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12 Ortopedia 11/04/2022 Prof.

Catani Burani Ghelfi Chiarelli

CONTINUA LA LEZIONE SU L'ARTROSI DELL’ANCA


DIAGNOSI
Nella diagnosi è fondamentale eseguire la radiografia
antero-posteriore che deve coinvolgere l’articolazione
lombo-sacrale (le ultime 2-3 vertebre) e tutto il sacro
allineato alla sinfisi pubica.
L’aspetto determinante delle radiografie che
coinvolgono due articolazioni (soprattutto a livello
dell’anca, meno nel ginocchio) è la simmetria. Ci sono
dei parametri che ci aiutano a capire se la radiografia è
eseguita correttamente:
- distanza di almeno 2 cm tra l’ultima vertebra del
sacro e la sinfisi, non devono toccarsi
- i fori ischiatici devono essere uguali, così che la pelvi non sia ruotata medio-
lateralmente
- devo poter identificare il piccolo trocantere, che mi dice che l’arto inferiore è
ruotato correttamente.
La radiografia ci dà tantissime informazioni ed è l’elemento diagnostico principale, poi si
possono fare la TC, la RM, o altri esami.

TRATTAMENTO
1. conservativo con calo ponderale (difficile per i pazienti ultra 65enni), soprattutto
nei pazienti con carattere metabolico (diabete, ipertensione..) e evitando di
sollevare pesi o correre.
2. terapia fisica con esercizi mirati e l’uso del bastone.
Spesso c’è una ipomiotrofia, una riduzione del volume della coscia, associata
all’artrosi dell’anca. Questa non è dovuta solo all’immobilità, ma anche a fattori
neurologici: la propriocezione articolare segnala al cervello il dolore e questo
genera un riflesso negativo che inibisce inconsciamente l'attività muscolare. Il pz
artrosico anche se facesse tanta fisioterapia nonostante il dolore, non andrebbe
mai a recuperare un volume muscolare sufficiente.
3. terapia medica
4. terapia chirurgica

PROTESI

Endoprotesi: viene sostituito solo un capo


articolare
Artroprotesi: vengono coinvolti entrambi i capi (in
questo caso acetabolo e stelo)

Le componenti fondamentali sono:


- coppa dell’acetabolo (cotile)

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- stelo
- strutture che permettono il movimento (la
testina e l’inserto che si accoppia col
cotile e permette alla testina di ruotare)
Possono essere:
- a presa diretta con l’osso (80-90% delle
protesi d’anca), grazie alla capacità del
materiale di rivestimento della protesi di
essere inglobata nell’osso. Spesso
anche nella caviglia e nella spalla
- cementate (80-90% delle protesi al ginocchio, anche se pian piano si sta
ribaltando)
Le articolarità possono essere di varie tipologie:
- testina di metallo o ceramica
- inserto di polietilene, ceramica o metallo
Nell’anca le più usate, considerando l’importante rischio di usura e la formazione dei
detriti, dovute al movimento. Il metallo e la ceramica difficilmente si usurano, mentre il
polietilene lo fa frequentemente.
Le protesi metallo-metallo possono avere usura di tipo:
- macroscopica
- microscopica
- nanoparticellare (ioni di metallo che possono a volte creare pseudotumor,
reazioni locali che provocano alterazioni vascolari nervose e tissutali molto
pericolose)
Le protesi rivestite possono essere integrate nell’osso per la morfologia di questa
finitura. Normalmente le strutture sono di titanio o cromo-cobalto.
Sullo stelo ci può essere un rivestimento di idrossiapatite che favorisce l’accrescimento
osseo sulla superficie della protesi per fissare al meglio la protesi all'osso.

Nel caso del cemento lo strato di metil-acrilato va ad abbracciare lo stelo e lo fissa alla
cortico-spongiosa dell’osso (osso-cemento-protesi). Sono le prime che sono state
sviluppate e ancora oggi si usano negli anziani la cui qualità dell’osso è ridotta e la
fissazione risulta perciò migliore.

