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* Paolo Inghilleri è autore dei paragrafi 1° e 4°; Nicola Rainisio del 2° e 3°.
1 Per il concetto psicologico di artefatto, cioè di prodotto artificiale umano non pre-
sente in natura, si rimanda a INGHILLERI, 2009.
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Tuttavia, non tutti gli ambienti naturali sono uguali tra loro e ugual-
mente performanti nel produrre benessere in persone differenti.
La ricerca semiotica (STIGSDOTTER e GRAHN, 2002) ha individuato
alcuni “caratteri” dominanti che la natura comunica a chi la frequenta, e
che corrispondono pertanto a schemi cognitivi di categorizzazione del
territorio: sereno, selvaggio, ricco di specie, spazio “altro”, comune, pia-
cevole, festivo, culturale.
Queste qualità possono essere compresenti nello stesso scenario e pos-
sono essere percepite diversamente da utenti differenti.
È necessario, infatti, che le aspettative dei soggetti e le peculiarità
ambientali siano compatibili, favorendo così l’insorgenza d’esperienze
positive (DELLE FAVE, 2007) soddisfacenti per gli esseri umani e positive
anche dal punto di vista ambientale.
KORPELA ET ALII (2008) hanno individuato a questo proposito alcu-
ni fattori soggettivi in grado di favorire le esperienze ristorative in con-
testi naturali: la tendenza all’ottimismo, il livello di soddisfazione di
vita, le esperienze maturate in ambienti simili. Inoltre, a un aumento
delle preoccupazioni soggettive legate alle condizioni lavoro o al reddito
sembra corrispondere un effetto di moderazione tendenzialmente più
forte a opera delle aree naturali.
Per quanto concerne gli ambienti invece, sono state avanzate diffe-
renti ipotesi.
In termini generali, e secondo il Reasonable Person Model (RPM, KA-
PLAN E KAPLAN, 2003), un luogo è altamente strutturante quando sod-
disfa i bisogni informazionali primari di chi lo frequenta, in particolare
quelli di comprensione, esplorazione, guida per l’azione e mantenimen-
to dei livelli ottimali di prestazione cognitiva.
Partendo da questo assunto, la revisione della letteratura ci fornisce
indicazioni interessanti; alcune di esse sono ormai diventate dei “classi-
ci”. APPLETON (1975), in una prospettiva evoluzionistica, suggerisce che
lo sviluppo filogenetico motivi la preferenza per ambienti che permetta-
no di sentirsi al riparo e contemporaneamente avere una visione ampia
I luoghi del benessere 221
prio della vita di tutti i giorni grazie all’impiego di una forma di attenzio-
ne definita “volontaria” (JAMES, 1892), cioè volontariamente orientata dai
soggetti su attività che spontaneamente non la eliciterebbero, in quanto
strutturalmente poco stimolanti e interessanti.
Questa risorsa attentiva non è tuttavia illimitata, ma tende a esaurir-
si sovraccaricando le funzioni cognitive fondamentali.
La perdita di controllo volontario che ne deriva può comportare la
limitazione di alcune tra le principali attività cognitive: selezione del-
l’informazione e risoluzione di problemi, inibizione dei comportamenti,
concentrazione, pianificazione ed elaborazione di strategie.
È necessario perciò attivare risorse che prevengano questi effetti ne-
gativi, solitamente segnalati da uno stato emotivo di profonda irritabilità,
e ripristinino le condizioni ottimali di attenzione volontaria, evitando la
paralisi dell’intero sistema. Si tratta insomma, utilizzando un’espressione
diffusa nel sentire comune, di “ricaricare le pile”.
È qui che entra in gioco la fascination (KAPLAN e KAPLAN, 1989), cioè
l’attenzione involontaria o senza sforzo, che non richiede fatica cognitiva
ed è indotta e guidata direttamente dalla piacevolezza degli stimoli am-
bientali. È una risorsa multidimensionale, entro la quale si possono di-
stinguere 4 tipi in base all’intensità del fenomeno o allo stimolo esterno
che tende ad attivarlo:
CONTENT
SOFT HARD
PROCESS
- Soft/Hard Fascination:
L’attenzione involontaria si alloca secondo un continuum di inten-
sità che da forme di attrazione automatica nelle quali l’ attivazione
I luoghi del benessere 225
- Process/Content Fascination:
L’attenzione involontaria può essere attivata da specifici contenuti (ad
esempio alberi, acqua, animali), oppure da azioni intraprese intenzional-
mente come attività sportive e ricreative.
Tendenzialmente, la fascinazione per i contenuti si associa a un’atti-
vazione soft, mentre quella per i processi a una hard.
3 Ad esempio, per una persona entomofobica (che ha cioè paura degli insetti) sarà
molto difficile dedicarsi all’esplorazione di un bosco, anche quando questo appaia ai più
come un luogo rilassante e pieno di fascino.
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to con la natura, sia quelli che si presentavano come cause della loro par-
tecipazione agli “outdoor programs”. Ma è solo dopo il ritorno a casa che le
sensazioni provate si trasformano in pattern coerenti e innovativi di co-
gnizione-comportamento, con l’adozione di nuovi approcci alla vita,
quali ad esempio:
SELF EMPOWERMENT
WELL-BEING
SELF REGULATION
5 Con questo termine, che non ha un corrispettivo adeguato nella lingua italiana, si
definisce un processo sociale attraverso il quale persone, organizzazioni e comunità acqui-
siscono nuove forme di competenza sul proprio ambiente di vita al fine di modificarne gli
assetti e migliorarne le qualità generali (WALLERSTEIN, 2006). Si tratta di un costrutto
multilivello che può riguardare sia la psicologia individuale, sia lo sviluppo sociale e poli-
tico delle comunità (cfr. FREIRE, 1970; RAPPAPORT, 1984; ZIMMERMAN, 2000).
