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IL TEATRO D’OPERA IN ITALIA

L. BIANCONI

Caratteri Strutturali

ð POLICENTRISMO
Sono molto scarsi i tentativi di coordinare la produzione su scala nazionale e di imporre un
diritto d’esclusiva.
L’opera nasce a Venezia dal compromesso tra lo splendore sfarzoso e sontuoso dell’opera di
corte e la necessità di un proprio tornaconto, che è all’origine dell’opera impresariale.
Nella maggioranza degli stati italiani la gestione impresariale dei teatri d’opera è stata
sostenuta dal contributo finanziario diretto o indiretto del governo locale, e sottoposta al
controllo della polizia; nel Settecento si sono costituite società di cavalieri o nobili cittadini
azionisti e garanti del teatro. Inoltre i governi della restaurazione badavano alla buona
conduzione del teatro cittadino come sede di ritrovo dell’alta società e luogo di facile
controllo politico; ciò nonostante, la spinta storicamente predominante è stata quella
dell’iniziativa privatistica. Nonostante ci furono nell’ottocento dei tentativi importanti di
coordinare centri operistici diversi, il controllo fu proprio quello degli impresari, che
iniziarono a gestire in simultanea stagioni d’opera in diverse città italiane, massimizzando la
resa dei cantanti e degli spartiti, che erano essi stesso oggetto di un’esclusiva.
La legge sul diritto d’autore porterà poi Ricordi e Sonzogno ad imporsi come maggiori
editorie musicali; tuttora la pluralità della programmazione teatrale è una delle leggi non
scritte ma incontrastate nel panorama operistico italiano.

ð MOBILITÀ DEL CAST


Il cast di un’opera, nuova o di repertorio, era ed è in Italia il frutto di un negoziato condotto
virtualmente da zero ad ogni nuovo allestimento.
La numerosità dei teatri fornisce a ciascun artista la possibilità di stipulare tante scritture
quante sono le stagioni, che a metà Ottocento sono regolarmente quattro ma che già a fine

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Seicento, quando perlopiù ogni città propone una sola stagione d’opera, sono distribuite ad
ingranaggio nel calendario annuale.
La mobilità del cast assicura alla vita operistica italiana la varietà artistica → fin circa
dall’Unità d’Italia la scrittura dei cantanti da parte dell’impresario è il primo importante
passo nel processo creativo di un’opera.
Le convenienze teatrali sono quindi la prima materia con cui librettista e compositore
devono lavorare fin dalla scelta del soggetto drammatico; nel fare ciò, era prassi che si
scrivessero i ruoli sapendo già a quale artista sarebbero stati assegnati.
Un mutamento dell’ultimo secondo sulla lista dei cantanti e delle loro pretese può
costringere gli autori a ripartire da zero, optando per un diverso soggetto, compatibile col
nuovo cast.
Nel contempo i cantanti più acclamati, e quindi più influenti, puntano ad imporre le loro
parti preferite; nel Settecento infatti ci sono cantanti specializzati in questo o quel
personaggio di Metastasio, indipendentemente dalla partitura di volta in volta utilizzata.
Nell’Ottocento certe opere e certe parti diventano cavalli di battaglia di star che hanno la
forza contrattuale per piazzarle in molti teatri.
In certe fasi storiche per certi generi si aggregano compagnie itineranti che, sfruttando il giro
dei teatri, tendono momentaneamente ad uniformare il repertorio; questo avviene in
particolare per il repertorio comico.

ð INTENSITÀ PRODUTTIVA
È difficile accertare il numero totale di partiture operistiche nuove varate ogni anno nei
teatri d’Italia. Dalla metà del Seicento a tutto il Settecento, il primato produttivo spetta a
Venezia, che è la sede di una vera e propria industria internazionale del divertimento
turistico, culminante nella stagione del carnevale: i teatri attivi sono in media quattro-
cinque, con due o più opere ciascuno, nella grande maggioranza composte appositamente.
La frequenza relativa delle opere nuove incomincia a decrescere nel primo Ottocento, ma
nel boom di teatri e delle stagioni la quantità assoluta di novità permane elevatissima fino a
metà secolo quando si contrae il mercato operistico → tendenza all’omogeneità e alla
stabilità del repertorio.
Per un secolo e mezzo comunque l’Italia aveva prodotto più o meno una cinquantina di
partiture operistiche nuove l’anno: molte non duravano oltre il primo allestimento mentre le
altre entravano nel giro teatrale attraverso i bauli dei cantanti, i maestri di cappella o
attraversavano i rapporti di affari tra impresari.

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L’interesse dei cantori come dei maestri di cappella era quello di ottenere il maggior numero
di scritture.
Alla base di questa fertilità produttiva sta un robusto corredo di convenzioni operative e
formali, spesso tacite, che consento al librettista e all’operista di intendersi celermente,
economizzando il tempo e lo sforzo da dedicare alla progettazione dell’opera e alla stesura
del testo verbale come di quello musicale. Di tali convenzioni implicite è partecipe
inconsapevole il pubblico teatrale che commisura la novità di ciascuna opera sulle
esperienze teatrali pregresse → forte tendenza all’uniformità stilistica.
Il gusto musicale collettivo pertanto andava a uniformarsi, a causa di questa dieta
monoculturale, tanto più se si considera che la reiterata frequentazione del teatro era una
consuetudine sociale ed un obbligo di etichetta.

ð COSTITUZIONE DEL REPERTORIO


La stabilizzazione di un repertorio duraturo è tardiva in Italia; le opere di rappresentanza
date in occasione di grandi eventi dinastici o civili sono per loro natura eventi grandiosi ed
irripetibili. Ma la mobilità dei cast e il policentrismo assicurano una sopravvivenza limitata
anche alle opere di mero intrattenimento: di regola, nel Seicento, non si riprendono nella
stessa città drammi per musica che già vi siano stati dati una volta, e i tempi
dell’assorbimento ed esaurimento nel circuito nazionale si aggirano tra i 10 e i 15 anni
È però più facile comporre partiture nuove che inventare drammi sempre diversi → si
musicano di nuovo libretti di collaudata efficacia teatrale, spesso ritoccandoli e magari
dissimulandone l’identità sotto altro titolo (Seleuco di Nicolò Minato diventa la forza dell’amor
paterno di Stradella).
Nel Settecento si forma una riserva di drammi per musica molto longevi, pronti ad indossare
veste musicale sempre diversa, e flessibili quanto basta per subire via via rifacimenti parziali
o totali del testo, onde adeguarsi all’evoluzione delle forme musicali.
Il fenomeno diventa regolare coi drammi per musica di Metastasio, che a partire dalla
Didone abbandonata passano per le mani di decine di compositori fino all’Ottocento
inoltrato. Sotto rivestimenti musicali sempre più moderni, certi drammi si imprimono
stabilmente nell’orizzonte e nella memoria di ogni italiano di media cultura (Es: Artaserse).
La prassi del remake conferma che il repertorio si costituisce dapprima come collezione
ideale di soggetti drammatici esemplari, più che di specifiche partiture.