I tipi di protesi sono tanti:


- Protesi di rivestimento, riveste la testa
come un dente, col problema di avere
una superficie di scorrimento metallo-
metallo che ha generato reazione di ioni
metallo causando mobilizzazione della
protesi e problemi tissutali (pseudotumor)
- Protesi corta, mantenimento del collo
- Protesi convenzionale, collo resecato
alla base

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COMPLICANZE

PRECOCI
1. Una delle rare complicanze è quello della
lussazione, come nella spalla. Può succedere e
dipende dalla tecnica chirurgica e da come vengono
assemblate le componenti dell’artroprotesi. La stabilità
dipende dalla qualità dei tessuti muscolari e
dall’orientamento delle componenti. Ormai è ridotto con
la chirurgia robotica avanzata quasi allo 0.
2. Le complicanze di questa come di qualsiasi protesi sono le infezioni, sia
superficiali che profonde. Si calcola uno 0,3-0,4 % di rischio infettivo. Se entro le
prime 4-6 settimane sono sempre legate alla sala (nosocomiali), se tardive
invece sono ematogene.
3. L’ematoma, che è legato agli anticoagulanti ed è una evenienza che favorisce la
proliferazione delle infezioni, creando una spugna ematica che è perfetto terreno
di crescita batterica.
4. TVP e embolia polmonare legate a patologie di carattere venoso esacerbate
dell'immobilizzazione. Per evitarle è obbligatorio fare un controllo doppler pre-
operatorio per controllare eventuali patologie venose

TARDIVE
1. immobilizzazione
2. fratture periprotesiche, molto in aumento per l’età avanzata dei pazienti che
possono cadere causando frattura e mobilizzazione della protesi che spesso va
poi sostituita. Le cementate incorrono meno in fratture
3. calcificazioni periprotesiche

OSTEONECROSI
Una articolazione molto dolente e limitata
nei movimenti può andare incontro ad
algodistrofia da sovraccarico, idiopatica o
prodromica di una crisi vascolare che
porterà poi alla necrosi dell’osso.
L’alcol può causare osteonecrosi, prima
causa di protesi d’anca in Russia e Austria.
L’anemia falciforme e ipoglobinemia
favoriscono le micro occlusioni arteriose che
possono condurre all'osteonecrosi.
Altre cause sono una terapia cortisonica
prolungata, il lupus, lo stato settico, radio e
chemioterapia.

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Il sintomo principale è il dolore. (da slides)

Classificazione di Ficat:
I e II la componente di osteonecrosi è fissa, III si vede un’area di mancato contatto tra
area necrotica e osso sottostante, IV collasso, l’osteonecrosi fa perdere la sfericità della
testa.

Diagnosi
La radiografia è ancora il gold
standard ma in caso di dolore
prolungato con radiografia muta o
poco chiara, va fatta la RM.
Quando nell’immagine vedo nero
vuol dire che c’è un distacco, una
frammentazione tra l’osso normale
e quello osteonecrotico.
L’osso necrotico arriva ad essere
molto bianco perché infiammato.

Terapie
Sono efficaci i bifosfonati, la riduzione del carico, la magnetoterapia e i campi pulsati,
meno l’ozono.

L’evoluzione dipende da quanto è grande il focolaio osteonecrotico: se è piccolo evolve


in condizioni normali, che mantengono la sfericità della testa normale; se coinvolge più
del 20% della testa questo genera una artrosi soprattutto nella zona di carico.

MEDICINA RIGENERATIVA
Il dottor Giorgini affronta la MEDICINA RIGENERATIVA nel trattamento dell’artrosi
iniziale (0-1/2 gradi di Kellgren) prevalentemente nel ginocchio.

La medicina rigenerativa è una terapia che dà una restitutio ad integrum del tessuto, al
contrario delle medicina riparativa che va a trattare una lesione senza riportarla allo
stato precedente. In ortopedia si fa fatica a parlare di medicina rigenerativa perchè
tessuti come la cartilagine hanno potenziale condroblastico povero ed è difficilissimo
tornare allo stato di partenza.
Ne parliamo quindi tenendo presente che allo stato di conoscenza attuale non siamo in
grado di tornare esattamente come prima. Entrano però come protagoniste in questo
ambito le cellule mesenchimali.
Mesenchimale è un termine vago che riguarda le cellule che hanno un fattore di
multipotenza perché responsabili della generazione delle linee di condroblasti,
fibroblasti e osteoblasti e delle linee emopoietiche e linfopoietiche.
Le cellule mesenchimali sono definite MSC, Mesenchymal Staminal Cells (Kaplan
1991), perché si pensava avessero un potenziale staminale (errato, non possono

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generare qualsiasi cellula del corpo).
Il professor Dominici (International Society for Stem Cell Treatment) le hanno ridefinite
Cellule Mesenchimali Stromali, inserite nelle strutture di sostegno e comunicazione
dello stroma.
Nel 2013 Kaplan dà un’altra definizione: Medical Signaling Cells. Infatti se c’è una
lesione queste sono in grado di ridare vita alla struttura cartilaginea perchè sono periciti
aggrappati all'endotelio che possono essere attivate tramite chemiotassi e una volta
arrivate si attivano e cominciano a secernere fattori con diverse funzioni. Non sono loro
che rigenerano il tessuto in prima persona, ma migliorano l’omeostasi articolare e
deviano il processo patologico in sintesi del tessuto (anabolismo).

