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VOL GURCIULLO-STRINO - IA BZ - 29GEN 2018

a cura di
GIUSEPPE GURCIULLO –
EMILIANO STRINO

GOVERNO
FRATERNO
La novità di Francesco d’Assisi
nella società delle relazioni liquide

EDIZIONI DEHONIANE BOLOGNA

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VOL GURCIULLO-STRINO - IA BZ - 29GEN 2018

Prima edizione: xxxxxxxxxx 2018

Impaginazione e realizzazione editoriale: Omega Graphics Snc - Bologna

©
2018 Centro editoriale dehoniano
via Scipione Dal Ferro, 4 – 40138 Bologna
www.dehoniane.it
EDB®

ISBN 978-88-10-50752-0

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VOL GURCIULLO-STRINO - IA BZ - 29GEN 2018

CAPITOLO 8
IL GOVERNO IN FRANCESCO DI ASSISI
Tra progetto evangelico e caratterialità
personale

Pietro Maranesi

IL GOVERNO IN FRANCESCO DI ASSISI Tra progetto


evangelico e caratterialità...

Un gruppo sociale ha sempre bisogno di un governo, cioè di una figura che


abbia l’autorità per dirigere e organizzare la vita dei rapporti interni. È chiaro allo-
ra che parlare di governo significa occuparsi dell’organizzazione del potere, quale
strumento tanto necessario per la gestione del gruppo quanto pericoloso per le sue
possibili derive verso il dominio.
Anche nel contesto dei fratelli che si erano legati a Francesco di Assisi la que-
stione del governo è stata un aspetto di grande rilievo, perché costituiva un pas-
saggio di estrema importanza e difficoltà nel dare consistenza e coerenza alla loro
identità evangelica.1 In particolare si trattava di ripensare le dinamiche che carat-
terizzavano il potere nel contesto sociale degli inizi del XIII secolo, fondate sulle
dipendenze feudali, in cui il dominio dell’uno sull’altro strutturava i meccanismi
sociali e dava stabilità e sicurezza al sistema. Senza perseguire obiettivi esplicita-
mente sociali, cioè senza la volontà di effettuare una specie di critica e tanto meno
di rivoluzione sociale, l’intenzione di fondo del progetto evangelico di Francesco
mirava alla possibilità di instaurare tra i frati una relazione in cui il governo fos-
se una forma di condivisione e non di dominio; si superava così al loro interno la
figura della piramide del potere feudale, sostituendola con il circolo del servizio
reciproco.
Per illustrare i cardini della soluzione adottata dalla prima fraternità minoritica si
dovranno effettuare due approfondimenti. In un primo momento vorremo accennare
alle dinamiche generali dell’incontro e della scoperta da parte di Francesco di una
proposta evangelica che permise al Santo di sognare nuove prospettive nelle relazio-
ni tra i suoi frati. La ricostruzione di alcuni momenti fondamentali della scoperta di
un nuovo modo di pensare e vivere la vita relazionale permetterà allora, in un secon-

1
 In questo contesto si tengano presenti i due lavori che J. Dalarum ha dedicato al tema del potere e del
governo: il primo è Francesco d’Assisi: il potere in questione e la questione del potere, Biblioteca Francescana,
Milano 1999; l’altro più recente, con prefazione di Giovanni Miccoli, è Governare è servire. Saggio di democrazia
medievale, Biblioteca Francescana, Milano 2015.

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do momento, di comprendere la formulazione presente negli scritti di Francesco, e in


particolare nella Regola, di un progetto evangelico con il quale dare corpo e visibilità
ad una specificità nell’organizzare e gestire il governo all’interno della fraternità.

8.1. La pro-posta evangelica


incontrata e abbracciata da Francesco
Il pro-getto di Francesco, quale stile evangelico di organizzare il governo, na-
sce dall’incontro di una pro-posta da lui scoperta all’inizio della sua esperienza
cristiana. Dunque occorre partire dalla pro-posta (il punto di partenza esistenziale)
per poter poi capire il pro-getto (il punto di arrivo ideale). A mio avviso il punto di
partenza, dal quale tutto il resto si è originato, si lega a tre momenti esistenziali di
Francesco, dei quali i primi due possono essere pensati come preliminari e conte-
stuali, mentre il terzo va ritenuto l’evento determinante della sua intuizione di vita.
Dunque i tre spazi esistenziali furono in qualche modo delle pro-poste, cioè eventi
che gli furono posti innanzi, i quali, sebbene in diverso modo, obbligarono France-
sco a incontrarsi sia con la questione del potere di governo nelle sue diverse forme,
sia con una possibilità nuova di pensarlo e organizzarlo dando vita a un pro-getto di
cui si parlerà nel prossimo paragrafo.

8.1.1. L’anima del tempo:


nuove prospettive socio-religiose di tipo democratico
Senza pretendere di effettuare una presentazione sistematica delle novità so-
cio-culturali dell’inizio del XIII secolo, richiamiamo qui alcuni aspetti che costitui-
vano un po’ l’anima del tempo, e che influirono, in modo più o meno diretto, anche
nel sentire del giovane Francesco.
Innanzitutto occorre ricordare le nuove prospettive di vita religiosa che si af-
fermarono nel contesto del mondo monastico, con delle interessanti novità riguardo
al governo interno dei gruppi religiosi.2 Il mondo benedettino, secondo la visione
presente nella Regola di Benedetto, era di fatto caratterizzato da una struttura di
governo guidata dalla metafora del pater familias. L’Abate non solo era eletto a
vita, ma svolgeva un ruolo di direzione unico e assoluto. Egli era appunto l’abba, il
pater dei suoi monaci, nei confronti dei quali gli era chiesto di attuare quanto sug-
geriva l’apostolo a Timoteo:
Correggi, esorta, rimprovera e precisamente, alternando i rimproveri agli incoraggiamenti, a
seconda dei tempi e delle circostanze, sappia dimostrare la severità del maestro insieme con la
tenerezza del padre. In altre parole, mentre deve correggere energicamente gli indisciplinati e gli
irrequieti, deve esortare amorevolmente quelli che obbediscono con docilità a progredire sempre
più. Ma è assolutamente necessario che rimproveri severamente e punisca i negligenti e coloro
che disprezzano la disciplina.3

2
 In qualche modo terremo presente l’indagine di Dalarun, Governare è servire, all’interno della quale
l’autore, nella prima parte, prende in esame le nuove forme religiose che si affermano in Occidente nel contesto
monastico e che dettero vita, come diremo tra un po’, a diversi tentativi di forme nuove e inedite di governo all’in-
terno delle compagini religiose.
3
  Regola di Benedetto II 25ss.

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All’interno di alcune nuove fondazioni si assiste a delle novità interessan-


ti riguardo la gestione del governo, il quale, in qualche modo, viene sganciato
dalla figura del pater familias spostandosi verso una direzione che potremmo
qualificare come più democratica. Ricordiamo solo i casi di due fondazioni della
metà del XII secolo. Il primo è quello della comunità mista, composta da uomini
e donne, fondata da Roberto d’Arbrissel nel 1115 a Fontevraud.4 In essa il fon-
datore non solo aveva deciso di assegnare la direzione della grande comunità
alle donne, ma anche di far scegliere l’Abbadessa non tra le coriste ma tra le
inservienti, decidendo di lasciare «che Maria continui ad aspirare alle cose ce-
lesti» e scegliendo «Marta per amministrare con cura gli affari terreni».5 L’altra
esperienza è la comunità di Grandmont, fondata da Stefano di Muret nella metà
dell’XI secolo e poi portata a compimento da Stefano di Liciac verso la metà del
XII secolo.6 Al suo interno il governo della comunità non è assegnato ai chierici
ma ai conversi, scelta specificata in questo modo nella loro Regola:
Per questo affidiamo naturalmente la cura materiale della cella ai soli conversi; questi,
nello svolgimento del lavoro, si innalzano sopra gli altri monaci – cioè i chierici e gli altri
conversi – non per volontà di dominio, ma per la carità. In questo modo l’umiltà, custode di
ogni virtù, viene conservata integra.7

Gli altri due ambiti da ricordare furono sicuramente più presenti e influenti
nel vissuto di Francesco. Il primo riguarda le confraternite all’interno dell’ambi-
to cittadino, le quali, pur se sorte già da tempo nella Chiesa, ebbero nuovo impul-
so e sviluppo alla fine del XII e all’inizio del XIII secolo. Insieme alle corpora-
zioni e alle università, le confraternite partecipavano a uno spirito associativo di
tipo laicale, in cui l’unione tra i membri non era stabilita solo dall’appartenenza
a funzioni sociali simili, ma anche da un accordo pattizio tra pari (fratelli) che si
impegnavano nel mutuo soccorso, in gesti di carità e forme di liturgia comune.
Di fatto queste forme associative laicali si distaccavano dal principio feudale dei
rapporti piramidali fondati sul sangue e nei quali il potere discendente era assi-
curato da un giuramento di fedeltà e di sudditanza.
Inoltre questi movimenti socio-religiosi laicali si immettevano, diventan-
done frutto e causa, nell’altra grande novità, segnata dalla nascita – in partico-
lare nel centro e nord dell’Italia – dei comuni.8 A fianco della struttura feuda-
le, composta da vassalli e feudatari, tutti dipendenti dall’imperatore, si inizia a
sviluppare, a partire dalla metà del XII secolo, una nuova forma di vita politica
caratterizzata da una certa autonomia delle città, dove appunto si cercava di at-
tuare una gestione comune della cosa pubblica mediante un doppio livello di
organizzazione: le varie corporazioni composte da uomini che esercitavano gli
stessi mestieri e animati da interessi comuni, e il podestà eletto da questi gruppi
socio-economici, al quale veniva affidato il governo della città. Tuttavia non era
facile porre insieme e mantenere in pace le diverse componenti sociali, divise e

4
  Dalarun, Governare è servire, 63-70.
5
  Citato in ivi, 68.
6
 Cf. ivi, 79-91.
7
  Reg. Grandmont, LIV, dedicato a «La cura dei chierici e dei conversi», citato in ivi, 81.
8
 Pagine interessanti su questi sviluppi socio-politici legati alla nascita dei comuni sono offerte da A.
Vauchez, Francesco d’Assisi. Tra storia e memoria, Einaudi, Torino 2010, 9-21, in cui, oltre ai richiami sulla
rinnovata impostazione della società comunale con la presenza anche della nuova classe dei mercanti, viene offerta
un’interessante descrizione di Assisi tra la fine del XII secolo e l’inizio del XIII secolo.

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rivali tra loro per interessi spesso contrastanti; per gestire e attutire la violenza,
che spesso scoppiava irrefrenabile tra le parti, diverse erano le iniziative; tra
queste, ad esempio, oltre a stabilire ordini precisi di successione tra le varie cor-
porazioni, si decise di eleggere un podestà esterno alla città stessa, con mandati
di potere di breve periodo (sei mesi).9
In questo contesto di grande sviluppo sociale, tendente a una sempre più
ampia autonomia delle realtà locali, emerge un altro elemento innovativo nella
trasformazione dell’assetto sociale: i mercanti, un nuovo gruppo cittadino ca-
ratterizzato da una grande dinamicità sia politica sia economica. Liberi da una
stretta e diretta relazione feudale e forti di un potere economico fondato sulla
moneta, i mercanti si imposero ben presto dentro al tessuto politico e sociale
della vita comunale.10
Assisi costituisce una città che visse fino in fondo questo processo sia di
rinnovamento socio-culturale sia di rivalità interne tra gruppi animati dal de-
siderio di libertà.11 La città comunale era divisa in due gruppi rivali: i maiores,
appartenenti ai nobili terrieri, e i minores, costituiti dal resto dei cittadini con le
loro aspirazioni di partecipare al governo e al potere della città. Le tensioni e le
rivalità interne portarono allo scontro armato del 1203 con la sconfitta dei maio-
res. Anche Francesco partecipò alla battaglia, cadendo prigioniero per un anno
a Perugia.
A fianco di questo assetto cittadino di uomini liberi che tentavano di imporre
(anche con la violenza) il proprio potere all’interno dell’assetto del comune, vi
erano coloro che invece non potevano permettersi di abitare dentro le mura della
città ma occupavano la valle sottostante di Assisi. Erano i contadini e i servi del-
la gleba, destinati al servizio della terra, soggetti senza diritti e completamente
dipendenti dalla volontà dei padroni fondiari.12 Nella scala sociale, sotto questa
categoria vi erano poi gli ultimi degli ultimi e cioè i lebbrosi, relegati in ghetti
che ne assicuravano l’esclusione totale dal contatto con gli altri. Insieme ai men-
dicanti, essi occupavano i margini della società, vivendo lungo le strade, in balia
del disprezzo degli altri, o sperando in gesti di carità che potessero alleviare per
un momento la loro misera condizione di abbandonati.