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Se all’epoca di Rossini un cast anomalo pregiudica in partenza le chances di circolazione e
d’una partitura, con Donizetti un’opera di successo impone al mondo teatrale temi
drammatici e tipi vocali nuovi (Lucia di Lamermoor)
Da Verdi in poi, con il favore di un’editoria musicale forte e d’un diritto d’autore moderno,
l’operista italiano punta si alla popolarità immediata, ma come a un passaggio obbligato per
conquistare un posto fisso nel repertorio, impresa tuttavia che riesce in pochi casi.
Nel ventesimo recolo infine, accanto alle poche novità indigene e alla rapida accoglienza
riservata ai successi internazionali, si insinuano i recuperi di opere d’antiquariato e i restauri
di tradizioni interrotte: la graduale riscoperta del Rossini comico, di Monteverdi, nell’opera
buffa settecentesca, del Donizetti minore, di Vivaldi operista, del Seicento veneziano e
infine del Rossini serio segna il percorso della vita teatrale negli ultimi settant’anni.
Il recupero antico investe anche quelle tradizioni operistiche straniere che l’esuberanza
stessa del sistema italiano non aveva accolto a loro tempo, come le opere londinesi di
Händel, le opere della riforma viennese di Gluck.

ð TIPOLOGIA DELLE FONTI


La tradizione scritta della musica operistica nazionale è per i primi due secoli
essenzialmente una tradizione di manoscritti e per i due secoli successivi prevalentemente
una tradizione di spartiti per canto e piano.
Il testo pubblico dell’opera in musica è, per antonomasia, il libretto che fino al 1850 viene
impresso di fresco per ciascun nuovo allestimento; il drammaturgo vi dichiara nella
prefazione i propri intenti di poetica, l’impresario vi enumera il personale artistico coinvolto
nella recita dell’opera, gli eventuali intermezzi e i balli dati a mo’ di entr’acte o di fine
serata, e il sovrano ne fa pregiato omaggio agli invitati e alle corti amiche a testimonianza
dei fasti teatrali da lui promossi.
La partitura completa è sì uno strumento indispensabile per produrre e riprodurre lo
spettacolo operistico, ma come tale va per mano ai soli addetti ai lavori, senza circolare in
pubblico.
Nonostante siano state stampate le partiture delle opere degli albori dell’opera italiana, è pur
vero che furono edizioni di carattere monumentale, destinate a eternare la memoria di
imprese teatrali singolari.
Nel Settecento l’unica partitura d’opera italiana stampata completa in Italia fu l’Orfeo e
Euridice che anche sotto questo aspetto si palesa come diretta imitazione dell’opera di
Gluck.

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Le partiture d’opera manoscritte diventano proprietà del committente o dell’impresario, che
su di esse può vantare un’esclusiva o negoziare la cessione o la copiatura a pro di altri teatri:
c’è dunque un concreto interesse a non divulgare le partiture attraverso la pubblicazione.
I musicisti più avveduti e consapevoli del proprio peso artistico fecero tuttavia un’accurata
raccolta delle proprie opere, così da conservarle.
Manca quasi del tutto in Italia l’uso inglese di pubblicare i favourite songs di un’opera di
successo, ma fiorisce fino a metà settecento il commercio di manoscritti che compendiano
arie scelte di una o più opere, destinato all’uso domestico o venduti ai turisti stranieri.
Il passo decisivo verso una vera e propria editoria operistica italiana lo compie, nel nuovo
secolo, un altro copista: Giovanni Ricordi pubblica nel 1808 lo spartito completo per
un’opera di Mayr, all’insaputa dell’autore. Sull’esempio degli editori tedeschi adotta il
formato oblungo ed il sistema dei fascicoli rilegati, messi in vendita anche separatamente
come pezzi staccati: è un sistema che soddisfa sia il mercato professionale che quello
amatoriale, senza però pregiudicare l’esclusività dei diritti sulla partitura e sui materiali
d’orchestra, manoscritti e dati a nolo e mai messi in vendita.
Gli spartiti di Ricordi diventeranno la forma dominante di pubblicazione dell’opera italiana,
pubblicando le novità delle opere dei massimi operisti dell’epoca.
A fine Ottocento accanto a ricordi si affianca Sonzogno, l’editore della Giovane Scuola, che
rappresenta per l’Italiana la Carmen e Massenet.
L’egemonia di ricordi si impone anche sulla pubblicistica e sul gusto scenico.

ð DIFFUSIONE IN ITALIA
Il sistema opera italiana basato sul libero mercato del personale artistico e delle novità tende
all’espansione e all’omogeneizzazione. All’apogeo della sua parabola economica ed
artistica, esso consente ad un’opera di immenso successo come il trovatore di Verdi di
toccare ventisette città italiane nei primi dodici mesi.
Non è sempre stato così → Tra il 1650 ed il 1750 la circolazione dell’opera seria è rapida e
diffusa, ma accanto ad essa fioriscono forme di teatro d’opera comico radicate negli usi di
singole città e di singoli teatri, e molto meno propense ad entrare nel circuito nazionale
(Opere musicali alla spagnola, opere musicali o favole drammatiche, tutte opere che
rispondono all’iniziativa e al gusto di un’aristocrazia cittadina che non ricerca alcuna
risonanza fuori dal contesto di origine.

