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Gerard van den Aardweg

OMOSESSUALITÀ
&
SPERANZA
Terapia & guarigione
nell9esperienza di uno psicolog

«
a:
Titolo originale:
Homosexality andHope (Apsychologist talks about treat­
ment and cflange), Servant Books, Ann Arbor (Michigan)
1985
© 1985 by Gerard van den Aardweg
© 1995 per la presente edizione aggiornata:
Edizioni Ares - Via A. Stradivari, 7 - 20131 Milano
Traduzione di Agostino Donà
INTRODUZIONE
di Paul C. Vitz

Fino a non molto tempo fa in Italia


di omosessualità quasi non si parla­
va; poi, all’improvviso, quella che
era sempre stata considerata una de­
viazione pura e semplice ha assunto,
presso l’opinione pubblica, il profilo
del dibattito e i media hanno comin­
ciato a farsi interpreti del punto di
vista del movimento omosessuale di
emancipazione. Negli Stati Uniti e in
altri Paesi europei nord-occidentali
questo movimento, che proclama la
normalità dello «stile di vita» omo­
sessuale, era già attivo da decenni. È
dal punto di vista statunitense che
Paul Vitz, professore di psicologia
alla New York University, scrive la
seguente prefazione.

Di nessun altro aspetto della rivoluzione sessuale


contemporanea si è tanto parlato e nessun tema è
stato fonte di tanto travaglio quanto l ’argomento
dell’omosessualità. Per anni siamo stati assillati dal
contrasto di due posizioni opposte. A un estremo sta
il movimento a favore dell’omosessualità, con. le sue
pretese di radicale tolleranza e piena accettazione.
Sull’altro estremò (oggi generalmente clandestino)
vi è un totale rifiuto del problema dell’omosessuali­
tà, con l’indisponibilità ad affrontarlo in modo se­

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rio. Comunque, finora non sono mai stati trattati con
vero impegno gli aspetti più importanti dall’omoses­
sualità: le cause, le origini e la possibilità di cam­
biamenti, sia del comportamento omosessuale, sia
dell’inclinazione omosessuale. Oggi, dopo parecchi
anni di aspre controversie, sembra che ci si voglia
finalmente porre tali quesiti di fondo. Ciò deriva
anche da un cambiamento generale di atteggiamen­
to nei confronti del problema il movimento sessuale
radicale degli anni Sessanta e Settanta sta ora dan­
do chiari segni di cedimento, e il grande pubblico,
che aveva imparato a considerare con attenzione il
tema dell’omosessualità, ha cominciato a recedere
da quella spiccata simpatia per il movimento che i
più nutrivano in passato.
Gli stessi omosessuali hanno incominciato ad
avere qualche ripensamento, hanno iniziato a riflet­
tere seriamente sul modo di essere della loro vita. La
crisi causata dall’A ids ha dimostrato in termini evi­
denti alcune delle conseguenze di uno stile di vita
alla «gay» totalmente disinibito e militante. Comun­
que, l’A ids è solo una componente di una consape­
volezza più diffusa, sia tra gli omosessuali che tra gli
altri, che il vivere a quel modo, indipendentemente
da qualsiasi conseguenza di carattere sanitario, è
stato per tante persone veramente.
In breve, ritengo che nella cultura americana e
occidentale sia giunto il momento in cui il tema
dell’omosessualità può essere affrontato con una
riflessione razionale, critica, ma anche piena di
umana comprensione: il libro di Gerard van den
Aardweg che qui presentiamo non avrebbe pertanto
potuto esser pubblicato in momento più opportuno.
L ’argomento può essere così riassunto. Da una

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parte abbiamo buone ragioni per nutrire umana
comprensione e per preoccuparci dell’omosessuale,
riconoscendo la realtà della sua situazione: egli non
può essere ignorato e non gli si può semplicemente
ordinare di modificare il proprio comportamento;
perciò noi accettiamo la problematica omosessuale
come reale e importante, una problematica che ri­
chiede la nostra attenzione.
D ’altra parte, in questi ultimi decenni si sono
accumulati parecchi studi concernenti l’origine del­
l’omosessualità. Alcuni forniscono la prova inconfu­
tabile che l’omosessualità può venire modificata,
come in effetti si è potuto verificare. A suo tempo, i
risultati di ricerche che confortavano questa tesi
erano abbastanza noti e condivisi. Ma poi, sotto le
pressioni del movimento di militanza omosessuale,
negli ultimi dieci o quindici anni questo modo di
vedere è stato emarginato, e ora rappresenta la po­
sizione di una minoranza nel mondo della psicolo­
gia. Il dottor van denAardweg dimostra che questa
ricerca, suffragata dalle più recenti acquisizioni, è
estremamente importante e insiste perché vi ci dedi­
chiamo. Questo, in sé stesso, è un suo pregio di
rilievo. Inoltre, egli condivide l ’idea che l ’omoses­
sualità è un problema serio, ma descrive un metodo
psicologico per affrontarlo. Così facendo, il dottor
van denAardweg colloca l’omosessualità in un nuovo
contesto: il contesto della speranza di cambiamento.
Perché la speranza dovrebbe essere tanto impor­
tante ?Dopo tutto, parecchi omosessuali sembra che
lottino per la completa accettazione del loro modo di
vivere come intrinsecamente valido. Ma proprio qui
penso che sia chiara l’evidenza: un gran numero di
omosessuali sono totalmente scontenti del loro mo­

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do di vivere. Quando scoprono di essere omosessua­
li, per la maggior parte essi restano sgomenti e
abbattuti. Il modo di vivere omosessuale produce un
enorme senso di colpa, non di colpa nevrotica (ben­
ché vi sia certamente anche una componente del
genere), ma di vera colpa: senso di colpa per la
promiscuità sessuale, senso di colpa per la persist­
ente menzogna circa relazioni amorose che si pre­
tendono stabili e che si rompono invece dopo poche
settimane, a volte nel giro di giorni o di ore. Questo
senso di colpa, unito alle speranze infrante di poter
vivere una vita eterosessuale, grava pesantemente
su molti omosessuali. La speranza che qui viene
offerta è l'aspettativa di una liberazione da questi
comportamenti, pensieri ed emozioni estremamente
penosi.
Una teoria strutturata orientata al cambiamento
ci consente anche una visione straordinariamente
più razionale del problema della omosessualità e del
modo di affrontarlo. Negli anni più recenti abbiamo
imparato parecchio sui molti disturbi psicologici
debilitanti che colpiscono un grande numero di per­
sone. Oggi noi siamo consapevoli che addirittura
milioni di persone soffrono o hanno sofferto di situa­
zioni quali l'alcolismo, la passione compulsiva per
il gioco, l'abuso delle droghe, disturbi maniaco-de­
pressivi, schizofrenia, anoressia, bulimia, stati an­
siosi gravi, depressioni e fobie. Forse noi tutti, in
certa misura e a un certo momento della vita, sare­
mo affetti da una di queste affezioni, così come noi
tutti, in un momento o in un altro, avremo dei proble­
mi di salute fisica.
E molto importante il fatto che ci siamo abituati a
pensare alla guarigione da patologie psichiche allo

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stesso modo che avviene per le malattie fisiche. Tutti
conosciamo persone che lottano con successo con­
tro le malattie cardiache e l’alta pressione arteriosa,
o che vivono per anni con un cancro. Un buon
numero fra noi conosce persone che sono guarite
dall’alcolismo o da problemi psichici (come una
grave depressione) e sono diventate per questo più
forti. Magari noi stessi abbiamo superato simili si­
tuazioni.
Il dottor van den Aardweg spiega che l’omoses­
sualità è una delle patologie alle quali tutti noi
potremmo andare soggetti. Essa trae origine dal
modo in cui si è stati educati e da diverse esperienze
della vita successiva. Come patologia la si può com­
prendere e se ne può guarire. Egli sottrae l’omoses­
sualità a una prospettiva squisitamente irrazionale e
la colloca in un contesto razionale e realistico.
L ’omosessualità non è una condanna definitiva,
per così dire, a un particolare stile di vita, sempre in
aperto contrasto con il modo di vivere eterosessuale
e con le istituzioni più importanti della nostra socie­
tà. Gli omosessuali non sono condannati a un genere
di vita alienante, emarginante, gravemente restritti­
vo della persona. Una volta che vediamo e compren­
diamo l’omosessualità come qualcosa di analogo a
quegli altri problemi psicologici dai quali si può
guarire, la nostra visuale cambia sotto due aspetti.
A ll’omosessuale viene data la speranza di cambiare
e, allo stesso tempo, si realizza un tipo di accettazio­
ne dell’omosessuale come parte della comune socie­
tà umana e, come tutti gli altri, soggetta a patologie.
Ciò è particolarmente vero quando si vede l ’omo­
sessualità come una condizione dalla quale si può
guarire e in questo processo, a Dio piacendo, diven­

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tare una persona più forte per aver affrontato con
successo la sfida. Questo deve essere sottolineato. A
titolo di esempio dirò che conosco a New York City
un gruppo di omosessuali chiamato «Coraggio»; i
suoi membri vivono con molto impegno una vita
cristiana, e in particolare una vita sessualmente ca­
sta. Il loro nome è ben adatto, poiché il lavorare
seriamente a un simile stile di vita richiede vero
coraggio. Nel processo di realizzazione di una rispo­
sta cristiana alla propria omosessualità, questi uo­
mini diventano anche modelli di forza e di coraggio
per parecchi altri, ivi compresi gli eterosessuali.
Infatti tanti eterosessuali soffrono anch’essi di mo­
dalità di vita patologiche; mi riferisco in particolare
a vari tipi di comportamenti sessuali che sono comu­
ni fra gli eterosessuali e che ora sono riconosciuti da
numerosi psicologi come dipendenze viziose, quali
la promiscuità sessuale, la masturbazione abituale e
il feticismo sessuale. Gli omosessuali che riescono a
superare la propria condizione servono di modello
di forza e di speranza per molti altri.
Per esempio, nel suo libro van den Aardweg addi­
ta quale fatto centrale della psicologia dell’omoses­
suale un’esperienza di autocompassione. Ed è im­
portante notare che le conseguenze nevrotiche del-
Vautocompassione non sono affatto limitate all’o-
mosessualità. Intendo dire che Vautocompassione è
una condizione menomante per parecchia gente.
Uno dei maggiori meriti di van den Aardweg consi­
ste nella descrizione della dinamica che dà origine
all’autocompassione e di alcuni procedimenti di psi­
coterapia che possono ridurla. A questo proposito,
questo suo lavoro è prezioso per chi è interessato a
conoscere in qual modo l’autocompassione può af­

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fliggere la vita della gente, eterosessuali compresi.
L ’uso che il dottor van den Aardweg fa dell’umo­
rismo come terapia per la cura dell’autocommisera­
zione nevrotica trova applicazione per i tipi più di­
versi di persone. Qualsiasi persona sia affetta dal
problema dell’autocommiserazione è suscettibile di
essere curata con l ’umorismo. Di fatto, ritengo che
quella dell’umorismo sia una tecnica di possibile
uso ampiamente estensivo in psicoterapia, che meri­
terebbe ben maggiore attenzione teoretica di quanta
gli psicologi non glien’abbiano fin qui accordata.
La tesi del dottor van den Aardweg riguarda un’a­
rea decisiva della psicologia: l’educazione dei figli
e, in particolare, il rapporto tra l’educazione dei
figli e lo sviluppo morale ed etico. Infatti il fallimen­
to nello sviluppo di una normale identità sessuale ha
conseguenze morali ed etiche. Il dottor van den
Aardweg descrive in modo molto penetrante e sinte­
tico l’insieme di quegli atteggiamenti e di quei valori
che condannano all’insuccesso lo sviluppo dell’o­
rientamento eterosessuale nel bambino. La sua in­
terpretazione di come si forma l’omosessualità for­
nisce una prospettiva di psicologia evolutiva, con
particolare riferimento alle caratteristiche morali
ed etiche del bambino. Invito caldamente i lettori
interessati a questo aspetto dello sviluppo del bam­
bino a riservare una speciale attenzione alla dimo­
strazione e alla tesi dell’autore.
Infine, la visuale del dottor van den Aardweg è
particolarmente significativa per la comunità cri­
stiana. Anche se non applica alcuna concezione o
teoria esplicitamente cristiana nella sua interpreta­
zione dell’omosessualità o nella sua attività clinica
in relazione a essa, il suo libro è un profondo contri­

ta
buto alla risposta cristiana all’omosessualità.
Il pastore cristiano che aveva buoni motivi per
pensare che l’inclinazione omosessuale non presen­
tasse possibilità di cambiamento, doveva affrontare
un dilemma morale molto serio. Egli poteva accetta­
re la persona, ma — supposto che l ’orientamento
omosessuale non fosse stato modificabile — egli
avrebbe dovuto accettare anche il comportamento
omosessuale stesso. Per fare questo — sapendo che
il giudaismo, del quale Gesù era un fedele rappre­
sentante, condannava senza ombra di dubbio l’omo­
sessualità — egli avrebbe dovuto respingere la Scrit­
tura e la Tradizione della Chiesa su questo argo­
mento, con riferimento non solo ai duemila anni di
cristianesimo, ma anche ai precedenti tremila armi
di giudaismo.
L ’altra alternativa sembrava peraltro ugualmente
inaccettabile: cioè il rifiutare l ’omosessuale, il dirgli
che quello che faceva era sbagliato, ma senza offrir­
gli un aiuto. Entrambe le alternative sembravano
anticristiane, né pareva che ce ne fossero altre.
Noi tutti conosciamo il famoso episodio di Gesù
davanti alla donna adultera, quando Egli rifiuta di
condannarla e trova il modo di mandar via coloro
che avrebbero voluto farlo. E poi, rimasti soli, Gesù
le dice senza mezzi termini: «Va’e non peccare più».
Si trova un aiuto effettivo nel presente libro, come
pure in altri scritti recenti di altri psicologi, cristiani
e non cristiani, che stanno incominciando ad affron­
tare il problema dell’omosessualità. Essi, e con loro
il dottor van den Aardweg, danno importanti sugge­
rimenti su come si possano aiutare ad andarsene
senza più peccare quei peccatori che lo vogliano
lealmente.
1. GLI ATTEGGIAMENTI SOCIALI
VERSO L’OMOSESSUALITÀ

Oggi si sente ripetere da ogni parte che i sentimen­


ti omosessuali sono cosa normale, una semplice que­
stione di preferenze o di gusti personali. Ne conse­
gue un appello all’accettazione sociale: il comporta­
mento e le relazioni omosessuali — si sostiene —
sono sullo stesso piano di quelli eterosessuali; di
conseguenza, parecchi fanno pressione, tra l’altro,
perché le relazioni omosessuali possano ricevere il
medesimo riconoscimento legale del matrimonio, e
propugnano un atteggiamento più «illuminato» del
pubblico, che ne riconosca la normalità. L’unico
problema posto dall’omosessualità — si dice — è di
carattere sociale: far sì che la gente accetti quella
condizione e ripristinare i diritti naturali di una mi­
noranza a lungo repressa. Alcuni vanno oltre e cal­
deggiano l’accettazione dell’idea che ogni adulto sia
per natura parzialmente omosessuale: l’educazione

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dei bambini dovrebbe pertanto venir modificata in
una direzione più favorevole all’omosessualità, per
esempio, trattando ragazzi e ragazze allo stesso mo­
do.
Sotto questo profilo, il cosiddetto movimento di
liberazione omosessuale cammina mano nella mano
con il movimento femminista. Entrambi concordano
sulla prioritaria necessità di un cambiamento nei
ruoli maschile e femminile e nelle relazioni uomo-
donna. La parola d’ordine è che ci si deve sbarazzare
dei modelli di ruoli «predefiniti». E dicendo «prede­
finiti» si suppone che finora saremmo stati costretti
dalla pressione della nostra cultura a forme tradizio­
nali di maschilità e di femminilità, ad accettare mo­
dalità arbitrarie e coercitive di rapporto con l’altro
sesso, e ad accogliere il matrimonio come il solo tipo
immaginabile di relazione sessuale.
Comunque — prosegue il ragionamento —, la
sessualità naturale è molto più ricca nelle sue «varia­
zioni», e la scienza moderna ha dimostrato l’esisten­
za di tipi completamente diversi, ma ugualmente
naturali, di sessualità, di amore sessuale e di relazio­
ni sessuali. Tanto chiara è per costoro la strada da
percorrere, con il superamento di pregiudizi obsole­
ti... Chiunque non accetti l’omosessualità come cosa
normale viene accusato di discriminazione a danno
di persone diversamente dotate, persone che sono
«sostanzialmente» diverse; forse — si dice — costui
discrimina perché egli stesso reprime la componente
omosessuale della propria vita emotiva o, peggio,
perché soffre di «omofobia», timore patologico del­
l’omosessualità.
Queste idee, che ricevono eco costante alla radio e
alla televisione, nei giornali e nelle riviste e vengono

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diffuse da organizzazioni per la riforma sessuale
come pure da istituzioni costituite nel campo della
salute mentale, hanno lasciato ben poco spazio ad
altre opinioni.
E divenuto consueto insegnare agli studenti delle
università e delle scuole superiori che l’omosessua­
lità è cosa normale; un insegnante che esprimesse
diversa opinione potrebbe finire lapidato dalla pub­
blica indignazione. Autori di testi e di articoli in
àmbito medico e psicologico scrivono regolarmente
secondo questa mentalità. Se vengono pubblicizzate
opinioni sull’omosessualità diverse da quelle del
movimento di liberazione omosessuale, esse vengo­
no commentate con degnazione e con mal dissimu­
lata ironia.
Non c’è pertanto da meravigliarsi che questo non
sia il clima ideale per ulteriori ricerche imparziali
sulle cause dell’omosessualità, che le nostre istitu­
zioni scientifiche ufficiali hanno lasciato al suo de­
stino, destituendola di una terapia adeguata. Molti
editori esitano a lanciare pubblicazioni che non si
allineano all’ordinaria orchestrazione, per il timore
di critiche negative.
Uno tra i pochi che hanno deprecato la perdita di
libertà dovuta a questo clima sociale è A. D. De
Groot, professore olandese di psicologia della perso­
nalità; in occasione di una discussione sull’ipotesi
che gli omosessuali siano più nevrotici degli etero­
sessuali, egli scrisse:

«La più potente chiesuola del nostro tempo, fra gli


intellettuali e i semi-intellettuali, è la comunità dei
seguaci delle opinioni predominanti, tendenzialmen­
te progressiste. Chiunque si azzardi a esprimere ipo­
tesi di diversità tra gruppi di persone, essi lo accusa­
no del peccato di “discriminazione”»1.

La propaganda per l’accettazione dell’omosessua­


lità ha la sua origine principale nei circoli degli stessi
omosessuali militanti, cui viene data l’occasione pri­
vilegiata di parlare tutte le volte che si dà qualcosa
che abbia a che vedere con l’omosessualità nei mez­
zi di comunicazione sociale, oppure quando esce un
articolo, un libro o un film sull’argomento. Pare che
essi siano considerati i migliori esperti della loro
condizione emotiva. Guardando le cose con più at­
tenzione, comunque, ci sono ragioni a iosa per sup­
porre che proprio queste persone «non possano esse­
re buoni giudici della propria causa», come recita un
antico adagio.

L’omofilia come disturbo emotivo

«Tutti dicono che è normale». Ascolto spesso que­


sta protesta, per lo più da persone giovani affette da
questo problema. Nei paragrafo che segue spiegherò
perché il «tutti» è assai lontano dalla realtà. È un
fatto che le persone con inclinazione omosessuale
vengono spesso informate della loro normalità da
medici, psicologi e persino sacerdoti, che soggiun­
gono: «Perché ti vuoi angustiare a questo proposito?
Accetta di essere “così”, trovati un amico, associati
a un circolo “gay”. Non puoi farci niente». Peraltro
le loro opinioni sono infondate, pensieri che seguono
la moda. Vediamo quindi di proporre una visuale
alternativa.
Per cominciare, dimostrerò che l’omosessualità è

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un disturbo emotivo che si manifesta nell’infanzia e
nell’adolescenza. Poi dimostrerò che in parecchi ca­
si coloro che hanno questa inclinazione possono fare
un profondo cambiamento in meglio se si danno da
fare con pazienza, impegno e buona volontà.
Non è facile toccare il tasto giusto. Di regola, gli
omosessuali militanti sfuggono a una discussione
aperta; essi vogliono solamente sentirsi dire che so­
no nel giusto. Sono sordi agli argomenti logici e ai
fatti. Attaccano, drammatizzano la propria situazio­
ne e, a quanto pare, ci riescono con pieno successo.
La loro vera e propria militanza ci costringe a reagire
con fermezza alle loro pretese.
Ma forse avremmo fatto meglio a prestare più
attenzione a una parte significativa di omosessuali
che non fa tanto schiamazzo e spesso rimane dimen­
ticata. Questi sono turbati dalla propria difficile si­
tuazione e dalle sue implicazioni, quali l’isolamento
sociale, il fatto di non potersi sposare e di restare
soli. Spesso si sentono infelici e inferiori, persino
disperati. Avremmo dovuto prestare maggiore atten­
zione a quanti conducono una vita omosessuale ma
non vi trovano pace, o a coloro che si sentono con­
dannati a ripetere «non sarò mai normale». Non si
pensi che si tratti di un piccolo gruppo. Quando si
scava a fondo in una conversazione personale, si
scopre che la maggior parte delle persone che hanno
questa inclinazione ne sono insoddisfatte e vorreb­
bero in qualche modo cambiare «se appena fosse
possibile»2. È vero che parecchi fanno resistenza a
vedere le proprie sensazioni come nevrotiche o a
impegnarsi in tentativi reali di cambiare. Dobbiamo
ammettere, comunque, che le loro esitazioni sono
almeno in parte aggravate dagli atteggiamenti sociali

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predominanti. In ogni caso essi— e la maggior parte
di coloro che cercano di mantenere le distanze dalle
proprie sensazioni omosessuali — hanno bisogno di
una comprensione realistica, non di una comprensio­
ne superprotettiva o sentimentale. Hanno bisogno
d’incoraggiamento, ma anche di vedere con raziona­
lità dentro sé stessi. Perciò questo libro è rivolto
particolarmente ad essi, ai loro coniugi, se sono spo­
sati, e ai loro genitori i quali (se non sono confusi
dalla propaganda «gay lib») sono addolorati per il
corso che ha preso lo sviluppo dei loro figli. Esso
potrà inoltre essere utile a quanti, nel lavoro o nella
vita privata, si devono confrontare con i problemi di
colleghi o di amici che si sentono omosessuali.

Note

1A. D. D e G r o o t , Hypothesen over homofilie, in «De


Psycholoog», 17 (1982), pp. 244-245.
2 È eloquente quanto risulta da una ricerca, secondo la
quale il 60% degli omosessuali «socialmente ben adatta­
ti» (su circa un migliaio) aveva fatto ricorso all’aiuto di
uno psicologo o di uno psichiatra. Si veda: A. P. B el l - M.
S. W e in b e r g - S. K. H a m m e r sm it h , Sexual Preference:
Its Development in Men and Women, Indiana University
Press, Bloomington 1981.

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2. QUANDO UNA PERSONA
È OMOSESSUALE?

Le affermazioni «quest’uomo è un omosessuale»


o «questa donna è una lesbica» danno l’idea che la
persona in questione appartenga a una variante della
specie umana, diversa dalla variante eterosessuale.
L’omosessualità viene sempre più presentata come
una «variante», una «preferenza», una «condizione
costitutiva». Questi termini indicano che quella per­
sona è nata tale: in ogni caso si tratta di una falsa
concezione. Le conoscenze di cui disponiamo ci
indicano che le persone con inclinazioni omosessua­
li sono nate con la stessa dotazione fisica e psichica
di chiunque altro. Non è prova di una «diversità»
naturale innata, per esempio, il fatto che una certa
percentuale di uomini con tendenze omosessuali
diano l’impressione di mancanza di virilità, o ap­
paiano effeminati nel comportamento e negli inte­
ressi. Questo è un effetto dell’educazione o di una

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visione di sé stessi acquisita, di un’immagine di sé
appresa. La donna «virileggiante» con tendenze le­
sbiche non è tale per disposizione naturale, ma per
abitudine e per uno specifico complesso d’inferiori­
tà. Ci sono, d’altra parte, donne lesbiche spiccata-
mente femminili che pochi, a prima vista, potrebbe­
ro sospettare che abbiano quelle tendenze.
Con le parole «complesso d’inferiorità» sto pre­
correndo la mia spiegazione. In effetti, sosterrò che
le tendenze omosessuali scaturiscono da un partico­
lare tipo di complesso d’inferiorità, poiché per costi­
tuzione una tale persona non è omosessuale, bensì
eterosessuale. Ciò è vero indipendentemente da sen­
sazioni consapevoli; un uomo o una donna può non
avere, o avere in forma molto attenuata, inclinazioni
eterosessuali, ma è essenzialmente eterosessuale. A
rigor di termini, perciò, non esistono «omosessuali»
od «omofili», neppure nel regno animale; esistono
solo persone con inclinazioni omosessuali. Per esse­
re coerente, eviterò il termine «un omosessuale» e
userò la designazione più ingombrante di «persone
con inclinazioni omosessuali».

Sensazioni omosessuali

Le sensazioni omosessuali possono essere definite


come sensazioni di essere innamorati o eroticamente
attratti da una persona dello stesso sesso; ciò si ac­
compagna a uno scarso interesse erotico verso l’altro
sesso, o alla quasi totale assenza di esso. Qui dobbia­
mo fare una riserva: sensazioni omosessuali, durante
l’adolescenza (pubertà) fino a circa i diciassette
anni, sono di solito transitorie e devono essere con­

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siderate come uno stadio dello sviluppo psicosoma­
tico inerente alla sessualità. Esse scompaiono senza
lasciare traccia quando, nella fase successiva, com­
paiono le sensazioni eterosessuali. Come dirò in se­
guito, la prepubertà e la pubertà sono i periodi più
importanti per il possibile instaurarsi di una «vera»
omosessualità: cioè di sensazioni omosessuali che
sopravvivono nel corso della vita.
Inoltre, dovremmo sempre tener presente che la
parola «omosessualità» sta a indicare una grande
varietà di forme e tipi. Per esempio, alcuni uomini
subiscono di fatto un eccitamento sessuale per ogni
uomo che incontrano, e altri sono solamente interes­
sati a certi tipi di maschi. Per alcuni, la sensazione
omosessuale è continuamente presente nella loro
immaginazione, come un’ossessione, mentre in altri
compare piuttosto in modo irregolare. Alcuni sono
esclusivamente orientati verso compagni all’incirca
della stessa età, altri verso più anziani, altri ancora
verso giovani, adolescenti o bambini (omosessuali
pedofili). Alcuni di essi si diversificano per la loro
preferenza per un certo tipo di compagno. Ci sono
poi delle diversità nei ruoli che essi assumono in
rapporto ai loro compagni, poiché alcuni svolgono
prevalentemente il ruolo attivo, altri quello passivo,
benché molti — la maggior parte — non abbiano un
modello di ruolo stabilito. Alcune persone con ten­
denze omosessuali possono a volte percepire sensa­
zioni chiaramente eterosessuali, comunque di ridotta
intensità; questi vengono chiamati bisessuali. Alcu­
ni, poi, hanno solo sporadici impulsi eterosessuali, o
ne sono quasi del tutto privi: sono i cosiddetti omo­
sessuali esclusivi. (Dico «quasi» in quanto Freud
giustamente affermava che in un’analisi accurata

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delle fantasie e dei sogni dell’intero corso della vita
di una persona con fòrti tendenze omosessuali si
possono sempre trovare tracce di una normale dispo­
sizione eterosessuale, anche se profondamente na­
scosta).
Ancora un’ulteriore distinzione: alcuni accarezza­
no il desiderio di un compagno per una relazione
durevole; altri non potrebbero neppure desiderare
una cosa simile. Comunque, fra il desiderio e la sua
realizzazione i primi trovano un grande divario; una
relazione realmente durevole e leale è estremamente
rara, se mai possa aver luogo. Per esemplificare: in
uno studio effettuato, oltre il 70% dei settanta uomi­
ni e donne con inclinazioni omosessuali che affer­
mavano di aver accettato le proprie sensazioni come
normali e vivevano alla maniera omosessuale, desi­
derava una relazione durevole; ma, stando alle loro
stesse dichiarazioni, solo quattro uomini e sette don­
ne fra di essi avevano avuto solamente un compagno
nel corso dei due anni precedenti*. Non ha importan­
za in quale Paese o con quali campioni di persone
inclini all’omosessualità siano state condotte ricer­
che del genere: i risultati sono invariabilmente gli
stessi. Peraltro è possibile distinguere tra coloro che
cercano dei contatti transitori (i tipi «crociera») e
coloro che hanno a che fare con un solo partner per
un lungo periodo di tempo, anche se non è poi tanto
lungo.

Incidenza

I militanti omosessuali hanno regalato al mondo lo


slogan che «una persona su venti» è omosessuale. Si

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tratta di mera propaganda. Pare che qualcuno pensi
che un’alta incidenza sulla popolazione renderebbe
quella condizione più normale, ma naturalmente non
v’è nessuna logica in questo. I reumatismi, non basta
che ne soffra un’alta percentuale della popolazione
perché cessino di essere una malattia. Se quella sup­
posizione fosse vera, qualche decina di milioni di
Americani sarebbero omosessuali; questi numeri
non trovano riscontro in nessuna ricerca. I pochi
studi validi — condotti, per di più, su gruppi selezio­
nati — indicavano il due o tre per cento della popo­
lazione, come massimo; una delle ricerche non rag­
giunse nemmeno l’uno per cento2. Censimenti re­
centi, più vasti e affidabili, hanno confermato que-
st’ultima percentuale; per gli Usa è l’l% 3 e per la
Gran Bretagna circa l’l,5%4. Inoltre, occorre tener
presente che molto probabilmente sono meno donne
che uomini ad avere sentimenti omosessuali (e la
maggior parte delle stime sono estrapolazioni sulla
base dei campioni maschili); il 30 o 40% di coloro
che sono inclini all’omosessualità sono bisessuali e
possono così essere conteggiati altrettanto corretta-
mente con la parte di popolazione non omosessuale;
i bambini e gli adolescenti dovrebbero essere esclusi
dal numero totale degli omosessuali di una popola­
zione, poiché il loro sviluppo non è ancora termina­
to. Pertanto, si arriva a numeri e percentuali ancora
più basse.
Può sembrare che l’omosessualità sia rapidamente
aumentata in questi ultimi anni. Dubito molto di
questa drastica ascesa; può essere solamente che sia
salito il numero di coloro che attualmente trasforma­
no le proprie sensazioni in comportamento omoses­
suale. L’eccessiva attenzione polarizzata sull’argo­
mento (non si può aprire una rivista popolare senza
trovarvi dei commenti sugli omosessuali e sui loro
problemi) contribuisce senza dubbio all’impressione
di onnipresenza dell’omosessualità. Questa è pro­
prio l’impressione voluta dai sostenitori della nor­
malità del fenomeno «gay». Essere a favore dell’o­
mosessualità è diventato un segno distintivo di una
visione progressista della società.

