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RADIAZIONI
Per radiazioni si intendono soprattutto le radiazioni elettromagnetiche che sono caratterizzate dal
fatto di essere onde che vengono diffuse nell’ambiente. In realtà esistono anche delle radiazioni
dette corpuscolare che hanno massa come i nuclei di Elio, protoni, neutroni ed elettroni.
Radiazioni Elettromagnetiche
Caratteristica fondamentale delle radiazioni elettromagnetiche è quella che allo stesso tempo si
comportano come particelle discrete anche se senza massa (es fotoni) oppure come onde, queste
onde presenteranno:
-Una lunghezza d’onda
-Una frequenza (la frequenza e la lunghezza d’onda sono una l’inverso dell’altra e possono essere
dedotte l’una dall’altra: v =1/λ).)
-Energia trasportata
Per tanto come abbiamo detto le radiazioni possono essere classificate in base alla lunghezza
d’onda che può essere variabile in un ambito estremamente grande, si va dai 10^-5 nm fino a m e
km, ovviamente l’effetto di queste radiazioni sarà completamente diverso perché dipenderà sia
d’alta quantità di energia trasportata (sarà tanto maggiore tanto minore sarà la lunghezza d’onda)
sia dalla lunghezza d’onda. L’effetto sulla materia varierà in funzione di questa energia. Per quanto
riguarda le radiazioni più brevi che trasportano la maggiore quantità di energia parleremo di
radiazioni ionizzanti in quanto queste radiazioni sono in grado di produrre la ionizzazione degli
atomi che colpiscono quindi trasportano una quantità di energia estremamente grande tale da
permettere alla materia di trasformarsi.
Le radiazioni ionizzanti saranno chiamate se elettromagnetiche raggi X e raggi gamma, se
corpuscolate raggi alfa e beta.
Le radiazioni a lunghezza d’onda maggiore e che trasportano quantità minori di energia non
saranno poi in grado di ionizzare la materia tuttavia la loro energia sarà tale da permettere
comunque un salto di orbitale ovvero l’eccitazione dell’atomo stesso. Quando l’atomo è a riposo
gli elettroni sono disposti negli orbitali a minor livello energetico, se l’atomo viene colpito da una
quantità sufficiente di energia l’elettronica passerà da un orbitale a minor livello energetico ad un
orbitale a maggior livello energetico; questo porterà ad una situazione di instabilità dell’elettrone
stesso che tenderà a tornare nella posizione a minor livello energetico; per far questo ovviamente
dovrà liberare l’energia da cui era stato caricato, questo fenomeno è chiamato fluorescenza:
sostanzialmente l’atomo viene colpito da una radiazione a minore lunghezza d’onda che fa saltare
l’elettrone ad un orbitale superiore e dopo di che l’elettrone ritorna all’orbitale a minor livello
energetico liberando contemporaneamente una quantità di energia pari a quella che l’aveva
colpito sotto forma di un’onda elettromagnetica a lunghezza d’onda superiore.
La fluorescenza consiste quindi nell’eccitazione di un elettrone ad un livello energetico superiore e
nella liberazione di questa energia sotto forma di radiazione a lunghezza d’onda maggiore. Queste
radiazioni eccitate saranno quindi le radiazioni ultraviolette, visibili e infrarosse e poi avremo
radiazioni che non sono in grado di eccitare gli elettroni e la cui energia viene assorbita dal nucleo
e che vengono chiamate onde radio o microonde in funzione della loro lunghezza d’onda. In
questo caso come dicevamo l’energia non è sufficiente neanche per far saltare di orbitale
l’elettrone però tuttavia questa energia caricherà il nucleo che dovrà eliminarla in qualche modo.
La eliminerà attraverso quello che è chiamato effetto Joul che consiste nella liberazione
dell’energia per mezzo della liberazione del nucleo sotto forma di calore che poi è il sistema
ovviamente come dice il nome stesso di queste radiazioni, usate nei forni a microonde, nei forni a
microonde sono prodotte delle microonde che colpiscono la materia riscaldandola.
Radiazioni Ionizzanti
Queste possono essere prodotte in molti modi:
-Radiazioni Naturali: che provengono dal cosmo che sono chiamate radiazioni cosmiche
-Radiazioni naturali presenti nell’ambiente: che derivano dal decadimento radioattivo di
radioisotopi
-Radiazioni artificiali: che possono essere o prodotte dalla sintesi di composti radioattivi o
attraverso il bombardamento elettronico di un metallo pesante, questo metodo di produzione di
radiazioni ionizzanti permette la produzione dei cosiddetti raggi X, essi sono prodotti dal
bombardamento di elettroni accelerati su metalli pesanti; esempio classico di macchina per
produrre raggi X è il tubo catodico in cui si hanno due elettrodi: uno positivo ed uno negativo tra
cui verrá causata una differenza di potenziale dell’ordine delle decine di migliaia di volt. Questo
quindi accumulerà al polo negativo una quantità molto elevata di elettroni che saranno attirati dal
polo positivo, quando a differenza di potenziale sarà sufficiente questi elettroni si staccheranno dal
polo negativo e saranno accelerati nell’ambiente verso il polo positivo; ovviamente se incontrano
l’aria la maggior parte di questi elettroni saranno fermati dalle molecole d’aria e l’energia
accumulata verrà dispersa sotto forma di calore e luce esempio scintilla. Se invece di troviamo in
un tubo in cui è fatto il vuoto questi elettroni andranno a colpire il polo positivo dove se avremo
un rivestimento di piombo otterremo l’emissione di una radiazione elettromagnetica di lunghezza
d’onda molto breve e con caratteristica di essere estremamente energetica (questo sistema di
produzione di raggi X è quello che viene maggiormente utilizzato tutt’oggi nei macchinari che sono
utilizzati a scopi medici diagnostici e terapeutici).
Raggi gamma, alfa e beta non vengono prodotti da macchinari ma sono prodotti che derivano dal
decadimento radioattivo di un isotopo.
Gli isotopi sono atomi che sono caratterizzati dal fatto di avere lo stesso numero atomico ma
diverso numero di massa (diverso numero di neutroni). Per quanto riguarda tutti gli atomi le
caratteristiche chimiche sono date dal numero atomico ovvero il numero di protoni presenti
nell’atomo; viceversa le caratteristiche fisiche ovvero il peso, la massa sono date dal peso atomico
che è dato dalla somma dei protoni e dei neutroni. Quindi ogni atomo avrà caratteristiche
chimiche date dal numero atomico per esempio un protone ci darà l’idrogeno, due protoni ci darà
l’elio mentre a seconda del numero dei neutroni potremo avere massa più o meno grande quindi
si comporteranno chimicamente allo stesso modo ma peseranno di più o di meno; l’esempio più
semplice è dato proprio dall’idrogeno che ha numero atomico 1 (quindi 1 protone) ma può avere
diverse forme isotopiche che possono essere l’idrogeno (non ci sono neutroni nel nucleo), il
deuterio (nel cui nucleo ci sono 1 protone ed 1 neutrone quindi il peso è 2) e il trizio (in cui c’è 1
protone e 2 neutroni); questi sono i tre isotopi dello stesso atomo, hanno le stesse caratteristiche
chimiche ma hanno massa diversa e possono anche avere diversa stabilità in quanto il nucleo è
formato da particelle che tendono a respingerai tra di loro e quindi occorre una forza
estremamente significativa per tenerle coese. Se le forze di repulsione tra i vari componenti del
nucleo superano le forze di adesione ecco che il nucleo si spaccherà, spaccandosi si libereranno
dei frammenti formati dai diversi componenti del nucleo più ci sarà la liberazione dell’energia che
era necessaria per tenere unito l’atomo, questa è chiamata energia atomica e questo fenomeno è
chiamato decadimento radioattivo di un radioisotopo. Questo ovviamente dipenderà dall’entità
delle forze che si trovano in ogni momento all’interno del nucleo e che tendono da una parte a
tenerlo unito e dall’altra a romperlo. La possibilità che il nucleo si rompa dipenderà dalla sua
struttura: nel caso dell’idrogeno per esempio non sarà possibile la rottura perché il nucleo è
formato da un unico protone, nel caso degli altri atomi dipenderà dal rapporto tra la forza di
coesione degli elementi nucleari e la forza di dispersione di questi stessi elementi, se la forza di
coesione sarà molto superiore di quella di rottura ovviamente il nucleo sarà stabile, se viceversa le
forze saranno vicine statisticamente sarà possibile che avvenga che la forza di repulsione tra gli
elementi nucleari superi la forza di attrazione, ovviamente in questo caso andremo in contro alla
rottura del nucleo stesso con la liberazione di una radiazione atomica. Da che cosa dipenderà la
stabilità del nucleo? Dipenderà dal peso atomico in assoluto e dal rapporto tra protoni e neutroni,
quindi gli elementi ad alto peso atomico saranno spontaneamente instabili indipendentemente dal
loro stato isotopi o per esempio tutto sanno che l’uranio é un atomo con diversi isotopi (235,238)
ma tutti questi isotopi sono instabili e quindi sono radioattivi, viceversa negli atomi più piccoli la
stabilità dipenderà dipenderà dal rapporto tra neutroni e protoni prendendo sempre come
esempio l’atomo più semplice cioè l’idrogeno avremo un isotopo : l’idrogeno stesso che essendo
formato da un solo protone sarà ovviamente assolutamente stabile, un isotopo: il deuterio
formato da un protone e un neutrone che sarà anch’essi stabile e un un isotopo: il trizio formato
da un protone e due neutroni che sarà viceversa instabile e sarà quindi considerato un isotopo
radioattivo. Gli isotopi radioattivi sono appunti quelli che vanno incontro a rottura del nucleo con
emissione di radiazioni ionizzanti. Quando è con che frequenza avverrà la rottura di un atomo ?
Dipenderà dal tipo di isotopo, ogni radioisotopo avrà una ben decisa e definita probabilità che in
ogni momento vada in contro a rottura di un nucleo quindi la probabilità indicherà la frequenza
con cui ciò avverrà. Quando metà del radioisotopo si è trasformato noi parleremo di
dimezzamento del radioisotopo. Il tempo che intercorre tra l’inizio della prova e quando la metà
del radioisotopo si è trasformato viene chiamato tempo di dimezzamento che è estremamente
variabile, può variare da microsecondi a migliaia di anni a seconda del tipo di radioisotopo.
L’instabilità del radioisotopo potrà dare poi origine o ad atomi di massa inferiore e altre particelle
o solo a atomi di massa inferiore; questi atomi potranno essere stabili o instabili, se saranno
instabili saranno nuovamente radioattivi. La linearità e la precisione del tempo di dimezzamento
sono estremamente precise tanto è vero che oggi gli orologi che misurano il tempo con la
maggiore accuratezza e precisione sono i cosiddetti orologi atomici, questi valutano il calcolo del
tempo sul calcolo del tempo di dimezzamento di uno specifico elemento radioattivo per esempio il
cesio. Questa linearità e precisione del tempo di dimezzamento è anche utilizzante in molte
branche scientifiche per esempio la datazione di sostanze organiche è possibile attraverso l’analisi
del contenuto di carbonio 12 per questo si possono datate reperti risalenti anche a migliaia di anni
fa; come avviene questa datazione ? È un esempio di utilizzo di radioattività per studi diversi da
quelli medici. Nell’atmosfera sono presenti diversi isotopi del carbonio, il principale è il C12 che è
quello con la massima concentrazione ambientale, oltre al C12 è presente una quantità
estremamente piccola di C14 che a differenza del C12 che è un isotopo stabile, il C14 è un isotopo
instabile, quindi che tende a decadere. Il tempo di dimezzamento del C14è circa 5730 anni questo
significa che la quantità del c14 presente nell’atmosfera oggi sará ridotto a metà tra 5730 anni.
Normalmente il c14 rimane costante dell’atmosfera in quanto al C14 che decade si oppone la
formazione di nuovo C14 a livello degli strati alti dell’atmosfera per via delle radiazioni solari
sull’azoto. Quindi sostanzialmente tra il C14 distrutto e il C14 che si forma c’è un equilibrio
nell’ambiente. Questo significa che quando un organismo biologico attraverso la sintesi
clorofilliana trasforma l’anidride carbonica presente nell’aria in molecole organiche, incorporerà
una percentuale costante di C14 rispetto al C12; quindi in ogni organismo vivente troveremo un
rapporto costante di C12 e C14 che è identico a quello presente nell’atmosfera
. Quando quindi questo organismo morirá al suo interno ci sarà un preciso rapporto di C12 e C14,
non essendoci più assunzione di C dall’esterno questo rapporto rimarrá congelato e mano a mano
il C14 comincerà a decadere quindi quando un reperto di materiale organico avrà raggiunto per
esempio 5730 anni conterrà la metà di C14 rispetto a quello che è presente nell’atmosfera. Anche
questo è un esempio di come noi possiamo scientificamente valutare situazioni molto particolari.
Però ci dice anche una cosa: una cosa sono i dati e una cosa sono poi le teorie elaborate sulla
scienza perché per esempio in questo caso noi possiamo dire con assoluta certezza che in un
determinato periodo di tempo si avrà il dimezzamento del C14 presente, quello che invece è
variabile è la concentrazione nell’atmosfera del C14 rispetto al C12. Quindi noi partiamo
dall’assunto che questo C14 sia stato costante nell’atmosfera per tutto il periodo che noi andiamo
ad esaminare e questo non é necessariamente vero per esempio noi possiamo vedere che se
prendiamo una foglia vicino al raccordo anulare e andiamo ad esaminare il rapporto tra C14 e C12
potremo vedere che è inferiore rispetto a quello che ci aspettiamo perché per via della
contaminazione da parte di anidride carbonica prodotta dall’energia fossile ovvero la benzina ecco
che noi avremo una concentrazione inferiore di C14. Si tratta di molecole fossili che quindi sono
andate in contro a decadimento. Una foglia raccolta oggi potrebbe apparire all’analisi del C14
come se avesse centinaia o migliaia di anni quindi ecco che i dati scientifici sono se fatti bene
incontrovertibili, l’interpretazione dei dati scientifici è invece sempre estremamente delicata e può
dare facilmente errori. Dal punto di vista medico perché il tempo di dimezzamento è interessante
per noi ? Perché il tempo di dimezzamento è essenziale per noi per valutare la pericolosità di una
contaminazione. Se l’ambiente viene contaminato da un agente radioattivo per noi sarà
fondamentale sapere in quanto tempo agente sarà eliminato dall’ambiente stesso e questo sarà in
funzione del suo tempo di dimezzamento. Se il tempo di dimezzamento è molto breve, in tempi
brevi dopo un certo numero di dimezzamenti nell’ambiente la quantità di questo radioisotopo sarà
talmente basa da non rappresentare più un pericolo una causa di danni. Se viceversa il tempo di
dimezzamento è lungo, questi radioisotopi non verranno eliminati dall’ambiente per tempi
estremamente lunghi. Quindi sia ai fini della valutazione dell’impatto ambientale di una
contaminazione sia per quanto riguarda l’uso di radioisotopi a scopi medico, diagnostico o
terapeutico sarà fondamentale conoscere e analizzare il tempo di dimezzamento. Quali saranno le
cause della contaminazione ambientale da parte di radioisotopi: la radiazioni che contaminano
l’ambiente potranno essere di origine naturale o artificiale. Per quanto riguarda quelle di origine
naturale abbiamo già accennato ai raggi cosmici, in più dovremo parlare di radiazione prodotta dai
radioisotopi spontaneamente presenti in natura. Questi radioisotopi sono tanti e diffusi
nell’ambiente in modo NON OMOGENEO perciò avremo zone con particolari contaminazioni da
parte di specifici radioisotopi. Per quanto riguarda l’Italia un esempio può essere il gas Radon, un
gas di origine vulcanica che è contenuto nel tufo; quindi le costruzioni che utilizzano mattoni di
tufo i peggio ancora le cantina scavate nel tufo possono avere contaminazioni molto significative
da parte di questi gas che tra l’altro tende ad accumularsi in quanto più pesante dell’aria.
Viceversa invece negli Stati Uniti nelle montagne rocciose ci sono zone ad alta contaminazione da
uranio dove sono situate le più importanti miniere di questo minerale. Poi ci sono i contaminanti
artificiali che sono di due origini: bellica e pacifica. La contaminazione bellica deriva dall’esplosione
di bombe atomiche sia a scopo di guerra sia a scopro sperimentale; quella pacifica deriva o
dall’accumulo di scorie radioattive non adeguatamente smaltite o da incidenti nucleari . Per
quanto riguarda la contaminazione da energia atomica per uso bellico gli sperimenti nucleari che
utilizzassero esplosioni atomiche all’aperto sono ormai limitate agli anni 60 ma purtroppo ancora
oggi molti radioisotopi prodotti poi di 50 anni fa continuano a circolare nell’ambiente e
continueranno per anni e anni. Curiosità: il costume da bagno o bikini viene chiamato così perché
il primo esperimento atomico è stato fatto sull’atollo di Bikini e il costume da bagno è stato
chiamato così in onore a questa esplosione nucleare (un bikini sarebbe un costume atomico). Per
quanto riguarda invece il problema dell’energia pacifica come causa di contaminazione ambientale
oltre agli incidenti nucleari che sono stati di importanza più o meno grave ma molto numerosi nel
tempo (il più grande e memorabile è quello di Chernobyl che ancora oggi fa sentire le sue
conseguenze), un altro problema enorme è quello dello stoccaggio dei componenti di scarto (uso
della radioattività), questi scatti hanno tempi di dimezzamento estremamente lunghi e devono
essere conservati in modo che non si disperdono nell’ambiente. Si è visto che anche quei
contenitori che vengono usati per la conservazione di queste scorie che generalmente sono dei
cassoni di cemento armato estremamente spessì e protetti ma con il tempo tendono a degradare
e quindi il rischio di perdita di queste scorie è comunque presente
Quindi per quanto riguarda le radiazioni ionizzanti abbiamo visto le due elettromagnetiche (X e
gamma) sono in grado di essere molto più penetranti e quindi di svolgere un’azione anche a
distanza e sono in grado anche si attraversare la materia e quindi nel caso dell’organismo posso
soprattutto colpire anche in profondità riuscendo a colpire anche i tessuti molli. Queste radiazioni
saranno più o meno penetranti in funzione della lunghezza d’onda e dell’energia che trasportano:
tanto minore sarà la lunghezza d’onda tanto maggiore sarà l’energia trasportata e tanta maggiore
sarà la capacità di penetrazione. Dobbiamo però per fortuna ricordare che la diminuzione della
quantità di energia trasmessa è in funzione della distanza tra l’emittente e il bersaglio quindi se la
distanza tra emittente e bersaglio aumenta la quantità di radiazione che colpisce il bersaglio stesso
diminuirà e tra l’altro come nel caso di tutte le radiazioni, la diminuzione di questa energia non
sarà lineare ma sarà a livello quadratico il che significa che se raddoppia la distanza tra emittente e
bersaglio l’efficacia della radiazione non dimezzerà ma diventerà di 1/4 . Se la distanza aumenta di
10 volte l’effetto della radiazione diminuirà di 100 volte e quindi questi rende estremamente
importante la valutazione della distanza tra emittente e bersaglio della radiazione. Andiamo a
vedere qual’è l’effetto delle radiazioni ionizzanti sulle cellule e quindi sull’organismo. L’effetto
delle radiazioni ionizzanti sulle molecole cellulari é assolutamente aspecifico cioè colpiscono
statisticamente secondo quella che è la concentrazione di una molecola in una cellula. Come
vedremo noi parliamo di effetto specifico delle radiazioni ionizzanti sul dna ma questo effetto
specifico è legato non alla specificità della radiazione ma al fatto che solo l’effetto della radiazione
del dna è in una particolare condizione significativo, cioè che cosa succede ? Quando la radiazione
ionizzante colpisce la cellula andrà a danneggiare qualunque molecola in funzione della loro
concentrazione; quindi le molecole più frequentemente colpite saranno quelle dell’acqua perche è
il principale componente delle cellule dopo di che potranno essere colpite altre molecole
organiche come proteine, lipidi, carboidrati ecc. ma la probabilità sarà legata alla concentrazione
relativa di ogni molecola. Ovviamente quindi potremmo pensare essendo la più frequentemente
colpita l’acqua tra le molecole che la maggior parte delle radiazioni ionizzanti non abbiano effetti
dannosi sulla cellula, purtroppo NON È COSÌ in quanto qualunque molecola che sia stata ionizzata
può trasformarsi in un radicale libero che andrà a sua volta a ossidare e danneggiare altre
molecole e quindi a catena potremo avere un danno indiretto a tutte le molecole cellulari.