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Anche nel Settecento, la conquista di un mercato nazionale per l’opera comica è tutt’altro
che celere → sono prima gli intermezzi a crearsi un circuito professionale parallelo ed
autonomo rispetto a quello del dramma per musica.
Intanto, e del tutto indipendentemente, a Napoli la commedia per musica era uscita nel 1709
dalle case della nobiltà per installarsi nel teatro dei fiorentini, ma ci vogliono vent’anni esatti
perché essa approdi, italianizzandosi nei teatri di Roma.
Dell’Opera Buffa italiana si può parlare solo a partire da questa graduale irradiazione centro
settentrionale della commedia per musica napoletana nonché da quella dei drammi giocosi
per musica di Goldoni e Galuppi a Venezia.
Questa relativa impermeabilità tra nord e sud non riguarda solo l’opera comica: anche la
musica seria si diffonde fino a Firenze dal sud, non incontrando fortuna a Venezia.
Frenata o accidentata è la diffusione di altri autori europei che verranno assimilati
nell’Ottocento (Mozart).
Più avanti nel secolo si sviluppa a Firenze un precoce culto per il Meyerbeer francese,
cominciando quella acuta e durevole febbre meyerbeeriana che sarà il presupposto per la
fioritura dell’opera ballo, variante italiana del grand opéra. Infine, funzionale a tutto ciò, si
afferma definitivamente la figura del maestro concertatore, come indispensabile
coordinatore artistico per una forma di spettacolo fattasi quantomai complessa.
Nel Novecento si assiste ad un fenomeno paradossale; da un lato il repertorio dei teatri
italiani si è ampiamente internazionalizzato, mentre dall’altro l’egemonia assoluta di Puccini
sui cartelloni italiani, che nei primi trent’anni del secolo emargina perfino Verdi, deborda in
Europa ed oltreoceano.
Lo spazio per il teatro musicale d’avanguardia si assottiglia in patria, mentre gli italiani si
fanno largo nella Società Internazionale di Musica Contemporanea.

ð DIFFUSIONE ALL’ESTERO
L’opera in musica è un’invenzione italiana che l’Europa ha fatto propria; nelle corti
transalpine però l’opera dipende molto più che in Italia dalla diretta volontà del sovrano e
dalle vicende dinastiche.
La corte di Vienna è il centro che intrattiene nell’arco di un secolo circa un team italiano di
librettisti, musicisti, scenografi, cantanti e ballerini, per una produzione operistica frenetica
nei ritmi, codificata nel calendario e nel cerimoniale e del tutto autonoma ma simile a quella
dei teatri italiani.

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A Parigi, invece, il programma di italianizzazione culturale proposto dal cardinale
Mazarino, anche in ambito operistico, viene lasciato in tronco per l’espressa volontà politica
del Re Sole, che intendeva fomentare in ogni campo dell’arte o del sapere un gusto
nazionale grandiosamente autarchico: la conseguenza fu l’ostracizzazione dalle scene
francesi dell’opera italiana.
Per tutto il Sei fino alla metà del Settecento, l’instrutturazione dell’opera italiana all’estero
si configura come un fenome di recezione di una forma d’arte allogena, mediante
importazione di personale specializzato e imitazione di stili e generi già collaudati altrove (è
un processo guidato dall’alto).
L’ideale si tramuta insomma in quello di partecipare all’opera italiana, facendo sì che si
verifichino sviluppi artistici, nell’alveo della tradizione operistica italiana, da cui i teatri
d’Italia rimangono in larga misura esclusi.
In seguito, nelle grandi città, inizia ad essere condivisa l’etichetta che vede la frequentazione
del teatro come un qualcosa di aderente a un bon ton condiviso, un costume sociale; pertanto
è il ceto dei ricchi a promuovere il gusto per l’opera e non il sovrano.
In questi posti, come Londra o Amburgo, l’opera in musica, cantata di solito in italiano da
cantanti italiani, deve però ritagliarsi uno spazio circoscritto, visto che la vita teatrale è già
florida, tramite il teatro di parola, subendo così uno stimolo di competizione con cui deve
fare i conti sia sul piano delle scelte stilistiche sia su quello dell’efficacia scenica.
L’italiano diventa così la lingua franca internazionale nel mondo dell’opera, assicurando in
questo campo un’elevata permeabilità di personale e repertorio tra il sistema opera italiana
in Italia e i vari sottosistemi operistici esteri, così che, nell’Ottocento, il teatro italiano
diventa un’enclave di spicco nella vita delle metropoli.
Per converso però l’autonomia artistica di cui gode l’opera italiana nelle capitali europee la
condanna a lungo andare all’isolamento nei confronti dell’opera in lingua nazionale, che si
invigorisce man mano, alimentata anche dall’avversione che gli autoctoni nutrono per
l’egemonia degli italiani.
In Francia, l’esclusione totale dell’opera italiana dalle scene del settecento ha trasformato
l’opera italiana in un polemico ed ideologico oggetto del desiderio per schiere di intellettuali
francesi, stimolando forme estreme di assimilazione e mimetismo sia nei generi (opéra-
comique) sia nelle personalità artistiche.
L’egemonia della tradizione operistica francese è tanto salda però da non risentire soverchi
contraccolpi neppure quando venne introdotta l’opera comica e quella seria italiana.
Nei rapporti col mondo tedesco, non c’è una tale assimilazione.

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In generale, nell’età della Restaurazione e poi per tutto il secolo la situazione del teatro
d’opera riflette l’dea politica del concerto delle nazioni, in cui all’opera italiana compete un
ruolo magari maggioritario ma condizionato accanto a forme teatrali nazionali, sempre più
profilate.
Riguardo al contesto intercontinentale, esso è monopolizzato dall’opera italiana fino alla
prima guerra mondiale, ma è un’egemonia che, se dà rinnovato slancio all’economia
dell’opera italiana in patria, non le da nessuno sviluppo artistico degno di nota.
Agli albori del Novecento, c’è la giovane scuola che ha dato un ultimo breve ma energico
stimolo artistico alla produzione operistica, finendo per diventare semplicemente l’ultimo
baluardo dei musicisti avversi al Musikdrama Wagneriano.

Profilo Storico dei modelli drammatici e musicali


Pur non cercando di trovare un tratto d’unione profondo tra le opere degli albori del genere e quelle
composte negli anni 70 del Novecento, si evidenziano tuttavia alcune costanti:
1) Assetto poetico, metricamente organizzato, del testo drammatico → l’opera italiana
ignora, quasi completamente, le forme miste di prosa recitata e versi cantati
2) Realismo dei soggetti drammatici → l’opera italiana non inclina al fantastico, al fiabesco, al
grottesco o al satirico
3) Tendenziale riduzione del dramma alla sua dimensione patetica ed affettiva → lo
scontro tra sentimenti prevale sullo scontro tra idee
4) Individuazione del personaggio nella sua voce → nella gerarchia estetica dell’opera italiana,
anche nel concertato a più voci, predomina il canto solistico su tutti gli altri fattori dello
spettacolo musical-tratrale
5) Notevole evidenza assicurata alle forme musicali → l’opera italiana mira ad appagare le
aspettative stilistico-formali dell’ascoltatore non meno che ad interessare lo spettatore del
dramma.

