TRATTAMENTO
1. conservativo con calo ponderale (difficile per i pazienti ultra 65enni), soprattutto
nei pazienti con carattere metabolico (diabete, ipertensione..) e evitando di
sollevare pesi o correre.
2. terapia fisica con esercizi mirati e l’uso del bastone.
Spesso c’è una ipomiotrofia, una riduzione del volume della coscia, associata
all’artrosi dell’anca. Questa non è dovuta solo all’immobilità, ma anche a fattori
neurologici: la propriocezione articolare segnala al cervello il dolore e questo
genera un riflesso negativo che inibisce inconsciamente l'attività muscolare. Il pz
artrosico anche se facesse tanta fisioterapia nonostante il dolore, non andrebbe
mai a recuperare un volume muscolare sufficiente.
3. terapia medica
4. terapia chirurgica
PROTESI
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- stelo
- strutture che permettono il movimento (la
testina e l’inserto che si accoppia col
cotile e permette alla testina di ruotare)
Possono essere:
- a presa diretta con l’osso (80-90% delle
protesi d’anca), grazie alla capacità del
materiale di rivestimento della protesi di
essere inglobata nell’osso. Spesso
anche nella caviglia e nella spalla
- cementate (80-90% delle protesi al ginocchio, anche se pian piano si sta
ribaltando)
Le articolarità possono essere di varie tipologie:
- testina di metallo o ceramica
- inserto di polietilene, ceramica o metallo
Nell’anca le più usate, considerando l’importante rischio di usura e la formazione dei
detriti, dovute al movimento. Il metallo e la ceramica difficilmente si usurano, mentre il
polietilene lo fa frequentemente.
Le protesi metallo-metallo possono avere usura di tipo:
- macroscopica
- microscopica
- nanoparticellare (ioni di metallo che possono a volte creare pseudotumor,
reazioni locali che provocano alterazioni vascolari nervose e tissutali molto
pericolose)
Le protesi rivestite possono essere integrate nell’osso per la morfologia di questa
finitura. Normalmente le strutture sono di titanio o cromo-cobalto.
Sullo stelo ci può essere un rivestimento di idrossiapatite che favorisce l’accrescimento
osseo sulla superficie della protesi per fissare al meglio la protesi all'osso.
Nel caso del cemento lo strato di metil-acrilato va ad abbracciare lo stelo e lo fissa alla
cortico-spongiosa dell’osso (osso-cemento-protesi). Sono le prime che sono state
sviluppate e ancora oggi si usano negli anziani la cui qualità dell’osso è ridotta e la
fissazione risulta perciò migliore.
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COMPLICANZE
PRECOCI
1. Una delle rare complicanze è quello della
lussazione, come nella spalla. Può succedere e
dipende dalla tecnica chirurgica e da come vengono
assemblate le componenti dell’artroprotesi. La stabilità
dipende dalla qualità dei tessuti muscolari e
dall’orientamento delle componenti. Ormai è ridotto con
la chirurgia robotica avanzata quasi allo 0.
2. Le complicanze di questa come di qualsiasi protesi sono le infezioni, sia
superficiali che profonde. Si calcola uno 0,3-0,4 % di rischio infettivo. Se entro le
prime 4-6 settimane sono sempre legate alla sala (nosocomiali), se tardive
invece sono ematogene.
3. L’ematoma, che è legato agli anticoagulanti ed è una evenienza che favorisce la
proliferazione delle infezioni, creando una spugna ematica che è perfetto terreno
di crescita batterica.
4. TVP e embolia polmonare legate a patologie di carattere venoso esacerbate
dell'immobilizzazione. Per evitarle è obbligatorio fare un controllo doppler pre-
operatorio per controllare eventuali patologie venose
TARDIVE
1. immobilizzazione
2. fratture periprotesiche, molto in aumento per l’età avanzata dei pazienti che
possono cadere causando frattura e mobilizzazione della protesi che spesso va
poi sostituita. Le cementate incorrono meno in fratture
3. calcificazioni periprotesiche
OSTEONECROSI
Una articolazione molto dolente e limitata
nei movimenti può andare incontro ad
algodistrofia da sovraccarico, idiopatica o
prodromica di una crisi vascolare che
porterà poi alla necrosi dell’osso.
