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MF 112 (2012) 581-599

LA MORTE DI UN UOMO CRISTIANO


Gli ultimi anni di vita di Francesco di Assisi
Pietro Maranesi, OFMCap

Gli ultimi anni della vita di Francesco di Assisi furono molto speciali. In
qualche modo essi corrisposero ai primi anni della sua esperienza, quando
era stato chiamato a scoprire la sua identità di uomo cristiano. In quel caso
fondamentali furono sia l’incontro con la malattia emarginante dei lebbro-
si da lui condivisa mediante un abbraccio di misericordia, sia la rottura re-
lazionale con la sua famiglia parentale che avevo preso le distanze da lui,
avendolo giudicato un discredito per la fama e l’onore della casa. Negli ul-
timi anni avvenne qualcosa di simile: il lebbroso che egli incontrerà sarà il
suo corpo sempre più malato e fragile, e insieme sperimenterà le difficol-
tà relazionali con i suoi frati con i quali si stava manifestando una forma di
rottura sul modo di vedere la vocazione minoritica. In ambedue i momenti,
agli inizi e alla fine della sua vita, Francesco fu chiamato a toccare la nudi-
tà della terra e lì deporre la sua persona per dare stabilità a tutto l’arco del-
la sua esperienza. Appunto: si potrebbero paragonare i due periodi di vita
al terreno arido e forse roccioso sul quale egli ha dovuto fondare i due pi-
loni, quello di partenza e quello di arrivo, del ponte della sua esistenza. Su
quella roccia dura e avversa era stato chiamato all’inizio e alla fine della
sua vita a scavare per fissare il ponte del suo itinerario umano, che lo sta-
va conducendo all’incontro di colui che aveva cercato con tutto il cuore.
In queste poche pagine vorremmo ripercorrere gli ultimi anni di frate
Francesco, quelli che vanno dal 1224 alla morte avvenuta il 3 ottobre 1226.
Sono gli anni in cui l’uomo Francesco, che aveva abbracciato l’identità di
fratello cristiano di tutti, deve riaffermare e far crescere fino alla sua piena
maturità questa scelta che Dio gli aveva donato all’inizio. Nella fatica e nel-
la delusione degli ultimi anni, molto simili a quelli iniziali, egli dovrà ricon-
segnare la sua persona al mistero di un Dio nascosto sotto le pieghe di una
storia indisponibile e contraddittoria. Cercheremo di ripercorrere questo trat-
to finale di vita, uno tra i più significativi e risolutivi della vicenda di Fran-
cesco. Gli inizi si congiungono con la fine per trovare il loro compimento.
Tre saranno i passaggi ideali che vorremmo riascoltare. Innanzitutto il
travaglio lacerante vissuto da frate Francesco colpito a morte sia dalla ma-
lattia fisica sia dalle difficoltà relazionali con i suoi fratelli. In esse egli do-
vrà compiere il passaggio dentro la grande tribolazione per lavare le sue
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vesti nel sangue del suo Signore crocifisso e risorto. Il Testamento scritto
da Francesco a ridosso della morte segna la seconda tappa di questo tragit-
to finale. Questo testo è il frutto maturo di un uomo che è uscito dal grande
travaglio mediante una ennesima e definitiva consegna rappacificata a Dio
e ai fratelli, lasciando ad essi con quel testo una preziosa ma anche impe-
gnativa eredità: la sua persona. A quel punto, dopo aver riabbracciato i suoi
fratelli consegnandosi ad essi senza pretendere nulla, Francesco è pronto per
l’ultima tappa, il grande passaggio, quando sorella morte lo consegnerà da
povero, cioè da uomo, alle mani di Colui al quale aveva donato la sua vita.
L’approccio che si vorrà seguire è senza grandi pretese di scientificità,
cioè non si tenterà di effettuare un’analisi dettagliata di quanto scritto in
antecedenza su questo tratto di vita di Francesco. Dunque, riprendendo in
mano le fonti ma senza sviluppare un attento confronto bibliografico, pro-
verò, nello spazio di poche pagine, a mettere in evidenza quali siano sta-
ti i tratti caratteristici di un uomo cristiano che accetta con coraggio la sua
vulnerabilità umana, quella che emergerà con forza e violenza negli ulti-
mi anni della sua esistenza, nella consapevolezza che essa è lo spazio pre-
zioso e unico per un incontro vero e definitivo con se stesso, con gli altri
e con Dio. In ultima analisi, pur evitando la banalità di un racconto esorta-
tivo e devozionale, mi limiterò a far riascoltare con semplicità e brevità al-
cuni aspetti, a mio avviso tra i più significativi, della storia cristiana di un
uomo che, proprio nel suo morire da uomo tra gli uomini, incontra nuova-
mente e definitivamente l’unica via per consegnarsi all’amore di Dio qua-
le senso ultimo della sua vita.

I. IL DOPPIO TRAVAGLIO DEGLI ULTIMI ANNI: LA CONSEGNA DEFINITIVA

Al termine della sua esistenza Francesco si ritrova a dover affrontare una


triplice fondamentale domanda, che di fatto azzera in lui ogni possibile si-
curezza e lo obbliga a rimettersi in cammino come “pellegrino e forestie-
ro”: chi sono io, malato e prossimo alla morte, con un corpo lacerato e sfi-
nito, che un giorno invece sognavo di diventare un grande cavaliere forte
e vittorioso? Chi sono gli altri che, invece di essere fratelli solidali per uno
stesso progetto, si sono trasformati nei miei avversari? E chi è Dio, al qua-
le avevo affidato la mia vita e ora sembrerebbe essersi ritirato, lasciando-
mi solo di fronte alla mia morte? Le tre domande in qualche modo si rap-
portano ai tre spazi esistenziali che si vorranno affrontare nei successivi
paragrafi.
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1. Un uomo malato ma non stanco


