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I LUOGHI DEL BENESSERE

I PARCHI TRA STRATEGIE COGNITIVE ED EMPOWERMENT TERRITORIALE*

I luoghi del benessere

Gli esseri umani preferiscono gli ambienti naturali, poiché possiedo-


no caratteristiche intrinseche in grado di attivare sia il piacere estetico
immediato sia forme più complesse d’attaccamento, soddisfacendo alcu-
ne fondamentali necessità psicologiche.
La ragione di tale preferenza può essere ricercata nella complessa inte-
razione fra tre sistemi evolutivi: genetico, cognitivo e socio-culturale.
L’idea di biophilia (WILSON, 1984) suggerisce un’innata affiliazione
emozionale tra gli esseri umani e gli altri organismi viventi, determina-
ta dall’evoluzione bio-culturale in un ambiente non ancora caratterizza-
to dall’attuale panorama tecnologico, entro il quale il comportamento e
la trasmissione culturale (DAWKINS, 1976) sono stati modellati dal rap-
porto adattativo con la natura.
Questo legame si articola nel quotidiano in strategie cognitive d’au-
toregolazione che utilizzano, spesso in maniera cosciente, gli ambienti
naturali come artefatti1 in grado di implementare il benessere percepito
favorendo i cambiamenti d’umore, la riduzione dello stress, l’attivazione
di capacità cognitive e di concentrazione e la riproduzione d’esperienze
dotate di senso, piacevoli (CSIKSZENTMIHALYI, 1980) e motivate interna-
mente (DECI 1975; DECI E RYAN, 2000).

* Paolo Inghilleri è autore dei paragrafi 1° e 4°; Nicola Rainisio del 2° e 3°.
1 Per il concetto psicologico di artefatto, cioè di prodotto artificiale umano non pre-
sente in natura, si rimanda a INGHILLERI, 2009.
220 Paolo Inghilleri e Nicola Rainisio

Queste environmental strategies (KORPELA, 1989; 1992) non riguarda-


no individui isolati, ma soggetti che comunicano, interagiscono, forma-
no gruppi.
I luoghi del benessere sono così socializzati, discussi e interpretati,
finendo per divenire patrimonio identitario comune e fondamento di
pratiche generative per il territorio.

Tuttavia, non tutti gli ambienti naturali sono uguali tra loro e ugual-
mente performanti nel produrre benessere in persone differenti.
La ricerca semiotica (STIGSDOTTER e GRAHN, 2002) ha individuato
alcuni “caratteri” dominanti che la natura comunica a chi la frequenta, e
che corrispondono pertanto a schemi cognitivi di categorizzazione del
territorio: sereno, selvaggio, ricco di specie, spazio “altro”, comune, pia-
cevole, festivo, culturale.
Queste qualità possono essere compresenti nello stesso scenario e pos-
sono essere percepite diversamente da utenti differenti.
È necessario, infatti, che le aspettative dei soggetti e le peculiarità
ambientali siano compatibili, favorendo così l’insorgenza d’esperienze
positive (DELLE FAVE, 2007) soddisfacenti per gli esseri umani e positive
anche dal punto di vista ambientale.
KORPELA ET ALII (2008) hanno individuato a questo proposito alcu-
ni fattori soggettivi in grado di favorire le esperienze ristorative in con-
testi naturali: la tendenza all’ottimismo, il livello di soddisfazione di
vita, le esperienze maturate in ambienti simili. Inoltre, a un aumento
delle preoccupazioni soggettive legate alle condizioni lavoro o al reddito
sembra corrispondere un effetto di moderazione tendenzialmente più
forte a opera delle aree naturali.
Per quanto concerne gli ambienti invece, sono state avanzate diffe-
renti ipotesi.
In termini generali, e secondo il Reasonable Person Model (RPM, KA-
PLAN E KAPLAN, 2003), un luogo è altamente strutturante quando sod-
disfa i bisogni informazionali primari di chi lo frequenta, in particolare
quelli di comprensione, esplorazione, guida per l’azione e mantenimen-
to dei livelli ottimali di prestazione cognitiva.
Partendo da questo assunto, la revisione della letteratura ci fornisce
indicazioni interessanti; alcune di esse sono ormai diventate dei “classi-
ci”. APPLETON (1975), in una prospettiva evoluzionistica, suggerisce che
lo sviluppo filogenetico motivi la preferenza per ambienti che permetta-
no di sentirsi al riparo e contemporaneamente avere una visione ampia
I luoghi del benessere 221

sul mondo circostante. ORIANS (1980) individua nella savana l’ ”archeti-


po” ambientale principale per gli esseri umani, le cui caratteristiche
salienti sarebbero tuttora ricercate nel paesaggio in quanto capaci di evo-
care con forza emozioni positive.
Sono state così rilevate le preferenze soggettive per la forma degli albe-
ri (LOHR e PEARSON-MIMS, 2006) evidenziando diminuzioni della pressio-
ne sanguigna in corrispondenza della visione di alberi dal fogliame esteso
e cascante, fenomeno che non si verifica in presenza di alberi dalla forma
arrotondata o conica perché caratteristici di paesaggi più poveri di risorse.
Alcune recenti ricerche in Psicologia Ambientale hanno confrontato
ambienti urbani e naturali alla luce degli effetti che questi provocano sul
comportamento e il giudizio umano.
Purtroppo, soltanto un numero esiguo ha approfondito le diverse tipo-
logie esistenti, approdando talvolta a risultati contrastanti (VELARDE, FRY,
TVEIT, 2007)
I risultati di alcune ricerche (LAUMANN, GARLING, STORMARK, 2001),
sembrano indicare un rapporto proporzionale fra wilderness ed effetti di
benessere, dove all’aumentare degli aspetti “selvaggi” di un’area corri-
sponde l’aumento dei giudizi di positività, piacevolezza e soddisfazione.
Altri (HERZOG e CHERNICK, 2000), pur rilevando una significativa
differenza fra ambienti naturali e urbani, notano invece l’effetto opposto,
identificando una forte relazione fra pericolo percepito e ambienti carat-
terizzati da scarsa apertura e folta vegetazione, probabilmente dovuta ai
possibili nascondigli di persone o animali imprevedibili.
Secondo STAATS ET ALII (1997) l’accessibilità percepita aumenta la
piacevolezza, così come vi è una leggera tendenza a preferire le aree natu-
rali a bassa o media densità.
Una ricerca condotta in Olanda su un campione esteso di diecimila
soggetti (DE VRIES, VERHEIJ, GROENEWEGEN, 2003), evidenzia come la
densità di aree verdi nel raggio di tre chilometri dall’abitazione sia fat-
tore importante nel limitare i sintomi di malattia e implementare il
senso di salute generale, ma indipendentemente dal tipo di verde del
quale è possibile fruire.
La presenza di tipologie diverse quali aree agricole, boschi o parchi
urbani non determina infatti nessuna differenza effettiva nel livello di
benessere, eccezion fatta per il possesso di un giardino privato.
ULRICH (1981) infine evidenzia come la presenza dell’acqua sia in gra-
do di catalizzare ulteriori effetti positivi, in particolare sullo stato emo-
zionale delle persone.
222 Paolo Inghilleri e Nicola Rainisio

In generale, la letteratura sul tema sottolinea un primato dell’ambien-


te naturale su quello antropizzato nel produrre benessere psicologico, neu-
tralizzando in parte le fonti di paura, ansia, affaticamento psicofisico.
I due ambienti vi sono tuttavia per lo più rappresentati in forma ge-
nerica, stereotipica, non permettendo di isolare le specifiche caratteristi-
che che orientano le risposte cognitive verso reazioni positive rendendo-
le così disponibili per la progettazione sociale e territoriale.
Si può peraltro affermare che dai dati disponibili emerge una sostan-
ziale conferma del modello quadripartito di KAPLAN e KAPLAN (1989),
secondo il quale i luoghi del benessere sono quelli che assolvono due fun-
zioni adattive fondamentali, comprensione ed esplorazione, favorendo
esperienze e processi cognitivi di coerenza, complessità, leggibilità e
mistero.
In quest’ottica il luogo ideale, rispetto al quale tende a orientarsi la
preferenza soggettiva, sarebbe quello che presenta contemporaneamente,
e in coerenza con il profilo motivazionale individuale, una struttura orga-
nizzata e “leggibile” nei suoi elementi fondativi e una promessa di nuova
informazione tale da motivare l’azione esplorativa.

