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L'opera di Michel Foucault è caratterizzata da numerosi cambi di rotta e di prospettiva che, nel corso

degli anni, ha saputo tracciare attraverso le sue opere principali, com è possibile riscontrare anche a
partire dalle sue interviste, saggi e articoli di giornale.
Foucault si vedeva come un prosecutore del principio kantiano, secondo cui i filosofi "illuminano" il
proprio presente, principio che Immanuel Kant introdusse nell'articolo del 1784 "Che cos'è
l'Illuminismo". In questo saggio il "cinese di Konigsberg" definisce l'Illuminismo come movimento di
emancipazione dell'umaità da una "inferiorità" autoinflitta. Foucault sceglie di iscriversi proprio nel
solco di questa tradizione, come conferma il saggio del 1980 che l'autore francese dedica a se
stesso. L'incipit di questo scritto, aggiunto al testo da François Ewald, una volt concluso il testo, e
approvato dallo stesso Foucault, recita:

Se Foucault si iscrive nella tradizione filosofica, lo fa nella tradizione critica di Kant.

Possiamo certo dire che il francese abbia provato a illuminare il nostro presente, ma difficilmente
potrebbe leggere Foucault una figura dell'Illuminismo. Spesso, anzi, è definito come un teorico e
storico anti-illuminista e postmoderno: tale prospettiva prende le mosse da una caratteristica
consolidata nella percezione dell’Illuminismo come una corrente teorica legata a un certo
universalismo razionalista, che Foucault contesta apertamente sia ne “Le parole e le cose” che nella
“Storia della Follia”, in nome di un sostanziale nichilismo nietzscheano.
Il nominalismo di Foucault, in questo senso, ha come obiettivo l'universalismo illuminista, criticando
ciò che gli illuministi hanno definito come universale. Foucault, dunque, attacca ciò che si è
venuto a definire come Illuminismo e non l'illuminismo come principio o come movimento.

In questo lavoro ci proponiamo di analizzare la relazione che Foucault stringe, a partire dalla fin degli
anni '70, con Kant e la tradizione critica che ha nell'Illuminismo il suo perno, come campo
problematico relativo all'analisi di ciò che siamo e di una ontologia del presente.

Il rapporto che Foucault intrattiene con Kant e l’illuminismo si dipana lungo la sua produzione teorica,
dagli albori, fino agli ultimi scritti. In particolare, l'interesse che Foucault nutre per la risposta che Kant
da alla domanda "Che cos'è l'Illuminismo" si concretizza in due saggi: l’articolo "Qu'est ce que la
critique [Critique et Aufklarung]" sviluppato come lettura presso la Société française de Philosophie
nel maggio 1978 e il saggio del 1984 “What is Enlightenment”, pubblicato per la prima volta in inglese
nella raccolta The Foucault Reader. I due scritti presentano forti analogie, nel tentativo a parte di
Foucault di rapportarsi alla materia kantiana e allo spirito dell'Illuminismo come movimento
carattrizzato dall'attitudine critica verso il presente, come un processo di passaggioo al vaglio della
critica di ogni aspetto, valore, convinzione, convenzione. Tale critia, per Foucault, rappresenta un
punto di partenza ineludibile nella costruzione di un "ethos filosofico", un atteggiamento che il filosofo
ha bisogno di mantenere per garantire la possibilità di cambiare efficacemente il mondo. In questi
scritti emerge un'immagine dell'Illuminismo diversa da quella che appare come l'età del trionfo delle
"scienze dell'uomo", che pure era stata oggetto di forte critica da parte di Foucault, sin da “Le parole e
le cose”.

Il primo saggio, pubblicato solo nel 1983, è dedicato a fornire un appiglio alla forma distintiva di
resistenza alla governamentalità. "Come non essere governati in questo modo, da queste cose, nel
nome di principi come questi, in vista di questi obiettivi e attraverso questo genere di procedure". Per
MF questo tentativo di mettere in questione o combattere le forme particolari nelle quali l'"arte di
governo" si è esercitata, segnala l'emergenza della nozione moderna di critica, l'"arte di non essere
governati in questo modo". In definitiva alla domanda "Che cos'è la critica?" Foucault risponde: "è
l'arte di non essere eccessivamente governati".
La critica è essenzialmente concentrata sulle relazioni che legano il potere, la verità e il soggetto.
Critica, in questo modo, è il "movimento attraverso cui il soggetto si da il diritto di interrogare la verità
nei confronti dei suoi effetti di potere e di interrogare il potere riguardo il suo discorso di verità". La
critica è l'arte dell'in-servitù volontaria. (approfondisci)
Secondo la definizione di Kant:

L'illuminismo è l'uscita dell'uomo da uno stato di minorità il quale è da imputare a lui stesso. Minorità è
l'incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stessi è questa
minorità se la causa di essa non dipende da difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del
coraggio di servirsi del proprio intelletto senza esser guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di
servirti della tua propria intelligenza - è dunque il motto dell'illuminismo.