Ovviamente da che cosa dipenderà cosa succederà alla cellula ? Dipenderà dal numero di molecole
danneggiate. Se il numero di molecole danneggiate è basso ovviamente la cellula sarà nella
maggior parte dei casi in grado di continuare a svolgere la sua funzione indipendentemente dalle
molecole danneggiate. Se quindi qualunque molecola viene danneggiata questa molecola sarà
digerita e sostituita con una nuova molecola (eccetto per il dna); per esempio se una proteina
viene inattivata la cellula sarà in grado di sintetizzare una nuova proteina per la stessa funzione e
così via per qualsiasi molecola TRANNE IL DNA. Invece se il numero di molecole danneggiate è
elevato questo potrà interferire direttamente con la funzionalità cellulare, quindi se il numero
troppo grande di molecole non è più in grado di funzionare la cellula potrà o svolgere
inadeguatamente le sue funzioni o andare incontro a necrosi (solo in seguito all’esposizione a
quantità di radiazioni estremamente significative tali da danneggiare moltissime molecole) . In
questi casi il danno sarà assolutamente aspecifico e le cellule più colpite saranno quelle con
funzioni più delicate nell’organismo specificatamente le cellule del sistema nervoso tanto è vero
che in caso di radiazioni in grandi quantità la morte del’individuo arriverà nel giro di una dozzina di
ore in seguito a fenomeni neurologici quindi con perdita dei controlli di base com’è respirazione ,
temperatura e così via. Nel caso invece di irradiazione minori ovviamente il danno non sarà dato
direttamente dall’irradiazione stessa, a questo punto interviene la specificità del dna. Il dna è
l’unica molecola dell’organismo che ha la peculiarità di autoriprodursi cioè il dna non è codificato
da altre molecole ma si moltiplica con un meccanismo semiconservativo per cui si duplicano le
catene presenti nella cellula e elencatene replicate si dividono alle cellule figlie, a questo è il mezzo
per trasportare l’informazione di generaIone in generazione e per poterla mantenere costante e
coerente. In ogni cellula sono presenti solo due molecole di dna per quanto riguarda i geni dei
cromosomi (per quelli sessuali è presente un solo gene, nelle cellule somatiche invece abbiamo
due alleli per ogni cellula) per cui se un solo nucleotide viene danneggiato in un dna cellulare in
realtà è stato danneggiato il 50% del dna presente in quella cellula, ovviamente questo non
significa che la situazione posso presentare pericoli o danni in quanto come noi sappiamo il dna è
in gran parte non codificante con funzioni solo di struttura e quindi alterazioni al suo interno non
sono significative e anche alterazioni all’interno dei geni non necessariamente sono dannose per la
cellula stessa e possono essere ben tollerate. Anche l’alterazione di un unico nucleotide può
portare la cellula o a morte o ad alterazione della sua funzione. Ovviamente la cellula avrà dei
meccanismi di potenziale riparazione del danno per cui cercherà in tutti i modi di evitare che il
danno si trasmetta alle generazioni successive e questo può avvenire o attraverso la riparazione
della catena danneggiata, situazione che però può essere tenuta in considerazione solo Rino a che
la cellula non passa dalla fase G1 alla fase S per cui la riparazione del danno può avvenire solo in
G0 o G1. Se la cellula nonostante tenti la riparazione ma non è in grado di svolgerla e la cellula
entra in fase S a questo punto il danno non potrà più essere riparato tuttavia la cellula danneggiata
potrà comunque essere eliminata in quanto potrà uscire dal ciclo cellulare attraverso quel
meccanismo che è chiamato apoptosi; quindi la cellula va in contro a divisione, se durante la fase
G0,G1 ci sarà un danno la cellula tenterà la riparazione; la fase G1 si prolungherà, se comunque
sfugge al controllo ed entra in ciclo la cellula danneggiata c’è ancora la possibilità che questa
cellula esca dal ciclo attraverso il meccanismo di apopotosi che risolverà il problema è quindi
eliminerà la maggior parte delle cellule danneggiate al livello del dna. Quale sarà il problema
legato all’apoptosi ? Che se l’apoptosi fosse limitata ad un determinato numero di cellule non avrà
effetti dannosi sull’intero organismo se viceversa il danno riguarderà un numero molto elevato di
cellule di un determinato tessuto o addirittura l’intero tessuto questo porterà a danni che non
possono essere reversibili e che quindi possono portare alla morte dell’individuo. Riepilogando
ogni molecola nella cellula può essere sostituita tranne che il DNA. Proteine, lipidi e glucidi
danneggiato vengono eliminati e sostituiti a meno che il danno per singola cellula si tale da
bloccare i processi metabolici; questo è il caso delle irradiaIoni letali acute in cui i dosaggi di
radiazioni sono estremamente elevati, la cellula perde la capacità di svolgere le sue funzioni e può
andare incontro a nevrosi. Come abbiamo visto, la caratteristica del dna è che in ogni cellula
esistono solo due copie di ogni sequenza e queste copie si autoriproducono. Se una di queste due
coppie verrà alterata, il danno potrà essere trasmesso a tutte le cellule figlie pertanto potremo
dire che il danno si perpetuerá solamente una volta che la cellula si sia divisa. Prima che si sia
completata la divisione cellulare il danno può essere riparato attraverso dei meccanismi cuci e
taglia che sono presenti a livello nucleare in particolare prendiamo ma DNA polimerasi 1 che è in
grado di agire sia come polimerasi sia come nucleasi sia come endonucleasi cioe può tagliare il dna
5’ - 3’ sia come esonucleasi quindi può tagliare il dna 3’ - 5’. Per cui la riparazione deve avvenire
prima della fase S. Durante la divisione la cellula può andare incontro ad apoptosi se il danno non
è stato riparato prima. Ecco perché noi possiamo distinguere tra danno al dna e mutazione in
quanto ogni mutazione e data da un danno al dna ma non tutti i danni al dna diventano mutazioni.
Il danno al dna si considera mutaIone nel momento in cui si è compiuto un ciclo cellulare per cui il
danno al dna non può più essere rimarcata e non si può nemmeno fare apoptosi. Ecco quindi che
la cellula da questo momento in poi manterrà per sempre il suo dna danneggiato. Il
comportamento delle cellule nei confronti del dna dipenderà dal loro stato replicativo. Le cellule
germinali mutano e trasmetteranno il danno a tutta la progenie. Le cellule somatiche possono
essere divise in tre classi in base alle loro capacità moltiplicative e in base a queste dipende la loro
sensibilità alle mutazioni. Le tre classi sono le cellule labili,stabili e perenni e in funzione di come di
comportano nei confronti del ciclo potranno o meno andare in contro a mutazioni.
Sono dette a ciclo continuo in quanto passano dalla fase G1 alla fase S, G2,M e rientrano in G1.
Non interrompono mai la loro divisione. Le cellule labili sono cellule terminali che non si dividono
più, basta pensare ai globuli rossi che ha addirittura perso il nucleo quindi non ha nemmeno la
possibilità di replicarsi; ma lo stesso discorso vale per i granulociti: una volta che il nucleo si
segmenta e che quindi hanno raggiunto la loro maturazione terminale non saranno più in grado di
dividersi e andranno in contro a morte dopo un certo periodo di tempo. Le cellule mature labili
hanno periodi di vita abbastanza brevi che vanno dai 120 giorni dei globuli rossi a poche ore o
giorni dei granulociti, le cellule epiteliali per esempio al livello della cute maturano cheratinizzando
e anche se perdendo il nucleo poi vengono eliminate tramite l’esfoliazione.
Le cellule labili sono da considerare come cellule che continuano a dividersi, maturare,
raggiungere il loro stato di funzionalità e a questo punto vengono distrutte e rinnovate. Sono
tessuti in cui c’è una proliferazione più attiva e sono sempre rinnovati in tempi molto brevi. Le
cellule che si danneggiano prima dopo un’esposizione a radiazioni ionizzanti saranno proprio le
cellule ematopoietiche e il pericolo più grande è la morte midollare situazione in cui le cellule
staminali sono o troppo poche o sono del tutto state distrutte e quindi il tessuto non sarà più in
grado di svolgere le sue funzioni.
Quali saranno gli eventi che seguono un’apoptosi massiccia del tessuto midollare ? Prima di tutto il
soggetto sarà prono a qualunque infezione avendo perso prima di tutto i granulociti e quindi la
risposta rapida all’infezione, dopo di che si svilupperà in tempi più lunghi essendo l’emivita dei
globuli rossi molto superiore un’anemia e contemporaneamente si produrranno emorragie legate
alla perdita di piastrine, questo è quello che succede nel caso di una panirradiazione, non è
necessariamente mortale perché noi possiamo rispondere a questo danno midollare o tramite un
auto trapianto o generalmente tramite un allotrapianto, addirittura l’irradiazione midollare è una
scelta terapeutica per cui nel caso di tumori del midollo osseo e leucemie si risponde distruggendo
sia le cellule tumorali sia le cellule normali e si sostituiscono con il trapianto midollare le cellule
normali; ovviamente si tratta di una terapia estremamente invasiva con alto rischio ma è una
terapia salvavita nei casi gravi di tumori del midollo.
Le cellule labili non escono mai dal ciclo ma da G1 rientrano in S e da M rientrano in G1 e rientrano
in S.
Le cellule stabili invece sono cellule che si trovano normalmente in fase G0 cioè sono cellule che
hanno raggiunto la maturità e che sono in grado di svolgere la loro funzione per periodi molto
lunghi, da anni fino in teoria all’intero ciclo vitale dell’organismo. Hanno però il compartimento
germinativo che può rientrare in ciclo in caso di riduzione della massa tissutale e quindi permette
la sostituzione delle cellule danneggiate. Questo riguarda le cellule parenchimali di molti organi,
come noi sappiamo il tessuto di un organo è rappresentato da una parte stromale con funzione di
sostegno e di supporto all’organo stesso e da una parte parenchimale che è formato dalle cellule
che svolgono le funzioni specifiche dell’organo. Esempi di questi tessuto possono essere: fegato e
pancreas esocrino, ghiandole salivari e sudoripare, ghiandole e tessuti endocrini, ghiandola
mammaria, cellule tubulari del rene, cellule muscolari lisce, cellule endoteliali.
Prendendo ad esempio il fegato ha un’architettura estremamente precisa con l’unità funzionale
che è chiamata lobulo e che è formata da una vena centro lobulare collegata tramite i sinusoid
ialle venule e dottili biliari, questi permette alle cellule parenchimali di ricevere l’irrorazione
sanguigna dalla venula centrolobulare, attraverso i sinusoidi captare le molecole da metabolizzare
e far arrivare nelle vene e nelle venule dettali e nei canalicoli biliari i prodotti del metabolismo
epatico; perché questo avvenga quindi è molto importante la struttura dell’organo che è
mantenuta dallo stroma, per cui le cellule epatiche che possono svolgere la loro funzione di
singola cellula indipendentemente da questa struttura ma persino come capacità come tessuto se
questa struttura viene aperta. Se le cellule parenchimali vengono distrutte, in questi caso è
possibile la proliferazione di nuove cellule parenchimali che vadano a ricostituire la parte
danneggiata del tessuto. Nel caso però in cui la parte stromale del tessuto si danneggi ecco che
andiamo in contro ad una situazione estremamente, grave che è chiamata cirrosi in cui la
trasformazione del tessuto stromale da tessuto organizzato a tessuto fibrotico porta all’incapacità
dell’organo a svolgere le sue funzioni anche se le cellule parenchimali sono ancora attive e si
dividono e sono funzionale mente mature. Le cellule sono normalmente in fase G0 ma possono
rientrare in G1, essendo normalmente in G0 ecco che il danno al dna non sempre si trasforma in
mutazione, ma questo avviene solo quando le cellule vengono riattivate e attraversano una fase
mitotica. Ecco quindi che la probabilità che vadano in apoptosi è inferiore rispetto a quella delle
cellule labili.
Le cellule perenni comprendono i neuroni e le cellule muscolari striate sia cardiache che
scheletriche. Queste cellule sono cellule a vita estremamente lunga e anch’esse possono essere
sostituite da parte di alcune cellule staminali ma questo processo di sostituzione è estremamente
lento quindi la vita di queste cellule dura molti anni. Le cellule perenni giunte a maturazione sono
in una fase terminale, quindi sono in G0 ma non ne possono uscire. Le cellule staminali delle
cellule perenni invece sono in grado di passare dalla fase G0 alla G1 e quindi sono in grado di
moltiplicarsi, maturare dando origine a nuove cellule terminali ma essendo molto ridotto il
numero di cellule staminali, il loro ricambio è molto lento, non è sufficientemente rapido per
andare in contro ad una morte acuta di numerose cellule mature. Ecco perché non è possibile la
rigenerazione come nel caso del muscolo cardiaco, in cui in seguito ad un infarto ovvero la morte
di cellule parenchimali non si andrà incontro a guarigione per rigenerazione ma per riparazione
dovuta alla sostituzione del parenchima con tessuto fibroso. Quando in un tessuto (qualsiasi
tessuto sia cellule stabili, labili o perenni) c’è un danno che morta alla morte di cellule
parenchimali si attiva una risposta di tipo infiammatorio cronico. Nella risposta di tipo
infiammatorio cronico si ha la produzione di tessuto fibroso, moltiplicazione di fibroblasti e la
crescita di nuovi vasi sanguigni. Questo porta alla sostituzione del tessuto stromale normale con
un tessuto stromale non più specifico. Finché esiste il tessuto stromale normale ce la possibilità
che le cellule parenchimali proliferino e sostituiscano quelle danneggiate riportando il tessuto ad
una situazione normale e arrestando il processo infiammatorio. Quando la proliferazione delle
cellule parenchimali non é abbastanza veloce, la crescita del tessuto fibrotico cicatriziale sarà più
veloce di quella della rigenerazione tissutale e quindi l’esito di questo danno sarà la fibrosi del
tessuto. Ecco il motivo per cui avremo nel caso di un danno ad un tessuto formato da cellule
perenni un esito di alterazione funzionale e sostituzione cicatriziale del tessuto.
In conclusione:
- le cellule labili saranno estremamente sensibili sia alle mutazioni che all’apoptosi
- le cellule stabili saranno sensibili soprattutto alle mutazioni
- le cellule perenni saranno insensibili alle mutazioni e molto poco all’apoptosi.
Quindi per le cellule perenni il danno da parte delle radiazioni ionizzanti sarà estremamente
modesto a meno che non si tratti di un’irradiazione estremamente intensa. Per quando riguarda le
cellule germinali ovviamente andremo in contro all’introduzione di potenziali mutazioni che
colpiscono geni necessari per lo sviluppo normale dell’organismo, questo porterà all’introduzione
di potenziali malattie genetiche o addirittura alla morte del prodotto de concepimento. Per quanto
riguarda invece il danno al livello delle cellule somatiche l’effetto sarà diverso a seconda dell’età
delle cellule in cui si sviluppa il danno: se il danno avverrà nei periodi iniziali dell’embriogenesi
ovviamente potremmo avere patologie o che sono simili a patologie genetiche ma che non
saranno trasmissibili oppure ad effetto teratogeni delle radiazioni stessa. Gli effetti teratogeni sono
rappresentati dall’insorgenza di malformazioni, quindi uno sviluppo alterato del prodotto del
concepimento; nelle cellule invece adulte il danno potrà essere esclusivamente o quello di un
effetto di una mutazione o quello dell’effetto dell’apoptosi. Per quanto riguarda l’effetto
dell’apoptosi abbiamo detto che sarà significativo solo se un numero preponderante delle cellule
di un tessuto ne saranno colpite e quindi avremo la morte midollare o la disepitelizzazione
dell’intestino che porterà anch’essa a morte dell’individuo. Altrimenti nel caso delle mutazioni il
problema sarà molto più circoscritto in quanto la stragrande maggioranza delle mutazioni saranno
ininfluenti sulla singola cellula tissutale, diventeranno significative solo nel caso in cui la mutazione
vada a colpire un gene che è coinvolto nella crescita e nella differenziazione cellulare, in questo
caso l’esito del danno sarà la potenziale trasformazione neoplastica delle cellule quindi gli effetti
principali delle radiazioni ionizzanti sull’organismo saranno la potenziale induzione di un tumore.
Radiazioni eccitanti-Ultravioletti
I raggi ultravioletti sono quelli che hanno il maggior interesse dal punto di vista medico. Sono
chiamati cosi poiché si trovano oltre il colore viola nello spettro dei raggi luminosi e non sono
visibili ad occhio nudo e sono caratterizzati da un’ampia lunghezza d’onda che vanno dai più
lontani rispetto al visibile chiamato appunto lontano ultravioletto e quelli prossimi al visibile
chiamati appunto vicino ultravioletto. Sono anche chiamati raggi A,B,C in funzione della lunghezza
d’onda (A equivale al vicino UV). Gli effetti delle radiazioni eccitanti dipendono dalla lunghezza
d’onda e sono non penetranti, ciò significa che pur essendo possibile danneggiare ogni tipo di
cellula con una radiazione ultravioletta, solo quelle della superficie corporea saranno soggette a
possibile danno, di conseguenza saranno soggette a queste radiazioni solo la cute e l’occhio (per
l’occhio sono di particolare importanza i danni alla retina e di conseguenza alla vista) (ES.
Guardano il sole con degli occhiali da sole non adeguati e fatti di plastica colorata, blocchiamo le
radiazioni luminose ma le radiazioni ultraviolette passano comunque). Esistono due tipi di danni
legati all’energia trasportata dai raggi ultravioletti, quelli aspecifici che sono comunque simili a
qualunque trasferimento di energia e quelli specifici che sono legati ad uno specifico assorbimento
di particolari lunghezze d’onda da molecole biologiche. Di quali molecole si tratterà? Si tratterà di
molecole che sono cicliche e presentano doppi legami, quindi possono assumere forme teutomere
più o meno reattive a seconda di quanto siano caricate di energia. Le principali molecole che ci
interessano da questo punto di vista sono le basi azotate degli acidi nucleici quindi: adenina,
timina/uracile, guanina e citosina. Il danno all’RNA sarà meno significativo in quanto esso può
essere sostituito e continuare a svolgere la sua funzione, mentre il DNA essendo il deposito
dell’informazione se modificato porterà a conseguenze gravissime. Anche gli amminoacidi ciclici
con un anello aromatico come: istidina, triptofano, tirosina e fenilalanina sono importanti
molecole che ci interessano sotto questo punto di vista. Le basi azotate
assorbiranno dei danni di 260nm e le proteine avranno un picco di danni ai 280nm. Bisogna tenere
presente che tra i due picchi è presente un’ampia zona di overlapping, per cui gli acidi nucleici
assorbiranno tra i 240 e i 280nm, mentre le proteine assorbiranno tra i 260 e 300nm. Ciò significa
che in questo modo le proteine possono assorbire grande parte delle radiazioni a 260nm che
raggiungono l’epitelio. Quali saranno i danni legati all’esposizione del DNA da parte delle radiazioni
a 260nm? Il principale danno sarà la dimerizzazione della timina, cioè le molecole della timina
presenti nella catena del DNA tenderanno a divenire particolarmente reattive e cross-reattive nei
confronti di altre molecole di timina, in questo modo si altererà la sequenza del DNA e quindi sarà
alterata la capacità di lettura (le timine possono essere contigue o non contigue ma vicine a causa
della spiralizzazione, nel caso delle non contigue il danno è maggiore poichè per riparalo si può
andare incontro ad errori di taglio). Quindi il danno all’esposizione di raggi ultravioletti sarà dato
sia dalla possibilità di mutazioni, sia dall’aumento del numero di apoptosi che si manifestano nel
tessuto.
Noi possediamo dei mezzi di difesa contro questi raggi ultravioletti e questa protezione viene
svolta da una proteina chiamata melanina che è ricca di amminoacidi ciclici che sono in grado di
assorbire le radiazioni ultraviolette, quindi maggiore sarà la concentrazione di melanina, tanto
minori saranno gli effetti dannosi di questi raggi ultravioletti. La produzione di melanina è legata
anche all’esposizione di questi raggi poiché, mentre il lontano ultravioletto, in particolare quello a
260nm, danneggia il DNA, il vicino ultravioletto intorno ai 215nm, tende a stimolare la produzione
di melanina. L’effetto dell’esposizione ai raggi solari fa ben o fa male? Una vera risposta non c’è,
tutto deve avere un equilibrio, per molti fenomeni come la produzione di vitamina D ed altri
fattori l’esposizione è positiva ma in eccesso porta danni che possono essere dai meno gravi come
l’invecchiamento precoce della cute, fino ai più gravi come l’insorgenza di tumori cutanei.
TEMPERATURA
Gli esseri viventi si dividono in:
-Omeotermi: possono mantenere una determinata temperatura indipendentemente dalla
temperatura dell’ambiente. L’uomo è un’animale omeotermo e la sua temperatura ideale è
intorno ai 37 gradi.
-Pecilotermi: sono quelli che non sono in grado di mantenere una temperatura diversa da quella
dell’ambiente e di conseguenza si adattano ad essa.
Parlando di organismi con una temperatura superiore a quella della temperatura dell’ambiente,
implica che il corpo di questi organismi deve poter mantenere questa temperatura
indipendentemente dalla sua dispersione di calore. Per fare questo ogni corpo deve produrre
calore. Se produce più calore di quanto ne disperde ovviamente si riscalderà, se ne disperde più di
quanto ne produca si raffredderà, infine se dispersione e produzione saranno uguali, allora il corpo
rimarrà in equilibrio termico e manterrà una temperatura stabile. L’organismo dal punto di vista
termico può essere considerato un solido, normalmente immerso in un fluido (aria), che può
essere in contatto con altri solidi e quindi disperdere la temperatura con un meccanismo che sia di
trasmissione del calore da solido a solido. Possiamo dire che la differenza fondamentale tra
omeotermi e pecilotermi consiste soprattutto nel controllo della dispersione del calore. Sia
omeotermi che pecilotermi producono calore, dato che ogni processo metabolico produce calore,
solo che i pecilotermi non sono in grado di gestire la dispersione del calore e gli omeotermi si.
Produzione di calore
La produzione di calore avviene normalmente attraverso il metabolismo, lavoro muscolare,
l’attrito del sangue ecc… tutti questi meccanismi producono calore e sono attivi
indipendentemente dall’attività dell’individuo. La produzione di calore può aumentare soprattutto
tramite il lavoro muscolare o attraverso la produzione di alcuni ormoni.
Dispersione di calore
La dispersione del calore rappresenta la via principale verso il controllo del calore e avviene
attraverso quattro meccanismi fisici:
1. Irraggiamento= emissione o assorbimento di raggi infrarossi;
2. Conduzione= passaggio di calore tra due corpi solidi grazie al loro contatto, trasmissione
che andrà dal corpo più caldo al corpo più freddo e
quanto è maggiore la differenza di calore tra i due corpi, maggiore sarà la velocità di
dispersione del calore. Il coefficiente di dispersione del calore è diverso per ogni solido (i
corpi che non sono buoni conduttori di calore sono detti isolanti);
3. Convezione= Passaggio di calore da un corpo solido ad un fluido (aria, acqua), sempre dal
più caldo al più freddo ed anche in questo caso la velocità di dispersione del calore sarà in
funzione della differenza di calore tra i due corpi. Anche in questo caso va tenuto conto del
coefficiente di dispersione del calore del fluido, perché influenzerà notevolmente l’effetto
sull’organismo;
4. Evaporazione= quando un liquido evapora dalla superficie di un solido vi sottrae calore che
è detto “calore di evaporazione”, questo meccanismo è indipendente dalla differenza di
temperatura tra solido e gas (avviene anche quando il solido ha una temperatura inferiore
del gas in cui è immerso) ma dipende dal livello di saturazione del vapore nel gas.