I vasi sono dappertutto e il pericita reagisce in modo diverso a seconda del tessuto in
cui è inserito, che sia muscolo, osso o altro. Lo stimolo è quindi recepito dalle cellule
residenti del tessuto che ripararono la lesione. C’è bisogno dell’ambiente che favorisca
la differenziazione in condroblasti e fibroblasti. Una cellula non sovrapposta a stimolo
meccanico giusto o adiacente a cellule parenti, non farà il suo corso e non si
differenzierà nel modo corretto. L’ambiente è fondamentale.

Parallelismo del prof sul genoma: siamo tutti diversi, ma abbiamo lo stesso genoma,
quello che conta è come comunicano i geni; dovremmo capire come intervenire sulla
comunicazione tra cellule per rigenerare i tessuti, andando a simulare questo signaling.

Le MSC hanno:
- funzione trofica per la
proliferazione cellulare e
neoangiogenesi (aumentano il
numero delle cellule blastiche
e la vascolarizzazione del
tessuto) in maniera regolata.
- effetto immunomodulatore e
antinfiammatorio
(l’articolazione artrosica ha importante infiammazione con segnali pro apoptotici
importanti, che vanno modulati per riportare la situazione a livello controllato)
- funzione antiapoptotica (spostano verso l’anabolismo)
- funzione antimicrobica (le MSC non vanno messe sopra una infezione, questa
non si risolverà; però modulano l’immunità per difendersi da eventuali infezioni).

Le MSC sono presenti in tutti i pazienti?


Sfatiamo un mito: le cellule mesenchimali non esistono solo nei pazienti giovani. Noi
abbiamo fatto tanti studi anche in collaborazione con Dominici e tante volte ci sorprendevamo di
trovare più mesenchimali in un paziente magari anche pluripatologico di 80 anni piuttosto che in
un ragazzo di 40 anni. Questo ci dice che l’età non è l’unico fattore che influisce. Tuttavia è
sicuramente più probabile vedere un numero maggiore e, soprattutto, una senescenza minore
di queste cellule nel paziente giovane.
Sappiamo che i blasti tendenzialmente hanno una forma sferica, mentre quando cominciano a
diventare senescenti le cellule tendono ad assumere una forma allungata: stellata o fusiforme.

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Da questo possiamo capire istologicamente la capacità differenziativa, che sarà quindi
maggiore nel giovane che ha cellule mesenchimali meno senescenti. C’è tuttavia una grande
variabilità inter-individuale e non possiamo dare niente per scontato.
Immaginiamo ad esempio un paziente trapiantato di rene che sia stato sottoposto a terapia
cortisonica prolungata, con conseguente importante modulazione anche del midollo osseo;
spesso i pazienti di questo tipo sono quelli che hanno meno cellule mesenchimali
(indipendentemente dall’età). In sostanza è importante ricordare che sono tante le variabili che
influiscono sulla quantità e qualità delle cellule mesenchimali.
Sorgenti MSC
Le prime cellule mesenchimali che vengono sfruttate in ortopedia sono quelle provenienti
dall’aspirato di midollo osseo. Le seconde sono le cellule del tessuto adiposo. Inoltre possiamo
trovare le MSC anche nel cordone ombelicale, nel sangue periferico, nel fluido sinoviale e nel
fluido amniotico. Su queste ultime sono stato fatti molti studi, ma si tratta di cellule di meno
immediata utilizzabilità.
Guardando i numeri della tabella a fianco possiamo vedere
che la concentrazione di CFU nel midollo osseo è da 100 a
600; mentre nel tessuto adiposo è da 2000 a 10'000. Oltre
che essere di più in termini numerici, le MSC del tessuto
adiposo sono anche le più frequenti a livello di quel CFU in
maniera esponenziale e per questa ragione stiamo
convergendo verso l’uso del tessuto adiposo come nostra
fonte primaria di cellule mesenchimali. Queste MSC non
sono tutte uguali, ma variano in termini di “comportamento”
a seconda della sorgente da cui vengono prese:
• le cellule mesenchimali derivate dal midollo ad
esempio, si è visto che in vitro1 sono più capaci di
ottenere cellule osteogeniche e condrogeniche (ma
hanno una minor concentrazione per mL);
• le cellule che vengono dal tessuto adiposo sono presenti in grande quantità, il prelievo è
poco invasivo e sono più concentrate oltre al fatto che sembra che le proprietà di queste
cellule mesenchimali siano meno influenzate dall’età e dalle comorbidità del paziente ri-
spetto a quelle provenienti dal midollo osseo. Questo probabilmente perché il midollo os-
seo, essendo il protagonista dell’immunità, subisce maggiormente l’influenza di diverse
patologie a differenza del tessuto adiposo.
In questa immagine il paziente è in posizione
supina (a pancia in su) e viene effettuato il prelievo
di cellule staminali da midollo osseo con questi
aghi posizionati all’interno della cresta iliaca; per la
precisione anteriormente, dove tecnicamente c’è
meno midollo perché la cresta iliaca è meno
spessa che posteriormente, ma dovendo operare
il paziente da supino, si raggiunge questo
compromesso considerando che girare un
paziente in queste condizioni richiederebbe circa
mezz’ora.