Non solo la dura condizione condivisa con i poveri, ma anche il viag-
gio in Terra Santa minarono profondamente la salute di Francesco. Ritor-
nato in Italia nel 1220, la vita di quell’uomo era profondamente cambia-
ta. Oltre le difficoltà emerse all’interno della sua fraternità, egli si trovò a
dover affrontare una serie di malattie che aggravarono la sua già malfer-
ma condizione. Forse prima di partire per la Terra Santa il Santo soffriva di
seri disturbi intestinali ed epatici legati forse alla malaria; nel suo viaggio
in Oriente contrasse una grave malattia agli occhi che lo portò quasi alla ce-
cità; alla fine della vita si aggiunsero anche fenomeni di idropisia alle co-
sce e ai piedi, tanto da non poter più camminare e doversi servire di un asi-
no per i suoi spostamenti; qualcuno ha pensato, e la cosa non è del tutto da
escludere, che egli avesse addirittura contratto la lebbra.
Sintesi iconografica della situazione fisica e, di conseguenza, spirituale
vissuta da Francesco negli ultimi anni. è rappresentata da un famoso rac-
conto della Compilazione di Assisi. In balìa di una forte recrudescenza della
malattia agli occhi, venne ospitato da Chiara e dalle sue sorelle in una cel-
letta presso San Damiano, dove restò per più di cinquanta giorni nel buio e
nella solitudine, unici rimedi per attutire un dolore agli occhi che gli impe-
diva di riposare e dormire. A tutto questo si aggiungeva anche la presenza
dei topi «che saltellavano e correvano intorno e sopra di lui» (CompAss 83:
FF 1614). La situazione psico-fisica di quell’uomo era disperata: «Una not-
te, riflettendo il beato Francesco alle tante tribolazioni che aveva, fu mosso a
pietà verso se stesso e disse in cuor suo: “Signore vieni in soccorso alla mie
malattie, affinché io sia capace di sopportarle con pazienza”». È un uomo
diventato a se stesso lebbroso. In questo smarrimento, in cui forse percepi-
sce la paura di aver buttato via la vita, si accorge però che la passione per
la vita stessa non l’aveva mai abbandonato e restava pulsante in lui, spri-
gionandosi con una nuova intensità e freschezza. Quella povertà fisica, in-
vece di strapparlo via dal suo fondamento esistenziale, lo invitava a guar-
dare con più passione a Dio, al quale chiedeva di nuovo la vista del cuore
per trasformarla in lode ed esultanza. Secondo il racconto della Compila-
zione di Assisi, infatti, è proprio in quelle giornate di profonda prostrazio-
ne che nascerà il Cantico di frate Sole, in cui il Santo, con parole magiche,
volle cantare l’«Altissimo bon Signore», visto e ammirato «in tutte le sue
creature». La malattia non aveva spento la lode di Dio, nella cui relazione
Francesco aveva ritrovato nuovamente la via verso uno sguardo di lode e
di ringraziamento su di un mondo che sembrava essersi spento.
Accanto a questa prima direzione esistenziale vi è l’altra, che la malat-
tia non riuscì a fiaccare. Sebbene malato, egli restava un uomo in cammino
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per le strade degli uomini. La sua attività apostolica non si ferma con la ma-
lattia. Con quella fantasia missionaria che gli era propria, non potendo più
andare fisicamente per il mondo, fa viaggiare attraverso le lettere le sue pa-
role di esortazione alla gente. La nuova strategia è presentata in modo pre-
ciso all’inizio della seconda redazione della Lettera inviata probabilmente
nel 1224 a tutti cristiani del mondo:
Poiché sono servo di tutti, sono tenuto a servire a tutti e ad amministrare le fra-
granti parole del mio Signore. E perciò, considerando che non posso visitare
personalmente i singoli, a causa della malattia e debolezza del mio corpo, mi
sono proposto di riferire a voi, mediante la presente lettera e messaggio, le pa-
role del Signore nostro Gesù Cristo, che è il Verbo del Padre, e le parole dello
Spirito Santo, che sono spirito e vita (2LFed 2-4: FF 180).
Lo strumento epistolare era già stato utilizzato dal Santo subito dopo il
suo ritorno dalla Terra Santa. In quel caso aveva scritto alcune Lettere a tut-
ti i chierici del mondo per esortarli alla consapevolezza del mistero eucari-
stico e all’attenzione nella sua celebrazione. Si può affermare che il Santo
aveva aderito alla crociata eucaristica indetta dal Lateranense IV e ribadi-
ta dalla lettera papale Sane cum olim del 1219, in cui tutta la chiesa veniva
invitata ad aver cura e venerazione per il sacramento dell’altare. Interessan-
te anche il coinvolgimento chiesto al suo Ordine di moltiplicare la sua let-
tera eucaristica inviata ai chierici per farla conoscere il più possibile nella
Chiesa (cf. 2Lcus: FF 245-248). Una lettera pastorale, simile a quella scritta
per tutti i cristiani, sarà spedita, sempre nel 1224, a tutto l’Ordine, del qua-
le vuole restare il pastore per esortare i suoi frati ad una vita cristiana (cf.
LOrd: FF 214-233). Si indebolisce il corpo, ma non lo spirito missionario
ed evangelizzatore. La malattia non diminuisce l’entusiasmo di Francesco
nel restare sulle strade degli uomini annunciando la Parola.

2. Un fratello solo ma non arrabbiato


Nel capitolo del settembre del 1220, Francesco, davanti a tutto il suo
Ordine, aveva rinunciato alla carica di generale della fraternità, affidando
l’impegno a Pietro Cattanio, il quale terrà l’ufficio fino all’anno successi-
vo, passandolo poi a frate Elia. I motivi principali della decisione di Fran-
cesco erano legati sicuramente al suo stato di salute, ma anche alle diffi-
coltà relazionali per le diverse visioni che stavano emergendo tra i frati. In
qualche modo il Santo prende atto che all’interno del suo gruppo vi è una
visione diversa dalla sua, facente capo al settore dei ministri e dei dotti; per
sé riserva il mandato dell’esemplarità e della memoria carismatica, ad altri
quello della responsabilità giuridica. Qualcuno ha parlato della formazio-
ne all’interno dell’Ordine di una doppia gerarchia: quella dell’intuizione di
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Francesco e quella dell’istituzione dei ministri con il loro riferimento alle