9
  Una testimonianza chiara della struttura del comune medievale e delle forti tensioni che si sviluppa-
vano al suo interno per la rivalità di interessi economici e di potere politico viene offerta da un documento
del XIII secolo del comune di Assisi. Negli statuti di questa città, per evitare le conflittualità e le violenze che
nascevano tra le varie corporazioni, si stabilisce l’ordine che esse dovevano occupare nella processione per
l’offerta della candela ai priori in occasione della festa di san Ruffino: «I mercanti prima e poi, secondo quanto
era prescritto, i notai, e quindi i calzolai, i medici e speziali, i merciai, i lanai, i macellai, i tavernieri (erano
queste le arti maggiori, rette ognuna da due camerarii, mentre le altre arti non avevano diritto che a uno); i
maestri delle pietre, i maestri del legname, i bambagieri, i fabbri, i bovari, i fornai, i mulattieri, i barbieri, i
sarti, i vasai, i pizzicagnoli» (A. Fortini, Assisi nel medioevo. Leggende, avventure, battaglie, Caucci, Roma
1981, 69). Alla fine del testo l’autore osserva: «La precedenza delle arti in queste cerimonie fu causa più volte
di gravi disordini, onde, ad tollendam omnem confusionem et materiam rixe sive scandali que oriri posset
imposterum propter incessiones et progressiones omnium et singulorum artium, si stabilì l’ordine suddetto»
(p. 77, nota 86).
10
  È interessante notare che nel precedente ordine assunto dalle varie corporazioni durante la processione
i mercanti aprivano la processione, segno chiaro della primazia che essi avevano ottenuto sulle altre.
11
  Cf. le analisi e i dati che sono ricordati da Voschez, Francesco di Assisi, 14-16.
12
  Cf. le analisi che vengono proposte da G. Cherubini, «Il contadino e il lavoro dei campi», in J. Le
Goff (a cura di), L’uomo medievale, Laterza, Bari 1993, 125-154; articolo dedicato alla condizione sociale
e culturale dei contadini nel medioevo, dove tra l’altro si ricorda che nel giudizio sociale del tempo il conta-
dino non era identificato soltanto con sporcizia, povertà e rozzezza, ma anche con «una sorta di ferinità» che
lo collocava nell’immaginario collettivo «quasi a un intervallo intermedio tra le bestie e gli uomini» (150).

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8.1.2. Il vissuto familiare nella sensibilità di Francesco

Il secondo spazio esistenziale che ha influenzato sicuramente la formazione


umana di Francesco e la sua visione delle relazioni tra gli uomini va ritrovato nel
suo ambiente familiare.
Della vicenda familiare vissuta da Francesco prima di lasciare il mondo non
sappiamo molto; le uniche notizie ci vengono dalla Leggenda dei tre compagni, la
quale, sebbene condizionata dai suoi obiettivi agiografici, sembra abbastanza infor-
mata sulla giovinezza e la vita familiare di Francesco.13 Da questo testo è possibile
individuare alcuni caratteri peculiari della relazione vissuta dal giovane con i suoi
genitori, dinamiche nelle quali di fatto egli incontrò e sperimentò il governo fami-
liare secondo la cultura del tempo e secondo lo stile della sua particolare famiglia.
Sia il padre sia la madre avevano per Francesco non solo un grande amore, ma
anche una grande stima, permettendogli di vivere una vita agiata e dispendiosa. Vi
è una notazione nella Leggenda dei tre compagni di estremo interesse sulla relazio-
ne che regnava tra i genitori e il loro primogenito: «I genitori gli rimproveravano
di fare spese così esagerate per sé e per gli altri, da sembrare non loro figlio, ma
il rampollo di un grande principe. Ma siccome erano ricchi e lo amavano tenera-
mente, lasciavano correre su quel comportamento, non volendolo contristare».14
In fondo vi era una specie di compiacimento da parte dei genitori nel vedere quel
figlio che, godendo delle loro ricchezze, metteva in mostra il benessere della fami-
glia. Inoltre, nella vivacità e nell’entusiasmo del suo primogenito, il padre Pietro
di Bernardone riponeva la fiducia di un grande successo per l’intera famiglia, nella
speranza di poter ascendere nella scala sociale grazie proprio ai sogni cavallereschi
a cui si era appassionato il figlio. Il padre aveva favorito queste aspirazioni di gloria
fornendo il figlio di un cavallo e dell’armatura così da permettergli di intraprendere
l’avventura militare verso le Puglie al seguito del cavaliere Gentile, nella speranza
di essere fatto da lui cavaliere.15 Nel figlio il padre investiva per un futuro glorioso
della sua famiglia. I soldi del commercio avrebbero fruttato l’ascesa sociale del suo
nome facendolo passare dai minores ai maiores.
Tuttavia il progetto e gli investimenti non andarono a buon fine; Francesco
inspiegabilmente abbandonò i suoi sogni per cadere in una profonda irrequietezza
che metteva in crisi tutto l’assetto ideale ed esistenziale della sua vita. In particola-
re, le relazioni familiari vennero toccate profondamente e sconvolte radicalmente a
causa di gesti inconsulti da lui compiuti dopo essere tornato dal viaggio fallimen-
tare delle Puglie. Non solo aveva venduto il cavallo e le vesti preziose, ma si era
fermato a vivere nella povera chiesa di San Damiano per ricostruirla, condividendo
la sorte di un povero prete che officiava quella chiesetta.
Notizie sulle vicende tragiche per la vita di Francesco, seguite a questa svolta
esistenziale, erano già state offerte dalla Vita prima di Celano (il testo più antico,
del 1229, tra le biografie su Francesco). Esse sono poi confermate sostanzialmente

13
  La conoscenza della situazione di Assisi e delle varie istituzioni cittadine che positivamente si rappor-
tarono alla vicenda iniziale del santo permette a F. Accrocca di «individuare l’autore della Legenda non in un
francescano, quanto piuttosto in un personaggio assisano il cui principale obiettivo sembra essere stato quello
di correggere l’immagine fortemente negativa dalla lettura della Vita di Tommaso riguardo alla giovinezza del
Santo, alla sua famiglia e al comportamento dell’intera città umbra» (F. Accrocca, Un santo di carta, Biblioteca
Francescana, Milano 2013, 150).
14
  Leggenda dei tre compagni, 2: FF 1396.
15
 Cf. Leggenda dei tre compagni, 5: FF 1399.

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dalle successive biografie, a partire dalla Leggenda dei tre compagni del 1243, fino
alla Leggenda maggiore composta nel 1263 da Bonaventura. Tra queste biografie
vi è una sostanziale fedeltà nel raccontare quanto avvenne tra Pietro di Bernardone
e Francesco dopo quella crisi esistenziale del figlio, inspiegabile e inaccettabile per
il padre.16 La famiglia, precedentemente unita nel favorire i sogni e le intemperan-
ze del figlio, nel momento della pazzia di Francesco si spacca. Da una parte vi era
Pietro di Bernardone, dall’altra la madre Pica. Pietro rappresentava la fermezza di
un uomo che non poteva permettere ai gesti inconsulti del figlio di causare disono-
re e derisione alla propria famiglia. Da pater familias, che aveva il potere assoluto
sul figlio, dopo averlo condotto a casa e rinchiuso in una camera, arrivò al gesto
radicale di cacciarlo e diseredarlo. Il governo della sua famiglia gli chiedeva di
esercitare un potere sul figlio – anche utilizzando forme di violenza – capace di
piegare le intemperanze di Francesco per ricondurlo a un comportamento che non
fosse contrario al buon nome della famiglia e lo liberasse da quella specie di scon-
volgimento mentale.
La madre Pica rappresentava invece la gratuità, mossa dall’affetto per il fi-
glio.17 Interessata e attenta principalmente alle sofferenze del figlio, non sopportò
la vista della sua prigionia in casa, fino a decidere di liberare Francesco, contrav-
venendo alla volontà del marito. Per l’amore del figlio e la passione nei suoi con-
fronti, la madre disattese il volere del padre a rischio di essere lei stessa trattata
duramente dal potere assoluto di questi.
Dunque, in Pietro di Bernardone Francesco vede sia la generosità progettua-
le che investe sul figlio, sia la fermezza del governo della casa che non dubita un
momento di cacciarlo dalla famiglia pur di difenderne il buon nome; mentre nella
mamma Pica Francesco sperimenta un altro governo fatto di gratuità, dove il potere
è quello della tenerezza e dell’attaccamento, criteri che spingeranno la mamma alla
compassione per il proprio figlio. È chiaro che questi due atteggiamenti dei genitori
costituiscono l’ultimo atto registrato dalle fonti di una doppia relazione educativa
vissuta da Francesco nella sua infanzia e nella sua giovinezza. Egli nel suo modo di
vedere il mondo fu educato non solo dalla civiltà comunale di Assisi ma anche dal
clima familiare, e cioè dal carattere fermo e pretenzioso del padre e dalla tenerezza
fedele e gratuita della madre. In Francesco era attiva una miscela esistenziale fatta
di tante componenti in cui la sua città e la sua famiglia costituivano i fattori prin-
cipali del suo modo di percepire il mondo e di concepire il governo nelle relazioni
tra gli uomini.

8.1.3. I due momenti di una intuizione pro-posta a Francesco

All’interno di questi diversi contesti socio-culturali vissuti da Francesco nella


sua giovinezza si immettono due esperienze che toccheranno radicalmente la sua
persona dando a essa una nuova visione del mondo con dei rinnovati parametri
esistenziali. È Francesco stesso che nel suo Testamento, dettato a ridosso della sua
morte per lasciare una memoria e un’esortazione ai suoi compagni, ci racconta i

16
 Cf. Vita prima, 10-11; Leggenda dei tre compagni, 16-17 e Leggenda maggiore, 2,2: FF 336-337, 1415-
1417, 1040-1041.
17
 Cf. Vita prima, 13, Leggenda dei tre compagni, 18; Leggenda maggiore, 2,3: FF 341-342, 1418, 1042.

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due eventi.18 Nella parte narrativa di quel testo (vv. 1-23), sono da lui ricordati tre
momenti fondativi della sua vicenda iniziale: la sua conversione (1-3), l’esperienza
teologica della croce e della Chiesa durante la sua permanenza a San Damiano (vv.
4-13) e infine l’arrivo dei compagni con la descrizione della primitiva vita condotta
con essi (vv. 14-23).19 Nei primi due momenti il giovane aveva vissuto due espe-
rienze tra loro complementari che gli avevano offerto un nuovo modo di sentire la
vita, e di conseguenza un nuovo riposizionamento dentro la società medievale, do-
nandogli anche criteri di governo profondamente rinnovati e addirittura ribaltati in
rapporto a quelli feudali. I compagni si unirono a lui perché incontrarono in France-
sco questa specifica pro-posta evangelica, capace di dare senso rinnovato alla loro
esistenza personale con nuove relazioni di tipo comunitario, fondate sul vangelo e
liberate dalla violenza che scaturisce dal desiderio di potere e di dominio.
La prima fondamentale esperienza che trasformò la sua persona fu l’incontro e
la permanenza tra i lebbrosi. Nel racconto lasciato ai suoi frati all’inizio del Testa-
mento, il Santo interpreta questa esperienza come la causa e il punto di partenza del
ribaltamento del modo di sentire e vivere la vita: ciò che era amaro esistenzialmente
fino a quel momento si era convertito (conversum fuit) in dolcezza di senso di vita,
un rinnovamento di sapore che subito dopo divenne bisogno di effettuare precise
e concrete scelte di vita con le quali lasciò il secolo,20 cioè abbandonò la logica di
poter che regolava la sua società.21 Degli eventi accaduti nell’andare tra i lebbrosi
per condividere la loro sorte, Francesco non racconta nulla di preciso e circostan-
ziato (i suoi frati, a cui si rivolgeva, erano infatti informati dei fatti), mentre è inte-
ressato a fornire ai suoi l’interpretazione generale di quel periodo eccezionale per la
sua esistenza: «Il Signore mi condusse tra di essi e io feci misericordia con essi».22
Il processo di conversione fu preciso e chiaro: dall’essere nei peccati, oppresso
da un senso di amarezza diffuso, all’esperienza vissuta tra i lebbrosi di una logica
nuova, piena di senso e gusto. Smise di essere animato dal desiderio di potere auto-
centrato, teso, come era stato fino a quel momento, a una vita di successo e di asce-
sa sociale, ed effettuò per la prima volta un processo di uscita da sé, entrando in una
logica di dono e di gratuità verso coloro che non potevano ripagarlo e avvantaggiar-
lo in nulla. In questo processo di condivisione con gli ultimi, senza pretendere nulla
da essi, egli intuì in modo nuovo e ribaltato le logiche evangeliche delle relazioni
tra gli uomini: governare non è dominare, ma servire. Si ribaltarono i criteri ideali
dell’esistenza di Francesco, dove il compimento della vita non era più collocato nel
desiderio di essere in alto sopra gli altri affermando la propria persona, ma a fianco
per donare con gratuità il proprio cuore ai miseri, cioè per realizzare un’esperienza
di misericordia. Insomma tra i lebbrosi egli convertì e ribaltò i criteri generali della
vita: dal desiderio di essere in alto per dominare in quanto cavaliere vincente, alla
generosità di porsi a fianco tra gli ultimi per vivere una vita di condivisione ed eser-
citare tra di essi il potere del dono.