Effetti locali:
-Caldo ustioni= danno causato da un’ipertermia localizzata sul tessuto, in funzione della
temperatura e della durata si possono avere 4 gradi di ustioni:
1. Primo grado eritema
2. Secondo grado filittene senza necrosi del derma(membrana basale intatta e di
conseguenza rigenerazione del tessuto
epiteliale)
3. Terzo grado necrosi del derma e perdita degli annessi cutanei (distruzione
membrana basale e necessità di riformazione di quest’ultima)
4. Quarto grado carbonizzazione
(anche l’esofago può ricevere ustioni attraverso l’ingestione di cibi o bevande estremamente caldi)
-Freddo congelamento= danno dovuto non direttamente al freddo, il nostro epitelio resiste molto
bene al freddo, ma all’ipossia legata alla vasocostrizione periferica. Danno da riperfusione. Quattro
gradi di danni:
1. Eritema/cianosi gelone
2. Filittene senza necrosi
3. Necrosi tissutale da ipossia
4. Necrosi tissutale da ipossia con superinfezione batterica
(clostridiumperfrigens=anaerobbi obbligati)
TERMOREGOLAZIONE
La termoregolazione è il meccanismo volto a mantenere costante la temperatura dell’organismo;
gli animali a sangue caldo, cosiddetti organismi omeotermi (mammiferi e uccelli) utilizzano vari
processi basati sulla produzione endogena di calore e sulla regolazione della dispersione di calore
nell’ambiente, per mantenere costante la propria temperatura corporea in modo, entro certi
limiti, indipendente dalla temperatura ambientale. Questi processi termoregolatori operano in
base ad un set-point fisiologico o temperatura di riferimento. La temperatura di riferimento è un
tratto ereditato geneticamente e specie-specifico e nell’uomo è pari a 37°C.
La termoregolazione è un tipico esempio di processo omeostatico = processo che coinvolge
risposte coordinate messe in atto dall’organismo per compensare i cambiamenti derivanti da
fattori ambientali o endogeni e finalizzato a mantenere intorno ad un livello prefissato il valore dei
suoi parametri interni.
1 – i sistemi di ricezione degli stimoli termici sono strutture nervose ovvero recettori nervosi
sensibili alla temperatura che registrano i segnali termici provenienti dall’ambiente esterno ed
interno all’organismo e li convertono in impulsi nervosi.
I ricettori sensibili alla temperatura includono recettori localizzati nella cute, per la registrazione
dei segnali termici provenienti dall’ambiente esterno e recettori che agiscono come termosensori
interni, localizzati nei visceri, nelle grandi vene addominali, nel midollo spinale e nell’ipotalamo.
L’importanza dei termosensori interni è legata al fatto che il calore non è distribuito
uniformemente nell’organismo per vari motivi. Infatti, come si può facilmente intuire, i tessuti più
superficiali dissipano più facilmente il calore corporeo nell’ambiente rispetto ai tessuti interni.
Inoltre all’interno dell’organismo i processi di termogenesi, ossia di produzione del calore
avvengono principalmente in alcuni tessuti, come il tessuto muscolare e quello adiposo. Il calore
prodotto in questi tessuti viene poi distribuito agli altri tessuti attraverso il sangue (in
un’infiammazione acuta, un maggior afflusso di sangue comporta un maggior apporto di calore ai
tessuti). Infine l’assunzione di cibi e bevande calde o fredde può determinare un aumento o una
diminuzione della temperatura al livello del primo tratto delle vie digerenti. Quindi i termosensori
interni raccolgono e convogliano al livello centrale le informazioni molto importanti relative alla
distribuzione del calore all’interno dell’organismo.
2- centro di elaborazione che riceve le informazioni fornite dai termorecettori, le integra e sulla
base delle informazioni termiche elaborate, i centri termoregolatori innescano meccanismi
effettori (terzo componente del meccanismo) per dare risposte fisiologiche e comportamentali
atte a mantenere la temperatura corporea al livello definito dalla temperatura di riferimento. Il
centro di elaborazione è localizzato nel sistema nervoso centrale.
In particolare il snc contiene diverse regioni dedicate alla termoregolazione, tra queste i principali
centri termoregolatori sono localizzati nell’ipotalamo e in particolare in una regione dell’ipotalamo
denominata area preottica.
3- I meccanismi effettori della termoregolazione si basano su due tipi di processi e cioè sui
processi che regolano la produzione di calore all’interno dell’organismo e i processi che regolano
gli scambi di calore tra organismo e ambiente. Quando la temperatura corporea aumenta o
diminuisce in rapporto a quella temperatura di riferimento vengono attivati meccanismi effettori
differenti; in particolare se la temperatura corporea tende a scendere al di sotto dei 37° vengono
attivati processi di termoconservazione e di termogenesi, mentre se la temperatura corporea
tende a salire rispetto alla temperatura di riferimento vengono inibiti i processi di termogenesi e
viene stimolata la termodispersione.
I meccanismi attraverso i quali avvengono gli scambi di calore tra organismo e ambiente sono
necessari per la termoconservazione e della termodispersione.
IRRAGGIAMENTO è il trasferimento di calore a mezzo di onde elettromagnetiche infrarosse e
pertanto è un meccanismo di trasferimento che non richiede un contatto.
CONDUZIONE O CONVEZIONE prevede, invece, il contatto tra l’organismo e un corpo solido nel
caso della Conduzione e un contatto tra l’organismo e un fluido (Aria/acqua) nel caso della
Convezione.
EVAPORAZIONE Per evaporazione si intende il passaggio allo stato di vapore dell’acqua contenuta
nei fluidi corporei a contatto con l’ambiente esterno (sudore presente sulla cute). Quando un
liquido evapora sottrae all’ambiente una quantità di calore pari al calore latente di evaporazione e
quindi quando l’acqua contenuta nel sudore evapora, parte del calore latente di evaporazione è
sottratto alla cute che conseguentemente si raffredda.
L’evaporazione del sudore è alla base di un fondamentale meccanismo termoregolatorio e si
distingue dalle altre tre modalità di scambio di calore in quanto lo scambio di calore è
unidirezionale, ovvero avviene sempre con cessione di calore dall’organismo verso l’ambiente. In
particolare l’evaporazione è l’unico meccanismo che consente di disperdere il calore corporeo
quando la temperatura ambientale è uguale a quella dell’organismo, cioè quando il gradiente di
temperatura che guida il trasferimento di calore tramite irraggiamento, conduzione o convezione
è nullo o quando la temperatura ambientale è superiore a quella dell’organismo.
Il tono della vascolatura superficiale influenza gli scambi di calore tra organismo e ambiente in vari
modi. Come detto il sangue è il principale veicolo di distribuzione del calore nel nostro organismo
pertanto un maggior afflusso di sangue ai tessuti superficiali trasferisce ad essi una quota
maggiore di calore corporeo che quindi può essere dissipato nell’ambiente. La dilatazione della
vascolatura cutanea superficiale è indotta dalla stimolazione di fibre nervose che mediano il
rilassamento della muscolatura liscia della parete dei vasi cutanei; promuove appunto l’afflusso di
una maggiore quantità di sangue alla cute e conseguentemente la termodispersione. Il discorso
inverso si applica al significato termoconservativo della vasocostrizione superficiale. Quando ci si
trova in un ambiente freddo la nostra pelle appare pallida proprio in conseguenza dell’attivazione
della vasocostrizione termoconservativa; mentre quando siamo accaldati la nostra pelle appare
arrossata a causa della vasodilatazione cutanea finalizzata a disperdere calore. Inoltre possiamo
dire che quando è necessario disperdere calore corporeo in eccesso i centri termoregolatori
stimolano le ghiandole sudoripare a incrementare la produzione di sudore attraverso fibre nervose
che appartengono al sistema nervoso autonomo. Infine, tra i meccanismi di termoconservazione,
c’è il processo di PILOEREZIONE, ovvero quel processo che produce il fenomeno della cosiddetta
“pelle d’oca” e che è causato dalla contrazione dei muscoli piloerettori. Questo processo da un
contributo rilevante alla termoregolazione nei mammiferi dotati di pelliccia in quanto il pelo
eretto crea uno strato isolante tra l’organismo e l’ambiente. Mentre nell’uomo questo fenomeno
che pure si verifica in risposta al freddo dà però un contributo trascurabile alla
termoconservazione.
TERMOGENESI
La termogenesi contrazionale consiste nella produzione di calore tramite la contrazione volontaria
o involontaria (brivido) della muscolatura scheletrica. In particolare quando la temperatura
corporea tende a scendere sotto la temperatura di riferimento i centri termoregolatori ipotalamici
attivano la contrazione involontaria della muscolatura scheletrica che si manifesta con il brivido.
Nel processo di contrazione muscolare viene idrolizzata una grande quantità di ATP e l’energia
liberata da questa idrolisi è, in parte, utilizzata per il processo di contrazione e in parte liberata
sotto forma di calore.
La termogenesi facoltativa non contrazionale, invece, consiste nella produzione di calore
mediante vari tipi di reazioni associate con l’idrolisi e la sintesi dell’ATP, come ad esempio,
processi di degradazione e sintesi di substrati termogenici come lipidi e carboidrati ed altri
processi biochimici complessi. Questo tipo di termogenesi ha luogo prevalentemente nel tessuto
adiposo, nel fegato e nel muscolo ed è stimolata da diversi tipi di ormoni, tra cui in particolare gli
ormoni tiroidei. La termogenesi facoltativa non convenzione ha un ruolo predominante nella
risposta a condizioni di freddo intenso e prolungato.
LE IPERTERMIE
Si definisce IPERTERMIA qualsiasi condizione nella quale la temperatura corporea sia superiore alla
temperatura di riferimento (37,2 – 37,7° C) e una classificazione fondamentale delle ipertermie è
quella che distingue la febbre dalle ipertermie non febbrili. Queste ultime comprendono
condizioni molto diverse per eziologia, patogenesi e manifestazioni cliniche. La distinzione tra
febbre e ipertermie non febbrili è basata sul fatto che la patogenesi della febbre è caratterizzata
da un evento unico e specifico per questa forma di ipertermia ovvero il riassetto della temperatura
di riferimento.
IL COLPO DI CALORE
Il colpo di calore è una condizione seria, potenzialmente mortale, la cui eziologia è legata alla
coesistenza di due fattori ambientali, ovvero elevata temperatura ambientale ed elevata umidità.
La patogenesi del colpo di calore è centrata sul fatto che in presenza di un alto tasso di umidità
nell’aria viene attivato un fondamentale tipo di meccanismo di termodispersione e questo
meccanismo è l’evaporazione del sudore. Infatti, la sudorazione è efficace come processo
termodispersivo in conseguenza dell’evaporazione del sudore. Quindi quando la temperatura
corporea tende ad aumentare in risposta ad un aumento della temperatura ambientale i centri
ipotalamici deputati alla termoregolazione stimolano il processo di sudorazione. Quando il sudore
presente sulla cute evapora, l’acqua presente nel sudore passa dallo stato liquido allo stato di
vapore e subisce, pertanto, un passaggio di fase che richiede calore per avvenire; il calore
necessario per questo passaggio di stato, ovvero il calore latente di evaporazione, è sottratto alla
cute che conseguentemente si raffredda. Le cause che provocano il colpo di calore: quando la
temperatura corporea tende a salire in risposta ad un aumento della temperatura ambientale, i
centri ipotalamici deputati alla termoregolazione stimolano il processo di sudorazione; tuttavia, il
sudore presente sulla cute non riesce ad evaporare a causa dell’elevata umidità ambientale con
due conseguenze negative per l’organismo, ovvero da un lato l’aumento della temperatura
corporea che può raggiungere anche valori di circa 44°; dall’altro la disidratazione. Infatti, nel
colpo di calore, la sudorazione se pur inefficace come risposta termodispersiva è copiosa e più la
temperatura corporea sale e più questo processo è stimolato con il risultato che l’organismo perde
acqua e sali minerali fino al possibile instaurarsi di una disidratazione tale da sfociare in ipovolemia
ed eventualmente in shock ipovolemico.
Lo shock è una sindrome potenzialmente letale nella quale si instaura una severa ipotensione,
quindi una riduzione della pressione del sangue che a sua volta determina una diminuzione
generalizzata della perfusione di organi e tessuti. La ridotta perfusione si traduce in una riduzione
dell’apporto di sangue ai tessuti, una condizione che è definita ischemia. Le cellule vanno quindi
incontro a sofferenza per lo scarso apporto di ossigeno e nutrienti fino a quando con la caduta dei
livelli intracellulari di adenosina trifosfato, necessari per il mantenimento dell’omeostasi cellulare,
si innesca un processo necrotico che porta a morte cellule appartenenti a molteplici distretti
dell’organismo. Lo shock può avere origine da diverse cause, di fatto, da tutte quelle cause che
possono generare una severa e prolungata ipotensione, come ad esempio, un’insufficiente attività
contrattile del cuore e in questo caso lo shock sarà definito shock cardiogeno. Un altro tipo di
shock è proprio lo shock ipovolemico, causato da una riduzione della volemia, ovvero da una
riduzione del volume del sangue circolante e uno shock ipovolemico può essere causato, tra le
altre condizioni, da un colpo di calore. Nello shock ipovolemico si ha un’importante diminuzione
della volemia e questa causerà una parallela riduzione della pressione sanguigna esitando quindi
nella diminuita perfusione che caratterizza appunto questa sindrome.
L’IPERTERMIA MALIGNA
è una rara patologia su base genetica che ha manifestazioni cliniche molto particolari. Di fatto
questa patologia ha una base genetica ma la sua manifestazione sono scatenate dall’utilizzo di
specifici tipi di farmaci, per questo si parla di malattia o sindrome farmacogenetica. Infatti questa
patologia può essere del tutto asintomatica per manifestarsi, eventualmente, in conseguenza
della somministrazione di agenti scatenanti tra cui particolari classi di anestetici utilizzati per
l’anestesia generale o farmaci miorilassanti, quindi farmaci utilizzati soprattutto durante gli
interventi chirurgici. Anche stress fisici particolarmente intensi possono causare le
manifestazioni tipiche di questa malattia, manifestazioni che consistono nell’insorgenza di crisi
di ipertermia dall’esito potenzialmente fatale. L’aumento della temperatura corporea
nell’ipertermia maligna, durante una crisi, può essere estremo ed è associato ad una prolungata
contrazione muscolare e a un aumento del metabolismo nel tessuto muscolare che può esitare
nella rabdomiolisi, ovvero nella vera e propria lisi delle fibre muscolari. Queste crisi hanno
conseguenze molto gravi sia per gli effetti deleteri della ipertermia estrema sia perché la lisi delle
fibre muscolari determina il rilascio in circolo di costituenti del muscolo che al passaggio del
sangue, attraverso il filtro del rene, lo danneggiano causando insufficienza renale.
Nella maggior parte dei pazienti l’ipertermia maligna è causata da mutazioni nel recettore per la
ryanodina, ovvero RYR1, espresso sulle membrane del reticolo sarcoplasmatico delle fibre
muscolari, dove questo recettore o proteina svolge la funzione di canale per il calcio. La funzione
fisiologica di questo canale è la seguente: all’arrivo di un impulso nervoso questo canale media il
rilascio del calcio immagazzinato nel reticolo sarcoplasmatico nel citosol delle fibre muscolari e
questo rilascio è seguito dalla contrazione della fibra muscolare.
Il calcio rilasciato nel citosol della fibra muscolare viene poi reimmagazzinato nel reticolo
sarcoplasmatico tramite un processo di trasporto attivo mediato da una pompa con attività
atpatica, una pompa che, cioè, utilizza l’energia fornita dall’idrolisi dell’adenosina trifosfato per
trasportare questo ione all’interno delle cisterne del reticolo e la riduzione della concentrazione
del calcio citoplasmatico, quando questo è riassorbito nel reticolo sarcoplasmatico, determina,
quindi, il rilassamento della fibra muscolare. Nei pazienti con le mutazioni caratteristiche
dell’ipertermia maligna, agenti scatenanti, tra cui gli anestetici e i miorilassanti, si legano ai
recettori rianodinici ostacolandone la chiusura e determinando, di conseguenza, il rilascio di
enorme quantità di calcio dal reticolo sarcoplasmatico al citosol delle fibre muscolari. Questo
evento è, quindi, responsabile della protratta contrazione delle fibre muscolari che caratterizza le
crisi ipertermiche. Inoltre, per il riassorbimento delle grandi quantità di calcio rilasciate, le pompe
presenti sulle cisterne del reticolo sarcoplasmatico idrolizzano una grande quantità di ATP,
processo che si associa sempre alla dissipazione di energia sotto forma di calore e che spiega
quindi il fenomeno dell’ipertermia. Le crisi di ipertermia rappresentano una grave emergenza
medica, motivo per cui l’utilizzo in sala operatoria di farmaci che possono scatenarle è sempre
seguito dal monitoraggio della temperatura dei pazienti oppure preceduto da specifici test nel
caso di pazienti con sospetta ipertermia maligna, ad esempio per la presenza di familiari affetti da
questa patologia genetica.
FEBBRE
Nell’ipertermia febbrile i neuroni dei centri termoregolatori ipotalamici subiscono delle
modificazioni funzionali che fanno si che questi basino la propria attività termoregolatoria su
una temperatura superiore alla temperatura di riferimento determinata geneticamente (37°C).
Quindi la caratteristica distintiva della ipertermia febbrile è che l’aumento della temperatura
corporea è dovuta all’attivazione di meccanismi endogeni di termoconservazione e termogenesi,
attivazione, a sua volta, dovuta all’aumento della temperatura di riferimento.
Esistono PIROGENI ESOGENI e PIROGENI ENDOGENI. I primi comprendono tutti gli agenti esogeni
che introdotti in un organismo sono in grado di indurre la febbre; questi agenti non esplicano i
loro effetti pirogenici in maniera diretta ma inducendo nell’organismo la produzione di
mediatori endogeni della risposta febbrile, ovvero i pirogeni endogeni.
Diverse citochine infiammatorie possono agire come pirogeni, quelle più efficaci nell’induzione
della risposta febbrile sono le citochine della triade infiammatoria, ovvero interleuchina 1,
interleuchina 6 e tumor necrosis factor alpha, ma anche altre citochine giocano un ruolo
importante nella febbre, come gli interferoni, l’interleuchina 2 e altre. Se i pirogeni endogeni sono
di fatto le citochine infiammatorie, rientrano nella categoria dei pirogeni esogeni tutti quegli agenti
microbici che penetrando nell’organismo sono in grado di indurre danno, infiammazione e quindi
sintesi di citochine infiammatorie. Oggi si può sostituire il termine pirogeno endogeno e pirogeno
esogeno con il nome specifico degli agenti o delle molecole che hanno effetto pirogenico.
la febbre, in quanto manifestazione sistemica di un processo infiammatorio, non è sempre e solo
la conseguenza di processi infiammatori causati da infezioni microbiche ma che può essere
causata anche da processi infiammatori di natura non infettiva.
Centrale nella patogenesi della febbre è il processo infiammatorio indotto dagli agenti flogogeni,
compresi agenti microbici e agenti di natura non microbica. Le citochine con potere pirogenico
prodotte dalle cellule dell’immunità reclutate nel focolaio flogistico rappresentano il segnale che
induce la risposta febbrile; infatti queste citochine passano nel sangue e raggiungono i centri
termoregolatori situati nell’area preottica dell’ipotalamo. L’effetto delle citochine pirogeniche si
traduce a livello ipotalamico come un riassetto della temperatura di riferimento a valori
superiori rispetto al set-point fisiologico di 37°.
TIPI DI FEBBRE
I criteri principali per classificare la febbre sono l’entità del rialzo termico e l’andamento della
curva termica. La classificazione della febbre sulla base dell’entità del rialzo termico prevede 4 tipi
di febbre febbricola (1° in + rispetto ai valori normali) – media ( 1 o 2 ° in +) – alta (2 – 3° in +) –
altissima (al di sopra di 41,5° detta iperpiressia) ma questa classificazione è certamente
importante in un contesto clinico ma meno importante su quella che invece si basa
sull’andamento della temperatura nel corso del processo febbrile.
A seconda dell’andamento della curva termica la febbre viene classificata in diversi tipi:
Febbre continua: è caratterizzata da un rialzo termico e da un plateau in cui il rialzo termico si
mantiene costante o comunque con oscillazioni giornaliere della temperatura minime, inferiori ad
1°. La fase di plateau è seguita dalla defervescenza. La febbre continua è tipica della polmonite
pneumococcica e del tifo.
La febbre remittente, che si manifesta in associazione con diversi agenti microbici, nelle infezioni
virali e nella setticemia è caratterizzata da un rialzo termico che una volta raggiunto il plateau va
incontro a fluttuazioni giornaliere superiori ad 1°. Le fluttuazioni giornaliere possono, quindi,
essere ampie ma non raggiungono la defervescenza in quanto nel corso di tutto il processo
febbrile, fino all’eventuale risoluzione dell’infiammazione la temperatura rimane comunque
superiore ai 37°. Viceversa quando le oscillazioni della temperatura sono tali da determinare
l’alternarsi di fasi di ipertermia e fasi di apiressia, cioè mancanza di febbre, si parla di febbre
intermittente
La febbre ricorrente è una febbre nella quale si alternano fasi di rialzo termico e fasi di apiressia
della durata di alcuni giorni.
febbre periodica, caratterizzata dal fatto che le fasi di rialzo termico e le fasi di apiressia si
susseguono con una specifica periodicità. Questo tipo di febbre è la massima espressione del fatto
che l’andamento della curva termica può fornire importanti informazioni diagnostiche. Infatti la
febbre ricorrente periodica è tipica delle infezioni da protozoi, come ad esempio i plasmodi della
malaria. La periodicità di picchi febbrili è associata al ciclo riproduttivo dei protozoi e il periodo tra
un picco febbrile e l’altro è quindi specifico per diverse specie di protozoi.
febbre ondulante caratterizzata dal fatto che le fasi febbrili e le fasi di apiressia si susseguono
senza un periodo definito e dal fatto che spesso la febbre sale e scende lentamente anche per
lunghi periodi. La febbre ondulante è caratteristica di infezioni ricorrenti ma anche di neoplasie,
nelle quali, in modo ricorrente ma non prevedibile, vengono prodotte citochine infiammatorie in
conseguenza, ad esempio, di fenomeni di necrosi a carico delle cellule del tumore.
I PROCESSI RIPARATIVI
Quindi, quando si verifica un danno tissutale, questo innesca un processo infiammatorio volto a
ripristinare nel tessuto le condizioni necessarie perché possa avvenire il processo riparativo.
Peraltro, le cellule dell’infiammazione, oltre a rimuovere i costituenti tissutali danneggiati,
partecipano al processo riparativo anche tramite il rilascio di citochine e fattore di crescita, che
vanno a stimolare la deposizione di nuovi costituenti della matrice connettivale, stimolano la
neoangiogenesi, ovvero lo sviluppo di nuovi vasi sanguigni e possono inoltre contribuire a
stimolare la proliferazione delle cellule residenti nel tessuto.
Mentre la mancata risoluzione dell’infiammazione e quindi una condizione di infiammazione
cronica, in particolare se di tipo interstiziale, si caratterizza per la coesistenza dei processi lesivi e
dei tentativi di riparazione del tessuto. Quindi, questo tipo di condizione tende ad evolvere nella
fibrosi che è associata ad una compromissione di vario grado della funzione del tessuto coinvolto,
in quanto le cellule parenchimali del tessuto sono sostituite da tessuto connettivo.