L’alcol può causare osteonecrosi, prima
causa di protesi d’anca in Russia e Austria.
L’anemia falciforme e ipoglobinemia
favoriscono le micro occlusioni arteriose che
possono condurre all'osteonecrosi.
Altre cause sono una terapia cortisonica
prolungata, il lupus, lo stato settico, radio e
chemioterapia.
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Il sintomo principale è il dolore. (da slides)
Classificazione di Ficat:
I e II la componente di osteonecrosi è fissa, III si vede un’area di mancato contatto tra
area necrotica e osso sottostante, IV collasso, l’osteonecrosi fa perdere la sfericità della
testa.
Diagnosi
La radiografia è ancora il gold
standard ma in caso di dolore
prolungato con radiografia muta o
poco chiara, va fatta la RM.
Quando nell’immagine vedo nero
vuol dire che c’è un distacco, una
frammentazione tra l’osso normale
e quello osteonecrotico.
L’osso necrotico arriva ad essere
molto bianco perché infiammato.
Terapie
Sono efficaci i bifosfonati, la riduzione del carico, la magnetoterapia e i campi pulsati,
meno l’ozono.
MEDICINA RIGENERATIVA
Il dottor Giorgini affronta la MEDICINA RIGENERATIVA nel trattamento dell’artrosi
iniziale (0-1/2 gradi di Kellgren) prevalentemente nel ginocchio.
La medicina rigenerativa è una terapia che dà una restitutio ad integrum del tessuto, al
contrario delle medicina riparativa che va a trattare una lesione senza riportarla allo
stato precedente. In ortopedia si fa fatica a parlare di medicina rigenerativa perchè
tessuti come la cartilagine hanno potenziale condroblastico povero ed è difficilissimo
tornare allo stato di partenza.
Ne parliamo quindi tenendo presente che allo stato di conoscenza attuale non siamo in
grado di tornare esattamente come prima. Entrano però come protagoniste in questo
ambito le cellule mesenchimali.
Mesenchimale è un termine vago che riguarda le cellule che hanno un fattore di
multipotenza perché responsabili della generazione delle linee di condroblasti,
fibroblasti e osteoblasti e delle linee emopoietiche e linfopoietiche.
Le cellule mesenchimali sono definite MSC, Mesenchymal Staminal Cells (Kaplan
1991), perché si pensava avessero un potenziale staminale (errato, non possono
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generare qualsiasi cellula del corpo).
Il professor Dominici (International Society for Stem Cell Treatment) le hanno ridefinite
Cellule Mesenchimali Stromali, inserite nelle strutture di sostegno e comunicazione
dello stroma.
Nel 2013 Kaplan dà un’altra definizione: Medical Signaling Cells. Infatti se c’è una
lesione queste sono in grado di ridare vita alla struttura cartilaginea perchè sono periciti
aggrappati all'endotelio che possono essere attivate tramite chemiotassi e una volta
arrivate si attivano e cominciano a secernere fattori con diverse funzioni. Non sono loro
che rigenerano il tessuto in prima persona, ma migliorano l’omeostasi articolare e
deviano il processo patologico in sintesi del tessuto (anabolismo).
I vasi sono dappertutto e il pericita reagisce in modo diverso a seconda del tessuto in
cui è inserito, che sia muscolo, osso o altro. Lo stimolo è quindi recepito dalle cellule
residenti del tessuto che ripararono la lesione. C’è bisogno dell’ambiente che favorisca
la differenziazione in condroblasti e fibroblasti. Una cellula non sovrapposta a stimolo
meccanico giusto o adiacente a cellule parenti, non farà il suo corso e non si
differenzierà nel modo corretto. L’ambiente è fondamentale.
Parallelismo del prof sul genoma: siamo tutti diversi, ma abbiamo lo stesso genoma,
quello che conta è come comunicano i geni; dovremmo capire come intervenire sulla
comunicazione tra cellule per rigenerare i tessuti, andando a simulare questo signaling.