18
  Mi permetto di rinviare al mio ampio lavoro L’eredità di frate Francesco. Studio storico-critico del Te-
stamento, Porziuncola, Assisi 2009, dedicato a uno studio sistematico dell’ultimo scritto di Francesco.
19
  Sulla tripartizione della parte narrativa cf. ivi, 78-86.
20
 Cf. Testamento, 3: FF 110.
21
  Ho proposto un’analisi dettagliata e articolata dei tre primi versetti del Testamento nel mio volume Fa-
cere misericordiam. La conversione di Francesco: Confronto critico tra il Testamento e le biografie, Porziuncola,
Assisi 2007, 64-109; ritorno sul tema in due testi: «La conversione di Francesco: racconti di una (doppia) identità»,
in Vita minorum 79(2008), 63-108 e poi in L’eredità di frate Francesco, 99-120.
22
  Testamento, 2: FF 110.

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Ed egli capì che solo così si governa la vita, dando a essa una direzione di sen-
so e un approdo di gusto: tra i lebbrosi il giovane abbandonò il principio dell’alto-
basso della logica feudale, e iniziò a intuire la bellezza e l’efficacia evangelica della
circolarità in cui si tenta di abolire il principio del dominio e della forza per istau-
rare il principio del servizio gratuito e generoso. La pro-posta ricevuta dai lebbrosi
divenne per Francesco un pro-getto circa il modo di porsi davanti agli altri e di im-
postare le relazioni, liberandole dai criteri del potere per gestirle, invece, secondo
il principio del servizio.23
La stessa notizia, con la conferma definitiva che governare è servire, venne do-
nata a Francesco dall’esperienza teologica da lui raccontata subito dopo, ai vv. 4-5,
dove ricorda il dono della fede che Dio gli fece dopo la sua conversione.24
La memoria della preghiera da lui recitata nelle chiese, nelle quali egli adorava
e benediva il Cristo perché con la sua santa croce aveva redento il mondo, rinvia-
va, a mio avviso, a un’esperienza forte da lui vissuta probabilmente a San Damia-
no.25 In quella povera e quasi abbandonata chiesetta ai margini di Assisi il giovane
ascoltò non delle parole dalla croce, ma la parola della croce, cioè la logica della
misericordia di Dio con la quale egli aveva governato il mondo per stringere con
ogni uomo una relazione di comunione fondata sulla gratuità. Francesco intuì con
sommo stupore ed esultanza che Dio, attraverso il dono di amore del Figlio, aveva
mostrato la sua logica (la teo-logia) sulla croce dando, attraverso essa, una paro-
la definitiva sul suo modo di regnare e governare: cioè attraverso la misericordia,
quando aveva donato il suo cuore, il suo Figlio, alla miseria e povertà di noi uomini.
Dalla croce Francesco ascolta la notizia del potere senza potere di Dio che governa
il mondo attraverso la gratuità della sua misericordia crocifissa.
Insomma, davanti alla croce Francesco non vive, come invece racconta per la
prima volta la Leggenda dei tre compagni, un’esperienza mistica che lo investe di
un potere unico con il quale andare a riparare la Chiesa; Francesco davanti alla croce
di San Damiano non diventa il miles Christi,26 il cavaliere inviato per sconfiggere gli
avversari della Chiesa o il Sansone che con la mascella d’asina sbaraglia tutti i fili-
stei che minacciavano la Chiesa.27 La croce di San Damiano non fa di lui il capitano
di un esercito chiamato alla guerra santa, conferendogli un potere assoluto su di una
schiera pronta alla battaglia; l’esperienza della croce non è un impegno a salvare il
mondo mediante un esercizio del potere assoluto come lo richiede l’impegnatività

23
  Nella conclusione di L’eredità di frate Francesco noto quanto segue: «Tra i lebbrosi, Francesco com-
prende che è necessario abolire ogni differenza, ogni distinzione di classe e di potere, smettere di essere non solo
il cavaliere ma anche il figlio di Bernardone per diventare e agire semplicemente come un fratello minore, condi-
zione indispensabile per realizzare il dono del cuore e unica via per giungere alla vita» (117).
24
  Un ampio commento ai due versetti si trova in L’eredità di frate Francesco, 143-154, dove riprendo in
modo più sintetico quanto avevo già analizzato in «Dedit mihi tantam fidem. Lettura critica dei vv. 4-13 del Te-
stamento di Francesco d’Assisi», in Verum, pulchrum et bonum. Miscellanea di studi offerti a Servus Gieben in
occasione del suo 80° compleanno, Istituto Storico dei Cappuccini, Roma 2006, 31-76.
25
  Per le prove testuali a sostegno di questa ipotesi si rinvia ai due testi precedenti.
26
  La categorie agiografica di miles Christi, quale punto di arrivo dell’identità donata a Francesco dall’e-
vento di conversione avvenuto davanti alla croce di San Damiano, è l’elemento centrale proposto dalle biografie,
una categoria interpretativa generale attraverso la quale esse possono accentuare la specialità e l’unicità della
persona di Francesco per la grazia ricevuta da Dio. In qualche modo, dalla Croce di San Damiano egli ottenne
l’investitura a cavaliere. Su questo fondamentale aspetto interpretativo delle biografie ho scritto con ampiezza in
«La conversione di Francesco: racconti di una (doppia) identità», in Vita minorum 79(2008) 3-4, 67-87; parte di
quelle analisi sono riprese anche in L’eredità di frate Francesco, 121-135.
27
  È l’immagine biblica utilizzata da Gregorio IX in apertura della sua bolla Mira circa nos di canonizza-
zione di Francesco, con la quale egli propone il Santo a modello del grande combattente per la difesa e l’espan-
sione della fede (cf. FF 2722).

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della battaglia da vincere a favore della fede cristiana.28 L’esperienza della croce è
invece lo stupore di una grande e buona notizia, che cioè Dio è venuto dentro il no-
stro recinto di morte per condividere la nostra impotenza e fare con noi misericordia.
Francesco ascoltò dunque la parola della croce che si identificava con il volto mise-
ricordioso di un Dio fattosi egli stesso lebbroso per condividere e riscattare la nostra
sorte. Nella povertà e umiltà del morto in croce per amore, Dio aveva mostrato la
sua forza e il suo potere, con il quale aveva governato e redento il mondo.
Con queste due esperienze fondative della sua identità evangelica (la perma-
nenza tra i lebbrosi e l’incontro con il volto crocifisso) la categoria del governo nei
confronti degli altri perde in Francesco ogni forma di potere piramidale, per diven-
tare un progetto di condivisione servizievole, nel quale il dono di sé è misurato dal-
la gratuità e generosità, cioè da una misericordia che si pone al servizio degli altri
senza pretendere nulla e donando tutto. La verifica di questa ipotesi la troviamo in
due metafore utilizzate da Francesco per illustrare il progetto di governo organizzato
all’interno della sua comunità, cioè nell’immagine della madre e in quella del servo.
L’analisi della presenza delle due figure dentro i testi di Francesco costituisce la
verifica, a mio avviso, di questa ipotesi generale. Alla loro lettura occorrerà però ag-
giungere anche un’altra figura nascosta nei testi di Francesco: quella del padre, cioè
quella di un modello di governo rifiutato esplicitamente dal Santo, ma forse presente
inconsapevolmente in certe espressioni e atteggiamenti da lui assunti per affrontare
e risolvere le forti tensioni emerse con gli altri fratelli verso la fine della sua vita.

8.2. Gli elementi del pro-getto evangelico


del governo nei testi di Francesco

La frequenza e l’importanza strategica dell’utilizzo delle immagini di madre e


servo nei testi di Francesco permettono di supporre in esse una consapevole proget-
tualità relazionale da realizzare tra i frati; con esse il Santo sente che avrebbe dato
concretezza e sviluppo all’ideale evangelico da lui scoperto tra i lebbrosi, e cioè
avrebbe realizzato un governo nella fraternità in cui regnasse la circolarità della
gratuità e del servizio e fosse eliminata la logica del potere piramidale.29 Con le due

28
  Nell’analisi dell’utilizzo da parte delle biografie della metafora del miles Christi applicata a Francesco
faccio notare anche l’importanza di questa interpretazione per la difesa dell’identità dell’Ordine contro gli attacchi
che negli anni Cinquanta del XIII secolo erano rivolti ai frati minori; a essi infatti si rimproverava di aver invaso
impunemente spazi culturali (gli studi e la loro presenza nelle università) e pastorali (la predicazione) non spettanti
a loro e contrari alla loro identità; cf. le analisi che propongo in «La sede apostolica e i frati minori nel dibattito
ecclesiologico tra chiesa universale e chiesa locale nel secolo XIII», in Convivium assisiense 17(2015), 65-131. Se
Francesco davanti alla Croce di San Damiano era stato fatto miles Christi con un impegno missionario a vantaggio
di tutta la Chiesa, allora la fedeltà a lui obbligava l’Ordine a restare fortemente impegnato nella sua battaglia a
favore della fede e della Chiesa mediante un forte e ampio impegno nella cultura e nella pastorale (cf. La conver-
sione di Francesco, 103-105).
29
  Ho sempre percepito come altamente significativa l’immagine presente nella Tavola Bardi in cui (uno
dei pochi casi iconografici che riprendono questo episodio) viene riproposta, in una formella in basso a destra,
l’esperienza di Francesco tra i lebbrosi. L’interpretazione che in essa viene data è assolutamente suggestiva, in
quanto la misericordia che Francesco fa con i lebbrosi è riproposta mediante due metafore, cioè di una madre con
in braccio il suo figlio lebbroso (a sinistra) e di un servo che sta lavando i piedi ai lebbrosi (a destra). Nel dipinto
dunque si fa risalire l’intuizione delle due metafore giuridiche all’esperienza vissuta da Francesco con i lebbrosi,
dai quali apprese a essere madre e a essere servo, per farne sintesi ideale di uno stare insieme fondato sulla mise-
ricordia (cf. quanto noto in La conversione di Francesco, 95-96, oltre all’offerta la riproduzione della formella a
cui si alludeva).

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immagini di fatto Francesco cerca di mantenere viva l’intuizione evangelica dentro


la necessità di darle un’istituzionalizzazione, così da non perdere completamente le
qualità aeree di una sostanza che deve diventare solida30.

8.2.1. Madre con il potere della gratuità

Non può essere un caso la presenza di un doppio dato testuale negli scritti di
Francesco: mentre è utilizzata con una certa frequenza la metafora della madre per
illustrare la qualità relazionale tra i frati, è completamente assente ogni riferimento
alla figura del padre. Tale costatazione si contrappone a quanto invece avviene nel-
la Regola di Benedetto, dominata esclusivamente dalla figura del padre. Indubbia-
mente uno dei motivi di tale scelta da parte di Francesco è da trovare nel vangelo,
il quale esorta a non chiamare nessuno padre sulla terra (cf. Mt 23,9).31 È possibile
pensare tuttavia che ciò sia dipeso anche dalla diversa funzione che le due figure
avevano giocato nella famiglia di Francesco. Credo, cioè, che nell’immaginario del
Santo e nella sua consapevolezza il modello di riferimento per poter creare una re-
lazione domestica, ovvero una relazione di famiglia tra i frati, non fosse quello del
padre, con la sua autorità e il suo potere, ma quello della madre, intesa come pre-
senza senza potere ma forte del suo cuore animato dall’accoglienza incondizionata
nei confronti dei figli.
La metafora materna è utilizzata da Francesco in tre diversi contesti, i quali
possono essere riconosciuti come articolazioni specifiche di uno stesso progetto
evangelico.
La prima esplicitazione della figura della madre all’interno della fraternità
riguarda la sua disponibilità al servizio. Il testo fondamentale lo si trova nella Re-
gola agli eremi, in cui Francesco chiede ai tre o quattro frati che vogliono vivere
negli eremi di organizzare tra di loro una circolarità relazionale impostata sulla
metafora madre-figli.32 In modo alternato, infatti, essi sono chiamati a scambiarsi
il ruolo di figli e madri, prendendo a modello rispettivamente Maria e Marta, me-
diante una dinamica di governo reciproco fondato sulla circolarità e sulla mater-
nità.33 Il breve testo della Regola è molto semplice nelle sue richieste, limitate a
due aspetti tra loro correlati: innanzitutto stabilire i tempi di preghiera a cui i figli
debbono dedicarsi come loro principale impegno giornaliero e poi far custodire
alle madri la solitudine della casa per favorire la tranquillità dei figli. In questo
contesto la Regola chiede ai frati/madri un compito particolare: oltre a tenersi essi
stessi lontani da ognuno, «per obbedienza al loro Ministro, custodiscano i loro figli
da ogni persona» (v. 8).

30
  Mi sto richiamando a quanto osservato con molta efficacia da Dalarun quando ragiona sul processo
complesso e in qualche modo contraddittorio vissuto da Francesco nel passaggio da esperienza semplice della vita
iniziale a bisogno di essere riconosciuto e accettato dentro una struttura sociale sicura, così da poter essere efficace
e fruttuoso sul territorio: «Grazie all’istanza superiore, in questo caso la Sede romana, un’istituzione è la garanzia
del permanere di un’idea nel tempo, la trasformazione da uno stato aereo a uno solido. La lacerazione francescana
è la coscienza netta che, trasformandosi in solido, ciò che è aereo perde le sue proprie qualità» (Dalarun, Fran-
cesco d’Assisi: il potere in questione, 36).
31
 Cf. Regola non bollata, XXII, 34.
32
  Un’analisi attenta delle dinamiche governative fondate sulla maternità proposte nel breve testo giuridico
è offerta da Dalarun, Francesco d’Assisi: il potere in questione, 42-47.
33
  «L’Assisate vuole esprimere che l’unico modo di governo conciliabile con il principio della fraternità
assoluta è quello della maternità relativa» (ivi, 47).