In questa definizione kantiana, Foucault rintraccia quattro punti di rilievo:

● l'Illuminismo è definito come l'opposto dello stato di minorità o dello stato di tutela;
● questo stato di minorità è visto come l'incapacità di usare la propria capacità di comprensione
senza la guida di un altro (eteronomia);
● connessione tra un eccesso di autorità da una parte, e la mancanza di coraggio e
risolutezza dall'altra;
● i domini nei quali questo iato tra lo stato di minorità e di illuminismo si manifestano sono la
religione, la legge e la coscienza – è interessante notare che questi campi, per Foucault, sono
proprio i campi di esercizio di una possibile critica al meccanismo governamentale.

Il coraggio di sapere fa tutt'uno, in Kant, con il coraggio di riconoscere i limiti della ragione, che sono
quelli dell'uso pubblico della ragione. Tuttavia, a differenza di quanto Foucault (chiarisci e discuti se
stai mettendo in evidenza una incomprensione di F. o di una sua scelta ermeneutica) sembra
suggerire, in Kant non sembra esserci contrapposizione tra argomentazione e obbedienza né un
riconoscimento del “gioco” tra potere e verità: per Kant il sapere non è un antidoto naturale al potere
e al dominio né, d’altra parte, costituisce un rischio di irretimento nella trama dei poteri. Kant è attento
ai limiti che comporta l'esercizio di libertà, in un momento in cui la vasta maggioranza della
popolazione aveva piccole opportunità di sviluppare le proprie facoltà critiche e di diventare realmente
autonoma: preoccupato di un uso eccessivo della libertà, Kant nel 1784 risponde dei possibili danni
politici dell'illuminismo, riconoscendo la necessità di un limite, nella distinzione tra uso pubblico e uso
privato della ragione.

Per Foucault, in ogni caso, l'idea di Kant è stata gravida di conseguenze, nel XIX e XX secolo: la
storia dell'ottocento si è sviluppata come un protrarsi del progetto critico che il filosofo tedesco
identificava con la missione dell'Illuminismo, ma questo progetto si è esteso fino a diventare una
critica all'Illuminismo stesso.
Foucault individua tre sviluppi cruciali come cause di questo ri-orientamento della critica: lo sviluppo
delle scienze positive;l’emergere di una concezione dello Stato teleologica (Hegel) e tecnocratica
(Saint Simon); l'unione della scienza positiva e delle concezioni dello stato in una Scienza dello Stato.
(approfondisci e discuti i tre casi)

Dunque l’esperienza critica, per Foucault, si è evoluta pur rimanento rivolta contro il domino o il
potere eccessivo degli apparati di Stato: ma a seguito di questi sviluppi, l’idea di 'Illuminismo come
critica delle forme di potere assoluto, può ancora essere sostenuta, considerato che la sua forma
positiva o teleologica è connessa con gli eccessi di potere dello stato? Nell’epoca della
governamentalità liberale, con una sorta di “sparizione” delle forme dello Stato, inteso come
dispositivo di sovranità, ha ancora senso una critica “illuminista” dell’assolutismo?
Per Foucault sembrano esserci state due risposte a questo interrogativo: la critica al positivismo e
alla ragione strumentale della Sinistra hegeliana, di Weber, della Scuola di Francoforte; lo sviluppo di
un'inchiesta critica dei fattori che hanno condotto all'emergere o alla predominanza di una particolare
forma di razionalità, nel lavoro critico di Canguilhem, Bachelard e Cavaillés. (questione importante
che non sviluppi e che invece meriterebbe di essere discussa).

Per Foucault la domanda kantiana "Che cos'è l'Illuminismo?" deve continuare nella forma di
un'investigazione "storico-filosofica", che esamina “le relazioni tra le strutture di razionalità che
articolano discorsi veri e i meccanismi di soggettivazione a essi legati". Scopo di queste indagini è di
"desoggettivizzare questioni filosofiche attraverso il ricorso a contenuti storici e di liberare il contenuto
storico attraverso un'interrogazione degli effetti di potere di questa verità". La costituzione del mondo
borghese, lo stabilirsi del sistema statale e la fondazione della scienza moderna con le sue tecniche
correlate: l'Illuminismo consiste nell'incontrare la problematica storica della nostra modernità.