Altro tema rilevante è quello della tipologia di esperienze vissute a


contatto con la natura e del coinvolgimento in queste.
Una passeggiata nel parco non è, infatti, momento qualitativamente
comparabile all’affacciarsi a una finestra sul cortile, né a raggiungere una
vetta alpina o dedicarsi al giardinaggio come hobby del fine settimana.
Le esperienze nell’ambiente differiscono per profondità (immersione
minima/totale nell’ambito naturale), intensità (nulla/totale richiesta di
risorse psicofisiche), durata, attività richiesta (totalmente psichica/ total-
mente fisica), partecipazione (individuale/gruppale) e obiettivi finali.
La letteratura di settore si è spesso concentrata sui due estremi del
continuum di profondità: da un lato l’ambiente presente come scenario
dietro le quinte di una finestra o “riprodotto” sotto forma di piante d’ap-
partamento, dall’altro l’immersione totalizzante delle wilderness experien-
ces, esperienze avventurose e pervasive in ambienti sconosciuti.
Nel primo caso, la ricerca è stata orientata alla progettazione di con-
dizioni di vita ottimali all’interno di istituzioni (ospedali, strutture psi-
chiatriche, carceri, scuole) o strutture edilizie, nel secondo a cogliere le
modificazioni psicologiche derivanti da un’esperienza che esula dal con-
testo quotidiano di vita mettendo alla prova l’autoefficacia percepita in
situazioni anomale.
I luoghi del benessere 223

Anche l’attività quotidiana e continuativa in ambiente naturale è sta-


ta spesso indagata, nei suoi risvolti terapeutici, sociali e comunitari.
Gli effetti rilevati sono molteplici, vanno dall’immediato al lungo
termine e coinvolgono la totalità del sistema complesso uomo-ambiente:
dal battito cardiaco al cambiamento sociale, dalla conduttanza cutanea
alla costruzione di nuove identità territoriali.

Natura e benessere soggettivo: strategie cognitive ed esperienze ottimali

L’insorgere di un senso di benessere e piacere nel rapporto quotidia-


no con gli ambienti in cui siamo immersi passa inevitabilmente per l’ela-
borazione delle informazioni che da questi provengono, la rievocazione
di quelle già ricevute in passato, le previsioni sulla possibilità di acqui-
sire nuovi dati in futuro.
Le tendenze innate della specie e le affordances2 già presenti in natura,
pur essendo importanti elementi interagenti, non danno adeguatamente
conto della complessità d’azione e concettualizzazione che l’uomo mette in
atto continuamente nei confronti dell’ambiente. L’esperienza quotidiana
delle persone si compone infatti di strategie e obiettivi differenziati, solo
alcuni dei quali riferibili a bisogni primari o filogenetici. L’uomo crea il
suo quotidiano e innova le sue categorie cognitive ricercando il limite esi-
stente fra le sue capacità e le sfide che l’ambiente propone, generando crea-
tività e forme più avanzate di adattamento (VYGOTSKJI, 1934). È possibi-
le cioè parlare di strategie ambientali, cioè azioni finalizzate all’autorego-
lazione da un lato, all’apprendimento di nuove e più soddisfacenti forme
di comportamento dall’altro, entro le quali l’ambiente naturale assume il
ruolo di facilitatore dei processi omeostatici come di quelli creativi.
I processi di autoregolazione coinvolgono l’ambiente naturale quale
luogo ideale in cui le persone possono recuperare l’energia psichica, favo-
rendo nel quotidiano il corretto funzionamento del sistema cognitivo.
L’Attention Restoration Theory (KAPLAN e KAPLAN, 1989; KAPLAN, 1995)
si basa sull’idea che gli uomini possano reggere il carico informativo pro-

2 Con questo termine, di difficile traduzione in italiano, s’intende l’insieme di azio-


ni che un elemento presente nell’ambiente invita a compiere su di esso (GIBSON, 1966).
Ci si riferisce cioè alle proprietà fondamentali degli oggetti e degli elementi ambienta-
li che determinano il modo con cui essi possono essere usati (NORMAN, 1988).
224 Paolo Inghilleri e Nicola Rainisio

prio della vita di tutti i giorni grazie all’impiego di una forma di attenzio-
ne definita “volontaria” (JAMES, 1892), cioè volontariamente orientata dai
soggetti su attività che spontaneamente non la eliciterebbero, in quanto
strutturalmente poco stimolanti e interessanti.
Questa risorsa attentiva non è tuttavia illimitata, ma tende a esaurir-
si sovraccaricando le funzioni cognitive fondamentali.
La perdita di controllo volontario che ne deriva può comportare la
limitazione di alcune tra le principali attività cognitive: selezione del-
l’informazione e risoluzione di problemi, inibizione dei comportamenti,
concentrazione, pianificazione ed elaborazione di strategie.
È necessario perciò attivare risorse che prevengano questi effetti ne-
gativi, solitamente segnalati da uno stato emotivo di profonda irritabilità,
e ripristinino le condizioni ottimali di attenzione volontaria, evitando la
paralisi dell’intero sistema. Si tratta insomma, utilizzando un’espressione
diffusa nel sentire comune, di “ricaricare le pile”.
È qui che entra in gioco la fascination (KAPLAN e KAPLAN, 1989), cioè
l’attenzione involontaria o senza sforzo, che non richiede fatica cognitiva
ed è indotta e guidata direttamente dalla piacevolezza degli stimoli am-
bientali. È una risorsa multidimensionale, entro la quale si possono di-
stinguere 4 tipi in base all’intensità del fenomeno o allo stimolo esterno
che tende ad attivarlo:

CONTENT

SOFT HARD

PROCESS

Figura 1 – Le dimensioni della fascination.

- Soft/Hard Fascination:
L’attenzione involontaria si alloca secondo un continuum di inten-
sità che da forme di attrazione automatica nelle quali l’ attivazione
I luoghi del benessere 225

(arousal) è minima procede verso altre che richiedono maggior coinvol-


gimento.
L’esempio tipico di soft fascination è rappresentato dalla contemplazio-
ne di un panorama o dalla passeggiata in un parco, mentre si definisco-
no “hard”, ad esempio, i momenti di attrazione involontaria legati alla
fruizione di spettacoli o eventi televisivi.

- Process/Content Fascination:
L’attenzione involontaria può essere attivata da specifici contenuti (ad
esempio alberi, acqua, animali), oppure da azioni intraprese intenzional-
mente come attività sportive e ricreative.
Tendenzialmente, la fascinazione per i contenuti si associa a un’atti-
vazione soft, mentre quella per i processi a una hard.

La fascination, pur essendo un elemento determinante per il dispiegar-


si di un’esperienza ristorativa, non è in grado da sola di generare espe-
rienze di benessere.
Oltre al recupero attentivo, Kaplan segnala altre tre condizioni psico-
ambientali necessarie: being away, extent e compatibility.
Con being away si definisce la sensazione di “essere altrove” rispetto
alle normali situazioni del quotidiano, fuori dai contesti nei quali nor-
malmente si sperimenta fatica cognitiva.
L’extent è invece una caratteristica generale dell’ambiente, il quale de-
ve risultare abbastanza ricco e coerente da stimolare da un lato le natu-
rali tendenze esploratorie, dall’altro soddisfare i bisogni di comprensio-
ne e adattamento preliminari.
Queste qualità potrebbero in realtà essere incluse nell’idea di compa-
tibility, intesa come elevata adattabilità (fitness) fra condizioni ambienta-
li e obiettivi e capacità individuali3.
La necessità di compatibilità introduce quindi nel modello la compo-
nente di variabilità individuale, poichè la fascinazione automatica ha
effetto solo se collima con le finalità, le strategie e le personalità dei sog-
getti coinvolti.