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Questa prima forma di governo tesa alla custodia reciproca tra i frati è con-
fermata da un altro famoso e fondamentale testo, presente nella Regola bollata al
capitolo VI, dove viene richiesto quanto segue ai frati:
E ovunque sono e si incontreranno i frati, si mostrino familiari tra loro reciprocamente. E cia-
scuno manifesti con fiducia all’altro le sue necessità, poiché se la madre nutre e ama il suo figlio
carnale, quanto più premurosamente uno deve amare e nutrire il suo fratello spirituale? E se uno
di essi cadrà malato, gli altri frati lo devono servire come vorrebbero essere serviti essi stessi.34

Diversi sono gli elementi che caratterizzano questo passaggio. Al centro del
brano vi è l’invito rivolto a tutti i frati a essere tra loro domestici, cioè familiari,
ad avere, dunque, un atteggiamento reciproco con il quale realizzare un clima di
famiglia. In tal senso, il momento fondamentale in cui ciò deve essere compiuto è
nelle situazioni di necessità, quando cioè uno dei fratelli è in difficoltà e ha bisogno
di aiuto. La possibilità di manifestare agli altri tale situazione e di farlo secure, cioè
senza paura e vergogna, ma con fiducia e serenità, costituisce la prova suprema del-
la familiarità che regna effettivamente tra i frati. E in questo contesto la metafora
della madre chiarisce perfettamente quali dovrebbero essere i sentimenti nel gestire
le difficoltà e le necessità dentro uno spazio domestico. Affinché, infatti, si possa
parlare di famiglia è necessario che vi sia una madre, cioè colei che ha l’atteggia-
mento giusto nel governare le necessità dei figli. Interessanti sono i due verbi uti-
lizzati nel descrivere il governo della madre nei confronti delle difficoltà dell’altro:
amare e nutrire; anzi, tra i due verbi vi potrebbe essere una sorte di convergenza
interscambiabile: amare è nutrire e nutrire è amare. Prendersi carico della fame
dell’altro significa amarlo, e l’amore, inteso come cura, è il vero e fondamentale
nutrimento che occorre fornire all’altro; e solo la madre ama e nutre i suoi figli in
modo adeguato, affinché cioè essi crescano e raggiungano la loro autonomia adulta.
Insomma, la madre è il modello migliore offerto ai frati per una gestione evangelica
delle difficoltà, perché impiegando i suoi sentimenti di gratuità e attenzione è possi-
bile trasformare i momenti difficili in uno spazio di famiglia, in un luogo cioè in cui
è offerta la possibilità di affidarsi reciprocamente, senza la paura di essere giudicati
o respinti e così poter rendere quei momenti di crisi spazi di crescita e di maturità.
Il terzo testo in cui compare la figura della madre lo troviamo nella breve
ma intensa Lettera inviata da Francesco a Leone, in cui il ruolo della madre nel
dare autonomia ai figli è al centro degli interessi del Santo.35 Non conoscia-
mo qual era la questione sottoposta da Leone a Francesco mentre camminava-
no insieme lungo la strada; sicuramente, però, dalla lettera inviatagli dal Santo
sappiamo che Leone lo aveva pregato insistentemente di decidere lui cosa fare
per risolvere quel problema, ed egli avrebbe obbedito. La risposta donatagli da
Francesco nel breve testo è famosa perché sorprendente nel suo modo di propor-
si al suo amico:
Così dico a te, figlio mio, come una madre: che tutte le parole, che ci siamo scambiate lungo
la via, le riassumo brevemente in questa sola frase e consiglio – anche se dopo ti sarà necessario
tornare da me per consigliarti – poiché così ti consiglio: in qualunque maniera ti sembra meglio
di piacere al Signore Dio e di seguire le sue orme e la sua povertà, fatelo con la benedi­zione del
Signore Dio e con la mia obbedienza.36

  Regola bollata, VI, 8-9: FF 91.


34
35
  Sul testo Dalarun ha speso l’intera terza parte del suo Governare è servire, intitolandola Il governo
materno (131-189), nel quale affronta il biglietto mediante una pluriforme e assolutamente interessante analisi.
36
  Lettera a Leone, 2-3: FF 250.

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Francesco si sente e si propone nei confronti di Leone non come un padre, ma


come una madre la quale, esercitando il suo potere di non aver potere, gli ordina di
essere responsabile della sua vita, cioè di assumersi la fatica di capire cosa sia me-
glio fare per restare coerente con la propria identità, e dunque di aver il coraggio di
scelte precise da compiere.37 Il governo che Francesco esercita nei confronti di Le-
one è quello di una madre che deve far crescere il proprio figlio obbligandolo alla
propria solitudine nei confronti dell’impegno di assumersi le proprie responsabili-
tà. La madre è al servizio del figlio non in quanto si sostituisce a lui nelle scelte con-
crete (come in fondo chiedeva Leone a Francesco), ma in quanto gli offre l’aiuto di
avere coraggio. Il governo della madre tenta di far assumere al figlio la fiducia nelle
proprie capacità per essere, di conseguenza, nelle condizioni di scegliere e agire.
È altrettanto interessante l’utilizzo da parte di Francesco della parola strategica
che emerge proprio nell’esercizio del potere di governo: «Fatelo con la mia obbe-
dienza». Quella imposta da Francesco a Leone è un’obbedienza doppia: gli impo-
ne di essere autonomo e responsabile nel decidere insieme ai suoi fratelli e poi di
compiere quanto ha deciso come atto di obbedienza a Francesco.38 Il Santo esercita
il governo di una madre che è capace di imporre al figlio sia di essere autonomo
nella fatica di capire cosa sia bene per lui e i suoi fratelli, sia di compiere quanto
ha compreso essere parte della sua identità e del modo specifico di seguire le orme
del Signore.
La conclusione del breve biglietto apporta un ultimo elemento del governo ma-
terno esercitato da Francesco su Leone. L’autonomia responsabile richiesta a Leo-
ne non significa disinteresse e allontanamento da parte di Francesco. Nel commiato
egli, infatti, tiene a rassicurare il suo amico di non avere paura di venire lasciato
solo, né di pensare che Francesco non voglia essere più infastidito dai suoi proble-
mi. Fugare queste paure costituisce la preoccupazione finale di Francesco: «E se
ti è necessario per il bene della tua anima, per averne altra consolazione, e vuoi, o
Leone, venire da me, vieni!».39 Il bene dell’anima di Leone e la sua consolazione
restano il punto di riferimento nella disponibilità di Francesco, che è animato da
un’attenzione e da una sollecitudine che lo fa essere sempre pronto nell’esercitare
il suo potere materno a favore del figlio. Caro Leone, la tua vita con le sue difficol-
tà mi appartengono, e io resto accanto a te nella disponibilità costante di essere di
consolazione per la tua anima, cioè di incoraggiamento e aiuto ad assumerti le tue
responsabilità di uomo adulto nella fede.40
L’ultimo testo che si deve utilizzare per illuminare la metafora della madre
all’interno del progetto evangelico, nel governo delle relazioni fraterne, è rappresen-
tato dalla Lettera a un ministro con la quale Francesco risponde alla richiesta di aiuto
che gli aveva rivolto quel Ministro anonimo per le sue difficoltà a gestire e risolvere

37
  Si tengano presenti le interessanti considerazioni di Dalarun, Governare è servire, nelle quali l’autore
mette in stretto rapporto il consiglio impartito a Leone di seguire la povertà e la scelta di Francesco di rinunciare
a ogni potere facendosi madre e non padre: «Non è possibile raccomandare questa spoliazione, questo farsi nudi,
questa rinuncia a ogni possesso, questa espropriazione di ogni ricchezza e di ogni potere attraverso i fulmini del
potere paterno: significherebbe mettersi in contraddizione col messaggio che si vuole fare passare» (176).
38
  «Nel biglietto di Spoleto Francesco mette Leone, e attraverso di lui tutti i frati, di fronte a Dio e alla loro
libertà. L’ultimo ordine impartito in nome dell’obbedienza abolisce l’obbedienza intesa come costruzione esterna,
poiché lo stesso risultato può essere raggiunto attraverso un libero discernimento interiore che rafforza l’adesione
del singolo» (Dalarun, Governare è servire, 176).
39
  Lettera a Leone, 4: FF 250.
40
  Dalarun fa notare la distinzione tra consiglio della prima parte del biglietto e consolazione dell’ultima
(cf. Governare è servire, 177).

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le tensioni e contraddizioni interne alla sua fraternità.41 Occorre subito premettere che
nel testo non è impiegato in modo esplicito il termine di madre; tuttavia è a questa
che Francesco fa riferimento nella sua risposta offerta al Ministro. Di fronte alle serie
difficoltà lamentate dal Ministro nel poter trovare una soluzione nei confronti di uno
o più frati difficili che turbavano la vita dell’intera fraternità, Francesco gli suggeri-
sce di usare il potere degli occhi per essere così capace di governare la situazione e
ricondurla verso Colui che era il senso ultimo del loro stare insieme:
Che non ci sia alcun frate al mondo, che abbia peccato, quanto poteva peccare, che, dopo aver
visto i tuoi occhi, mai se ne vada senza la tua misericordia, se egli chiede la misericordia; e se
non chiedesse la misericordia, chiedi tu a lui se vuole la misericordia. E se, in seguito, mille volte
peccasse davanti ai tuoi occhi, amalo più di me per questo: che tu possa attrarlo al Signore; e abbi
sempre misericordia per tali fratelli42.

Il mandato di autorità ricordato da Francesco al Ministro era quello di restare


aperto e disponibile alle situazioni di necessità e di difficoltà; a ciò lo obbligava il
suo servizio di Ministro a favore della fraternità. Ma tale compito avrebbe potuto
essere da lui svolto non mediante la forza e il potere coercitivo di un pater familias,
bensì mediante gli occhi di gratuità e accoglienza di una madre. Francesco, di fatto,
rinviando alla metafora degli occhi con i quali il frate in difficoltà avrebbe dovuto
incontrarsi quando sarebbe stato accolto dal Ministro, allude senza nessuna diffi-
coltà agli occhi di una madre, a quegli occhi nei quali vi è la grande notizia della
misericordia nei confronti del figlio in difficoltà.
A motivo del suo mandato il Ministro era chiamato a ricostruire tra i frati lega-
mi di familiarità, a trovare cioè vie di fraternità con le quali superare le situazioni di
tensione e di divisione che stavano agitando la vita all’interno del gruppo. Cioè al
Ministro era chiesto di governare il gruppo in difficoltà per far risplendere in esso
la logica del vangelo, che è comunione di vita. Tale possibilità, però, era raggiungi-
bile, secondo Francesco, solo se il Ministro fosse stato fornito di un grande potere
con il quale sarebbe riuscito a raggiungere il cuore del fratello e istaurare con lui un
cammino verso la comunione: il potere di una madre, che con i suoi occhi permette
al figlio di iniziare un processo di verità e di riconciliazione con la sua famiglia.
Solo con gli occhi di misericordia di una madre si può governare in modo adeguato
il cammino verso un clima evangelico di comunione.
Tale invito alla misericordia non significava però per Francesco suggerire al
Ministro una forma di buonismo a basso prezzo o addirittura una connivenza con le
contraddizioni morali nelle quali si trovavano alcuni fratelli; il modo del guardare
con gli occhi di una madre proposto da Francesco costituiva la via migliore, anche
se la più lunga e forse insicura, per aiutare quei fratelli a compiere un processo di
guarigione dalle proprie ferite, perché permetteva loro di riconoscerle e poi affidar-
le al Ministro per un cammino di conversione fatto di verità.
Questa notazione introduce il passaggio finale della prima parte della lettera,
nel quale Francesco ricorda al suo frate impegnato nel governo l’obiettivo a cui
tende il metodo propostogli attraverso la parola misericordia: «E se, in seguito,
mille volte peccasse davanti ai tuoi occhi, amalo più di me per questo: che tu possa
attrarlo al Signore; ed abbi sempre misericordia per tali fratelli».43

41
  Al testo dedico un ampio e accurato commento nell’articolo «La fragilità fonte di verità e di vita secondo
Francesco di Assisi», in Italia Francescana 82(2007), 112-119.
42
  Lettera a un ministro, 9-10: FF 235.
43
  Lettera a un ministro, 11: FF 235

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Il governo a cui era chiamato il Ministro dunque non era quello del dirigere la
sua fraternità per renderla funzionale, efficace, forte, rispettata, onorata dagli altri,
cioè per fare del gruppo uno spazio di perfezione e di ordine, ma quello dell’aiutare
i suoi fratelli a ritrovare la via verso il Signore. Nel proprio volto, attraverso i pro-
pri occhi, il Ministro era chiamato a diventare via al volto e agli occhi del Signore.
Egli avrebbe dovuto essere icona del volto materno di Dio che mille volte è pronto
ad accogliere e offrire spazi di fiducia e stima ai suoi figli, appunto come fa una
madre che non potrà mai lasciare il suo figlio. Governare significava per il Ministro
dirigere i suoi fratelli al Signore, e ciò avveniva attraverso la sua capacità di essere
manifestazione sacramentale di quello sguardo materno di Dio che unico guarisce
le ferite e offre all’uomo ancora un tempo di speranza e opportunità di vita.
In ultima analisi si può dire che nella figura della madre, quale metafora del
modo di gestire il governo all’interno della fraternità, Francesco assume in qual-
che modo le novità gestionali della comunità mista di Fontevraud in cui, come si
è già ricordato, chi aveva il potere dell’autorità non era un uomo, ma una donna e,
dunque, non un Abate ma una Madre; nello stesso tempo è possibile dire che nella
centralità assegnata dal Santo di Assisi alla metafora della madre egli attinge for-
se dalla sua esperienza familiare, in cui aveva vissuto sia il governo del padre sia
quello della madre, preferendo quest’ultima per la propria fraternità, giudicandola
come adeguato strumento evangelico per istaurare nelle relazioni tra i suoi frati uno
stile di familiarità circolare, simile a quello che dovrebbe caratterizzare le relazioni
tra una madre e un figlio.