richieste della sede apostolica.
Gli sviluppi di questa situazione portarono ad una specie di parados-
so: il frate dimissionario dalla guida giuridica dell’Ordine non smette però
di esserne il responsabile carismatico, utilizzando una forte autocoscienza
personale nel gestire il “potere”. E la conseguenza è l’accentuazione della
lacerazione tra Francesco e i suoi frati. Si pensi appunto alla grande elabo-
razione della Regola, assunta in prima persona da Francesco, con un atteg-
giamento, secondo i racconti della Compilazione di Assisi, di durezza nei
confronti dei frati, fino quasi a renderlo solo contro tutti. Emblematico è
il racconto, a cui si è già fatto riferimento, del capitolo delle Stuoie, dove,
contro l’opinione dei frati dotti, egli proclama la sua “pazzia” quale norma
direttiva per tutti i frati (cf. FF 1564); un altro racconto, sempre della stessa
fonte agiografica, testimonia la stessa tensione, quando i frati ministri, in-
sieme al generale frate Elia, intimoriti vanno a Fonte Colombo, dove Fran-
cesco stava scrivendo la Regola, per lamentarsi con lui di quanto sentono,
ma il Santo con durezza li caccia via (cf. FF 1563).
Questo conflitto di fatto porterà Francesco ad una sorta di solitudine dopo
la stesura della Regola. Un episodio indicativo di questa situazione lo ab-
biamo di nuovo nella Compilazione di Assisi, quando Francesco malato si
alza seduto sul lettuccio gridando: «Chi sono questi che mi hanno strappato
dalle mani la Religione mia e dei frati? Se andrò al capitolo generale, mo-
strerò loro qual’ è la mia volontà» (ComoAss 44: FF 1567/22).
Sicuramente il testo più interessante nella ricostruzione di questa situa-
zione degli ultimi anni sui rapporti tra Francesco e il suo Ordine è offerto
dal Santo stesso. Il racconto della Perfetta letizia, secondo la redazione ri-
portata negli Scritti (cf. FF 278), è molto di più che un’esortazione alla pa-
zienza e all’umiltà (come di fatto è trasformato nella rielaborazione fatta
nei Fioretti al cap. VIII: FF 1836). In questo breve testo Francesco propo-
ne una parabola chiaramente autobiografica. Nella prima parte del raccon-
to egli si trova alla Porziuncola dove riceve i messi con positive notizie sui
successi che l’Ordine stava ottenendo nella Chiesa e nella sua attività mis-
sionaria, una fama che veniva accompagnata anche dalla santità ormai ri-
conosciuta di Francesco stesso divenuto vanto di tutto l’Ordine (cf. PerLet
4-6: FF 278); secondo la logica narrativa della prima parte, dunque, Fran-
cesco è il centro dei successi dei frati minori, non solo in quanto ne è la
causa ma anche perché ne conferma la positività degli sviluppi. Nella se-
conda parte si inverte profondamente la situazione: Francesco è sulla stra-
da da povero e pellegrino, andando verso la Porziuncola in una situazio-
ne di emarginazione e di debolezza, riproponendo, cioè, i caratteri della
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primitiva situazione dei frati. Questo Francesco, però, era diventato un pro-
blema: il suo stile di vita da “semplice ed idiota” non è più adeguato alle
novità dell’Ordine, divenuto ormai “tale e tanto” da non aver più bisogno
di lui (cf. PerLet 11: FF 278). Quella porta che non si apre, rendendo Fran-
cesco un forestiero, riassume e raffigura la situazione di rifiuto e di solitu-
dine che in qualche modo stava vivendo il Santo.
Malato ed emarginato dai suoi: il tragitto esistenziale degli ultimi anni
conduce Francesco, come si è già detto, a una posizione simile, per alcuni
versi, a quella degli inizi del suo itinerario cristiano. Spogliato di tutto, deve
ridire e confermare la propria identità di uomo cristiano, scoperta agli ini-
zi tra i malati ed esclusi del lebbrosario e poi, nella solitudine emarginata,
vissuta a San Damiano. La terra arida sulla quale era stato piantato il seme
cristiano ridiventava alla fine il luogo sul quale doveva nuovamente appog-
giare l’arco della sua esistenza umana. Frate Leone, «se io avrò avuto pa-
zienza e non mi sarò conturbato, io ti dico che qui è la vera letizia e qui è
la vera virtù e la salvezza dell’anima» (PerLet 15: FF 278).

3. Dai crociferi di Rivotorto alla croce della Verna:


il viaggio verso il compimento
In quella notte tragica, in cui venne spogliato di tutto, il Santo fu obbli-
gato ad intraprendere l’ultimo viaggio in cui verificare e compiere la sua vo-
cazione cristiana. Due furono le tappe ideali-spirituali di quell’ultimo trat-
to di vita segnato dalla malattia e dalla solitudine.
La prima tappa gliela indicò il frate portinaio: «Vattene al luogo dei Cro-
ciferi e chiedi là» (PerLet 10: FF 278). Di fatto Francesco venne invitato a
ripartire da dove aveva preso il via il suo tragitto umano, dai lebbrosi che
vivevano in quel posto di rifugio. Ed essi gli ricordarono una verità che sta-
va per smarrire: “Francesco, senza pretendere di cambiare il mondo, dona il
tuo cuore con misericordia ai tuoi fratelli”. L’Ordine non era il suo, né do-
veva difendere l’esperienza minoritica come se fosse una sua proprietà. Gli
avvenimenti stavano chiedendo a Francesco di proclamare che veramente
era “frate minore”, cioè un uomo-fratello che accettava di non aver potere
ma di amare gli altri senza pretendere nulla, nemmeno «che siano cristiani
migliori» (LMin 5: FF 234).
Questa prima chiarificazione gli chiese di prolungare il viaggio il gior-
no dopo. Quella notte trascorsa tra i lebbrosi, oltre a ricordargli quale fosse
la sua vocazione, gli aveva indicato l’altra tappa assolutamente necessaria
da fare: incontrare il volto di Cristo nella solitudine del monte La Verna. Là
avrebbe ritrovato l’altro volto che, insieme ai lebbrosi, aveva caratterizza-
to il suo volto di “frate Francesco”. Giunse su quel monte aspro e impervio
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da malato ed emarginato, cioè da pellegrino e forestiero, piagato nel corpo


e nello spirito. Quella povertà era il suo ultimo e definitivo possedimento.
Che cosa chiedeva in quell’incontro a Colui al quale aveva donato la vita
seguendo le sue orme da “frate minore”? Che Dio intervenisse per allevia-
re le sue sofferenze e riportare i suoi frati sulle sue posizioni? Una cosa era
chiara: in quella situazione di vinto ed emarginato, egli assomigliava al vol-
to che aveva scelto come modello di umanità. L’ultimo atto, quello che lo
avrebbe liberato da ogni ira e turbamento, allora non doveva essere quello
di cambiare il mondo per renderlo perfetto (a sua immagine), ma quello di
consegnare a Dio le sue piaghe quale spazio di povertà e di autenticità. E
Francesco torna ad essere “frate Francesco”, un uomo che vuole cammina-
re nudo e povero dietro Gesù Cristo. In quel momento, come per miracolo,
le sue ferite nell’anima e nel corpo diventano segni gloriosi di questo suo
“vestigia Christi sequi”, consegna e restituzione di sé a Dio senza condi-
zione, movimenti che lo liberarono dalla grande tentazione di riappropriar-
si con forza del suo Ordine imponendo la sua visione. Francesco era ritor-
nato un uomo libero e leggero, perché di nuovo conquistato e segnato dalla
logica di Cristo, che lo fa ridiventare un uomo cristiano senza più pretese
ma di nuovo disponibile al mistero di Dio che gli si presenta nella diversi-
tà dei suoi fratelli.
L’uomo che scende dal monte La Verna, verso la fine del settembre del
1224, è un uomo che ha superato dunque la “grande tentazione”; è un uomo
che ha alzato gli occhi verso il suo Signore consegnandogli la sua esisten-
za per liberarla dal rischio di ogni pretesa di potere sulla realtà dell’Ordine.
Quello che scende da La Verna, però, è un uomo non solo riconciliato ma
anche capace di essere fonte di riconciliazione. La Cartula donata a frate
Leone racconta proprio questa trasformazione. Leone molto probabilmen-
te partecipava alla stessa grande tentazione di Francesco, quella della de-
lusione per gli sviluppi dell’Ordine e della tristezza per l’apparente falli-
mento della propria esistenza. Ascoltando il suo grido di aiuto (cf. quanto
racconta 2Cel 49: FF 635, combinandolo con le rubriche scritte da Leone
stesso a margine della Cartula FF 262), Francesco regala a Leone un pic-
colo biglietto nel quale gli indica la via di guarigione da lui stesso segui-
ta. La pace del cuore, quella desiderata dal compagno/fratello, è il risultato
dell’incontro con il volto di Dio: “il suo volto di misericordia, che splen-
de sul tuo volto, Leone, ti doni la pace”. Ma perché questo avvenga, Leone
deve operare la stessa scelta compiuta da Francesco: girare pagina e smettere
di guardare al proprio io amareggiato e forse arrabbiato, per rialzare, inve-
ce, gli occhi verso il Tu di Dio quale risposta definitiva e unica alle proprie
esigenze. Solo nel Tu di Dio era possibile ritrovare la pace del cuore, cioè
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il coraggio e la disponibilità di abbracciare la realtà nella sua alterità e fa-


tica. Questo era diventare veramente “frati minori”. E lo spogliamento che
Francesco aveva vissuto sul monte La Verna, davanti al nudo crocifisso, co-
stituì l’ultimo atto di maturazione di una identità che egli aveva abbracciato
all’inizio nell’incontro con i volti crocifissi dei lebbrosi e del Cristo povero.

