. Dai quarant’anni in su è molto più probabile si tratti di un osteosarcoma secondario, insorto su
un’altra malattia.
Le sedi di gran lunga più colpite sono quelle intorno al ginocchio (femore distale, tibia prossimale),
seguite dall'omero prossimale e il bacino. Tutte le altre sedi possono essere interessate, ma sono molto più
rare.
Caratteristiche
La sintomatologia è abbastanza aspecifica: dolore persistente senza causa apparente associato in maniera
più o meno importante a una tumefazione (associato a limitazione funzionale).

Da punto di vista radiologico abbiamo:


· Lesione centrale;
· Aspetto radiografico di aggressività
(che quasi sempre presenta aree di sclerosi o radiopacità); con un'area
di alterazione mista litica-addensante (di solito prevale l'alterazione
addensante legata alla deposizione di osteoide), con una reazione
periostea circostante (lo scollamento del periostio forma il tipico
Triangolo di Codman).

ESEMPIO di ragionamento da fare di fronte una radiografia (domanda


d’esame):
Si tratta di una radiografia del ginocchio in AP, di un paziente in
accrescimento (vedo la cartilagine di accrescimento).
Noto un’alterazione che interessa il femore distale, senza margini netti; vedo
una reazione sul periostio che tende a sollevarsi e vedo una massa a livello
dei tessuti molli. Queste sono caratteristiche che propendono per una
malattia aggressiva a livello dell’osso: posso pensare ad un tumore maligno
dell’osso. DD: infezione. A questo punto sarebbe opportuno chiedere un
secondo esame di imaging: TAC o RMN con mezzo di contrasto. Se queste
confermano l’aspetto di malignità il passo successivo è la conferma istologica tramite biopsia.

All'angiografia (oggi prevalentemente sostituito dall'AngioTAC)


l'osteosarcoma mostra un'ipervascolarizzazione patologica, e alla
scintigrafia (anch’essa progressivamente sostituita dalla PET-TC) dimostra
una positività da iperaccumulo del radioisotopo nella zona di malattia.

Dal punto di vista istologico l’osteosarcoma si caratterizza per la presenza


cellule ad alto grado di malignità altamente disomogenee/disorganizzate
con un pattern infiltrativo a livello delle trabecole che producono matrice
osteoide; istologicamente si vede l'osteoide di tessuto osseo formato dalle
cellule tumorali vicino ad una lamella di tessuto ospite, ovvero osso normale che viene eroso, mangiato,
dalle cellule tumorali. Come si fa a differenziare le due parti? L'osso normale ospite che viene eroso ha
un'organizzazione di tipo trabecolare, si vedono le linee, mentre l'osteoide (o tessuto osseo prodotto dal
tumore) è immaturo, è più carico di calcificazioni e non è organizzato in una struttura regolare.

Osteosarcoma Teleangectasico o Emorragico

Epidemiologia
L'osteosarcoma teleangectasico è molto più raro della forma classica. Simile a quest’ultimo dal punto di
vista epidemiologico: anch'esso interessa prevalentemente la seconda e terza decade, (anche se si può
osservare in pazienti più grandi di età) e predilige il femore distale e tibia prossimale; è molto meno
frequente nel bacino, mentre può essere osservato in altre ossa lunghe.
È un tumore maligno che però, a differenza del precedente, ha è in grado di dare una lisi molto importante
dell’osso dove origina, sostituito da un tessuto altamente vascolarizzato: l’osso viene a trasformarsi in una
specie di spugna ripiena di sangue.

Caratteristiche
Si presenta con una lesione centrale (come il classico), però ha un aspetto radiografico di tipo litico, non
radiopaco, con segni di intensa aggressività locale, mentre l’istologia è sempre di alto grado con delle
lacune che contengono sangue; tant'è che la diagnosi differenziale sia radiografica che istopatologica si
pone con la cisti ossea aneurismatica.
Ciò ribadisce ancora una volta l’importanza di confermare la
diagnosi tramite biopsia nei casi dubbi prima di attuare
interventi di rimozione per lesioni benigne (es. curettage), che
compromettono la prognosi del paziente in caso di scoperta
successiva di malignità.

Ecco come si presenta l'osteosarcoma emorragico della tibia


prossimale: alla radiografia prevalgono gli aspetti di lisi, non
c'è osteosclerosi, mentre all'aspetto macroscopico del preparato
anatomico (dopo resezione o amputazione) sembra di osservare
una spugna piena di sangue, un po' come quello che succede
nella cisti aneurismatica, ma con segni di maggiore
aggressività.

Osteosarcomi a basso grado


Gli osteosarcomi a basso grado sono sostanzialmente tre (tutte entità estremamente rare):
1. Osteosarcoma periosteo
2. Osteosarcoma parostale
3. Osteosarcoma centrale a basso grado

Osteosarcoma periosteo
Colpisce quasi sempre la seconda decade di vita, raramente la terza e la quarta.
Non è un osteosarcoma che si osserva nell'adulto. Le sedi tipiche sono: la diafisi
o la metafisi delle ossa lunghe, in particolare del femore e della tibia.
I casi non sono molti, su una casistica di settemila tumori maligni 41 sono
osteosarcomi periostei, quindi si tratta di un tumore molto raro.
L'osteosarcoma periosteo è una lesione che nasce a livello del periostio e che
forma in maniera molto lenta questa degenerazione della superficie della diafisi,
senza mai penetrare nella cavita midollare.
Nella radiografia a lato vedo un osso lungo con un’alterazione del profilo non
chiara, senza margini netti, vedo un sollevamento del periostio, una lesione che
sembra estendersi nei tessuti molli.
Questo osteosarcoma un aspetto radiografico osteolitico; l'istologia è a basso
grado, con cartilagine e osteoide. L'aspetto dell'osteosarcoma periosteo è come
quello di una lente con convessità verso l'esterno appoggiata alla corticale, che
trae origine dalla corticale stessa; ha un contenuto largamente cartilagineo.
Qualche volta è meno evidente l'ossificazione sulla corticale. Alla risonanza si
vede bene, in nero, la lesione periostea, e tutto attorno, in bianco, si vede
l'edema circostante.
Il trattamento è un trattamento chirurgico di rimozione a margini ampi.
La diagnosi differenziale si ha con osteosarcomi a maggiore grado di aggressività.