3 Ad esempio, per una persona entomofobica (che ha cioè paura degli insetti) sarà
molto difficile dedicarsi all’esplorazione di un bosco, anche quando questo appaia ai più
come un luogo rilassante e pieno di fascino.
226 Paolo Inghilleri e Nicola Rainisio

Il meccanismo autoregolatorio del recupero cognitivo appare così


come uno dei possibili obiettivi strategici che l’uomo si può porre nei
confronti degli ambienti naturali, non l’unico.
Alcune esperienze di ricerca suggeriscono infatti l’esistenza di strate-
gie che, operando in relazione coi meccanismi autoregolatori, guardano
all’ambiente naturale come al luogo di costruzione di un nuovo Sé e della
promozione di nuove identità e capacità personali, ricercando effetti a
lungo termine e non riducibili al semplice recupero cognitivo.
Si tratta di vere e proprie esperienze autoteliche (CSIKSZENTMIHALYI,
1997), cioè esperienze che vengono percepite e interpretate dai soggetti
come dotate di senso profondo per il Sé, che rappresentano il motivo stes-
so del comportamento in questione, costituendo una motivazione di tipo
intrinseco. In questi casi esse vengono sviluppate principalmente tramite
immersione totale nel paesaggio, entro quelle che vengono chiamate wil-
derness experiences.
Il contatto prolungato con la natura selvaggia e il dispiegarsi in que-
ste situazioni di attività che hanno l’aspetto di vere e proprie sfide con se
stessi (orienteering4, scalate, rafting), permette nel breve termine di svilup-
pare sensazioni di trascendenza (WILLIAMS e HARVEY, 2001) e flusso di
coscienza (CSIKSZENTMIHALYI, 1975; 1982; 1990), mentre sul lungo
periodo induce modificazioni permanenti nella sfera emozionale e carat-
teriale.
Le esperienze trascendenti, così come definite da Williams e Harvey,
sono caratterizzate da alcune caratteristiche chiave:

- Forte sentimento di benessere ed emozioni positive


- Sentimento di superamento dei limiti della vita quotidiana
- Senso di unione e comunione con l’universo o altre entità (natura,
società)
- Coinvolgimento totale nel momento e significatività dello stesso
- Alterazione del senso quotidiano del tempo.

4 Con il termine orienteering o orientamento s’intende un insieme di tecniche che


permettono di riconoscere la propria posizione relativa all’interno di un terreno non
noto. In alcuni casi si tratta di una vera e propria disciplina sportiva in cui si possono
riconoscere la corsa, lo sci, la mountain bike la canoa, l’equitazione di orientamento; in
altri casi costituisce una forma di tempo libero o di attività ludica (F.I.S.O., Federazione
italiana sport di orientamento, www. fiso.it)
I luoghi del benessere 227

Si possono inoltre presentare in due forme quasi antitetiche, una di-


minutiva, l’altra generativa. La prima si caratterizza per un sentimento d’in-
significanza e sottomissione rispetto alla grandezza e alla potenza dell’am-
biente naturale (MITCHELL, 1983; GALLAGHER, 1993).
La seconda richiama da vicino gli stati di flusso di coscienza (flow of
consciousness) descritti da CSIKSZENTMIHALYI (1990) nella teoria dell’espe-
rienza soggettiva ottimale.
Il flusso di coscienza è uno stato transitorio ottimale dal punto di
vista sia cognitivo, che emotivo e motivazionale: l’individuo sperimenta
un alto grado di integrazione fra capacità e sfide percepite, una piena
compatibilità con l’ambiente nel quale opera.
L’esperienza provata è appagante di per sé (autotelica) e autodetermi-
nata (motivazione intrinseca).
Non c’è auto-osservazione ma un totale controllo della situazione, gli
scopi sono chiari e i feedback immediati.
L’ansia e la noia sono sentimenti estranei, mentre è diffuso un senso
di pienezza e benessere (INGHILLERI, 1999).
Questa teoria è rilevante poiché offre una spiegazione a due questio-
ni basilari, quella relativa alle preferenze di luogo e quella che concerne
l’evoluzione del Sé nel rapporto con gli ambienti naturali.
La preferenza infatti sarà accordata in misura maggiore a quegli am-
bienti che favoriscono l’insorgere di stati di flow of consciousness; tali ambien-
ti (e la loro tipologia) saranno così costantemente utilizzati, conservati al
meglio nelle loro qualità ristorative, trasmessi da una generazione all’altra
e anche costantemente reinterpretati e rielaborati in funzione dei cambia-
menti storici e sociali (CSIKSZENTMIHALYI, 1993; INGHILLERI, 2009).
Il ripetersi delle esperienze di flow avrà però un effetto rilevante anche
sul piano del cambiamento individuale.
Per non incorrere in stati di noia o ansia dovuti allo squilibrio fra sfide
ambientali e competenze percepite, è infatti necessario che i soggetti si
cimentino con nuove e più avanzate forme di soddisfazione, ridefinendo
costantemente la propria percezione di sé e le corrispondenti soglie di equi-
librio ottimale (CSIKSZENTMIHALYI, 1980; INGHILLERI, 2003 ).
Alcune ricerche condotte in ambienti naturali (KAPLAN e TALBOT,
1983) sembrano confermare questa ipotesi, verificando ad esempio come
l’esperienza di immersione nella natura selvaggia produca delle modifi-
cazioni caratteriali e personologiche sul lungo periodo. Infatti, già du-
rante il soggiorno nell’ambiente naturale i soggetti tendono a sentirsi
più competenti, capaci di risolvere sia i problemi contingenti nel contat-
228 Paolo Inghilleri e Nicola Rainisio

to con la natura, sia quelli che si presentavano come cause della loro par-
tecipazione agli “outdoor programs”. Ma è solo dopo il ritorno a casa che le
sensazioni provate si trasformano in pattern coerenti e innovativi di co-
gnizione-comportamento, con l’adozione di nuovi approcci alla vita,
quali ad esempio:

- wilderness perspective: riconsiderazione delle modalità e priorità dell’


esistenza quotidiana, forte tensione verso gli ambienti naturali come
modello esistenziale, desiderio di tornare alla natura e ripetervi le espe-
rienze trascendenti provate;
- attività e competenze: conservazione e implementazione delle attività
apprese, riadattamento delle stesse al contesto della vita quotidiana,
accresciuto senso di capacità personale e desiderio di nuove sfide;
- emozioni: maggiore tranquillità, diminuzione delle fonti quotidiane
di ansia e stress, paura latente di perdere le capacità appena acquisite.

L’intero processo di sviluppo individuale in rapporto con l’ambiente


(naturale e non) può essere riassunto nella figura 2.

Hard Fascination Trascendence


Process Fascination Flow Experience

SELF EMPOWERMENT

WELL-BEING

SELF REGULATION

Soft Fascination Restoration


Content Fascination Meditation

Figura 2 – Le strategie ambientali


I luoghi del benessere 229

Le strategie di autoregolazione (riduzione stress, recupero forze co-


gnitive) interagiscono con quelle di rafforzamento del Sé o empowerment5
(sviluppo di nuovi modelli esistenziali, aumentata percezione di compe-
tenza) nel costruire nuove e più soddisfacenti forme identitarie.
L’ambiente naturale è insieme contesto, facilitatore e modulatore
di queste configurazioni emergenti che riguardano l’intero sviluppo
della persona. In quanto tale si colloca al centro di un nuovo paradig-
ma che, partendo dai risultati della ricerca psicosociale, allarga il suo
sguardo alle più generali forme della cura, dello sviluppo e della salu-
te pubblica.

