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Appunti Caratterizzazione 2013/14 1

Umberto Maria Ciucani

20.03.2014

La prima distinzione molto generale che abbiamo fatto fra le diverse tecniche è stata che potevamo raggrupparle in
famiglie e abbiamo identificato: spettroscopie, microscopie e la diffrazione.

Questi tre gruppi di tecniche sono così divise perché principalmente indirizzate ognuna ad un certo tipo di
informazione ottenibile. Le spettroscopie ci danno informazioni sulle caratteristiche composizionali del campione e
cioè ci consentono di andare ad identificare quali elementi sono presenti ed eventualmente qual è il loro intorno
chimico, cioè la condizione in cui questi elementi sono presenti nel materiale. E’ una classe di tecniche estremamente
versatile ed importante.

Le diverse tecniche le possiamo differenziare andando a specificare qual è il tipo di segnale che noi usiamo come
sonda per scandire il materiale e qual è il tipo di segnale che leggiamo come risultato dell’interazione col materiale
stesso (risposta). Facciamo delle distinzioni:

Fotone incidente ed elettrone uscente: XPS ed UPS ad esempio.

Elettrone incidente ed elettrone uscente: AUGER

Fotone incidente fotone uscente: FTIR

Questo già ci descrive un punto fondamentale in tutto quello che dobbiamo considerare: avere ben presente qual è la
differenza fra radiazione e particelle, cose che sono apparentemente separate e distinte, ma che invece sono
intimamente connesse se viste sotto la luce della dualità particella-onda. La radiazione, in una trattazione non-
classica, la considero nel suo aspetto particellare come costituita da tanti quanti essenziali, appunto i fotoni, di una
determinata energia. Energia data dalla relazione di Einstein:

Equazione 1: Energia di un fotone di luce rossa con lunghezza d'onda pari a 700nm.

Viceversa una particella è caratterizzata in primo luogo dalla sua massa e dalla sua velocità. In particolare
considereremo l’energia cinetica della particella che quindi è data da:

Equazione 2: Energia cinetica di un corpo particellare.

Da un punto di vista classico questi due mondi sono separati ma dal punto di vista quantistico no! Esiste una dualità
nel comportamento di particelle molto piccole! Anche nel caso di particelle parleremo quindi di lunghezza d’onda
(come per gli elettroni). L’aspetto particellare della radiazione invece riguarda questi quanti energetici detti fotoni. A
noi interessa questo aspetto corpuscolare della radiazione perché quando ne andiamo a esaminare l’interazione con
la materia, per avere una descrizione a livello microscopico del fenomeno, non si può prescindere da questa visione di
tipo quantistico. Ma va sempre tenuta presente questa dualità, ma anche la natura distinta delle due entità!!! Molto
spesso faccio l’errore di calcolare l’energia di un elettrone utilizzando la sua lunghezza d’onda! SBAGLIATO!!!

Ci sono tantissime tecniche che rientrano nelle Spettroscopie che sono a loro volta sotto-raggruppate come sopra.

Cosa vuol dire fare spettroscopia? Cos’è uno spettro?

Queste tecniche sono accomunate dal fatto che il loro risultato lo diagrammiamo in generale con un grafico dove
riportiamo in ascissa un dato che in genere ha significato di energia e in ordinata l’intensità del segnale che rileviamo
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Umberto Maria Ciucani

(numero di oggetti che rileviamo). Notiamo ogni tanto dei massimi e dei minimi di intensità che ci dicono che tanto più
questo valore è alto e tanto più è alto il numero di elettroni emessi con un ben dato valore di energia. Fare
spettroscopia vuol dire quindi fare analisi del nostro segnale in modo tale da ottenere un diagramma del genere dal
quale poi ricavare le informazioni che desideriamo, andando a leggere la posizione di questi picchi, la loro intensità e
forma delle bande. Riportiamo tutto in funzione dell’energia o di una variabile simile o analoga. A seconda delle
diverse tecniche può essere conveniente riportare una scala legata ad un’energia ma non è necessariamente detto
che lo sia. Quindi si riporta in ascissa in energia o frequenza (che è in proporzionalità diretta) o lunghezza d’onda
(proporzionalità inversa). Esistono altri indici però, ad esempio nel caso della spettroscopia infrarossa vengono
utilizzati 𝑐𝑚−1 (quindi praticamente numeri d’onda che sono 1⁄𝜆 e quindi anche questi sinonimo di frequenza e quindi
energia).

Perché ho diverse scale? Non per fare confusione ma perché in un particolare contesto risulta particolarmente
comodo usare una certa unità di misura, ad esempio quando non voglio usare unità di misura che necessitano di
potenze molto elevate nell’essere diagrammate.

Facciamo delle distinzioni: io fornisco energia al sistema e quest’ultima comporta una certa interazione all’interno del
materiale da sondare. Cosa succederà dipenderà dal tipo/quantità di energia che ho utilizzato; nella scala delle energie
posso andare da energie molto alte a energie molto basse. È intuitivo che a seconda dal valore di energia che io
utilizzo come probe (fornito alla sonda, eg. elettrone) innescherò processi diversi nel mio materiale poiché nel
materiale possono succedere delle “modificazioni” che richiedono più o meno energia. La materia nei suoi elementi
costitutivi più elementari è fatta da atomi quindi da protoni, neutroni ed elettroni. Quando cedo energia posso andare
ad eccitare degli elettroni che poi faranno transizioni oppure posso eccitare nuclei. Far fare transizioni energetiche ad
elettroni o a nuclei sono due cose ben diverse dal punto di vista energetico. Facciamo riferimento al modello
dell’atomo di Bohr:

Le energie che corrispondono ai diversi livelli elettronici possono anche essere di parecchie centinaia di elettronvolt
(eV). Se io voglio innescare una transizione elettronica avrò bisogno di energie molto grandi: ad esempio di decine o
centinaia o migliaia di eV. In base alla quantità di energia che io uso susciterò diverse risposte del materiale. Energie
alte: eccitazioni fra livelli elettronici diversi e quindi parlerò di spettroscopie elettroniche, sinonimo di utilizzo di probe
altamente energetici. Sappiamo anche però che la materia può fare altre cose. I nuclei sono pesanti e in prima
approssimazione fissi (sappiamo che la materia anche allo 0K vibra e oscilla attorno a posizioni di equilibrio) ma
quando scaldiamo il nostro materiale con energia termica, aumentano le vibrazioni degli atomi del reticolo. Quindi che
tipo di moti stiamo sollecitando? Vibrazioni molecolari e atomiche. Quando solleciteremo questo tipo di transizioni
staremo facendo una spettroscopia vibrazionale e le energie richieste (di tipo termico) saranno minori e cioè quelle
dell’infrarosso, molto molto più piccole rispetto a quelle della spettroscopia elettronica. Quello che a noi interesserà è
che queste transizioni sia che siano elettroniche che vibrazionali, sono caratteristiche dell’atomo che li genera ed
ecco spiegato il ruolo della spettroscopia nella caratterizzazione di ciò che sto analizzando: riconoscimento chimico,
analisi composizionale. La risposta sarà dipendente dal tipo di atomo che analizzo e tramite queste tecniche ottengo
le informazioni che mi interessano.

Questi sono i due tipi di spettroscopie (gruppi). Esistono anche altri tipi di spettroscopie in realtà, come quelle che
coinvolgono ad esempio le transizioni degli spin dei nuclei: Risonanza Magnetica Nucleare (NMR). E’ difficile però fare
NMR allo stato solido ed ecco perché non ci interessa.

Le molecole cos’altro possono fare all’interno di un materiale? Oltre a vibrare le molecole possono anche ruotare!
Sono le microonde che, avendo un contributo energetico appropriato, vanno a sollecitare le rotazioni delle molecole,
e sono caratterizzate da energie, ancora una volta, diverse dalla transizioni elettroniche e vibrazionali. Sono energie
ancora più piccole e ci danno comunque sia delle informazioni ulteriori benissimo. A noi non interessano però, perché
andiamo a caratterizzare uno stato solido in cui ovviamente le rotazioni sono impedite. La spettroscopia rotazionale è
importantissima, ma in fasi vapore.

Da tenere sempre presente è la scala di tutte le grandezze e di tutto ciò che viene utilizzato nella caratterizzazione: il
cosiddetto spettro elettromagnetico ad esempio, e cioè la divisione in base all’energia e quindi alla lunghezza
d’onda, che noi possiamo operare nel campo di tutte le radiazioni possibili. Dobbiamo sapere quale radiazione
utilizzare per innescare il processo giusto.
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Umberto Maria Ciucani

Per le transizioni elettroniche servono energie molto grandi e allora che radiazione uso? Voglio eccitare le vibrazioni
degli atomi, quali energie uso? Devo utilizzare energie confrontabili con quelle dei processi che voglio stimolare e
allora devo avere chiaro un diagramma dello spettro elettromagnetico.

Figura 1: Spettro Elettromagnetico: l’energia è inversamente proporzionale e direttamente proporzionale alla


frequenza.

Se io voglio fare spettroscopia elettronica ho bisogno di grandi energie e quindi mi serviranno radiazioni fra UV Rays e
X-Rays. (elettroni subiscono transizioni che richiedono energie molto alte).

XPS: Xrays Photoemitting (Photoelectron) Spectroscopy 200-2000eV

UPS: Ultraviolet Photoemitting (Photoelectron) Spectroscopy 10-50eV

Fotoelettronica in soldoni significa combinare nell’insieme di un processo l’azione di un fotone e di un elettrone. Di


fatti il fotone inviato stimola la fuoriuscita dell’elettrone. La spettroscopia a ultravioletti è concettualmente identica a
quella a raggi X, cambiano solamente le energie dei fotoni incidenti. Il processo che noi dovremo andare a considerare
è quello in cui l’energia di un fotone viene usata per estrarre un elettrone. E’ chiaro quindi che non possiamo estrarre
elettroni legati con energia superiore a quella del fotone incidente. Questo fenomeno viene detto effetto
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fotoelettrico, col quale si intende l’effetto per cui un flusso di fotoni stimola l’emissione di elettroni. E’ uno di quei
fenomeni che ha contribuito allo sviluppo delle teorie della meccanica quantistica all’inizio del 900.

Vediamo cosa succede quando abbiamo un atomo neutro e un fotone che interagiscono e come l’energia, nel caso sia
sufficiente, possa venire utilizzata per strappare un elettrone. Alla fine della mia interazione avrò uno ione ed un
elettrone dell’atomo ad una distanza tale che non risenta praticamente più del campo Coulombiano dell’atomo.
Questo che stiamo descrivendo è ovviamente un processo nel quale l’energia si conserva.

𝐸𝑎𝑡𝑜𝑚𝑜 + ℎ𝑣 = 𝐸𝑖𝑜𝑛𝑒 + 𝐸𝑘𝑖𝑛 𝑒𝑙𝑒𝑡𝑡𝑟𝑜𝑛𝑒


Equazione 3: computo dell'energia nella fotoemissione per un atomo isolato nella tecnica XPS.

La differenza fra lo stato finale e iniziale del mio atomo, in energia, è ad esempio l’energia di ionizzazione del mio
atomo. Se conosco energia fotone inviato e misuro la cinetica dell’elettrone emesso ricavo l’energia di ionizzazione,
ovvero l’energia che serve per strappare l’elettrone. Questo è fondamentale e concettualmente la base di questi
processi di caratterizzazione poiché atomi diversi hanno energie di ionizzazione diverse e quindi posso dedurre la
materia che sto analizzando dai diversi valori in energia, andando per esempio a vedere nelle tabelle di riferimento
che correlano energia spesa a transizione elettronica di un certo livello energetico di un certo atomo. Devo adattarmi
però al caso in cui io non abbia un atomo isolato ma bensì degli atomi che sono all’interno di un materiale. Quindi la
minima energia che mi serve per strappare l’elettrone dal materiale non è la sua energia di prima ionizzazione ma,
risentendo l’atomo degli atomi attorno (1023 ), sarà diversa, in generale più piccola. Quest’energia viene quindi definita
funzione lavoro 𝜑.
E’ quella minima quantità di energia che mi serve per rendere libero un elettrone da un campione oggetto d’analisi, e
che mi serve a portarlo in uno stato di vuoto da uno stato di valenza. Se ad esempio l’energia di prima ionizzazione del
carbonio è 11eV, la corrispettiva energia in bulk (funzione lavoro in questo caso) è di 3-4 eV. Quindi in definitiva è
minima energia necessaria all’estrazione di un elettrone dal bulk, o più precisamente l’energia che corrisponde alla
differenza fra livello di vuoto e cosiddetto livello di Fermi. Il livello di Fermi è il livello più alto in energia occupato dagli
elettroni (ciò è rigorosamente vero solo allo 0K, mentre a qualsiasi altra temperatura non è vero anche se l’errore nel
compiere questa approssimazione e cioè che valga anche a T diverse dallo 0 assoluto non è poi così grande, quindi la
utilizziamo). Usando questo criterio posso considerare in maniera più completa quello che succede in un atomo
all’interno di un mio campione.

La struttura elettronica, dal punto di vista energetico, di un atomo isolato ce la sappiamo costruire, ma quando è
dentro al materiale questa struttura definita non viene più rispettata perché l’atomo viene influenzato dal suo intorno.
Per esempio dovrò considerare la formazione di legami chimici con atomi attorno. Quindi la struttura elettronica
dell’atomo si modifica per effetto delle interazioni con gli atomi adiacenti. Questa variazione nella distribuzione dei
livelli energetici degli elettroni del singolo atomo, dalla situazione in cui è isolato a quella di bulk, è tanto più
accentuata quanto è grande la distanza dei livelli dal nucleo e quindi sarà massima nei livelli di valenza degli atomi. I
livelli di core sono i livelli energetici più interni e profondi cioè quelli che più “conoscono” l’interazione col nucleo. I
livelli di core ci interessano perché, conoscendo più da vicino la natura del nucleo, sentono più l’interazione col nucleo
rispetto a quella degli altri elettroni e dell’intorno (gli altri atomi / legami chimici). Ciò che cambia maggiormente sono
i livelli elettronici più esterni: i livelli di valenza (es. 4s 3d) sono poco caratteristici dell’atomo, entreranno però in gioco
per cose diverse. Per fare riconoscimento chimico saranno più significativi i livelli di core o di valenza? Quelli di core
poiché sono quelli che più risentono del diverso tipo di nucleo. Se ho più o meno protoni ovviamente le posizioni
saranno estremamente diverse e quindi le energie. Mentre un riconoscimento chimico basato su elettroni di valenza è
difficilissimo.

Potendo fare sia UPS che XPS, quale delle due si presta di più a fare un’analisi chimica? L’XPS!! Se voglio fare
riconoscimento chimico avrà sicuramente più senso fare XPS. L’UPS si presta meglio a fare analisi superficiali (è
fondamentale per superfici) poiché mi darà maggiori informazioni sulla situazione degli elettroni di valenza e quindi mi
permette di studiare la struttura a bande.

E’ sempre fondamentale sapere quale indagine si vuole fare e quindi quale tecnica utilizzare per farla!
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Umberto Maria Ciucani

Arriva un fotone ed ha abbastanza energia a prendere un elettrone: lo porta fuori e quest’ultimo avrà un energia
cinetica data da differenza fra energia del fotone e l’energia di legame di quello specifico elettrone di quel
determinato livello (𝐸𝐵 ). Devo aggiungere però alla sottrazione anche la mia funzione lavoro (𝜑).

𝐸𝑘𝑖𝑛 𝑒𝑙𝑒𝑡𝑡𝑟𝑜𝑛𝑒 = ℎ𝑣 − 𝐸𝐵 − 𝜑
Equazione 4: energia cinetica dell'elettrone uscente il bulk analizzato con tecnica XPS.

L’energia non ha scala assoluta, devo sempre scegliere uno zero dell’energia. Posso fare riferimento al livello di
Fermi, ma a questo punto per calcolare valore esatto dell’energia cinetica devo anche sottrarre la funzione lavoro che
è quel gradino di energia che mi consente di portare il mio elettrone dal livello di Fermi al vuoto. Conosco quindi
l’energia cinetica dell’elettrone e l’energia del fotone incidente ma rimangono due variabili, fra cui quella che ci
interessa: 𝐸𝐵 . Fortunatamente le cose si possono semplificare! Il livello di Fermi è 0 della mia energia cinetica e il
livello di vuoto è quello stato in cui l’elettrone non risente più di alcuna forza di richiamo che il nucleo o il campione
potrebbero esercitare su di esso.

Abbiamo generato il nostro elettrone che è uscito con una certa energia cinetica: dovrò misurarla!!! Scelgo di
utilizzare un detettore che legge questo segnale che io ho generato. Concettualmente cosa sarà un detettore? Sarà
uno strumento il cui sensore sarà un metallo (per semplicità) che dovrà leggere valore dell’energia cinetica. In generale
il materiale di cui è fatto il detettore sarà diverso dal materiale di cui è fatto il campione sotto analisi. Quindi avrà
funzione lavoro diversa. La lettura del detettore avviene rispetto ad un livello di Fermi diverso rispetto a quello del
campione perché c’è una funzione lavoro diversa. Se i miei due sistemi sono isolati fra di loro avrei un’altra incognita
ancora! Se sono entrambi metallici però (ma anche se non lo sono in realtà) e li mettiamo a contatto avremo un
riequilibrio della popolazione elettronica fra le due parti, poiché a certi elettroni conviene (energeticamente) spostarsi
dall’altra parte, e all’equilibrio finale succederà che i livelli di Fermi si equalizzeranno!!! Quindi ho fatto in modo che un
parametro fisico significativo sia uguale da tutte e due le parti, e quindi risolvo il problema dell’incognita nel calcolo
dell’energia cinetica dell’elettrone, me ne rimarrà solo una, e cioè quel valore dell’energia di legame che volevo
calcolare. NB: conseguenza di questa equalizzazione è il fatto che alla giunzione fra i due metalli si avrà una differenza
di potenziale (funzionamento termocoppie). A noi interessa perché poi possiamo riscrivere l’energia cinetica letta dal
detettore.

𝐸𝑘𝑖𝑛 𝑎𝑙𝑙𝑜 0 𝑑𝑒𝑙 𝑑𝑒𝑡𝑒𝑡𝑡𝑜𝑟𝑒 = 𝐸𝑘𝑖𝑛 𝑒𝑙𝑒𝑡𝑡𝑟𝑜𝑛𝑒 𝑎𝑙𝑙𝑜 0 𝑑𝑒𝑙 𝑑𝑒𝑡𝑒𝑡𝑡𝑜𝑟𝑒 + gradinetto di energia pari alla differenza
fra le funzioni lavoro del campione e quella del detettore.

In definitiva succede che le funzioni lavoro del campione si elidono e rimane solo quella del detettore. Il vantaggio è che
una volta fissato lo strumento, quel parametro rimane costante. Quindi qualsiasi campione analizzeremo ci dovremo
preoccupare soltanto di calcolare 𝐸𝐵 . Quello è un parametro di calibrazione dello strumento, fissato una volta per tutte
è noto e non è più incognita!

Quindi in definitiva analiticamente è come se volessimo calcolare l’energia di ionizzazione dell’atomo isolato ma
sappiamo che dietro c’è tutto questo discorso di calibrazione. Il risultato fondamentale è essersi liberati dell’incognita
della funzione lavoro del campione. Quindi il grafico di un’indagine XPS cosa sarà? Un grafico con un intensità in
funzione dell’energia cinetica misurata ed osserverò dei massimi in corrispondenza delle energie di legame. Avrò tanti
elettroni che provengono da quell’orbitale creando quindi un picco. E’ fondamentale avere più picchi corrispondenti a
diversi livelli energetici dello stesso campione nel grafico perché se io avessi un solo segnale corrispondente a un dato
livello di un dato elemento potrebbe succedere che essendoci elementi diversi che hanno picchi molto simili in energia,
potrei cadere in errore nell’interpretazione dell’elemento. E’ scomodo avere grafici con energia cinetica alle ascisse.
Molto più semplicemente spesso si diagramma invece in funzione dell’energia di legame, verrà fuori quindi un
diagramma esattamente speculare! Qual è il vantaggio di riportarla in funzione dell’energia di legame piuttosto che in
funzione dell’energia cinetica? Se io per esempio uso delle energie di eccitazione diverse succede che per lo stesso
elettrone dello stesso atomo, l’energia cinetica cambia!!! Perché ho dipendenza esplicita e questo è poco comodo,
non posso fare riconoscimento, dovrei avere tabelle per energie imposte ai fotoni! Diagrammando in funzione di 𝐸𝐵
invece, rendo universale la tabella togliendo apparentemente la dipendenza dall’energia imposta al fotone. Quindi
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quando vediamo spettro XPS, per ragionarci, dobbiamo guardare cosa c’è sugli assi e in che verso sono riportate le
energie!

25.03.2014

𝐸𝐾𝐼𝑁 = ℎ𝑣 − 𝐸𝐵 − 𝜑𝐷𝐸𝑇𝐸𝑇𝑇𝑂𝑅𝐸
Equazione 5: energia cinetica dell'elettrone incidente ill detettore nel caso dell'analisi di un campione (bulk) con tecnica
XPS.

La caratteristica interessante sono queste due grandezze 𝐸𝐾𝐼𝑁 ed 𝐸𝐵 ottenibili dalla risoluzione dell’equazione qui
sopra. In realtà lo spettro nella sua globalità è più complesso di quello che ci attenderemmo. Vediamo dalle slides che
ci sono anche dei picchi indicati in modo diverso da quelli che ci interessano in questo momento. Questo ci dice che
noi possiamo dare un interpretazione di massima del nostro spettro e che però, a seconda del grado di accuratezza
usata per analizzare lo spettro, possiamo ricavare sempre un numero maggiore di informazioni. Capito il principio di
base del fenomeno cercheremo di affinare la lettura del grafico, onde ricavare quanti più dati possibile dalla stessa
analisi.

L’XPS racchiude tanti concetti fondamentali che ci servono per tante altre tecniche d’analisi. A seconda che io riporti
energia cinetica o energia di legame, il grafico sarà sempre uguale, ma per i valori, il verso sarà crescente o
decrescente. La prima cosa da fare quando abbiamo per le mani uno spettro è andare subito a vedere la grandezza
riportata in ascisse e capire come sono riportati i dati altrimenti non capiamo nulla. Vediamo anche che c’è un certo
tipo di pattern che dobbiamo cercare di interpretare, ma prima di fare questo facciamo ancora qualche osservazione
di carattere generale. All’inizio abbiamo detto che vedremo delle tecniche che sono indicate di più per i materiali e
altre invece per lo studio delle superfici. Non sempre è possibile con la stessa tecnica caratterizzare le due diverse
situazioni, bulk o superficie, perché ci sono quantità di atomi in gioco diversi e quindi bisogna di volta in volta chiedersi
per cosa quella tecnica è utile. Per l’XPS ad esempio da dove viene l’informazione? Qual è la sensibilità superficiale
della tecnica? (intendendo quella porzione intesa in profondità del mio campione da dove viene il segnale). Se ho una
tecnica che io dico essere molto superficiale, quindi con un’elevata sensibilità superficiale, vorrà dire che il segnale che
io analizzo verrà dai primi strati o comunque, visto che lo spessore della superficie dipende da quello che io vado ad
analizzare sicuramente sarà relativo ad una porzione limitata del mio campione. Per capire se la mia tecnica è più di
superficie o di bulk devo pensare al tipo di interazione che avviene fra i fotoni che arrivano e la materia. Come sonda
uso dei fotoni X. La radiazione X è molto energetica e in generale molto penetrante. Vengono usati per la loro capacità
di penetrare, di essere assorbiti, ma anche interagire con la materia su di uno spessore piuttosto elevato. Dipenderà
dalla natura del materiale in definitiva: piombo (impenetrabile agli X) o materiale leggero che invece è molto
trasparente. In generale comunque questi raggi hanno buona capacità di attraversamento della materia. Nei casi dei
materiali che ci interessano possono penetrare fino all’ordine dei micron. Può sembrare una distanza molto piccola
ma per quello che ci riguarda è tantissimo perché se lo confrontiamo coi nanometri o angstrom (distanze
interatomiche) abbiamo 3 o 4 ordini di grandezza di differenza e per noi quindi i micron sono un valore piuttosto
grande.

Quello che avviene è che i fotoni X provocano emissione di elettroni: se io ho un volume sufficientemente grande,
esisterà un volume di interazione della mia sonda incidente col materiale. Qui si innescheranno delle reazioni che
provocano generazione di questi elettroni che devo andare ad analizzare. Tutti questi elettroni che io ho generato sono
in grado di uscire dal mio materiale? Non solo mi interessa il volume di interazione, ma ancora più importante è la
porzione di materiale dal quale il segnale riesce a fuoriuscire. Concetto importante per tutte le altre tecniche. Noi
sollecitiamo la produzione di fotoelettroni ma quali di questi riescono ad uscire? Abbiamo particelle cariche che si
comportano in maniera estremamente diversa dai fotoni. Fotoni che non hanno né massa né carica interagiscono
molto debolmente con la materia e per questo riescono a penetrare tantissimo. Al contrario sappiamo che quando
abbiamo particelle con massa, ma soprattutto carica, come gli elettroni, le interazioni con altri atomi fatti a loro volta
di particelle cariche, saranno notevolissime. Fotoni penetrano tanto mentre gli elettroni no. Negli urti con le altre
particelle gli elettroni perdono energia. Avrò anche urti elastici ma la maggior parti degli urti saranno anelastici, con
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cessione di energia alle particelle circostanti. Se io faccio tanta strada, di questi urti ne farò tanti fino a che il mio
elettrone perderà tutta l’energia e non uscirà più. Soltanto quegli elettroni che verranno generati in uno strato sottile
sufficientemente vicino alla superficie ce la faranno a fare un numero ridotto di urti (o meglio nessun urto) con le altre
particelle, in modo tale da uscire con tutta la loro energia iniziale.
Perché ci serve che non facciano nessun urto anelastico e che escano con tutta la loro energia? Poiché
l’informazione che ci interessa è basata sull’equazione dell’energia del processo XPS scritta sopra, dove la
condizione di partenza è che il fenomeno totale sia approssimabile a un fenomeno in cui gli urti sono solo di tipo
elastico, altrimenti io dovrei togliere una quantità di energia persa per urti anelastici.
Nello spettro cosa osservo? Se all’energia cinetica rilevata levo un energia persa per urto anelastico che può assumere
qualsiasi valore nel range di energie della mia analisi, succede che il mio segnale che io leggo in uscita non sarà più a
picchi ma segnale orizzontale continuo. Quindi gli elettroni che sono stati prodotti ma che perdono energia
anelasticamente per urti con altre particelle intorno non sono utili per l’analisi del mio spettro XPS: sono elettroni persi.
Ai fini del riconoscimento chimico non sono utili.
Come faccio a quantificare esattamente qual è quella porzione del campione dalla quale proviene il mio segnale?
Ricorro a una trattazione che mi descriva probabilisticamente qual è l’attenuazione del segnale elettronico prodotto ad
una certa profondità. Quel che si trova è che la probabilità di uscita è data da una funzione che decade
rapidissimamente con la profondità: un’esponenziale decrescente (moltiplicato per delle costanti ovviamente). Cosa ci
metto nell’argomento dell’esponente? La profondità t da cui sto ipotizzando provenga il segnale. Ma non mi basta solo
t perché l’argomento di un’esponenziale deve essere adimensionale e quindi devo dividere t attraverso un parametro
di lunghezza che è particolarmente significativo per questo tipo di processo. Allora quale sarà il parametro che
identifica gli eventi elastici? Posso riferirmi sempre a un parametro medio che esprima in media qual è la distanza
percorsa da un elettrone all’interno del materiale prima di compiere un urto anelastico e cioè il libero cammino
medio anelastico (nel nostro caso lambda).

Questa è la relazione fondamentale che mi esprime la sensibilità superficiale di questo tipo di tecnica. Funzione
rapidamente decrescente con la profondità, normalizzata su questo parametro che ci dice quanto viaggiano gli
elettroni dentro al materiale stesso. Il libero cammino medio anelastico è una quantità molto molto piccola che è
(dipende dal materiale ovviamente) al massimo di 1-3 nanometri. Una quantità molto piccola. Portiamo alle sue
estreme conseguenze questo ragionamento. Se io scrivo che la probabilità di uscita è di quel genere lì sopra, posso
scrivere che l’intensità del mio fascio di elettroni che esce sarà uguale al numero di elettroni che vengono prodotti a
una certa profondità per un esponenziale di quell’andamento lì. Notiamo che se t è uguale a lambda si ha 𝑒 −1 e
allora il fascio si attenua di circa 1⁄𝑒 cioè circa uguale 1⁄3 e questa cosa mi dice che dalla profondità t uguale a
lambda, la probabilità che un elettrone mi esca è circa pari a 1⁄3 e quindi per complementarietà, vuol dire che il 67%
del segnale uscirà da una fettina di campione spessa lambda. Per 𝑡 = 2𝜆 l’intensità del mio fascio si è ridotta di 1⁄𝑒 2
diciamo circa 1⁄10 . Vuol dire che il 90% del segnale viene da uno spessore di 2𝜆. Infine se 𝑡 = 3𝜆 a questo punto la
diminuzione del mio segnale è dell’ordine di 1⁄𝑒 3 , quindi circa 1⁄30 quindi sostanzialmente il 97% proviene da una
fettina spessa 3𝜆.Pposso prendere quest’ultimo spessore come limite di riferimento per dire qual è la sensibilità
superficiale della mia tecnica ovvero lo spessore del mio campione dal quale proviene il segnale: lo prendo
convenzionalmente pari a 3𝜆.

Quando 𝑡 = 3𝜆, ho il 97% del segnale che proviene da lì e posso attribuirlo convenzionalmente come il volume da cui
proviene tutto il mio segnale. I contributi da zone più profonde sono trascurabili. Definisco allora la profondità di
fuga/volume di fuga convenzionalmente come questo parametro (3𝜆). Se devo quantificare in qualche modo la
sensibilità superficiale della mia tecnica uso questo parametro. 𝜆 dipenderà dal tipo di materiale e dall’energia del mio
elettrone ma grossomodo al massimo può valere 2-3 nm e al massimo 3 lambda sarà 8-9 nanometri. La sensibilità
superficiale dell’XPS è una decina di nanometri e quindi conoscerò la composizione di una parte del mio campione
spessa al massimo 10nm. E’ tecnica superficiale allora e non di bulk e deduco anche che anche se io ho un volume di
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interazione che è molto più ampio (i fotoni X penetrano per qualche micron) il segnale può uscire solo da uno spessore
di una decina di nanometri. Quindi vediamo subito che il volume di interazione e il volume di fuga sono due concetti
molto diversi e vanno considerati entrambi (distintamente) quando si ragiona sulla sensibilità superficiale di una
tecnica.

Il libero cammino medio anelastico di un elettrone è molto piccolo di quello di un fotone. Quanto vale questo libero
cammino medio? E’ una quantità che posso ricavare in modo semi-empirico. I parametri che influenzano il valore
effettivo del libero cammino medio anelastico sono: tipo di materiale, energia cinetica dell’elettrone all’interno del
materiale. La velocità dell’elettrone infatti influisce sul tipo di interazione con le particelle adiacenti, se questo è
troppo veloce non interagisce; sostanzialmente perché le particelle vicine non le vede neanche e viceversa non
interagirà anche nel caso sia molto poco energetico. Se esperimentalmente andiamo a misurare questi liberi cammini
medi anelastici per tutti i materiali che vogliamo studiare e li diagrammiamo in funzione dell’energia cinetica
osserviamo che i dati fittano una master curve (tutti i punti sperimentalmente ottenibili sono su questa curva). Questa
curva prevede un certo minimo per un certo valore di energia cinetica e poi a basse od alte energie cinetiche (velocità)
l’interazione tenderà a diminuire e quindi si avrà un aumento del libero cammino medio. Ad ogni modo quello che ci
interessa è andare a leggere quali sono i liberi cammini medi che si ottengono su tutto questo grafico. Tutti i valori
sono estremamente piccoli; anche ai lati e cioè ad alte (XPS) e basse energie cinetiche. Al massimo avremo
indicativamente una decina di Angstrom.

Osserviamo che se io ho una certa variabilità nell’energia incidente del mio fotone (E=hv) utilizzato per sondare il
campione, e quindi volendo mi posso anche spostare leggermente su quella curva e quindi cambiare leggermente il
mio cammino libero anelastico medio all’interno del materiale: quindi variare in un certo modo la profondità di fuga e
quindi la sensibilità superficiale della mia tecnica. Vedremo che posso rendere la mia tecnica più o meno superficiale
cambiando opportunamente l’energia del mio fotone incidente.

RAGIONAMENTO BRUTALE:
C’è un comportamento a minimo perché, qualitativamente, quando ho delle energie molto alte o molto basse per
l’elettrone rispetto alle energie che sono tipiche delle interazioni dell’elettrone con altre particelle cariche simili, le
due particelle “non si sentono, non si vedono”. Per avere interazioni devo avere energie confrontabili altrimenti ho
due fenomeni su scale completamente diverse e non reagiranno fra di loro.
Ragioniamoci con l’esempio delle biglie e degli urti elastici ed anelastici. Se la mia particella è molto poco energetica,
la cessione di energia che posso fare con il mio atomo bersaglio è piccola e quindi avrò una variazione anelastica
praticamente inesistente.
Non esiste una legge fisica che mi descriva in maniera analitica questo fenomeno. Per fare un’analisi seria e
approfondita dovrei tenere in conto tutte le interazioni possibili come scattering elastico, scattering anelastico,
assorbimento, ionizzazione: tantissimi fenomeni. Ciò è DIFFICILISSIMO SE NON IMPOSSIBILE!!!! Ci accontentiamo
allora dei dati sperimentali e della trattazione semi-empirica.

Questo è un problema che genera spesso confusione! Quando io parlo di interazione radiazione-materia o particella-
particella, il numero di fenomeni che vado ad innescare è altissimo poiché possono succedere molte cose diverse (vedi
sopra), e succedono tutte, anche se con probabilità diverse! Quando sto considerando un evento non è vero che le
altre interazioni non avvengono, succedono ma semplicemente non vado a misurarle. A me interessano collisioni
elastiche? OK ma ci sono anche quelle anelastiche e non posso eliminarle! Ogni volta che adotto una tecnica di
caratterizzazione, genero sempre tanti fenomeni. Si tratterà di capire come fare a concentrarsi su di uno solo, ed è
questo ciò che ci interessa!!

Introduco altro concetto che ci interessa, quello del VOLUME DI FUGA. Io non ho solo una profondità di fuga ma mi
devo riferire a un volume perché non sono in 1D. Quindi devo anche considerare una dimensione trasversale, come un
area, di interazione del mio segnale. Quindi quando poi considero nella sua globalità il concetto di volume di
interazione e di fuga, va bene che considero una profondità ma devo anche chiedermi cosa succede trasversalmente.
Ecco perché posso parlare anche di risoluzione o interazione laterale e non solo di risoluzione o profondità verticale.
Nel caso dell’XPS ad esempio qual’è questa risoluzione laterale? E’ così piccola (“spinta”) come quella ortogonale alla
superficie? Da cosa dipenderà essenzialmente in prima battuta? Dipenderà sicuramente dal diametro del mio fascio
incidente. La risoluzione laterale della tecnica è quindi approssimativamente determinata dalle dimensioni del mio
fascio incidente. Allora se posso collimare il mio fascio incidente a piacere posso rendere la mia tecnica locale a
Appunti Caratterizzazione 2013/14 9
Umberto Maria Ciucani

piacere?!!? Il problema è quanto sottile posso rendere (focalizzare/collimare) un fascio di raggi X?!!? Come faccio a
focalizzare la radiazione, la luce?? Userò delle lenti. La focalizzazione viene attuata tramite la rifrazione e quindi a
seconda dell’indice di rifrazione della lente focalizzo in modi diversi. Perché avvenga la rifrazione il fascio dovrà quindi
passare attraverso il mio materiale che quindi deve essere trasparente rispetto alla radiazione che invio. A seconda
della radiazione che noi usiamo non tutti i materiali mostrano la stessa trasparenza però. I raggi X vengono assorbiti
da quasi tutti i materiali e non esiste un materiale che sia sufficientemente trasparente ai raggi X in modo tale da
poterlo rifrangere appropriatamente, poiché vengono in gran parte assorbiti. Quindi non ho lenti che focalizzino il mio
fascio di raggi X ed è qualcosa allora di molto molto difficile. In realtà ci sono tecniche che possono ridurre
sensibilmente le dimensioni del fascio ma in prima approssimazione devo solo sapere che focalizzare raggi X è molto
difficile e quindi non riuscirò mai ad ottenere dei fasci sottili a piacere. Quini tipicamente il mio fascio è piuttosto largo
(micron) e non riesco a farlo più piccolo di quello. Risoluzione verticale: 10nm, Risoluzione laterale: um. Attenzione!!
Almeno tre ordini di grandezza di differenza!). Queste due quantità in generale non rispondono alle stesse leggi e
quindi possiamo avere dimensioni diverse trasversalmente e verticalmente. Questo apporta delle conseguenze al tipo
di applicazione che posso fare della mia tecnica.

Tornando all’analisi dello spettro: vediamo dei picchi e vediamo anche che c’è questo pattern ricorrente, di uno
spettro fatto come a gradini. Un fondo indifferenziato continuo su cui “galleggiano” le mie bande. E’ problema
strumentale? E’ qualcosa che posso eliminare? C’è sotto una qualche verità più profonda? Il fatto che si ripete sempre
con qualsiasi condizione di misura mi dice che c’è qualcosa di vero e che non è un artefatto strumentale.

Sto leggendo un segnale e il mio detettore sta misurando un certo numero di elettroni che hanno un certo valore di
energia e questa energia misurata varia in maniera continua. Vuol dire che effettivamente ci sono anche degli
elettroni che riescono ad uscire dal mio materiale e che vengono misurati ma che non hanno energie caratteristiche
(come quelle delle bande). Sono quegli elettroni anelastici che noi abbiamo prodotto nel campione e che hanno perso
energia per interazione con gli atomi circostanti ma che sono comunque sia riusciti ad uscire. Sono stati prodotti
abbastanza vicino alla superficie da uscire. Nello spettro ho allora tutti i possibili valori di energia perché c’è
indifferenziazione nella perdita di energia per gli elettroni e si crea quindi un FONDO CONTINUO poiché la perdita di
energia è distribuita su diversi valori. Questo mi spiega perché ho andamento a gradini: ognuna di queste transizioni,
ognuno degli elettroni emessi anelasticamente si porta dietro tutte le interazioni per quegli elettroni lì che hanno
perso energia in maniera anelastica. Vedo che l’accumularsi di questi elettroni anelastici apparentemente lo leggo per
una energia di legame che scende. Il detettore misura energia cinetica e quindi quando io ho un elettrone che ha
perso energia facendo degli urti anelastici la sua energia cinetica di uscita è più piccola. E quindi questa inferiore
energia cinetica diventa un’apparente energia di legame superiore e quindi questo spiega la formazione di questi
gradini di energia che si accumulano ad energie di legame più alte. Questi gradini non mi portano informazione sulla
composizione.

Immaginando di fare uno ZOOM su di uno spettro, notiamo che certe bande che a risoluzioni basse sembrano
un’unica banda, in realtà sono fatte da due bande vicine se viste a risoluzioni alte. Per capire perché ci sono due bande
dobbiamo capire un pochino più approfonditamente il meccanismo di emissione del fotoelettrone e soprattutto di
quali sono le energie degli elettroni all’interno dell’atomo. Questo è un effetto del tutto caratteristico e che si
riscontra sovente in tutti gli spettri. E’ un fenomeno generale. Ogni picco è caratteristico del numero di elettroni che
provengono da un ben determinato livello energetico. Avere due picchi quindi vuol dire che ho due livelli energetici
che corrispondono sostanzialmente ad un orbitale di tipo 2p. Qual è la distribuzione dei livelli energetici all’interno
dell’atomo?!? Dobbiamo capire cosa fa l’elettrone! Quindi serve sapere configurazione elettronica attribuendo numeri
quantici agli elettroni. La configurazione elettronica la posso specificare andando a definire un numero quantico
principale n, che assume valori interi positivi. Poi ho numero quantico orbitale l che assume valori discreti ma dipende
da n (e quindi 0, 1, n-1). Posso anche definire un numero quantico magnetico m che assume valori 0, +- 1, +-l. Poi c’è
numero di spin s che può assumere valori +-½. Cfr. su libri di testo.

Questi valori a cosa corrispondono? Non sono numeri magici ma vengono fuori da aver risolto delle equazioni
imponendo delle condizioni al contorno. I numeri quantici sono quindi la conseguenza di aver applicato delle condizioni
al contorno per delle quantità che hanno significato fisico. In primo luogo il numero quantico principale viene fuori
dall’aver risolto l’equazione di Schroedinger e dall’aver calcolato l’energia del sistema. Io calcolo gli autovalori
dall’equazione di Schroedinger che sono appunto i valori delle energie permesse e questi dipendono in maniera
discreta dal numero quantico principale n. Quindi posso avere dentro solamente questi valori interi. Il numero
10 Appunti secondo parziale Caratterizzazione 2013/14
Umberto Maria Ciucani

quantico orbitale l corrisponde alla quantizzazione di una grandezza fisica ben significativa che non è l’energia ma è il
momento della particella. Quindi il momento l della particella non può essere qualsiasi ma assume soltanto un preciso
set di valori. In particolare 𝐿2 è dato in unità di h tagliato da l(l+1). Quindi il vettore L non può assumere tutte le
lunghezze che vuole ma ne avrà solo di predeterminate. Ma L è un vettore, quindi non posso dire che un vettore
quantizzato ha solamente il modulo quantizzato e basta, poiché un vettore è caratterizzato non solo dal modulo ma
anche da direzione e verso. Il mio vettore L non sarà quantizzato soltanto in modulo ma anche in orientazione. Quindi
se io ho un vettore L, e considero direzione z di riferimento, vuol dire che L non potrà essere orientato in tutti i modi
possibili ma avrà solo alcune possibili orientazioni ben precise. Per esempio nel caso degli orbitali p, avremo soltanto
certe possibili orientazioni. Come posso specificarle queste orientazioni? Andando a considerare la proiezione di
questi vettori lungo questo asse che ho preso come riferimento. Questo è esattamente il significato del numero
quantico 𝒎𝒍 che mi rappresenta la proiezione lungo questo asse dei vettori che ho considerato.

Considerando il mio elettrone mi chiedo, cosa significa il numero quantico di spin? Corrisponde al fatto che l’elettrone
oltre a girare attorno al nucleo gira anche attorno a se stesso. Allora posso definire un altro numero quantico.
L’elettrone girà attorno al nucleo e gira anche attorno a se stesso, quindi ho due momenti, uno l’orbitale l e l’altro
orbitale di spin s. Se io voglio considerare il momento totale dovrò combinarli. Le combinazioni che posso fare non
sono totalmente libere ma dato l e dato s il vettore momento totale detto j potrà assumere soltanto due tipi di
valori che corrispondono a sommare o sottrarre l ed s. Quindi quando ho a che fare con un elettrone all’interno di un
atomo devo anche considerare questo momento totale j che è caratteristico. Il momento angolare totale è dato dalla
somma se i momenti sono concordi e dalla sottrazione se sono discordi.

Questo sdoppiamento del picco, dovuto a differenze d’energia piccolissime fra i due stati di spin, va sotto il nome di
effetto di ACCOPPIAMENTO SPIN-ORBITA. Tutti gli orbitali sono sempre splittati in due per questo effetto, tranne
orbitali s.

27.03.2014

Se guardiamo con più attenzione uno spettro XPS, possiamo osservare delle deviazioni dall’idealità, e cioè NON
osserviamo picchi estremamente sottili ed estremamente alti in corrispondenza di quei valori di energia che
corrispondono agli elettroni legati nei diversi orbitali. In realtà abbiamo visto che se guardiamo lo spettro si osservano
delle caratteristiche che comunque vanno interpretate e che delle volte possono fornire nuove informazioni. Abbiamo
commentato il fondo, abbiamo visto perché c’è un certo tipo di comportamento e abbiamo visto che se noi risolviamo
meglio lo spettro (andare a guardare più nel dettaglio) ci accorgiamo che tutti picchi essenzialmente presentano una
struttura “splittata”, hanno un secondo picco molto vicino in energia. L’origine l’abbiamo trovata nell’analisi
approfondita dei livelli energetici degli elettroni negli orbitali, in particolare per una descrizione realistica non bastano
solo momento orbitale l e quello angolare di spin s ma dobbiamo anche considerare quello che negli atomi multi
elettroni è il momento angolare totale j la grandezza fisica importante che determina le proprietà relative: non tanto i
singoli momenti quanto quindi la risultante della componente di questi. Ad ogni numero quantico è associata una
grandezza fisica specifica. Definiamo quindi un vettore j detto momento totale del mio sistema e sarà dato dalla
composizione del momento angolare orbitale con quello di spin e abbiamo definito dei corrispondenti numeri quantici
che appunto possono assumere i valori l più o meno s. Abbiamo per esempio fatto dei casi e abbiamo detto che per l =
1 si ottengono valori di j pari a un mezzo e tre mezzi. Se l uguale 2 i valori di j che ottengo saranno cinque mezzi e sette
mezzi. Quindi tutti i livelli tranne i livelli s per cui l uguale a 0, si splittano in due. Perché s no? Perché non avendo un
momento orbitale ho solo due possibili valori di spin più o meno un mezzo che sono lo stesso valore ma con segno
opposto che sta ad indicare la diversa orientazione della rivoluzione. Quindi spazialmente il valore del modulo del
vettore corrispondente è sempre un mezzo e quindi non ho splitting spin orbita.

Abbiamo visto come si comporta il momento orbitale, che cosa vuol dire la sua quantizzazione e il fatto che un vettore
viene specificato dando il suo modulo e anche la sua direzione, perché ci era servito a capire e a definire il terzo
numero quantico, quello magnetico 𝑚𝑙 che ha significato delle proiezione di l lungo un certo asse. Si chiama
magnetico perché quello che succede è che, per ogni valore di l, si ottengono (2l + 1) livelli che però, in assenza di
Appunti Caratterizzazione 2013/14 11
Umberto Maria Ciucani

campo magnetico, sono degeneri. Sono livelli diversi che hanno stessa energia. Allora definisco un grado di
degenerazione 𝑔𝑙 numericamente uguale a (2l+1).

Se io metto il mio atomo in un campo magnetico io rimuovo la mia degenerazione, cioè quei livelli che avrebbero
avuto la stessa energia, per via delle interazioni col campo magnetico si dividono e si ottengono tre livelli con
energie leggermente diverse.

Tutto questo ci interessa perché ovviamente essendo j un vettore “fatto della stessa pasta” di l, si comporterà in
maniera del tutto analoga. Quindi anche per j, siccome in questo caso qui l non ha più significato fisico rilevante per
descrivere il comportamento dell’atomo (la grandezza che mi interessa è j) potrò andare a fissare le sue orientazioni
considerando la proiezione lungo un certo asse. Quali sono i valori che riesco ad ottenere? Per j = ½ i valori di 𝑚𝑗 che
posso ottenere sono semplicemente (perdo il valore 0) più o meno un mezzo. Viceversa se j=3/2, parto da 3/2 e
scendo di interi e quindi arrivo a ½, - ½ e – 3/2. I numeri quantici vengono fuori dalla risoluzione di equazioni con
condizioni al contorno imposte. I valori che 𝑚𝑙 assume differiscono di interi a partire dal valore massimo che è +l fino
a –l. Per 𝑚𝑗 , partiamo dal massimo valore di 𝑚𝑗 e scaliamo di 1 escludendo lo 0.

Perché ci preoccupiamo della degenerazione? Perché se applico un campo magnetico rimuovo la degenerazione e
ho diversi livelli energetici vicini. A me interessa sapere non solo l’energia di legame da uno spettro XPS ma anche
sapere quanti elettroni hanno una certa energia di legame e quello è il numero di elettroni che corrisponde a un
certo picco energetico. E quindi è importante sapere quanti elettroni possono fare quel tipo di transizione. Se io in
corrispondenza dello stesso orbitale ho a disposizione 4 livelli invece che 2 capiamo che il livello di elettroni che
posso eccitare (numero di transizioni) è corrispondentemente maggiore.

Effetto Zeeman: quando si applica campo magnetico, si splittano i livelli. Effetto che in spettroscopia atomica si utilizza
per rimuovere degenerazione.

Il concetto di degenerazione vuol dire che io ho a disposizione più stati. Noi sappiamo che l’occupazione degli stati,
non è involontaria. Quando abbiamo a che fare con gli elettroni dobbiamo sottostare al principio di Pauli e quindi gli
elettroni devono sempre avere un set di numeri quantici diverso. Avere più stati vuol dire avere più possibilità di
riempire quei livelli.

Degenerazione di j è uguale all’analoga per l, 𝑔𝑗 = 2𝑗 + 1 .

Tanti più livelli ho disponibili e tante più transizioni sono disponibili e quindi l’intensità del mio picco sarà maggiore
rispetto al caso in cui la degenerazione è più bassa. Quindi nel caso della componente 2p tre mezzi sarà più intensa
della 2p un mezzo.u

Un elettrone all’interno di un atomo non può assumere un qualsiasi valore dell’energia. Quando io dò energia agli
elettroni, questi passano da livello permesso ad un altro rispettando le regole di un’equazione. Transizione è passaggio
di elettrone da uno stato all’altro. La condizione di minima energia di un atomo è quella in cui sono occupati tutti i
livelli d’energia più bassi disponibili.

Quale mi aspetto che sia il rapporto di intensità fra 2p3/2 e 2p1/2. Sarà uguale al rapporto fra le degenerazioni.
(2*3/2)+1 fratto (2*1/2)+1. Quindi in questo caso 2. Considerazione importante perché se io sono davanti ad uno
spettro che non conosco e devo assegnare i picchi, questa è un’indicazione molto forte. Come faccio ad essere
sicuro che si tratti di effetto spin-orbit coupling? Guardo il rapporto fra le intensità e se soddisfa un valore “di quelli
giusti” so che quello è quelle effetto e so anche dire se è un livello di tipo p d o f perché le degenerazioni cambiano
e cambia il rapporto fra l’intensità dei picchi.

Man mano che il numero di j aumenta, la differenza in intensità fra i due picchi tende a diventare meno pronunciata.
La massima differenza di intensità la otteniamo per gli orbitali di tipo p. Ogni picco viene labellato sullo spettro tramite
notazione in cui viene esplicitato l’orbitale dal quale viene l’elettrone.

Modelli semplice di atomo: Bohr è a gusci. Si definiscono le cosiddette shell dando numero quantico principale.
n=1 e quindi solo 1s
n=2 2s e 2p
n=3 3s 3p 3d
n=4 4s 4p 4d 4f
12 Appunti secondo parziale Caratterizzazione 2013/14
Umberto Maria Ciucani

Si chiamano shell poiché completo il guscio prima di passare a numero quantico successivo e questi sottolivelli (spdf)
sono abbastanza vicini fra di loro ma distanziati dagli altri con numero quantico principale diverso. Allora qui entra in
gioco un altro tipo di notazione necessaria, perché utilizzata storicamente e legata a descrizione dei raggi X essendo
stati ovviamente scoperti per primi loro che la spettroscopia XPS. Semplicemente le shell invece che essere indicate
con numero quantico principale vengono indicate con delle lettere a partire dalla lettera K. K è shell n=1, L n=2, M
n=3, N n=4 etc.

All’interno della shell ci sono però tanti sottolivelli e quindi devo indicarli introducendo un numerino a pedice della
lettera dello shell.

L1 2s | L2 2p1/2 | L3 2p3/2.

M1 3s | M2 3p1/2 | M3 3p3/2 | M4 3d3/2 | M5 3d5/2.

Vedremo che in molti casi: nell’XPS si usa notazione con gli orbitali che conosciamo mentre nell’Auger Spectroscopy la
notazione utilizzata è quella dei raggi X.

Noi abbiamo sempre parlato genericamente di raggi X senza però definirli, abbiamo bisogno di una notazione poiché
ne possiamo avere diversi di diversa origine. Abbiamo bisogno di una notazione a cui riferirci e anche per questi si usa
la notazione KLMNO etc.

Dobbiamo capire cosa sono questi raggi X e come si ottengono: sono dei fotoni estremamente energetici e non facili
da produrre. Facendo calcoli utilizzando il modello di Bohr, scopriamo che le energie tipiche delle transizioni
all’interno dell’atomo che coinvolgono gli elettroni di core sono energie molto molto grandi e quindi un modo utile per
produrre raggi X potrebbe essere indurre delle transizioni elettroniche all’interno dell’atomo. Per fare questo devo
fornire energia, non è facile fare in modo che accada, devo eccitare atomo in modo tale che la risposta dell’atomo sia
creare questi fotoni energetici. Un modo facile per dare energia ad un atomo potrebbe essere quello di bombardare
questi atomi con bersagli molto energetici, cioè con elettroni sufficientemente accelerati. Un elettrone è particella con
carica e con massa molto piccola. Applicandole un campo elettrico può acquisire energie estremamente elevate (ad
esempio con una differenza di potenziale di diversi kV). Energia particella carica in un campo con determinato valore
del potenziale applicato è semplicemente dato da valore carica moltiplicata per ddp:

𝐸𝑘𝑖𝑛 = 𝑞𝑉
Diversi kV fanno in modo che elettroni proiettile abbiano energie elevate.