ð SEICENTO
Rinuccini, il primo poeta librettista, adotta senza contestarlo il sistema metrico in vigore nel
teatro letterario, in particolare nelle favole pastorali; questo mutatis mutandis diventa il
sistema base del libretto d’opera italiano fino al Novecento → in linea di principio il dialogo
drammatico è condotto in versi sciolti, ossia una libera sequela di endecasillabi interi e

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spezzati, di ritmo assai flessibile e senza uno schema prefissato di rime, che corrisponde
in musica al cosiddetto recitativo. Per gli interventi del coro, le effusioni canore dei
singoli personaggi, per i momenti rituali, per gli asserti di portata morale universale si
ricorre a forme metriche chiuse, strofe costruite sia di endecasillabi, sia di quei metri
misurati dallo schema accentuativo fisso e iterativo. Queste strutture strofiche, nelle più
varie combinazioni, danno storicamente luogo all’aria e alle forme chiuse dell’opera
italiana e trovano i loro antecedenti nelle musiche teatrali del Cinquecento.
Il doppio regime dei versi, sciolti e lirici, a cui corrispondono funzioni drammatiche diverse,
permane per tutta la storia dell’opera.
L’invenzione del recitar-cantando è un ritrovato fiorentino e si confaceva alle celebrazioni
spettacolari di eventi festivi, ispirandosi al canto della tragedia antica → questa convinzione
si consolida subito nella coscienza storica dell’opera italiana.
In circa sessanta anni il sistema dell’opera in musica dilaga in tutta Italia, specializzandosi
sempre di più → l’azione viene affidata ad un recitativo scarno e sciolto, che viene
interrotta con frequenti canzonette o ariette che ne alleggeriscano il «tedio musicale».
Alla varietà formale delle arie concorrono i poeti con schemi strofici spesso capricciosi e
stravaganti, spesso polimetrici, dotati di ritornelli, e i musicisti, con una moltitudine di
moduli ritmico-melodici brevi, che si prestano ad essere reiterati e concatenati.
Alcuni di questi moduli assumono presto valore convenzionale e ricorrono riconoscibili
come topoi sonori → quinario sdrucciolo per le scene di incantesimo, di magia, di
evocazione ultraterrena, come nell’incantesimo di Medea nel Giasone di Cavalli, che sarà
anche il progenitore di molte scene demoniache o infernali.
Le opere della prima metà del Seicento attingono spesso i soggetti dalla mitologia classica,
in particolare dalle Metamorfosi di Ovidio.
Il problema principale è quello della verosimiglianza → un’azione tutta cantata creava
problemi sulla credibilità della vicenda. Ambientarla nel mondo favoloso e dorato
dell’Arcadia rende più plausibile che le passioni degli uomini e le trasformazioni a cui sono
soggetti per mano delle divinità siano rappresentate come passaggi cantati, anziché come
parole nude.
A Venezia, dal 1640, dopo una breve ondata di soggetti mitologici, cavallereschi e pastorali,
vengono introdotti i temi eroici cavati da Omero e Virgilio, incentrati sulla guerra di Troia;
sotto il profilo drammaturgico-musicale, proliferano le scene patetiche e i grandi lamenti
degli eroi e soprattutto delle eroine abbandonati, esemplati sul modello letterario delle
Heroides di Ovidio e su quello musicale del Lamento d’Arianna di Claudio Monteverdi.

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Iniziano a verificarsi anche delle infrazioni consapevoli alla legge delle unità aristoteliche
→ Didone di Busenello e Cavalli rappresenta l’azione in luoghi, tempi ed azioni diverse, sul
modello del teatro spagnolo di Lope de Vega.
Il dramma per musica di Cicognini, Faustini, Aureli, Minato e Noris, ricerca invece il diletto
attraverso il capriccio, la bizzarria, lo stupore, la moltiplicazione degli intrecci, la
giustapposizione del serio e faceto, attingendo temi e figure dalla storia romana e greca, ma
anche asiatica e barbarica, con spunti favolosi e sensazionalistici spigolati.
Abbondano gli equivoci incrociati suscitati dai travestimenti e dagli inganni e, ricalcando
l’idelogia politica del tacitismo, i personaggi per conseguire i propri scopi sistematicamente
dissimulano le loro vere intenzioni e si irretiscono così in un intreccio di conflitti
inestricabili.
L’inserimento della musica nel dramma comporta anche un’altra conseguenza, che diventa
subito convenzione → lieto fine obbligato; non si addice infatti l’atrocità di una
conclusione cruenta ad un linguaggio armonioso ed eufonico come la musica. I reprobi e i
malvagi, anziché soccombere si ravvedono in extremis, oppure trionfano essi stessi.
La musica delle ariette, che dal 1670 in poi sono composte su due strofe, di cui la prima
viene ripresa da capo e variata, serve anche a alla tipizzazione caricaturale e buffonesca dei
ruoli comici.
Le partiture omettono qualsiasi sonorizzazione strumentale degli artifici scenici, che pure
corredano certi drammi per musica di metà secolo, come anche le musiche per i balli
entr’act, che sono un ingrediente fisso della serata operistica, fino alla fine dell’Ottocento.
Negli ultimi trent’anni del Seicento si fa più diretto l’influsso della comedia spagnola di
Calderón e compagni, coi suoi intrecci notturni e romanzeschi incentrati sul punto d’onore e
sull’illusorietà d’ogni esperienza umana → avviene soprattutto nei centri spagnoli come
Milano e Napoli.
Negli ultimi dieci anni del secolo ci si orienta verso i modelli della tragedia francese di
Corneille e Racine, basati su quel conflitto di amore e gloria che è il fomento primo del
plaisir des larmes.
Sempre sull’esempio francese, si inizia a sistematizzare il passaggio da una scena all’altra,
segnato dall’aria che il personaggio intona prima di rientrare tra le quinte → si crea così un
numero elevato di ariette brevi, fino a cinquanta, che costituiscono l’allettamento primario
del dramma in musica.