Aree verdi, cura e salute pubblica

Prima che la ricerca scientifica s’interessasse all’ argomento, natura e


cura erano già fortemente associate nel senso comune.
In primo luogo la natura era, e in parte è, riconosciuta come serbato-
io farmaceutico degli uomini, che utilizzavano le piante a scopi terapeu-
tici.
In secondo luogo, i benefici cognitivi finora descritti sono ben pre-
senti nella “psicologia ingenua” degli esseri umani, che li amministrano
in modo spesso consapevole e strategicamente controllato.
Esistono poi determinati luoghi, molti dei quali naturali, il cui pote-
re curativo è venerato e tramandato nel tempo, oggetti di devozione e
pellegrinaggi rituali. Fonti miracolose, montagne sacre, grotte che sono
state al centro di supposti eventi soprannaturali.
Gesler (1993) li ha definiti therapheutic landscapes, cioè luoghi nei
quali «gli ambienti fisici naturali e costruiti, le condizioni sociali e la
percezione umana interagiscono nel creare un’atmosfera propedeutica al
benessere»6(GESLER, 1996, p. 96).

5 Con questo termine, che non ha un corrispettivo adeguato nella lingua italiana, si
definisce un processo sociale attraverso il quale persone, organizzazioni e comunità acqui-
siscono nuove forme di competenza sul proprio ambiente di vita al fine di modificarne gli
assetti e migliorarne le qualità generali (WALLERSTEIN, 2006). Si tratta di un costrutto
multilivello che può riguardare sia la psicologia individuale, sia lo sviluppo sociale e poli-
tico delle comunità (cfr. FREIRE, 1970; RAPPAPORT, 1984; ZIMMERMAN, 2000).
6 Traduzione degli autori.
230 Paolo Inghilleri e Nicola Rainisio

Questi luoghi coincidono raramente con quelli istituzionalmente


deputati alla cura e alla terapia, i quali sono infatti costantemente asso-
ciati alla malattia più che alla guarigione o a un senso di benessere.
Questa rappresentazione di segno negativo è sostanzialmente attribui-
bile alle fasi d’evoluzione storica della pratica ospedaliera (WHITEHOUSE ET
ALII, 2001).
In origine sussisteva infatti un approccio olistico alla malattia che
considerava cioè oggetto di cura la totalità psicofisica dell’individuo, uti-
lizzando a tal fine luoghi di degenza dalle spiccate caratteristiche risto-
rative e naturalistiche.
Nel corso del Diciannovesimo secolo invece, l’avvento di nuove tec-
nologie e la scoperta degli agenti patogeni determinò la trasformazione
radicale del concetto di ospedale nella direzione della specializzazione,
parcellizzazione, centralità del disagio fisico rispetto al benessere genera-
le del paziente.
Attualmente è in corso un ulteriore cambio di paradigma, impronta-
to a un sostanziale recupero della componente olistica nelle pratiche di
cura e terapia, ma anche a una revisione in senso ambientalista delle poli-
tiche di salute pubblica, testimoniata dalle strategie indicate nei più
recenti documenti delle organizzazioni internazionali che se ne occupa-
no (WORLD HEALTH ORGANIZATION, 2004)
La proposta di soluzione di problematiche diffuse quali la sedentarie-
tà, lo stress, il traffico e la cattiva alimentazione passa infatti per il recu-
pero della natura come fattore (buffer) in grado di modularne l’impatto e
invertire le tendenze negative.
DEVRIES ET ALII (2003) sottolineano in questo senso tre effetti prin-
cipali della presenza di aree verdi sulla salute generale della popolazione:

- una maggior concentrazione di aree verdi produce una diminuzione


dei livelli di inquinamento e dunque dell’incidenza delle malattie a
questo collegate;
- la maggior presenza di aree verdi favorisce la frequenza del contatto
con le stesse, permettendo ai cittadini di sfruttarne le qualità ristora-
tive e di svilupparne un uso strategico legato ai processi autoregola-
tori e generativi;
- più verde significa tendenzialmente maggiore attività fisica.

BROWN e BELL (2007) parlano a questo proposito di medicalizzazio-


ne del concetto di natura, cioè dell’emergere di una rappresentazione
I luoghi del benessere 231

delle aree verdi «come luoghi dedicati alla salute, non semplicemente
per le loro particolari caratteristiche paesaggistiche, ma a causa della va-
sta gamma di attività fisiche che vi si possono svolgere»7(ivi, p. 1346).
Si ipotizza cioè che sia in corso un importante processo di risignificazio-
ne degli spazi del quotidiano, in particolare quelli naturali, come siti di
conservazione della buona salute.
Queste stesse aree appaiono come zone transazionali (transactional zones,
ROSE, 1999), cioè luoghi dove si incontrano i desideri individuali di salu-
te e le politiche governative a questo riguardo. Le molte ricerche che stu-
diano i fattori in grado di favorire la mobilità a piedi ne sono un ottimo
esempio, poiché rileggono lo spazio pubblico in termini di walkability,
cioè in base alla probabilità che le caratteristiche territoriali influenzino
positivamente la scelte di micromobilità quotidiana pedonale, con effetti
di ricaduta a cascata sulla salute generale della popolazione.
ALFONZO (2005) ha proposto un modello gerarchico delle determi-
nanti del camminare, ispirato alla teoria dei bisogni di MASLOW (1954),
che indica quali necessità psicologiche l’ambiente deve assolvere per
implementare l’attività fisica, lungo una piramide alla cui base si trova-
no i limiti fisici (fattibilità, accessibilità), poi quelli psicologici (sicurez-
za percepita), fino a raggiungere forme più complesse di compatibilità
psico-ambientale (confort e piacere estetico).
LESLIE ET ALII (2005) hanno individuato nove fattori determinanti
per la “camminabilità” di un quartiere: densità residenziale, varietà di
attività commerciali e sociali, possibilità di accesso ai servizi di prossimi-
tà, connettività delle strade, percorsi pedonali e ciclabili, estetica gene-
rale, distanza dal traffico veicolare, sicurezza sociale, soddisfazione globa-
le per il quartiere di residenza.
L’obiettivo comune sembra essere quello di suggerire buone pratiche
per un disegno urbano integrato, che sappia coniugare bisogni indivi-
duali e politiche sociali del benessere. Questa necessità è tanto più senti-
ta all’interno dei luoghi che hanno quotidianamente a che fare col trat-
tamento della malattia in tutte le sue forme: gli ospedali.
Come accennato in precedenza, questo paradigma emergente di salute
pubblica suggerisce alle singole istituzioni ospedaliere un ritorno a un’ot-
tica olistica di trattamento, finalizzata all’accoglimento del paziente nella
sua totalità come persona e non come anonimo portatore di sintomi.

7 Traduzione degli autori.


232 Paolo Inghilleri e Nicola Rainisio

Non si parla perciò più di singole terapie, ma piuttosto di ambiente


terapeutico, un sistema integrato di pratiche, ambienti e relazioni focaliz-
zate sul benessere.
Il Children’s Hospital and Health Center di San Diego, una delle
prime strutture a utilizzare questo concetto come base per la propria atti-
vità quotidiana, lo definisce

[...] il clima fisico e culturale creato per supportare le famiglie nell’af-


frontare l’ospedalizzazione, le visite mediche, il percorso di cura e le pri-
vazioni.
Progettare un ambiente terapeutico è una filosofia di cura che consiste
nel desiderio di sviluppare uno spazio che generi sentimenti di pace,
speranza, gioia, meditazione e conforto, offrendo inoltre opportunità di
relax, crescita, vicinanza spirituale, umorismo e gioco. Questa filosofia
è motivata dall’idea, supportata dalla ricerca di settore, che questi fat-
tori giochino un ruolo considerevole nel processo psicologico, fisico e
spirituale della guarigione8 (www.chsd.org).