𝑃𝑒𝑟 𝑖 𝑟𝑎𝑔𝑔𝑖 𝑋: 1𝑝𝑚 > 𝜆 > 10𝑛𝑚


1eV è l’energia di un elettrone al quale è stata applicata la ddp di 1V:

1𝑒𝑉 = 1𝑉 ∗ −1,60217653−19 C
Una volta costruiti questi proiettili energetici li mando sul materiale e osservo in uscita un’intensità dei raggi X in
funzione dell’energia che gli elettroni incidenti hanno (slides). Quello che otteniamo è uno spettro che ha una curva
continua con un massimo ma che ha, in una zona, sovrapposti dei picchi ben definiti. Sono due componenti diverse,
con due origini diverse. Da che cosa derivano? Inizialmente osserviamo la componente continua: parte da 0 per un
certo valore, ha massimo e poi diminuisce. Le diverse curve riportate corrispondono a diversi potenziali di
accelerazione imposti agli elettroni proiettile. Si osserva che in funzione del potenziale che noi applichiamo l’origine
della curva si sposta verso lunghezze d’onda sempre più elevate. Qual è l’origine fisica di questa emissione/radiazione
continua? Cosa succede quando il proiettile arriva in prossimità dei miei atomi? Ho particella carica che si trova ad
essere vicino ad altre particelle cariche poiché atomi sono costituiti da particelle cariche. Quando l’elettrone quando
va molto vicino l’interazione tipica che si verifica è di tipo coulombiano, repulsiva con gli elettroni ed attrattiva con i
nuclei. Il proiettile interagisce con le particelle ed avviene scambio di energia. Questo proiettile viene rallentato e può
perdere o conservare energia. Ne può perdere poca, tanta o tutta. Così abbiamo ottenuto carica che è soggetta a
moto decelerato. Quando abbiamo particella carica in moto accelerato/decelerato essa stessa diventa sorgente di
radiazione che ha un energia esattamente pari all’energia corrispondente a quella della decelerazione che ha
Appunti Caratterizzazione 2013/14 13
Umberto Maria Ciucani

subito. Questo avviene in maniera continua e spiega perché abbiamo curva che ha tipo di andamento continuo. Si
chiama radiazione di frenamento.

Ora mi sapete anche dire il motivo per cui in funzione dell’energia, del potenziale che io ho applicato l’origine di quella
curva si sposta e cosa vuole dire avere una lunghezza d’onda minima per cui si ha produzione di raggi X. Tanto più il
mio potenziale è alto e tanto il mio elettrone avrà lunghezza d’onda minima (𝐸 = ℎ𝑐⁄𝜆 = 𝑞𝑉 imponendo che tutta
l’energia che noi abbiamo disponibile venga data per fare raggi X). Quindi vediamo che man mano che diminuiamo
l’energia la lunghezza d’onda minima aumenta. Perché la forma a campana? Perché la perdita di energia dell’elettrone
non sarà sempre la stessa ma avrà una distribuzione in funzione dell’energia cinetica con cui arriva

La massima energia che potrà avere un fotone sarà al massimo uguale a tutta la energia cinetica del mio elettrone:

𝐸 = ℎ𝑐⁄𝜆 = 𝑞𝑉
Perché sarebbe un problema fare XPS con una radiazione continua di questo genere?
Se abbiamo componente continua non possiamo fare XPS, quindi noi di questa componente non ci facciamo nulla.
Molto più significative e caratteristica sono quelle linee strette e ben definite, quell’eccesso di fotoni che si hanno in
corrispondenza di un ben preciso valore della lunghezza d’onda o dell’energia. Da dove vengono fuori queste
componenti dette componenti caratteristiche dello spettro dei raggi X? Quando si considerano le interazioni, possono
succedere un sacco di fenomeni allo stesso tempo, in particolare questi elettroni particolarmente energetici
potrebbero avere energia sufficiente a strappare un elettrone da uno dei livelli di core del mio atomo. Per esempio,
arriva il mio elettrone e ha energia sufficiente per prendere un elettrone che sta nel livello K e quindi lasciare il mio
atomo ionizzato con una mancanza di elettrone in un livello profondo. A questo atomo succede che ha una vacanza di
elettrone in un livello basso. Non è in una situazione di equilibrio di energia minima possibile, che è quella in cui tutti i
livelli energetici più bassi del livello di Fermi sono occupati. Istantaneamente allo strappo succede che qualche
elettrone da una shell più alta decadrà effettuando una transizione. Così facendo si rilascia energia esattamente pari al
salto fra livelli energetici e quell’energia rilasciata verrà emessa sotto forma di fotone con energia esattamente pari al
salto. Quindi ho generato una radiazione X per rilassamento di questo elettrone.

Il primo elettrone in gioco è quello che ionizza l’atomo, poi un altro elettrone esce, il mio bersagio e un altro ancora
degli elettroni interni all’atomo decade e crea radiazione. Quale decade? Da un qualsiasi livello ma ci sarà una
probabilità relativa!!! (Kalfa o Kbeta ecc).

La cosa che mi interessa a questo punto è il fatto che i valori caratteristici della lunghezza d’onda della radiazione
emessa non sono costanti ma dipendono dal tipo di atomo. Se io li mando su Cu o Mo, otterrò fotoni X con lunghezze
d’onda diverse. Questo è molto importante perché questo ancora una volta mi consente di fare riconoscimento
chimico e soprattutto ho a che fare con valori molto precisi della lunghezza d’onda del fotone X che voglio emettere.
Se confrontate il processo fotoelettrico e questo processo qui li potete vedere come uno speculare dell’altro.

Per un certo atomo che ha tutti quei livelli energetici lì, io posso fare avvenire la ionizzazione in un certo punto ed
avere tante transizioni ma nulla vieta che la transizione iniziale possa anche avvenire in altri livelli oltre all’1s.

Visto che abbiamo tante transizioni possibili, usiamo una convenzione, diamogli un nome. Inizialmente ci interessa
sapere dove avviene la prima ionizzazione e convenzionalmente chiameremo i fotoni con la lettera della shell dove è
avvenuta la prima ionizzazione quindi parlerò di fotone K,L,M,N,O ecc. Ma non basta! Sto indicando solo il livello
d’arrivo dell’elettrone che si rilassa e non il livello di partenza, se ci arrivo dal livello adiacente ci sarà alfa al pedice, dal
livello successivo all’adiacente beta e così via.

Da dove parte l’elettrone nel quale la transizione che comporta l’emissione del fotone? Dalla shell immediatamente
successiva (alfa) dalla seconda successiva (beta), terza (gamma). Giustamente notiamo che ci sono anche alfa1 alfa2
eccetera. Io indicando shell L, la indico in generale ma in realtà all’interno comprende più di un livello (degenerazione)
allora posso avere transizioni diverse non solo da shell diverse ma anche dalla stessa shell. Notiamo però che la
differenza in energia fra kalfa1 e kalfa2 sono molto piccole! (Non tutte le transizioni sono possibili e non tutte le
transizioni hanno la stessa energia.)
14 Appunti secondo parziale Caratterizzazione 2013/14
Umberto Maria Ciucani

Lo spettro non è tale e quale a tutte le ddp applicate. Se ddp non è sufficiente, l’elettrone bersagliante non ha
energia sufficiente a stimolare quei processi che poi danno in un uscita picchi di raggi X che contraddistinguono
specifiche transizioni nell’atomo del campione bersaglio. Osserverò magari altre transizioni che coinvolgono livelli
meno fortemente legati e questo poi dipende dal numero atomico dell’atomo perché atomi pesanti con numeri
atomici elevati avranno energie dei livelli profondi molto più elevate di altri atomi più leggeri e quindi dipende sia
dall’energia che utilizzo che dal materiale che ho, vedere se osservo proprio tutte le possibili linee o ne osservo
soltanto alcune.

APPARATO SPERIMENTALE: Per produrre raggi X mi serve una sorgente di elettroni e quindi prendo un filamento di
qualche materiale a basso valore di estrazione (funzione lavoro) e lo scaldo (effetto Termoionico). Tipicamente prendo
W riscaldato a T molto alte, emette elettroni che accelero applicando ddp sufficientemente elevata nella mia camera,
affinché gli elettroni arrivino sul bersaglio con sufficiente energia cinetica per innescare i meccanismi che abbiamo
appena visto. Bersaglio solitamente è fatto di Cu, Mo o quello che vogliamo e a seconda di quello che ci mettiamo
come bersaglio otterremo raggi X diversi. Il nostro bersaglio è inserito in un porta campione in generale di Cu o un
altro metallo comunque, perché deve avere proprietà di conduzione di calore buone in modo da poter essere
raffreddato efficientemente poiché gli elettroni incidenti hanno energie cinetiche molto elevate che riscaldano il
campione. I raggi X escono tramite opportune finestre che saranno in materiale opportunamente scelto affinchè
assorbano pochissima radiazione X. Tipicamente elementi leggeri perché assorbono molto meno i raggi X. Perché ho
bisogno di finestre? Perché la mia camera deve essere sigillata in UHV! Queste finestre produrranno sicuramente dei
fenomeni di contaminazione ma non posso farne a meno.

01.04.2014
Prima c’è esercitazione su quaderno

In base al processo fotoelettrico possiamo identificare tre stadi:

1. Evento di assorbimento e ionizzazione dell’atomo


2. Produzione del fotoelettrone
3. Viaggio dell’elettrone attraverso il campione per essere rivelato all’esterno.

In ognuno di questi stati si possono verificare delle deviazioni dal comportamento reale. Modelli più raffinati devono
spiegare quantitativamente queste deviazioni dall’idealità. Si parla di effetti di stato iniziale e finale.

EFFETTI DI STATO INIZIALE

Prima che avvenga l’interazione col fotone cosa avviene? Il nostro atomo è immerso nel materiale quindi l’effetto
dell’intorno può influenzare la posizione esatta dei livelli elettronici dell’elettrone all’interno dell’atomo. Un conto è
dire che ho oro puro e un conto dire che è in un composto. Questa è una deviazione dall’idealità è molto interessante
perché posso ottenere un surplus di informazioni. Se io sono capace di interpretare questa deviazione dallo stato
imperturbato dell’atomo isolato, sarò anche in grado di avere informazioni sull’intorno chimico dell’elemento che ho
scoperto e cioè un’informazione, sempre di carattere composizionale-chimico, ma molto più raffinata. Quali possono
essere questi fattori che influenzano la posizione dei livelli energetici degli elettroni all’interno dell’atomo?

1. STATO DI IBRIDIZZAZIONE, come ad esempio lo stato del carbonio sp1 sp2 (grafite) sp3 (diamante). Gli orbitali
ibridizzati diversamente avranno picchi posizionati diversamente nella scala delle energie dello spettro.

Molto più utili da un certo punto di vista pratico sono gli altri due esempi (2 e 3): quali sono due situazioni in cui posso
avere energie sensibilmente diverse?

2. OSSIDAZIONE. Se si ossida vuol dire che si crea uno squilibrio nella distribuzione della carica elettronica all’interno
della molecola. L’ossigeno ha forte elettronegatività e quindi attira molto la carica elettronica. Mi aspetto quindi uno
spostamento della carica verso l’ossigeno ma quindi il mio atomo metallico rimane un pochino più ionizzato
positivamente e allora necessariamente la disposizione degli elettroni nell’atomo del metallo sarà diversa. In
particolare in questo caso quindi mi aspetto di dover compiere più lavoro per rimuovere un elettrone dall’atomo di
Appunti Caratterizzazione 2013/14 15
Umberto Maria Ciucani

metallo. Maggiore sarà lo stato di ossidazione del metallo maggiore sarà lo shift energetico. Questo fenomeno va
sotto il nome di CHEMICAL SHIFT ed è fenomeno tipico di atomi metallici. Qualcosa di analogo può succedere in
composti organici (legame covalente) ma come e dove viene cambiata la distribuzione elettronica? Se io lego ad un
atomo di carbonio un atomo non carbonio, i due atomi avranno un elettronegatività diversa, tanto più elevata la
differenza tanto più il legame tenderà alla ionicità. Vuol dire allora che ci sarà uno spostamento di carica elettronica
verso l’atomo più elettronegativo, e avrò ad esempio l’energia di un livello 1s del C in CH shiftata ad energie superiori
(se elettronegatività atomo legato aumenta). Se la replicabilità di questo tipo di analisi è garantita, posso pensare di
stilare tabelle che mi serviranno in futuro a dire cosa è legato a questi carboni. CH3 è all’energia più bassa CF3 invece
alla più alta, e ciò corrisponde a un aumento dell’elettronegatività degli atomi legati al C. La zona tipica del carbonio 1s
è una zona pulita (???), sto guardando un orbitale 1s e quindi mi aspetto soltanto una banda e non spin-orbit coupling,
e soprattutto nel caso dell’atomo di carbonio questi shift sono sufficienti grandi da poterli osservare con buona
approssimazione anche perché la larghezza di banda intrinseca del picco è piccola. Abbiamo differenze di energia
molto piccole e bande molto larghe questo gioco di seguire il chemical shift non si può fare.

Guardando questo poliuretano, un’unita monomerica che si ripete molto complicata. Andando a vedere cosa succede
nella zona del carbonio 1s, vediamo che lo spettro reale ci offre una serie di picchi che si sommano gli uni con gli altri e
che poi dovrò andare a deconvolvere con tecniche opportune. Posso sempre però comunque notare questa
sovrapposizione. A cosa le attribuisco? Chiaramente conoscendo la struttura dell’unità monomerica mi è facile dire che
questo picco sarà dovuto ai CH2 che sono presenti in numero maggiore nell’unità monomerica (rapporto 4:1) e quindi
mi aspetto banda deconvoluta di CH, quattro volte più intensa rispetto alle altre, C-O e C_N. BOOOH!!!

Questo esempio mi dice che oltre a fare riconoscimento in base alla posizione dei picchi posso anche fare un
riconoscimento quantitativo relativo, e dire quanti atomi di carbonio di un tipo ci sono rispetto all’altro, facendo
rapporti di intensità. Questo mi aiuta ad esempio a fare ipotesi nel caso io non conoscessi che la mia unità
monomerica. Dopodiché per verificare la correttezza di questa ipotesi guardo gli altri elementi che sono presenti (a
parte l’idrogeno): ho ossigeno e azoto. Quanti tipi di ossigeno ho presenti nella mia unità monomerica? Due, e quindi
posso andare a vedere che nella zona dell’ossigeno 1s avrò due picchi deconvoluti. Di azoto ne abbiamo uno solo.

Esistono metodi analitici che consentono deconvoluzione dei picchi. (OCCHIO ALLENATO) Cioè vado a fittare la forma
dello spettro reale come sovrapposizione di più bande ad energie ed intensità diverse. Essendo una procedura di
fitting tutto ciò a seconda dei parametri che ci metto dentro, può essere sensato o meno. Questo mi permette di
anticipare un cosa. La cosa più immediata nell’osservazione di uno spettro è quelle di dire dove sono i picchi
(posizione), ma se vogliamo fare analisi raffinata possiamo fare di meglio come andare a vedere l’intensità e la forma
dei picchi. Un picco largo e un picco stretto diranno qualcosa, uno simmetrico e uno asimmettrico, diranno pure
qualcosa! Ragionamento estendibile a qualsiasi tecnica. Un’analisi completa dello spettro presuppone di considerare
tre osservabili, posizione dei picchi, intensità, e la forma dei picchi. Ognuna di queste tre osservabili mi dà delle
informazioni. Sarà più o meno facile tirare fuori informazioni da queste osservabili. L’osservabile più facile da
rilevare è la posizione del picco che in genere mi dà informazione qualitativa, mi dice cosa abbiamo nel campione,
l’intensità mi dà informazione più difficile da estrarre ma ce la si fa ancora, ed è informazione di tipo quantitativo
mentre l’analisi della forma del picco proprio è la più difficile da interpretare e più motivi contribuiscono alla forma
finale. La larghezza di riga è il dato più difficile e delicato da trattare e capire, ma se lo si fa si ottengono altre
informazioni preziose. Quindi posso usare la tecnica a diversi livelli di approfondimento: in modo immediato, il
riconoscimento chimico, dalla posizione dei picchi, ma posso anche andare a vedere altre cose come appena detto
sopra facendo interpretazioni via via sempre più raffinate.

Ad esempio avendo ossido di silicio, so già che riscontrerò energie di legame più alte, e cioè un’energia cinetica più
bassa. Se voglio vedere qual è il silicio nativo senza ossido faccio pulizia del mio campione: come un trattamento
termico magari. Ossigeno viene desorbito (posso pensare). Ora osservo nel nuovo spettro che l’energia di legame è
diminuita ed è quello che mi aspettavo però ora ho creato una complicazione: il mio picco si è strutturato. L’ossigeno
l’ho eliminato quindi non sarà un problema di impurezza. Per quali altri motivi può cambiare l’intorno del mio atomo?
Se in superficie col mio trattamento di annealing, ho determinato un riaggiustamento della posizione degli atomi,
cambiando la struttura degli atomi di superficie rispetto a quella del bulk, ho cambiato l’intorno chimico. Se noi
andiamo ancora una volta a deconvolvere il segnale per analizzare il segnale rilevato, possiamo notare che questo tipo
di spettro è ottenuto dalla sovrapposizione di componenti leggermente diverse, e una di queste riguarda la struttura
superficiale mentre l’altra alla struttura di bulk. Non avrò però una distinzione così netta rispetto al caso precedente e
16 Appunti secondo parziale Caratterizzazione 2013/14
Umberto Maria Ciucani

cioè quello dell’ossidazione superficiale. La posizione dei picchi è quindi sensibile alla disposizione strutturale degli
atomi attorno. Ci sono dei modi per discriminare la superficialità del segnale o meno, ma intanto sappiamo che è
possibile in certi casi anche un riconoscimento strutturale dalla posizione dei picchi. Questo è un esempio che serve a
vedere che, si, le spettroscopie servono al riconoscimento chimico e la diffrazione serve per sapere struttura ma si
possono rilevare anche dei dati sulla struttura (dall’XPS ad esempio).

03.04.2014

Abbiamo detto che possiamo distinguere degli effetti di stato iniziale ed effetti di stato finale che vanno parzialmente
a modificare la semplice e rozza idea che ci siamo fatti del processo di fotoemissione. I particolare abbiamo visto che
fra gli effetti di stato iniziale ce n’è uno molto importante, che rende la tecnica molto utile ed è il chemical shift. Di cui
abbiamo sostanzialmente visto due applicazioni importanti. Chemical shift vuol dire che si ha uno spostamento del
picco caratteristico relativo a elettroni provenienti da un certo atomo e da un certo orbitale. Shift dovuto all’effetto
chimico dell’intorno. Quindi leggendo e interpretando questo shift, io ricavo informazioni chimiche sul mio materiale. I
due esempi importanti che abbiamo considerato sono il chemical shift che si ha nel caso dello studio dell’ossidazione,
tipicamente di materiali metallici ossidati che presentano in superficie un sottile strato di ossido. Siccome l’ossigeno
ha un effetto sulla distribuzione di carica elettronica, questo appunto influisce sul chemical shift. L’altro esempio
molto utile discusso, è stato quello del legame nei composti del carbonio. Abbiamo visto che possiamo proprio fare
una taratura molto fine, con la posizione del picco, in particolare 1s, e determinare il tipo di legame che coinvolge
questo atomo in base al grado di polarità (elettronegatività) dell’atomo legato al C.

EFFETTI DI STATO FINALE

Questo è il principale fenomeno che noi classificheremo come effetto di stato iniziale. Cosa si intende invece un
effetto di stato finale? Lo stato finale nel nostro processo è il momento in cui l’elettrone esce dall’atomo e lascia un
atomo carico positivamente perché ha perso un elettrone ma soprattutto con una buca, una vacanza, nei livelli
profondi, da dove è uscito l’elettrone e quindi lascia il mio sistema in uno stato energetico non ottimale ma in uno
stato eccitato. Quindi è facile presupporre che il sistema in tempi rapidissimi tenda a rilassare raggiungendo la
situazione di minima energia possibile. Anche il modo con cui si avrà questo rilassamento dipenderà dalla situazione in
cui si trova il mio atomo (intorno che l’atomo sente) e ciò porterà ad alterazioni nei valori esatti che io osservo
dell’energia di legame. Mi può servire poi anche per ricavare delle informazioni. Questi effetti di stato finale sono
molto più “sottili” e molto più difficili da sentire/osservare e da sfruttare, proprio perché dipendono da tanti fattori
difficilmente controllabili. Poi qualitativamente c'è una differenza fondamentale su questo processo di rilassamento.
Noi non osserveremo mai un atomo rilassato. Esso rilasserà sempre in tempi brevissimi.

Noi abbiamo adottato un modello di processo che ci porta a definire le nostre energie di legame che è in un certo
senso molto semplificato perché presuppone che non cambi niente nella posizione dei livelli energetici per il fatto di
aver strappato un elettrone, dopo averlo strappato. Per noi l’energia di un atomo con n elettroni nel suo stato di
neutralità è uguale a quella di un atomo con n-1 elettroni (perché privo dell’elettrone strappato dalla radiazione
incidente). In sunto noi facciamo l’ipotesi che la posizione dei livelli energetici e l’energia dei due diversi stati, (nel caso
con n-1 elettroni cambierà ovviamente l’occupazione) siano esattamente uguali. In realtà invece proprio in
conseguenza di questo effetto di riaggiustamento della struttura elettronica, se vogliamo darci una spiegazione un po’
qualitativa ma intuitiva: ho tolto un elettrone quindi ho lasciato un nucleo carico positivo e devo riaggiustarmi in
modo da dare uno shielding della carica che sia ottimale e quindi ridistribuisco un po’ gli elettroni, allora si osserva che
la posizione di questi livelli tenderà a diminuire in energia.
La differenza fra situazione reale e ideale non la conosco però può succedere, e questo poi è importante
nell’interpretazione dei dati. Ma siccome abbiamo detto che questo processo di rilassamento deve risentire anche
della situazione dell’intorno che ho, quindi i rilassamenti dello stesso atomo in situazioni diverse saranno diversi e
quindi portare ad energie di rilassamento leggermente diverse e quindi ad energie di legame misurate leggermente
diverse. Un atomo allo stato gassoso rilassa anche lui ma sicuramente il suo rilassamento sarà diverso rispetto allo
stesso atomo racchiuso in una matrice solida. Perché ovviamente i canali di dissipazione dell’energia sono diversi.
Quindi mi aspetto di trovare un energia di legame leggermente diversa.
Appunti Caratterizzazione 2013/14 17
Umberto Maria Ciucani

Altra cosa utilizzata molto in altri settori come quello dei catalizzatori: il rilassamento dipende anche dalle dimensioni
della particella stessa che sto utilizzando, INTUITIVO. Se considero particelle molto piccola, la proprietà che cambia
moltissimo e poi influenza il comportamento è il rapporto superficie-volume. Allora se noi abbiamo nano-particelle di
diverse dimensioni sarà facile presupporre che i processi di rilassamento saranno diversi e quindi otterremo delle
energie di legame dipendenti dalla dimensione della particella. Quindi questo mi dà anche informazioni sulle
dimensioni del sistema stesso se ho un buon punto di riferimento per queste misure. Sono delle raffinatezze
nell’utilizzo dello spettro però sicuramente è importante conoscere l’origine del problema perché può servire ad
aumentare il numero di informazioni che si ottengono.

Abbiamo uno stato iniziale: il mio atomo pensato come sistema ad n elettroni isolato idealmente, quindi con certi
livelli energetici. Quello che noi abbiamo ipotizzato fino a questo momento è che l’energia di legame dell’elettrone
che noi misuriamo è esattamente uguale a meno il valore energetico dell’orbitale corrispondente. E sotto-intendiamo
a questa approssimazione il fatto che nel sistema nello stato iniziale e finale, che differisce per un elettrone, la
posizione dei livelli energetici è esattamente la stessa (TEOREMA DI KOOPMAN). Questo non è un fatto fisicamente
realistico. Se io fossi nell’ipotesi di questo teorema, la mia situazione a livelli energetici è congelata, osservo un certo
picco dell’XPS. Siccome so che invece questa è solo un’approssimazione e nel caso reale ho invece un abbassamento
dei livelli energetici, quello che mi aspetto di osservare è uno spostamento del picco, che quindi porterà sicuramente
ad un aumento dell’energia di legame e quindi una diminuzione dell’energia cinetica. Quindi in realtà questo effetto
di rilassamento rispetto ad un ipotetico ideale valore di riferimento che non misuro, sarà sicuramente verso le
energie di legame più alte proprio perché io ho rilassato l’energia del sistema. E appunto l’entità di questo shift non
la posso conoscere a priori ma se confronto sistemi diversi posso ottenere valori dell’energia che sono leggermente
diversi. Poi posso dire che i tipi di rilassamento posso essere interni all’atomo o anche influenzati anche da scambi di
energia con l’intorno. Quindi posso identificare processi intra od extra atomici. Quindi è chiaro che se per esempio sto
considerando una fase gas continuerò ad avere processi di rilassamento interatomici ma gli extra-atomici non
avverranno più vista la distanza con gli altri atomi. Così come se io mettessi una specie isolata in una matrice. Ad
esempio un metallo in un materiale ceramico piuttosto che in un'altra matrice, mi aspetto che io valori reali che andrò
a misurare saranno leggermente diversi (ovviamente parliamo di shift che certe volte sono di addirittura frazioni di eV
o comunque numeri molto piccoli rispetto al valore assoluto dell’energia del picco). Diciamo che possono esserci tutta
una certa serie di effetti che portano a modificare un pochino quello che è l’esatta natura del mio processo. Tra i
processi di stato finale, quindi questi meccanismi di rilassamento però, ci sono due effetti molto importanti che
possono dare alterazioni sensibili nello spettro e che vanno un attimo interpretati. Il processo di rilassamento può
avvenire in tanti modi. Una cosa che può fare il mio atomo è cedere parte dell’energia che ha in eccesso ad esempio
per prendere un elettrone di un orbitale superiore e fargli fare una transizione ad un livello vuoto sovrastante. In
questo modo, sicuramente il mio elettrone che uscirà e che io analizzerò avrà un’energia cinetica più piccola, perché
parte dell’energia l’ha ceduta, e un’energia di legame apparentemente più alta. La cui differenza di energia è servita
per lo SHAKE-UP, poiché è proprio quella l’azione: promuovere un elettrone ad un livello più alto di energia e quindi
provocare quello che si chiama un PICCO SATELLITE perché accanto al picco principale che corrisponde agli elettroni
che provengono da un determinato orbitale che non ha subito alterazioni di alcun genere, ci sarà un picchettino molto
vicino dal lato delle alte energie di legame e poco intenso che può essere indicativo di un processo di questo genere.
Questo secondo elettrone non viene emesso ma quello della fotoemissione, il primo, si. L’elettrone avrà un energia
molto prossima a quella dell’elettrone che non ha subito shake-up ma sarà leggermente spostato. Questo è quello che
si chiama un picco satellite e cioè un picco che ha la stessa natura, prossimo in energia a quello principale ma inferiore
in intensità. Questo shake-up può rivelarsi molto utile perché in certi sistemi è facile che si presenti, quando ho dei
livelli vuoti molto prossimi in energia ai miei elettroni di valenza. Situazione tipica, non l’unica, è quella di composti del
carbonio ibridizzati sp2. Sappiamo che abbiamo due tipi di possibili orbitali, quelli sigma che entrano in gioco nella
formazione del legame covalente, molto forti ed energie molto grandi, ma in sp2 abbiamo formazione degli orbitali pi
greco, ortogonali al piano del carbonio ibrido sp2, che sono molto prossimi in energia. E’ molto caratteristico avere
questo tipo di promozione. Quindi una tipica impronta “digitale” che ci dice se siamo in presenza di carbonio sp2 è
andare a vedere se abbiamo dei picchi satellite di shake-up. Tornando indietro allo spettro del materiale polimerico
visto l’altra volta, ci sono dei carboni sp2, e quindi andiamo a vedere se c’è un picco satellite da shakeup. Se andiamo a
vedere la zona del carbonio 1s (avevamo commentato i primi tre picchi come dovuti al chemical shift) ma ad energie
di legame ancora più alte vedete che compare un picchettino molto debole in intensità che però può tipicamente
essere attribuito a questo tipo di processo.
18 Appunti secondo parziale Caratterizzazione 2013/14
Umberto Maria Ciucani

Vediamo che abbiamo delle features, dei segnali, che possono aiutarci ulteriormente nell’identificazione del materiale
che stiamo considerando. Caso tipico è questo. Uno potrebbe dire, prendo il mio elettrone dal mio orbitale e lo
promuovo in un orbitale pi greco vuoto ma comunque legato, quindi non ho emissione. In realtà se io acquisto
sufficiente energia nel mio processo di rilassamento che segue all’emissione dell’elettrone primaria potrebbe anche
essere che oltre a fare una transizione a un livello legato, il mio secondo elettrone potrebbe anche essere emesso dal
mio atomo!! Per distinguere il tipo di processo invece di parlare di shake-up parlerò di shake-off perché viene spinto
fuori dal materiale. L’effetto di quest’ultimo che osserverò nello spettro non sarà un altro picco satellite: mentre nel
caso dello shake up la quantità di energia che io perdo per fare shake up è determinata dalla differenza in energia dei
livelli e quindi ha valore ben fissato, nel momento in cui faccio shake-off avrò tutta una distribuzione di valori perché
una volta che io ho portato il mio secondo elettrone al livello di vuoto quest’ultimo può uscire con più o meno energia
cinetica. Quindi in realtà mi aspetto di trovare un segnale molto allargato, sempre dal lato delle alte energie, ma più
come un’asimmetria nel mio fondo che la presenza di un ben determinato picco. Avrò un picco allargato come una
coda verso le alte energie. Nel caso dello shake-up, come ho una certa transizione ne potrei avere altre caratterizzate
tutte da energie discrete che danno una serie di altri picchettini satellite. Il numero di picchi satellite corrisponde al
numero di transizioni diverse. Ovviamente trattiamo di un caso ideale: quindi li appunto per far vedere che io in teoria
ne potrei avere tanti, poi però le probabilità di transizione però non sono poi così elevate, stiamo considerando una
situazione che possiede una certa deviazione dall’idealità, quindi di per se stessa poco probabile allora in generale si
osserva al massimo un picco satellite e comunque non sempre è facile osservarlo perché l’intensità è piccola.

I picchi di shakeoff non mi possono dare informazioni sul materiale.

RIASSUMENDO: Partendo da un atomo, il processo primario è quello in cui io mi aspetto di osservare un picco
dell’atomo 1s perché ho emesso un elettrone 1s, e questo è il processo di fotoemissione primario. Questo mi dà luogo
a un picco intenso a una precisa energia di legame e questo succede nella stragrande maggioranza dei casi. Ci saranno
però degli eventi in cui questo elettrone in realtà, parte della sua energia viene usata da un secondo elettrone
presente nell’atomo per fare una transizione tra due livelli dell’atomo stesso. Siccome per fare questa transizione ho
preso dell’energia, l’elettrone sempre proveniente dall’1s e che esce da lì, avrà un’energia cinetica più bassa
esattamente della quantità spesa per fare la transizione. Questo è ancora un fotoelettrone 1s ma con un energia di
legame APPARENTEMENTE diversa. Dico apparentemente semplicemente per il fatto che ha perso dell’energia e
quindi io ho misurato un’energia cinetica più bassa. E’ più bassa perché l’ha persa nell’eccitazione dell’altro elettrone.
Se poi però questo processo piuttosto che avvenire fra due livelli energetici dell’atomo e quindi con dei valori
energetici ben prefissati prende un elettrone dal 2p e lo porta fuori, quindi avviene l’emissione di un secondo
elettrone, io vedrò che il mio elettrone primario uscirà con un’energia cinetica diminuita, non di una quantità
prefissata ma di una quantità casuale, in un insieme continuo di energie, non a valori prefissati come nel caso
precedente.

Data la natura diversa di questi fenomeni, i picchi di shakeup li posso utilizzare per fare riconoscimento chimico,
nell’altro caso, shakeoff invece no.

SHAKE-UP

Il mio fotone arriva e ionizza l’atomo, esce un elettrone dall’1s. adesso potrebbe succedere che parte dell’energia che
serve per fare questo processo, venga ceduta ad un altro elettrone che sta nell’atomo e in conseguenza di ciò, questo
secondo fa una transizione elettronica. Visto che i livelli energetici all’interno dell’atomo sono fissi e determinati, le
transizioni non possono avvenire per qualsivoglia energia ma solo per determinati valori. Quindi vuol dire che il mio
elettrone 1s uscendo, esce sempre dall’1s, e quindi la sua energia di legame è sempre la stessa, ma il mio detettore la
legge diversa perché l’energia cinetica con cui esce è diminuita di una quantità esattamente pari a quell’energia del
salto energetico che il secondo elettrone ha fatto. Esistono più picchi perché ci sono più transizioni possibili (con le
loro relative probabilità che si verifichino) ma non è detto che le veda tutte e sempre. Orientativamente è un
fenomeno che incide sul 2% circa degli elettroni uscenti.
Appunti Caratterizzazione 2013/14 19
Umberto Maria Ciucani

SHAKEOFF

Lo shake off contribuisce al fondo ma ovviamente il fondo è fatto da tanti più elettroni. L’elettrone esce nello shakeoff
e questo richiede un pre-determinato (definito) valore di energia? NO, quindi non osservo un picco. E’ più facile che
vengano emessi elettroni più vicini alla valenza che al core.

(SLIDE 19_XPS2)

Nell’ossido mi aspetto di trovare le mie due componenti spostate ad energie più alte. Compaiono nel caso dell’ossido
ulteriori picchi satellite? Che attribuzione gli do? Sono picchi satellite da shakeup.

Effetti di Multipletto

Qualcosa di simile a quello che accade per gli effetti che abbiamo visto è la comparsa di quelli che possono essere
definiti multipletti o splitting. Dovuti a che cosa? Anche questi sono di stato finale. Consideriamo degli ioni di metalli
come il Fe dove ci sono nelle shell 3d degli elettroni spaiati. Abbiamo delle open shell dove sono presenti quindi
questo tipo di elettroni. Abbiamo un numero di elettroni tali per cui secondo la regola di Hund, si metteranno tutti con
lo spin parallelo anziché anti antiparallelo. Ora immaginiamo di fare XPS e immaginiamo di fare uscire un elettrone da
un orbitale s. che Cosa succede? Il mio stato finale è quello in cui qui ho tolto una freccina dall’orbitale s. Però in realtà
di stati finali ne posso avere due perché posso avere sia uno spin su che uno spin giù nell’elettrone spaiato che mi
rimane. Questi due diversi stati finali avranno un’energia diversa anche se di pochissimo perché l’interazione
magnetica fra l’elettrone restante e gli elettroni nell’open shell tutti paralleli sarà diversa a seconda che sia concorde o
discorde nel parallelismo di spin. Mi aspetterò di osservare due valori di energia leggermente diversi che provengono
da questo fatto. Noi abbiamo detto che gli elettroni 1s non splittano mai ma in realtà questo caso vediamo che è
possibile proprio a causa di questo motivo. E’ un caso molto particolare osservabile solo in composti in cui sono
presenti elettroni di valenza open shell.

Questi effetti di stato finale sono sicuramente più difficili da interpretare e osservare, e in alcuni casi molto specifici.
(facendo riferimento a questi ossidi che si presentano in situazioni molto particolari piuttosto che al carbonio,
sappiamo che ci sono dei pattern spettrali che sappiamo essere molto tipici di certe situazioni e che possiamo
razionalizzare in termini di questi fenomeni appena descritti. Ne sono proprio l’impronta digitale. Come faccio a fare
un riconoscimento? (sono osservazioni di carattere generale che valgono sempre) Nei casi più banali posso
semplicemente guardare il picco. E’ comodo avere dei pattern spettrali che si ripetono per certe classi di composti. Se
devo andare a caratterizzare il mio ossido per esempio, vado a vedere il multipletto dove so di doverlo cercare e
questo conferma o smentisce la mia ipotesi. E’ metodo più sottile ma comunque sia sempre valido. E’ effetto di
importanza secondaria rispetto ad un chemical shift.

Consideriamo un’altra complicazione (accenno): come primissima cosa quando abbiamo parlato di come andare a
misurare le energie cinetiche e poi quelle di legame dicevamo che per avere un riferimento comune nella visione
dell’energia cinetica mettevamo a contatto campione e spettrometro per eguagliare i livelli di fermi dell’energia.
Questo è possibile però a patto che il materiale che analizzo sia metallico. Se fosse isolante questo ragionamento non
funzionerebbe perché non avrei la possibilità di un afflusso/deflusso di carica. Se ho un isolante nel mio effetto di
emissione dell’elettrone il mio campione rimane carico positivamente e si crea una ddp e quindi nei miei livelli
energetici succede che introduco un gradinetto di energia che è dovuto al fatto che ho accumulato della carica sulla
superficie del campione. Quindi quel mio riferimento nella misura delle energia cinetica e quindi di legame non è più
ben definito, non rimane costante. Leggerò dei picchi che risultano spostati rispetto al caso in cui io avrei
equalizzazione dei livelli di Fermi. Allora risolvo il problema facendo opportuna calibrazione del mio strumento perché
se io so che ho dei picchi di riferimento (usualmente C 1s 285eV o Au 4f 7/2 a 84eV), supponendo lo shift uniforme su
tutte le energie che misuro. Oppure posso fare un’altra cosa. Se io faccio lo spettro dello stesso elemento con o senza
calibrazione vediamo che semplicemente quello che osservo è uno spostamento dei picchi. Ovviamente è più facile a
dirsi che a farsi poiché potrei avere un accumulo di cariche non uniforme su tutta la superficie quindi un potenziale
aggiunto non troppo uniforme e quindi anche la calibrazione sarebbe meno accurata. Altrimenti?? Posso pensare di
immettere cariche negative per compensare! Quindi un altro modo che ho in molti XPS è avere una sorgente di
elettroni a bassa intensità che compensa quell’eccesso di carica. Quindi diciamo che da un punto di vista sperimentale
e poi pratico l’utilizzo di quest’ultima tecnica è molto importante perché utilizzabile con qualsiasi tipo di materiale pur
di fare le cose in maniera accurata) Gli unici due elementi che non posso analizzare con questo tipo di tecnica sono l’H
20 Appunti secondo parziale Caratterizzazione 2013/14
Umberto Maria Ciucani

e l’He. Non perché non posso ionizzarli, è solamente troppo difficile. Tenere bene a mente solo il fatto che nel caso di
indagini su materiali isolanti devo provvedere a tecniche di compensazione di carica.

Noi possiamo leggere le posizioni dei picchi, informazione principale, che può essere complicata da tanti fattori. La
posizione del picco ci dice quali elementi sono presenti e lo stato iniziale in cui si trovano. Abbiamo visto che ci sono
tanti problemi che dobbiamo affrontare. Ad esempio che ci sono picchi poco risolti, sovrapposti, quindi problemi di
separazione dei diversi contributi, il problema della compensazione di carica, gli effetti di stato finale. Lo spettro è
fatto da una posizione del picco ma anche da un’intensità e dalla larghezza e da una forma del picco. Tutte queste tre
osservabili danno informazioni quindi bisogna solo capire come leggerle e interpretarle.

L’informazione dell’intensità è sicuramente più importante rispetto a quella della larghezza della banda perché il dato
di intensità è relativo all’analisi quantitativa. L’informazione che io ottengo è quanto di quell’elemento e quanto di
quello stato è presente nel mio sistema. Anche qui ci sono dei problemi perché è difficile determinare esattamente
quale sia l’intensità. Quando parlo di intensità, posso parlare di intensità al picco che è la più immediata ma non è
detto che sia la cosa più significativa. Molto spesso quello che è più interessante è la misura dell’area sottesa al picco.
Siccome non è infinitamente stretto il mio picco, ho una certa distribuzione dei valori di energia ma… devo contarli
tutti quegli oggetti nel picco! Sicuramente la concentrazione è un elemento che determina l’intensità. Se io voglio
scrivere l’intensità di un picco sicuramente devo mettere che questa è proporzionale al numero di oggetti che a quel
picco contribuisce. In realtà però vi sarà proporzionale tramite un certo fattore e in particolare questo fattore indica
che non tutti i processi sono ugualmente probabili. E’ più facile strappare un elettrone da un orbitale 1s del F che
strapparne uno da un 1s del C. Svolgendo calcoli ed esperimenti in questa direzione quel che viene fuori è che si
ottengono delle sezioni d’urto degli orbitali che sono sinonimi di probabilità dell’evento. Quindi avrò delle costanti,
delle sezioni d’urto e avrò una concentrazione. Queste sezioni d’urto dipenderanno in primo luogo dal tipo di atomo
ma anche dall’orbitale!!! Perché appunto un 1s o 2p o 5s sono cose molto diverse. Come faccio a conoscere queste
sezioni? Esistono delle tavole che riportano in funzione del tipo di orbitale che si considera, la probabilità dell’evento.
Queste sono misure ottenute sempre con una determinata sorgente. La sezione d’urto dell’1s del Fluoro è 4 volte di
quella 1s del Carbonio. Vuol dire che se ad esempio in uno spettro immaginario osservassi due picchi alla stessa
intensità, uno di fluoro 1s e l’altro carbonio 1s, non avrò lo stesso numero di atomi degli elementi ma avrò ¼ di atomi
di F rispetto a quelli di C perché la sua sezione d’urto è 4 volte più grande. Quindi a parità di numero otterrò
un’intensità molto maggiore o a parità di intensità vorrà dire un numero minore. La c nell’equazione è una costante e
non la concentrazione. Questa è una relazione di proporzionalità. Posso ribattezzare questa c della sezione d’urto con
qualcosa che chiamo fattore di sensibilità. Quindi se io voglio interpretare l’intensità dello spettro e voglio ricavare la
concentrazione di un certo elemento, invertendo questa relazione qua, posso dire che la mia concentrazione sarà data
misurando l’intensità della banda corrispondente, dividendola per il corrispettivo fattore di sensibilità e infine
normalizzando sulla somma di tutti i fattori d’intensità che io osservo nel mio spettro. Io posso fare un’analisi
quantitativa misurando le intensità integrate e risalire a una concentrazione se faccio queste cose.

08.04.2014

Oltre alla posizione dei picchi è interessante andare a considerare quello che dicono le intensità. Per fare questo
abbiamo iniziato a considerare quali sono gli elementi che entrano in gioco nel determinare il valore delle intensità e
quindi delle informazioni che possiamo ricavare. Abbiamo detto che benissimo proporzionalità col numero di oggetti
che voglio ma non basta, quando leggo dato di intensità devo tenere anche in considerazione una capacità intrinseca
che il fenomeno avvenga e quindi in generale esistono delle sezioni d’urto o delle probabilità che avvenga la
transizioni che dipenderanno sia dall’elemento che stiamo considerando sia dall’orbitale da cui proviene l’elettrone e
quindi bisogna in qualche modo semplificare-liberare il valore misurato dell’intensità rispetto a questo fattore
altrimenti possiamo prendere dei grossi abbagli in quanto ad esempio nel caso del fluoro e del carbonio, se prendiamo
l’1s e vediamo l’intensità di questi due picchi che è quasi uguale apparentemente e deduciamo che c’è un’uguale
concentrazione di atomi di carbonio e di fluoro quando invece non è vero poiché intrinsecamente l’effetto di intensità
di un fluoro è 4 volte maggiore di quello di un carbonio. Se vediamo una parità di intensità vuol dire che c’è un quarto
Appunti Caratterizzazione 2013/14 21
Umberto Maria Ciucani

di oggi di fluoro che provoca il segnale rispetto a quello che succede nel carbonio. Tutto ciò è importantissimo ogni
volta che devo fare un’analisi di intensità. Questo mi dice che io posso fare degli spettri e vedo una cosa di questo
genere e vedo dei picchi di ossigeno, azoto e carbonio, posso dare una quantificazione relativa della presenza di questi
elementi se riesco liberarmi di questi fattori di sensibilità. E quindi la concentrazione, se io dico che l’intensità di una
certa banda è proporzionale alla concentrazione: posso scriverla come una certa quantità detta fattore di sensibilità
dell’elemento per la concentrazione dell’elemento stesso:

𝐼𝑖 = 𝑆𝑖 𝐶𝑖
quindi la mia concentrazione la dovrei ottenere invertendo questa relazione.

In realtà quello che devo fare è poi (siccome la concentrazione è una quantità normalizzata a uno), normalizzare sulla
somma di tutte le parti che ottengo. In questo modo ottengo la frazione percentuale di atomi di una certa specie che
rimangono. Esempio: qui è riportato spettro carbonio 1s di polimetiletacrilato, se guardiamo l’unità monomerica ci
ricordiamo che, stiamo guardando gli atomi di carbonio e l’energia di legame di questi dipende dall’intorno chimico,
quindi il fatto che io veda tre componenti mi dice che dovrei avere dentro almeno tre diversi picchi di carbonio.
Guardando quello spettro posso dire che ho 2 segnali che hanno più o meno la stessa intensità e ce n’è uno più intenso
a più bassa energia di legame, quindi quello meno polare, la situazione di un atomo di carbonio legato o ad un altro
carbonio o ad un idrogeno. Quanto più intenso? Faccio rapporto fra le aree e mi rendo conto di avere un rapporto circa
di 3:1. Questo ci dice che non solo qua dentro ho tre tipi diversi di carbonio ma ci dice anche con quali rapporti stanno
fra di loro. Quindi se io vado poi a guardare l’unità monomerica mi rendo effettivamente conto che ci sono tre
carboni, quelli violetti, che sono più alifatici, e cioè legati ad atomi coi quali la differenza di elettronegatività non è
grande. Poi c’è un C (carbonile) quindi legato con un doppio legame ad un ossigeno ed è rosso e c’è un CH3O, che ha
una situazione …. media e quindi giustifica il mio picco … Quindi vedete che io posso fare una distinzione qualitativa
dei tipi di elementi che sono presenti, più una quantitativa. Quindi mi devo occupare del fattore di sensibilità quando
faccio dei rapporti relativi? NO, poiché sono esattamente lo stesso atomo nello stesso orbitale. Se io facessi il rapporto
fra picco del carbonio 1s e 2p non va più bene fregarsi del fattore di sensibilità poiché cambio orbitale e quindi può
esserci una variazione nel coefficiente di …. Noi facciamo sempre dei rapporti. Non riusciamo mai a dare un valore
assoluto dell’intensità poiché per darlo dovremmo quantificare anche questo S(i) e questa cosa non è assolutamente
facile da fare. Quindi quello che normalmente si fa è prendere dei rapporti relativi poiché è molto più semplice. Che
cosa entra in questi fattori di sensibilità? Io devo calcolarmi l’integrale della mia banda e allora per calcolarlo devo
considerare/ (commutare??) quanti elettroni vengono prodotti in un certo elemento del mio campione e quindi posso
scrivere che la mia intensità del mio elemento iesimo nel suo orbitale jesimo (devo sempre specificare queste due
cose) da che cosa sarà dato? Dovrò considerare la concentrazione di questo elemento che in generale non è detto che
sia costante lungo tutta la sezione del mio materiale e quindi se voglio essere generica nella mia espressione, questa è
una funzione di z. Dopodiché abbiamo detto che la probabilità che il mio elettrone esca avendo percorso una certa
distanza all’interno del materiale è data da:

−𝑡
𝑃(𝑡)~exp( )
𝜆𝑒
con 𝜆𝑒 cammino libero medio anelastico. In questo caso abbiamo fatto un’implicita assunzione. Ci siamo chiesti
qual’era il massimo percorso che il mio elettrone poteva fare per poter uscire e avevamo trovato una distanza di
riferimento pari a 3𝜆𝑒 . L’assunzione implicita che io ho fatto è stata quella di andare a considerare solo gli elettroni
uscenti perpendicolarmente. Ed è solo in questo caso che la distanza è esattamente pari a 3𝜆𝑒 . Siccome non è detto
che raccolga solo quelli a 90°, facendo un discorso generale, potrei anche raccogliere gli elettroni emessi ad un certo
angolo theta. In questo caso la distanza percorsa nel materiale dall’elettrone è sempre quella ma la quota in z sarà
diversa e sarà uguale a d sen θ. Allora l’argomento del mio esponenziale non sarà più z ma d e quindi z (la quota)
fratto sen θ. Quindi se voglio esprimere l’espressione più generale. Quindi integrando in z la formula io saprò il
numero di elettroni di un certo elemento che io vado a rilevare. Ma abbiamo appena finito di dire che a determinare
l’intensità entrano in gioco anche le sezioni d’urto (𝜎𝑖𝑗 ) indicate con i e j perché appartenenti all’elemento i
dell’orbitale j. Poi però ci saranno anche altri fattori che andranno a determinare quale sarà l’intensità effettiva del
mio sistema. Qui vediamo riportati anche dei fattori di tipo geometrico che risentono della disposizione geometrica
dell’orbitale: 𝐿𝑖𝑗 . Ma soprattutto avremo dei fattori strumentali poiché ovviamente, si, so dall’integrale il numero di
22 Appunti secondo parziale Caratterizzazione 2013/14
Umberto Maria Ciucani

elettroni emessi nel processo fisico ma poi l’intensità è legata anche dall’apparato sperimentale che sto utilizzando e
in particolare dalla risposta del detettore. Quindi ci dovrò mettere anche dei parametri quali una costante di carattere
strumentale che viene proprio da come è fatto lo strumento ma anche dovrò tenere conto anche del fatto che il
detettore dovrà contare tutti quegli elettroni che avranno un determinato un dato valore di energia cinetica. Un
detettore ideale dovrebbe essere indipendente, nel fornire un risultato, dall’energia cinetica dell’elettrone ma questo
nella realtà non è così (La sua sensibilità è funzione complicata dell’energia cinetica dell’elettrone, e potrebbe anche
essere nota) e quindi dovrò introdurre una funzione di trasmissione dell’analizzatore che dipenderà dall’energia
cinetica dell’elettrone nell’insieme di fattori da moltiplicare per ottenere l’intensità assoluta!

Determinare l’intensità assoluta è cosa molto difficile poiché non è sempre possibile calcolare tutti questi fattori in
maniera accurata. Si può fare per carità, ma richiedono sicuramente un grande lavoro.

Effettuando l’integrale e facendo un passettino in avanti e facendo l’ipotesi semplificatrice che la nostra
concentrazione è costante (campione omogeneo) e la porterò quindi fuori dall’integrale. Quindi avrò la mia costante
strumentale, la mia funzione che tiene conto della dipendenza del detettore dall’energia cinetica dell’elettrone
incidente, i miei fattori 𝐿𝑖𝑗 e 𝜎𝑖𝑗 , la mia concentrazione dell’elemento i e poi devo integrare questo esponenziale.
Quindi avrò:

E dovrò calcolarlo fra due estremi. Faccio l’ipotesi che il mio campione sia semi infinito quindi integrerò fra 0 e infinito.

Se io ho un substrato e sopra ci deposito uno straterello sottile di un elemento diverso, se io sono capace di dare una
quantificazione dell’intensità che misuro che so dipendere dallo spessore, il dato sperimentalmente interessante non
sarà tanto l’elemento ma lo spessore!!!!!! Se si tratta di uno spessore di pochi nanometri non è facile misurarlo con
metodi convenzionali mentre invece utilizzando l’intensità posso calcolarlo e questa cosa è molto interessante.
Questo ragionamento ovviamente funziona con una distribuzione di atomi (concentrazione) omogenea, cioè una
separazione netta delle due fasi solide, altrimenti se invece ho una miscela di atomi di substrato e deposito non la
posso fare.

𝐼 𝑖𝑗0 è intensità di riferimento. Tutto (𝐼 𝑖𝑗0 𝑙𝑎𝑚𝑏𝑑𝑎 𝑒 𝑖𝑙 𝑠𝑒𝑛𝑜 𝑑𝑖 𝑡ℎ𝑒𝑡𝑎) viene raggruppato sotto il fattore di sensibilità,
necessario da sapere se voglio attuare questa analisi quantitativa.

Ovviamente se vado a considerare i rapporti relativi fra bande dello stesso spettro e dello stesso orbitale introduco
delle semplificazioni poiché alcuni di questi elementi saranno costanti. Nell’esempio di prima se considero il chemical
shift del carbonio 1s, tutto rimane costante, faccio i rapporti di intensità semplicemente e quello corrisponde a un
rapporto fra le concentrazioni. In altri casi devo stare più attenta.