La guarigione di una lesione tissutale può avvenire tramite due processi e cioè per
RIGENERAZIONE o per REINTEGRAZIONE CONNETTIVALE.
-La rigenerazione si riferisce a un processo di guarigione che avviene tramite la proliferazione delle
cellule superstiti presenti nel tessuto lesionato, esitando nel completo ripristino della struttura e
della funzione del tessuto stesso. Viceversa, quando la guarigione è mediata da fenomeni
proliferativi ma non esita nel perfetto ripristino delle proprietà del tessuto, sarebbe più corretto
parlare di “guarigione per iperplasia rigenerativa”.
-La guarigione per reintegrazione connettivale è, invece, un processo in cui il tessuto lesionato
viene sostituito da tessuto connettivo. E’ quindi implicito che il processo di guarigione per
reintegrazione connettivale si associa sempre ad una compromissione sia strutturale che
funzionale del tessuto coinvolto. Questo tipo di guarigione è anche detta “riparazione per
cicatrizzazione”. In alcuni casi la guarigione di una lesione avviene per rigenerazione, in altri per
reintegrazione connettivale, in altri ancora grazie a un contributo dovuto ai fenomeni rigenerativi e
a un contributo dovuto, invece, alla deposizione di tessuto connettivale.
Il contributo relativo del processo rigenerativo e del processo di reintegrazione connettivale alla
riparazione di un tessuto lesionato dipende, in primo luogo, dalla capacità proliferativa delle
cellule che costituiscono il tessuto e, in secondo luogo, dal tipo tipo di danno, ovvero dall’entità
dei processi lesivi. Infatti, le cellule di diversi tessuti sono caratterizzate da un differente
potenziale replicativo e la capacità proliferativa delle cellule parenchimali di un tessuto è,
ovviamente, un requisito indispensabile perché la guarigione avvenga per rigenerazione.
In base al loro potenziale replicativo, le cellule dell’organismo sono distinte in cellule labili, stabili o
perenni. Le cellule labili sono cellule che proliferano continuamente e che, quindi, si trovano
sempre in una fase del ciclo cellulare compresa tra G1 ed M; la loro continua proliferazione è volta
a produrre una progenie che va a sostituire elementi cellulari a vita breve come, per esempio, le
cellule del sangue o le cellule degli epiteli di rivestimento, includendo, quindi, sia l’epidermide che
le mucose. Questi elementi cellulari sono, infatti, continuamente esposti a stress di tipo meccanico
o chimico, vanno fisiologicamente incontro a morte e sono continuamente sostituiti da altri
elementi cellulari generati, appunto, dalla proliferazione delle cellule labili. Le cellule labili di
natura epiteliali, questo sono ad esempio i cheratinociti dello strato basale dell’epidermide o le
cellule staminali della mucosa intestinale. Le cellule labili dalla cui proliferazione derivano, invece,
le cellule del sangue sono le cellule staminali emopoietiche, che sono localizzate nel midollo osseo.
Fanno, inoltre, parte delle cellule labili anche i precursori dei gameti maschili.
Le cellule stabili sono, invece, cellule che sono uscite, seppur, non irreversibilmente dal ciclo
cellulare e si trovano, quindi, nella cosiddetta fase G0, sono quindi cellule quiescenti dal punto di
vista proliferativo che però non hanno perso definitivamente la capacità di proliferare e che sotto
opportuni stimoli possono rientrare nel ciclo cellulare e riprendere a moltiplicarsi. Il tipico esempio
di questa categoria sono gli epatociti, probabilmente anche in relazione al fatto che, sebbene siano
normalmente quiescenti, quando sono stimolati a proliferare questi elementi cellulari mostrano di
avere un elevato potenziale replicativo; ad esempio, in seguito ad una epatectomia parziale,
ovvero alla rimozione chirurgica di una porzione di fegato, gli epatociti presenti nella porzione di
organo residua sono ridotti a proliferare fino a quando la massa dell’organo non raggiunge le
dimensioni che aveva prima dell’intervento. Oltre agli epatociti, moltissimi tipi cellulari
appartengono alla categoria delle cellule stabili, tra cui, ad esempio, le cellule endoteliali, le cellule
mesenchimali come i fibroblasti, condrociti, gli ossiociti, le cellule muscolari lisce.
Le cellule perenni sono cellule che sono uscite dal ciclo cellulare in maniera irreversibile, hanno
perso definitivamente la capacità di riprodursi e sono caratterizzate da un differenziamento
terminale. Infatti, le cellule perenni mostrano in genere un elevato grado di differenziamento
morfologico e comprendono i neuroni, i cardiomiociti, ovvero le cellule muscolari cardiache e le
fibre del muscolo scheletrico. In questo ultimo caso non si parla propriamente di cellule poiché il
muscolo scheletrico è formato da fibre derivanti dalla fusione di più cellule a formare un sincizio.
CELLULE STAMINALI
Anche le cellule staminali posso essere usate nella medicina rigenerativa, ovvero in quella branca
della medicina che mira alla rigenerazione di organi o tessuti danneggiati. Le cellule staminali
sono, per definizione, cellule indifferenziate caratterizzate dalla proprietà di autorinnovarsi e
produrre una progenie in grado di differenziare in uno o più tipi cellulari. Le cellule staminali
emopoietiche e le cellule staminali degli epiteli di rivestimento rappresentano popolazioni di
cellule staminali ben caratterizzate, numerose e con un ruolo essenziale per il turn over degli
elementi cellulari che da queste derivano e questo in condizioni sia fisiologiche che patologiche.
Questi tipi di cellule staminali sono state già da tempo utilizzate per scopi rigenerativi. Le ricerche
degli ultimi decenni hanno dimostrato, di fatto, che tutti i tessuti presentano una piccola quota di
cellule staminali, compresi i tessuti a cellule perenni e queste ricerche hanno, quindi, sollevato un
intenso dibattito sul contributo delle cellule staminali ai processi riparativi di tessuti come il cuore
o il sistema nervoso. Di fatto, nonostante ci siano ora evidenze che le cellule staminali nervose e
cardiache possono proliferare in risposta ad una lesione dei rispettivi tessuti, il loro contributo ai
processi riparativi appare comunque trascurabile.
La GUARIGIONE PER PRIMA INTENZIONE si verifica quando la ferita causa una perdita tissutale
limitata e presenta margini netti o ravvicinati, come avviene nel caso delle ferite chirurgiche.
Anche le ferite con maggior perdita di sostanza e con margini più distanti possono andare incontro
a guarigione per prima intenzione se vengono suturate. In queste condizioni il processo riparativo
si compie in tempi rapidi e l’entità dei processi di formazione di granulazione e di deposizione di
matrice extracellulare sono limitati; così come pure il fenomeno della contrazione della ferita da
parte dei miofibroblasti. Questo tipo di guarigione esita nella formazione di piccole cicatrici ed in
un buon recupero delle caratteristiche strutturali e funzionali del tessuto, anche se il tessuto
cicatriziale non è mai identico al tessuto originario.
La GUARIGIONE PER SECONDA INTENZIONE si verifica, invece, nel caso di ferite con ampia perdita
tissutale o con margini della ferita distanti tra loro. In questo caso il processo di guarigione ha
luogo più lentamente; è necessaria una massiccia produzione di tessuto di granulazione per
riempire un’area lesionata, il processo di riepitelizzazione richiede più tempo, c’è una cospicua
deposizione fibre connettivali e una maggiore partecipazione dei miofibroblasti per la contrazione
della ferita. Questa situazione può, quindi, determinare la formazione di cicatrici ipertrofiche o
retratte che, non solo sono associate a inestetismi anche gravi, ma che compromettono anche le
proprietà meccaniche del tessuto. In sintesi, gli esiti della guarigione delle ferite cutanee per prima
o per seconda intenzione evidenziano come in uno stesso tessuto l’entità del danno influenzi
l’andamento del processo riparativo. Pertanto, a seconda dell’entità del danno, il processo di
guarigione può esitare in una maggiore o minore compromissione strutturale e funzionale del
tessuto coinvolto.
In altri tessuti la sequenza degli eventi che vanno dal danno alla riparazione sono in linea generale
simili a quelli descritti per le ferite cutanee, se pure con delle differenze legate alle caratteristiche
strutturali dei diversi tessuti e ai differenti tipi di danno che questi possono subire. In generale in
questa sequenza di eventi possiamo individuare una fase emostatica, questo se il danno tissutale
ha coinvolto anche i vasi, la fase infiammatoria, fenomeni di neo vascolarizzazione, fenomeni
proliferativi a carico dei fibroblasti e, nel caso di tessuti a cellule labili o stabili, delle cellule
parenchimali del tessuto. Possiamo, inoltre, individuare una fase in cui vi è la neo deposizione di
matrice extracellulare e una fase in cui vi sono fenomeni di rimodellamento.
TUMORI
Con il termine tumore si intende una nuova popolazione di nuova formazione che genericamente
deriva da una singola cellula quindi viene definita di origine monoclonale cioè di un unico clone
cellulare che avvia la formazione di quella che sarà la popolazione tumorale. Queste cellule che
costituiranno la popolazione tumorale hanno origine da una cellula somatica dell'organismo che
ha subito una serie di alterazioni a carico del proprio genoma quindi una serie di mutazioni a
carico genetico che portano alla formazione di un nuovo elemento cellulare con caratteristiche
differenti, le alterazioni a carico del genoma possono essere di tipo strutturale (mutazioni )
oppure di tipo epigenetico (cioè delle modificazioni ereditabili dell'espressione genica e delle
funzioni genomiche ),tutte queste mutazioni trasformano una cellula da normale in cellula
tumorale i danni acquisiti dalla singola cellula che ha subito queste mutazioni dovranno poi essere
seguiti da uno stimolo proliferativo, cioè la cellula maturata per poter dare origine ad una cellula
tumorale dovrà suddividersi quindi dovrà avere la capacità di riprodursi per dare origine ad una
nuova popolazione. Le alterazioni che la cellula tumorale presenta sono responsabili di effetti
fenotipici che la cellula acquisisce che sono differenti dalla cellula normale, la cellula tumorale
acquisisce delle funzioni abnormi oppure la perdita o la riduzione di altre funzioni quindi una
modificazione nel funzionamento della cellula stessa ma anche della struttura, qualsiasi tipo di
cellula del nostro organismo può andare incontro ad una trasformazione di tipo tumorale
generando un tumore vero e proprio questo dipende dallo stimolo proliferativo che arriverà dopo
l'acquisizione di un certo numero di mutazioni.
Il termine tumore prende nome dall'aspetto macroscopico difatti e una nuova formazione che può
essere anche chiamata neoplasia. Il
termine cancro prende origine dall'osservazione dei tumori maligni in cui le cellule periferiche che
formano delle propaggini che avvilupperanno le cellule normali vicine proseguendone la loro
crescita e distruggendole e sostituendole.
Le patologie tumorali sono caratterizzate da un periodo di latenza cioè dal momento in cui il
tumore ha preso origini fino alla replicazione delle cellule mutate c'è un periodo di latenza cioè un
intervallo che andrà precedere la sintomatologia caratteristica di una patologia di tipo tumorale e
genericamente il periodo di latenza è un periodo di lunga durata perché da una singola cellula che
ha subito numerose mutazioni si deve andare a formare una massa tumorale che devo essere
costituita da circa 10 alla 9/10 cellule e soltanto nel momento in cui la popolazione cellulare ha
raggiunto un cospicuo numero di cellule comincerà ad apparire la sintomatologia.
PROCESSI DI CANCEROGENESI
il processo di cancerogenesi è alla base dell'eziologia e patogenesi della formazione di un tumore questo
processo è complesso e consta di 3 fasi principali
1) INIZIAZIONE : in cui una o più mutazioni che siano endogene o esogene sono in grado di trasformare una
cellula somatica normale in cellula neoplastica latente cioè una cellula che ha subito mutazioni ma che non
è in grado di replicarsi ,ha acquisito numerosi cambiamenti all'interno del filamento del DNA all'interno del
materiale genetico ma non si è replicata, questa cellula latente può rimanere in questo stadio di latenza per
periodi più o meno lunghi fino a che non avvenga qualcosa per far avvenire l'autonomia , quest'autonomia
sarà attivata nello stadio successivo chiamata promozione.
2) PROMOZIONE: la cellula somatica trasformata dovrà acquisire ulteriori danni genomici cioè ulteriori
mutazioni oppure dovrà essere sottoposta a stimoli proliferativi per poter essere in grado di acquisire la
propria autonomia cominciando così a moltiplicarsi formando una famiglia di cellule cioè clone che deriva
da un singolo elemento portatrici delle stesse alterazioni genomiche che riusciranno a rendersi manifeste
solo quando raggiungeranno una determinata massa cioè quando il numero di cellule avrà raggiunto una
massa che darà una sintomatologia nell'organismo.
3)PROGRESSIONE: Si avrà un ulteriore accumolo di mutazioni nelle cellule neoplastiche che porteranno ad
altri cambiamenti nel genoma che sono andati incontro ad ulteriori replicazioni. Queste nuove mutazioni
acquisite saranno responsabili della comparsa del fenotipo invasivo o del fenotipo metastatico e quindi
potrà ancora essere una popolazione che sarà suscettibili a mutazioni.
Quindi il tumore non è un'entità statistica ma è in continuo cambiamento e non solo le cellule che
costituiscono la popolazione stessa non sono cellule tutte uguali ma sono cellule che avranno acquisito
caratteristiche differenti. Il tumore è un'entità dinamica in continua evoluzione e non statica, la
popolazione delle cellule che lo costituiscono pur derivando da una singola cellula sarà una popolazione
disomogenea e questa è una caratteristica differente dagli altri tessuti in cui tutte le cellule che
compongono un tessuto sono cellule uguali e l'unica eccezione è il tessuto del sangue in cui la popolazione
e disomogenea, inoltre le cellule che compongono la popolazione tumorale avranno un diverso grado di
aggressività quindi la popolazione tumorale è in grado di acquisire nel tempo durante la replicazione
ulteriori danni genomici questo è dovuto al fatto che sono coinvolti geni che codificano per le proteine
stesse preposte per la duplicazione del DNA oppure che codificano molecole atte alla riparazione dei danni
del DNA (fragilità genomica )ciò vuol dire che la cellula acquisisce delle mutazioni ci sono dei sistemi che
vanno a recuperare il DNA che ha subito la mutazione attraverso la scissione nonché il taglio delle basi che
risultano essere mutate con l'inserimento delle basi corrette ma se i sistemi di riparazione del DNA sono
essi stessi danneggiati quindi non funzionanti la cellula non potrà riparare il danno subìto questa
caratteristica della fragilità genomica è una caratteristica solo dei TUMORI BENIGNI e quindi già da qui si
può capire che ci sono differenze tra tumori benigni e tumori maligni.
TUMORI BENIGNI
Tumori benigni :sono costituiti principalmente da cellule che pur mantenendo una loro autonomia
replicativa lasciano quasi inalterate le caratteristiche morfologiche e funzionali;
Si accrescono generalmente più lentamente dei tumori maligni e rimangono localizzati nel sito di
insorgenza senza avere la possibilità di invadere i tessuti vicini, tuttavia i tessuti vicini subisco fenomeni di
compressione perché i tumori benigni hanno un modo di crescita espansivo e compressivo nei confronti
dei tessuti vicini; I tumori benigni dell'epitelio ghiandolare sono spesso avviluppati da una capsula di
tessuto connettivo fibroso che li delimita in maniera netta e definita dai tessuti confinanti con il quali hanno
un rapporto di contiguità. L'autonomia dei tumori benigni oltre ad essere legata all'incapacità si sottostare
ai meccanismi di controllo e di proliferazione che normalmente guidano le cellule ma anche quella di
sfuggire a quei meccanismi omeostatici che en regolano alcune funzioni quindi hanno nella loro minore
gravità un'assoluta indipendenza dalle cellule somatiche normali del nostro organismo;I tumori benigni non
sono invasivi non diffondono a distanza quindi non metastitizzano come succede nei tumori maligni e non
recidivano cioè una volta che il tumore benigno è stato asportato chirurgicamente non ritornerà dello
stesso tipo e nella stessa sede in cui questo tumore è stato eliminato.
TUMORI MALIGNI
Sono caratterizzati da un'atipica morfologica che sarà tanto più evidente quanto più il tumore
sarà indifferenziato, l'atipia morfologica si manifesterà con alterazioni nella forma e nella dimensione delle
cellule stesse e degli organuli cellulari in particolare a subire modificazioni sarà principalmente il nucleo che
acquisirà delle caratteristiche particolari ciò sarà intercronico e in fase mitotica perché la cella si suddivide
molto rapidamente.Il tessuto tumorale maligno infiltra e distrugge i tessuti vicini sostituendosi alle cellule
normale, questa modalità di crescita è detta invasività neoplastica ed è caratteristica solamente dei tumori
maligni difatti questa modalità ricorda le propaggini come proprio la spiegazione del termine cancer.
I tumori maligni inoltre hanno la capacità di superare le pareti dei capillari linfatici e sanguigni e delle
venule, che possono essere quindi invasi e superati e le cellule che ai sono distaccate dal tumore principale
una volta superati queste pareti/capillari andranno a raggiungere il circolo linfatico e sanguigno potendo
quindi allontanarsi dal tumore primario e andando colonizzare nuovi tessuti questo è il processo di
metastatizzazione.
Questo rende il tumore da una manifestazione patologica locale ad una malattia sistemica dell'organismo
che quindi interessa tutto l'organismo aggravando quindi di molto la condizione del soggetto.
La capacità della recidiva è anch'essa è un aggravamento della tipologia tumorale e sarebbe la comparsa
nella stessa sede anatomia di un tumore con le stesse caratteristiche di quello asportato chirurgicamente.
Il fatto che la patologia tumorale possa diventare un fenomeno con una sintomatologia che interessa
l'intero organismo è dovuto alla moltiplicazione delle cellule tumorali ,una volta che quindi il tumore
maligno ha raggiunto una crescita cospicua può dare luogo alla CACHESSIA NEOPLASTICA cioè un
progressivo e rapido decadimento dell'organismo che va incontro a modificazioni come atipia astemia una
notevole perdita di peso che va ad aggravare alla condizione del soggetto ed è provocata dalla produzione e
la liberazione di diverse molecole che risultano essere tossiche e che sono liberate dalla cellule neoplastiche
stesse, la molecola che ha un ruolo molto importante è una citochina nonché la TNF nota anche con il
termine catechina ed è rilasciata in cospicua quantità dalle cellule neoplastiche stesse e anche dai
macrofagi e dai soggetti che sono portatori di una patologia di tipo tumorale.
VIE DI METASTATIZZAZIONE
1°passo è il distacco delle cellule tumorali dalla cellule della popolazione originaria per ridotta adesività
omotipica
2° passo Invasione dei tessuti limitrofi
3°passo è necessario il contatto con i capillari sanguigni o linfatico quindi erosione della parete dei capillari
e penetrazione attraverso le giunzioni dei capillari a questo segue
4°passo il passaggio nel circolo sanguigno o linfatico e la formazione nel sangue o nella linfa di un embolo
metastatico che permetterà alla cellula di non essere riconoscibile dal sistema immunitario proprio perché
avvolti da un reticolo di fibrina e elastine che restano aderenti alle cellule metastatica e ne nascondono il
passaggio celandola alle cellule dell'immunità.
Quindi le cellule trasportate nel torrente circolatorio arresteranno il percorso di quest'embolo in
corrispondenza di un capillare o un linfonodo e aderiranno alle cellule endoteliali delle pareti del vaso per
andare a colonizzare un nuovo tessuto quindi si farà il percorso inverso di quello che ha fatto la cellula
prima distaccandosi dal tessuto tumorale e invadendo il circolo linfatico o sanguigno adesso la cellula dopo
che arriva l'Embolo metastatico si arresterà e andrà a superare e a invadere la parete del vaso e occupare
gli spazi interendoteliali infiltrandosi nel tessuto che si ritrova al di fuori della parete vasale qui potrà
proliferare e produrre fattori angiogenetici che ne permetteranno la vascolarizzazione importante per il
trasporto di ossigeno e sostanze nutritive al centro del tumore anche quando questa nuova formazione
abbia raggiunto dimensioni tali da non riuscire più il trasporto attraverso i vasi periferici.
Come avviene il trasporto del dito dove si è sviluppato il tumore primario fino al luogo della localizzazione
metastatica e può avvenire attraverso varie vie
•VIA LINFATICA è prevalentemente seguita dalle cellule dei tumori epiteliali consente alle cellule
neoplastiche di raggiungere i linfonodi regionali che saranno la prima stazione di arresto prima di
proseguire nei linfonodi juxtaregionali, l'arresto delle cellule nei linfonodi è possibile grazie alla presenza di
molecole di adesione che fanno parte della famiglia delle integrine.
•VIA EMATICA è seguita prevalentemente cellule dei sarcomi ma anche da alcuni carcinomi ed è
direttamente utilizzata con la penetrazione nei capillari sanguigni oppure indiretta prima attraverso il
circolo linfatico e poi dopo essere stata trasportata grazie alla linfa viene riversata nel torrente circolatorio
circolatorio dal dotto toracico una volta penetrato nel sangue le cellule vengono avvolte da un reticolo di
fibrina che le rendono assolutamente invisibili alle cellule del sistema immune e rimangono come veri e
propri embolo sospesi nel sangue ,la fuoriuscita di queste cellule avviene attraverso le giunzioni
interendoteliali del capillari e andranno a penetrare nel connettivo dell'organo dove si sono fermati dove
andranno a colonizzare questo tessuto formando la vera e propria metastasi .
•via TRANSCELOMATICA seguita dalle cellule in cui i tumori che insorgono in organi con le cavità
celomatiche dell'organismo ossia (pleure ,peritoneo e pericardio) i tumori polmonari andranno a
metastetizzare prevalentemente nella pleura corrispondente a quello in cui si sviluppa il tumore stesso qui
le metastasi potranno presentarsi come localizzazione neoplastica sulla superfice della sierosa oppure come
cellule dissociate che si andranno a moltiplicare nel trasudato (liquido fisiologico differente dall'essudato
perché povero di proteine e povero di cellule va ad essere presente fisiologicamente in queste
cavità )questo liquido che si forma normalmente e che trasforma la pleura da una cavità virtuale ad una
cavità reale vera propria .
•via CANALICOLARE che è seguita dai tumori che insorgono dalle ghiandole a secrezione esterna e che
sono fornite da un dotto escretore che consente a queste cellule di fuoriscire e quindi allontanarsi dal
tumore primario esempio sono i tumori renali che attraverso l'uretere riescono ad arrivare a
metastetizzare nella vescica
•per CONTIGUITÀ cioè in organo collocato a contato con quello in cui è sorto il tumore primario .