La sperimentazione condotta in questo campo ha ottenuto infatti


risultati sorprendenti non solo circa la soddisfazione per i trattamenti
ricevuti, ma anche per gli effetti immunologici e terapeutici immediati
che si possono ottenere. Classica in questo senso è la ricerca di ULRICH
(1984) sull’esposizione all’ambiente naturale durante il ricovero post-
operatorio.
Confrontando le condizioni di salute di 46 pazienti sottoposti a un
intervento di colecistectomia, divisibili in due gruppi rispettivamente
alloggiati in un’ala dell’ospedale con vista su un piccolo parco e in un’al-
tra con vista su un muro di mattoni, il ricercatore individuò significati-
ve differenze nella salute generale.
Il gruppo con vista sulla natura si caratterizzava infatti per la ridu-
zione dei giorni di ricovero, minori manifestazioni depressive, minore
ricorso a farmaci e diminuzione delle complicazioni. La spiegazione del
fenomeno è da ricercarsi, secondo l’autore, negli effetti immediati di
riduzione dello stress e dell’attivazione spontanea del sistema nervoso che
si determinano nel vedere un paesaggio naturale, anche in assenza di con-
tatto o di azione all’interno di questo.

8 Traduzione degli autori.


I luoghi del benessere 233

L’individuo ospedalizzato infatti si trova in una condizione psicofisi-


ca di grande debolezza, caratterizzata dalla paura per la propria sicurez-
za e dalla perdita temporanea di controllo sulla vita quotidiana, nella
quale anche le possibilità di movimento e di relazione sociale sono ridot-
te al minimo.
Questo stato è altamente dannoso anche per le possibilità di guari-
gione, poiché tende a limitare la mobilitazione delle energie residue uti-
lizzabili per il recupero.
La struttura dei nuovi ospedali tende perciò alla minimizzazione delle
fonti d’ansia permettendo alla rete sociale delle persone di penetrare il più
possibile all’interno della struttura ospedaliera, favorendo una relazione
paritaria fra pazienti e personale, ma anche intervenendo sullo spazio fisico
affinché questo acquisisca caratteri di ristoratività, libertà e familiarità. Non
un luogo di costrizione insomma, o un non-luogo, ma uno spazio dotato di
senso nel quale accogliere il paziente con le sue peculiarità e le sue abitudi-
ni, anche socio-spaziali (FORNARA, BONAIUTO, BONNES, 2006).
In questa direzione l’Academy of Architecture for Health (AAH) ha
promosso un forum permanente sugli ambienti del benessere, finalizza-
to a offrire semplici linee guida per la progettazione degli spazi di cura.
Un ambiente costruito è considerato terapeutico se risponde a tre cri-
teri fondamentali: supporto all’eccellenza clinica nel trattamento del sin-
tomo fisico, supporto psicosociale ai bisogni anche spirituali di pazienti,
familiari e staff, produzione di risultati misurabili circa il miglioramen-
to della salute dei malati e dell’efficacia del personale.
Per renderlo tale si consiglia di ricorrere continuamente all’uso di
riferimenti naturali, siano questi pittorici, acustici o visivi.
La luce naturale, il colore e le aree verdi, che devono essere partico-
larmente visibili nelle aree ospedaliere altamente stressanti come le sale
d’attesa, sono strumenti per favorire la meditazione, il rilassamento e,
ove possibile, una quotidiana attività fisica.
Si parla perciò di healing gardens, cioè aree naturali interne agli ospedali
capaci di innescare processi di cura e implementare il senso di benessere
percepito anche in assenza di una reale esplorazione spaziale.
Oltre ai benefici diretti del contatto visivo con la natura, questi luo-
ghi facilitano i miglioramenti di clima entro l’intera organizzazione, nei
termini di qualità della cura e di riduzione dei fattori di stress lavorati-
vo per il personale (SHERMAN ET ALII, 2005). Gli healing gardens posso-
no essere considerati come un luogo intimo, una “stanza” appartenente
a un più vasto complesso edilizio, con ciò che ne consegue in termini di
234 Paolo Inghilleri e Nicola Rainisio

attaccamento, familiarità e senso di sicurezza (STIGDOTTER e GRAHN,


2002)9.
Lungi dall’essere meri accessori estetici, gli healing gardens si configu-
rano sempre di più come strumenti terapeutici, il cui uso dev’essere
ancora approfondito e integrato entro la pratica clinica quotidiana, in
particolare quella rivolta ai minori e alle loro famiglie. Le prime eviden-
ze di ricerca, focalizzate sulla valutazione di strutture costruite di recen-
te, mostrano alcuni risultati interessanti. Gli utenti ne fanno infatti un
uso strategicamente determinato, ossia vi ricorrono per ridurre le situa-
zioni stressanti di attesa, permettere ai figli non ospedalizzati di rilassar-
si, modulare il proprio umore. I risultati quantitativi indicano che
pazienti e familiari che utilizzano maggiormente queste aree riescono a
ridurre il senso di dolore e paura in modo significativamente superiore a
quelli che non ne fruiscono. Si riscontra inoltre un aumento della soddi-
sfazione nell’utenza e della fiducia in questo tipo di concezione dell’am-
biente ospedaliero, nonché un ritorno economico sul medio periodo dato
dalla diminuzione delle spese quotidiane di farmaci.
Stigdotter e Grahn (ibidem) suggeriscono che la funzionalità dei giar-
dini terapeutici sia legata alla possibilità degli utenti di far fronte alle
richieste ambientali percepite.
Secondo un modello piramidale da loro elaborato, infatti, le persone
si distinguono nel rapporto con la natura in base alla forza mentale, vale
a dire al capitale psicologico, che hanno a disposizione.
Alla base di un’ipotetica piramide si troverebbero i soggetti più
deboli, che necessitano di una bassa stimolazione ambientale e sviluppa-
no forme di coinvolgimento “private”, totalmente autoriferite e autori-
flessive, entro le quali la presenza dell’altro risulta disturbante.
Al secondo gradino ci sarebbero coloro che, pur partecipando emozio-
nalmente alle attività, mantengono una posizione osservativa e solo tan-
genzialmente entrano in contatto con i soggetti attivamente impegnati.
Nella parte alta si posizionerebbero infine quelli che sono in grado di
partecipare ad attività associative che abbiano come riferimento spaziale
il giardino stesso.

9 Questa importante funzione, favorente attaccamento ai luoghi e sicurezza di sé,


può essere di stimolo per innescare i medesimi positivi processi in giardini e parchi di
grandi dimensioni.
I luoghi del benessere 235

È necessario insomma differenziare la proposta ambientale in base al


target di riferimento, sia per quanto riguarda il ruolo sociale (pazienti,
familiari, staff), sia circa le condizioni psicologiche presunte.
Molte istituzioni terapeutiche, in particolare negli Stati Uniti, in
Canada e Gran Bretagna, hanno avviato processi di riqualificazione basa-
ti sulla centralità dell’elemento naturale nel design interno ed esterno, o
sono state progettate ex novo seguendo queste stesse logiche progettuali.
Il Portland Memory Garden (www.portlandmemorygarden.org), de-
dicato ai malati di Alzheimer, è strutturato in modo da favorire il recu-
pero delle memorie perdute, utilizzando piante presenti nei parchi anti-
chi con lo scopo di rivitalizzare i ricordi infantili.
Il medesimo intento ha guidato i progettisti di una residenza per
anziani a Bellinzago Novarese (BOTTA, 2009) nella realizzazione di un
Percorso Sensoriale finalizzato all’evocazione dei ricordi attraverso gli
odori e la visione di strumenti agricoli antichi, utilizzando il dialetto
locale come lingua esplicativa.
Il Jacqueline Fiske Healing Garden di Jupiter (Florida, www.roy-fisher.
com/fiske), sito nei pressi di un centro cardiologico, ha utilizzato gli elemen-
ti naturali per proporre un percorso simbolico di rinascita: alberi secolari,
statue e specchi d’acqua per offrire un senso di continuità e permanenza.
Il centro per malati di cancro Peter Gross, a Seattle, è stato progettato
come una successione di ambienti domestici in grado di restituire ai pazien-
ti un senso di sicurezza e appartenenza, dedicati rispettivamente allo relazio-
ne, allo svago e alla contemplazione della natura (WINTERBOTTOM, 2009).
Presso l’Ospedale Meyer di Firenze è stato creato il progetto di un
giardino e di un orto biologico fatti a misura di bambino e per i bambi-
ni. Un’iniziativa che ha non solo valore simbolico ma anche terapeutico
per i piccoli ospiti del nosocomio toscano. È stato chiamato “Il Giardino
senza bua”. Un giardino senza medicine, sano che coincide con una filo-
sofia di tutela della salute (www.meyer.it/giardinisenzabua)10.