Le MSC hanno:
- funzione trofica per la
proliferazione cellulare e
neoangiogenesi (aumentano il
numero delle cellule blastiche
e la vascolarizzazione del
tessuto) in maniera regolata.
- effetto immunomodulatore e
antinfiammatorio
(l’articolazione artrosica ha importante infiammazione con segnali pro apoptotici
importanti, che vanno modulati per riportare la situazione a livello controllato)
- funzione antiapoptotica (spostano verso l’anabolismo)
- funzione antimicrobica (le MSC non vanno messe sopra una infezione, questa
non si risolverà; però modulano l’immunità per difendersi da eventuali infezioni).
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Da questo possiamo capire istologicamente la capacità differenziativa, che sarà quindi
maggiore nel giovane che ha cellule mesenchimali meno senescenti. C’è tuttavia una grande
variabilità inter-individuale e non possiamo dare niente per scontato.
Immaginiamo ad esempio un paziente trapiantato di rene che sia stato sottoposto a terapia
cortisonica prolungata, con conseguente importante modulazione anche del midollo osseo;
spesso i pazienti di questo tipo sono quelli che hanno meno cellule mesenchimali
(indipendentemente dall’età). In sostanza è importante ricordare che sono tante le variabili che
influiscono sulla quantità e qualità delle cellule mesenchimali.
Sorgenti MSC
Le prime cellule mesenchimali che vengono sfruttate in ortopedia sono quelle provenienti
dall’aspirato di midollo osseo. Le seconde sono le cellule del tessuto adiposo. Inoltre possiamo
trovare le MSC anche nel cordone ombelicale, nel sangue periferico, nel fluido sinoviale e nel
fluido amniotico. Su queste ultime sono stato fatti molti studi, ma si tratta di cellule di meno
immediata utilizzabilità.
Guardando i numeri della tabella a fianco possiamo vedere
che la concentrazione di CFU nel midollo osseo è da 100 a
600; mentre nel tessuto adiposo è da 2000 a 10'000. Oltre
che essere di più in termini numerici, le MSC del tessuto
adiposo sono anche le più frequenti a livello di quel CFU in
maniera esponenziale e per questa ragione stiamo
convergendo verso l’uso del tessuto adiposo come nostra
fonte primaria di cellule mesenchimali. Queste MSC non
sono tutte uguali, ma variano in termini di “comportamento”
a seconda della sorgente da cui vengono prese:
• le cellule mesenchimali derivate dal midollo ad
esempio, si è visto che in vitro1 sono più capaci di
ottenere cellule osteogeniche e condrogeniche (ma
hanno una minor concentrazione per mL);
• le cellule che vengono dal tessuto adiposo sono presenti in grande quantità, il prelievo è
poco invasivo e sono più concentrate oltre al fatto che sembra che le proprietà di queste
cellule mesenchimali siano meno influenzate dall’età e dalle comorbidità del paziente ri-
spetto a quelle provenienti dal midollo osseo. Questo probabilmente perché il midollo os-
seo, essendo il protagonista dell’immunità, subisce maggiormente l’influenza di diverse
patologie a differenza del tessuto adiposo.
In questa immagine il paziente è in posizione
supina (a pancia in su) e viene effettuato il prelievo
di cellule staminali da midollo osseo con questi
aghi posizionati all’interno della cresta iliaca; per la
precisione anteriormente, dove tecnicamente c’è
meno midollo perché la cresta iliaca è meno
spessa che posteriormente, ma dovendo operare
il paziente da supino, si raggiunge questo
compromesso considerando che girare un
paziente in queste condizioni richiederebbe circa
mezz’ora.