Osteosarcoma parostale
L'osteosarcoma parostale, simile al precedente, è un po' meno raro (151 casi su 7 mila), si osserva in
pazienti più anziani, quindi nella terza, quarta e quinta decade e quasi sempre si trova nel femore distale
posteriormente, cioè si sviluppa verso il cavo popliteo: questa è una caratteristica tipica dell'osteosarcoma
parostale.
È quindi una lesione ossea superficiale metafisaria, molto addensante e a bassa aggressività (ha una lunga
storia clinica, cresce molto lentamente).
La differenza con il precedente istotipo di osteosarcoma, oltre alla localizzazione caratteristica, è la sua
tendenza ad aggredire anche la regione endocorticale, una lesione che sembra incollata sull’osso (“past
bone”).
Ha un aspetto radiografico eburneo (in ragione dell’intensa ossificazione si tratta di una lesione
estremamente addensante), è molto bianco, molto intenso, molto sclerotico, a margini irregolari e ha
un'istologia di basso grado.
L'intervento consiste in un'emiresezione diafisi-metafisaria posteriore e una ricostruzione ottenuta
mediante innesto e una stecca.
Entra in diagnosi differenziale con altri osteosarcomi a sviluppo superficiale.

Osteosarcoma secondario
Nella maggior parte dei casi l'osteosarcoma secondario è un osteosarcoma dell'adulto o dell’anziano: e
questo caratteristicamente perché vi é bisogno di tempo perché si abbia l’azione di un’esposizione o
malattia sulla tumorigenesi.
Le sedi sono un po' tutte rappresentate, pur essendo più frequente anche l'osteosarcoma secondario nelle
zone intorno al ginocchio.
Nella lista degli osteosarcomi secondari potremmo includere anche il condrosarcoma dedifferenziato in
osteosarcoma, che però non è propriamente una forma di osteosarcoma secondario.
Le forme più frequenti sono essenzialmente:
1. Osteosarcoma su morbo di Paget
2. Osteosarcoma radio-indotto

Altri sono:
· Osteosarcoma su infarto osseo;
· Osteosarcoma su displasia fibrosa;
· Osteosarcoma su osteomieliti;
· Osteosarcoma su tumore a cellule
giganti (rarissimo);
· Osteosarcoma su altre lesioni benigne.

CONDROSARCOMA

É la seconda famiglia di tumore primitivo dell’osso dopo l’osteosarcoma. Vi troviamo:


• Condrosarcoma centrale (che
interessa più della metà dei casi)
• Condrosarcoma periferico (che
insorge su un’esostosi o un osteosarcoma)
• Condrosarcoma dedifferenziato
Altri ancora più rari sono:
• Condrosarcoma a cellule chiare
• Condrosarcoma periosteo
• Condrosarcoma mesenchimale (molto
aggressivo)
• Condrosarcoma dedifferenziato

Condrosarcoma centrale
Comprende il 57% di tutti i condrosarcomi.
Il condrosarcoma è un tumore primitivo maligno del tessuto
cartilagineo, è un tumore tipico dell’età adulto-anziana ed
entra perciò in diagnosi differenziale con le lesioni
metastatiche (pur essendo possibile osservare condrosarcomi
anche nei bambini, negli adolescenti, nei giovani adulti).
Le localizzazioni preminenti sono il femore prossimale, il
bacino, l'omero prossimale e la scapola.
Il condrosarcoma dal punto di vista sintomatologico si
presenta con dolore e tumefazione modesta.
Alla radiografia ha il tipico aspetto di tumore cartilagineo (immagine a “pop-corn”). Si notano geodi
policiclici irregolari che si formano all'interno dell'osso e che poi (a differenza dell’encondroma, benigno)
vanno ad aggredire il tessuto endocorticale (dando degli aspetti simili a morsi), più spesso in sede di
diafiso-metafisaria.
Il trattamento è essenzialmente la chirurgia: si tratta infatti di tumori (e questo vale in generale per tutti i
tumori di derivazione cartilaginea) in cui l’ambiente extracellulare estremamente
ricco di collagene riduce la vascolarizzazione e quindi anche l’arrivo dei farmaci
chemioterapici (chemioresistenza); avendo inoltre una proliferazione cellulare non
elevatissima nemmeno la radioterapia é particolarmente efficace (radioresistenza).

Condrosarcoma periferico
Mentre il condrosarcoma centrale deriva da un encondroma che tende a degenerare,
il condrosarcoma periferico compare a partire da una preesistente esostosi.
Può colpire un po' tutte le età, anche se è un po' più frequente nei pazienti giovani o
giovani adulti, soprattutto in soggetti con malattia delle espostosi multiple. Colpisce
tutte le sedi ossee. Le sedi predilette sono: bacino, femore prossimale, omero
prossimale e coste.
Caratteristico all'imaging è la presenza (a differenza dell’espostosi semplice) di un
cappuccio cartilagineo altamente disorganizzato e un intenso coinvolgimento dei
tessuti molli (con una eventuale deviazione degli organi vicini se il tumore è nel
bacino). Esistono forme difficili da evidenziare alle radiografie, mentre ci sono
forme massive calcifiche facili da riconoscere.
Il trattamento gold-standard per il condrosarcoma è la chirurgia perché è chemio e radio resistente.