10 Il Meyer di Firenze è la prima struttura ospedaliera italiana progettata e realiz-


zata per ridurre le emissioni inquinanti nell’aria, che fa della sostenibilità ambientale il
suo obiettivo principale (BONNES, FORNARA, BONAIUTO, 2008). Celle fotovoltaiche,
giardini verdi sui terrazzi e sul tetto, piccoli e grandi accorgimenti rendono il Meyer il
primo Ospedale bio-sostenibile d’Italia. A questo, si affianca la scelta già adottata dalla
Fondazione Meyer di avviare da subito il percorso di certificazione Bio-Habitat per
tutto il verde che circonda l’Ospedale.
236 Paolo Inghilleri e Nicola Rainisio

Nel 1970, il Rusk Institute of Rehabilitation Medicine di New York


ha proposto il primo programma nazionale di horticultural therapy (orto-
terapia), una pratica riabilitativa che attualmente va diffondendosi anche
in Italia (www.ortidipace.org).
A differenza del giardino terapeutico, che sfrutta le qualità percetti-
vamente ristorative dell’ambiente, in questo caso è l’attività che vi si
svolge a giocare il ruolo principale.
Si ritiene infatti che il lavoro agricolo quotidiano in comunità e la
presa in carico della salute delle piante coltivate possano condurre a risul-
tati positivi per quanto concerne l’autonomia, la percezione di capacità
personali e la riduzione dei comportamenti devianti.

Anche nell’ambito terapeutico, si può dunque individuare la presen-


za di due sistemi di strategie ambientali differenti e costantemente in
interazione.
Nel primo, si considera la natura come un elemento autoregolatorio,
utile per moderare gli effetti di stress e provocare evoluzioni nell’umore.
Il giardino terapeutico è il luogo del recupero di una condizione ottima-
le perduta.
Nel secondo invece, se ne suggerisce un utilizzo in senso evolutivo,
nella direzione di acquisire nuovi skills (nuove capacità intrapsichiche) e
più positive forme di compatibilità con l’ambiente di vita.
Le terapie basate sull’ambiente (environment-based), mettendo in intera-
zione gli effetti delle aree naturali con attività ad alta specificità (come ad
esempio il giardinaggio in luoghi ospedalieri), innescano processi creativi
sia per il Sé (gli utenti, i cittadini), sia per la realtà sociale (l’istituzione). Ad
esempio, il recupero del benessere psicofisiologico viene promosso dalle
qualità ristorative degli ambienti naturali frequentati, mentre l’attività di
giardinaggio provvede alla ricostruzione progressiva del senso di controllo e
di comunità, restituendo ai praticanti una motivazione intrinseca perduta.
Gli ambiti applicativi di questa pratica terapeutica sono molteplici,
poiché comprendono il reinserimento lavorativo di soggetti appartenen-
ti a categorie svantaggiate, il recupero di gravi situazioni di disagio psi-
cofisico, la conservazione delle attività cognitive quotidiane negli anzia-
ni, lo sviluppo di nuove abilità sociali e manuali nei bambini e negli stu-
denti delle scuole, la possibilità di alleviare la costante sofferenza di lun-
godegenti e malati terminali.
Molte scuole, ad esempio, propongono attualmente programmi esten-
sivi di orticoltura e giardinaggio, finalizzati all’apprendimento esperien-
I luoghi del benessere 237

ziale attraverso la pratica quotidiana e la relazione con il territorio e gli


esperti di settore. Queste attività potrebbero essere organizzate anche
durante l’anno scolastico in ambienti naturali urbani o periurbani come i
Parchi.
Alcune ricerche (HOFFMAN ET ALII, 2004; BOWKER e TEARLE, 2007)
sottolineano come l’impatto di queste attività sia rilevante nell’acquisire
nozioni, nuove capacità e nello sviluppare una coscienza riguardo ai temi
dell’ecologia.
Queste competenze emergenti sono i contenuti fondanti dell’intelligen-
za naturalistica (GARDNER, 1999), recentemente aggiunta da Gardner alla
sua teoria delle intelligenze multiple, segnalata come caratteristica chiave
per il futuro poiché capace di generare nuove e più bilanciate forme di
conoscenza e relazione soggettiva tra uomo e ambiente naturale.
Insieme allo sviluppo intellettuale specifico, si verifica inoltre un
processo di potenziamento del senso generale di autostima e autoeffica-
cia percepita (BANDURA, 1986; 1997) e, attraverso questa si favorisce un
miglioramento diffuso del rendimento scolastico e una fidelizzazione alla
frequenza della scuola.
Gli stessi processi di empowerment si possono trovare nei percorsi tera-
peutici dedicati alla salute mentale. PARR (2007) ha rilevato come nel-
l’evoluzione storica del paradigma di trattamento di queste problemati-
che corrisponda attualmente uno sviluppo positivo delle possibilità di
reinserimento sociale delle persone coinvolte. Mentre in passato i pazien-
ti erano sostanzialmente isolati dal resto della comunità (nelle vecchie
strutture manicomiali) e il rapporto con la natura era considerato come
un sistema di recupero delle qualità “morali” perdute, nel presente il
progetto terapeutico mira al fatto che i pazienti acquisiscano, tramite il
lavoro con la terra, uno status di cittadini attivi a favore del territorio di
riferimento e delle relativa popolazione; il lavoro agricolo deve essere
normale, realmente produttivo e visibile a tutti nelle sue finalità proso-
ciali. I programmi di questo settore attualmente in vigore nei paesi an-
glosassoni si dividono in tre rami secondo finalità: vocazionale, finalizza-
to allo sviluppo professionale, terapeutico, orientato al recupero delle capa-
cità perdute, e sociale, dove l’obiettivo finale è l’empowerment comunitario.
Anche a un livello macrosistemico infatti, gli ambienti naturali, se uti-
lizzati con un progetto come quello appena descritto, possono diventare
elementi rilevanti nell’attivare forme, a volte inedite, di trasformazione,
sviluppo sociale, riappropriazione e risignificazione degli spazi pubblici
urbani.
238 Paolo Inghilleri e Nicola Rainisio

Naturalizzare lo spazio urbano: parchi, giardini pubblici e reti sociali

Il lavoro di ricerca degli psicologi ambientali non si è limitato ad


approfondire gli effetti prossimali degli elementi naturali, quelli cioè che
riguardano modificazioni, temporanee o meno, nella cognizione e nel
comportamento.
Anche gli effetti distali, che prendono in considerazione la valenza
comunitaria della presenza di verde pubblico, sono stati approfonditi in
un’ottica ecologica.
Il rapporto tra individui, gruppi sociali e territorio è infatti in primis
una relazione emotiva e linguistica, costituita dall’ intreccio di memorie,
sentimenti e interpretazioni che i cittadini continuamente producono nel
rapportarsi al proprio ambiente (BONNES ET ALII, 1990; LOW e ALTMAN,
1992).
L’attaccamento al territorio è un elemento fondante dell’identità per-
sonale che, insieme al legame con le figure di riferimento, è in grado di
costruire benessere assolvendo importanti funzioni psicologiche: control-
lo, possibilità di esplorazione, stabilità emotiva.
In quanto tale è stato di volta in volta considerato come fattore
influente nella soddisfazione per la qualità generale della vita (RAINISIO
E INGHILLERI, 2006), nella promozione di comportamenti quotidiani
ecologicamente sostenibili (VALERA E GUARDIA, 2002), nello sviluppo di
processi di rigenerazione urbana (BROWN, PERKINS e BROWN, 2003).
Il modello “ideale” che emerge è quello di un circolo virtuoso entro
il quale le aree verdi presenti negli immediati dintorni degli edifici resi-
denziali attraggono gli abitanti a spendere parte del proprio tempo in
prossimità della loro abitazione, svolgendo le più comuni attività ricrea-
tive e associative e associandole a esperienze positive dal punto di vista
psicologico. Tali attività favoriscono la costruzione di legami sociali
informali con membri del vicinato, che a loro volta tendono a rinforzare
sia il controllo sociale spontaneo, sia forme generative di identificazione
territoriale e orgoglio civico.
I legami costruiti avranno una ripercussione visibile sul territorio e
sulle pratiche quotidiane, nei termini di mantenimento del decoro, ridu-
zione degli episodi di criminalità, sviluppo di attività solidali e cultura-
li, tendenza alla ripetizione di quest’ultime in quanto associate a espe-
rienze positive e autodeterminate.
KUO ET ALII (1998) hanno studiato il rapporto tra legami sociali e
distribuzione del verde pubblico in quartieri ad alta densità abitativa,
I luoghi del benessere 239