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ð SETTECENTO
È il secolo maggiormente percorso dal dibattito dei letterati sull’opera, spesso in polemica
contro le presunte abnorità del genere; i drammi per musica appaiono scadenti nella
versificazione, inverosimili nell’orditura drammatica, monocordi nell’assoluta preminenza
degli affetti amorosi, indecorosi nella miscela di personaggi nobili e scurrili.
L’intero Settecento lotta contro gli abusi, le convenzioni di comodo, le prerogative
consuetudinarie, per instaurare nel teatro d’opera un gusto razionale, un progetto artistico
unitario saldamente affidato al drammaturgo, ossia ad un poeta che detti legge su tutti gli
aspetti dello spettacolo, dal dosaggio degli affetti nella sequenza delle arie alla strategia
degli effetti nell’avvicendamento di prime parti e comprimari dall’ambientazione scenica
alla messa in scena.
Sotto il profilo drammaturgico, l’influenza dell’Arcadia si esplicita nel rispetto, generico,
delle tre unità aristoteliche e nella netta preferenza accordata ai soggetti tratti dalla storia
ancitca romana, greca, magari persiana, escludendo invece quelli medievali o barbarici→ gli
eroi antichi vengono esaltati come esempi di virtù ideali e morali esposte ai cimenti della
fortuna e della politica ma infine trionfati.
Il comico viene espunto dall’opera seria, relegato alle contrascene e poi agli intermezzi, così
che la tessitura del dramma serio si incentra su un unico filone narrativo, attorcigliato però
in modo da avviluppare inestricabilmente in un unico nodo quattro protagonisti: in genere si
trattava di due o tre soprani più un contralto, indifferentemente donne o castrati, in ambiti
maschili e femminili, e talvolta un tenore come antagonista maschile. Completano il cast
due o tre parti secondarie → questi sei/sette interlocutori, sfogano i loro affetti in un numero
di 25/30 arie.
Il gusto del comico diventa una spezia stilistica ad libitium, che si insinua a volte
nell’intreccio del dramma o nel carattere di un personaggio, ma può essere assente del tutto.
Metastasio eccelle nella rappresentazione affabile ed amabile, disincantata ed indulgente,
dei guai che suscitano le smanie amorose dei suoi personaggi giovanili ed impetuosi, e più
in generale del conflitto tra sentimento e ragione.
Il sistema delle arie solistiche spazia dalle più distaccate arie di paragone, in cui due strofe
svolgono una ponderata comparazione tra l’affetto rappresentato e i fenomeni fisici che la
musica imita sonoramente, fino alle arie parlati, fatte per dar voce al sentimento palpitante
che trabocca; queste ultime a volte hanno forma irregolare.
In particolare, i primi drammi del Metastasio inscenano il conflitto tra l’amore e la ragion di
stato: Didone abbandonata, Catone in Utica, ecc. Nei drammi viennesi prevalgono invece

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per contro valori come il patriottismo, l’eguaglianza di fronte al dolore, i doveri dei sovrani
verso i loro sudditi, così da combinare sia una morale etica ed edificante nell’esempio
politico sia il bisogno di commozione e tenerezza che investe la sensibilità europea del
secondo Settecento.
Da un punto di vista stilistico, il richiamo all’Arcadia è ravvisabile nella regolarizzazione
formale della poesia e nell’elegante scioltezza cui punta il linguaggio musicale → l’aria col
daccapo assicura una cornice formale ordinata ed equilibrata anche ai sentimenti più
tumultuosi o riverenti → il personaggio vi inquadra il proprio sentimento organizzandolo in
concetti logici e rivelando dunque la capacità di raziocinio che è propria dell’uomo.
Metastasio inoltre opta per l’isometria, con strofe di versi lirici con metro uguale,
prediligendo su tutti il settenario, che è il più flessibile ed elegante.
Lo stile del canto non è più basato sull’incedere contrappuntistico paritario di voce e basso
continuo, ma su una distinzione netta tra la melodia vocale e l’accompagnamento
orchestrale, disteso ad ampie pennellate armoniche.
È uno stile che si incarna nell’acclamata duttilità canora dei grandi castrati del primo e del
pieno settecento.
Questa stessa evoluzione stilistica coinvolge anche libretti e partiture degli intermezzi e le
commedie per musica napoletane → trattano le beghe patrimoniali e matrimoniali, su
intrecci terenziani, secondo lo stesso sistema del dramma per musica; molte arie individuali
col da capo, in una sequela variegata di affetti e gags, e pochissime arie a più voci.
L’aria col da capo di solito viene assegnata ai personaggi seri, nel dramma giocoso, antenato
dell’opera buffa, mentre i personaggi inferiori, comici o di mezzo carattere, assumono
volentieri forme bi o tripartite, concatenando sezioni di vario metro e tempo, tappe di un
ragionamento ridicolo o caricato, svolto lì per lì.
Le baruffe e gli alterchi dei personaggi comici danno luogo nei finali dei primi due atti a dei
pezzi d’assieme assai protratti, con sezioni diverse per metro, tempo e tonalità, con l’ultima
sezione strepitosa nel suono e caotica nella situazione.
La separazione tra ruoli seri e comici è rigida ma viene poi gradatamente meno con il
prevalere di soggetti lacrimogeni, come la Buona Figliola di Goldoni, che fanno appello ad
un valore interclassista o viceversa con la rappresentazione della purezza insidiata dalla
libidine prevaricatrice dei potenti.
La duttilità formale dell’opera buffa nel tener dietro alla raffica delle peripezie è giunta a un
punto tale da consentire che le commedie in prosa si traducano, poco meno che alla lettera,
in libretti d’opera → Es: Da Ponte con le commedie di Beaumarchais.

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Rispetto all’opera seria, esiste un rapporto più stretto tra l’azione scenica intrecciata e la
forma musicale movimentata dei pezzi d’assieme e la vitalità gestuale dei cantanti: sono
tutte qualità che difettano all’opera seria, impegnata a rielaborare la drammaturgia
metastasiana, senza cambiarla o contestarla.
Peculiarità dell’opera comica sono i pezzi concertati → si tratta sostanzialmente di cori, in
cui cantano principalmente i personaggi in un preciso stato d’animo, spesso sul contraccolpo
di una peripezia che li lascia sgomenti e sbigottiti.
La tragedia invece, secondo Calzabigi, doveva essere una serie di situazioni idonee a svelare
i caratteri dei personaggi e le passioni che li agitano, così da colpire efficacemente gli animi
degli spettatori → esemplifica questa teoria delle situazioni teatrali con una sceneggiatura
per tableaux del soggetto di Ifigenia in Aulide.
Si riallaccia in questo caso ad un rinnovato gusto per la statuaria essenzialità e la
stringatezza drammatica della tragedia antica e per il favoloso dei soggetti mitologici che, in
alternanza agli intrighi metastasiani di amore e politica, si ricollegano al filone tematico e
formale della tragédie lyrique francese.