ONCOGENI
Gli oncogeni sono geni responsabili della trasformazione neoplastica delle cellule, sono stati scoperti nel
genoma di alcuni retrovirus di oncogeni ed erano responsabili dell'infezione di queste cellule da parte di
questi virus.
Anche il DNA di cellule normali non infettate da virus contiene sequenze simili ma non identiche a quelli
degli oncogeni che sono state infettate da virus quindi sono sempre questi geni responsabili della
trasformazione tumorale.
Questi prendono origine da altri geni che sono definiti come protoncogeni che esplicano funzioni
essenziali in cellule normali e in seguito a mutazioni questi protoncogeni vengono mutati in oncogeni
quindi i protoncogeni sono gli equivalenti normali degli oncogeni questa trasformazione da protoncogeni a
oncogeni è il punto chiave del passaggio di una trasformazione da cellula somatica normale a cellula
neoplastica ed è conseguenza delle mutazioni che intervengono a seguito di un contatto con agenti
cancerogeni .Gli oncogeni si possono definire come una versione alterata/mutata dei protoncogeni che
saranno in grado di codificare per un eccesso di prodotto in caso di amplificazione genica e di sregolazione
della loro trascrizione oppure per un prodotto che viene alterato nella loro struttura quindi un prodotto che
ha una funzione diversa rispetto al prodotto del gene normale non mutato.
Le mutazioni che vanno a riguardare una cellula normale trasformandola in cellula tumorale riguardano
più geni e si possono verificare delle alterazioni in cui si produce un incremento di alcune funzioni oppure
casi in cui la mutazione induce la perdita di altre funzioni caratteristiche della cellula, nel caso in cui si
verifichi quest'ultima ipotesi questo evento sarà correlato all'attivazione di quei geni chiamati
oncosoppressori che contribuiscono alla trasformazione neoplastica con la perdita di alcune funzioni da
parte della cellula.
La trasformazione da protoncogeni a oncogeni è dovuta ad alterazioni quantitative che possono
consistere:
•Amplificazione genica cioè la formazione di più coppie dello stesso gene che si porteranno come
conseguenza la formazione di una quantità eccessiva di un prodotto che però sarà normale, quindi qui
l'alterazione che si è venuta a creare non è relativa ad un prodotto nuovo molecolare al di fuori della norma
ma un prodotto in quantità esuberante rispetto alla norma.
•stimolazione della trascrizione genica con una amplificazione dell'attività codificante.
•Alterazioni qualitative porteranno ad un prodotto dotato di eccessiva funzione e sono conseguenti a:
-Mutazioni puntiformi che vengono definite --> mutazioni attivanti
-Condizione di fusione tra due geni diversi in cui si ha la formazione di un gene
ibrido che codifica per una proteina che ha una funzione esaltata iperfunzionante.
•Gli oncogeni si comportano da geni dominanti quindi è sufficiente la mutazione di un solo allele, mentre i
geni oncosoppressori sono geni recessivi e per manifestare la perdita della funzione le mutazioni inattivanti
devono coinvolgere tutti e due gli alleli.
•si definiscono oncogeni tutti i geni che in seguito a mutazioni o a disgregazione codificano per proteine
con eccesso di funzione o che in altro modo concorrono allo sviluppo della cellula neoplastica.
Gli oncogeni codificheranno per diversi tipi di prodotti che troveremo nella cellula trasformata in cellula
tumorale:
- Per fattori di crescita cioè per molecole di natura proteica che però sono stati codificati in maniera
aberrante rispetto alla normalità e che vengono sintetizzati e secreti dalle cellule neoplastiche e quindi i
fattori di crescita neoplastiche che sono differenti dai fattori di crescita che sarebbero stati codificati e
utilizzati dalla cellula normale.
- Recettori per i fattori di crescita eccetto le proteine recettoriale transmembrana che trasducono il segnale
anche in assenza del ligando saranno anche questi prodotti sintetizzati a carico degli oncogeni cioè dei geni
mutati
- Trasduttori del segnale molecole situate all'interno della membrana plasmatica oppure nel citoplasma
quindi trasduttori citoplasmatiche quindi coloro che una volta che si è connesso il legame tra recettore e
molecola che va legata al recettore trasducono il segnale.
- Fattori di trascrizione ossia proteine citoplasmatiche o nucleari che regolano la trasduzione genica.
- Proteine cromatiniche cioè proteine che avranno modificazioni strutturali e sono quelle proteine che
avvolgono il DNA e alterano l'interazione dei fattori trascrizionale con i loro promoter o enchancer (cioè
quelle sequenze di DNA che hanno un ruolo di pro-trascrizione dei geni)
- Regolatori dell'apopstosi per esempio il gene BCL-2 che è un gene antiapoptotico risulterà alterato per
inespressione di alcuni tumori, la proteina BCL-2 è mutata inespressa ed anche questa un proteina
caratteristica del programma di morte cellulare per apoptosi e la mutazione di questa proteina induce
sopravvivenza della cellula.
GENI ONCOSOPPRESSORI
Le cellule però possiedono anche un'altra categoria di geni oltre agli oncogeni e i protoncogeni.
Questi geni che sono oncosoppressori assumono una posizione di particolare rilievo in tutte le fasi del
processo della cancerogenesi ogni qualvolta la loro funzione viene a mancare, questa condizione di
mancanza di funzione di quei geni che vengono chiamati oncosoppressori agisce a favore del processo di
cancerogenesi infatti questi geni svolgono una funzione opposta agli oncogeni poiché agiscono in sfavore
della moltiplicazione cellulare e di tutti gli eventi che stimolano la trasformazione e quindi la
progressione del tumore stesso, la mancanza della loro funzione può avvenire per diverse condizioni per
esempio a seguito di mutazioni inattivanti in conseguenza delle quali il prodotto codificato risulta essere
inattivo oppure per delezione genica quindi per mancanza di una porzione di questi geni.
Questi geni sono definiti oncosoppressori o antioncogeni. I primi
identificati sono quelli che codificano per le proteine trasportatrici del segnale negativo ai fini della
progressione del ciclo cellulare ,questo vuol dire che se una cellula ha subito trasformazioni tumorali ma
non c'è il prodotto che innesca la seconda fase della cancerogenesi ossia la progressione, questa cellula
trasformata rimarrà silente e non darà mai origine ha una popolazioni di cellule tumorali di origine
monoclonale e quindi non darà origine al tumore vero e proprio, mentre se questo gene
dell'oncosoppressore viene ad essere mancante è chiaro che il processo di cancerogenesi va avanti e
prosegue fino alla formazione del tumore stesso.
I geni oncosoppressori si comportano da gene recessivi quindi ai fini della perdita della loro funzione è
necessario che tutte e due le coppie degli alleli dello stesso gene siano mutate o silenziate, e quindi non
possono esplicare la loro funzione .
Questi geni sono divisi in 2 categorie vengono chiamati:
•gene GATE-KEEPERS preposti al controllo dell'ingresso e avanzamento del ciclo cellulare
•geni CARE-TAKERS che presiedono ai meccanismi di riparazione del DNA .
Nelle cellule tumorali la proliferazione cellulare è modificata e il loro maggior turnover
è dovuto al fatto che molte delle cellule che producono il tessuto si riproducono contemporaneamente
riducendo al minimo il riposo moltiplicativo. Sono presenti mutazioni di protoncogeni che codificano per
prodotti preposti all'avanzamento del ciclo cellulare con un guadagno di funzioni che porta ad uno stimolo
persistente all'ingresso e all'avanzamento delle cellule nel ciclo cellulare stesso, i geni oncosoppressori
colpiti da mutazioni vengono inattivati.
I primi identificati sono quelli che codificano per le proteine trasportatrici del segnale negativo ai fini della
progressione del ciclo cellulare ,questo vuol dire che se una cellula ha subito trasformazioni tumorali ma
non c'è il prodotto che innesca la seconda fase della cancerogenesi ossia la progressione, questa cellula
trasformata rimarrà silente e non dara mai origine ha una popolazioni di cellule tumorali di origine
monoclonale e quindi non darà origine al tumore vero e proprio, mentre se questo gene
dell'oncosoppressore viene ad essere mancante è chiaro che il processo di cancerogenesi va avanti e
prosegue fino alla formazione del tumore stesso.
Nelle fasi G1 G2 ed M si ritrovano quelli che verranno chiamati i punti di restrizione cioè dei siti in cui si può
verificare l'arresto del ciclo cellulare Quindi questi punti in cui possiamo avere il blocco della replicazione
vengono ad essere attivati nel caso in cui ci siano i danni al DNA, durante l'arresto in fase G1 infatti le cellule
provvedono alla riparazione questo spazio in cui le cellule possono modificare il proprio DNA è importante
per cui la cellula ritorni nel suo assetto normale così come era prima, nel caso in cui il danno fosse
irrecuperabile le cellule verranno indirizzate verso il programma di morte cellulare quindi vengono
eliminati dall'organismo.
Grazie al processo di apoptosi nonché morte cellulare programmata, nel caso in cui dovessero mancare
fattori necessari al proseguimento della divisione mitotica le cellule possono restare in una fase di
quiescenza g0 per poi essere richiamate nel ciclo cellulare laddove è stato interrotto grazie all'intervento di
fattori di crescita. Le cellule figlie che derivano dalla divisione mitotica entreranno in fase G1 e avvieranno
l'attività metabolica.
ANGIOGENESI TUMORALE
con il progredire della massa tumorale quindI con l'aumentare del numero di cellule che vanno a costituire
la massa tumorale quando il loro diametro è arrivato a circa un millimetro la fornitura di ossigeno e di
nutrienti che possono arrivare dai capillari del derma sottostante risulta diventare insufficiente in queste
condizioni quindi è fondamentale e necessitano di un vero e proprio letto vascolare che si viene a formare
nel tessuto tumorale e servirà per l'apporto di ossigeno e nutrienti nella popolazione neoplastica questa
angiogenesi si verifica dopo la comparsa di un fenotipo e la selezione di un fenotipo angiogenetico in cui le
cellule che saranno in grado di dare l'avvio alla sintesi e alla secrezione di fattori necessari proprio per
l'angiogenesi tumorale cellulare che vengono chiamati VEGF.
L'attività di fattori angiogenetici è modulata dai Fattori antiangiogenetici come per esempio l'endostatina e
l'angiostatina questi fattori sono in grado di inibire i processi di neovascolarizzazione del tumore di
conseguenza sono molecole molto importanti perché la loro azione è in grado di bloccare la formazione del
vascolare e quindi e quindi di bloccare l'apporto di ossigeno e nutrienti al tumore di conseguenza non
permettendo la accrescimento della massa tumorale.
SISTEMI DI DIFESA
l'attività del sistema immunitario o effettori del sistema immunitario , questi si possono raggruppare in tre
principali differenti linee il sistema immune si occuperà nella difesa del nostro organismo verso gli agenti
estranei.
Le cellule del nostro organismo secretano peptidi di azione antimicrobica, ricchi di arginina e lisina,
essi agiranno più o meno come gli antibiotici chiamate defensine che andranno a contrastare virus,
batteri, protozoi e funghi (elementi di origine biologica). Queste defensine sono prodotte dalle
cellule epiteliali e dai leucociti, infatti esse avranno un ruolo anche nell’immunità innata.
Tra le cellule di rivestimento delle mucose sono presenti anche linfociti, essi saranno localizzati in
presenza delle vie di penetrazioni. Essi fungeranno da connessione tra immunità innata a quella
acquisita.
Nello strato epiteliale sono presenti anche immunoglobuline di tipo A, esse avranno il compito di
intervenire nel caso in cui l’infezione dovesse presentarsi di nuovo, anche esse fanno da ponte tra
immunità innata e immunità acquisita
Quindi i costituenti attivi di questo “primo sistema di difesa” sono:
Cute integra: formata da cheratina che non è digeribile e sorpassabile dalla maggior parte dei
microorganismi
Sudore e succo gastrico: avrà un’azione antimicrobica per il suo PH acido
Lacrime e saliva: allontanamento meccanico dai microbi o azione enzimatica, come per esempio il
lisozima
Muco: inglobamento dei microbi e mascheramento dei recettori presenti sulle superfici cellulari
che costituiscono il punto di ancoraggio dei batteri e dei virus
Flora batterica: produce sostanze antimicrobiche
Defensine: uccisione dei microorganismi
IMMUNITà INNATA
Anche questo tipo di immunità e un'immunità naturale che partecipa alla prima fase dell’infiammazione.
L'immunità innata e l’infiammazione procedono di pari passo. L'immunità innata non varierà nel tempo e
agirà verso qualsiasi tipo di antigene che penetrerà nel nostro organismo.
L’immunità naturale e l’infiammazione procedono di pari passo e gestiscono le difese dell’ospite
cooperando l’uno con l’altro. Tutti gli elementi che partecipano all’immunità innata e all’infiammazione
hanno una mobilità di intervento che non viene ad essere modificata nel tempo, hanno un rapporto di tipo
ASPECIFICO sia nel tempo ma anche verso qualsiasi tipo di antigene presente nel nostro organismo. Quindi
la loro risposta rimane sempre uguale verso gli antigeni e nel passare del tempo un eventuale rinfezione
con lo stesso tipo di antigene risponderanno allo stesso modo.
Lo stesso vale a dire per il riconoscimento delle molecole antigeniche con cui gli elementi dell’immunità
innata partecipano anche al processo infiammatorio vengono ad entrare in contatto
Questa modalità di azione la differenzia dalla 3^ linea di difesa che invece ha una risposta di tipo SPECIFICO
gìper gli antigeni, ogni effettore risponderà in maniera differente verso i differenti antigeni, essa prevede
anche una differente modalità di risposta nel primo contatto con l’antigene o nei contatti successivi cioè le
reinfezioni.
La modalità di azione degli effettori avviene attraverso molecole antigeniche o bersaglio che sono presenti
sulla superficie di batteri, virus, protozoi… e la loro interazione con gli antigeni avviene attraverso recettori
cioè molecole proteiche presenti sulle cellule deputate alla difesa cioè che sono effettori dell’immunità
naturale o cellule che sono presenti nel sangue oppure cellule e molecole che sono presenti nei fluidi
dell’organismo (lacrime….)
I fattori dell’immunità innata sono presenti sin dalla nascita e sono attivi verso tutti gli antigeni, recettori
presenti sulle cellule sono aspecifici. Riconoscono le molecole più comuni, diversi tipi di antigeni, possono
essere in grado di bloccare qualsiasi tipo di antigene differente.
La sua risposta non si modifica ma si rafforza (non cambia nei successivi contatti). Essendo presente alla
nascita è la prima ad essere attivata a seguito del contatto con l’antigene
Il passaggio da contagio a infezione si intende la replicazione massiva degli elementi estranei del nostro
organismo. Se l’immunità innata riesce a contenere il contagio non si arriverà all’infezione e quindi alla
patologia
I recettori di tale immunità sono localizzati sulle cellule della linea MONOCITA MACROFAGICA (cellule
simili tra loro) i macrofagi sono cellule tissutali e hanno funzione fagocitaria e quindi permettono di
bloccare l’antigene
Fanno parte di questa linea di difesa le cellule dendritiche che derivano da progenitori emopoietici del
midollo osseo e hanno una funzione particolare . hanno la capacità di rendere visibile l’antigene agli
effettori della 3^ linea di difesa che sono i lifnociti B e T
C’è cooperazione tra i fattori dell’immunità innata e acquisita
Cellule dell’immunità innata
Leucociti polimorfonucleati (cellule della serie bianca), monociti, cellule natural killer. Tutte queste sono
presenti nel sangue e poi migrano nel sito nel tessuto in cui è presente l’antigene indotte
dall’infiammazione.
Dal sangue al tessuto contagiato una volta che sono richiamate da fattori chemiotattici che sono
molecole proteiche prodotte durante la prima fase dell’infiammazione (mastociti, macrofagi, cellule
dendritiche sono cellule dell’immunità innata che hanno residenza nei tessuti)
I polimorfonucleati e i Nk sono cellule che derivano dal midollo osseo stimolati al differenziamento da
citochine prodotte da varie cellule dell’organismo a loro volta stimolata dall’antigene stesso
I polimorfonucleati sono le prime cellule ad abbandonare il circolo sanguigno richiamate dai fattori
chemiotattici; questi fattori possono essere rilasciati dai linfociti allora fanno parte della famiglia delle
citochine oppure possono essere rilasciati dagli stessi antigeni
I leucociti polimorfonucleati (PMN) sono:
Granulociti neutrofili: sono circa il 70% e sono in grado di riconoscere l'antigene di fagocitarla o di
ucciderla con il rilascio di sostanze contenute nei granuli.
Granulociti basofili: sono circa 1% sono gli equivalenti ematici dei mastociti e liberano mediatori
chimici dell'infiammazione e citochine . ricchi di granuli e sono mastociti(sempre dell’immunità
innata) queste cellule liberano mediatori chimici dell’infiammazione cioè molecole chimiche che
intervengono nel processo infiammatorio e sia i granulociti basofili che i mastociti saranno in
grado di liberare i mediatori chimici che interverranno nel processo infiammatorio e sono in grado
di liberare molecole che appartengono al gruppo delle citochine
Granulociti eosinofili: il 2% agiscono in corso di infezioni parassitarie e di allergie, rilasciano
proteine enzimatiche o tossiche contenute nei loro granuli (azione lesiva). I soggetti allergici
avranno un numero elevato di questi(rilevabili dall’esame dell’emocromo)
Monociti: sono circa 8% migrano nei tessuti e si differenziano in macrofagi rilasciando citochine e
attivando cellule dendritiche . riconoscono cellule infettate da virus e cellule neoplastiche. Queste
cellule per apoptosi inducono la morte delle cellule o neoplastiche o infettate da virus
Mastociti: cellule tissutali equivalenti ai granulociti basofili del sangue ricche di granuli che
andranno ad espellare se raggiunti da stimoli fisici o chimici che ne attivano il rilascio
Natural killer (NK): riconoscono e uccidono le cellule attaccate dal virus e le cellule neoplastiche si
legano ad esse e ne provocano la morte e poi si distaccano
Mastociti: sono cellule tissutali ricche di granuli che espellano se stimolati da fattori fisici e chimici.
RECETTORI
Le cellule sulla membrana esprimono i recettori. Sono delle molecole proteiche in grado di
riconoscere particolari strutture antigeniche presenti sull’antigene. I recettori sono posti o sulla
membrana o transmembrana della cellula
Si legano ad uno specifico fattore modificandone la conformazione permettendo di svolgere
l’effetto biologico e responsabili dell’attivazione delle cellule della risposta immunitaria e innesco
della risposta infiammatoria attraverso l’attivazione di citochine specifiche
I macrofagi, PMN, c.dendritiche hanno dei recettori nella membrana citoplasmatica, recettori
citoplasmatici laddove l’estraneo sia già penetrato nella cellula o possono essere recettori
presenti nel sangue o fluidi che appartengono alla famiglia del complemento.
L’attivazione di questi recettori porta alla costituzione e all’assemblaggio di una serie di proteine
plasmatiche inflammosoma che avvierà sintesi e secrezione di citochine proinfiammatorie
L’inflammosoma è lo start cioè la partenza della risposta infiammatoria. La costituzione avvierà
la sintesi selle citochine proinfiammatorie cioè molecole in grado di avviare la risposta
infiammatoria
CITOCHINE
Sono tante molecole differenti che sono sintetizzate e secrete in seguito a particolari segnali
specifici. Alcune prendono il nome di interleuchine perché inizialmente sono state identificate nei
leucociti. Prenderanno il nome in base alla funzione primaria(es: molecole di adesione)
Molte citochine sono coinvolti nella risposta immunatria e nella risposta infiammatoria. Alcune
sono rilasciate da questi processi difensivi e trovano specifiche funzioni nei linfociti ciò mette in
contatto l’immunità innata con l’acquisita
Quindi le citochine sono molecole più secrete da tutte le cellule del nostro organismo, sono
molecole trasportatrici di segnale che modulano la trascrizione dei geni che codificano per
proteine responsabili di diverse funzioni cellulari.
Nelle infezioni in presenza di un patogeno sia esso batterio, virus… il segnale di produzione di
citochine è innescata da molecole espresse dagli agenti microbici che si andranno a legare a toll-
line receptors(recettori di membrana)
Le citochine possono agire con meccanismo paracrino e autocrino ma anche endocrino se
trasportate dal sangue
Hanno un’azione pleiotropica ossia rivolta in più direzioni.
Sono molecole, protagoniste dell’immunità innata dell’infiammazione, che andranno ad interagire
con i recettori presenti sui linfociti che invece sono gli effettori, gli attori principali dell’immunità a
acquisti. La produzione di citochine e limitata nel tempo ed è regolata dalla presenza di antigeni
l'eliminazione dell' antigene determina lo stop nella produzione delle citochine, 7, oppure da
altri meccanismi regolatori che a loro volta andranno a bloccare con un meccanismo feedback la
produzione. per esempio La produzione delle citochine antinfiammatorie funzionerà da
meccanismi regolatori o sulla produzione di citochine infiammatorie stesse. La produzione di
queste citochine andrà ad agire attivando, risvegliando le cellule immunitarie endoteliali
facilitando il reclutamento dei leucociti dal sangue e stimoleranno la leucopoiesi del midollo
osseo, quindi andranno ad attivare, amplificare la risposta immune punto hanno un ruolo molto
importante sia nella risposta immune innata neanche in quella acquisita, senza la produzione di
citochine la risposta immune acquisita non sarebbe tanto efficiente. L'eliminazione dell' antigene
comporta il blocco della sintesi di queste molecole e l'inizio di tutta una serie di molecole che
risponderanno ad una condizione di omeostasi come le citochine antinfiammatorie che
risponderanno ad una condizione di omeostasi di blocco di una risposta infiammatoria e di
recupero di un' omeostasi alcune citochine hanno un effetto chemiotattico: cioè le molecole in
grado di agire richiamano le cellule e l'antigene hanno un effetto chemiotattico sui leucociti che
saranno richiamati nel sito di contagio nel infezione.
-citochina in particolare tumor necrosis Factor TNF ha un ruolo importante nel: processo febbrile
processo infiammatorio processo tumorale punto
È prodotta dalle cellule tumorali punto ma anche a un'attività di innesco di processi difensivi, un
ruolo importante nel processo infiammatorio.