8.2.2. Ministro che è servo degli altri fratelli

Qualcuno ha notato che Francesco nutriva una grande attenzione all’uso delle
parole, vivendo quasi una mistica delle parole.44 Un caso emblematico del con-
trollo da parte di Francesco delle parole impiegate nei suoi testi lo troviamo nella
Regola non bollata al capitolo VI, dove si ordina ai frati che «nessuno sia chiama-
to priore ma tutti allo stesso modo siano chiamati frati minori. E l’uno lavi i piedi
all’altro».45 All’interno di questa volontà di abolire le parole piramidali dentro la
fraternità, è da registrare una doppia scelta linguistica quale articolazione positiva
del progetto evangelico di relazioni circolari e di servizio.
Il primo elemento è la qualifica di frate che Francesco applica sempre a se stes-
so. Nella sua relazione con gli altri frati egli resta sempre e soltanto frate Francesco,
senza mai attribuirsi termini come padre, Superiore, maestro, fondatore e termini
analoghi.
Accanto a questa coerenza linguistica, vi è un secondo elemento terminolo-
gico ancora più significativo per il nostro punto di vista. La qualifica utilizzata

44
  A. Bartoli Langeli ha rilevato in Francesco la presenza di un «senso religioso della parola», e della «ter-
ribile serietà della parola» («Gli scritti da Francesco. L’autografia di un illetteratus», in Frate Francesco di Assisi.
Atti del XXI convegno internazionale, CISAM, Spoleto 1994, 158). A tal proposito l’autore ricorda quanto rac-
conta 1Cel 82, secondo cui Francesco, dopo aver scritto qualcosa, «non patiebatur ex eis deleri litteram aliquam
aut sillaba, licet superflua saepe aut incompetens poneretur». Dello stesso parere è Paolazzi, per il quale Francesco
è «un autore che associa in sé ferma lucidità di pensiero e controllo inflessibile della forma che lo esprime»: C.
Paolazzi, Studi sugli scritti di frate Francesco (Spicilegium bonaventurianum, XXXV), Collegii S. Bonaventurae
ad Claras Aquas, Grottaferrata 2006, 99.
45
  Regola non bollata, VI, 3-4: FF 23.

112 CAPITOLO 8

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all’interno dei testi giuridici per coloro che dovevano svolgere un ruolo di autorità
all’interno del gruppo è sempre la stessa: Ministri e servi. Il governo della frater-
nità doveva essere svolto a partire da questa doppia caratterizzazione dello stile di
coloro che erano chiamati a quel compito. Essi non solo restavano semplicemente
frati minori, ma nel loro ufficio di autorità dovevano aggiungere il doppio titolo di
servi e Ministri.
La specificazione del servizio di autorità a cui sono chiamati i Ministri è pre-
sentata in modo particolare nella prima parte del capitolo X della Regola bollata,
dove sono esplicitati due ambiti dell’esercizio del loro ruolo.46
Il primo è la determinazione positiva dei compiti: «Visitino e ammoniscano i
loro fratelli e li correggano con umiltà e carità».47 Il governo dei Ministri implica
innanzitutto un atteggiamento di attenzione nei confronti dei frati: li visitino, cioè
si scomodino per incontrarli e condividere la loro sorte. È solo a partire da questo
movimento di uscita per mettersi in cammino verso i loro fratelli, come fanno ap-
punto i servi, che i Ministri potranno esercitare i due compiti specifici da svolgere
nelle loro visite a vantaggio dei frati: ammonire e correggere.48 Solo dopo essere
entrati nella condizione esistenziale dei loro fratelli, cioè dopo essersi scomodati
per poterli incontrare là dove essi si trovano e vivono e forse soffrono, potranno es-
sere motivo di ammonizione e poi anche di correzione, cioè potranno essere capaci
di dire una parola adeguata di incoraggiamento ma anche di richiamo per guidare-
governare la vita degli altri.
Il secondo ambito richiesto al Ministro, dal capitolo X, è espresso in forma
negativa: «Non comandando ai loro fratelli niente che sia contro la loro anima e
la nostra Regola».49 Governare implica da parte del Ministro un atteggiamento at-
tento a due ambiti che egli deve mantenere strettamente uniti nel suo servizio.50 Da
una parte egli deve capire e gestire bene le richieste della Regola, dall’altra però
deve ascoltare e porsi al servizio dell’anima dei fratelli, della loro condizione per-
sonale. Il suo governo dovrà dunque servire e amministrare questi due momenti
della vita della fraternità, due aspetti in certi casi difficilmente conciliabili. Da una
parte vi sono le esigenze oggettive poste dalla Regola e dalla struttura con i bisogni
plurimi del bene della fraternità e della Chiesa; dall’altra si deve tener presente la
situazione soggettiva del singolo, il quale agli occhi del Ministro non potrà mai di-
ventare una pedina o un ingranaggio funzionale a un sistema, ma dovrà restare una
singolarità sacra da ascoltare e servire. Il governo del Ministro e servo degli altri
frati dovrà viaggiare all’interno di queste due esigenze tra loro, a volte, in conflitto
e difficilmente conciliabili in una reale unità e armonia. Ed essere gubernatore di
una nave che deve viaggiare a volte tra Scilla e Cariddi non è compito facile per
il Ministro!

46
  Mi permetto di rinviare al mio «Le relazioni tra i frati», in P. Maranesi – F. Accrocca (a cura di), La
regola di Frate Francesco. Eredità e sfida, Editrici Francescane, Padova 2012, 507-549, dove propongo un ampio
e dettagliato commento a questo capitolo della Regola.
47
  Regola bollata, X, 1: FF 100.
48
  A proposito della storia redazionale dei tre verbi della Rnb in cui si parlava di visitare, ammonire ed
esortare, ho sostituito l’ultimo specificando questa nuova serie: visitare, ammonire e correggere. Ne ho scritto già
ipotizzando l’intervento di Ugolino per dare forza di intervenire al ministro nella vita dei frati: cf. P. Maranesi,
«Il travaglio di una redazione. Le novità testuali della Regola bollata indizi di un’evoluzione», in Miscellanea
Francescana 109(2009), 372.
49
  Regola bollata, X, 1: FF 100.
50
  Su questo binomio di anima e regola nella gestione della vita dei frati da parte del Ministro cf. quanto
notavo nel mio Le relazioni tra i frati, 522-525.

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Per vivere bene questo stile evangelico del governo Francesco ricorda al Mi-
nistro, alla fine della prima parte del capitolo X, l’atteggiamento fondamentale che
egli deve avere quando le situazioni si faranno impegnative e difficili. Di fronte,
infatti, a un frate che gli facesse presente la sua difficoltà «di non poter osservare
spiritualmente la Regola»,51 cioè di non riuscire a vivere con serenità e coerenza
quanto da lui abbracciato, il Ministro deve ricordarsi quale sarà lo spirito con cui
dovrà governare quella situazione impegnativa, in cui c’è in gioco l’anima del fra-
tello. Il testo normativo, infatti, invece che dare indicazioni precise su come inter-
venire sul frate in difficoltà, concentra la sua attenzione sui sentimenti con cui il
Ministro deve vivere questo incontro. Ribadendo quanto caratterizzava la Lettera
a un ministro, anche in questo caso Francesco tiene a sottolineare che la soluzione
del problema relazionale non dipenderà dall’applicazione di un preciso ed efficace
meccanismo burocratico di intervento sul frate, ma dall’atteggiamento di servizio
del Ministro chiamato a prendersi cura del fratello in difficoltà: «I Ministri, poi, li
accolgano con carità e benevolenza e li trattino con tale familiarità che quelli pos-
sano parlare e fare con essi così come parlano e fanno i padroni con i loro servi;
infatti, così deve essere, che i Ministri siano i servi di tutti i frati».52
Il valore attribuito da Francesco a questo atteggiamento di servizio che i Mi-
nistri dovranno avere nel governo dei frati è attestato in modo molto forte da un
elemento sorprendente presente non solo in questo passaggio, ma anche in altri
testi del Santo: il ribaltamento di ogni logica piramidale, affermando una logica
paradossale. Al centro, infatti, è posto il ripensamento radicale delle relazioni tra
Ministri e frati, paragonate a quelle dei servi con i loro padroni e proposte da Fran-
cesco come punto nodale della sua visione di potere e di governo all’interno della
fraternità: «Infatti, così deve essere, che i Ministri siano i servi di tutti i frati». E
allora non è un caso che nei testi del Santo il rimprovero o il richiamo non sia mai
fatto ai frati in difficoltà, per stimolarli, anche con una sana durezza, a cambiare nel
loro atteggiamento, ma al Ministro affinché nel suo esercizio dell’autorità si ricordi
sempre di governare la situazione mediante l’unico atteggiamento che gli è consen-
tito, cioè quella del servo.
Il perché di questo atteggiamento non è qui esplicitato, ma è solo presupposto
e rinvia a quanto abbiamo visto nella Lettera a un Ministro: per aiutare i frati in
difficoltà vi è un’unica via percorribile, che è quella del servo che accoglie senza
pretendere nulla, cioè mediante una gratuità che non si lascia turbare e irritare dal
peccato del fratello. Solo così il Ministro potrà aiutarlo a superare le sue difficoltà.
Un testo molto chiaro a questo proposito lo troviamo nel c. V della Regola non bol-
lata quando si parla della grave e dolorosa questione del peccato dei frati. Nel testo,
dopo aver dato delle indicazioni generali su come affrontare la difficile situazione,
Francesco sente il bisogno di rivolgere un’esortazione particolare non tanto ai frati
che peccano ma a tutti gli altri:
E si guardino tutti i frati, sia i Ministri e servi sia gli altri, dal turbarsi e dall’adirarsi per il
peccato o il male di un altro, perché il diavolo per la colpa di uno vuole corrompere molti, ma
spiritualmente, come meglio possono, aiutino chi ha peccato, perché non quelli che stanno bene
hanno bisogno del medico, ma gli ammalati.53

51
  Regola bollata, X, 4: FF 102; ho tentato un’interpretazione di come si debba intendere «osservare spiri-
tualmente» in Le relazioni tra i frati, 530-531.
52
  Regola bollata, X, 5-6: FF 102.
53
  Regola non bollata, V, 7-8: FF 18.