II. “IL MIO TESTAMENTO”: L’EREDITÀ DELLA SUA PERSONA

Quest’uomo guarito e confermato nella sua identità cristiana sente che a


ridosso della sua morte deve compiere un ultimo servizio ai suoi frati, me-
diante la stesura di un testo che consegna loro come suo “Testamento”. Nel
maggio del 1226, stando a Siena, ebbe un’ennesima crisi di salute, ed essa
fu tanto grave che i suoi frati ebbero paura di una morte imminente. Il do-
lore della sua perdita suscitò in loro una richiesta molto precisa:
lascia ai tuoi fratelli un memoriale della tua volontà, affinché, se il Signore ti
vorrà chiamare da questo mondo, possano sempre tenere in mente e ripetere: il
nostro padre, sul punto di morire, ha lasciato queste parole ai suoi fratelli e fi-
gli (CompAss 59: FF 1587).
Il testo, dettato subito dopo da Francesco per esaudire la loro richiesta,
conteneva tre esortazioni, sintesi delle cose preziose che consegnava ad essi:
I frati sempre si amino e rispettino l’un l’altro; amino e osservino sempre la
santa povertà nostra signora; sempre siano fedeli e sottomessi ai prelati e a tut-
ti i chierici della Santa madre Chiesa (CompAss 59: FF 1587).
La morte però non arrivò subito, trascorsero altri quattro mesi nei quali
Francesco, forse stimolato proprio da quella richiesta, volle congedarsi da
una serie di persone che erano state importanti per la sua vita, inviando loro
un saluto e un ricordo: a Chiara con le Ultime volontà, a Bernardo benedi-
cendolo, a donna Jacopa invitandola a fargli visita prima della sua morte.
Tuttavia tra coloro da cui volle prendere di nuovo commiato vi erano ancora
tutti i suoi frati; per essi, dopo il breve biglietto di Siena, nei mesi che pre-
cedono la morte, detterà un testo molto più ampio da lui stesso così definito:
E non dicano i frati: “Questa è un’altra regola” perché questa è un ricordo,
un’ammonizione, un’esortazione e il mio testamento che io frate Francesco pic-
colino faccio a voi, fratelli miei benedetti, affinché osserviamo più cattolicamen-
te la Regola che abbiamo promesso al Signore (Test 34: FF 127).
In questa affermazione posta agli inizi dell’ampio testo di conclusione
(vv.34-41), in cui il Santo, oltre la benedizione finale a tutti i frati (vv.40-
41), offre le chiavi di lettura per comprendere l’intero testo (vv.34-39), si
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ritrovano tre temi fondamentali per ricostruire l’ultimo Francesco, quello


che era passato dentro la grande tribolazione e aveva confermato la sua vo-
cazione di frate minore.

1. Io frate Francesco piccolino a voi fratelli benedetti…


L’esperienza comunitaria era iniziata con un dono: «Il Signore mi donò
dei fratelli» (Test 14: FF 116). Le vicende travagliate degli ultimi anni ave-
vano provato duramente la tenuta di quelle relazioni, nate da una comune
chiamata evangelica. Il punto di arrivo di questo processo è in qualche modo
sintetizzato dalla doppia qualifica dei rapporti che Francesco proclama di vi-
vere con i suoi frati a ridosso della sua morte: «fratello piccolino di fratelli
benedetti». In ultima analisi, il Testamento è l’ennesima e ultima testimo-
nianza dei legami di amore e attenzione che univano il frate piccolino con i
suoi fratelli benedetti. Un uomo prossimo alla morte non può giocare con le
parole, con quelle, soprattutto, nelle quali dice la verità dei suoi sentimenti.
Questa verità identitaria, fatta di relazioni fraterne che non si erano rot-
te per le tensioni ma cresciute e maturate, si lega direttamente alla qualifi-
ca che il Santo, anche in questo caso, ridà di sé, quella cioè sempre vissu-
ta lungo la sua esistenza come progetto identitario e utilizzata nei suoi testi
come firma: «Io frate Francesco». L’ultimo e definitivo “io” di quell’uo-
mo, quello che egli riporterà da lì a poco a Dio, è la stessa identità ricevu-
ta dai lebbrosi e condivisa con i fratelli lungo i pochi anni di vita cristia-
na: frate Francesco.
Da una parte gli ultimi dolorosi eventi relazionali-identitari accaduti
dentro il gruppo, gli avevano chiesto di verificare quanto fosse autentica la
sua qualifica di “frate”. Gli avevano chiesto, infatti, di accettare la diversità
dei suoi fratelli senza imporre da proprietario la sua volontà. Ed egli aveva
accettato di essere semplicemente fratello, senza potere e libero dalla ten-
tazione del dominio. Tutto questo proclamava con l’aggiunta “piccolino”:
non solo frate ma anche debole nella sua figura.
Al contempo, però, non può smettere di essere “Francesco”, cioè colui
che è depositario di una rivelazione. Sebbene tutto il Testamento sia il frutto
della consapevolezza di questo mandato speciale, un passaggio molto chia-
ro del dover e voler restare “Francesco”, il depositario di una vocazione,
emergerà nel prosieguo della conclusione quando, come vedremo subito,
rivolgendosi prima al generale e ai ministri e poi a tutti i frati, pretende da
tutti obbedienza sul modo di osservare la Regola insieme al suo Testamen-
to. L’uomo che sulla Verna aveva ritrovato la pace nella sua identità di es-
sere “frate Francesco”, sa bene che l’aver riaccettato di essere “frate” non
significa interrompere il suo servizio di essere “Francesco”. Si potrebbero
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usare in questo contesto le parole di Agostino: io con voi frate e io per voi
Francesco. Fino alla fine resta immutata la dialettica che aveva attraversa-
to tutta l’esistenza di quest’uomo, producendo una diversità di manifesta-
zioni che non erano state, allora, l’insicurezza di un’identità, ma la com-
plementarietà di una vocazione. La riappacificazione identitaria avvenuta
sulla Verna era connessa alla pace di poter vivere con chiarezza e determi-
nazione le due parti della sua identità cristiana: frate Francesco. Questo era
l’unico modo di poter restare accanto ai suoi fratelli per servirli e aiutarli
senza volersi appropriare della sua opera.