TNF sintetizzato dai macrofagi nella: risposta infiammatoria difesa dell’infiammazione la sua
azione andrà ad esplicarsi sulle cellule endoteliali stimolando la dilatazione ed espressione di
molecole di adesione TNF andrà ad attivare i polimorfonucleati stimola la fagocitosi importante
per l'eliminazione del patogeno è attiva il complemento ( ruolo importante nei processi
infiammatori e importante per l'eliminazione dell' antigene attraverso i processi di immunità
acquisita), attiva il sistema della coagulazione, attiva ipotalamo inducendo la febbre, attiva il
fegato nella produzione di proteine della fase acuta ( elementi fondamentali nel processo
infiammatorio).
-Un'altra citochina importante nell’immunità innata e nell’infiammazione è l’interleuchina-1 (IL-1)
uno segreta da monociti e macrofagi stimolati a loro volta da endotossine cioè da molecole
prodotte dai batteri o simulata ancora da altre molecole per esempio dal tumor necrosis Factor
stesso attiva sua volta i linfociti helper linfociti che hanno un ruolo fondamentale espansione
clonale delle cellule effettrici dell'immunità acquisita .
-L'Interleuchina 6 citochine pro infiammatorie che attiva e che facilita il processo infiammatorio.
Molti dei farmaci pro infiammatori agiscono toccando la produzione dell'interleuchina6 che quindi
andrà a ridurre la presenza del processo infiammatorio con tutta la sintomatologia che comporta è
una molecola segreta dei macrofagi cellule endoteliali che stimola il fegato alla produzione di
proteine della fase acuta e stimola ipotalamo attraverso il passaggio dei segnali al rialzo febbrile.
-Interferoni una famiglia di citochine sintetizzate segrete da cellule infettate dal virus e sono attive
anche nelle infezioni microbiche punto
-Citochine emopoietiche si legano ai recettori presenti sui precursori delle cellule ematiche
presenti sul midollo osseo andando a simulare la moltiplicazione ampliando il numero delle cellule
della risposta immunitaria innata e acquisita aumenta il numero di granulociti macrofagi basofili e
di tutte le cellule della risposta immune.
-Chemochine sono molecole di basso peso molecolare e nella loro struttura Sono presenti quattro
molecole di cisteina. Esse hanno un’azione di richiamo (chemiotassi) su varie cellule leucocitarie,
attirandole nel sito in cui sono state liberate (le stesse chemochine) e rendendole attori importanti
nel processo infiammatorio. Esse agiscono sul richiamo dei linfociti negli organi linfoidi secondari e
inoltre agiscono sulla fissazione delle cellule impegnate nella risposta infiammatoria favorendo
l’extravasazione dei linfociti nel processo infiammatorio.
LA FAGOCITOSI
Il processo di fagocitosi È un processo responsabile della digestione e neutralizzazione di materiali
estranei che riescono a superare la prima barriera. Le cellule che hanno attività fagocitaria sono
suddivisibili in due gruppi principali: fagociti professionali (leucociti, polimorfonucleati e
monocito/macrofagi) che hanno come azione
principale la fagocitosi, e fagociti facoltativi (fibroblasti, mastociti e endoteriociti) che hanno la
funzione di fagocitosi come accessoria.
I fagociti professionali vengono richiamati dai fattori chemiotattici nei focolai dell’infiammazione.
Tramite recettori di membrana entrano in contatto con il materiale da fagocitare. Questo contatto
comporta l’attività contrattile delle proteine del citoscheletro e in questo modo dei prolungamenti
della membrana plasmatica, ossia gli pseudopodi, avvolgeranno il materiale da fagocitare e si
chiuderanno una volta inglobato. La vescicola in cui è contenuto il materiale fagocitato è
denominata fagosoma. Esso in seguito si fonderà con i lisosomi divenendo fagolisosoma. In questo
fagolisosoma si saranno riversati gli enzimi lisosomiali che serviranno all’eliminazione e digestione
del materiale fagocitato. I residui di questa digestione verranno riversati all’esterno attraverso il
processo di esocitosi.
L'immunità innata, con i suoi effettori, è attiva nelle prime ore, ossia le ore con cui avviene il
contagio. Nel tempo successivo, dal primo giorno in poi, sarà l’immunità acquisita, con i linfociti T
e B, a svolgere le azioni predominanti.
RECLUTAMENTO LEUCOCITARIO
E un punto importante della risposta immune: monociti polimorfonucleati neutrofili linfociti
Natural killer sono richiamate dalle chemochine ( molecole che hanno attività chemiotattica nel
luogo in cui sono state segrete fungono da richiamare una sorta di calamita che va a richiamare
queste cellule che hanno il ruolo di effettori dell'immunità che vanno a richiamare nel sito di
presenza). A reclutamento parteciperanno altre molecole chemiotattiche, il passaggio delle cellule
del sangue tessuti e facilitato dalla vasodilatazione operata da mediatori chimici
dell'infiammazione, da alcune citochine che stimolano le contrazioni del citoscheletro delle cellule
endoteliali
ANTIGENI
Si intende una sostanza in grado di legarsi ad uno specifico anticorpo ossia una sostanza in grado
di far reagire attivare il sistema immunitario. ogni molecola estranea cioè non self viene
riconosciuta dal sistema immunitario e mette in atto la modalità di eliminazione, l'antigene per
essere riconosciuto come tale deve avere un peso molecolare elevato ed una conformazione
molecolare complessa così che possa essere riconosciuto dagli effettori. nella sua struttura
devono essere presenti dei raggruppamenti chimici particolari chiamati epitopi antigenici fattori
presenti nella superficie dei linfociti. quindi tutti gli antigeni sono quelle molecole sono sostanze
cellule proteine agenti che sono in grado di stimolare la risposta del dell'immunità per esempio
attraverso la partecipazione dell'immunità acquisita con la produzione di specifiche molecole. La
maggior parte degli antigeni si comporta come aptene ossia vengono riconosciuti solo se sono
legato ad una molecola che li fa diventare immunogeni questa molecola è chiamata carrier. gli
apteni sono considerati degli antigeni incompleti, sono molecole che non hanno una natura
proteica , sono di piccole dimensioni, difficilmente rilevabili dal sistema immunitario appunto
non sono in grado di stimolare da soli la risposta immunitaria, assumono questa possibilità solo
se legato ad una molecola di più grandi dimensioni, di solito di natura proteica appunto i cheater
che favoriscono il potere immunogeno cioè la capacità di attivare il sistema immunitario, questa
molecola proteica può essere estranea al nostro organismo o proprio molecola self . una volta che
l aptene è legato al carrer potrà essere riconosciuto dal sistema immunitario.
Lip tipo è determinante antigenico e quella porzione di antigene che entrano in contatto con il sito
di legame della cellula, della molecola deputata alla sua eliminazione e la parte attiva dell antigene
vero e proprio, le pitocco andrà in contatto e si potrà legare con anticorpi prodotto da un linfocita
B prodotto dall' immunità acquisita o con il recettore dei linfociti t che sono altri effettori
dell'immunità acquisita.
Quindi gli epitopi risultano essere la parte più importante dell antigene perché è proprio esso
attraverso un segnale in grado di iniziare la risposta immunitaria.
Se non avviene il legame tra l'epitopo e il recettore la risposta immunitaria non si attiva appunto l
aptene è quindi una molecola antigenica da sola ma non immunogena ha bisogno di un legame
con carrer evoca il potere immunogeno punto e comunque un antigene perché è qualcosa di non
self punto la pte né indurre una risposta immunitaria solo nel caso in cui il sistema immunitario
precedentemente sia venuto a contatto col complesso aptene carrier . Immunogeno: qualunque
sostanza in grado di suscitare una risposta immune l'antigene sostanza molecola non self che
non attiva il sistema immunitario immunogeno attiva il sistema immunitario.
Una molecola può essere antigenica ma non essere in grado da sola senza la presenza di un carro
ed indurre la risposta immunitaria.
Fattori umorali
Sono un insieme di molecole sintetizzate da citotipi differenti presenti nel sangue e nei fluidi
dell’organismo, indipendentemente da stimolazione microbica O dal rilascio di citochine. Essi sono
importanti nella difesa immunitaria Specifica e nel processo infiammatorio perché sono in grado di
legarsi all’antigene e di distruggerlo. Riconoscono inoltre diverse molecole di origine microbica
oppure provenienti da tessuti danneggiati e li distruggerà attraverso un processo di fagocitosi
COMPLEMENTO
Complemento è un complesso di molecole in cui partecipano tutto un insieme di proteine
plasmatiche circa 30 presenti nel siero ma che fisiologicamente sono inattivi per la presenza di
sangue di inibitori.
Con il processo di attivazione si dà origine ad una cascata enzimatica dove ogni componente ha
un’azione proteolitica quindi viene scisso in due porzioni differenti una sorta di attivazione a
cascata. Ogni componente si scinderà in due composti: un composto sarà attivato per compiere la
sua funzione l'altro andrà ad agire sulla componente successiva scendendo lo più seguendo la
cascata di attivazione l'azione del complemento sono importanti perché la cooperazione per i
meccanismi di difesa sono in grado di causare Lisi degli elementi patogeni.
L’azione del complemento è importante nel meccanismo di difesa perché:
- I frammenti finali causano lisi in batter, virus e altri elementi patogeni;
- Alcuni hanno azione opsonizzante quindi legandosi alla superficie di alcuni microrganismi
o complessi antigene-anticorpo, facilitano i processi di fagocitosi;
- I frammenti che non partecipano alla cascata favoriscono l’innesco e
amplificano la reazione infiammatoria (in particolare i frammenti C3-A e C5-A). I frammenti C3-A e
C5-A agiscono da finafilotossine in grado di indurre la degranulazione dei mastociti (fondamentali
per i processi infiammatori).
L’attivazione di questo complemento può avvenire con due differenti modalità: via classica e via
alternativa.
La via classica è data dalla formazione del complesso antigene-anticorpo, un grande complesso di
un antigene con alto peso molecolare (o legato ad un Carrier che aumenta il suo peso molecolare)
e un anticorpo. Alcune componenti del sistema del complemento saranno in grado di portare alla
lisi questo complesso prima che questa molecola sia causa di danno per le sue dimensioni.
La via alternativa inizia con il coinvolgimento del frammento C3 ad opera di alcune proteine
plasmatiche. Il C3 verrà idrolizzato nelle sue componenti C3-A e C3-B.
Il C3-B è in grado di riconoscere alcuni polisaccaridi presenti sulla superficie microbica, è in grado
di riconoscere cellule infettate da virus o cellule neoplastiche, si fissa a queste formando legami
covalenti (difficilmente scindibili), quindi procede con l’attivazione delle altre sub-unità del
complemento che portano avanti la distruzione di questo complesso che si è venuto a creare.
Immunità specifica acquisita
E qualcosa che non c'è fin dalla nascita ma che si va modellando perfezionando rendendosi più
accurato durante la crescita dell'organismo. Risposta specifica cioè diretta verso un particolare
tipo di antigene che sarà differente se esporrà in maniera differente a seconda dei diversi antigeni
con cui si verrà a confrontare che dovrà andare ad eliminare.
Nel caso in cui fattori dell'immunità naturale aspecifica non è in grado di eliminare l'antigene verrà
innescata la risposta immune più potente perché diretta in maniera specifica verso quel
particolare antigene e soprattutto più sofisticati e più complessi della loro risposta inoltre questa
modalità di intervento sarà in grado di rafforzarsi con successivi incontri con lo stesso tipo di
antigene la memoria immunitaria.
Anche l'immunità acquisita specifica costa di due elementi:
1. fattori cellulari rappresentati dei linfociti
2. fattori umorali rappresentate dalle immunoglobuline e anticorpi
caratteristiche dell'immunità acquisita :
1. specifica: è innescata dal riconoscimento dell antigene attiva solo verso quella specifico
antigene che lo ha indotto l'attivazione
2. acquisita non presente alla nascita risponde la simulazione di un determinato antigene
tempi di risposta più lunghi al primo contatto e più rapidi nei contatti successivi
3. risposta selettiva : poiché è presente una selettività di origine e di azione
LINFOCITI B
Maturano attraverso differenti stadi con una produzione giornaliera di 10 alla sesta linfociti maturi
che vengono riversati nel sangue e trasportati agli organi linfoidi secondari dove stazionano.
Il repertorio linfocitario diverso è caratterizzato dall’espressione sulla loro superficie di membrana,
di recettori per l’antigene che sono chiamati immunoglobuline di superficie, che hanno una struttura
simile a quella degli anticorpi. I linfociti B sono gli effettori dell’immunità specifica umorale.
Gli anticorpi si possono ritrovare liberi nel sangue, ossia sintetizzati e secreti dalle plasmacellule,
oppure essere presenti come recettore di superficie dei linfociti B. Quando parliamo di
immunoglobuline di superficie, questi recettori prendono il nome di B cell receptor (BCR) e su ogni
linfocita ci sono circa 10 alla quinta copie di recettori presenti sulla sua superficie.
Il BCR sarà quella molecola in grado di riconoscere l’antigene, senza cooperazione di altre
molecole, quindi soltanto attraverso un percorso di riconoscimento diretto, e lo legherà.
Avremo quindi il legame tra il BCR e uno degli epitopi determinanti dell’antigene stesso.
Ciascun antigene ha differenti epitopi e di conseguenza legherà diversi BCR espressi su
diversi linfociti (I BCR andranno a caratterizzare il clone linfocitario).
Il BCR è un’immunoglobulina (Ig) che potrà appartenere alla classe M o D (avremo 5 classi di
immunoglobuline). Una parte di queste immunoglobuline rimarranno adese alla superficie del
linfocita B, anziché essere messe in circolo, e un’altra parte verrà messa in circolo. Il BCR è una
molecola proteica formata da due catene pesanti e 2 leggere, quindi sarà una molecola
proteica formata nel complesso da 4 catene proteiche. Queste catene andranno ad interagire
con la membrana del linfocita con una parte denominata “regione costante” (COOH
terminale) e presenteranno una parte definita come “regione variabile” (NH2 terminali) che
sarà responsabile del legame con l’antigene.
Vicino al punto di inserimento della membrana, sono presenti alcune molecole che sono dedite
alla trasduzione del segnale innescato dal legame con l’antigene. Quando il linfocita B lega
l’antigene modifica la conformazione del BCR che si trasmetterà alle molecole trasduttrici e
che determinerà l’attivazione del linfocita B. Questo punto sarà fondamentale per la risposta
immunitaria di tipo acquisito. Durante la maturazione del linfocita, verrà sintetizzato ed
espresso un BCR individuale che permetterà la selezione clonale e la morte per apoptosi di
quei linfociti che esprimono il BCR che riconosce molecole proprie dell’organismo e che
causeranno malattie autoimmuni, permettendo la sopravvivenza solo di quei cloni linfocitari
che riconoscono antigeni estranei (tolleranza immunitaria).
L’interazione tra le molecole antigeniche e il BCR del linfocita B avviene nei linfonodi dove
risiedono i linfociti B vergini che risulteranno attivati a seguito del l’interazione. I linfociti B si
trasformano in linfoblasti che vanno incontro a una divisione cellulare differenziandosi o in
plasmacellule, che sono in grado di sintetizzare e secernere anticorpi, o in un linfocita della
memoria che sarà attivo in un secondo contatto con lo stesso tipo di antigene (nella risposta
secondaria).
Il linfocita b vergine riconosce direttamente gli antigeni di natura proteica, polisaccaridica e
lipidica.
La risposta degli antigeni proteici è però possibile solo se abbiamo una seconda stimolazione
del linfocita B che avviene grazie al rilascio di alcune citochine (IL-2, IL-4, IL-5 e IL-6)
sintetizzate e secrete dai linfociti T Helper. Questi linfociti T helper cooperano, attraverso la
produzione di citochine, con la via di risposta del linfocita B. Gli antigeni proteici verranno
internalizzati da linfocita B in vescicole citoplasmatiche e verranno poi digeriti. I prodotti
della digestione verranno complessati a molecole dell’MHC ed espressi sulla superficie
cellulare in modo da essere riconosciuti dai linfociti T.
MHC
Questo sistema maggiore di istocompatibilità (MHC) coopera, attraverso l’utilizzo di alcune
molecole, nella presa visione, da parte delle cellule immuni, dell’antigene.
Permette il riconoscimento dell'antigene da parte di alcune cellule deputate alla risposta
immunitaria in particolare di alcuni antigeni verranno riconosciuti dei linfociti T
Plasma cellule che deriva dal linfocita B attivato dall interazione con l'antigene; È la tappa finale di
un processo maturativo e differenziativo che parte dal linfocita B.
La plasmacellula è un elemento maturo in grado di produrre e rilasciare le immunoglobuline cioè
gli anticorpi specifici per un dato agente estraneo
Si trovano negli organi linfoidi secondari o nel midollo osseo quelli che si trovano negli organi
linfoidi secondari sono plasma cella vita breve mentre quelle localizzate nel midollo osseo
plasmacellula vita lunga.
Nella plasmacellule del midollo osseo continueranno a succedere anticorpi per mesi o anni anche
dopo la scomparsa dell’antigene, quindi rimane una sorta di immunità una protezione in caso di un
nuovo incontro con lo stesso antigene.
Quasi la metà degli anticorpi circolanti adulto e prodotti da plasmacellule vita lunga.
Anticorpi entrano nella circolazione le selezioni delle mucose ma le cellule che li hanno portati non
sono circolati, ma sono cellulestanziali del midollo osseo .
E anticorpi passano nel sangue con il primo contatto con l'antigene nella la risposta primaria sono
della classe M successivamente vengono prodotti un'altra tipologia di immunoglobuline una classe
G che poi scomparirà dopo qualche settimana mentre rimarranno le immunoglobuline che sono
prodotte da queste plasmacellule midollari.
Nel caso in cui il secondo contatto con lo stesso antigene ovvero la risposta secondaria si
formeranno le immunoglobuline della classe G in circolo per qualche settimana fino all’
eliminazione completa dell'antigene.
Le troviamo sempre in circolo le plasmacellule della classe che vengono prodotte dal midollo
questa capacità di differenza esposta con l'antigene e dalla memoria immunologica specifica
dell'immunità acquisita perché grazie alla persistenza dei linfociti B.
Le molecole di MHC sono indispensabili per il riconoscimento degli antigeni proteici da parte dei
linfociti T, MHC di classe 1 è costituita da una porzione intracellulare, una transmembrana e una
che sporge sulla superfice della cellula, sono espresse da tutte le cellule ad esclusione dei globuli
rossi.
MHC di classe 2: costituito da due differenti catene ognuna con una porzione intracellulare e
intramembrana che sporge verso la superfice della cellula, la porzione extracellulare delle catene
sarà in grado di legare l’antigene.
LINFOCITI T
Sono attivati da molecole di MHC, i linfociti T e B sono i responsabili della risposta immunitaria
acquisita la loro attivazione richiede un doppio segnale, il primo che deve essere presentato da
cellule APC il secondo segnale deve essere da delle citochine che sono prodotte dalle stesse cellule
APC.
L’attivazione porta all’espansione del clone linfocitario, quindi i linfociti T inizieranno a replicarsi,
questa replicazione darà una serie di cellule effettrici quindi con un’azione antimicrobica e a delle
cellule della memoria che agiranno nel secondo contatto con lo stesso antigene.
Linfociti T sono cellule prodotte dal midollo osseo lasceranno il midollo osseo ancora
indifferenziati e raggiungeranno il tipo per iniziare la loro maturazione entreranno in contatto
con le cellule midollari e corticali del timo che riceveranno linfa e permetteranno loro sviluppare
il loro TCR in superfice che sarà il loro recettore.
Questo recettore sarà importante perché andrà a riconoscere i peptidi degli antigeni proteici che
sono presenti in associazione con molecole di MHC quindi grazie al legame con il TCR rimuoverà
l’antigene. Questo legame avverrà grazie a molecole di adesione.
Gli antigeni proteici dovranno essere fagocitati dalle cellule presentanti l’antigene (le cellule APC), i
prodotti derivanti verranno esposti al TCR cosi il linfocita T potrà riconoscere l’antigene proteico
che per loro non sarebbe visibile, e così potranno eliminarlo.
Il processo di maturazione del linfocita T porterà alla formazione di due sottoclassi:
-CD4+ o linfociti T Helper: inizieranno a produrre citochine che faciliteranno il compito dei
linfociti B e T, essi riconosceranno gli antigeni presentati con MHC di classe 2, essi hanno azione
nella risposta immunitaria specifica attraverso la produzione di citochine che saranno in grado di
attivare sia i linfociti T che B. Essi si differenzieranno in due sottoclassi TH1 e TH2 questa
differenziazione dipenderà dalle citochine prodotte e dal tipo di antigene a cui andranno
incontro.
TH1: sono attivi soprattutto da infezioni da batteri e da virus, sono stimolati dall’espansione e il
rilascio dell’interleuchina 2, una volta attivati procederanno all’azione dell’immunità e
potenzieranno la fagocitosi
TH2: sono attivi nelle infezioni di elminti e di allergie produrranno IL-4,IL-5IL-13 sono
responsabile nel rilascio di alcune immunoglobuline (IgE) che hanno un ruolo importante nelle
allergie, esse si attiveranno attraverso l’azione degli eosinofili e mastociti.
-CD8+ o linfociti T citotossici: essi si differenziano in cellule effettrici, essi riconosceranno
l’antigene con l’MHC di classe 1, avranno un ruolo nell’eliminazione dell’antigene con un’azione
citotossica producendo una lisi grazie agli enzimi presenti nella cellula bersaglio, questa lisi
porterà alla morte delle cellule che hanno inglobato l’antigene, questo sarà dovuto alla
granulisina che è una proteina sintetizzata dai linfociti T citotossici
Il processo di maturazione nel timo porterà a una selezione dei linfociti T, avverrà una selezione
positiva che eliminerà i cloni che riconosceranno molecole MHC che presenteranno peptidi sia
autologhi che estranei, mentre ci sarà una selezione negativa conduce a inattivazione o apoptosi
dei cloni che riconoscono peptidi autologhi, eliminati perché non utili all’organismo.
Al processo di selezione sopravviveranno e lasceranno il timo i linfociti T che riconoscono antigeni
estranei presentati da molecole di MHC autologhe (tolleranza immunitaria: capacità di non reagire
a elementi che fanno parte del nostro organismo).
ANTICORPI
Esse sono generate dalle plasmacellule, vengono riversate nel sangue e sono in grado di interagire
con tante molecole antigeniche e con allergeni e andranno a dare luogo a un complesso chiamato
ANTIGENE-ANTICORPO.
Essi andranno a neutralizzare le tossine batteriche, gli anticorpi sono usati anche per fenomeni
della obsonizzazione, cioè si legano all’antigene per renderlo più evidente ai fagociti.