1 È tuttavia necessario ricordare che gli studi in vitro non necessariamente trovano riscontro in vivo. Quindi è vero che le BM-MSC
(=BoneMarrow-MSC) hanno maggiore capacità di differenziarsi in condroblasti e osteoblasti in vitro, ma in vivo le A-MSC
(=Adipose-MSC) potrebbero superare le potenzialità rigenerative delle BM-MSC in un danno articolare grazie alla loro capacità di
richiamare cellule per la rigenerazione ossea, vascolare, cartilaginea. (da slide)
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Si prelevano circa 100cc di midollo osseo, poi li si posiziona nella sacca che si
vede in figura (a sinistra), che ovviamente contiene dell’anticoagulante. Dalla
sacca, poi, si aspira con una siringa il midollo osseo e lo si mette in centrifuga.Il
risultato è che si riesce ad ottenere diversi strati di cellule:
• Il più chiaro in alto contiene delle cellule
che non ci interessano e dei detriti;
• Quello più scuro e profondo, invece,
contiene quasi solo le cellule monociti-
che e quelle ematopoietiche.
L’altra fonte di MSC è il tessuto adiposo. Nella
foto a sinistra si può vedere che prima bisogna
fare un’infiltrazione di tanto liquido quanto è il grasso che si intende prelevare.
La soluzione che viene utilizzata per l’infusione si chiama soluzione di Klein e sostanzialmente
ha una componente di soluzione salina unita ad adrenalina per andare a determinare una
vasocostrizione (e lidocaina, un anestetico locale). Quando si ha a che fare con il grasso è
importante fare attenzione alla possibilità di creare emboli grassosi.
Una volta fatta questa infiltrazione si procede
all’aspirazione con una cannula sottovuoto che consiste
in cira 60cc di grasso, quindi un prelievo di una quantità
molto moderata che è possibile fare praticamente in tutti
gli individui (ad esclusione di chi è fortemente sottopeso).
Attraverso un processo meccanico il tessuto adiposo
prelevato viene poi “micronizzato” e “attivato”, al fine di
eliminare i residui oleosi del grasso. Il metodo per
ottenere ciò è puramente meccanico (non chimico) e
sfrutta un dispositivo con delle “biglie” metalliche che
sono in grado di frammentare e lavare il tessuto fino
appunto a micronizzarlo e lasciarlo scevro da detriti
(passaggi illustrati nell’immagine a fianco).
Alla fine di questo processo si ottiene una nicchia
vasculo-stromale che racchiude cellule staminali
mesenchimali e periciti. Questa “nicchia vasculo-
stromale” è sostanzialmente un’architettura non solida
ma di un liquido abbastanza viscoso che è in grado di
tenere in vita le cellule mesenchimali anche in un
contesto in cui “c’entrano poco” come può essere
un’articolazione. Dagli studi fatti sempre con Dominici
abbiamo visto come queste cellule sono in grado di continuare a lavorare per circa 10 giorni dopo
il loro inserimento; cosa che appunto non potrebbero fare senza la loro nicchia vasculo-stromale
(probabilmente non durerebbero più di poche ore).
Il lipoaspirato micronizzato che è il prodotto di questo prelievo e lavorazione del tessuto adiposo,
grazie alla componente stromale significativa, può essere utilizzato come “filler biodinamico”,
molto utilizzato anche in chirurgia plastica perché è un tessuto molto vitale che ha anche una sua
consistenza e può anche riempire delle ulcere ad
esempio, dando una guarigione della lesione che
diversamente non sarebbe stata possibile. Oltre a
ciò è capace di assistere la riparazione della
cartilagine danneggiata attraverso tre principali
meccanismi d’azione:
1) Preservazione delle proprietà biomeccani-
che dello spazio articolare;
2) Rilascio di fattori trofici bioattivi;
3) Ripristino del pool di progenitori condroge-
nici residenti nei cuscinetti adiposi articolari.
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In figura vediamo una pseudoartrosi, ovvero una frattura che non ripara perché il tessuto osseo
locale non riesce a rigenerarsi. In un caso come questo le cellule mesenchimali possono dare
una mano al tessuto osseo locale; tuttavia un processo infettivo
può essere una grossa limitazione anche con l’uso di cellule
mesenchimali (come dicevamo prima). Queste tecniche
permettono di far riformare pian piano il periostio anche attorno alla
frattura: anche se dentro è vuoto ci si mette del cemento, sopra a
questo si riforma il periostio, dopodiché si fa un’incisione nel
periostio, si toglie il cemento, si mette dentro del tessuto osseo
unito a queste cellule MSC. Possiamo unire anche delle proteine
dette “Bone Morfogenetic Proteins”, di cui BMP7 (da leggere come
“BMP seven”) è la più utilizzata, che hanno un ruolo di forte stimolazione verso la linea
osteogenica.