Qui vedete elencate tutta una serie di possibili semplificazioni che si possono avere. Ad esempio è chiaro che se 𝐿 𝑖𝑗 ,
che dipende da come è fatta la shell elettronica e quindi se ho no shell s piuttosto che p, se io faccio un rapporto fra
due picchi 1s questo fattore, si semplifica mentre se invece lo faccio fra diverse shell non si può semplificare. Se faccio
rapporto fra 1s C e 1s O, 𝐿 𝑖𝑗 non entra in gioco. Così come le costanti strumentali e la funzione di trasmissione
dell’analizzatore, che dipende dall’energia cinetica: mi devo preoccupare di questa dipendenza se sto facendo rapporti
fra bande che sono molto distanti in energia mentre invece se sto considerando due picchi ad esempio del carbonio in
diverse situazioni di legame in cui le differenze in energia sono molto piccole, posso aspettare che la funzione di
trasmissione si possa semplificare, e così via. Abbiamo visto i fattori di sensibilità e se io considero lo stesso tipo di
orbitale dello stesso atomo ovviamente 𝜎 𝑖𝑗 , non può cambiare e così via. Rimane da dire qualcosa sul libero cammino
medio anelastico: vi ricordate la curva per determinare la sensibilità superficiale della tecnica e li abbiamo visto che
dipende sì dal materiale anche se in via meno significativa, ma anche dall’energia cinetica e quindi se io sto
considerando elettroni che hanno energie cinetiche molto diverse anche il loro libero cammino medio dovrebbe
Appunti Caratterizzazione 2013/14 23
Umberto Maria Ciucani

essere diverso. Allora se voglio fare le cose accuratamente dovrei dare una stima indipendente dall’energia cinetica
del mio libero cammino medio. Non esiste una forma analitica che mi descriva esattamente il tipo di comportamento
di questo libero cammino medio ma abbiamo visto questo tipico andamento di questa curva che ha un minimo e poi
risale e allora ci sono delle forme semi empiriche che fittano bene i dati, a seconda, anche qui, del tipo di materiale
che si utilizza. A titolo di esempio per farvi vedere numericamente come questo tipo di relazioni si utilizzano, sono
riportati tre casi: vediamo che c’è una dipendenza simile dall’energia cinetica, c’è un fattore che dipende da 1/E^2, più
un altro fattore che dipende dalla radice quadrata dell’energia, con delle costanti che sono determinate in maniera
empirica fittando i dati. Entra in gioco nei materiali polimerici la densità! Poiché ci tiene in considerazione di quanti
oggetti abbiamo nel campione (?????????). Come esempio numerico possiamo considerare come si determina il libero
cammino medio anelastico del carbonio 1s sapendo che stiamo utilizzando una sorgente k alfa del magnesio. Allora
per prima cosa devo determinare l’energia cinetica, e per farlo, so qual è l’energia incidente hv, l’energia di legame del
mio carbonio 1s so essere uguale a 284eV, questa è l’energia del fotone incidente e quindi l’energia cinetica la ricavo
dalla solita equazione e ottengo un valore di questo genere. Stiamo considerando carbonio 1s, quindi supponiamo che
il nostro materiale sia polimerico, prendiamo la prima equazione, sostituiamo il valore che abbiamo determinato
dell’energia cinetica, prendiamo un valore ragionevole della densità del polimero come 1g/cm3, sostituiamo e
calcoliamo esattamente un valore di quell’ordine di grandezza che dicevamo all’inizio e cioè circa 3 nm. E ovvio che se
noi adesso prendiamo lo stesso polimero e consideriamo un altro picco con energia cinetica diversa, troverete una
lambda leggermente diversa. Anche qui dipende dall’accuratezza con cui stiamo facendo la nostra misura. In certi casi
sarà assolutamente importante tenere in considerazione la dipendenza di lambda con l’energia cinetica mentre in altri
casi ci potremo accontentare, in altri no. (parla piano non si capisce un cazzo).

In questo modo abbiamo sistemato l’utilizzo dell’intensità che sono importanti per dare una determinazione
quantitativa delle componenti.

Uno spettro ha tre osservabili sperimentali: La posizione del picco, l’intensità (altezza del picco) e la larghezza di riga
(quanto è larga la banda).

Cos’è la larghezza di banda? Ho una banda fatta così, capisco che la posizione e la intensità si leggono in un certo
modo mentre la larghezza dipende dall’altezza in ordinata che uso per determinare quanto è largo questo picco. E
allora in questo caso introduco una convenzione: molto spesso ci si riferisce alla larghezza a metà altezza, poiché
l’altezza è una cosa che posso definire in maniera precisa, considero metà altezza, valore detto: full width half height.
Molto spesso invece si preferisce considerare il valore di metà larghezza a metà altezza: half width half height. Questo
può essere interessante poiché nel caso di picchi asimmettrici potremmo avere valori diversi. Questi sono i due tipi di
indicatori di larghezza di banda convenzionali. Questo è vero per XPS, FTIR, RAMAN e ogni tecnica spettroscopica.

Cosa determina la larghezza? Quali sono i fattori che la determinano? Se voglio sapere come utilizzare questa
osservabile devo sapere quali sono i fattori che determinano questa larghezza!! QUESTA è UNA ROGNA!!

I fattori che subentrano sono di diversa natura e non sono tutti analizzabili, quindi in realtà il dato di larghezza di
banda può essere ed è molto importante in certi studi anche molto accurati e raffinati ma non è tanto facile ottenerli.
Giusto per avere un’idea per vedere cosa entra in gioco diamo qualche indizio sulla larghezza di banda senza entrare
in dettaglio come per le altre grandezze. Giusto per dare una prima premessa: ancora senza entrare nel determinare
cosa determina la larghezza intrinseca. Per esempio, tutte queste deviazioni dall’idealità che danno tanti picchettini
vicini: se io non ho un analizzatore accurato che mi distingua le situazioni diverse, vedo la convoluzione di tutti questi
picchettini e questo si ripercuote in una larghezza di banda. Questo è il motivo banale per cui si vedono picchi allargati
Ma, dal punto di vista intrinseco, cos’è che contraddistingue la larghezza di banda? Anche qui possiamo distinguere
due tipi di fenomeni: uno dovuto alle imperfezioni del mio apparato sperimentale, e dal punto di vista concettuale
quindi, motivi di allargamento dei picchi eliminabili perché se io virtualmente miglioro tantissimo l’accuratezza del mio
sistema riduco questa ampiezza. Ci sono però anche dei motivi intrinseci e quindi non eliminabili essendo l’origine
ultima di questi, avendo a che fare con transizioni elettroniche quindi transizioni all’interno di livelli energetici
permessi di un atomo in una molecola, di tipo quantistico.

In particolare noi sappiamo che deve essere soddisfatto il principio di indeterminazione di Heisenberg, principio
cardine della meccanica quantistica, che dice non posso sapere all’istante con precisione totale la posizione e la
velocità di una particella.
24 Appunti secondo parziale Caratterizzazione 2013/14
Umberto Maria Ciucani

𝜎𝑥 𝜎𝑝 ≥ ℎ⁄4𝜋
Allo stesso modo esiste una stessa formulazione ma diversa nelle variabili interessate che coinvolge energia e tempo
di vita.

∆𝐸 Δ𝑡 ≥ ℎ⁄4𝜋
L’incertezza che voi avete nella determinazione dell’energia di un qualcosa, per l’indeterminazione che voi avete nella
misura del suo tempo di vita, deve essere dell’ordine della costante di Planck. Questo vuol dire che se noi prendiamo
una delta di Dirac quindi un oggetto assolutamente stretto nell’indeterminazione sull’energia noi otteniamo
un’indeterminazione sul tempo di vita infinita e viceversa. Ci interessa perché noi stiamo considerando una transizione
e la grandezza fisica che ci interessa è il tempo di vita dello stato da cui proviene l’elettrone. Quello che mi interessa
capire è che il fatto che i miei stati elettronici abbiano un tempo di vita finito e quindi non vivono indefinitamente. Se
noi eccitiamo un elettrone su di un certo livello energetico quello non starà lì per sempre ma decadrà e quindi quello
stato eccitato avrà un tempo di vita più o meno lungo. Se delta t è finito, di conseguenza anche l’indeterminazione
sull’energia deve assumere un valore definito e l’indeterminazione sul valore dell’energia del mio livello si
ripercuote nella larghezza intrinseca della mia banda. Il mio spettro non può avere una linea infinitamente sottile
proprio perché è legato a un tempo di vita medio finito del mio livello. Questo mi dice che se avrò livelli che avranno
tempi di vita più lunghi, avrò bande più strette. E viceversa. E noi sappiamo benissimo che non tutti gli stessi livelli
hanno tempi di vita. Anche stessi livelli energetici ma di atomi diversi. Sappiamo che per atomi più pesanti il tempo di
vita diminuisce quindi cambia conseguentemente anche la lunghezza di vita. Capiamo benissimo che questo è
meccanismo intrinseco non eliminabile che per qualsiasi banda, qualsiasi spettro e qualsiasi tecnica che considererò
non potrà mai essere infinitamente sottile. Dopodiché questo tempo di vita può essere influenzato da situazioni
esterne. Se io cambio l’intorno del mio atomo, posso per esempio cambiare i rate di transizione all’interno
dell’atomo stesso quindi posso aumentare o diminuire i tempi di vita. Posso considerare quindi anche gli effetti di
interazione intermolecolari andando a giudicare la larghezza di banda del mio sistema. Poi dicevamo ci sono però
anche motivi legati alla strumentazione che utilizzo. La mia strumentazione consiste di un detettore che, per quanto
riguarda l’intensità, avrà una sua sensibilità e quindi anche qui se io ho diciamo un analizzatore che ha una
risoluzione non ottimale questo si ripercuote sulla larghezza del picco. C’è anche la sorgente però!!! La sorgente è
una radiazione X emessa dallo spettro caratteristico di raggi X e quindi anche lui intrinsecamente ha una sua
larghezza di banda!! Quindi se già la mia sorgente non è perfettamente monocromatica questo si ripercuote sulla
larghezza del picco che sto analizzando. Quindi per esempio se io ho diverse sorgenti che posso utilizzare come raggi X
la mia scelta si orienterà verso quegli elementi che hanno delle sorgenti con riga molto strette poiché questo migliora
la sensibilità del mio strumento. Di fatti questo è quello che giustifica il fatto dell’uso del Mg e dell’Al proprio perché se
andiamo a guardare le tabelle che riportano i valori caratteristici dei raggi x dei diversi atomi e delle diverse
transizioni, vediamo che questi hanno dei valori particolarmente piccoli di larghezza di banda e quindi sono le scelte
più ottimali. E appunto Al e Mg sono gli elementi più leggeri mentre quelli più pesanti generano larghezze di riga
maggiori. Questa scelta è così giustificata per questo tipo di tecnica mentre vedremo che per altre tecniche, come la
diffrazione X, questo non interessa più di tanto e quindi si utilizzano altri elementi ed altre transizioni, come quelle del
Cu.

Quindi riassumendo abbiamo tre termini che contribuiscono alla larghezza della banda: un termine naturale dovuto
al principio di indeterminazione, un altro legato alla sorgente di fotoni e l’ultimo legato alla sensibilità e
l’accuratezza del nostro dispositivo.

Diciamo che le osservabili le abbiamo esaurite. Abbiamo nominato tantissime volte le tantissime componenti del mio
apparato sperimentale e allora spendiamo due parole per ognuno di questi elementi che lo compongono. Nello
schema di un sistema ESCA vediamo una sorgente che abbiamo detto sorgente di raggi X. Avremo un cannone
elettronico che manda questo fascio accelerato di elettroni sul target, sull’anodo, che deve emettere raggi X, ad
esempio Al. Qui viene generato lo spettro di raggi X caratteristici e continui che devono essere resi monocromatici
attraverso un monocromatore di raggi X. E da qui questa radiazione monocromatica viene mandata sul campione. Si
generano tutte le interazioni che abbiamo detto e si produce un fascio di elettroni con determinate energie cinetiche
che quindi viene raccolto e analizzato. Quindi avremo un detettore ma prima di esso un analizzatore. Il detettore
conta il numero di elettroni per ogni valore dell’energia cinetica e non fa una conta generica degli elettroni. Allora ci
Appunti Caratterizzazione 2013/14 25
Umberto Maria Ciucani

serve un elemento che disperda in qualche modo elementi ad energia diversa, che selezioni gli elettroni in base alla
loro energia cinetica. Ciò fa l’analizzatore. E’ uno strumento sensibile alle diverse energie cinetiche, dopodiché il mio
detettore sarà in grado di misurare quanti elettroni lo colpiscono con quella determinata energia cinetica. Poi ci sarà
ovviamente una trattazione del segnale digitale che quindi attraverso un software che controlla l’acquisizione e la
rappresentazione del segnale si avrà il nostro spettro. Tutto questo dispositivo ovviamente deve essere contenuto in
una camera ad alto vuoto!!! Viene anche fatto vedere nel diagramma che in generale può anche esserci un
neutralizzatore di eccesso di carica nel caso di campioni isolanti.

C’è una seconda possibilità per la sorgente di raggi X oltre a quella standard che abbiamo visto, riservata a casi
specifici e di particolare interesse. Un’altra interessantissima sorgente di raggi X non disponibile in qualsiasi
laboratorio, ma che ha caratteristiche molto particolari per cui si possono ottenere delle informazioni molto utili
utilizzando questo tipo di sorgente: è la radiazione di sincrotrone. Quest’ultimo è un acceleratore di particelle. Questa
radiazione ha caratteristiche particolari. Degli elettroni vengono fatti circolare in un anello di accumulazione con
velocità prossime alla velocità della luce con campi elettrici e soprattutto campi magnetici elevatissimi. Gli elettroni
vengono fatti circolare nell’anello per azione di magneti potentissimi che quindi direzionano i nostri elettroni e questo
fa sì che abbiamo delle cariche in moto sempre accelerato ed esattamente come dicevamo l’altra volta questo
provoca l’emissione di radiazione. E la cosa caratteristica è che questa radiazione è molto intensa, molto direzionale
quindi estremamente collimata (poiché l’emissione di radiazione può avvenire solo in direzione tangenziale rispetto
alla traiettoria circolare degli elettroni, quindi otteniamo delle divergenze di fascio che a seconda delle condizioni di
energia possono anche essere molto molto piccole, dell’ordine del micron, (10 alla meno 6 radianti) e poi
caratteristica fondamentale è che otteniamo un emissione continua su tutto lo spettro elettromagnetico. Otteniamo
della radiazione che vale con continuità dall’infrarosso fino ai raggi X duri e anche gamma se l’anello è grande. Tutto
all’interno dello stesso anello di accumulazione. Poi ovviamente dovremo avere un sistema di selezione della
radiazione che ci interessa però questo tipo di sorgente produce contemporaneamente radiazioni su tutto lo spettro
elettromagnetico. Radiazione che è estremamente intensa ed estremamente collimata poi con proprietà di
polarizzazione del fascio molto ben determinate e quindi questo anche per certi tipi di analisi è estremamente
importante. Dall’anello si dipartono tangenzialmente le facilities. Ovviamente questo è un qualche cosa che si fa
programmandolo per necessità e non è una cosa id routine della tecnica XPS. Campi d’utilizzo delle radiazioni di
sincrotrone sono i più vari: scienza dei materiali, fisica, biologia, chimica, studi di base ma anche studi di tipo biologico
e medico e quindi gli interessi sono molti. Esistono anelli di accumulazione precedenti a quello principale. Nella beam
line avviene selezione e focalizzazione della radiazione e poi la camera di vuoto per la misurazione. Le caratteristiche
sono dovute ad un’elevata brillanza, uno spettro continuo da IR a X, la possibilità di avere emissione pulsata, e poi
una ben definita polarizzazione. Gli svantaggi sono che queste sono strutture mastodontiche anche se le nuove
strutture sono di dimensioni minori. Facendo un esempio, UPS con luce di sincrotrone. Avere radiazione di
sincrotrone permette di variare energia di fotone incidente con continuità.

Tornando invece all’analizzatore dell’energia, al nostro apparato classico, e cerchiamo di capire come vengano distinti
i diversi valori dell’energia cinetica dell’elettrone. Come faccio a intervenire sull’energia cinetica del mio elettrone?
Principio fisico da utilizzare per modificare energia dell’elettrone? Applicando una ddp generalmente! Se avessi E
cinetica di 100eV e voglio determinarla sperimentalmente posso applicare una ddp esattamente opposta (-100eV),
così facendo il detettore sentirà solamente quelli con energia maggiore uguale a 100eV. L’analizzatore più semplice
che posso utilizzare quindi sarà una griglia ritardante. Ovviamente il problema di un sistema di questo genere qua è
che non è molto preciso. Un modo molto più efficiente anche se non l’unico per selezionare gli elettroni è quello
dell’analizzatore emisferico a due calotte. Due calotte poste in modo tale che il potenziale della calotta esterna sia ad
un potenziale negativo maggiore in valore assoluto rispetto al potenziale negativo della calotta interna. In entrata
metterò una fenditura molto sottile da cui posso fare entrare i miei elettroni e così anche in uscita bloccherò l’uscita
tranne in un punto preciso ad esempio in mezzo alla calotte sferiche. In pratica queste due calotte formano un
condensatore emisferico. Messo a potenziale negativo e cioè all’interno del condensatore si creerà un campo elettrico
che dipenderà dai raggi di curvatura delle mie calotte e dai potenziali applicati. Si dimostra che soltanto gli elettroni
che avranno un determinato e preciso valore dell’energia cinetica, per effetto del campo elettrico, soltanto se viene
soddisfatta una particolare relazione potranno percorrere una traiettoria esattamente circolare, tutti gli altri
devieranno e non usciranno. Quindi il mio detettore misurerà solo quegli elettroni che sono entrati con quel preciso
valore dell’energia cinetica. Quindi soltanto quelli con energia E per V zero verranno rilevati. Siccome R1 ed R2 ed R0
26 Appunti secondo parziale Caratterizzazione 2013/14
Umberto Maria Ciucani

sono fissati, se voglio cambiare energia cinetica dell’elettrone che voglio analizzare cambio solo il potenziale delle
calotte.

C’è un però!!!! Posso osservare però una cosa! I nostri spettri SURVEY variano le energie di molto, da pochi eV a
migliaia di eV. Quindi io devo essere sicura che l’accuratezza con cui io misuro l’energia su tutto questo range di
valori sia la stessa, altrimenti la mia misura non è precisa. Qual’è quindi la risoluzione di uno strumento di questo
tipo? La risoluzione la posso definire come l’indeterminazione, la precisione che io voglio sulla misura dell’energia
fratto l’energia stessa, e si dimostra essere uguale a una certa costante, per le caratteristiche geometriche di quello
strumento, dove vediamo che entrano in gioco la larghezza della mia apertura e il raggio della traiettoria circolare.
Quindi per un dato strumento questa è una quantità fissa. Questo mi dice che se ad esempio io ho un certo valore
dell’energia (questo rapporto si deve mantenere costante) se diminuisco il valore dell’energia diminuisco anche il
valore dell’imprecisione. Va bene quindi per energie piccole ma per energie grandi, es: 1000eV, per mantenere quel
rapporto costante vuol dire che l’indeterminazione sulla determinazione dell’energia cinetica è molto grande. Voglio
un accuratezza ad esempio di 20eV (spettri ad alta risoluzione) e però l’energia cinetica del mio elettrone è di 1KeV. Se
io voglio avere questa cosa qui ho un valore del mio rapporto w doppio su r (per w doppio ovviamente sono limitata
nelle mie dimensioni all’ordine del millimetro) questo mi implica un R maggiore di un metro e quindi dal punto di vista
sperimentale diventa pesante avere un analizzatore di queste dimensioni. Questo ci dice che non è un buon metodo
perché per un determinato analizzatore io avrò delle sensibilità, delle risoluzioni, che variano a seconda della
posizione in cui mi metto (????). DOMANDA SU, DELTA E SU E: mi rappresenta la sensibilità del mio strumento, la sua
risoluzione. Delta E è l’incertezza che io ho sulla misura rapportata al valore stesso dell’energia cinetica dell’elettrone
che vado a misurare che si dimostra essere una caratteristica dello strumento ed essere legata sostanzialmente alle
caratteristiche strumentali per cui non ci posso fare nulla. Siccome i valori della mia energia variano da pochi eV a
migliaia di eV, L’indeterminazione che io avrò sulla misura per l’elettrone di 100eV e di 1000eV sarà molto diversa,
rispettivamente molto più precisa su 100eV e meno precisa su 1KeV. Qual è l’espediente che normalmente si utilizza
allora? Sarebbe auspicabile avere sempre lo stesso valore dell’energia (PASS ENERGY), l’energia di trasmissione
all’interno dell’analizzatore. Se io faccio entrare solo elettroni di una determinata energia cinetica sono sicuro che
la mia ampiezza è la stessa per ogni picco! E come faccio per farli entrare tutti con la stessa energia cinetica quando
però li ho prodotti con energie cinetiche diverse?!?! Opero la selezione a monte. Quindi ci metto un potenziale che
deve ritardare i miei elettroni prima che entrino nell’analizzatore. Posso avere una lente ritardante per esempio di
100eV e ho la mia pass energy di 50eV (energia che serve a percorrere la traiettoria circolare ed uscire
dall’analizzatore). Se faccio questo, il mio detettore analizza elettroni con energia cinetica di 150eV. Poi cambio il
potenziale ritardante andando da 100eV a 120eV, siccome la pass energy è sempre di 50eV al mio detettore
arriveranno elettroni con 170eV. Queste sono le mie due modalità di operazione del mio sistema di detezione
(analizzatore + detettore). Posso o cambiare la tensione sulle calotte sferiche dell’analizzatore, e così cambio l’energia
dell’elettrone ma nel caso dell’XPS non è conveniente, o è molto più conveniente tenere fissa l’energia che determina
la traiettoria nell’analizzatore e fare la selezione degli elettroni a monte con potenziale ritardante per l’elettrone in
ingresso che fa passare solo certi determinati valori dell’energia. Accomuno discriminazione rozza della griglia assieme
a questa selezione più fine. In questo modo rendo più accurato il mio analizzatore. Riassumendo:

La selezione con l’analizzatore semisferico come funziona? Dati certi valori geometrici delle calotte e dati i valori dei
potenziali delle calotte, solo un certo preciso valore dell’energia cinetica permette all’elettrone che entra dalla
fenditura indicata gli permette di compiere una traiettoria circolare e di uscire in corrispondenza della fenditura in
uscita. Solo quel valore di energia cinetica che risponde a quella relazione. L’ovvio modo per selezionare le energie in
uscita, visto che non posso cambiare le dimensioni delle mie calotte è quello di cambiare il potenziale delle mie
calotte. Lo posso fare ma mi accorgo che così facendo introduco un’indeterminazione sul valore dell’energia che io
misuro, perché dimostro che le misure fatte per valori bassi dell’energia sono molto accurate mentre non lo sono per
valori alti dell’energia cinetica dell’elettrone. Allora la soluzione è selezionare le energie cinetiche in entrata di modo
che il mio analizzatore funzioni sempre con le stesse energie (stessa pass energy). Per fare questo metto delle lenti
ritardanti di potenziale variabile in entrata. Ci rimane ora il discorso relativo alla sensibilità superficiale. Abbiamo
iniziato dicendo che la tecnica XPS è di superficie. Il massimo spessore analizzabile è 3 lambda e quindi 10nm. Va bene
se tutto è uniforme (distribuzione degli elementi in questi 10nm), ma se la distribuzione non è uniforme? Posso
studiare questa disuniformità perché entro questi 10nm ho dei modi per variare la sensibilità superficiale di questa
tecnica. Quindi andremo a vedere come possiamo andare a variare la sensibilità superficiale di questa tecnica che già
Appunti Caratterizzazione 2013/14 27
Umberto Maria Ciucani

di per se è superficiale. Perché comunque 10nm sono un numero elevato di strati! Per esempio uno stato di ossido è
meno spesso di 10nm o comunque ha una distribuzione di ossido diverso fra gli strati superficiali e di bulk. Potremo
dire qualcosa in merito. Esistono approcci diversi che consentono di indagare.

10.04.2014

Vogliamo vedere se c’è modo per cambiare la sensibilità superficiale della tecnica (XPS), fermo restando che l’analisi
sarà di superficie. Quello che ci chiediamo è quanto possiamo renderla di superficie ed eventualmente se la tecnica sia
utilizzabile per fare un’indagine più in dettaglio, perché anche se consideriamo strati sottili non è detto che la
disposizione degli elementi all’interno di questi strati sottili sia uniforme. Quindi potrebbe essere interessante avere a
disposizione un modo per studiare quello che si chiama il profilo di profondità di un materiale. Il profilo di profondità
(“profiling”) vuol dire che se la composizione del campione in un qualche modo cambia, cambiando la penetrazione
all’interno del materiale, possiamo essere in grado di seguire questa distribuzione non uniforme. Tipico esempio è
l’ossido di un metallo. Voglio poter determinare quanto è profondo lo strato d’ossido e posso farlo poiché la quantità
di ossigeno varierà a seconda dello spessore, quantità massima negli strati esterni ovviamente. So che il mio
ricoprimento potrebbe essere più o meno uniforme e di diverso genere.

1. Utilizzo di fotoni di diversa Energia

Come si può fare? Il primo metodo è abbastanza ovvio. Dovremmo conoscerlo/immaginarcelo già poiché quando
abbiamo determinato la sensibilità superficiale della tecnica a cosa ci siamo riferiti? Ci ricordiamo che la grandezza
fondamentale con cui confrontarsi è il libero cammino medio anelastico. Abbiamo visto anche la master curve che ci
dice che la distanza percorsa in media da un elettrone con una certa energia cinetica all’interno del materiale. Ad
esempio se ci muoviamo nella parte delle più alte energie, ci ricordiamo che il grafico più o meno è parabolico con un
minimo centrale. Al variare dell’energia, pur rimanendo piccoli i valori dei cammini medi, se ho un energia cinetica più
alta, il cammino libero medio sarà maggiore anche se non di molto e quindi il segnale che mi arriverà da strati più
spessi. Allora vuol dire che io posso un po’ modificare la porzione di campione che io riesco a sondare cambiando
l’energia cinetica del mio elettrone. E cosa devo fare per far sì che cambi? Devo cambiare l’energia del fascio
incidente, della radiazione, e quindi dovrò usare fotoni X più energetici. Più energetico è il fotone, più alta sarà
l’energia cinetica ottenuta dall’elettrone e quindi maggiore sarà la distanza di penetrazione del fotone X e maggiore lo
spessore che io vado ad analizzare. Vedendo degli esempi: campione di Silicio che esposto all’aria si ossida e nella slide
si osservano al variare dell’energia del fotone incidente delle zone diverse. Guardando il primo e ultimo si fa
riferimento alla zona del picco 1s del Si, allora come io mi aspetto, se il mio materiale è stato esposto all’ossigeno
dovrò osservare la posizione del silicio puro non ossidato e un picco spostato verso energie di legame più alte che
corrisponde all’ossido. Nel grafico della slide è stato ottenuto con un fotone l alfa zirconio quindi con 2040eV.
Guardando l’ultimo spettro, lo c, sempre la stessa zona ma eccitata con radiazione diversa: K alfa del titanio 4710eV.
Quindi molto più energetico e quindi qui mi aspetto una misura su di uno spessore maggiore. Quindi che variazione mi
aspetto rispetto al primo spettro dove avevo dentro la componente sia quella di silicio puro che quella di silicio
ossidato? La componente del silicio puro viene dagli strati più interni quindi se io vado ad aumentare la porzione di
campione testata col mio fotone incidente preverrà (relativamente) il segnale del Silicio puro. E quindi mi aspetto di
osservare il picco dell’ossido, o diminuito in intensità o addirittura inesistente. Non perché è cambiato il campione ma
perché semplicemente io andando a testare uno spessore più alto ho reso relativamente molto meno intenso il
segnale dell’ossido poiché sono pochissimi strati rispetto a un numero decisamente più alto della base. Il doppio picco
che però osservo in figura è un picco satellite derivante dal fatto che il fotone k alfa del titanio ha due componenti, k
alfa 1 e k alfa 2, che sono difficili da separare e che non sono state eliminate sufficientemente bene e quindi il secondo
picco è dovuto al fatto che è come se io avessi due sorgenti con due E=hv leggermente diversi. Quindi siccome le due
intensità sono diverse questo spiega perché ho un rapporto di intensità diverso. Il grafico b non è commentato perché
se guardiamo bene è relativo a un’altra zona, al silicio nella zona 2p. Quindi è stato fatto con un’energia del fotone che
è la più bassa di tutte ma è una zona diversa e quindi fa caso a sé. Adesso usiamo un fotone che è quello a più bassa
energia, quindi mi immagino che debba avere la massima sensibilità superficiale.
28 Appunti secondo parziale Caratterizzazione 2013/14
Umberto Maria Ciucani

(VEDERE SU ALTRI APPUNTI).


Quindi anche in questo caso mi aspetto di osservare il picco relativo all’ossido. Effettivamente l’osservo ma è una
situazione anomala in un certo senso perché io mi aspetterei, rispetto al caso precedente, un picco ancora più intenso
per l’ossido ma in realtà lo sto guardando su di un’altra banda e quindi evidentemente i coefficienti di sensibilità
intrinseca sono diversi. Per cui questo esempio evidenzia un principio di base che però varia da banda a banda. In
questo caso certi orbitali sono meno efficienti nella rivelazione del fenomeno. Perché devo guardare i 2p e non gli 1s
in questo caso? Perché l’energia di legame dell’1s è più grande.

Quindi questo è un modo per studiare la composizione variabile al variare della profondità anche se non è un modo
molto controllabile.

2. ESCA / XPS risolto in angolo

Abbiamo già introdotto qualcosa di quest’altro metodo quando scrivevamo la formula generale per il calcolo
dell’intensità. Anche lì ci siamo preoccupati di dire che la frazione di elettroni che esce ha un certo andamento però
questo è vero quando gli elettroni li considero normali alla superficie, ma se per esempio ruoto il detettore o ruoto il
campione e cioè cambio l’angolo di take-off (angolo di uscita) succede che siccome la distanza massima che io posso
percorrere all’interno del mio materiale è sempre uguale a 3 lambda, se questa distanza la prendo in una direzione
non perpendicolare alla superficie vedo uscire elettroni provenienti da uno spessore più piccolo rispetto al caso
perpendicolare. Ho capito che mi basta cambiare theta e passo dalla massima profondità di penetrazione via via a una
profondità via via più piccola fino a un fattore che è quello minimo permesso sperimentalmente (5-6 gradi). E’
metodo molto controllabile e soprattutto mi permette semplicemente ruotando il campione durante la stessa misura
di fare diverse rilevazioni. E quindi se voglio essere sicura che quel picco visto prima appartiene all’ossido, cambio
l’angolo e man mano che lo diminuisco (take-off) mi aspetto di vedere che diventerà sempre più intenso, se
appartiene all’ossido. Facendo i rapporti di intensità mi rendo quindi conto di questo fatto e sapendo gli angoli di
misura, calcolo anche lo spessore dello strato d’ossido. Questo è metodo molto controllabile e soprattutto non
distruttivo. E’ come se sezionassi il materiale senza farlo realmente. Il limite è dovuto al fatto che al di sotto di 3
lambda, quei 10nm, non posso andare. Fare attenzione al sistema di riferimento utilizzato per la sampling depth. Ad
esempio nell’angolo di take off.

Questo tipo di analisi presuppone che lo strato superficiale che io vado ad investigare sia nettamente separato dal
substrato sottostante. Essendo così, variando l’angolo variano i rapporti di intensità secondo quello che vediamo
riportato nei grafici. Se non fosse così (ad esempio nel caso di diffusione all’interno del campione di ciò che è stato
deposto in superficie) avrò distribuzione omogenea delle due specie e non potrò rilevarlo variando l’angolo. In questo
caso quindi la tecnica può dirmi se avviene diffusione di atomi che sono deposti in superficie o meno attuando un
ragionamento speculare inverso.

Viene esposto il caso del polistirene che, subendo un trattamento al plasma, produce picchi relativi ad ossigeno
essendosi quest’ultimo legato al polistirene per ossidazione dovuta a scambio energetico intenso.
Appunti Caratterizzazione 2013/14 29
Umberto Maria Ciucani

Quindi questi sono due metodi per variare la sensibilità superficiale della tecnica. Il primo semplice ma poco
controllabile mentre il secondo molto precisamente controllabile. In questo secondo lo svantaggio è che sono limitato
alla massima profondità di campionamento (10nm). Cosa faccio se voglio studiare la composizione più in profondità?
L’unico modo che ho sarà distruttivo erodendo strati superficiali e poi rifacendo l’analisi. Posso arrivare anche a fare
un profilo di profondità dell’ordine del micron.

3. Sputtering

Questa erosione superficiale è dovuta allo scalzare degli atomi dalla superficie tramite scambio di quantità di moto
(energia meccanica) con proiettili molto energetici: ioni (sufficientemente massivi) positivi accelerati poiché per
fornirgli energia cinetica devo applicare campo elettrico. Il controllo sullo spessore eroso è esercitato tramite il tempo
nel quale io lascio che questo fenomeno avvenga. Misuro scala temporale che con opportuni riferimenti è tradotta in
una scala dimensionale dello spessore eroso. Ovviamente poi la resa di questo fenomeno dipenderà relativamente
dalla massa degli atomi del campione e la massa degli oggetti utilizzati per scalzare gli atomi. Ovviamente questa
azione meccanica di erosione del campione è un’azione che richiede grosse energie. Io devo cercare di perturbare il
meno possibile il mio campione quindi fra la specie chimiche a disposizione, sarà favorevole utilizzare specie
chimiche che tendono a non reagire col campione. E quindi quelli con meno tendenza a reagire con il campione sono
i gas (nobili) e quindi spesso si usa Argon ad esempio. Quindi parto e faccio analisi XPS della mia superficie poi
sputtering con ioni Argon per un certo tempo predefinito e poi ripeto l’XPS. Il tutto sta nel calibrare opportunamente il
tempo di sputtering in modo da tradurre questo tempo, nella profondità. Dipenderà da campione a campione questo
tempo, e ci saranno dei materiali utilizzati come riferimento. Usare ioni Argon può creare comunque complicazioni
poiché è processo con interazione molto pesante. Alcune possibili complicazioni potrebbero essere ad esempio
assorbimento di gas residuo inducente difetti o alterante struttura cristallina (non operando effettivamente in
vuoto). Queste tre tecniche sono molto utilizzate per fare analisi in profondità. Lo sputtering posso anche usarlo per
ripulire superfici poiché se l’azione dello ione è quella di rimuovere strati superficiali allora è adatto anche a questo.

Allora questo sputtering può essere utilizzato in situazioni ancora più complesse come quelle in cui si ha una sequenza
di strati (film multistrato). L’analisi può essere fatta come abbiamo detto: posso fare spettro XPS e il risultato finale
sarà come avere la sovrapposizione di tutti gli spettri corrispondenti a i diversi straterelli sapendo che quello che viene
prodotto nello strato inferiore può essere assorbito da quello superiore e quindi il gioco sulle intensità diventa
complicato. Fare attenzione quindi perché dobbiamo tenere in considerazione il fatto che gli strati sovrastanti
attenuano il segnale inviato dagli strati sottostanti. Come facciamo a quantificarlo? La quantificazione è fatta sempre
tramite le equazioni già affrontate per valutare l‘intensità di una banda. Si passa da campione semi-infinito a
campione bi-composito con uno strato finito spesso “d” e l’altro semi-infinito. Il mio integrale che è esattamente lo
stesso di prima lo dovrò spezzare in due parti, una fra 0 e d, che è relativa allo strato superficiale e l’altro semi-infinito
fra d e infinito. Questa è la formula più generale che dobbiamo utilizzare per andare a considerare l’intensità di una
situazione fatta da un substrato semi-infinito con sopra uno strato definito, facendo attenzione alla grandezze che
entrano qui in gioco: la costante (che dipendeva dalle costanti strumentali, dalla funzione dell’analizzatore e dal
fattore di sensibilità (sezione d’urto dell’orbitale)), dalla concentrazione, dal libero cammino medio ed eventualmente
dall’angolo.

Stiamo attenti ai liberi cammini medi che dobbiamo considerare perché varieranno a seconda del materiale che
stiamo analizzando. Osservando casi molto semplici:

1. Caso

Considero che il segnale che sto analizzando provenga solo dallo straterello superiore: eg. polimero fatto adsorbire su
ossido. Quindi se io vado a guardare picco C 1s proverrà soltanto dallo strato superiore quindi concentrazione di
elementi nel substrato è pari a 0 quindi in quella espressione che consideravamo prima soltanto il primo termine
sopravvive mentre n2 è zero e quindi l’altro termine si annulla. L’andamento che ottengo è del tipo (siccome è
l’integrale fra 0 e d), 1 meno l’esponenziale di meno d su lambda per il seno di theta. A questo punto se io inverto
quella relazione e quindi faccio il rapporto delle intensità e calcolo il logaritmo, ecco che posso invertire la relazione e
quindi dare una valutazione dello spessore. Che cos’è quella I(ij) infinito? E’ il valore di intensità che io otterrei
idealmente su un campione di riferimento infinito. Avendo sempre bisogno di una misura relativa, misuro il
corrispettivo campione infinito, mi determino quella costante, faccio i rapporti e sperimentalmente determino lo
30 Appunti secondo parziale Caratterizzazione 2013/14
Umberto Maria Ciucani

spessore del mio strato. Oppure posso fare cose diverse ad esempio, se posso fare la misura a diversi angoli e quindi
posso addirittura estrarre con regressione lineare il valore dello spessore. Se io guardo il segnale proveniente da strato
sottostante (picco sottostante) posso arrivare a determinare ugualmente lo spessore dello strato superficiale.
L’ultimo caso e il più complicato è quello dove si utilizzano due segnali che però sono relativi a due configurazioni
distinte di legame. Ad esempio nel caso dell’analisi dell’ossigeno 1s che è presente sia nello strato superiore come
costituente del mio film ma anche nello strato inferiore perché in questo caso è presente un ossido: si tratta di un film
polimerico depositato su di un ossido. Quindi ho lo stesso segnale che ha contributi sia da sopra che da sotto. Allora in
questo caso devo tenermi entrambi i termini di quell’equazione generale che vedevamo all’inizio e per poterla
risolvere anche qui devo fare delle ipotesi, posso fare i rapporti delle due parti, misurerò elementi di riferimento 1 e 2,
le costanti saranno le stesse e quei termini li potrò semplificare: il rapporto delle intensità risulta quindi essere dato
dal rapporto delle: concentrazioni, liberi cammini elastici e delle due funzioni esponenziali. Sostituisco i valori, faccio
delle approssimazioni.

Quando voglio valutare questo spessore andando a fare i rapporti, le costanti strumentali si semplificano, le intensità
le misuro come aree, le densità atomiche sono riportate quindi conosciamo anche n dell’ossido e del silicio quanto
valgono, i liberi cammini medi vado a determinarli dalle master curve e vedo che trovo quei diversi valori. Mi interessa
sapere il libero cammino medio nell’ossido di silicio all’energia dell’ossido di silicio. Leggermente diversa è il libero
cammino medio del Si all’energia del Si. Si può anche semplificare ulteriormente approssimando i liberi cammini medi
all’essere uguali e il valore dello spessore non varia di molto. Insomma dipende dal grado di precisione che si vuole.
Questo è un esempio di come si possano usare i dati di intensità per calcolare gli spessori.

Ultimissima considerazione sulla tecnica: un modo molto utile di analizzare i dati sperimentali che si ottengono
(visivamente immediato), per determinare la distribuzione degli elementi all’interno di un materiale è fare
IMAGING/MAPPING. Sono immagini del mio campione che riflettono la distribuzione spaziale di un determinato
elemento sulla superficie del campione stesso. E’ una misurazione punto per punto della presenza e della quantità di
elemento. Farò lo spettro in dipendenza del punto d’analisi. Se io sono interessato ad considerare la distribuzione del
carbonio allora invece di fare tutto lo spettro in tutti i punti mi basterà andare a considerare l’intensità del picco C 1s e
rifare la misura su tutti i punti del mio campione. Otterrò dei valori di intensità variabili a seconda del punto dove sono
e a seconda della percentuale di materiale presente in quel punto e andrò a rappresentare in un’immagine, con una
scala opportuna di colori, dove c’è la maggior quantità di elementi. Il problema relativo a questo tipo di tecnica è che
sarà tanto più precisa quanto io riesco a fare l’analisi puntuale, perché se io facessi analisi su area molto grande
vorrebbe dire che il valore ottenuto sarebbe mediato sull’area (grande) oggetto d’analisi. Perché è un problema con
l’XPS? Perché la risoluzione laterale di questo imaging è generalmente bassa. Relativamente alla sensibilità superficiale
dell’XPS abbiamo detto che è cattiva perché i raggi X sono difficilmente focalizzabili. Quindi questo mapping
comunque sia viene fatto, ma devo sapere che la sua risoluzione sarà comunque sia cattiva, dell’ordine di grandezza
dei micron. Mentre invece nell’Auger posso fare mapping composizionali molto più precisi viste la possibilità di
focalizzazione maggiori. L’altra cosa necessaria per fare imaging, visto che devo ripetere la misura più volte
scansionando la superficie, devo poter spostare o il campione o la zona di raccolta del segnale. Il modo più semplice
concettualmente è spostare il porta campioni, ed è quello meno raffinato (decine di micron di risoluzione). L’altro
metodo più complicato invece è usare lenti elettrostatiche orientate sia in direzione x che y, essendo l’oggetto
dell’analisi una superficie in 2D, che a diversi valori del potenziale impostati, selezionano la zona dalla quale si vuole
fare uscire il segnale: risoluzione maggiore di una decina di micron. Se uso anche detettore multicanale arrivo anche a
pochi micrometri. Fare mapping in definitiva vuol dire concentrarsi su di un picco e andare a vedere quanto varia la
sua intensità in funzione della zona analizzata. Possiamo fare anche analisi più sottile studiando puntualmente in
maggiore dettaglio le componenti che costituiscono il nostro campione quindi per esempio si può studiare cosa
succede all’interfaccia fra gli strati. Poi si può fare anche analisi quantitativa.

ESERCIZIO:

Si considera che un substrato di Platino abbia deposto uno strato di Argento sopra. Si analizza con XPS e si utilizza
come fotone incidente il Kalfa dell’Alluminio (hv=1486.6eV).

DATI:

Prima della deposizione dell’Argento si osserva un segnale relativo al Platino 4p(1/2) che ha un’energia di legame pari
a 610eV, e si osserva un certo picco con una certa intensità.
Appunti Caratterizzazione 2013/14 31
Umberto Maria Ciucani

Dopo aver deposto lo strato di Argento questo picco è ancora osservabile ma con un intensità che è pari al 25% di
quella iniziale (P=0.25). Il detettore è messo in modo tale per cui l’angolo di take-off è pari a 30° rispetto alla normale.

Qual è lo spessore dello strato dello spessore di Argento?

Per fare tutto ciò serve stimare il valore del libero cammino medio anelastico usando le curve riportate.

[RIS]= 18 A

15.04.2014
SPETTROSCOPIA AUGER

Ultimo argomento su spettroscopie elettroniche: SPETTROSCOPIA AUGER. Di cosa si tratta? In cosa differisce dalla
XPS? E quali vantaggi-svantaggi offre? Quando noi sollecitiamo il materiale possono succedere diversi fenomeni.
Arriva il fotone, scalza l’elettrone e noi andando ad analizzare energia cinetica otteniamo informazioni. Se noi
forniamo energia sia in forma di fotone o eventualmente anche mandando egli elettroni sufficientemente energetici
potrebbe succedere che, benissimo il primo evento è sempre quello della ionizzazione di un livello di core. Atomo è in
stato di alta energia. Il meccanismo di rilassamento istantaneo è quello di una transizione di un elettrone da una shell
esterna a coprire questa vacanza lasciata libera esattamente come nel caso della generazione di raggi X, dove questa
transizione libera in energia che può essere emesse sotto forma di fotone: fluorescenza X. Ma questa non è l’unica
cosa che può succedere, nella transizione ad esempio dal livello L1 al livello K si libera dell’energia ma questa energia
potrebbe essere utilizzata ad esempio per essere ceduta ad un altro elettrone appartenente ad una shell esterna dello
stesso atomo. Se questo eccesso di energia è superiore dell’energia di legame di quest’altro elettrone succederà che
questo elettrone verrà emesso dall’atomo e l’eccesso di energia rispetto alla sua energia di legame andrà sotto forma
di energia cinetica di questo ultimo elettrone uscente. Quindi se io uso un detettore che rivela l’energia cinetica di
questi secondi elettroni emessi ecco che io ri-ottengo un’informazione di carattere chimico. Perché? Ripetiamo questo
processo scrivendo le energie coinvolte: abbiamo detto che l’energia che si rende disponibile è quella che si ottiene
nel salto da 𝐿1 a 𝐾: 𝐸𝐾 − 𝐸𝐿1 . Viene utilizzata per far uscire un elettrone da 𝐿2,3 ad esempio, quindi se io a questa
energia disponibile tolgo l’energia di legame di 𝐿2,3 quello che mi avanza è l’energia cinetica di un secondo elettrone
che viene emesso:

𝐸𝐾 − 𝐸𝐿1 − 𝐸𝐿2,3 = 𝐸𝑘𝑖𝑛 𝑒−𝐴𝑢𝑔𝑒𝑟

Quindi mi troverò alla fine con un atomo che sarà due volte carico positivamente. Del primo elettrone ce ne
freghiamo, questo secondo elettrone prende il nome del primo che lo ha scoperto: AUGER. E’ sempre spettroscopia
elettronica perché le transizioni coinvolte sono ancora una volta legate alle energie elettroniche di legame degli
elettroni all’interno del mio atomo e l’informazione che ottengo è ancora una volta chimica perché quei valori
dell’energia dipendono dal tipo di atomo che sto analizzando. Capiamo subito che tutte le volte che noi andiamo a
eccitare un fotoelettrone facendo uno spettro XPS automaticamente avremo anche l’emissione di elettroni AUGER.
Questo giustifica il fatto che quando osservavamo gli spettri SURVEY del nostro XPS, ci son sempre dei picchettini
labellati con lettere diverse dai picchi XPS che consideravamo, e che venivano indicati appunto come picchi AUGER.
Questo è allora un secondo effetto che si può avere. Detto così sembrerebbe un accidente che si genera nel momento
in cui faccio XPS, in realtà questo tipo di fenomeno assume la dignità di una tecnica a se stante, soprattutto nel
momento in cui io uso come fascio incidente non tanto dei fotoni X quanto degli elettroni sufficientemente
energetici. Ciò offre dei vantaggi. Il primo step da capire è appunto questo meccanismo di emissione, un’emissione a
tre step:

1. Si ha l’elettrone o il fotone che incide e strappa l’elettrone di core (in questo caso un elettrone K)
32 Appunti secondo parziale Caratterizzazione 2013/14
Umberto Maria Ciucani

2. Uno degli elettroni che ha energia superiore riempie la buca che è stata lasciata libera (per esempio dal livello
𝐿1 ) e così facendo rende disponibile dell’energia di rilassamento che viene utilizzata per
3. Emettere un terzo elettrone che in questo caso esce dalla shell 𝐿2,3 .

Quindi necessariamente l’energia cinetica di questo terzo elettrone (secondo elettrone uscente) si deduce dalla
sottrazione delle energie fra il livello del primo elettrone fuoriuscente e di tutti i livelli energetici dopo coinvolti. Allora
come indicheremo questo processo? E’ un processo a tre elettroni e viene quindi indicato dando le tre lettere di
riferimento che identificano gli elettroni in gioco e convenzionalmente l’ordine che si utilizza è: metto prima la lettera
dell’evento di prima ionizzazione e poi le altre 2. Se scrivo Auger KLL (K 𝐿1 𝐿2,3 se più specifici). Potremo anche avere
delle transizioni che coinvolgeranno gli elettroni di valenza e in quel caso parleremo di linee LVV (V=valenza). Quindi
se l’elemento di prima ionizzazione coinvolge sempre un elettrone di core, non è vero che sono solo gli elettroni di
core a essere coinvolti in questo tipo di spettroscopia. Possiamo andare ad analizzare qualsiasi tipo di elettrone legato
all’interno dell’atomo.

Quindi vediamo che se andiamo ad esaminare questi diagrammi vediamo che quando sollecitiamo l’atomo in un
qualche modo gli eventi che possono accadere sono di diverso tipo. ESCA/XPS: mando fotone, faccio uscire elettrone
dal livello di core e mi preoccupo di misurare l’energia cinetica di questo elettrone. Abbiamo anche visto però che
mandando degli elettroni energetici posso ionizzare il livello di core e allora però mi interesso dell’energia che viene
rilasciata sotto forma di fotone quando un elettrone di una shell più esterna decade nella buca creata inizialmente:
fluorescenza X. Adesso abbiamo visto invece che al posto di emettere un fotone questa energia potrebbe essere usata
per far uscire un secondo elettrone. Quali di questi eventi avrà luogo? TUTTI E TRE. Su un campione di 100 atomi ci
sarà una certa probabilità di avere un effetto piuttosto che l’altro e l’altro ancora. Il problema sta in cosa voglio andare
ad analizzare e quindi in cosa voglio misurare: se devo misurare raggi X userò un detettore diverso a quello che mi
serve a calcolare l’energia cinetica degli elettroni.

Abbiamo visto quindi che per esempio il processo AUGER io lo posso eccitare sia utilizzando fotoni che utilizzando
elettroni. Mentre per l’AUGER abbiamo visto che possiamo usare entrambi i tipi di sollecitazione, nel caso dell’XPS
invece abbiamo solo e sempre parlato di eccitazione da parte di raggi X. Richiamiamo l’attenzione sulle formule
energetiche dell’AUGER e dell’XPS. Qual è la differenza più significativa che c’è fra le due espressioni dell’energia
cinetica?? Nel primo caso l’energia cinetica coinvolge l’energia del fotone, nel secondo caso invece l’energia cinetica
è data dalla combinazione delle energie dei livelli energetici degli elettroni all’interno dell’atomo. Possiamo usare
degli elettroni per eccitare il processo XPS? NO, perché usando gli elettroni, al posto di hv avremmo l’energia
dell’elettrone e il problema nell’usarla rispetto ad hv è che l’energia cinetica dell’elettrone non ha un valore
predeterminato, non è predefinita. Mentre possiamo fare AUGER sia utilizzando fotoni ed elettroni, la spettroscopia
XPS non può essere altro che eccitata utilizzando dei fotoni di energia ben determinata. QUESTA è DIFFERENZA
FONDAMENTALE.

Facciamo un’altra osservazione: sempre riferendoci all’espressione dell’energia cinetica dell’elettrone AUGER. Se io
scrivessi la stessa equazione ma invertendo l’ordine, dal punto matematico avrei una quantità uguale ma dal punto di
vista del processo ne avrei uno diverso. Nell’ordine originario ho emissione di elettrone AUGER dall’L 2,3 mentre
invece in questo nuovo ordine inverso ho emissione di elettrone AUGER dal livello L1. Diciamo che il meccanismo di
emissione è diverso e non ho modo di distinguere i due processi quindi in realtà io non so da dove proviene l’elettrone.
Non è un problema in realtà, e convenzionalmente nello specificare le ultime due lettere si mette prima quella più
bassa in energia ma si indica sempre lo (gli) stesso (i) processo (due processi). Dobbiamo soltanto sapere che
effettivamente contribuiscono allo stesso picco AUGER, elettroni che possono venire da due diversi livelli energetici. E
questa è conseguenza dell’esatta dipendenza dell’energia cinetica dai livelli energetici coinvolti.

Anche in questo caso, per fare riconoscimento chimico, andremo a confrontare i valori che io misuro
sperimentalmente su delle tabelle che riportano le diverse energie delle diverse possibili transizioni per tutti gli
elementi che io posso andare ad osservare. Noto anche in questo caso che, osservare un unico valore relativo ad
un’unica transizione, non è sufficiente per fare un’attribuzione certa, perché ovviamente posso misurare la stessa
energia cinetica dell’elettrone per elementi diversi. Quindi sempre dovrò andare a verificare che, ad esempio, se sto
considerando l’alluminio, osserverò la KLL a 1,2 keV e però per essere sicura dell’attribuzione per esempio la LMM
la dovrò osservare a 0,01 keV. L‘uso che io faccio della mia spettroscopia è del tutto analogo a ciò che facevo con
l’XPS. Sostanzialmente quindi abbiamo già visto quali sono le principali caratteristiche del processo semplicemente
Appunti Caratterizzazione 2013/14 33
Umberto Maria Ciucani

andando a scrivere e commentare l’espressione dell’energia cinetica. Riassumendo, ci siamo accorti che l’energia
cinetica nel caso dell’AUGER non è funzione dell’energia del fotone incidente. Abbiamo visto che l’energia cinetica è
funzione delle energie dei diversi livelli coinvolti ma non dipende dall’ordine, e quindi posso avere emissione sia da
un livello che da un altro ma non li posso distinguere. Anche nel caso dell’AUGER, come nell’XPS, posso analizzare
qualsiasi elemento tranne quali? Il processo descritto per l’AUGER coinvolge almeno due livelli energetici ed almeno
tre elettroni e quindi non possiamo analizzare ne H né He e quindi il primo elemento osservabile con spettroscopia
AUGER sarà il Litio. Per quanto riguarda la funzione lavoro, essa c’è ma noi adesso ce ne dimentichiamo, la
mettiamo da parte.