SARCOMA DI EWING

È un tumore tipico del bambino o dell'adolescente, della prima o seconda decade (o addirittura della terza
decade).
Le sedi interessate sono molte: più frequente a livello delle diafisi delle ossa lunghe, nel bacino e nella
scapola.
È 2/3 volte meno frequente dell'osteosarcoma, più frequente nei maschi, non si osserva mai nei neri, ed è
più frequente nelle persone che vivono in campagna rispetto a quelle che vivono in città.
La sintomatologia è costituita da dolori e tumefazioni (talvolta molto importanti), inoltre qualche volta fra
i sintomi del sarcoma di Ewing è inclusa la febbre. Fra gli esami di laboratorio c'è un rialzo delle lattico-
deidrogenasi (LDH). Il rialzo delle LDH si osserva sempre nel Sarcoma di Ewing, qualche volta nei
linfomi e, quando curiamo un paziente con sarcoma di Ewing e questo va in remissione e si ha un
successivo rialzo delle LDH significa che ci sono una recidiva o delle metastasi.

Non si conosce un agente virale che possa essere responsabile dello sviluppo del sarcoma.
Istologicamente è un tumore maligno sempre ad altissimo grado di aggressività locale, scarsamente
differenziato, composto da piccole cellule rotonde.

In genere si presenta con osteolisi mal definite, lesioni molto aggressive e infiltranti, aree di intensità a
chiazze, scollamento del periostio e, soprattutto nelle diafisi delle persone giovani la reazione a bulbo di
cipolla del periostio. É così rapido nella crescita che in alcuni casi riesce a permeare la corticale senza
eroderla per invadere i tessuti molli (caratteristica in generale tipica di tutti i tumori a piccole cellule ad
altissima aggressività, come ad esempio anche il neuroblastoma o il linfoma).
L'istologia mostra piccole cellule rotondeggianti, uniformi, aggregate in pseudorosette e
un'immunoistochimica (valutata sulla biopsia) abbastanza caratteristica in grado di dimostrare una
traslocazione 11-22 tipica del sarcoma di Ewing.
Il trattamento ottimale di questo tumore è chemioterapia pre e post terapia, e localmente radioterapia o
chirurgia o un'associazione delle due.

PRINCIPI DI TRATTAMENTO DEI TUMORI OSSEI MALIGNI


· Per i tumori maligni allo stadio IA (Tumore a basso grado, intracompartimentale):
Resezione ampia
· Per i tumori maligni allo stadio IB (Tumore a basso grado, extracompartimentale):
Resezione ampia (raramente é possibile impiegare la radioterapia)
· Per i tumori maligni allo stadio IIA (Tumore ad alto grado di malignità, intracompartimentale):
Resezione ampia con chemio o radioterapia;
· Per i tumori maligni allo stadio IIB (Tumore ad alto grado di malignità, exracompartimentale):
Resezione ampia seguita o associata a chemio e radioterapia, oppure un`amputazione.

La chirurgia quindi rimane un cardine per il trattamento dei tumori solidi. Per i tumori a basso grado la sola
chirurgia, per i tumori ad alto grado invece è importantissimo il trattamento multidisciplinare: la chirurgia
deve essere associata alla chemioterapia e, per alcuni istotipi, anche alla radioterapia.

La chirurgia
La cosa più importante per qualsiasi tipo di
intervento chirurgico è che i margini chirurgici siano
adeguati, ovvero che non si caschi dentro al tumore,
ma si rimanga fuori.
Un tempo per i sarcomi delle estremità ossee si facevano quasi sempre delle amputazioni (anche se la
sopravvivenza era comunque molto insoddisfacente a causa della diffusione metastatica), oggi queste sono
riservate solo ad un 10% dei casi. Infatti con l'introduzione della chemioterapia la sopravvivenza ha
cominciato a migliorare.

Fu in particolare l’introduzione della chemioterapia post-operatoria nel 1973 a determinare un aumento


consistente della sopravvivenza. Fu poi l’introduzione della chemioterapia pre-operatoria un decennio dopo a
portare a un ulteriore e graduale aumento della sopravvivenza fino ai giorni nostri. Da ciò deriva il cambio di
tendenza nella chirurgia ortopedica con il declino progressivo dell’amputazione a vantaggio dell’intervento
conservativo: le 2 curve (quella delle amputazioni e quella della chirurgia conservativa) si sono invertite.

Se si osserva un osteosarcoma prima e dopo la chemioterapia preoperatoria, si noterà una migliore


delimitazione del tumore con la scomparsa di tutta l'area di edema circostante il tumore.

Interventi ricostruttivi
Una volta che è stata attuata una resezione ci si pone il problema di come ricostruire ciò che è stato tolto:
bisogna fare una scelta ricostruttiva. Esistono delle indicazioni ricostruttive che dipendono: dal tumore, dallo
stadio di estensione, dalla sede di localizzazione, dall’età del paziente, dalla necessità/possibilità di terapie
adiuvanti come chemioterapia e radioterapia e anche in rapporto a ciò che preferisce il paziente, dal suo
livello di attività, dal suo stile di vita, e dalla sua accettazione emotiva.
In generale si può optare o per delle sostituzioni protesiche o per delle sostituzioni biologiche.
Sempre più spesso oggi si utilizzano protesi modulari (introdotte negli anni ottanta), grazie alle quali si é in
grado di sostituire esattamente il difetto che mi interessa, montando direttamente la protesi nelle dimensioni
e caratteristiche di cui ho bisogno in corso di intervento (“come se fosse un lego”). Queste sono impiegabili
oggi sia in caso di resezioni articolari, sia in caso di resezioni diafisarie pure.
Quando si cominciò ad utilizzarle si pensava sarebbero fallite tutte con la conseguente rimozione a breve
tempo, in realtà si è visto che esse durano anche più di 20 anni. Come tutti gli interventi complessi, le
ricostruzioni con protesi (che sono voluminosi corpi estranei) sono esposte a rischi: il rischio maggiore è
l'infezione, se si infettano, le protesi vengono smontate, sostituite con uno spaziatore arricchito di antibiotici e
ne viene riposizionata una nuova soltanto mesi dopo, quando è guarita l'infezione.