Nell'intervento del 1983, "Che cos’è l’Illuminismo? Che cos’è la rivoluzione?", Foucault si riferisce al
periodo illuministico come marcato dalla consapevolezza della propria pregnanza e singolarità: Kant
introduce la questione del presente, del momento contemporaneo che è senza precedenti nella storia
della riflessione filosofica.
Tale presente è visto come un evento il cui significato, valore e singolarità filosofica è necessario
affermare, e che trova la propria ragion d'essere e la propria autonomia discorsiva in se stesso.
L'illuminismo come un discorso di e sulla modernità, un nuovo modo di porre la questione della
modernità, non più all'interno di una relazione longitudinale con gli Antichi, ma in reazione sagittale
con la propria presenza.
Ancora nell'intervento del 1983, analizzando il "Conflitto delle facoltà" kantiano del 1798, Foucault si
focalizza sul rapporto di Kant con la Rivoluzione Francese: se nel 1784, Kant si interroga sul
significato di questo Aufklärung di cui è egli stesso parte, nel 1798 cerca di rispondere alla domanda
che è la realtà contemporanea a porre per lui: "che cos'è la rivoluzione?"
La domanda esplicita che conduce la trattazione kantiana è se la razza umana continui a migliorare.
Per rispondere a questo quesito, per Kant, è necessario identificare un evento nella storia umana che
indichi, o rappresenti un segno dell'esistenza di una causa permanente che guidi l'umanità nella
direzione del progresso. Una tale causa dovrebbe essere permanente nel senso che dovrebbe
mostrare di operare attraverso il corso di tutta la storia umana. Un segno che dovrebbe essere
rimemorativo (mostrando che la causa presunta di progresso dovrebbe essere operativa nel
passato), dimostrativa (dimostrando che essa opera nel presente) e prognostica (indicando che essa
opererà nel futuro).

La Rivoluzione è uno di quei momenti che non si riduce alle grandi imprese o ai misfatti degli uomini
che rendono piccolo ciò che prima era grande o grande ciò che prima era piccolo, ma con l'attitudine
degli spettatori come se il progresso si rivelasse in pubblico mentre il dramma dei grandi cambiamenti
politici sta prendendo corpo:

Questo evento non consiste propriamente in importanti fatti o misfatti compiuti dagli uomini, attraverso i
quali quello che tra loro è stato grande diviene più piccolo o ciò che fu piccolo grande e, come per
incanto, spariscono magnifiche costruzioni politiche antiche, e, quasi uscissero dal profondo della terra,
ne nascono altre al loro posto. No: niente di tutto ciò. Si tratta semplicemente del modo di pensare degli
spettatori che, in questo gioco di grandi trasformazioni, si rivela pubblicamente e manifesta una così
generale e pure disinteressata partecipazione di coloro che si schierano da una parte contro quelli che
stanno dall'altra, pur con il pericolo che questo essere di parte possa diventare per loro molto
svantaggioso, ma così si mostra, almeno nella disposizione, un carattere del genere umano nel suo
complesso (per via dell'universalità) e insieme un suo carattere morale (per il disinteresse) che non solo
fa sperare nel progresso verso il meglio, ma, per quanto è sinora possibile, è già come tale un progresso.
Non è dunque il successo o il fallimento della Rivoluzione a segnare il progresso umano, ma la
"simpatia che rasenta l'entusiasmo" che suscita negli spettatori che non vi partecipano a
rappresentare una testimonianza del progresso umano.
Questo entusiasmo, questa partecipazione, sono testimonianza di una disposizione morale che si
manifesta nel (1) diritto di ogni popolo a darsi una costituzione repubblicana e (2) lo scopo di
sottostare a quei criteri repubblicani che possono evitare ogni guerra.
Per Foucault è chiaro che questi due propositi sono centrali anche nel processo dell'illuminismo,
completato e continuato dalla Rivoluzione: illuminismo e rivoluzione sono infatti due processi che non
potranno essere dimenticati.