Gli anticorpi sono delle immunoglobuline costituite da due catene pesanti (è responsabile della
funzione effettrice delle molecole stesse) e due catene leggere (andranno ad interagire con
l’antigene), esse saranno unite tra loro da ponti di solfuro.
Quando sarà presente un’infezione essi agiranno a distanza di tempo prima interverranno gli
effettori dell’immunità innata.
Le immunoglobuline si divideranno in diverse classi che saranno:
IgA: saranno presenti a livello delle mucose e dei secreti (lacrime,saliva,muco), le troveremo nel
siero con una percentuale del 10%, esse sono le uniche ad avere caratteristiche dimerica e
monomerica, saranno in formo dimerica nella mucose dove svolgeranno un’azione antigenica,
esse sono prodotte da plasmacellule localizzate nei tessuti linfoidi ,detti Malt, esse quindi avranno
una funzione protettiva verso le mucose più esposte ai microorganismi.Hanno una forma
monomerica quando sono nel sangue, le catene pesanti sono di tipo Alfa, queste immunoglobuline
saranno responsabili dell’immunità neo-natale, infatti cen’è una grande presenza nel latte neo-
natale.
IgG: sarà rilevata nel siero, la catena pesante sarà di classe Gamma a cui si affiancheranno catene K
e Lambda che sono catene leggere, esse sono le più rappresentate 80%, hanno una struttura
monomerica e vengono prodotte in un secondo momento dopo le IgM, sono molecole che
trapassano la placenta materna esse verranno digerite dal lattante e immesse nel compartimento
vascolare, esse sono in grado di attivare il complemento nella sua via classica, svolgono un ruolo
obsonizzante
IgM: le troviamo nel sangue, hanno catene pesanti di tipo M e catene leggere di tipo K e Lamda,
sono molecole pentameriche ,sono infatti molto grandi, attivano il complemento per via classica,
rappresentano la prima linea di difesa anticorpale contro le infezioni, compaiono anche nella vita
fetale e compaiono anche senza l’antigene generando anticorpi naturali importanti per il neonato
perché esso dovrà terminare la formazione del sistema immunitario , sono le prime espresse sulla
membrana sono il 5% delle immunoglobuline. Possono avere struttura monomerica quando
andranno a formare BCR. Non passeranno la placenta per la loro struttura.
IgD: presenti nel siero nel 1% , sono coespresse insieme alle IgM essi agiscono nei processi
differenziativi che precedono l’incontro con l’antigene sono molecole monomeriche si trovano
sulla superficie dei linfociti T insieme alle IgM formano il PCR
IgE: sono a livello delle sottomucose digerente e respiratorio hanno una catena pesante di tipo
epsilon esse intervengono nelle risposte parassitarie o allergiche e interagiscono con eosinofili e
mastociti, essi grazie a queste immunoglobuline rilasceranno sostanze dai loro granuli, esse hanno
una struttura monomerica IgE andranno a rilasciare l’istamina rilasciata per le allergie.
INFIAMMAZIONE
Che cos’è l’infiammazione? L’infiammazione è una risposta che si instaura in un tessuto
vascolarizzato sottoposto ad uno stimolo lesivo. Quindi ogni volta che si verifica un danno in un
tessuto, questo danno innesca un processo infiammatorio. Perché si sottolinea che questo
processo si instaura in tessuti vascolarizzati?
(Molti tessuti hanno una vascolarizzazione propria, fanno eccezione l’epidermide, che riceve il
nutrimento tramite i vasi del tessuto connettivale sottostante e la cartilagine che, anche in questo
caso, riceve nutrimento tramite i vasi del tessuto connettivale circostante)
Il motivo è che nel processo infiammatorio un evento fondamentale è la migrazione di cellule
dell’immunità a localizzazione ematica, all’interno dei tessuti nei quali si è verificato il danno.
Un’altra informazione importante è che l’infiammazione è una risposta ad un danno di qualsivoglia
natura. Premettendo che il termine flogosi è sinonimo di infiammazione, come detto nella slide, gli
agenti flogogeni che possono indurre un’infiammazione non sono solo microrganismi patogeni
ma anche traumi meccanici, stimoli fisici (danni legati alla temperatura come nelle ustioni, nei
congelamenti o anche danni da radiazioni), stimoli chimici, stimoli immunologici o anche i
tumori maligni.
Abbiamo quindi detto che l’infiammazione è una risposta che si instaura nel tessuto in
conseguenza di un danno di qualsivoglia natura e dovremmo adesso chiederci quali sono le finalità
di un processo infiammatorio.
Il processo infiammatorio consiste in una successione di eventi che hanno in primo luogo
l’obiettivo di rimuovere dal tessuto i costituenti danneggiati, poi di isolare e ove possibile
eliminare la causa del danno (ovvero la noxa patogena) e infine promuovere i processi riparativi.
In altre parole il fine ultimo dell’infiammazione è ripristinare nel tessuto le condizioni necessarie
affinché possa avvenire il processo riparativo.
Perché la riparazione del danno possa avvenire in maniera adeguata, un prerequisito
fondamentale è che i detriti cellulari generati dalla necrosi e i costituenti della matrice
extracellulare danneggiati e degradati, vengono rimossi dal tessuto.
Perché la riparazione del tessuto possa avere luogo è fondamentale l’isolamento ed
eventualmente l’eliminazione della noxa patogena (noxa deriva dal latini ed ha la stessa radice
di nocivo, quindi equivale a dire l’agente lesivo responsabile della patologia). Questo aspetto
non si applicherà a ciascun processo infiammatorio ma solo a quei processi infiammatori causati
da agenti eziologici attaccabili dal sistema immunitario (microrganismo o parassiti). Le cellule
presenti nella sede del danno potranno attivare varie risposte di difesa nei confronti degli agenti
infettivi ma non potranno far nulla contro la causa del danno tissutale se la causa sarà un agente
fisico come una radiazione o se sarà un danno di natura meccanica. Infine ci sarà uno stretto
legame tra infiammazione e processo riparativi. Le stesse cellule infiammatorie, ovvero le cellule
del sistema immunitario reclutate nella sede del danno, partecipano alla promozione dei processi
riparativi tramite il rilascio di fattori di crescita che stimolano la proliferazione delle cellule
residenti del tessuto e la deposizione di nuovi costituenti della matrice connettivale.
Un altro concetto importante è che l’infiammazione è un meccanismo di difesa innato. Come
vedremo, a seconda dell’agente eziologico e del tipo di danno, le cellule dell’immunità potranno
comprendere sia cellule dell’immunità innata che cellule dell’immunità acquisita. Tuttavia i
meccanismi responsabili dell’innesco della risposta infiammatoria sono sempre meccanismi che
fanno riferimento all’immunità innata. Infine al processo infiammatorio partecipano diversi tipi
di cellule che possono agire in maniera coordinata e questa possibilità è dovuta ad un continuo
dialogo tra le cellule che partecipano al processo infiammatorio. Dialogo che è reso possibile dai
fattori solubili, quali le citochine ed altri mediatori dell’infiammazione.
L’infiammazione è nella maggior parte dei casi un’infiammazione locale e per indicare il nome
dell’organo o del tessuto interessato si usa il nome degli stessi seguiti dal suffisso – ite.
A fronte di un’infiammazione locale, se l’intensità di un processo infiammatorio supera una certa
soglia, questo processo potrà produrre delle manifestazioni sistemiche come la febbre
(condizione di iper-termia). Ciò che caratterizzerà tutto il corpo rimarrà però localizzato in un
carattere locale.
Le manifestazioni sistemiche dell’infiammazione sono infatti la conseguenza del fatto che le cellule
dell’immunità reclutate nel tessuto danneggiato, rilasciano vari mediatori solubili che, se prodotti
in elevata quantità, possono passare nel sangue e raggiungere organi e tessuti posti a distanza
rispetto al tessuto interessato dal processo infiammatorio, andando a modificare le funzioni di
questi ultimi. Nel caso della febbre per esempio, specifiche citochine prodotte, possono passare
nel sangue, raggiungere i centri nervosi responsabili della termoregolazione (situati nell’ipotalamo)
e modificare l’attività di questi ultimi causando una risposta febbrile che interesserà l’intero
organismo.
L’infiammazione potrà essere di tipo acuto o di tipo cronico. La prima distinzione tra le due è che
la prima ha un inizio brusco ed una relativamente breve durata, la seconda avrà una lunga
durata.
L’infiammazione acuta sarà anche denominato angioflogosi e questo termine fa riferimento al
fatto che il processo acuto è caratterizzato da fenomeni vascolari che determinano un’alterazione
locale del flusso ematico.
Nell’infiammazione cronica o istoflogosi questi fenomeni non sono presenti, mentre saranno
predominanti modificazioni tissutali che progressivamente si instaureranno nel tessuto a causa
della lunga durata del processo infiammatorio.
La ragione di questa differenza è che nel processo acuto l’intensità del danno è tale per cui un gran
numero di cellule immunitarie devono poter raggiungere il tessuto interessato dal processo
patologico in un tempo breve. In altre parole il processo di extravasazione dei leucociti deve
essere estremamente efficiente e perché questo accada, vengono attivati una serie di eventi che
tra poco descriveremo che alterano la dinamica locale del flusso ematico fino a farlo rallentare. Il
rallentamento locale del flusso del sangue favorisce infatti l’adesione dei leucociti circolanti alla
parete dei vasi e questo evento costituisce un prerequisito fondamentale perché questi poi
possano attraversare la parete del vaso e raggiungere l’interstizio del tessuto nel quale si è
verificato il danno.
Quindi nell’infiammazione acuta possiamo distinguere una fase vascolare nella quale avvengono
tutte quelle serie di modificazioni del flusso ematico locale che favoriscono il processo di adesione
leucocitaria ed una fase tissutale nella quale i leucociti che hanno aderito alle pareti dei vasi vanno
a svolgere le loro funzioni e saranno finalizzate, come precedentemente detto, a ripulire il tessuto
dai detriti provocati dal danno e di isolare o rimuovere ove possibile l’agente eziologico.
Perché nell’infiammazione cronica I fenomeni vascolari propri dell’infiammazione acuta non si
manifestano? Per capire questo punto, dobbiamo tenere conto del fatto che, il processo
infiammatorio cronico può avere inizio con due modalità. In alcuni casi l’infiammazione cronica è il
risultato della cronicizzazione di un processo infiammatorio acuto che non è andato incontro a
risoluzione. In altri casi l’infiammazione cronica esordisce già con tutte le caratteristiche proprie di
un processo cronico senza passare per una fase acuta. In entrambi questi casi, l’accumulo delle
cellule dell’immunità, tipiche dell’infiammazione cronica nel tessuto del processo infiammatorio,
avviene con un andamento più graduale e progressivo. Motivo per cui non è necessario modificare
la dinamica locale del flusso del sangue in modo da favorire l’efficienza dell’adesione. È questo il
motivo per cui nell’infiammazione cronica prevalgono i fenomeni tissutali su quelli vascolari.
Passiamo ad analizzare nel dettaglio gli eventi che caratterizzano il processo infiammatorio acuto.
INFIAMMAZIONE ACUTA
Innanzitutto andremo ad analizzare cosa avviene nella fase di innesco. Un evento fondamentale
nel processo di innesco di un’infiammazione è il riconoscimento degli agenti infiammatori da parte
delle cellule del sistema immunitario residenti nei tessuti (granulociti neutrofili 40/70%, granulociti
acidofili 5%, granulociti basofili 1%, linfociti 20/50% e monociti 2/8%) (sono tutti localizzati nel
sangue tranne i linfociti che saranno per la maggior parte presenti negli organi del sistema linfatico
ed i monociti che una volta entrati nel livello tissutale si differenzieranno nei macrofagi).
Gli agenti infiammatori sono tutti quegli agenti in grado di attivare un processo infiammatorio e
comprendono quindi gli stessi prodotti di danno tissutale che costituenti esogeni come
microrganismo patogeni.
Il riconoscimento degli agenti infiammatori da parte delle cellule dell’immunità innata induce la
produzione e il rilascio da queste ultime di citochine infiammatorie e di mediatori chimici che
promuovono l’evoluzione della reazione infiammatoria.
Una volta innescato il processo infiammatorio acuto esso evolve attraverso due fasi di cui la prima
è caratterizzata dai fenomeni vascolari, che sono preliminari all’extravasazione dei leucociti, e la
seconda è invece caratterizzata da fenomeni cellulari o tissutali.
-I fenomeni vascolari sono locali ed interessano i vasi del microcircolo, ossia quelli che
distribuiscono il sangue nel tessuto interessato dal processo infiammatorio. Il microcircolo
rappresenta quel tratto dell’apparato circolatorio in cui i vasi hanno un calibro più piccolo ed una
parete più sottile. Il microcircolo comprende le arteriole, le metarteriole, i capillari arteriosi, i
capillari venosi ed infine le venule. Nel punto in cui le metarteriole sfociano nei capillari arteriosi,
avremo la presenza di anellini muscolari denominati sfinteri precalillari che possono regolare il
flusso ematico nel letto capillare.
Le modificazioni emodinamiche tipiche dell’infiammazione acuta sono indotte da diversi
mediatori chimici e consistono in una serie di eventi che includono una vasodilatazione ed
iperemia attiva, una vaso-permeabilizzazione ed infine un’iperemia passiva nella quale il flusso
del sangue nel microcircolo locale rallenta.
Il processo della vasodilatazione è innescato da vari mediatori chimici che vengono rilasciati
dalle cellule dell’immunità residenti nel tessuto, attivate dal riconoscimento degli agenti
flogogeni. Diverse molecole sono coinvolte nel processo di vasodilatazione, ad esempio
l’istamina, le prostaglandine, l’ossido nitrico ed alcune citochine hanno un ruolo nel sostenere il
processo di vasodilatazione. Queste molecole determineranno un rilasciamento della
muscolatura liscia delle pareti arteriolari e un’apertura degli sfinteri precapillari.
In conseguenza della vasodilatazione si determinerà un aumento dell’afflusso di sangue nel
tessuto sede del focolaio infiammatorio e questo determina una condizione di iperemia. Questa
iperemia ha le caratteristiche di un’iperemia attiva, in quanto è scatenata da un aumento di
sangue.
I mediatori chimici che agiscono nella prima fase dell’infiammazione acuta sono denominati
mediatori vasoattivi proprio perché il loro bersaglio sono i vasi del microcircolo. Essi oltre ad
indurre vasodilatazione determinano un aumento della permeabilità vascolare. Il mediatore
principale è l’istamina che agisce al livello delle venule. Le venule sono formate da cellule
endoteliali spiaccicate e da giunzioni che le saldando tra di loro. I mediatori vasoattivi agiscono al
livello delle cellule endoteliali inducendo la contrazione del citoscheletro di queste cellule.
Avremo una retrazione di queste cellule che determina l’allargamento delle giunzioni tra cellula
e cellula. Come conseguenza di questo allenamento delle giunzioni, la componente liquida del
sangue, i soluti presenti nel sangue stesso e le proteine plasmatiche potranno fuoriuscire dai
vasi e accumularsi nell’interstizio del tessuto formando l’edema infiammatorio.
L’edema è definito come un accumulo di liquido nell’interstizio di un tessuto e la sua formazione
può essere associata ad un processo infiammatorio ma può essere anche dovuta a cause
differenti. Il liquido che si accumula ha delle caratteristiche distintive che vedremo tra poco e a
seconda di queste l’edema ha una denominazione specifica, infatti il liquido che si accumula
nell’interstizio tissutale è denominato essudato e l’edema è denominato edema essudatizio.
La vasodilatazione con iperemia attiva e la permeabilizzazione andranno a culminare con L’evento
più importante della fase vascolare e sarà l’iperemia passiva.
In questa iperemia passiva, il flusso ematico risulta rallentare ed eventualmente fino alla stasi.
Come avviene ciò è perché si parla di iperemia passiva?
Innanzitutto andremo a vedere i fattori che contribuiscono al rallentamento del flusso ematico.
Questo rallentamento è dovuto a vari fattori tra cui l’aumento della superficie del letto
circolatorio (conseguente alla vasodilatazione e all’apertura degli sfinteri precapillari),
l’aumento della viscosità del sangue (causato dalla fuoriuscita della parte liquida del sangue con
l’essudato) e infine della compressione di capillari e venule da parte dell’essudato che
ostacolerà l’efflusso di sangue.
A differenza del l’iperemia attiva, nell’iperemia passiva avremo l’ostacolo del deflusso di sangue
dal tessuto. Quindi sia nell’iperemia attiva che in quella passiva avremo un aumento del sangue,
ma nella prima sarà dovuto ad un aumentato afflusso e nella seconda ad un diminuito deflusso.
La fase vascolare acuta culmina con l’iperemia passiva nella quale il flusso ematico locale rallenta e
saremo a questo punto in una fase di transizione tra la fase vascolare e quella tissutale. Ed è
questo il momento in cui, con il favore del rallentato flusso ematico, il processo di adesione dei
leucociti circolanti può avvenire con elevata efficienza e consentire in un tempo breve
l’extravasazione di un gran numero di cellule della serie bianca (poi vedremo bene quali in
particolare) che penetrano nel tessuto, sede del processo flogistico, e vanno a costituire
l’infiltrato infiammatorio.
Riassumeremo questo evento in tre parole: marginazione, adesione e diapedesi.
Con il termine marginazione indichiamo la capacità dei leucociti di avvicinarsi alla parete
vascolare. Con il termine adesione indichiamo la capacità dei leucociti di aderire all’endotelio
vascolare. Con il termine diapedesi indichiamo la capacità dei leucociti di migrare dal
compartimento vascolare al compartimento interstiziale.
Quale è il segnale che indica ai leucociti in quale direzione muoversi? Il movimento dei leucociti
avviene per chemiotassi, ossia un movimento cellulare guidato da un gradiente di
concentrazione di sostanze definite come fattori chemiotattici.
I fattori chemiotattici implicati nella migrazione direzionale dei leucociti verso il focolaio flogistico
sono di diversa natura ed includono molecole rilasciate da mastociti e macrofagi attivati (es.
Chemochine e citochine) e fattori prodotti in seguito all’attivazione del sistema del
complemento.
Prima di parlare di ciò che avviene nella fase tissutale è importante sottolineare alcuni aspetti della
fase vascolare, in particolare delle caratteristiche dell’essudato e dei segni cardine
dell’infiammazione acuta.
Quando abbiamo parlato dell’aumento della permeabilità vascolare, abbiamo detto che questo
evento determina la formazione dell’edema infiammatorio e lo abbiamo definito come un
accumulo di liquido nell’interstizio di un tessuto. Inoltre abbiamo detto che la presenza di edema
può essere associata ad un processo infiammatorio ma anche a cause differenti.
.18 Sulla base delle caratteristiche del liquido che si accumula nell’edema si possono distinguere
due tipi di edema: un edema essudatizio, tipico dei processi infiammatori in cui il liquido che si
accumula è definito appunto essudato e un edema trasudatizio causato da altre condizioni in cui
il liquido che si accumula è definito trasudato.
La differenza fondamentale tra i due è che il primo è più ricco di proteine, presenta una più
abbondante componente cellulare e contiene inoltre prodotti causati dalla distruzione tissutale,
il secondo è povero di proteine e di cellule e non contiene prodotti della distruzione tissutale.
Proteine e costituenti cellulari dell’essudato sono di origine ematica e di conseguenza possono
fuoriuscire solo a seguito di un processo di vasodilatazione, associato ad una reazione
infiammatoria.
In assenza di una permeabilità vascolare le giunzioni ferrate tra le cellule di un endotelio vascolare
non permettono la fuoriuscita di macromolecole o di cellule del compartimento vascolare. Le
cause di formazione di un edema trasudatizio sono invece da ricondursi ad uno squilibrio tra le
forze che regolano lo scambio di liquidi tra il compartimento intravascolare e l’interstizio dei
tessuti. Questo squillo può determinare la fuoriuscita dai vasi di liquidi e soluti a basso peso
molecolare ma non di proteine plasmatiche.
Le forze che regolano lo scambio di liquidi tra il compartimento vascolare e l’interstizio tissutale
sono la pressione idrostatica, che il sangue esercita sulle pareti dei vasi e che tende a far uscire
la componente liquida fuori dai vasi, e la pressione colloidosmotica, dovuta alla presenza di soliti
(in particolare proteine plasmatiche) che non possono attraversare la parete dei vasi e che
quindi tendono a trattenere acqua all’interno del compartimento vascolare.
Avremo un trasudato a causa di un aumento della pressione idrostatica e ad una diminuzione
della pressione olloidosmotica per cause patologiche che determinano una ipoproteinemia.
L’essudato come detto in precedenza sarà dovuto ad una vasodilatazione e
vasopermeabilizzazione dei vasi.
L’essudato sarà composto da una parte liquida, che deriva dal plasma e contiene proteine
plasmatiche, e da una parte cellulare che sarà formata da una composizione variabile a seconda
della natura della noxa flogogena.
I segni di un’infiammazione acuta sono noti come segni cardinali, al contrario l’infiammazione
cronica è un processo subdolo poiché può instaurarsi e progredire senza dare segni di sé.
I segni cardinali sono denominati in latino poiché furono descritti già nell’antichità da Celso. I primi
due segni sono il calore (aumento della temperatura locale) ed il rubor (arrossamento) dovuti a
causa di un’iperemia. Il terzo segno cardinale è il tumor (gonfiore) e sarà dovuto al l’edema. Il
quarto segno sarà il dolor (dolore) dovuto alla compressione da edema. Il quinto segno cardinale
introdotto da Galeno è la funzione lesa (compromissione funzionale) causata dall’edema e dal
dolore.
-Andiamo a vedere adesso cosa avviene nella fase tissutale. Una volta che i leucociti sono entrati
nel tessuto, essi vengono attivati sia dagli stessi agenti infiammatori che da citochine e
mediatori chimici già presenti nel tessuto.
Una volta attivati i leucociti sosterranno e amplificheranno la risposta infiammatoria
producendo citochine e mediatori chimici in grado di attivare altri leucociti.
È arrivato il momento di dare un’identità più specifica ai leucociti che partecipano in questo
processo e le cellule prevalenti sono i granulociti neutrofili che hanno il ruolo di fagocitare.
La fagocitosi è il meccanismo tramite il quale le cellule inglobano e digeriscono materiale
estraneo (microrganismi, cellule morte, detriti e complessi immuni).
Diverse cellule sono in grado di fagocitare ma alcune di esse svolgono questa azione in modo
professionale e in particolare rientrano in questa categoria i macrofagi, granulociti e cellule
dendritiche.