Un tempo, quando non esistevano questi sistemi modulari, si utilizzavano degli innesti osteoarticolari presi
da cadavere: cioè ossa prelevate dal cadavere conservando la cartilagine e conservando l'osso a -80°C, che
vengono poi prelevati, modellati, sagomati e utilizzati sintetizzandoli all'osso del paziente per ricostruire la
parte che viene tolta. Il limite del loro impiego é che tali innesti rimangono non vitali e, quindi, in caso di
trauma non hanno capacità rigenerativa, a differenza delle protesi che sono molto più resistenti ai eventuali
traumi.

In altri casi l'innesto viene combinato con una protesi e questa associazione protesi modulare - innesto da
cadavere si chiama protesi composita. Ciò ha il vantaggio di poter reinserire/riconnettere le strutture
muscolotendinee del paziente al fine di ottenere il massimo recupero funzionale. Si prenda ad esempio una
tibia asportata da un paziente con osteosarcoma: è possibile sezionare e prelevare la tibia del cadavere
donatore conservando il tendine rotuleo inserito così quando si va ad inserire lo si sutura con il moncone del
tendine rotuleo del paziente ottenendo una buona ricostruzione e un miglior recupero funzionale.

Soluzioni chirurgiche per i soggetti in accrescimento


Esistono particolari opzioni ricostruttive per i soggetti in accrescimento, giovani, bambini.
In questo caso si pongono delle problematiche particolari perché mettendo una protesi l'arto diventerebbe
più corto del controlaterale (l'arto normale continuerebbe a crescere quello sostituito no).
Esistono quindi diverse opzioni ricostruttive.
- Per l'arto superiore, ad esempio, si può utilizzare un perone vascolarizzato che viene prelevato dallo stesso
paziente preservando l'arteria e la vena che presiedono alla cartilagine di accrescimento (e riconnettendole
tramite microchirurgia ai vasi del paziente), in modo tale che negli anni questo perone, che va a sostituire
l'omero in questo caso, continui a crescere con il bambino mimando la funzione dell’omero normale.
- Un’altra tecnica ancora prevede un doppio innesto: un innesto massivo da cadavere di tibia, all’interno del
quale andiamo a inserire all’interno il perone vascolarizzato del paziente. Quindi il perone vascolarizzato nel
tempo cresce e si irrobustisce e viene protetto dalla frattura dall'innesto di cadavere, il quale da solo non si
rafforzerebbe mai, ma grazie alla combinazione tra innesto di cadavere e osso del paziente si arriva a una
sintesi perfettamente biologica.
- Per i bambini un pò più grandi esistono delle protesi allungabili: sono protesi provviste di meccanismo di
allungamento interno con dei solenoidi; quando si ha una dismetria per l’accrescimento dell’arto integro
posso, con un apparecchio non invasivo (come una sorta di microrisonanza) che eroga delle onde
elettromagnetiche, indurre degli allungamenti di qualche millimetro senza che il paziente se ne accorga, al
massimo potrebbe sentire un po' di calore.
- Altra possibilità infine per le ricostruzioni complesse (es. ricostruzione di un intero emibacino) é l’impianto
di protesi confezionate su misura in titanio con una stampante 3D che stampa sulla base dei dati ricavati
dall’imaging del paziente. Grazie a questo strumento è oggi possibile attuare resezioni di osteosarcomi in sedi
un tempo considerate inoperabili.

METASTASI OSSEE
Il tumore maligno secondario dell’osso (ovvero la metastasi ossea di tumore originario in altro organo)
corrisponde alla forma di tumore maligno dell’osso più frequente in assoluto, ed ha incidenza ben superiore
rispetto ai tumori ossei primitivi. Le stime di incidenza (non viene esplicitato se Italia, Europa o altro) sono:
 1.2 milioni di nuovi casi di metastasi ossee/anno,
 2900 tumori ossei primitivi/anno.

Lo scheletro è infatti la più comune sede di metastasi dopo polmone e fegato. Da un punto di vista
epidemiologico in 3/4 delle autopsie di pazienti deceduti per carcinoma si riscontrano metastasi ossee.
Attualmente una metastasi ossea singola (nota come oligometastasi), si riscontra in solo meno del 5% dei
casi, ma l’incidenza è attualmente in aumento.

Le metastasi ossee stanno assumendo un rilievo, in termini di diagnosi, sempre maggiore; come mai?
Oggi giorno le diagnosi di metastasi ossea aumentano sempre di più, ma non perché la loro incidenza sia
effettivamente in aumento; questo aumento fittizio è infatti dovuto a:
- miglioramento del trattamento oncologico del tumore primitivo, con conseguente aumento di
sopravvivenza media dei pazienti oncologici, nei quali vi sarà quindi più tempo e maggiore possibilità
di sviluppo e diffusione delle metastasi (si pensi ai pazienti con carcinoma polmonare avanzato, nei
quali fino a non molto tempo fa la sopravvivenza non superava i sei mesi, mentre oggi arriva
addirittura fino a degli anni),
- miglioramento delle metodiche di imaging e quindi miglior detezione delle metastasi.