Abbiamo detto che nel caso dell’XPS osserviamo quasi sempre inevitabilmente anche picchi AUGER. Come faccio a
distinguerli allora? La differenza fondamentale fra i due fenomeni XPS e AUGER l’abbiamo sottolineata prima,
quindi se variano l’energia del fotone X incidente ci aspettiamo di trovare tutti i picchi dell’XPS che sono ad energie
cinetiche diverse mentre gli unici picchi che non si spostano sono i picchi AUGER. Questo è uno dei motivi per cui
molto spesso le sorgenti X utilizzate in uno spettrometro XPS prevedono l’utilizzo di due diverse linee poiché è un modo
molto semplice e immediato per distinguere questi picchi.

Per l’indistinguibilità dei due processi dal punto di vista energetico e per il fatto che esistono livelli prossimi in energia,
quando vado ad innescare delle transizioni AUGER in realtà, rispetto al caso dell’XPS in cui coinvolgo soltanto un
elettrone e un livello energetico, avrò in gioco tre gli elettroni e due livelli energetici e le possibili transizioni che vado
ad innescare sono molte di più e molto prossime in energia. Questo ci dice che l’analisi sarà un pochino più
complicata. Se andiamo a considerare transizioni che coinvolgono livelli più esterni quindi, dove c’è una molteplicità di
sotto-shell come ad esempio una LMM (Cu nelle slides) di transizioni molto prossime in energia ne vedrò una
moltitudine!!! Questo mi darà un pattern molto caratteristico ma più difficile da analizzare.

Quello che abbiamo visto e che qui viene ribadito è che nel momento in cui io vado a rilasciare eccesso di energia
nel core ho due processi competitivi che avverranno entrambi contemporaneamente ma con probabilità diverse
date dal tipo di atomo dal tipo di transizione che sto considerando. Quale dei due fenomeni prevale? Quale è più
facile da osservare? Un fenomeno radiativo o non-radiativo? Dipende, per esempio nel caso di una prima
ionizzazione di un livello K vediamo nelle slide la probabilità diagrammata in funzione del numero atomico. La prima
osservazione che faccio è che quando ho a che fare con atomi molto leggeri, dove fra l’altro abbiamo già osservato
che la fluorescenza X è molto poco probabile, è conveniente fare per fare l’analisi chimica non certo una fluorescenza
X ma un’indagine del tipo AUGER. Poi ad un certo punto quando il numero atomico diventa sufficientemente grande,
le due cose diventano equiparabili. Questo vuol dire che questa situazione è sempre vera? NO, questa situazione vale
nel caso in cui io stia facendo la prima ionizzazione nella shell K quindi quando sto considerando quindi transizioni KLL.
Nel momento in cui considero transizioni LMM la situazione cambia e vediamo nel diagramma come cambiano le rese
di fluorescenza X e le rese AUGER per transizioni diverse. Questo vuol dire che abbiamo la ionizzazione del livello K
confrontata con la transizione KLL, qui invece abbiamo la prima ionizzazione di un livello L confrontata con ad esempio
la rispettiva corrispondente transizione AUGER LMM. E quindi vediamo che a seconda del numero atomico che stiamo
considerando ha più senso guardare certi tipi di transizione rispetto che altri. Questi grafici sono utili per scegliere il
tipo di tecnica da adottare a seconda del tipo di analisi che voglio fare. In realtà poi vedremo perché la probabilità di
emissione di raggi X da atomi leggeri è poco probabile, andremo a vedere nel dettaglio perché, e cioè che il potere
scatterante del mio atomo dipende dalla densità del mio atomo (lo vedremo nella diffrazione X). Quando ho atomi
molto leggeri ho poca distribuzione di carica elettronica e quindi osservare raggi X è poco probabile. In esatta analogia
a quello che abbiamo detto con l’XPS possiamo dire che anche per l’AUGER possiamo ottenere informazioni dalle
solite tre variabili: posizione dei picchi, forma e intensità. Esattamente con gli stessi significati per l’XPS. L’energia dei
picchi ci dice quali elementi ci sono (analisi qualitativa). L’intensità dei picchi come per l’XPS ci darà un informazione di
tipo quantitativo con le analoghe difficoltà del caso XPS. Quindi ci dice quanto materiale abbiamo relativamente. La
forma dei picchi ci può dare informazioni anche in questo caso. In che senso?

Iniziando dalla posizione nella slide vediamo un tipico spettro AUGER. Posso individuare tanti “picchettini” anche se
non so di che materiale si tratta. Notiamo immediatamente una caratteristica dello spettro: è molto brutto. I segnali
buoni sono molto piccoli su di un fondo molto alto. Questa cosa è dovuta a poca esperienza nella misurazione o c’è
qualcosa di intrinseco ed ineliminabile? C’è qualcosa di intrinseco ed ineliminabile. Quel fondo a cosa è dovuto?
Stiamo rilevando energie cinetiche di elettroni quindi ancora una volta il fondo in uno spettro AUGER sarà legato, in
maniera analoga all’XPS, agli urti elastici subiti prima di uscire. E ne sono tantissimi, molti di più rispetto all’XPS.
34 Appunti secondo parziale Caratterizzazione 2013/14
Umberto Maria Ciucani

Abbiamo un eccesso di elettroni non specifici rispetto ad una probabilità di transizione AUGER che è relativamente
piccola. Piccola perché abbiamo visto che è un effetto combinato, la probabilità finale sarà il prodotto delle
probabilità di prima ionizzazione per la probabilità di seconda ionizzazione quindi è abbastanza intuitivo che la
probabilità totale e quindi il numero totale di elettroni AUGER sarà relativamente piccolo rispetto a tutti gli altri
elettroni che normalmente vengono emessi. Questo è un fatto ineliminabile. Avrò sempre dei segnali mal definiti, in
un certo senso, perché abbiamo visto che abbiamo tante componenti che possono entrare in gioco, tante transizioni
coinvolte, quindi piccoli spostamenti dell’energia, e un fenomeno debole (emissione AUGER) su un fondo alto e quindi
siamo nelle condizioni sperimentali peggiori possibili. E questo è il motivo per cui molto spesso quello che noi
vediamo riportato come spettro AUGER non è la canonica intensità su energia dell’elettrone ma la derivata
dell’intensità sull’energia (esiste un trucco matematico che serve per eliminare il rumore ed evidenziare meglio i
picchi). Il rumore di fondo (o fondo) sono eventi dal punto di vista probabilistico casuali. Quindi il modo che io ho
per ammazzare il rumore dal punto è farne la sua derivata. Viceversa se ho un picco che è una cosa ben definita, se io
ne faccio la derivata (è una cosa che a un certo punto cresce si stabilizza e riscende il picco) evidenzio ancora di più
questa variazione. Avremo quindi infine una linea di base orizzontale e non crescente. Sulla cui linea di base noteremo
dei picchi positivi e negativi e un punto in cui viene attraversato lo zero. Il massimo del mio picchettino nel
diagramma senza derivata sarà lo zero nel grafico derivato e i massimi e i minimi saranno i punti di massima e
pendenza. Quindi invece di dare la posizione del picco (non derivato), molto spesso si identificano i picchi dando la
posizione, convenzionalmente, del punto di minimo nello spettro derivata (invece di dare il punto di
attraversamento dello zero). Questo è il motivo per cui molto spesso vedremo riportati gli spettri AUGER in derivata.
Viene anche suggerito il modo in cui sperimentalmente io ottengo lo spettro derivato, come lo faccio
sperimentalmente? Fare la derivata vuol dire dare un piccolo incremento e quindi avrò il mio delta N(E) rispetto a un
delta energia. Quindi sperimentalmente come induco variazione del numero di oggetti in funzione della variazione di
energia? Applico una modulazione al mio segnale in ingresso che sono elettroni con una certa energia, in questo
caso, un fascio di elettroni di 5keV. Per indurre la modulazione dovrò imporre sopra questo potenziale di
accelerazione dei miei elettroni, una piccola variazione dell’energia ad esempio un impulso di tipo sinusoidale con
una modulazione di 5eV diciamo. In corrispondenza di questa variazione di E il mio detettore leggerà una variazione
del numero di elettroni e quindi questo è il modo che io ho per trasformare spettro diretto in spettro derivata.

Se modulo il valore dell’energia incidente automaticamente modulo anche il numero di elettroni che io induco
perché un fascio un pochino più intenso avrà una risposta diversa. Quindi se io riporto la variazione del numero di
oggetti in funzione alla variazione di energia che io conosco, ottengo esattamente lo spettro derivata.

A questo punto, come già vedevamo nel caso dell’XPS, ci saranno dei pattern di transizione che saranno tipici di certi
elementi. Nelle slide vediamo appunto delle transizioni AUGER KLL, nella forma di uno spettro derivata, per diversi tipi
di elementi leggeri. E vediamo che ci sono dei picchettini con un pattern molto caratteristico che mi permette di fare il
riconoscimento chimico.

Parlando invece della forma dei picchi, valgono le stesse considerazioni dell’XPS, ma qui è più complicato perché
non abbiamo solamente un livello energetico coinvolto ma due. E quindi le indeterminazioni che abbiamo si
combinano. Nel caso dell’XPS una caratteristica molto importante che ci permetteva di arricchire l’informazione
rilevata, era l’effetto di chemical-shift. Intorno chimico che modifica i livelli energetici degli atomi. Per la spettroscopia
AUGER si può ancora parlare di chemical-shift ma la differenza è che è molto più difficile distinguere il
cambiamento perché quello che osservo è combinato dalle variazioni dei diversi livelli coinvolti e delle diverse
transizioni che sono molto vicine in energie. Quindi in questo caso sarà difficile riscontrare uno spostamento così
netto e caratteristico come vedevamo nel caso dell’XPS anche se qualche variazione nello spettro ci sarà. Ad esempio
guardando il confronto fra transizioni KVV AUGER di Carbonio in diverse forme, diamante-grafite-carbonio amorfo,
sempre carbonio è ma cambia l’intorno degli atomi. Guardando gli spettri si vede che la forma della banda è cambiata,
non ho spostamento così ben definito come nel caso dell’XPS però ho una variazione dell’inviluppo delle transizioni
coinvolte. Quindi alla fine si tratta di una variazione non tanto della posizione quanto della forma o della larghezza
di banda. In questo caso la terza osservabile allora mi può ancora dare informazioni di tipo chimico andando ad
osservare le variazioni in funzione dell’intorno che ho. L’altro esempio che vediamo, molto caratteristico (l’effetto di
chemical-shift è molto importante nell’andare a studiare gli ossidi), è quello che succede in un silicio elementale e in
un ossido di silicio. I primi due rappresentano spettri derivata e i secondi due quelli diretti. Vediamo che c’è un
cambiamento che si può notare che però non è netto e pulito come nell’XPS. Mentre nel caso dell’XPS è coinvolto
solo 1 livello energetico qui nell’AUGER ne ho 2 di livelli energetici coinvolti. Quindi qui ho una doppia variazione,
Appunti Caratterizzazione 2013/14 35
Umberto Maria Ciucani

non è detto che i livelli varino nella stessa maniera e quindi è difficile predire il tipo di variazione che si ottiene.
Perché ho la posizione di un livello che cambia, l’altra posizione che cambia anche lei in una maniera non
determinabile e l’effetto finale che avrò sullo spettro sarà combinato. In più abbiamo visto che comunque le nostre
transizioni AUGER non sono mai un singolo evento ma sono tante transizioni molto vicine in energia. Quindi diventa
più difficile distinguerle anche se l’effetto si nota. Un altro esempio sull’alluminio e il suo ossido lo vediamo in una
slide successiva.

Vedendo un altro esempio: di come non solo le singole bande ma, quelli che chiamavamo pattern spettrali, possono
esser utilizzati per fare un riconoscimento. Per esempio negli elementi di transizione, che sono ricchi di elettroni 3d, si
hanno proprio dei tripletti di picchi che sono molto caratteristici e quindi noi sappiamo che se osserviamo degli
andamenti di quel genere lì questi sono molto caratteristici di un tripletto LMM che è associato ad elementi di
transizione. Nella slide vediamo infatti l’esempio di Cr-Mn-Fe coi loro tripletti caratteristici. Possiamo poi anche
analizzare il trend in energia, che correla col numero atomico dell’elemento e possiamo fare anche considerazioni sui
valori relativi dell’intensità. Particolarmente interessante è il fatto che tutte le volte che abbiamo questo tipo di
tripletti compare anche un banda a bassissime energie relativa alla transizione MVV, coinvolgente elettroni di valenza.
E vediamo come relativamente l’intensità di questa banda diventa progressivamente più importante al crescere del
numero atomico rispetto al tripletto caratteristico. Aumentando numero atomico aumentiamo elettroni di valenza
presenti nel nostro sistema e quindi questa transizione MVV diventa sempre più probabile rispetto a quelle di core.
Questo per dire che alla fine oltre al semplice riscontro del valore energetico dei nostri picchi, anche il tipico pattern
spettrale ha importanza in un riconoscimento.

Per quanto riguarda l’intensità valgono le stesse considerazioni fatte per l’XPS. Quindi anche nel caso dell’AUGER
dovremo valutare le intensità non semplicemente considerando il numero di oggetti che contribuiscono a quella
transizione ma pesando queste intensità per un coefficiente intrinseco (sezione d’urto) che mi dà la probabilità che
questo processo AUGER avvenga e che è dipendente dalle probabilità combinate (prodotto) di prima ionizzazione e
di seconda ionizzazione.

E’ questo il numero che dicevamo essere intrinsecamente più piccolo rispetto alla sezione d’urto dell’XPS. E poi
dobbiamo tenere in conto sempre le stesse quantità dipendenti da: trasmissione dell’analizzatore, fattori strumentali
e fattori dovuti al fatto che non stiamo considerando atomo isolato ma in bulk e anche questo apporta delle correzioni
sulle probabilità. Quindi in maniera analoga a quello che vedevamo nel caso dell’XPS, senza entrare nei dettagli,
sostanzialmente facciamo un’analisi analoga ma un poco più complessa. La cosa importante è che però vado a
definire le mie concentrazioni relative se e solo se conosco questi fattori di sensibilità che ancora una volta vengono
riportati tabulati e quindi se io devo fare una determinazione quantitativa, non solo ho bisogno di far lo spettro e
misurare le aree dei miei picchi ma devo andare anche a consultare queste tabelle per poter “liberare” il valore
misurato da questi fattori di sensibilità. E la cosa interessante è che siccome abbiamo detto che abbiamo una
dipendenza dall’energia dell’elettrone incidente, queste tabelle vengono proprio specificate: si hanno curve che
descrivono il fattore di sensibilità per una determinata transizione ottenuta con un fascio primario di elettroni con una
certa energia in funzione del numero atomico. Nel caso di un acciaio inossidabile (slides) ad esempio, (campione
preso da una superficie di frattura), identifico i picchi tramite posizione dei minimi (convenzione), leggo le posizioni,
poi vado a fare i confronti con quei tripletti caratteristici visti nella slide precedente, prendo questi picchi di
riferimento e ne misuro le intensità. Siccome non mi basta, misuro le intensità, vado a vedere in funzione
dell’energia utilizzata come fascio incidente e del numero atomico (es. Cromo), leggo fattore di intensità
corrispondente, lo riporto dove serve e andiamo a costruire i nostri rapporti: prendiamo 4,7 e lo dividiamo per 0,32
e normalizziamo sulla somma degli altri elementi. E troveremo un 21% di Cr, e poi 71% di Fe e infine uno 8% di Ni.

Il dato di intensità deve essere sempre un dato di intensità relativo e non assoluto perché altrimenti è molto
rischioso da utilizzare.

Non abbiamo commentato il perché dell’uso degli elettroni invece che dei fotoni? Qual è il vantaggio? Quando
commentavamo la risoluzione dell’XPS dicevamo che i fotoni X sono difficilmente focalizzabili mentre gli elettroni
36 Appunti secondo parziale Caratterizzazione 2013/14
Umberto Maria Ciucani

sono facilmente focalizzabili!! Quindi fare IMAGING con AUGER è molto più facile e la risoluzione sarà molto
maggiore rispetto a fare IMAGING con XPS. Così come nella sensibilità superficiale: l’XPS abbiamo detto che è una
tecnica superficiale, con sensibilità superficiale dell’ordine dei 10nm, e anche l’AUGER è di superficie poiché analizzo
elettroni che fuoriescono e quindi quelli che analizzo dovranno venire dagli strati più esterni. Se io utilizzo degli
elettroni in incidenza anche il volume di interazione rispetto a quello dell’XPS sarà molto più piccolo perché gli elettroni
interagiscono di più. Quindi a sostanziale parità di volume di fuga, il volume di interazione dell’AUGER è più piccolo
e quindi questo implica che la sensibilità superficiale dell’AUGER è ancora maggiore dell’XPS. Posso fare
dell’IMAGING di alta qualità tanto è vero che, quando parleremo di SEM infatti, potrò associare con pari risoluzione
un’analisi morfologica, che è la tipica informazione che io ottengo da un SEM, con un’analisi composizionale che io
posso ottenere all’interno di uno stesso SEM andando ad analizzare gli elettroni AUGER che vengono emessi. Nelle
slides vediamo confronto fra SEM e AUGER. Risoluzione nell’AUGER è nanometrica.

Ultimo concetto visto nel caso dell’XPS era il profilo di profondità, che era fattibile cambiando l’energia cinetica dei
fotoni incidenti, variando l’angolo di take-off, sputtering. Anche nel caso della spettroscopia AUGER ci sarà una
dipendenza della profondità analizzata dall’energia, anche se le variazioni saranno minuscole rispetto a quelle che si
avevano nell’XPS, ci sarà una dipendenza dall’angolo ma per tutti i motivi prima elencati sarà difficile andare ad
analizzare questa variazione e quindi per un profilo di profondità il metodo che si presta meglio è sputtering.

Sull’apparato sperimentale non abbiamo detto nulla perché l’unica diversità con l’XPS sarà la sorgente che invece di
essere di fotoni X sarà di elettroni. Il modo più facile per ottenere elettroni è quello di scaldare un filamento. Il tipo
di analizzatore sarà uguale a quello dell’XPS perché ancora una volta misureremo un numero di elettroni con una
certa energia cinetica. Quindi analizzatore e detettore saranno simili, non uguali, ma per la nostra analisi ci
accontentiamo di questa approssimazione. Il tutto in condizioni di ultra alto vuoto.

VANTAGGI:

- migliore risoluzione spaziale


- possibilità di analisi di elementi leggeri rispetto ai raggi X

SVANTAGGI:

- più difficile interpretazione del segnale perché molto più debole

Esempio di applicazione di analisi fatta in funzione della posizione che abbiamo creato (cratere) focalizzandoci sui
diversi punti del cratere.

24.04.2014

TECNICHE DI MICROSCOPIA: SEM Scanning Electron Microscope

Sono una seconda classe di tecniche che, come si può intuire, danno informazioni su come appare il
campione/superficie. Vogliamo visualizzare una superficie? A diversi ingrandimenti possiamo ricorrere a tecniche di
microscopia. Se ne hanno tante ci tecniche di microscopia: è metodo molto antico (Galileo 1600). Il progredire della
tecnologia permette di andare verso ingrandimenti sempre più grandi: oggi giorno con un SPM siamo in grado di
“vedere” gli atomi. Riusciamo ad avere una risoluzione così spinta da poter evidenziare delle caratteristiche che
arrivano alla scala degli Angstrom. Non ci soffermeremo sul microscopio ottico. Lo vedremo solo per definire alcune
caratteristiche come le limitazioni nella risoluzione che ci fanno introdurre un altro microscopio di potenza maggiore.
Quindi ci soffermeremo su microscopio elettronico. Dobbiamo capire i vantaggi della microscopia elettronica rispetto
a quella ottica sebbene più complicata.

Le ovvie informazioni ottenibili sono topografiche e morfologiche (su come sono disperse le fasi all’interno del nostro
materiale). Quello che non riusciamo ad ottenere col microscopio ottico e che invece col SEM riusciamo ad avere sono
Appunti Caratterizzazione 2013/14 37
Umberto Maria Ciucani

informazioni più o meno precise di tipo composizionale, oltre alla migliore risoluzione e ingrandimenti. Principali
limitazioni del microscopio ottico risolte dai più recenti microscopi sono quelle nelle limitazioni d’ingrandimento, e non
possiamo vedere particolari/dettagli che siano più piccoli di un certo centinaio di nanometri. A cosa è dovuta questa
limitazione? E come può un SEM superare questo limite? Di microscopi elettronici ne esistono di due tipi: a scansione
e trasmissione. Anche con l’ottico ci sono due metodi: in trasmissione e in riflessione. Un microscopio ottico
sostanzialmente prevede di avere una sorgente luminosa (radiazione visibile), lenti (2 lenti: una condensatrice e
l’obiettivo) che ingrandiranno e focalizzeranno. Interposto fra queste lenti c’è il campione. In un elettronico a
trasmissione, dove la sorgente viene trasmessa attraverso il campione, viene mantenuto questo schema, apponendo
opportune accortezze e trasformazioni. Invece di lampadina avremo sorgente di elettroni e le lenti non saranno
ottiche ma magnetiche. Anche lo schermo sarà opportuno: dorò avere qualcosa sensibile a interazione di elettroni e
non radiazione. Il detettore sarà l’occhio o un rivelatore digitalizzatore a dare una figura. Per quanto riguarda le lenti
saranno sempre lenti ma il materiale sarà diverso! Una lente ottica è un materiale di opportuno indice di rifrazione
trasparente alla radiazione, il cui scopo è essere attraversata dalla radiazione e deviare la direzione di propagazione.
Se sostituisco sorgente dovrò cambiare anche opportunamente il sistema di lenti. Schema è analogo e questo mi dice
anche perché il primo elettronico che è stato realizzato è stato a trasmissione. Anche in questo caso la tecnologia
richiesta per poter rendere questi strumenti di ampio utilizzo ha richiesto molto tempo. Il punto fondamentale è
sempre e comunque la capacità tecnologica di generare un UHV per fare microscopia elettronica ed ecco perché tutto
ciò si è sviluppato quando la tecnologia si è evoluta (soprattutto il grado di vuoto).

Il terzo tipo e cioè quello a scansione SEM ci dice che abbiamo un meccanismo per visualizzare la nostra superficie che
prevede di spostare la nostra sonda punto per punto. Fare un scansione vuol dire andare a raccogliere il segnale
spostandosi punto per punto. Nell’ottico l’immagine si forma immediatamente, al momento dell’osservazione, mentre
nel SEM no. Il segnale che leggiamo dal SEM è in riflessione e non in trasmissione come nel microscopio a
trasmissione. E appunto vediamo che il campione non è interposto fra le lenti ma è in fondo davanti al detettore.
Quindi cambia la geometria del sistema e soprattutto abbiamo un problema nuovo e cioè quello del dover spostare il
campione oggetto d’analisi. Dovrò avere un’elettronica anche capace di fare tutto: spostare, sondare, eccetera. Il
TEM è comunque importantissimo, dà informazioni uniche che non può darmi il SEM, è di più difficile
interpretazione, più costoso (ha prestazioni molto più elevato), richiede un campionamento molto più laborioso
rispetto al SEM.

Quali sono i vantaggi allora rispetto all’ottico?

- Risoluzione migliorata (Passo da 200nm a pochi nm, 2 ordini di grandezza di guadagno)


- Ingrandimenti migliorati

Definiamo la risoluzione e l’ingrandimento, caratteristiche fondamentali che definiscono le prestazioni dei microscopi.
Termini molto spesso usati in maniera impropria.

INGRANDIMENTO: rapporto fra la dimensione dell’immagine rispetto a quella dell’oggetto. Posso spingere
l’ingrandimento a valori arbitrariamente grandi? NO e cosa me lo impedisce? La risoluzione massima. Se io non ho una
risoluzione sufficientemente elevata non ha senso che io la vada ancora a ingrandire.

RISOLUZIONE: minima distanza a cui io posso porre due oggetti (due oggetti puntiformi) e continuare a vederli distinti
nell’immagine.

Se vado al di sotto di questa distanza minima, i due punti non sono più distinguibili e quindi io perdo l’informazione
relativa a ciò che ha generato quell’immagine. Il motivo per cui la risoluzione non è infinita qual è? Il microscopio
ottico utilizza radiazione che passa tramite un sistema ottico e quindi fenditure, lenti e così via. Quindi il fenomeno
fisico che descrive la propagazione di un’onda attraverso un oggetto che ne devia la traiettoria? Il problema della
fisica celato dietro la risoluzione è quello della diffrazione, quindi il limite di risoluzione di un microscopio ottico è
dato dalla diffrazione.

Prendiamo una sorgente puntiforme. Se io non avessi diffrazione, l’immagine della mia sorgente puntiforme sarebbe
un punto sullo schermo posto dietro la fenditura, in realtà ce l’ho e vedo un’immagine di diffrazione con un picco
centrale massimo ad un intensità molto pronunciata ma anche dei massimi e minimi secondari laterali (picchi
secondari), le cui posizioni sono calcolabili (come la larghezza del massimo centrale), e sono legate alla lunghezza
d’onda della radiazione che andiamo ad esaminare e all’ampiezza della nostra fenditura. Se io avessi due sorgenti
38 Appunti secondo parziale Caratterizzazione 2013/14
Umberto Maria Ciucani

puntiformi avrei sullo schermo due figure di diffrazione e cioè i due massimi e i minimi e i massimi secondari di
entrambi. Se vedo i due picchi massimi centrali distinti sono al di sopra del limite di risoluzione. Se io avvicinassi S1 ed
S2 succederebbe che l’angolo fra i due raggi diminuirebbe e la distanza relativa fra i due massimi principali anche.
Continuandola a diminuire si arriverebbe ad un punto in cui i due picchi non sarebbero più riconoscibili perché
completamente sovrapposti e allora sarei al limite di risoluzione e avrei perso l’informazione della realtà che mi
avrebbe detto che i picchi erano due e non solo uno. Devo stabilire un valore soglia per il quale posso dire di risolvere
o meno un oggetto: convenzionalmente si utilizza allora il “Criterio di Raileigh”:

La minima separazione per vedere due oggetti distinti è quella per cui il massimo centrale di una delle immagini di
diffrazione coincide col primo minimo dell’altra immagine.

Se io vado al di sotto di questo valore la figura non è risolta se invece vado al di sopra si! Il parametro fondamentale è
la lunghezza d’onda che io considero. 𝜗(alfa) è l’angolo mentre 𝜗(1) è la posizione del mio massimo, quello che io
riporto sull’asse.

Per la fenditura rettangolare:

𝜆
𝜗=
𝑏

Per fenditura circolare:

𝜆
𝑠𝑒𝑛 𝜗 = 1.22
𝐷
D diametro del foro della fenditura.

Questa è formula fondamentale e viene derivata semplicemente considerando la diffrazione della luce attraverso una
lente. Considero indice di rifrazione perché la radiazione risente del mezzo in cui si propaga. APERTURA NUMERICA
𝑵𝑨 = 𝑵 𝒔𝒆𝒏 𝝑 (N = indice di rifrazione). La minima distanza che posso risolvere con microscopio ottico,
considerando una radiazione verde nel visibile e ottengo un distanza minima di 200-300nm. Posso anche giocare un
poco sulla risoluzione di uno strumento ottico. I parametri che entrano in gioco sono la lunghezza d’onda, l’indice di
rifrazione e il seno dell’angolo. Posso giocare allora a rendere grande il denominatore (agendo sulla posizione del
primo minimo d’intensità) e allora quindi, con l’angolo, aumentando l’angolo di raccolta e cioè le dimensioni della
mia lente. Si può fare entro certi limiti perché mantenere perfezione ottica su lente molto grande diventa molto
difficile e costoso e quindi le possibili migliorie che questo mi introduce sono piccole per il costo che hanno. Posso
cambiare indice di rifrazione, ad es. si ha spesso ottica in olio: la risoluzione migliora poiché n è maggiore nell’olio
che nell’aria. Posso diminuire la lunghezza d’onda. Se uso luce blu o rossa avrò dei diversi valori di risoluzione. Con
blu risoluzioni migliori. Perché non usare UV? Perché non tutti i materiali si comportano alla stessa maniera nei
confronti di diverse radiazioni. L’UV ad esempio non viene trasmesso dal vetro perché il vetro assorbe gli UV. Posso
usare quarzo ma i costi aumentano e i difetti dell’ottica anche. Come posso ridurre di tanto la lunghezza d’onda
allora senza avere a che fare con assorbimento UV e altre cose? Mi ricordo che anche le particelle se
sufficientemente piccole, possono essere viste come onde a livello quantistico e utilizzarle come radiazione. Posso

definire una lunghezza d’onda per un elettrone: 𝜆 = , che è estremamente piccola. E poi in questo caso
𝑚𝑣
abbiamo anche che le lunghezze d’onda saranno modulabili semplicemente andando a modulare la quantità di
moto dell’elettrone. In linea di principio allora posso pensare di “sconfiggere” qualsiasi limite di diffrazione utilizzando
degli elettroni andando quindi a risoluzioni virtualmente anche inferiori l’angstrom. Ma la risoluzione del SEM non è
minore all’Angstrom e vedremo cosa sarà quello che limita. Sicuramente non sarà la diffrazione. Ecco che se io ho reso
la risoluzione molto più spinta posso anche andare ad ingrandimenti molto più grandi (x100000 o x1000000).

Altra grandezza che possiamo definire quando parliamo di un microscopio:


Appunti Caratterizzazione 2013/14 39
Umberto Maria Ciucani

PROFONDITA’ DI CAMPO. C’è in ogni apparato ottico. E’ dato che qualifica il tipo di dispositivo. Cosa si intende per
profondità di campo? In una situazione ideale in cui focalizzo esattamente la mia immagine in un punto, appunto
focalizzo l’immagine in un punto e quindi metto a fuoco un oggetto, vuol dire che l’immagine deve essere
esattamente in quel punto. In realtà abbiamo appena visto che l’immagine di un punto non è mai un punto perché c’è
il limite dovuto alla risoluzione e allora avrò indeterminazione nella posizione del punto dove si forma l’immagine. Ciò
porta come conseguenza il fatto che se io sposto leggermente il punto di fuoco, ma sono ancora all’interno di questo
range di distanze che sono legate dalla risoluzione del mio sistema, ottengo ancora un’immagine che è a fuoco. Come
definisco questa massima escursione che posso fare nella posizione del mio fuoco per ottenere ancora una buona e
nitida immagine? E’ la profondità di campo. Questo è un vantaggio perché io contemporaneamente riesco a mettere
a fuoco dettagli a quote diverse. Tanto più alta è la profondità di campo tanto migliore sarà la tridimensionalità della
mia immagine (vedere bene dettagli su quote diverse). Se confrontiamo immagine fra microscopio ottico e SEM
vediamo che quella ottica è un immagine praticamente in 2D viceversa nel SEM percepiamo la tridimensionalità
dell’immagine. Questo grazie al fatto che la profondità di campo di un SEM è molto maggiore rispetto a quella di un
microscopio ottico. A noi piacerebbe avere una risoluzione molto elevata come una profondità di campo molto
elevata. Ma non si possono avere entrambi purtroppo. Aumentare al risoluzione si può fare aumentando l’apertura
numerica ma notiamo subito che se la aumentiamo diminuiamo la profondità di campo. Oppure se diminuiamo la
lunghezza d’onda per aumentare la risoluzione abbassiamo la profondità di campo. Si cerca allora una situazione di
compromesso.

E’ indicato come D grande ma è il d piccolo nella slide precedente.

Quando formiamo l’immagine abbiamo il piano dell’oggetto e quello dell’immagine. La profondità di campo è
definita sul piano dello oggetto. L’oggetto non deve essere necessariamente posizionato esattamente nel fuoco per
essere risolto. Ma questo poi si riflette anche nella posizione dell’immagine, questa stessa indeterminazione che
abbiamo nella posizione dell’oggetto ce l’abbiamo anche sul piano dell’immagine. Possiamo allora cambiare anche
la posizione del piano dell’immagine e ottenere ancora un’immagine a fuoco. Ovviamente l’estensione del range in
cui possiamo spostare il piano immagine e il piano oggetto sono legate fra di loro tramite una relazione geometrica
che ci porta a dire che la profondità di fuoco è legata alla profondità di campo tramite l’ingrandimento tramite la
seguente relazione:

𝐷𝑖𝑚 = 𝑀2 𝑑𝑜𝑏𝑗
M è l’ingrandimento.

Il microscopio elettronico ha profondità di campo molto maggiore rispetto a quello ottico e questo dà conto della
migliore tridimensionalità dell’immagine. Ci sono dei parametri, che io posso variare nel mio microscopio
elettronico, che mi permettono di variare la profondità di campo in maniera molto semplice.

Abbiamo un sistema ottico che condensa il nostro fascio elettronico in una certa maniera. In particolare abbiamo una
distanza fra il sistema di lenti e il campione di quel genere nella slide. Succede che la nostra profondità di campo è
data da quel pezzettino li. Ora se rendiamo più stretto l’angolo di proiezione dei nostri elettroni, allontaniamo
l’apertura e quindi aumentiamo la distanza di lavoro e succede che ovviamente abbiamo aumentato la porzione di
angolo e quindi aumentato la profondità di campo del nostro sistema. Quindi in un SEM basta spostare l’apertura più
in su o più in giù e possiamo quindi giocare su questa profondità di campo. La distanza di lavoro è definita come la
distanza fra l’apertura finale e il punto di fuoco.

Non è detto che la scelta di un microscopio elettronico rispetto all’ottico sia sempre dovuta ai maggiori ingrandimenti.
Spesso viene scelto perché rende immagini con una migliore tridimensionalità e definizione.

Altra caratteristica del SEM: abbiamo visto che molto semplicemente variando dei parametri possiamo andare a
variare la profondità di campo. Il processo di ZOOM che posso fare nel SEM è molto immediato rispetto a quello del
dover cambiare obiettivi in un microscopio ottico e questo è un altro vantaggio. E quindi ciò mi consente di fare molto
velocemente e semplicemente cambi di ingrandimento onde avere un idea ancor migliore di ciò che sto osservando,
senza fare direttamente subito grandi ingrandimenti che invece potrebbero essere fuorvianti.

APPARATO SPERIMENTALE:
40 Appunti secondo parziale Caratterizzazione 2013/14
Umberto Maria Ciucani

Caratteristica comune a tutti i SEM è sviluppo del microscopio lungo una colonna. Sorgente sarà in cima alla colonna,
abbiamo bisogno di sistema di lenti intermedio, avremo bisogno di muovere il fascio su questo campione tramite
porta campione mobile alla base della colonna e infine detettori. Il tutto ovviamente operato in UHV. Vediamo i singoli
elementi:

SORGENTE:

La sorgente è quella che ci fornisce il fascio incidente. Questo fascio per poter dare buona qualità immagine dovrà
essere focalizzato e indirizzato. Elettroni possono essere prodotti per effetto termoionico, ed emessi in tutte le
direzioni e allora dovrò cercare di fare una prima focalizzazione mettendo mia sorgente all’interno di un cilindro di
Wehnelt. Che deve avere la funzione di confinare gli elettroni. Come li confino? Uso campi elettrici e in particolare
dovrò usare un CE applicando potenziale su pareti del cilindro negative confinando gli elettroni al centro del cilindro.
Avrò filamento scaldato tantissimo, escono elettroni in tutte le direzioni. Il tutto è avvolto in un cilindro a potenziale
negativo con apertura finale cosicché riduco una buona parte in partenza di direzioni non opportune. Filamento usato
come sorgente è fatto in generale di W. Che viene riscaldato a T molto elevato di 2700K. Tungsteno perché è stabile
ad alte temperature ha funzione lavoro tale per cui la produzione di elettroni è ottima. Ma non è ottimale, si può
usare un cristallo appuntito di esaboruro di lantanio che ha il vantaggio di poter emettere molti più elettroni a
temperatura molto più bassa. T comunque è sempre alta quindi anche la mia sorgente, al di là dei motivi per cui
abbiamo detto ch serve il vuoto, deve sempre essere in vuoto per evitare ossidazione sorgente. Dopo che vengono
emessi e poi focalizzati in maniera rozza io devo renderli il più monocromatici possibile e indirizzarli verso il mio
campione. MONOCROMATICITA’ DI UN FASCIO DI ELETTRONI vuol dire stessa lunghezza d’onda e quindi stessa
energia. Li accelero allora in maniera uniforme. Uso sempre campi elettrici ma sta volta tramite potenziali positivi e
metterò una griglia sottostante posta a potenziale sufficientemente elevato positivo per indirizzarli e fargli acquistare
valore energia che gli serve. Perché questi due materiali? Senza entrare nel dettaglio delle formule. Legge di
Richardson che lega densità di corrente possibile ottenere alla temperatura tramite esponenziale alla Boltzmann che
contiene, energia termica disponibile al denominatore e al numeratore la funzione lavoro di quel bulk.

𝐸𝑤
𝐽𝑐 = 𝐴𝑐 𝑇 2 𝑒𝑥𝑝 (− )
𝑘𝑇
Densità di corrente è parametro fondamentale perché mi determina quanto intenso sarà il mio fascio e per avere
qualità buona dell’immagine serve fascio intenso. Quello che si può vedere è che la densità di corrente j mi determina
un parametro fondamentale nel determinare la bontà della mia immagine che è la BRILLANZA. Che mi dice … Avere un
elevata brillanza mi dà un’alta qualità dell’immagine. CONTRASTO è proprietà importante nella bontà dell’immagine.
Come aumento la densità di corrente da una sorgente termoionica? Aumento la temperatura ma T troppo alta
significa anche deterioramento. L’altro parametro su cui posso giocare però è funzione lavoro e quindi può essere
vantaggioso lavorare con materiali con funzioni lavoro più basse di quella del W. Esaboruro di lantanio è più costoso e
richiede vuoto maggiore. In realtà esiste un secondo tipo di sorgente di elettroni. Devo sempre fornire energia per
strappare elettroni al materiale sorgente. Posso però anche applicare un forte campo elettrico: punta ad emissione di
campo. Soggetto molto appuntito (punta di tungsteno) con applicata differenza di potenziale, perché esiste effetto di
punta che concentrano linee di forza del campo elettrico. ANCHE A T BASSE!!! L’effetto fisico è effetto tunnel! Noi
riusciamo a far passare elettroni anche fornendo energia inferiore del potenziale da superare. Questo ha dei
grandissimi vantaggi: lavoro a T basse, ma e soprattutto, le linee di forza del campo sono intensificate ala punta e
dirette già dove li voglio inviare. Autofocalizzazione diciamo che li porta già ad essere direzionati e collimati lungo
l’asse della colonna. Molto più collimati rispetto al caso termoionico.

13.05.2014

Riprendiamo elementi fondamentali di un SEM:

SORGENTE:
Appunti Caratterizzazione 2013/14 41
Umberto Maria Ciucani

Noi dobbiamo condurre fascio intenso di elettroni e abbiamo due possibilità:

1. Emissione termoionica

2. Emissione a effetto di campo


molto più efficiente. Possibilità di lavorare a temperature ambiente. Serve vuoto più elevato. Brillanza molto
più elevata (numero di elettroni per unità di angolo solido).

SISTEMA DI LENTI DI FOCALIZZAZIONE:

Hanno compito di focalizzare il nostro fascio. Se noi usiamo le usuali lenti ottiche con cui si “vede” queste non possono
espletare l’effetto di deviare e focalizzare un fascio di particelle come gli elettroni. Dobbiamo allora sostituirle (le
ottiche lavorano in base ai differenti indici di rifrazione, ed è questo che devia e focalizza i fasci) con qualcos’altro che
defletta traiettoria dei nostri elettroni. Il modo che abbiamo di operare su elettroni è quello di agire con campi
elettrici e/o campi magnetici.

Abbiamo quindi due tipi di lenti nel SEM:

1. Lenti elettrostatiche: dove si applica soltanto campo elettrico (es. cilindro di Wehnelt che è cilindro a cui si applica
potenziale negativo in modo tale che elettroni rimangano confinati nel suo asse di simmetria). Così come abbiamo
anche menzionato l’utilizzo di una griglia posta a potenziale positivo (acceleratrice) che dava direzione lungo
l’asse della colonna stessa.

2. Lenti elettromagnetiche: genereremo dei campi magnetici che tramite la forza di Lorentz, deviano e fanno in
modo che i nostri elettroni vengano focalizzati in una data direzione.

Lenti elettromagnetiche

Se ne hanno di due tipi:

1. Condensatore posto all’inizio della colonna e determina il valore della corrente che poi arriverà sul campione.

2. Lente obiettivo in prossimità del campione che indirizza il fascio.

C’è poi tutta una serie di aperture e diaframmi che hanno il compito di limitare la dispersione del fascio.

Una lente elettromagnetica com’è fatta? Come generiamo questo campo EM? Utilizziamo un solenoide. Tipico
schema di lente elettromagnetica è una bobina a simmetria cilindrica che, essendo forata per definizione al centro,
permette il passaggio di elettroni al suo interno. All’interno vi si genera un campo magnetico, essendo le spire
percorse da corrente. Ho dunque cariche che viaggiano con certa velocità e quindi la forza che entra in gioco è quella
di Lorentz. Essa determinerà traiettoria elettroni. Il nucleo sarà quindi fatto di materiale ferromagnetico in modo tale
che tutto sarà progettato in modo tale che le linee di forza del campo spingano gli elettroni ad un moto elicoidale
attorno l’asse della bobina invece che deviare ulteriormente dal cilindro. La possibilità in più che abbiamo con le lenti
elettromagnetiche rispetto alle lenti ottiche tradizionali (queste ultime, una volta prodotte, le loro caratteristiche quali
distanza focale e altre, sono fissate una volta per tutte) è che, siccome tutte queste proprietà ottiche dipendono da
campi elettromagnetici, possiamo variare le loro caratteristiche, focali ad esempio, semplicemente andando a variare
la corrente o il potenziale in gioco (modulazione). Se vogliamo abbiamo quindi una flessibilità in più nel nostro sistema
ottico. La perfezione di questo tipo di lenti è però inferiore sicuramente rispetto alle lenti ottiche e quindi spesso si
verificano diversi tipi di aberrazione e deviazioni dall’idealità che riducono l’efficienza del sistema.
La forza di Lorentz è data dal prodotto vettore tra la carica che stiamo considerando dotata di una certa velocità con il
campo magnetico:

𝐹 = 𝑞𝑣̅ × 𝐵̅
42 Appunti secondo parziale Caratterizzazione 2013/14
Umberto Maria Ciucani

Se gli elettroni viaggiano lungo l’asse della mia colonna la mia forza sarà ortogonale alla velocità e poi alla direzione
del campo. Se noi abbiamo situazione di questo genere qui

[slide elettroni in campi magnetici]

a seconda della traiettoria dei nostri elettroni e quindi della direzione della velocità (idealmente dovrebbero essere
tutti diretti lungo l’asse del cilindro) se vi sono degli elettroni che non hanno solo componente di velocità lungo l’asse,
ma anche componente ortogonale, allora la componente longitudinale, essendo parallela non dà forza netta mentre
invece quella trasversale risente di forza di Lorentz e l’effetto combinato è quello di una traiettoria spiraleggiante.
Quindi questi ultimi elettroni non tendono a deviare progressivamente da questa direzione ma cominciano a
spiraleggiare e quindi a procedere nella direzione dell’asse del cilindro (confinamento), e si ottiene un fascio ben
delimitato. Perché è così importante avere fascio così ben focalizzato, con un diametro il più sottile possibile? La
caratteristica fondamentale di un microscopio è che deve avere la più alta risoluzione possibile. Il vantaggio di poter
usare degli elettroni rispetto ad un ottico, se la limitazione di un ottico è la diffrazione, e quindi il fatto che non posso
andare molto al di sotto della lunghezza d’onda utilizzata, nel caso degli elettroni, che danno anche loro diffrazione, la
lunghezza d’onda associata è quella di De Broglie che è molto più piccola. Quindi con i tipici potenziali di accelerazione
utilizzati nelle colonne, quindi energie di elettroni, quindi loro velocità, esse sono talmente grandi e quindi talmente
piccole le lunghezze d’onda che non è questo ciò che limita la risoluzione. Quindi in prima approssimazione ciò che
limita la risoluzione, sarà il raggio del fascio incidente. Quindi vediamo come l’azione delle lenti sia importante nella
risoluzione, e di come influirà sulla qualità delle immagini prodotte.

L’immagine di un SEM viene fatta andando a considerare le interazioni punto per punto tra fascio e campione. La
risoluzione più spinta che io posso ottenere è limitata da dimensioni del mio fascio.

Sulla lente obiettivo viene ripreso lo stesso discorso. Vediamo quando cambia la distanza focale:

Il mio fascio viene focalizzato dalla mia lente obiettivo in punti diversi in altezza perché cambiando corrente che
circola nella bobina cambio intensità campo, quindi traiettoria dei miei elettroni e quindi distanza focale della mia
lente. Allora per avere una situazione ottimale dove il fuoco corrisponde a questa distanza qui, dovrò aggiustare la mia
corrente in modo tale da soddisfare questa condizione. Sposto il campione, cambio le cose e cambio la corrente
ottimizzando di volta in volta la situazione. Questo è il modo che io ho di operare sul mio fascio.

L’immagine si ottiene tramite scansione e cioè la mia immagine verrà formata non in un colpo solo come può essere
nel caso di un microscopio ottico ma andando a raccogliere segnale punto per punto. Il mio fascio deve essere
progressivamente spostato lungo tutto il mio campione (come in AFM/STM). La cosa più facile da fare qui non è
spostare il campione ma spostare il fascio. Lo sposto utilizzando delle lenti (bobine di scansione) che utilizzano
sempre la forza di Lorentz. Esse dovranno essere delle coppie di bobine progettate in modo tale da spostare il mio
Appunti Caratterizzazione 2013/14 43
Umberto Maria Ciucani

fascio sia lungo x che lungo y in maniera indipendente l’una dall’altra. La scansione infatti dovrà essere fatta secondo
una logica: faccio una riga poi ritorno indietro spostandomi di una certa quota lungo y e ripeto la scansione. Oltre a
tutto quello che è stato menzionato si utilizzano anche griglie/aperture che hanno lo scopo di ridurre ulteriormente le
dimensioni del mio fascio (raggio).

Lenti e bobine:
Non esiste mai un tipo di dispositivo di qualsiasi genere che sia perfetto. Operando idealmente, i campi magnetici
servono per focalizzare il nostro fascio e quindi otteniamo un diametro minimo che è quello utile alla risoluzione
desiderata. Quest’ultima però è ideale mentre noi ci troveremo sempre a che fare con deviazioni ed errori che hanno i
nostri dispositivi. Esattamente come le lenti ottiche hanno un certo numero di aberrazioni. Concetti sono stessi ma
tradotti nei rispettivi termini. Tutto questo riduce risoluzione della mia misura.

ABERRAZIONE SFERICA: avviene quando abbiamo lenti molto grandi. Mantenere perfezione ottica su lenti molto
grandi è più difficile che su lenti più piccole. Se aumentiamo angolo di raccolta della lente lo facciamo però a discapito
di possibili aberrazioni che si possono introdurre. Per ridurre questi difetti allora servono dispositivi che fanno poi però
lievitare i costi dello strumento. Aberrazione sferica vuole dire che la capacità di focalizzazione della lente non è la
stessa lungo tutto il piano. Man mano che ci allontaniamo dall’asse il punto di fuoco cambia. Si ottiene allora
immagine più sfocata.

ABERRAZIONE CROMATICA: Nel caso del microscopio ottico, la deviazione di un fascio luminoso dipende dall’indice di
rifrazione della lente. Questa deviazione non è costante per diverse lunghezze d’onda. Si ottengono aloni colorati ai
bordi della nostra immagine (caso di radiazione visibile). L’analogo nel SEM: se ho un fascio monocromatico di
elettroni vuol dire avere fascio di elettroni tutti con la loro lunghezza d’onda (quando hanno tutti la stessa energia). Ci
sarà una certa dispersione nei valori dell’energia: quindi una dispersione nei valori di velocità e quindi dispersione
nella lunghezza d’onda del fascio di elettroni. Si avranno allora componenti diverse che focalizzano in punti diversi
(altezze diverse). Ci saranno bobine compensatrici destinate a diminuire questa deviazione dall’idealità. Qual è lo
svantaggio? Se noi andiamo a guardare microscopi ottici ne esistono di diverse qualità e costi perché abbiamo bisogno
di avere il massimo di accuratezza possibili e i dispositivi che compensano le aberrazioni costano!!!

La differenza tra una limitazione alla risoluzione dovuta a questo tipo di problema e cioè i difetti della lente rispetto
invece alla limitazione della risoluzione dovuta alla diffrazione è che mentre la diffrazione è una limitazione fisica
intrinseca, ineliminabile, nel caso la limitazione venga da difetti e problemi relativi alle lenti, possiamo sempre
sperare di migliorarle.

Il nostro fascio allora adesso è stato diretto su tutto il campione e avverranno delle interazioni, si produrrà un segnale
ma il nostro compito dal punto di vista sperimentale sarà quello di raccogliere il segnale che si genera punto per
punto, mandarlo a un detettore e infine visualizzarlo su di uno schermo. L’immagine si crea in maniera sincrona a
quello che stiamo facendo sul campione. Lo schema seguente spiega come il fascio di elettroni arrivi e faccia la
scansione sul campione punto per punto, vi sia generazione del segnale, raccolta dal detettore e poi amplificato,
digitalizzato e poi si creerà un punto luminoso sullo schermo posto a valle.

[slide formazione dell’immagine di un SEM]

Dato questo schema è facile definire altra grandezza che ci interessa per definire proprietà di un microscopio. Oltre alla
risoluzione vi è l’ingrandimento, due concetti non indipendenti l’uno dall’altro ma risoluzione pone un limite a
ingrandimenti che posso fare. Ingrandimenti sono stati definiti come rapporto fra dimensioni dell’immagine e quelle
dell’oggetto. Allora qui è immediato definire l’ingrandimento come il rapporto fra la lunghezza di scansione sullo
schermo e la lunghezza di scansione fatta sul mio campione:

𝑀 = 𝑐⁄𝑥
se queste sono le dimensioni in gioco. Data questa definizione come faccio a cambiare ingrandimento? Cambio x, la
lunghezza di scansione sul mio campione. Come cambio x? (voglio un x più piccolo) Aumentare ingrandimenti vuol dire
ridurre le dimensioni di scansione sul campione. Cambierò parametri di corrente/intensità/aperture/distanze di
44 Appunti secondo parziale Caratterizzazione 2013/14
Umberto Maria Ciucani

lavoro eccetera. Posso tranquillamente andare a variare ingrandimenti, non cambiando gli obiettivi come in un ottico,
ma semplicemente limitando la zona di scansione sul mio campione. Vantaggioso!!! Ci sarà sistema di digitalizzazione
tramite software e avremo immagine finale.

Se vogliamo calcolarci dei valori vediamo appunto che giocando su valori tipici possiamo variare ingrandimento da
x100 a x100000 semplicemente variando dimensioni di scansione.

[slide ingrandimento]

Amplificatore amplifica segnale rilevato da detettore.

Per poter sapere che tipo di detettore ci serve dobbiamo sapere che tipo di segnale analizzare. A seconda del segnale
che ci interessa il detettore cambia. Dobbiamo vedere quali tipi di segnale si generano. Conclusione fondamentale a
cui siamo arrivati è che abbiamo capito che microscopio elettronico ci dà dei vantaggi, in primo luogo su risoluzione
che non è più determinata dalla diffrazione ma da altre grandezze quali la dimensione del fascio ad esempio.

In realtà anche qui senza entrare nei dettagli, per capire quali sono grandezze fondamentali in gioco, la dimensione del
fascio dipende da:

1. tipo di sorgente che abbiamo


2. da capacità di focalizzazione delle nostre lenti e
3. da tutte le caratteristiche operative che abbiamo all’interno del nostro strumento.

Quindi si può dimostrare che questa dimensione del fascio è funzione complicata di diversi parametri:

4𝑖(𝑝)
𝐷(𝑝) = 𝐶 √ ⁄𝛽𝜋 2 𝛼
𝑓

i(p): intensità di corrente


𝛽: 𝑏𝑟𝑖𝑙𝑙𝑎𝑛𝑧𝑎
𝛼𝑓 : angolo di raccolta

Ci sono un po’ di costanti che non sono particolarmente interessanti (C) ma ci sono dei parametri da sottolineare che
dipendono proprio dalle caratteristiche del mio sistema. Beta è la brillanza e dipende da tipo di sorgente che uso.
Brillanza grande mi dà dimensione del mio fascio piccola. Alfa è la distanza focale e cioè l’angolo di raccolta della mia
luce. Vorrei avere grande alfa (che dipenderà da dimensioni apertura, distanza di lavoro che è distanza fra campione e
lente obiettivo) ma il problema è che se aumento angolo di raccolta sono soggetto ad maggiori aberrazioni e quindi
anche qui c’è compromesso da ottenere. Devo ottimizzare valore di alfa in funzione di cosa devo fare. Devo giocare
sulle qualità dei componenti del mio sistema. Altra variabile su cui posso giocare per aumentare brillanza è il
potenziale applicato. Può essere vantaggioso operare a potenziali elevati, ma anche questo ha svantaggi: potrei
danneggiare campione ad esempio. Come sempre rendere massime certe caratteristiche è sempre un gioco di
ottimizzazione di parametri in modo tale da raggiungere lo scopo prefissato.