ð PRIMO OTTOCENTO
Col mutare dei regimi muta anche la classe dirigente e muta dunque in parte la
composizione del pubblico teatrale, senza mutare però la natura elitaria e voluttuaria dello
spettacolo d’affezione degli italiani facoltosi, né muta l’orientamento neoclassico e patetico
del gusto prevalente nell’opera seria → percezione della fragilità di ogni affetto e progetto
umano, messo a repentaglio dalla malizia degli usurpatori e dalla malasorte dei sudditi: la
forma drammatica che meglio esprime questa nuova sensibilità è quella dell’opera comica
di soggetto semiserio che inscena, ma in un ambiente civile e moderno, anziché eroico e
remoto, una tragedia sfiorata per un soffio, mediante una peripezia che conduce alla
liberazione in extremis degli innocenti e alla condanna, o indulto, per i malvagi.
Negli stessi anni si consolida la “dittatura” che la drammaturgia francese esercita sulle scelte
dei soggetti: è un’egemonia che, favorita dalla buona conoscenza del francese presso i
letterati italiani, dura poi per tutto il nuovo secolo, incontrando un fabbisogno di soggetti
drammatici acutizzato dall’intensificarsi della produzione operistica ma anche da un
tendenziale ribaltamento di ruoli tra librettista e musicista → il vero drammaturgo è colui
che sceglie il soggetto e, sulla scorta di una fonte già drammatizzata, seleziona le situazioni
teatrali musicabili nelle forme dell’opera italiana; sempre più spesso è l’operista, riducendo
il librettista al rango di esperto ed abile arrangiatore di drammi altrui.

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Il romanticismo in Italia attecchisce nel teatro musicale solo limitatamente alla legittimità
del dramma storico nell’opera in musica → la tradizione italiana tendeva a situare
l’ambientazione scenica del dramma in un passato remoto e in ambientazioni molto lontane
e mitiche.
Una recrudescenza di questo conflitto tra classicisti e romanticisti si accende negli anni ’30,
quasi di riflesso alle polemiche suscitate dal Cromwell e dall’Hernani di Victor Hugo,
investendo l’opera in musica direttamente nella querelle creata dalla Norma di Bellini.
Mazzini, nella sua Filosofia della Musica, invoca per la musica italiana il bisogno di
spiritualizzarsi ma anche l’esigenza dell’elemento storico, del colore dei tempi, ossia quella
realta che il gusto dei classicisti mortificava e aborriva.
Se il compositore si occupava dunque di mettere in musica i sentimenti, tramite la melodia
canora, del colore locale si incarica esclusivamente la messa in scena.
Dalla drammaturgia francese coeva i librettisti e gli operisti del primo Ottocento attingono
soprattutto la tecnica dei colpi di scena, quelle peripezie sensazionali che suscitano
sgomento, scatenando opposte reazioni, così da imprimere accelerazioni, frenate o svolte
brusche al corso dell’azione → viene integrato nella forma musicale ed il suo impatto
innesca i momenti di effusione canora.
Le forme dei numeri musicali si dilatano e si complicano, con alternanza di tempi diversi →
sezioni cinetiche, in cui l’azione procede, il tempo rappresentato scorre e il discorso
musicale asseconda l’incalzare del dialogo e degli eventi, e sezioni statiche in cui l’azione
ristagna, il tempo rappresentato rallenta, il dialogo è relegato nell’a parte e il canto si
dispiega, con l’orchestra che lo enfatizza, con armonie stabilizzate in un giro tonale
conchiuso.
Dal punto di vista del dramma, queste sezioni statiche rappresentano la reazione canora, a
caldo, dei personaggi colpiti da una peripezia collocata nella sezione cinetica precedente →
notizia, rivelazione, insulto, sussulto interiore, parole che «scolpiscono e rendono netta ed
evidente la situazione»1, così come segnali sonori da fuori scena.
Il ricorso alla musica da fuori scena è innovazione specifica del melodramma ottocentesco,
che allarga tramite la sorgente sonora il quadrilatero del palcoscenico: lo spazio certo e
visibile del quadro scenico è sopraffatto da uno spazio occulto ed inquietante.
Lo schema base delle funzioni morfologico-drammatiche dei numeri chiusi è detto solita
forma, desunto dalle riflessioni di Abramo Basevi → è il congegno fondamentale del
melodramma italiano nei primi sett’antanni dell’Ottocento.

1
Definizione di parola scenica verdiana.

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Tutti i tempi di cui consta ciascuno dei numeri in solita forma è composto da versi lirici,
organizzati in strofe o lasse più o meno simmetriche; il tessuto connettivo è dato dalle scene,
in versi sciolti, condotte in forma di recitativi accompagnati.
Questo sistema non è rigido → esistono forme difettive o maggiorate; innanzitutto
tramontata definitivamente l’aria col daccapo, sono contemplate le forme in un solo tempo,
oppure in due tempi. (arie, duettini, terzettini). In secondo luogo, sono ammesse forme
difettive, ossia dallo schema della solita forma può venir omesso virtualmente ciascun
tempo, senza che però ne occulti o sconvolga le funzioni drammatico-musicali.
Un’aria ridotta al solo Cantabile si denomina romanza.
Infine, la standardizzazione delle forme consente all’operista di usarle e manipolarle, così da
depistare le aspettative dell’ascoltatore; possono verificarsi cabalette lente, ad esempio,
sognanti, anziché veementi ed impetuose, così come fa Donizetti nella Lucia di Lamermoor.
L’abbondanza di pezzi concertati rende necessaria una minuziosa intesa preventiva tra
librettista e compositore circa la distribuzione della materia drammatica, come testimoniato
dalla corrispondenza di Bellini o Verdi con Felice Romani o Francesco Maria Piave.
Questa fase, cruciale nel processo creativo, prende la forma di un progetto concordato,
indicato sotto i vari nomi di programma, schizzo, traccia, sceneggiamento, orditura,
tessitura, ossatura, piano dei pezzi, scheletro delle situazioni drammatiche o selva. Nei
suoi vari stadi, questo progetto comporta quattro fasi:
1) Enumerazione dei pezzi che deve tener conto delle convenienze e delle
situazioni del dramma, dette posizioni o punti di scena
2) Sceneggiatura, che definisca almeno i passi salienti del dialogo
3) Una prima grezza stesura in prosa, fase che si rende più importante man mano
che l’impiego delle forme musicali convenzionali si fa più sofisticato
Solo dopo queste tre fasi il librettista può procedere da solo alla verseggiatura → questo
procedimento di graduale definizione narrativa presuppone a sua volta una lettura di senso
inverso che il librettista e il musicista devono aver compiuto sul testo della fonte in un
processo di progressiva astrazione: testo verbale → intreccio → storia narrabile →
schema delle funzioni di base che reggono l’edificio concettuale del dramma.
Fissata l’ossatura, il librettista organizza il testo dei numeri in strofe e lasse rigorosamente
isometriche, che il compositore traduce in membri melodici simmetrici (lyric form), spesso
ricchissimi di appoggiature sulle sillabe accentate e in frasi equilibrate dal respiro ampio e
prevedibile negli approdi cadenzali, intuibili già a primo ascolto → l’isoritmia configura un