I tumori che più frequentemente danno metastasi al polmone sono:


- mammella,
- rene,
- polmone,
- prostata,
- tiroide.
Utero, vescica e intestino danno metastasi ossee in misura minore poiché si sviluppano solo in fase tardiva e
avanzata. Nel 3-5% dei casi non si riesce a identificare il tumore primitivo da cui la metastasi ha avuto origine.

Localizzazioni più frequenti:


1. colonna vertebrale (lombo-toracica),
2. pelvi,
3. femore e omero prossimale,
4. altre localizzazioni (arti distali).
In realtà qualunque osso può essere teoricamente sede di metastasi.

Patogenesi delle metastasi ossee


L’osso rappresenta una sede favorevole di impianto di metastasi per le seguenti caratteristiche:
- ricco sistema sinusoidale,
- flusso ematico abbondante,
- gaps nell’epitelio endoteliale.
Si ricorda come il processo di metastatizzazione sia costituito da una serie numerosa di fasi (mobilizzazione e
separazione dalla massa primitiva, superamento della membrana basale, penetrazione vascolare, passaggio
in circolo, extravasazione, impianto in nuovo tessuto, genesi di una nuova massa tumorale) in ciascuna delle
quali la cellula tumorale è messa a repentaglio di sopravvivenza poiché non più protetta dall’ambiente
“favorevole” della massa tumorale primitiva da cui origina.

Le metastasi ossee possono manifestarsi anche dopo anni, se non decenni (fino anche a 20 anni): oggi giorno
vediamo infatti i risultati, in termini di metastasi ossee, del trattamento blando che anni fa veniva riservato
alle pazienti affette da tumore della mammella resecato con linfonodo sentinella negativo. In tali contingenze
si considerava la paziente fuori pericolo e la si sottoponeva per circa 5 anni post-intervento a terapia
ormonale, seguita da interruzione di qualsiasi cura (oggi sappiamo come in realtà il paziente che riceva
diagnosi di tumore sarà malato di tumore per sempre, ovvero la patologia tumorale non potrà mai essere del
tutto guarita e necessiterà di terapia vita natural durante. Nessun oncologo potrebbe oggi non continuare
una linea di chemioterapia a vita in paziente con carcinoma mammario!).
In tali pazienti mastectomizzate ma senza più trattamento il tumore, che si è mantenuto attivo ma in forma
latente, ha avuto possibilità di svilupparsi e, nel corso degli anni, di dare origine a metastasi ossee che oggi ci
troviamo a dover trattare.
Classificazione morfologica delle metastasi ossee

1) OSTEOLITICHE (mammella, rene, polmone, tiroide, tratto GI)  determinano aumento di attività
degli osteoclasti e conseguente deficit circolatorio con distruzione e necrosi dell’osso.
Il Denosumab, anticorpo monoclonale anti RANKL, blocca l’attivazione osteoclastica e trova infatti
applicazione in pazienti con tale tipo di metastasi.

2) OSTEOBLASTICHE (prostata e mammella)  determinano sviluppo di tessuto osteoide immaturo


e reazione periostale con produzione di nuovo tessuto.

3) MISTE (mammella).

Diagnosi
Deriva dall’incrocio di:
- anamnesi e clinica,
- esami di laboratorio,
- esami strumentali.

Trattamento
È di competenza multidisciplinare, ovvero i diversi specialisti devono integrare le loro competenze e
collaborare al fine di guarire o comunque evitare conseguenze gravi per il paziente. Un tempo, ci viene
spiegato, il paziente oncologico veniva inviato in ortopedia solo nel momento in cui sviluppava fratture
patologiche da metastasi. Oggi tale evento, altamente drammatico, che rappresenta solo l’evento finale di un
processo di lunga durata, può essere opportunamente evitato tramite collaborazione tempestiva dei diversi
reparti.

Dalle slides:
 oncologo  chemioterapia e follow up,
 ortopedico  chirurgia della metastasi ossea,
 radiologo  angio-tac, embolizzazione, terapia con radioisotopi, termoablazione e FUS,
 radioterapista  radioterapia,
 chirurgo generale  chirurgia del tumore primitivo,
 anestesista  terapia del dolore.

Ruolo dell’ortopedico
 Valutare l’estensione delle lesioni,
 valutare tac e risonanze,
 fornire tipizzazione istologica,
 valutare l’urgenza e il rischio di frattura,
 trattare preventivamente il paziente,
 indirizzamento del paziente all’oncologo.
Le lesioni metastatiche non necessitano sempre di terapia chirurgica poiché la maggiorparte ripara anche
solo dopo terapia radiante o sistemica.

Visione di immagine di una vertebra francamente metastatica, con invasione di tutto il volume, che, dopo
nove mesi di trattamento radiante ormonale, mostra un’accentuata regressione delle metastasi.

Obiettivi del trattamento delle metastasi:


 controllo del dolore (le metastasi ossee sono molto dolorose!),
 mobilizzazione precoce del paziente,
 rapida ripresa di carico ed attività lavorativa,
 stabilizzazione di scheletro e prevenzione di fratture patologiche,
 mantenere o migliorare le capacità funzionali.
 deambulazione indipendente,
 facilitare le terapie complementari,
 chance curativa di lesioni solitarie  in letteratura sono sempre più numerosi i casi di trattamenti
aggressivi, con fini curativi, delle metastasi ossee.
(Oggi giorno una metastasi solitaria derivata da tumore primitivo, ad esempio mammario, curato
anni, se non decenni, fa, è considerabile e trattabile come tumore primitivo dell’osso, pertanto si è
giustificati nel resecare e protesizzare l’osso poiché la paziente ha reale possibilità di sopravvivere e
vivere ancora a lungo).