Il primo step nel processo della fagocitosi è il riconoscimento molecolare delle particelle da
fagocitare, attraverso recettori presenti sulla membrana del fagocita.
Il secondo step sarà l’internalizzazione delle particelle, mediata dalla formazione di pseudopodi.
Il terzo step è la formazione del fagosoma ossia uno spazio contenete il materiale fagocitato.
Il quarto step è la fusione del fagosoma con i granuli lisosomiali (contenenti enzimi litici) e la
formazione del fagolisosoma.
Il quinto step è l’uccisione della componente fagocitata e la sua digestione.
Nei fagociti professionali avremo inoltre la riduzione dell’O2 ad anione superossido (O2¯). Questo
anione superossido è un radicale libero fortemente reattivo la cui produzione innesca a sua volta
delle reazioni che causano la sintesi di varie specie reattive dell’ossigeno, tossiche per diversi
microrganismi.
Come detto in precedenza i granulociti neutrofili sono più presenti nelle azioni di infiammazione
acuta ma avremo la presenza di altri leucociti che sarà modulata dal tipo di infiammazione. I
granulociti acidofili partecipano alla reazione infiammatoria causata da allergeni. Le cellule NK
mediano le azioni di distruzione di cellule infettate da virus o di cellule neoplastiche.
Per concludere vedremo gli esiti dell’infiammazione acuta. Si parla di risoluzione quando il
processo infiammatorio riesce a portare a compimento le proprie finalità, ossia l’eliminazione
della noxa flogogena, il riassorbimento dell’essudato, lo spegnimento della reazione
infiammatoria e l’avvio del processo riparativo.
L’angioflogosi può avere un esito non risolutivo e questo per due tipi di motivi. Il primo sarà
legato alle conseguenze negative che un processo infiammatorio acuto particolarmente severo
può avere sui tessuti (infiammazione troppo intensa causa danni e non aiuta). Il secondo sarà la
mancata rimozione degli stimoli flogogeni ed avremo la cronicizzazione dell’infiammazione
acuta.
Nel trattare l’infiammazione acuta abbiamo parlato più volte dell'importanza delle citochine e
delle chemochine come delle molecole che hanno un ruolo fondamentale nell’indurre, sostenere e
regolare in generale i processi infiammatori. Abbiamo iniziato a vedere che i processi infiammatori
vedono la partecipazione di molteplici tipi cellulari tra cui diversi tipi di cellule dell’immunità,
cellule endoteliali e anche, come vedremo in particolare nel processo dell’infiammazione cronica,
elementi dello stroma come i fibroblasti. L’azione coordinata di queste cellule presuppone la
possibilità di un dialogo tra elementi cellulari differenti. Questo dialogo è reso possibile dalle
citochine e dalle chemochine da un lato e dall’altro da una serie di mediatori chimici che vanno
modificare l’attività biologica di altri tipi cellulari.
Una prima distinzione tra le molecole che regolano il dialogo tra le cellule coinvolte nei processi
infiammatori è quella che distingue da un lato citochine e chemochine e dall’altro i mediatori
chimici dell’infiammazione. Ci soffermeremo solo poco sulle citochine e chemochine poiché
saranno trattate nelle lezioni dell’immunità. Le citochine sono molecole proteiche sintetizzate e
secrete sotto opportuna stimolazione sia dalle cellule del sistema immunitario che da altre
cellule dell’organismo e che queste molecole trasmettono segnali per via autocrina, paracrina o
endocrino, attraverso l’interazione con specifici recettori espressi sulla membrana delle cellule
bersaglio. Se le cellule bersaglio sono dello stesso tipo della cellula che ha rilasciato le citochine,
si parla di meccanismo di azione autocrina. Se le citochine prodotte da un tipo cellulare agiscono
su cellule di tipo differente da quelle produttrici, si parla di meccanismo di azione paracrino. Sia i
meccanismi autocrini che paracrini si riferiscono comunque ad un’azione locale delle citochine,
ciò significa che le cellule produttrici e quelle bersaglio si trovano nello stesso tessuto. Le
citochine possono inoltre agire con meccanismi endocrini, il che significa che prodotti su un
tessuto possono passare nel sangue ed andare ad agire su cellule bersaglio poste a distanza
rispetto al loro sito di produzione. Questo aspetto è molto importante per quanto riguarda le
manifestazioni sistemiche dell’infiammazione, in quanto queste manifestazioni sono causate da
citochine prodotte nel focolaio flogistico e pensando nel sangue vanno a modulare le funzioni
dell’ipotalamo causando la febbre, le funzioni del midollo emopoietico causando un aumento
della produzione di globuli bianchi (leucocitosi) o ancora vanno a modulare le funzioni del fegato
stimolando un aumento della produzione di una serie di proteine a localizzazione ematica che
partecipano alla difesa dell’organismo. Sono stati identificati tantissimi tipi diversi di citochine e
tra queste, quelle che svolgono un ruolo determinante nel sostenere l’infiammazione sono:
l’interleuchina 1 (IL-1), l’interleuchina 6 (IL-6) ed il tumor necrosis factor α (TNFα). Esse Sono
prodotte soprattutto dal sistema monocito-macrofagico e agiscono inducendo la produzione di
molecole di adesione da parte delle cellule endoteliali che andranno a produrre altre citochine,
chemochine e mediatori chimici dell’infiammazione.
Per quanto riguarda le chemochine, queste sono una sottofamiglia delle citochine i cui membri
sono caratterizzati da un basso peso molecolare ed un’elevata omologia strutturale. L’altro
aspetto che accomuna le chemochine è la regolazione del traffico dei leucociti nell'organismo e
in particolare il reclutare tramite chemiotassi i leucociti nella sede del processo flogistico.
I mediatori chimici dell’infiammazione comprendono un’ampia varietà di molecole che regolano le
fasi del processo infiammatorio. La prima divisione dei mediatori chimici è tra quelli prodotti da
cellule infiammatorie attivate e tra i mediatori di fase fluida, ovvero i mediatori che originano in
seguito all’attivazione di precursori inattivi presenti nel sangue in molecole attive.
I mediatori chimici prodotti da cellule infiammatorie attivate sono a loro volta distinti in
mediatori preformati e mediatori di nuova sintesi.
I primi comprendono una serie di molecole che sono sintetizzate ed immagazzinate nelle cellule
dell’infiammazione e che pertanto possono essere prontamente rilasciate ed utilizzate in
risposta all’attivazione di queste cellule. Questi mediatori comprendono istamina, serotonina e
enzimi lisosomiali.
L’istamina viene rilasciata dai granuli dei granulociti basofili, dai mastociti e dalle piastrine. Essa
ha un ruolo fondamentale nei processi di vasodilatazione e vasopermeabilizzazione che
caratterizzano un’infiammazione acuta. Inoltre partecipa al reclutamento leucocitario
stimolando le cellule endoteliali ad esprimere molecole di adesione per i leucociti circolanti.
La serotonina contenuta nei granuli delle piastrine ha degli effetti sui vasi simili a quelli
dell’istamina.
Gli enzimi lisosomiali hanno un ruolo fondamentale nel processo di fagocitosi e in particolare
nella digestione del materiale fagocitato. Tutte le cellule possiedono i lisosomi ma sono
particolarmente abbondanti nei fagociti professionali.
Per quanto riguarda i mediatori di nuova sintesi questi comprendono diverse molecole che
vengono sintetizzate in seguito all’attivazione delle cellule dell’infiammazione. Tra i più
importanti ci sono le prostaglandine, i leucotrieni, le specie reattive dell’ossigeno (ne abbiamo
parlato nella lezione dell’infiammazione acuta) e l’ossido nitrico.
L’ossido nitrico è un composto gassoso costituito da un atomo di ossigeno e uno di azoto ed è
altamente reattivo. Nell’ambito del processo infiammatorio viene prodotto da cellule endoteliali,
dalle cellule del sistema monocito-macrofagico ed agisce inducendo il rilassamento della
muscolatura liscia dei vasi causando vasodilatazione. Inoltre ha un’azione citotossica nei confronti
dei batteri e partecipa quindi nella lisi dei microrganismi fagocitati.
Le prostaglandine e i leucotrieni sono prodotti da diverse cellule dell’infiammazione, in particolare
da macrofagi, monociti e piastrine, e comprendono molecole di natura lipidica che originano da un
precursore comune ovvero l’acido arachidonico. L’acido arachidonico è un acido grasso presente
in grandi quantità nei fosfolipidi della membrana plasmatica, dai quali può essere liberato grazie
all’attività di fosfolipasi cellulari. Una volta liberato viene metabolizzato attraverso due vie, la via
della lipossigenasi e le vie della cicloossigenasi. Nella prima via vengono prodotti i leucotrieni e
nella seconda via le prostaglandine. La via della cicloossigenasi COX-2 viene attivata da stimoli
flogistici.
I principali effetti delle prostaglandine sono l’induzione della vasodilatazione, della permeabilità
capillare e della risposta febbrile. Esse inoltre causano i dolori nei processi delle infiammazioni
acute.
Alcuni leucotrieni stimolano la vasopermeabilizzazione ed altri stimolano la chemiotassi di
monociti e granulociti.
I mediatori di fase fluida rappresentano un argomento piuttosto ostico, questo perché
coinvolgono sistemi di proteasi plasmatiche che agiscono a cascata e che interagiscono tra loro a
diversi livelli. Cosa vuol dire attivazione a cascata? I mediatori di fase fluida si formano nel sangue
a partire da precursori proteici inattivi che vengono attivati In seguito a taglio proteolitico. Il taglio
attiva l’attività proteasica della proteina coinvolta che a sua volta va da attivare tramite proteolisi il
fattore seguente, determinando pertanto una cascata di eventi proteolitici che esita nella
produzione di molecole con funzioni specifiche. Il meccanismo a cascata consente di ottenere un
amplificazione molto rapida, per cui a partire da poche molecole a monte della cascata, viene
prodotta una grande quantità di prodotti finali. Per capire meglio possiamo fare riferimento al
sistema del complemento.
Il sistema del complemento è costituito da numerose proteine presenti nel plasma e che in
condizioni fisiologiche sono inattive. Questo sistema può essere attivato tramite due vie,
dall’incontro tra costituenti del complemento e complessi antigene-anticorpo (via classica),
oppure dall’incontro tra costituenti del complemento e molecole presenti sulla superficie di
microrganismi, cellule infettate da virus e cellule neoplastiche (via alternativa). L’attivazione del
complemento attiva una cascata enzimatica che culmina con la formazione di un complesso
proteico denominato “complesso di attacco alla membrana”. Questo complesso va di inserirsi
nella parete delle cellule bersaglio o nella loro membrana formando dei fori. La penetrazione di
acqua e ioni all’interno di questi fori determina la lisi delle cellule colpite.
Alcuni frammenti che vengono a crearsi durante l’attività della cascata enzimatica possono avere
attività biologica. Non solo il prodotto della cascata proteolitica ma anche prodotti intermedi.
Questo avviene anche per la cascata del complemento, in quanto gli eventi proteolitici della
cascata determinano la formazione di frammenti che non partecipano all’attività della cascata
enzimatica (non hanno attività proteolitica) ma svolgono specifiche funzioni. Ad esempio avremo i
frammenti C3-A e C5-A (sono anche chiamati anafilotossine) che inducono la degranulazione di
mastociti ed hanno inoltre effetto chemiotattico per diversi leucociti.
È importante ricordare che i mediatori di fase fluida sono generati in seguito all’attivazione di 4
sistemi ovvero: il sistema del complemento, il sistema delle chinine, il sistema della
coagulazione e il sistema fibrinolitico.
INFIAMMAZIONE CRONICA
Passiamo ora ad illustrare il processo infiammatorio cronico. Come detto nella lezione precedente,
l’infiammazione cronica si distingue dall’infiammazione acuta in quanto ha una lunga durata di
settimane, mesi o anche anni. Nell’infiammazione cronica lo stimolo lesivo è persistente.
l’infiammazione cronica può esordire attraverso due modalità.
Potrà essere il risultato di un’infiammazione acuta che cronicizza o come processo cronico che
abbia inizio.
Un danno acuto provocherà un processo di angioflogosi caratterizzato dalle modificazioni vascolari
di cui abbiamo già trattato e che saranno necessarie per reclutare un gran numero di leucociti nel
tessuto sottoposto allo stimolo lesivo. Il processo di angioflogosi potrà andare incontro a
cronicizzazione nel caso in cui il danno sia persistente e l’agente eziologico non possa essere
eliminato. In altri casi il processo cronico non risulta da un processo acuto che non va incontro a
risoluzione ma esordisce come tale senza passare per una fase acuta. Ciò avviene in tutti quei
casi in cui l’agente eziologico è un microrganismo poco virulento ma molto resistente, tale cioè
da provocare un danno limitato ma persistente nel tempo. Un’altra possibile causa di
un’infiammazione cronica ab initio è rappresentata dall’esposizione protratta a piccole dosi di
agenti tossici o non degradabili (es. Danno epatico per assunzione di alcool). Inoltre
un’infiammazione cronica ab initio può associarsi a malattie autoimmuni.
Nell’infiammazione cronica, i fenomeni vascolari tipici dell’infiammazione acuta sono assenti o
trascurabili e conseguentemente non si hanno le manifestazioni cliniche associate all’angioflogosi
(5 segni cardinali). È questo il motivo per cui un processo infiammatorio cronico potrà essere
subdolo e insidioso, in quanto può non dare segni clinici evidenti per lungo tempo e venire
manifesto quando le funzioni dei tessuti interessati saranno già compromesse in modo non
sempre reversibile. Pur non essendo presente una fase vascolare, l’infiammazione cronica è
comunque caratterizzata da un accumulo dell’infiltrato di cellule infiammatorie nel tessuto
interessato. Come detto precedentemente nell’infiammazione cronica prevalgono i fenomeni
tissutali ed è per questo che questa infiammazione verrà denominata istoflogosi.
L’infiltrato cronico tipico dell’infiammazione cronica è composto da cellule differenti rispetto a
quelle che abbiamo visto avere un ruolo predominante nell’infiammazione acuta. Infatti mentre i
granulociti neutrofili sono i protagonisti del processo infiammatorio acuto, le cellule prevalenti
nell’istoflogosi sono quelle della serie monocito-macrofagica e, a seconda dell’agente eziologico
coinvolto, i linfociti.
Si parla di cellule della serie monocito-macrofagica perché rappresentano l’uno la controparte
ematica dell’altro, ovvero i monociti sono cellule circolanti nel sangue e in seguito al
raggiungimento del tessuto si differenziano in macrofagi.
La presenza di linfociti nelle infiltrato cellulare tipico dell’infiammazione cronica è dipendente
dall’agente eziologico, in particolare nelle infiammazioni croniche causate da microrganismi o
associate a processi autoimmuni.
Quando l’infiammazione cronica deriva da un’infiammazione acuta non risoluta, l’infiltrato
dell’infiammazione acuta si trasformerà progressivamente nell’infiltrato dell’infiammazione
cronica. Quando l’infiammazione cronica sarà ab initio, il suo innesco è attivato comunque dalle
cellule immunitarie resistenti nei tessuti ed in seguito al riconoscimento molecolare degli agenti
flogogeni, avremo il rilascio di mediatori che andranno a stimolare il reclutamento di cellule
mononucleate (nell’infiammazione acuta sono cellule polinucleate a causa della presenza dei
granulociti). La sequenza degli eventi relativa alla fase di innesco, sarà la stessa che avremo
nell’infiammazione acuta, ovvero danno, riconoscimento degli agenti flogogeni da parte delle
cellule dell’immunità residenti nel tessuto, attivazione di queste cellule e rilascio di mediatori
dell’infiammazione che promuovono l’evoluzione del processo. Tuttavia nel processo di
infiammazione cronica, i mediatori rilasciati e le cellule reclutate nell’infiltrato saranno differenti.
Nell’infiammazione cronica un minor numero di leucociti potrà essere reclutato in tempi brevi (a
causa della mancanza della fase vascolare) ma il perdurare del processo infiammatorio
consentirà comunque un accumulo progressivo di cellule infiammatorie.
Passiamo a vedere quali sono gli eventi tissutali che caratterizzano l’infiammazione cronica è quali
sono i loro sintomi. L’infiammazione cronica è classificata in due grandi categorie che
differiscono per le caratteristiche dell’infiltrato infiammatorio presente del tessuto sede del
processo flogistico. Abbiamo detto che l’infiltrato tipico dell’istoflogo è formato da monociti-
macrofagi e da eventualmente linfociti e questo vale per entrambe le classificazioni
dell’infiammazione cronica. Tuttavia queste cellule possono infiltrare il tessuto senza mostrare
una specifica organizzazione oppure organizzarsi per formare delle strutture che hanno
un’architettura ben definita denominata granuloma. Su questa base l’infiammazione cronica è
quindi distinta in:
infiammazione cronica granulomatosa : sarà caratterizzato da agenti eziologici che hanno
caratteristiche tali da impedire il processo di fagocitosi. La disposizione delle cellule dell’infiltrato
infiammatorio si disporranno in maniera circoscritta in quanto si organizzano a formare delle
strutture denominate granulomi.
-prima fase il materiale fagocitato non potrà essere digerito e di conseguenza persisterà
all’interno del fagocita. La persistenza del materiale fagocitato all’interno del macrofago fa sì che
questa cellulari riprogrammi le proprie funzioni, riducendo la sua attività fagocitaria e diventando
una cellula in cui predomina l’attività secretoria. Il macrofago inizierà di fatti a produrre citochine e
chemochine che richiameranno nella sede del danno altre cellule mononucleate. Questi
cambiamenti nella funzione dei macrofagi sono accompagnati a modificazioni morfologiche, ad
esempio la riduzione dell’attività fagocitaria comporta la riduzione del numero dei lisosomi.
Questi macrofagi che perderanno la loro funzione fagocitaria verranno denominati come cellule
epitelioidi. Queste ultime, contenenti il materiale ingerito, possono eventualmente fondersi tra
loro e formare cellule giganti multinucleate.
-seconda fase: In seguito le cellule dell’infiltrato infiammatorio si organizzano in strutture
concentriche, ovvero i granulomi, con il risultato di isolare gli agenti flogogeni indigeriti dai tessuti
circostanti. Sostanzialmente, non riuscendo a fagocitare gli elementi flogogeni dell’infiammazione,
le cellule dell’infiltrato infiammatorio cambieranno tattica di difesa e cercheranno di isolare gli
elementi che non potranno essere digeriti per non causare danni nei tessuti circostanti. I
fibroblasti potranno essere chiamati per creare una capsula fibrosa intorno al granuloma.
GRANULOMA TUBERCOLARE
L’agente eziologico della tubercolosi è il micobatterio tubercolosis e l’infezione primaria di questo
batterio produce manifestazioni cliniche che nella maggior parte dei casi sono piuttosto blande o
assenti. La localizzazione più frequente dell’infezione è a livello polmonare e solo in pochi casi
l’infezione primaria causa una patologia seria e progressiva. Nel 90% dei casi l’infezione viene
contenuta grazie all’attivazione del sistema immunitario e alla formazione di granulomi. Infatti i
micobatteri entrati nei polmoni sono fagocitati dai macrofagi alveolari e si innesca un processo che
porterà alla formazione di granulomi. Questi granulomi nel caso della tubercolosi vengono
chiamati anche tubercoli. Importante è il meccanismo che rende immune il micobatterio alla
fagocitosi dei macrofagi e sostanzialmente è legato alla particolare composizione della parete
del micobatterio che contiene sostituenti in grado di inibire la fusione tra fagosoma e lisosoma.
Se la fusione che porta alla formazione del fago-lisosoma non avviene, gli enzimi litici dei
lisosomi non possono essere riversati nel fagosoma, cosicché i micobatteri possono persistere e
rimanere vitali all’interno di questi organuli. Il granuloma tubercolare è caratterizzato da una
zona centrale di necrosi (si forma per scarso apporto di ossigeno alle cellule e perché le cellule più
interne sono quelle più vecchie) circondata da macrofagi, cellule giganti, linfociti e tessuto fibroso.
I micobatteri presenti nelle lesioni primarie possono però riattivarsi, ad esempio a seguito di un
abbassamento delle difese immunitarie dell’ospite. Questa riattivazione dei batteri presenti in
forma latente nelle lesioni primarie, può avvenire anche a distanza di mesi o anni dall’infezione
primaria. In questo caso si ha il progredire delle lesioni che può portare alla fusione tra diversi
tubercoli determinando la formazione di vaste aree di necrosi, denominate caverne e
l’eliminazione all’esterno del materiale nevrotico infetto con la tosse.
GRANULOMA DENTALE
Un granuloma dentale detto anche apicale si può formare all’apice radicale del dente e ciò
avviene a causa di infezioni batteriche giunte in profondità a causa di carie, fratture o
scheggiature dentali. Questo granuloma viene spesso identificato a seguito di un esame
radiografico. Con il tempo, i batteri presenti all’interno del granuloma possono tornare a
proliferare e il processo infiammatorio può andare incontro a riacutizzazione causando dolore,
gonfiore ed eventualmente un ascesso dentale.
LEUCOCITOSI
La leucocitosi è una situazione in cui si avrà l’aumento dei leucociti circolanti il cui numero, in
condizioni fisiologiche, si aggira da un minimo di 4000 ad un massimo di 8000 mila per microlitro
cubo. Il suo aumento è correlato alla gravità dell’infiammazione e può interessare più tipi di
leucociti (leucocitosi assoluta) o essere di alcuni tipi specifici (leucocitosi relativa). Ad esempio
avremo una neutrofilia in situazioni in cui si osserva un’infiammazione acuta, avremo una
monocitosi o una linfocitosi a seguito di infiammazioni croniche ed avremo una eosinofilia a
seguito di un’infiammazione allergica.
Le proteine della fase acuta sono un gruppo eterogeneo di proteine che sono prodotte dal fegato e
rilasciate nel plasma già in condizioni fisiologiche e che partecipano tramite vari meccanismi
all’immunità innata. L’aumento delle proteine della fase acuta nel corso di un infiammazione è un
importante indicatore per rilevare uno stato infiammatorio. Nella pratica clinica può essere
effettuato un test della velocità di eritrosedimentazione (VES) che aumenta in modo non specifico
a seguito di infiammazioni, questo poiché durante queste ultime, verranno prodotte proteine della
fase acuta (fibrinogeno e proteina C reattiva) che andranno a legarsi con i globuli rossi e
causeranno un’eritrosedimentazione velocizzata. I valori fisiologici della VES, in 1h, in un uomo
saranno di 1-10mm e i valori in una donna saranno di 1-15mm.