Autoidentificazione

I giovani che scoprono in sé stessi degli interessi


omosessuali spesso passano un gran brutto momen­
to. Si sentono progressivamente alienati dai loro
coetanei perché non sono in grado di condividere il
loro interesse per l’altro sesso, mentre si sentono
obbligati a comportarsi come se quell’interesse vi
fosse. Si vergognano; quando viene toccato il tasto
dell’omosessualità, vogliono evitare che gli altri lo
colleghino a loro. Soffrono in silenzio; magari cerca­
no di negare o dissimulano i propri sentimenti, per­
sino davanti a sé stessi. Ma viene il momento, co­
munque, spesso intorno ai diciott’anni, che il giova­
ne deve affrontare la propria situazione. Allora egli
può concludere: «sono omosessuale».
Questo fatto può assumere una grande importan­
za. La tensione acuta declina, ma si deve pagare un
certo prezzo. Quei giovani non si rendono neppure
conto di essersi impresso un marchio piuttosto defi­
nitivo con questa «autoidentificazione» e di aver
assegnato sé stessi a una condizione «di serie B» ed
effettivamente emarginata. Alcuni possono assume­
re un atteggiamento spavaldo e persino considerarsi

26
superiori al comune genere umano, ma, nonostante
gli sforzi di sembrare perfettamente contenti della
propria «inclinazione», dentro di sé essi si rendono
conto che il loro «essere diversi» consiste in una
forma inferiore di sessualità. Può essere di sollievo
l’appartenere a una ben definitta minoranza e sentir­
si a casa propria fra gente di analoga inclinazione,
liberi dalle difficoltà inerenti all’affrontare il mondo
eterosessuale. Lo scotto per questo, comunque, è il
fatalismo deprimente implicito nell’identità di nuo­
va acquisizione: «sono proprio così». Il giovane non
pensa: «E vero che ho sentimenti occasionali o rego­
lari di omosessualità, ma sostanzialmente devo esser
nato come tutti gli altri». No: egli ha la sensazione di
essere una creatura diversa e inferiore, che porta con
sé una condanna: vede sé stesso in una luce tragica.
Questa tragica autoetichettatura si collega a un
sentimento di inferiorità che egli ha già nutrito per
qualche tempo in precedenza, cioè la sensazione di
essere un pietoso brocco. L’idea «io non sono pro­
prio come gli altri» è ora definitivamente fissata
nella sua mente dall’autoidentificazione: «Sono un
omosessuale». Ci ritorneremo in seguito. La sensa­
zione di non essere come gli altri, di non far parte del
gruppo, con la conseguenza di mantenere una pro­
fonda riserva verso gli altri, di tenersi in disparte, è
tipica della maggior parte delle persone che hanno
questo problema.
Che non sia l’effetto della discriminazione socia­
le? No. E vero che quanti hanno tendenze omoses­
suali non vengono considerati normali dagli altri; ma
la causa principale del sentirsi tragicamente diversi
sta dentro di loro. Queste persone conservano questa
sensazione anche quando vivono in un ambiente che

27
le accetta. Fa parte della loro nevrosi.
Poiché a tutt’oggi parecchi credono che l’omoses­
suale sia nato con una tendenza innata che farà bene
ad accettare, l’autoetichettatura fatalistica è più che
mai favorita dal mondo esterno dell’adolescente.
Spesso i giovani che esprimono le loro possibili e
non ancora definite sensazioni o fantasie omoeroti­
che vengono informati dagli «esperti» che essi sono
omosessuali. Ciò può rappresentare un duro colpo e
infrangere qualunque speranza ci fosse. Suggerisco
che ai giovani che svelano le loro segrete sensazioni
si dica preferibilmente qualcosa di questo genere:
«Tu puoi certamente provare interesse per il tuo
stesso sesso, ma è solo una questione di immaturità.
Per natura, tu non sei così. La tua natura eterosessua­
le non è ancora sveglia. Quello che dobbiamo discu­
tere è un problema della personalità: il tuo comples­
so d’inferiorità».
Le tensioni sessuali possono essere molto forti e
ciò fa sì che una persona giovane che abbia sensazio­
ni omosessuali possa facilmente credere che l’impe­
gnarsi in una relazione omosessuale sia la soluzione
di tutti i problemi, ivi compresa la solitudine. Presto
o tardi, comunque, egli giungerà alla conclusione di
essere finito in un genere di vita completamente
disordinato, in realtà di natura nevrotica. Il suo stato
profondo assomiglia sotto parecchi aspetti a una tos­
sicomania.
Lo stile di vita omosessuale viene presentato dai
mezzi di comunicazione sociale in modo tendenzio­
so e roseo: lo si può intendere come propaganda, ma
se si ascoltano le storie della vita trascorsa, in diversi
anni, da omosessuali praticanti si vede chiaro che in
quel genere di vita la felicità non la si trova. Irrequie­

28
tezza nei contatti, solitudine, gelosia, depressioni
nevrotiche e, proporzionalmente, un elevato numero
di suicidi (senza parlare delle malattie veneree e di
altre malattie somatiche) rappresentano l’altra faccia
della medaglia, che non viene mostrata dai mass
media. Esempio ne sia il caso di un famoso sessuo­
logo tedesco, che spesso aveva intessuto pubblica­
mente gli elogi di durevoli e fedeli relazioni omoses­
suali, ma che mise fine alla propria vita dopo la
rottura di un’amicizia, ultima di molte. La sua tragi­
ca morte fu appena accennata dalla stampa, il che
potrebbe far sorgere in qualcuno dei naturalissimi
dubbi.
W. Aaron, che era stato omosessuale, riassume
così la sua mole di osservazioni sul comportamento
omosessuale: nonostante le apparenze esterne, fini­
sce nella disperazione5.
Il giornalista americano Doris Hanson ha intervi­
stato alcune persone che vivevano come omosessua­
li:

«È un mondo tempestoso e non lo auguro neppure al


mio peggior nemico», dice un uomo che ci è passato
attraverso come un «tossicomane». «Nel corso degli
anni sono vissuto con una serie di compagni di ca­
mera, alcuni dei quali affermavo di amare. Essi giu­
ravano di amarmi. Ma i legami omosessuali comin­
ciano e finiscono con il sesso. Oltre il sesso vi è ben
poco da portare avanti. Dopo un primo periodo ap­
passionato, il sesso diventa sempre meno frequente;
i partners diventano nervosi; pretendono nuove emo­
zioni, nuove esperienze; cominciano a ingannarsi
l’un l’altro, dapprima segretamente, poi sempre più
palesemente... Hanno luogo scene di gelosia e batti-

29
3. L’OMOSESSUALITÀ È INNATA?

E un’ostinata credenza che omosessuali si nasca.


La maggior parte delle persone continua a ritenerla
anormale — contrariamente a quanto molti «educa­
tori sessuali» vorrebbero che si pensasse —, ma
crede ancora che si nasca «così»1.
Per quanto è a mia conoscenza, non esistono anco­
ra affidabili sondaggi di opinione fra i medici gene­
rici, ma sospetto che la maggior parte di essi creda
nell’esistenza di qualche causa congenita o comun­
que di ordine fisico. Invece gli psichiatri americani
tendono a vederla come un arresto o un blocco dello
sviluppo psicosessuale dell’individuo e non attribui­
scono molta importanza a cause fisiche o ereditarie2.
Comunque, l’influenza della loro opinione suH’esta­
blishment complessivo della scienza ufficiale è ben
lungi dall’essere decisiva. Infatti, nel 1973 il Consi­
glio direttivo dell’American Psychiatric Association
ha sostituito nel suo Manuale Diagnostico ufficiale
la definizione dell’omosessualità come «disturbo»
con il termine neutro di «condizione».
Ciò è avvenuto dopo intense manovre dei gruppi
di pressione degli omofili militanti. È comprensibile
che le persone con tendenze omosessuali spesso ab­
biano la sensazione che la loro inclinazione abbia
radici biologiche, in quanto la percepiscono come se
fosse un forte istinto. Inoltre, la consapevolezza di
essere diverse l’avevano già presente in giovane età,
anche se a quel tempo non coinvolgeva la loro ses­
sualità. Spesso avevano la sensazione di comportarsi
diversamente dai coetanei dello stesso sesso e di
avere interessi diversi e diverse preferenze e avver­
sioni. Spesso, davanti alle prime inclinazioni omo­
sessuali che si presentarono loro, si erano sentite
diverse; perciò finirono per credere che la loro natu­
ra dovesse essere diversa e di appartenere a un «ter­
zo sesso». È in linea con tutto questo la tendenza a
vantarsi di «essere diversi dagli altri»; alcuni arriva­
no a pensare che la loro sessualità sia segno di uno
speciale dono emotivo e vedono sé stessi come più
sensibili o dotati di maggiore senso artistico rispetto
all’ottusità delle persone normali. Il senso di inferio­
rità si trasforma in una illusione di superiorità, ma
tutto ciò in base alla convinzione che si tratti di una
disposizione innata. A una più attenta analisi, gli
interessi artistici degli uomini omosessuali sono
piuttosto spiegabili con fattori educativi e ambienta­
li. Per esempio, alcuni preferiscono le attività «mor­
bide» e gli interessi che non implicano audacia e
nutrono una conseguente avversione per quelle più
«dure», più «virili».
L’essere molto sensibili è tipico di molti nevrotici
e ha a che vedere con un «io» suscettibile, come

34
vedremo in seguito. Tanto la convinzione di chi cre­
de in una causa ereditaria quanto quella di chi crede
in altre cause fisiche operanti dopo la nascita, porta­
no a una visione pessimistica circa la possibilità di
cambiamento. Le persone con tendenze omosessuali
che vogliono rimanere su quella strada danno molta
importanza a una presunta «base biologica». Per
esempio, secondo i membri di una «gay church»
americana, l’omosessualità è una forma di amore
creata da Dio: può essere illecito vivere secondo i
princìpi del Creatore?
La teoria dell’ereditarietà sopravvive grazie agli
sforzi dei circoli degli omofili militanti e dei loro
sostenitori libertari, nonostante la crescente eviden­
za del contrario. Di quando in quando viene pubbli­
cizzato il risultato di una singola ricerca che dovreb­
be offrire sostegno all’idea di normalità. Perciò gli
studi sulla omosessualità devono essere accolti con
sano senso critico, specialmente se provenienti da
ambienti favoreli all’omosessualità. Ne è un esem­
pio il rapporto di Bell e collaboratori3, che sostiene
altamente probabile una base biologica dell’omoses­
sualità; e fra le conclusioni gli autori traggono la
morale che i genitori dovrebbero educare i propri
figli «secondo natura». Ciò significa che i bambini
che hanno tendenze omosessuali hanno bisogno di
un trattamento tutto speciale (naturalmente, favore­
vole all’omofilia), come se la loro presunta preferen­
za fosse un fatto compiuto fin dall’inizio e chiara­
mente riconoscibile da parte dei genitori. Il loro
lavoro è una manipolazione dell’opinione pubblica:
uno degli autori è infatti noto per la sua posizione a
favore dell’omosessualità. Le statistiche raccolte dai
ricercatori non hanno nulla a che vedere con la bio­

35
logia, ma con l’infanzia, il comportamento sociale e
altri aspetti del comportamento di omosessuali prati­
canti. Dal loro materiale appare che questi individui
si sentivano isolati dai loro compagni di giochi, il
che in sé stesso rappresenta un’accettabile prova,
che però non c’entra con la biologia.
Negli anni Settanta era invalsa l’abitudine, tra gli
omosessuali europei più sofisticati, di presentare lo
studio di Schofield4come prova dell’esistenza di una
variante normale (e presumibilmente innata) di
omosessualità. Il suo studio non verteva su normali­
tà o anormalità, ma suE’adattamento sociale e, più
specificamente, professionale. Egli aveva identifica­
to un sottogruppo di uomini omosessuali ben adatta­
ti, il che non giustifica alcuna conclusione circa
normalità o anormalità. In un altro caso, uno studio­
so del problema non trova differenze tra gli omoses­
suali e gli eterosessuali nei dati di alcuni test sulla
personalità; com’era prevedibile, questo fatto è stato
interpretato da alcuni come evidenza della normalità
di quella condizione. Se però controlliamo che cosa
effettivamente quel test misura — ha la pretesa di
misurare — troviamo che esso dimostra che questo
fattore non è in diretto rapporto con la normalità
psichica, o con il fatto che questa forma di sessualità
possa essere definita una normale «variante».

Ormoni

I termini «normale», «avente radici biologiche»,


«ereditario», «innato» e «avente causa fisica» ven­
gono spesso usati in modo intercambiabile, benché
essi non siano equivalenti sul piano logico. Che

36
l’omosessualità non possa essere normale da un pun­
to di vista logico e biologico è quanto discuteremo in
seguito; ma dobbiamo anzitutto confrontarci col
quesito delle possibili cause fisiche, ereditarie o non
ereditarie.
«Si tratta forse di ormoni?», si domanda molta
gente. No, secondo un esperto del campo quale il
Perloff, che già nel lontano 1965 scriveva: «È un
fenomeno meramente psichico... e non lo si può
modificare mediante sostanze endocrine (ormoni)»5.
Questa affermazione è ancora valida. E vero che a
volte è stata riscontrata una bassa concentrazione di
ormone sessuale maschile (testosterone) nel sangue
di uomini con tendenze omosessuali in paragone a
uomini eterosessuali6, come pure anomale quantità
di grassi e di prodotti metabolici degli ormoni adre-
nergici7. Ma simili risultati non devono essere inter­
pretati affrettatamente — come è stato fatto — a
sostegno della teoria che fa derivare l’omosessualità
da peculiarità ormoniche. Perché mai? Perché que­
sto tipo di differenze di concentrazioni ormoniche
tra uomini con tendenze omosessuali e uomini con
tendenze eterosessuali non sono state riscontrate da
altri ricercatori. Nel periodo 1972-1976 si possono
contare almeno sei studi che non hanno riscontrato
valori ormonici anomali nei gruppi omosessuali8. Le
differenze che a volte vengono rilevate sono presu­
mibilmente collegate alle caratteristiche specifiche
dei gruppi allo studio, e perciò non sono universal­
mente valide. Esse possono essere semplicemente
attribuite a fattori molto semplici, quali differenze
specifiche tra i gruppi a differenti orientamenti ses­
suali per quanto concerne le abitudini alimentari, le
abitudini di vita e di lavoro, il fatto di essere o no
sposati, le attività professionali o l’esercizio musco­
lare; inoltre, da altri fattori quali l’uso di droghe o di
medicinali, o la differenza di età.
In un gruppo di uomini a tendenze omosessuali,
Evans ha trovato valori anomali per i prodotti del
metabolismo degli ormoni adrenergici, per i grassi, e
una sostanza metabolita associata allo sviluppo mu­
scolare; inoltre, valori anomali di peso corporeo e di
forza muscolare, ma non per gli ormoni sessuali9.
Egli gioca con l’idea che un fattore che chiama
«ridotto sviluppo muscolare» abbia contribuito al
crescere di una propensione omosessuale. Questo
studio è uno dei pochi che abbia dato luogo a qual­
cosa che somiglia a un fattore fisico anomalo che sia
specifico per gli uomini omosessuali. Per questa
ragione lo esamineremo più da vicino per vedere
come devono essere valutati risultati di questo tipo.
Come per tutte le ricerche scientifiche, lo studio di
Evans non è così interessante finché i risultati non
trovino conferma nella riproducibilità su altri grup­
pi. Un rapporto tra quel fattore e la tendenza omoses­
suale non può essere stabilito prima che si ottenga
tutta una serie di dati comparabili su diversi campio­
ni. Supponiamo, per il momento, che il futuro ci
porti una serie di risultati analoghi che si confermino
l’un l’altro; ciò però non è affatto verosimile e,
anche se lo fosse, non costituirebbe un argomento
apodittico a favore di una causa fisica. La possibile
correlazione fra omosessualità e «debolezza musco­
lare» potrebbe significare, per esempio, che i ragazzi
con deficiente accrescimento muscolare corrono un
rischio più elevato di diventare sessualmente deviati
a motivo del loro senso d’inferiorità a questo propo­
sito. Sarebbe un esempio del fenomeno di «inferio­

38
rità organica» descritto dal noto psichiatra Alfred
Adler. Un ragazzo può sviluppare in sé sentimenti
d’inferiorità a motivo di qualunque menomazione o
ritardo fisico e, come vedremo, è proprio il senso
d’inferiorità giovanile dovuto all’aspetto fisico, alla
struttura corporea e simili, che può motivare uno
sviluppo a orientamento omosessuale. Ma forse la
nostra spiegazione di questo caso teorico sarebbe
troppo artificiosa anche in questa forma. Forse il
fenomeno vuol solo significare che gli uomini con
tendenze omosessuali sono meno inclini ai movi­
menti del corpo di un certo tipo, praticano meno certi
sport, mangiano di più o consumano più grasso di
altri uomini. Una spiegazione del genere non sareb­
be affatto sorprendente, in quanto sarebbe in linea
con i modi di vivere che abbiamo rilevato in parec­
chi di coloro che hanno tendenze omosessuali.
Che la causa dell’omosessualità non debba essere
ricercata in anomalie ormoniche sessuali è inoltre
dimostrato dal fatto che soggetti con deviazioni or­
moniche per disturbi funzionali delle gonadi non
sviluppano necessariamente anomalie sessuali. Per
esempio, gli ermafroditi (persone che hanno le carat­
teristiche fisiche di entrambi i sessi, causate da defi­
cienze genetiche) che sono biologicamente (vale a
dire geneticamente) femmine, hanno fui dallo stadio
embrionale un eccesso dell’ormone sessuale ma­
schile (testosterone) che peraltro non le predispone a
essere lesbiche10. Tutto quindi sembra indicare che
gli ormoni sessuali siano fuori causa. Poiché alla
produzione degli ormoni sovrintendono i cromoso­
mi, gli ormoni sessuali delle persone tendenti al­
l’omosessualità denotano perciò il normale funzio­
namento dei cromosomi sessuali.

39
Ereditarietà

I cromosomi sessuali, strutture molecolari estre­


mamente complesse che contengono i codici geneti­
ci trasferibili per ereditarietà, possono essere esami­
nati direttamente mediante tecniche di laboratorio.
Gli uomini e le donne che hanno tendenze omoses­
suali dimostrano di avere i normali cromosomi ma­
schili e femminili, rispettivamente11. Questo signifi­
ca che possiamo ritenere che tutti gli organi e le
funzioni collegati con la sessualità, dall’anatomia
degli organi ai centri sessuali del cervello — e quindi
l’intera «infrastruttura» della sessualità — sono nor­
mali sotto il profilo ereditario. La teoria di una de­
viazione innata della sessualità o della preferenza
sessuale non può pertanto essere sostenuta.
Tuttavia, se qualcuno preferisce attenersi all’esi­
stenza di un possibile fattore ereditario, esso potreb­
be essere solamente un fattore predisponente, che
potrebbe facilitare uno sviluppo omosessuale. Era
un fattore di questo tipo che aveva in mente Kall-
mann nel 1958 per spiegare i rilevanti e interessanti
risultati della sua ricerca su gemelli identici e non­
identici (monozigoti e dizigoti) di maschi con ten­
denze omosessuali12. Egli scoprì che tutti i gemelli
omozigoti tra i tendenzialmente omosessuali del suo
gruppo avevano anch’essi sensazioni omosessuali,
benché non proprio nella stessa misura. Ma solo il
12% dei gemelli non-identici (dizigoti) di uomini
inclini alla omosessualità indicavano di non avere
interessi omosessuali. Il 100% di somiglianza e di
concordanza nella omosessualità tra i monozigoti,
persone dal corredo genetico perfettamente identico,
non è affatto un dato universale e deve essere stato

40
una conseguenza dello specifico sistema di campio­
natura di Kallmann. Dopo di lui, è stata data notizia
di tutta una serie di gemelli uniovulari esaminati a
fondo; uno di essi aveva tendenze omosessuali, l’al­
tro invece eterosessuali13. Inoltre, vi è una crescente
consapevolezza del fatto che questo tipo di ricerche
su gemelli, benché affascinanti in sé stesse, non
possono essere decisive per verificare se una pro­
prietà o una variabile della personalità sia ereditaria­
mente determinata. Dati come quelli di Kallmann
possono trovare spiegazione anche nell’educazione
e in altri fattori ambientali, o in fattori psicologici,
quale l’alto grado di reciproca identificazione che è
così sorprendente nei gemelli. Che si debba cercare
una spiegazione in quella direzione è reso evidente
dalla piuttosto elevata concordanza nell’omosessua­
lità trovata da Kallmann nei suoi dizigoti (12 per
cento). La somiglianza qui è infatti più marcata che
la concordanza nell’omosessualità fra coloro che
hanno tendenze omosessuali e i loro fratelli non
gemelli. I gemelli dizigoti differiscono l’uno dall’al­
tro nella loro struttura genetica come qualunque cop­
pia di fratelli non gemelli. In altre parole, la maggio­
re somiglianza per quanto concerne l’omosessualità
nei dizigoti ha delle cause di carattere non genetico.
Anche per loro, la spiegazione potrebbe essere la
relativamente più intensa identificazione reciproca a
paragone dei fratelli non gemelli, vale a dire, la loro
sensazione di essere Valter ego l’uno dell’altro, e il
fatto che vengono trattati e considerati dall’ambiente
circostante in modo identico.
Nello studio di Kallmann ci sono alcuni punti
deboli che non è il caso di esaminare qui: se ne può
trovare altrove una dettagliata disamina14. Qui vo­

41
glio precisare che i dati di Kallmann non possono
essere usati come piattaforma per una teoria del-
F omosessualità su base genetica. Inoltre, essi non
forniscono neppure solidi indizi di fattori predispo­
nenti.
Pertanto, non sono stati reperiti fattori genetici —
di tipo sessuale o altro — che possano distinguere le
persone con tendenze omosessuali dalle altre. Alcuni
ricercatori lasciano aperta la possibilità teorica del­
l’esistenza di un fattore ancora ignoto, di ordine
genetico od ormonale, almeno per un sottogruppo di
persone a tendenze omosessuali. Suppongo che essi
abbiano in mente alcuni uomini omosessuali che
colpiscono da tanto sono effeminati e donne lesbiche
dal comportamento sorprendentemente maschile.
Ma nemmeno loro attribuiscono un influsso decisivo
a quel fattore teorico, dato che affermano allo stesso
tempo che le cause principali non stanno negli ormo­
ni o nei geni. Masters e Johnson assumono questa
posizione15. Questi ricercatori di formazione socio­
logica provenienti dalla scuola di Kinsey, anche se
manifestano chiaramente l’opinione che il compor­
tamento omosessuale sia normale e pienamente ac­
cettabile, scrivono parole emblematiche:

«E di vitale importanza che tutti i professionisti nel


campo della salute mentale tengano presente che
l’uomo o la donna omosessuale è fondamentalmente
un uomo o una donna per determinazione genetica e
che ha tendenze omosessuali per preferenza acquisi-
ta».

Probabilmente per evitare l’accusa di avere dei


pregiudizi, essi si affrettano a soggiungere che nep­

42
pure la preferenza eterosessuale è data su base gene­
tica: un’affermazione acritica che può facilmente
essere confutata. Il loro ammaestramento a «tutti i
professionisti nel campo della salute mentale» sulla
omosessualità come «comportamento acquisito»
non deve comunque essere dimenticato, anche se
respingiamo la loro gaffe grossolanamente progres­
sista sulla eterosessualità.
La storia della teoria della natura omosessuale
come condizione innata — cioè «connaturata» — è
una lunga storia. Questa teoria si è lentamente sgre­
tolata e ora non ne resta praticamente nulla. Nel suo
libro Changing Homosexuality in thè Male («Il cam­
biamento della omosessualità nel maschio») lo psi­
chiatra L. J. Hatterer lo dice schiettamente:

«Gli psichiatri sono arrivati finalmente alla conclu­


sione che i fattori genetici, ereditari, costituzionali,
ghiandolari e ormonali non hanno alcuna importanza
come cause della omosessualità»16.

Nei media viene fatta ripetutamente propaganda


di supposte scoperte di una causa biologica del-
l’omofilia. Nel 1991 si trattò di una cosiddetta parti­
colarità in una minuscola regione cerebrale costatata
in determinati uomini omosessuali17; nel 1993 corse
voce che fosse stato scoperto un «gene dell’omoses­
sualità»18. Poco o niente di queste notizie è soprav­
vissuto a una più attenta analisi; al contrario, i risul­
tati di recenti ricerche su gemelli hanno reso sempre
più improbabile una spiegazione in base all’eredita­
rietà19.
Al momento attuale possiamo dunque affermare
obiettivamente che non c’è motivo di ammettere

43
l’esistenza di un’omosessualità trasmessa ereditaria­
mente, o causata da disfunzioni ormoniche prima o
dopo la nascita; non ne sono responsabili deviazioni
nella crescita corporea, nella costruzione di organi,
del cervello, del sistema nervoso o delle ghiandole.
Sarebbe troppo lungo fare qui la completa enumera­
zione dei resoconti di ricerche scientifiche di rilievo:
bastino le conclusioni generali. Finché non si dimo­
stri in modo convincente che la persona con tenden­
ze omosessuali possieda qualche peculiarità fisica,
ereditaria o meno, che non sia effetto della sua con­
dizione, possiamo ritenere per certo che essa sia
perfettamente normale sotto il profilo biologico.
Man mano che passa il tempo, comunque, sembra
sempre più improbabile che possa accadere una cosa
simile.
«Anche mio nonno era omosessuale». «Anche
due figli di mia zia sono “così”». A volte sentiamo
spiegazioni come queste in bocca a qualcuno che ha
questo problema emotivo. Ciò non significa che nel­
le loro famiglie sia stata operante una causa eredita­
ria, non più di quanto potremmo attribuire ai geni la
responsabilità del fatto che il nonno o il cugino di
qualcuno sia cattolico o socialista. Se in certe fami­
glie la tendenza omosessuale si presenta con una
certa frequenza, spesso vediamo in quelle famiglie
degli squilibri nei modelli di ruolo dei due sessi: i
figli vengono allevati secondo modelli insufficienti
dei ruoli sessuali ed essi a loro volta ripetono questa
cattiva prassi educativa con i loro figli. In tali fami­
glie, le donne possono comportarsi in una certa ma­
niera poco femminile ed educare le proprie figlie in
modo poco femminile, facilitando così l’instaurarsi
di complessi d’inferiorità di tipo omosessuale. Esse

44
possono avere difficoltà ad accettare il ruolo sessua­
le in generale ed essere quindi incapaci di educare —
e di riconoscere — un ragazzo come ragazzo e una
ragazza come ragazza. Per i padri valgono osserva­
zioni analoghe. Del resto, il rapporto tra la famiglia
e l’omosessualità è per lo più molto scarso20.

Normalità

Un altro punto dev’essere chiarito. Supponiamo


che sia stata dimostrata una causa genetica o fisica
per l’omosessualità, per esempio una particolare si­
tuazione ormonica; questo non ci consentirebbe di
affermare che l’omosessualità sia normale. Un simi­
le fattore, meramente ipotetico, dovrebbe necessa­
riamente essere identificato come un fattore di di­
sfunzione o di malattia. Sarebbe stata una deviazione
cromosomica od ormonica, una disfunzione del nor­
male sviluppo fisiologico, un’infezione o altro del
genere. È bene averlo chiaro, perché si potrebbe
facilmente pensare che l’esser nato «così» equivalga
ad avere una tendenza «naturale».

Siamo tutti bisessuali?

L’idea di «omosessualità innata» è falsa. Ma ci


può essere almeno qualcosa di vero nell’idea, che è
familiare ad alcuni psicologi e psichiatri, che ogni
essere umano abbia una innata disposizione bises­
suale? In questo caso, ogni uomo o donna avrebbe le
stesse probabilità di svilupparsi in direzione omo­
sessuale o eterosessuale. La strada che ciascun indi­

45
viduo prende dipenderebbe dai metodi educativi
usati in famiglia e, più in generale, dalle influenze di
tutto l’ambiente sociale nell’infanzia. Questa opi­
nione è espressa da Masters e Johnson21, ed era
l’opinione niente di meno che di Sigmund Freud.
Tuttavia, l’idea di una bisessualità universale non è
sostenibile. Per quanto riguarda Freud, egli sostenne
la propria teoria con nozioni di fisiologia oggi obso­
lete; inoltre, la sua concezione non era totalmente
scevra da equivoci, problema sul quale per ora so­
prassediamo.
Se fosse solamente una questione di abiti educati­
vi dei bambini o di costumanze culturali a determi­
nare se una persona giovane si orienti verso l’omo­
sessualità o l’eterosessualità, o magari con un’opzio­
ne al 50 per cento, Dio (o la natura, se si vuole)
avrebbe appeso la sopravvivenza del genere umano
a un tenue filo. Sarebbe bastata l’esistenza di una
certa tendenza culturale in qualche società primitiva
a preferire l’omosessualità o a educare i figli in
questa direzione per portare il genere umano a rasen­
tare l’estinzione; e quale tendenza è realmente im­
possibile? Mentre in nessun caso in natura vediamo
che la propagazione della specie sia stata messa a
rischio in tal modo, che la sopravvivenza delle spe­
cie sia regolata con tanta noncuranza.
Nel mondo animale, la vera omosessualità come
sopra definita non ha luogo. Gli animali si possono
comportare in maniera omosessuale, ma solo nel
caso di assenza di un partner eterosessuale o per
effetto di quello che si potrebbe chiamare un errore
di percezione e di valutazione. Infatti, gli animali
possono reagire sessualmente a certe specifiche pro­
prietà di animali della stessa specie: forme, colori,

46
movimenti. In linea di massima, queste proprietà
sono attribuite al sesso opposto, ma esse possono
anche provocare una risposta se un animale le perce­
pisce in un individuo del suo medesimo sesso, spe­
cialmente in assenza di un partner eterosessuale.
Questa non è comunque omosessualità in senso
stretto22. La vera omosessualità implica una mancata
risposta agli stimoli del sesso opposto. Ripetiamo: è
come se la natura (o il suo Creatore) fosse stata così
sciatta nei confronti dell’uomo — che è molto più
complicato e raffinato di ogni altro animale ed è
ovviamente il suo più splendido prodotto — da la­
sciare, fra tutti i meccanismi, proprio quello che
sovrintende alla sopravvivenza della sua specie alla
mercé del caso. Che la natura si sia dimenticata di
fare per l’uomo quello che in realtà ha fatto con gli
animali: istituire cioè un indirizzo eterosessuale sta­
bile e duraturo nel tempo?
La domanda è già una risposta.
D’altra parte, la teoria della bisessualità è contrad­
detta dai fatti. A. Karlen, uno storico della sessualità,
nella sua rassegna dell’incidenza dell’omosessualità
in altri tempi e in altre culture rispetto alla nostra,
scrive che tutto quello che si può dire è che l’omo­
sessualità viene trattata nelle varie culture con diffe­
renti livelli di tolleranza, ma che non è mai stata un
fine desiderabile in sé stesso23. L’uomo non ha mai
sentito l’inclinazione a educare i propri figli nella
direzione dell’omosessualità: la stragrande maggio­
ranza in tutte le culture e in tutti i tempi è stata
eterosessuale. Per natura l’essere umano è attratto
dal sesso opposto. Se così non fosse, fra i numerosi
popoli che sono vissuti nei vari tempi ci sarebbero
state delle eccezioni, o almeno una, alla regola che la

47
maggioranza è eterosessuale.
E gli antichi Greci? Sembra che la nostra immagi­
nazione su questo punto abbia bisogno di qualche
rettifica. Gli storici rilevano che la cultura greca è
sempre stata essenzialmente eterosessuale24. Il com­
portamento omosessuale — o, meglio, la cosiddetta
pederastia o amore per i giovanetti e gli adolescenti
— era di moda in un certo periodo e in certi circoli,
ma certamente non era l’espressione sessuale prefe­
rita o desiderabile per la maggioranza. Inoltre, do­
vremmo piuttosto prendere con un granello di sale le
immagini delle abitudini sessuali dei Greci presenta­
te da pochi autori del tempo. È dubbio che sia legit­
timo da parte nostra generalizzare quello che dicono
i lirici greci, così come non potremmo avere un’idea
affidabile delle abitudini sessuali del nostro tempo
studiando la letteratura moderna. Tutto quello che è
eccentrico e deviante riceve nella letteratura e nel­
l’arte un’immagine più marcata di quanto gli spette­
rebbe se ci si basasse su ciò che realmente avviene
nella società.
L’affermazione che l’essere umano diventerebbe
eterosessuale per mezzo dei metodi educativi, repri­
mendo la sua egualmente forte componente omoses­
suale, colpisce per la sua artificiosità, specialmente
se ci rendiamo conto del modo in cui abitualmente
avviene la scelta dell’oggetto eterosessuale. Sembra
molto più esatto dire che lo sviluppo verso l’etero-
sessualità procede in modo automatico e istintivo. A
un certo momento, di solito durante l’adolescenza,
l’attrazione verso il sesso opposto viene sentita co­
me irresistibile anche dai giovani educati in un clima
sessualmente restrittivo o senza alcuna educazione
sessuale. È pure indicativo della base ereditaria del­

48
l’eterosessualità il fatto che non si vedono mai dei
giovani liberi da tensioni emotive, da complessi
d’inferiorità e da frustrazioni interne — in altre pa­
role, dei giovani equilibrati e ben costituiti — che si
sentano intimamente spinti all’omosessualità. I gio­
vani non nevrotici sono invariabilmente eterosessua­
li.
La conclusione inevitabile è che l’eterosessualità
è geneticamente determinata. I cervelli dell’uomo e
della donna differiscono come conseguenza di pro­
cessi embrionali di natura ormonica25 e probabil­
mente alcune di queste strutture cerebrali costitui­
scono la base biologica delle profonde differenze
psicologiche nel campo della sessualità26. Alcune
interessanti argomentazioni a favore dell’esistenza
di una eterosessualità innata possono inoltre essere
dedotte da ricerche concernenti lo sviluppo sessuale
di certi tipi di ermafroditi, cioè pazienti con difetti
dei cromosomi sessuali27.