Protocolli di strategia terapeutica


(non è richiesta la loro conoscenza mnemonica)
Da notare solamente che chiunque non sia candidabile alla chirurgia non può che ricevere trattamento
palliativo.

Score di Mirel
Sistema di valutazione del rischio di frattura patologica, basato sull’attribuzione di un punteggio a ciascuno
dei seguenti parametri:

 sede della metastasi (arto superiore, arto inferiore, area peritrocanterica),


 grado di dolore (scarso, moderato, funzionale),
 quadro radiografico (addensante, misto, litico),
 diametro della lesione rispetto alla diafisi (meno di 1/3, tra 1/3 e 2/3, oltre i 2/3).

La lesione che supera i 7 punti è ad alto rischio di frattura patologica, e andrà quindi tempestivamente
stabilizzata e trattata. Sotto i sette punti sarà necessario solamente il monitoraggio.

Il trattamento ortopedico si compone di:

1. FISSAZIONE PROFILATTICA dell’osso


(divagazione sull’attuale utilizzo di chiodi al carbonio, che sono radiotrasparenti e permettono di
colpire tutto il tessuto osseo radiotrattato),
2. CHIRURGIA RADICALE  in caso di condizioni generali buone, metastasi unica od oligometastasi,
istotipo favorevole (ovvero rene, tiroide e mammella), intervallo libero superiore a 1 anno si può
resecare direttamente l’osso e protesizzarlo.

Conclusioni
E’ necessario, nel trattamento delle metastasi ossee, un approccio multidisciplinare e l’utilizzo di radio- e
chemioterapia, con lo scopo di preservare o migliorare la qualità di vita.

Dicevano i vecchi ortopedici: “guarire talvolta, curare spesso, alleviare sempre”

IPERPARATIROIDISMO

L’iperparatiroidismo è una patologia che deriva da una eccessiva attività delle ghiandole paratiroidee, con
conseguente aumento della secrezione del paratormone (PTH) e quindi della sua concentrazione ematica.
Ciò porta ad una alterazione del metabolismo di calcio e fosforo che si traduce in:
• Ipercalcemia
• Ipercalciuria
• Iperfosfaturia
• Ipofosfosforemia

Colpisce circa l’1% della popolazione adulta, principalmente donne tra i 20 e i 40 anni.
La causa più frequente di iperparatiroidismo è un adenoma delle paratiroidi, ma può anche essere dovuto a
iperplasia o, in rari casi (meno dell’1%), a carcinoma.

Eziopatogenesi
Questa patologia è dovuta ad un malfunzionamento delle ghiandole paratiroidee.
Si possono avere 3 forme:

1. Primario: deriva da cellule ipersecernenti. Può essere idiopatico (la maggior parte dei casi), oppure
associato a patologie ereditarie come MEN1 e MEN2a;
2. Secondario: è una conseguenza dell’ipocalcemia (è dovuto a patologie quali insufficienza renale
cronica, malassorbimento, osteomalacia, gravidanza, rachitismo). Si ha quindi una ipocalcemia che
porta ad una iperattività delle paratiroidi con conseguente aumento della produzione di
paratormone.
3. Terziario: è un iperparatiroidismo secondario che si svincola dalla causa che lo ha provocato.
Esempio può essere l’insufficienza renale cronica prolungata che causa ipocalcemia e quindi aumento
della produzione di paratormone (dovuto ad una iperplasia delle paratiroidi); se il paziente viene
sottoposto a trapianto o comunque se si risolve la causa dell’insufficienza renale cronica, rimane
l’iperplasia delle paratiroidi che continuano a produrre paratormone in eccesso anche se non c’è più
l’ipocalcemia.

L’azione principale del PTH è aumentare i livelli di calcio circolante (ormone ipercalcemizzante), tramite
aumento dell’attività degli osteoclasti, quindi a spese di una rarefazione dell’osso, richiamo di calcio dall’urina
e aumento dell’assorbimento intestinale dello ione. Il tessuto osseo che è stato riassorbito viene poi
sostituito da tessuto collagene lasso, quindi diminuisce la resistenza dell’osso. Questo causa una fibrosi
midollare (per la presenza di tessuto collagene).
In alcuni casi si può sviluppare un cosiddetto tumore bruno, n tessuto connettivo ricco di cellule giganti e
vasi, dove le cellule giganti sono appunto gli osteoclasti che riassorbono l’osso. Si caratterizza come patologia
similtumorale, ovvero con un aspetto sia macro- che microscopico caratteristico di neoplasia. L’unica
possibilità di diagnosticarlo correttamente è tener conto della presenza (nell’esempio clinico presentato) di un
adenoma paratiroideo, curando il quale la lesione regredisce. Questo entra infatti in diagnosi differenziale
con il tumore a cellule giganti che è un tumore benigno, ma localmente aggressivo, attualmente definito a
comportamento incerto, la cui unica differenza rispetto al tumore bruno è proprio il dosaggio del
paratormone sierico.
Per fare la diagnosi differenziale ci si basa quindi sul dosaggio del PTH perché per il resto l’istologia è
assolutamente identica.

Esami di laboratorio
Si osservano:
 Aumento PTH,
 Ipercalcemia,
 Ipofosforemia,
 Ipercalciuria (nonostante l’aumento del riassorbimento tubulare i livelli sierici sono così elevati da
non poter essere totalmente riassorbiti dal rene),
 Iperfosfaturia.

Clinica
BONES (a livello osseo)  dolore, deformità, tumefazioni, fratture patologiche.
STONES  nefrolitiasi.
GROANS  dolori crampiformi addominali, dispepsia, stipsi, pancreatite.
PSYCHIATRICS OVERSTONES  debolezza, depressione, affaticamento, difficoltà di concentrazione,
problemi di memoria.