L’altro fattore importante al numeratore è l’intensità di corrente del nostro fascio, che deve essere grande. L’intensità
del fascio è un altro parametro che determina la qualità della mia immagine.

Non mi basta avere soltanto una buona risoluzione, la qualità di un’immagine è definita da un altro parametro: il
contrasto. Il contrasto è la differenza di intensità di segnale fra un punto e le zone circostanti. Quindi è chiaro che se
noi abbiamo troppa poca intensità del fascio in un punto, il segnale che generiamo non sarà molto intenso e si
confonderà col rumore di fondo generato nei punti adiacenti. Quindi potreste essere benissimo nei limiti di risoluzione
Appunti Caratterizzazione 2013/14 45
Umberto Maria Ciucani

accettabili ma se non abbiamo segnale sufficiente la nostra immagine risulta essere mal definita. Questa quantità qui
si definisce contrasto dell’immagine e la possiamo definire come variazione del segnale fra un punto e il suo intorno
relativamente al segnale del punto stesso:

[slide contrasto]

Il contrasto lo valuto sull’intensità del segnale che dipenderà a sua volta dall’intensità del fascio incidente. La brillanza
e la corrente del fascio sono due cose diverse. Sono proprietà legate ma diverse. La brillanza è determinata dalla
sorgente mentre la corrente del fascio viene dedotta misurando la proprietà nel fascio. Su quel fascio prodotto dalla
sorgente faccio molte cose mettendo lenti, aperture e quant’altro. Non sono direttamente collegate perché c’è tutto
l’apparato ottico che gestisce il fascio. Questo è un altro criterio che mi dice come ottimizzare la mia immagine.
Ottimizzazione è processo complicato.

INTERAZIONE FASCIO-CAMPIONE:

Quando fascio di elettroni arriva su materiale succedono molte cose. Facendo distinzione di massima, dal punto di
vista dell’energia avremo due tipi di fenomeni:

 Elastici (E= rimane cost)


 Anelastici (E= varia)

Potremo ottenere informazioni interessanti da entrambi questi tipi di segnali. Cosa succede quando mando degli
elettroni sul campione? Ottengo altri elettroni (Auger- Secondari-Retrodiffusi), raggi X, fononi e altri fenomeni che non
analizzeremo. In un SEM avverranno tutte queste cose contemporaneamente.

[slide interazione fascio – campione]

Elettroni:

Noi mandiamo elettroni con grande energia e ci aspettiamo di vedere in uscita degli altri elettroni con loro
distribuzione energetica. Avremo fenomeni elastici e anelastici. Se abbiamo un fenomeno elastico, in uscita,
l’elettrone avrà energia estremamente simile a quella degli elettroni incidenti. Quindi sul plot sottostante avremo
segnale non trascurabile nella zona ad alte energie. Oppure avremo emissioni di elettroni anelastici che verranno
emessi con energie molto più piccole. Questi sono la stragrande maggioranza e li troviamo verso lo 0 dell’energia
cinetica nel grafico sottostante. Questi elettroni con energia cinetica inferiore ai 50eV vengono definiti elettroni
secondari.

Viceversa quelli elastici li chiameremo elettroni retrodiffusi (backscattered electrons). Da quale processo derivano
questi due tipi di elettroni? Cosa succede quando l’elettrone incidente arriva? La cosa più semplice concettualmente
che può accadere è che ci sia uno scattering elastico (diffusione) in tutte le direzioni. Particolarmente significativi per
noi saranno quegli elettroni che saranno diffusi all’indietro. Idealmente la loro energia dovrebbe essere la stessa di
quelli del fascio incidente ma in realtà sarà circa del 70/80%. Questi però in realtà non vengono dal campione ma
appartengono al fascio stesso. Semplicemente vengono deviati e rimandati all’indietro.

Ci sono però altri elettroni rilevati che invece non appartengono al fascio incidente ma vengono generati all’interno
del materiale stesso perché l’energia cinetica dell’elettrone incidente viene ceduta all’atomo all’interno del materiale
e posso avere quindi emissione di elettroni. Possono essere elettroni Auger o più in generale in un numero molto
maggiore e ai nostri fini molto più interessanti degli elettroni a bassa energia che in generale saranno di valenza, che
non hanno significato strettamente legato al tipo di atomo che li ha emessi ma che comunque sono generati per
interazione anelastica con elettroni del fascio e siccome provengono da campione vengono chiamati secondari.
(retrodiffusi allora primari). Abbiamo quindi due tipi di segnali sicuramente che possono essere ottenuti e che in
qualche modo possono essere monitorati nel nostro microscopio e vedere che tipo di informazioni ci portano. Per
46 Appunti secondo parziale Caratterizzazione 2013/14
Umberto Maria Ciucani

quello che riguarda quelli di core, ci sono ancora, ma sono in numero molto basso. Questi ultimi finiscono in fascio
secondario.

Ritornando ai retrodiffusi vediamo che gli elettroni primari interagiscono con le cariche degli atomi che sono
all’interno del materiale e per scattering coulombiano vengono deviati e rimandati indietro:

[slide elementi con scala di grigi BSC]

Che informazione ottengo? Avrò la formazione di un certo fascio di elettroni retrodiffusi e avrò una certa efficienza di
generazione di questi elettroni. Non tutti i materiali risponderanno con la stessa efficienza rispetto alla produzione di
elettroni retrodiffusi. In particolare, se il meccanismo di interazione è quello di scattering coulombiano dovuto alla
carica degli elettroni nella nuvola degli atomi capisco chiaramente che questo fenomeno sarà funzione
proporzionalmente diretta della numero atomico. Avere zone chiare vuol dire avere segnale più intenso quindi molti
elettroni retrodiffusi rispetto a zone più scure in cui questo numero è più piccolo. Questo tipo di immagine mi dà
informazione qualitativamente composizionale. Mi fornisce info non tanto sulla topografia della superficie quanto
sulla sua composizione. Il contrasto di segnale è allora indice composizionale.

CONTRASTO COMPOSIZIONALE si ottiene perché l’efficienza nella produzione di elettroni retrodiffusi varia a
seconda del numero atomico della specie bersagliata.

Nella mia lega ho due componenti uno a numero atomico più alto e uno più basso e questa immagine mi dà
informazioni relativamente a come le due fasi si sono disposte in seguito a solidificazione.

[slide immagine SEM di una lega ai retrodiffusi]

Se io non so nulla di quel campione lì, non posso sapere quali elementi ci sono, ma so come sono distribuite le fasi.
Anche se non è tipica immagine che siamo abituati a vedere quando pensiamo a immagini del SEM.

E’ un contrasto composizionale quindi ottengo un’informazione composizionale qualitativa.

Nel caso di materiali molecolari, il numero atomico che agisce nell’analisi al SEM è quello medio (pesato) dato dagli
atomi che compongono la molecola.

Viceversa cosa sono gli elettroni secondari? Gli elettroni secondari li possiamo considerare come elettroni che
vengono prodotti per interazione fra fascio incidente e atomo. Ci sarà parte dell’energia cinetica dell’elettrone che
verrà ceduta all’atomo che emetterà l’elettrone secondario. Posso indicare anche qui una resa che definisco come
quantità di SE emessi rispetto numero elettroni incidenti. Se faccio sperimentalmente la prova di vedere campioni
diversi con diverso Z, c’è sì una dipendenza da Z, ma non così marcata come nel caso degli elettrodiffusi. Ragionevole
perché il processo fisico che porta all’emissione di elettroni secondari è diverso da quello dei backscattered. Questi
tipicamente sono elettroni a bassa energia (SE). Vuol dire che questi elettroni vengono generati all’interno di un certo
volume di interazione. Poi però non mi basta che vengano prodotti ma debbo anche misurarli e quindi devono riuscire
ad uscire dal materiale per arrivare al detettore. Vorrà dire che se ho un fascio incidente che arriva e interagisce col
mio campione, genererà elettroni secondari su di un volume che abbiamo definito di interazione, ma quali elettroni
riusciranno ad uscire se l’energia di questi elettroni è bassa? Solo quegli elettroni che provengono da una zona molto
prossima alla superficie. La probabilità di uscita non cambia anche se abbiamo cambiato tecnica. La probabilità di
uscita è sempre proporzionale a exp(-z/lambda). L’informazione che viene dai secondari dev’essere necessariamente
un’informazione molto superficiale.

Questa è una tipica immagine:

[slide col BaTiO]

Qual’è la differenza fondamentale dal punto di vista ottico fra un’immagine ai retrodiffusi e un’immagine ai secondari?
La prima è un’immagine 2D, piatta, mentre quest’ultima rende bene la topografia dell’oggetto analizzato. Questo vuol
Appunti Caratterizzazione 2013/14 47
Umberto Maria Ciucani

dire che ci dev’essere un contrasto che dipende da qualcosa di diverso. Anche in questa immagine ho contrasto!
Queste zone chiare mi danno il senso di una direzione di crescita, di uno spigolo di crescita che fuoriesce dal piano. In
queste situazioni qui ho una produzione maggiore di elettroni (spigoli). Abbiamo detto che se io considero i miei
elettroni in questa maniera qua ed ho una superficie in questo modo qui, 3lambda è la distanza di penetrazione, e
quindi i miei elettroni secondari vengono prodotti in una zona di questo genere qua.

[slide coi piani d’inclinazione della superficie]

Avere uno spigolo vuol dire che la mia superficie cambia inclinazione in questo modo, i miei elettroni continuano ad
arrivare così e a penetrare nel campione e ad estrarre elettroni da una fettina spessa 3 lambda. Ma la differenza che
c’è fra la traiettoria percorsa dall’elettrone incidente all’interno del materiale nei due diversi casi? Nel secondo caso
l’elettrone fa una strada ben più lunga e il numero di secondari prodotti sarà più grande perché la strada percorsa è
maggiore e quindi il numero di interazioni è maggiore. Tutti questi elettroni secondari che ho prodotto sono capaci di
uscire perché la profondità è inferiore a tre lambda. Quindi mi aspetto segnale più intenso quando ho spigolo o
protuberanza. Come faccio a distinguere queste due situazioni? Per esempio posso introdurre angolo formato fra la
direzione del fascio incidente e la mia superficie e quindi dire che la resa dei miei elettroni secondari è una resa che
dipende dall’angolo di incidenza. Quindi mentre la resa dei retrodiffusi è funzione di Z, la resa degli elettroni
secondari è una funzione dell’angolo d’incidenza. Allora il contrasto che vedo nell’immagine e cioè la differenza del
segnale fra un punto e l’altro non è più sensibile a Z ma alla inclinazione della superficie rispetto al piano ideale. Il
contrasto è sensibile alla topografia del campione: ho quindi CONTRASTO TOPOGRAFICO. Esso viene dato con
sensibilità superficiale elevatissima essendo pochissimi nanometri quelli contribuenti al segnale. Gli elettrodiffusi
possono provenire invece da strati anche più profondi (ma sempre ordine dei nanometri).

[slide con la superficie spigolata e le direzioni degli elettroni secondari uscenti]

15.05.2014

Per quanto riguarda gli elettroni secondari si ha una reazione a catena nel campione, in quanto l’elettrone incidente è
molto energetico e può generare molti altri elettroni secondari che a loro volta possono generarne altri ancora.

Quando noi andiamo a confrontare rese sullo stesso campione otteniamo delle immagini molto diverse a seconda del
segnale che andiamo a rappresentare.

[immagine della lega Sn-Pb]

Quindi questo è un modo abbastanza evidente di come si possano ottenere diverse informazioni secondo il tipo di
elettroni captati per creare l’immagine. La fisica dietro alla produzione dei due segnali è diversa. Esistono leggi che
approssimano dipendenza da Z.

Gli elettroni secondari sono l’informazione più importante del SEM. Caratteristiche: piccolo volume dal quale
provengono e sensibili all’angolo d’incidenza.

Il volume d’interazione è funzione delle caratteristiche del fascio (tipo di particelle incidenti) e anche del materiale su
cui vado a incidere. Posso facilmente aspettarmi che se aumento l’energia del fascio incidente, penetrerò di più nel
materiale.

[slide col volume d’interazione]

Allo stesso modo è chiaro che il tipo di atomo di cui è costituito il mio materiale agisce sul volume d’interazione che io
ho col mio fascio incidente. Volume di fuga varia da segnale a segnale avendo caratteristiche diverse. In particolare
per i SE volume di fuga molto piccolo e quindi mi aspetto che vengano da zona superficiale molto limitata. Vengono
anche prodotti degli elettroni Auger e se ho detettore che rileva questi Auger posso raccogliere anche questo segnale
composizionale più preciso.

[slide con volumi di fuga dei diversi segnali]


48 Appunti secondo parziale Caratterizzazione 2013/14
Umberto Maria Ciucani

Viceversa i BSE che hanno energie notevolmente più grandi (E>50eV) ma diciamo quasi prossime a quelle del fascio
incidente, hanno volume di fuga più grande. Aumenta non solo per la maggiore profondità ma anche per la maggiore
grandezza trasversale. Si formano anche fotoni X nel SEM, se ho detettore opportuno posso analizzare anche questi.
Se lo facciamo ci aspettiamo un volume di fuga molto maggiore essendo fotoni.

Prendendo un’immagine ai BSE e una ai SE mi chiedo: sono davvero confrontabili? In un certo senso non lo sono perché
l’informazione dei BSE è mediata su di un volume ben maggiore rispetto a quello dei SE. Questo sarà ancora più vero se
passo dai SE all’informazione dei raggi X. Quindi se ho disomogeneità all’interno di quel volume, sono incapace di
saperlo. L’informazione è mediata sul volume di fuga.

Informazione degli elettroni Auger qual è? E’ di tipo composizionale. C’è differenza nell’info composizionale ottenuta
da Auger e dagli BSE? SI perché in primo luogo l’info dei BSE è qualitativa e comunque sia molto imprecisa mentre
invece quella dell’Auger è caratteristica e ben precisa. Questi dati non sono equivalenti anche per via del fatto che i
volumi di fuga sono molto diversi e non posso avere certezza sulla omogeneità del dato.

DETETTORI:

Non è così scontato trovare un SEM che sia fornito di analizzatore e detettore per elettroni Auger, perché è applicabile
soltanto a certe situazioni particolari e quindi non giustifica un aggravio di costi così significativo a fronte di
un’informazione che nelle normali applicazioni non interessa perché comunque le info composizionali le ottengo negli
altri metodi già studiati (XPS). Quindi come sempre ho delle potenzialità e posso decidere cosa mi interessa e cosa no.
Si possono analizzare gli Auger ma non sono la cosa più usuale che si fa col SEM. Mentre i SE e i BSE sono quelli
analizzati sempre. Diamo alcune linee generali su questi detettori.

Storicamente il più utilizzato è il cosiddetto detettore di Everhardt-Thornley o anche detto scintillatore


fotomoltiplicatore. La cosa bella di questo tipo di detettore molto facile da usare e anche meno costoso rispetto agli
altri detettori è che è in grado di rivelare sia i BSE che i SE.

Perché non posso utilizzare lo stesso detettore per gli Auger e per i BSE/SE?? L’informazione che io vado a leggere
qual è? Nel caso dei BSE/SE, mi interessa misurare in funzione della posizione dove io mi trovo durante la scansione
sul mio campione solamente il numero di elettroni. Anche nel caso di elettroni Auger considero numero di elettroni
uscenti ma vengono analizzati in funzione della loro energia cinetica. DIFFERENZA FONDAMENTALE è motivazione
dell’uso dell’analizzatore per gli Auger perché mi deve discriminare sull’energia degli elettroni mentre viceversa nel
caso dei SE e BSE (sostanzialmente monocromatici) non mi interessano le energie. Che cos’è questo detettore?

Vediamo che la tipica posizione del detettore è a lato. Se noi andiamo a riprendere lo schema della colonna abbiamo
invece tutto l’apparato ottico che si estende lungo la colonna. E’ un detettore a scintillatore. Lo scintillatore è un
materiale che se colpito da elettroni emette fotoni. Perché abbiamo degli elettroni e li vogliamo trasformare in fotoni?
Nella mia traiettoria dal campione allo schermo dove viene rappresentato il segnale, io devo trasportare il segnale e
poi amplificarlo. Trasportare luce è più semplice che trasportare elettroni. Quindi questo è il motivo per cui il primo
elemento che abbiamo è una finestra che se colpita da elettroni sufficientemente energetici, emette luce. La luce
viene poi trasportata in una guida d’onda (tipico modo per trasportare fotoni). Seguirà poi un sistema di
amplificazione dato da un tubo fotomoltiplicatore. E quest’ultimo è l’elemento che crea l’amplificazione del nostro
segnale.

Scintillatore: come faccio a farlo lavorare? Io voglio usarlo per rivelare sia SE che BSE. Se i miei elettroni arrivano tutti e
due insieme è un problema perché ottengo le due immagini sovrapposte. Quindi anche se uso lo stesso detettore devo
trovare un modo per favorire un segnale rispetto all’altro. Qual è la fondamentale differenza fra i due tipi di elettroni?
Hanno due energie molto diverse. Solito metodo che ho per selezionare elettroni è quello di usare campi elettrici
(griglie ritardanti) per fermare gli elettroni a bassa energia applicando potenziale negativo in ingresso pari al
massimo dell’energia dei SE (-50V). E’ modo più semplice per analizzare i BSE eliminando i SE.
Appunti Caratterizzazione 2013/14 49
Umberto Maria Ciucani

Per fare gioco opposto invece, siccome so che numero di SE è molto più grande ed hanno energie molto più basse, se
applico campo attrattivo laterale e per esempio lo metto a valori attorno ai +300V, su quale dei due tipi di elettroni
agirà maggiormente? Su quelli a più bassa o a più alta energia (superiori a 300V)? Soprattutto su quelli a più bassa
energia. Se lo applico mi immagino di attirarli, e questo ci spiega perché il detettore viene messo di lato. Arriveranno
comunque dei BSE ma il grosso del mio segnale sarà composto da SE. Quindi vediamo che giocando semplicemente su
una griglia posta all’ingresso del mio scintillatore, riesco a selezionare il tipo di segnale che voglio analizzare. A questo
punto io ho convogliato gli elettroni che mi interessano nello scintillatore.

Lo scintillatore funziona in modo tale che l’elettrone che arriva eccita l’atomo che produce luce e si diseccita.
Ovviamente perché questo avvenga gli elettroni devono essere sufficientemente energetici. Per renderli
sufficientemente energetici (soprattutto nel caso dei SE) aumento la loro energia applicando una forte ddp (12kV in
genere valore significativo) dopo l’ingresso nel detettore. Già quindi questo è un primo meccanismo di amplificazione
del segnale perché a partire da tot elettroni ho ottenuto molti più fotoni di quelli del caso in cui questi elettroni non
venissero accelerati. Questi fotoni vengono trasportati e poi immessi nel fotomoltiplicatore che altro non è che una
serie di elettrodi, che prendono il nome di dinodi. Entrano fotoni, effetto fotoelettrico e se ho elettrodi di materiale
con bassa funzione lavoro, i fotoni che arrivano generano molto facilmente nuovi elettroni che poi a cascata questo
fenomeno si ripete n volte perché noi acceleriamo elettroni da una parte all’altra e riusciamo così ad aumentare di un
fattore di 10^6 /10^8 quelli che erano gli elettroni incidenti. I miei fotoni arrivano e qui ho materiale a bassa funzione
lavoro e in questo modo assorbo fotoni ed emetto elettroni. Questi elettroni vengono riaccelerati verso nuovi
elettrodi (dinodi) che sono ad un potenziale positivo rispetto a quello precedente e anche questi sono composti di un
materiale ad alta resa di SE, così riemetto molti altri elettroni. Ne ho una serie di questi blocchetti che praticamente
moltiplicano questo segnale di elettroni di un fattore anche di 10^6-10^8. Questo è il modo più semplice che ho per
rivelare gli elettroni. La guida d’onda è la fibra ottica.

La guida d’onda serve ad evitare grosse perdite di informazione. Lo fa otticamente. La proprietà del mateiale che
influisce sulla direzione di propagazione della luce è l’indice di rifrazione: le guide d’onda possono essere di geometria
diversa ma sono accomunato dal fatto che il materiale di cui sono composte ha un indice di rifrazione maggiore
rispetto a quello che c’è fuori. Perché così riesco a trasportare efficacemente tramite riflessione al 100% il segnale.
(DIFFRAZIONE TOTALE) Avviene secondo la legge di Snell. Vi sarà angolo limite per il quale al di là di questo si ha
riflessione completa. Se e solo se l’indice di rifrazione del mezzo della guida è maggiore dell’indice di rifrazione del
materiale esterno alla guida.

Se io riuscissi ad avere, per quanto riguarda gli elettroni secondari, un detettore apposito, migliorerei la risoluzione
dell’immagine. Quindi molto spesso in realtà si utilizza un secondo tipo detettore dedicato ai BSE. Che tipo di
detettore posso usare? Abbiamo detto che la diffusione degli elettroni avviene in tutte le direzioni ma con maggiore
probabilità avviene all’indietro (180°). Quindi se voglio essere sensibile ai BSE un detettore laterale non è ottimale. La
cosa migliore sarebbe mettere un detettore direttamene sopra al campione. Qual è il problema? È che se utilizzo un
disco ostruisco la colonna del SEM. Allora si usano dei detettori a stato solido, di dimensioni molto piccole, che per di
più possono essere di una geometria tale che non interferisca col fascio incidente. Si basano su dei materiali
semiconduttori e tipicamente silicio.

Senza entrare nei dettagli, di loro ci interessa sapere che:

 Sono piccoli
 Sono poco ingombranti
 Sono di geometria favorevole onde non interferire col fascio incidente
 Sono posizionati in modo tale da raccogliere il massimo numero di BSE generati (buon angolo di raccolta)
 Il loro principio di funzionamento è di tipo a stato solido tramite semiconduttore.

La caratteristica di un semiconduttore è di avere un energy gap molto piccolo fra banda di valenza e banda di
conduzione. Se noi arriviamo con degli elettroni molto energetici succede vengono assorbiti e promuovono uno degli
elettroni dalla banda di conduzione nella banda di valenza. Quindi creano una corrente dettata dal numero di elettroni
in banda di conduzione che è proporzionale al numero di elettroni incidenti e sono quindi in grado di misurare
50 Appunti secondo parziale Caratterizzazione 2013/14
Umberto Maria Ciucani

l’intensità dei BSE proporzionalmente al numero di coppie elettrone-buca che si sono generate. La possibilità di
confrontare il segnale tra più rivelatori consente di meglio discriminare tra i contributi del contrasto.

Che si generino raggi X siamo d’accordo ma che informazione ci daranno? COMPOSIZIONALE. Del tutto analoga
all’informazione che potrei trarre dagli elettroni Auger. Con la differenza fondamentale che non sono direttamente
confrontabili poiché il volume di fuga non è lo stesso e quindi il dato è mediato su aree diverse (più grandi e più
piccole) che possono non essere identiche dal punto di vista degli elementi chimici. L’analisi dei raggi X in un
microscopio elettronico è qualcosa di molto normale e va sotto il nome di MICROANALISI, perché faccio un’analisi
composizionale su una scala micrometrica.

Il principio è lo stesso che abbiamo considerato per la generazione degli X e il discorso è lo stesso affrontato nel caso
delle tecniche XPS.

Coi raggi X posso fare un mapping esattamente come dicevamo per l’XPS andando a considerare una certa linea
caratteristica di un certo elemento che ho trovato nel mio campione. Faccio scansione e quindi poi vado a
rappresentare delle macchie di raggi X che mi danno mappa composizionale del mio campione. Anche qui devo stare
attento quando confronto immagine ai raggi X con immagine topografica. (Immagini vengono da profondità diverse).

MICROANALISI (Micro = scala micrometrica)

Anche qui ho due possibilità. Energia del fotone dei raggi X è data da hv oppure hc su lambda. Il detettore deve andare
a discriminare quanti fotoni ho di una certa energia. In realtà ci rendiamo conto che possiamo fare quest’analisi in due
modi: discriminando sull’energia o sulla lunghezza d’onda. Quindi esistono due tipi di detettori e quindi di analisi:

1. EDS discrimina sull’energia


2. WDS discrimina sulla lunghezza d’onda

Per primo è stato sviluppato l’WDS, più accurato ma complicato e macchinoso da utilizzare, ma oggi viene utilizzato
prevalentemente EDS.

- EDS

è detettore a stato solido a semiconduttore (in Silicio drogato con Litio), che in maniera analoga a quello visto per i
BSE va a misurare però anche l’energia dei fotoni emessi.

I raggi X creano un certo numero di coppie elettrone-buca che a loro volta creano una corrente che quindi sarà
direttamente proporzionale al numero di fotoni rilevati dal detettore. C’è sensibilità relativamente bassa nella mia
misura perché la creazione della mia coppia elettrone-buca prevede che i multipli di energia che servono per creare
coppie elettrone-buca siano pari ……

Metodo molto rapido e facile da utilizzare ma un poco preciso se voglio andare a risoluzione dell’ordine di pochi eV
poiché c’una minima energia che viene richiesta. In più ci sono altre complicazioni del tipo che per evitare effetti
termici, dovuti al processo, che generano rumore “termico” che interferisce con la mia misura, si lavora a temperature
molto basse con azoto liquido e quindi sotto vuoto con finestre che separano il mio detettore dall’esterno perché
appunto devo mantenere queste condizioni. Quindi il problema è che un qualsiasi tipo di finestra assorbe almeno
parzialmente i raggi X allora cercherò di mettere degli elementi il più efficienti possibili che mi limitino questo
assorbimento (tipicamente Be), ma chiaramente questo tipo di sistema ha il difetto di non essere molto sensibile alla
rivelazione di bassi numeri atomici. Però diciamo che questo è un modo utile che io ho per rivelare lo spettro
caratteristico ottenuto in un SEM.

Il problema può essere che, visto che non ho un elevata sensibilità, e che quindi la larghezza di questa bande è molto
grande, se ho bande molto vicine potrei non risolverle. Come posso fare ad avere un modo più efficiente, sensibile,
accurato?

- WDS
Appunti Caratterizzazione 2013/14 51
Umberto Maria Ciucani

Scelgo di discriminare la lunghezza d’onda del fotone. In teoria dovremmo parlare di diffrazione in maniera molto più
approfondita, ma utilizziamo la legge di Bragg per il momento e capiamo come utilizzarla per costruire un detettore
che discrimini i fotoni per la loro lunghezza d’onda. Le lunghezze d’onda in gioco dell’ordine dell’Angstrom. Grandezza
tipica del range degli Angstrom sono le distanze interatomiche in un cristallo. Se io uso raggi X e li faccio incidere su di
un cristallo mi aspetto di osservare diffrazione. Fenomeno molto selettivo e specifico. La legge di Bragg mi dice:

2𝑑 𝑠𝑒𝑛(𝜗) = 𝑛𝜆

Lambda e d devono essere dello stesso ordine di grandezza. Condizione stringente perché fissati lambda e d, solo un
ben preciso valore di ϑ verifica la legge e quindi verificarla vuol dire che in quella direzione ci sarà massimo di intensità
di luce diffratta. La tolleranza sul valore di ϑ che dà diffrazione di una certa lunghezza d’onda è molto piccola perché
questa legge qui decade molto velocemente al variare dell’angolo. Quindi ho una selettività in lambda molto elevata.
Ecco perché è metodo molto accurato per misurare le energie. Risoluzione migliore di un ordine di grandezza in più
dell’EDS. Praticamente come sfrutto la diffrazione?

[slide 14/19 Microanalisi]

Immaginiamo il mio fascio di elettroni incidente. Si generano raggi X con lunghezze d’onda diverse come evidenziato
dallo spettro caratteristico. Mettiamo di avere due lunghezze d’onda lambda 1 e lambda 2. In corrispondenza di
queste due lambda, per un certo cristallo, solo due ben precisi angoli verificheranno la legge. Se conosco la distanza
interplanare del cristallo (d), dall’angolo che misuro deduco la lunghezza d’onda. Il detettore viene spostato su di una
guida circolare. Il mio detettore misura esattamente il numero di fotoni corrispondenti a quella lunghezza d’onda.
Continuerò a muovere il detettore sulla guida fino a quando non arriverò all’angolo che verificherà nuovamente la
condizione di Bragg per lambda 2 (in ϑ(2) ). In genere si sposta solamente il detettore. La cosa importante è che vari
l’angolo. Il vantaggi sono:

 Sensibilità maggiore
 Non ho bisogno di vuoto perché non devo raffreddare il sistema
 Ho buona sensibilità anche su numeri atomici molto bassi

mentre gli svantaggi sono:

 E’ un metodo più lento rispetto all’EDS


 Più costoso
 A seconda del range di lunghezze d’onda che devo andare a rilevare non è detto che con un singolo cristallo
riesca ad analizzare tutte le lunghezze d’onda che desidero

Infatti di solito quasi mai si usa un solo cristallo ma si hanno dei set di cristalli con diverse distanze interplanari in
modo da allargare il più possibile il range di lunghezze d’onda analizzabili (costi e complessità al sistema).

Tipico esempio di confronto fra tecniche EDS e WDS:

[slide 16/19 Microanalisi]

Con l’EDS, che è a bassa risoluzione otteniamo un profilo con delle bande molto larghe. In questo caso succede che la
linea k alfa del Ti e la linea doppietto l alfa del Ba sono praticamente alla stessa energia. Se faccio EDS vedo un unico
picco e perdo l’informazione sul fatto che sono presenti sia Ti che Ba. Se invece faccio uno spettro WDS che ha linee
molto più sottili (risoluzione maggiore rispetto all’EDS di almeno un ordine di grandezza) risolvo le due componenti. In
certi situazioni si ha sovrapposizione di più bande per cui inderogabilmente ci vuole il WDS (fondamentale).
52 Appunti secondo parziale Caratterizzazione 2013/14
Umberto Maria Ciucani

20.05.2014

- SEM (Campione e sua preparazione)

Uno di grandi vantaggi del SEM rispetto al TEM è che la preparazione del campione in confronto è minima. Per il TEM
bisogna avere fettina abbastanza sottile in modo tale che gli elettroni ci passino attraverso. La preparazione è quindi
complicata per il TEM.

Limitazioni per il SEM quali sono? Non è vero che qualsiasi di campione si può analizzare nel SEM, c’è un requisito
fondamentale perché il campione possa essere analizzato correttamente. Noi guardiamo segnale di elettroni che viene
a sua volta sempre da elettroni incidenti. C’è un problema, le cose funzionano perfettamente se sono certa che il
numero di elettroni entranti è uguale a quello degli uscenti. Se sono in queste condizioni sostanzialmente non altero lo
stato di carica del mio sistema. E’ difficile essere sempre in queste condizioni di equilibrio. Se si verifica scompenso
possono succedere due cose:

1. se ho eccesso di elettroni in arrivo avrò accumulo di cariche negative su campione.


2. se ne escono di più di quanti ne arrivano ho squilibrio di carica che rende il mio campione carico
positivamente.

Entrambe queste situazioni non vanno bene perché io cambio lo stato di carica di carica sul mio campione. Mando
particelle cariche e se ho campione carico si instaurano delle interazioni fra fascio incidente e campione stesso che poi
vanno ad influire sul meccanismo di generazione del segnale e quindi sulla qualità dell’immagine. Quindi è qualcosa
che io devo evitare. Questo è un problema se il campione non è capace di riequilibrare le cariche da solo. Quindi se io
ho materiali che in qualche modo sono capaci di rispondere alla variazione della carica e ripristinare una situazione di
equilibrio sono a posto (materiali metallici messi a terra ad esempio). Requisito fondamentale per analizzare senza i
problemi menzionati sopra è che il materiale oggetto di analisi sia conduttore. Anche semiconduttori andranno bene
in realtà, basta che ci sia modo di riequilibrare la carica.

Se ho un isolante questo processo non sarà più possibile. Se ho accumulo di cariche negative, l’interazione con fascio
incidente sarà particolarmente distruttiva (repulsione) e avrò immagine pesantemente distorta. La principale
limitazione in un SEM è questa. Altra limitazione già vista è quella di lavorare in vuoto. Entrambi sono limitazioni
“pratiche”. Non sempre è possibile lavorare in condizioni di vuoto. Ad es. pensiamo all’utilizzo del SEM in campo
biologico: in generale avrò dei campioni ricchi di acqua. Se noi mettiamo un campione idratato (no trattamento) sotto
un fascio di elettroni in un ambiente in UHV, non va bene e non si può analizzare a meno che di fare trattamenti di
disidratazione preliminari che si possono fare ma altereranno morfologia del campione.

- Approcci che si possono considerare per risolvere queste due limitazioni


LVCSEM (LowVoltageConventionalSEM)
Se io ho materiale isolante, il metodo più banale per renderlo conduttivo è quello di ricoprirlo di un sottilissimo strato di
materiale conduttivo (tramite tecniche CVD-PVD). Sottile strato onde non alterare la morfologia del campione
originario. Non è difficilissimo da fare. Si utilizza spesso Au perché è facilmente evaporabile e fornisce superfici molto
uniformi dal punto di vista dello spessore.

Posso operare però in modo diverso. Come un campione non conduttivo fornisce problemi nell’ottenimento
dell’immagine è mostrato nella [slide 3/6 Effetto del voltaggio sulle immagini ai SE], in cui si vede che l’accumulo di
cariche fornisce quelle tipiche strisciate di colore bianco. C’è un modo di principio con cui è possibile ovviare al
problema che è quello di mantenere un bilanciamento fra ciò che arriva e ciò che esce. Se considero la somma delle
rese fra BSE e SE, devo averla uguale a 1 per avere bilanciamento. Il problema è che è difficilissimo mantenere questa
condizione.
Appunti Caratterizzazione 2013/14 53
Umberto Maria Ciucani

Quali sono i parametri che determinano la resa in uscita dei miei elettroni? Uno di quelli fondamentali è il potenziale
di accelerazione che io impongo, ha senso quindi andare a vedere come varia la resa in funzione del potenziale
applicato. La scorsa volta consideravamo come un aumento del potenziale aumenti la brillanza del mio fascio,
diminuisca la dimensione del fascio e quindi aumenti la risoluzione dell’immagine stessa. E’ allora parametro
fondamentale. Andiamo a vedere l’andamento di quest’ultimo nella [slide misure a basso voltaggio]. Vediamo che
partiamo da valori di rese inferiori a 1 per poi arrivare a 1, superare 1 e poi a potenziali elevati ritornare a valori
inferiori a 1. L’effetto sul campione è il seguente: se ho valori di rese inferiori a 1 ho accumulo di carica negativa sul
campione mentre invece se ho rese maggiori di 1 il campione si carica positivamente. Le condizioni ottimali nelle
quali lavorare sono i due punti con resa uguale a 1. Nelle zone esterne o interne a questi due punti cosa succede? La
zona più favorita è quella in cui il mio campione si carica positivamente perché se è carico negativo (accumulo di
elettroni) ho interazione repulsiva con fascio incidente che quindi viene deviato e respinto peggiorando la situazione
(ancor meno elettroni che escono). Nei casi invece con resa maggiore di 1 la situazione è migliore essendo l’interazione
fra fascio e campione attrattiva, riducendo quindi in qualche modo la deviazione dall’idealità grazie all’attrazione del
fascio verso il campione. Praticamente tendo ad attirare verso il campione gli elettroni del fascio incidente e quindi in
un qualche modo ho un meccanismo di compensazione. Se io sono capace di operare nelle condizioni nel mezzo o con
resa prossima a 1 sarebbe ottimo. In queste condizioni spero di osservare anche campioni che non sono conduttori o
lo sono molto poco.

Il problema è che se vado a vedere questi valori di potenziale che rendono possibili le ipotesi fatte sopra, mi rendo
conto che sono molto bassi. Più bassi dei tipici potenziali che utilizzerei in un SEM ed abbiamo appunto detto poco fa
che bassi potenziali influiscono sulla risoluzione dell’immagine che io riesco ad ottenere. Un’ulteriore possibilità,
quindi, di analizzare campioni che non sono conduttori senza dover operare su di essi è quella di fare su di essi
misure a basso voltaggio sapendo però che tutto ciò andrà a discapito della risoluzione. Quindi, per esempio,
vediamo nella [slide 3/6 Effetto del voltaggio sulle immagini ai SE] che le due immagini hanno qualità molto differente!
5kV è potenziale applicato molto basso. Nel caso del teflon addirittura non abbiamo più un’immagine capibile.

ESEM
Un’espediente è proprio quello dell’ESEM. Environmental SEM. Questo è un SEM ambientale e cioè che opera in
condizioni ambientali: opera in condizioni di vuoto parziale. Un vuoto non spinto. Rilascio questa limitazione sul livello
di vuoto richiesto all’interno del SEM. Non vuol dire che lavoro in assenza di vuoto in tutto il SEM perché se io rilascio
il vuoto nella colonna, succede che le interazioni col fascio incidente mi portano a scattering quindi a diffusione del
fascio e quindi a un fascio non collimato. Non posso rilasciare il vuoto nemmeno nella sorgente, perché comunque la
sorgente deve avere un libero cammino medio sufficientemente lungo. E quindi il vuoto lo rilascio soltanto nella zona
del campione (dove mi darebbe fastidio come ad esempio per campioni biologici ricchi di fluidi). Sotto il
diaframma/lente finale. [slide ESEM]. Come faccio a fare ciò? Devo stare attento perché se non metto sistema di
valvole a pressione io posso avere passaggio di molecole alla colonna sovrastante. Se io limito sufficientemente il
flusso di molecole al di sopra della colonna posso operativamente riuscire a fare la cosa. Ho vantaggio di non dover
disidratare il campione. Altro vantaggio è il seguente: nel momento in cui gli elettroni generano segnale e vanno al
detettore, nelle normali condizioni di operazione il detettore deve operare a potenziali variabili (potenziale tipico per
attirare i SE è di 300V), qui si opera invece a potenziali più alti in modo tale che questa capacità di attrarre SE sia
ancora maggiore e succede che gli elettroni che vengono emessi vengono fortemente attirati al detettore. Nella loro
traiettoria incontrano le molecole ambientali nel gas presente in camera, le urtano e generano a loro volta a
cascata altri elettroni. Da una parte aumento il numero di elettroni che viaggiano verso il detettore ma allo stesso
tempo la molecola che è stata ionizzata rimane carica positiva. Quindi io ho cariche negative che vanno verso
detettore e ioni positivi che vanno dalla parte opposta se detettore è positivo, avendo un campione carico
negativamente si dirigeranno lì. Quindi ho effetto di compensazione di effetto di carica! Così risolvo problema di
vuoto spinto e compensazione carica. Uso quindi questo tipo di analisi anche con campioni non conduttori. ESEM
consente quindi analisi di campioni di materiali non conduttori e in condizioni di vuoto variabile e non molto spinto.
ESEM è evoluzione SEM convenzionale. Vediamo che solo nel caso dell’ESEM è possibile arrivare a pressioni che
consentono di mantenere presenza di… (liquidi???) Ovvia applicazione è in campo biologico. Ma anche per studio di
struttura di materiali idratati come i cementi. Ha senso usare ESEM solo per certi casi. Ragioniamo su quale tecnica
usare. Qualità immagine ESEM è migliore rispetto a quella dell’LV-CSEM.
54 Appunti secondo parziale Caratterizzazione 2013/14
Umberto Maria Ciucani

Tecniche di Diffrazione

Perché è necessario distinguere struttura cristallina di bulk da superficie? La superficie reale non è oggetto
esattamente 3D ma quella porzione del mio campione formata da un certo numero di strati in cui vengono modificate
le proprietà fisiche rispetto a quelle che sperimentano gli atomi dell’interno del campione. Bisogna distinguere fra
struttura cristallina interna e superficiale del materiale. Ci stiamo concentrando su strutture che sono contraddistinte
da ripetitività. Vediamo però che la regolarità in termini di disposizione, di ripetizione di atomi che formano il bulk è
diversa dalla posizione degli oggetti che formano gli strati più esterni.

[slide pacco struttura superfici]

Dal terzo strato in poi si osserva una regolarità che diversa dai primi strati. In particolare, la distanza interatomica è
diversa, ma anche la disposizione degli atomi può essere diversa. La condizione di forze agenti sugli atomi superficiali
è diversa rispetto al sistema di forze che agisce in quelli interni. Mentre all’interno, da tutte le direzioni, sperimento
una situazione di forze uguale, all’esterno sopra agli atomi non c’è più nulla quindi il campo di forze risulta alterato.
Ciò mi induce a pensare che gli atomi si dispongano in maniera diversa. Vedremo infatti che ci saranno diversi modi
per modificare questa distribuzione spaziale. Questo è il motivo intrinseco del re-arrangement. Ci può essere però
un’altra situazione che modifica ulteriormente la struttura di una superficie. Se noi abbiamo adsorbimento di altre
specie molecolari dovute ad impurezze o ad assorbimento desiderato di atomi, chiaramente queste nuove specie
chimiche si distribuiranno sulla superficie modificandola. Questi sono i due motivi che inducono una diversa struttura
della superficie rispetto a quella di partenza del bulk ideale.

Mi è comodo introdurre un metodo per riportare la nuova struttura alla vecchia struttura ideale del substrato.

- Concetto di cristallo
Un cristallo è una regolare disposizione geometrica di alcune unità fondamentali (atomi o molecole) che si ripete nelle
3 dimensioni dello spazio, e mi riproduce il corpo massivo del campione senza che ci siano sovrapposizioni. Il cristallo
ha simmetria di traslazione. Una volta identificata una cella di dimensioni minime la chiamerò: cella
unitaria/convenzionale. Identifichiamo allora una cella che corrisponderà a una di quelle di Bravais, che nelle sue
proprietà contiene tutte le proprietà di simmetria del cristallo e che semplicemente ripetuta per traslazione nelle tre
direzioni mi riproduce il cristallo. Quindi dal punto di vista matematico, se io stabilisco un’origine qualsiasi, posso
ottenere tutti i punti del reticolo facendo semplicemente una traslazione secondo le direzioni fissate da ognuno di
questi differenti reticoli. Se ho identificato cella unitaria e ho identificato versori fondamentali, ad esempio a, b, c, che
hanno direzioni e lunghezze fissate, tutti i punti del mio reticolo li ottengo semplicemente sommando multipli interi di
questi vettori fondamentali della mia cella unitaria. I punti del reticolo sono identificati da un’operazione di
traslazione. Andare poi a classificare le diverse celle vorrà dire andare a dire come sono a, b e c, e a darne tutte le
possibili combinazioni con gli angoli. Questa è la definizione di un concetto astratto, quale il reticolo, che è
soggiacente alla mia struttura. Il reticolo è un concetto astratto, matematico, di una regolare disposizione di punti
nello spazio che può essere appunto ricondotta a discorsi di simmetria (???). Si riottengono tutti i punti del mio
reticolo per traslazione partendo da un volume fondamentale, quello della mia cella unitaria, che è il minimo volume
contenente tutte le informazioni di simmetria del mio sistema. Questo però è un concetto astratto che non coincide
con la struttura cristallina reale del mio sistema. Io nel reticolo ho dei punti che hanno una regolarità nello spazio ma
per passare alla struttura devo poter associare a ognuno di questi punti un reale oggetto fisico che può essere, nel caso
più semplice, un singolo atomo, ma più in generale un gruppo di atomi o addirittura una molecola anche complessa, o
una porzione di essa. Devo rivestire ognuno di questi punti con un ben specifico gruppo di atomi che, anche questo,
per rispettare la simmetria del mio reticolo, dovrà essere identico in ogni punto e orientato nella stessa maniera in
modo tale che anche questo venga riprodotto per traslazione nella stessa maniera. Questo gruppo di atomi viene
detto base. Quindi la struttura cristallina sarà data dalla somma del reticolo, specificato in funzione dei reticoli di
Bravais possibili, e la base.

[2/41 struttura superfici]


Appunti Caratterizzazione 2013/14 55
Umberto Maria Ciucani

In questo caso sopra ho cristallo molecolare. Allora ho una molecola che non solo dovrò disporre in ogni punto del
reticolo ma anche con la corretta orientazione. La base dovrà ripetersi con lo stesso gruppo di atomi e la stessa
orientazione. Concetto fondamentale è distinguere il reticolo dalla struttura cristallina. Vedremo poi chi ci darà
informazioni sul reticolo e chi sulla base e quindi sulla struttura cristallina nel suo complesso. Ogni simmetria ricadrà in
uno dei reticoli di Bravais. Definisco i reticoli di Bravais fissando i tre versori che identificano la cella unitaria e gli
angoli fra loro compresi. Ovviamente io avrò un reticolo che dipenderà dalla dimensionalità del mio sistema (reticoli
2D o 3D). Posso avere anche reticoli bidimensionali che mi rappresentano bene una superficie o addirittura
teoricamente monodimensionali, utili a capire i concetti esposti. Le proprietà dei reticoli sono fissate in base alla
simmetria e alla cella. Perché non chiamo questa cella primitiva? Perché una cella è primitiva quando contiene un
unico punto reticolare (condivisione di punti fra diverse celle implica meno di un punto reticolare per ogni spigolo). I
reticoli di Bravais nel caso 2D sono in numero ridotto rispetto a quelli del caso 3D. Ne sono 5 in 2D. Anche qui si
distingueranno andando a definire i due vettori della cella unitaria a e b e un unico angolo compreso. Se guardo a e b
e gamma le uniche possibilità che ho sono quelle nella [3/41 struttura superfici].

Caso della cella esagonale che non è esagono ma un solo pezzetto a rombo.

Come posso identificare altrimenti i punti del mio reticolo? Introducendo dei piani reticolari, delle famiglie di piani
reticolari parallele. Quante famiglie di piani posso definire per un reticolo? Infinite. Le specifico dando i rispettivi indici
di Miller. Tutti i punti del reticolo stanno su di una famiglia di piani pre-scelta e le caratteristiche di questa famiglia di
piani sono date dalla loro orientazione e dalla loro distanza interplanare che è diversa da famiglia a famiglia.
L’orientazione la specifico dando i corrispondenti indici di Miller che non sono altro che il reciproco delle intersezioni
dei piani con un sistema di riferimento predeterminato. Ci preme sottolineare che gli indici di Miller non sono definiti
come le intercette, ma come il loro reciproco. Vedremo che quello che è caratteristico nell’interpretazione dei dati
degli esperimenti di diffrazione non sono tanto le lunghezze, ma i reciproci delle lunghezze.

Soffermiamoci sulle diverse superfici che io posso ottenere da una struttura cristallina di bulk. Ho un determinato
reticolo e per ottenere una superficie vado a tagliare il mio cristallo lungo certe direzioni (ottenendo facce), andando
così ad esporre superfici che si caratterizzeranno per la diversa orientazione. Quindi potrò andare a specificare le
diverse superfici che posso ottenere dalla stessa struttura cristallina tramite gli indici di Miller che corrispondono al
piano lungo il quale io ho effettuato il mio taglio. La struttura superficiale (reticolo 2D) che otterrò dipenderà dal piano
lungo cui ho fatto il taglio.

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VEDI PRIME SLIDE DI STRUTTURA SUPERFICI. Segui qui sotto se vuoi spiegazione delle singole slide. Termina su [slide
12/41].

Tagliando un cubico semplice lungo la faccia [100], quello che noi otteniamo è una disposizione dei punti come in
[slide 6/41]. Ho ottenuto un reticolo bidimensionale a cella quadrata di stesso lato del Bravais 3D.

Tagliando lo stesso SC in [110] la cella corrispondente risultante è rettangolare [slide 7/41]. Qui una dimensione del
rettangolo sarà pari ad a e l’altra pari alla radice cubica per a.

Ultimo caso è l’[111]. In questo caso è ancora diversa [slide 8/41] e quello che osserviamo è che la nostra cella
primitiva è esagonale.

Stesso esercizio di può fare per il FCC. Considerando in questo caso la [100] i punti che noi otteniamo sono [slide
9/41]. Questa è una cella quadrata, di dimensioni pari ad a, ma non primitiva. Ci rendiamo conto allora che non è
l’unico tipo di cella che possiamo definire per quel reticolo, potremmo trovarne un’altra, di dimensioni più piccole, che
invece è primitiva. E possiamo riottenere tutto il nostro reticolo considerando questa primitiva, ruotata di 45 gradi
rispetto a quella che avevamo in partenza.

FCC [100] è ancora cella FCC ma con lato cambiato. La FCC [110] è ancora cella rettangolare ma questa volta ho anche
punti in mezzo e quindi posso definire la mia situazione dicendo che avrò un dimensione ancora pari ad a e l’altra
dimensione che sarà ancora una volta a/radice di 2.

E’ richiesto che noi sappiamo cosa succede a reticolo di superficie per un cubico a facce entro [100] piuttosto che
[111].
56 Appunti secondo parziale Caratterizzazione 2013/14
Umberto Maria Ciucani

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Questo succede quando parto da struttura ideale tridimensionale e taglio lungo una certa faccia. Questa superficie la
definisco allora ideale. Ideale perché io ho considerato congelata la situazione del bulk, ho semplicemente tagliato e
visto la simmetria presente. Però quando io espongo la mia superficie in realtà le cose possono cambiare. Da
situazione ideale descritta fin ora, posso passare a superficie reale che in qualche modo può differire dall’ideale nella
disposizione degli atomi. Il motivo è da ricercare sostanzialmente nel fatto che la situazione di equilibrio di forze è
diversa per gli atomi che sono all’interno del cristallo rispetto a quelli presenti in superficie. In maniera “pittorica” è
mostrata un tipo di deviazione dall’idealità in [slide 13/41]. L’atomo nel bulk sente sistema di forze (interazioni
intermolecolari) in tutte le direzioni, essendo circondato in ogni direzione da atomi o particelle simili a lui. Ho una
certa condizione di minima energia che corrisponde alla struttura standard. Adesso in superficie questa isotropia di
forze non c’è perché sopra a questi atomi non ci sono altre particelle simili.

Sostanzialmente questa deviazione dall’idealità delle superfici ideali può avvenire in due modi diversi:

Il modo più semplice è quello in cui gli atomi si allontanano o si avvicinano, cambiano le distanze relative, senza
mutare la loro simmetria della cella. Questo tipo di deviazione dall’idealità: RILASSAMENTO (delle dimensioni, a volte
aumentano a volte diminuiscono).

In altri casi invece la situazione di minima energia si ottiene non tanto cambiando semplicemente le distanze relative
ma anche tramite una modifica della simmetria della struttura ([slide 13/41]). In questo caso si parlerà allora di
RICOSTRUZIONE (della cella).

Quando succede uno o l’altro? Esistono dei criteri generali ma non si può fare distinzione così netta. In generale [slide
14/41], si può dire che la maggior parte dei sistemi che rilassano sono metalli. In realtà però possiamo vedere che ci
possono essere certi semiconduttori o altri materiali che allo stesso modo rilassano. Vediamo anche che, a seconda
della direzione in cui noi consideriamo la nostra superficie (ideale), le cose cambiano.

Nel caso dell’Al [110] e [111] vediamo che il rilassamento è diverso. Nel GaAs invece, la famiglia di piani [110]
rilassa mentre l’[100] ricostruisce. Quindi in realtà sapere se la superficie reale rilassa o ricostruisce non è solamente
problema relativo al diverso elemento del materiale che sto considerando ma dipende anche dalla faccia del piano
lungo il quale sto tagliando. Vediamo quali sono i criteri generali per i quali si segue una strada o un’altra:

Il criterio generale è quello di minimizzazione dell’energia.

Nel caso di un metallo, la caratteristica del suo legame rispetto a quello covalente ad esempio è che il metallico ha
carattere a-direzionale al contrario invece di quello covalente che è fortemente direzionale, visto che è dato dalla
condivisione di elettroni di un certo specifico orbitale. Queste due situazioni estremamente diverse porteranno a
minimizzazione energia in maniere diverse. Mentre è più facile per un metallo, che non ha carattere direzionale,
aggiustare un pochino le sue distanze, ciò diventa più difficile per un legame direzionale. Spostarsi anche di un minimo
da una posizione di equilibrio di un atomo in un legame fortemente direzionale richiede un contributo energetico
molto più grande rispetto al caso del legame metallico. Non ho così tanti gradi di libertà per il riarrangiamento di
cristalli covalenti e quindi tutte le volte che ho legami covalenti, la prima scelta per minimizzare l’energia, è quella di
andare in ben precise direzioni e quindi abbassare la simmetria per minimizzare l’energia. [slide 17/41]. Quando arrivo
in superficie, mi trovo ad avere degli elettroni spaiati visto che un legame covalente è definito dalla condivisione di
due elettroni uno proveniente da un atomo e un altro dall’altro. Se io “taglio” il legame rimango con un unico
elettrone spaiato (un dangling bond). Avere un elettrone spaiato vuole dire essere in una situazione con un enorme
eccesso di energia e quindi se trovo un atomo vicino con cui appaiarmi, il vantaggio in energia è molto più grande di
un qualsiasi altro metodo per minimizzare l’energia. Avendo quest’atomo di fianco, e cioè altri atomi nella sua stessa
situazione, sarà più conveniente non rimanere fissi nella propria posizione ma modificare la distanza fra loro stessi,
permettendo un’interazione fra i due elettroni spaiati e generare un nuovo legame covalente che porterebbe a una
sensibile diminuzione dell’energia del sistema (formazione di un dimero). Ottengo quindi coppie di atomi ricostituite.
Guardando dall’alto la situazione, la simmetria della mia cella è ora diversa. Questa ricostruzione è indotta dal nuovo
legame covalente che si viene a creare.