Uno stadio transitorio bisessuale

Possiamo però accettare una speciale variante del­


la teoria della bisessualità: essa riguarda il fatto che
un adolescente, durante lo sviluppo verso la maturità
biologica e psicologica, passa attraverso uno stadio
in cui può per un certo tempo essere eroticamente
interessato a persone del proprio sesso. A questo
stadio, lo sviluppo sessuale è compiuto solo a metà e
non è ancora maturato fino alla piena scoperta del
proprio traguardo: il sesso opposto. È in questa fase
di crescita che vari oggetti e situazioni, umani e non
umani, possono venire associati nell’immaginazione

49
con lo svegliarsi delle sensazioni erotiche, peraltro
ancora indefinite: bambini e persone adulte, ma an­
che situazioni inanimate e situazioni emotivamente
eccitanti. La sessualità di un adolescente in questo
stadio dello sviluppo può essere chiamata bisessua­
le, anche se ci sarebbero buoni motivi per chiamarla
«multisessuale». Negli omosessuali, lo sviluppo ses­
suale, insieme a buona parte dello sviluppo soprat­
tutto emotivo, si è fermato a questo stadio.
Ciò non significa che ogni adolescente debba
chiaramente — e neppure confusamente — speri­
mentare i vari possibili tipi di attrazione erotica in
questa fase di vita. Forse non più del 30% degli
adolescenti hanno a un certo momento quelle che si
potrebbero considerare sensazioni omoerotiche. Gli
interessi erotici a questo stadio sono in stretta dipen­
denza dall’insieme della personalità e dell’emotività
dell’adolescente, dalle sue relazioni con gli altri,
dalla sua posizione sociale e dalla sua immagine di
sé stesso. Se si sviluppano fantasie, interessi o prati­
che omoerotiche, esse sono, malgrado tutto, solita­
mente superficiali e tendono a svanire rapidamente
non appena l’attrazione fisica del sesso opposto si
impone all’attenzione del giovane che, in molti casi,
vive questa scoperta con un atteggiamento del tipo:
«Ecco, è proprio questo che andavo cercando!».
Gli impulsi omoerotici possono coesistere, nello
stadio di sessualità ancora indeterminata, con l’ini­
zio di interessi eterosessuali. In altri casi, gli inizi di
interessi eterosessuali possono essere bloccati dal-
l’emergere di sensazioni omofile, specialmente se
l’adolescente si sente frustrato nella sua prima occa­
sione di amore eterosessuale.
Quando le potenzialità del sesso opposto sono

50
state pienamente scoperte, lo sviluppo è irre­
versibile. Gli «oggetti» di un tempo diventano sem­
plicemente privi di interesse, e questo senza un pro­
cesso di apprendimento imposto dal mondo esterno,
ma come conseguenza dello stesso istinto sessuale
indirizzato e rivolto al proprio fine.

No te

1S. M eilo f -O o n k e altri, Homosexauliteit: Een onder-


zoek naar beeldvorming en attitude bij de meerderijarige
Nederlandse bevolking, Stichting Bevordering Sociaal
Onderzoek Minderheden, Amsterdam 1969.
2SickAgain, in «Time», 20 febbraio 1978.
3A . P. B el l - M. S. W e in b e r g - S. K. H a m m e r sm it h ,
Sexual Preference: Its Development in Men and Women,
Indiana University Press, Bloomington 1981.
4 M. S c h o fie l d , Sociological Aspects of Homosexua­
lity, Longmans, Green, London 1965.
5 W. H . P e r l o f f , Hormones and Homosehuality, in
Sexual Inversion, a cura di J. M a r m o r , Basic Books,
New York 1965.
6 R. C. KOLODNY e altri, Plasma Testosterone and
Semen Analysis in Male Homosexuals, in «New England
Journal of Medicine», 285 (1971), pp. 1170-1174.
7 R. B. E v a n s , Physical and Biochemical Charac-
teristics of Homosexual Men, in «Journal of Consulting
and Clinical Psychology», 39 (1972), pp. 140-147.
8G. J. M. v a n d e n A a r d w e g - J. B o n d a , Een netelig
vraagstuk: Homofilie, gellofen psychologie, Callenbach,
Nijkerk 1981.

51
9 R. B. E v a n s , Physical and Biochemical Charac-
teristics of Homosexual Men, cit.
10J. M o n e y - A. A. E h r h a r d t , Man and Woman, Boy
and Girl: The Differentiation and Dimorphism of Gender
Identity from Conception to Maturity, Johns Hopkins
University Press, Baltimore 1972.
11D . J. WEST, Homosexuality, Penguin Books, London
1960.
12 F. I. KALLMANN, Comparative Twin Studies on thè
Genetic Aspects of Male Homosexuality, in «Journal of
Nervous and Mental Disease», 115 (1952), pp. 283-298.
13 I. D . R a in e r e altri, Homosexuality and Hetero-
sexuality in Identical Twins, in «Psychosomatic Medici­
ne», 22 (1960), pp. 251-259; R. C. F r ie d m a n e altri,
Psychological Development and Blood Level of Sex Ste-
roids in Male Identical Twins ofDivergent Sexual Orien-
tation, in «Jourmnal of Nervous and Mental Disease»,
163 (1974), pp. 282-288.
14G. J. M. v a n d e n A a r d w e g - J. B o n d a , Een netelig
vraagstuk: Homofilie, gellofen psychologie, cit.
15W. H. M a st e r s - V. E. Jo h n s o n , Homosexuality in
Perspective, Little, Brown and Company, Boston 1979.
16 L. J. HATTERER, Changing Homosexuality in thè
Male, McGraw-Hill, New York 1970.
17 S. L evay , A Difference in Hypothalamic Strucìure
Between Heterosexual and Homosexual Men, in «Scien­
ce», 253 (1991), pp. 1034-1037.
18 D. H. H a m e r e altri, A Linkage Between DNA Mar-
kers on theX Chromosome and Male Sexual Orientation,
in «Science», 261 (1993), pp. 321-327.
19W. B y n e - J. Pa r s o n s , Human Sexual Orientation,
in «Archieves of General Psychiatry», 50 (1993), pp.
228-239; W. B y n e , The Biologica! Evidence Challenged,
in «Scientific American», 270 (1994), pp. 26-31.

52
20 G. J. M. v a n d e n A a r d w e g , Homofilie, neurose en
dwangzelfbeklag, Polak & Van Gennep, Amsterdam
1967.
21 W. H. M a s t e r s - V. E. J o h n s o n , Homosexuality in
Perspective, cit.
221. E ib l E ib e s f e l d , Liebe und Hass, Piper, Munich
1970.
23 A. K a r l e n , Sexuality and Homosexuality, Norton,
New York 1971.
24 R. F la c er i ÈRE, Amour en Grèce, Hachette, Paris
1960.
25 R. W. Goy - B. S. M cEwen , Sexual Differentiation
ofthe Brain, Mitt Press, Cambridge, Mass., 1980.
26 R. M a y , Sex and Fantasy: Patterns of Male and
Female Development, Norton, New York 1980.
27G. J. M. v a n d e n A a r d w e g - J. B o n d a , Een netelig
vraagstuk: Homofilie, geloofen psychologie, cit.; J. M o ­
n e y - A. A. E h r h a r d t , Man and Woman, Boy and Girl:
The Differentiation and Dimorphism of Gender Identity
from Conception to Maturity, cit.

53
4. L’OMOSESSUALITÀ
COME DISTURBO PSICHICO

I primi studi sistematici sull’omosessualità furono


compiuti nel secolo XIX da alcuni autori, quali
Krafft-Ebing e Magnus Hirschfeld. Essi interpreta­
rono i propri dati alla luce delle teorie fisiologiche e
biologiche predominanti a quel tempo. La nozione di
«terzo sesso» o di «intersesso», per esempio, diven­
ne popolare in quel periodo. Sigmund Freud formulò
da pioniere le prime teorie dell’omosessualità che
privilegiavano l’importanza di fattori psicologici.
Egli pensava, tra l’altro, che la persona con tendenze
omosessuali da bambina avesse subito una superi-
dentificazione con il genitore del sesso opposto e
avesse avuto un rapporto conflittuale con il genitore
del proprio sesso.
Perciò Freud si volse all’infanzia e indirizzò la
propria attenzione specialmente a questo rapporto
genitore-figlio. Egli considerò l’omosessualità un

55
disturbo in gran parte psichico, probabilmente soste­
nuto da fattori biologici ancora sconosciuti (egli pro­
pose l’ereditarietà). Uno dei primi a non credere
all’importanza di un fattore ereditario — e forse
addirittura il primo — fu un discepolo di Freud,
Alfred Adler. Questo «scopritore» del complesso
d’inferiorità descrisse l’omosessualità come conse­
guenza di questo complesso fin dal 19171. Le sue
osservazioni gli insegnarono che le persóne con sen­
timenti omosessuali hanno invariabilmente dei sen­
timenti d’inferiorità per quanto concerne la propria
mascolinità o femminilità.
Un altro discepolo di Freud, che radunò un’im­
pressionante esperienza clinica con gente affetta da
problemi psicosessuali e che descrisse alcune osser­
vazioni originali sui propri pazienti con tendenze
omosessuali, fu Wilhelm Stekel2. Egli teorizzò che
l’omosessualità fosse la conseguenza della paura del
sesso opposto. Confermando le idee di Freud con­
cernenti l’origine psicodinamica dell’omosessualità
nell’infanzia, Stekel minimizzò l’importanza della
supposta predisposizione ereditaria molto più di
quanto fece Freud e fu forse il primo a classificarla
ima nevrosi. Inoltre, egli non fu d’accordo con Freud
sul ruolo causale del famoso «complesso di Edipo»,
e indicò invece un certo numero di errori nell’educa­
zione dei bambini che avrebbero potuto portare alla
nevrosi omosessuale. Egli sottolineò il ruolo del pa­
dre nel causare l’omosessualità del maschio, ritenen­
dolo spesso più importante del ruolo della madre.
Puntò sul carattere infantile della vita interiore di
questi pazienti — egli vide l’omosessualità come un
«infantilismo psichico»3— e mise in evidenza che la
motivazione omosessuale era intrinsecamente legata

56
a sensazioni di infelicità. Più di Freud, egli credette
alla possibilità di un cambiamento radicale dell’in­
clinazione omosessuale, benché pensasse anch’egli
che fosse un’evenienza relativamente rara. Le sue
varie osservazioni influenzarono profondamente il
pensiero dei suoi allievi.
La seconda e la terza generazione di psicanalisti
costruirono sulle fondamenta preparate dai loro pre­
decessori. Un elemento originale fu introdotto dallo
psichiatra austriaco E. Bergler. Egli osservò il cosid­
detto masochismo psichico di chi soffre di questo
complesso4. L’impulso omosessuale contiene, se­
condo lui, una specie di auto tormento, una necessità
inconscia di sentirsi respinto e, in generale, di «col­
lezionare ingiustizie», situazioni sgradevoli ed espe­
rienze che danno l’occasione di soffrire (come si
dice di alcune persone che «vanno in cerca di proble­
mi»).
I. Bieber, psichiatra americano, e i suoi collabora­
tori hanno notevolmente stimolato le successive ri­
cerche psicologiche sulla omosessualità con la loro
estesa ricerca statistica sulla personalità e sui fattori
infantili nei maschi omosessuali5. Ho già rilevato la
scarsità di dati nei campi fisiologico e biologico.
D’altra parte Bieber, come pure i suoi successori,
hanno riferito con cronometrica regolarità su un cer­
to numero di fattori infantili più o meno specifici in
uomini con tendenze omosessuali. Questi fattori so­
no intrecciati e formano un modello riconoscibile,
che dev’essere messo in stretta relazione con il pro­
cesso causale. Questo modello è costituito da rela­
zioni interpersonali con i genitori, i fratelli e il cosid­
detto gruppo dei pari, come pure da altri dati dello
sviluppo psichico che non è difficile ricollegare al

57
pensiero dei teorici della moderna psicologia6. Le
statistiche di Bieber e dei suoi seguaci possono an­
che essere utilizzate come piattaforma per la teoria
dell’omosessualità che io presenterò. Esse sono le
più accettabili, essendo state raccolte su vari sotto­
gruppi di persone inclini all’omosessualità e in varie
nazioni.
La presente teoria non è sorta all’improvviso, ma
è il risultato di un’evoluzione graduale degli appro­
fondimenti relativi alle nevrosi e all’omosessualità,
acquisiti da psicoterapeuti psicanaliticamente alle­
nati. Colui che l’ha formulata, lo psichiatra olandese
Johan Léonard Arndt (1892-1965), ha integrato
un’ampia varietà di osservazioni e di approfondi­
menti di teorici precedenti, in particolare quelle di
Adler e del proprio maestro, Stekel. Arndt confermò
ed elaborò un certo numero di osservazioni di Ste­
kel, quali: «Egli [l’omosessuale] è infelice, senten­
dosi condannato dalla propria sorte alla sofferenza»;
«Non ho mai visto un omosessuale sano o felice»;
«[egli è] un eterno bambino... che lotta con l’adul­
to»7. Introducendo il principio dell’autocommisera­
zione, Arndt non ha affatto cancellato le osservazio­
ni dei suoi predecessori, ma le ha completate in una
sintesi che tiene anche conto di altri rilevanti ele­
menti di osservazione, raccolti da autori contempo­
ranei dai più svariati orientamenti teoretici. L’omo­
sessuale, egli diceva, al pari di altri pazienti nevroti­
ci, può essere posseduto da una struttura interiore
che si comporta autonomamente come l’io infantile,
un bambino che è costretto a indulgere all’autocom­
miserazione. Avendo scoperto questo meccanismo
dapprima in molti casi di nevrosi dalle manifestazio­
ni non chiaramente sessuali8, egli si convinse gra­

58
dualmente del suo ricorrere in persone nevrotiche di
ogni genere, e alla fine lo riconobbe anche negli
omosessuali9.
Arndt fu impressionato dal cronico lamento infan­
tile nella persona nevrotica adulta, dalla sua persi­
stenza e resistenza al cambiamento, egli impiegò la
nozione freudiana corrente di «repressione» per
spiegare la fissazione di reazioni di afflizione e di
autocommiserazione dell’infanzia, come pure il loro
carattere autonomo e ripetitivo. Per Freud, l’impor­
tante concetto di repressione era intimamente legato
a un’altra nozione essenziale: quella di inconscio10.
Già nella sua prima pubblicazione sull’isterismo,
scritta in collaborazione con Joseph Breuer11, Freud
ha ipotizzato che le intense emozioni che possono
aver luogo come reazione alle frustrazioni, a volte
non vengono elaborate, ma soppresse a viva forza, in
modo che vengono allontanate dalla coscienza con­
sapevole; però esse conservano la loro piena intensi­
tà emotiva nell’inconscio. Breuer e Freud si riferiva­
no soprattutto alle emozioni di afflizione, con le loro
collaterali manifestazioni di lacrime, sospiri e stizza.
Arndt identificò il nocciolo della reazione di affli­
zione come autocommiserazione. Egli ipotizzò che
questa emozione fosse stata rinchiusa nell’incon­
scio, costringendo poi il nevrotico a sottostare conti­
nuamente agli impulsi di autocommiserazione, sen­
za poterli riconoscere come tali. La terapia di questa
condizione dovrebbe logicamente consistere nel ren­
dere conscia l’autocommiserazione inconscia di
quel «bambino che sta dentro e si lamenta». In que­
sto modo essa perderebbe il suo potere compulsivo
sulla mente.
Io all’inizio ho aderito alla teoria di Arndt12, ma i

59
miei dubbi su di essa crescevano col passare degli
anni, finché l’ho rifiutata. Innegabilmente, la «re­
pressione» può render ragione di parecchi fenomeni
che abitualmente incontriamo in psicoterapia; per
esempio, vediamo il ben noto fenomeno della resi­
stenza ad ammettere la propria autocommiserazione
proprio al momento in cui essa è in atto. Perciò
possiamo dire che qualcosa si oppone al riconosci­
mento consapevole dell’autocommiserazione. Co­
munque, penso che questo «qualcosa» sia ampia­
mente equivalente a un certo «orgoglio ferito». Inol­
tre, il processo di superamento di una nevrosi, nella
fattispecie di una nevrosi omosessuale, viene meglio
descritto come una combinazione della conquista
della propria autocoscienza e della lotta su ampio
fronte contro il proprio infantilismo, una volta rico­
nosciuto. Non è tanto lo sblocco delle repressioni
che è responsabile del cambiamento, quanto il gra­
duale allentarsi di abiti emotivi di tipo infantile pro­
fondamente radicati, quali l’autocommiserazione e
le reazioni a essa associate. La caratteristica più
impressionante della personalità nevrotica è il suo
essere incentrata in sé stessa, e la sua autocommise­
razione ne è forse l’aspetto più saliente. La conquista
di una maturità emotiva equivale ampiamente a una
diminuzione dell’egocentrismo.
Sono perciò convinto che la ripetitività nevrotica e
la resistenza al cambiamento si comprendono me­
glio come effetti della formazione di un abito o come
una certa «dipendenza» dall’autocompassione e da
tendenze intrinsecamente collegate all’autocommi­
serazione. Senza uno sforzo deliberato da parte della
persona nevrotica, inteso ad acquisire la conoscenza
di sé e a combattere la propria autocommiserazione,

60
quest’ultima tende a trovare la propria soddisfazione
e in tal modo a rafforzarsi. Superare una nevrosi
significa rompere i legami che ci legano all’auto­
commiserazione. La concezione freudiana di repres­
sione nell’inconscio e lo stesso concetto di inconscio
mi sembrano troppo romantici. Concordo con quanti
non credono all’esistenza dell’inconscio freudiano:
la sua esistenza non è stata empiricamente provata13.
Negli scorsi decenni, parecchi altri eminenti psi­
coterapeuti hanno studiato l’omosessualità da un
punto di vista psicodinamico; le loro osservazioni e
parecchie delle loro concezioni teoretiche costitui­
scono un contributo altamente qualificato, che non
viene confutato dalla presente teoria. Alcuni nomi
preminenti sono quelli di Karen Horney14, H. S.
Sullivan15, dello psichiatra e neurologo francese
Marcel Eck16 e degli psichiatri newyorkesi Charles
Socarides17 e Lawrence Hatterer18. Il libro di Hatte-
rer merita una speciale menzione. Egli non vi co­
struisce una teoria generale, ma descrive piuttosto
una procedura pragmatica per la cura degli omoses­
suali di sesso maschile. Egli descrive parecchi esem­
pi verificati in suoi pazienti di reazioni comporta­
mentali ed emotive, quali sensazioni d’inferiorità,
idolizzazione del partner omosessuale e tendenza a
sentirsi vittima. Queste e altre osservazioni di feno­
meni incontrati nel corso della terapia sono di note­
vole valore e si inquadrano perfettamente nella teo­
ria dell’autocommiserazione.
I sostenitori della teoria che ipotizza la normalità
della omosessualità oppongono che chiunque conti­
nui a credere che si tratti di una condizione perturba­
ta, più specificatamente di una nevrosi, cioè di un
tipo di disturbo emotivo, è irreparabilmente arretra­

61
to. L’idea che questo disturbo possa essere superato
sarebbe un’ancor più grave espressione di concezio­
ne obsoleta. Quei sostenitori sembrano ignorare che
proprio la loro alternativa è stata superata dai tempi.
In effetti, essi si rifanno sempre, implicitamente o
esplicitamente, a qualche teoria della «inerenza»:
esattamente il punto di vista del secolo XIX. Gli
approfondimenti delle peculiarità emotive delle per­
sone che hanno questo problema e la sua identifica­
zione come nevrosi sono recenti, come pure lo sono
alcuni metodi di cura.
Benché il concetto di nevrosi sia indispensabile
nella pratica clinica e vi sia un ragionevole consenso
sulla diagnosi di una nevrosi nei singoli casi, non è
stato possibile individuare uno strumento diagnosti­
co oggettivo per la sua misurazione. I tentativi fatti
con test «oggettivi» di carattere fisiologico e psico­
logico per distinguere i nevrotici dai non-nevrotici
sono stati finora privi di successo19. I ricercatori
devono perciò fidarsi della sola prova «soggettiva»
che abbia successo: il questionario, che, con le paro­
le di uno dei ricercatori più quotati, «può essere
affidabile per dare una chiara distinzione tra i sog­
getti normali e i nevrotici»20. Comunque, con i più
svariati test e nei più diversi Paesi e gruppi socio-
economici, i ricercatori hanno trovato gli stessi risul­
tati: i gruppi di omosessuali figurano a un punto
decisamente più alto delle scale che misurano la
nevrosi rispetto ai controlli21. Questa correlazione
fornisce una buona evidenza scientifica a favore del
carattere nevrotico della omosessualità. Questi studi
comprendevano gruppi in situazioni cliniche — co­
loro che avevano già cercato qualche forma di psico-
terapia — e persone che erano altrimenti integrate

62
nella vita della società22.
È mia convinzione che chiunque cerchi di affron­
tare con apertura mentale le pubblicazioni di ricerca
fisiologica e psicologica esistenti deve ammettere
che la più adeguata interpretazione dell’omosessua­
lità deve essere l’idea di una variante di nevrosi. Il
fatto che oggi sembra che relativamente pochi socio­
logi e cultori di altre scienze umane accettino questa
conclusione, che viene quasi del tutto ignorata dal­
l’opinione pubblica, è da imputare alle predominanti
tendenze libertarie favorevoli all’omosessualità, che
censurano ogni idea non gradita. Questo è spiacevo­
le e paradossale allo stesso tempo, poiché è proprio
durante gli ultimi decenni che un atteggiamento fa­
talistico sulla modificabilità dell’omosessualità è di­
ventato più che mai ingiustificato.
Ho scritto questo libro dopo più di vent’anni di
studi sulla omosessualità e dopo aver trattato più di
225 uomini omosessuali e una trentina di donne
lesbiche alla luce della teoria dell’autocommisera­
zione. A parer mio, la teoria secondo la quale l’omo­
sessualità è una forma di autocommiserazione ne­
vrotica è molto più che una nuova sintesi elaborata
su materiale vecchio: è un effettivo progresso rispet­
to alle concezioni precedenti. La corretta compren­
sione della natura di questo male è ben più di un
esercizio accademico: rappresenta la speranza che
quanti sono imprigionati dall’assioma prevalente
che l’omosessualità sia innata e immutabile possano
essere aiutati a diventare emotivamente più maturi.

63
Note

1 A lfred A d l e r , Dos Problem der Homosexualitàt,


Reinhardt, Munich 1917.
2 W. STEKEL, Onanie und Homosexualitàt, Urban &
Schwarzenberg, Vienna 1921.
3 W. S t e k e l , Psychosexueller Infantilismus, Urban &
Schwarzenberg, Vienna 1922.
4 E. B er g l er , Homosexuality: Disease or Wày of
Life?, Hill & Wang, New York 1957.
5 I. Bieber e altri, Homosexuality: A Psychoanalytic
Study, Basic Books, New York 1962.
6 Alcuni studi che fanno riferimento a questi fattori
sono: R. B. E v a n s , Childhood Parental Relationships of
Homosexual Men, in «Journal of Consulting and Clinical
Psychology», 33 (1969), pp. 129-135; J. R. S n o r t u m e
altri, Family Dynamics and Homosexuality, in «Psycho-
logical Reports», 24 (1969), pp. 763-770; N. L. T h o m p ­
s o n e altri, Parent-Child Relationships and Sexual Iden-
tity in Male and Female Homosexuals and Heterosexuals,
in «Journal of Consulting and Clinical Psychology», 41
(1975), pp. 120-127; W. G. S t e p h a n , Parental Relation­
ships and Early Social Experiences ofActivist Male Ho­
mosexuals and Male Heterosexuals, in «Journal of Ab­
normal Psychology», 82 (1973), pp. 506-513; M . S ie g e l -
m a n , Parental Backgrounds of Male Homosexuals and
Heterosexuals, in «Archives of Sexual Behavior», 3
(1974), pp. 3-18; G. J. M. v a n d e n A a r d w e g , Defaktor
«kllagziekte», neurose en homofilie, in «Psychologica
Belgica», 13 (1973), pp. 295-311.
7W. S t e k e l , Onanie und Homosexualitàt, d t.
8 J. L. A r n d t , Zelfdramatisiering, Stenfert Kroese,
Leiden 1950.
9J. L. A rndt , Een bijdrage tot het inzicht in de homo-

64
sexualiteit, in «Geneeskundige Bladen», 3 (1961), pp.
65-105.
10 P. M a d is o n , Freud’s Concept of Repression and
Defense, University of Minnesota Press, Minneapolis
1961.
11J. B r e u e r - S. F r e u d , Studien tiber Hysferie, D eu tic-
k e, V ienna 1895.
12 G. I. M. v a n d e n A a r d w e g , A Grief Theory of
Homosexuality, in «American Journal of Psychiterapy»,
26 (1972), pp. 52-68.
13 D . S. H o l m e s , Investigations of Repression, in «Psy­
chological Bulletin», 81 (1974), pp. 632-653.
14 K a r e n H o r n e y , Ourlnner Conflicts, Norton, New
York 1975.
15 H a r r y S t a c k SULLIVAN, The Interpersonal Theory
of Psychiatry, Norton, New York 1953.
16M. E c k , Sodome: Essai sur l’homosexualité, Anthè-
me Fayard, Paris 1966.
17 C h a r l e s W. S o c a r id e s , The Overt Homosexual,
Gmne and Stratton, New York 1968; Id e m , Homosexua­
lity, Aronson, New York 1978.
18 L. J. H a tter er , Changing Homosexuality and thè
Male, McGraw-Hill, New York 1970.
19Per quanto concerne i tentativi di stabilire un test del
genere, vedi: H. J. EYSENCK, The Scientific Study ofPer-
sonality, Routledge & Kegan Paul, London 1952; Id e m ,
The Dinamycs of Anxiety and Hysteria, Routledge &
Kegan Paul, London 1957; Id e m , Experiments in Perso-
nality, 2 voli., Routledge & Kegan Paul, London 1960; H.
J. E y s e n c k - G. W. G r a n g e r - J. C. B r e n g e l m a n n ,
Perceptual Processes and Mental Illness, Chapman and
Hall, London 1957; R. B. C a tt ell , Personality and Mo-
tivation Structure<and Measurement, World Book Com­
pany, New York 1957; R. B. C a t t e l l - 1. H. S c h eier , The

65
Meaning and Measurement of Neuroticism and Anxiety,
Ronald Press, New York 1961. Un esempio di un simile
questionario, in H. J. E y s e n c k , Dimensions in Persona­
lity (Routledge & Kegan Paul, London 1947), si è dimo­
strato non efficace, secondo quanto verifica G. Clarid -
GE, The Excitation-Inhibition Balance in Neurotics, in
Experiments in Personality, a cura di H . J. E y s e n c k , 2
voli., Routledge & Kegan Paul, London 1960.
20 H . J. E y s e n c k , The Scientific Study of Personality,
cit.
21Esistono molti questionari di questo tipo, chiamati di
solito questionari «di nevrosi»: numerosi test graduati o
sottoquestionari del Minnesota Multiple Personality In­
ventory (mmpi): W. G. B a h l s t r o m - G. S. W e l s h , An
m m pi Handbook, North Publishing Company, St. Paul
1960; il m as: J. A. T a y l o r , A Personality Scale ofMani-
fest Anxiety, in «Journal of Abnormal and Social Psycho­
logy», 48 (1953), pp. 285-290; il Comell Medicai Index:
K. B r o d m a n - A. J. E r d m a n - 1. L o r g e - C. P. G e r h e n -
SON - H. G. W o l f f , The Cornei Medicai Index Health
Questionnaire III: The Evaluation of Emotional Distur­
barne, in «Journal of Clinical Psychology», 8 (1952), pp.
119-124; numerosi test graduati del Sixteen Personality
Factor Test (16 p f): R. B. C a t t e l - G. F. SnCE, Handbook
ofthe Sixteen Personality Factor Questionnaire, Institute
for Personality and Ability Testing, Champaign (Illinois)
1957; del Maudsley Personality Inventory (MPl): H. J.
E y s e n c k , Manual ofthe Mausdley Personality Invento­
ry, University of London Press, London 1959; dell’Ey-
senck Personality Inventory (epi): H. J. E y s e n c k - S. B.
G. E y s e n c k , Marnai ofthe Eysenck Personality Invento­
ry, University of London Press, London 1964. Sono stati
chiamati con vari nomi, ma gli studi analitici dei singoli
fattori hanno dimostrato che sono tutti così strettamente

66
correlati che possono essere correttamente considerati più
o meno identici, dato che misurano il medesimo fattore
generale di nevrosi o di emotività nevrotica. A. W. B e n -
DIG, Factor Analyses of «Anxiety» and «Neuroticism»
Inventories, in «Journal of Consulting Psychology», 24
(1960), pp. 161-168; H. J. E y s e n c k - S. B. G. E y s e n c k ,
Personality Structure and Measurement, Routledge &
Kegan Paul, London 1969; J. P. G u il f o r d , Factors and
Factors of Personality, in «Psychological Bulletin», 82
(1975), pp. 802-814.
221 test che confermano questo risultato hanno impie­
gato I’mmpi, il 16 p f, Empi, P ep i, il «Neuroticism Scale
Questionnaire» ( n s q ) e il «Maudsley Medicai Question-
naire» (m m q). Fra gli studi che concernono gruppi clinici
di omosessuali (quelli già in corso di trattamento) cito: G.
J. M . v a n d e n A a r d w e g , Homofilie, neurose en
dwangzelfbeklag, Polak & Van Gennep, Amsterdam 1967
(Olanda, mmpi e mpi); W. A. O l i v e r - D. L. M o s h e r ,
Psychopathology and Guilt in Heterosexaul and
Subgruops of Homosexual Reformatory Inmates, in
«Journal of Abnormal Psychology», 73 (1968), pp. 323-
329 (Usa, mmpi); R. B. C a t t e l l - J. H. M o r o n y , The
Use of 16 PF in Distinguishing Homosexuals, Normals,
and General Criminals, in «Journal of Consulting Psy­
chology», 26 (1952), pp. 531-540 (Australia, 16 PF); A.
W. V e r m e u l- v a n M u l l e m , Het voorkomen van de zoge-
naamde homosexuele signs in de Rorschachtest, rapporto
di ricerca non pubblicato, Gemeente Universiteit, Depart­
ment of Psychology, Amsterdam 1960 (Olanda, mmq);
M. P. F e ld m a n - M. J. M a c C u l l o c h , Homosexual Be-
haviour, Therapy and Assessment, Pergamon Press, Ox­
ford 1971 (Gran Bretagna, 16 PF e EPl). Gli studi che si
riferiscono a gruppi non-clinici di omosessuali sono: R.
B. C a t i e l l - J. H. M o r o n y , The Use of 16 p f in Distin-

67
guishing Homosexuals, Normals, and General Criminals,
cit.; W. T. D o id g e - W. H. H o lt z m a n , Implications of
Homosexuality among Air Force Trainees, in «Journal of
Consulting Psychology, 24 (1960), pp. 9-13 (Usa, MMPl);
R. B . D e a n - H. R ic h a r d s o n , Analysis of m m p i Profiles
of Forty College-educated Overt Male Homosexuals, in
«Journal of Consulting Psychology», 28 (1964), pp. 483-
486 (Usa, mmpi); L. J. B r a a t e n - C. D. D a r l i n g , Overt
and Covert Homosexual Problems among Male College
Students, in «Genetic Psychology Monographs», 71
(1965), pp. 269-310 (Usa, MMPl); M. M a n o s e v it z , Early
Sexual Behavior in Adult Homosexual and Heterosexual
Males, in «Journal of Abnormal Psychology», 76 (1970),
pp. 396-402 (Usa, mmpi); Id em , Education and m m p i -m f
Scores in Homosexual and Heterosexual Males, in «Jour­
nal of Consulting and Clinical Psychology», 36 (1971),
pp. 395-399 (Usa, mmpi); R. B. E v a n s , Sixteen Persona-
lity Factor Questionnaire Scores of Homosexual Men, in
«Journal of Consulting and Clinical Psychology», 34
(1970), pp. 212-215 (Usa, 16 p f); M. SlEGELMAN, Ad­
justment of Male Homosexuals and Heterosexuals, in
«Archives of Sexual Behavior», 2 (1972), pp. 9-25 (Usa,
NSQ); Idem , Psychological Adjustment of Homosexual
and Heterosexual Men: A Cross-national Replication, in
«Archives os Sexual Behavior», 7 (1978), pp. 1-11 (Gran
Bretagna, NSQ); H. P. LlONG A KONG, Neurotische labili-
teit en homofilie bij mannen, rapporto di ricerca non
pubblicato, Vrije Universiteit, Department of Psychology,
Amsterdam 1965 (Olanda, mpi); E. S b a r d e li n i - E. T.
S b a r d e lin i, Homossexualismo masculino e homos-
sexualismofeminino: Neuroticismo efatores psicológicos
na infància, rapporto di ricerca non pubblicato, Universi-
dade Católica, Department of Psychology, Campinas, Sào
Paulo 1977.

68
5. IL COMPLESSO D’INFERIORITÀ
DELL’OMOSESSUALE

Un bambino è per natura incentrato su sé stesso.