2. … per osservare meglio la Regola…


Nella breve precisazione che dà il via alla conclusione del Testamento
Francesco, volendo spiegare la sua intenzione nella composizione di quel
testo, aveva stabilito, in via preliminare, quale fosse il suo obiettivo: «Per-
ché potessimo osservare più cattolicamente la Regola che abbiamo pro-
messo al Signore» (Test 34: FF 127). I frati, probabilmente, sapevano della
dettatura che Francesco stava facendo di un suo Testamento. La Compila-
zione di Assisi ci informa che alcune parti del testo erano state trasforma-
te da Francesco dopo che i frati gli avevano fatto osservare la problemati-
cità della loro formulazione (cf. CompAss 106: FF 1650-4). Probabilmente
la domanda che agitava i frati riguardava la natura giuridica di quel testo.
Che forse Francesco stesse scrivendo un’altra Regola? Il disaccordo che
egli aveva avuto con la formulazione del testo giuridico lo portava forse ad
abolirlo sostituendolo con un’altra Regola? La risposta data da Francesco a
queste possibili obiezioni è precisa: «Non dicano i frati che questa è un’al-
tra Regola» (Test 34: FF 127), ma un testo che vuole porsi al servizio del-
la Regola, perché la possano osservare meglio.
Prima di occuparci di tale natura funzionale del Testamento, occorre
prendere atto del suo rapporto di servizio con la Regola: con quel nuovo
testo Francesco non vuole superare o abolire la Regola, al contrario, con-
tro ogni dubbio, vuole riaffermare la sua validità giuridica per l’identità dei
frati. Ogni ipotesi di disaccordo tra la formulazione della Regola e Fran-
cesco, quasi che il testo fosse stato imposto contro la sua volontà e con-
tro l’intuizione originaria, è di fatto smentita dal Santo con il Testamento.
È quanto tiene a proclamare, con un’operazione storica non del tutto cor-
retta, affermando che esso è stato il risultato di quanto il Signore gli ave-
va dato di scrivere (cf. Test 39: FF 130); dunque nella Regola vi era l’ispi-
razione iniziale. Contro ogni dubbio, il Santo smentisce ogni voce sul suo
disaccordo con essa, riconoscendola definitivamente come testo nel qua-
le vi era ancora la rivelazione evangelica che Dio gli aveva donato all’ini-
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zio, chiedendogli di vivere «secondo la forma del Santo Vangelo» (Test 15:
FF 116).
A questa prima e fondamentale notizia Francesco ne affianca una secon-
da altrettanto importante, secondo una dialettica della complementarietà del-
le parti. Se era vero che la Regola conteneva l’intuizione, essa tuttavia ne-
cessitava di un testo che ne permettesse una comprensione migliore. Nella
Regola vi era lo Spirito del Signore donatogli da Dio agli inizi, però, perché
esso potesse emergere meglio e dunque perché la stessa Regola potesse es-
sere osservata più perfettamente, doveva essere letta insieme al Testamento.
E sempre tengano con sé questo scritto assieme alla Regola. E in tutti i capito-
li che fanno, quando leggono la Regola, leggano anche queste parole (Test 36-
37: FF 129).
L’una ha bisogno dell’altro: quando i frati leggeranno la Regola dovran-
no sempre leggerla insieme al Testamento. Come “frate” il Santo proclama
l’adesione alla Regola quale testo identitario sufficiente per vivere la pro-
pria vocazione minoritica, ma come “Francesco” sente che deve interveni-
re ancora per affiancare ad essa uno strumento che ne permetta una più pie-
na osservanza. In fondo si potrebbe affermare che nel rapporto in cui pone
la Regola e il Testamento, il Santo ripropone e concretizza la dialettica esi-
stente nelle due parti della sua identità personale: frate che osserva la Re-
gola e Francesco che ne diventa la misura.

3. … lascio il mio Testamento


Il ruolo di servizio assegnato da Francesco al testo si lega indubbiamen-
te alla natura di quel passaggio finale precisata con queste parole: «“Que-
sta non è un’altra Regola” perché questa è un ricordo, un’ammonizione,
un’esortazione e il mio testamento» (Test 34). La qualifica di Testamento
è dunque articolata in rapporto a tre specificazioni, a loro volta distinte in
due blocchi: da una parte esso è un ricordo e dall’altra è un’ammonizione
e una esortazione. Tale doppia articolazione di fatto sembrerebbe sintetiz-
zare quanto si è già visto nella struttura globale del testo: una parte narrati-
va delle vicende iniziali della storia di Francesco e della primitiva fraterni-
tà (vv.1-23) a cui segue una parte ammonitivo-esortativa fatta di richieste
molto precise rivolte ai frati (vv.24-33). Francesco non stabilisce in modo
preciso quale sia il rapporto tra le due parti del testo, per conseguire l’obiet-
tivo di aiutare i frati a osservare più cattolicamente la Regola. Tuttavia due
elementi sembrano chiari su questo punto.
La natura giuridica dei vv.24-33 della parte ammonitiva rappresenta il
momento diretto ed esplicito del servizio che il Testamento deve svolge-
592 PIETRO MARANESI

re a vantaggio della Regola. In questi versetti si hanno quattro importan-


ti temi nei quali Francesco fa delle richieste esplicite, per obbedienza, ai
suoi frati. Innanzitutto sulla povertà nelle abitazioni: essi dovranno sem-
pre interrogarsi sulla conformità delle strutture, che per essi verranno co-
struite, con la loro scelta della povertà, e la loro valutazione dovrà essere
guidata da un ideale: che siano conformi «alla santa povertà che abbiamo
promesso nella Regola, sempre dimorandovi da ospiti come forestieri e pel-
legrini» (v.24). Inoltre con fermezza assoluta proibisce ai suoi frati di ri-
volgersi alla sede apostolica per ottenere privilegi papali a vantaggio della
loro attività apostolica o a difesa delle loro strutture; al contrario essi do-
vranno restare un gruppo senza potere, così che «dovunque non saranno
accolti, fuggano in altra terra a fare penitenza con la benedizione di Dio»
(vv.25-26). Un altro importante aspetto affrontato da Francesco riguarda
la vita di obbedienza, sia tra i frati che alla Chiesa, per essere a lei sem-
pre soggetti e restare cattolici (vv.27-30). In particolare, su questo doppio
ambito, vi è una richiesta molto particolare, connessa alla fedeltà assoluta
da parte dei frati, pena addirittura il carcere, nella recita dell’ufficio divi-
no «secondo la Regola» (vv.31-33). A questi temi si aggiungono altre due
richieste, che erano state anticipate nella parte narrativa: la prima riguar-
da una serie di scelte ecclesiali, che Francesco riproclama ancora di vo-
ler abbracciare e nelle quali di fatto coinvolge i suoi frati, legate al rispetto
dei sacerdoti poverelli, alla venerazione dell’eucarestia e delle parole san-
te e all’onore dei teologi (vv.6-13); la seconda scelta, rinnovata per sé ed
estesa ai suoi frati, concerne il lavoro manuale e l’elemosina nei momen-
ti di bisogno (vv.20-22). A guardar bene la serie di richieste formulate da
Francesco, si nota che esse hanno un doppio rapporto con la Regola: alcu-
ne ne ampliano e specificano il contenuto, altre invece inseriscono nuove
scelte non presenti nel testo giuridico. In ogni caso, il Santo sente che que-
sta serie di ammonizioni-comandi costituiscono importanti precisazioni e
ampliamenti consegnati ai frati per aiutarli a vivere più cattolicamente la
Regola.
A questo ambito strettamente giuridico, Francesco aveva premesso una
prima parte di tipo narrativo (vv.1-23), dove aveva raccontato i momenti ri-
solutivi della nascita dell’identità cristiana donatagli da Dio. In via prelimi-
nare si può affermare che il rapporto esistente tra la parte narrativa e quel-
la ammonitiva sia di mutua dipendenza: se Dio ha fatto con noi così, allora
dobbiamo assumere queste scelte. La novità delle situazioni in cui si trova-
va la fraternità poteva trovare soluzioni di vita rinnovate solo se i frati ri-
partivano dalla storia iniziale, dagli eventi fondativi da cui la loro identi-
tà minoritica era nata. Dunque, oltre a delle norme, Francesco consegnava
LA MORTE DI UN UOMO CRISTIANO 593