Vediamo in anticipo [slide 29/43].


Appunti Caratterizzazione 2013/14 57
Umberto Maria Ciucani

L’esatto processo di minimizzazione dell’energia dipende dal tipo di superficie che si va a creare tagliando in certe
direzioni. Questo spiega perché in certi casi, per lo stesso materiale, possiamo avere ricostruzione piuttosto che
rilassamento. Si [100] è caso da manuale. Classificazione generale: metalli rilassano mentre semiconduttori
ricostruiscono. Chi determina la strada da percorrere per minimizzare l’energia è il tipo di legame presente all’inizio e
quello che si va ad instaurare alla fine.

C’è secondo effetto da tenere in considerazione quando vado a minimizzare energia ed è quello dell’interazione
dovuta alla distribuzione di carica (neutralità della carica). Un legame è anche caratterizzato da come si distribuisce la
carica e se ho squilibri locali nella distribuzione creo delle interazioni di tipo Coulombiano che introducono un termine
energetico da tenere in conto nella minimizzazione totale dell’energia. I motivi per cui si seguirà una determinata via
per minimizzare l’energia saranno: il tipo di legame e la neutralità della carica. (Scompenso di carica genera driving
force da tenere in considerazione nel ri-arrangiamento dei siti atomici della neonata superficie).

Nomenclatura e notazione (Notazione di Wood e matriciale)

Noi conosciamo la situazione della superficie ideale ma sappiamo che non sarà situazione reale e quindi non siamo
interessati a studiarla; ci serve allora una notazione che metta in relazione queste due diverse situazioni: partenza
ideale e arrivo reale che sicuramente ha subito modificazioni. Questa notazione ci farà riferire la nuova cella in
funzione della vecchia cella.

Due sono i motivi per cui noi andiamo a considerare una nuova simmetria di cella che ci aspetteremmo da una certa
struttura cristallina di bulk: ricostruzione o rilassamento come appena detto sopra, ma un altro motivo potrebbe
essere quello dell’adsorbimento (ordinato) di nuove specie. Trattiamo questi due fattori alla pari. Quello che ci
interessa in questo momento è il fatto di voler descrivere una nuova struttura in funzione di una vecchia di partenza
che conosciamo. Nel modo più semplice opero come segue:

Identifico la mia cella iniziale dando i versori iniziali: a e b. Voglio ora descrivere la nuova cella con nuovi versori unitari
a primo e b primo. Io so che posso esprimere questi due nuovi versori come combinazione lineare dei primi due.
Chiamerò a e b delle basi e quindi ricostruisco la mia nuova base in funzione base precedente. Quindi posso riscrivere
a' come una combinazione (siamo in 2D, quindi dimensione spazio è 2 e allora posso generare qualsiasi elemento dello
spazio con combinazione lineare dei due versori (base) coi coefficienti n e m):

𝑎′ = 𝑛𝑎 + 𝑚𝑏
E allo stesso modo b' come:

𝑏 ′ = 𝑛′ 𝑎 + 𝑚′ 𝑏
Per avere notazione più compatta posso scrivere tutto in notazione matriciale (matrice colonna) e quindi scrivere che
il mio nuovo vettore di componenti (a’,b’), sarà uguale a una matrice di trasformazione applicata al vecchio vettore di
coordinate (a,b). Gli elementi di questa matrice di trasformazione sono i coefficienti scritti prima. Allora definisco la
matrice di trasformazione G e chiamerò gli elementi di questa matrice 𝑔11 , 𝑔12 , 𝑔21 , 𝑔22 . Semplicemente è una
notazione più compatta che mi mette in relazione qualsiasi possibile nuova cella rispetto alla precedente. E’ notazione
più generale che posso dare per mettere in relazione due vettori diversi. E’ la NOTAZIONE MATRICIALE.

Quello che ci interessa sapere è in ogni condizione posso trovare dei fattori per esprimere matricialmente la nuova
situazione.

Molto spesso però, si utilizza un altro tipo di notazione, molto più immediata: la NOTAZIONE DI WOOD.

Un FCC [100] mi dà reticolo quadrato (pallini verdi nella [slide 21/41]). Stando nella situazione ideale definisco la cella
unitaria. E’ quadrata (1x1). I pallini rossi rappresentano le specie adsorbite o potrebbero essere atomi che hanno
ricostruito e che sono più sporgenti rispetto ad altri. La cella unitaria che mi porta al ricoprimento di tutto il reticolo
non è più il quadratino piccolo perché devo tenere in considerazione anche di come sono disposti i pallini rossi
adsorbiti sopra e quindi ci rendiamo immediatamente conto che la minima cella unitaria che deve essere traslata
58 Appunti secondo parziale Caratterizzazione 2013/14
Umberto Maria Ciucani

per riprodurre il tutto è la quadrata rossa. Cosa posso osservare? Che se vado a vedere le distanze che ci sono in base
alle distanza di riferimento della mia superficie ideale, ho sempre una cella quadrata ma il lato è esattamente due
volte quello di partenza. Stessa cella ma variano le lunghezze dei lati.

In modo molto compatto posso esprimere in questo modo i multipli che mi portano a dare le misure della nuova cella
in funzione delle lunghezze della cella di partenza: nuova cella sarà quindi (2x2), indicando che ho lasciato lo stesso
tipo di cella ma ho raddoppiato le lunghezze dei lati.

Le informazioni che devo dare per esprimere la superficie e la sua mutazione in notazione di Wood sono:

1. Dare il tipo reticolo di bulk di partenza


2. Dare faccia di superficie che sto considerando

(a questo punto, ciò mi fa univocamente determinare il tipo di reticolo 2D del mio substrato / della mia
superficie ideale)

3. Dico che la mia superficie ricostruita con lunghezza nuova sarà x in notazione di Wood.

Sempre nella [slide 21/41] identifico un altro tipo di struttura risultante reale finale ma diversa dalla primitiva data
prima che, siccome è cubica ma stavolta centrata, metto la c davanti a (2x2)  c(2x2) . Ho dato quindi informazione
relativamente alle dimensioni della cella, e sul fatto che è centrata. A rigore avrei dovuto mettere una p davanti alla
(2x2) primitiva (caso precedente della centrata (sopra all’elenco puntato in questa pagina) ma in generale si omette.
Potrei anche definire una cella primitiva ma poi la dovrei esporre in notazione di Wood con misure diverse e angolo
d’inclinazione [slide 23/41]. Nella parentesi indico sempre il fattore di conversione fra le lunghezze dei corrispondenti
vettori della cella unitaria; indico poi la rotazione, se c’è. Si può scegliere la soluzione che più ci aggrada ma poi
bisogna essere sempre coerenti con la scelta fatta.

Mentre la notazione matriciale la posso sempre scrivere in qualsiasi situazione, la notazione di Wood in certi casi ha
una limitazione. C’è una nuova situazione che non sarà mai possibile esprimere in funzione della vecchia. Io ho ruotato
i vettori ma non ho mai cambiato angolo fra i due vettori, cosa che però può succedere. Quindi nell’utilizzo di
notazione di Wood, se nuova struttura cambia angoli fra vettori che definiscono la cella unitaria, ho problema
nell’espressione tramite essa. Per questo la notazione matriciale si dice che è più generale, consentendo ogni nuova
rappresentazione.

22.05.2014

Nel rilassamento manteniamo stessa simmetria della disposizione precedente mentre con la ricostruzione se ne
stabilisce un’altra. OVERLAY = sovrareticolo. Indicheremo con questo termine gli atomi superficiali che si
distribuiscono con un certo ordine diverso da quello del substrato, sopra di quest’ultimo. Ovviamente ciò presuppone
che la ridistribuzione che avviene sia di tipo ordinato, cosa che non è sempre vera. Si possono avere ridistribuzioni
casuali che danno un disordine che non può più essere studiato con tecniche di diffrazione (diffrazione può solamente
rendere possibile studio di strutture ordinate). Vedremo anche casi in cui abbiamo disordine sul substrato che a mano
a mano si riordina per dare una struttura ordinata. Gli atomi si dispongono ordinatamente ma, in che modo? Siccome
la situazione deve essere sempre di equilibrio, i nostri atomi si andranno a disporre in siti di simmetria opportuna alla
minimizzazione dell’energia. Le più usuali disposizioni osservabili sono quindi:

- ON-TOP (atomo superficiale si trova sopra all’atomo del substrato)


- ON BRIDGE (situazione di simmetria con atomo posto nel ponte fra i due atomi)
- 4-FOLD HOLLOW (in posizione al centro della cella, in un sito di simmetria di ordine 4)

Se ho reticolo esagonale, allora vediamo che gli atomi adsorbiti si trovano in posizioni di alta simmetria ma questa
volta l’ordine di simmetria è di ordine 3.
Appunti Caratterizzazione 2013/14 59
Umberto Maria Ciucani

Prima ci interessa riconoscere le strutture superficiali e poi andare ad analizzare il pattern di diffrazione e come esso
cambia quando io passo da substrato pulito a substrato con adsorbito. Useremo quindi una tecnica di diffrazione per
andare a studiare la nuova situazione che si viene a creare. Per fare tutto ciò ci avvaliamo di un’astrazione
matematica quale il reticolo reciproco. Prima dobbiamo imparare a distinguere i reticoli (del substrato e del substrato
con adsorbito) nello spazio reale e imparare a metterli in relazione fra di loro, poi vedremo che a partire dai reticoli del
substrato e del sovrareticolo ricostruiremo i due reticoli reciproci corrispondenti e saremo poi così in grado di capire
come si genera o modifica il pattern di diffrazione.

Vediamo però prima esempi reali come quello della ricostruzione del Silicio [100] [slide 27/41]. E’ il caso di una
ricostruzione dove vediamo che si passa da simmetria quadrata a rettangolare. A causa della formazione di questi
dimeri si ha il raddoppiamento della distanza ripetitiva (vettore di cella) in una direzione (nella direzione di formazione
dei dimeri), mentre nell’altra direzione le cose non cambiano e quindi la nostra cella ricostruita sarà (1x2). Questo è
vero nel caso in cui vado a tagliare lungo la faccia [100]. Se vado a tagliare lungo altre superfici vedremo che la
situazione sarà molto diversa come il pattern finale che otterrò [slide Si[111]].

L’STM, misura un valore di corrente fra punta (sonda) e campione, che dipenderà dalla loro distanza reciproca.
Tradurrò quindi le variazioni di corrente in variazioni di distanze e quindi riuscirò determinare la topografia del
campione. La corrente passa per effetto di una differenza di potenziale fra punta e campione. Quest’ultimo quindi
essere conduttore. La scansione da una vera immagine degli atomi come sono? NO, quello che io vedo è sempre
un’immagine della mia superficie. Devo stare ben attento a interpretare correttamente il segnale che io ottengo e cioè
un segnale di corrente. Che va da dove a dove? Dipenderà dalla differenza di potenziale, quindi da qual è il polo
positivo e quello negativo. Se la mia punta è positiva e il mio campione negativo, gli elettroni andranno dal campione
verso la punta. Cambio la polarità e si inverte il flusso di elettroni. C’è un’esatta specularità in queste due cose? NO!
Nel caso di campione negativo e punta positiva, gli elettroni proverranno da orbitali pieni del mio campione e
andranno a finire in orbitali vuoti della punta (Pauli deve essere sempre verificato). Se inverto la polarità, l’elettrone
passa dalla punta al campione e va a finire dove? Negli stessi punti di prima? NO perché sono gli orbitali pieni e quindi
andrà in orbitali vuoti. Questo ci dice due cose: in primo luogo quello che vediamo non è la fotografia fisica
dell’atomo ma andiamo a vedere la distribuzione di densità elettronica attorno all’atomo. In alcuni casi coincide
esattamente con posizione geometrica dell’atomo stesso mentre in altri casi si verifica dissimmetria. Infatti
invertendo la polarità, nell’immagine vediamo che la disposizione di “buio e di luce” cambia. In un caso stiamo
guardando orbitali pieni e nell’altro guardiamo orbitali vuoti e non abbiamo così simmetria d’immagine se
invertiamo la polarità in una misura rispetto all’altra. [slide 32/41] Quindi quando si guardano tutte queste tecniche
di visualizzazione - che non sono mai di visualizzazione diretta - bisogna interpretare correttamente il segnale che si
legge (anche nel SEM, ad esempio, bisogna stare attenti, a volte si ha contrasto topografico e in altre quello
composizionale). Nell’AFM ad esempio sarà ancora diverso perché esso risente di forze interatomiche.

Perché quella figura in [slide 32/41] mi evidenzia la formazione di dimeri (quell’asimmetria)? Perché se noi avessimo
situazione omogenea, non distingueremmo più i due diversi casi (punta positiva o campione positivo) perché
avremmo uguale distribuzione nello spazio di orbitali pieni e vuoti. Nel momento in cui noi avviciniamo due atomi e
formiamo un dimero, l’accumulo di carica si localizza sul dimero e quindi abbiamo asimmetria di immagine nelle due
fotografie.

Molto più interessante storicamente è il caso della faccia del Si [111] (7x7). Questo è primo grande successo ottenuto
dalla microscopia STM. In questo caso vediamo che la ricostruzione è molto complessa. Per il Si[111] mi aspetterei un
reticolo esagonale (1x1). I dati sperimentali mi dicono che l’unità ripetitiva in realtà non è compatibile con una cella di
dimensioni pari alla (1x1). [slide 33/41]. I dati dei raggi X mi dicono che il dato sperimentale è compatibile con una
struttura che ha delle dimensioni che sono sette volte più grandi in entrambi le direzioni, ma sempre di tipo
esagonale. Il problema è che all’interno di una struttura del genere ci sono molti atomi. Se ne ho due posso ipotizzare
abbastanza facilmente cosa succede, ma qui quale sarà la situazione che minimizza l’energia quando ho 49 atomi
all’interno della mia cella? Ci sono voluti 30 anni per capirlo. I raggi X non sono stati sufficienti per mettere la parola
fine a questo quesito perché per quanto possa essere raffinata questa tecnica porta solamente a definire delle possibili
strutture che possono essere compatibili con la figura di diffrazione osservata. Ma possono essercene diverse di
strutture che sono compatibili (con diversi gradi di attendibilità) alla struttura reale!!!! Capiamo quindi che
soprattutto nel caso di una struttura molto complicata, non c’è stato mai modo di determinare quale fra i modelli
disponibili proposti fosse quello più attendibile. In [slide 34/41] i punti più luminosi di altri rappresentano un segnale
60 Appunti secondo parziale Caratterizzazione 2013/14
Umberto Maria Ciucani

più forte e quindi la distanza punta campione è più piccola e quindi gli atomi che si trovano in quelle posizioni saranno
sopraelevati rispetto al piano sottostante. Vediamo che non ho tutti “atomi” alla stessa quota ma solo 6 per parte
(6+6) sporgenti: li chiamo ADATOMI. Mettendo insieme tutte le informazioni ottenibili dalle varie tecniche viene fuori
il modello di struttura in [slide 35/41]. Ai vertici di questo rombo sono state lasciate delle vacanze, ben visibili
nell’immagine tramite il loro buco (nero). Posso notare anche che per esempio, lungo i bordi, si sono andati a
formare dei dimeri. Se ne sono formati 3 per lato (3 per 4=12 verso l’esterno e 3 fra i due triangoli). Dal punto di vista
energetico io sono partito con 49 atomi (49 dangling bonds) e ora invece quanti ne ho in questa nuova situazione? Ho
12 adatomi tutti all’interno della cella. Un adatomo è un atomo che tre valenze le ha saturate con gli atomi saldi
sotto e ognuno di questi adatomi porta quindi 1 dangling bond. In totale sono quindi 12 dangling bond rimanenti.
Ho una vacanza nei vertici del rombo ma siccome sono 4 condivisi fanno 1. 12+1=13. Poi se vado a guardare bene
l’immagine, lo si vede meglio guardando la sezione (in quota), vediamo che ci sono all’interno di ognuno di questi
triangoli, tre atomi che sono rimasti nella posizione originaria, nel piano originale. Quindi anche loro tre si portano
dietro un dangling bond. Ne abbiamo 3+3=6. Quindi 13+6=19 dangling bond.

Questa è una delle strutture stabili per il sistema; ne esistono altre a diverse situazioni ambientali di T e P.

Il fatto che ci sia la mancanza di un atomo nel piano implica che ce ne sia uno nel piano inferiore che porta un dangling
bond. I dimeri non portano i dangling bond.

NB. Si[100] e [111]: ricostruzioni completamente diverse!!

- Rilassamento o Ricostruzione dei Semiconduttori

Un altro esempio abbastanza comune è quello del GaAs, semiconduttore. Ci dovremmo aspettare ricostruzione ma in
realtà se vado a guardare GaAs [110] la sezione che io ottengo non mi da ricostruzione ma rilassamento. Perché?
[slide 37/41] Sono solamente cambiate le distanze in verticale. I pallini bianchi si sono separati dai neri, un o più in alto
e uno più in basso. Mantenendo stessa simmetria. Hanno formato due specie di piani. I pallini bianchi e quelli neri
sono gli atomi di Arsenico e di Gallio. In questo caso non abbiamo più stesso elemento ma atomi diversi con
elettronegatività diverse e allora entra in gioco l’altro motivo che porta a modificare le interazioni che si hanno.
Perché sicuramente avendo l’As un’elettronegatività maggiore del Ga, la distribuzione di carica si accentrerà
sull’atomo di As. Questo fa sì che si crei un’asimmetria nella distribuzione di carica che introduce nuove forze che
possono modificare la posizione finale di equilibrio.

Rilassamento o ricostruzione non è qualcosa che posso determinare a priori ma qualcosa che dipende da situazione a
situazione e tiene in considerazione principalmente i fattori di ridistribuzione di carica e forze agenti. Come l’GaAs si
comportano altri materiali come semiconduttori simili binari della famiglia 3-5. Combinazione di elementi del terzo e
quinto gruppo. Se però noi prendiamo GaAs e lo consideriamo lungo la faccia è [100], in questo caso la superficie reale
non rilassa ma ricostruisce. Perché l’esposizione degli atomi è diversa rispetto al caso precedente ed è più conveniente
una ricostruzione sebbene complicata ( (2x8) centrata ).

Altri esempi dove entrano in gioco sia gli effetti di ridistribuzione di carica che di nuove forze agenti sono quelli degli
ossidi: biossido di Titanio che in una certa direzione ha una certa ricostruzione mentre in altre condizioni come ad
esempio la [110] dà ricostruzione (1x2). [slide 39/41]. Altro tipico caso di ricostruzione dei metalli e che se vogliamo
è controesempio (perché abbiamo detto che i metalli di solito rilassano), è quello delle superfici [110] di metalli FCC
come Au o Pt. La struttura che ci aspetteremmo per FCC [110] è cella rettangolare [slide 41/41] mentre quello che si
verifica è una ricostruzione a fila mancante perché è come se mancasse una fila nel mezzo e quindi la distanza di
ripetizione raddoppia e quindi è una ricostruzione (1x2).

Vediamo ora casi più semplici di strutture più semplici utili per esercizi. DISCUSSIONE SERIE POWERPOINT [esempi
reticoli]

Ulteriore informazione quantificabile in situazione ordinata ottenibile in caso di adsorbimenti: RICOPRIMENTO DI UNA
SUPERFICIE. Prima ovvia definizione è quella di rapportare il numero di atomi che sono presenti come specie
adsorbite rispetto al numero di atomi che ho nel substrato. Questo discorso ha senso se mi rifaccio ad area/superficie
comune e ben definita nei due casi. Devo adottare stessa cella per substrato e ricoprimento. Mi focalizzo su di una
Appunti Caratterizzazione 2013/14 61
Umberto Maria Ciucani

conveniente cella unitaria (quella del sovrareticolo nella [silde 2 esempi reticoli] ) e conto quanti sono il numero di
atomi adsorbiti rispetto al substrato.

Un altro metodo alternativo per calcolarlo è riferirsi alle aree delle celle. Quindi per esempio posso fare rapporto fra
area cella del substrato e quella del sovrareticolo moltiplicata però per il numero di specie adsorbite:

Ci sono casi in cui un modo è più comodo dell’altro.

Ni [100] ora ossigeno è come in [slide 4 esempi reticoli] e segue quanto lì scritto. Per quanto riguarda la posizione
delle specie adsorbite possiamo dire che è adsorbito sui vuoti di simmetria 4. Nell’ultimo caso la disposizione è a
ponte [slide 5 esempi reticoli].

Tipica domanda d’esame sarà, avendo disegnata una certa struttura, dovremo riconoscerla in termini di mutazione,
ricoprimento e pattern di diffrazione atteso. Potremmo però avere una domanda di tipo opposto e cioè ci viene data
una notazione e ci viene chiesto di rappresentarla.

MANCANO ESERCIZI ULTIMI 15 MINUTI DEL 22.5.2014 (si parla di radice di dieci di FCC e di ossigeno adsorbito)

27.05.2014

Fare riferimento a pacchetto slide [fattore di struttura].

Un’onda è caratterizzata da un’ampiezza, frequenza, lunghezza d’onda e fase. La fase è il valore che la mia onda
assume inizialmente. E’ chiaro che conoscere la fase, quando devo andare a sommare l’intensità delle onde è
fondamentale. Questo è quello che è alla base dei concetti di interferenza costruttiva e distruttiva. La condizione per
avere interferenza costruttiva è che la differenza di fase fra le onde che vado a sommare sia nulla o che sia pari a un
numero intero di lunghezze d’onda. Se traslo di una quantità esattamente pari alla lunghezza d’onda l’onda, ottengo la
stessa situazione. Perché questo fenomeno fisico richiede che ci sia regolarità fra i centri diffusori? Siccome la
differenza di fase sarà legata alla differenza di cammino che le diverse onde fanno, se ho distribuzione casuale dei
centri diffondenti avrò allo stesso modo distribuzione casuale delle fasi e quindi mediamente avrò tante onde tutte
sfasate e quindi l’ampiezza risultante non sarà mai la massima possibile. Solo nel caso in cui i miei centri diffusori sono
disposti con regolarità ho una precisa relazione geometrica fra le traiettorie che i diversi raggi compiono quando
vengono diffusi in una certa direzione che mi descrive l’intensità risultante nelle zone a valle dei centri diffusori.
Questo è il motivo per cui la diffrazione è tipicamente usata per studiare cristalli.

Che cosa uso per fare diffrazione? La legge di Bragg ci dice che le distanze tipiche del nostro reticolo che vogliamo
andare ad analizzare devono essere dello stesso ordine di grandezza della lunghezza d’onda. Perché avvenga
diffrazione di luce visibile dovrei avere distanze fra i centri diffusori dell’ordine del micron, distanze molto più grandi di
quelle interatomiche. Nel caso dei cristalli l’analogo della spaziatura fra le fenditure è il passo reticolare e cioè la
distanza fra due centri diffondenti che sono dell’ordine degli Angstrom. Quindi devo utilizzare radiazione con
lunghezza d’onda dei raggi X perché è confrontabile con Angstrom.

Posso utilizzare altre cose? Si perché io so che quando vado ad ordini di grandezza molto piccoli nelle grandezze
metriche, la materia e la radiazione si comportano in modo analogo e quindi, considerando particelle molto piccole,
posso associare loro un comportamento ondulatorio e quindi una corrispondente lunghezza d’onda data dalla
relazione di De Broglie. Per esempio io posso usare elettroni ma anche altre particelle fondamentali come neutroni.
Quando parlo di tecniche di diffrazione so che le posso attuare in modi diversi. I principi fondamentali sono gli stessi
sia per le onde sia per le particelle (assimilabili a onde).

Ci saranno casi in cui sarà più utile usare un certo tipo di diffrazione rispetto ad un altra.
62 Appunti secondo parziale Caratterizzazione 2013/14
Umberto Maria Ciucani

Qual è l’effetto della diffrazione? Quello di non avere della luce su tutto lo spazio dello schermo dove osservo il
fenomeno ma solo delle zone molto luminose alternate a zone buie; ciò dipende dalle proprietà fisiche del mio
reticolo. Ecco allora che se sono capace di leggere la figura di diffrazione ottenuta, sono capace di ripercorrere il
percorso all’indietro e a risalire alla struttura cristallina che mi dà quella figura di diffrazione (reticolo). Ottengo info su
spaziatura dei siti ma anche sulla simmetria, in primo luogo, del tipo di cella che mi definisce il cristallo e quindi risalire
al reticolo di Bravais corrispondente.

- Sorgenti che possiamo usare:

RaggiX: lunghezze d’onda molto piccole (ordine degli A), fotoni debolmente interagenti con la materia, ci aspettiamo
che la radiazione sia penetrante e che lo scattering possa avvenire anche dentro al materiale (bulk). L’informazione
che otterrò sarò allora tipica del bulk del mio materiale e dei suoi strati profondi.

Conoscere la struttura del bulk può non voler dire conoscere la struttura della superficie: può essere diversa. Allora
abbiamo bisogno di una tecnica di diffrazione che sia sensibile a questa diversità. Devo allora cambiare la mia sorgente
con una che sia più interagente col materiale e quindi che sondi parti di materiale superficiali. Userò allora elettroni.
Se uso elettroni con opportuna energia tale per cui, usando la relazione di De Broglie, ottengo consoni valori di
lunghezza d’onda. Facendo così avrò interazione solo con gli strati superficiali e quindi potrò distinguere
l’informazione del bulk (XRAYS) e della superficie (ELETTRONI). Potrei usare i raggi X anche per indagini superficiali se
io fossi capaci di aumentare la loro interazione. In realtà ci sono delle tecniche speciali in cui si riesce a fare questo.
Come faccio a rendere molto poco penetrante la mia radiazione? La invio radente alla superficie e quindi limito la
capacità di penetrazione perpendicolarmente al materiale. Per essere veramente superficiale questo angolo radente
dovrebbe essere più piccolo di 1 grado. Ho bisogno di tecniche speciali. Se volessi far penetrare più in profondità i
miei elettroni nel campione dovrei però averli ad un’energia molto maggiore (1MeV-50keV) e il campione dovrebbe
essere sottile dai 100 ai 100 nm.

La relazione di De Broglie è generale e se ho masse molto piccole posso pensare di usare altri tipi di radiazione come
i neutroni. Essi hanno massa molto più grande degli elettroni. Avrò velocità diverse ma posso comunque sia ottenere
lunghezze d’onda sufficienti per la diffrazione. La differenza fondamentale che io ho fra elettroni e neutroni è che gli
elettroni hanno carica mentre i neutroni no. Anche i neutroni però dovranno però interagire con la materia, solamente
che il tipo di interazione sarà diversa. Non sarà di tipo coulombiano. L’interazione avverrà via SPIN. Anche i neutroni
sono molto penetranti e anche loro danno informazioni su struttura di bulk.

I raggiX hanno anche loro delle limitazioni, principalmente è la loro capacita di essere poco diffusi dall’interazione
con atomi leggeri. Per atomi molto leggeri la distribuzione di carica elettronica all’interno dell’atomo è molto piccola e
quindi la capacità di scattering è molto bassa. Quindi la diffrazione di materiali leggeri coi raggiX non è cosa facile. Gli
idrogeni non li vedremo mai. La diffrazione di materiali polimerici, ad esempio, si fa sempre ma con alcune limitazioni.
Per esempio l’utilizzo dei neutroni diventa utilissimo tutte le volte in cui dobbiamo fare analisi di materiali leggeri per i
quali la sensibilità dei raggiX non è sufficiente. Questo ci dice che c’è tutto un campo di applicazione per la diffrazione
di neutroni. Il punto è che avere una sorgente di raggiX è facile mentre invece averne una di neutroni è più difficile.
Questo tipo di tecnica viene riservata a casi in cui realmente serve (di nicchia).

- Descrizione del fenomeno della diffrazione

Ho due piani cristallografici: gli atomi rappresentano centri di diffusione, la radiazione viene parzialmente riflessa e
parzialmente trasmessa. Quando il detettore sommerà la radiazione riflessa da tutti i piani che appartengono alla
stessa famiglia di piani avrò condizione di interferenza costruttiva se ho differenza di cammino pari a un numero
intero di lunghezze d’onda. Differenza di cammino è ABC nella [slide 10/37 fattore di struttura]. 2 volte la distanza
interplanare tipica per il seno dell’angolo opposto. Questo deve essere uguale a un numero intero di lunghezze
d’onda.

Lo scattering coerente dei raggi X è responsabile degli effetti di diffrazione. Gli elettroni diventano sorgenti
secondarie di radiazione X avente stessa lunghezza d’onda della radiazione incidente.
Appunti Caratterizzazione 2013/14 63
Umberto Maria Ciucani

Il metodo appena esposto (riflessione) è un metodo parzialmente corretto. Il risultato ottenuto è corretto ma, questo
risultato l’abbiamo ottenuto andando a sommare delle onde come se fossero riflesse (riflessione alla Bragg). In realtà,
il fenomeno descritto di diffusione non è fenomeno di riflessione. Allora, in realtà, questo è un caso in cui si usa un
modello molto semplificato e parzialmente non corretto, che però porta a risultato giusto. Noi vedremo che la legge di
Bragg si può ricavare facendo trattazione rigorosa esatta del fenomeno fisico (diffusione alla Laue) e che c’è
corrispondenza biunivoca fra legge di Laue e legge di Bragg, da una si può passare all’altra. Quindi si può utilizzare
modello semplificato della riflessione alla Bragg. Bragg ha limitazioni: unica informazione che mi dà Bragg è (entrano
in gioco spaziatura fra famiglie di piani e la direzione in cui si ha formazione del fascio luminoso) sulla simmetria del
mio sistema. Lambda lo conosco, ϑ lo misuro e l’incognita rimane d: spaziatura interplanare. Se sto guardando il
riflesso che corrisponde a certa famiglia di piani, l’informazione che ricaverò è d.

Prendiamo per esempio un ortorombico, perché voglio avere lunghezze diverse. Consideriamo le famiglie di piani (3
famiglie fondamentali) [100], [010] e [001]. Se mi metto in una certa direzione e scrivo la relazione di Bragg, dovrò
mettere in pedice al d la famiglia di piani.

RISOLVERE UNA STRUTTURA VUOL DIRE APPLICARE LA LEGGE DI BRAGG A TUTTI I RIFLESSI DELLE FAMIGLIE DI
PIANI.

In questo modo risalgo a tutte le distanze interplanari che mi interessano e quindi alla mia struttura cristallina del
materiale.

Questo passo di associare i valori di ϑ per cui io osservo radiazione luminosa, alle famiglie di piani che li hanno
generati, ossia attribuirgli un tripletto di indici di Miller, va sotto il nome di indicizzazione del diffrattogramma. Il
diffrattogramma è il dato sperimentale ottenuto. Per poter conoscere la struttura, la prima cosa che dovrò andare a
fare sarà attribuire gli indici di Miller a quella determinata macchia luminosa perché questo mi permetterà di risalire ai
parametri reticolari di interesse (parametri reticolari della cella).

La legge di Bragg mi dice che se io considero la posizione delle mie macchie, ϑ mi individua la direzione dove ho
interferenza costruttiva. Mi rendo conto che la posizione delle macchie e cioè il seno di ϑ, è inversamente
proporzionale alle distanze caratteristiche interplanari che verificano la legge di Bragg. La posizione delle macchie
luminose che io vedo, non è direttamente proporzionale alla struttura cristallina che io devo determinare, ma c’è una
relazione di proporzionalità inversa. Se ho grossi valori di ϑ corrispondentemente devo avere piccoli valori di d.
Questo mi dice subito che l’immagine di diffrazione che io ottengo non è l’immagine del reticolo reale che l’ha
prodotta ma è un’immagine legata ai reciproci delle distanze caratteristiche. L’immagine di diffrazione è un reticolo
a sua volta che non è reticolo dello spazio reale ma sarà reticolo dello spazio RECIPROCO. Data una relazione ben
precisa io posso sempre risalire da reticolo reciproco a reticolo reale. Immediata conseguenza di questo fatto è [slide
11/37]. Nella prima immagine in alto vedo che sempre per proporzionalità inversa passo da rettangolo sdraiato a
rettangolo appoggiato su lato corto.

L’immagine che io osservo non è fotografia esatta di quello che studio ma è un dato sperimentale legato a quello
reale del campione tramite relazioni di proporzionalità inversa.

Seconda osservazione per diffrazione di elettroni: posso cambiare lunghezza d’onda della radiazione incidente (energia
elettroni incidenti). Per i raggi X ci vorrebbe un’altra sorgente mentre per gli elettroni basta cambiare semplicemente
la loro energia (differenza di potenziale applicata diversa). Rendo più energetici gli elettroni che avranno quindi
lunghezza d’onda minore. Succede quindi che la posizione delle macchie, essendoci una relazione di diretta
proporzionalità con la lunghezza d’onda, si avvicinano. La posizione delle macchie nel pattern di diffrazione dipende
anche dall’energia del fascio incidente quindi. Può essere una cosa utile perché aumento il numero di informazioni
che ottengo e allora può essere più facile studiare e risalire alla natura del reticolo che ha generato questo pattern di
diffrazione.

L’accumulo di luce al centro è l’immagine della sorgente. Ultima osservazione da fare sulla base della legge di Bragg
è che n è numero intero e può assumere valori negativi o positivi e quindi mi aspetto di vedere un pattern di
diffrazione simmetrico rispetto allo 0. Già guardando solamente come è verificata la relazione di Bragg, determino le
più essenziali caratteristiche di un esperimento di diffrazione.
64 Appunti secondo parziale Caratterizzazione 2013/14
Umberto Maria Ciucani

[Slide 12/37]: Si[111] immagini di diffrazione. Ci si è resi conto che la struttura del silicio ricostruito non poteva essere
1x1 perché se così fosse stato, ci si sarebbe dovuti aspettare delle distanze interatomiche di un certo tipo che nel
reticolo reciproco non sono però mai state osservate. Le distanze che si osservano sono lunghe 1/7 rispetto a quelle
che mi aspetterei e quindi vuol dire che nel reticolo reale la cella è 7 volte più grande. Vediamo che se cambiamo
energia degli elettroni incidenti, aumentandola, la spaziatura nel reciproco diventa più piccola.

Lo spazio reciproco viene anche chiamato SPAZIO K. Scopriremo che ciò ha significato fisico reale.
Cos’è k? Quando consideriamo una radiazione elettromagnetica, k è il vettore d’inda (modulo di k = 2 pigreco su
lambda) che rappresenta la direzione lungo la quale la radiazione propaga. La dimensionalità del vettor d’onda (1/
lambda quindi 1/1D (2pigreco/lambda) è quella di un reciproco di una lunghezza e quindi la dimensionalità giusta
per rappresentarmi gli elementi che sono nello spazio reciproco.

Abbiamo due modi di riportare il risultato di un analisi diffrattometrica. Il primo è quello di visualizzare dei punti
luminosi su di una lastra fotografica e il secondo quello di analizzare un grafico dove abbiamo l’intensità in funzione
di una variabile angolare (2𝝑). Sono due modi equivalenti di rappresentare un diffrattogramma. Tramite legge di
Bragg risaliamo alle distanze tipiche caratterizzanti quel reticolo e quindi posso risalire a forma e dimensioni cella
unitaria.

Non ho però soltanto il dato del segnale luminoso in funzione dell’angolo, ho anche un altro dato: quello
dell’intensità.

- Come si usa il dato d’intensità e quali informazioni ci dà

Da cosa è determinata la diversa intensità? Partiamo da un’osservazione sperimentale: andiamo a confrontare i


risultati di due strutture identiche da un punto di vista di simmetria che sono NaCl e KCl. Stessa struttura cristallina. Le
dimensioni del Potassio (Na) sono maggiori quindi avrò stesso reticolo ma spaziature più grandi. Se questo è vero,
secondo Bragg, mi aspetto di trovare dei picchi a valori degli angoli più piccoli e allora vado a confrontare i due
diffrattogrammi. A ognuno di questi picchi vediamo associata la tripletta di indici di Miller. Vediamo che i
diffrattogrammi corrispondono nella forma, riportano quello che abbiamo appena detto (i picchi sono a valori di 𝜗 più
piccoli) ma se andiamo a vedere nel dettaglio le intensità ci rendiamo conto che i due sistemi che sono identici dal
punto di vista della simmetria hanno delle intensità relative diverse. [slide 14/37]. Anche strutture apparentemente
identiche hanno riflessi sull’intensità dei picchi. Allora capiamo che l’intensità qualche informazione in più ce la deve
dare e permette di distinguere la diversa natura dei diversi atomi.

- Da cosa è data l’intensità di un riflesso?

E’ la conseguenza del fatto che io in quella direzione sono andato a sommare tutte le onde diffuse da tutti i centri
diffondenti del mio cristallo e quindi tutti i punti reticolari che ho considerato. Per fare la somma esatta io devo
conoscere le ampiezze delle onde diffuse da ogni singolo elemento. Il meccanismo è di diffusione e quindi l’atto
fondamentale del processo di scattering avviene da parte dell’elettrone. Io ho raggi X che vengono diffusi
dall’elettrone. La fisica dello scattering mi permette di determinare una precisa formula che dà l’intensità diffusa in
una certa direzione. Questa intensità diffusa dipende in un modo abbastanza complicato dalla direzione però vediamo
che tutti i valori di 𝜗 sono permessi e quindi avrò una diffusione più o meno continua in tutte le direzioni dello spazio. Il
mio centro diffondente però non è solamente un elettrone, ma un atomo dotato di molti elettroni e quindi io dovrò
andare a comporre l’azione di scattering di tutti gli elettroni che costituiscono il mio atomo. In maniera molto
schematica, per esempio, dico che questa è la distribuzione elettronica all’interno del mio atomo = avrò densità di
particelle distribuita nel volume dell’atomo. Siccome la lunghezza d’onda dei raggi X incidenti è confrontabile con
queste distanze cosa succede? Immaginiamo di avere due elettroni uno ad ogni estremo dell’atomo (circonferenza)
[slide 17/37]: ognuno di questi diffonde con la relazione della slide di prima in una certa direzione prescelta. La
radiazione diffusa dai due diversi elettroni presenterà una seppur piccola differenza di cammino ottico fra i due
raggi. Quindi anche all’interno della diffusione del singolo atomo c’è un discorso di interferenza costruttiva che mi
porta diciamo a dire che la mia interferenza costruttiva totale sarà determinata anche dalla forma e dalla densità
elettronica dell’atomo diffondente. Se considero la direzione di propagazione incidente, questo è l’unico caso in cui
non ho differenza di cammino e quindi mi aspetto di vedere massimo di intensità nella direzione di propagazione
incidente. Quindi io mi aspetto di avere un’interferenza esattamente costruttiva solo nella direzione di propagazione
Appunti Caratterizzazione 2013/14 65
Umberto Maria Ciucani

della radiazione e quindi mi aspetto di avere massimo di intensità, in quella direzione. Poi la capacità di diffondere
effettivamente la radiazione dipenderà da come è fatto l’atomo e quindi da come è distribuita la carica, se ne ho
poca o tanta e questo mi dice in particolare che non tutti gli atomi diffonderanno la radiazione nella stessa maniera.
Non saranno tutti altrettanto efficaci nel diffondere la radiazione. Definisco allora un fattore che mi descrive proprio
la capacità di diffondere la radiazione dell’atomo stesso e lo chiamo FATTORE DI SCATTERING ATOMICO. Mi dice
quanto bene quell’atomo diffonde la radiazione rispetto alla diffusione della stessa onda da parte di un solo
elettrone. Quindi definirò in primo luogo dei fattori di scattering atomico che dipenderanno dal tipo di atomo che ho
presente e che andranno ad influire sull’intensità. Tanto più il fattore di scattering atomico è grande, tanto più mi
aspetto di avere un’intensità grande. Se voglio dare una definizione esatta di questo fattore di scattering atomico,
siccome ho detto che la mia “pittura” degli elettroni attorno al nucleo è troppo approssimativa, devo considerare una
distribuzione di carica atomica attorno al nucleo che va integrata sull’intero volume e che tiene in conto anche la
dipendenza angolare che è data dal fattore di scattering del singolo elettrone. Nel caso in cui l’angolo d’incidenza sia
uguale a 0 il fattore di scattering atomico varrà Z (numero atomico). Gli atomi molto leggeri di idrogeno
scattereranno niente mentre un atomo molto ricco di elettroni scattererà molto. Poi ho dipendenza angolare
complicata di questa funzione e se andiamo a rappresentarla in un grafico vediamo che i diversi elementi hanno
fattori di scattering diversi. E’ una funzione dipendente dall’angolo di incidenza è decrescente con massimo in 𝝑=0.

La cosa interessante da capire è che l’efficienza dello scattering e quindi poi l’intensità del mio massimo di diffrazione
saranno legate a questa capacità del singolo atomo. Altra osservazione che si può fare guardando il grafico di [slide
18/37] è che, a prescindere dalla posizione iniziale, molto rapidamente per valori dell’angolo sufficientemente grandi
si ha diminuzione significativa del segnale. Ciò vorrà dire che in linea di principio, se pensiamo ai picchi dati dalla
legge di Bragg, se pensiamo ai picchi di ordine successivo al primo questi ultimi possono avere valori di 𝜗 ben grandi.
In realtà sperimentalmente non riusciamo mai ad osservare valori di 𝝑 superiori a 50-60 gradi proprio perché
l’intensità intrinseca dello scattering decresce molto rapidamente. Quindi anche se in teoria potremmo osservare
picchi di ordini anche molto maggiori al primo, ciò ci è impedito dall’andamento dell’intensità dello scattering
atomico. Questo ci spiega perché guardando i diffrattogrammi non andiamo mai a valori di 𝝑 superiori a 50-60
gradi. Questo limita i dati ottenibili.

In realtà, la risultante complessiva della nostra onda diffusa in una certa direzione non è neanche determinata
semplicemente dall’atomo perché chi determina alla fine il pattern di diffrazione è la disposizione degli atomi
all’interno della cella unitaria. Questo è l’elemento finale da considerare. QUESTO DISCORSO LO STIAMO FACENDO
COI RAGGI X. Determinata la capacità di scattering del singolo atomo ora dobbiamo combinare la capacità di
scattering dei diversi atomi all’interno della stessa cella. Perché anche se ammettiamo di avere atomi uguali nella
cella con stesso fattore di scattering, siccome gli atomi assumono posizioni diverse all’interno della cella, vuol dire che
la radiazione diffusa da ognuno di questi atomi compirà cammini diversi e quindi io dovrò andare a sommare le
radiazioni diffuse da tutti i singoli atomi posti nella mia cella unitaria.

Per capire cosa succede, consideriamo un caso semplice: FCC e SC. Stesse dimensioni della cella, ma ho diversa
distribuzione dei miei centri diffusori all’interno della cella stessa. Consideriamo per esempio i piani [001]. Mettiamoci
in condizioni tali per cui se consideriamo | Vedete questa è la prima struttura, quella che aveva le facce centrate in
questa direzione qua | Questo è il mio raggio incidente, legge di Bragg, viene parzialmente riflesso in questa direzione
qua però ho la stessa cosa da parte del filare sotto che | Questa è la mia famiglia di piani [001] caratterizzata da
distanza interplanare di questo genere qua. La condizione di interferenza costruttiva mi dice che questa differenza di
cammino deve essere pari a un n*lambda, diciamo pari a lambda (primo riflesso) e supponiamo di essere in queste
condizioni per cui io osservo massimo di intensità in corrispondenza di questa situazione qui. Adesso vediamo cosa
succede nel caso del corpo centrato. Avrò sempre i due raggi che sono in fase e che quindi darebbero un massimo di
intensità luminosa. Però succede che in realtà, a metà strada, siccome è FCC ho una serie di centri diffusori anche a
metà strada, a una distanza uguale a un mezzo di quella interplanare fra le basi del quadrato. Quindi la mia radiazione
verrà diffusa e riflessa anche da questo piano. Siccome la differenza di cammino, qui sarà pari a lambda/2, se prima
era pari a lambda, vuol dire che quelle due onde sono esattamente in una condizione di interferenza distruttiva.
Stessa cosa succede fra 3 e 2. Quindi la risultante di questo sistema qua in questa direzione qual’è? In questo caso,
invece di avere un massimo, avrò un minimo! Spettro riflesso, simile la struttura, qui sarebbe verificata la
condizione di Bragg ma per una questione di interferenza distruttiva e sfasamento reciproco delle diverse onde
diffuse dagli atomi disposti all’interno della mia cella con una certa simmetria ottengo un risultato completamente
66 Appunti secondo parziale Caratterizzazione 2013/14
Umberto Maria Ciucani

distruttivo. Questo mi dice che io ho, a seconda della simmetria della mia cella, la possibilità che alcuni dei riflessi di
Bragg si annullino. Quindi vediamo che ancora una volta la simmetria ha delle implicazioni sull’intensità. [slide 20/37]

Quando ho il mio corpo centrato, la blu e la rossa sono esattamente in fase mentre la verde è sfasata distruttiva e
quindi l’intensità risultante è nulla. Questo mi dice che il nuovo piano che diffonde la mia radiazione a metà strada,
diffonde un’onda sfalsata: in opposizione di fase (essendo a metà della distanza interplanare). Quindi in quella
direzione lì osserverò allora buio invece che luce. Per ogni data particolare struttura cristallina esistono delle assenze
sistematiche perché dovute alla simmetria della cella stessa. Non importa ciò che vado a fare ma se sono in
condizione di mettermi in fase fra i due piani, automaticamente c’è un altro piano in mezzo che interferisce
distruttivamente.

Queste assenze sistematiche sono informazione utilissima perché quando vado a fare l’indicizzazione del
diffrattogramma, se vedo che mancano determinati indici so già attribuire la simmetria di quella struttura
cristallina. Questo discorso, visto qualitativamente, lo si generalizza andando a introdurre il concetto di:

FATTORE DI STRUTTURA

Prima lo avevo chiamato fattore di scattering atomico perché rispecchiava le capacità del singolo atomo di diffondere
la radiazione. Adesso lo chiamo fattore di struttura perché con struttura intendo l’insieme di atomi che costituiscono il
mio sistema cristallino. E’ questo il fattore che mi determina l’intensità finale che io osservo.

Esso è determinato sostanzialmente da due fattori:

1) Fattore di scattering atomico degli atomi presenti


2) Posizione assunta dagli atomi all’interno della cella

Se ho un centro qui ed un altro qua, c’è una distanza finita r che fa sì che la radiazione diffusa da questo punto qui e da
questo punto qui in realtà abbia una differenza di fase ben precisa che porta a una conseguenza sull’ampiezza totale
dell’onda diffusa in quella direzione. Definirò quindi il mio fattore di struttura come il prodotto del fattore di
scattering atomico per un fattore di fase. Dove il fattore di fase ( exp(iφ) ), è proprio la differenza di fase delle due
onde diffuse da questi due diversi punti. Se io ora introduco il mio sistema di riferimento, siccome io esprimo tutto in
unità di parametri di cella (a,b,c), definisco delle nuove coordinate per questo punto che siano delle coordinate
frazionarie rispetto ai parametri di cella: u, v, w definite come x/a, y/b e z/c.

La differenza di fase è proprio legata alla differenza di cammino fra queste due onde qui. E poi siccome ho tutti i
multipli dovuti a tutti i piani di Bragg individuati da quegli indici di Miller, la differenza di fase nella sua forma più
generale, verrà scritta nella seguente forma:

Φhkl = 2π(hu + kv + lw)


U è coordinata frazionaria del mio punto rispetto all’origine. Questa è forma più generale per esprimere differenza di
fase.

Fondamentale è esprimere il fattore di struttura come prodotto di due termini: il fattore di struttura che risente
della natura dell’atomo e un fattore di fase che invece risente della posizione degli atomi all’interno della cella. Ciò
è vero per ogni singolo centro quindi se voglio fattore di struttura globale di una struttura complicata, farò la somma
di tutti i fattori di struttura di tutti gli atomi che sono dentro alla nostra cella. E quindi la definizione più generale del
fattore di struttura è la seguente:

Fhkl=Σ f(n)*exp[2πi(hu+kv+lw)]
Dovrò andare a sommare tutti i contributi interni alla mia cella. Questa (il fattore di struttura) è l’ampiezza risultante
dell’onda totale che viene diffusa in quella determinata direzione; l’ampiezza di un’onda è legata alla sua intensità da
una relazione che è sempre la solita e cioè l’intensità di un’onda è il modulo quadro della sua ampiezza. Quindi
l’intensità che andrò a leggere sul mio pattern di diffrazione, sarà data dal modulo quadro del fattore di struttura.
Appunti Caratterizzazione 2013/14 67
Umberto Maria Ciucani

Se sono capace di costruire il fattore di struttura sono capace di dire qual è il valore dell’intensità che mi aspetto di
misurare.

Qual è l’informazione aggiunta che ho osservando il fattore di struttura? E’ proprio che ho un’informazione su come
sono disposti gli atomi all’interno della cella e quindi sulla simmetria della base.

Noi siamo partiti dicendo che la struttura cristallina è data dall’insieme di un reticolo più una base. La legge di Bragg
mi dà informazioni solo sul reticolo ma non dà informazioni sulla base. Perché le proprietà della base non vengono
esplicitate da nessuna parte nella relazione, è una relazione che risente solo della simmetria del reticolo. Il pattern di
diffrazione reale che osservo dipenderà anche dalla base e cioè da come sono disposti gli atomi all’interno della
cella. Questo è contenuto nel fattore di struttura e quindi nel dato d’intensità. Quindi se io voglio risolvere una
struttura cristallina non solo in termini di simmetria della cella unitaria e di parametri reticolari, non posso non fare
un’analisi di intensità.

In particolare poi, a seconda del tipo di simmetria del reticolo, esistono delle assenze sistematiche per cui certe
famiglie di piani non daranno mai riflessi. La condizione per esempio per cui un FCC dia un riflesso è che gli indici hkl
siano o tutti pari o tutti dispari. Quindi quando farò l’indicizzazione del mio diffrattogramma, guarderò come sono fatti
gli hkl, e se ci saranno solamente triplette con o tutti numeri pari o tutti numeri dispari, questo a colpo d’occhio mi dirà
che quella struttura cristallina sarà FCC. Viceversa se guardo la tripletta e mi accorgo che la somma degli hkl dà
sempre un numero pari allora potrò dire che quella struttura corrisponderà a un BCC. Nel caso più semplice di un SC
non avrò assenze sistematiche perché non ho nulla in mezzo. Il SC è il caso in cui tutti i riflessi che subiscono Bragg
avranno un’intensità diversa da 0.

Noi vediamo solamente il caso del reticolo cubico ma questo ragionamento ci sarà anche per gli altri reticoli. Per
esempio nell’esagonale compatto, esistono estinzioni sistematiche tabulate.

Facciamo il calcolo del fattore di struttura per un BCC. Ho due modi di procedere. Io posso sommare, in maniera
pedissequa, tutti i fattori atomici moltiplicati per i fattori di fase. Devo scrivere la somma di tutti i contributi di tutti i
punti della cella. Gli 8 vertici più l’atomo in mezzo. In realtà però quanti di questi contributi quanti contribuiscono al
fattore di struttura della cella? Non tutti! Ma ad esempio, ognuno degli 8 vertici contribuisce per un ottavo. E li
moltiplico allora questi fattori per un ottavo. Vedere [slide 27/37] . In realtà posso farlo in maniera molto più semplice
non considerando 8 per un ottavo ma solo uno equivalente per simmetria a otto ottavi.

Dalle proprietà degli esponenziali mi ricordo che se m è numero pari, l’esponenziale di (2*pigreco*m*i) vale 1 se invece
m è dispari vale -1.

Se andiamo a esprimere esponenziale in forma trigonometrica lo riscontriamo. Ci rendiamo conto che le assenze
sistematiche vengono fuori dal fatto che se h+k+l è un numero pari, il fattore di struttura vale due volte il fattore di
scattering atomico e quindi abbiamo un massimo d’intensità. Se la somma è dispari, ho un minimo perché F(bcc)=0.

Qui io ho supposto di avere lo stesso tipo di atomo ma potrei avere strutture in cui l’atomo al centro sarà diverso
dagli atomi ai vertici e allora nella formula cambierà il fattore di scattering atomico. Non potrò allora più raccogliere
a fattor comune e avrò ciò che vedo nella [slide 28/37]. In questo caso qui, continuo ad avere le mie regole di
selezione ma siccome i numeri indicatori struttura atomica sono leggermente diversi non avrò più due volte ma
f(a)+f(b) piuttosto che f(a)-f(b).