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Due sembrano essere i motivi addotti da Francesco per esortare i Ministri a


evitare il turbamento e l’ira nella gestione del peccato dei loro frati. Cadere nell’ira
per il peccato del fratello significherebbe cadere in balia del diavolo che, a causa
del peccato dell’altro, trascinerebbe anche il Ministro in una condizione di peccato.
L’ira del Ministro rivelerebbe, infatti, uno spirito in lui che non sarebbe più quello
del servo, ma quella del proprietario, che si sente in diritto di adirarsi per qualcosa
che gli venisse tolto o non ridato. Al contrario, un servo non potrà ma adirarsi, non
ne ha motivo. E se il peccato del fratello facesse cadere il Ministro nel turbamento
e poi nell’ira questo significherebbe che egli, a causa di quella situazione, ha abban-
donato la sua identità di frate servo, permettendo così al diavolo di rubargli l’anima,
la sua identità di frate minore, e di renderlo in sostanza proprietario e padrone della
situazione. Insomma, il peccato del fratello costituisce per il Ministro la cartina di
tornasole per vedere se egli, dentro di sé, è rimasto servo o si è impossessato di
quanto dice di gestire a favore della fraternità.
Tuttavia c’è un secondo motivo consegnato al Ministro per esortarlo a vivere
il suo ruolo libero dall’ira: egli, di fronte al fratello in difficoltà, deve essere come
il medico di fronte al malato. Il suo fratello nel peccato, cioè nella malattia dell’a-
nima, ha bisogno di un medico appassionato nell’aiutarlo, non irato nel punirlo.
Un medico disturbato per lo scandalo del peccato dell’altro o addirittura accecato
dall’ira per la delusione ricevuta da quella incoerenza non sarebbe un buon medi-
co e metterebbe a rischio la vita del malato. Ma soprattutto un Ministro irato non
avrebbe in sé l’unica medicina che guarisce, quella che abbiamo visto consegnare
al Ministro anonimo nella lettera che abbiamo più volte ricordato: la misericordia,
cioè la carità.
Francesco resta coerente con questa impostazione anche nel capitolo VII del-
la Regola bollata, nel quale si riprende la stessa questione che era stata trattata al
capitolo V della Regola non bollata. Il lavoro redazionale operato nella riscrittura
del capitolo ha due aspetti interessanti:54 da una parte sono state effettuate delle
ampie sforbiciate sul testo precedente, apportate molto probabilmente dal giurista
cardinal Ugolino per superare delle evidenti incongruenze giuridiche, dall’altra re-
sta la volontà di mantenere il nucleo esortativo rivolto a tutti i frati, presente nel
testo precedente.
«E devono guardarsi dall’adirarsi e turbarsi per il peccato di qualcuno, perché
l’ira e il turbamento impediscono la carità in sé e negli altri». Per Francesco dallo
spirito di servizio del Ministro dipende la qualità della vita evangelica dei suoi fra-
telli: è da lui che ogni volta deve ripartire quello stile che dovrebbe caratterizzare
la fraternità, di essere cioè fratello senza potere e capace di accogliere l’altro nella
gratuità. Si potrebbe dire che per Francesco la fedeltà da parte dei Ministri al loro
stile di governo costituisce il punto di forza o di debolezza del progetto evangelico
dei frati minori.
Conferma di questa conclusione è il richiamo forte, che per due volte ricorre
in altrettanti testi giuridici di Francesco: ai Ministri è ricordato qualcosa di molto
grave, e cioè che dovranno rendere conto a Dio del loro modo di aver servito i fra-
telli. Il primo testo è il più forte e chiaro. Siamo al capitolo IV della Regola non
bollata. La prima parte del capitolo riguarda il ruolo dei Ministri nel visitare i loro
fratelli, richiesta che, come abbiamo visto, sarà ripresa quasi alla lettera nel capitolo

54
  Su questo si veda l’analisi di storia redazionale da me tentata sul capitolo in Il travaglio di una redazio-
ne, 353-361.

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X della Regola bollata. Al termine però di quel capitolo IV dell’antico testo vi è il


richiamo ai Ministri, testo non mantenuto nella redazione del capitolo della Regola
definitiva:
E si ricordino i Ministri e servi che il Signore dice: «Non sono venuto per essere servito, ma
per servire»; e che a loro è stata affidata la cura delle anime dei frati, perciò se qualcuno di essi
si perdesse per loro colpa e cattivo esempio, nel giorno del giudizio dovranno rendere ragione
davanti al Signore Gesù Cristo.55

Il richiamo di Francesco ha il suo punto di riferimento nella frase di Gesù posta a


fondamento dello stile di governo dei Ministri: «Il Figlio dell’uomo infatti non è ve-
nuto per farsi servire, ma per servire» (Mc 10,45). La cura delle anime dei loro fratelli
è il compito assegnato ai Ministri da Dio, e dovranno rendere conto a lui se essi, «per
loro colpa» o «cattivo esempio», dovessero perdere qualcuno dei loro frati. Diverse
potrebbero essere le interpretazioni di cosa si possa intendere con «loro colpa» o «cat-
tivo esempio». Sicuramente un momento connesso a queste due eventualità è il caso
in cui i Ministri smettessero di agire come servi, abbandonando lo stile vissuto dallo
stesso Signore nei nostri confronti. Il tradimento della loro chiamata a essere servi
e Ministri, diventando invece proprietari e dominanti, avrebbe due possibili conse-
guenze. Innanzitutto, per loro colpa, non avrebbero più lo spirito giusto per aiutare i
fratelli nel ritrovare la via della comunione, rischiando di far smarrire definitivamente
il fratello in difficoltà. Inoltre, smettere di essere servo e diventare proprietario del
loro ufficio significherebbe dare il vero e fondamentale cattivo esempio, a motivo del
quale gli altri fratelli verrebbero spinti a dubitare della verità o possibilità di vivere
l’identità minoritica, rinnegando nel loro intimo il progetto evangelico di relazio-
ni fraterne fondate sulla circolarità e vissute nella gratuità e generosità. Insomma, i
Ministri debbono essere i primi a dimostrare che è possibile vivere secondo la scelta
minoritica, facendosi guidare da un atteggiamento di servizio nel loro governare i
bisogni dei loro fratelli, consapevoli anche che tale spirito rappresenta il presupposto
evangelico per essere efficaci nel loro ruolo, cioè per essere costruttori di fraternità.
L’altro testo, simile nel richiamare i Ministri alle loro responsabilità, riguarda
una situazione particolare del loro ministero di governo. Si tratta infatti dell’invio dei
frati in missione, modalità stabilità nel capitolo XVI della Regola non bollata. Nel
brano il Ministro è incaricato di giudicare l’idoneità dei frati che richiedono di andare
in missione; e tale decisione deve essere fatta con attenzione e con discernimento:
«Infatti sarà tenuto a rendere ragione al Signore, se in questo o in altre cose avrà pro-
ceduto senza discrezione».56 L’essere servo dei suoi fratelli significa per il Ministro,
come già abbiamo notato più sopra, porsi in ascolto sia della situazione oggettiva a
vantaggio della Chiesa, sia del bene dell’anima del singolo; egli dovrà governare le
due situazioni con discrezione, cioè con quella attenzione che deve avere il servo
nelle cose del padrone. Egli non sarà mai un manager nel governo della fraternità,
ma sempre e solo un servo chiamato a rendere conto di quanto fa, cioè chiamato a
essere respons-abile, abile a rispondere a Colui che lo ha posto ad amministrare i suoi
beni a vantaggio dei suoi fratelli. E tale ruolo lo svolgerà innanzitutto e soprattutto
se manterrà il suo spirito di servo e ministro, aiutando così i suoi fratelli a vivere la
loro identità di frati minori, liberi dal potere e dal dominio e leggeri per la loro umiltà
e pazienza.

  Regola non bollata, IV, 6: FF 14.


55

  Regola non bollata, XVI, 4: FF 42.


56

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8.2.3. Un padre nascosto che è fermo nella sua volontà

Le metafore della madre e del servo dunque possono essere interpretate come
i due modelli attraverso i quali Francesco esprime e propone ai frati il progetto
evangelico del governo all’interno della fraternità minoritica. E abbiamo già ri-
levato l’ipotesi interpretativa che l’utilizzo delle due immagini presupponga una
precisa volontà da parte di Francesco di rifiutare la figura del padre, giudicata
come inadeguata nel pensare e gestire il governo tra i frati. In tal senso abbiamo
anche ipotizzato che in tutto ciò vi possa essere una forma di rifiuto più o meno
consapevole da parte di Francesco della figura del proprio padre terreno, Pietro di
Bernardone, con il suo carattere forte e autoritario. Non è difficile ipotizzare che
l’esperienza vissuta in casa con il padre, dal quale fu teneramente amato ma anche
trattato duramente, con assoluta fermezza, costituiva indirettamente per Francesco
il referente per rifiutare all’interno della fraternità la metafora del padre. Infatti,
un tale modello di governo avrebbe permesso l’esercizio di un’autorità anche le-
gata, in certi casi, alla fermezza sugli altri per far regnare l’ordine e il bene del
gruppo. A lui sarebbe stato chiesto di vegliare sulla sua comunità come fa il pater
sulla sua famiglia, imponendo con forza quanto egli riteneva giusto e buono, e
ciò esercitando un governo deciso, fino a cacciare il figlio da casa qualora avesse
tradito la sua fiducia e messo in crisi il buon nome della famiglia. Francesco vo-
leva eliminare dalla sua fraternità evangelica, regolata dalla circolarità che nasce
dalla madre e dal servo, la figura del potere fermo e, se necessario, anche violento
del padre, chiamato per diritto e dovere a governare la sua casa con sicurezza e
determinazione.
Tuttavia, quanto era stato cacciato dalla porta dell’ideale forse rientrava dalla
finestra della sensibilità caratteriale di Francesco; quanto rifiutato dalla consa-
pevolezza progettuale guidata dal vangelo forse ritornava a essere presente nella
caratterialità di Francesco, condizionata, suo malgrado, dalla figura di suo padre,
del quale portava dentro di sé alcune somiglianze temperamentali nel gestire con
fermezza i momenti difficili e contrari alle sue aspettative. Pur essendo diventato
progettualmente frate Francesco, egli era restato, nonostante tutto, ancora figlio
di Pietro di Bernardone, infatti anch’egli era animato, in certi casi, dall’ira e dal
turbamento qualora il suo progetto e i suoi beni fossero stati messi in discussione
o messi in pericolo. È l’ipotesi con la quale vorrei chiudere questa ricostruzione
del progetto evangelico di Francesco, teso tra consapevolezza ideale e caratteria-
lità istintiva.
Partiamo da un dato testuale abbastanza interessante, riguardante il frequente
utilizzo da parte di Francesco di due coppie di atteggiamenti (virtù e vizi), impie-
gati spesso in un contrasto parallelo: da una parte il turbamento e l’ira e dall’altra
la pazienza e l’umiltà. Il richiamo al pericolo dell’ira e del turbamento, con la quale
si perde la pazienza e l’umiltà, non ricorre, come si è visto, soltanto nei testi riguar-
danti il servizio dei ministri, ma anche in diversi passaggi delle Ammonizioni, nelle
quali l’ira costituisce spesso un punto di riferimento per giudicare una verità per-
sonale (chi sono io? Servo di Dio o proprietario?) più profonda di quella che viene
proclamata coscientemente dal frate.57 Un testo in questo senso assolutamente inte-

57
  Ricordiamo qui le Ammonizioni in cui Francesco richiama i suoi frati espressamente al pericolo dell’ira
e del turbamento: Ammonizione IV, 3; XII, 2; XIV, 3; espressioni simili e comunque legate ad un atteggiamento di
perdita di pace si trovano nelle Ammonizioni VIII, 3; IX, 2; XV, 2; XXII, 1-3.

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ressante è la penultima ammonizione, nella quale le due coppie sono poste in stretto
parallelo: «Dove è pazienza e umiltà, ivi non è ira né turbamento».58
Insomma, a mio avviso, è possibile ipotizzare che la forte sensibilità di France-
sco nel richiamare i suoi frati al pericolo dell’ira (tipica del proprietario) costituisca
il risultato di un personale combattimento contro una sua tendenza caratteriale, alla
quale contrappone il progetto evangelico della pazienza e dell’umiltà del frate mino-
re. Probabilmente Francesco era un uomo tanto gioviale e allegro quanto iroso e duro.
Tale ipotesi la vogliamo confermare e illuminare attraverso alcuni elementi
testuali. Partiamo da un dato esterno agli scritti di Francesco che ci viene fornito
da una serie di racconti presenti nella Compilazione di Assisi. In quella raccolta, un
po’ disordinata e dall’origine incerta, nella quale però, ne siamo sicuri, sono con-
tenuti testi provenienti dalle memoria dei primi compagni e dei brani che uscirono
dalla penna di Leone,59 ci sono stati trasmessi una serie di episodi con una notizia
abbastanza sorprendente: la paura nutrita, in certi casi, dai frati nei confronti di
Francesco, quando alle loro richieste egli opponeva la fermezza della sua volontà.60
Il primo è il racconto del timore di Elia, che era in quel momento ministro generale,
di andare da solo da Francesco per dissuaderlo di scrivere la Regola, giudicata dai
frati troppo dura; e il ministro pretese che gli altri lo accompagnassero perché «non
aveva il coraggio» di incontralo da solo, «per paura dei rimproveri di Francesco».61
In effetti l’incontro si svolse in un clima abbastanza duro, nel quale Francesco non
solo non li accolse ma li trattò con tono di rimprovero e condanna.
L’altro episodio è connesso allo stesso tema e segue immediatamente il rac-
conto precedente. I frati, insoddisfatti del rifiuto di Francesco di assumere una delle
regole tradizionali per dare ordine al suo gruppo, durante il Capitolo delle Stuoie
non ebbero il coraggio di parlare direttamente con lui, ma si rivolsero al cardinal
Ugolino affinché esortasse il Santo «a seguire i consigli dei frati dotti e a lasciarsi
qualche volta guidare da loro»; al tentativo del cardinale, fatto in segreto, di con-
vincere Francesco, il Santo reagì in modo plateale e quasi violento: «Lo prese per
mano e lo condusse davanti all’assemblea capitolare» proclamando che Dio gli
aveva mostrato la via della pazzia, di essere «Unus novellus pazzus in mundo» e
dunque non gli parlassero più di una Regola di quelle già approvate.62 La conclu-
sione dell’episodio è alquanto rivelatrice della forza con cui reagì Francesco e che
caratterizzava il suo temperamento: «Stupì il cardinale a queste parole e non disse
nulla, e tutti i frati furono pervasi da timore».63

58
  Ammonizione XXVII 2: FF 117.
59
 Cf. Accrocca, Un santo di carta, 462-472.
60
 Cf. ivi, 481-485. Secondo la Compilazione Francesco era cosciente della sua forza che incuteva paura
ai suoi frati; e così prima di rassegnare le sue dimissione da Ministro generale, secondo il testo, Francesco tenne
a precisare che non si dimetteva per debolezze o per incapacità di dominare la situazione; egli sapeva molto bene
infatti che «non c’è un prelato nel mondo intero, che sarebbe tanto temuto dai sudditi e dai suoi fratelli quanto
il Signore farebbe che io fossi temuto dai miei frati, qualora lo volessi» (Compilazione di Assisi, 11: FF 1601).
61
  Compilazione di Assisi, 17: FF 1563. Accrocca giustamente tiene a far notare un fatto particolare: il
grande frate Elia, che un quindicennio più tardi sarà accusato di essere un accentratore e prevaricatore nell’imporre
con forza la sua volontà contro tutti, «aveva paura di Francesco e davanti a lui si comportava come uno scolaretto
che aveva bisogno di essere accompagnato!» (Un santo di carta, 483).
62
  Compilazione di Assisi, 17: FF 1563. Dalarun nota quanto segue: «L’espressione in sé è tipica di un
ribelle a ogni autorità. Serve in realtà a stabilire la sua autorità assoluta, senza possibilità di discussione. C’è un
abuso di potere in questo rifiuto dell’autorità; c’è della prepotenza in questa esplosione dell’ego, sbattuto in faccia
alla sapienza e alla scienza» (Francesco di Assisi: il potere in questione, 42). E per l’autore l’evidente italianismo
di unus costituisce un forte indizio di «autenticità del logion di Francesco» (Ibidem).
63
  Compilazione di Assisi, 18: FF 1564.