Scrive Kant:

Ora, anche senza lo spirito del veggente, io affermo di poter predire, sulla base degli indizi e dei segni del
nostro tempo, che il genere umano raggiungerà questo scopo e con esso anche, d'ora in avanti, un progresso
verso il meglio che non tornerà più indietro. Infatti un tale evento nella storia umana non si dimentica più,
poiché ha reso evidente nella natura umana una disposizione e una capacità di migliorare, che nessun
politico, per quanto si arrovellasse, avrebbe potuto desumere dal corso passato delle cose, e che solo natura
e libertà, riunite nel genere umano secondo principi giuridici interni, potevano preannunciare ma, riguardo al
tempo, solo come avvenimento indeterminato e casuale.
E tuttavia quella predizione filosofica non verrebbe indebolita neppure se non venisse ancora raggiunto lo
scopo previsto tramite questo evento, se la rivoluzione di un popolo o la sua riforma della costituzione alla fine
fallissero o persino, come astrologano ora i politici, se una volta instaurata da qualche tempo tale costituzione,
tutto tornasse all'antico corso delle cose. Infatti quell'evento è troppo grande e troppo intrecciato con
l'interesse dell'umanità e la sua influenza sul mondo, in tutte le sue parti, è troppo estesa per non tornare
alla memoria dei popoli al riproporsi di circostanze favorevoli, e se dovessero essere ripetuti nuovi tentativi di
tal specie; poiché infatti, in una faccenda così rilevante per il genere umano, la costituzione che è prevista
deve necessariamente raggiungere in un certo momento quella solidità che la lezione imparata attraverso
ripetute esperienze non mancherebbe di produrre in nessun animo.

La volontà di rivoluzione, dunque, rappresenta quell'entusiasmo di cui parla Kant. Ma non consiste in
un sinonimo della volontà di potenza, bensì di una "volontà di libertà" intesa in senso non-
nietzscheano: una volontà di libertà che trasgredirebbe i limiti del dato e provvederebbe uno spazio
per una riorganizzazione della soggettività. La rivoluzione procura l'opportunità a questa volontà di
libertà di interrompere il continuum della storia e di riorganizzare la soggettività in un modo nuovo.
Le due questioni, cosa sia l'illuminismo e cosa sia la rivoluzione, sono due forme con cui Kant pone la
questione del suo presente.
Non è il lascito dell'illuminismo che dobbiamo conservare, ma la questione di questo evento e del suo
significato, la questione della storicità del pensiero dell'universale, che dovrebbe essere tenuta a
mente come ciò che deve essere pensato.
Occorre relativizzare e contestualizzare quei fattori storici che hanno consentito, fin dal XIX secolo, al
pensiero dell'universale, del necessario, dell'obbligatorio, del trascendentale, di prevalere sul
pensiero del singolare, del contingente, dell'arbitrario, del meramente empirico, di squalificarlo e
soggiogarlo.
Due sono le tradizioni critiche iniziate da Kant: l'analitica della verità, preoccupata di definire le
condizione a partire dalle quali una vera conoscenza è possibile; l'ontologia del presente, un'ontologia
di noi stessi, preoccupata di chiedersi quale sia il nostro presente, il campo di possibilità di una
esperienza possibile. Quest'ontologia del presente e di noi stesso intende aprire uno spazio di
riflessione per una interrogazione critica che destabilizza i modi di essere correntemente accettati, i
modi di fare, di pensare.
L'originalità di Kant consiste nell'aver inaugurato un nuovo modo di pensare la relazione tra filosofia e
presente. L'illuminismo per Kant non è niente di tutto ciò, ma è qualcosa di simile a un'uscita. Kant
non cercava di capire il presente sulla base di una totalità o di un ruolo futuro, ma cercava di
identificare, di marcare una differenza: che differenza introduce l'oggi rispetti a ieri?
Il presente come illuminismo è un processo al quale gli uomini partecipano collettivamente, ma anche
un atto di coraggio che va compiuto personalmente. È solo quando il legittimo impiego della ragione è
stato definito, in senso pratico e teoretico, che la sua autonomia può essere assicurata.

Nel saggio del 1984 dedicato alla domanda "che cos'è l'illuminismo", Foucault cerca di rispondere alla
stessa questione che si pone Kant nel 1784. Kant non è il primo né il solo filosofo che ha cercato di
confrontarsi con il suo presente.
Questa domanda, invece, ha assunto prevalentemente tre forme, nella storia del pensiero
occidentale:

• una concezione secondo la quale il presente appartiene a un macro-periodo storico, segnato da


caratteristiche inerenti (il presente come un'era del mondo);
• il presente viene interrogato per scoprire segni di un evento a venire (il presente come soglia);
• il presente è colto come punto di una transizione verso l'alba di un nuovo mondo (presente come
realizzazione).