Egli ha la sensazione che il suo «io» sia la cosa
centrale e più importante del mondo. Perciò, egli è in
primo luogo focalizzato su sé stesso. Detto altrimen­
ti, ha un forte senso dell 'importanza dell’io. Come
conseguenza di questo essere incentrato su di sé, il
bambino paragona continuamente sé stesso agli altri
(con gli altri come sono realmente, ma in particolare
con gli altri come li vede nella concezione soggettiva
che ne ha). Quando il risultato di questo paragone è
negativo, il che accade facilmente, egli se ne sente
urtato: raggirato, offeso, meno amato e oggetto di
minor rispetto e apprezzamento di quanto lo sono
altre persone, reali o immaginarie. Se il bambino,
con il suo grande bisogno di affetto e di apprezza­
mento, si sente sufficientemente valutato, è contento
e felice. Analogamente, egli è contento se si sente

69
privilegiato a paragone di altri o, in ogni caso, tratta­
to almeno come loro, dagli uomini e dalla sorte.
Comunque, come ho rilevato, il bambino ha una
forte inclinazione a vedere sé stesso come meno
privilegiato, meno amato, collocato in una posizione
meno favorevole.
Proprio perché è tanto desideroso di apprezza­
mento, egli rimane profondamente deluso da ogni
mancanza di affetto o di apprezzamento, reale o
immaginaria che sia. In tal caso ha la sensazione che
il proprio valore come persona decada; tende allora
a vedersi come di minor valore a paragone di altri,
magari come privo di valore.
L’innata importanza dell’io nel bambino gli fa
sopravvalutare certe esperienze accidentali in cui
avverte di essere meno apprezzato e gli fa anche
sopravvalutare il significato di «essere» meno valido
in certi particolari aspetti della sua personalità. Il
fatto di essere «da meno» in qualche aspetto secon­
dario della sua personalità o delle condizioni genera­
li di vita, lo fa ben presto diventare ai propri occhi un
essere globalmente inferiore. Per lui, l’idea o la pro­
pria immagine, per esempio, di «essere grasso», «es­
sere meno apprezzato di mio fratello», «essere bal­
buziente», «essere figlio di un padre di umile condi­
zione sociale» o di «essere una frana a scuola» coin­
volge l’intera persona. Allora egli può sentirsi infe­
riore sotto tutti gli aspetti, come se l’inferiorità par­
ziale si fosse espansa sull’intera sua personalità. È
questa la ragione per cui, di regola, l’essere apprez­
zato in un aspetto della personalità non esclude
un’inferiore immagine di sé in qualche altro aspetto.
Il sentirsi inferiore implica pensare che gli altri
non ti possano amare a causa della tua mancanza di

70
valore; che non ti accettino veramente, così che tu
non appartieni veramente a loro. Reazioni emotive
che ne conseguono sono, tra le altre: vergogna, soli­
tudine, autodisprezzo e, naturalmente, tristezza o
rabbia.
Il senso d’inferiorità può derivare dal paragone
con gli altri (lo stesso bambino è, per così dire, il
primo a costruirseli) e anche dalle critiche prove­
nienti dagli altri, in special modo dai genitori e dai
membri della famiglia, in secondo luogo dai compa­
gni di giochi e da altre persone significative al di
fuori dell’àmbito familiare, come gli insegnanti. Col
passare del tempo, quando un senso d’inferiorità
viene rafforzato dal ripetersi di esperienze esterne o
interne percepite dal bambino (o dall’adolescente
per quanto concerne il nostro tema) come analoghe
a quelle originarie, può diventare cronico. Esso di­
venta una convinzione profondamente radicata sulla
propria identità (il proprio «io»), come un assoluto,
un’immagine negativa di sé che incomincia a vivere
una vita per conto suo. Una volta avviato, esso di­
venta resistente a nuove esperienze modificatrici e a
nuovi apprendimenti. Esso è rigido e autonomo; tut­
to l’affetto e l’apprezzamento del mondo non sem­
bra capace di averne ragione. È per questo che viene
chiamato complesso d'inferiorità. Per meglio com­
prendere la peculiarità di questo fenomeno dobbia­
mo soffermarci alquanto su un’importante reazione
emotiva che si sviluppa di fronte a un complesso
d’inferiorità e che di fatto ne è parte essenziale; si
tratta della reazione emotiva primitiva all’io offeso
di un bambino o di un adolescente: la compassione
di sé stesso.
Se un bambino o un adolescente, arrivato a sentirsi

71
inferiore e a vedersi non apprezzato o escluso, potes­
se accettare la propria condizione, la propria suppo­
sta minore importanza, egli sicuramente proverebbe
dispiacere per la privazione di amore, per il disprez­
zo, per le deficienze che ha notato in sé stesso, ma
mediante la sua accettazione la pena diminuirebbe in
breve tempo; ricupererebbe il proprio equilibrio in­
teriore e il gusto per la vita. È difficile peraltro
immaginare un simile tipo di reazione in bambini o
in adolescenti, a motivo del loro innato senso d’im­
portanza del proprio io. La relativizzazione di sé non
è tra gli attributi della mente di un bambino.
L’io del giovane deve perciò necessariamente rea­
gire con una emozione incentrata su sé stesso e viene
ossessionato dall’autocompassione: «Come faccio
pietà! Non mi amano, non mi stimano, ridono di me,
non mi vogliono accettare», e via di questo passo. E
pensando a sé stesso, cioè vedendo sé stesso nella
propria mente come una povera creatura, egli co­
mincia ad avere un’intensa pietà per quell’essere
sofferente. Egli sente pietà di sé allo stesso modo in
cui sentirebbe pietà per altre persone che vede soffri­
re e meritare pietà. Le affermazioni «sono odioso,
malvisto, debole, buono a nulla, rifiutato, svantag­
giato rispetto a mio fratello o a mia sorella» implica­
no un «povero me!».
L’autocompassione è la compassione rivolta verso
sé stessi. Forse non c’è esperienza o percezione tanto
efficace nel suscitare l’autocompassione di un'bam­
bino quanto l’idea che «io sono solo, sono meno
apprezzato». L’autocompassione richiama più che
mai l’attenzione della persona, le sue energie menta­
li, verso sé stessa. L’io vuole confortare sé stesso con
la propria autocommiserazione, che è essenzialmen­

7?
te un tipo di amore: un tipo di amore di sé. L’io del
bambino vuole trattare sé stesso come un povero
caro, come tratterebbe un altro che vedesse merite­
vole di compassione.
Mediante l’autocommiserazione egli fornisce a sé
stesso il calore, si compiange, vuole proteggere e
vezzeggiare sé stesso e si sente in diritto di ottenere
compensazioni confortanti. L’autocompassione si
esprime a parole (compassionandosi) e in lamenti
interiori, lacrime e sospiri; appare evidente dal tono
lamentoso della voce, dalle espressioni del viso e
dagli atteggiamenti del corpo. Quasi sempre l’auto­
commiserazione genera emozioni di protesta, sia
sotto forma di collera, di ostilità, di ribellione o di
amarezza, in quanto il bambino si sente trattato in­
giustamente.
A un più attento esame, appare chiaro che quello
che comunemente viene designato come complesso
d’inferiorità (seguendo la descrizione di Adler) è
esattamente l’autocompassione cronica di chi si sen­
te inferiore. Rendo merito allo psicanalista olandese
Johan Arndt di avere dimostrato come opera quel­
l’emozione universale, e vorrei dire tanto umana,
che è l’autocommiserazione.
Ogni caso di complesso d’inferiorità è anche un
caso di autocommiserazione cronica1. Senza questa
autocommiserazione, le sensazioni di inferiorità non
avrebbero così dannose conseguenze. Arndt chiamò
l’autocommiserazione dei bambini e degli adole­
scenti «autodrammatizzazione», perché il bambino
sente e vede sé stesso come una persona importante
degna di compassione: «La mia sofferenza è unica».
La consapevolezza di sé diventa consapevolezza del
«povero me».
Il bambino autocommiserante nell’adulto

Espressioni di autocommiserazione (come il pian­


gere e il lamentarsi, cercare conforto e compassione)
possono creare sollievo e aiutare ad assimilare le
esperienze che hanno causato la pena (il trauma).
Bambini e adolescenti che si sentono soli con le loro
sgradevoli sensazioni per un lungo periodo di tem­
po, sovente non aprono la loro anima davanti a una
persona fidata; si vergognano oppure credono che
non ci sia nessuno che li possa comprendere. Come
risultato, essi continuano ad alimentare la loro auto­
commiserazione dentro di sé.
I bambini non si fermano facilmente, una volta
che sono partiti: questo vale per parecchie emozioni
e comportamenti, come pure per l’autocommisera­
zione di un bambino o di un adolescente. Una volta
che essi si sentono tristi per sé stessi, tendono a
perseverare in questa tristezza e persino a vezzeg­
giarla, poiché l’autocommiserazione ha il dolce ef­
fetto inerente alla compassione: il conforto. Può es­
sere molto gratificante il sentire sé stesso come il
povero caro, incompreso, rifiutato e abbandonato.
Sotto questo aspetto vi è qualcosa di totalmente am­
bivalente nell’autocommiserazione e nell’autodram-
matizzazione.
Un’autocommiserazione ripetutamente alimenta­
ta nel bambino e nell’adolescente può generare una
dipendenza dall’autocompassione. Detto in altre pa­
role, diventa un abito autonomo di intima commise­
razione.
Questo stato emotivo della mente è descritto dalla
formulazione: «Il bambino (o l’adolescente) auto­
commiserante nell’adulto». La personalità del «po­

74
vero me» dell’infanzia (o dell’adolescenza) della
persona sopravvive nella stessa forma; l’intera per­
sonalità infantile è ancora in quella persona.
Ci sono quindi tre concetti che per la maggior
parte si sovrappongono: complesso d’inferiorità,
bambino nell’adulto e abitudine all’autocommisera­
zione (chiamata anche «malattia lamentosa»). Sono
ampiamente descritte le evenienze a cui va soggetta
la mente di un nevrotico in generale, cioè di chi è
affetto da svariate esitazioni, emozioni ossessive,
immotivate sensazioni di insicurezza e conflitti inte­
riori.
I lineamenti più importanti della personalità ne­
vrotica derivano dalle formulazioni di cui sopra. In
primo luogo, vediamo il protrarsi di modelli com­
portamentali infantili e puerili. In qualche modo,
uno può rimanere, sotto il profilo psicologico, il
bambino o l’adolescente che era; questo comprende
gli specifici desideri, sensazioni, lotte e modi di
pensare del bambino. Comunque non tutto del bam­
bino viene conservato nell’adulto con il complesso.
La maturazione della personalità è seriamente com­
promessa solamente in quelle zone in cui le frustra­
zioni infantili hanno operato, in altre parole, là dove
hanno avuto origine l’autocommiserazione e il senso
d’inferiorità. In altri campi la persona può essere
psicologicamente maturata. Nei casi in cui il «bam­
bino lamentoso» prevale —, la lamentosità spinge in
modo prepotente — l’intera personalità risulta im­
matura, «infantile».
L’omosessualità è appunto un tipo di nevrosi. La
persona che soffre di questo complesso ospita in sé
uno specifico «bambino che si commisera». Per que­
sto Bergler ha potuto osservare: «A cinquant’anni,

75
egli [l’uomo con inclinazioni omosessuali] si trova
emotivamente negli anni dell’adolescenza»2.
Un secondo lineamento nevrotico è la tendenza
alla propria commiserazione — abitualmente mani­
festa, ma in alcune persone piuttosto occulta — così
acutamente descritta da Arndt. Il nevrotico grave
manifesta in modo molto evidente la necessità di
commiserarsi; egli sembra continuamente alla ricer­
ca — e le trova — di ragioni di autocompassione e
di autocommiserazione; magari sentendosi cronica­
mente oggetto di ingiustizia, o sempre frustrato o
sempre sofferente per qualcosa. Le sue lamentele
possono consistere in qualsiasi cosa negativa: sensa­
zioni di delusione, di essere lasciato solo, di essere
incompreso, di mancanza di stima, di carenza di
amore, di disagio fisico, di dolori, e così via. Sembra
che la mente del nevrotico non possa fare a meno
della sensazione di autocompassione, di autodram­
matizzazione; perciò, tutto questo lo si può vedere
come una «dipendenza» oppure, il che è lo stesso,
come una compulsione alla commiserazione. Il ri­
sultato è che, nel nevrotico, la normale fiducia in sé
stesso, la sicurezza e la gioia di vivere sono seria­
mente compromessi.
Un’altra frequente caratteristica del nevrotico è un
infantile desiderio di attenzione, di approvazione e
di simpatia, oltre che una frequente spinta all’autoaf­
fermazione. L’aspettativa di stima e di calore del
bambino che sta dentro di lui è inesauribile ed è
imperniata su sé stesso come quella di un bambino
vero e proprio. In molti modi questo io infantile può
cercare di essere importante, interessante, attraente
per gli altri, al centro dell’attenzione sia nella vita
reale sia nella propria immaginazione.

76
Un ultimo aspetto da rilevare è l’atteggiamento
mentale egocentrico. Una gran parte della coscienza
psichica può essere occupata o imperniata sull’in­
fantile «povero me!». Per usare un paragone: il
«bambino commiserante nell’adulto» vezzeggia e ha
cura di sé stesso come una bambina pietosa maneg­
gerebbe una bambola che vede come una povera
cosa. Ogni sentimento di amore per le altre persone,
basato su un genuino interesse per loro, viene bloc­
cato da un nevrotico atteggiamento compulsivo in­
centrato su sé stesso, cresciuto più o meno sponta­
neamente.

Il complesso d’inferiorità omosessuale

I tipi di complesso d’inferiorità e le varianti del


«bambino intimamente commiserante» sono innu­
merevoli. Uno di essi è il complesso d’inferiorità
omosessuale. Perciò, a parte lo specifico sintomo del
desiderio omosessuale, l’omofilia non è un fenome­
no isolato, ma uno della serie innumerevole di pro­
blemi nevrotici.
Abbiamo rilevato che le sensazioni d’inferiorità si
possono manifestare in parecchi settori della cosid­
detta sfera della personalità individuale. Il bambino
o l’adolescente che è turbato da fantasie e da interes­
si omoerotici ha un senso d’inferiorità concernente
la propria identità sessuale o «gender identity», cioè
il fatto di essere maschio o femmina. Allora il ragaz­
zo si sente inferiore a paragone di altri ragazzi con
riferimento alle loro qualità di ragazzi: resistenza,
risolutezza, attitudini sportive, ardimento, forza o
aspetto maschio. Una ragazza si sente inferiore a
paragone di altre ragazze quanto alla propria fem­
minilità negli interessi, comportamenti o aspetto fi­
sico. Si possono dare varianti a questa regola, ma le
linee generali sono inconfondibili. Fondamentale in
questo senso d’inferiorità è la consapevolezza di non
appartenere realmente al mondo degli uomini o delle
donne, di non essere uno dei ragazzi (uomini) o una
delle ragazze (donne).
Nella maggior parte dei casi questa autoimmagine
d’inferiorità emerge nella prepubertà e nella pubertà,
fra gli otto e i sedici anni, con un picco fra i dodici e
i sedici. In quello che sarà poi un adulto con orienta­
mento omosessuale, il tipo specifico di infantile o
puerile «io autocommiserante» rimane sempre vivo,
con il suo corredo di antiche fantasie e frustrazioni,
e della propria immagine degli altri.
Il nostro punto di partenza è stato un senso d’infe­
riorità, cioè la sensazione di non appartenere al mon­
do degli uomini o delle donne. Qualche volta queste
sensazioni sono pienamente coscienti: il bambino le
può esprimere come quel ragazzo di dieci anni che
più di una volta si commiserava con sua madre,
quando le parlava contrariato dei suoi rapporti con
gli altri ragazzi a scuola: «Sono proprio così debo­
le!» (me lo raccontò la madre quando venne per
discutere l’omosessualità del figlio). Altri giovani
possono avere le stesse sensazioni senza esserne
chiaramente edotti; essi possono rendersene conto a
distanza di anni: «Guardando all’indietro, mi rendo
conto che mi sono sempre sentita disadattata e non
attraente a paragone delle altre ragazze» osservava
una donna lesbica, «ma non me ne sono mai perfet­
tamente resa conto».
Consapevoli o meno, i bambini e gli adolescenti

78
soffrono per questo senso di inferiorità che li rode.
Spesso essi non ammettono questa sofferenza senza
vergogna davanti a sé stessi, poiché il riconoscimen­
to consapevole delle proprie inferiorità può essere
un’esperienza penosa, che urta il proprio io, l’amor
proprio o l’importanza dell’io infantile.
Il senso d’inferiorità di un bambino o di un adole­
scente può distoreere l’immagine che ha delle altre
persone, alcune delle quali possono sembrare supe­
riori a lui. Nel caso del ragazzo, altri ragazzi e giova­
notti gli possono sembrare più mascolini o più forti.
Nel caso della ragazza, altre ragazze e certe donne le
sembrano più femminili, più belle, più aggraziate,
più vicine all’ideale femminile. In questo modo di
vedere, possono prevalere le caratteristiche fisiche
degli altri; in altri casi, invece, i loro atteggiamenti e
comportamenti. In questo modo, i membri dello
stesso sesso, e più specificamente alcuni di essi,
vengono idealizzati e persino idolatrati.
Una certa misura di idealizzazione di persone del­
lo stesso sesso è normale durante la preadolescenza
e l’adolescenza. I ragazzi di quell’età sono ammira­
tori di sportivi, eroi, avventurieri, pionieri: uomini
pieni di coraggio, di forza e di successo sociale. Si
sentono attratti da esempi di uomini dominatori: vi­
gore mascolino e audacia riscuotono una forte con­
siderazione presso di loro. Perciò può accadere che
essi ammirino ragazzi un po’ più grandi, che sono
già «più uomini» di quanto non lo siano loro, e li
vogliano imitare. Da parte loro, le ragazze nutrono
un particolare interesse per gli attributi di grazia e di
femminilità di altre ragazze e di donne che sono già
più mature di loro: ne ammirano la facile socievolez­
za, la grazia femminile.

79
Mascolinità e femminilità: stereotipi culturali?

A questo punto non possiamo evitare di fare per


inciso alcune considerazioni sull’opinione di moda
che rifiuta le idee tradizionali di mascolinità e fem­
minilità e i corrispondenti «modelli di ruolo» come
semplici prodotti della cultura. Secondo questa opi­
nione, la cultura tradizionale ha fatto il suo tempo e
perciò viene fortemente scoraggiato 1’«indottrina­
mento» dei bambini con gli stereotipi del ruolo lega­
to al sesso. In realtà, per la nostra spiegazione del­
l’omosessualità non è decisiva la risposta al quesito
se i modelli della mascolinità e della femminilità
siano dati per natura. Le sensazioni omosessuali, di
fatto, provengono dal sentirsi deficiente nella pro­
pria mascolinità o femminilità come percepita dal
bambino (o dall’adolescente) nella sua comparazio­
ne con gli altri. Perciò, in senso stretto, è irrilevante
se questa mascolinità o femminilità sia relativa in
quanto dipendente da abiti culturali arbitrari oppure
sia parte dell’eredità biologica dell’uomo, o ancora
sia l’una e l’altra cosa insieme.
Tuttavia, l’ipotesi prevalente oggi di una fonda-
mentale equivalenza dei sessi può confondere un
retto giudizio sui comportamenti da deviazione ses­
suale. Inoltre, i sistemi che ne derivano di educazio­
ne egualitaria di bambini e bambine danneggiano
seriamente il loro normale sviluppo emotivo in ge­
nerale e il loro sviluppo sessuale in particolare.
In realtà, la teoria dell’equivalenza è insostenibile.
In tutte le culture e in tutti i tempi e ovunque nel
mondo, uomini e donne differiscono gli uni dalle
altre per diverse dimensioni fondamentali del com­
portamento. L’interpretazione più plausibile di que­

80
sto dato di fatto è l’ereditarietà. Ragazzi e uomini
sono ereditariamente più equipaggiati, rispetto alle
ragazze e alle donne, di un orientamento al «dominio
sociale», a esercitare l’autorità nella vita sociale3;
essi sono i «lottatori» nei diversi significati della
parola; e sono anche più orientati all’oggetto nel loro
modo di pensare. Le donne invece sono più orientate
alle persone, reagiscono più fortemente agli stimoli
emotivi e sono emotivamente più espressive. Non è
una mera questione di apprendimento di stereotipi
tradizionali il fatto che esse siano più premurose e
provino una maggiore «empatia» emotiva. Chi vo­
lesse approfondire questo argomento controverso
può leggere la sintesi di May delle ricerche su queste
differenze tra i sessi, effettuate su bambini di diverse
culture, compresa la nostra, su adulti e su alcuni
primati più altamente sviluppati che apparentemente
presentano le stesse diversità maschio-femmina4.
Perciò, i tradizionali ruoli ideali, oggi tanto vitu­
perati, dei ragazzi come «saldi» e «forti» e «domina­
tori», i «conquistatori del mondo», e delle ragazze
come soprattutto «premurose» e «affettuose» contie­
ne molto più che un granello di verità. Ciò non
significa che si debbano esagerare quelle differenze
psicologiche e neppure che si possano derivare da
esse rigide e assolute regole di comportamento con­
cernenti, per esempio, le concrete occupazioni e pro­
fessioni che siano più adatte alla natura innata di
uomini e donne. Ma vuol significare che è innaturale
assegnare gli stessi ruoli sociali e alterati ruoli com­
portamentali a ragazzi e ragazze (uomini e donne)
affinché li adempiano. E vuol dire che è innaturale
comportarsi come se differenti percentuali di uomini
e donne in un certo numero di professioni e di fun­

81
zioni fosse indice di «discriminazione» e di ingiusti­
zia sociale. Vuol dire inoltre che nell’educazione si
dovrebbe fare una chiara distinzione fra i ruoli asse­
gnati a ragazzi e ragazze. Non può essere cosa sag­
gia, né utile all’intera società, trascurare le evidenti
preferenze e doti per certe occupazioni e moli legati
al sesso e il non utilizzare capacità e doni collegati al
sesso.
La psiche umana è profondamente maschile o
femminile. Lo si può osservare in bambini educati
senza alcuna pressione in direzione dei moli corri­
spondenti al loro genere naturale. Per esempio, bam­
bini cresciuti piuttosto come bambine da una onni­
presente madre femminilizzante, con la quale essi si
identificavano o che imitavano, oppure bambini cre­
sciuti da genitori anziani in una situazione ambienta­
le che non incoraggiava un comportamento da ra­
gazzo: eppure essi amano in cuor loro le cose da
ragazzi, anche se il loro comportamento non è pro­
prio da ragazzi. Sovente essi ammirano gli altri ra­
gazzi che essi vedono come tipi maschili. Una ragaz­
za cresciuta con certi atteggiamenti sprezzanti nei
confronti delle cose da donne e del molo femminile
(«cucire e tutta quella roba da ragazze non fa per
me!») tuttavia può essere impressionata da altre ra­
gazze e donne che irradiano femminilità, ammiran­
dole dentro di sé. Più di una volta ho osservato che
donne che si scagliano contro il «ruolo femminile
oppressivo» in realtà si sentono inferiori nei con­
fronti di quello stesso ruolo. Esse invero ammirano
le donne che abbracciano liberamente la propria
femminilità.
Possiamo vedere tutto questo da un altro punto di
vista. Giovani uomini e giovani donne che sono

82
sereni, felici e liberi da conflitti interiori, non sembra
che abbiano mai dei problemi di ruolo. Essi sentono
un certo orientamento maschile o femminile nei di­
versi campi della vita come qualcosa di immediata
evidenza; e non hanno mai problemi con la «tradi­
zionale» relazione uomo-donna.
Tutto considerato, il più sano atteggiamento psi­
cologico consiste nel prendere le fondamentali diffe­
renze di comportamento dei sessi come punto di
partenza per costruire le reciproche relazioni tra uo­
mo e donna, dentro e fuori del matrimonio. In fun­
zione dei tempi e delle circostanze, le espressioni
concrete di queste relazioni possono in parte mutare,
senza mai abbandonare il modello stabilito dalla
natura. I ruoli dei due sessi sono complementari, in
conformità con la natura complementare dei doni
legati al sesso. L’abolizione forzata dei normali mo­
delli di comportamento legati al sesso, quando è
ispirata da frustrazioni nevrotiche o da un’errata
impostazione egualitaria, porrebbe in essere sola­
mente delle ipoteche improduttive sulle relazioni fra
i due sessi e non servirebbe alla realizzazione psico­
logica di alcuno.

L’omosessualità nello sviluppo sessuale

L’uomo ha una spinta naturale a identificarsi col


proprio sesso. Un ragazzo vuole appartenere al mon­
do degli altri ragazzi e degli uomini, una ragazza a
quello delle altre ragazze e delle donne. Il desiderio
di essere riconosciuto come uno dei ragazzi (o delle
ragazze) è innato anche in quei ragazzi e ragazze che
hanno un senso d’inferiorità nei confronti della loro

83
mascolinità o femminilità, rispettivamente.
Come abbiamo visto, un senso permanente d’infe­
riorità produce l’autocompassione e l’autodramma­
tizzazione. La penosa consapevolezza di essere di­
verso — in senso negativo — produce il desiderio di
essere riconosciuti e apprezzati da quegli altri che
sono stati idealizzati, per essere uno di loro. A volte
questo desiderio assume caratteri di bramosia. Ciò è
comprensibile in quanto si basa su una commisera­
zione di intensità infantile: «Povero me! Vorrei esse­
re come loro»; oppure: «Se solo uno di loro mi
notasse, si prendesse cura di me!». L’adolescente
triste che si compassiona cerca soprattutto un contat­
to: comprensione, conforto, compassione, affetto. A
questo si aggiunga che si sente solo e spesso non ha
facilità di rapporto con gli altri e sarà facile capire
che il desiderio di un amico ammirato può raggiun­
gere grande intensità. Ciò avviene in primo luogo
nell’immaginazione dell’adolescente. Egli può «in­
namorarsi» (in questo modo peculiare) di qualche
compagno della sua età, spesso di un giovane un po’
più grande. È di solito un amore a distanza. L’intima
tendenza emotiva è, in ogni caso: «Non si avvererà
mai! Non riuscirò mai a conquistare la sua attenzio­
ne e il suo amore». È un desiderio di calore e di stima
messo in moto dall’autocompassione, proprio nel­
l’età in cui si sta svegliando l’orientamento sessuale
finora indifferenziato. Una patetica necessità di ca­
lore può allora condurre a fantasie erotiche di intimi­
tà con qualche amico ammirato. In altri casi, l’incli­
nazione al contatto fisico e alla vicinanza fisica non
è completamente chiara all’adolescente stesso, ben­
ché egli possa in seguito rendersi conto che fosse
latente. Il guardare gli altri ragazzi e i giovani per

84
strada in modo intenzionale è forse il segno più
comune dello svegliarsi di interessi omoerotici. Egli
vuol toccare e accarezzare gli oggetti della sua am­
mirazione ed essere da loro accarezzato, stare vicino
a loro, intimizzare con loro, sentire la loro attenzione
per lui e il loro calore. «Oh se mi amasse!», anela il
ragazzo. L’estensione naturale di questa necessità di
calore e di amore è una bramosia erotica. Questo non
è strano come potrebbe apparire. In quel particolare
momento dello sviluppo psicologico che corrispon­
de alla preadolescenza e all’inizio dell’adolescenza,
l’istinto sessuale si trova nello stadio iniziale del suo
sbocciare, non essendo ancora arrivato alla sua meta
finale: il sesso opposto. Genericamente, è possibile
che un ragazzo, durante questa fase di graduale ma­
turazione delle emozioni sessuali, sviluppi senti­
menti e sensazioni erotiche orientate verso un mem­
bro del proprio sesso. Questo può accadere più facil­
mente nel caso di ragazzi o di ragazze che si sentono
già esclusi dalla compagnia degli altri o si sentono
soli e inferiori, desiderosi di calore. Allora il loro
ammirato interesse per le sembianze fisiche o le
caratteristiche della personalità di altri appartenenti
al loro stesso sesso assume una dimensione erotica.
I sogni erotici a occhi aperti o le fantasie della ma­
sturbazione sono allora imperniate intorno alle fig­
ure degli adorati appartenenti al proprio sesso e
compare il desiderio omosessuale.
Normalmente, un interesse temporaneo per mem­
bri del proprio sesso, a tinte più o meno erotiche,
passa quando il ragazzo o la ragazza, crescendo,
scopre gli aspetti sessuali molto più attraenti dell’al­
tro sesso. Comunque, questo interesse acquista una
speciale profondità nel caso del ragazzo che si auto-

85
commisera, che è sopraffatto da commiserazioni
d’inferiorità concernenti appunto la propria identità
sessuale. Per un tale bambino o adolescente, un con­
tatto fisico con qualcuno degli altri adorati diventa il
compimento dell’appassionata brama di amore e di
accettazione, il sommo della felicità. Un simile con­
tatto rimuoverebbe, nella mente del patetico adole­
scente, ogni interiore miseria, inferiorità e solitudi­
ne. In questo modo, durante l’adolescenza, può
crearsi un addentellato fra il desiderio di contatto di
un bambino che si sente meritevole di compassione
e l’erotismo.
La brama di una persona dello stesso sesso è pas­
siva, una ricerca di essere trattato con affetto. Non è
un’esperienza felice e gioiosa come quella dell’inna­
moramento normale: vi sottostà una sensazione di
disperazione, una sorta di pena. Questa richiesta di
amore è, in modo evidente, orientata interamente al
proprio io. L’amore omoerotico è incentrato su sé
stesso, è «narcisistico».
Le sensazioni omoerotiche, che compaiono più o
meno secondo le linee dello schema descritto sopra,
possono essere deboli alla comparsa, ma diventano
sempre più intense. Il rafforzamento è spesso causa­
to dalle accresciute sensazioni di solitudine. Il raf­
forzamento di fantasie erotiche nella masturbazione
può accrescerle considerevolmente. A un certo pun­
to, questo «bambino che si compassiona», imploran­
te sul piano erotico, diventa un’entità indipendente
nella vita emotiva, cioè quello che si chiama un
«complesso». È come se la mente avesse acquisito
una dipendenza da questa mescolanza di autocom­
passione e di brama erotica.
Molte persone con tendenze omosessuali percepi­

86
scono il proprio orientamento sessuale come un’os­
sessione, cronica o temporanea. Le loro sensazioni
sessuali assorbono spesso gran parte della loro atten­
zione, occupano la maggior parte dei loro pensieri,
più che negli eterosessuali. Gli impulsi omosessuali
hanno un effetto realmente compulsivo su di loro,
per cui somigliano ad altri disturbi nevrotici, quali le
fobie, le ansie ossessive e le nevrosi ossessivo-com-
pulsive. Essi rendono il paziente irrequieto. La forza
trainante di questa situazione compulsiva è l’insod­
disfazione inerente alla lamentata inferiorità. Ciò
rende il desiderio insaziabile, perché la stessa la­
gnanza ricorre in modo persistente.
Un rapporto o una relazione omosessuale non può
soddisfare o dare una certa felicità alFinfuori di una
soddisfazione emotiva di breve durata. Il donatore
ideale di calore esiste solamente nell’insaziabile fan­
tasia di chi soffre di questo complesso e pertanto non
lo si trova mai. Il sociologo tedesco Dannecker, che
si autodefinisce omosessuale, è incorso nelle ire del
movimento omosessuale quando ha esplicitamente
dichiarato che è un mito la «fedele amicizia omoses­
suale». Il mito, soggiunse egli cinicamente, può ave­
re una certa utilità per abituare la società al fenome­
no dell’omosessualità — l’altisonante «durevole
amicizia» si vende meglio —, ma ormai dovremmo
accettare il fenomeno nella sua effettiva realtà e
ottenere che le masse lo accettino. Questa realtà, egli
ammette, è che noi cerchiamo parecchi partners in
forza della nostra «inclinazione». Dannecker conva­
lida la propria affermazione con dati statistici sul
numero di partners di coloro che hanno tendenze
omosessuali in paragone con gli eterosessuali5.
Quanto egli afferma non è cosa nuova. Egli non fa

87
che confermare il carattere compulsivo dell’omoses­
sualità, la sua frenesia. L’omosessualità non è «gay»,
cioè gaia, gioiosa: è una psico-dipendenza.
Un esempio dell’inevitabile corso degli eventi sta
nella testimonianza di un uomo a inclinazione omo­
sessuale, che aveva pensato di avere finalmente tro­
vato, dopo anni di rapporti alla ventura, un amico
veramente amante per la vita: «Dapprima ho imma­
ginato di avere veramente trovato me stesso in sua
compagnia. Ero sicuro che l’irrequietezza che avevo
sempre avuto era determinata dalla necessità di un
amico fisso. Comunque, la cosa strana è che la stessa
irrequietezza è ritornata, e piuttosto presto. Ancora
una volta ho visto me stesso di fronte alla necessità
di indulgere a rapporti furtivi, nonostante la mia
buona relazione col mio amico (per un paio di
mesi)». La conclusione di quell’uomo è stata che
l’omofilia deve proprio essere una compulsione ne­
vrotica (peraltro non aveva deciso se volesse sbaraz­
zarsene).
Per ricapitolare: quello di cui inconsciamente
l’omosessuale va alla ricerca non è di trovare e di
godere, ma di dolere e soffrire per alimentare la
necessità di autodrammatizzazione.