Aspetti radiografici
Radiologicamente si vedono gli aspetti dell'osteoporosi generalizzata, i tumori bruni (i quali regrediscono
completamente una volta normalizzati i livelli di PTH) nei quali si vedono aree di osteolisi molto grandi che
possono simulare il tumore a cellule giganti, e una peculiare erosione delle corticali ossee che si definisce "a
merletto", soprattutto a livello delle falangi distali delle dita delle mani.
Tipico dell'iperparatiroidismo è il riassorbimento delle estremità acromiali della clavicola. Le erosioni a
merletto delle dita possono conferire un aspetto che assomiglia un po' alle dita a bacchetta di tamburo a
vetrino di orologio. I tumori bruni possono causare delle tumefazioni importanti. Alla radiografia sono visibili
anche delle perdite localizzate selettive di osso corticale, una sorta di osteite fibroso-cistica, una
condrocalcinosi con deposizione di calcio nei menischi, e la nefrolitiasi. È possibile vedere un effetto "a
nevicata" della diploe, l'erosione dell'estremità acromiale della clavicola, le erosioni a merletto delle falangi
distali delle dita, alterazioni a carico del bacino che possono determinare l'aspetto di "cuore di carta da
gioco", delle calcificazioni anche a livello degli ureteri oppure i fleboliti (calcificazione della parete dei vasi
venosi).
L’erosione tipica dell’osso corticale era un tempo (quando ancora non la si correlava con paratormone)
chiamata osteite fibrosa cistica ed era classificata come malattia a sé stante.

Diagnosi di certezza: solo individuando l’adenoma o l’iperplasia delle paratiroidi (biopsia o scintigrafia).
All’RX si possono quindi osservare:
o Osteolisi al terzo distale della clavicola;
o Cranio a sale e pepe (riassorbimento);
o Osteolisi delle falangi distali delle dita (dita a bacchetta di tamburo);
o Osteolisi con corticale assottigliata;
o Calcoli renali;
o Condrocalcinosi;

N.B. L’ippocratismo digitale (dita a bacchetta di tamburo con unghie a vetrino di orologio) si ritrova anche in:
 cardiopatie congenite (clubbing), generalmente con coinvolgimento del cuore destro, quindi del
circolo polmonare;
 BPCO con cuore polmonare cronico;
 morbo di Crohn.

Trattamento
Asportazione dell'adenoma o delle ghiandole iperplastiche. Se possibile si opera un intervento subtotale
lasciando in sede ¼ di una paratiroide per evitare la condizione di ipoparatiroidismo.

Si può effettuare una correzione delle deformità a livello osseo con dei tutori o più raramente delle
osteotomie o degli inchiodamenti.

GOTTA

È una malattia del metabolismo delle purine caratterizzata da iperuricemia e lesioni articolari conseguenti
alla localizzazione in tale sede dell’acido urico.

Eziopatogenesi
Patologia legata all’aumentata produzione di acido urico o ad una sua ridotta escrezione. Le cause principali
sono:
 aumentata produzione: dieta ricca di purine (carne e grassi), alcol, malattie ematiche e
mielolinfoproliferative (causa di emosiderosi),
 ridotta escrezione: insufficienza renale, diabete insipido nefrogenico, ipertensione arteriosa, farmaci
che riducono l’escrezione dell’acido urico.
L’acido urico in eccesso a livello ematico va a depositarsi sotto forma di cristalli di urato principalmente a
livello delle cartilagini articolari, delle membrane sinoviali, e dei tessuti periarticolari. Questa condizione
provoca una condizione infiammatoria.
Clinica articolata in 3 fasi:
1) Iperuricemia asintomatica: aumentata concentrazione di acido urico nel sangue senza
manifestazioni cliniche;
2) Fase acuta: artrite gottosa, dovuta ad una brusca variazione di concentrazione di acido urico nel
sangue, con conseguente aumentata produzione o dissoluzione dei cristalli di urato a livello delle
articolazioni; questo cambiamento fa sì che si sviluppi l’attacco acuto. Solitamente è monoarticolare.
Le articolazioni più frequentemente colpite sono la metatarso-falangea (primo dito del piede),
ginocchio, mano, polso; l’articolazione colpita appare edematosa, tesa, arrossata, calda, dolente
(segni dell’infiammazione acuta);
3) Gotta cronica. Caratterizzata dalla presenza dei tofi che sono degli accumuli di cristalli di urato
circondati da tessuto di granulazione. Si possono trovare a livello di derma, sottocute, tessuti
articolari e pararticolari e sono frequenti soprattutto a livello dei padiglioni auricolari, sull’olecrano,
ginocchia, piedi e mani.

Esiste poi la fase di cosiddetta gotta intercritica: periodo asintomatico tra i vari episodi di gotta acuta. La
durata del periodo intercritico è variabile, ma tende a diminuire nel tempo, aumentando la frequenza degli
attacchi acuti.

Trattamento
Il trattamento varia in base alla fase:

 Attacco acuto
o Colchicina (con cui si può diagnosticare gotta ex adiuvantibus),
o indometacina (inibizione della fagocitosi dei cristalli di urato),
o FANS,
o glucocorticoidi intra-articolari.

 Gotta intercritica e cronica  azione sui meccanismi che portano all’iperuricemia:


o dieta povera di purine (riduzione di carne, acciughe, formaggi, salumi, ecc.),
o allopurinolo (calo di produzione di urato),
o probenecid (aumento escrezione di urato).

N.B. Il paziente con gotta muore di insufficienza renale.