Capiamo adesso perché due strutture che differiscono nel tipo di atomi componenti la base come NaCl e KCl mostrano
differenze di intensità dei raggi rilevati. L’Na+ e Cl- sono isoelettronici e quindi hanno fattori di scattering atomico
che saranno molto simili. Il KCl ha un K con diametro atomico più grande dell’Na e con molti più elettroni. Quindi
nel momento in cui io vado a fare la differenza nei fattori di scattering atomico mi aspetto di trovare intensità più
grandi poiché differiscono di più.

Anche qui per la struttura dell’NaCl potrei fare calcolo di ognuno moltiplicato per la quantità dell’atomo contenuta
nella cella oppure sfruttare la simmetria e prendere 3 atomi a faccia centrata di coordinate (1/2, ½, 0), (1/2, 0, 1/2) e
(0, 1/2, 1/2) e 1 di coordinate (0,0,0) per gli 8 spigoli. La proprietà caratteristica di un cristallo è contenuta nella cella
unitaria come tutte le informazioni su tutto il cristallo; dobbiamo però concentrarci su ciò che veramente appartiene
alla cella.
68 Appunti secondo parziale Caratterizzazione 2013/14
Umberto Maria Ciucani

Calcolare il fattore di struttura di una determinata struttura implicherà scrivere correttamente il fattore di struttura e
fare una discussione (negli esercizi sarà: discutere il fattore di struttura in funzione dei valori di hkl. Vorrà dire andare
a vedere per quali valori di hkl, il fattore di struttura è diverso da zero, e quale valore assume). Hkl sono relativi ai
riflessi di particolari famiglie di piani.

Viste le strutture di base fondamentali, possiamo applicare questo concetto su strutture più complesse. Come vedo la
struttura cristallina dell’NaCl. Questa scrittura la posso vedere sia come due celle interpenetranti cubiche a corpo
centrato, oppure in maniera più semplice, posso individuarlo come un FCC dove però ad ogni punto reticolare non
associo un solo atomo ma associo una base data dal cloro e dal rispettivo atomo di sodio posto a coordinate ½ ½ ½. La
mia base sarà data da questa coppia di atomi che viene associata a ogni punto reticolare del mio reticolo cubico a
facce centrate. La mia struttura di NaCl la vedo come FCC a cui ho associato una base fatta da un Cloro in questa
posizione e un Sodio in quest’altra.

Il vantaggio di questa cosa qui è che invece di stare a sommare tutti i punti …cati, semplicemente sfrutto il risultato del
mio FCC usato prima ma devo tenere in considerazione che è applicato ad una base che avrà un fattore di scattering
atomico dovuto al cloro nell’origine con fattore di fase pari a 1, più un fattore di struttura associato all’atomo di Sodio
che sta nel punto di coordinate ½ ½ ½, e che quindi ha un fattore di fase pari a questa cosa qui, dove ho semplificato il
2 con ½ delle coordinate. Quindi ho combinato le due cose. Questa è la riscrittura del fattore di struttura del FCC che
abbiamo appena finito di determinare, vado a sostituire qua dentro, continuano a valere le estinzioni sistematiche
determinate nel caso precedente, possono essere non nulli solo nel caso in cui tutti e tre i valori di hkl sono o tutti e
tre pari o dispari. Negli altri casi si annullano i fattori. Nel caso in cui (hkl) sono dispari entra in gioco la natura dei
fattori diversi fra Na e Cl e quindi il valore di f totale risultante sarà molto piccolo anche se non uguale a 0.

I riflessi da cui siamo partiti, come l’[131], ci fa ricadere in quest’ultimo caso. Mi aspetto un’intensità molto piccola
ma non nulla. (facciamo verifica intensità su grafico delle slide precedenti [slide 13 e 14/37]. Dove mi aspetterei
estinzione sistematica, in realtà, ho un piccolo residuo d’intensità.

La cosa difficile da un punto di vista sperimentale qual è? Sembra tutto semplice: io conosco il fattore di struttura e
determino il mio … Peccato che abbiamo risolto ….. diverso. Qual è il mio dato sperimentale? E’ l’intensità. Da cui io
spero di risalire alle informazioni sulla struttura che è incognita. C’è una perfetta reciprocità fra le due visioni. Dato il
fattore di struttura calcolo il dato dell’intensità.

L’intensità è data dal modulo quadro del fattore di struttura e quindi dal prodotto del modulo del fattore di struttura
per il modulo del coniugato dello stesso. Dall’intensità, non posso quinid risalire al fattore di struttura e quindi alla
struttura che mi interessa. Solo se conoscessimo i fattori di struttura in modulo e fase, potremmo determinare la
struttura, dato che le posizioni degli atomi nella cella elementare sarebbero univocamente determinabili. Quindi
perdiamo l’informazione sulla fase.

Dall’intensità possiamo risalire al più, al valore del modulo dell’ampiezza della nostra onda. Quindi ci manca qualche
cosa e ciò è un problema fondamentale della determinazione della struttura dei raggi X. Perché non possiamo
conoscere sperimentalmente la fase. E’ il così detto: PROBLEMA DELLA FASE. Una proteina ha un certo pattern di
diffrazione. Posso risalire alla fase? E’ un problema! Ci sono metodi per farlo, non entriamo nei dettagli, complicati e
specialistici ma è importante che sappiamo che in realtà l’informazione sul dato di intensità mi serve a determinare
la struttura cristallina ma devo risolvere il problema della fase.

In generale il tipo di approccio che posso fare qual è? Se io non conosco la fase però posso ipotizzare delle strutture
di prova che siano compatibili col dato sperimentale d’intensità che ho e attuo poi iterativamente una procedura di
raffinamento. Quindi ipotizzo una certa struttura, mi calcolo il fattore di struttura corrispondente e quindi
l’intensità corrispondente. Confronto i dati sperimentali con quelli teorici proposti. Sono diversi? Ho sbagliato tutto.
Appunti Caratterizzazione 2013/14 69
Umberto Maria Ciucani

Sono simili? Bene sono a buon punto. Ma poi continuo a raffinare la scelta e cioè su quella struttura proposta cambio
leggerment i parametri e vado a vedere se peggioro o miglioro la situazione. Faccio questo processo iterativamente
con metodi basati su algoritmi matematici e raffino la mia struttura fin tanto che la differenza fra parametri calcolati e
parametri sperimentale sarà al di sotto di una certa soglia e allora a quel punto dirò che la struttura sarà
COMPATIBILE CON. Perché nulla mi vieta che ci sia un’altra struttura che mi porti a un raffinamento altrettanto o
similmente buone rispetto alla prima struttura. Questo è ciò che è successo col Silicio [111].

Esistono poi diversi metodi che permettono di aumentare il numero di informazioni sperimentali, proprio per dare
accesso a una struttura di prova sensata su cui poi fare raffinamento.

Col fattore di struttura determino cosa? Quando vado a determinarlo determino la distribuzione di densità
elettronica all’interno della mia cella. Quindi risolvere la struttura vuol dire andare a determinare come si
distribuisce la densità di carica all’interno della cella stessa. Siccome la distribuzione di carica elettronica è legata
alla posizione dei nuclei ecco perché poi ottengo l’informazione su come sono disposti gli atomi. La posizione degli
atomi è mediata dalla distribuzione della carica elettronica. Il mio dato sperimentale è come è distribuita la carica
elettronica ma le due cose vanno di pari passo.

29.05.2014

Vediamo esempi su fattore di struttura. Abbiamo anche accennato a processo di indicizzazione del diffrattogramma
che si osserva. Noi sul diffrattogramma osserviamo bui e luce in corrispondenza di ben determinati valori dell’angolo,
della direzione d’incidenza del raggio e di raccolta dell’informazione. Sappiamo che vale la legge di Bragg. L’andare a
misurare la posizione della macchie, ci dà l’informazione sulle distanze caratteristiche e in ultima analisi i parametri di
cella che caratterizzano il nostro reticolo cristallino. Quindi è necessario che la nostra relazione sia scritta rendendo
esplicita la dipendenza dagli indici di Miller. Ogni famiglia di piani metterà in evidenza una lunghezza caratteristica che
corrisponde alla distanza interplanare. Se conosco un buon numero di distanze interplanari sono in grado di risalire ai
parametri di cella. La cosa fondamentale da imparare a fare è: dato un certo set di spot luminosi che corrispondono a
certi valori dell’angolo, risalire ai parametri della struttura. Per fare questo servono delle relazioni geometriche che
mettono in relazione le distanze interplanari coi parametri di cella, e in questo modo possiamo passare dal dato
misurato alla struttura che dobbiamo ricavare. Noi consideriamo per semplicità casi di reticoli cubici, quindi con tutti i
lati uguali, altrimenti trattazione diventa più complessa ma comunque sia sempre fattibile. In un sistema cubico, la
relazione semplice che io posso scrivere fra le distanze interplanari e i parametri di cella, è data da una relazione del
tipo:
𝑎
𝑑ℎ𝑘𝑙 = 2
√ℎ2 + 𝑘 2 + 𝑙2
dove la distanza interplanare tra 2 piani indici hkl, è legata al parametro reticolare a (unico parametro reticolare) in
questo modo. Nel nostro processo di indicizzazione succederà che troveremo che in corrispondenza delle nostre
macchie luminose potremo associare una tripletta di valori. Qui entrano in gioco le estinzioni sistematiche definite la
scorsa volta. Ci saranno dei casi in cui osserveremo tutte le triplette (SC), altri in cui non troverò presenti tutti gli indici
(FCC o BCC).

Per interpretare i dati sperimentali dobbiamo anticipare qualcosa schematicamente sull’apparato sperimentale
(camera di diffrazione). Mi serve la geometria della camera per interpretare questi dati angolari. Posso pensare a una
disposizione di questo genere qui, col mio campione qui, qui invece la mia sorgente di raggi X. Se i miei raggi arrivano
sul campione e passano non deviati (angolo 0°). Quello centrale sarà il riflesso (0,0), non deviato. Poi ci sarà un
detettore montato su guida circolare. La sua posizione sarà allora variabile da 0 a 360°. La camera è circolare con un
certo raggio. In funzione della posizione del detettore vedrò una serie di bui e di luce. Se sposto il mio detettore ad
una posizione qualsiasi, questa ad esempio, formerà un angolo con la direzione 0,0 che io chiamerò 2𝜗. 2𝝑 perché
data la geometria che io ho scelto per il mio apparato sperimentale, mi accorgo che questa angolo qui è
70 Appunti secondo parziale Caratterizzazione 2013/14
Umberto Maria Ciucani

esattamente 2 volte il valore dell’angolo di incidenza sul campione. Questo ci dice perché molto spesso riportato
sull’asse delle ascisse vediamo il dato 2𝜗 invece che solo 𝜗. Se poi noi dobbiamo andare a ricavare 𝜗 dobbiamo fare
attenzione ai dati che ci vengono forniti.

Data una cella cubica di parametro a incognito. I raggi vengono da sorgente di Mo con lunghezza d’onda di 71pm. Il
raggio della mia camera è pari a 5,73cm. Sperimentalmente si misurano dei segnali luminosi quando la distanza
percorsa dal detettore in millimetri di:

1. 12,1mm
2. 17,1mm
3. 21mm
4. 24,3mm
5. 27,2mm
6. 29,9mm
7. 34,4mm
8. 36,9mm
9. 38,9mm
10. 40,1mm
11. 42mm

Questo vuol dire che il mio detettore si muove di questa quantità su quella traiettoria. Ho immagine luminose per
queste distanze. Ricavare a.

Gli step per arrivare a questo risultato saranno:

1. Fare un’indicizzazione dei massimi


2. Determinare parametro di cella
3. Determinare il tipo di reticolo

La soluzione prevede di partire dalla legge di Bragg:

2𝑑ℎ𝑘𝑙 𝑠𝑒𝑛𝜃 = 𝑛𝜆
Oppure:

𝑛𝜆
𝑠𝑒𝑛𝜃 =
2𝑑ℎ𝑘𝑙
Esprimo il mio seno dell’angolo in funzione dei parametri e allora visto che ho una radice, scrivo la mia relazione al
quadrato e vado a sostituire in quest’ultima.

𝑛𝜆 2
𝑠𝑒𝑛2 (𝜃ℎ𝑘𝑙 ) = ( ) (ℎ2 + 𝑘 2 + 𝑙 2 )
2𝑎
Noto che il primo moltiplicando al lato destro è un fattore costante, l’angolo al lato sinistro si misura, e per ogni dato
misurato esisterà una tripletta di valori di numeri interi che verificano questa relazione. Questo numero (primo
moltiplicando a dx) è una sorta di divisore comune a tutti i valori che io vado a misurare sperimentalmente. Si tratterà
di trovare qual è quel divisore comune per cui io dividendo tutti i dati sperimentali, avrò dei numeri interi. Quando
troverò quel divisore lì, sarò in grado di determinare a e, soprattutto, avrò trovato gli interi corrispondenti ad ogni
valore dell’angolo misurato e quindi, da quel valore dell’intero sarò capace di dire qual è la tripletta che lo ha generato
quindi esplicitare hkl (indicizzazione). La relazione che lega hkl al dato sperimentale è mediata da una costante quindi
se trovo questa costante che divide tutti i miei dati sperimentali dandomi numeri interi, posso poi indicizzare.

Cosa mi serve che non ho direttamente? Mi serve ricavare 𝜗 poiché ho solamente la distanza percorsa dal detettore in
millimetri. La devo tradurre usando la geometria della camera quella lunghezza, nel valore dell’angolo.

La distanza D percorsa dal mio detettore è semplicemente (usando un’approssimazione consentita dalle piccole
misure in gioco):
Appunti Caratterizzazione 2013/14 71
Umberto Maria Ciucani

𝐷 = 2𝜃𝑟
L’angolo è espresso in radianti ma siccome qui devo usare gradi sessagesimali faccio una proporzione.

𝑦 𝑟𝑎𝑑 ∗ 180
= 𝑥°
𝜋
Se io divido tutti i fattori di sen quadro 𝜗 per il fattore comune devo ottenere tutti numeri interi. Siccome c’è errore e
approssimazione non saranno mai esatti ma ragionevolmente approssimati.

Sul tipo di reticolo cosa possiamo dire? E’ cubico ma sappiamo se è SC BCC o FCC? Qui entrano in gioco le estinzioni
sistematiche. Nell’esercizio sopra manca qualche tripletta? Il 7 mancherà sempre perché non si può ottenere come
somma dei tre quadrati. Siccome non manca nessuno possiamo affermare che è SC poiché non ci sono estinzioni
sistematiche. Se tutti pari o tutti dispari gli indici allora sarà FCC. Se la loro somma è sempre pari allora è BCC.

ALTRO ESEMPIO.

Si chiede di indicizzare i piani corrispondenti ai riflessi osservati per angoli di 𝜗 pari a:

1. 9,75°
2. 11,28°
3. 16,06°
4. 18,92°

Anche qui prima cosa da fare sarà calcolarsi il quadrato del seno degli angoli. Dividiamo tutti questi numeri qui per il
più piccolo (i seni).

Vedi esercizi su quaderno.

ESERCIZI SU FATTORE DI STRUTTURA.

Vedi su quaderno.

Dobbiamo tenere in conto che qui abbiamo atomi di tipo diverso. Il nostro fattore di struttura che tiene conto degli
indici hkl che tipo di espressione ha? Quella che abbiamo visto nelle slides.

Io qui devo mettere un sistema di riferimento ponendo origine in un vertice alla base.

Come scrivo il mio F(hkl)?

Quanto valgono questi termini? La cosa più difficile è valutare gli esponenziali. e^0 varrà sempre 1. Tutti gli altri sono
sempre exp(2*pigreco*i* un numero intero). Sappiamo che un esponenziale dove l’argomento è un multiplo pari
intero di i, varrà 1. La somma di due numeri interi possono essere quello che vogliono ma ho sempre davanti il 2
quindi è sempre un numero pari e anche questi varranno 1. Ne ho 8 quindi ecco che ho 1/8 per 8. Ho contributo di 8
oggetti uguali, corrispondenti per simmetria, portano lo stesso tipo di contributo, da dividere però per 8 celle in cui
vengono condivisi (singolo atomo). Nell’altra parentesi invece ho h+k fratto 2. Semplifico il 2 portandolo fuori quindi
mi rimane esponenziale di pigreco i per h più k. Il valore di quell’esponenziale lì dipenderà dal fatto che h+k sia pari o
dispari.

Vuol dire che il valore del mio fattore di struttura dipenderà dai valori specifici di hkl che vado a scegliere. Quindi
quando ci viene chiesto di discutere il fattore di struttura in funzione della famiglia di piani vuol dire andare a
calcolarsi i possibili valori del fattore di struttura al variare di tutti i possibili valori di hkl. Siccome quello che fa a
differenza è il fatto che quell’esponente sia pari o dispari dovrò andare a discutere separatamente tutti i casi.

Se a e b sono uguali ritroviamo il fattore di struttura vale quanto quello dell’FCC per atomi tutti dello stesso tipo. F = a
4 o 0.

Ci può essere chiesto di calcolare relativamente l’intensità del fascio di una certa famiglia di piani, cosa dobbiamo
fare? [114] ad esempio. Calcoliamo prima il fattore di struttura generale e poi andiamo a specificare il risultato con i
valori di hkl che ci vengono forniti.
72 Appunti secondo parziale Caratterizzazione 2013/14
Umberto Maria Ciucani

03.06.2014
[pacco slide reticolo reciproco]

Tramite la legge di Bragg, conoscendo la posizione dei massimi di diffrazione e quindi le macchie luminose che noi
osserviamo, siamo in grado di ricavare il tipo di cella e i suoi parametri. Abbiamo informazione sul reticolo. Per avere
però informazione completa sulla struttura cristallina, e cioè avere informazioni anche sulla base, dobbiamo anche
analizzare le intensità. Studiando l’intensità otteniamo informazioni sulla base e quindi sulla disposizione e
l’orientazione degli atomi all’interno della cella. Questo perché abbiamo visto che l’intensità è direttamente
proporzionale al quadrato del fattore di struttura che a sua volta dipende dal fattore di scattering atomico e dal
fattore di fase. Il fattore di struttura è dunque funzione della distribuzione spaziale della densità di carica. Mi interessa
sapere quest’ultima cosa perché è indicativa della posizione degli atomi. Questo è l’iter logico che facciamo.

Il problema sperimentale è che abbiamo accesso al dato d’intensità ma quest’ultima è proporzionale al modulo
quadro del fattore di struttura, quindi noi non possiamo sperimentalmente accedere al valore della fase del fattore di
struttura. Passare dal dato sperimentale alla struttura cristallina richiederà quindi altri step appartenenti a specifici
metodi. Questi metodi servono a proporre delle strutture che sono compatibili con i dati sperimentali.

Ora, senza entrare nei dettagli formali, analizzeremo i concetti relativi al reticolo reciproco. Bragg ci permette di
risalire alla simmetria facendo un’indicizzazione e di attribuire ai picchi che vediamo le triplette che identificano una
famiglia di piani. Non abbiamo però ancora visto dal punto di vista formale e teorico perché c’è questa connessione
fra spazio reale e spazio reciproco.

Tutti i punti del reticolo cristallino stanno in famiglie di piani che sono caratterizzate da una certa orientazione e
distanza interplanare. Se io conosco questi dati comprendo la situazione. Il problema è scrivere l’equazione di un
piano che dal punto di vita matematico è qualcosa di molto laborioso.

Noi comunque sia possiamo identificare in maniera univoca i piani in una maniera più semplice che è quella (da un
punto di vista geometrico per identificare un piano) di dare la normale a questo piano. Ciò è più semplice perché la
normale è un vettore quindi un oggetto monodimensionale mentre invece un piano è un oggetto bidimensionale. Se
io ho un mio reticolo caratterizzato da tutte le possibili famiglie di piani, a seconda dell’orientazione, andarli a
rappresentare è un macello. Ma se io vado a considerare ognuna di queste famiglie, prendendone la normale, mi
muovo nell’insieme di tutti questi vettori. Questo insieme di vettori costituisce uno spazio, che chiamerò spazio
reciproco o dei vettori k, dove ogni famiglia di piani è rappresentata da un vettore (un punto nella’immagine di
diffrazione). La rappresentazione grafica così è molto più semplice. Se vogliamo stare nell’analogia geometrica, come
faccio a definire una normale a un piano? Prendiamo due vettori che sono nel piano e ne facciamo il prodotto vettore.
Esso ha la caratteristica di essere normale al piano che contiene i due vettori moltiplicandi.

Per esempio disegniamo il nostro vettore normale. I due moltiplicandi prodotto vettoriale sono due vettori dello
spazio reale che esprimo come combinazione lineare della base di quello spazio e cioè in funzione dei versori della
cella (a,b,c) con opportuni coefficienti. Applico il prodotto vettore. Quello che noi otteniamo è questa cosa qua dove i
coefficienti sono dati dai prodotti dei coefficienti dei due vettori di base con una regola dei segni. Vediamo che
effettivamente otteniamo un vettore dello stesso spazio, di cui sappiamo scrivere l’espressione delle componenti e
che è diretto ortogonalmente.

Andiamo a definire con questa idea in testa cosa ci mettiamo come elementi all’interno del nostro spazio reciproco.
Abbiamo detto che voglio mettere in questo spazio tutti i vettori che corrispondono alle famiglie di piani. Devo dare
allora una definizione. Quello che si può dimostrare è che se io parto da un certo reticolo di Bravais identificato da una
cella unitaria con parametri di cella a,b,c e i suoi angoli corrispondenti, quello che io devo fare per avere una
corrispondenza biunivoca fra i miei due spazi, reale e reciproco, è trovare una legge di corrispondenza che faccia
corrispondere ad ognuno di questi vettori di cella il corrispondente vettore di cella nello spazio reciproco e anche gli
angoli che vengono definiti.

Quello che si dimostra dal punto di vista matematico è che se io parto da un reticolo di Bravais, anche nello spazio
reciproco, avrò ancora una volta un altro tipo di reticolo, ma è probabile che sia diverso!!!! Però sicuramente quello
Appunti Caratterizzazione 2013/14 73
Umberto Maria Ciucani

che so è che se nello spazio reale ho un reticolo di Bravais, nello spazio reciproco anche avrò un reticolo di Bravais.
Se avere un reticolo vuol dire essere in grado di ricostruire tutto lo spazio, questo è vero sia per lo spazio reale che per
lo spazio reciproco. PREMESSA ESSENZIALE. Come definiamo questi vettori?

Ho a, b e c, parametri di cella nel mio reticolo reale e devo costruire i corrispondenti. Come li voglio costruire? Li
costruisco con questa legge: posso definire il corrispondente di a nello spazio reciproco come un vettore che sia
ortogonale agli altri due vettori della base b e c. e così per gli altri. Per farlo da un punto di vista matematico, se
voglio che il corrispondente di a (a*) sia ortogonale a b e c, non devo fare altro che prendere il prodotto vettoriale
fra b e c e sono sicuro che in questo modo ottengo vettore ortogonale al piano dei due b e c. Lo dovrò anche
normalizzare però in ogni caso, perché b vettor c è un’area, quindi lo dividerò rapportandolo al volume della cella
che per semplici relazioni geometriche lo descriverò come b vettor c scalare a (rappresenta il volume della cella).
Con questa legge di composizione costruisco anche gli altri vettori corrispondenti. Questo formalmente è il modo
che io ho per definire quelli che io chiamo vettori corrispondenti ai parametri di cella del mio reticolo reale. Adesso
andiamo a dimostrare che questi vettori così costruiti generano lo spazio reciproco con il significato geometrico che
abbiamo attribuito a questi vettori come i vettori che individuano univocamente le famiglie di piani.

Siccome al numeratore di questi vettori corrispondenti ho un’area e al denominatore ho un volume trovo che il modulo
di questi vettori, dimensionalmente, è il reciproco di una lunghezza. Noi partiamo da reticolo nello spazio reale e
associamo con queste regole un altro reticolo nello spazio reciproco. Se noi andiamo ad analizzare questi tre
descrittori che abbiamo definito, ritroviamo un nuovo reticolo diverso da quello di partenza, ma messo in
corrispondenza biunivoca col reticolo reale. Il vantaggio è che se io vado a rappresentare i miei piani di diffrazione
(Bragg mi dice che avrò dei massimi per certi piani di diffrazione) nello spazio reciproco, io vi devo associare
solamente un punto e non un piano. Punto la cui posizione è definita dai vettori corrispondenti definiti come abbiamo
specificato prima.

Abbiamo fin’ora specificato direzione e verso dei vettori corrispondenti ma non ancora il modulo. E quale sarà un
modulo particolarmente intelligente da associare a questi vettori? Siccome abbiamo in testa che dobbiamo fare
l’associazione coi nostri piani reticolari, un modulo intelligente da associarvi è (dimensionalmente dobbiamo avere
un reciproco della lunghezza) il reciproco della distanza interplanare. In realtà c’è sempre un problema di unità di
misura per cui molto spesso quando si parla di vettori dello spazio reciproco, si ragiona in unità di 2pigreco. Lo si fa
per una questione di comodità perché 2pigreco rientra in tutte le relazioni che andiamo a considerare e quindi è
contenente | il modulo di k è definito come 2pigreco su lambda | quindi è comodo mettercelo dentro. Onde evitare
confusione: 2pigreco è spesso esplicitato nelle formule di diversi libri ma in certi viene omesso perché sottointeso che
stiamo lavorando in unità di 2pigreco.

Nella [slide 4/23] vediamo che viene esplicitato il 2pigreco. A partire da uno spazio reale siamo stati in grado di
costruire i vettori dello spazio reciproco tramite leggi di composizione dei vettori di base e fissando una lunghezza per
il modulo di questi vettori. Se questo è vero, tutti i vettori che stanno nello spazio reciproco saranno ottenibili
tramite combinazione lineare dei tre versori corrispondenti dello spazio reciproco. Tutti i possibili valori di k, sono
ottenibili tramite combinazione lineare dei versori del reciproco, vuol dire che ci sarà un vettore che chiamo K grande
le cui componenti sono esattamente dei numeri che io posso chiamare hkl e che sono gli indici di miller associati a una
certa famiglia di piani. Per ogni famiglia di piani io sono capace di trovare un vettore nello spazio reciproco che li
rappresenti ed è un vettore che avrà direzione ortogonale al piano reale, e di lunghezza pari al reciproco della
distanza interplanare di quella famiglia. G è il modulo del vettore scritto in maniera scalare. La legge di
corrispondenza l’abbiamo trovata quindi. Avendo generato una base nel mio nuovo spazio, posso ricostruire qualsiasi
elemento di quello spazio andando ad associare dei valori hkl del piano nello spazio reale. Quindi il parallelismo c’è.

Esempi semplici di come da un reticolo reale si passa al corrispondente reticolo nel caso reciproco. Nel caso 1D ho
sempre una fila di punti la cui spaziatura è cambiata rispetto al caso del reticolo reale in 2pigreco/d (iniziale). L’idea
che stiamo costruendo è che per ogni famiglia di piani reticolari con data spaziatura associo un vettore ortogonale di
lunghezza pari a 2pigreco/d. Questo vettore costituirà l’elemento dello spazio reciproco ( g(200) ).

Ognuno dei punti nello spazio reciproco corrisponde al vettore dello spazio reciproco, ortogonale alla famiglia di piani
che lo ha generato, con un modulo pari a 1/d.
74 Appunti secondo parziale Caratterizzazione 2013/14
Umberto Maria Ciucani

Come costruisco un reticolo reciproco dal reale? Nel caso 2D, per identificare il reticolo reciproco, disegno il reticolo
reale, identifico la cella unitaria e poi costruisco i corrispondenti vettori a* e b*. Li costruisco dandone in primo luogo
la direzione: a* sarà ortogonale a b. b* sarà ortogonale ad a. Adesso per specificare il modulo mi devo ricordare di
quelli sono le distanze caratteristiche che sto considerando e quindi la relativa lunghezza sarà 1/d(hkl).

Nel caso dell’FCC [100] ottengo cella quadrata nel reticolo reale 2D. Per ottenerne il reticolo reciproco prima disegno
quello reale poi faccio quanto fatto sopra. Sarà sempre quadrato ma di dimensioni diverse.

Se l’angolo fra i versori della cella unitaria nel reticolo reale è di 90°, ovviamente, data la legge di costruzione appena
esplicitata, il corrispondente di a è parallelo ad a e così anche per b ma questo non è il caso generale. Ad esempio nel
caso del reticolo esagonale c’è un valore di un angolo quindi cambia qualcosa. Cambia l’angolo, e cambia anche il
modulo perché dobbiamo tenere in considerazione il valore del seno dell’angolo compreso. Questo semplicemente
applicando la definizione data.

Analizziamo il caso 3D. Sistemi cubici tanto per capire come ragionare.

- SC
Nel reticolo reale tutti i vettori posizione posso scriverli come una combinazione lineare di a, b e c. Prima cosa
dobbiamo andare a specificare chi sono a1 a2 a3 nello spazio reale e costruire b1 b2 e b3 nello spazio reciproco.

In un sistema cubico ho la mia terna cartesiana e le lunghezze sono uguali da tutte le parti. A1 sarà ax, a2 sarà ay e a3
sarà az. Applicando le regole di costruzione definite, faccio 2 pigreco, prodotto vettore (siccome sto costruendo il
corrispondente di a1) fra a2 e a3, ma y prodotto vettore z fa x e quindi qui ci metto x. A quanto? La regola era
2*pigreco fratto il volume, per a2 vettor a3. Qui abbiamo detto che viene x ma in modulo è un a^2 perché ho ay
prodotto vettore az. Siccome il volume è a^3 ottengo 2*pigreco/a per x. Così questi tre vettori individuano un reticolo
reciproco cubico semplice anche lui.

Alla rappresentazione nello spazio reale di tutti i miei piani faccio corrispondere ad ognuno di questi piano un
semplice punto che è unito all’origine di questo sistema di riferimento dai vettori corrispondenti nello spazio
reciproco. Ogni punto nel reticolo reciproco richiama una famiglia di piani nella struttura reale.

Più complicato da vedere è l’FCC perché devo stare più attento a definire quelli che sono i versori della cella unitaria
nello spazio reale e a rappresentare i loro corrispondenti nello spazio reciproco. Andiamo a guardare quelle figure
riportate nella [slide 14/23]. Il modo più compatto per definire un FCC è quello in cui i versori identificano la posizione
dei tre atomi posti al centro delle tre facce più vicine all’origine.

Ora applicando le solite regole di definizione dei corrispondenti vettori nel reticolo reciproco. B1 è 2*pigreco/volume
per il prodotto fra a2 e a3. E’ più complicato allora lo faccio componente per componente. Mi porto fuori la
componente a^2/4. Poi faccio prodotto vettore fra tutti gli elementi lì dentro. Faccio z vettor x = y. Poi faccio z vettor y
e qui devo stare attento perché ho cambiato orientazione quindi = (-x). Passando alle altre due, x vettor x = 0 e mi
rimane x vettor y = z. Quindi la mia espressione è da un punto di vista della direzione (y+z-x) mentre il modulo sarà
4*pigreco/a.

E così via per gli altri due punti. Ottengo ancora un cubico ma a corpo centrato: BCC. Il reciproco di un BCC sarà un
FCC. Per definire in maniera univoca un reticolo BCC do le posizioni dei corpi centrati. Se io mantengo definizione del
SC non riesco a differenziare i tre diversi casi mentre invece se definisco negli altri due casi le posizioni degli atomi
sulle facce o al centro della cella, allora posso ricostituire il cubo nelle 3 maniere diverse. Questa appena utilizzata è la
minima terna che riproduce il tutto.

Fino ad adesso abbiamo solamente fatto una costruzione geometrica. Capiremo perché ci interessa fare ciò
nell’interpretazione dell’immagine di diffrazione.

Lo spazio reale ha una realtà fisica perché i vettori posizione rappresentano la posizione dell’atomo mentre invece
nello spazio reciproco ciò non è propriamente tangibile, è concetto matematico. Questa astrazione matematica
riveste un significato fisico. Torniamo al fenomeno fisico che sta alla base della diffrazione e cioè le condizioni di
interferenza costruttiva e distruttiva e la condizione derivante dalla legge di Bragg. Ciò che noi andiamo a imporre con
Appunti Caratterizzazione 2013/14 75
Umberto Maria Ciucani

questa legge è che le onde che vengano diffuse dai diversi centri e formino dei massimi di intensità solo in alcune
particolari direzioni date dalla legge di Bragg. Questa legge ci dice solamente la posizione in cui ci dobbiamo
aspettare un massimo ma non ci dice nulla sulla propagazione dell’onda che fa diffrazione. La legge di Bragg spiega
il fenomeno della diffrazione in termini della riflessione dei raggi X ma non è corretto dal punto di vista fisico perché
la radiazione non viene riflessa ma in realtà è diffusa. Per risolvere il problema da un punto di vista formale, dovrei
scrivere l’equazione della mia onda e vedere, in seguito alla diffusione, come la mia onda diffusa propaga in un’altra
direzione. E’ abbastanza complicato e pesante dal punto di vista matematico. Affrontiamo dunque la diffrazione in
termini di diffusione senza entrare in dettaglio. Teniamo conto della direzione di propagazione dell’onda in questione
e questa trattazione viene detta di Laue, formulazione della diffrazione alla Laue. Le due formulazioni sono identiche
e biunivoche e proprio per questo motivo posso utilizzare quella più semplice e meno descrittiva di Bragg. L’utilizzo
della formulazione alla Bragg è giustificata da quella di Laue. Il limite di Bragg è che la relazione che utilizziamo è
scalare e quindi non abbiamo informazioni sulla direzione di propagazione dell’onda. Viceversa la direzione della
propagazione dell’onda è specificata (richiamiamo le onde: quando studio la propagazione dell’onda faccio sempre
riferimento al vettore d’onda k che mi descrive la direzione e il verso di propagazione dell’onda. Modulo = 2pigreco su
lambda). Nella trattazione di Laue comparirà allora sicuramente il vettore k dell’onda in questione.

Caso semplice: abbiamo due centri diffusori. Identifichiamo l’onda incidente tramite il suo vettore k. k è un vettore
che ha modulo 2pigreco su lambda e direzione specificata da un certo versore. L’onda arriva in quel punto e viene
diffusa nelle diverse direzioni. Concentriamoci in una direzione specificata da k’, vettore d’onda della radiazione
diffusa in quella specifica direzione. Cambia la direzione di propagazione. Il modulo di questo nuovo k’ sarà uguale al
precedente. Se cambiasse cambierebbe lambda e ciò equivarrebbe a dire che sperimenterei scattering anelastico
mentre sappiamo invece la diffrazione è scattering elastico. Se si conserva energia si conserva lunghezza d’onda. Avrò
solamente un versore diverso.

Io sono interessato però a dare la condizione per la diffrazione e cioè una condizione per più centri diffusori. Io vado
a sommare in una determinata direzione le diverse onde diffuse, calcolo la risultante di tutte in una certa direzione.
Prendo il secondo centro diffusore distante dal primo una quantità d. Definisco un vettore distanza fra i due con coda
nel primo centro diffusore e punta nel secondo. La mia seconda radiazione incidente propaga in questa direzione qui,
quindi avrà un certo k’ che ha esattamente la stessa direzione del k’ dell’onda del primo centro diffusore. Mi
concentro sempre sulla radiazione diffusa nella stessa direzione. Considerando i vettori e le direzioni in gioco definisco
gli angoli come in [slide 17/23]. La condizione per avere interferenza costruttiva è che la differenza di cammino fra le
onde diffuse dal primo centro e dal secondo sia pari a un numero intero di lunghezze d’onda.

Siccome io voglio legarmi alla direzione di propagazione delle onde, posso anche riscrivere d*cos(𝜗) come il prodotto
scalare di due vettori il cui angolo compreso è 𝜗. In particolare considero vettore di modulo d e il versore unitario che
fa con d un angolo pari a 𝜗. E così anche per l’altro segmento. Siccome quando ho a che fare coi vettori devo anche
considerare la loro orientazione, devo mettere davanti al secondo prodotto scalare, il segno meno. Ricordando la
definizione di k, divido la relazione per lambda e moltiplico per pigreco. Così posso riscrivere la condizione in funzione
di k e k’. Ho scritto che k-k’, che mi rappresenta la differenza fra vettore d’onda incidente e diffuso, moltiplicato
scalarmente col vettore posizione d, deve essere un multiplo di 2*m*pigreco. Se generalizziamo il ragionamento ad
un reticolo, dove ho una moltitudine di punti diffusori disposti secondo un reticolo di Bravais, riscrivo il tutto
sostituendo il vettore d col corrispondente vettore R, vettore che identifica la posizione all’interno del mio reticolo.

Abbiamo così appena definito un vettore (K grande) con modulo 2*pigreco fratto una distanza caratteristica. La
variazione del vettore d’onda la posso quindi riscrivere come un nuovo vettore che ha modulo 2*pigreco/R. La cosa
interessante sta nel modulo. La condizione di diffrazione alla Laue mi dice che io ho diffrazione, osservo un massimo
quando il vettor d’onda della radiazione diffusa differisce dal vettore d’onda della radiazione incidente per un
vettore dello spazio reciproco.

Ovviamente per come l’abbiamo ricavato da Bragg segue Laue e da Laue segue Bragg. Così individuiamo anche
individua le direzioni nelle quali abbiamo diffrazione. Vediamo radiazione luminosa solo lungo certe direzioni di k’
associate ad un vettore dello spazio reciproco. Quindi la nostra immagine fotografica che abbiamo del pattern di
diffrazione è l’immagine dello spazio reciproco. Ecco perché abbiamo introdotto il reticolo reciproco. Questa
costruzione matematica del reticolo reciproco ci consente allora di leggere le informazioni del reciproco dalla lastra
fotografica e ricondurle al reticolo reale del campione analizzato. Tramite tutto ciò ho accesso quindi al reticolo reale.
76 Appunti secondo parziale Caratterizzazione 2013/14
Umberto Maria Ciucani

La formulazione di Laue è quella che mi dà informazioni sulle direzioni lungo le quali io posso avere soddisfatta la
condizione di interferenza costruttiva e quindi di diffrazione. Quindi d era la distanza fra due punti mentre ora ripeto
questo discorso fra una qualsiasi coppia di punti in un reticolo distanti R (distanze nel reticolo reale). Trovo infatti
che la variazione di k dovrà essere uguale a 2*pigreco/R, vettore dello spazio reciproco.

Perché si possa osservare diffrazione (ossia sia soddisfatta la legge di Bragg), k’ deve terminare su un punto del
reticolo reciproco.
I punti che soddisfano questo criterio rappresentano i piani che sono orientati per la diffrazione.

Laue mi dice qual è la condizione che tiene anche conto della direzione ma non mi dice come faccio a trovarla. Come
faccio a dire quali sono i valori dell’angolo che rispettano questa condizione?

- Sfera di Ewald
Qui entra in gioco una costruzione geometrica, ancora una volta ci rifacciamo ad un’astrazione matematica che
rappresenta ciò che ci dice la condizione di Laue. Laue ci sta dicendo che la variazione del vettor d’onda deve essere
uguale ad un vettore dello spazio reciproco. Se voglio rappresentare questa condizione dal punto di vista geometrico
devo prima di tutto rappresentare lo spazio reciproco di un reticolo 3D. Come lo faccio? Ho punti in tutte le
dimensioni. Ognuno di questi punti deve coincidere con il vettore che rappresenta la variazione fra i k. Allora dovrò
dare la rappresentazione di tutti i valori che k può assumere. Se voglio rappresentare tutti i possibili vettori d’onda la
rappresentazione geometrica adatta (ci interessa scattering elastico quindi modulo di k rimane sempre costante) (la
direzione, avvenendo lo scattering in tutte le possibili direzioni, sarà qualsiasi) sarà una sfera di raggio k. Siccome la
condizione di Laue mi dà l’uguaglianza fra il luogo geometrico che rappresenta tutti i possibili k e il vettore dello
spazio reciproco, dato lo spazio reciproco, non dovrò far altro che disegnarci sopra una sfera che rappresenta tutti i
miei vettori d’onda k. Prenderò convenzionalmente un punto che coincida con la direzione non deflessa (0,0). Tutti i
possibili valori del k diffuso saranno su questa sfera. Allora k-k’ non è altro che la differenza fra i due vettori delta k
che Laue mi dice deve coincidere con un vettore dello spazio reciproco. Ciò vuol dire che qui devo avere
l’intersezione della mia sfera dei k con un punto del reticolo. Se questa situazione è verificata, per il valore
dell’angolo fra 00 e il punto selezionato otterrò riflesso alla Bragg. Se invece non trovo un’intersezione su quel punto,
vorrà dire che k’ non corrisponderà alla direzione in cui ho un massimo d’intensità.

Questa costruzione geometrica mi permette di identificare il particolare vettore dello spazio reciproco e la sua
direzione che sono capaci di dare un massimo di diffrazione e quindi di risalire ai parametri del reticolo reale che ha
generato quel pattern. La costruzione della sfera di Ewald non ha significato fisico è rappresentazione geometrica della
condizione di Laue.

Potrebbe succedere che, prendendo il mio raggio incidente, guardo sui bordi della sfera e non ho intersezioni e quindi
non osservo raggi diffratti. Per quel particolare tipo di cristallo, Laue o Bragg non è mai verificata e l’unica macchia che
osservo è quella che propaga nella direzione e verso d’incidenza. Non ho nessuna famiglia di piani che verifica la
condizione. Cosa posso fare? Posso cambiare qualcosa per far sì che la legge di Bragg sia verificata? Fissata la mia
direzione di propagazione posso ruotare però il campione!! Se ruoto il cristallo, di corrispondenza ruoto anche il
reticolo reciproco. Ora trovo sì dei valori che verificano la relazione di Bragg.

Sperimentalmente i modi di fare diffrazione X sono sia con cristalli singoli che con polveri. Quando facciamo spettri di
cristallo singolo non facciamo esperimento con cristallo fisso ma lo facciamo ruotare perché così mettiamo in
condizione di generare un fascio diffratto diverse famiglie di piani.

Conosco la direzione di propagazione quindi fisso una direzione nella rappresentazione di Ewald che rappresenta il
mio fascio incidente. Quello è il mio k. Il raggio della sfera lo conosco perché k lo conosco quindi posso rappresentare
questa sfera. Il punto 00 l’ho scelto io e rappresento anche il mio reticolo reciproco. Se ho punti che intersecano la
sfera allora visualizzerò dei massimi di diffrazione per quelle famiglie di piani.

Il modo per aumentare numero di intersezioni è girare il reticolo reciproco quindi il campione. Altro modo è variare
il raggio della sfera e quindi cambiare la lunghezza d’onda incidente.

Con questo abbiamo visto quali sono i criteri generali della diffrazione di raggiX, ci manca di applicare questo stesso
concetto alle superfici e quindi dare una spiegazione delle differenze di questi metodi con la diffrazione elettronica.
(prossima lezione)
Appunti Caratterizzazione 2013/14 77
Umberto Maria Ciucani

- Apparato Sperimentale
Come si fa a fare diffrazione di raggi X? Continuiamo a considerare Bragg anche se non è rigorosamente corretto.
Questa relazione ci dice che in corrispondenza di certi valori del parametro d, le due variabili sono lambda e 𝜗, se fisso
lambda ottengo 𝜗 se fisso 𝜗 trovo lambda, quindi posso giocare su questi due parametri. I diversi approcci
sperimentali che si possono utilizzare giocano su queste due ultime variabili. Uno è più semplice, da un certo punto di
vista, che è quello di Laue e fa variare lambda. Ci sono gli altri due approcci viceversa che tengono fissa lambda e
fanno variare 𝜗. I tre metodi fondamentali usati sono quindi:

 Il metodo di Laue che considera una sorgente di raggi X non monocromatica


 Un lambda fissata e vedere cosa succede variando 𝜗.

- Metodo alla Laue.

In quali condizioni ha senso applicare questo tipo di metodo? Abbiamo visto che lambda può assumere tutti i valori
che voglio, sarà sensato applicarlo ad un monocristallo con una ben definita orientazione in modo da fissare il valore
dell’angolo 𝜗 e vedere cosa succede al variare della lunghezza d’onda.

- Metodo con lambda fissata (Metodo del cristallo rotante)

Andrò a determinare solo i particolari valori dell’angolo che verificheranno la relazione di Bragg.

Se ho un monocristallo di ben definita orientazione, se mi va bene al massimo potrò osservare un numero molto
piccolo di riflessi ma posso osservarne ben pochi o addirittura nessuno. Ciò è sperimentalmente limitante. Si può fare
benissimo questo tipo di esperimento, anzi è il modo più raffinato per fare diffrazione X, devo però aumentare il
numero di riflessi che osservo e per fare questo devo far ruotare il mio cristallo attorno a una certa direzione. In questo
modo cambio orientazione dei piani di Bragg e posso sperare che entrino nella condizione di Bragg diverse nuove
famiglie di piani. Aumento così la quantità di dati e sono capace così di risalire ai parametri incogniti. Così so
esattamente come sono determinate tutte le variabili e posso risalire non solo alla struttura del cristallo ma fare
anche un’analisi dell’intensità perché avendo cristallo con ben precisa orientazione posso fare anche tutti i
ragionamenti sulla mia cella cristallina e quindi calcolare in maniera accurata la mia intensità.

Non è sempre facile. Il problema sperimentale è che non sempre si può avere un monocristallo di minime dimensioni
necessarie per fare questo tipo di analisi. Cosa molto più semplice non è fare uno spettro di cristallo singolo ma di
polveri cristalline. Quindi un campione policristallino. Una polvere vuol dire un materiale cristallino dove le
dimensioni dei cristalliti saranno molto piccole rispetto alle dimensioni di un cristallo singolo. Siccome ne ho tanti,
tutte le possibili orientazioni sono permesse. Nella mia polvere avrò una distribuzione statistica delle orientazioni
dei miei granelli cristallini e quindi è come se io avessi in un certo senso un cristallo auto-ruotato. Quindi
sperimentalmente questo è l’approccio più semplice. Osserverò dei riflessi che però non riuscirò più a distinguere
così bene come nel caso del cristallo singolo e quindi per esempio, fare dell’analisi d’intensità diventerà molto
difficile ma mi va benissimo per fare un’interpretazione della legge di Bragg (soltanto sulla posizione delle macchie)
e quindi per esempio quel processo d’indicizzazione che abbiamo già visto, in questo caso, in generale si riesce a
fare molto meglio.

- Vantaggi e svantaggi:

Il metodo di Laue da un certo punto di vista è molto semplice perché io ho un cristallo che viene fatto incidere da
radiazione policromatica e quindi sicuramente viene verificata per alcuni valori dell’angolo la legge di Bragg. E’ chiaro
che da un’analisi di questo genere io non posso sperare di risalire né al reticolo né tantomeno alla struttura perché
in funzione di qualsiasi valore dell’angolo 𝜗 io troverò | se ho una lambda policromatica sufficientemente elevata
troverò sempre una lambda che mi verifica la condizione di Bragg ma non riesco a identificare quella macchia con
una ben precisa famiglia di piani. Quindi il metodo di Laue non può essere utilizzato per determinare i parametri di
cella. Per quanto riguarda la simmetria invece si vede subito che le immagini del reticolo reciproco che si ottengono
sono sempre ad elevata simmetria e quindi l’utilizzo principale che si fa del metodo di Laue è che è un modo molto
semplice per determinare l’orientazione del mio cristallo.

L’analisi di Laue si può fare in due modi: in trasmissione o in riflessione. Dato il mio cristallo, secondo come mi metto,
se sono in trasmissione, ci saranno direzioni lungo le quali ottengo le mie macchine luminose viceversa se lo faccio in
78 Appunti secondo parziale Caratterizzazione 2013/14
Umberto Maria Ciucani

riflessione, pongo il cristallo al di là del film. Ci saranno sempre direzioni lungo le quali Bragg è verificato, se
interpongo fra sorgente e campione il film su cui devo registrare l’immagine, otterrò dei zone luminose dove ho
intersezione fra cono di radiazione che ottengo e la pellicola. Notiamo che la stessa immagine cambia disposizione a
seconda se sono in riflessione o in trasmissione. L’utilizzo principale di questo metodo è per determinare
l’orientazione. Più significativi sono i metodi del cristallo rotante e delle polveri.

05.06.2014

Riprendiamo l’apparato sperimentale:

Possiamo fare esperimenti di diffrazione X in 3 modi diversi. Uno prevede di usare sorgente non monocromatica
(Laue) e così otteniamo pattern di diffrazione che non consente di risalire a struttura del sistema perché abbiamo
sovrapposizione di tanti riflessi luminosi che non si possono distinguere. Non abbiamo informazioni dettagliate sulla
parametro di cella ma possiamo averne di dettagliate sulla simmetria del sistema, del tipo di reticolo che stiamo
considerando. Può essere molto utile per orientare in maniera molto precisa questi cristalli in modo tale che possano
servire poi a determinate altre analisi. Principale utilizzo è questo.

Il caso del cristallo singolo è quello più esaustivo dal punto di vista delle informazioni ottenibili (non estremamente
grande ma di dimensioni sufficienti per essere analizzato: problema da dover risolvere!!) e l’analisi più esaustiva la
possiamo fare ruotando il cristallo che ha attorno una pellicola fotografica che verrà impressionata. Le diverse
macchie corrisponderanno alle diverse famiglie. Il risultato sperimentale che si ottiene è quello di macchie che si
dispongono su filari. Le macchie si dispongono sì lungo una circonferenza ma a quote diverse. Il piano equatoriale
cosa rappresenta? La nostra radiazione lì tutto sommato potrà essere deflessa nel piano ma non nella direzione
verticale e quindi corrisponderà ai riflessi della faccia che si trova ortogonale alla direzione d’incidenza del fascio e
quindi tutti i punti che giacciono su quella circonferenza lì corrisponderanno ad un terzo indice di Miller pari a 0 perché
è piano parallelo all’asse z. Può anche essere che ci siano altre famiglie di piani che investite dalla radiazione diano
altri raggi diffratti e quindi per esempio potremmo avere la formazione di un altro filare che corrisponderà ad un terzo
indice di Miller pari a 1 o simmetricamente al di sotto pari a -1.

Il problema è che se io prendo il mio cristallo, lo oriento e lo metto lì, ci saranno poche famiglie di piani disposte a
soddisfare la condizione di Bragg, perché se è fissa la direzione incidente ed è fissa anche l’orientazione del cristallo, le
altre facce non vengono messe in evidenza. Allora ruoto il campione attorno al suo asse. METODO DEL CRISTALLO
ROTANTE. Così separo tutti i miei riflessi e siccome li so indicizzare posso risalire a tutti i parametri di cella che mi
interessano. Conosco le relazioni che mi permettono dalla distanza interplanare di risalire ai parametri di cella. Posso
poi fare anche analisi d’intensità, partendo dal fattore di struttura. Quindi se noi abbiamo campione incognito di cui
dobbiamo determinare tutte le proprietà di base e reticolo facciamo un’analisi di cristallo singolo rotante.

Questo però non è la cosa più semplice da fare e a volte non è nemmeno richiesto vista la grande finezza
dell’analisi. Allora si ricorre a uno spettro di polvere. Una polvere sarà un campione di un materiale cristallino ma
piccoli granuli cristallini che quindi si comportano come un campione policristallino. Le dimensioni delle cristalliti sono
così piccole da impedire, praticamente, l’isolamento di un singolo cristallo. Avremo quindi tutti i piani predisposti
sempre a dare riflesso alla Bragg.

Tutti i picchi che osserverei girando un cristallo singolo li osservo senza girare il campione se lavoro su di uno
spettro con campione in polvere. E’ automaticamente verificata Bragg data la contemporanea esposizione/presenza
di tutti i piani in un campione policristallino. VANTAGGIO DELLO SPETTRO DI POLVERI.