Note

1J. L. A r n d t , Genese en psychotherapie der neurose,


2 voli., Boucher, The Hague 1962.
2E. B er g l er , Counterfeit Sex, Grane & Stratton, New
York 1958.

88
3S. G o l d b e r g , The Inevitability ofPatriarchy, Tempie
Smith, London 1977.
4 R. M a y , Sex and Fantasy: Patterns of Male and
Female Development, Norton, New York 1980.
5 M. D a n n ec k e r , Der Homosexuelle und die Homo-
sexualitàt, Syndikat, Frankfurt 1978.

89
6. ORIGINE E M ECCANISM I
DEL COM PLESSO OM OSESSUALE

Origine nell’uomo

Ci sono persone che sviluppano il complesso di


essere trascurate, altre di essere incomprese, altre
ancora di essere una frana, di essere incompetenti, di
non essere accettate, e così via. L’immagine della
propria inferiorità («io sono solamente ...») è inva­
riabilmente e strettamente accompagnata da auto­
compassione, dalla sensazione di «povero me!». È
tipico del complesso omosessuale il fatto che esso
concerne il senso d’inferiorità nel campo della pro­
pria identità sessuale. Perché alcuni sviluppano nella
loro giovinezza un complesso omosessuale e altri un
complesso d’inferiorità di tipo non sessuale?
Un ragazzo può arrivare a sentirsi meno maschio,
meno virile, quando è stato allevato in modo iper-
protettivo e iperansioso da una madre impicciona e

91
quando il padre ha avuto troppo poca importanza
nella sua educazione1. Nella maggior parte dei casi
la combinazione di questi due stili di educazione
materna e paterna ha creato la predisposizione allo
sviluppo del complesso omosessuale. Prima di pro­
seguire, dobbiamo fare una pausa per una breve
osservazione sulla questione della colpevolezza2.
Nel valutare le mancanze e deficienze di carattere
dei genitori in relazione ai loro figli può sembrare
che puntiamo il dito contro di loro; invece non è così.
In primo luogo e soprattutto, il nostro compito è di
natura psicologica e non morale, il che significa che
non facciamo altro che indicare certe relazioni osser­
vate tra genitori e figli, fra il comportamento dei
genitori e il comportamento dei loro figli che ne
consegue. In secondo luogo, le deficienze e debolez­
ze della personalità osservate in una certa parte dei
genitori di persone orientate all’omosessualità non
possono semplicisticamente essere loro imputate co­
me una colpa. Questi genitori spesso agiscono in
base a modelli dei quali difficilmente sono consape­
voli e non vedono con chiarezza come alcuni dei
loro modi di trattare un figlio possa danneggiarlo.
Inoltre, anch’essi sono in parte il prodotto della pro­
pria infanzia. Non giudico la loro libera volontà, e
quindi la loro responsabilità morale. Una certa misu­
ra di colpevolezza c’è, poiché nessuno può afferma­
re di essere stato completamente programmato dalla
propria educazione e dalle circostanze della propria
giovinezza. La dimensione della colpevolezza dei
genitori non può essere valutata, comunque, in misu­
ra diversa dalla dimensione della colpevolezza di
qualsiasi genitore in relazione ai suoi errori nell’edu-
care i figli. La natura delle nostre deficienze come

92
genitori può essere differente, ma tutti noi abbiamo
le nostre abitudini egocentriche e altre debolezze,
che ne siamo consapevoli oppure no. Perciò, benché
i genitori delle persone con inclinazione omosessua­
le possano avere la loro parte di colpa, essa sarà nella
media rispetto agli altri genitori.
Le persone con tendenze nevrotiche alla lamentela
hanno talvolta un atteggiamento di rimprovero per
quanto i propri genitori hanno inflitto loro. Ci si deve
render conto che questo può essere anch’esso un
altro tipo di lamentela. Per di più, quelle prolungate
lamentele a carico dei genitori — dei quali il sogget­
to che si lamenta si vede vittima — sono quasi
sempre basate su una visione non realistica dei geni­
tori. La visuale del bambino che si lamenta dei geni­
tori è per definizione una visuale infantile, condizio­
nata perciò da sensazioni incentrate sul proprio io.
Essa richiede una correzione se la persona deve
essere emotivamente più matura. I nevrotici omoses­
suali che si lamentano possono continuare così a
sentire e ad esprimere le loro lamentele nei confronti
degli atteggiamenti sbagliati dei loro genitori. Di
fatto questo serve ad alimentarne l’atteggiamento da
«bambino lamentoso» e quindi i legami infantili irri­
solti che essi possono avere con le loro madri e
padri, legami di attaccamento morboso come pure di
avversione.
Per i cristiani esiste un motivo in più per desistere
da una persistente lamentela sugli errori dei propri
genitori; essi comprendono di dover perdonare. Al­
cuni casi di pazienti a tendenze omosessuali dimo­
strano appunto che il progresso terapeutico può esse­
re bloccato dall’incapacità o dalla mancata volontà
di perdonare un genitore.

93
Un altro effetto dell’alimentare le lamentele infan­
tili sui genitori è che esso impedisce di assumere le
proprie responsabilità. In altre parole, il «bambino
lamentoso» che sta nel nevrotico e che proclama
«non posso farci nulla» non accetta la responsabilità
del proprio comportamento e inclinazioni.
Così siamo arrivati alla colpevolezza del nevroti­
co omosessuale. È responsabile della sua situazione?
Oppure è del tutto vittima della sua infermità, un
malato? La risposta deve evitare i due estremi. Il
nevrotico omosessuale è come qualsiasi altra perso­
na nevrotica, e nella fattispecie come ogni altro esse­
re umano: non completamente innocente. Tutte le
debolezze umane e gli abiti emotivi di un essere
umano medio — categoria alla quale appartiene chi
ha inclinazioni omosessuali — in parte si sono for­
mati perché gli si è dato corda. Questo vale anche
per l’autocompassione e l’autocommiserazione, abi­
ti di infantile autoaffermazione destinati a provare la
propria importanza, a richiamare l’attenzione, e così
via. Un certo grado di colpevolezza deve essere
presente se una persona incline all’omosessualità
asseconda troppo facilmente i propri impulsi, me­
diante la masturbazione o cercando dei rapporti; an­
cor più se giustifica il proprio comportamento e lo
caldeggia. Ma è tutto quanto possiamo dire sull’ar­
gomento. Vi è indubbiamente una buona parte di
automatismo in un complesso nevrotico, del quale la
persona non può essere ritenuta responsabile che in
parte e non totalmente. Questo è vero per tutte le
deficienze di carattere e della personalità (non pren­
diamo qui in considerazione le persone che sono
affette da vere malattie mentali, come gli schizofre­
nici).

94
I rapporti con i genitori

Nel 60-70% dei casi la madre, in un modo o


nell’altro, è stata eccessivamente «vincolante»: trop­
po preoccupata, iperprotettiva, ansiosa, autoritaria,
intrigante o proclive a viziare. Sovente essa ha vizia­
to il proprio figlio o ne ha fatto il proprio favorito e
confidente. Queste influenze hanno reso il ragazzo
dipendente e debole, ne hanno soffocato lo spirito
d’intraprendenza, il coraggio e la fiducia in sé stesso.
Una madre troppo preoccupata e ansiosa trasmette al
figlio il proprio atteggiamento di paura della vita;
una madre che vuole decidere ogni cosa al suo posto
lo rende abulico e privo d’iniziativa. I ragazzi alleva­
ti in questo modo manifestano ben poco di quel
briccone scavezzacollo che c’è in ogni ragazzo nor­
male; sono superobbedienti e inibiti.
Può anche accadere che un figlio diventi eccessi­
vamente attaccato alla propria madre per lo smodato
affetto — essenzialmente egocentrico — e l’adora­
zione di lei; questo lo mette in una posizione specia­
le. Allora è poco probabile che egli si allontani dalla
sua atmosfera vezzeggiante e sicura e comunque vi
ritorna al volo non appena il mondo esterno non lo
asseconda piacevolmente. Chi vuole un esempio de­
gli effetti dannosi di un simile infermiccio amore
madre-figlio dovrebbe leggere la vita del romanziere
francese Marcel Proust: persino da adolescente egli
scrisse delle lettere d’amore a sua madre, benché
vivessero nella stessa casa!
In certi casi l’amore della madre è in pari tempo
compulsivo. Per esempio, la madre minaccia attac­
chi isterici se il figlio non è carino con lei. In altri
casi essa impone sé stessa al figlio in un modo più

95
amichevole, ma pur sempre s’impone.
Per quanti tentativi di minimizzare vengano fatti
sulla difensiva da omosessuali militanti, nonché da
riformatori del sesso dall’atteggiamento liberistico,
è un fatto indiscutibile che le madri hanno occupato
un posto eccessivamente centrale nell’educazione
della vita emotiva di numerosi uomini omofili. Di
conseguenza, il ragazzo è diventato troppo dipen­
dente da lei e conserva immutato questo atteggia­
mento verso la madre nel suo intimo «bambino che
si compiange». Questo «bambino» tenderà a vivere
tale atteggiamento anche con altre donne quali im­
magini della madre. È così che alcuni sono rimasti «i
cari pupi della mamma», mentre altri continuano a
comportarsi verso di lei come «il bambinetto obbe­
diente e timoroso», il «ragazzo dipendente» e, qual­
che volta, come «il ragazzo represso e tiranneggia­
to». Questi legami con la madre sono malsani, rap­
presentano una grande inibizione a diventare uomo
adulto.
Dopo aver avuto un gran numero di colloqui, nel
corso della sua vita professionale, con uomini afflitti
da tendenze omosessuali, il ricercatore e terapeuta I.
Bieber scrive che neppure in un solo caso vi era stato
un normale rapporto padre-figlio3. Per lo più il padre
era rimasto «distaccato», non coinvolto nella vita di
ogni giorno e negli interessi del figlio. La mia espe­
rienza è esattamente identica. Un’analisi più appro­
fondita di una serie di fattori psicologici infantili in
un sottogruppo di 120 miei pazienti maschi con que­
sto problema, ha evidenziato due o al massimo tre
casi in cui il rapporto padre-figlio si potesse conside­
rare buono. Ma anche in questi casi il rapporto col
padre era a distanza. Il padre di uno degli uomini con

96
tendenze omosessuali era già vecchio quando lui era
un ragazzo, e in un altro caso il legame affettivo
padre-figlio mi è sembrato piuttosto superficiale.
Perciò siamo nel giusto se affermiamo che raramen­
te il rapporto padre-figlio è positivo: un uomo che
sviluppa un complesso d’inferiorità omosessuale ha
generalmente trovato in suo padre una immagine di
padre non sufficiente.
Il rapporto deficitario con il padre può aver avuto
diverse cause. Un padre psicologicamente distante a
volte trascura un figlio tra i più giovani in una fami­
glia piuttosto numerosa: l’interesse del padre può
essersi concentrato sui figli più grandi. In alcuni
casi, il padre considerava il ragazzo come un impe­
gno della moglie: l’esistenza di un legame esclusivo
madre-figlio può aver condizionato questo atteggia­
mento del padre.
Un esempio eloquente di una situazione simile è
quello del romanziere olandese Louis Couperus, vis­
suto agli inizi di questo secolo. Egli sviluppò un
complesso d’inferiorità per cui credeva di «essere un
inetto». Questa immagine di sé prendeva origine dal
fatto che si sentiva ferito dalla mancanza di stima da
parte di suo padre. Il padre aveva lasciato Louis, il
figlio più giovane, alle cure della madre e delle
sorelle maggiori e non lo aveva accettato nel proprio
mondo, che condivideva con i fratelli maggiori del
ragazzo4.
Alcuni padri erano troppo occupati per passare un
tempo sufficiente con la propria famiglia, e in parti­
colare con dei ragazzi. Un altro gruppo di padri era
formato dalle classiche «deboli personalità», essi
stessi non abbastanza mascolini, troppo dipendenti,
timorosi, a volte eccessivamente appoggiati sulle

97
loro mogli. Essi erano deboli come modelli di virili­
tà, così che i loro figli ebbero un modello deficitario
col quale identificarsi. Genitori relativamente vecchi
mancavano del dinamismo giovanile necessario allo
sviluppo dei propri figli. Essi non giocavano con
loro e non incoraggiavano le attività da ragazzi. Il
risultato fu che il comportamento dei loro figli di­
venne artificioso, simile a quello di un «piccolo
vecchietto».
In circa un quarto della mia casistica e di quella di
altri ricercatori, il figlio aveva del proprio padre un
concetto decisamente negativo. Il padre lo criticava,
non lo incoraggiava, così che questo figlio si sentiva
respinto dall’uomo più importante del proprio mon­
do. Il ragazzo può anche sentirsi urtato dal fatto che
suo padre lo paragoni continuamente ai fratelli e
sorelle. In una certa percentuale dei casi— probabil­
mente intorno al 20% — l’esperienza della ripulsa
da parte del proprio padre sembra essere stato il
fattore cruciale del trauma psichico, che fece sì che
il ragazzo si sentisse escluso dal mondo degli uomi­
ni.
Per un ragazzo, il proprio padre è il prototipo di
uomo. Il sentirsi apprezzato dal padre è essenziale
per la sua fiducia in sé stesso come uomo. La stessa
cosa vale per la ragazza nei confronti della madre.

Altre influenze

In media, l’influenza del fattore paterno mi sem­


bra sia più grande di quella del fattore materno. Le
possibilità di uno sviluppo omosessuale sono peral­
tro sostanzialmente accresciute in presenza di en­

98
trambi i fattori. Come regola, l’omosessualità ma­
schile è il risultato della combinazione delle defi­
cienze dei due genitori.
In relazione a questo, dobbiamo notare che in un
buon numero dei nostri casi esistevano dei problemi
profondi fra i genitori. Detti problemi erano general­
mente di questo tipo: a volte la madre era evidente­
mente la personalità più «forte», dominante fra i due,
che costringeva il marito ad appartarsi. A volte la
madre soffriva di essere trascurata dal marito e la sua
insoddisfazione la conduceva a essere più vicina a
uno dei propri figli. In genere, una donna ha la
tendenza naturale a fare di un uomo del suo ambien­
te il «suo uomo»; se non ha un legame emotivo col
proprio marito, essa può cercarne uno sostitutivo nel
legame con un figlio.
Naturalmente, possono aver luogo diversi tipi di
tensioni nella coppia. Essi hanno la loro origine in
svariate abitudini egocentriche e nelle modalità an­
cora infantili di agire e reagire che ciascuno di noi
porta nella vita matrimoniale. L’incidenza di relazio­
ni matrimoniali soddisfacenti è, comunque, statisti­
camente più bassa fra i genitori di persone inclini
all’omosessualità che non fra i genitori di figli che
non abbiano sviluppato questo complesso. Questo ci
aiuta a comprendere ancora una volta che l’omoses­
sualità non è un fenomeno limitato a chi ne è affetto,
ma è anche sintomo di uno squilibrio nella famiglia
e non raramente di discordia fra i genitori.
Viceversa, le personalità dei genitori, le loro rela­
zioni reciproche e con i figli, nonché la prassi attuata
nell’educazione dei figli stessi, non sono i soli fattori
predisponenti all’omosessualità. All’interno della
famiglia, alcuni dei seguenti altri fattori possono

99
contribuire a uno sviluppo del genere: posizione nel­
la serie dei figli, proporzione fra ragazzi e ragazze,
rivalità tra i figli o problemi esasperanti. Per esem­
pio, secondo certi studi, gli uomini con inclinazioni
omosessuali erano, più di frequente che gli eteroses­
suali, i figli più giovani di famiglia numerosa. Que­
sto suggerisce una maggiore iperprotezione da parte
della madre e forse un padre più anziano e più di­
stante. Alcuni uomini con questo complesso prove­
nivano da famiglie in cui prevalevano i maschi, si­
tuazione che può aver provocato nella madre la ten­
denza a trattare uno dei propri figli più come una
figlia. Un ragazzo potrebbe inoltre essere incorag­
giato a sviluppare questo complesso dal vedere sé
stesso come il più debole, il meno virile dei suoi
fratelli, come risultato del suo paragonarsi a loro, o
del loro modo di tormentarlo o di metterlo in ridico­
lo. Il fattore «essere tormentato» è stato estrema-
mente importante per un certo numero di persone
che ho visto affette da questo complesso d’inferiori­
tà. Il paragone con un certo fratello che veniva con­
siderato come più risoluto e più vigoroso sembra
essere stato, in altri casi, il fattore che ha fatto pen­
dere la bilancia nella direzione sbagliata.
Infine, dobbiamo mettere in rilievo l’influenza di
fattori predisponenti, quali l’immagine di sé stesso
come di essere brutto e fisicamente debole. Un ra­
gazzo può aver sofferto per un certo tempo per l’idea
di essere flaccido, malaticcio, asmatico, troppo bas­
so, troppo magro o troppo grasso. Queste immagini
di sé venivano percepite come varianti di un essere
«non-uomo», non forte e attraente come un maschio.
Il risultato del fattore parentale di cui sopra e di
altri fattori può essere una perdita di mascolinità nel

100
comportamento e negli interessi, e in particolare la
perdita della capacità di osare e della fiducia in sé
stessi nelle attività giovanili, come il lottare. Il ra­
gazzo rifugge da quelle attività dicendo: «Non sono
per me». Per esempio, le ricerche rivelano che la
maggior parte degli uomini con questo complesso
hanno avuto una dichiarata avversione infantile per
il gioco del calcio e altri giochi di gruppo. Detti
giochi sono più o meno l’incarnazione dell’attività
dei ragazzi nella nostra cultura; essi richiedono di
affrontare di buon grado la competizione con altri
ragazzi e un certo spirito di lotta, e sono indice della
capacità di adattamento al gruppo di coetanei5.
Il passo successivo nello sviluppo del complesso
omosessuale è decisivo. Si tratta del paragone che fa
il ragazzo fra sé stesso e i coetanei dello stesso
sesso. Se un ragazzo che ha alle spalle le influenze
familiari negative che abbiamo descritto riuscisse
tuttavia a oltrepassare la soglia delle attività dei ra­
gazzi e a entrare così nel loro mondo — magari con
l’incoraggiamento di altri, per esempio — il pericolo
di un’evoluzione omosessuale sarebbe scongiurato.
Ma le cose spesso non prendono questa strada posi­
tiva e, invece di conquistarsi una posizione fra gli
altri ragazzi, il ragazzo scoraggiato si ritira, oppresso
dalla sensazione di insufficienza e dall’autocompas­
sione. Se riesce a farsi un amico, si tratta di uno
spostato come lui; si sente solo ed emarginato. Non
di rado un ragazzo simile viene messo in burletta per
la sua mancanza di audacia, perché è «una ragazzi­
na», perché è «una zitella», e cose simili.
Parecchi sono passati attraverso un periodo di pre­
adolescenza o di adolescenza fatto di solitudine e di
depressione. Allora comincia il terzo passo nel pro­

ib ì
cesso che evolve. Il ragazzo sogna di essere come gli
altri e di avere un amico che sia simile a loro. Il
desiderio omoerotico di compassione e di conforto si
associa all’esordio delFautodrammatizzazione.
Sotto il profilo statistico, l’omosessualità è più
strettamente collegata a questi fattori di «adattamen­
to sociale», o «fattori di parità», piuttosto che ai
fattori concernenti i genitori o le situazioni familia­
ri6. Il dramma interiore di questi uomini quando
erano bambini o adolescenti era che non potevano
effettivamente sentire di far parte della comunità dei
ragazzi.

Origine nella donna

La situazione della ragazza che finisce per provare


un’attrazione omosessuale per altre donne è sotto
più di un aspetto l’immagine speculare di quella del
ragazzo. Peraltro, il paragone con l’immagine spe­
culare non è assoluto, dato che la varietà dei fattori
preparatori è spesso più ampia che nell’uomo7.
Quand’erano bambine, parecchie donne con incli­
nazioni lesbiche ebbero la sensazione di una man­
canza di comprensione da parte della propria madre.
Questa sensazione di distanza dalla madre ha parec­
chie varianti. Valga come esempio quanto una donna
ha sintetizzato: «Mia madre ha fatto di tutto per me,
ma ben difficilmente potevo parlare con lei delle mie
cose personali ed emotive». Altre lamentele raccol­
te: «Mia madre non aveva mai tempo per me»; «Mia
madre aveva molto più contatto con mia sorella che
con me»; «Essa sistemava ogni cosa in vece mia e mi
ha conservata una bambinetta»; «Era spesso mala­

102
ta»; «È stata ricoverata parecchie volte in un ospeda­
le psichiatrico»; «Ha abbandonato la famiglia
quand’ero ancora bambina»; e così via.
A volte la ragazza ha dovuto assumere lei stessa il
ruolo materno per il resto della famiglia essendo la
sorella maggiore, per esempio, o in casi in cui la
madre non funzionava a dovere come madre e que­
sto le ha fatto sentire la privazione del calore di una
madre che la comprendesse.
La madre può essersi sentita inibita nella sua rea­
lizzazione come donna o non essersi sentita a pro­
prio agio nel ruolo femminile. Questo ha ispirato un
atteggiamento critico, per esempio, verso quello che
essa vedeva come ruolo femminile e ha trasferito
quell’atteggiamento alla propria figlia. La ragazza
ha quindi sviluppato un atteggiamento di rifiuto ver­
so il proprio lato femminile. Alcune donne lesbiche
avevano l’idea che la loro madre avrebbe preferito
un maschio al posto loro e perciò hanno imitato
comportamenti e realizzazioni da ragazzo al posto di
quelli propri di una ragazza.
Alla fiducia di una ragazza in sé stessa come
donna contribuisce in primo luogo la madre. Quando
una madre riesce a far sì che sua figlia si senta
apprezzata come donna, la ragazza si sentirà a pro­
prio agio nel mondo femminile e fra le sue coetanee.
Nelle donne a tendenza omosessuale, molto spesso
la relazione con la propria madre non era personale
e confidenziale; non vi era partecipazione a interessi
femminili, nessuna attività svolta insieme nella sfera
femminile. Di conseguenza, la ragazza non si senti­
va valutata come una ragazza: vale a dire, diversa da
un ragazzo, ma altrettanto degna di valutazione.
Sembra anche che abbiano luogo considerevoli

103
variazioni nel modello delle relazioni padre-figlia.
Alcune donne a tendenze lesbiche erano eccessiva­
mente attaccate al padre come a un «amico specia­
le». A volte questo attaccamento era per loro più o
meno una forzatura in quanto il padre le voleva in un
ruolo specifico, così che la relazione non era natura­
le e scevra da coazione. A volte il padre avrebbe
preferito che quella figlia fosse un figlio, un compa­
gno, e stimolava in lei certi ruoli, interessi e realizza­
zioni da maschio. Egli dava un’importanza spropor­
zionata, per esempio, ai suoi risultati professionali a
scuola o alle sue prestazioni sportive o alle sue rea­
lizzazioni in importanti ruoli sociali. Comprensibil­
mente, la ragazza nel suo intimo si sentiva incom­
presa e non realisticamente accettata come la perso­
na che di fatto essa era.
In altri casi, il padre vedeva nella figlia l’appoggio
e il conforto di una figura materna. Egli aveva un
atteggiamento di lode nei suoi confronti e la metteva
in una posizione privilegiata, ma in realtà con questo
comportamento si comprava la sua dedizione a sé. Si
sono avuti anche padri dalla personalità debole, che
si appoggiavano eccessivamente alla propria mo­
glie. In tutti questi casi, i legami emotivi con il padre
rimangono fissati nell’«intima bambina del passato»
della donna lesbica adulta.
Invece altre donne con questo problema non erano
la «ragazza di papà», ma erano piuttosto, o tali si
vedevano, la figlia non desiderata e non accettata.
Essa era spesso da lui criticata, ne sentiva il disprez­
zo o almeno la mancanza d’interesse per lei. Com­
portamenti e interessi mascolini ipercompensativi,
in alcune di queste donne possono essere ascritti a
reazione verso questo atteggiamento di non accetta­

104
zione da parte del padre. Di conseguenza, la ragazza
ha imparato a vedere il ruolo maschile come supe­
riore e ha cercato di rivestirlo. Di nuovo, le sensazio­
ni negative verso il padre come pure gli sforzi ma­
scolinizzanti ipercompensativi, fatti allo scopo di
vivere al suo livello e di conquistarsi così il suo
apprezzamento, confluiranno nel complesso nevro­
tico.
Per concludere, una buona e normale relazione
padre-figlia è statisticamente meno frequente nelle
donne a tendenza omosessuale che in quelle a ten­
denza eterosessuale.

Altre influenze

In alcune donne, un complesso di bruttezza con


l’accentuazione del sentirsi meno femminile, meno
attraente come ragazza, può avere giocato una parte
come fattore precipitante. In altri casi lo era il para­
gone con una sorella, considerata (dalla ragazza
stessa o dal suo ambiente) come più attraente o
migliore sotto altri aspetti. In altri casi ancora, la
ragazza si sentiva inferiore rispetto ai suoi fratelli
— «sono soltanto una ragazza» —, e su questa base
ha cercato di emularli nella loro mascolinità. Nel­
l’adolescenza, il tipo di attenzione di cui è stata
oggetto da parte dell’altro sesso può aver creato il
suo punto dolente: «Non mi trovano attraente come
le altre ragazze», «Non mi danno appuntamenti», e
così via. Una ragazza che si sente meno apprezzata
dai ragazzi può arrivare ad ammirare la femminilità
di altre ragazze che sono più guardate. Alcuni fattori
predisponenti come quelli sopra ricordati di solito

105
co-agiscono e si rafforzano reciprocamente, sia nelle
ragazze sia nei ragazzi.
Una parte delle ragazze che successivamente ha
sviluppato un complesso lesbico si comportava ap­
punto in un certo modo meno da ragazza o meno da
donna rispetto alle coetanee; questo produceva in
esse un senso di insicurezza in fatto di femminilità,
con possibili reazioni ipercompensative, quali l’as­
sumere atteggiamenti di trascuratezza e indifferen­
za, di capeggiare e dominare, cercando di superare i
ragazzi in mascolinità, osando tutto, comportandosi
in modo aggressivo, essendo rustiche e dure. Esse
possono aver sviluppato un manifesto disamore per
i comportamenti, gli abiti e le attività domestiche
femminili. Questa autoaffermazione maschilista
ipercompensativa è comunque contrassegnata dalla
perdita della naturale dolcezza. È imo strafare: si può
percepire la sottesa tensione emotiva.
Con questo non si vuol dire che tutte le donne con
questo complesso tendano a comportarsi in modo
«maschile»; e neppure che le donne che assumono
quegli atteggiamenti debbano necessariamente ave­
re inclinazioni lesbiche; ma esiste una correlazione
fra questi due lineamenti. Comunque, un comporta­
mento eccessivamente maschile nelle donne è quasi
sempre segno di un complesso d’inferiorità.
Il fattore principale dello svilupparsi di un’incli­
nazione lesbica è il paragone che una ragazza fa con
le coetanee del medesimo sesso o con certe donne
«ideali» più mature. Come nel caso dei ragazzi, il
fattore cruciale è soggettivo, vale a dire, la percezio­
ne che la bambina ha di sé stessa. Per questa ragione,
talvolta, anche se non sovente, una ragazza il cui
comportamento sia oggettivamente del tutto femmi­

106
nile può sviluppare un simile complesso.
Nell’adolescenza, una ragazza vuole avere delle
amiche ed essere una di loro. La sua solitudine e il
suo senso di emarginazione produce la smania di
essere come le amiche ammirate o come alcune
figure di donna ideale. Se una ragazza si sente priva­
ta dell’affetto e della comprensione di sua madre, si
può volgere a un tipo ideale di donna che possiede ai
suoi occhi le caratteristiche materne desiderate: per
esempio, un’insegnate affezionata e accomodante o
una ragazza più grande che si presenta con atteggia­
menti materni. La ragazza che si autocommisera
vuole l’attenzione esclusiva del proprio idolo e le si
aggrappa: «Se solo volesse darmi il suo amore!»
«La lamentela di molte donne lesbiche era che ben
poche di esse avevano potuto trovare delle effettive
amicizie nella loro adolescenza», scrivono gli psico­
logi americani Gundlach e Riess nel loro resoconto
di una ricerca effettuata su oltre 200 donne social­
mente bene adattate che soffrivano di questo com­
plesso8. L’intima «bambina lamentosa» continua ad
alimentarsi degli stessi sentimenti che aveva in gio­
vinezza: inferiorità, solitudine, autocompassione e
un’insaziabile bramosia.

Note

1 Parecchi studi hanno confermato questo modello.


Vedi: I. B ie b e r e altri, Homosexuality: A Psychoanalytic
Study, Basic Books, New York 1962; R. B. E v a n s , Chil-
dhood Parental Relationships of Homosexual Men, in

107
«Journal of Consulting and Clinical Psychology», 33
(1969), pp. 129-135; J. R. S n o r t u m e altri, Family Dyna­
mics and Homosexuality, in «Psychological Reports», 24
(1969), pp. 763-770; N. L. THOMPSON e altri, Parent-
Child Relationships and Sexual Identity in Male and Fe-
male Homosexuals and Heterosexuals, in «Journal of
Consulting and Clinical Psychology», 41 (1975), pp. 120-
127; G. W. STEPHAN, Parenthal Relationships and Earìy
Social Experiences of Activist Male Homosexuals and
Male Heterosexuals, in «Journal of Abnormal Psycholo­
gy», 82 (1973), pp. 506-513; M. S ie g e l m a n , Parental
Backgrounds ofMale Homosexuals and Heterosexuals, in
«Archives of Sexual Behavior», 3 (1974), pp. 3-18; G. J.
M. VAN DEN AARDWEG, De faktor «klaagziekte», neurose
en homofilie, in «Psychologica Belgica», 13 (1973), pp.
295-311.
2L’autore ha trattato più ampiamente tale questione in
G. J. M. VAN d e n A a r d w e g , Parents of Homosexuals:
Not Guilty?, in «American Jourmal of Psychotherapy»,
38 (1984), pp. 180-189.
3 1. B ieber - T. B ie b e r , Male Homosexuality, in «Ca-
nadian Journal of Psychiatry», 24 (1979), pp. 409-422.
4G. J. M. v a n d e n A a r d w e g , De neurose van Coupe-
rus, in «Nederlands Tijdschrift voor de Psychologie», 20
(1965), pp. 293-307.
5 I. B ie b e r e altri, Homosexuality: A Psychoanalytic
Study, cit.; R. B. E v a n s, Childhood Parental Relations­
hips of Homosexual Men, cit.; N. L. THOMPSON e altri,
Parent-Child Relationships and Sexual Identity in Male
and Female Homosexuals and Heterosexuals, cit.; G. W.
STEPHAN, Parenthal Relationships and Early Social Ex­
periences ofActivist Male Homosexuals and Male Hete­
rosexuals, cit.; E. S b a r d e li n i - E. T. S b a r d e li n i , H o -
mossexualismo masculino e hossexualismo feminino:

108
Neuropeismo efatores psicológicos na infància, rapporto
di ricerca non pubblicato, Universidade Católica, Depart­
ment of Psychology, Campinas, Sào Paulo 1977.
6 È stato obiettato che deficienze del tipo di quelle
descritte nelle relazioni genitori-figli di persone a tenden­
ze omosessuali hanno luogo solamente in coloro che fan­
no ricorso allo psicanalista o allo psichiatra. Questo non è
vero. Come nel caso dei test sulla personalità (si vedano
più sopra le note al capitolo 4, nn. 19-22), le statistiche e
le osservazioni a questo proposito sono state realizzate su
gruppi di ogni tipo, ivi compresi campioni di omosessuali
socialmente bene adattati e che svolgono una normale
attività.
7 Fra gli studi sull’argomento cito: E. B e n e , On thè
Genesis of Female Homosexuality, in «British Journal of
Psychiatry», 111 (1965), pp. 815-821; E. K a y e e altri,
Homosexuality in Women, in «Archives of General Psy­
chiatry», 17 (1967), pp. 626-634; F. E. K e n y o n , Studies
in Female Homosexuality: Psychological Test Results, in
«Journal of Consulting and Clinical Psychology», 32
(1968), pp. 510-513; M. W. K r e m e r - A. H. R if k in ,
Early Development of Homosexuality: A Study ofAdole-
scentLesbians, in «American Journal of Psychiatry», 126
(1969), pp. 91-96; R . H. G u n d l a c h - B. F. R ie s s , Self
and Sexual Identity in thè Female: A Study of Female
Homosexuals, in New Directions in Mental Health, a cura
di B. F. Riess, Grane & Stratton, New York 1968; D. W.
SWANSON e altri, Clinical Features of thè Female Homo­
sexual Patient: A Comparison with thè Heterosexual Pa­
tient, in «Journal of Nervous and Mental Disease», 155
(1972), pp. 119-124.
8 R. H . G u n d l a c h - B. F. R ie s s , Self and Sexual
Identity in thè Female: A Study of Female Homosexuals,
cit.