1 È tuttavia necessario ricordare che gli studi in vitro non necessariamente trovano riscontro in vivo. Quindi è vero che le BM-MSC
(=BoneMarrow-MSC) hanno maggiore capacità di differenziarsi in condroblasti e osteoblasti in vitro, ma in vivo le A-MSC
(=Adipose-MSC) potrebbero superare le potenzialità rigenerative delle BM-MSC in un danno articolare grazie alla loro capacità di
richiamare cellule per la rigenerazione ossea, vascolare, cartilaginea. (da slide)

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Si prelevano circa 100cc di midollo osseo, poi li si posiziona nella sacca che si
vede in figura (a sinistra), che ovviamente contiene dell’anticoagulante. Dalla
sacca, poi, si aspira con una siringa il midollo osseo e lo si mette in centrifuga.Il
risultato è che si riesce ad ottenere diversi strati di cellule:
• Il più chiaro in alto contiene delle cellule
che non ci interessano e dei detriti;
• Quello più scuro e profondo, invece,
contiene quasi solo le cellule monociti-
che e quelle ematopoietiche.
L’altra fonte di MSC è il tessuto adiposo. Nella
foto a sinistra si può vedere che prima bisogna
fare un’infiltrazione di tanto liquido quanto è il grasso che si intende prelevare.
La soluzione che viene utilizzata per l’infusione si chiama soluzione di Klein e sostanzialmente
ha una componente di soluzione salina unita ad adrenalina per andare a determinare una
vasocostrizione (e lidocaina, un anestetico locale). Quando si ha a che fare con il grasso è
importante fare attenzione alla possibilità di creare emboli grassosi.
Una volta fatta questa infiltrazione si procede
all’aspirazione con una cannula sottovuoto che consiste
in cira 60cc di grasso, quindi un prelievo di una quantità
molto moderata che è possibile fare praticamente in tutti
gli individui (ad esclusione di chi è fortemente sottopeso).
Attraverso un processo meccanico il tessuto adiposo
prelevato viene poi “micronizzato” e “attivato”, al fine di
eliminare i residui oleosi del grasso. Il metodo per
ottenere ciò è puramente meccanico (non chimico) e
sfrutta un dispositivo con delle “biglie” metalliche che
sono in grado di frammentare e lavare il tessuto fino
appunto a micronizzarlo e lasciarlo scevro da detriti
(passaggi illustrati nell’immagine a fianco).
Alla fine di questo processo si ottiene una nicchia
vasculo-stromale che racchiude cellule staminali
mesenchimali e periciti. Questa “nicchia vasculo-
stromale” è sostanzialmente un’architettura non solida
ma di un liquido abbastanza viscoso che è in grado di
tenere in vita le cellule mesenchimali anche in un
contesto in cui “c’entrano poco” come può essere
un’articolazione. Dagli studi fatti sempre con Dominici
abbiamo visto come queste cellule sono in grado di continuare a lavorare per circa 10 giorni dopo
il loro inserimento; cosa che appunto non potrebbero fare senza la loro nicchia vasculo-stromale
(probabilmente non durerebbero più di poche ore).
Il lipoaspirato micronizzato che è il prodotto di questo prelievo e lavorazione del tessuto adiposo,
grazie alla componente stromale significativa, può essere utilizzato come “filler biodinamico”,
molto utilizzato anche in chirurgia plastica perché è un tessuto molto vitale che ha anche una sua
consistenza e può anche riempire delle ulcere ad
esempio, dando una guarigione della lesione che
diversamente non sarebbe stata possibile. Oltre a
ciò è capace di assistere la riparazione della
cartilagine danneggiata attraverso tre principali
meccanismi d’azione:
1) Preservazione delle proprietà biomeccani-
che dello spazio articolare;
2) Rilascio di fattori trofici bioattivi;
3) Ripristino del pool di progenitori condroge-
nici residenti nei cuscinetti adiposi articolari.