notando che la maggior presenza di verde si associa a legami sociali più


forti, favorendo una più assidua frequentazione dello spazio comune.
SULLIVAN ET ALII (2004) rilevano come la preferenza per la frequen-
tazione di spazi verdi accomuni sostanzialmente tutte le categorie, senza
rilevanti differenze di genere, età, abitudini di fruizione e posizionamen-
to spaziale del parco.
Anche l’incidenza di episodi violenti e aggressivi può essere mitigata
dalla presenza di giardini e aree verdi in prossimità delle abitazioni, in
ragione sia del più diffuso controllo informale, sia degli effetti cognitivi
individuali che è capace di generare. Una ricerca condotta nella periferia
disagiata di Chicago (KUO e SULLIVAN, 2001) sottolinea infatti l’esistenza,
in linea con le teorie di Kaplan, di un rapporto significativo tra scarsità di
verde pubblico prossimale e frequenza degli episodi di violenza, mediato
dalla fatica attenzionale che gli abitanti provano nel sostenere le precarie
condizioni urbane di tutti giorni senza poter ricorrere a strategie di risto-
razione che utilizzino come modulatore il territorio a loro più prossimo.
È interessante notare come la circolarità di questo processo virtuoso
renda possibile anche lo sviluppo di percorsi inversi, i quali hanno inizio
da forme associative e identitarie e sfociano nella costituzione di nuove
aree verdi o nella difesa di quelle già esistenti.
Emblematico è il caso dei community gardens, orti comunitari sorti
nelle città statunitensi degli anni Settanta sull’onda dei movimenti per
la qualità della vita e di quelli ambientalisti. Attualmente, nella sola
città di New York, ne esistono più di 850 (PASQUALI, 2008).
Le peculiarità sociali e progettuali di queste realtà emergenti segna-
no una differenza rilevante con parchi e giardini pubblici propriamente
detti, definendosi attraverso tre caratteristiche sociospaziali: marginalità,
informalità, transitorietà.
La marginalità ne è insieme elemento fondante e nemesi, poiché i
giardini nascono dalla necessità di risignificare e riutilizzare scampoli di
città abbandonati o vacanti, utilizzandoli come giardini o orti a disposi-
zione della comunità e dunque restituendo loro una centralità psicologi-
ca per gli utenti e una spaziale come punto di riferimento per la topogra-
fia dei quartieri coinvolti.
L’informalità è un dato culturale, legale e progettuale.
I giardini infatti sono inizialmente appropriazioni indebite di porzio-
ni del territorio, solo in parte sanabili con il passare del tempo.
Nel panorama statunitense esistono fin dagli anni Settanta programmi
pubblici che sostengono e incoraggiano questa pratica, ma nelle mappa-
240 Paolo Inghilleri e Nicola Rainisio

ture ufficiali non c’è traccia di riconoscimento legale, e le aree verdi risul-
tano ancora lotti vacanti non vincolati all’attuale funzione.
Di riflesso, anche il disegno del giardino si distingue per l’assenza di
progettualità “ufficiale”, caratterizzato da una lettura istintiva e mutevo-
le del rapporto con la natura, nella quale il patchwork visivo rappresen-
ta fedelmente le diversità sociali dei partecipanti.
Chi vi lavora non è mai un professionista nel campo paesaggistico o
agrario, e «il processo di creazione che ha dato vita a ciascuno di questi
giardini non costituisce un’esperienza a sé e non è, in nessun caso, ogget-
to di mestiere; esso rientra invece tra le tante espressioni della quotidia-
nità, come il modo di vestirsi, di parlare, di cucinare» (PASQUALI, 2006,
p. 58). Come tale si avvale anche degli scarti che l’attività quotidiana
produce, recuperando e riutilizzando come elementi decorativi o funzio-
nali oggetti desueti, per loro natura temporanei e soggetti allo scorrere
delle mode e delle abitudini sociali. I community gardens appaiono infatti
in costante mutamento, luoghi transitori che tendono a evolvere spesso
in funzione dei desideri dei loro gestori o delle logiche speculative pro-
prie della città “ufficiale”, giardini eterocliti (Ibid.) la cui forza è insita in
un processo di continua mescolanza sociale.
ARMSTRONG (2000) ha condotto una ricerca survey sui community gar-
dens presenti nello Stato di New York, approfondendo le forme associati-
ve, i sistemi di gestione e le motivazioni dei partecipanti. Il dato che
emerge è quello della pluralità di motivi di attrazione riscontrati, tra i
quali si distinguono obiettivi economici (vendita prodotti, risparmio
domestico), ristorativi (frequentazione di ambienti naturali con recupero
di energia psichica), culturali (recupero delle tradizioni) e generativi (par-
tecipazione a un nuovo modello sociale, sviluppo comunitario).
Quest’ultima funzione, caratterizzata dall’aumento dei legami socia-
li e dalla percezione di un’accresciuta capacità di agency sul territorio, è
considerata prioritaria dai partecipanti e dalle istituzioni che ne suppor-
tano il lavoro, le quali vedono nei giardini informali la possibilità di svi-
luppare micro-progetti di salute pubblica e riqualificazione.
Il community garden ben avviato sembra infatti funzionare da incuba-
tore spontaneo delle iniziative locali, offrendo un punto di riferimento
per lo sviluppo di nuovi programmi comunitari, per la conduzione di
rivendicazioni territoriali, per la crescita di attività autonome.
In questa veste si qualifica anche come motore economico di breve
(coltivazione) e lungo periodo (sviluppo di comunità, aumento attività
generali), caratterizzato da esiti pratici (maggior qualità ambientale per-
I luoghi del benessere 241

cepita) quanto simbolici (risignificazione dello spazio, marketing urba-


no, interesse turistico e culturale)
L’attività quotidiana nei giardini si basa su un sistema valoriale
ampiamente condiviso che coinvolge diversi processi sociali: costituzio-
ne di forti legami interni, aiuto reciproco, mutualità della fiducia, deci-
sionalità collettiva, rispetto delle norme stabilite, civismo e costruzione
di comunità (TEIG ET ALII, 2009).
All’interno di tale cornice si riscontrano anche i principali limiti psi-
cosociali del modello, come le asimmetrie di potere tra membri, l’inca-
pacità di gestire le difficoltà del “partecipare”, la tendenza degenerativa
a costituirsi in enclaves separate dal contesto.
Riassumendo, è possibile individuare tre temi cardine del rapporto tra
benessere psicosociale e attività dei giardini comunitari (SALDIVAR-
TANAKA e KRASNY, 2004):

- agricoltura urbana e civica: sicurezza alimentare, possibilità di


coltivare prodotti locali o tipici del paese di provenienza, microred-
diti o risparmi familiari, cultura agricola, recupero di forme tradizio-
nali, sviluppo di coscienza ecologica;
- spazio aperto: possibilità ristorative dell’orticoltura e della frequen-
tazione di aree verdi, abbellimento dell’ambiente urbano, realizzazio-
ne di un ambiente naturale e artificiale realmente partecipato;
- sviluppo comunitario: empowerment individuale e sociale, senso di ap-
partenenza alla comunità, socializzazione diffusa, multiculturalismo,
riduzione dei pericoli sociali, aumento generale della qualità di vita.