109
7. COME AGISCE IL COMPLESSO
OM OSESSUALE

Quando si cerca di mettere a nudo la vera natura


dell’amore omosessuale si incontra spesso un’indi-
gnata resistenza. «Perché non mi si consente di di­
ventare felice così come son fatto?», è la drammatica
esclamazione facilmente prevedibile. La questione
comunque non è se sia o meno consentito, ma se sia
vivibile. Parecchie persone a tendenze omosessuali
non sono affatto disposte a privarsi dei propri senti­
menti illusori, come gli alcolisti o i tossicodipenden­
ti non lo sono di privarsi dei propri stimolanti.
Dall’esperienza clinica e dalla letteratura esistente
sull’argomento si possono delineare come segue al­
cune caratteristiche generali delle modalità con cui
si esplica il complesso omosessuale, sia negli uomini
sia nelle donne.
1. La ricerca di un amante è ripetitiva. Benché le
donne a inclinazione omosessuale abbiano in media

111
relazioni di maggior durata che gli uomini a tenden­
za omosessuale, in nessun caso le loro relazioni
durano più di qualche anno. La dipendenza nevroti­
ca dalle sensazioni di brame insoddisfatte — in altre
parole, la lamentela nevrotica — li tiene nei suoi
artigli e li costringe a correre dietro a sempre nuove
illusioni.
2. Il desiderio omosessuale è transitorio e superfi­
ciale. I desideri omosessuali e i desideri di calore e
di compassione a essi associati possono venire per­
cepiti come la cosa più bella e più profonda nella vita
di una persona. Già questo è un autoinganno. I sen­
timenti omosessuali, a volte esaltati come «puro
amore» e come amore più profondo di quello tra
marito e moglie, in realtà non hanno nulla a che
vedere con il vero amore. Si tratta di amori incentrati
su sé stessi. Questo «amore» è un chiedere, persino
un supplicare amore e attenzione. È un fatto eviden­
ziato dal modo in cui abitualmente finiscono le rela­
zioni omosessuali. Il partner serve a soddisfare le
necessità di un io infantile, ma non è realmente
amato nel suo essere. Come risultato, si può vivere
aggrappati al partner e allo stesso tempo provare in
realtà una profonda indifferenza per lui. È significa­
tivo che queste persone possano parlare delle loro
passate relazioni senza alcuna emozione, come bam­
bini che hanno buttato via un giocattolo al quale non
sono più interessati.
3. Le persone con inclinazione omosessuale, così
come altri nevrotici, soffrono di autocompassione
compulsiva. Non tutte esprimono la propria auto­
compassione e la tendenza all’autocommiserazione
con parole drammatiche e lamenti verbali. Quando
però si arriva a conoscerle un po’ meglio, diventa

112
quasi sempre chiaramente percepibile un sottofondo
di autocompassione. Tendono a pensare in termini di
problemi e timori; alcune sono evidentemente ipere-
motive; altre sono più del tipo lamentoso e piagnu­
coloso; altre sono ipercritiche nei confronti di sé
stesse e degli altri; alcune si lagnano regolarmente di
malesseri fisici (che drammatizzano), altre soffrono
di depressioni, passano con cadenze regolari attra­
verso «crisi nervose» o si lamentano della solitudine,
della propria apatia, delle proprie difficoltà nei rap­
porti umani, ecc. La vera allegria e l’autentica gioia
sono esattamente l’opposto di questa dolente infer­
mità. E vero che alcuni omosessuali recitano la parte
del burlone, del faceto, ma a un più attento esame
dietro questa recitazione si può riconoscere il bam­
bino depresso e che si compiange. Quello può essere
un modo puerile di attirare l’attenzione e l’ammira­
zione sull’io infantile. Vi è sempre una soggiacente
agitazione.
4. Le persone a inclinazione omosessuale hanno
una sorta di fame di attenzione, che si può incanala­
re in diversi modi. Possono aggrapparsi agli altri per
assorbire la loro attenzione. Possono presentarsi in­
consapevolmente come vittime e fare appello ai sen­
timenti di compassione degli altri per averne aiuto e
protezione. Alcune possono imporsi al proprio am­
biente; altre tiranneggiano l’ambiente come talvolta
fanno appunto i bambini. Anzitutto esse cercano
l’attenzione di un certo partner desiderato, ma que­
sta richiesta di attenzione può generalizzarsi come
un modo prevalente di mettersi in relazione con gli
altri.
5. Un'altra caratteristica universale del nevrotico
è l'essere incentrato su sé stesso. Ciò implica che

113
sentimenti e pensieri girino in gran parte attorno
all’io, e si diventa incapaci di un vero interesse e di
un vero amore per gli altri. «Mio marito consuma gli
altri del suo ambiente», mi ha detto una volta la
moglie di un uomo sposato omosessuale, «ma è
incapace di dare amore: non sa che cosa sia». Quan­
to più il complesso omosessuale è predominante
nella vita emotiva di una persona, tanto più questa
descrizione le si adatta.
6. Il «bambino che si commisera» nell’adulto
mantiene la vita emotiva di questi a un livello di
immaturità anche in altri settori, oltre a quello ses­
suale. L’infantilismo emotivo delle persone che han­
no un complesso omosessuale fanno sì che esse si
comportino e pensino come bambini, e in particolare
che reprimano la normale crescita emotiva, in una
misura che dipende dalla forza del complesso.
7. Il fatto di essere in parte rimasto bambino ri­
guarda anche il rapporto con i genitori. Perciò gli
uomini con questo complesso hanno più spesso un
certo «legame con la madre» o serbano un atteggia­
mento di rimprovero e ostilità verso il padre a moti­
vo di un «legame negativo con il padre». Inversa­
mente avviene per la donna lesbica. Il legame stabi­
litosi con i genitori può contenere elementi ambiva­
lenti: qualcuna può avere un rapporto di dipendenza
dalla madre e allo stesso tempo tendere ad attaccar
briga con lei per scaricare la propria irritazione nei
suoi confronti.
8. U «intimo bambino di un tempo» conserva at­
teggiamenti e sentimenti infantili nei confronti
dell’altro sesso. L’uomo omosessuale può continua­
re a detestare le donne allo stesso modo che l’adole­
scente in passato le vedeva come intruse nella pro­

114
pria vita o come rivali che gli volessero carpire i
compagni, o semplicemente come «quelle stupide
ragazze» saccheggiatrici del mondo dei ragazzi. Egli
può sentirsi ancora inferiore e timoroso di fronte a
loro, vergognandosi della propria scarsa virilità. Può
anche continuare a vedere certe donne come figure
protettrici, materne, premurose, e non come femmi­
ne adulte di esseri umani con le quali poter entrare in
relazione come uomo adulto. In modo analogo, la
«ragazzina che persiste nella donna lesbica» può
continuare a vedere gli uomini attraverso lenti defor­
manti per avversione, invidia, timore o fastidio.
9. Le persone con inclinazione omosessuale han­
no difficoltà ad accettare pienamente la propria
identità sessuale, la cosiddetta «identità di genere».
L’uomo sente le cose maschili come non pertinenti a
sé stesso; la donna lesbica si trova a disagio nelle
cose femminili. È tuttavia sbagliato pensare che, nel
proprio intimo, questi uomini si sentano donne o le
donne lesbiche si sentano uomini.
10. Infine, non è superfluo rilevare che un com­
plesso omosessuale è solo una parte della persona­
lità totale di una persona. Una persona come un
tutto è qualcosa di più della sua personalità infantile,
anche se è vero che alcune persone a tendenza omo­
sessuale possono impressionare proprio per la loro
immaturità. Se guardiamo più attentamente, scopria­
mo che ogni uomo o donna afflitto da omosessualità
ha parecchie qualità e tendenze da adulto. Per il fatto
che il nostro studio concerne la parte infantile della
loro personalità, possiamo dare l’erronea impressio­
ne che si tratti di persone totalmente malate. In real­
tà, lo psicoterapeuta tratta proprio con la parte adulta
della personalità omosessuale e ad essa in gran parte

115
fa riferimento; ed è proprio da questa parte che ci si
può aspettare una realistica visione di sé, la buona
volontà e altre energie terapeutiche. La parte adulta
della personalità è anche la più interessante delle
due: essa è viva, mentre l’aspetto infantile dell’io è
più simile a un meccanismo rigido e stereotipato.
Nella vita di tutti i giorni noi vediamo per lo più una
mescolanza degli aspetti maturi e di quelli infantili
della personalità.
La bisessualità deriva da questa struttura a doppia
personalità: l’inclinazione sessuale che deriva dalla
parte più adulta, quando essa si è sviluppata, si dirige
all’oggetto maturo della sessualità, cioè il sesso op­
posto. Il «bambino che si commisera», d’altra parte,
spinge la sessualità verso i suoi oggetti immaturi.
Poiché una parte della personalità bisessuale elide
l’altra, è evidente che l’eterosessualità di queste per­
sone non è completamente sviluppata.

116
8. LA VIA CHE PORTA
A L CAM BIAM ENTO

Una persona con tendenze omosessuali dovrebbe


costringere sé stessa ad avere interessi eterosessuali
o un comportamento eterosessuale? Sarebbe sba­
gliato affrontare l’argomento in questo modo. Se­
condo me, un certo sforzo personale sarebbe forse
auspicabile in un determinato senso: fare uno sforzo
onesto per cercare sé stesso, senza reprimere scoper­
te sgradevoli o distoreere certe realtà di cui, se lo si
vuole, ci si può render conto. In seguito, dopo aver
acquisito una certa visuale degli abiti nevrotici e
specialmente delle loro motivazioni (per esempio,
l’egocentricità), la persona con tendenze omoses­
suali deve affrontare la decisione di combatterli, o
almeno di contenerli.
Il processo di cambiamento mediante l’aiuto di
qualche forma di psicoterapia può portare a risultati
veramente soddisfacenti; comunque il venirne fuori
dipende da parecchie cose. I fattori che lo condizio­
nano sono: che il paziente sia motivato al cambia­
mento, la sua costanza, la sua sincerità con sé stesso,
l’intensità globale della sua nevrosi e le influenze
sociali, quali l’incoraggiamento da parte degli altri
(come antidoto al sentirsi solo, al non far parte di un
gruppo sociale). In linea di principio, è possibile un
reale e profondo cambiamento.
Secondo le relazioni di altri ricercatori che ho letto
e secondo le storie di alcuni ex-omosessuali che ho
ascoltato ed esaminato personalmente, a volte si ot­
tiene un cambiamento radicale con l’aiuto di un
«metodo» religioso. In ogni caso di effettivo cam­
biamento di cui sono a conoscenza, comunque, esso
ha avuto luogo dopo un lavoro relativamente lungo,
e solo in casi del tutto eccezionali è avvenuto in
modo improvviso, con l’aspetto di un miracolo psi­
cologico. Credo che il processo di crescita in tutti
questi casi abbia seguito grosso modo la stessa falsa­
riga, sia che vi abbia avuto parte la psicoterapia
oppure altre forme di aiuto. Nel prossimo capitolo
saranno presentati alcuni casi di guarigione avvenuti
senza una formale psicoterapia.
Il processo di cambiamento è paragonabile al sali­
re una scala della quale non sia chiaramente visibile
la fine: non si sa esattamente dove si andrà a finire,
ma ogni gradino superato significa miglioramento,
progresso. Anzitutto, non ci si deve troppo impres­
sionare di quanto lontano si potrebbe andare. Certa­
mente non è realistico vedere il matrimonio come lo
scopo ultimo per ogni persona con questo complesso
che entri in terapia. In teoria, l’essere emotivamente
maturo per il matrimonio (emozioni sessuali com­
prese) è lo scopo più perfetto. Questo può essere

118
spesso raggiunto, ma forse spesso non lo è, almeno
non entro un periodo di tempo anche piuttosto lungo.
Dovremmo sempre ricordare che il desiderio di spo­
sarsi di certe persone a tendenze omosessuali spesso
è motivato da lamentele infantili, come quella di non
essere come gli altri; pertanto il matrimonio è desi­
derato non in sé stesso, ma come una soluzione
infantile per mettersi alla pari con «loro». La lamen­
tela infantile sulla propria solitudine può essere
un’altra delle principali motivazioni del desiderio di
sposarsi. Per cominciare, l’attaccamento nevrotico
alla lamentela «io non sono sposato» deve essere
smantellato. La persona deve accettare totalmente la
propria situazione: sia la situazione interiore sia
quella sociale.
Il primo tratto della strada che porta al cambia­
mento consiste nell’uscir fuori dall’inclinazione
omosessuale. Ciò richiede di solito alcuni anni. Con
quanto esposto sopra sull’omosessualità, dovrebbe
essere chiaro che la compulsività del comportamen­
to omosessuale è solo parte di una complessa strut­
tura di tendenze comportamentali infantili. Ne con­
segue che la diminuzione dell’interesse omosessuale
va in parallelo con il calo graduale dei sentimenti
d’inferiorità e di autocommiserazione egocentrica.
Uno psicoterapeuta che abbia in cura qualcuno per
una nevrosi omosessuale dovrebbe cominciare
esplorando il passato del paziente, il suo modo di
vedere sé stesso, i propri genitori, i fratelli e i com­
pagni di giochi, nell’infanzia e nell’adolescenza, co­
me pure la sua storia omosessuale. Queste interviste
procurano allo psicoterapeuta un’idea globale della
nevrosi del paziente e quasi sempre un buon filo
conduttore sui suoi sentimenti infantili di sofferenza

119
più o meno compulsivi, come se venissero dall’e­
sterno del proprio io («Mi ha colto...», «Sono stato
assalito da...», ecc.). Ogni paziente impara a ricono­
scere il proprio «bambino autocommiserante» dalle
sue peculiarità individuali. La tematica principale
della commiserazione è specifica per ogni singolo
caso e ci sono sempre delle varianti individuali sul
tema principale di lamentela. Le lamentele principali
vengono ripetute nella mente dell’adulto.
Parecchie persone in cura per una nevrosi omoses­
suale arrivano a comprendere che nelle loro emozio­
ni trova attuazione una tendenza cronica all’auto­
commiserazione. Questa è chiaramente osservabile,
oppure possono vederla come un sottofondo emoti­
vo di segno negativo, che spesso svuota le sensazio­
ni e le esperienze positive. Queste persone si rendo­
no progressivamente conto che le loro sensazioni di
infelicità non traggono origine dai problemi della
loro vita, da situazioni esterne, o da altre persone,
bensì dalla forza negativa che sta dentro di loro.
Naturalmente, il paziente deve essere onesto con
sé stesso se vuole trarre vantaggio dal nostro metodo
di autosservazione e di autoanalisi. Non è lusinghie­
ro per l’io infantile di una persona dover continua-
mente ammettere che sentiva, pensava e agiva come
un bambino e, ancor più, che indulgeva all’autocom­
miserazione. Ammettere pienamente significa non
cercare scuse o spiegazioni, nessun «sì, ma», ed
evitare di accusare altre persone o «le circostanze».
Per superare la resistenza al pieno riconoscimento
delle sensazioni di «povero me!» il paziente deve
dare un’opportuna scrollata alla puerile importanza
che dà al proprio io. In questo modo, un passo dopo
l’altro, l’atteggiamento infantile di commiserazione

122
egocentrica assume evidenza e cala di tono come
costruzione teoretica.
Quando una persona ha acquisito introspezione,
inizia un periodo di lavoro e di sforzo. La parte
adulta della persona, la sua volontà, cerca in un
modo o nell’altro di arrestare le tendenze infantili
riconosciute, usando i metodi che sembrano appro­
priati. La forza del complesso diminuisce perché gli
abiti egocentrici di pensiero e di azione non vengono
più «alimentati» e, in particolare, perché viene com­
battuta l’autocompassione infantile.
Inevitabilmente, una benintenzionata persona a
tendenze omofile troverà sulla propria strada l’osta­
colo della dipendenza dal piacere. La tendenza omo­
sessuale è stata decisamente rafforzata in parecchie
di queste persone dal fatto che esse l’hanno soddi­
sfatta con un partner o nella loro immaginazione
(masturbazione). Per rompere l’abitudine di ricadér­
vi ci vuole non solo l’accertamento — pur sempre
necessario — del suo carattere infantile, ma anche
forza di volontà e pazienza. Il ricadere in questo
abito infantile di autoconsolazione può essere spe­
cialmente facile in certe occasioni, quali momenti di
affaticamento, di umiliazione, di senso d’inferiorità
o senso di solitudine.
Come abbiamo visto, la fantasia omosessuale era
nata come soluzione illusoria di un dramma interiore
e il piacere della sua soddisfazione spesso significa
molto di più che una semplice gratificazione sessua­
le. Come è abbastanza comprensibile, lo sforzo di
abbandonare queste puerili gratificazioni sessuali
(nella fantasia o nella pratica omosessuale) di solito
incontra notevole resistenza.
Se una persona vuole cambiare in profondità, cioè

123
crescere al di là del proprio infantilismo o «puerili­
smo», le si richiede un continuo sforzo di volontà. A
volte ciò significa semplicemente dire di no a ten­
denze riconosciute come puerili. Altre volte vuol
dire che devono essere fatte certe cose che costano
una buona dose di sforzo e un certo coraggio. Come
psicoterapeuta dedito in modo particolare a scoprire
espressioni di autocommiserazione, spesso alleno i
miei pazienti ad applicare alcune tecniche di umori­
smo, intese a neutralizzare le svariate manifestazioni
di questa fondamentale emozione nevrotica. Sorri­
dere e ridere dei propri infantili atteggiamenti di
«povero me!» e delle proprie infantili lamentele può
essere molto efficace nel minarne la virulenza. L’esi­
to di tali tecniche quale la «iperdrammatizzazione»
dell’autocompassione del bambino interiore dipen­
de comunque dalla volontà del paziente di usarle
nella vita quotidiana.
La lotta interna che dev’essere intrapresa sulla
parte nevrotica della mente implica contemporanea­
mente parecchie cose. Per esempio, si deve tagliare
con la ricerca di attenzioiier>smettere l’abitudine e
rifuggire con timore da una serie di situazioni e
comportamenti, smontare l’eccessiva indulgenza
verso sé stessi e l’autovezzeggiamento, correggere
le visuali distorte di sé e degli altri (passando da
quelle infantili a quelle più mature), guarire la dipen­
denza dall’intima commiserazione. Le lamentele di
minore intensità devono essere dominate con l’ac­
corgimento di interromperle di punto in bianco dopo
averle coscientemente riconosciute come lamentele
infantili. Tale accorgimento è efficace in parecchie
situazioni in cui la persona si rende conto di un
intimo atteggiamento negativo, piagnucoloso o sen­

124
timentale. Altre lamentele richiedono tecniche più
sofisticate. L’interesse per gli altri deve essere ap­
preso o rafforzato; dev’essere sviluppata la capacità
di amare e di donare. Un atteggiamento ironico nei
confronti di sé stessi può facilitare tutto questo. Chi
impara a trattare il proprio io infantile con sana
ironia, sminuisce in sé la seriosa sensazione della
propria importanza. Quanto meno questo io si sente
importante o degno di compassione, tanto più può
avere il sopravvento la personalità adulta e tanto più
il malcontento infantile cederà il posto a sentimenti
più fiduciosi e più lieti. La persona perde gradual­
mente la sensazione di essere un debole e si fa più
stabile, più ottimista, più serena.

Iperdrammatizzazione

Nella mia esperienza di psicoterapia ho avuto suc­


cesso applicando diverse tecniche di autoumorismo
per superare tendenze infantili, specialmente le ma­
nifestazioni di puerile autocommiserazione. Scopo
dell ’autoumorismo è di sostituire una lamentela con
il suo opposto, cioè un sorriso o una risata. In gene­
rale lo scopo è di neutralizzare l’importanza del
«bambino interiore». L’autoumorismo ha un grande
potere terapeutico: aiuta la persona a riconoscere
anche emotivamente e non solo razionalmente certe
distorsioni e sproporzioni nel proprio modo di pen­
sare e di comportarsi; esso è perciò un eccellente
antidoto contro svariati impulsi nevrotici. L’autou­
morismo, come l’umorismo in generale, è disarman­
te. La mera comprensione razionale e persino una
lucida osservazione delle proprie difficoltà ed emo­

125
zioni infantili — scopo dell ’autosservazione e del­
l’autoanalisi — non riescono a liberare chi soffre di
forme nevrotiche. Occorre il supporto di forze emo­
tive che possano controbattere le forti emozioni in­
fantili di autocommiserazione: la ricerca di attenzio­
ne, il desiderio di essere importante, ecc. L’emozio­
ne suscitata dal sorriso e dal riso ha la capacità di
raggiungere l’io infantile.
Il paziente che è capace di riconoscere il funziona­
mento del proprio «bambino interiore» nella vita di
ogni giorno può trarre vantaggio dalle tecniche del-
l’autoumorismo. Egli viene allenato ad applicarle
immediatamente, non appena abbia riconosciuto
un’espressione di commiserazione infantile. A que­
sto punto egli immagina il proprio «bambinetto»
stare di fronte a sé in carne e ossa, oppure nella sua
immaginazione vede sé stesso come il «bambino»
che era nel passato. Incomincia a parlare con questo
«bambino» allo stesso modo di chi compassiona un
altro in modo caricaturale. Dice al «bambino» quale
enorme compassione egli susciti; accumulando una
serie di ragioni fantasiose per le sue lamentele, fa
scorrere davanti agli occhi di questo «bambino» un
dramma amplificato (iperdramma) imperniato sulle
lamentele. Farò un rapido esempio per fornire i tratti
salienti di questa tecnica.
Un paziente omosessuale si è sentito oltraggiato
dal proprio capo, che gli aveva preferito un’altra
persona per rappresentarlo a un incontro di lavoro.
La sensazione di autocompassione verbalizzata era
la seguente: «Il mio capo mi ritiene privo di valore e
non mi considera affatto». Questa lamentela aveva
una ramificazione: un senso di gelosia per il proprio
collega. Dopo essersi reso conto che questo era il suo

126
«bambinetto» in azione, l’uomo iperdrammatizzò
come segue: «Poverino, hai dannatamente ragione
nel piangere a calde lacrime per questo torto. È stato
veramente un caso d’inaudita violenza contro un
bambino innocente. Tu, che lavori sempre instanca­
bilmente senza alcuna gratificazione, sei stato chia­
mato dal tuo capo con un urlo, come se stesse chia­
mando il suo cane. Tutto tremante, ti sei presentato
davanti a lui alla presenza dei tuoi colleghi, che
erano tutti seduti su comode poltrone. Uno, il Colle­
ga Preferito, era seduto su un seggio decorato in
modo tutto speciale, con un grosso e costoso sigaro
in bocca (un regalo del capo), e sorrideva con aria di
sufficienza mentre ti avvicinavi. A questo punto il
capo tirò fuori solennemente una pergamena, ne rup­
pe il sigillo e cominciò a leggere ad alta voce: “Con
la presente io sottoscritto dichiaro questo miserabile
disadattato (tu!) completamente inadatto a rappre­
sentarmi. Esprimo i sentimenti del più profondo di­
sgusto nei suoi confronti. Fortunatamente, però, c’è
da queste parti un Uomo di straordinaria superiorità
che compensa questo mucchio di stracci: il Collega
Y”. Allora tutti si complimentano con il Collega Y,
gli gettano fiori e stappano in suo onore delle botti­
glie di champagne, mentre deridono te e ti gettano
uova marce. Tu sei stato là, con la camicia inzuppata
di lacrime. Infine sei caduto sulle ginocchia e ti sei
trascinato fuori dalla stanza nel freddo della via,
dove piangi e le tue lacrime si confondono con la
pioggia battente...». Se necessario, l’uomo può con­
tinuare con la visione drammatica del trionfo del
proprio collega. Per esempio, si può figurare che
quel collega gli passi accanto in una Rolls Royce con
autista. Il commiserante, nei suoi abiti consunti e

127
logori, dovrà subire l’umiliazione che il collega apra
il finestrino e lasci cadere la cenere del proprio siga­
ro sulla sua testa.
Il paziente potè rendersi conto di quanto fosse
comprensibile che la sua sensazione di essere stato
oltraggiato fosse seguita dal desiderio omosessuale
come reazione autogratificante. Una possibile iper-
drammatizzazione per questo desiderio secondario,
frutto compulsivo dell’autocommiserazione, avreb­
be potuto essere la seguente: «Sì, ora hai realmente
bisogno di una cosa: che qualcuno ti dimostri con i
fatti un vero e caldo amore. Un caldo braccio intorno
alle tue spalle, due occhi maschili ma mossi da pro­
fondo sentimento che ti guardino con profonda com­
miserazione, un amico che bisbigli al tuo orecchio
che ti puoi sedere per sempre sulle sue ginocchia, il
tuo braccìno magro intorno al suo collo, mentre la
sua grande mano, pelosa e muscolosa, accarezza la
tua faccia di bambinetto malaticcio, ecc.». Il pazien­
te impara a costruirsi il proprio repertorio di storie e
scene iperdrammatiche e a usarle quando si rende
conto di una lamentela infantile.
Nella fantasia è possibile ogni cosa: può inventare
le situazioni più assurde assecondando il proprio
senso umoristico, purché esse si riferiscano diretta-
mente alla lamentela percepita. Egli impara anche a
formulare delle varianti e delle forme abbreviate di
questa tecnica. Per esempio, egli tratta il proprio
«bambino» interiore come «il mio povero ragazzo!»,
dicendo: «Quel rilievo critico che hanno fatto sul tuo
conto era una cosa schifosa! Ora il Presidente della
Repubblica proclamerà una giornata di Lutto Nazio­
nale a tuo favore!». Oppure, più semplicemente,
«Povero ragazzo! Questa sarà la tua morte!». Quan­

128
to più vivida egli vede davanti ai propri occhi la
scena immaginaria, quanto più egli vede caricatural­
mente degno di compassione il proprio «bambino»
all’atto della commiserazione, tanto maggiore è la
traccia che lascia tutto questo. Un’iperdrammatizza-
zione efficace fa sì che una lagnanza svapori, rapida­
mente o gradualmente. È consigliabile qualunque
procedimento possa suscitare il sorriso o il riso su
una lagnanza. Il metodo è applicabile persino con
manifestazioni di orgoglio infantile ipercompensa-
torio. Per esempio: «Sei proprio meraviglioso! La
tua azione (o rilievo, o relazione, ecc.) era da mozza­
fiato. Posso già vedere la statua che erigeranno qui,
proprio in questo posto: tu su un alto cavallo, come
Napoleone, con la mano abbandonata con noncuran­
za sul panciotto...». Per quanto possa sembrare faci­
le, mettere in pratica P autoumorismo richiede una
forte determinazione. Sorridere sul proprio io auto­
compassionevole è l’ultima cosa che si vorrebbe fare
nel momento in cui si è impastoiati da una lagnanza
infantile.

La guarigione

L’uscita dal complesso segue una certa linea. Dap­


prima diminuisce il carattere ossessivo delle emo­
zioni e dei comportamenti infantili. Depressioni, an­
sietà, timori, preoccupazioni, senso d’inferiorità e
desideri omosessuali si fanno più controllabili. La
fiducia in sé stesso, ivi compresa la fiducia nella
propria peculiare sessualità, va emergendo; il che
significa nient’altro che il «povero me!» del bambi­
no interiore diventa sempre meno importante; che la

129
persona non prende più troppo sul serio questo
aspetto dell’io. L’interesse omosessuale presenta a
lungo alti e bassi, ma viene sentito sempre meno
incombente. Svanisce in maniera poco appariscente,
in funzione della progressiva crescita di un’emotivi­
tà sempre più positiva e matura.
Il cambiamento nei confronti della sessualità de­
v’essere visto come parte del riorientamento emoti­
vo totale. Gli omosessuali che vogliono esser «cura­
ti» hanno spesso una visuale comprensibilmente ri­
stretta di che cosa dev’essere cambiato e tendono a
prestare attenzione quasi esclusivamente ai cambia­
menti nelle loro sensazioni sessuali. È vero che un
reale e profondo cambiamento sessuale rispecchia
anche il cambiamento in altri settori mentali, ma
l’effetto di una terapia o di un’autoterapia (quale è in
gran parte il nostro procedimento) non lo si deve
misurare anzitutto in termini strettamente erotici. I
cambiamenti nei sentimenti sessuali sono più o me­
no dei «sottoprodotti» e compariranno sicuramente
quando e a misura che il «bambino lamentoso» del
paziente sarà stato fatto morire di fame. Non è per-
tantoconsigliabile che lo psicoterapeuta e il paziente
fissino l’attenzione e facciano ruotare le conversa­
zioni sulla sessualità. Le misure decisive del cambia­
mento sono il livello di lamentela del paziente e del
suo generale infantilismo emotivo. Naturalmente,
ogni cambiamento in questi fattori esercita un’in­
fluenza nell’àmbito erotico, ma il rapporto ha un
carattere gerarchico: quanto più profondamente il
paziente cambia nelle dimensioni fondamentali del­
l’infantilismo e dell’autocommiserazione, tanto più
radicale sarà il suo riorientamento sessuale.
Si può dire che, forse nella maggior parte dei casi,

130
la persona passa attraverso uno stadio intermedio in
cui l’inclinazione omosessuale è ormai quasi inesi­
stente, ma l’eterosessualità non è ancora risvegliata.
Questo periodo intermedio può durare, in alcuni ca­
si, anche anni. La persona «scopre» l’altro sesso
gradualmente oppure all’improvviso, dopo il pro­
cesso di maturazione di quegli anni intermedi. Alcu­
ni si innamorano una o due volte e concludono con
il matrimonio; per altri occorre parecchio tempo pri­
ma che siano capaci di sostenere una relazione ete­
rosessuale durevole. Quindi l’intero processo è una
specie di autorieducazione. Generalmente passa per
alti e bassi, con ricadute occasionali. Possono esserci
dei momenti, e persino dei lunghi periodi, di perdita
di speranza. Il decorso del processo varia ampia­
mente nei particolari da un individuo all’altro.
Le persone a tendenza omosessuale, persino se
sono in via di principio volenterose di cambiare,
all’inizio hanno seri dubbi di avere realistiche possi­
bilità di un profondo miglioramento. Si tratta di
dubbi che si ripresentano periodicamente, nonostan­
te che i progressi siano chiaramente percepibili; essi
cessano solamente quando il cambiamento nei senti­
menti diventa del tutto evidente. I dubbi affiorano
ogni volta che queste persone ascoltano o leggono le
panzane correnti sull’omosessualità, come: «se sei
omosessuale, omosessuale resti». A un più attento
esame vedremo che questi dubbi sono esattamente
un’altra variante della lamentela nevrotica: «Non
sarò mai normale, è il mio destino: povero me!».
Perciò, la fede e la speranza sono eccellenti barriere
per questi dannosi pensieri, che sottraggono alla per­
sona entusiasmo ed energie. Anche un atteggiamen­
to realistico è un buon rimedio per questi dubbi

131
paralizzanti: «In ogni caso vedo che devo combatte­
re tutto quello che ho riconosciuto come infantile,
come sbagliato, e se persisto nel fare così ho fiducia
che ci saranno dei progressi, anche se questi non
rappresentano altro che un modesto cambiamento».
Tante e tante volte abbiamo avuto la prova che chi
fa lo sforzo acquista felicità. Non deve ossessionarsi
con il dubbio se raggiungerà o no un risultato pieno,
ma si rallegri di ogni passo che fa. Questo è, dopo
tutto, l’atteggiamento mentale che risulta più utile
per portare il paziente più vicino al suo scopo.
Il lavorare su sé stessi, per non dire poi della lotta
contro le proprie abitudini egocentriche e gli attacca­
menti indesiderabili, non è un’occupazione che goda
popolarità in questi tempi impregnati di permissivi­
smo e lassismo. Certamente molto si è scritto sulle
terapie psicologiche e sono state ideate svariate teo­
rie e tecniche terapeutiche. Ma solo una piccola
parte di esse incoraggia a lottare veramente contro i
propri errori e fragilità, per superarli. Raramente la
psicoterapia è poco più che un invito al paziente ad
abbandonarsi al proprio egoismo puerile e persino
all’immoralità. La speciosa esortazione «accetta te
stesso» diventa allora un invito ad arrendersi all’im­
maturità, da una parte, e alla repressione della «parte
migliore di sé», dall’altra. (Questa «parte migliore di
sé», o io adulto, può avere la salutare aspirazione a
un’esistenza più matura e può avere normali sensa­
zioni di fastidio di fronte all’io infantile, e persino
normali sensazioni di colpevolezza). Piaccia o no, la
realtà psicologica umana è che si deve fare una
scelta fra opposte tendenze. La difesa dell’«accetta-
zione di sé stessi» è spesso un pretesto a favore
dell’infantilismo. L’alternativa di lavorare su sé stes-

132
si è più ardua, ma è l’unico modo per acquistare la
felicità interiore e la pace dello spirito.
Le relativamente poche persone che cercano di
lavorare su sé stesse per liberarsi dalla tendenza
omosessuale non trovano molta gente disposta a
capirle e ad approvarle. Al contrario, esse si imbatto­
no in tutti gli scoraggiamenti possibili. Spero che
queste pagine possano aiutarle a rifiutare il falso
slogan «non puoi farci niente».