Abbiamo visto prima anche l’osteonecrosi, patologia che abbiamo iniziato a trattare ormai da 10
anni in questo modo con risultati soddisfacenti in un 80% dei casi. Risulta molto importante il
timing di intervento: se si aspetta che l’osteonecrosi sia già in uno stadio 2B o 3 in cui l’osso
corticale /subcondrale ha già delle fratture con perdita di sfericità della testa, è impossibile tornare
indietro.
Bisogna quindi arrivare prima, pulire la lesione, mettere questi fattori trofici e queste cellule
mesenchimali che idealmente vanno a ridurre l’area di necrosi per provare ad arrestare la
patologia.
Un’applicazione più recente delle cellule mesenchimali da tessuto adiposo è anche nelle
situazioni di artrosi non molto precoci. Chiaramente anche questi trattamenti non fanno miracoli;
non ci si può aspettare in una signora di 90 anni con un ginocchio distrutto di metterci le cellule
mesenchimali e risolvere così il problema! Si tratta innanzitutto di risolvere la causa dell’artrosi.
Ad esempio in caso di ginocchio varo con artrosi mediale se si vanno a mettere le cellule
mesenchimali e basta, lo stimolo meccanico continuerà ad esserci e a rovinare l’articolazione.
Bisogna quindi prima correggere il varismo, valgizzando la tibia per togliere il carico su quel
compartimento; dopodiché si mettono le cellule mesenchimali che aiutano a bloccare la patologia
e cercare di fermare il processo catabolico che ne è alla base.
Abbiamo visto anche che, il tessuto adiposo utilizzato in artroscopia insieme magari a un
debriedment (ovvero una pulizia) di un menisco o di un osteofita (quindi correggendo anche altri
fattori meccanici), porta a
risultati molto migliori che
l’artroscopia da sola.
In questa RM (immagine
sopra) si vede una lesione di
colore bianco dell’astragalo dal
lato malleolo-tibiale. Spesso in
questi casi si ha associata
anche una lesione della
cartilagine, quindi piuttosto che
andare solo a sostituire la
necrosi bisognerebbe anche fare una pulizia della cartilagine e pulire anche l’osso. In questi casi,
piuttosto che il tessuto adiposo, utilizziamo uno scaffold. Immaginiamo un pezzo di fazzoletto che
viene ritagliato secondo la forma della lesione, poi vengono caricate le MSC
derivate dal midollo osseo concentrato su questo scaffold e viene appoggiato
in maniera stabile nella sede della lesione; si possono anche dare dei punti se
il difetto non è contenuto, oppure si mette la colla di fibrina e sta in posizione.
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di piegare il ginocchio). All’esame obiettivo vedremo:
• versamento articolare (non sempre presente);
• Solitamente completa articolarità, ad eccezione dei blocchi articolari;
• Zoppia antalgica di fuga;
• Ginocchio stabile, instabile solo se lesioni ligamentose associate.
Un concetto molto importante è che, in una lesione cartilaginea senza esposizione dell’osso
subcondrale, il dolore può non esserci oppue arriva eventualmente dalla sinovia, perché la
cartilagine non è innervata, ma frammenti di cartilagine che si distaccano possono causare
un’artrosinovite. In alcuni casi, tuttavia si può non avere dolore finché non si arriva all’esposizione
dell’osso e quindi a fasi di patologia avanzate perché le lesioni della cartilagine in sé non danno
alcun tipo di manifestazione dolorosa.
Una volta che si ha il sospetto clinico di osteocondrite dissecante, si passa all’imaging perché la
diagnosi non è mai solo clinica. Di solito viene utilizzata la risonanza magnetica in quanto una
radiografia effettuata in stadi precoci difficilmente segnala un’alterazione.