6 Traduzione degli autori.
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delle aree verdi «come luoghi dedicati alla salute, non semplicemente
per le loro particolari caratteristiche paesaggistiche, ma a causa della va-
sta gamma di attività fisiche che vi si possono svolgere»7(ivi, p. 1346).
Si ipotizza cioè che sia in corso un importante processo di risignificazio-
ne degli spazi del quotidiano, in particolare quelli naturali, come siti di
conservazione della buona salute.
Queste stesse aree appaiono come zone transazionali (transactional zones,
ROSE, 1999), cioè luoghi dove si incontrano i desideri individuali di salu-
te e le politiche governative a questo riguardo. Le molte ricerche che stu-
diano i fattori in grado di favorire la mobilità a piedi ne sono un ottimo
esempio, poiché rileggono lo spazio pubblico in termini di walkability,
cioè in base alla probabilità che le caratteristiche territoriali influenzino
positivamente la scelte di micromobilità quotidiana pedonale, con effetti
di ricaduta a cascata sulla salute generale della popolazione.
ALFONZO (2005) ha proposto un modello gerarchico delle determi-
nanti del camminare, ispirato alla teoria dei bisogni di MASLOW (1954),
che indica quali necessità psicologiche l’ambiente deve assolvere per
implementare l’attività fisica, lungo una piramide alla cui base si trova-
no i limiti fisici (fattibilità, accessibilità), poi quelli psicologici (sicurez-
za percepita), fino a raggiungere forme più complesse di compatibilità
psico-ambientale (confort e piacere estetico).
LESLIE ET ALII (2005) hanno individuato nove fattori determinanti
per la “camminabilità” di un quartiere: densità residenziale, varietà di
attività commerciali e sociali, possibilità di accesso ai servizi di prossimi-
tà, connettività delle strade, percorsi pedonali e ciclabili, estetica gene-
rale, distanza dal traffico veicolare, sicurezza sociale, soddisfazione globa-
le per il quartiere di residenza.
L’obiettivo comune sembra essere quello di suggerire buone pratiche
per un disegno urbano integrato, che sappia coniugare bisogni indivi-
duali e politiche sociali del benessere. Questa necessità è tanto più senti-
ta all’interno dei luoghi che hanno quotidianamente a che fare col trat-
tamento della malattia in tutte le sue forme: gli ospedali.
Come accennato in precedenza, questo paradigma emergente di salute
pubblica suggerisce alle singole istituzioni ospedaliere un ritorno a un’ot-
tica olistica di trattamento, finalizzata all’accoglimento del paziente nella
sua totalità come persona e non come anonimo portatore di sintomi.
ture ufficiali non c’è traccia di riconoscimento legale, e le aree verdi risul-
tano ancora lotti vacanti non vincolati all’attuale funzione.
Di riflesso, anche il disegno del giardino si distingue per l’assenza di
progettualità “ufficiale”, caratterizzato da una lettura istintiva e mutevo-
le del rapporto con la natura, nella quale il patchwork visivo rappresen-
ta fedelmente le diversità sociali dei partecipanti.
Chi vi lavora non è mai un professionista nel campo paesaggistico o
agrario, e «il processo di creazione che ha dato vita a ciascuno di questi
giardini non costituisce un’esperienza a sé e non è, in nessun caso, ogget-
to di mestiere; esso rientra invece tra le tante espressioni della quotidia-
nità, come il modo di vestirsi, di parlare, di cucinare» (PASQUALI, 2006,
p. 58). Come tale si avvale anche degli scarti che l’attività quotidiana
produce, recuperando e riutilizzando come elementi decorativi o funzio-
nali oggetti desueti, per loro natura temporanei e soggetti allo scorrere
delle mode e delle abitudini sociali. I community gardens appaiono infatti
in costante mutamento, luoghi transitori che tendono a evolvere spesso
in funzione dei desideri dei loro gestori o delle logiche speculative pro-
prie della città “ufficiale”, giardini eterocliti (Ibid.) la cui forza è insita in
un processo di continua mescolanza sociale.
ARMSTRONG (2000) ha condotto una ricerca survey sui community gar-
dens presenti nello Stato di New York, approfondendo le forme associati-
ve, i sistemi di gestione e le motivazioni dei partecipanti. Il dato che
emerge è quello della pluralità di motivi di attrazione riscontrati, tra i
quali si distinguono obiettivi economici (vendita prodotti, risparmio
domestico), ristorativi (frequentazione di ambienti naturali con recupero
di energia psichica), culturali (recupero delle tradizioni) e generativi (par-
tecipazione a un nuovo modello sociale, sviluppo comunitario).
Quest’ultima funzione, caratterizzata dall’aumento dei legami socia-
li e dalla percezione di un’accresciuta capacità di agency sul territorio, è
considerata prioritaria dai partecipanti e dalle istituzioni che ne suppor-
tano il lavoro, le quali vedono nei giardini informali la possibilità di svi-
luppare micro-progetti di salute pubblica e riqualificazione.
Il community garden ben avviato sembra infatti funzionare da incuba-
tore spontaneo delle iniziative locali, offrendo un punto di riferimento
per lo sviluppo di nuovi programmi comunitari, per la conduzione di
rivendicazioni territoriali, per la crescita di attività autonome.
In questa veste si qualifica anche come motore economico di breve
(coltivazione) e lungo periodo (sviluppo di comunità, aumento attività
generali), caratterizzato da esiti pratici (maggior qualità ambientale per-
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ABSTRACT