133
9. IL CAM BIAM ENTO
SENZA PSICOTERAPIA

Prima di dar conto dei risultati della terapia «anti­


commiserazione» che abbiamo schematizzato, vor­
rei descrivere alcuni casi di persone guarite dal­
l’omosessualità con altri mezzi. In questo capitolo
citerò due casi che sono stati descritti in relazioni
scientifiche pubblicate. Essi dimostrano come le
stesse dinamiche psicologiche usate nella terapia
«anticommiserazione» vengano attivate anche in al­
tre situazioni. Il primo caso è quello di una donna
ex-lesbica che ha raccontato la propria storia a uno
psichiatra olandese, egli stesso omosessuale, fautore
della «accettazione» come soluzione, il quale ha
trattato il caso in uno dei suoi articoli1; fortunata­
mente, però, egli ha pubblicato onestamente il collo­
quio avuto con lei, rilevando che «essa dava l’im­
pressione di essere perfettamente normale. Una nor­
male emotività, un riso rilassato e una adeguata se­

135
rietà. Era perfettamente credibile». Il caso è ancor
più significativo in quanto viene riferito come effet­
tiva guarigione da un uomo che è assolutamente
scettico sulla possibilità di rimediare all’omosessua­
lità. «Benché il suo articolo non offra molte speran­
ze, io invece, a trentasette anni, sono guarita. Lei può
immaginare la mia felicità: non è comparabile con
qualunque altra cosa. Trentasette anni d’infelicità,
miseria, ricerca di aiuto, preghiera, speranza, ecc.,
durante i quali non vedevo altro nel mondo che la
mia miseria, che mi urtava profondamente. E oltre­
tutto con la ferma convinzione che, dopo tanti anni,
avrei dovuto trascinarla con me fino alla morte»:
queste le sue parole. Oltre all’appello alla fede e alla
speranza, questo passo contiene una breve frase
molto istruttiva, sulla quale non vorremmo sorvola­
re: «Non vedevo altro nel mondo che la mia miseria,
che mi urtava profondamente». È un bell’epitaffio
per la sua vita nevrotica di prima, che ne sintetizza
gli elementi essenziali: l’eccessivo egocentrismo
delle sensazioni di autocommiserazione. Essa vede­
va il proprio atteggiamento di prima con una oppor­
tuna ironia, che sembra irridere al suo drammatico
«povera me!» del passato.
Come è avvenuto tutto questo? Essa era infermie­
ra e spesso s’innamorava di donne più vecchie di lei
(«questo mi occupava completamente, era come una
nube intorno a me») e una volta tentò il suicidio
dopo che una di quelle relazioni finì nel nulla (non
ha mai avuto rapporti omosessuali). La donna si
sentì completamente perduta e voleva disperatamen­
te liberarsi delle proprie ossessioni. Forse è proprio
una depressione così penosa che predispone uno al
cambiamento, giacché peggio di così non si può. In

136
questo stato mentale, essa incontrò un sacerdote,
comprensivo ma in pari tempo realista, il quale,
dopo averne ascoltato con partecipazione le lamen­
tele, fece alcune osservazioni pungenti che le diede­
ro una scossa. «Ogni volta che lo lasciavo, sentivo
che ero stata rivoltata sottosopra, che mi aveva lava­
to il cervello. Ma una volta egli disse una cosa che
non dimenticherò mai: “Ragazza mia, lei non è affat­
to matura: lei ha solamente sedici anni”. Quella stes­
sa sera, alle 21.30, nella mia stanza, aH’improwiso
ho visto tutto chiaramente». Essa collocava lucida­
mente il proprio «cambiamento» a quel preciso mo­
mento di autoanalisi curativa. Era una bambina, dai
comportamenti e sentimenti di una bambina. Quel­
l’uomo le aveva aperto gli occhi facendole vedere la
sua «bambina interiore» e, dal momento in cui l’ave­
va riconosciuta, era sulla strada della guarigione.
Dopo aver visto la propria personalità infantile, si
era messa vigorosamente d’impegno a superarne i
diversi aspetti. Chiamava tutto ciò il suo «adatta­
mento», il «cambiare binario» verso «una società
reale, mentre prima vivevo in una società quale la
vedevo io». Dovette scoprire la realtà, mentre prima
era vissuta in un mondo troppo soggettivo, di carat­
tere emotivo. «Prima, io venivo vissuta». Ciò espri­
me con chiarezza la sua ossessione nevrotica, domi­
nata da un’emotività che confondeva la realtà. Il
nevrotico vive nell’atmosfera di emozioni modellate
sulla lamentela e, quindi, in una realtà distorta. «La
gente deve aver pensato di me: che persona inge­
nua!», ed era in realtà una bambina che giudicava
l’ambiente circostante dal punto di vista e con i
sentimenti di una bambina. L’«adattamento» che ha
avuto luogo dopo il suo riconoscimento di essere una
bambina «durò forse un anno»: un periodo che giu­
dico molto breve.
Questa donna, non solo descrive il proprio cam­
biamento come abbandono della propria infanzia,
ma anche come scomparsa di un complesso d’infe­
riorità. «Avevo un grave complesso d’inferiorità»,
dice. «Prima, ogni cosa e ogni persona era sempre
superiore a me». Inoltre, essa riferisce il cambia­
mento avvenuto nella propria sensazione di vergo­
gna: prima si vergognava di cose delle quali non
aveva motivo di vergognarsi; erano sensazioni d’in­
feriorità. Il senso d’inferiorità si manifestava anche
sotto forma di esagerata sottomissione. «Una volta
facevo ogni cosa per chiunque. Ancora oggi faccio
delle cose per la gente, ma c’è sempre un “ma”.
Forse anche questo è insensato, che prima non pen­
sassi a me stessa». Il suo senso d’inferiorità aveva
assunto questa forma: «Non sono affatto buona. De­
vo servire chiunque perché sono l’ultima di loro».
La donna ricorda la sua gelosia di prima, la sua
antica mancanza di reali sentimenti di simpatia per la
gente che soffre, nonostante il suo atteggiamento di
aiuto (egocentricità), il suo diverso atteggiamento
verso Dio (un tempo, figura punitiva che le incuteva
paura; ora, invece, la riempiva di gratitudine e di
rispetto); i movimenti nervosi della bocca che prima
aveva, il suo camminare ansioso vicino ai muri delle
case invece che in mezzo al marciapiede. «Nulla è
rimasto immutato». Qui troviamo la comune espe­
rienza che un omosessuale guarito assume una «per­
sonalità nuova di zecca»; la guarigione dell’omoses­
sualità è in primo luogo e soprattutto un cambiamen­
to emotivo o un cambiamento di personalità.
Che cosa si può dire del cambiamento erotico di

138
questa ex-lesbica? «Un tempo gli uomini non susci­
tavano nulla in me, proprio nulla. E io non avevo mai
nemmeno pensato al matrimonio. Quando sono di­
ventata grande, la relazione sessuale fra uomo e
donna era per me una cosa strana; non riuscivo a
capirla e non mi diceva niente. Un uomo provocava
in me la stessa reazione che avrebbe provocato un
gatto». Da tutto questo si può sicuramente conclude­
re che era rimasta una bambina, neppure un’adole­
scente, nel suo sviluppo erotico. La prima scossa,
rappresentata dal riconoscimento di essere rimasta
ferma all’infanzia, le dischiuse una grande gioia e un
senso di sollievo. «Il mondo intero era mio: mi sen­
tivo tanto felice. Non avevo desideri nei confronti né
di donne né di uomini». Il corso degli eventi è clas­
sico, come per parecchi casi in via di guarigione: la
gioia spazza via gli interessi omoerotici (che sono
lamentele, e quindi l’opposto della gioia e della feli­
cità); il paziente passa attraverso uno stadio in cui
sembra assente qualsiasi componente erotica nelle
due direzioni. «Solo negli anni successivi è gradual­
mente apparso l’interesse erotico per gli uomini». Le
emozioni eterosessuali possono manifestarsi libera­
mente solo dopo che è scomparsa la sessualità ne­
vrotica, basata suH’autocommiserazione; come dice
questa donna, tale processo può durare qualche tem­
po: ha i caratteri di un processo di crescita. Quando
si risveglia, l’eterosessualità ha le caratteristiche del­
l’interesse dell’adolescente per diversi uomini con­
temporaneamente, di infatuazioni plurime: «Mi pare
che avrei voluto sposare tutti gli uomini allo stesso
tempo». Alla fine, questo stadio fu superato; essa ha
acquistato la calma e ha sposato quello che oggi è
suo marito. Aparagone con le sue ossessive preoccu­

139
pazioni sessuali di un tempo, ha sentore di «essersi
liberata di quelle faccende sessuali»: se si tien conto
che la donna ha 44 anni al tempo di quella ricerca,
ciò va interpretato come un segno di maturità. Del
suo interesse lesbico di un tempo essa dice: «È come
una gamba che sia stata tagliata e che non può ricre­
scere. Non riesco ancora a capacitarmi di come ab­
bia potuto essere fatta a quel modo per tutti quegli
anni; non riesco più nemmeno a comprenderlo».
Questo effettivo cambiamento — al punto che le sue
sensazioni lesbiche di un tempo le sono diventate
difficilmente immaginabili — durava già da sette
anni quando fece queste dichiarazioni: un periodo
più che sufficiente per convalidare i risultati.
Sommando gli importanti fattori di guarigione che
possono essere identificati nella sua storia, gli psico-
terapeuti antilagnanze vi riconosceranno un certo
numero di elementi che sono loro familiari: il rifiuto
di tutto cuore a identificare irrimediabilmente sé
stessa come omosessuale, che porta a un’ottimale
apertura mentale verso ogni spunto che potesse indi­
rizzare a un cambiamento; il riconoscimento del pro­
prio «io bambino» o autoanalisi; la lotta per superare
gli orientamenti infantili nel pensiero e nelle abitudi­
ni; l’onestà verso sé stessa; la fiducia nel suo «psico-
terapeuta», il quale è stato l’uomo giusto per lei, che
si è reso conto del suo infantilismo e le ha dato il
giusto tipo di comprensione e di supporto.

La conversione religiosa

Alcune persone attestano un profondo cambia­


mento intervenuto nella loro inclinazione omoses­

140
suale a seguito di una conversione religiosa. In gene­
rale, faremmo bene a essere scettici su queste storie,
a motivo della possibile insorgenza di un autoingan­
no nella personalità nevrotica, che le potrebbe far
credere quello a cui essa vorrebbe ardentemente cre­
dere; questo, naturalmente, fino a quando un serio
esame critico abbia fugato i nostri dubbi. Ho esami­
nato diverse persone che affermavano di essere state
«guarite» da una conversione religiosa, ma che in
realtà non lo erano. Di fatto esse rifiutavano e disap­
provavano con tale veemenza i loro interessi omo­
sessuali, oppure inconsciamente assumevano la par­
te dell’«omosessuale cambiato», aggrappandosi a tal
punto alla loro nuova religione da sembrare che la
loro nevrosi fosse semplicemente scivolata da un
tipo di ossessione a un altro. È tipico il fatto che
queste persone non rispondono a tono a domande
sulla loro attuale vita erotica o sull’esatta natura
delle loro sensazioni sessuali, e si mettono invece a
fare un sermone, come per persuadere gli altri — e
sé stessi — di avere effettivamente fatto un cambia­
mento. Questo genere di autoinganno, in realtà, non
è dubbio privilegio di coloro che hanno tentato la
strada della religione allo scopo di cambiare. Si deve
tenerne d’occhio la possibilità anche nel corso di
ogni procedimento di psicoterapia; a volte la volontà
del paziente di essere normale è troppo compulsiva
e, su questa base, cerca di persuadere sé stesso di
essere effettivamente cambiato. L’omosessuale reli­
gioso, inoltre, può essere egoisticamente felice di
appartenere a un gruppo religioso o persino di essere
un membro importante di esso (come «il convertito»
o «il predicatore»).
Tuttavia, conosco parecchie persone la cui guari-

141
gione, ottenuta mediante un’attiva vita religiosa, ho
potuto verificare dopo ripetute conversazioni in cui
ho accuratamente analizzato le loro sensazioni e i
loro atteggiamenti. Esse parlavano con calma e sen­
za inibizioni delle proprie emozioni e dei propri
atteggiamenti; non evadevano le domande dirette,
ma davano anzi risposte dirette, mentre non manife­
stavano un’esagerata voglia di persuadermi. Ritengo
che questi casi siano forse più numerosi di quanto
non si potrebbe pensare, poiché parecchi di essi
preferiscono restare anonimi e non diventare esempi
pubblici dell’«omosessuale convertito e guarito». In
alcuni di questi casi sono perfettamente sicuro che
ogni sia pur piccolo impulso omosessuale sia scom­
parso da parecchi anni e che le loro sensazioni siano
diventate eterosessuali. Inoltre, essi si erano liberati
di parecchie turbe emotive, stati depressivi e ansiosi,
ed erano diventati considerevolmente meno egocen­
trici nei loro pensieri e sentimenti. È piuttosto carat­
teristico che essi potessero parlare del proprio passa­
to con umorismo. Tutti loro sottolineavano l’impor­
tanza della volontà: «Come omosessuale, uno può
lamentarsi, desiderare di cambiare, ecc.», diceva
uno di loro, «ma in realtà è troppo bello per lui
volere realmente liberarsi di tutto quello. La sua
volontà è una mezza volontà: questo è il grosso
problema». Intervistate alcuni anni — o, in due di
questi casi, persino parecchi anni — dopo l’avvenu­
to cambiamento nell’inclinazione omosessuale, tutte
quelle persone dicevano che il cambiamento emoti­
vo era stato in loro graduale e che al presente prova­
vano ancora qualche senso d’inferiorità in alcune
situazioni, anche se non ne erano seriamente distur­
bate, poiché lo provavano solamente come una pic­

142
cola intrusione nel loro senso di benessere.
Dalle mie conversazioni con omosessuali nei qua­
li l’avvenuto cambiamento aveva una valenza reli­
giosa, ho avuto la conferma generale che è stato
veramente importante per loro trovare la fede, la
certezza nella vita, un profondo significato nella loro
vita personale, e che quella scoperta li ha fatti sentire
felici, ha dato loro un grande ristoro ed è stata la
sorgente di gioiose emozioni. Questo ha fatto veder
loro il proprio problema omosessuale come una cosa
secondaria, spogliandolo della preminente impor­
tanza che un tempo aveva nella loro coscienza psi­
chica: hanno smesso di esserne ansiosi e di compian­
gersi per esso. Allora si sono resi conto che era
importante cercare e compiere la volontà di Dio e
non la propria: veniva così avviato il processo di
risoluzione dall’egocentrismo.
Una donna ex-lesbica mi disse: «Non ho servito
Dio con le mie lamentele. Ho cercato di fare quello
che pensavo volesse da me, e questo è stato tutto un
programma. Questo è stato ciò che, gradualmente
ma radicalmente, ha cambiato la mia vita». Possia­
mo comprendere i salutari effetti di tale cambio di
atteggiamento. Il nevrotico, persona egocentrica che
pensa in modo preminente a sé stessa, sottomettendo
la propria volontà alla volontà di Dio, cioè a mete
che stanno fuori di sé, viene liberato da sé stesso. In
questo processo egli indubbiamente verrà a scoprire
quanto vivesse orientato su sé stesso (sul suo io
infantile, vorrei dire). Il riorientamento che smonta
questo «io» sarà spesso arduo e penoso, perché pre­
suppone il sacrificio di un certo numero di cose che
erano molto care a quell’«io» infantile. Inoltre, esso
implica meditazione, preghiera, studio della Bibbia

143
e dottrina per conoscere la «volontà di Dio», che è il
nuovo scopo della vita2.
Nel corso di questo processo, le ossessioni o i
desideri omosessuali scompaiono dalla coscienza
psichica della persona e compaiono gli interessi ete­
rosessuali, senza che la persona stessa sia eccessiva­
mente polarizzata sull’argomento. L’effettivo cam­
biamento è vissuto ai livelli più centrali della perso­
nalità e i cambiamenti degli interessi sessuali vengo­
no vissuti come conseguenza più o meno naturale
del cambiamento di base. Di conseguenza, non si
può parlare in simili casi di «sublimazione dell’omo­
sessualità», dato che la sublimazione essenzialmente
non è nient’altro che distrazione dell’attenzione;
spiegazione questa che sembra più adeguata per i
casi di «nevrosi a sfondo religioso» di cui abbiamo
parlato sopra.

John V.

Come esempio dell’influenza terapeutica della


conversione religiosa sull’omosessualità, farò alcu­
ne citazioni dalla pubblicazione Non sono più «co­
sì», che contiene la storia del cambiamento dal­
l’omosessualità all’eterosessualità di un giovane
olandese, John V.3. Più di dieci anni dopo che il suo
cambiamento fondamentale si è ragionevolmente
consolidato e a diversi anni dal suo matrimonio,
posso essere convinto dell’autenticità del suo cam­
biamento. Egli mi ha raccontato di essere stato occa­
sionalmente disturbato da impulsi nevrotici minori,
per lungo tempo dopo il suo cambiamento di fondo.
John V. è molto aperto e onesto sulle proprie sen­

144
sazioni. Egli ammetteva che, in linea di massima,
può avere immaginato che si potessero verificare
delle ricadute in rapporti omosessuali, in circostanze
eccezionali, ma che pensava anche che fosse molto
improbabile che si verificasse una simile eventuali­
tà. «Voglio dirle», ha chiarito, «che non posso ri­
spondere alla sua domanda così formulata (“Non
può neppure immaginare di avere mai un rapporto
omosessuale, sia pure in circostanze straordinarie?”)
con un netto “No” e che l’immaginazione di un
rapporto omosessuale mi ispiri un disgusto fisico».
Secondo i criteri più restrittivi, allora, il suo cambia­
mento non può essere considerato perfetto; vista
però la pressoché completa assenza per parecchi
anni di impulso omosessuale nella sua fantasia o
coscienza, e vista anche la presenza di interessi ete­
rosessuali, il risultato finale non può che impressio­
nare chi studia senza pregiudizi l’omosessualità. Ci­
terò le note autobiografiche di John V., non perché il
suo cambiamento sia il più radicale che io abbia
visto, ma perché la sua narrazione contiene delle
osservazioni su alcuni fenomeni che accadono spes­
so nel corso del cambiamento di un omosessuale,
quale la sua selvaggia, disperata e infantile capitola­
zione di fronte a quello che ha visto essere la propria
salvezza — il movimento pentecostale, nella fatti­
specie4 — i suoi periodi di profonda disperazione
come pure quelli di gioia esaltante e, dopotutto, il
fatto che il cambiamento ha avuto luogo ed è consi­
stito in una normale crescita o in un processo di
apprendimento, che possono facilmente essere tra­
dotti in termini psicologici.
Essendo stato diagnosticato come omosessuale
«primario» o «nucleare» e come irrimediabilmente

145
tale da un noto sessuologo, e poiché viveva dedito
all’omosessualità, verso i trent’anni non riusciva a
essere emotivamente soddisfatto delle sue amicizie
omosessuali, sentendole intimamente come qualco­
sa di contrario ai propri sentimenti religiosi. Comun­
que, sentimenti religiosi a parte, egli scoprì che il
vivere da omosessuale non poteva renderlo felice.

«Ho imparato a fame esperienza in modo burrasco­


so. Ma non mi ha dato affatto una profonda felicità...
“L’amore però non è peccato”, affermavo. Ma dentro
di me mi sentivo svuotato. Non leggevo mai la Bib­
bia ed ero completamente nevrotico... Ero stanchis­
simo... difficilmente mi avventuravo in compagnia».

Un colloquio con un cristiano che gli disse di


essere stato lui stesso omosessuale per parecchi an­
ni, ma di essere stato liberato dalle proprie ossessio­
ni, gli fece capire che il suo modo di vivere, la
relazione con l’amico, era un tutto peccaminoso.
«Sembrò che in quel momento ci fosse una gran luce
nella stanza, che faceva scomparire il buio della mia
vita»; ma la notte stessa egli pensò che fosse impos­
sibile cambiare e innamorarsi di una ragazza: addi­
rittura provava avversione per questo pensiero. Sì e
no: la lotta interiore di tanti omosessuali che sono
incatenati a quelli che a loro sembrano impulsi «na­
turali». Eppure, in qualche modo egli era consapevo­
le che avrebbe dovuto rompere la relazione «pecca­
minosa» con l’amico. Parecchi omosessuali possono
riconoscersi in quanto egli ricorda.

«La notte scorsa, prima di lasciare definitivamente il


mio amico, l’ho passata con lui a Bergen op Zoom

146
[città olandese] e fu orribile. All’ultimo momento ho
pensato che non sarei stato capace di resistere alla
rottura fra noi due. Per tre anni eravamo vissuti
insieme e ci eravamo amati. Io ero nervosissimo e ho
pianto parecchio. Ma fu come se una forza sovruma­
na mi rendesse capace di sganciarmi da lui. Al mio
arrivo a Rotterdam mi sono sentito rilassato per la
prima volta in parecchi anni, come se fosse stato
tolto un pesante fardello dalle mie spalle».

A questo punto, attraversò un periodo di alternan­


ze fra la speranza e la disperazione, pregando Dio
quando sentiva insorgere le tendenze omosessuali
che gli facevano desiderare l’amico, e cercando so­
stegno nei predicatori del movimento pentecostale.
Nonostante un certo spirito critico che nutriva verso
quella gente, accettò di farsi imporre le mani, nella
convinzione di ricevere lo Spirito Santo. Allo stesso
tempo, una coppia di sposi cristiani lo sosteneva e
l’incoraggiava, rafforzando la sua fede di volere
realmente, con l’aiuto di Dio, superare la propria
omosessualità. Tutto questo gli diede la forza di
distruggere radicalmente tutti i ricordi del suo passa­
to omofilo (oggetti, libri, fotografie) e di persistere
nel pieno rifiuto di ogni pensiero o impulso omoses­
suale.

«Circa due mesi dopo la mia liberazione ho incomin­


ciato anche a guardare le ragazze con occhi diversi.
Ho scoperto che sono qualcosa di diverso che esseri
inferiori. Man mano divenni consapevole della mia
maschilità. Dio mi ha fatto scoprire la bellezza delle
donne. Ho incominciato a esserne attratto. Pensavo:
“Stai lentamente evolvendo in quella direzione”. Co-

147
sì pure, ho cominciato a vedere la normale relazione
uomo-donna sempre più nel modo giusto».

Qui, John V. ripete quello che si può osservare in


parecchi omosessuali incamminati verso la normali­
tà: dapprima diminuisce l’interesse omosessuale e
interviene un generale cambiamento emotivo verso
emozioni positive; poi, trascorso qualche tempo, si
affacciano i primi sentimenti eterosessuali. Si noti
che quell’uomo dice questo in connessione col raf­
forzarsi della propria sensazione di essere un uomo,
cioè in correlazione con l’indebolirsi della propria
lamentela di essere inferiore come uomo. Il suo mo­
do di vedere le ragazze viene improntato a maggiore
maturità rispetto a quello che appariva ai suoi occhi
infantili: creature capricciose di un mondo diverso,
non appartenenti al mondo dei «ragazzi che stanno
insieme».
John V. ha avuto le sue periodiche ricadute, come
la maggior parte dei nevrotici in via di guarigione, a
volte cadute gravi. Ma ha persistito nella sua strate­
gia: cercare di vivere come pensava che Dio volesse,
pregando nei momenti di «tentazione» e facendo uso
della propria forza di volontà. Qualche anno dopo,
ha sposato la ragazza della quale si era innamorato e
oggi — dieci anni dopo — è un tranquillo e ragione­
vole uomo felice. L’ultima volta che hanno fatto la
loro apparizione i suoi impulsi omosessuali, come
mi ha raccontato, si trattava di pensieri fugaci che
comparivano al risvegliarsi di qualche frustrazione
infantile, come alcune volte che la fidanzata riceve­
va la visita di un’amica ed egli si sentiva privato
della sua attenzione.
Quanto all’impressione che fa al momento attuale,

1A 9
dirò che non si lamenta e non è incline a patetici
sentimentalismi, nonostante che la sua autobiografia
dica chiaramente che un tempo la sua personalità era
altamente drammatica e incline alle lagnanze. Come
ho detto sopra, non vorrei spiegare il processo di
denevrotizzazione di John V. come qualcosa di so­
prannaturale. Le emozioni religiose, come sa ogni
psicologo che abbia dimestichezza con i lavori di
William James o di Maslow, appartengono alla cate­
goria delle esperienze più forti che possano interes­
sare l’intera vita emotiva di una persona. Nel caso di
John V., queste esperienze sono descritte come mo­
menti in cui si è aperto un varco la speranza e una
gioia esaltante; di per sé non hanno neutralizzato la
sua nevrosi omosessuale, ma gli hanno dato una base
emotiva di segno positivo da cui partire: l’ottimi­
smo, un senso di felicità e una chiara visione della
propria vita come ricca di significato. Inoltre, gli
venne data la certezza che la sua omosessualità sa­
rebbe stata reversibile, non essendo compatibile con
la sua reale natura di uomo creato da Dio. Infine, la
convinzione religiosa ha alimentato la ripulsa di
ogni sentimento omofilo e di tutte le cose a esso
collegate, in quanto ritenute peccaminose, negative
e miserevoli. Non dovremmo sottovalutare l’ultimo
fattore, poiché il nevrotico omosessuale è molto at­
taccato alle proprie bramosie come a qualcosa di
prezioso, grande, bello e foriero di felicità. Come
risultato, dobbiamo affermare che una conversione
religiosa può fornire a un omosessuale la speranza e
l’energia di cui ha bisogno per la sua lotta.
L’omosessuale che vuol guafire ha estremo biso­
gno di questi ingredienti, poiché la disperazione in
cui vive è grande, la sua dipendenza è forte, la sua

1/tq
volontà di lottare è spesso una mezza volontà, mina­
ta dal negativismo inerente alla sua compulsione
all’autocommiserazione. Le esperienze religiose
possono temporaneamente collocarlo in un nuovo
mondo interiore; ma poi deve lottare con costanza,
perché esse non allontanano definitivamente la sua
nevrosi. Esse servono come fonti di energia e di
motivazione, mentre il processo psicologico di cam­
biamento consiste in un costante e radicale «far mo­
rire d’inedia» le emozioni nevrotiche: un processo
decongestionante, si potrebbe dire. Non deve stupi­
re, perciò, che richieda qualche tempo, né che ne
facciano parte grandi o piccole ricadute. Come lo
stesso John V. osserva riguardo al risveglio della
propria eterosessualità, «vi si cresce lentamente».
L’esperienza religiosa sembra scatenare le «risorse
interne»: forza di volontà, introspezione ed emozio­
ni positive; esse fanno sì che la persona lotti real­
mente e le forniscono la necessaria spinta motivazio­
nale per continuare. Sarebbe contrario al criterio
scientifico trascurare questi fatti empirici, benché
possa immaginare che alcuni ricercatori psicologi
possano opporre resistenza a prenderli in seria con­
siderazione.
Una guarigione come quella di John V. non è un
miracolo religioso, che ha luogo in un attimo. Ci
sono degli omosessuali che confondono le proprie
esperienze religiose con una guarigione psicologica
o che predicano guarigioni istantanee ottenute me­
diante la conversione religiosa («fede terapeutica»).
Secondo me, essi sono destinati alla delusione. Essi
pregano, pregano e pregano, ma «nulla accade loro»,
contrariamente a quanto si aspettano. Mentre in altri
casi essi si convincono spasmodicamente di avere

150
«scacciato il loro demonio». La vera prova di una
guarigione, invece, è data da una seria analisi del­
l’intera vita emotiva di una persona, ivi compresi gli
aspetti sessuali. Un omosessuale realmente guarito è
tutto fuorché una personalità coartata, isterica o fa­
natica: si sente rilassato, è realistico nelle introspe­
zioni e non ha nulla da nascondere a sé stesso.
I casi di omosessuali che hanno conseguito un
cambiamento senza psicoterapia ci ricordano che
«molte sono le strade che portano a Roma». Peraltro,
questi omosessuali sembrano avere grossomodo se­
guito lo stesso percorso psicologico: essi hanno in
qualche modo «ridotto alla fame» la propria tenden­
za infantile all’autocompassione con i concomitanti
egocentrismo, senso d’inferiorità e ansie infantili.
Tutta la casistica conferma, inoltre, l’affermazione
di Hatterer secondo cui la «volontà di cambiamento»
è una condizione essenziale per il miglioramento, e
il processo stesso di cambiamento implica uno sfor­
zo, rappresentando un processo di crescita pilotato
dalla volontà5.1 fenomeni ai quali si va incontro nel
corso di questo processo sono: ricadute pressoché
universali; periodi di scoraggiamento; aumento del­
l’introspezione; comparsa di interessi eterosessuali
solamente dopo che sia stata superata, almeno in
buona parte, l’inclinazione omosessuale; un periodo
di consolidamento, che può durare diversi anni dopo
il cambiamento di fondo. Tuttavia, vorremmo invita­
re a una terapia più sistematica, che unisca gli ele­
menti salutari analizzati sopra e faccia uso della
nostra conoscenza teoretica dell’omosessualità co­
me patologia da autocompassione infantile. Anche
l’omosessuale motivato da un orientamento religio­
so può trarre vantaggio da queste introspezioni, in

151
quanto gli forniscono una chiara struttura intellettiva
per ravvisare la propria nevrosi e, oltre a ciò, gli
danno armi concrete con cui combattere, in modo
che può correre sulla strada che si è scelto con
maggior successo che se fosse privo di una mappa e
di una bussola psicologiche. La terapia antilamente­
la è un trattamento sistematico e ora vedremo come
si può leggere la mappa che essa offre e come fun­
ziona la sua bussola.

Note

1 W. J. S e n g e r s ,Homoseksualiteit als klacht: Een


psychiatrische studie, Paul Brand, Bussum 1969.
2 II riorientamento religioso della vita viene metodica-
mente perseguito, per esempio, dal metodo dei gesuiti di
«discernimento degli spiriti» (quale «spirito» o atteggia­
mento mentale è quello giusto, quello desiderato da Dio,
e quale quello sbagliato che dovremmo evitare?). A volte
l’applicazione di questo metodo guarisce un omosessuale
«come effetto collaterale», secondo quanto il Dr. Penning
de Vries, sacerdote cattolico e pubblicista, mi ha comuni­
cato. Comunque, lo scopo primario di questo metodo non
è essenzialmente quello di guarire una nevrosi, ma di
riorientare la vita di una persona in armonia con i princìpi
cristiani.
3 J. T. Bos, Ik ben niet meer «zo», Gideon, Hoornaar
1969.
4 Restando egli pur sempre profondamente religioso,
l’esaltazione di quest’uomo si è molto ridimensionata da
quel tempo. Oggi egli propende a vedere il proprio cam­

152
biamento come frutto di una lotta sul piano psichico,
motivata e grandemente favorita dalla propria conversio­
ne religiosa, dalla preghiera e soprattutto dal cambiamen­
to del proprio modo di vivere.
5 L. J. H atter er , Changing Homosexuality in thè
Male, McGraw-Hill, New York 1970.