TRATTAMENTO DELL’OSTEOCONDRITE:
Ci sono diverse tecniche di trattamento:
1) Tecniche riparative (non c’entrano niente con le MSC) che stimolano la formazione di
fibrocartilagine
a. Microfratture
b. Drilling
c. Debridement cartilagineo
2) Autotrapianti o allotrapianti (da donatore cadavere) dell’unità osteocondrale
a. Mosaicoplastica
b. Allograft
3) Tecniche rigenerative che stimolano la rigenerazione della cartilagine
a. Trapianto autologo di condrociti (ACI)
b. Matrix-assisted Autologous Chondrocyte Implantation (MACI)
c. BM-MSC + scaffold
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MICROFRATTURE: consistono nell’andare con una specie di courette in artroscopia a rimuovere
tutta la cartilagine che è instabile, definendo dei margini stabili e regolari. Poi con un ago si va a
perforare l’osso subcondrale per una profondità di 3-4 mm, creando delle microfratture per
cercare la fuoriuscita dei fattori di crescita presenti nel midollo osseo all’interno dell’articolazione
(ingresso in articolazione di cellule riparative). Si forma così un “clot” che va a riempire la lesione.
Questa tecnica può essere utilizzata quando si ha una superficie di 2x2 cm al massimo, non si
può utilizzare per difetti ampi. Si ottiene un buon risultato fibrocartilagineo, ma non ritorna la
cartilagine come la conosciamo; la fibrocartilagine infatti è più dura e meno elastica ma fa il suo
dovere per lo
meno a breve
termine... A
lungo termine
rimane un punto
interrogativo.
1b) Tecniche
riparative →
DRILLING: nel
drilling la tecnica
è simile a quella
delle
microfratture ma
non si ha la
reazione
sclerotica
dell’osso che si
va a rompere
(non vi sono
fratture nell’osso
subcondrale che possono portare a sclerosi). L’osso
subcondrale si perfora a bassa velocità (per ridurre il
riscaldamento dei tessuti) con un filo di Kirschner o
una punta di trapano massimo di 1 mm. Non si è
riusciti a dimostrare una superiorità rispetto alle
microfratture.
MOSAICOPLASTICA: la mosaicoplastica o
autograft/autotrapianto consiste nel prendere dei
cilindretti di cartilagine da una zona periferica (di
solito la parte periferica della troclea) per poi
impiantarli all’interno della lesione dopo aver
adeguatamente preparato il sito di lesione.
Chiaramente non si hanno a disposizione grandi
quantità di tessuto trapiantabile per cui la
mosaicoplastica può essere utilizzata per difetti contenuti (fino a 8cm2). Questa tecnica lascia un
po’ di dolore a livello del sito di prelievo e si definisce una “tecnica one-step”, che vuol dire che si
fa tutto in un’unica seduta operatoria. Si hanno dei buoni risultati ma è tecnicamente difficile da
eseguire e oggi viene utilizzata molto poco.
ALLOGRAFT: (sulla sx le immagine in ordine dall’alto al
basso seguono gli step) è il trapianto che viene utilizzato
di più perché può essere utilizzato anche nei difetti molto
ampi. È sempre una procedura one-step e ha degli ottimi
risultati a lungo termine. Il solo limite è che è una tecnica
costosa e soprattutto necessita di tessuto “fresh-frozen”,
ovvero che sia stato espiantato non più di 21 giorni prima.
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Considerando che i pazienti con osteocondrite sono di solito
giovani, questo vuol dire che bisogna avere un donatore
giovane deceduto entro 21 giorni dall’operazione di impianto
che non è così facile, c’è poca disponibilità.
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ACI di III generazione: Esistono poi i MACI o ACI di terza
generazione (CARTISEM è stato autorizzato non prima di questo
mese nonostante fosse in studio da tanto tempo). Si tratta
sostanzialmente di uno scaffold che contiene in sé delle cellule
allogeniche espanse ex vivo. Non trattandosi di cellule autogeniche
ci consente di fare una procedura one step.
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