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sistema economico-musicale, che dà grande nettezza alla frase e annulla quella dispersiva
ricerca di varietà melodica.
Oltre che nel gusto drammatico, nelle forme e nello stile, il primo Ottocento assiste a una
rivoluzione nel sistema delle voci: ad ereditare il carattere ermafroditico del castrato è il
contralto, in Rossini, che riveste ruoli seri o buffi, muliebri o virili, ma non per questo
asessuato.
Dal contralto rossiniano si genera il soprano Romantico; allo stesso modo anche il tenore,
sia amoroso che di carattere, parte da un robusto registro grave baritonale, allungato dal
falsettone nelle altezze vertiginose.
Analogamente anche la voce di basso muove versa il registro acuto, diventando così il
moderno baritono (Guglielmo Tell o Figaro).
Con Bellini o Donizetti si afferma definitivamente il tenore come cardine del sistema vocale
e drammatico → piuttosto innaturale nel suo slancio verso l’acuto è voce idealizzante e
romantica per eccellenza, piegata sia al sentimento elegiaco sia all’impeto della ribellione
pugnace.
Nel romanticismo, l’equazione settecentesca tra amore = piacere viene soppiantata da quella
romantica amore = dolore, così che il tenore protesta ragioni ideale alla sua passione,
eliminando così il canto fiorito.
Al tenore corrisponde il soprano, enfatizzato nel registro acuto: la sua voce eterea dà pieno
sfogo alla vulnerabile fragilità della donna innamorata, che solo nella determinazione al
sacrificio trova la forza di sostenere una sconfitta esistenziale che è però una vittoria morale.
Per contro, si separa sempre più nettamente dalla voce di basso grave quella del baritono,
ossia l’uomo nobile, maturo, energico, anche malvagio o traditore, antagonista del tenore.
Come schema base della drammaturgia operistica romantica si fissa il triangolo vocale che,
pur passibile di tante varianti, tramite l’aggiunta di un’altra prima donna o di un altro basso,
soggiace alla ripetitività → il tenore ama un soprano di cui il baritono è geloso.
Verdi complica questo schema attraverso la scelta di soggetti che acutizzino in senso etico
l’attrito tra i valori sociali e quelli sentimentali, ossia facciano appello diretto al senso
patriottico degli spettatori, intesi come collettività idealmente allargata della nazione tutta.
Il destino amoroso delle eroine verdiane, romanticamente votate al sacrificio, si scontra o si
intreccia volentieri con la lotta per la libertà o contro l’oppressione dello straniero o la
tirannide di una fazione o di una casta.

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ð DALL’UNITÀ IN POI
Sull’arco del lungo risorgimento politico d’Italia il Melodramma era stato per le élites che
frequentavano i teatri il surrogato di una vita sognata e non vissuta → proiettava
nell’immaginario collettivo sentimenti, comportamenti ed ideali esemplari ma preclusi
all’azione; fungeva dunque da potente catalizzatore ideologico e sublimatorio.
Nello stato nazionale moderno diventa invece la cornice spettacolare di un ostentato
desiderio di modernità culturale, che sia al passo con le altre grandi potenze d’Europa.
Muta negli uomini di teatro e nel pubblico il rapporto con la tradizione; il repertorio assicura
la compresenza del vecchio col nuovo, del possesso col progresso.
La ricerca della novità in quanto tale e il rifiuto programmatio della solita forma diventano
un vessillo polemico nella poetica degli autori e dei pubblicisti → Mefistofele di Boito
primo manifesto dell’avanguardia operistica italiana.
Nel panorama degli autori di questo periodo regna sovrana la produzione musicale verdiana,
che diventa una sorta di complesso paterno per il mondo musicale italiano → il cono delle
opere verdiane viene squarciato a due riprese da Verdi stesso, coadiuvato da Boito, in veste
di librettista, nell’Otello e nel Falstaff, due opere decisamente più complesse delle
precedenti, sotto il profilo letterario (sofisticatezza metrica e lessicale), compositivo (per le
forme duttili e squarciate, per la valentia canora richiesta, per la ricchezza del tessuto
orchestrale) e drammatico (per la caratterizzazione eccentrica dei personaggi non meno che
per il movimento scenico-musicale grandioso nella simultaneità delle azioni contrapposte).
L’ansia di modernità si manifesta soprattutto nel peso crescente che l’opera non italiana
tiene nei cartelloni, e nel fatto che essa fornisca dei modelli artistici ed ideali estetici degni
di imitazione e di emulazione → grand opéra Meyerbeer, Gounoud, opere romantiche di
Wagner, Carmen di Bizet, Massenet.
La variante italiana del grand opéra è l’opera ballo, sensazionalistica nell’azione fitta di
chocs e nel dispiegamento di masse, spettacolosa nei grandi tableaux concertanti,
sovrabbondante nel gusto pittoresco e nelle pennellate sonore di colore locale esotico o
storico, rimpinzata di movimenti coreografici e corali.
Da Wagner e dalle sue idee gli italiani attingono l’ideale di una declamazione melodica
ispirata e di una pervasiva poetizzazione del dramma, sia in senso grandioso sia in senso
romantico e simbolista.
La tecnica del Leitmotiv entra nelle consuetudini compositive, di Puccini in primis,
soprattutto attraverso l’esempio della declinazione flessibile ed evocatrice, allusiva, che ne
dà Massenet.