anche una “storia sacra”, proponendo ai suoi frati indirettamente un meto-


do di interpretazione per la comprensione della Regola. Assumere le norme,
anche quelle stabilite nel testo giuridico, per realizzare la vocazione fon-
damentale di «vivere secondo la forma del santo Vangelo» significava per
Francesco ricollegarsi ad un vissuto, ad un’esperienza concreta che misura-
va la vita dei frati riallacciandola vitalmente all’intuizione da cui scaturiva
l’istituzione scritta. Se la norma giuridica fissava in forme concrete l’intu-
izione iniziale, allora era vero anche il contrario, che cioè la memoria de-
gli eventi fondativi costituiva lo strumento di partenza per osservare «me-
lius catholice» le norme giuridiche contenute nella Regola. Ma c’è di più
ancora. La storia consegnata da Francesco ai suoi frati, per aiutarli a capi-
re e vivere meglio la Regola, aveva un volto particolare e un nome unico:
«ego frater Franciscus». Egli di fatto si poneva come misura esistenziale
dalla quale i frati dovevano ogni volta ripartire per misurare la loro identi-
tà contenuta nella Regola e per farne una forma di vita. Questa storia fon-
dativa, che era la sua storia umana, costituiva l’eredità preziosa lasciata ai
suoi frati nel suo Testamento, misura e chiave definitiva per comprendere
e osservare la Regola.

III. ABBRACCIANDO SORELLA MORTE: UN UOMO CRISTIANO CHE MUORE

Francesco aveva preso congedo dai frati ed era pronto ad andare incon-
tro a sorella morte. Gli ultimi atti della sua esistenza costituiscono le ulti-
me pennellate di una vita consegnata all’amore di Dio nelle mani dei fra-
telli. Da quel momento egli non si apparterrà più e smetterà per sempre di
essere “frate Francesco sulla terra”, per diventare subito dopo “san Fran-
cesco in cielo”.
Il racconto degli ultimi giorni della sua vita e gli eventi legati alla sua
morte ci vengono narrati da due fonti: da una parte le memorie conservate
nella Compilazione di Assisi e dall’altra le biografie ufficiali, quelle di Cela-
no e in particolare di Bonaventura. Le due serie permettono di intravvedere
una doppia prospettiva nel racconto dei fatti, legata alle diverse intenzioni
degli autori nel presentare la morte o di un uomo cristiano (la Compilazio-
ne) o di un santo cristiforme (le biografie ufficiali). Vorremo ripercorrere
le due tradizioni narrative, riascoltando due modi sicuramente diversi, se
non opposti, di presentare il compimento della vita di Francesco. Nel pri-
mo caso si vedrà la morte di un uomo che da uomo, cioè da bisognoso, si
consegna a Dio lasciandosi aiutare dai suoi fratelli, nel secondo invece si
assisterà al transito glorioso di un Santo che si offre consapevolmente ai
594 PIETRO MARANESI

suoi fratelli come modello di perfezione evangelica nel morire, compien-


do una liturgia celeste.

1. La morte di un uomo cristiano: La Compilazione di Assisi


La Compilazione di Assisi, nella sua assenza totale di ordine cronologi-
co nel narrare i fatti, mettendoli insieme come un fastello di ricordi, ritor-
na più volte sulle vicende vissute dal Santo durante gli ultimi periodi del-
la vita segnati dalla malattia e poi dalla morte. Su quest’ultimo evento, due
sono in particolare gli spazi testuali nei quali si offrono interessanti noti-
zie sugli ultimi giorni di Francesco. Il primo gruppo lo si trova ai numeri
99–100. Siamo al periodo che precede la morte, quando Francesco trascor-
re un tempo nel palazzo del vescovo di Assisi per la sua gravissima situa-
zione di salute. Quell’uomo, che aveva vissuto una vita dura e aspra, ac-
cetta di essere ricoverato in un nobile e ricco palazzo, per poter lenire le
sue sofferenze. E di quest’uomo umano, che ha bisogno di conforto e aiu-
to fino ad accettare di essere nel palazzo del vescovo, ci vengono raccon-
tati due interessantissimi episodi avvenuti in quel luogo. Il primo riguarda
il desiderio di «dare conforto al suo spirito, onde non venisse meno a cau-
sa delle aspre e diverse infermità» (CompAss 99: FF 1637), e a tal fine fece
chiamare alcuni suoi frati che lo allietassero con il canto delle lodi di Dio,
lodi che faceva sentire anche alla gente di scorta in veglia fuori del palaz-
zo per impedire che, al momento della sua morte, i frati ne portassero via il
suo corpo dalla città. Ma come era possibile che un “santo”, come era ora-
mai ritenuto dalla gente, volesse essere confortato e consolato dal canto,
invece di pregare e prepararsi alla morte? Fu questa la domanda, o forse il
rimprovero, che gli rivolse frate Elia. La gente cosa penserà di questi can-
ti? La risposta di Francesco è di un uomo che accetta i suoi bisogni senza
dover dimostrare nulla:
Fratello, lascia che io goda nel Signore e nelle sue Laudi in mezzo ai miei
dolori, poiché, con la grazia dello Spirito santo, sono così strettamente uni-
to al mio Signore che per sua misericordia, posso ben gioire nell’Altissimo!
(CompAss 99: FF 1637).
L’episodio successivo fa vedere l’altra faccia di questa umanità umana
nel morire di Francesco. Le lodi di fatto lo aiutavano ad incontrarsi e forse
gestire non solo il dolore ma anche la paura della morte. Interessante in tal
senso il dialogo, raccontato nel numero successivo, tra Francesco e il me-
dico che viene a visitarlo nel Palazzo del Vescovo. Alla reticenza del me-
dico nel comunicargli che la morte era prossima, Francesco lo invita ad es-
sere onesto e senza paura: «Dimmi la verità, che cosa prevedi? Non avere
LA MORTE DI UN UOMO CRISTIANO 595