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In continuità con queste informazioni su di un temperamento forte di France-


sco nel difendere la sua intuizione evangelica, vi è anche l’altro famoso episodio,
narrato questa volta dalla Vita seconda del Celano, e poi ripreso anche dalla Compi-
lazione di Assisi, nel quale si racconta della veemenza con cui Francesco reagì alle
notizie che gli venivano fornite da qualche frate su alcune novità introdotte nell’Or-
dine dai frati dotti. Pur se gravemente malato, il testo racconta che Francesco si riz-
zò sul suo letto gridando forte: «Chi sono, esclamò, questi che mi hanno strappato
dalle mani l’Ordine mio e dei frati? Se andrò al Capitolo generale, mostrerò loro
qual è la mia volontà».64
La caratterizzazione di un Francesco forte e in certi casi imperioso, che lo fa
essere un po’ simile al padre nel difendere la sua proprietà spirituale, non deriva,
io penso, soltanto da una probabile trasformazione agiografica operata dai primi
compagni, che proiettarono su Francesco la loro delusione e rabbia riguardo alle
trasformazioni che stavano avvenendo, o erano già avvenute, in seno all’Ordine nei
due decenni successivi alla morte del Santo. In quel furore e forza, narrati dai testi
trasmessi dalla tradizione dei primi compagni, è da leggere, a mio avviso, anche
un elemento del tratto caratteriale di Francesco. Una controprova in tal senso credo
che venga da un interessante e particolare sintagma presente in modo frequente ne-
gli ultimi testi di Francesco: «precipio firmiter».
In particolare, del binomio colpisce l’avverbio che rafforza il verbo praecipio,
in sé strategico nel rivelare l’autocoscienza di Francesco nel contesto delle dinami-
che che agitavano la vita del gruppo. L’avverbio firmiter è impiegato in due con-
testi. Il primo, in cui è utilizzato otto volte, rinvia alla fermezza che occorre avere
nell’ambito sia della fede cattolica sia della vita morale cristiana, cioè nel credere
senza dubitare delle verità cattoliche,65 e nelle scelte morali da assumere per vivere
la fede cristiana.66
Il secondo e più frequente ambito di utilizzo dell’avverbio è invece in correla-
zione con il contesto giuridico relativo allo stile di vita dei frati, nel quale France-
sco vuole intervenire in prima persona con una determinazione e una forza proprie
del pater familias. L’espressione avverbiale ricorre ben dieci volte, mostrando due
caratteristiche generali: è impiegata sempre nei testi giuridici delle due Regole e del
Testamento, e sembrerebbe aumentare di frequenza nelle tre opere; infatti mentre
nella Regola non bollata ricorre solo una volta, nella Regola bollata passa a tre
utilizzi, fino a giungere a sei occorrenze nel Testamento. Tentiamo una lettura di
questi testi per fare attenzione allo spirito con cui Francesco si rivolge ai suoi frati.
Il primo testo in cui è impiegata l’espressione praecipio firmiter è nell’ultimo
capitolo della Regola non bollata. In via preliminare si può dire che il suo utilizzo
in questo passaggio condensi in sé tutta la problematicità dell’espressione. Con
quel testo finale, senza aspettare l’approvazione della Chiesa, Francesco decide
qualcosa a cui tiene molto, obbligando i suoi frati mediante una formula giuridica
tra le più forti e risolute da lui impiegate:
Per obbedienza io, frate Francesco, fermamente comando e ordino che nessuno tolga o ag-
giunga scritto alcuno a quelle cose che sono state scritte in questa vita, e che i frati non abbiano
un’altra Regola.67

64
  Vita seconda, 188: FF 774 e anche Compilazione di Assisi, 44: FF 1567/22.
65
 Cf. Regola non bollata, XX, 2; Regola bollata, II, 3; Lettera ai fedeli, 34: FF 53, 77, 194.
66
 Cf. Regola non bollata, XVII, 7; Lettera a tutti i chierici, 10 : FF 48, 209.
67
  Regola non bollata, XXIV, 4: FF 73.

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Il nome e la volontà di Francesco sono dominanti e imperiosi nel richiedere,


senza possibilità di repliche, l’osservanza di un testo che probabilmente i frati non
ritenevano più adatto alle mutate condizioni di vita.68 Contro ogni parere e per re-
spingere senza appello le perplessità e critiche degli altri, Francesco utilizza una
formula di governo basata sul suo potere personale: a tutti voi miei frati, io frate
Francesco praecipio firmiter; e tale volontà obbligava tutti a volere la stessa cosa, e
a volerlo fermamente. Tuttavia la sua volontà ferma non potrà imporsi! Conoscia-
mo gli eventi che obbligheranno il Santo, non più di un anno dopo, a scrivere, con
a fianco il cardinal Ugolino, un nuovo testo giuridico, che sarà poi approvato dalla
Sede Apostolica, molto diverso dal precedente non solo per brevità, ma anche per
contenuto.69
Tuttavia all’interno di questo nuovo documento, cioè della Regola bollata,
resta ancora la presenza forte di Francesco, il cui nome non solo apre il testo ma
anche è ripetuto in sei verbi impiegati in prima persona singolare lungo il testo.70
La cosa interessante è l’utilizzo in tre di essi della nostra espressione praecipio fir-
miter; essa è presente al capitolo IV, riguardo al comando di non utilizzare denaro;
al capitolo X, nel chiedere ai frati sudditi di obbedire ai loro ministri, e infine al
capitolo XI, nel proibire la frequentazione delle donne da parte dei frati. Indubbia-
mente non può non sorprendere la formulazione in prima persona della volontà di
Francesco in un testo con valore canonico quale era la Regola; oltre ciò colpisce
anche il ruolo di autorità che il Santo assegna a se stesso nonostante egli non fosse
più il responsabile della fraternità, avendo rinunciato al governo dopo essere ritor-
nato dalla Terra santa.71 Pur non essendo ministro generale, egli tuttavia si sentiva
il responsabile di quel movimento e non aveva nessuna difficoltà o remora a usare
la prima persona con verbi così forti quali praecipio firmiter. Questa specie di con-
traddizione giuridica è accettata anche da Ugolino, il quale conferma in qualche
modo una posizione speciale e unica di Francesco all’interno della fraternità, una
posizione di padre fondatore che aveva il diritto di parlare in prima persona nono-
stante il genere letterario lo proibisse e la sua carica non prevedesse più un ruolo
di governo.72
Tale consapevolezza, di dover e poter gestire un potere di governo che esulava
dalle norme ma si basava su di un dato di fatto, che cioè egli era frate Francesco,
è confermata ampiamente dal Testamento. In questo documento, scritto a ridosso
della sua morte, il Santo mette in atto una serie di operazioni che contravvengono
a ogni normale rispetto della legge canonica e della convivenza del gruppo. E in
questo contesto le frasi in cui è presente l’avverbio firmiter, e in particolare il suo
collegamento al verbo praecipio, rappresentano passaggi fondamentali per cogliere
la consapevolezza di Francesco di essere il padre che può chiedere con fermezza

68
  Sulla questione storica del passaggio dalla Regola non bollata alla Regola bollata si è scritto molto.
Basti qui ricordare l’ampia ricostruzione fatta da F. Accrocca, «Un cantiere aperto. “Travagli redazionali delle
Regole di Francesco”, in La Regola di frate Francesco. Eredità e sfida, Editrici Francescane, Padova 2012, 20-37.
69
  Sui travagli vissuti nella stesura del testo e sulla figura del cardinale Ugolino nel travaglio redazionale
che portò dall’una all’altra Regola ho scritto in Francesco d’Assisi e i frati minori. Nascita e sviluppo di un’espe-
rienza religiosa, Cittadella, Assisi 2012, 64-74.
70
 Cf. Regola bollata, I, 3; IV, 1; IX, 4; X, 8; XI, 1; XII, 1: FF 76 87, 99, 103, 105, 108.
71
  Sugli eventi e sulle motivazioni ragiona Vauchez, Francesco di Assisi, 105-107.
72
  Un segno evidente del ruolo giuridico di assoluta preminenza riconosciuto a Francesco dalla Sede Apo-
stolica è la presenza del nome di Francesco sia nella Solet annuere di Onorio III, bolla di approvazione della Rego-
la indirizzata a Francesco, sia nell’inizio del testo in cui i frati si obbligano «a obbedire a frate Francesco e ai suoi
successori» (Regola bollata, I, 3: FF 76).

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qualcosa ai figli senza essere smentito o contraddetto. L’utilizzo del firmiter nel
Testamento ha tre ambiti. Il primo è molto particolare, in quanto Francesco lo ap-
plica a se stesso:
E fermamente voglio obbedire al Ministro generale di questa fraternità e a quel guardiano che
gli piacerà di assegnarmi. E così voglio essere prigioniero nelle sue mani, che io non possa andare
o fare oltre l’obbedienza e la sua volontà, perché egli è mio signore.73

La decisione assoluta di voler obbedire ed essere soggetto a ogni guardiano è


esplicitata ed esagerata da Francesco mediante l’utilizzo della metafora «essere pri-
gioniero nelle mani» del guardiano, una metafora che esprime con chiarezza la sua
assoluta volontà di rinunciare a ogni potere per vivere una radicale sottomissione.
È chiaro che la fermezza di avere un guardiano a cui obbedire è in netta contrappo-
sizione con la fermezza con cui negli altri passaggi utilizza lo stesso avverbio per
comandare e imporre ai suoi frati precise decisioni che toccheranno pesantemente
la vita della comunità.
Nel secondo ambito l’avverbio determina l’atteggiamento richiesto da France-
sco ai custodi e poi ai Ministri nel gestire coloro che non vorranno recitare l’ufficio
secondo la Regola e che non saranno cattolici:
E il custode sia fermamente tenuto, per obbedienza, a custodirlo severamente, come un uomo
in prigione, giorno e notte, così che non possa essergli tolto di mano, finché non lo consegni di
persona nelle mani del suo Ministro. E il Ministro sia fermamente tenuto, per obbedienza, a farlo
scortare per mezzo di tali frati che lo custodiscano giorno e notte come un prigioniero.74

Anche in questo caso ritorna la metafora della prigione quale indicazione pre-
cisa della durezza con cui il custode e il Ministro dovranno trattare il frate ribelle. Si
può affermare che Francesco comandi a essi la stessa determinazione e forza con la
quale aveva agito il padre Pietro di Bernardone nei suoi confronti quando era giova-
ne: incarcerato dal padre, Francesco venne portato davanti al vescovo perché fosse
giudicato del suo comportamento inaccettabile, per essere poi espulso dalla casa.
Nella richiesta fatta da Francesco ai ministri nel trattare firmiter i frati disobbedien-
ti riguardo alla recita dell’ufficio, egli dimentica completamente la tenerezza della
madre e la pazienza e umiltà del servo. Il modello che invece qui domina è quello
del padre che con la sua forza e risolutezza deve gestire forme di vita pericolose per
aspetti importanti della vita fraterna, appunto come aveva fatto Pietro di Bernardo-
ne con suo figlio nel difendere il buon nome della sua famiglia.
Nella terza forma di utilizzo dell’avverbio, Francesco invece si rivolge a tutti i
suoi frati per chiedere loro l’obbedienza in tre ambiti giudicati da lui assolutamen-
te importanti. Il primo caso lo troviamo al v. 20, dove, premettendo l’espressione
«volo firmiter», richiede a tutti i frati di lavorare con le loro mani. Le due succes-
sive occorrenze, in cui l’avverbio si unisce al verbo praecipio, rappresentano i due
testi imperativi di Francesco più importanti del Testamento, con delle forti e impe-
gnative conseguenze nello sviluppo della vita della fraternità subito dopo la morte
del Santo. Nel primo passaggio Francesco, con una formula giuridica tra le più dure
e risolute mai utilizzate nei suoi testi, «comanda fermamente per obbedienza a tutti
i frati» di non rivolgersi alla Sede Apostolica per chiedere a essa bolle di appoggio
alla loro attività apostolica.75 La stessa fermezza è impiegata alla fine del Testa-