Noi sulla pellicola osserveremo non dei singoli spot luminosi ma avremo per un dato valore dell’angolo, tutti i punti
luminosi disposti lungo la parete di un cono di apertura pari a 2𝜗. Avremo illuminazione della nostra pellicola per tutti
i valori dell’angolo. Se ho il cristallo singolo, faccio incidere i miei raggi x, ci sarà il fascio deviato e pochi altri riflessi
che io osservo e che danno luogo alle macchie luminose. Adesso immaginiamo di avere qualche decina di cristalli
orientati in modo casuale: avrò tanti più piani che danno luogo a questa riflessione. Dove si dispongono le macchie
luminose? Le osserverò sempre attorno a questo cono ideale di apertura 2𝝑, ma in maniera discreta. Passiamo al
Appunti Caratterizzazione 2013/14 79
Umberto Maria Ciucani

caso della polvere dove ci sono centinaia di cristalliti e ora il nostro fascio diffratto percorrerà un intero cono che è il
cono di diffrazione. Avremo tanti coni di diffrazione (invece che tante macchie) ognuno con un apertura 2𝝑 che
corrisponde ai diversi valori di 𝝑 che corrispondono ai diversi piani. A questo punto, da un punto di vista
sperimentale come registro il segnale? Prima vedevamo questa pellicola cilindrica fotografica attorno all’asse del mio
cristallo, ora facciamo qualcosa di analogo e mettiamo una pellicola circolare in quel modo. Siccome tutti i riflessi
stanno sulla circonferenza definita dal cono, cosa vorrà dire? Che quando impressiono la mia pellicola, la taglio e la
apro vedrò tanti archi di circonferenza luminosi. Questo è esattamente ciò succede in una camera detta di Debye-
Scherrer. Ogni archetto che vediamo aprendo la pellicola corrisponde ad una determinata famiglia di indici hkl che
ci servono per interpretare la struttura. L’analisi dei dati viene fatta esattamente con quel tipo di trattazione che
abbiamo visto l’altra volta per l’indicizzazione dei riflessi. Sulla base di questa legge qui, consideriamo le diverse
possibili triplette che danno luogo ai diversi valori dell’angolo e usiamo la stessa tecnica che abbiamo visto l’altra volta
per determinare quali sono le triplette di indici che corrispondono ad ognuno dei valori dell’angolo che osserviamo. In
questo modo ci rendiamo conto che se abbiamo SC abbiamo tutti i valori mentre negli altri tipi di cubici avremo le
estinzioni sistematiche viste la scorsa volta.

L’apertura del cono è fissata da Bragg però, perché ho il continuo? Perché ho diversi cristalli orientati in maniera
diversa per cui quella stessa famiglia di piani sarà orientata in maniera diversa rispetto alla direzione di propagazione.
La distanza interplanare è la stessa quindi 𝜗 è lo stesso.

Il porta campione contiene la polvere da analizzare.

Non cambia la direzione di propagazione del mio fascio incidente, non cambia l’angolo di Bragg mentre quello che
cambia è l’orientazione dei cristalli rispetto alla direzione d’incidenza allora la condizione per cui vedrò quel massimo
lì non sarà quel preciso punto di prima ma formerà sempre un angolo 2𝝑 con la direzione di incidenza del fascio,
semplicemente si vedrà allora un cono di radiazione come segnale da rivelare. L’informazione fisica qual è? L’angolo
di Bragg!!! Se cambio la famiglia di piani l’angolo sarà diverso e allora otterrò un cono più piccolo o più grande.

Cosa mi serve come apparato sperimentale? Una sorgente, il mio campione e un rivelatore che appunto abbiamo
detto storicamente nella sua versione più semplice è composto di una lastra fotografica mentre più recentemente
sono poi stati usati dei detettori a contatore che risultano più precisi. Questi detettori possono essere di tantissimi tipi
diversi. Alcuni già visti.

 Detettore a scintillatore
 Detettore a semiconduttore
 Camere a ionizzazione (uno dei primi tipi ad essere usati)

Cosa sono queste camere? Noi dobbiamo quantificare il numero di fotoni X che abbiamo. Allora un modo per
evidenziarli può essere quello di avere un tubo contenente un certo gas (Ar), attraversato dai raggiX che ionizzano le
molecole, degli elettroni vengono prodotti e tanti più sono raggi X tanti più saranno gli elettroni prodotti. Verrà
allora creata una corrente elettrica che potrò misurare e indirettamente quindi misurare la quantità di raggi X che
arrivano.

Scintillatore a stato solido vedi spiegazione in [slides 15 e 16/22].

Ulteriore sviluppo della tecnica può essere quello per cui, mentre i metodi che abbiamo visto prima sono “seriali” nel
senso che analizzano un valore di energia per volta mentre se usiamo CCD aumentiamo la sensibilità e abbiamo tutte
le energie che vengono analizzate allo stesso tempo. Questo detettore ha tanti pixel ognuno di questi sensibile
all’energia quindi abbiamo rivelazione di tutti i nostri raggi contemporaneamente. E’ semplicemente elettronica!

- APPLICAZIONI XRDiffraction
Determinazione della struttura del campione. Visto che questa tecnica funziona per materiali cristallini, posso usare
questa tecnica per distinguere fra materiali cristallini e amorfi. Se bersaglio di raggi X un amorfo cosa succede? Si
vedrà solamente una distribuzione uniforme di raggi X. In realtà ciò accade solo se il 100% del campione è amorfo. Se
ho una compresenza di ordine e disordine, vedrò sempre una reminiscenza di macchie definite data dalla parte
cristallina ma non saranno più così nettamente definite ma saranno circondate da un alone diffuso (vuol dire che la
legge di Bragg non è verificata così tanto bene) che allora diventa indice del mio grado di disordine del materiale. E
80 Appunti secondo parziale Caratterizzazione 2013/14
Umberto Maria Ciucani

quindi questa analisi può essere utilizzata per conoscere grado di cristallinità di un materiale (polimeri). Così come
posso studiare i difetti di un cristallo visto che ciò implica una deviazione dal cristallo ideale e porta ad allargamenti
nei picchi/nelle macchie di diffrazione che io vado ad osservare.

Posso dunque determinare tramite il fattore di struttura, la posizione dei singoli atomi nella cella e la loro
orientazione. Se io deformo | Il mio cristallo ideale ha un’estensione infinita. Tanto più il mio cristallo è grande tanto
più mi avvicino alla situazione d’idealità. Se ho cristalliti molto piccoli, l’ordine che ci si aspetta nel cristallo sarà a
corto/medio raggio quindi in qualche modo continua a valere Bragg ma in maniera meno netta perché la condizione di
periodicità non ce l’ho più e quindi questo porta ad avere allargamenti di picchi e formazione di aloni che quindi
possono essere quantificati ed essere usati per dare anche una stima delle dimensioni dei cristalliti. Si fa molto
spesso nel caso di materiali polimerici.

Posso farne anche un uso molto più di routine, che non richiede l’analisi della struttura, ma più semplicemente
siccome il mio materiale cristallino ha una struttura determinata allora posso usare per confronto usare questo
pattern cristallino ben preciso per fare del riconoscimento esattamente come vedevamo per le altre tecniche. Ad
esempio se io ho delle fasi o delle miscele che sono note con spettri cristallini diversi, fasi cristalline diverse e quindi
posizioni di picchi diverse, se io guardo questo mio campione posso fare analisi quantitativa di una fase rispetto
all’altra. Quindi le tecniche saranno di diverso tipo ma anche di diversa difficoltà di realizzazione.

Diffrazione Elettronica (LEED) Low Energy Electron Diffraction

Al posto della pellicola fotografica avremo uno schermo fluorescente. Avremo delle macchie luminose e anche qui
avremo la nostra direzione 00 che coincide col centro dell’immagine. Questa è una tecnica diffrattometrica ma fatta
con elettroni a bassa energia. Possiamo fare diffrazione con gli elettroni perché possiamo associare loro una
lunghezza d’onda determinabile in base alla relazione di De Broglie. Noi sappiamo che la lunghezza d’onda è legata
all’inverso della radice dell’energia. La lunghezza d’onda non è un dato fissato una volta per tutte ma dipende dal
valore dell’energia dell’elettrone. Per avere lunghezze d’onda dell’Angstrom ci servono delle energie dell’elettrone
pari a 50-150eV circa. Se li confrontiamo con le energie delle altre tecniche, sono energie relativamente piccole. Se
andiamo ad energie maggiori la lunghezza d’onda rimpicciolisce e non possiamo più fare più diffrazione.

Secondo motivo: perché vogliamo fare diffrazione elettronica? Perché questo ci consente di fare un’analisi
superficiale. Altrimenti usavamo raggi X e basta!! Elettroni analizzano solamente la superficie perché interagiscono
molto con la materia quindi penetrano poco. Il libero cammino medio sappiamo che dipende dall’energia e la zona
tipica delle energie attorno ai 100eV usati nel LEED, è quella in cui i cammini medi sono i più piccoli possibili =
massima sensibilità superficiale. L’immagine che ottengo è sempre la stessa quindi valgono sempre tutti i
ragionamenti fatti precedentemente. L’unica differenza presente è quella che nel caso dei raggi X il mio reticolo è un
reticolo tridimensionale mentre qui avrò invece un reticolo bidimensionale. Varranno sempre le leggi della diffrazione
alla Laue o alla Bragg e quindi continuano a valere le condizioni viste in precedenza. Per avere diffrazione, la variazione
del vettore d’onda associato deve essere uguale a un vettore dello spazio reciproco. Ciò è corretto fino in fondo in
questo caso? No. C’è un distinguo da fare: il mio vettore d’onda è un vettore con 3 componenti e quindi nella
formulazione alla Laue per la diffrazione erano sempre tre le componenti in gioco e quindi la condizione di Laue
corrisponde a 3 condizioni scalari. Qui, vale per tutto il vettore questa legge (differenza di k uguale a un vettore dello
spazio reciproco) o sarà valida soltanto per le due componenti nel piano? Ovviamente varrà solo per le due
componenti nel piano. Nella terza direzione ho sì periodicità ma gli elettroni mi fanno studiare il cristallo solo nelle
due dimensioni relative alla superficie. Per andare a rappresentare la legge di Laue vado a fare lo stesso tipo di
rappresentazione grafica che era la sfera di Ewald. Sfera che prevedeva di intersecare la sfera dei vettori d’onda con il
reticolo reciproco. Cosa cambia? Cambia la rappresentazione del reticolo reciproco. Nel caso tridimensionale
quest’ultimo era un insieme di punti nello spazio perché le tre componenti che identificavano il punto
corrispondevano alla tre componenti del vettore k corrispondente a quella famiglia di piani. Adesso nella terza
direzione non riesco a vedere più il cristallo, quindi non ho nemmeno più quella condizione di periodicità che
permetteva di definire una lunghezza caratteristica di ripetizione. Quindi succede che se io voglio dare una
rappresentazione comunque 3D (devo comunque intersecarla con una sfera che è tridimensionale) cosa succede nella
Appunti Caratterizzazione 2013/14 81
Umberto Maria Ciucani

direzione ortogonale alla superficie della sfera di Ewald? Se non ho periodicità, ce l’ho da un punto di vista
matematico all’infinito. Se dico così vuol dire che la distanza caratteristica ripetitiva nel reticolo reciproco è
l’inverso e quindi 0!!! Vuol dire avere una serie di punti distanti 0 l’uno dall’altro ossia un continuo, e quindi una
semiretta che esce dai punti discreti che corrispondono agli altri due indici di Miller che sono quelli che definiscono
invece la componente di superficie del mio reticolo bidimensionale. Quindi il mio reticolo reciproco che prima era
fatto da una serie di punti nello spazio ora diventa una serie di semirette uscenti dai punti che corrispondono a delle
coppie (hk) che identificano le posizioni e la struttura nel piano del mio cristallo. Intersecando le rette con la sfera, per
ognuna delle semirette indicizzate hk io posso individuare delle intersezioni che mi individueranno le direzioni lungo le
quali ho soddisfatto la legge di Bragg. Per sapere quali riflessi potrò vedere vado a vedere dove ho intersezione con il
reticolo reciproco. Questo mi determina il valore dell’angolo che corrisponde ad avere verificata la condizione di Laue.
Qui le intersezioni le troveremo sempre! Quindi tutti i riflessi di tutti i punti del reticolo che sono contenuti all’interno
della sfera, danno tutti luogo a dei riflessi. Indipendentemente dal raggio della sfera troverò sempre un’intersezione.
Questo è un vantaggio se vogliamo della diffrazione di elettroni che verifica sempre la condizione di Bragg per questo
motivo. Troveremo sempre delle direzioni lungo le quali avremo dei massimi. Se cambio raggio della sfera cambio
l’intersezione. Se qui cambio il raggio della sfera (facendolo più grande) aumentiamo il numero di riflessi contenuti
nella sfera e quindi vedremo aumentare il numero di macchie e le macchie corrispondenti ai vecchi picchi le
osserveremo ora per valori dell’angolo che sono più piccoli.

Seguendo la legge di Bragg, cambiando lambda (energia) si spostavano le posizioni dei picchi e aumentavano il
numero di macchie osservabili. Questa ne è la dimostrazione. Qui rivediamo la stessa costruzione in maniera più
chiara, fascio incidente, le diverse intersezioni, il nostro vettore differenza che corrisponde a un vettore dello spazio
reciproco e quindi a un massimo di diffrazione. Qui abbiamo ancora la regolina. Cosa devo fare per disegnare la sfera
di Ewald?

1. Disegno il vettore k
2. Disegno la sfera
3. Disegno il reticolo reciproco
4. Identifico i punti d’intersezione
5. Determino gli angoli che danno diffrazione per quel determinato valore della lunghezza d’onda.

Qui vediamo bene cosa succede: questa è la mia costruzione geometrica, questo è quello che io vedo nel mio
apparato sperimentale, e vediamo che appunto sul mio schermo dove si andranno a formare le macchie, in
corrispondenza di ognuno di questi punti d’intersezione io vedrò una macchia luminosa che so associare ai due indici h
e k che identificano il mio punto reticolare nel cristallo 2D. Se prendiamo una circonferenza più grande allora
l’intersezione avverrà con un angolo più piccolo e vedremo che le nostre macchie si avvicineranno.

Esempio di come posso costruire la sfera di Ewald e quindi determinare quali sono i riflessi che vedo: Ni[100]
lambda=1.58A t.c. energia elettroni = 60eV e passo reticolare = 248pm. Con questi dati, conoscendo il passo reticolare
sono capace di costruire la spaziatura del mio reticolo reciproco che sarà uguale a 2*pigreco su a. Conoscendo lambda
posso conoscere il raggio della sfera perché possono calcolare il modulo di k =2*pigreco su lambda. E quindi disegno in
scala la sfera e le semirette del reticolo reciproco. In questo caso mi accorgo che soltanto i primi riflessi come ad
esempio 0,1 e 0,-1 sono contenuti all’interno della mia sfera di Ewald e definiscono un angolo 𝜗.

Quali sono i punti del reticolo reciproco contenuti all’interno di questa sfera? Non sono soltanto questi due ma
essendo una sfera un oggetto 3D, se cambio angolo di rotazione attorno al piano troverò anche l’10 e anche il -10.
Forse anche il -1-1 e l’11. Verificarlo tramite relazione [slide 9/28 LEED].

Il punto da capire è come stanno in relazione le due immagini. Io devo sempre rappresentare su di una superficie una
cosa che è 3D.

Se devo calcolare quanti e quali riflessi posso osservare data una certa lunghezza d’onda e dato un certo reticolo di
partenza faccio una costruzione di questo genere.

Vediamo qui qualche considerazione sperimentale. Questa è la stessa cosa che vedevamo per i raggi X applicata ad
una superficie. Questo è l’apparato sperimentale: abbiamo un fascio di elettroni che incide sul cristallo, raccogliamo lo
scattering da dietro mettendo uno schermo fluorescente all’indietro. Questa è semplicemente la legge di Laue per il
caso 2D. [slide 10/28]. Diffusione da due centri, ci fissiamo in una certa direzione e imponiamo la differenza di
82 Appunti secondo parziale Caratterizzazione 2013/14
Umberto Maria Ciucani

cammino uguale a un numero intero di lunghezze d’onda ossia un vettore dello spazio reciproco. Questa differenza, se
ho preso angolo d’incidenza che non è di 90 gradi ma fa un angolo alfa 0, nella maniera più generale possibile la scrivo
in questo modo. In generale però per semplicità si sceglie sempre un’incidenza a 90gradi e quindi alfa 0 = 0 e il seno è
uguale a 1 e così trascuriamo questo termine. Quindi come già vedevamo nel caso dei raggi X se io voglio mettere in
relazione l’angolo misurato con i parametri che m’interessano (di cella), la relazione che devo scrivere è che
a*sen(alfa) = n*lambda. Ma questo vuol dire che il seno di alfa deve essere uguale ad n*lambda diviso a e che cos’è il
seno di alfa? Tramite una costruzione geometrica come vedevamo per i raggi X, la dimensione della mia camera è
piuttosto grande e posso approssimare quel triangolo rettangolo in modo tale che il rapporto fra cateto ed ipotenusa
che dovrebbe essere rigorosamente uguale al seno di alfa lo posso approssimare ad alfa stesso. Calcolo cos’è il mio
lambda in dipendenza dell’energia usata per accelerare l’elettrone e risolvo il mio problema. Sperimentalmente
misuro una distanza che è la distanza x dallo 0, conosco il raggio della camera e determino il valore dell’angolo,
esattamente come vedevamo per i raggi X.

- Apparato sperimentale:

 Sorgente
 Campione
 Detettore
 Vuoto applicato

La sorgente di elettroni è la solita, abbiamo il nostro campione, gli elettroni arrivano incidono e vengono diffusi, e
vengono raccolti all’indietro. Vado a colpire lo schermo fluorescente e quindi realizzo un segnale che poi sarà raccolto
e processato. Quali problemi ci possono essere nell’analisi di un sistema di questo genere? Questa diffrazione è
fenomeno di scattering elastico, in realtà però quando mando elettroni so anche che possono esserci interazioni di
altro tipo (anelastico). Queste vanno ad interferire con la mia analisi e per di più, mentre lo scattering elastico che dà
luogo a diffrazione è direzionato solo lungo ben precisi valori dell’angolo, le interazioni anelastiche non hanno un ben
preciso valore dell’angolo. Quindi se lascio la situazione così com’è, sullo schermo fluorescente osservo magari delle
macchioline che emergono un po’ da un fondo luminoso diffuso che diminuisce il contrasto sulla mia immagine e
crea un po’ di confusione. E’ un rumore che vorrei eliminare, come faccio? Solito modo: devo eliminare degli elettroni
a bassa energia allora pongo una griglia a potenziale negativo che blocca gli elettroni a più bassa energia. Questa è la
prima griglia: ripulisco. Che potenziale devo applicare? Guardo visivamente quando ho il miglior contrasto sulla mia
immagine. Il problema è che rallento tutti gli elettroni, anche quelli più energetici. Ciò è un problema perché il
meccanismo di rivelazione sullo schermo a fluorescenza è sempre il solito. Gli elettroni devono arrivare sullo schermo
con un’energia sufficiente per indurre l’emissione di un fotone, e quindi in realtà questi elettroni che oltrepassano la
prima griglia devono essere riaccelerati questa volta da un potenziale positivo sufficientemente elevato. Prima filtro gli
elettroni che non mi interessano, poi li accelero.

Perché ci serve fare diffrazione di elettroni? Perché le superfici in genere possono avere struttura diversa rispetto al
bulk ma ancora più importante perché abbiamo visto che quando facciamo adsorbire in maniera ordinata delle
nuove specie sulla superficie possiamo indurre delle nuove strutture. Come le studio queste nuove strutture? Come
faccio a sapere se si è formato qualcosa di nuovo? Un overlay ordinato o no? Che tecnica utilizzo? Se è ordinato uso
diffrazione di superficie!! Scopo di un LEED è vedere se si è formato reticolo ordinato! Cosa mi aspetto di osservare?
Se io ho superficie pulita mi immagino di vedere il reticolo reciproco del substrato. Se l’assorbimento degli atomi ha
portato ad un cambiamento di simmetria, la mia immagine del reticolo reciproco dovrà cambiare. Come? In base a
quelle regole specificate finora.

Guardando lo spazio reale, c’è un substrato caratterizzato da cella più o meno rettangolare (pallini aperti), identificata
con dei parametri a1 e a2 e poi abbiamo le crocette che rappresentano gli atomi assorbiti con una certa regolarità.
Vediamo che possiamo definire le due celle come una cella centrata che è FCC con dimensioni rispetto a quelle di
partenza - WOOD (4x2)c (centrata). Oppure uso primitiva b1 b2 che sarà (rad5xrad5) ruotata. Cosa mi aspetto di
vedere nel pattern di diffrazione?

Se ragiono in termini di substrato il pattern di diffrazione che mi aspetto qual è? Ho una cella rettangolare e quindi ne
troverò sempre una rettangolare di direzione ruotata di 90 gradi.
Appunti Caratterizzazione 2013/14 83
Umberto Maria Ciucani

Se ragiono col sovra reticolo, il corrispondente di b1 sarà ortogonale a b2 con una lunghezza pari al reciproco di b1 e
idem per b2. Succede che se faccio esperimento di diffrazione prima di fare assorbire i miei atomi osservo un certo
pattern, faccio assorbire le specie chimiche e compaiono sull’immagine di diffrazione i punti luminosi corrispondenti
agli atomi adsorbiti. Così evidenzio sperimentalmente una variazione. Comunque sia, il nocciolo della questione
rimane sempre interpretare questo cambio in termini di una nuova struttura.

Siccome la posizione delle macchie dà informazioni solo sulla simmetria e sulle distanze relative, non posso
distinguere, data la stessa simmetria, se gli atomi adsorbiti sono messi on top oppure on bridge o in qualsiasi altra
posizione di simmetria. In realtà quello che potrebbe cambiare e che cambia, è l’intensità. Semplicemente in base
alle posizioni delle macchie non posso quindi distinguere fra queste situazioni.

10.06.2014

Vediamo delle immagini che ci mostrano come la simmetria che si ha nello spazio reale | questa è l’immagine di un
STM | Vediamo una simmetria esagonale nello spazio reale | Questa è l’immagine dello spazio reciproco e vediamo
che la simmetria di ordine 6 è mantenuta. La simmetria nel reticolo reciproco di [slide 15/28] è di ordine 4. La cella
unitaria è quadrata? NO. E’ vero che la simmetria è di ordine 4 ma la cella | questa è una cella? Non lo è perché non è
equivalente per rotazione però trae in inganno questo reticolo nello spazio reale. Guardando l’immagine dei riflessi
(spazio reciproco) non vediamo un ordine 4. L’immagine non presenta simmetria. L’immagine del reticolo reciproco
evidenzia in maniera più grande al simmetria di una struttura studiata. Nel secondo esempio sotto è difficile affermare
dal reticolo reale che vige una simmetria 4 mentre dall’immagine relativa del reciproco viene evidenziato
chiaramente. Noi siamo abituati a ragionare su questi casi ideali semplici, ma le strutture reali sono molto più
complicate [slide 16/28]. Qual è l’ordine qui? La simmetria di quest’immagine? Cosa intendo per simmetria? Perché se
voglio una simmetria globale di tutto il cristallo questa è una simmetria di ordine 4. Ma se io guardo su spazi più piccoli
posso avere simmetrie locali di ordine diverso!!!! Per esempio vedere la slide. Tipicamente le tecniche di diffrazione
che abbiamo analizzato non sono così puntuali. Perché io utilizzo radiazione su aree piuttosto grandi e quindi non ho
informazioni puntali che invece posso ottenere utilizzando invece un STM. Vedo le posizioni degli atomi addirittura,
quindi!!!

[slide 17/28] Qual è il reticolo reciproco che mi immagino di ottenere? Qui ho deciso di mettere atomi on top ma
potrei decidere di metterli anche al centro di ogni singolo quadratino. In notazione di WOOD sarà lo stesso e il pattern
di diffrazione che mi aspetto sarà? Il mio spazio reciproco non conosce la posizione degli atomi all’interno della cella
ma solo la simmetria e le distanze relative e quindi avrei anche in questo caso la stessa immagine di diffrazione e
questa è un cosa che dovremmo già sapere. La legge di Bragg, ovvero sia la posizione delle mie macchie del mio
spazio reciproco mi da informazioni solo sul reticolo, la sua simmetria e i parametri di cella e non me le dà s dove si
dispongono gli atomi all’interno della cella. La posizione dei punti luminosi non mi dà informazioni sulla posizione
dell’atomo del sovrareticolo nei confronti del reticolo del substrato ma solo sulla distanza e la simmetria. Per sapere
dove stanno, l’informazione che dovrò andare a leggere sarà quella della loro intensità.

[slide 18/28] Abbiamo sovrareticolo di dimensioni (1x3). Dove compaiono gli extra picchi dovuti al sovrareticolo? Mi
compariranno nuove macchie ad un terzo rispetto a quelle del substrato nella direzione del x3 mentre nell’altra
spaziatura è la stessa e quindi mantengo la stessa disposizione come nel reticolo reale (1x). Questa situazione qui (dal
punto di vista energetico ma anche da altri punti di vista) è del tutto equivalente a quella che vediamo rappresentata
sotto dove semplicemente ho ruotato di 90° la mia cellettina. Fisicamente sono la stessa cosa ma se noi, immaginiamo
di avere un cristallo singolo dove tutti gli atomi sono disposti con quella regolarità lì, il pattern di diffrazione che ci
aspettiamo non sarà più questo, perché abbiamo ruotato, ma quest’altro e gli extra picchi compariranno in questa
nuova direzione. Il nostro campione reale è a o b? Ovviamente, se le dimensioni dei domini, come normalmente
accade, sono sufficientemente piccoli da garantire che nell’area campionata siano presenti entrambi, il mio pattern
di diffrazione non potrà che essere la sovrapposizione dei due pattern. Ottengo un pattern sovrapposto.
84 Appunti secondo parziale Caratterizzazione 2013/14
Umberto Maria Ciucani

Dal punto di vista della simmetria, cosa abbiamo fatto per passare da questo substrato a questo reticolo? Simmetria
substrato: quadrata. Simmetria sovrareticolo: rettangolare. La più alta è quella del substrato. Il problema dei domini è
un problema che si pone quando la simmetria del sovrareticolo è più bassa rispetto alla simmetria del substrato.
Con l’overlay abbassiamo localmente la simmetria ma sicuramente, siccome queste due situazioni sono identiche, di
fatto recuperiamo una simmetria di ordine superiore (ordine 4). Se io avessi avuto una cella 3x3? Arei avuto lo stesso
tipo di reticolo reciproco? Il pattern sarebbe stato identico o diverso rispetto a quello del (3x1)? Diverso perché
sarebbero comparse delle nuove macchie all’interno della mia cella. [slide 18/28]

E’ vero che recupero la simmetria quadrata ma con le intensità delle mie macchie risalgo al fatto che le due
strutture sono diverse in partenza.

Più complicato capire questi discorsi in casi più difficili di geometria rettangolare come su substrato esagonale. [slide
19/28]. L’abbassamento di simmetria viene recuperato con questa sovrapposizione. Non li distinguo se non per la
diversa intensità delle macchie luminose che osservo.

Altri possibili effetti:

Ni [111], esagonale. Facciamo arrivare H, si forma 2x2 ed ecco che compaiono le nuove macchie [slide 22/28].
L’importanza di una tecnica come il LEED è quella di andare a rivelare diverse possibili strutture di adsorbimento sulla
superficie. Questo presuppone che i nostri atomi si siano disposti in maniera regolare sul substrato.

Annealing vuol dire che ho fatto adsorbire i miei atomi su Ni poi, ho intensità che varia nel tempo poiché gli atomi si
ordinano nelle posizioni a minore energia definendo così una maggiore simmetria col passare del tempo. Se vado a
monitorare con un LEED quello che succede osservo che all’inizio non ho presenza dei picchi relativi al soprareticolo.
Avrò una diffusione del segnale uniforme perché la situazione è più disordinata rispetto a quella che avevo nel
substrato. Man mano che passa il tempo si delineano i nuovi picchi che sono indice del fato che si è creato un overlay
ordinato sulla mia superficie. Monitoriamo il processo di formazione del sovrareticolo.

Nella slide seguente ho potassio che non si è adsorbito con regolarità. Ho una diffusione della radiazione luminosa
indifferenziata su tutto il mio pattern. L’assorbimento è avvenuto in maniera disordinata. La diffrazione mi dà anche
allora informazioni sull’ordine.

La semplice posizione delle macchie non è sufficiente per determinare la struttura on-bridge.

Nel caso dei raggi X, possiamo determinare con esattezza la posizione degli atomi all’interno della cella. LA teoria
dei raggi X ci dice che essi penetrano profondamente. L’interazione è debole con gli atomi. Trattiamo l’evento di
scattering come di scattering singolo. Questo nel caso dei raggi X visto che l’interazione è molto debole è corretto.
Si dice che si segue una teoria a scattering singolo o anche detta cinematica. E questo mi permette di calcolare con
precisione esattamente cosa fa il mio raggio.

Gli elettroni interagiscono più pesantemente con la materia e limitiamo la loro azione al primo strato superficiale.
In realtà non solo al primo perché c’è una certa profondità di penetrazione e quindi se io dovessi seguire esattamente
cosa fa ogni singolo elettrone, in realtà se mi accorgo che ci saranno quei due tre strati che interagiscono e che
soprattutto non posso più fare trattazione a scattering singolo. Interazione pesante. Faccio allora trattazione di
scattering multiplo o anche detta dinamica che è molto più complicata dal punto di vista matematico. Diventa poi
difficile calcolarsi l’intensità perché mentre coi raggi X era facile perché li sommavamo visto che si manteneva una
certa relazione di fase, qui è più difficile sommare esattamente le traiettorie degli elettroni. Cosa si fa?

Come posso mettere in evidenza l’effetto variazione d’intensità? Torniamo al nostro discorso della sfera di Ewald. Ci
diceva semplicemente come si osservano le macchie. Supponiamo di cambiare il raggio e vediamo che non cambia
nulla, osserveremo un angolo diverso ma l’interazione sarà sempre la stessa, l’intensità sarà allora la stessa. Questo
sarebbe vero se la mia superficie fosse veramente bidimensionale. In realtà nel caso reale c’è un effetto anche di
penetrazione nella direzione perpendicolare al piano. Se io penso a come è fatto il reticolo reciproco del bulk (3D) e a
come è fatto il reticolo reciproco della superficie (2D), nel caso del bulk è una serie di punti e nel caso della superficie
sono delle semirette. Se la mia superficie risente la presenza di una certa periodicità nella terza direzione, la pittura
reale sarà allora un ibrido fra i due estremi considerati. Avrò quindi una deformazione in prossimità dei punti che
corrispondevano ai punti del reticolo reciproco del bulk. Quindi se voglio dare una rappresentazione delle mie barre
Appunti Caratterizzazione 2013/14 85
Umberto Maria Ciucani

del reticolo reciproco le rappresento con dei salsicciotti in prossimità di dove avrei avuto i punti corrispondenti al
reticolo del bulk. Questo cosa vuol dire dal punto di vista sperimentale quando vado a fare l’immagine di diffrazione?
Che lì avrò una densità di carica maggiore E QUINDI L’INTERAZIONE CHE io ottengo fra i miei elettroni e quindi poi
l’intensità del mio picco di diffrazione sarà diversa rispetto alla situazione in cui cambiando il raggio della sfera e
quindi l’energia, interseco sempre in corrispondenza di quel determinato riflesso, interseco in una posizione lontana
rispetto a quella che avrebbe avuto il punto nello spazio tridimensionale. Effettivamente visto che è molto facile
cambiare il raggio della sfera di Ewald per gli elettroni (lambda e quindi variare accelerazione e potenziale) quello che
si fa è proprio quello di andare a calcolarsi (curve IV), dove vado a vedere come cambia l’intensità andando a
cambiare il raggio della sfera di Ewald. Mi fisso su di un determinato picco, ad esempio il Ni [100] fascio centrale.
Faccio variare l’energia degli elettroni. Sto considerando ad esempio questo riflesso qua cambiando il raggio della
sfera. Mi aspetto di osservare in prossimità del punto corrispondente al reticolo del bulk un’intensità maggiore e poi
più piccola per poi ritornare ad essere intensa quando mi avvicinerò qui e così via. [slide 27/28] Questi massimi ce li ho
in corrispondenza dei riflessi caratteristici del bulk. Quindi in realtà l’andamento in intensità di una diffrazione
elettronica è molto complicato tanto che non riesco a fare trattazione analitica ma al massimo posso fare delle
simulazioni teoriche di andamenti in funzione dell’energia. Ci sono modelli utilizzabili che dipendono da tanti
parametri.

Per l’analisi LEED si segue la chart nell’ultima slide. R è parametro di raffinamento.

La cosa più importante che ci deve rimanere è che per avere una determinazione della posizione degli atomi non
posso prescindere da un’analisi dell’intensità.

Chiedere esercizi 10.6.2014

12.06.2014
INFRAROSSO

Studiamo proprietà vibrazionali di molecola biatomica schematizzata come due masse (atomi) e una molla (legame
chimico) e definita da massa dei due atomi e costante di forza della molla (vedere legge di Hooke). Se noi spostiamo
molle da posizione di equilibrio e le lasciamo andare, iniziano a vibrare. Moto sarà oscillatorio armonico e la frequenza
di questo moto è data dalla relazione in [slide 2/144]. K è costante elastica della molla (dal modulo di Young) e mu è la
massa ridotta del sistema. Questa relazione ci dice che è proporzionale a k e inversamente proporzionale alla massa
ridotta. Se andiamo a vedere le vibrazioni in una molecola, se ad esempio abbiamo molecole con atomi leggeri (H,Li)
frequenze saranno elevate mentre al contrario se gli atomi coinvolti sono pesanti le frequenze saranno basse.

Lo scopo è quello di andare a vedere le frequenze di oscillazione delle molecole. In un qualche modo dovremmo
essere capaci di dedurre qual è la molecola coinvolta in quella vibrazione.

LA molecola oscilla in moto armonico: vediamo che il potenziale lo possiamo scrivere come in [slide 3/144]. L’energia
cinetica sarà proporzionale alla velocità in movimento delle masse. La forza sarà quella delle molle elastiche. K si
deduce come derivata seconda del potenziale. Classicamente questo potenziale ci dice che possiamo portare a una
certa distanza r i nostri due atomi e questi ultimi oscilleranno a una certa frequenza. Lo vediamo risolvendo le
equazione del moto del sistema dove la soluzione è sempre in [slide 3/144] dove omega sarà la frequenza di
oscillazione del sistema. Ciò va bene per un sistema classico ma in realtà tutti gli oggetti molto piccoli non vanno
d’accordo con la trattazione classica bensì con quella quantistica. C’è bisogno di introdurre tutto un nuovo
formalismo. Così avremo che in un sistema quantistico molecolare, i livelli di energia potenziale che possono essere
effettivamente assunti dal sistema non saranno continui ma discreti e c’è una relazione che fornisce l’energia del
sistema ad un certo livello. Sarà un multiplo di una quantità hv. A v=0 c’è sempre un minimo di energia anche se siamo
allo 0 assoluto.

[slide 4/144]. In verde c’è l’approssimazione armonica. Funziona per potenziale armonico ma in realtà i legami fra le
molecole non sono delle molle. Si discostano dal potenziale armonico. La vibrazione non è armonica. Se la molecola
86 Appunti secondo parziale Caratterizzazione 2013/14
Umberto Maria Ciucani

non è armonica e quindi la forza di legame dipende anche dagli atomi, non possiamo più semplificare un sistema col
sistema armonico. Vi sono molti potenziali che tentano di riprodurre la realtà. Uno di questi è detto di Morse (curva
Blu). A un certo livello di energia la molecola si dissocia. Non è armonico. Si può risolvere l’equazione del moto anche
in questo caso. I livelli non saranno più equispaziati ma via via saranno sempre più vicini/densi fino ad arrivare poi a
dissociare la molecola. La natura non è armonica però se andiamo a lavorare nella zona bassa ovvero quella delle
piccole oscillazioni, possiamo approssimarla come armonica, rendendo molto più semplice la trattazione e il significato
delle cose che uno raccoglie. Il fatto che la natura non sia armonica ci porterà a vedre poi che ci saranno degli effetti
negli spettri che lo dimostrano. Nel potenziale armonico, come il sistema può andare a livelli energetici maggiori? Solo
facendo salti quantici da un livello a quello successivo. Non posso fare salti di più di un livello nell’approssimazione
armonica cosa che invece è possibile nell’approssimazione anarmonica. Negli spettri vibrazionali, andiamo a vedere
questi salti quantici e notiamo anche salti fra livelli non prossimi gli uni gli altri (transizioni non ammesse in trattazione
armonica).

La molecola è composta da nuclei e quindi elettroni e protoni e da elettroni, un’approssimazione importante da fare è
quella di Born-Oppenheimer. Gli elettroni attorno alla molecola si muovono molto molto più velocemente rispetto ai
nuclei. Quando questi ultimi vibrano trovano la massa elettronica come se fosse ferma in un’approssimazione
adiabatica. Dobbiamo fare questa approssimazione. Quello che fa il legame, la nuvola elettronica non ne deve
risentire. Altrimenti non si può fare l'approssimazione armonica. Così è allora possibile andare a fare spettroscopia.

Vogliamo vedere i modi vibrazionali. Una molecola ha 3N gradi di libertà. Un atomo ha 3 gradi di libertà perché può
traslare in x y e z. Per n atomi saranno allora 3n gradi. Gli atomi non saranno indipendenti ma legati fra di loro tramite
legami chimici. Questi 3n gradi di libertà possiamo scomporli con 3 gradi di libertà traslazionali della molecola come un
tutt’uno. E ho anche 3 gradi di libertà che mi descrivono la rotazione sempre come tutt’uno. Siccome noi dalle
vibrazioni riconosciamo il tipo di atomi e il tipo di legame mi aspetterò 3n gradi di libertà ma di moti puramente
vibrazionali saranno 3n-6 (appena accennate).

Se la molecola però è lineare, i gradi di libertà rotazionali da andare a togliere non saranno più 3 ma soltanto 2. Quindi
3n-5 gdl. La molecola di CO2 è lineare mentre H2O non lo è.

Per l’H2O mi aspetterò quindi 3 tipi di vibrazioni. Per il CO2 invece 4 modi 2 stretching più due bending: dei bending
uno avviene nel piano della lavagna mentre l’altro nel piano esterno alla lavagna. Questi due bending sono vibrazioni
degeneri (stessa frequenza di vibrazione) [slide 6/144].

Durante il movimento possiamo notare che tutti gli atomi della molecola si muovono in fase e passano per la
situazione di equilibrio tutti nello stesso momento. Anche l’ossigeno un po’ si sposta ma tutti gli atomi si muovono con
la stessa frequenza, passano per la posizione di equilibrio nello stesso istante e questo è ciò che caratterizza un modo
normale di vibrazione.

Abbiamo un molecola che vibra ma vogliamo essere capaci di riuscire a registrare la sua vibrazione. Parliamo allora di
assorbimento infrarosso.

La molecola vibra e le frequenze cadono solo nella regione della radiazione infrarossa. Sono frequenze da 0,7
micrometri a 1 mm.

1. zona dei gruppi funzionali, che si estende da 3800 a 1300 cm-1 e comprende bande dovute sia a stiramenti
che a deformazioni di gruppi funzionali (per esempio legami N-H, O-H, C-H, C=C, C=O, N=O, ecc.), con
quest'ultimi compresi tra 1600 e 1300 cm-1. È da notare che i legami con l'idrogeno si trovano a frequenze
molto alte per via della massa molto ridotta di quest'atomo;
2. zona delle impronte digitali (fingerprint), da 1300 a 650 cm-1 e che deve il suo nome alla presenza di bande
strettamente caratteristiche di ciascuna singola molecola in quanto originate da vibrazioni corali dell'intero
scheletro molecolare;
3. zona del lontano IR, che si estende da 650 a 200 cm-1 e presenta bande dovute a stiramenti di atomi pesanti,
deformazioni di gruppi privi di idrogeno e vibrazioni di scheletro.

Come faccio ad andare a vedere le vibrazioni molecolari? Lasciando interagire una radiazione elettromagnetica di una
specifica zona di radiazioni (IR) con la molecola. Se la molecola la blocco, il campo magnetico arriva, la molecola non
può assorbirlo. Se le permettiamo di muoversi allora la potrà assorbire e si metterà a vibrare. La molecola è in uno
Appunti Caratterizzazione 2013/14 87
Umberto Maria Ciucani

stato energetico basso, vibrando alla stessa frequenza, assorbe i fotoni e aumenta la sua energia. Nel contempo il
campo scambiato avrà un valore più piccolo perché le molecole lo hanno assorbito. Così facendo riusciamo a capire a
che frequenza e se il sistema ha assorbito radiazione. FONDAMENTALE: la molecola deve vibrare ma deve variare il
suo momento di dipolo. Se non abbiamo un tale momento di dipolo oscillante, essa non interagirà mai col campo in
cui è immersa. [slide 8/144]. Prendendo una molecola d’ossigeno o d’azoto, abbiamo gli atomi, i nuclei e la nuvola
elettronica attorno. Posso vibrare e stretchare ma durante il moto non ci sarà separazione fra cariche elettriche degli
elettroni e cariche elettriche dei nuclei.

Il baricentro di carica non si sposterà, non ci sarà variazione di momento di dipolo. E’ fondamentale che, perché una
molecola assorba radiazione, ci sia una variazione del momento di dipolo. Potrebbe già esserci a riposo questo
momento ma ci sono molecole che hanno un momento di dipolo “statico” ma se durante una loro vibrazione avviene
una variazione del momento di dipolo, allora quella vibrazione potrà assorbire radiazione e potrà essere vista e
registrata.

Che cos’è un’onda piana? Abbiamo una componente oscillante del campo elettrico lungo il piano della lavagna e una
componente del campo magnetico oscillante nel piano perpendicolare a quello elettrico. Concetto di onda piana che
propaga nel vuoto.

Se le frequenze coincidono avverrà assorbimento. Ciò vuol dire che che il contributo energetico assorbito dalla
molecola sarà hv.

Come registriamo il dato? Andiamo a vedere cosa succede dopo l’assorbimento. Abbiamo l’intensità della radiazione
incidente I(0) che arriva sul nostro campione: parte della radiazione può essere trasmessa ed esce dal campione
(eventualmente verrà assorbita) e parte può essere riflessa. Trasmittanza viene rilevata dietro al campione. Se non c’è
assorbimento T = 100 altrimenti diverso. Un’altra unità sempre legata a questo bilancio, che è l’assorbanza che è vista
come in [slide 9/144]. Ultima è la riflettanza misura della luce riflessa rispetto all’intensità in ingresso sul campione.
Uno può dare uno spettro in funzione di una di queste tre variabili. Dipende cosa vado a leggere.

Le unità usate potrebbero essere per la trasmittanza la lunghezza d’onda, o l’energia o in funzione del reciproco della
lunghezza d’onda. In spettroscopia, siccome abbiamo numeri grandi (10^15Hz) la frequenza non è comoda da usare.
Le lunghezze d’onda nemmeno (se in m). Se invece uso il reciproco della lunghezza d’onda, il numero d’onda, vediamo
che i valori che ci interesseranno saranno valori dalle centinaia alle migliaia. Molto più comodi! (cm^(-1)). Se abbiamo
1000cm^-1 vuol dire che 1000 oscillazioni in un centimetro. Vedremo anche lunghezze d’onda ed energie in cm^-1.

Perché è importante esprimere l’assorbanza e non la trasmittanza. Siccome vogliamo dare un valore all’energia che
assorbe la molecola. Legge di Lambert-Beer vedere slide [10/144]. A è coefficiente assorbimento, l spessore cella e c
concentrazione della specie.

Posso allora misurare assorbanza da parametri di intensità in entrata e in uscita e posso determinare una proprietà
molecolare (coefficiente di assorbimento).

[slide 11/144] Lo strumento registra quanto una componente viene assorbita. Queste sono le bande di assorbimento
corrispondenti ai moti di vibrazione in figura. Una molecola può assorbire radiazione e a seconda del suo modo
normale la può assorbire tanto o poco. Gli stretching interagiscono molto di più col campo rispetto ai bending.

Il punto di domanda cos’è? Si tratta sempre di acqua pura. E’ il fatto che la natura non è armonica e allora (in [slide
12/144] ci sono tutte le vibrazioni dell’acqua). Le blu sono quelle che ci aspettiamo, mentre quelle rosse sono delle
combinazioni. Tutto ciò avviene perché i potenziali in gioco non sono armonici. La trattazione armonica mi consente di
trovare quelle vibrazioni che mi aspetto (blu) ma poi tutte le altre bande non spiegabili lo sono invece perché il
potenziale è anarmonico e quindi sono vibrazioni combinate!!!

Lo spettro del vapore è complicatissimo!!!! Acqua uno degli elementi più difficili da analizzare.

Dallo spettro posso risalire all’assorbanza che non è un dato valore in ordinata ma sarà uguale all’integrale del picco
fra 2 frequenze diviso per la concentrazione del campione e lo spessore sempre del campione (per avere un valore
adimensionale). Questa assorbanza sarà proporzionale al quadrato della variazione del momento di dipolo.
88 Appunti secondo parziale Caratterizzazione 2013/14
Umberto Maria Ciucani

Cosa vuol dire variazione del momento di dipolo!? Prendiamo l’acqua, all’equilibrio possiede già un momento di
dipolo. [slide 13/144]. Durante i modi normali di vibrazione della molecola, variano o le distanze di legame o l’angolo
di valenza fra gli idrogeni. Ciò fa variare il momento di dipolo. Come? Vediamo sotto i tre esempi. La variazione del
momento di dipolo può avvenire nelle più svariate direzioni, non solo nella direzione del momento di dipolo già
presente.

[slide 14/144]. Un altro concetto importante è quello di simmetria di una molecola. Nel caso dell’etilene c’è
simmetria. Se la ruoto lungo l’asse x, è sempre la stessa. Lungo y e z pure. Ci sono anche i piani di rotazione e non solo
gli assi. La molecola è simmetrica rispetto a tutti i piani!!! Anche l’identità è un’operazione di simmetria. (BOH). C’è un
centro di inversione. Se io proietto gli atomi rispetto a un certo punto la molecola è ugualmente se stessa (BOH^2).

- Operazioni di simmetria
Una operazione di simmetria è un'azione che lascia immutata una molecola. A una operazione di simmetria è
associato uno o più elementi di simmetria. Le principali sono:

Identità: indicata con E, corrisponde a una operazione unitaria. L'elemento di simmetria può essere considerato la
molecola stessa; questa operazione è caratteristica di tutte le molecole.
Rotazione n-aria: è l'operazione associata all'asse di rotazione n-ario.
Riflessione: è l'operazione associata al piano di simmetria.
Inversione: è l'operazione prodotta proiettando ciascun punto della molecola nella direzione opposta equidistante dal
centro di inversione.
Rotazione impropria: operazione composta ottenuta in seguito a una rotazione n-aria seguita da una riflessione
perpendicolare all'asse di rotazione. Sovente le operazioni di simmetria sono indicate utilizzando simboli identici a
quelli dei rispettivi elementi di simmetria.

Come si muoverà questa molecola? Quante vibrazioni mi aspetto? 3n-6=12 modi di vibrazione. Questa è molecola
planare e non lineare (quindi non si tratta di 3n-5!!!). [slide 15/144]. Andando a vedere, ci sono le tre rotazione, le tre
traslazioni e i 12 modi vibrazionali. Attività RAMAN e IR è mutualmente esclusiva. In generale più una molecola è
simmetrica e minore sarà la possibilità di osservare molte vibrazioni IR attive e viceversa. Concetto fondamentale è
che se abbiamo un centro di inversione come elemento di simmetria, avrò vibrazioni che possono essere viste all’IR
(producono variazione momento di dipolo) e altre invece no. Ci saranno anche vibrazioni inattive sia a IR che a Raman
perché non subiranno variazioni né al momento di dipolo né alla polarizzabilità.

Tipi di vibrazioni (nomi): http://it.wikipedia.org/wiki/Spettroscopia_IR#Vibrazioni_molecolari


per le energie guardare [slide 16/144]. Avvengono a frequenze diverse perché cambia la forza necessaria a fare un
certo tipo di vibrazione (cambia k per il tipo di vibrazione).

- Frequenze di Gruppo. (sopra 1500cm^-1)


All’interno della molecola posso riconoscere vibrazioni di particolari gruppi chimici CH ma anche NH, OH, ecc.
(cambieranno anche i tipi di legami oltre agli atomi). E’ possibile associare a picchi in questa area delle vibrazioni che
sicuramente saranno caratteristiche di gruppi chimici (tabulati).

[slide 17/144]

- Fingerprint Region (1500cm^-1 – 400cm^-1)


Una regione dove non è così semplice riconoscere il tipo di legame, il tipo di gruppo chimico che sta vibrando perché
in questa regione sono coinvolti moti che non sono più locali ma delocalizzati sull’intera molecola. Una vibrazione
d’insieme di tutti gli atomi (composizione collettiva di vibrazioni). Queste vibrazioni allora saranno caratteristiche solo
di quella molecola. Se noi prendiamo molecola molto simile e ci aspettiamo spettro vibrazionale quasi identico, nella
fingerprint region specialmente questo spettro non sarà proprio così identico. Le vibrazioni dipendono da come sono
messi gli atomi e dalla geometria ad esempio. Utilizzo quest’area allora per aere l’esatta certezza (usando un
database) che sia esattamente quella molecola! Confronto gli spettri. Lo spettro vibrazionale è caratteristico proprio di
Appunti Caratterizzazione 2013/14 89
Umberto Maria Ciucani

quella sola molecola. Se ho delle miscele ovviamente non è più così semplice poiché avrò somma dei tre spettri
singoli.

Alla [slide 18/144] vediamo frequenze tipiche di vibrazione di certi legami col carbonio. L’incremento dei legami fra
due stessi atomi (singolo-doppio o triplo legame) risulta in un incremento della frequenza. Stessa cosa avviene quando
attuo una sostituzione isotopica (idrogeno con deuterio ad esempio quindi aumento massa dell’atomo).

Nella [slide 19/144] vediamo diverse frequenze per diversi tipi di accoppiamenti fra atomi.

[slide 20/144] Spettro in assorbanza negativa (trasmittanza). Andiamo a vedere che nello spetro ci sono queste due
bande ben isolate dalle altre. Facciamo riconoscimento tramite tabella di prima.

[slide 21/144] Lo xylene può essere para orto o meta. Andando a vedere le frequenze di gruppo, coincidono, mentre
quelle della fingerprint region NO!! Per riconoscere il tipo di xylene che abbiamo allora dovremo andare a fare un
confronto nei database tabulati qual è quello che più gli si avvicina.

17.06.2014

Questi sono esempi di come sfruttare le frequenze di gruppo. [slide 22/144] Possiamo vedere i diversi gradi di
degradazione del polimero all’aumentare del tempo d’esposizione all’ossigeno a una data temperatura, dalla crescita
del picco relativo al C=O. Questo è un altro esempio in cui il campione è stato esposto al Sole che agisce sulla parte
disordinata del campione.

Ci sono dei fattori che possono influenzare i modi vibrazionali delle molecole? Se scambiamo le masse in gioco:
isotopi. Ci possono essere effetti elettrici. Se viene cambiata la distribuzione elettronica del legame cambierà la forza
con cui gli atomi sono legati ad esempio. Infine ci possono essere effetti conformazionali.

- Effetto di massa e shift isotopico

I picchi vengono shiftati verso frequenze minori per via dell’aumento della massa del sistema. Posso riconoscere una
situazione isotopica all’interno del mio campione? Si. Anzi la sostituzione isotopica è stata fondamentale per lo studio
degli spettri: quando non si era sicuri nell’assegnazione di una banda di legame con l’idrogeno, si sostituiva col
deuterio in modo tale da vedere quale banda shiftava e quindi attribuirla con certezza.

L’effetto elettrico da fattori interni lo si può vedere andando a studiare la serie di frequenze di stretching di CH isolati.
Queste sono tutte le frequenze di CH stretching attaccate a molecole di un certo tipo. Più un gruppo è elettronegativo
e attrae elettroni dall’idrogeno e più il legame diventa corto? Vuoto? (non si capisce). Quindi la frequenza cambia.

- Legame a idrogeno

Tutto ben spiegato in [slide 27/144] Esempio dell’etanolo in quella seguente. Il fatto che si stiano creando dei legami a
idrogeno è chiarito da questa banda grande larga e molto intensa che varia su un largo intervallo di frequenze. CCl4
solvente apolare. Cominciano a venire su bandine isolate nelle frequenze di OH libero. Vuol dire che ci sono ancora
delle molecole che stanno interagendo tramite legame OH ma alcune sono circondate da questo solvente e quindi
l’OH è libero di vibrare alla sua frequenza.

Prendiamo un acido carbossilico per evidenziare un comportamento dovuto a legame a idrogeno forte. Questi acidi
solitamente si legano sempre coda coda o con legame a idrogeno. Dov’è finito l’OH hydrogen bond? Tutta quella
evidenziata dalla [slide 29/144].

Esempio di polimorfismo alla [slide 30/144]. La cristallizzazione in due forme diverse dà luogo a due spettri diversi.
Con l’analisi infrarossa è allora possibile dedurre in quale forma è stata sintetizzata.

- Apparato sperimentale

Ci serve anzitutto una sorgente che, nello spettro elettromagnetico, emetta nell’IR. SiC 1100°C. In qualche modo la
radiazione dovrà essere selezionata. Fare uno spettro per noi vuol dire riconoscere frequenza per frequenza se c’è
90 Appunti secondo parziale Caratterizzazione 2013/14
Umberto Maria Ciucani

stato assorbimento. Quindi per fare uno spettro una persona deve mandare sul campione radiazione a diverse
frequenze e vedere s c’è assorbimento o meno. La radiazione deve essere in qualche modo scomposta e devo fare in
modo di poter inviare sul campione la lunghezza d’onda che voglio misurare. Posso farlo tramite prismi, dei oppure un
interferometro.

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