paura poiché con la grazia di Dio non sono un codardo che teme la morte»
(CompAss 100: FF 1638).
È chiaro che al desiderio di verità si affiancava il tremore di fronte ad
essa. Un uomo che aspetta un verdetto e lo aspetta da uomo. Il verdetto fu
spietato, annunciandogli la prossima morte tra la fine di settembre e l’ini-
zio di ottobre. La famosa risposta data da Francesco è quella di un uomo
che accetta la sua paura ma è disponibile agli eventi: «Ben venga mia so-
rella morte».
Il secondo blocco di testi si trovano agli inizi della Compilazione, cioè
ai numeri 4-8, dove gli eventi si spostano dal palazzo del vescovo in Assisi
alla valle sottostante nella chiesetta della Porziuncola. Consapevole della
sua imminente morte egli volle lasciare di nuovo Assisi e concludere il suo
tragitto terreno là in basso, nella povertà di quel tugurio dove aveva inizia-
to con i suoi compagni la sequela di Cristo. Era inutile restare nel palazzo
del Vescovo, non c’era più nulla da fare per la sua salute, e allora «si fece
portare a Santa Maria della Porziuncola in barella» (CompAss 5: FF 1546).
Stava andando incontro alla morte per abbracciarla là dove aveva incontra-
to la vita. In questo contesto la Compilazione racconta tre episodi nei quali
viene di nuovo presentato un uomo che si appresta a consegnarsi alla mor-
te in modo umano. Il primo episodio è legato alla discesa verso la Porziun-
cola quando volle prendere congedo dalla sua città di Assisi. Dopo essere
sceso in basso nella valle e aver chiesto di essere posto in fronte alla città,
benedice Dio per le meraviglie che egli aveva compiuto e invoca la sua be-
nedizione su di lei affinché «essa sia sempre luogo e dimora di coloro che
ti conoscono e glorificano il tuo nome benedetto» (CompAss 5: FF 1546).
In quel luogo di uomini e di donne egli aveva incontrato e amato Dio e, ol-
tre a ringraziare Lui, ringrazia anche idealmente quella città, affidandola
a Lui.
Il secondo episodio riguarda l’aggiunta della strofa sulla morte corpo-
rale, fatta da Francesco nel suo Cantico delle creature e la richiesta a frate
Angelo e a frate Leone di cantarglielo «a lode del Signore e a consolazione
dell’anima sua e degli altri» (CompAss 7: FF 1547). Più che nei testi litur-
gici la preparazione alla morte è trovata nel canto trobadorico, nella lauda
medievale con la quale quell’uomo era sempre riuscito a esprimere se stes-
so e ad incontrare Dio; ed essa restava dunque per lui la via prediletta per
prepararsi all’ultimo incontro. Quell’uomo, sfatto dalla malattia, non smet-
te di essere un giullare che ha bisogno di cantare per proclamare la vita ed
essere sostenuto nella sua battaglia finale.
L’ultimo atto è quello più umano di tutti, nel quale quell’uomo non ha
pudore di nascondere la sua umanità bisognosa degli altri e delle creature,
596 PIETRO MARANESI

chiedendo di essere consolato e preparato all’accoglienza di colei che gli


toglierà tutto. Prima di morire volle chiamare accanto a sé donna Jacopa
dei Settesogli affinché, oltre la sua amicizia, gli portasse una tonaca nuova
per il funerale e anche un dolcetto «che era solita prepararmi quando sog-
giornavo a Roma» (CompAss 8: FF 1548). Per essa, arrivata da Roma per
suggerimento divino, portando tutto quello che Francesco aveva desidera-
to, non valeva la clausura e, su desiderio di Francesco, fu introdotta subito
dall’uomo di Dio: «Così ella entrò dal beato Francesco, versando davanti a
lui molte lacrime». Il desiderio della sua presenza e dei suoi dolcetti, da lei
preparati il giorno dopo, costituiscono gli ultimi atti registrati dalla Com-
pilazione di questo morire umano, di un morire in cui Francesco accetta di
essere uomo con il bisogno di consolazione e di vicinanza, di amicizia e di
tenerezza. È in questo contesto di umanità semplice che Francesco si in-
contra con Dio: «E avvenne come piacque a Dio, che, proprio nella setti-
mana che donna Jacopa era arrivata, il beato Francesco migrò al Signore».
Muore un uomo, con i suoi bisogni e le sue paure, che cerca consolazione
e incoraggiamento, che cerca la musica e i dolcetti, che cerca la sua gente
per essere aiutato in quell’incontro tanto desiderato ma anche tanto impe-
gnativo e, forse, anche temuto.

2. La morte di un santo cristiforme: la leggenda di Bonaventura


La tradizione delle biografie ufficiali, cioè quella di Tommaso da Cela-
no e di Bonaventura, tralascia tutta questa umanità per raccontare, invece,
la morte di un santo già completamente libero dalla battaglia della sofferen-
za e proiettato in Dio. Nelle biografie ufficiali egli è il Santo che anticipa
il suo incontro con Dio e diventa modello di perfezione agli altri, mostran-
do ad essi che la sua umanità è completamente liberata dai bisogni, diven-
tato oramai pura trasparenza di Colui che aveva imitato in terra, Gesù Cri-
sto crocifisso. Nelle biografie muore un Santo, l’eroe cristiano, il grande
combattente che si pone come modello di perfezione cristiana ai suoi fra-
ti. Ogni elemento narrativo della Compilazione, che rinviasse ad un uomo
bisognoso, è eliminato: non si parla del palazzo del Vescovo, permanen-
za in un luogo comodo e ricco che avrebbe offuscato la perfetta povertà e
asprezza della vita del Santo, non si parla del dialogo con il medico, non
si parla dei canti richiesti ai frati, non si parla della strofa aggiunta al can-
tico né tanto meno della presenza di donna Jacopa e del desiderio dei dol-
cetti di Francesco.
Non è possibile ripercorrere in tutte le loro particolarità e diversità i rac-
conti delle biografie ufficiali di Tommaso e di Bonaventura, per ricostru-
ire gli interessanti tragitti narrativi che legano questi testi. Le immagini
LA MORTE DI UN UOMO CRISTIANO 597