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Carmen diventa l’opera capostipite del verismo, ossia di quell’ideale operistico che punta a
raffigurare a forti tinte la tranche de vie, i soggetti bassi, il rovinoso scatenarsi degli istinti
nella seduzione erotica → il concetto di verismo era già a portata di mano nel dibattito
letterario franco-italiano degli anni ’80 dell’Ottocento, e l’affiliazione del melodramma
verista al verismo letterario di Zola e Verga sembrò essere ovvia con la composizione
dell’atto unico di Cavalleria Rusticana di Piero Mascagni, tratto dall’omonimo dramma
verghiano.
Le opere della Giovane Scuola aderiscono solo superficialmente alla poetica sociologica e
demopsicologica del verismo letterario → il verismo musicale concentra invece l’interesse
non tanto sullo sviluppo logico necessario delle passioni e dei fatti verso la catastrofe, ma
piuttosto sull’effetto della catastrofe in se, ossia sulla legge ineluttabile della fatalità e sulla
veemenza assoluta della passione in drammi elementarmente erotici (es. Femme fatale).
Importa ai veristi di mobilitare le simpatie dello spettatore via via per ciascuno degli amanti
sventurati, in una drammaturgia che non va esente da tratti isterici → da un punto di vista
compositivo, il verismo è caratterizzato dalla pregnanza di melodie spesso divaricate, il
decorso ritmico palpitante e discontinuo, l’incedere a strattoni del ritmo armonico, la
reiterazione ossessiva di temi ricorrenti, il susseguirsi di acmi ed apici nella tensione
melodica e sonora, l’orchestra usata come parossistica cassa di risonanza delle voci, la
sillabazione martellata, gli attacchi di impeto, il singulto ed il grido, ottenuti forzando il
limite superiore del registro centrale, le oasi di appagata pienezza canora, l’uso della musica
di scena.
Il linguaggio musicale però non è intrinsecamente realistico → l’ambientazione popolare dei
soggetti drammatici non attinge a qualsiasi substrato melodico folklorico, né tantomeno alla
struttura fonetica della lingua parlata.
Veristico è pertanto l’attimo straziante verso cui precipita l’azione: è spesso negata, all’eroe
soccombente, la catarsi del canto del cigno, la consolatoria risonanza canora con cui si
congedano dalla vita gli uomini e le donne di Verdi, mentre lo strappo fatale, nella sua
atrocità, è consegnato talvolta al parlato nudo e crudo.
L’intreccio mortifero dell’arte e della vita è suggellato dalla rottura repentina del canto,
ossia proprio dal diniego della convenzione primaria d’ogni drammaturgia musicale (Es.
Pagliacci, Andrea Chénier, Adriana Lecouvrer).
GIACOMO PUCCINI → si spinge più avanti nel percorso dove il naturalismo interseca il
decadentismo. Già in Manon Lescaut è radicale la rappresentazione dell’amore come
maledizione e della morte come adempimento di un destino insensato; rispetto alla fonte

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originaria o l’omonimo dramma di Massenet, qui l’opera è connotata da un erotismo cieco e
fatale, rappresentato come precipizio inesorabile → i personaggi sono i poli di un contrasto
elementare.
Non narra quindi la storia di amanti dissoluti, ma descrive per ellissi quattro fasi di un
progressivo disfacimento morale: assiduamente ripetuti e giustapposti, senza variazioni o
sviluppi, i temi ricorrenti perseguitano l’amore dei due giovani come un’ossessione. Il
tessuto connettivo dell’azione è dato dalla reiterazione di disegni orchestrali brevi ed
incisivi, quasi ostinati.
I profili melodici sono fluttuanti, ampi nel loro respiro diatonico e Puccini cerca di
dissolvere in prosa musicale propulsiva le forme canore standardizzate, quando non siano
giustificabile come musiche di scena o di ambiente.
Anche nelle opere successive Puccini usa la suspense nei momenti culminanti, come
immedesimazione emotiva dello spettatore, in attesa di un evento che deve verificarsi ma
non si sa quando, in un procedimento che diventerà prassi della musica cinematografica.
L’elaborazione della naturalistica drammaturgia sonora di Puccini non era sicuramente una
cosa agevole → i librettisti spesso si trovavano in disaccordo con l’autore, circa alcune delle
sue idee.
Estetismo e decadentismo si accentuano nella Fanciulla del West, dove per lunghi tratti il
canto si riduce a brusco e rude dialogo e tocca alla mimica orchestrale intessere un discorso
fatto ad armonie caleidoscopiche, e culminano nella incompiuta Turandot, dove il dramma
si consuma nell’attrito micidiale tra mondi umani e sonori incompatibili: da un lato l’algida,
sadica cineseria modale e timbrica per Turandot, dall’altro il dolente esotismo
transcaucasico per Calaf e Liù.
Finita la moda veristica in Italia si presenta un quadro piuttosto eclettico: da un lato si
persiste nella ricerca della popolarità, sulla linea Mascagni-Puccini, mentre dall’altro si
diffonde tra gli autori più giovani uno sperimentalismo in dichiarata antitesi alla corriva
immediatezza del melodramma commerciale.
Col rigetto della continuità storica, la riscoperta del passato remoto della musica d’Italia,
stimolata dall’erudizione e dall’estetismo, si alimentò poderosamente del gusto dannunziano
→ D’Annunzio stesso fu librettista di alcune opere di Pizzetti, Mascagni, Franchetti e
Zandonai, nel genere dell’opéra dialogué, un genere in voga in Russia o in Germania.
Mascagni e Zandonai musicano i versi con lusso sonoro, ridondanza melodica e colorito
antiquato, mentre Pizzetti ripiega per reazione su una vocalità dimessa, una sillabazione

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austera ed ascetica, un’astinenza melodica contemplativa e penitenziale: il suono è povero,
una sorta di alone armonico.
Malipiero invece scrive sempre sulla scia di un pessimismo radicale, ma con tratti stralunati
e beffardi → rinuncia alla storia narrabile in luogo di una fissità contemplativa su oggetti
musicali in sé.
I topoi cardine sono da un lato la rievocazione dell’intatta bellezza dell’antico mentre
dall’altro l’insidia fatale del disfacimento → la ricerca di astratte tipizzazioni, di
personificazioni allegoriche, di figure spogliate di qualsiasi individuazione psicologica
conduce Malipiero ad attingere da un doppio genus loci veneziano, ossia il teatro di
Monteverdi e il teatro di Goldoni, ridotti però alla dimensione surreale della favola e della
maschera.
Ermanno Wolf-Ferrari si situa in una sorta di goldonismo evocativo e metafisico,
scrivendo delle commedie in musica che toccheranno un apice di neorossiniana levità e
freschezza.
A partire dagli anni ’30 non esiste più un’entità unitaria che possa definirsi opera italiana; la
crisi è duplice, sia dalla parte della produzione che dalla parte della ricezione → sfocia in
una crisi planetaria dell’opera, che dai linguaggi post-tonali della musica contemporanea
vede minare le basi stesse della cantabilità, ossia della qualità primaria su cui fin dalla
nascita s’era retto il genere; crisi dell’arte impegnata entro un’istituzione che è sempre più
votato alla conservazione del grande repertorio e restio alla modernità e, dunque, nella
prospettiva dell’avanguardia, degno più che altro di essere contestato.

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