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In figura vediamo una pseudoartrosi, ovvero una frattura che non ripara perché il tessuto osseo
locale non riesce a rigenerarsi. In un caso come questo le cellule mesenchimali possono dare
una mano al tessuto osseo locale; tuttavia un processo infettivo
può essere una grossa limitazione anche con l’uso di cellule
mesenchimali (come dicevamo prima). Queste tecniche
permettono di far riformare pian piano il periostio anche attorno alla
frattura: anche se dentro è vuoto ci si mette del cemento, sopra a
questo si riforma il periostio, dopodiché si fa un’incisione nel
periostio, si toglie il cemento, si mette dentro del tessuto osseo
unito a queste cellule MSC. Possiamo unire anche delle proteine
dette “Bone Morfogenetic Proteins”, di cui BMP7 (da leggere come
“BMP seven”) è la più utilizzata, che hanno un ruolo di forte stimolazione verso la linea
osteogenica.
Abbiamo visto prima anche l’osteonecrosi, patologia che abbiamo iniziato a trattare ormai da 10
anni in questo modo con risultati soddisfacenti in un 80% dei casi. Risulta molto importante il
timing di intervento: se si aspetta che l’osteonecrosi sia già in uno stadio 2B o 3 in cui l’osso
corticale /subcondrale ha già delle fratture con perdita di sfericità della testa, è impossibile tornare
indietro.
Bisogna quindi arrivare prima, pulire la lesione, mettere questi fattori trofici e queste cellule
mesenchimali che idealmente vanno a ridurre l’area di necrosi per provare ad arrestare la
patologia.
Un’applicazione più recente delle cellule mesenchimali da tessuto adiposo è anche nelle
situazioni di artrosi non molto precoci. Chiaramente anche questi trattamenti non fanno miracoli;
non ci si può aspettare in una signora di 90 anni con un ginocchio distrutto di metterci le cellule
mesenchimali e risolvere così il problema! Si tratta innanzitutto di risolvere la causa dell’artrosi.
Ad esempio in caso di ginocchio varo con artrosi mediale se si vanno a mettere le cellule
mesenchimali e basta, lo stimolo meccanico continuerà ad esserci e a rovinare l’articolazione.
Bisogna quindi prima correggere il varismo, valgizzando la tibia per togliere il carico su quel
compartimento; dopodiché si mettono le cellule mesenchimali che aiutano a bloccare la patologia
e cercare di fermare il processo catabolico che ne è alla base.
Abbiamo visto anche che, il tessuto adiposo utilizzato in artroscopia insieme magari a un
debriedment (ovvero una pulizia) di un menisco o di un osteofita (quindi correggendo anche altri
fattori meccanici), porta a
risultati molto migliori che
l’artroscopia da sola.
In questa RM (immagine
sopra) si vede una lesione di
colore bianco dell’astragalo dal
lato malleolo-tibiale. Spesso in
questi casi si ha associata
anche una lesione della
cartilagine, quindi piuttosto che
andare solo a sostituire la
necrosi bisognerebbe anche fare una pulizia della cartilagine e pulire anche l’osso. In questi casi,
piuttosto che il tessuto adiposo, utilizziamo uno scaffold. Immaginiamo un pezzo di fazzoletto che
viene ritagliato secondo la forma della lesione, poi vengono caricate le MSC
derivate dal midollo osseo concentrato su questo scaffold e viene appoggiato
in maniera stabile nella sede della lesione; si possono anche dare dei punti se
il difetto non è contenuto, oppure si mette la colla di fibrina e sta in posizione.