Diversamente, seguendo la lezione kantiana, per Foucault la modernità, anziché come un periodo
storico, potrebbe essere letta come un'attitudine, una scelta volontaria fatta da alcune persone; un
modo di agire e comportarsi che allo stesso tempo segna una relazione di appartenenza e presenta
se stesso come un compito.
Non ci sono ragioni disprezzare il presente. Piuttosto, si deve adottare un'attitudine che ricatturi
qualcosa di eterno nel momento presente. In questo senso, l'eroizzazione del presente è ironica: non
si tratta di interpretare tutti i momenti storici come sacri con l'obiettivo di preservarli, né significa
metterli insieme come curiosità fugaci e interessanti, ma operare un atto di trasfigurazione. La
trasfigurazione non comporta l'annullamento della realtà, ma un gioco difficile tra la verità di ciò che è
reale e l'esercizio della libertà.
È con questo gioco tra libertà e realtà che Foucault caratterizza l'attitudine della modernità, la sua
ironica eroizzazione del presente: essere moderni non significa accettare se stessi come elementi nel
flusso dei momenti che passano; significa accettarsi come oggetto di una elaborazione complessa e
difficile. L'attitudine deliberata alla modernità è legata ad un "indispensabile ascetismo": il dandy "fa
del suo corpo, del suo comportamento, dei suoi sentimenti e passioni, della sua stessa esistenza,
un'opera d'arte". Il dandy inventa se stesso, produce se stesso, non si cerca.
L'atteggiamento di Foucault verso il presente, quindi, è molto simile a quello verso il sé: proprio come
il primo deve prendere la forma di una possibile trasgressione, il secondo deve prendere la forma di
una produzione e di un'invenzione originale del sé, una "cura di sé" auto-organizzata. Foucault voleva
aderire a un ethos della trasgressione e un'estetica auto-modellata e ha tentato di tracciare le linee di
fuga di un simile ethos modernista, attraverso un processo di critica permanente della nostra era
storica, il cui risvolto pratico riposa nella forma di una possibile trasgressione.
E tuttavia, alla fine, Foucault pare non abbracciare del tutto questo ethos della trasgressione,
piuttosto cerca attivamente alcune "esperienze-limite" per testare i limiti contemporanei e le forme di
ciò che consideriamo necessario. La critica, inaftti, non deve essere praticata per cercare le strutture
formali con valore universale, piuttosto come una investigazione storica all'interno degli eventi che ci
hanno lasciato costituire noi stessi e riconoscere noi stessi come soggetti di ciò che stiamo facendo,
pensando e dicendo.
Questa critica è genealogica nel suo disegno e archeologica nel suo metodo: non cerca di identificare
le strutture universali di tutto il sapere o di tutte le azioni morali possibili, ma cercherà di trattare le
istanze di discorso che articolano ciò che pensiamo, diciamo e facciamo come fossero eventi storici;
genealogica, nel senso che non dedurrà dalle forme di ciò che siamo ciò che è impossibile per noi
sapere o fare, ma separerà dalla contingenza che ci ha resi ciò che siamo, la possibilità di non essere
più, non pensare più, non fare più nel modo in cui siamo, pensiamo e agiamo.
In questo senso, la critica è cercare di dare nuovo impeto, il più ampio possibile, all'indefinito lavoro
della libertà. Questo lavoro è sperimentale e si opera ai limiti di noi stessi, in modo da essere capaci
tanto di afferrare i punti dove il cambiamento è possibile e desiderabile, sia di determinare la forma
precisa che questo cambiamento dovrebbe prendere. La critica dei limiti e la possibilità di superarli
sono sempre limitate, ma invece di essere uno svantaggio, dovremmo accettare che questo è ciò che
ci consente sempre di ricominciare. La critica, in altre parole, deve essere costantemente riattivata.
Possiamo vedere da queste affermazioni come l'ethos di Foucault per la critica rimanga legato a certi
limiti anche mentre tenta di trasgredirli o sovvertirli: è questo che lo distingue dai teorici più radicali di
un ethos della trasgressione.
In fondo, l'ontologia critica di noi stessi non dev'essere considerata come una teoria, una dottrina e
nemmeno come un corpo permanente di conoscenze che si accumulino; dev'essere concepita come
un'attitudine, un ethos, una vita filosofica nella quale la critica di ciò che siamo è tutt'uno con l'analisi
storica dei limiti che ci sono imposti e un esperimento con le possibilità di andare al di là di essi.

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