MORBO DI PAGET
Malattia del turn-over osseo, caratterizzata da aumentata attività osteoclastica e deposizione disordinata di
nuovo osso da parte degli osteoblasti  iper-attivazione dei processi di remodelling osseo con aumentata
attività osteoclastica e osteoblastica e deposizione disordinata di nuovo osso, che assume conformazioni
anormali e bizzarre. La malattia era un tempo nota come osteite deformante.
Può essere singola, multipla, diffusa o a mosaico (ossa vicine sono interessate da gradi diversi della malattia).
Può interessare anche solo il segmento di un osso e non l’osso intero (generalmente il tratto interessato si
presenta più voluminoso del controlaterale sano).

Epidemiologia
Il morbo di Paget interessa il 2% della popolazione, soprattutto intorno ai 40 anni; è più comune nei maschi e
in Europa e in America. La manifestazione principale è nel cranio dove si nota infatti un inspessimento dei
tavolati, della diploe, e un "aspetto a fitta nevicata" con una maggior demarcazione dei contorni e
iperossificazione delle ossa della base cranica.

Eziologia e caratteristiche clinico-laboratoristiche


La causa del Paget è sconosciuta ma sembra esserci una predisposizione genetica, associata ad infezioni da
virus lenti. Osteoclasti attivati determinano osteolisi segmentaria a livello dell’osso, aumento della
vascolarizzazione ossea (cosa appezzabile anche empiricamente in quanto la zona interessata da malattia è
più calda al tatto).

Nel morbo di Paget si riconoscono delle fasi:


 Precoce o distruttiva, in cui prevale il riassorbimento dell'osso “osteoclasto incontrollabile e
patologicamente attivo” con un'insufficiente formazione dello stesso, che risulta disorganizzato, e
presenza di tessuto fibroso lasso con ipervascolarizzazione.
 Tardiva o sclerotica, reattiva alla precedente, dove prevalgono i processi neoformativi con una
deposizione rapida e irregolare di tessuto osseo lamellare "a mosaico" e una maggior evidenza al
microscopio delle linee cementanti, che si osservano nelle lamelle. Quest’osso neoformato perde di
resistenza ed elasticità.
Il processo di neoformazione patologica dell’osso è costante e duratura nel tempo, tant’è che segno tipico
della patologia è quello cosiddetto “del cappello”, ovvero modifica costante di volume del cranio (che
costringe a cambiare continuamente taglia di cappello).

Caratteristicamente, a livello laboratoristico, c'è un aumento della fosfatasi alcalina e un aumento delle
idrossiproline urinarie. Clinicamente, il Paget può essere asintomatico, di riscontro casuale, oppure
sintomatico e causare dolore, deformità, tumefazioni soprattutto delle ossa facciali, fino a fratture
patologiche (il Paget monostotico è più frequentemente asintomatico rispetto al poliostotico).

Sedi più frequenti di malattia


Caratteristica tipica è interessamento dell’ileo, ovvero dell’emibacino, a fianco di un emibacino normale. La
vicinanza di ossa interessate dalla malattia e ossa sane si nota soprattutto a livello vertebrale: vertebre
interessate dal processo pagetico sono affiancate a vertebre completamente normali.
Altra caratteristica tipica è la deformità arcuata della tibia, correlata a microfratture progressive dell’osso.
Le sedi più colpite sono il bacino, il femore, il cranio, la tibia, la colonna lombosacrale: il cranio appare
ingrandito, il bacino allargato, gli arti inferiori "a parentesi", tibia “a sciabola” (cioè con una deformità in
varismo), bacino con forame ischiatico a cuore di carta da gioco, gli arti superiori sono più lunghi del tronco a
causa della cifosi importante, il rachide appare accorciato con vertebre:
 “a cornice” più frequentemente, la vertebra è ingrossata rispetto alle altre e presenta un
ispessimento del contorno 1
 eburnee, sclerotiche,
 “a farfalla”

Complicanze
Complicanze della patologia sono:
1
Entra in diagnosi differenziale con le metastasi da adenocarcinoma prostatico. La differenza è che nel morbo di
Paget la vertebra è nettamente ingrandita
 Nefrolitiasi,
 Fratture patologiche,
 Osteosarcoma secondario (ovvero è possibile che su osso pagetico possa svilupparsi sarcoma)  si
sviluppa soprattutto nella forma della malattia di Paget detta “prevalentemente litica”, che è più
distruttiva e grave, probabilmente a causa dell’aumentato turnover osseo.
L'osteosarcoma compare solo nell'1% dei casi, però in genere è più difficile da guarire rispetto
all'osteosarcoma primitivo, per due motivi:
- spesso è diagnosticato più tardivamente,
- pur trattandosi dello stesso tipo di tumore, la chemioterapia aggressiva è difficilmente sopportata
dopo i 40 anni, per cui è più difficile da rispettare un'ottimale dose-intensità; in questi casi, quindi, la
percentuale di guarigione è inferiore rispetto al 70% atteso.
La complicazione più frequente del Paget è però un'altra: lo scompenso cardiaco congestizio ad alta portata,
dovuto al fatto che nell'osso pagetico si aprono numerosi shunt arterovenosi, che nel Paget a sedi multiple e
soprattutto in quello osteolitico, diventano così importanti da causare un sovraccarico di lavoro per il cuore.
Si tratta di uno scompenso che si realizza in condizioni di aumento del precarico e del postcarico cardiaci.

Trattamento
 Nessuna terapia (solo osservazione) nei pazienti asintomatici;
 FANS, per il dolore e le complicanze flogistiche;
 Bisfosfonati  stimolano la deposizione di nuovo osso e ne contrastano il riassorbimento,
 Calcitonina  idem.

Se ci sono fratture patologiche bisogna evitare l'immobilizzazione con il gesso, che sembra favorire il
riassorbimento osseo, esasperando i normali meccanismi della malattia. È meglio quindi fare una sintesi della
frattura.

Viene lasciato allo studio personale (per curiosità) il piede torto congenito.

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