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Lesioni cartilaginee: OSTEOCONDRITE


DISSECANTE
Abbiamo tanti studi in letteratura che parlano di risultati
soddisfacenti per la riparazione cartilaginea. Anche in questo
ambito le modalità con cui vengono utilizzate le MSC sono
molte:
Innanzitutto, un grande distinguo che si può fare è tra cellule
mesenchimali espanse in coltura e cellule mesenchimali
non espanse. Attualmente per l’uso ortopedico l’espansione
in coltura è giustificata solo per i condrociti (tecnica che ha
ormai 30 anni); mentre le mesenchimali in coltura ancora non
sono utilizzabili per una questione regolatoria.
Oppure abbiamo MSC associate a scaffold o anche MSC
iniettate in circolo o dentro l’articolazione.
Da un punto di vista istologico un difetto è detto condrale quando riguarda solo la cartilagine e
osteocondrale quando riguarda anche l’osso subcondrale che è fondamentale in quanto
sostiene la vitalità della cartilagine. Una patologia che può interessare questo tessuto è
l’osteocondrite dissecante, ovvero una lesione dell’osso subcondrale che non sempre
coinvolge la cartilagine soprastante. Ha un’incidenza piuttosto elevata soprattutto negli
adolescenti tra gli 8 e i 12 anni. L’eziologia è sconosciuta, ma si pensa ci sia una problematica
vascolare all’origine e ci sono tantissime classificazioni per questa patologia.
Questa riportata è la classificazione artroscopica OCD IRCS, ma quella più famosa che vedremo
dopo è quella di Outerbridge (da
ricordare).
Sostanzialmente tutte le classificazioni
prevedono 4 gradi a seconda di quanto è
lesionata la cartilagine.
Nell’immagine a fianco abbiamo una
osteocondrite dissecante in un condilo
laterale del femore. Può avvenire a
ginocchio flesso per un trauma diretto o
per via dell’usura (a quel punto non si parla
più di lesione ma di patologia degenerativa).

La classificazione di Outerbridge è una classificazione


artroscopica che prevede:
1) Solo un rammollimento della cartilagine;
2) Una fibrillazione della cartilagine (si vede il tessuto
“sfibrillato”);
3) Lesione vera e propria dove non si vede l’osso sot-
tostante;
4) Si vede anche l’osso sottostante alla lesione cartila-
ginea.
Clinicamente possiamo immaginare un
ragazzino, spesso anche sportivo, con un
dolore che peggiora al carico. Ci può anche
essere un ginocchio un po’
“impastato”/gonfio/rigido e si possono anche
sentire dei crepitii in caso ci siano corpi mobili
perché a volte la cartilagine si stacca e può
causare perfino blocchi articolari (impossibilità

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di piegare il ginocchio). All’esame obiettivo vedremo:
• versamento articolare (non sempre presente);
• Solitamente completa articolarità, ad eccezione dei blocchi articolari;
• Zoppia antalgica di fuga;
• Ginocchio stabile, instabile solo se lesioni ligamentose associate.
Un concetto molto importante è che, in una lesione cartilaginea senza esposizione dell’osso
subcondrale, il dolore può non esserci oppue arriva eventualmente dalla sinovia, perché la
cartilagine non è innervata, ma frammenti di cartilagine che si distaccano possono causare
un’artrosinovite. In alcuni casi, tuttavia si può non avere dolore finché non si arriva all’esposizione
dell’osso e quindi a fasi di patologia avanzate perché le lesioni della cartilagine in sé non danno
alcun tipo di manifestazione dolorosa.
Una volta che si ha il sospetto clinico di osteocondrite dissecante, si passa all’imaging perché la
diagnosi non è mai solo clinica. Di solito viene utilizzata la risonanza magnetica in quanto una
radiografia effettuata in stadi precoci difficilmente segnala un’alterazione.

Possiamo vedere nelle immagini di risonanza


magnetica a fianco un esempio di osteocondrite che
riguarda una grossa parte del condilo. Più a sinistra
abbiamo una proiezione laterale, centralmente e a
destra invece la proiezione è frontale; con la
differenza che l’immagine a dx è pesata in T1.