153
10. EFFETTI DELLA TERAPIA
ANTILAM ENTELA

La nevrosi omosessuale, come ogni altra nevrosi,


può essere superata. L’idea fatalistica che questa
nevrosi non sia suscettibile di modifica viene cal­
deggiata dagli esponenti del movimento militante
degli omosessuali e da altri avvocati della morale
relativistica. Non sto affermando che sia cosa facile
ottenere un cambiamento radicale nelle tendenze o-
mosessuali: nessun cambiamento in un nevrotico
fobico od ossessivo-compulsivo lo è. Ma la possibi­
lità di un fondamentale cambiamento in meglio esi­
ste certamente. Molto dipende dalla sincerità della
persona nell’acquisire la conoscenza di sé e dalla sua
volontà, questa splendida e sottovalutata facoltà del­
la mente. Da un’estesa analisi di 101 persone che ho
avuto in cura1 ho derivato le. conclusioni che qui di
seguito riassumo circa l’efficacia della nostra tera­
pia. Di coloro che hanno continuato la terapia — il

155
60% del totale del gruppo — circa due terzi hanno
raggiunto almeno uno stadio soddisfacente per un
lungo periodo di tempo. Con ciò intendo dire che le
sensazioni omosessuali sono state ridotte a impulsi
occasionali, mentre la tendenza sessuale è evoluta in
modo predominante verso l’eterosessualità, oppure
che le sensazioni omosessuali sono giunte all’assen­
za totale, con o senza una predominanza di interesse
eterosessuale. Delle persone di questo gruppo, co­
munque, si può considerare che circa un terzo abbia
avuto un cambiamento «radicale». Ciò vuol dire che
esse non avevano più alcun interesse omosessuale,
ma avevano normali sensazioni eterosessuali, e inol­
tre che dimostravano un cambiamento fondamentale
di tutta l’emotività dal negativo al positivo — dalla
instabilità alla normale, ragionevole stabilità — per
un periodo di osservazione di almeno due anni.
Comunque, il «soddisfacente cambiamento» non
ha il carattere di uno stato mentale definitivo. La
persona può continuare a crescere lentamente e inin­
terrottamente. Essa passa di solito attraverso nuove
crisi emotive, più o meno serie, e può sfruttare le
esperienze di vita per integrarsi emotivamente a un
livello superiore. Non è eccezionale un tranquillo
progredire, nonostante alti e bassi, nel corso degli
anni.
Per esemplificare, dirò che un uomo che ha inter­
rotto i suoi contatti regolari con lo psicoterapeuta a
questo stadio di «soddisfacente cambiamento», si è
innamorato di una ragazza che in seguito ha sposato.
Circa dodici anni dopo l’ho rivisto. Passando in
rassegna la propria vita emotiva del periodo trascor­
so, egli mi disse di aver avuto un occasionale stimolo
omosessuale durante il primo anno di matrimonio,

156
ma che questi stimoli lo coinvolgevano emotiva­
mente molto meno di quanto non accadesse in pas­
sato. Egli aveva avuto la sensazione che tutto questo
accadesse come al di fuori di sé. Queste fugaci fiam­
mate erano svanite, ed egli soggiungeva: «Non ri­
cordo di aver avuto alcun interesse in quella direzio­
ne per parecchi anni. Quando guardo con qualche
interesse erotico un’altra persona che non sia mia
moglie, si tratta sempre di una donna. Se il mio
matrimonio dovesse naufragare, cercherei rapporti
intimi non con uomini, ma con donne». Era anche
vissuto per qualche tempo incline a chiudersi in sé
stesso, taciturno e mesto, in particolare dopo dissa­
pori matrimoniali (anche la moglie non era total­
mente scevra da meccanismi infantili). Comunque,
egli è riuscito a riconoscere questi suoi abiti reattivi
come ripetizione di reazioni della propria infanzia,
quando si sentiva disapprovato, e le identificava co­
me provenienti da residui del proprio «bambinetto
degno di compassione». Questo lo ha portato a do­
minare il proprio piagnisteo infantile. Quando giudi­
cava obiettivamente che il comportamento della mo­
glie fosse irragionevole, era capace di trarre la con­
clusione: «Questo non ti dà il diritto di sentirti infe­
lice in te stesso». In conclusione, era diventato molto
più maturo col trascorrere degli anni. A questo pun­
to, uno scettico può far notare che solamente un
terzo di coloro che hanno proseguito la terapia è
cambiato radicalmente. Sono d’accordo sul fatto che
questi risultati sono ben lungi dall’essere perfetti,
tuttavia ciò non consente un’interpretazione fatali­
stica di questi dati. Ritengo che ci siano buoni motivi
per considerare il bicchiere mezzo pieno anziché
mezzo vuoto. I casi di cambiamento radicale — da

157
una totale omosessualità a una normale eterosessua­
lità — bastano a respingere la teoria che la terapia
dell’omosessualità sia senza senso. Proprio per il
fatto che pochi omosessuali cercano seriamente di
cambiare e che pochi psicoterapeuti li incoraggiano
a farlo, l’idea che l’omosessualità sia irreversibile ha
il carattere tautologico di una self-julfilling profecy.
Se nessuno ci prova, nessuno ci riuscirà. Perché
dovremmo assumere un atteggiamento fatalistico
verso le possibilità di miglioramento dell’omoses­
sualità quando una ragionevole percentuale migliora
sostanzialmente?
I risultati ottenuti come incidenza di guarigioni da
altre nevrosi sono all’incirca identici a quelli dell’in­
cidenza di guarigioni per malattie fisiche non ancora
curabili in tutti i casi. Dovremmo desistere solo per­
ché possiamo ottenere successo solo in una parte dei
casi?
Tenuto conto di quanto sopra, ritengo che si debba
essere ottimisti sulla guarigione dall’omosessualità.
Circa il 20% degli omosessuali sottopostisi a tratta­
mento sembra non cambiare in modo percettibile.
Tuttavia, alcuni miglioramenti si possono avere an­
che in questi, anche se generalmente si tratta di
nevrotici gravi e usi ad avere una molteplicità di
rapporti sessuali, profonde depressioni, sensazioni
di vacuità della propria vita. Penso, per esempio, a
un uomo col quale sono stato periodicamente in
contatto per oltre quindici anni. Io sono probabil­
mente l’unica persona con la quale può parlare libe­
ramente. Era profondamente nevrotico, ossessionato
da numerose lamentele e da impulsi sessuali che
sempre detestava. Nonostante il mio scetticismo cir­
ca la possibilità che qualche progresso potesse anco­

158
ra verificarsi dopo tanto tempo, egli cominciò a rife­
rire di aver superato le profonde depressioni a sfon­
do suicida e di dover ammettere di essere in genere
più tranquillo e ottimista. E tale era di fatto il suo
comportamento.
Da casi del genere possiamo imparare a non ab­
bandonare mai la speranza. Non è mia convinzione
che solo questa terapia basata sul problema dell’au-
tocompassione possa modificare una nevrosi omo­
sessuale; però sono sicuro che la scoperta del «bam­
bino lamentoso» e l’uso delle tecniche dell’autoiro­
nia possono essere di grande aiuto per coloro che
sono decisi a contrastare la propria nevrosi. Queste
tecniche stimolano le forze salutari della mente: la
sana introspezione, l’interesse alla conoscenza di sé
e, soprattutto, la forza di volontà. Forze analoghe
agiscono probabilmente anche nei cambiamenti che
si danno in omosessuali senza alcun intervento tera­
peutico.
La maggior parte delle persone a tendenze omo­
sessuali presenta il complesso omosessuale in quella
che chiamerei una «forma blanda». Anche in essi
l’emotività infantile può aver affondato profonde
radici e creato forti abiti nevrotici, ma se esiste la
volontà di combatterli in modo perseverante si può
avere una favorevole prospettiva di guarigione radi­
cale.
Per mostrare che cosa può fare la terapia antila­
mentela, vorrei presentare alcuni esempi tratti dalla
mia esperienza personale. Il primo esempio è un
caso dall’evoluzione moderatamente positiva. Ri­
guarda un giovane che ebbe un miglioramento fati­
coso; mi sembra che esso rappresenti un’intera cate­
goria di casi similari.

159
Ben

Ben non aveva ancora vent’anni quando venne a


consultarmi. Fin dall’adolescenza aveva avuto fan­
tasie erotiche che si riferivano a uomini di 30-35
anni, in particolare quando si masturbava. Egli non
sentiva affatto attrazione verso le ragazze, non aveva
amici (e neppure rapporti omosessuali) e se ne stava
in casa per la maggior parte del tempo. La sua emo­
tività nevrotica appariva dall’espressione del viso:
appariva contrariato e imbronciato, il suo atteggia­
mento e modo di fare era molle e fiacco. Era stato
viziato e superprotetto dalla madre, alla quale ancora
si aggrappava. Essa si preoccupava eccessivamente
per lui; una volta che l’incontrai, alludeva a lui in
modo costantemente sentimentale come «questo
bambino». Suo padre era stato ben poco coinvolto
nella sua educazione. Era un uomo un po’ appartato,
che lasciava il figlio nelle mani della moglie (la
quale dava l’impressione di aver voluto cercare di
dominarlo in qualche modo). Sembrava che la ma­
dre lo adorasse, ma che volesse che lui fosse quello
che aveva in mente lei. Ben non osava dirle quello
che pensava. A scuola era un estraneo e non ingrana­
va con gli altri ragazzi, come risultato dell’educazio­
ne ricevuta; si era appartato in un atteggiamento
silenzioso e un po’ arrogante, che tuttavia non riusci­
va a nascondere il suo profondo senso d’inferiorità.
In questo brutto periodo aveva conosciuto un ami­
co dei genitori, un uomo giovane e sposato, dai modi
simpatici e amabili. Questi aveva avuto qualche at­
tenzione anche nei riguardi di Ben e qualche volta
l’aveva invitato a una gita con la sua giovane fami­
glia. Nella sua immaginazione infantile, Ben aveva

160
cominciato a idealizzare questo amico, fantastican­
do di sé stesso nel ruolo del povero ragazzo al centro
dell’attenzione di quello. Si tolse dal pensiero la
moglie e il figlioletto di quell’uomo; nella sua men­
te, diventò l’oggetto favorito dell’amore dell’amico
che ammirava, il quale possedeva ogni cosa e al
quale Ben stesso si sentiva inferiore. Di quando in
quando, queste fantasia gli tornavano alla mente
mentre si masturbava. Voleva fare qualcosa per la
propria tendenza omosessuale, che nel frattempo era
diventata un’ossessione. Non voleva cedere; si ver­
gognava profondamente delle proprie inclinazioni,
soprattutto perché le vedeva come un’ulteriore pro­
va della propria inferiorità rispetto agli altri uomini;
e aveva dei ricorrenti accessi di pianto che rasenta­
vano l’isterismo. Era un giovane rammollito, abitua­
to a cedere alle proprie voglie e ad evitare tutto ciò
che potesse essergli causa di disturbo e di sforzo. I
suoi tentativi di affrontare il proprio «bambino inte­
riore» a quel tempo erano carenti di fermezza. Le
fatiche e le normali contrarietà gli erano sempre state
occasione di autocommiserazione e, quando capì di
dover passare attraverso un prolungato periodo di
sforzi, reagì nel modo che gli era abituale.
Per quanto lenti fossero i cambiamenti, si verifica­
rono piccoli miglioramenti. Per esempio, divenne
meno puerilmente geloso dei propri colleghi, com­
battendo la lamentela nella quale erano radicati i
suoi sentimenti, e cioè: «Sono inferiore a loro; essi
ottengono attenzione e stima, io invece no: povero
me!». Ridusse la frequenza delle masturbazioni, che
erano per lui una infantile valvola di scarico e, nono­
stante l’aspetto piacevole, rafforzavano l’autocom­
passione dalla quale esse prendevano origine. Nel

161
tentativo di controbattere il proprio senso d’inferio­
rità nei confronti degli sport, si fece socio di un club
sportivo e vi incontrò parecchie situazioni che egli
poteva considerare una sfida. Lentamente, cominciò
a cambiare l’inveterata abitudine di lasciare le deci­
sioni agli altri (fra i quali la madre figurava al primo
posto). Spesso, peraltro, evitava di incorrere nell’ir­
ritazione della madre e finiva con quella che, di
fatto, era una capitolazione alla volontà di lei. I suoi
attacchi di depressione scomparvero totalmente; non
fu così, invece, per la sottostante struttura che la
alimentava: la cronica autocommiserazione. Conti­
nuò a sentirsi degno di compassione di fronte alle
frustrazioni quotidiane, in particolare alle sensazioni
di essere trascurato, di essere incapace, di non riusci­
re o di essere escluso.
Finalmente questa autocompassione di fondo si
fece palese in diverse forme. Dopo più di due anni di
psicoterapia si rese conto dei sentimenti d’inferiorità
e di commiserazione che provava in quasi tutte le
compagnie e nei confronti di quasi tutti coloro che
incontrava. Scoprì di essere lui stesso ad assumere
l’atteggiamento «io sono inferiore e faccio compas­
sione», e a mettersi immediatamente nel ruolo di
vittima; prima invece era convinto che fosse il mon­
do, che fossero gli altri a trattarlo da inferiore.
Molto si potrebbe dire su tutta una serie di intime
scoperte e di cambiamenti minori. Egli fece un effet­
tivo passo in avanti, per esempio, quando decise di
non indossare più certi vestiti che aveva acquistato
per vanità infantile, allo scopo di attuare l’ammira­
zione e l’attenzione degli altri. La lotta contro l’in­
fantile autocompassione e la tendenza a commise­
rarsi deve essere combattuta nella vita di tutti i gior­

162
ni, in occasione di piccole frustrazioni, dispiaceri,
impulsi di apatia, irritazioni esagerate, stanchezza
dopo il lavoro, e così via. Il caso di Ben non era
diverso. Egli si concentrò sul proprio abito di sfuggi­
re le responsabilità e di lamentarsi che le proprie
iniziative fossero destinate all’insuccesso. Dovette
diventare più attivo. La sua fantasia omofila, che si
esprimeva nel cercare certi tipi di giovanotti — al­
meno nell’immaginazione — perse gradualmente
molta parte del suo fascino. Naturalmente, si ripre­
sentava ancora saltuariamente, quando si sentiva
senza aiuto e senza speranza. A volte emergevano
dei sentimenti di attrazione verso ragazze, special-
mente quando il suo stato d’animo era pervaso di
ottimismo. Recentemente ha avuto una ragazza, an­
che se questa relazione sembra piuttosto immatura
(da entrambe le parti, per la verità). Ho l’impressio­
ne che Ben veda la ragazza troppo nel ruolo di madre
e non ne sia realmente innamorato, nonostante un
certo interesse eterosessuale nei suoi confronti.
NeU’insieme, il suo progresso è evidente per lo
psicoterapeuta e per la gente che lo conosce bene.
Dopo circa cinque anni, è più indipendente, più uo­
mo e più ottimista. Gli interessi omosessuali non
sono scomparsi, anche se hanno perduto intensità e
influenza sulla sua immaginazione. Ha bisogno di
un paio d’anni ancora prima di varcare la soglia della
virilità adulta.

Il signor L.
V

E vicino ai quaranta e ha alle spalle una vita


intensa da omosessuale. Esita a continuare il suo

163
modo omosessuale di vivere perché ha perso la fidu­
cia che si possa realizzare una relazione durevole.
Ha rilevato che, anche quando a tutta prima pensava
di aver trovato l’amico giusto, invariabilmente fini­
va per litigare con lui dopo poco tempo e per rompe­
re la relazione. «Perché?», si chiedeva. D’altra parte,
le donne non significavano molto per lui, anche se si
trova bene con loro a un livello superficiale.
Nei suoi modi è più che amichevole e ossequioso;
difficilmente esprime un’opinione e, se si aspetta un
disaccordo con le proprie idee, si assoggetta facil­
mente. Si lascia oltremodo impressionare dai tipi
maschili aggressivi e dalle espressioni di autorità in
genere. Per esempio, il suo diretto superiore in uffi­
cio lo mette in forte tensione e non lo può affrontare
quando è adirato; d’altra parte, ha una smisurata
ammirazione per lui. Il signor L. a volte è depresso e
ci sono periodi nei quali non si sente in forze per
lavorare.
La madre è stata sempre nell’ombra e ha occupato
solo una posizione di secondo piano nella sua vita
emotiva, anche se ho avuto l’impressione che il suo
modo di allevare il figlio sia stato blando e pieno di
attenzioni eccessive. Era il padre, in casa, la figura
centrale; egli decideva ogni cosa e la sua volontà
condizionava anche le piccole cose della gestione
familiare. Il padre è stata la persona decisiva nella
giovinezza del signor L. Egli era in generale aggres­
sivo ed era molto esigente e severo verso i figli; ha
inibito lo sviluppo emotivo del figlio. Il signor L. ha
sempre sentito di non essere nei favori del padre. Il
padre non lo incoraggiava mai; il signor L. ha sem­
pre avuto l’idea che suo padre lo considerasse il
meno interessante dei fratelli e lo ritenesse un debo­

164
le. I suoi fratelli eccellevano in diversi sport, mentre
lui si sentiva decisamente inferiore in quel campo.
Più tardi, cercò una compensazione buttandosi nelle
corse automobilistiche, ma il complesso d’inferiori­
tà non diminuì.
Il signor L, ricorda una quantità di brutte esperien­
ze fatte durante l’adolescenza, che hanno plasmato il
suo successivo complesso d’inferiorità: commenti
critici e ironici da parte di suo padre, che egli temeva
e ammirava allo stesso tempo; insuccessi negli sport;
periodi di solitudine nella propria stanza; sensazioni
di essere offeso. Con esse è andato affiorando il
desiderio di essere apprezzato da un amico dall’at­
teggiamento paterno. In effetti, a vent’anni aveva
avuto un buon amico, nei confronti del quale si
comportava più o meno come uno schiavo. L’amico,
comunque, si era trasferito a un’altra parte del Paese
e si era poi fidanzato. I sogni omoerotici di consola­
zione del signor L. si intensificarono.
Il processo di cambiamento fino al momento in
cui sto parlando è durato circa tre anni. Per molto
tempo il signor L. visse un dissidio interiore. Si
rendeva conto di non poter rinnovare la propria vita
senza fare un repulisti, che avrebbe dovuto riguarda­
re molto di più di quanto inizialmente costituiva
oggetto delle sue lamentele: gli episodi depressivi e
la sua incapacità ad avere delle relazioni omosessua­
li durevoli. Egli incominciò a vedere chiaro il com­
portamento del proprio «bambino interiore» e a rivi­
talizzare parecchi comportamenti infantili: nel suo
caso, il sentirsi facilmente insultato e umiliato, il
sentirsi inferiore quanto a comportamento e a risul­
tati rispetto ad altri maschi del proprio ambiente,
l’indulgere all’autocompassione quando era solo

165
nella sua stanza, il sentirsi oltremodo contrariato in
circostanze di poco rilievo, il commiserarsi del pro­
prio stato fisico mentre in realtà era sano e forte. La
sua sincerità gli fu di grande aiuto. Avrebbe voluto
reagire con suscettibilità quando gli venivano espo­
ste certe realtà della sua vita e certe motivazioni, ma
riuscì a vedere qualcosa di vero nelle osservazioni
che gli facevo, nonostante la resistenza. Egli, inoltre,
applicò le tecniche dell’autoironia e dell’umorismo
nei confronti delle manifestazioni della propria in­
fantile commiserazione («povero me!») a parecchie
situazioni della vita di tutti i giorni.
Divenne più indipendente rispetto agli altri uomi­
ni. Non abbiamo passato molto tempo a discutere
delle sue sensazioni e manifestazioni omosessuali;
abbiamo parlato solamente del suo comportamento
non-sessuale nei confronti dei partners con i quali
era venuto occasionalmente in contatto nel periodo
della psicoterapia. Gli era chiaro che le sue sensazio­
ni erano una mescolanza di sogni a occhi aperti di un
lamentoso adolescente alla ricerca di calore per il
suo povero io interiore e pieno di ammirazione per
l’asserita altrui virilità. Si rendeva conto di essere
andato in cerca di contatti umani illusori che non
avevano nulla a che vedere con l’amore del sospirato
amico. Proprio alla ricerca di un tale amico egli
rafforzava il proprio imprigionamento nell’egocen­
trismo e quindi rendeva impossibile sentire una du­
revole comunione d’intenti. La lamentela «sono so­
lo» si sarebbe ripresentata. Era facile prevedere che
si sarebbe buttato nella sua posizione di isolamento
perché non avrebbe potuto stare senza l’autocom­
passione inerente al ruolo di vittima.
Si separò con esitazione dal mondo omosessuale e

166
dal mondo interiore delle proprie fantasie omoses­
suali. A volte è ricaduto, impegnandosi di nuovo in
contatti omosessuali, tuttavia senza l’eccitazione di
un tempo. Divenne più consapevole del fatto che
l’intero suo atteggiamento di fronte alla vita e agli
altri era stato di distacco, di non impegnarsi in alcun­
ché, di fare la parte dell’emarginato offeso. Perciò
divenne meno cinico e depose la maschera di supe­
riorità che assumeva come compensazione. Si rese
conto che avrebbe dovuto dedicare la propria vita a
dei valori, dopo aver accettato l’idea che non è vero
che tutto sia relativo e avendo acquisito la convin­
zione che la propria vita personale non fosse priva di
senso, contrariamente a quanto egli pensava in pre­
cedenza. Riconobbe che la propria capacità di darsi
agli altri, di amare, era ben piccola. «Ho mai amato
realmente?», si domandava. Cambiò la sua visuale
rispetto alle donne; incominciò a osservarle e a esse­
re colpito dal portamento femminile e dalle qualità
fisiche di una certa donna. Ora ha l’impressione di
crescere verso la capacità di avere una relazione
stabile con una donna.

Il signor V.

Questo giovane poco più che ventenne è passato


attraverso un analogo travaglio interiore, compresi
pochi episodi di marcata depressione; si innamorò di
una ragazza, dopo un paio d’anni di lavoro su sé
stesso in psicoterapia. La relazione amorosa gli pro­
curò nuove difficoltà. Non appena cominciò a desi­
derarla, egli si rese conto della dimensione del timo­
re e dei sentimenti d’inferiorità che aveva sempre

167
avuto nei confronti del sesso opposto. I suoi «ruoli di
adattamento» di un tempo, quali quelli di ragazzo
affascinante e bonario, si sono afflosciati nel con­
fronto personale con una donna, nel quale egli
avrebbe dovuto essere l’uomo. Ogni tanto si lasciava
prendere dal panico; ha dovuto lottare per alcuni
mesi contro i propri sentimenti d’inferiorità e di
autocompassione. C’erano anche dei momenti, co­
munque, in cui si sentiva rilassato e in cui poteva
identificarsi con il suo «essere un uomo». Allora
veniva anche risvegliata la sua eterosessualità, men­
tre nei momenti di malumore l’eterosessualità sem­
brava assopita.
I primi anni di matrimonio sono stati buoni. È
cresciuto continuamente, abbandonando gli infanti­
lismi, le ansietà quando si trovava di fronte a una
situazione che richiedeva indipendenza e una certa
dose di normale aggressività, nonché il troppo facile
cedere all’autocompassione quando qualcosa lo
contrariava. Egli guarda ai suoi interessi omofili, che
non ha mai messo in pratica salvo che nella fantasia,
come a una tendenza dell’infanzia che apparteneva a
un passato stadio della vita, quando ancora doveva
trovare la giusta direzione della propria esistenza.

La signorina W.

Questa donna sulla trentina mi informò di essere


stata disturbata fin dagli anni dell’adolescenza dalla
necessità di guardare in modo compulsivo le donne
e le ragazze e di essere stata tormentata da varie
fantasie erotiche riguardanti il proprio sesso. Tutto
questo le accadeva controvoglia e non ha mai avuto

168
l’intenzione di accettarlo come cosa normale. Que­
sto sintomo sessuale appariva l’espressione di un
complesso d’inferiorità che minava da ogni parte la
sua vita emotiva. Era ansiosa in compagnia, pensava
che gli altri la guardassero con disprezzo ed era
spesso depressa; a volte accadeva che reagisse in
modo furioso e ribelle. Quanto alla sua infanzia, che
era stata segnata da problemi e preoccupazioni in
famiglia, voglio solo rilevare l’influenza nefasta del­
la mancanza di comprensione che essa sperimentò
da parte della madre e le osservazioni distruttive e
sfiduciate che suo padre era solito farle.
Già fin dalle scuole elementari si sentiva ridicola
e inferiore alle altre ragazze quasi in ogni aspetto:
modo di vestire e di parlare, aspetto fisico e situazio­
ne familiare. Per anni si portò dietro un’irrisolta
ferita— autocompassione — circa il proprio infelice
destino; ciò si accompagnò a un generalizzato atteg­
giamento di protesta. Nell’adolescenza questo fu un
terreno fertile per la sua ammirazione per le altre
donne e il desiderio di amicizia intima.
Durante il suo processo di miglioramento, un tema
era centrale: diventare meno pessimista. Questo im­
plicava che si lasciasse meno guidare da idee auto­
critiche sulla propria antipatia, mancanza di valore e
incapacità, dalla trepida attesa di essere vittima di
ogni genere di disgrazia e soprattutto dall’atteggia­
mento di autocommiserazione che le faceva dire di
essere «nata per la miseria». Era il classico esempio
di lamentosa e, nonostante che lo riconoscesse, den­
tro di sé rimaneva convinta di avere il diritto di
compiangersi. Con l’aiuto della buona volontà, ven­
ne a capo delle sue più gravi depressioni; combatte­
va la cronica tendenza alla commiserazione e alla

169
ribellione e, come risultato, migliorarono in generale
i suoi stati d’animo. Le fantasie lesbiche l’hanno
molestata ancora per qualche anno, ma infine se ne
liberò. Cercò di accettare il ruolo femminile e a volte
si trovò ad avere ragionevoli successi come donna.
Quanto ai suoi sentimenti verso gli uomini, essi non
erano mai stati completamente assenti, benché non
assumessero mai un ruolo centrale nella sua emoti­
vità. Per un po’ di tempo si era impegnata nella
relazione con un uomo all’incirca della sua età, ma,
nonostante il suo affetto per lui e il fatto che fosse
eroticamente interessata a lui, esistevano troppi pro­
blemi tra loro e sembrò meglio metter fine a tutto
questo. Potè accettare la propria solitudine, dopo una
breve crisi; oggi ha un normale desiderio di sposarsi
e di avere dei bambini.
* * *

Quelle che precedono sono brevi descrizioni di


alcuni casi «nella media». Spero che il lettore saprà
ricavarne la convinzione che possono esser fatte
parecchie cose positive, purché ci sia buona volontà,
sincerità e perseveranza. In alcuni casi il processo di
cambiamento si svolge più velocemente e con mi­
gliori risultati rispetto ai casi esaminati; alcuni altri,
invece, sono più deludenti e burrascosi. Ci sono
alcuni fattori sociali favorevoli che non vorremmo
trascurare di citare e che comprendono l’avere degli
amici che incoraggino e una situazione familiare
favorevole; inoltre, l’avere sane convinzioni morali
e una personale e profonda vita religiosa è di incom­
mensurabile aiuto. Gli elementi a sfavore sono un
carattere debole, l’essere perpetuamente in dubbio e

170
l’avere un basso criterio morale, oltre che, natural­
mente, l’essere schiavo da lungo tempo di soddisfa­
zioni omosessuali.
A parer mio, una cosa è ovvia: una posizione
fatalistica circa la modificabilità dell’inclinazione
omosessuale non è giustificata.

NOTE

1 G. J. M. v a n d e n A a r d w e g , On thè Origins and


Therapy of Homosexaulity: A Psychoanalytic Re-inter-
pretation, Praeger, New York 1986; distribuzione in In­
ghilterra: Westport Publications (3 Henrietta Street, Lon­
don WC2E 8LU England); traduzione tedesca: Das Dra-
ma des gewònlichen Homosexuellen, Hànssler Verlag,
Neuhausen 1992 (Postfach 1220, D 73762 Neuhausen).

171
11. PRfeVENZIONE

Lo slogan secondo cui l’omosessualità dovrebbe


essere accettata suona ingannevolmente umanitario
per molte orecchie; ad alcuni poi è stato fatto un
lavaggio del cervello così radicale che si bevono la
follia che le relazioni omosessuali dovrebbero gode­
re gli stessi diritti, del matrimonio. Coloro che sono
così entusiasti della vita omosessuale, comunque,
sono ciechi nei confronti dell’infelicità che spesso le
si accompagna. Sembrano indifferenti alla situazio­
ne di adolescenti e giovani adulti che corrono il
rischio di fallire in un campo centrale della vita,
mentre uno sviluppo omosessuale li conduce in un
vicolo cieco. Costoro non pensano neppure di preve­
nire tutto ciò nonostante che, obiettivamente, non vi
sia ragione per assumere un aprioristico atteggia­
mento fatalista a questo riguardo.
Dalla nostra esposizione si possono desumere al­
cune idee concernenti la prevenzione. Le prime e più

173
importanti persone che possono evitare questa cre­
scita rachitica nei loro figli sono naturalmente i ge­
nitori. Essi devono offrire l’esempio di una normale
relazione uomo-donna. Se il loro matrimonio è saldo
ed essi riescono a creare una ragionevole atmosfera
di affetto e di unione, si riducono considerevolmente
le possibilità di incidenza di qualsiasi complesso
nevrotico, compreso quello omosessuale.
Per quanto concerne come allevare i figli, sia il
padre sia la madre devono aver bene in mente che
devono trattare un ragazzo come maschio e una
ragazza come femmina. Ciò non significa forzarli in
«ruoli prestabiliti», ma cooperare con le propensioni
naturali dei figli, tenendo presenti le innate diversità
di comportamento legate al sesso.
Il principale fattore di prevenzione è Y apprezza­
mento da parte dei genitori del ragazzo come ragaz­
zo e della ragazza come ragazza. I figli dovrebbero
percepire questo apprezzamento. Come abbiamo già
esposto, deve essere evitata ogni deficienza a questo
riguardo.
I periodi critici per lo sviluppo della fiducia in sé
stessi come uomo o come donna sono la preadole­
scenza e l’adolescenza. A questa età, non solo i
genitori, ma anche altre persone all’infuori della
famiglia possono esercitare una benefica influenza.
A volte, per esempio, gli insegnanti possono contri­
buire in modo positivo a rafforzare una sana fiducia
nell’identità sessuale dell’alunno; essi possono inco­
raggiare e aiutare ciascun ragazzo o ragazza a supe­
rare certe limitazioni. Si pensi, per esempio, al ra­
gazzo che rimane sistematicamente indietro nei gio­
chi e negli sport, che è un isolato nel gruppo dei
coetanei; si consideri l’importanza della compren­

174
sione che un insegnante o un altro adulto può espri­
mere in una conversazione o in altro modo, aiutando
l’adolescente a evitare il rischio di finire nell’auto­
drammatizzazione.
Inoltre, un effetto preventivo è contenuto anche in
ima buona educazione sessuale. Gli adolescenti che
hanno certi tipi di complessi d’inferiorità originari
possono subire uno shock depressivo quando viene
insegnato loro, da parte di un’autorità «illuminata»
quale quella di un insegnante, che «l’omosessualità
è insita nel cervello». Una simile assurdità inchioda
un ragazzo ai suoi dubbi sulla propria identità e può
orientare una mente indecisa e immatura in una dire­
zione funesta. Il giovane dovrebbe sentirsi dire, in­
vece, che le sensazioni omosessuali nell’adolescen­
za rappresentano dei problemi emotivi dello svilup­
po e che una vera omosessualità innata non esiste;
inoltre, che questa tendenza risale a un complesso
d’inferiorità che è suscettibile di cambiamento: in
questo modo l’educatore istilla la speranza e indica
una strada sulla quale può essere proseguita la cre­
scita interiore.

175
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186
INDICE

Introduzione, di Paul C. Vitz....................................7

1. Gli atteggiamenti sociali verso l’omosessualità . 15


L ’omofilia come disturbo e m o tivo ....................18
N o te ................................................................. 20

2. Quando una persona è omosessuale?.................21


Sensazioni omosessuali.....................................22
Incidenza ........................................................ 24
Autoidentificazione.......................................... 26
N o te ................................................................. 31

3. L’omosessualità è innata?..................................33
Ormoni ........................................................... 36
Ereditarietà......................................................40
Normalità........................................................ 45

187
Siamo tutti bisessuali?.................................... 45
Uno stadio transitorio bisessuale...................... 49
N o te .................................................................51

4. L’omosessualità come disturbo psichico . . . . 55


N o te ................................................................. 64

5. Il complesso d’inferiorità dell’omosessuale . . 69


Il bambino autocommiserante nell’adulto . . . 14
Il complesso d ’inferiorità omosessuale..............77
Mascolinità e femminilità: stereotipi culturali? 80
L ’omosessualità nello sviluppo sessuale . . . . 83
N o te ................................................................. 88

6. Origine e meccanismi
del complesso omosessuale..................................91
Origine nell’uomo............................................. 91
I rapporti con i genitori.....................................95
Altre influenze.......................................... 98
Origine nella donna.........................................102
Altre influenze................................................. 105
N o te ............................................................... 107

7. Come agisce il complesso omosessuale . . . . Ili

8. La via che porta al cambiamento................. 117


Conoscenza di sé e lotta...................................121
Iperdrammatizzazione......................................125
La guarigione................................................. 129

9. Il cambiamento senza psicoterapia..................135


La conversione religiosa................................ 140

188
John V. ..........................................................144
N o t e ................................................................152

10. Effetti della terapia antilamentela..................155


Ben ................................................................. 16
Il signor L ......................................................... 163
Il signor V. .................................................... 167
La signorina W . .............................................. 168
N o te ................................................................171

11. Prevenzione ................................................. 173

Bibliografia..........................................................177
Indice.................................................................. 187

189

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