L’esperienza dei community gardens è rilevante poiché offre un chiaro


esempio di come gli aspetti psicologici della relazione benessere-natura
possano informare di sé non solo lo sviluppo individuale, ma anche il con-
testo sociale più ampio, andando a potenziare il capitale sociale (JACOBS,
1968) delle comunità territoriali.
È possibile infatti rintracciare la presenza delle due macrostrategie
ambientali di cui abbiamo parlato in precedenza a proposito della cogni-
zione: autoregolazione ed empowerment.
Proiettandole in una dimensione comunitaria, la prima fa riferimento
alla costruzione o conservazione di un ambiente capace il più possibile di
rispondere ai bisogni cognitivi ed emotivi primari: leggibilità del proprio
territorio, senso di controllo, ristorazione delle capacità attentive, modula-
zione degli eventi stressanti, sviluppo adeguato di emozioni positive.
242 Paolo Inghilleri e Nicola Rainisio

La seconda esprime invece una tendenza al cambiamento, all’aumen-


to di complessità delle strutture cognitive e sociali, a processi creativi che
riguardano sia il singolo che i gruppi a cui egli appartiene.

I community gardens e le loro funzioni sul piano psicologico (degli indi-


vidui che li frequentano) e sociale (delle comunità e del territorio in cui
sono inseriti) evidenziano un processo e le proprietà più generali che
riguardano l’ambiente naturale quando questo è influenzato dall’azione
degli esseri umani.
L’ambiente naturale antropizzato, e quindi anche il territorio agrico-
lo, il paesaggio costruito, i parchi, diventano infatti elementi non solo
naturali ma anche culturali e in questo senso possono essere definiti arte-
fatti, prodotti artificiali della cultura umana (VYGOTSKJI, 1934; COLE,
1996; MANTOVANI, 2000; INGHILLERI, 2003 e 2009). È importante sot-
tolineare che ciò vale per tutti i fenomeni di natura organizzata su cui si
attiva il comportamento umano: i community gardens, ma anche i giardini
terapeutici, le zone di verde cittadino, i parchi urbani e periurbani dove
si svolgono attività di tempo libero, i parchi agricoli, dove ancora per-
mangono le attività agricole e le attività lavorative si uniscono con le tra-
dizioni e con le attività di svago.
La psicologia culturale (COLE, 1996; INGHILLERI, 2009) sottolinea da
tempo le proprietà fondamentali degli artefatti e la loro relazione con il
comportamento umano.
In particolare, gli artefatti possiedono due doppie proprietà. La prima
proprietà è che essi hanno, contemporaneamente, una duplice funzione:
da un lato contengono memoria di informazione, dall’altro emettono istruzioni al
comportamento legate a tale memoria e alle loro funzioni.
Un parco, ad esempio, immagazzina e trasporta la storia del territo-
rio, le tradizioni locali, gli stili di vita passati e attuali, tecniche agrico-
le, alimentari o della cultura locale in senso esteso (musica, storie popo-
lari, organizzazione della comunità).
Al contempo però esso emette informazioni che possiamo definire
come una serie di prescrizioni al comportamento: induce per esempio
pratiche agricole legate alla specifica conformazione e alla storia del
luogo; lavori come la pesca o la caccia organizzati socialmente (e variabi-
li nel tempo); modalità di organizzazione sociale (gruppi locali, mante-
nimento delle tradizioni).
Queste istruzioni al comportamento sono legate anche alle funzioni
contemporanee del parco: osservare orari e regole, rispettare norme che
I luoghi del benessere 243

organizzano le attività lavorative; indurre attività di tempo libero che


assolvano alle funzioni di benessere e di socialità che abbiamo prima
descritto relativamente ai luoghi naturali; indurre curiosità e sviluppo
nei visitatori specie nei bambini e nei giovani. Complessivamente l’arte-
fatto parco, se ben organizzato e collegato alla memorie locali e alle esi-
genze attuali delle comunità, può così emettere informazione dotata di
senso, che si collega a esigenze di sviluppo e di benessere.
Ecco allora che quell’artefatto naturale può rimanere attivo nella so-
cietà affiancandosi ad altre istituzioni vive e presenti nel territorio, si può
tramandare nel tempo, può svilupparsi.
Questo processo si basa e deriva da una seconda duplice proprietà
generale degli artefatti (MONOD, 1970) in questo caso applicata, ad
esempio, ai parchi.
Ogni artefatto ha un doppio destino che dipende da fattori psicologici. Da un
lato infatti esso, se lasciato a se stesso, senza cura, senza un sistema di re-
golazione, mantenimento e sviluppo, tende alla perdita di informazione,
di organizzazione, di senso: l’artefatto in questo caso si disgregherà e ten-
derà a scomparire dallo scenario sociale e dalla cultura. Ciò vale sia per
artefatti semplici (pensiamo a un oggetto di ferro lasciato all’aperto per
mesi o anni), sia per artefatti complessi (pensiamo ad esempio a una isti-
tuzione, a un partito politico, un gruppo, una ideologia, una moda o,
appunto, a un parco).
D’altro canto, però, è possibile per ogni artefatto un altro destino,
un’altra forma di sviluppo: se infatti gli esseri umani investono la pro-
pria energia psichica, il proprio pensiero, i propri affetti, i propri com-
portamenti su un artefatto, questo si manterrà nel tempo, si tramanderà,
si svilupperà in funzione di nuove esigenze storiche e sociali. Il compor-
tamento umano permette così a oggetti, luoghi, gruppi organizzati, isti-
tuzioni, sistemi di idee di sopravvivere, di continuare a svolgere le pro-
prie funzioni, di modificarsi in modo adattativo e dotato di senso per la
comunità.
Alla base di questo fondamentale investimento di energia psichica, di
attenzione e di risorse cognitive sull’artefatto c’è la capacità di quell’ar-
tefatto di permettere alle persone esperienze soggettive buone e dotate di
senso, come quelle descritte nella prima parte di questo lavoro.
Gli individui e i gruppi utilizzeranno quindi l’artefatto, per esempio
un parco o un giardino, per avere esperienza positiva e per esprimere
parti di Sé, per sviluppare il proprio mondo interno e le proprie capaci-
tà psichiche. Contemporaneamente, però, manterranno e cureranno l’ar-
244 Paolo Inghilleri e Nicola Rainisio

tefatto parco e giardino, lo trasmetteranno nel tempo, riaffermandone il


significato.
Si innesca così un meccanismo virtuoso reciproco. L’artefatto, l’am-
biente naturale organizzato, induce buona esperienza soggettiva, ciò
porta al mantenimento e allo sviluppo dell’artefatto stesso che a sua volta
induce nuovi comportamenti, mantenendo, ma al contempo trasforman-
do, le memorie e le tradizioni delle popolazioni e dei gruppi che utiliz-
zano l’artefatto, ad esempio un parco.

Paolo Inghilleri e Nicola Rainisio


Dipartimento di Geografia
e Scienze Umane dell’Ambiente
Università degli Studi di Milano
I luoghi del benessere 245

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ABSTRACT

Well-being Places: Cognitive Strategies and Environmental Empowerment in the


Natural Parks

The current literature in Environmental Psychology, Medical Geography


and Public Health offers growing evidences of a closer link between expe-
riencing nature and positive emotions, optimal cognitive functioning,
well-being in general.
This paper reviews the main open topics in this field and suggests a new
theoretical model, able to connect so far distinguished domains: environ-
mental strategies, flow experiences, attention restoration.
Within this framework, places and their positive features may be seen as
artefacts able to promote flow of consciousness (CSIKSZENTMIHALY, 1975;
1980; 1997) and transcendent experiences.
In particular, we suggest that the main theoretical model of the environ-
ment well-being relationship (Attention Restoration Theory, KAPLAN AND
KAPLAN, 1989; KAPLAN, 1995), should be integrated with the optimal
experience model (CSIKSZENTMIHALY, 1980; 1990) in order to create a
more comprehensive framework on the person-environment system.
Furthermore, we analyze groundbreaking social practices like healing,
therapeutic and community gardening, to support the model itself and
to underline new developmental issue involving urban parks and natu-
ral areas.

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