TRATTAMENTO DELL’OSTEOCONDRITE:
Ci sono diverse tecniche di trattamento:
1) Tecniche riparative (non c’entrano niente con le MSC) che stimolano la formazione di
fibrocartilagine
a. Microfratture
b. Drilling
c. Debridement cartilagineo
2) Autotrapianti o allotrapianti (da donatore cadavere) dell’unità osteocondrale
a. Mosaicoplastica
b. Allograft
3) Tecniche rigenerative che stimolano la rigenerazione della cartilagine
a. Trapianto autologo di condrociti (ACI)
b. Matrix-assisted Autologous Chondrocyte Implantation (MACI)
c. BM-MSC + scaffold

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MICROFRATTURE: consistono nell’andare con una specie di courette in artroscopia a rimuovere
tutta la cartilagine che è instabile, definendo dei margini stabili e regolari. Poi con un ago si va a
perforare l’osso subcondrale per una profondità di 3-4 mm, creando delle microfratture per
cercare la fuoriuscita dei fattori di crescita presenti nel midollo osseo all’interno dell’articolazione
(ingresso in articolazione di cellule riparative). Si forma così un “clot” che va a riempire la lesione.
Questa tecnica può essere utilizzata quando si ha una superficie di 2x2 cm al massimo, non si
può utilizzare per difetti ampi. Si ottiene un buon risultato fibrocartilagineo, ma non ritorna la
cartilagine come la conosciamo; la fibrocartilagine infatti è più dura e meno elastica ma fa il suo
dovere per lo
meno a breve
termine... A
lungo termine
rimane un punto
interrogativo.

1b) Tecniche
riparative →
DRILLING: nel
drilling la tecnica
è simile a quella
delle
microfratture ma
non si ha la
reazione
sclerotica
dell’osso che si
va a rompere
(non vi sono
fratture nell’osso
subcondrale che possono portare a sclerosi). L’osso
subcondrale si perfora a bassa velocità (per ridurre il
riscaldamento dei tessuti) con un filo di Kirschner o
una punta di trapano massimo di 1 mm. Non si è
riusciti a dimostrare una superiorità rispetto alle
microfratture.

MOSAICOPLASTICA: la mosaicoplastica o
autograft/autotrapianto consiste nel prendere dei
cilindretti di cartilagine da una zona periferica (di
solito la parte periferica della troclea) per poi
impiantarli all’interno della lesione dopo aver
adeguatamente preparato il sito di lesione.
Chiaramente non si hanno a disposizione grandi
quantità di tessuto trapiantabile per cui la
mosaicoplastica può essere utilizzata per difetti contenuti (fino a 8cm2). Questa tecnica lascia un
po’ di dolore a livello del sito di prelievo e si definisce una “tecnica one-step”, che vuol dire che si
fa tutto in un’unica seduta operatoria. Si hanno dei buoni risultati ma è tecnicamente difficile da
eseguire e oggi viene utilizzata molto poco.
ALLOGRAFT: (sulla sx le immagine in ordine dall’alto al
basso seguono gli step) è il trapianto che viene utilizzato
di più perché può essere utilizzato anche nei difetti molto
ampi. È sempre una procedura one-step e ha degli ottimi
risultati a lungo termine. Il solo limite è che è una tecnica
costosa e soprattutto necessita di tessuto “fresh-frozen”,
ovvero che sia stato espiantato non più di 21 giorni prima.

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Considerando che i pazienti con osteocondrite sono di solito
giovani, questo vuol dire che bisogna avere un donatore
giovane deceduto entro 21 giorni dall’operazione di impianto
che non è così facile, c’è poca disponibilità.

(Step1) La lesione viene esposta e si disegnano i contorni di


quella che si pensa essere la cartilagine stabile e con una
courette si rimuove il tessuto malato. (Step2) Si definisce la
dimensione dell’impianto che si vuole andare a fare e si riporta
sul ginocchio da donatore lo stampo. (Step3) Si usa quel
“blocchetto” che fa da lama per tagliare esattamente l’ovale di
cui si ha bisogno. (Step4 e 5) Si guarda la profondità del taglio
e la curvatura. (Step6) Si ridefinisce la lesione nel sito di
impianto. (Step7) Si riposiziona il tassello e lo si isola con la
colla di fibrina. La croce che possiamo vedere disegnata sul
tassello di condilo da donatore (figura 7) serve per ricollocarlo
nella posizione giusta essendo che è asimmetrico.
TRAPIANTO AUTOLOGO DI CONDROCITI (ACI): è una
tecnica storica, la prima inventata e utilizzata circa nel ’92 in
Svezia. Si tratta di una tecnica a 2 step perché prevede
un primo intervento in cui si preleva un pezzo di
cartilagine che viene poi tagliuzzata (minced) e messa
sul terreno di coltura. Dopo 3 settimane si ottiene così
un tessuto di maggiori dimensioni che, tornando in sala
operatoria, può essere reimpiantato. Non trattandosi di
una struttura meccanicamente solida sopra al
reimpianto serve mettere un flap di periostio che fa da
chiusura. I risultati con questa tecnica si è visto che
erano migliori che con altre usate in precedenza, ma i
limiti sono che si tratta di un intervento molto costoso e
quella che si ottiene è una fibrocartilagine. Inoltre si possono avere molte complicanze come
l’ipertrofia del gettone o addirittura la formazione di un corpo mobile dal gettone ipertrofico di
cartilagine.
MATRIX-ASSISTED AUTOLOGOUS CHONDROCYTE
IMPLANTATION: preso atto dei limiti dell’ACI si è passati a
dare una stabilità meccanica ai condrociti autologhi
impiantandoli su una matrice. Di queste matrici ne esistono
tante, quella che utilizziamo di più è sostanzialmente una
membrana di acido ialuronico. Esistono anche scaffold
bifasici, ovvero che
hanno sia la parte di
acido ialuronico della
cartilagine che quella di
collagene che mima l’osso. È
sempre una procedura a 2
tempi operatori perché
bisogna prelevare i condrociti
prima e reimpiantarli poi. Ha
dato risultati migliori dell’ACI.