73
  Testamento, 27-28: FF 124.
74
  Testamento, 32-33: FF 126.
75
 Cf. Testamento, 25: FF 123.

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mento, nella seconda importante formula di obbedienza richiesta con assolutezza


a tutti i frati:
E a tutti i miei frati, chierici e laici, comando fermamente, per obbedienza, che non inserisca-
no spiegazioni nella Regola e in queste parole dicendo: Così si devono intendere.76

Sono ben note le difficoltà che faranno sorgere in seno all’Ordine i due co-
mandi. Due richieste che avrebbero impedito ai frati ogni processo evolutivo della
loro identità nella relazione con i bisogni della Chiesa. L’intervento di Ugolino,
divenuto papa Gregorio IX, con la bolla Quo elongati, fa superare queste difficol-
tà dichiarando il Testamento di Francesco giuridicamente invalido per due difetti
giuridici: egli aveva deciso da solo senza coinvolgere i Ministri e in particolare non
poteva obbligare il suo successore perché giuridicamente «non c’è potere dell’uno
sull’altro tra coloro che hanno uguale autorità».77
Insomma il praecipio firmiter del Testamento mette in evidenza due elementi
dell’ultimo Francesco, facendo emergere in lui una specie di dicotomia di atteggia-
menti, tra loro difficilmente conciliabili. Se da una parte infatti egli riproclama di
voler essere soggetto e sottomesso nelle mani anche del guardiano, dall’altra però
non ha nessuna difficoltà a chiedere per obbedienza a tutti i frati di fare quanto egli
crede necessario e giusto per il bene della fraternità. È la stessa dicotomia che di
fatto si avverte nella Lettera a tutto l’ordine, nella quale se da una parte proclama
Elia suo Ministro generale e suo signore,78 dall’altra, pur definendosi «uomo di
poco conto e fragile, vostro piccolo servo»79 e «uomo inutile e indegna creature del
Signore»,80 non ha nessuna difficoltà a chiedere non solo a frate Elia, ma a tutti i
Ministri generali dopo di lui, di tenere con sé quello scritto, di metterlo in pratica e
di conservarlo scrupolosamente.81
Questa specie di tensione bipolare dell’autocoscienza di Francesco immette
direttamente nella nostra ipotesi di partenza, la quale potrebbe spiegare l’utilizzo
incongruente del praecipio firmiter: la somiglianza con suo padre Pietro di Bernar-
done. Si potrebbe infatti dire che l’ultimo Francesco agisce come se fosse stato un
pater familias, rivolgendosi ai suoi frati con quella fermezza che non solo non per-
metteva replica, ma anche mostrava una forza animata da una santa ira. Non è pos-
sibile, insomma, non domandarsi quanto questi testi rinviino a un probabile legame
caratteriale di Francesco con suo padre. Difficile da dire, ma è possibile pensarlo.
Quell’uomo, abbandonata la logica piramidale, aveva sognato e progettato uno stile
di governo evangelico misurato dalle due figure della madre e del servo, ma poi si
ritrova a dover fare i conti con le sue radici, con le sue somiglianze, mai del tutto
eliminate, al padre del quale portava una caratterialità forte e forse anche irosa nel
difendere quanto a lui sembrava giusto e necessario. Si può immaginare dunque che
Francesco sperimentasse in sé una specie di frattura tra quanto progettato nel nome
del vangelo, cioè quella gratuità assoluta appresa tra i lebbrosi e solidificata con la
doppia figura della madre e del servo, e quanto emergeva di tanto in tanto dal suo
carattere, dal suo cuore, con una passione che lo conduceva all’ira nel ribadire la
sua volontà. Esortava i fratelli a essere ministri, servi, madri l’uno dell’altro, ma

76
  Testamento, 38: FF 130.
77
  Quo elongati, 3: FF 2731.
78
 Cf. Lettera a tutto l’ordine, 2: FF 215, e 40: FF 227.
79
  Ivi, 3: FF 215.
80
  Ivi, 47: FF 231.
81
 Cf. ibidem.

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egli in certi casi, smetteva di essere madre e servo, e diventava pater familias con
delle forme simile a quelle sperimentate con il suo padre carnale82.
È lecito dunque chiedersi se nel praecipio firmiter Francesco stesse in qualche
modo tradendo il suo progetto di governo evangelico o se egli in quei momenti
svolgesse un ruolo tutto particolare connesso all’unicità della sua figura in rapporto
alla vicenda che era nata da lui. Il turbamento e l’ira che egli provava nel gestire
con fermezza le problematiche, imponendo con determinazione e per obbedienza
la sua volontà, era un’appropriazione indebita o un’eccezione possibile solo a lui?
In quei momenti egli era ancora frate minore che doveva svolgere un ruolo speciale
o ritornava a esser figlio di Pietro di Bernardone, afferrato dall’ira di essere stato
tradito nelle sue aspettative dai frati?

8.3. Conclusione

Tenendo presente quanto si è detto circa il progetto evangelico del governo


dentro la fraternità minoritica e l’esperienza specifica testimoniata da Francesco, è
possibile concludere queste pagine effettuando due serie di considerazioni finali.
La prima riguarda una specie di sintesi del processo che si è evidenziato nella
descrizione della proposta vissuta dalla prima fraternità. E lo vorrei fare eviden-
ziando una tensione dialettica insita nel governo evangelico vissuto da Francesco.
Mi sembra cioè di poter dire che nella firma, costantemente utilizzata dal Santo,
«frate Francesco» vi sia il nucleo della tensione insita nel governo da svolgere a
vantaggio degli altri frati, dove il progetto evangelico deve fare i conti con la pro-
pria individualità naturale. Tentiamo di articolare meglio questa ipotesi riassuntiva.
Indubbiamente Francesco viveva con grande consapevolezza il sogno evange-
lico di diventare e restare frate, e di instaurare tra i suoi compagni uno stile fraterno
nella gestione della vita. Le loro relazioni dovevano essere domestiche, cioè fami-
liari, senza potere l’uno sull’altro, come aveva richiesto Gesù ai suoi e come aveva
sperimentato Francesco tra i lebbrosi. Occorreva abbandonare la figura piramidale
dei rapporti di potere e dominio per realizzare il circolo della condivisione fraterna
fatta di accoglienza e gratuità. In questo contesto, la volontà di essere l’uno fratello
dell’altro, senza differenze di grado, proclamando che nessuno doveva chiamarsi
priore ma tutti semplicemente frati minori, trovava nelle due metafore della madre
e del servo le sue misure di riferimento. In esse i frati avevano la sintesi migliore
per intendere il loro compito di autorità, eliminando ogni criterio di pretesa e di do-
minio. È solo mediante queste categorie ribaltate di potere, dove chi è prelato, cioè
posto avanti e sopra gli altri, si pone di fatto ai piedi, che il Ministro e servo potrà
avere il potere di creare relazioni di comunione e di circolarità tra i frati, mantenen-
do il loro rapporto dentro spazi domestici; solo tramite la gratuità e la generosità il
Ministro potrà assolvere al suo unico e fondamentale compito: essere volto sacra-
mentale di Colui che è misericordia e così attrarre i suoi frati alla riscoperta della
loro chiamata fraterna e minoritica.
82
  Con questa ipotesi di tipo caratteriale mi pongo in dialogo idealmente con Dalarun, il quale invece
rinvia a un meccanismo consapevole da parte di Francesco di riavere a livello spirituale il potere rifiutato a livel-
lo giuridico, così da poter ottenere un’autorità di governo sui frati assoluta (cf. Francesco di Assisi: il potere in
questione, 37-47). Io credo che a questa componente vada aggiunto, o forse sostituito, l’elemento caratteriale, di
tipo istintivo che riemerge con forza nel momento in cui le questioni gestionali e ideale del gruppo si ampliano e
si allontanano dalla visione di Francesco e dalla primitiva esperienza del gruppo.

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Nello stesso tempo, però, restava vivo nel Santo di Assisi, suo malgrado e
forse a sua insaputa, l’essere Francesco, con una caratterialità che lo legava al
padre, cioè con un temperamento forte e risoluto che in certi casi cadeva nel tur-
bamento e anche nell’ira. I momenti di crisi, di difficoltà relazionale per le scelte
fatte o da fare nella vita, costituivano le situazioni in cui questo mondo delle ra-
dici, quello profondo e istintivo, emergeva in modo più forte e improvviso.
E sappiamo per certo che per lui erano momenti molto preziosi, perché tra-
mite essi egli poteva avvertire e riconoscere la presenza di quella specie di di-
cotomia tra il progetto e l’istinto caratteriale; egli sapeva infatti che solo nei
momenti insoddisfacenti, cioè quando coloro che gli avrebbero dovuto dare sod-
disfazione gli si mettevano contro ingiustamente, egli poteva conoscere quanta
pazienza e umiltà aveva in sé;83 e dunque solo nei momenti in cui gli veniva
chiusa la porta in faccia per essere ingiustamente cacciato via,84 egli poteva avere
la consapevolezza dei due livelli, cioè la distanza tra il progetto evangelico e la
propria caratterialità, per riproclamare ancora una volta il desiderio di connetterli
per il bene dei fratelli.
Tale storia, che racconta la dialettica tra il progetto e il carattere, vissuta
da Francesco nel gestire il governo dei suoi frati (impegno al quale egli si sente
coinvolto fino alla fine nonostante il rifiuto da lui effettuato del potere giuridico
sui frati) ci permette di introdurci nella seconda serie di considerazioni finali al
nostro articolo. L’ipotesi di una tensione vitale tra il progetto di essere frate e la
sua natura di Francesco costituisce una consolazione e un richiamo per ognuno
che voglia vivere con disponibilità e onestà la fatica e l’impegno alla chiamata di
esercitare il mandato di governo sugli altri.
La vicenda personale di Francesco ci consola perché ci aiuta a non stupirci
e forse a non scandalizzarci nel constatare un doppio livello di percezione e di
consapevolezza nei nostri impegni di governo: da una parte sentire chiaro e bello
il progetto evangelico e dall’altro avvertire una caratterialità che fa fatica a mo-
dellarsi al progetto, restando nonostante tutto connessa a delle dinamiche antiche
e quasi automatiche che precedono a volte la stessa consapevolezza e volontà.
Al contempo, quanto ricordato in Francesco costituisce anche un richiamo
a un duplice impegno per gestire bene quanto ci è stato affidato come governo
sugli altri. Da una parte occorre con consapevolezza e responsabilità mantenere
fermo e chiaro il progetto evangelico nel quale si proclama la volontà e la bellez-
za della dimensione diaconale del governo. Chi è chiamato al ruolo di autorità
non può dimenticare il carattere minoritico del suo servizio, per non cadere nel
pericolo dell’appropriazione del ruolo; per questo dovrà lasciarsi costantemente
misurare dalle due metafore fondamentali proposte da Francesco: la madre e il
servo quali modelli ideali di un vero servizio evangelico da svolgere a favore
dei propri fratelli. Dall’altra la vicenda personale di Francesco ricorda quale at-
tenzione occorra avere per verificare costantemente quanto i nostri meccanismi
caratteriali guidino e influiscano, nonostante ogni buona volontà, sulle nostre
scelte. Gli eventi, con la loro sorpresa e imprevedibilità, costituiscono momenti

83
  È quanto ricordato da Francesco ai suoi frati nella famosa e bellissima Ammonizione XIII. Rinvio al
commento che ho fatto di questa ammonizioni nel volume Fate attenzione fratelli, 87-90.
84
  Stiamo alludendo evidentemente al racconto della Perfetta letizia nel quale Francesco articola in forma
narrativa quanto aveva proposto in forma sapienziale nell’Ammonizione XIII. Mi permetto di rinviare ancora al
mio articolo La fragilità fonte di verità e di vita, 119-124 dove analizzo l’opportunità di verità che fu donata a
Francesco in quella notte tragica col non essere stato accolto nella sua casa della Porziuncola.

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speciali per attuare questo monitoraggio della convergenza tra progetto e carat-
terialità, tra sogno evangelico e realismo storico. Se governare significa vivere
il modello della madre e del servo, è anche vero che governare mostra quanto
difficile sia realizzare tale progetto per i meccanismi che ci portiamo dentro e
che sono legati alle nostre radici umane. Incarnare il progetto accettando un ne-
cessario e costante divario tra il sogno e la realtà costituisce la vera sapienza di
colui che si rende disponibile ad assumersi il grave e impegnativo compito di
governare come servizio agli altri.

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