e le soluzioni agiografiche, introdotte da Tommaso nel presentare la morte


“gloriosa” del Santo, saranno riprese e sviluppate da Bonaventura il quale,
nel descrivere la morte di Francesco, porta a compimento un processo te-
ologico nel quale Francesco è condotto alla sublimità dell’esperienza mi-
stica e teologica. Nella lettura delle fonti agiografiche ufficiali ci limitere-
mo all’ultimo testo della serie, rappresentato dalla Leggenda minore di san
Bonaventura. Questo testo, sicuramente il più conosciuto dai frati lungo la
storia perché da essi utilizzato per la novena in preparazione della festa del
Santo, costituisce l’abbreviazione della Leggenda maggiore, quella in cui
l’autore aveva realizzato una sistematica rilettura teologica degli elementi
agiografici già presenti nelle due vite di Celano.
Nel racconto bonaventuriano la morte di Francesco avviene all’interno
di una solenne liturgia fatta di segni e simboli, attraverso i quali il Santo,
riproponendo in sé la figura di Cristo, lascia ai suoi frati il modello di una
santità perfetta. Senza precisare la sua provenienza, cioè evitando la noti-
zia imbarazzante, per un santo della povertà, sulla sua permanenza nel pa-
lazzo del Vescovo, Bonaventura inizia il racconto della morte informando
il lettore che «egli chiese che lo portassero a Santa Maria della Porziunco-
la, giacché voleva pagare il suo debito alla morte» (LegMin, VII, III: FF
1386). C’era un appuntamento al quale il santo, forte e consapevole dell’in-
contro, va come il cavaliere che affronta l’avversario. E trasportato giù alla
Porziuncola (senza però raccontare della benedizione di commiato data da
Francesco alla sua città di Assisi), in un primo gesto simbolico volle pro-
clamare la verità fondamentale della sua esistenza che si stava compien-
do con la morte:
Condotto al luogo predetto, per mostrare con l’autenticità dell’esempio che
nulla egli aveva in comune con il mondo, durante quella malattia che mise fine
a ogni infermità, si pose tutto nudo sulla terra: voleva, in quell’ora estrema, lot-
tare nudo con il nemico nudo.
Il suo combattimento, ingaggiato all’inizio della sua conversione, era sta-
to condotto contro il mondo per distaccarsene completamente, per raggiun-
gere cioè una nudità che, proclamando la sua perfetta povertà, mostrasse
la sua capacità di essere inafferrabile dal nemico. Egli è il combattente for-
te della sua nudità quale garanzia di una vittoria sicura contro l’avversario.
Il secondo importante gesto è rivolto ai suoi frati. Questo combattente
indomito, che resta eroe fino alla fine, volle chiudere la sua vita circonda-
to dai suoi frati (e non anche da una donna con i suoi dolcetti), per lascia-
re loro l’ultimo esempio. Dopo aver ricordato ad essi quanto egli stava per
realizzare pienamente, cioè di guardare verso il cielo disprezzando le cose
terrene (cf. LegMin VII, IV: FF 1387), pose le braccia in forma di croce
598 PIETRO MARANESI

e volle benedire tutti i suoi frati riuniti attorno a lui, come se fossero stati
intorno al patriarca che li stava lasciando.
Ma l’ultimo gesto è diretto a Dio, interlocutore primo ed ultimo del-
la sua esistenza, verso il quale Francesco voleva rivolgersi per l’ennesima
volta, anticipando l’incontro che si sarebbe compiuto da lì a poco con l’ar-
rivo di sorella morte:
Chiese poi che gli venisse letto il Vangelo secondo Giovanni, a incominciare
dal versetto: Prima del giorno della Pasqua: voleva sentire in esso la voce del
Diletto che bussava e dal quale lo divideva ormai soltanto la parete della car-
ne. Finalmente, siccome si erano compiuti in lui tutti i misteri, pregando e sal-
meggiando l’uomo beato si addormentò nel Signore. E quell’anima santissima,
sciolta dalla carne, venne sommersa nell’abisso della chiarità eterna (LegMin
VII, V: FF 1388).
Muore un santo che nel suo morire mostra definitivamente quanto già
con le stimmate aveva manifestato: egli non apparteneva alla terra e aspet-
tava impaziente il compimento del suo desiderio di perfezione, quando fi-
nalmente, sciolto dall’ultimo legame terreno, si sarebbe immerso nella pura
trasparenza della luce di Dio.
Francesco servo e amico dell’Altissimo, fondatore e guida dell’Ordine dei fra-
ti minori, modello nel professare la povertà, forma della penitenza, araldo del-
la verità, specchio di santità e modello di tutta la perfezione evangelica, pre-
venuto dalla grazia celeste pervenne, con ordinata progressione, dal grado più
basso ai più sublimi (LegMag XV 1: FF 1246).
Il modo di incontrare la morte costituisce dunque per Bonaventura l’atto
definitivo di uno svelamento della verità che si era resa già palese ed eviden-
te nelle Stimmate: in Francesco l’uomo con le sue passioni e con le sue pau-
re era oramai completamente superato per far trasparire il perfetto imitatore
di Cristo, colui che aveva vinto in anticipo la morte affrontandola da vitto-
rioso. Secondo il racconto di Bonaventura, dunque, non avviene un atto di
morte, perché un Santo non muore ma passa in Dio, giungendo finalmente
là dove era già arrivato con la sua vittoria sulla carne. Frate Francesco non
c’era più. Restava fulgido e splendente solo san Francesco, il serafico po-
verello di Assisi, il cavaliere di Cristo che aveva vinto anche l’ultima e de-
finitiva battaglia, per meritare così il posto più in alto in cielo, tra i serafini.

Sommario – Gli ultimi anni di vita di un uomo sono sempre molto speciali come
lo sono stati quegli degli inizi della sua vocazione. L’autore parte da questo pre-
supposto nell’indagine degli ultimi anni di vita di Francesco. Oggetto del presente
studio sono gli anni 1224-1226, individuando in essi tre possibili tappe storiche-
esistenziali: il momento della difficoltà relazionale di Francesco con se stesso,
per le sue malattie, e con i fratelli risolte nell’esperienza della Verna, la scrittura
LA MORTE DI UN UOMO CRISTIANO 599

del Testamento quale ultimo atto della sua passione per i suoi fratelli e, infine, il
momento supremo della morte secondo la doppia tradizione delle biografie uf-
ficiali, in particolare di Bonaventura e della Compilazione di Assisi. Il desiderio
che percorre queste pagine, libere da ogni riferimento bibliografico, è mostrare il
percorso profondamente umano che Francesco dovette vivere negli ultimi suoi
anni, un tempo di fragilità e di prova, e per questo tempo di grazia speciale, per
giungere alla verità su se stesso, alla riaccettazione dei suoi fratelli e alla consegna
definitiva a Dio.

Summary – The final years of a person’s life are always very special, as are those
years at the beginning of one’s vocation. Based on this premise, the Author ex-
plores the final years in the life of St. Francis. This study investigates the years
1224-1226 and identifies three possible historical-existential stages: (1) Francis’
relational difficulty with himself due to his illnesses, and their being resolved with
his brothers in the experience of La Verna, (2) the writing of his Testament as the
final act of his passion for his brothers, and (3) his death according to the double
traditions of the official biographies, particularly the accounts of Bonaventure and
of the Assisi Compilation. The desire that permeates the pages of this investi-
gation, free of any bibliographical references, is to show the profoundly human
trajectory that Francis had to follow in the final years of his life. It was a time of
fragility and testing, and thus a time of special grace to come to the truth about
himself, to accept his brothers once again, and to hand himself over to God once
and for all.

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