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12 Ortopedia 11/04/2022 Prof. Catani Burani Ghelfi Chiarelli
ACI di III generazione: Esistono poi i MACI o ACI di terza
generazione (CARTISEM è stato autorizzato non prima di questo
mese nonostante fosse in studio da tanto tempo). Si tratta
sostanzialmente di uno scaffold che contiene in sé delle cellule
allogeniche espanse ex vivo. Non trattandosi di cellule autogeniche
ci consente di fare una procedura one step.

In figura è mostrato uno scaffold trifasico con uno strato


condrale, uno strato di “tide-mark” ovvero la zona di
giunzione e uno strato di osseo. Ovviamente i vari strati
differiscono per la concentrazione di acido ialuronico e
collagene.
BM-MSC + Scaffold: La tecnica che abbiamo sempre usato
con un buon successo sono le cellule mesenchimali da midollo osseo associate ad uno
scaffold. Si tratta di una procedura one-step, in quanto nella stessa seduta chirurgica si
prelevano le cellule da midollo, le si concentra con la centrifuga (direttamente in sala
operatoria), si prende lo scaffold, vi si mettono sopra le cellule e quindi si impianta il complesso
con punti o usando la colla di fibrina. Quelli che si ottengono in questo modo sono dei buoni
risultati anche dal punto di vista dell’istologia, in quanto non si ottiene una vera e propria
cartilagine ialina ma una situazione definita “cartilagine semiialina”. I risultati positivi si
confermano anche a 2 e a 4 anni.

Vediamo sulla sinistra lo scaffold/ la membrana


che viene caricata con il midollo osseo
concentrato.
Nella sede di inserzione dello scaffold + BM-
MSC si fanno anche microfratture nell’osso per
garantire l’apporto dal midollo dei fattori di
crescita.

ALGORITMO PER IL TRATTAMENTO DEI DIFETTI


CARTILAGINEI
Volendo definire un algoritmo di trattamento per i difetti
cartilagnei, possiamo dire che:
• In caso di lesioni di grado 1 e 2 solitamente si tenta
una terapia conservativa.
• In un grado 3 e 4, quindi una lesione di più del 50%
della cartilagine o addirittura di tutta la cartilagine, se
è meno di 2 cm2 si possono semplicemente fare le microfratture o in alcuni rari casi le
MSC + scaffold. Se invece la lesione è maggiore di 2 cm2 non ci si può più affidare alle mi-
crofratture ma bisogna affidarsi a tecniche un po’ più avanzate quali MACI, ACI o
MSC+Scaffold.
• In caso di lesione osteocondrale invece si possono utilizzare degli allograft, delle mosaico-
plastiche; oppure degli scaffold trifasici che comprendono anche la porzione ossea asso-
ciata alle MSC. Quando il difetto osteocondrale supera i 2 cm2, fino a 6-7cm2 si può usare
ancora la mosaicoplastica (in figura dice <4cm2), se no bisogna usare un allograft.
MSC inibite da liquido sinoviale artrosico
Il liquido sinoviale artrosico è quello che le cellule MSC devono andare a “combattere”, ma si è
visto che non è una sfida vinta a priori in quanto le cellule mesenchimali, nel liquido artrosico,
vengono inibite e quindi lavorano peggio. Questo a sottolineare quanto è difficile trovare il
giusto equilibrio tra l’uno e l’altro.

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